Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
LA MAFIOSITA’
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA MAFIOSITA’
PRIMA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Storia della mafia.
L'alfabeto delle mafie.
La Gogna.
Art. 416 bis c.p.. 40 anni fa non era mafia.
Mafia: non è altro che una Tangentopoli.
In cerca di “Iddu”.
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
E’ Stato la Mafia.
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la trattativa Stato-mafia.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Carlo Alberto dalla Chiesa.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pio La Torre.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Attilio Manca.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pippo Fava.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giuseppe Insalaco.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Rosario Livatino.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Ilaria Alpi.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giorgio Ambrosoli.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.
QUARTA PARTE
SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Cosa Nostra - Altare Maggiore.
La Stidda.
La ‘Ndrangheta.
La Mafia Lucana.
La Sacra Corona Unita.
La Mafia Foggiana.
Il Polpo: Salvatore Annacondia.
La Mafia Lucana.
La Camorra.
La Mafia Romana.
La Mafia abruzzese.
La Mafia Emiliano-Romagnola.
La Mafia Veneta.
La Mafia Milanese.
La Mafia Albanese.
La Mafia Russa-Ucraina.
La Mafia Nigeriana.
La Mafia Colombiana.
La Mafia Messicana.
La Mafia Cinese.
QUINTA PARTE
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Antimafiosi.
Non era Mafia.
Il Caso Cavallari.
Il Caso Contrada.
Il Caso Lombardo.
Il Caso Cuffaro.
Il Caso Matacena.
Il Caso Roberto Rosso.
I Collaboratori ed i Testimoni di Giustizia.
Il Business dello scioglimento dei Comuni.
Il Business delle interdittive, delle Misure di Prevenzione e delle confische: Esproprio Proletario.
Il Business del Proibizionismo.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Gogna Parentale e Territoriale.
I tifosi.
Femmine ribelli.
Il Tesoro di Riina.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Caporalato.
Il Caporalato Agricolo.
Gli schiavi dei Parlamentari.
Gli schiavi del tessile.
Dagli ai Magistrati Onorari!
Il Caporalato dei giornalisti.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Usuropoli.
Aste Truccate.
SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Nimby lobbisti.
La Lobby dei papaveri Parlamentari e Ministeriali.
La Lobby dei Sindacati.
La Lobby dei Giornalisti.
La Lobby dell’Editoria.
Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati.
Fuga dall’avvocatura.
La Lobby dei Tassisti.
La Lobby dei Farmacisti.
La lobby dei cacciatori.
La Lobby dei balneari.
Le furbate delle Assicurazioni.
SETTIMA PARTE
LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.
CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Onoranze funebri: Il "racket delle salme.
Spettacolo mafioso.
La Mafia Green.
Le Curve degli Stadi.
L’Occupazione delle case.
Il Contrabbando.
La Cupola.
LA MAFIOSITA’
SECONDA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Paolo Cirino Pomicino per Dagospia il 19 settembre 2022.
La storia di Scarpinato è lunga. Dopo il processo Andreotti, Scarpinato ha sfiorato il processo Mannino e poi la famosa trattativa Stato- mafia, processi entrambi risoltisi con una sconfitta della procura di Palermo che ha speso soldi e tempo per indagare sostanzialmente innocenti e che ha dovuto subire, in qualche caso, anche parole sprezzanti da diversi collegi giudicanti ed in particolare dalla suprema corte di cassazione. Eppure, insieme a Nino di Matteo, oggi che è a riposo Roberto Scarpinato continua a parlare ancora di mandanti oscuri, di ombre potenti che avrebbero coltivato questa fantomatica trattativa tra lo Stato e la Mafia.
Il mondo di Scarpinato ieri attaccava Giovanni Falcone, qualche volta anche in diretta televisiva, mentre oggi ne esalta la memoria così come fanno i rappresentanti del vecchio PCI che ricordano con enfasi Falcone e Borsellino mentre in Parlamento votavano contro tutti i provvedimenti adottati dal governo Andreotti per sconfiggere la mafia suggeriti proprio da Falcone. La disastrosa politica politicante.
La curiosità, però, non si limita alla figura di Roberto Scarpinato ma si estende anche alla sua gentile consorte, Teresa Principato, anch’essa PM nella più autorevole procura d’Italia secondo i mafiologi di turno. La trasmissione “Report” evidenziò qualche tempo fa una strana vicenda. La Principato aveva chiuso nella sua cassaforte un computer in cui erano registrati tutti i file sulle indagini a carico di Matteo Messina Denaro, comprese le registrazioni dei pentiti e le intercettazioni.
Insomma l’intero patrimonio di notizie che, presumiamo, non avessero copie, per proseguire le indagini sul capo mafioso latitante da decenni. La cassaforte aveva due sole chiavi, una in possesso della Principato e l’altra del suo assistente il finanziere Pulici. Quest’ultimo fu processato ed assolto mentre nessuno si permise neanche di pensare ad una distrazione della Principato. Una sorta, insomma, di “noblesse oblige”. Ed allora chi prese tutto quel ben di Dio di notizie su Matteo Messina Denaro?
Forse la fata turchina o forse quelli che hanno, diciamo, occultato i rapporti tra Scarpinato e Antonello Montante (condannato a 8 anni in appello per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione), rapporti puntualmente registrati da quest’ultimo e custoditi in una sua villa poi perquisita e oggi in possesso della procura di Palermo (Renzi lo ha ricordato).
Capita a tutti qualche distrazione, qualche amicizia pericolosa ed in molti casi arriva appunto la fata turchina con sembianze umane che provvede a far scomparire tutto. In qualche caso anche la memoria! Potremmo aggiungere ancora qualcosa sulla famiglia Scarpinato ma scadremmo nel pettegolezzo mentre registriamo che in aggiunta al PD è arrivato anche Conte ed il suo Movimento che hanno cominciato a reclutare pubblici ministeri a riposo mentre noi aspettiamo da tempo e con indomita speranza che ci sia qualcuno che volendo reclutare un magistrato tra i propri parlamentari scelga finalmente un magistrato giudicante. Come si vede il peggio non ha mai fine.
Roberto Scarpinato, il grillino che faceva affari col condannato per mafia. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 21 settembre 2022
Volano gli stracci fra Matteo Renzi e Roberto Scarpinato. Il motivo? I rapporti fra l'ex procuratore generale di Palermo, ed ora candidato di punta del M5S gestione Giuseppe Conte, con Antonello Montante, ex potentissimo presidente della Confindustria siciliana, condannato in appello ad 8 anni di carcere per associazione mafiosa. La vicenda, riportata nel libro intervista "Lobby e Logge" scritto dall'ex capo dell'Anm Luca Palamara con il direttore di Libero Alessandro Sallusti, è tornata d'attualità l'altro giorno durante un incontro elettorale del leader di Italia Viva nel capoluogo siciliano. Nel libro, l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati aveva rivelato che quando era al Csm si sarebbe attivato il piano "salviamo il soldato Scarpinato". Tutto ebbe inizio in occasione dell'arresto di Montante, ufficialmente un paladino della lotta alla mafia. Durante la perquisizione a casa dell'imprenditore siciliano, erano stati infatti rinvenuti alcuni documenti da cui emergevano suoi rapporti molto intensi con Scarpinato, come diverse 'richieste' da parte di quest' ultimo.
MAPPE E NOMINE
In particolare, un appunto datato 3 maggio 2012 con la dicitura: «Scarpinato mi consegna composizione del Csm con i suoi iscritti per nuovo incarico, procura generale Palermo più Dna». L'appunto era una "mappetta" disegnata della sala del Plenum del Csm a Palazzo dei Marescialli con sopra indicati, in maniera assai precisa, i nomi dei vari componenti, laici e togati, e la loro rispettiva appartenenza politica o di corrente. Le successive attività per capire come mai un magistrato antimafia come Scarpinato si fosse rivolto ad un soggetto esterno alla magistratura per una nomina, si erano poi concluse senza addebiti nei confronti del diretto interessato. «Insinuazioni calunniose e prive di alcun fondamento di Luca Palamara, ex magistrato radiato dall'ordine giudiziario per indegnità e rinviato a giudizio per gravi reati», la replica al vetriolo di Scarpinato nei confronti dell'ex collega. Immediata la controreplica di Palamara che aveva invitato Conte a chiarire i suoi rapporti con il faccendiere, poi arrestato e coinvolto nelle trame di Piero Amara, Fabrizio Centofanti. La querelle Renzi-Scarpinato fa comunque tornare alla mente una interrogazione parlamentare del 1999 presentata dall'allora forzista Filippo Mancuso. All'epoca Palamara non c'era.
RELAZIONE DETTAGLIATA
Scarpinato, raccontò Mancuso, aveva venduto ad una società siciliana che era rappresentata dalla signora Rosaria Di Grado, moglie del boss mafioso Salvatore Fauci, un immobile della propria famiglia. Lo aveva venduto per la somma esorbitante di quasi 700 milioni, quando ne valeva 300. Un immobile in Sciacca che oggi «è assolutamente abbandonato e da nessuno frequentato», disse Mancuso. E Fauci «era ben noto a Scarpinato, perché quest' ultimo, nel 1992, ne aveva chiesto il proscioglimento». Nel 1996, anno della compravendita, «Scarpinato, aveva dato atto», mentre gli vendeva l'immobile a caro prezzo, «che Fauci, il suo compratore o comunque il marito della sua acquirente era un mafioso indagato». Mancuso recuperò una relazione della procura della Repubblica di Palermo, firmata anche da Scarpinato, che documentava che il compratore o il marito della compratrice di Scarpinato «era un mafioso legato ai Siino, braccio destro del famoso Siino!».
La vecchia interrogazione sul candidato 5 stelle. Chi è Roberto Scarpinato, il pm grillino integerrimo che vendeva casa ad un imputato. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Settembre 2022
Pare che la notizia sia antica. Però nessuno la conosceva, e quando, ieri, me l’hanno portata, non ci credevo. Invece pare che sia tutto verificato. Roberto Scarpinato, fino qualche mese fa Procuratore generale a Palermo (una delle cariche più importanti in magistratura) e ora passato alla politica con il partito dei grillini e di Conte, ed esposto sempre su posizioni assolutamente integerrime, e di denuncia feroce del malcostume e della politica degli occhi mezzi chiusi con la mafia, beh proprio lui, quando già era un Pm molto noto a Palermo, vendette una casa di famiglia, a Sciacca (cittadina di circa 40 mila abitanti, sul mare, in provincia di Agrigento) ad un prezzo esorbitante e ad un acquirente un po’ sospetto.
La casa fu venduta per circa 700 milioni – scrisse all’epoca l’ex ministro della Giustizia Filippo Mancuso – mentre – sempre secondo Mancuso, sul mercato non valeva neanche la metà di quei soldi. Fu un gran bell’affare. L’acquirente era stato processato per mafia, e questo Scarpinato lo sapeva. Si dice che l’acquirente fosse molto vicino ai Siino. Chi era Siino? veniva chiamato il ministro dell’economia di Riina, si occupava di appalti. Sugli appalti di Siino indagò il colonnello Mori ma poi la sua indagine, avviata da Falcone, fu archiviata, prima che Borsellino potesse prenderla in mano. Fu archiviata da Scarpinato e da un altro magistrato.
Coincidenze, coincidenze, coincidenze. Non è mica vietato vendere la casa a un probabile mafioso. Dov’è il reato? Non venitemi a parlare della solita bufala del concorso esterno in associazione mafiosa, per favore. È un reato che non esiste, lo abbiamo scritto mille volte.
Certo se il protagonista di quella vendita, invece di Scarpinato, fosse stato un deputato del centrodestra, o anche del centrosinistra, la Procura avrebbe aperto una indagine. Ma non era un deputato, il protagonista, e non ci fu indagine. Ora il protagonista ha la possibilità di diventare deputato. Tra gli integerrimi 5 stelle.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Il caso del pm. Quando Scarpinato vendette una casa al doppio del prezzo ad un suo imputato. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Settembre 2022
L’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, vuole appendere la toga al chiodo di Palazzo Madama. Candidandolo come paladino dell’Antimafia nella sua Sicilia, il M5s di Giuseppe Conte gli ha promesso (e garantito, da capolista) uno scranno parlamentare. In quel Parlamento il nome di Scarpinato era già entrato, nel 1999. E non esattamente per un encomio. A farlo risuonare fu allora l’ex ministro della giustizia Filippo Mancuso che dai banchi dell’opposizione, dove sedeva per Forza Italia, indirizzò una circostanziata interrogazione al Governo.
L’atto di sindacato ispettivo partiva da un articolo pubblicato dal Velino il 26 ottobre di quell’anno. Rendeva noto un fatto che il ministro guardasigilli Oliviero Diliberto non ebbe modo di smentire nel merito. Scriveva Mancuso: «…Nel mirino degli investigatori c’è la vendita, fatta il 30 agosto del 1996, di un immobile a Sciacca e del quale Scarpinato Roberto, (al tempo, ndr) sostituto nella procura di Palermo, era comproprietario con la sorella Lidia Maria Giulia e altri parenti. La casa fu venduta per 690 milioni a una società, la Cesa, di cui è socia accomandataria gerente la signora Rosaria Di Grado. La signora Di Grado è la moglie di Salvatore Fauci, uno dei maggiori imprenditori siciliani specializzato nella produzione di laterizi. L’imprenditore, nel 1992, fu indagato dalla procura della Repubblica di Palermo assieme a decine di altri imprenditori in seguito al dossier De Donno sui rapporti tra mafia, politica e appalti. Attenzione: parliamo di Mafia e Appalti, l’inchiesta proibita costata qualche carriera e forse più d’una vita.
Occhio alle date che concatenano i tratti ora salienti, ora drammatici, di quella nefasta stagione del 1992: il 23 maggio la strage di Capaci uccide Giovanni Falcone, che insieme a Paolo Borsellino stava concentrando il lavoro su Mafia e Appalti. Il 13 luglio i pm di Palermo, Scarpinato e Lo Forte, chiedono l’archiviazione dell’inchiesta Mafia Appalti. Il 19 luglio il giudice Paolo Borsellino muore in un agguato sotto casa della madre, in via D’Amelio. Il 14 agosto viene concessa – con inusuale solerzia, alla vigilia di Ferragosto – l’archiviazione definitiva dell’indagine. E torniamo al 1992 con il documento agli atti parlamentari. Scriveva ancora l’ex magistrato Filippo Mancuso: «Nel 1992, comunque, la posizione di Fauci fu archiviata con decisione firmata dall’allora procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, dall’aggiunto Guido Lo Forte e da, appunto, Roberto Scarpinato. Il fatto di cui sopra non risulta finora in alcun modo smentito e, nella parte riguardante i menzionati magistrati, appare di notevole gravità sotto l’aspetto deontologico e funzionale». Fin qui i fatti riportati alla Camera dei Deputati.
Leggiamo il resoconto stenografico depositato a Montecitorio, perché nell’archivio documentale delle interrogazioni parlamentari il testo a oggi non appare leggibile. Chiese allora Mancuso al ministro Diliberto: «Chiedo di sapere quali iniziative di propria competenza intenda promuovere nei confronti dei magistrati che, in questa vicenda, siano coinvolti o in prima persona o come titolari dei doveri di vigilanza e/o disciplinari, a tutt’oggi trascurati». L’allora ministro della Giustizia del governo D’Alema rispose senza eccepire i fatti, ma decise di non dover procedere. La replica di Diliberto: «Dalla documentazione acquisita dal procuratore generale, dal procuratore della Repubblica di Palermo, nonché dal procuratore della Repubblica di Caltanissetta, emerge in primo luogo che il dottor Scarpinato era nudo comproprietario per un sesto indiviso di un immobile a Sciacca pervenutogli in eredità dalla madre nel 1992. (…) Alla vendita per 690 milioni si provvide tramite una delle agenzie originariamente incaricate. Il dottor Scarpinato non partecipò alle trattative, ma alla stipula dell’atto, ovviamente, avvenuta nell’agosto 1996. Ad acquistare l’immobile fu la società Cesa di Di Grado Rosaria, moglie di Salvatore Fauci, già indagato in un procedimento instaurato a seguito di una informativa dei carabinieri del 1991 e alla trattazione del quale il dottor Scarpinato era stato designato nel maggio del 1992 con altri sette componenti del cosiddetto pool antimafia. Per il Fauci, come per altri venti dei complessivi ventisette indagati, fu chiesta l’archiviazione il 13 luglio 1992 con provvedimento a firma del procuratore Giammanco, del dottor Lo Forte e dello stesso Scarpinato. La richiesta fu accolta dal Gip il successivo 14 agosto».
Due date che coincidono con l’archiviazione di Mafia e Appalti, con lo spegnimento in tutta fretta di quello che era avviato ad essere il motore centrale delle indagini sul sistema corruttivo in Sicilia. Tanto che una parte della magistratura ha deciso di non arrendersi: la Procura di Caltanissetta a fine luglio di quest’anno ha riaperto il filone. Mafia e Appalti aveva messo in luce, tra le altre prime risultanze, il ruolo nevralgico di Angelo Siino: autentico regista degli affari dei Corleonesi, il “ministro dei Lavori pubblici” di Riina era un esperto di aste, gare e appalti. Nel suo sistema aveva previsto che per tutti gli affari conclusi in Sicilia, al “Capo dei capi” doveva essere assegnato lo 0,80%. Oltre a questa, le percentuali che doveva pagare chi otteneva l’appalto erano il 2% per i politici, il 2% per la famiglia mafiosa territorialmente competente e lo 0,50% per i pubblici controllori. Siino venne arrestato nel 1991 e iniziò a collaborare con la giustizia nel 1995; dai verbali dei suoi interrogatori derivano i dettagli sulle percentuali sugli appalti.
È scomparso l’anno scorso. Non potrà quindi dire la sua sulla vicenda di questa compravendita che ha riguardato la proprietà immobiliare del giudice Scarpinato e uno degli uomini ai quali sarebbe stato legato, il re dei laterizi Salvatore Fauci. E non potrà dire la sua Filippo Mancuso, scomparso nel 2011. Le sue ultime parole furono gridate nell’aula di Montecitorio: «Quella che vi sto mostrando è la relazione della procura della Repubblica di Palermo, firmata anche da Scarpinato, che documenta, anzi, come dire, confessa – data la situazione! – che il compratore o il marito della compratrice del pubblico ministero Scarpinato era un mafioso legato ai Siino, braccio destro del famoso Siino!». E concludeva: «Mentre sussisteva tutto questo, il dottor Scarpinato si elevava agli onori degli altari dell’antimafia, con un piglio che è ancora più grave dal punto di vista antropologico che da quello morale: un’indegnità comunque, in ogni caso». La risposta del Guardasigilli provò a dissolvere le ombre: «Nessun addebito di carattere deontologico e funzionale sembra poter essere rivolto al dottor Scarpinato. Peraltro ho provveduto a richiedere informazioni, come dicevo, anche alla procura di Caltanissetta. Questa ha riferito che non esistono indagini aventi ad oggetto il tema dell’interrogazione né alcun organo di polizia ha trasmesso comunicazione di notizia di reato attinente».
Nessun illecito, a parere del Ministro di allora, ma una dinamica tanto discutibile quanto scivolosa. Per la cronaca, stando alle valutazioni di Mancuso: l’immobile di Scarpinato, situato nel comune di Sciacca, pur essendo stato valutato 300 milioni di lire, venne venduto a quasi 700 milioni. Più del doppio del suo valore. Venne comprato dalla moglie di un indagato su cui lo stesso Scarpinato aveva svolto indagini e disposto l’archiviazione quattro anni prima di concludere l’affare. Nel giugno 2014 Siino iniziò a ricordare meglio il ruolo di Fauci: «Pagava il pizzo attraverso fatture gonfiate. Si aumentava il costo delle operazioni contabili, si riscuoteva il relativo importo e la differenza tra il valore reale e quello creato veniva consegnato in contante alla mafia». Fauci nel 2016 verrà condannato in Appello a un anno e mezzo per essere stato “Responsabile di false informazioni ai magistrati con l’aggravante dell’aver agevolato Cosa nostra”. Una storia che ha dell’incredibile, quella della casa di Scarpinato a Sciacca, su cui sarà indispensabile andare a fondo. Ieri lo ha chiesto Luca Palamara, oggi ci torna Matteo Renzi: «Ancora ieri c’è stata una polemica contro di me da parte del M5s e di Scarpinato, magistrato candidato con i grillini. Io vorrei chiedergli: perché invece di insultare me non risponde a Palamara?». Oppure a Filippo Mancuso, venti anni dopo.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Sotto accusa le rivelazioni dell'ex pm. Renzi a Scarpinato: “La lotta alla mafia non è cosa per te”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Settembre 2022
“Renzi? Venga qui senza scorta a dire che vuole abolire il reddito di cittadinanza”, ha gridato sabato scorso Giuseppe Conte da un palco siciliano, alla presenza del candidato antimafia’ del M5S al Senato, l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato. Apriti cielo. La campagna si è infiammata, avvelenata da una intimidazione che ricorda quello degli squadristi: cento anni fa Roberto Farinacci aizzava dal palco con le stesse parole, a suon di minacce cui seguivano puntuali le manganellate ai rivali.
Matteo Renzi ha replicato duramente a Conte: “Un mezzo uomo che parla con un linguaggio da mafioso della politica”. Parole prese in prestito a Leonardo Sciascia che il senatore fiorentino ha scagliato dal comizio fatto proprio a Palermo. Poi il leader di Italia Viva ha rilasciato una intervista al Giornale di Sicilia dai toni altrettanto duri, E se l’è presa anche con Scarpinato. “Non prendiamo lezioni di antimafia da Roberto Scarpinato. Un ex premier che dice che devo andare a Palermo senza scorta non ha alcun senso delle istituzioni, sta istigando alla violenza con un linguaggio politico mafioso e non ha alcun rispetto per gli uomini e le donne delle forze dell’ordine che oggi sono qui a presidiare il territorio perché se qualcuno mi avesse messo le mani addosso lo avrebbe fatto perché sobillato da Conte e tutto il mondo parlerebbe di noi. Quella frase dimostra la statura dell’uomo, meschino e mediocre…”. Botte da orbi. E se l’analisi di Renzi poi va sull’antifona di Conte (“Io non prendo lezioni sulla povertà da Letta e Conte. Per uscire dalla povertà non ci vuole il reddito di cittadinanza, ma un lavoro pagato bene. Con sussidi e assistenzialismo la Sicilia non va da nessuna parte”) è a Scarpinato che il riferimento irriverente brucia di più.
L’ex magistrato, candidato con Conte nel collegio senatoriale Sicilia 1 e in Calabria, si ritrova in un denso passaggio de Il Sistema di Luca Palamara. Cosa rivelò su di lui l’ex capo della magistratura associata? Parlando di pratiche lottizzatorie tra le varie correnti della magistratura nei concorsi per il conferimento degli incarichi di vertice, Palamara ha raffigurato Scarpinato come persona vicina ad Antonello Montante, ex Presidente di Confindustria Sicilia, condannato dalla Corte di Appello di Caltanissetta a otto anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata a vari i reati. Stando al testo dell’ormai celebre libro di Palamara, Scarpinato avrebbe chiesto a Montante, allora particolarmente influente nelle dinamiche siciliane, una segnalazione per essere nominato Procuratore Generale a Palermo.
Scarpinato gli aveva replicato con un lungo articolo pubblicato sul Fatto quotidiano l’11 febbraio 2022, protestando che l’affermazione di Palamara era falsa: non avrebbe mai chiesto alcuna segnalazione a Montante. Le accuse nei suoi riguardi sono gravissime: secondo gli inquirenti, Antonello Montante sarebbe stato a capo di una rete di spionaggio dedita ad acquisire informazioni riservate (anche mediante accessi abusivi alla banca dati SDI delle forze di polizia), ivi comprese quelle riguardanti l’attività d’indagine che si stava svolgendo nei suoi confronti. La Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana ha redatto un corposo documento, chiamato “Il sistema Montante”, che però non ha incluso gli eventuali episodi di contatto intervenuti tra lui e il dottor Scarpinato.
Nella polemica si inserisce Repubblica, che definisce Palamara “fonte (s)qualificata” di Renzi. “Grave che l’articolista abbia omesso di fare una verifica che gli avrebbe consentito di accertare che in realtà la fonte di questi rapporti è un appunto manoscritto rivenuto all’esito di una perquisizione presso l’abitazione del Montante e riferito all’imminente nomina di Scarpinato”. L’ex Procuratore generale di Palermo ieri ha risposto al leader di Italia Viva per le rime: “A pochi giorni dalle elezioni politiche nazionali del 25 settembre, Renzi che sino ad oggi non si era mai occupato della mia persona, ha sferrato un attacco nei miei confronti replicando insinuazioni calunniose e prive di alcun fondamento di Luca Palamara, ex magistrato radiato dall’ordine giudiziario per indegnità e rinviato a giudizio per gravi reati. Renzi è evidentemente preoccupato della costante crescita di consensi del M5S per il quale sono candidato come senatore. Nessuna meraviglia che Renzi non esiti a fare ricorso per biechi calcoli elettoralistici a tali squallidi metodi diffamatori nei confronti di chi ritiene essere temibile antagonista politico per la credibilità personale conquistata in decenni di attività al servizio dello Stato sul fronte del contrasto alla criminalità mafiosa ed ai suoi potenti complici nel mondo dei colletti bianchi”.
Poi dallo sfogo Scarpinato è passato a una escalation verbale tipica di chi ha fatto il callo con le reprimende in aula: “Non è un caso che la reputazione e la credibilità di Renzi siano progressivamente colate a picco via via che gli italiani hanno imparato a conoscerlo come portavoce prezzolato di interessi di potenze straniere, nemico dell’assetto della Costituzione e promotore di leggi dichiarate incostituzionali che hanno contribuito a svuotare i diritti dei lavoratori e ad impoverirli”. Niente meno. Per la difesa, il tweet di Renzi che replica a Conte: “Anche oggi Giuseppe Conte parla di me dicendo bugie. Tutto pur di non parlare del perché ha chiuso la struttura dedicata al dissesto idrogeologico e delle truffe miliardarie permesse dal suo Governo. Accetterà mai un confronto?”, la domanda aperta. Siamo agli ultimi quattro giorni di campagna elettorale e tra i leader non c’è stato alcun confronto a quattro. “Renzi vuole farsi pubblicità parlando di me”, gli risponde il leader del M5S. In effetti la querelle tra i due contendenti, direbbero forse i sondaggisti se potessero parlare, sembra abbia portato a una nuova polarizzazione degli elettori, insoddisfatti dal duello Letta-Meloni, oggettivamente meno vivace di questo.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
L'inchiesta. I misteri del senatore Scarpinato: dai rapporti con Montante alle compravendite immobiliari. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 4 Ottobre 2022
Wikipedia è stato aggiornato: “Roberto Maria Ferdinando Scarpinato (Caltanissetta, 14 gennaio 1952) è un politico ed ex magistrato italiano”, recita. Forse manca una ulteriore attività: “Mediatore immobiliare”. Perché se da senatore della Repubblica deve ancora insediarsi – lo farà la settimana prossima – e da magistrato si è già congedato, è l’attività di compravendita immobiliare che sembra averlo a lungo appassionato. Dalla Procura di Palermo ha chiuso la porta dietro di sé lasciando un alone di mistero sul quale facciamo parlare le carte: con i tanti interrogativi aperti sulla natura dei suoi rapporti con Antonello Montante, condannato in appello per associazione a delinquere, Scarpinato si troverà sempre a fare i conti.
Lo stesso Matteo Renzi, in campagna elettorale, aveva scoperchiato la pentola: “Io quando penso a Roberto Scarpinato penso alle pagine di Luca Palamara. Il sistema Montante, le raccomandazioni. Noi non prendiamo lezioni di antimafia da chi come Roberto Scarpinato ci cela il suo rapporto con Montante e siamo costretti a leggerlo sul libro di Palamara”. Ed ecco come Palamara riassume il caso, che parte da un compagno di cordata elettorale, anch’egli eletto (ma alla Camera) con il Movimento Cinque Stelle: “Cafiero de Raho nell’ottobre del 2017, come da accordi con Minniti, viene nominato alla Direzione nazionale antimafia, non prima di aver superato un pericoloso scoglio, la prestigiosa e inattesa candidatura per quello stesso posto del procuratore generale della Corte d’Appello di Palermo, Roberto Scarpinato”.
Luca Palamara dettaglia: “Ma anche Scarpinato, fortemente sostenuto dalle correnti di sinistra, all’ultimo incappa in un problema che giaceva dormiente al Csm dal 2016”. E già in quel dormiente giacere c’è la prima avvisaglia di qualcosa che non torna. Di cosa parla, Palamara, a proposito del sonnacchioso Csm? “Parliamo – scrive a pag. 163 de Il Sistema – dell’inchiesta che ha portato prima all’arresto e poi alla condanna in primo grado a 14 anni di carcere di Antonello Montante, il presidente di Confindustria Sicilia paladino dell’antimafia, che aveva organizzato una rete spionistica per controllare il sistema politico-economico siciliano e trarne indebiti vantaggi”. E qui si precisa meglio anche di quali fatti si parli.
“Nel fascicolo mandato al Csm si fa riferimento a un foglio trovato durante la perquisizione a Montante, con in dettaglio i voti che Scarpinato avrebbe dovuto conseguire nel plenum del Csm che nel 2013 lo nominò procuratore generale di Palermo. Per quella vicenda il pubblico ministero di Catania, Rocco Liguori, che indagava sul caso, decise l’archiviazione per un “comportamento discutibile, che però non costituisce reato”. Varrà la pena di andare a leggere le motivazioni dell’archiviazione. Scrive il giudice Liguori: “Il Montante dichiarava che il dottor Scarpinato non gli aveva mai parlato di quella sua candidatura, e in merito alla piantina dell’immobile sito nel centro di Palermo di proprietà di parenti del dottor Scarpinato, lo stesso Montante dichiarava di essersi sì interessato all’acquisto, ma di non aver dato seguito all’affare”. La chiosa di Palamara è amara: “Gli esposti arrivati al Csm su questa vicenda non decolleranno mai”.
Salta all’occhio la ricorrenza degli affari immobiliari, anche nel documento della Procura catanese. Una piantina “di un immobile sito nel centro di Palermo”. Avevamo dato conto qualche giorno fa dello strano caso segnalato al Ministro della Giustizia del 2001 da uno dei suoi predecessori, Filippo Mancuso. L’avvocato e parlamentare siciliano aveva chiesto alle istituzioni più alte del Paese, con una interrogazione parlamentare, di aprire gli occhi sulla vicenda della compravendita di un immobile a Sciacca (Agrigento), venduto da Scarpinato alla moglie di un suo ex indagato, nel frattempo archiviato. Il ministro guardasigilli dell’epoca, Oliviero Diliberto, aveva dato una risposta che non aveva soddisfatto il richiedente e che suonava pressappoco così: “La compravendita c’è stata, tramite agenzia immobiliare, anni dopo l’archiviazione. Non si ravvisano comportamenti che violano la legge o la deontologia”.
Una formula che ricorre spesso, nella vita di Scarpinato. Dove, per esempio? Apriamo il faldone con il quale la Procura di Catania provava a mettere in fila le carte: ci troviamo davanti a una ulteriore notizia di attività immobiliare, che se anche non sembra essersi finalizzata, certamente è stata intrapresa. Siamo nel novembre 2016, il caso della doppia vita di Montante, paladino antimafia di giorno e confidente delle famiglie di notte, è ormai esploso. Il Sostituto procuratore Liguori scrive in atti: “Nella perquisizione presso l’abitazione di Montante Antonello, sottoposto a indagini per concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso, venivano rinvenute, all’interno di dispositivi elettronici nella disponibilità del Montante (e di un suo stresso collaboratore), una serie di cartelle contenenti numerosi file relativi ai rapporti tra lo stesso Montante ed alcuni magistrati”. Le cartelle trasmesse facevano riferimento a quali magistrati? Le carte parlano di Roberto Scarpinato, dopo aver fatto la gimcana tra una serie di Omissis che appongono i sigilli della massima riservatezza all’atto di inchiesta.
È ancora la Procura di Catania a dirci che tra Scarpinato e Montante il dialogo è fitto e concreto: c’è uno scambio di richieste, di segnalazioni, di nominativi che l’uno raccomandava all’altro. Un po’ grigiamente, gli uffici giudiziari annotano: “Venivano evidenziati una serie di appuntamenti del Montante con il predetto magistrato”. La disamina del materiale rinvenuto è articolata, ma a richiamare l’attenzione del cronista è un paragrafo in particolare del foglio 2: “Tra gli appunti conservati dal Montante compariva in data 13.12.2010 la consegna di una piantina di un’abitazione sita a Caltanissetta di proprietà di parenti del Dr. Scarpinato. La stessa piantina veniva rinvenuta anche tra i file in sequestro al Montante”. Dunque risulta agli atti che un interessamento per l’acquisto di quell’immobile vi fu, e se a riceverlo fu come risulta il Montante, a sottoporgliene l’opportunità non poteva essere altri chi ne aveva indirettamente la disponibilità, Scarpinato.
Non sappiamo a che titolo Scarpinato sembra aver trattato con Montante la compravendita di quell’immobile, possiamo solo sperare di ricevere dall’interessato un chiarimento utile a fugare ogni dubbio. Quanto risulta agli atti, conferma la richiesta avanzata dal giudice: “Con riferimento all’abitazione sita nel centro storico di Caltanissetta, di proprietà dei parenti del dr. Scarpinato, il Montante riferiva che l’immobile era in vendita e di essersi interessato per l’acquisto, ricevendo anche la piantina dell’immobile, ma di non aver dato seguito a contrattazioni”. Ed ecco anche a Catania il ritorno della formula dell’archiviazione per il magistrato, previa solita tiratina d’orecchi: “Tale condotta, in assenza di altri elementi di difficile accertamento, per quanto discutibile, non può ritenersi penalmente illecita”.
Abbiamo iniziato a esaminare le carte e subito ci troviamo davanti a una condotta che gli stessi magistrati definiscono “discutibile” e che riguarda già, per quello che sappiamo, tre operazioni immobiliari che il neo senatore del Movimento Cinque Stelle aveva tanto a cuore da finire per parlarne perfino con soggetti non proprio raccomandabili, in odore di mafia: una a Sciacca, una a Palermo, una a Caltanissetta. In tanti casi i giornali hanno scritto del Risiko delle Procure. Nel caso di Scarpinato era piuttosto Monopoli.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
I pasticci del pm. Ci ha riquerelato Scarpinato, siamo terrorizzati! Redazione su Il Riformista il 22 Settembre 2022.
Ieri Nino Di Matteo, ex Pm palermitano e ora membro del Csm, ha criticato i partiti che hanno fatto sparire dai loro programmi la lotta alla mafia. Giusto. L’unica traccia di impegno contro le cosche lo hanno dato i Cinque Stelle candidando l’ex procuratore generale di Palermo. Che però… Proprio l’altro ieri è riemersa una storia che era stata dimenticata da tutti. Pare proprio che l’ex procuratore generale di Palermo (Roberto Scarpinato) qualche anno fa abbia venduto ad un prezzo altissimo una casa di famiglia nel paese di Sciacca a un suo ex imputato, che lui archiviò un paio di volte ma che poi fu condannato da altri. Non è una vicenda edificante.
La sollevò tanti anni fa l’ex ministro della Giustizia Filippo Mancuso, il quale sostenne anche che questo compratore di casa fosse amico dei Siino, una famiglia che aveva tra i suoi esponenti il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici dei corleonesi di Riina”. Ahi ahi ahi. Nessun reato, pare, ma insomma per i Cinque Stelle che sospendono dal partito un assessore per una bazzecola qualunque, anche se non provata, questo è un macigno. Ieri ancora non era giunta la notizia di una nota di presa di distanze da Scarpinato da parte di Giuseppe Conte. E’ molto probabile che la nota arriverà oggi in giornata. E che Conte chieda a Scarpinato di impegnarsi a dimettersi dalla Camera in caso di elezione. (Sia chiaro: noi non siamo d’accordo; se il reato non c’è, non c’è. In nessuna parte del codice penale c’è scritto che un magistrato non possa fare affari con il proprio imputato. Però conosciamo purtroppo l’intransigenza morale di Conte).
Scarpinato ci ha riquerelato. Ha querelato il direttore di questo giornale perché abbiamo scritto di una casa di proprietà della sua famiglia, a Sciacca, che lui vendette alla bella cifretta di quasi 700 milioni a un signore che tempo prima era stato suo imputato ed era stato da lui archiviato. È un reato vendere la casa a un proprio imputato (che poi, da altri magistrati, fu condannato per altri fatti)? No. Pare che il codice penale non proibisca la compravendita di appartamenti tra magistrati e imputati e nemmeno proibisca pagamenti molto alti. Del resto che una casa a Sciacca, nel ‘96, valesse quasi settecento milioni quando a Roma trovavi un appartamento in zona semicentrale a 400 milioni non è un fatto così eccezionale. Sciacca è una cittadina di una certa importanza e non è lontana da Agrigento. Le case costano.
Non è chiaro però per cosa ci quereli Scarpinato. Nel comunicato che ha diffuso alle agenzie conferma tutte le notizie che noi abbiamo dato. Sorvola solo sul fatto che l’acquirente della abitazione fosse un suo ex imputato, però neanche lo smentisce questo fatto. E allora? Dov’è la diffamazione da parte nostra? Nell’aver riportato una interrogazione parlamentare regolarmente presentata da un deputato della Repubblica? Non credo. Nell’aver taciuto il fatto che questa interrogazione è vecchia di qualche anno? No, non lo abbiamo taciuto, lo abbiamo scritto bene bene in prima pagina. Nell’aver sostenuto che la vendita fu un reato? No, abbiamo spiegato e rispiegato che non c’è nessun reato. Abbiamo solo fatto notare che certo – ma questo è indiscutibile – se una cosa simile fosse successa a un assessore – non parliamo nemmeno di un deputato…- beh, quell’assessore avrebbe passato guai seri. Scarpinato non era un assessore e infatti – anche questo lo abbiamo scritto – la magistratura siciliana stabilì che non c’era niente su cui indagare e l’interrogazione del deputato – ed ex ministro della Giustizia – fu archiviata.
Giusto. E infatti anche questo lo abbiamo scritto. Dunque? Niente, le cose stanno così e noi siamo abituati. In Italia puoi scrivere quello che vuoi di chi vuoi, specie dei politici, ma dei magistrati o degli ex magistrati è meglio che non scrivi niente. Tacere, sopire, sopire, tacere. Così fan tutti. Pensate all’oblio nel quale è stato lasciato dai grandi giornali e dai politici il libro di Palamara e Sallusti. E vabbé, noi non ci adattiamo. Il nostro direttore ha già collezionato una ventina di querele dai magistrati. Si paga un prezzo alla libertà di stampa, no? La libertà dal potere dei magistrati è la più difficile. L’importante è non spaventarsi per le intimidazioni.
L'ex magistrato candidato del Movimento. Scarpinato e il falso su Wikipedia: non è mai stato nel pool di Falcone e Borsellino. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 24 Settembre 2022
Giuseppe Conte è lui o non è lui? Alla manifestazione di chiusura della campagna elettorale del Movimento compare sul palco con una coreografia peronista di canti e cori, magliette e bandiere inneggianti al “progressismo del popolo”. È un mutante, Conte-Camaleonte, capace di assumere e metabolizzare le sembianze di chi lo circonda. È un gran commis con la pochette tra gli alti papaveri. Un rigido conservatore di destra quando presenta i Decreti Salvini con il sodale leghista. Ieri sera, davanti alla piazza di sinistra – quella storica della sinistra prodiana, Santi Apostoli – era diventato il capopopolo descamisado dei populisti. Proprio come Woody Allen in Zelig, diventa chi non è per proprietà transitiva. E la stessa magia si infonde, a quanto pare, su chi lo circonda. A partire dagli uomini-simbolo di cui si è circondato ancora ieri.
L’ex magistrato Roberto Scarpinato, per esempio. Un uomo che tiene tanto alla correttezza delle informazioni che circolano sul suo conto. Puntualizza i dettagli, si accerta che venga scritta la verità. E fa bene. Gli deve dunque essere sfuggita la pagina di Wikipedia che lo riguarda. Nella biografia pubblica di Scarpinato indicizzata da Google – come risulta effettuando una ricerca mentre scriviamo – si legge infatti: «Inizia la carriera in magistratura nel 1978. Dopo avere prestato servizio presso la Procura della Repubblica di Palermo nel 1989 entra a far parte del pool antimafia collaborando con Giovanni Falcone e con Paolo Borsellino». Colpiti, abbiamo fatto verifiche e chiesto ai più esperti. Non risulta affatto che Scarpinato sia mai stato un componente del gruppo. Non risulta ad esempio a Giuseppe Ayala, già sostituto procuratore a Palermo e pubblico ministero al primo maxiprocesso, che a domanda precisa risponde con un secco “No”.
Il pool antimafia venne ideato da Rocco Chinnici verso gli inizi del 1980 e dopo il suo assassinio venne guidato dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto. Facevano parte del gruppo Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello Finuoli, Leonardo Guarnotta. In seguito, a causa del trasferimento di Borsellino alla Procura di Marsala, vennero cooptati anche Giacomo Conte, Gioacchino Natoli e Ignazio De Francisci. Il lavoro del pool ha fatto in modo che fosse celebrato il celeberrimo Maxiprocesso di Palermo, contro i criminali appartenenti a Cosa Nostra. «Nel pool antimafia c’erano solo i giudici istruttori, non la Procura della Repubblica. Scarpinato non avrebbe potuto far parte del pool», puntualizza l’avvocato Stefano Giordano. E allora come la mettiamo con quella pagina di Wikipedia? Contiene un errore vistoso, attribuisce a Scarpinato una prossimità con Falcone e Borsellino che in quei termini non c’era. Conoscendolo, si premurerà senz’altro di far correggere l’indebita attribuzione.
Anche per non lasciar cadere in errore un Giuseppe Conte smodatamente infervorato sul tema. Fu proprio da Palermo, per la prima volta alla presenza di Scarpinato, che il leader 5 Stelle si lasciò andare: «Siamo nati per fare la guerra alla mafia con il rigore dell’etica pubblica e l’intransigenza morale. Non accettiamo compromessi e su questo siamo pronti a far cadere il governo», aveva anticipato Conte l’8 giugno scorso, confortato dal consenso dei magistrati presenti, cinque settimane prima di realizzare il suo piano. Ieri è tornato sulle sue parole d’ordine: il Reddito di cittadinanza, il cashback fiscale “per avere subito uno sconto sulle spese sanitarie e veterinarie”, il salario minimo. Si vota col portafogli e non con la testa, sembra aver capito Conte. Tutto come da copione, peccato per quelle due gaffe dal palco. Presenta Scarpinato come simbolo di lotta alla mafia dimenticando la vicenda della casa di famiglia venduta a un indagato per rapporti con Cosa Nostra. Poi Conte rivela, affannato dopo tanti camuffamenti e iperboreato dall’esultanza della piazza, come in un moto liberatorio, la sua autentica propensione. E sulla Russia cade anche il suo velo.
«Proprio perché l’Ucraina non poteva difendersi a mani nude dicemmo all’inizio di sì alle sanzioni ed all’invio delle armi anche se siamo pacifisti. Ma ora l’evoluzione attuale ci dice che la strategia decisa a Washington con la complicità di Londra che la Ue sta subendo passivamente ci porta ad abbracciare il rischio di una escalation militare». Le responsabilità di Putin non le vede. Non esistono, dall’alto del palco di Santi Apostoli, coperte da troppe bandiere. «Siete venuti in tanti da Napoli, dalla Calabria, dalla Sicilia», grida. Si sente, in cuor suo, Achille Lauro. Qualcosa l’ha dato, lanciando il reddito di cittadinanza con il suo governo. Qualcos’altro lo darà, se votate bene. Ed è così che lo ritrae Matteo Renzi: «Conte dice che il reddito di cittadinanza è una misura per i poveri. Ai poveri serve lavoro, sanità, istruzione. Non organizzare un sistema, spesso truffaldino, per garantire il consenso di alcune parti del Paese. Almeno Achille Lauro lo faceva coi suoi soldi, non coi soldi del contribuente».
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Così i servizi segreti deviati volevano ribaltare l'Italia. In occasione della pubblicazione del suo libro, Armando Palmeri rilascia un'intervista in cui parla di come i servizi segreti abbiano tentato di sovvertire l'ordine democratico. Gianluca Zanella il 5 Settembre 2022 su Il Giornale.
Solo un uomo... solo, questo il titolo di un libro recentemente pubblicato, un’intervista effettuata dal reporter Stefano Santoro al collaboratore di giustizia Armando Palmeri. Ma non solo. Oltre l’intervista, nel libro c’è un memoriale di Palmeri riportato – stando a quanto confermato da Santoro – integralmente. Ma chi è Armando Palmeri?
Uomo di fiducia del boss mafioso di Alcamo Vincenzo Milazzo, Palmeri è stato un mafioso sui generis. Cresciuto in una famiglia benestante, diventa criminale più per spirito d’avventura che per necessità. A capo di una batteria di rapinatori, gira l’Italia pistola alla mano fin quando non viene catturato. In carcere a Spoleto – da lui definito “Università del crimine” - viene a contatto con il gotha della criminalità nazionale, conosce estremisti di destra, camorristi, mafiosi, in un certo senso si fa un nome. Una volta fuori, tornato ad Alcamo nella seconda metà degli anni Ottanta, comincia ad essere corteggiato da Cosa nostra.
Spiccando per un grado d’istruzione non comune al profilo del mafioso medio e da una notevole dote per le pubbliche relazioni, il suo è un curriculum che fa gola a diversi clan, ma Palmeri – che non sarà mai affiliato ufficialmente – ci tiene alla sua indipendenza e, senza mai opporre un diniego secco alla avances che pure gli vengono fatte con insistenza, preferisce fare il “libero professionista”. In che ambito? Difficile dirlo con certezza. Leggendo il suo memoriale, sembra di capire che Palmeri abbia capitalizzato la sua abilità nel tessere reti di conoscenze trasversali, una sorta di faccendiere, per utilizzare un termine riconoscibile. Di certo c’è una cosa: non ha mai ammazzato nessuno e anzi, ci tiene a precisare di aver salvato molte vite sottratte ai plotoni d’esecuzione mafiosi con escamotage di volta in volta differenti.
In buoni rapporti con un pezzo da 90 come Antonino Gioè [mafioso affiliato ai corleonesi e coinvolto nella strage di Capaci, ndr], cugino di Franco Di Carlo [collaboratore di giustizia recentemente scomparso, accusato di essere esecutore materiale dell'omicidio di Roberto Calvi, ndr], dopo aver tergiversato per qualche anno, Palmeri finisce col diventare l’uomo di fiducia di Vincenzo Milazzo, l’unico con cui il giovane boss alcamese si confidasse. È a lui, infatti, che esprime tutta la sua apprensione per un incontro decisamente particolare. Il primo di altri due che avverranno nel giro di poco tempo, nella primavera del 1992.
E se il nome di Armando Palmeri spicca tra quello dei tanti collaboratori di giustizia, è proprio perché è stato lui a riferire di fronte al magistrato referente di questi incontri, quando due uomini dei servizi segreti – introdotti prima da uno stimato medico e poi da un imprenditore misteriosamente suicidato – proposero a Vincenzo Milazzo di prendere parte a un progetto di destabilizzazione della democrazia con una campagna di stragi e addirittura una guerra batteriologica.
Milazzo, consigliato anche da Palmeri, rifiuterà di prestarsi a questo gioco perverso, pur consapevole di esporsi così a un pericolo mortale. E infatti viene ammazzato dall’amico Nino Gioè, che sparandogli alla nuca confiderà a Palmeri di avergli evitato una morte ben peggiore. Sorte ancor peggiore per la sua fidanzata: Antonella Bonomo, 23 anni, incinta di tre mesi, viene presa a calci e strangolata da un commando di uomini d’onore di cui, tra gli altri, fanno parte lo stesso Gioè, Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella. La colpa della ragazza? Non solo quella di essere la compagna di Milazzo ma, forse, anche quella di avere uno zio al Sisde, il servizio segreto civile.
Grazie all’intercessione di Stefano Santoro, IlGiornale.it è riuscito a ottenere un’intervista da Palmeri che, notoriamente, è restio a concederne e che da anni porta avanti una solitaria crociata per stabilire delle verità difficili da digerire: a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta pezzi deviati dello Stato non si limitarono a fare affari con Cosa nostra, ma tentarono di sovvertire l’ordine democratico con un progetto stragista poi sposato in pieno dai corleonesi di Totò Riina. Ecco quello che ci ha detto: “Ad alcune domande, su argomenti delicati, sarò costretto a non rispondere. Ho conservato un 1% di fiducia nella magistratura, alcune cose devo dirle a loro. Credo che abbiano il dovere d’ufficio, con questo libro, di aprire un fascicolo. Mi auguro che lo facciano”.
C’è una domanda che ti poni nel memoriale recentemente pubblicato, te la facciamo anche noi, cercando di incoraggiare un’ulteriore riflessione: Per quale motivo degli uomini legati ai servizi segreti si sarebbero avvicinati in prima battuta a un boss certamente capace, ma di secondo piano come Vincenzo Milazzo? Perché non rivolgersi direttamente alla fazione dominante dei corleonesi, come comunque sembrerebbero aver fatto subito dopo?
Perché Milazzo era di un’altra caratura intellettuale. E poi non dimentichiamoci di un piccolo particolare: vicino a Milazzo c’ero io e i Servizi lo sapevano.
Cosa intendi?
Il modus operandi di Riina l’abbiamo visto qual è stato. È stato il suicidio di Cosa nostra.
Vuoi dire che rivolgendosi a Milazzo – che al suo fianco aveva non un killer, ma qualcosa di vicino a un consigliere – i servizi puntavano a fare un lavoro “pulito”? Cioè a compiere attentati e stragi ma preservando l’integrità di Cosa nostra?
Per rispondere ti voglio fare un piccolo esempio: andiamo a vedere la Strage dei Georgofili [Firenze, 27 maggio 1993, un ordigno sventra parte della Galleria degli Uffizi e uccide 5 persone, ndr]. Lì è stato assurdo, per l’organizzazione dell’attentato sono state coinvolte persone che con Cosa nostra non c’entravano nulla [come Antonino Messana, di Trapani ma residente a Prato, cognato di Giuseppe Ferro, il boss successore di Milazzo a capo di Alcamo. L’uomo fu sostanzialmente obbligato a fornire supporto logistico per l’attentato, ndr]. È stata una cosa da dilettanti, per organizzare una cosa del genere bastava una persona che sapesse cosa fare. È stato un modo per suicidarsi, il suicidio di Cosa nostra al comando di Totò Riina. Queste non sono operazioni serie.
Cioè i mafiosi sarebbero stati degli “utili idioti”?
Bravissimo, i capri espiatori... Totò Riina e chi gli stava vicino sono stati dei capri espiatori.
E non credi che se Milazzo avesse invece accettato di prestarsi al gioco di frange deviate dei servizi, l’esito sarebbe stato identico? Cosa nostra si sarebbe avviata ugualmente al suicidio?
Questo in effetti non saprei dirlo. Probabilmente se Milazzo avesse accettato di compiere le stragi, la storia della mafia sarebbe stata diversa. Al posto di Riina al vertice ci sarebbe stato lui, magari Bagarella, Brusca, ecc. sarebbero stati eliminati. Ma sono tutte supposizioni.
O magari il clan Milazzo avrebbe compiuto le stragi e poi sarebbe stato decimato dai suoi stessi committenti...
È un’ipotesi valida. Ma anche qui siamo sulle supposizioni.
Tornando agli “utili idioti”, dev’esserci stato necessariamente qualcuno a tirare i fili delle marionette. Tu parli nel tuo libro di “mafia impropria”, cosa intendi?
Io parlo di mafia impropria e quando dico questo mi riferisco a un potere molto, molto arzigogolato e articolato, che si approfitta dei poteri conferitigli dallo Stato, ma in grande scala. Ritengo che quello di infangare la mafia sia stato un progetto attentamente pensato. Fino a quell’epoca [1992/93, ndr] nei principi del mafioso non c’era quello di ammazzare i bambini.
Ti riferisci all’omicidio di Giuseppe Di Matteo? Il bambino di 12 anni rapito, tenuto in ostaggio dal 23 novembre 1993 fino all’11 gennaio 1996, quando venne strangolato e sciolto nell’acido? Il bambino che tu – come racconti nel libro – avevi individuato segnalandone invano la prigione alle forze dell’ordine?
Si, Giuseppe Di Matteo, che è stato ammazzato platealmente. Ma scherziamo? Cosa avrebbe potuto portare di bene a Cosa nostra? Riflettiamo un attimo. Cosa nostra non è un potere dove ci sono solo Brusca, l’ “ammazza-cristiani”, o Giuseppe Ferro, un analfabeta. Attenzione, chi comanda davvero, chi riesce a gestire Cosa nostra non è cretino. Siamo abituati a vedere solo i mafiosi analfabeti, i dementi, ma io ho conosciuto persone come Nino Gioè, che era un grandissimo stratega, una personalità incredibile. Un signore nei modi, lasciamo stare che era un criminale e un killer, ma tu non l’avresti mai detto. Gioè si avvicina a me perché capisce che non sono un sanguinario, che salvo vite umane.
Stai dicendo che, in qualche modo, c’è stata una strategia volta a favorire l’ascesa dell’ala sanguinaria di Cosa nostra, quella che tu definisci dei “dementi”, a discapito invece di uomini più “politici” o comunque inclini alla trattativa, come potevano essere un Gioè o un Milazzo?
In parte sì, anche se Gioè in fin dei conti si è prestato a quel gioco e poi ne ha pagato le conseguenze. Comunque è un dato di fatto: da un certo momento in poi Cosa nostra è stata governata da perfetti idioti. Sempre riguardo la strage di via dei Georgofili e in generale le bombe del 1993... ti sembra possibile che a scegliere quegli obiettivi siano stati Riina e i suoi? È fin troppo evidente che ci sia stata una regìa occulta di quelle che vengono definite “menti raffinatissime”. È un dato di fatto. Per non parlare della strage di Capaci. Un’operazione militare di altissimo livello, che non sarebbe stata possibile senza dei manovratori esterni.
Di quali manovratori stiamo parlando?
Non è da me fare supposizioni...
Passiamo oltre. Nel libro - ma anche nelle sedi competenti - hai parlato di questi incontri tra due uomini dei servizi segreti e Vincenzo MIlazzo. Ti sono mai stati sottoposti degli identikit, delle fotografie? Hai mai potuto ricondurre dei nomi a quei volti?
Io li so i nomi. Li ho dati in procura e sto vedendo cosa fanno.
Sono entrambi in vita?
Uno di loro si. Me lo ricordo, ho avuto la sfortuna di incontrarlo successivamente.
In un libro-intervista uscito qualche tempo fa, Franco Di Carlo, cugino di Nino Gioè che – lo ricordiamo – è morto impiccato in carcere, sostiene di essere stato più volte avvicinato nel corso degli anni, proprio come suo cugino, da uomini dei servizi segreti. In particolare, con uno di loro si è ritrovato in diverse situazioni: si tratta di Mario Ferraro, colonnello del Sismi, anche lui trovato impiccato in casa sua nel luglio del 1995. Impiccato a un termosifone con i piedi che toccavano terra. Ricordi di averlo mai incontrato?
Uscendo spesso con Gioè ne vedevo tanti di questi personaggi. Non mi pare di averlo mai sentito nominare.
Sempre nel libro parli di una donna della Dia con cui avresti effettuato un appostamento per liberare il piccolo Di Matteo e che, successivamente, hai visto in compagnia di quello che poi avresti scoperto essere Giovanni Aiello, più conosciuto come “Faccia da mostro”. Di lei conosci il nome?
No, né l’ho mai vista esposta sui media, come invece è successo con Aiello.
Territorio di Trapani, Alcamo. Si è tornati recentemente a parlare di questa zona della Sicilia in relazione alla presenza occulta e pervasiva della struttura semi-clandestina Gladio. Hai mai sentito nominare il Centro Skorpione?
No, so solo che hanno tentato di buttarla in quel posto a Gladio. In tutto e per tutto. Hanno cercato di mettere Gladio in mezzo a tante cose, ma secondo me è solo un grande depistaggio. Tutto ciò che è accaduto ad Alcamo in quel periodo è stato uno scontro tra polizia e carabinieri. E hanno cercato di fottere Gladio, usandola come capro espiatorio. Ma così non si arriva alla verità.
Tu hai conosciuto il gotha mafioso, hai vissuto e lavorato ad Alcamo, che si trova nel trapanese. Mi sarei aspettato almeno di sentirti nominare nel libro Matteo Messina Denaro. Non l’hai conosciuto?
Assolutamente no.
Che interpretazione dai alla sua lunga latitanza?
Non si vuole prendere. Non si deve prendere. Io sarei il primo a non collaborare per prenderlo. Perché rompere gli equilibri, chi ci dice che non possa nascere un nuovo Totò Riina?
Che intendi dire?
Nel trapanese non si ammazza più, c’è ordine, la gente sta bene. Perché devi rompere questo equilibrio? Per farla pagare a un uomo solo? Ubi maior minor cessat.
Eppure nel 2018 un ex poliziotto, Antonio Federico, in un’intervista rilasciata proprio a Stefano Santoro sostiene che tu gli avessi promesso di fargli catturare un latitante di grosso calibro, che lui intese essere Messina Denaro...
Era una sua supposizione, se ne occuperà l’autorità giudiziaria.
Torniamo un attimo su Antonio Federico, di cui ci siamo largamente occupati nei mesi passati. Federico in un suo libro racconta di essere stato avvicinato nel 1993 da una misteriosa fonte, tale Mark, un uomo che – secondo la sua ricostruzione – apparteneva proprio a Gladio. Questo Mark gli fa compiere alcune operazioni, tra cui la perquisizione in casa di un carabiniere, dove viene trovato un arsenale di armi e dove, in una libreria, viene trovata la foto in cui, quasi trent’anni dopo, si è riconosciuta Rosa Belotti, imprenditrice di Bergamo sospettata dalla procura di Firenze di essere la “biondina” delle stragi del 1993. Nel tuo libro sostieni che Mark fosse un tuo uomo, sulla base di cosa puoi affermare ciò?
Preferisco non rispondere.
Su quella foto ritrovata in casa del carabiniere? Puoi dirci qualcosa?
È un depistaggio. Antonio Federico è acerrimo nemico di La Colla e Bertotto [i due carabinieri coinvolti nel ritrovamento dell’arsenale, ndr], ha cercato, come si dice in Sicilia, di fare tragedia, però... spero di poterti dare risposte più certe tra qualche mese... mi sono interessato a questa situazione. Intanto ti posso dire una cosa: fin quando non sarà riconosciuta l’esistenza della “mafia impropria” non cambierà nulla, i segreti rimarranno sempre tali. Voi che siete giovani vi dovete battere su questo politicamente, sui giornali, io ormai sono al capolinea. E vedrai che ci saranno i primi collaboratori di giustizia di Stato. Ci saranno i primi magistrati che collaboreranno finalmente con la giustizia. Io non ci sarò più, ma tu forse ricorderai queste parole.
Le mafie vogliono essere la parte efficiente del Paese: questo giova ai loro affari. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 15 Luglio 2022.
Ho scelto la foto di Paolo Borsellino per ricordarlo come viene raccontato nel libro di Bianconi. Ne emerge il ritratto di una burocrazia che garantisce un divieto di sosta e di uno Stato che si racconta moderno ma è più vicino al Nordafrica che al Nord Europa.
2 giugno 1992 il giudice Paolo Borsellino alla prefettura di Palermo. Morirà qualche settimana dopo, il 19 luglio
Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 15 luglio. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova»
Giovanni Bianconi ha una rara capacità, quella di dare vita carne sangue sudore e slancio alla cronaca. Bianconi ha il passo del cronista: la cronaca è la vita sua. Sa scovare notizie e scriverle velocemente. Le annusa, non ha bisogno di assaggiarle: dall’odore sente se si tratta di fake, veleno o storia nutriente e vera. In Un pessimo affare. Il delitto Borsellino e le stragi di mafia tra misteri e depistaggi non si smentisce. Il racconto della morte di Borsellino procede attraverso un carotaggio di tutti i momenti più assurdi e paradossali. Si vedrà come nulla è più impreparato dello Stato italiano, che ama raccontarsi come moderno ed efficiente, ma in realtà, in molti suoi aspetti, è più vicino al Nordafrica che al Nord Europa.
IL POMERIGGIO C’ERA SOLO UN’AUTO BLINDATA, MA I GIUDICI ERANO QUATTRO: DI SERA SI POTEVA MORIRE LIBERAMENTE
Rocco Chinnici viene ucciso con un’autobomba fuori casa, a Palermo; la burocrazia non era riuscita a garantire il minimo: il divieto di sosta in quei pochi metri di via Giuseppe Pipitone Federico. Stessa cosa accadrà in via D’Amelio: la burocrazia non riuscirà nemmeno a ottenere il divieto di parcheggio davanti casa della mamma del giudice Paolo Borsellino. In Commissione parlamentare antimafia, Borsellino dichiarò: «Poiché non lavoriamo solo la mattina, buona parte di noi non può essere accompagnata in ufficio di pomeriggio da macchine blindate, come avviene la mattina, perché il pomeriggio è disponibile solo una blindata che, evidentemente, non può andare a raccogliere quattro colleghi. Pertanto io, sistematicamente, il pomeriggio mi reco in ufficio con la mia automobile e ritorno a casa alle 21 o alle 22. Magari con ciò riacquisto la mia libertà, utilizzando la mia automobile, però non capisco che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per poi essere libero di essere ucciso la sera».
Questo veniva detto l’8 maggio dell’84. Da lì, sino alla sua morte, l’incapacità statale è sempre stata la migliore alleata delle organizzazioni criminali. Queste sì, organizzate, di fronte a una struttura statale completamente disorganizzata e quindi facile da infiltrare. Le mafie non sono l’Antistato, le mafie sono parte dello Stato, e usano la parte disorganizzata dello Stato per ottenere - questo nel libro di Bianconi si evince chiaramente - potere, consenso, profitto. Le mafie vogliono essere questo: la parte efficiente del Paese... quanto giova, invece, ai loro affari continuare a descriverli come rurali e trogloditi attaccabrighe? Sempre Borsellino racconta: «Mi ricordo che una volta Buscetta aveva detto che gli era stato presentato un capomafia di Bagheria mentre egli passeggiava in via Ruggiero Settimo. Nel mio scrupolo gli avevo confessato: ma come, passeggiava in via Ruggiero Settimo se lei era latitante? Signor Giudice, nel nostro ambiente si sapeva che dalle 2 alle 4 c’è la smonta, volanti non ne circolano, conseguentemente noi latitanti scendiamo a fare la passeggiata ».
Protagonista del libro è certamente Paolo Borsellino - ritratto nella foto che ho scelto questa settimana - ma in realtà la voce di sua figlia Fiammetta è importantissima. Dirà: «Mio padre era notoriamente uno che faceva battute, teneva banco con gli amici in situazioni varie, anche il suo affrontare in modo scherzoso il tema della morte era un modo per instillare dentro di noi questa possibilità e, per altro verso, di esorcizzare un dramma. All’epoca non c’erano i cellulari, quindi proprio quell’estate in cui io premevo per andare in luoghi un po’ sperduti, mi disse: Ma insomma dove vai? Se mi uccidono come ti raggiungo? Come ti chiamo?». E continua: «Mio padre scherzava sempre su questa quasi totale assenza di misure di protezione adeguate, era così drammatica questa inefficienza, che lui ci scherzava quando ci raccontava che cambiava le gomme in autostrada perché le macchine di scorta che avevano in dotazione si rompevano ogni due o tre. Una volta tornò dalla Germania sconvolto perché disse: Se lo stesso spiegamento di forze che mi hanno riservato lì lo avessi qui a Palermo sarebbe tutto più facile».
Si esce dal libro di Giovanni Bianconi consapevoli che il sabotaggio dei colleghi e l’inefficienza della macchina statale sono stati complici del potere mafioso; che l’invidia verso Falcone e Borsellino è stato l’elemento cardine che ha indebolito la loro sicurezza. Questo Stato, che noi consideriamo democratico, conserva in sé un’anima tirannica e autoritaria, quella dell’economia criminale. Ed è, questa, un’efficienza talmente endemica, che senza l’olio del crimine interi comparti economici sarebbero ancora più sclerotizzati. Ma ormai quelle che andiamo raccontando sembrano storie antiche, passate, ecco perché il libro di Bianconi è necessario, perché dà ossigeno alla possibilità di comprendere.
Linea di sangue. Dal terrorismo politico alle stragi della mafia eversiva. GIOVANNI BIANCONI su Il Domani il 13 giugno 2022
Morti e feriti si sono accavallati condizionando e indirizzando la gestione del potere, per garantire determinati equilibri o evitare pericolosi cambiamenti. Una strategia della tensione permanente, sia pure declinata in forme diverse.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene dal 22 al 26 giugno a Lamezia Terme.
Nella storia repubblicana crimine e politica si sono intrecciati spesso. Sono andati a braccetto per lunghi tratti, si potrebbe dire. Dalla strage di Portella delle ginestre (1947) ai sanguinosi tumulti di piazza degli anni Sessanta con i proiettili sparati ad altezza d’uomo; dalle bombe nere esplose tra il 1969 e il 1974 al terrorismo rosso culminato con il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro nel 1978, fino ai delitti di mafia: gli omicidi “eccellenti” degli anni Settanta e Ottanta, poi le stragi del 1992-93. E sullo sfondo le reiterate avvisaglie dei colpi di Stato, forse mai realmente tentati ma costantemente paventati, perché tanto bastava.
Morti e feriti si sono accavallati condizionando e indirizzando la gestione del potere, per garantire determinati equilibri o evitare pericolosi cambiamenti. Una strategia della tensione permanente, sia pure declinata in forme diverse.
Non c’è ovviamente un’unica regia, non fosse altro che per il trascorrere del tempo, in tutto quasi mezzo secolo. Ci sono però nomi che ritornano. E c’è un modus operandi, sia del crimine che del potere, che sembra ripetersi. Sia i terroristi che le organizzazioni criminali hanno inciso sul corso della vita istituzionale, ai livelli più alti, arrivando a togliere di mezzo (in un caso fisicamente, nell’altro politicamente) due potenziali presidenti della Repubblica: Moro nel 1978 e Giulio Andreotti nel 1992, con la sequenza omicidio Lima-strage di Capaci. Il terrore diffuso dalle organizzazioni neofasciste con le bombe di piazza Fontana e di piazza della Loggia, passando per Petano, la questura di Milano e il treno Italicus, s’è riproposto vent’anni più tardi con gli attentati in continente che nel 1993 hanno colpito Roma, Firenze e Milano, e sarebbero proseguiti nel 1994 se non si fossero verificati due “provvidenziali” coincidenze: il malfunzionamento dell’auto-bomba allo stadio Olimpico di Roma e, a seguire, l’arresto dei fratelli Graviano a Milano.
Ma accanto all’operare di mafiosi e terroristi, e in alcuni casi insieme ad esso, c’è l’attività di alcuni apparati di sicurezza che paiono riproporre gli stessi schemi: coperture e depistaggi, distruzione di prove e documenti spariti con modalità che si ripetono nel tempo, prima a protezione delle trame nere e poi di quelle mafiose. Oppure scelte politiche e prassi che finiscono per lasciare campo libero al terrorismo rosso dopo il 1974, quasi che gli obiettivi da colpire non fossero interesse esclusivo delle Br o gruppi simili, ma di centri di potere più o meno occulti; così come nel 1982 e poi ancora nel 1992 vittime della mafia come Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono – con ogni probabilità – solo vittime di mafia.
Misteri sui quali ci si interroga ancora oggi: trenta, quaranta, cinquanta anni dopo. E a volte anche di più.
GIOVANNI BIANCONI
Il ritorno di Gladio: un pretesto o un passato che non passa? Gianluca Zanella il 3 Giugno 2022 su Il Giornale.
Un documento controverso che parla di rapporti tra mafiosi, Alto commissariato antimafia e strutture semi clandestine dello Stato riemerge dal passato in un momento in cui si torna a parlare di Gladio come di una struttura ancora attiva.
Saranno i venti di guerra che agitano l’Europa o forse gli equilibri geopolitici messi come non mai in discussione dopo la dura batosta del periodo pandemico, ma – per chi non se ne fosse accorto – in Italia si sta tornando a parlare di Gladio, che può voler dire tutto e niente. La struttura semi clandestina, diretta emanazione della Nato e germogliata sotto l’ampio ombrello dell’operazione Stay Behind, che tante volte serve da paravento, che molto spesso funge da alibi, che quasi mai viene citata a proposito.
Ad aver incendiato il dibattito è stato Report con un’intervista ad Antonio Federico, il poliziotto che ha scritto un libro per raccontare la vicenda vissuta nelle campagne del trapanese tra la fine degli anni ’80 e il principio dei ’90, quando – in un’atmosfera che ricorda il successo di Spielberg ET – dà letteralmente la caccia agli uomini di Gladio. Lo stesso Antonio Federico che – stando a un racconto ancora non verificabile – nel 1993 ritrova, nel corso di una perquisizione, una foto molto particolare [ma nel libro, scritto nel 2012, di questo episodio non c’è traccia] di cui tanto abbiamo già parlato.
Ma che qualcosa bolla in pentole tenute opportunamente riservate lo si percepisce già da qualche mese: a Livorno una procura spinge per l’archiviazione della morte di Marco Mandolini, militare e agente segreto, nonostante la mole di documenti che sembrano avvalorare la bontà di una pista individuata qualche anno fa dal criminologo Federico Carbone, una pista che tiene insieme il fallito attentato dell’Addaura a Giovanni Falcone, le attività del centro Skorpione - arcinota base di Gladio a San Vito Lo Capo (Trapani) – e la morte in Somalia di Vincenzo Li Causi, che quella base un tempo segreta tornata prepotentemente sotto i riflettori l’aveva guidata dal 1987 al 1990.
Ed è proprio questo il periodo attenzionato da una nota “riservatissima” del Sisde [il servizio segreto civile] datata 14 febbraio 1991. Il documento – sulla cui attendibilità non ci sono pareri concordi, ma che se fosse un falso sarebbe in primis un ottimo lavoro, in secundis un’enorme polpetta avvelenata –, è per qualche ragione riemerso dalle nebbie del passato e in questi giorni sta circolando tra addetti ai lavori e non attraverso sistemi di messaggistica istantanea. Il motivo dietro questa “seconda vita” non è ancora chiaro, ma senz’altro curioso. Il documento di cui stiamo parlando ha come oggetto qualcosa di decisamente inquietante, soprattutto alla luce del clamore mediatico che si fa di giorno in giorno più assordante: “Anomalie operative attività ex Centro [...] Scorpione/Skorpio Trapani e periferiche”.
In questa nota del servizio segreto civile, i cui vertici di lì a un paio di anni sarebbero stati investiti da un colossale scandalo interno (giornalisticamente noto come Sisdegate, termine nobilitato dall’uso dell’inglese per raccontare un italianissimo “magna magna” di soldi pubblici), si accenna a un rapporto precedente, datato 23 gennaio dello stesso anno, in cui veniva trattato probabilmente lo stesso argomento: la stretta collaborazione tra il Centro Skorpione e l’allora Alto Commissario per la lotta alla mafia. Domenico Sica.
Fin qui nulla di strano, se pensiamo che il Centro Skorpione, venuta meno la minaccia di un’invasione sovietica dell’Europa (motivo per il quale era stato allestito, pur non trovandosi in una zona di confine “calda”), nelle intenzioni era deputato proprio a quello: il contrasto al fenomeno mafioso. Come poi si sia concretizzata questa azione di contrasto nessuno lo sa, né sapeva dirlo Vincenzo Li Causi, che succedette al colonnello Paolo Fornaro e che morì prima di poter essere sentito dal magistrato veneto Felice Casson.
Tuttavia, la nota riservatissima del Sisde – che fa seguito a un’altra informativa dell’Ucigos di Gorizia – pone la collaborazione tra l’Alto Commissario Sica e il Centro guidato da Li Causi in un contesto inquietante e ad oggi non verificato, ma che se fosse reale sarebbe a dir poco preoccupante. Leggiamo: “Nel periodo di comando del Centro, corrente tra gli anni 1987/1990, si sono svolti contatti anche fisici con elementi di spicco di alcune famiglie mafiose del trapanese e la stessa dirigenza dello Scorpione, anche nei perimetri interni dello stesso centro”. Come dicevamo, uno scenario inquietante, soprattutto se pensiamo che tra le famiglie mafiose del trapanese ci sono i Messina Denaro.
Lo ripetiamo e lo sottolineiamo, questo documento è stato al centro di una vicenda controversa. Disconosciuto dal Sisde, venne fornito al giornalista Luciano Scalettari da una fonte rimasta coperta del Sios Marina, il servizio d'intelligence appunto della Marina Militare, e finì nelle migliaia di pagine del procedimento per la morte del giornalista Mauro Rostagno.
Premesso doverosamente questo, non possiamo non considerare, a distanza di oltre trent’anni – e nel trentennale della strage di Capaci – la convinzione di Giovanni Falcone, che riteneva – come scritto dal giornalista Pino Arlacchi in una recente pubblicazione, Giovanni e io (Chiarelettere) – che dietro il fallito attentato all’Addaura ci fossero stati “i delinquenti del Sisde”. Né possiamo ignorare la figura di Domenico Sica, sul quale ci sarebbe molto da ragionare e al quale Francesco Pazienza – faccendiere ed ex agente segreto – ha dedicato molte pagine infuocate nel suo ultimo libro La versione di Pazienza (Chiarelettere). È nota la volontà di Sica di essere messo a capo del servizio segreto civile, così com’è nota la sua acredine nei confronti del collega Falcone. Questi sono dati di fatto che, tuttavia (lo sottolineiamo) possono essere mere suggestioni senza alcuna valenza.
Resta, come dicevamo all’inizio, una certezza incontrovertibile: qualche equilibrio dev’essersi incrinato. Qualche patto è venuto meno o, semplicemente, eventi che ritenevamo appartenere al passato sono più attuali di quanto non pensassimo. E in attesa che il premier Mario Draghi tenga fede a quanto promesso ormai un anno fa (cioè rendere pubblici documenti inediti relativi alla vicenda Gladio) non possiamo che assistere da spettatori al carosello di novità o pseudo-tali che ormai quasi quotidianamente arrivano ad arricchire il racconto sulla nostra (oscura) storia recente.
E poi chissà, magari un giorno scopriremo che, in fondo, non c’è mai stata una vera e propria regìa, che non c’è stato nessun grande vecchio, nessun complotto a manovrare gli italici destini. Magari scopriremo che, in determinati periodi, uomini e donne in grado di esercitare potere (a livello politico, imprenditoriale, criminale, accademico, ecc.) si siano uniti in consorterie più o meno clandestine e più o meno sovversive solo per raggiungere scopi a breve termine, servendosi di pezzi dello Stato, di sezioni/ombra di reparti militari altamente specializzati, di persone che, probabilmente, non sempre hanno prestato la loro competenza a queste consorterie consapevolmente.
Vittime a loro volta di un gioco incomprensibile se non a chi ha predisposto le pedine. Chissà, magari quel giorno scopriremo che – sotto sotto – la nostra Repubblica non esisterebbe senza queste forze centrifughe; scopriremo che queste forze fanno parte della nostra fragile democrazia in modo così radicato che, se non ci fossero, tutto franerebbe su sé stesso, quasi ci fosse bisogno di una perenne e incombente ombra scura affinché sia possibile apprezzare la luce.
CHI È VISSUTO PIÙ A LUNGO. Una storia italiana di potere, mafia e trent’anni di depistaggi. PAOLO MORANDO su Il Domani il 30 maggio 2022.
La lettura dell’ultimo libro di Enrico Deaglio, Qualcuno visse più a lungo, è abbastanza sconvolgente, poiché mette in fila responsabilità precise di più parti dello stato nel tremendo susseguirsi dei fatti (le morti di Falcone e Borsellino, le stragi in “continente”, la gestione dei collaboratori di giustizia, i processi, il caso Scarantino).
È un libro che si legge d’un fiato, un affresco di storia nazionale che parte ben prima dell’avvento di Silvio Berlusconi nella politica italiana (gennaio 1994, snodo esiziale) risalendo invece a quando la Sicilia ha iniziato a diventare un “narcostato”.
Spiega Deaglio: «Questo libro è un po’ il finale di partita, visto il trentennale: gli ho voluto dare una patina di qualcosa avvenuta in tempi passati, di cui rimangono ricordi vaghi, deformati. Ma, ad essere sinceri, è da un po’ di tempo che mi ha accompagnato un senso di rabbia per la capacità che il potere ha avuto di mentire, di deformare, di depistare coinvolgendo tutta l’Italia».
PAOLO MORANDO
Giornalista, ha lavorato in quotidiani di Trento, Bolzano e Verona. Ora scrive per Domani, Huffington Post, Internazionale, L'Essenziale e sul blog minima&moralia. Per Editori Laterza è autore di Dancing Days. 1978-1979: i due anni che hanno cambiato l’Italia (2009, ristampato nel 2020), ’80. L’inizio della barbarie (2016, finalista al Premio Estense), Prima di Piazza Fontana. La prova generale (2019, vincitore del Premio Fiuggi Storia, sezione Anniversari) e Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (2021).
Trentennale stragi. Deaglio: "Trent'anni di depistaggi, pigrizia e collusioni". Ricordando la morte dei giudici, celebriamo il loro coraggio e poco altro. In Sicilia non c'è stato il ricambio della classe dirigente e nel Paese la collusione con Cosa nostra ha influenzato l'azione di magistratura e politica. Enrico Deaglio, Giornalista e scrittore, Da lavialibera n°14 il 17 maggio 2022.
Il mio ultimo libro Qualcuno visse più a lungo – La favolosa protezione dell’ultimo padrino (Feltrinelli, 2022) ripercorre la storia di uno dei clan mafiosi più misteriosi di Palermo, i Graviano di Brancaccio. Passati sotto i radar per decenni, detentori di un patrimonio che li mette ai vertici delle ricchezze italiane, i due fratelli Graviano sono stati protagonisti delle stragi palermitane e di quelle continentali, in associazione con vertici dei carabinieri e dei servizi segreti. Il loro arresto, in un ristorante a Milano il 27 gennaio 1994, ha coinciso con la fine di ogni violenza terroristica in Italia. Appena pochi giorni prima, i Graviano avevano programmato un attentato allo stadio Olimpico di Roma che avrebbe sicuramente messo fine alla democrazia in Italia. Perché il telecomando che doveva azionare la bomba non funzionò? È ancora oggi un mistero.
La saga dei Graviano è stata per me un’occasione per ripercorrere la storia della mafia siciliana e i cambiamenti che ha portato nella società italiana, giungendo a conclusioni che sono un po’ diverse da quelle correnti.
Il dittatore di Cosa nostra
Per esempio, mi è sembrato importante sottolineare il peso economico-finanziario che Cosa nostra ha avuto fin dagli anni Settanta del secolo scorso, quando, oltre al controllo della spesa pubblica siciliana (cemento, ma non solo), ha aggiunto il ben più lucroso monopolio dell’export dell’eroina in Usa e in Canada. Se si rileggono ora le vicende di Michele Sindona, tanto a New York quanto a Milano, e l’incredibile storia del suo finto rapimento (1979) credo si possa cogliere una dimensione internazionale del fenomeno, che solo Giovanni Falcone aveva intuito. Di fatto, la Sicilia di quel periodo era un narcostato; con le proprie rotte di acquisizione delle materie prime, una rete diffusa di raffinerie, un articolato sistema di distribuzione, il controllo totale del territorio, una presenza imponente nel nostro sistema bancario nazionale alimentato da una liquidità senza soste. Noi in genere datiamo il momento di crisi tra Cosa nostra e lo Stato nel 1992, quando l’organizzazione non riesce a ribaltare l’esito del maxiprocesso. Penso che si possa retrodatare il tutto di almeno dieci anni: il narcostato entrò in guerra quando venne approvata la legge Rognoni-La Torre, quando Buscetta e Contorno andarono a testimoniare in America, quando Falcone immaginò la Dia e collaborò con l’Fbi.
Falcone rimane sempre più isolato: i suoi colleghi condussero una lotta ignobile contro di lui, i vertici della polizia commissariarono la squadra mobile di Palermo al solo scopo di fermarlo, si tentò di ucciderlo e di infangarlo, la politica cercò di renderlo innocuo
Gli anni Ottanta sono quelli il cui il narcostato combatte la sua battaglia interna e la guerra (con un prezzo di diecimila morti e/o scomparsi in tutto il sud Italia, circa tremila nella sola Palermo) vede emergere un dittatore sanguinario, Salvatore Riina, che non ha le qualità del leader, ma solo quelle dell’enforcer. Nello stesso tempo, Falcone rimane sempre più isolato: i suoi colleghi condussero una lotta ignobile contro di lui, i vertici della polizia commissariarono la squadra mobile di Palermo al solo scopo di fermarlo, si tentò di ucciderlo e di infangarlo, la politica cercò di renderlo innocuo. Davvero, la sua eliminazione faceva comodo a troppi: Capaci e via D’Amelio hanno una lunga preparazione.
Un colpevolissimo silenzio
Stiamo parlando di eventi lontani nel tempo, ormai, con i protagonisti quasi tutti morti e la memoria diventata piuttosto vaga; ma si resta ancora adesso interdetti dalla quantità e ampiezza di depistaggi e tradimenti che hanno accompagnato la morte di Falcone e Borsellino e impedito la verità su quanto è successo in questo Paese.
La cronaca di allora mi ha dato molti spunti per arricchire la storia per come l’abbiamo finora conosciuta: l’importanza del boss Francesco Di Carlo, la sua "british connection" e la sua affiliazione a Gladio; le vere ragioni dell’omicidio del vicecapo della Mobile Ninni Cassarà; l’opera nefasta compiuta dal commissario Arnaldo La Barbera; il ruolo avuto dai servizi segreti nella campagna stragista. Un personaggio poi, balza fuori da un colpevolissimo silenzio: Nino Gioè, boss mafioso di Altofonte, paracadutista della Folgore, reclutato dai servizi fin dall’1988, organizzatore della strage di Capaci, arrestato nel marzo 1993 e poi “suicida” a Rebibbia pochi mesi dopo.
C'è un personaggio che balza fuori da un colpevolissimo silenzio: Nino Gioè, boss mafioso di Altofonte, paracadutista della Folgore, reclutato dai servizi fin dall’1988, organizzatore della strage di Capaci, arrestato nel marzo 1993 e poi “suicida” a Rebibbia pochi mesi dopo.
Era lui, insieme a Giovanni Brusca, ad azionare il telecomando dalla collinetta di Capaci, e credo che quell’immagine possa essere considerata simbolica di quanto è successo in Italia. E poi ci sono, naturalmente, i Graviano: un clan che cerca di assomigliare alla famiglia Corleone del Padrino; si fa fatica ad accettare che non siano mai stati sospettati e siano rimasti sempre molto ai margini delle inchieste sulle stragi. Con il paradosso che sono gli unici in grado oggi di raccontare come andarono le cose davvero.
La falsa retorica della legalità
Non ho idea di che cosa celebreremo quest’anno. Certo, il coraggio di Falcone e Borsellino, ma poco altro. Riguardando a ciò che è successo in trent’anni, la prima cosa che si può dire è che il depistaggio, la pigrizia e la collusione con Cosa nostra e il suo mondo, sono stati dominanti nel comportamento della magistratura e della politica.
L’impostura del falso pentito Scarantino ha dominato la scena per quindici anni. L’incredibile stupidaggine dell’inchiesta trattativa, altrettanti
L’impostura del falso pentito Scarantino ha dominato la scena per quindici anni; l’incredibile stupidaggine dell’inchiesta trattativa, altrettanti; i magistrati hanno fatto affidamento su pentiti fasulli, per incuria o per convenienza e si sono circondati di una lunga serie di funzionari, periti, doppi agenti, delatori e confidenti di cui sono rimasti succubi. La stessa storia della vittoria sui corleonesi sarebbe da riscrivere; ormai si sa che Riina non venne catturato, ma consegnato, proprio come successe con il bandito Giuliano. Il disinteresse della politica per la questione mafia è ormai notorio, tutti si accontentano del fatto che da trent’anni non ci sono più cadaveri eccellenti; e per quanto riguarda la moralità dell’antimafia, purtroppo le vicende dei beni confiscati e gli esempi numerosi della falsa retorica della legalità dominano la scena, insieme allo spettacolo indecoroso delle lotte intestine tra magistrati e fautori di un minimo di umanità nelle carceri.
In Sicilia non c’è stato, purtroppo, alcun ricambio nella classe dirigente, né quella redenzione che il sacrificio dei due giudici avrebbe dovuto promuovere. Mi dispiace non poter portare note di ottimismo. Spero di essermi sbagliato e, se fosse così, mi perdonerete. Da lavialibera n°14
La strage di Capaci, trent'anni dopo. Una storia di mafia e depistaggi. Giuseppe Marinaro su Agoramagazine.it il 23 maggio 2022.
Gli attentati contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si consumarono in un contesto d'incapacità e complicità che va ben oltre il livello della mafia, in un quadro, certificato da una sentenza, di colossali depistamenti.
Un tempo tragico, oscuro e colmo di tensione. Cinquantasette giorni separano la strage di Capaci da quella di via D'Amelio. Trent'anni i due eccidi da una verità piena la cui ricerca e' ancora oggetto di processi e nuove indagini.
Gli attentati contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si consumarono in un contesto d'incapacità e complicità che va ben oltre il livello della mafia, in un quadro, certificato da una sentenza, di "colossale depistaggio".
Il verdetto del processo Stato-mafia, sulla presunta trattativa tra pezzi delle istituzioni e i vertici di Cosa nostra, del 20 aprile 2018, aveva aperto scenari inediti, poi parzialmente richiusi dalla sentenza d'appello segnata da una serie di pesanti assoluzioni.
"Avevano già iniziato a farli morire"
Il 23 maggio del 1992, Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia e candidato alla carica di procuratore nazionale antimafia, era appena atterrato all'aeroporto di Punta Raisi con la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato.
Alle 17.58, sull'autostrada Trapani-Palermo, nei pressi di Capaci, la tremenda esplosione che li uccise con gli uomini della scorta. Circa 500 chili di tritolo piazzati dentro un canale di scolo esplosero mentre transitavano le Croma.
La prima auto blindata - con a bordo i poliziotti Antonino Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo - venne scaraventata oltre la carreggiata opposta di marcia, su un pianoro coperto di ulivi. La seconda Croma, guidata dallo stesso Falcone, si schiantò contro il muro di detriti della profonda voragine aperta dallo scoppio. L'esplosione divorò un centinaio di metri di autostrada.
Poco più di un mese dopo, il 25 giugno, Paolo Borsellino denunciò la costante opposizione al lavoro e al metodo di Falcone di parti consistenti delle istituzioni: "Secondo Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Oggi che tutti ci rendiamo conto di qual è stata la statura di quest'uomo, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò a farlo morire il primo gennaio del 1988, quando il Csm con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Meli".
A un certo punto, raccontò Borsellino, "fummo noi stessi a convincere Falcone, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato le esperienze del pool antimafia. Era la superprocura". La mafia "ha preparato e attuato l'attentato del 23 maggio nel momento in cui Giovanni Falcone era a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia".
Palermo-Beirut
Paolo Borsellino, 51 anni, da 28 in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la procura di Marsala, pranzò a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si recò con la sua scorta in via D'Amelio, dove vivevano la madre e la sorella. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell'abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti.
Erano le 16.58. L'esplosione, nel cuore di Palermo, venne avvertita in gran parte della città. L'autobomba uccise Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto in una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Eddie Cosina, 31 anni, e Claudio Traina, 27 anni. Unico superstite l'agente Antonino Vullo.
Trattative. La "prova regina" e il verdetto ribaltato
Dopo 30 anni restano tanti buchi neri. La sentenza di primo grado del processo Stato-mafia, che ha condannato boss, ex alti ufficiali del Ros come Mario Mori e politici come Marcello Dell'Utri, a giudizio di molti aveva dato linfa e impulso a nuove inchieste a Caltanissetta sulle stragi. Tre poliziotti sono a processo con l'accusa di essere i tasselli di una complessa strategia di depistaggio delle indagini sull'eccidio di via D'Amelio. Ilda Boccassini, ex pm a Caltanissetta da ottobre '92 a dicembre '94, ha parlato di "prova regina inconfutabile circa il fatto che Scarantino stava dicendo delle sciocchezze: si era ancora in tempo per tornare indietro e fermarsi". Non lo si fece.
Il 23 settembre 2021 verdetto ribaltato. La Corte d'assise d'appello di Palermo, dopo tre giorni di camera di consiglio, nell'aula bunker del Pagliarelli, ha assolto il senatore Marcello Dell'Utri, "per non avere commesso il fatto", e gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, "perché il fatto non costituisce reato".
Pena leggermente ridotta a 27 anni al boss Leoluca Bagarella; confermati i 12 anni al medico mafioso Antonino Cinà, fedelissimo di Bernardo Provenzano. Rispondevano del reato di minaccia a un corpo politico. La trattativa, ma intesa come dialogo per fare cessare la stagione delle bombe e degli attentati, senza alcuna concessione da parte dello Stato, non fu reato.
Borsellino quater è cassazione
Ergastolo per i boss Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, sì alle condanne dei falsi collaboratori di giustizia Calogero Pulci e Francesco Andriotta per calunnia: è la sentenza pronunciata il 5 ottobre scorso in via definitiva dalla Cassazione che ha confermato la decisione emessa dalla Corte d'assise d'appello di Caltanissetta nel novembre 2019 nel processo Borsellino quater.
Se per Pulci è stata confermata la condanna a 10 anni dì reclusione, per Andriotta - condannato in appello a 10 anni - i giudici del Palazzaccio hanno disposto solo un lieve sconto di pena, pari a 4 mesi.
Sostanzialmente confermato il verdetto pronunciato dai giudici d'appello, i quali, da parte loro, avevano condiviso le conclusioni contenute nella sentenza di primo grado, nelle cui motivazioni, depositate nell’estate 2018, si sosteneva che, sulle indagini relative alla strage di via D'Amelio - nella quale, il 19 luglio 1992, il giudice Paolo Borsellino morì con gli agenti della sua scorta - ci fu "uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana".
"I giudici di merito - scriveva la Cassazione nella sentenza depositata a novembre 2021 - non mancano di confrontarsi con le persistenti 'zone d'ombra' sulla vicenda della strage di via D'Amelio, rimarcando comunque la paternità mafiosa dell'attentato. A proposito di tali 'zone d'ombra', la sentenza impugnata - ricorda la Cassazione - richiama la 'sparizione' dell'agenda rossa di Paolo Borsellino, le dichiarazioni di testi intervenuti nell'immediatezza della deflagrazione, dichiarazioni rivelatrici di contraddizioni che gli accertamenti svolti non hanno consentito di superare", nonché "l'anomalia del coinvolgimento del Sisde nelle indagini" e i "condizionamenti esterni e interni" sull'inchiesta.
Nella "sintesi ricostruttiva offerta dalla sentenza impugnata", osservano ancora i giudici del 'Palazzaccio' citando la Corte d'appello nissena, "la strage di via d'Amelio rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto a una ben precisa strategia del terrore adottata da Cosa nostra, in quanto stretta da paura e da fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il 'maxiprocesso'": i "dati probatori relativi alle richiamate 'zone d'ombra'", ricorda la Suprema Corte ripercorrendo le sentenze di merito, "possono al più condurre a ipotizzare la presenza di altri soggetti o di gruppi di potere (co-)interessati all'eliminazione' di Paolo Borsellino", ma ciò "non esclude il riconoscimento - si legge nella sentenza odierna - della 'paternità mafiosa' dell'attentato di via D'Amelio e della sua riconducibilità alla 'strategia stragista' deliberata da Cosa Nostra, prima di tutto, come 'risposta' all'esito del maxiprocesso".
Nel luglio 2020 si è chiuso in Corte d'Assise d'Appello a Caltanissetta, il Falcone bis: condannati i boss Salvo Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro, Lorenzo Tinnirello. Vittorio Tutino assolto come in primo grado. Il 14 giugno tocca alla Cassazione.
Per l'accusa, il boss palermitano di Cosa nostra Salvo Madonia è stato uno dei mandanti della strage, mentre gli altri sarebbero stati coinvolti nella fase esecutiva dell'attentato. Nel corso del processo, alcuni collaboratori di giustizia hanno detto che "oltre a dovere uccidere il giudice Giovanni Falcone, si dovevano eliminare Maurizio Costanzo, Michele Santoro e Pippo Baudo per allontanare l'attenzione dalla Sicilia e creare un certo allarme nel centro Italia". Ognuno "aveva un compito ben preciso e Messina Denaro diede 5 milioni di lire ciascuno per quella trasferta. A un certo punto arrivò l'ordine di tornare in Sicilia".
Poliziotti alla sbarra: "Colossale e inaudito depistaggio"
E' alle battute finali il processo di primo grado sul presunto depistaggio delle indagini successive alla strage di via d'Amelio. L'11 maggio scorso, al termine della sua requisitoria, il procuratore capo di Caltanissetta Salvatore De Luca ha chiesto la condanna a 11 anni e 10 mesi di reclusione per Mario Bo e a 9 anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, i tre poliziotti, ex componenti del Gruppo Falcone Borsellino, accusati di calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra.
"Questo gigantesco, inaudito depistaggio - ha detto De Luca ha voluto coprire delle alleanze strategiche di altro livello di Cosa nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza. Tutti sapevano che Scarantino era un personaggio delinquenziale di serie C". E' finita archiviata, invece, da tempo, a Messina, l'indagine a carico di alcuni magistrati sulla presunta manipolazione di Scarantino.
L'ultimo padrino
Fissata per il 22 giugno, con la riapertura dell'istruttoria dibattimentale, l'udienza del processo in Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta nei confronti di Matteo Messina Denaro accusato di essere stato tra i mandanti delle stragi di Capaci e via D'Amelio. Chiamato a deporre in aula, in quella data, un perito che riferirà sulle trascrizioni effettuate su una conversazione ambientale.
Il superlatitante nell'ottobre del 2020 in primo grado venne condannato all'ergastolo. Capo della mafia trapanese, ricercato dal 1993, è ritenuto uno dei responsabili della linea stragista di Cosa nostra imposta dai corleonesi di Totò Riina con il quale, avrebbe pianificato negli anni '90 l'attacco alle istituzioni. Il boss di Castelvetrano era già stato condannato per le bombe al nord Italia del 1993. Resta l'ultimo padrino. AGI
La massoneria, le mafie e quel Sistema criminale in grado di condizionare le scelte politiche. Marta Capaccioni e Mattia Fossati su antimafiaduemila.com il 29 Maggio 2022.
A Milano la conferenza con Giuseppe Lombardo, Salvatore Borsellino e Alessandro Di Battista
“Questo Paese è indegno nella misura in cui si accontenta di verità parziali, di verità distorte e non ha la forza di cercare fino fondo le risposte che servono per diventare davvero un Paese civile”. Sono state le parole del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo intervenuto all’incontro dello scorso venerdì, intitolato “Mafie e Massoneria: il patto letale per strangolare l’Italia”. Al dibattito, introdotto dal Consigliere Luigi Piccirillo e moderato dal caporedattore di ANTIMAFIADuemila Aaron Pettinari, hanno partecipato anche Alessandro Di Battista e Salvatore Borsellino.
Durante il convegno, caduto il giorno dell’anniversario dell’attentato di Via dei Georgofili a Roma e a quattro giorni da quello della strage di Capaci, non si è parlato solo del rapporto tra mafia e massoneria, ma anche di mancate verità, di passerelle politiche e di molto altro. Come ha detto Salvatore “a trent’anni di distanza dalle stragi, a Palermo si è scatenato una sorta di carnevale, perché alle commemorazioni erano presenti persone che dovrebbero nascondere i propri volti con delle maschere. Mentre si proclamano come eroi Falcone e Borsellino, si procede ad eliminare quel patrimonio di leggi che avevamo per combattere la mafia e arrivare alla verità sulle stragi”. Chiaro riferimento alla nuova legge sull’ergastolo ostativo di cui il Parlamento discuterà durante l’estate e che a novembre potrebbe subire una pesante modifica da parte della Corte Costituzionale. Un colpo di mano bissato dalla riforma della giustizia, approvata dal Parlamento nel settembre del 2021. “Oggi - ha affermato Borsellino - la giustizia che vorrei vedere è sempre più lontana. La riforma della giustizia attuale è una rinuncia dello Stato ad essere uno stato di diritto. L’improcedibilità è un concetto assurdo, la corte europea ci chiede di accorciare la durata dei processi non di annullarli”. Un’amara constatazione che potrebbe rendere vero un altro pensiero di Salvatore Borsellino: “Si dovrebbe scrivere in tribunale che la legge non è uguale per tutti dato che i potenti potrebbero procrastinare a vita il proprio processo”. Ecco perché, sostiene il fratello di Paolo, è fondamentale continuare a supportare il lavoro dei magistrati: “Sono sempre salito sulle barricate per difendere i magistrati. Ho difeso De Magistris quando gli sono state sottratte le sue inchieste, così come ho sempre difeso Nino Di Matteo. Continuerò a salire sulle barricate anche a 90 anni per difendere la magistratura”. Quest’evento, infatti, è stato fortemente voluto da Salvatore sia per accendere un faro sul rapporto tra le stragi del ’92 –‘93 e la massoneria che per denunciare la mordacchia che la politica sta mettendo alla giustizia. Un campanello d’allarme colto anche da Alessandro Di Battista, anche lui relatore dell’evento: “Oggi la magistratura è delegittimata per colpa di quei magistrati che hanno voluto la delegittimazione. Devono continuare a lavorare a testa bassa al servizio della collettività”. Ecco perché è importante che parlino non solo attraverso le sentenze ma anche in incontri pubblici con i cittadini, come sottolinea lo stesso ex deputato del Movimento 5 Stelle: “Io mi ricordo che conobbi il pm Lombardo qualche anno fa, quando lo invitammo alla Camera assieme a Nino Di Matteo per parlare di lotta alla mafia. Credo sia un nostro diritto ascoltare Lombardo quando parla di 'Ndrangheta perché è un dovere dei giudici parlare, non solo attraverso le sentenze. Queste occasioni poi sono anche un modo per spiegare perché è intollerabile fare parte di questo governo. Stiamo parlando di un governo dove c’è anche Forza Italia”.
Di Battista ha evidenziato l’ipocrisia di “persone che qualche anno fa protestavano davanti al tribunale di Milano” e che “ora sono tutti lì solo per la poltrona”.
Figure che hanno votato la fiducia ad un governo in cui è presente anche il partito fondato da Silvio Berlusconi e dall’ex senatore Dell’Utri (condannato definitivo per concorso esterno), con la scusa della “campagna di vaccinazione”. "Cosa rispondevo loro? - ha aggiunto Di Battista - che c’è anche la lotta alla mafia che ora non fa più nessuno”.
Per l’ex grillino stare dalla parte dei magistrati significa ribellarsi nei confronti di quella classe politica che sta facendo qualsiasi cosa per impedire alla magistratura di proseguire le proprie inchieste, in particolare quelle riguardanti i mandanti a volto coperto delle stragi e le collusioni con i servizi segreti. “Mi ricordo che qualche anno fa, il magistrato Roberto Scarpinato nel giorno dell’anniversario di Via d’Amelio parlò di tutti i depistaggi avvenuti in Italia, dalla strage di Portella della Ginestra alle bombe del ‘93. Tutto questo ci permette di dire che non bisogna più parlare di servizi segreti deviati, ma di servizi segreti che hanno obbedito a degli ordini. Qualcuno ha ordinato di compiere quelle azioni di depistaggio. La sentenza Borsellino Quater ha affermato che quella vicenda è stato uno dei più grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana, si parla del principale depistaggio della storia repubblicana. Io ricordo che Francesca Castellese, moglie di Santino Di Matteo, venne intercettata mentre disse al marito di non parlare degli infiltrati della polizia in Via d’Amelio perché ‘abbiamo anche un altro figlio’”.
Nel suo intervento ha poi ricordato un’intervista recente sul Post Internazionale, in cui Lucio Caracciolo affermava che “Dopo la sconfitta della seconda guerra mondiale siamo diventati una democrazia a sovranità limitata e questo può spiegare anche le stragi”.
Una frase che apre un mondo.
“Il mio sospetto - ha aggiunto Di Battista - è che i veri ideatori di quella stagione siano tuttora al potere. Sono sicuro infatti che se Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, avesse rilasciato un’intervista soft nella quale affermava di volersi prendere una pausa e poi iniziare la caccia dei killer che avevano ucciso il suo più caro amico molto probabilmente non sarebbe stato ucciso. A volte, le interviste servono per mandare dei precisi messaggi”.
Lombardo: 'Ndrangheta militare non conta nulla, è la componente invisibile che ha potere reale
“La ‘Ndrangheta di base, militare, cioè quella visibile non conta nulla, non ha nessun potere reale. Quello che conta sta ad un livello talmente alto che non sembra ‘Ndrangheta: è la componente invisibile della ‘Ndrangheta che conta davvero e quella è una componente massonica”. Con poche e semplici parole Giuseppe Lombardo ha descritto l’evoluzione della ‘Ndrangheta dagli anni ’90 ad oggi, la politica di sommersione che le ha permesso di non apparire mai coinvolta nelle stragi e la capacità di strutturarsi in modo tale da preservare l’organizzazione mafiosa dalle collaborazioni con la giustizia, che invece fin dagli anni ’80 hanno fatto emergere gli assetti interni di Cosa Nostra. Attualmente non si può parlare di Cosa Nostra senza parlare anche di ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita o altre organizzazioni criminali. Infatti, come ha spiegato Lombardo “parlare di mafie storiche oggi è assolutamente errato”, in quanto si tratta di qualcosa ormai di “superato e antistorico”. Ma in questo Paese da parte della maggior parte dei mezzi di informazione “è semplicissimo raccontare ciò che è stato accertato, ciò che probabilmente non è più attuale e ciò che certamente non fa più paura”. “Ci sono acquisizioni di grande rilievo, di 30 anni fa”, ha continuato il procuratore, “che ci dicono che questo tipo di approccio non porta a nulla. Questo era il metodo Falcone, il metodo di chi ha capito che un approccio settoriale non fornirà mai risposte chiare su quelle che sono le componenti apicali di questo sistema criminale e spesso e volentieri occulte”. Già 30 anni fa, nel 1992, l’ultimo collaboratore di giustizia sentito fuori verbale da Paolo Borsellino, Leonardo Messina, aveva parlato davanti alla commissione antimafia presieduta da Luciano Violante, di verità che oggi purtroppo in pochi prendono in considerazione. Rispondendo alle domande dei parlamentari, Messina tra le tante cose parlò, citando le sue parole, di “strutture segrete o riservate di Cosa nostra che non comunicano”, perché “non è che tutti gli uomini devono sapere. Vi sono uomini che non sanno oltre la propria famiglia, o la propria decina; non tutti gli uomini, cioè, vengono messi al corrente di tutto”.
Poi parlò della componente massonica all’interno di Cosa Nostra e del fatto che ci sono persone all’interno dell’organizzazione mafiosa il cui nome deve restare sconosciuto in quanto “rivestono cariche politiche, o perché sono uomini pubblici e nessuno deve sapere chi sono. Lo sa soltanto qualcuno”. Il collaboratore rivelò anche l’esistenza di una commissione mondiale della mafia, di cui Totò Riina a partire dagli anni ’90 sarebbe diventato rappresentante e che non era solo sede di consultazione ma anche sede di decisioni importanti. Davanti a tutto questo “si può fare un contrasto evoluto senza conoscere la verità di 30 anni fa?”, è la domanda che si è fatto Giuseppe Lombardo.
In effetti oggi all’opinione pubblica viene tenuto nascosto il riferimento a questa componente invisibile o riservata che opera oltre o sopra le organizzazioni mafiose e che detiene il vero potere reale: si tratta di due mondi, il “sottomondo” e il “sovramondo”, il cui collegamento il procuratore ha spiegato utilizzando la metafora di una clessidra. La parte che poggia a terra è “la componente di base” che è “necessaria per avere il legame con determinati tipi di territori perché poi bisogna generare delle ricadute sul territorio. Poi c’è il collo stretto della clessidra che crea il collegamento tra il sottomondo e il sovramondo”. Quest’ultimo “è la parte superiore della clessidra. Il sovramondo non si palesa agli occhi della componente di base e comunica con questa attraverso un ristretto numero di soggetti che dalla componente di base vengono considerati la componente apicale e che dalla componente di vertice vengono considerati la parte di base”. La forza della ‘ndrangheta sta quindi proprio nella sua capacità di creare un’apparenza interna, per cui gli associati si sentono parte della struttura criminale e sono anche convinti di prendere decisioni, ma in realtà non sono a conoscenza dell’esistenza del mondo invisibile e quindi di quei pochissimi soggetti che veramente hanno la possibilità di decidere e che dissimulano le decisioni. L’ignoranza della componente di base rispetto alla parte che veramente conta permette all’organizzazione mafiosa di proteggersi da eventuali collaborazioni con la giustizia che potrebbero rivelare la struttura del sovramondo.
Potere economico-finanziario delle mafie in grado di condizionare scelte politiche degli Stati
“Quel sistema criminale di cui parlavamo prima che si è ulteriormente evoluto a cavallo delle stragi, negli anni successivi a quel terribile periodo storico, ha riprogrammato il suo modo di agire, recuperando una dimensione che nei primi anni ’90 del secolo scorso in parte aveva perso: la dimensione economico-finanziaria”, ha spiegato Giuseppe Lombardo. “E lo ha fatto”, ha continuato il dottore, “non perché ha il desiderio di accumulare ricchezze su ricchezze, lo ha fatto perché essendo un crimine particolarmente evoluto e moderno, sa che il potere reale sta lì e il potere reale non significa che il potere economico-finanziario è fine a sé stesso e quindi ha un peso solo all’interno di determinati circuiti, ma anche per la possibilità di condizionare le scelte finanziarie degli Stati. Nel momento in cui quegli enormi capitali c’è il rischio che siano collocati, anche in relazione ai titoli del debito pubblico, questo diventa anche un potere politico”. In effetti, se si considera che gli ultimi dati rispetto alle dinamiche criminali evolute parlano di un volume di affari di circa 220 miliardi di fatturato all’anno, si comprende bene che, ove queste cifre, per esempio, venissero collocate anche solo in parte sui titoli del debito pubblico di uno Stato, “diventano condizionanti sulle scelte politiche”.
Inoltre, un ulteriore elemento che permette di capire la reale evoluzione della ‘ndrangheta nella gestione mondiale del narcotraffico e nell’utilizzo dei nuovi strumenti finanziari, è che questa già nel 2018 “era pronta a pagare partite di cocaina in criptovalute”. Per tale motivo, ha ripetuto Lombardo, “dobbiamo essere immediatamente in grado di immaginare quali sono le tendenze evolutive di questi fenomeni così complicati e complessi, perché dobbiamo ridurre enormemente la distanza nella reazione investigativa che bisogna contrapporre a questi fenomeni”.
L’importanza di un’informazione corretta e il ruolo dei cittadini nel contrasto alle mafie
“Uno dei problemi più seri in questa Nazione è la presenza di agenzie di disinformazione, assolutamente presenti e operanti quali componenti di un determinato sistema criminale”, ha spiegato Lombardo. Sono quelle agenzie che parlano ancora nel 2022 di mafie storiche, che deviano la realtà dei fatti o che raccontano che oggi in Italia è rimasto da catturare un solo grande latitante, Matteo Messina Denaro.
“La Calabria”, ha aggiunto il procuratore, “è totalmente fuori da qualsiasi circuito informativo che abbia una rilevanza nazionale e anche internazionale e per il ruolo che la 'Ndrangheta ha a livello mondiale questo è inaccettabile, perché l’informazione ha un ruolo fondamentale, per la capacità di trasformare il linguaggio giuridico in un qualche cosa che diventi un elemento in grado di demolire culturalmente i fenomeni mafiosi. Senza informazione quelle sentenze rimarranno nella disponibilità di pochissimi”. In questo ognuno di noi, indipendentemente dal ruolo che riveste nella società, può trasformarsi in “veicolo di conoscenza a favore di chi non vive all’interno dei circuiti giudiziari o di polizia giudiziaria”. Così si rendono le mafie “immediatamente riconoscibili e contrastabili attraverso azioni quotidiane, a volte anche banalissime, che diventano particolarmente decisive quando sono strutturate all’interno di una rete di supporto che non fa percepire al singolo cittadino che le subisce un senso di solitudine e di impotenza, che è inaccettabile. Questo dovrebbe fare uno Stato particolarmente evoluto e soprattutto dovrebbe fare uno Stato come il nostro che ha vissuto quello che ha vissuto”. “Io una certezza ce l’ho”, ha concluso il procuratore, “noi siamo molto più forti di loro. Le persone devono avere sempre chiaro qual è la parte giusta della barricata. E la parte buona di questo Paese non sono soltanto i magistrati, i poliziotti, i finanzieri. La parte buona di questo paese siete voi. Fate fino in fondo la vostra parte e il giorno in cui arriverà la notizia che Messina Denaro è stato catturato fatevi i complimenti”.
Capaci, trent’anni fa la «sfida» più atroce. «Il dolore e la vergogna» titola un editoriale. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Maggio 2022.
«La sfida più atroce» titola La Gazzetta del Mezzogiorno di trent’anni fa. Il 24 maggio 1992 l’Italia è sconvolta dalla notizia della strage di Capaci, avvenuta il giorno prima, in cui morirono i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo e i tre poliziotti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. In prima pagina, oltre alla foto del giudice simbolo della lotta alla mafia, anche uno scatto del luogo della carneficina sull’autostrada Trapani-Palermo. «Il dolore, la vergogna» è il titolo dell’editoriale di Pietro Marino, che riporta le prime reazioni dei leader di partito. Ma, si chiede il giornalista, «i politici hanno finalmente capito che così non si può andare avanti? Può darsi (ma non ci giuriamo) che il Parlamento dia subito la prima risposta al nuovo violentissimo attacco criminale ponendo fine all’indecoroso spettacolo di rissosa impotenza che sta offrendo alla gente: oggi stesso – si mormora – potrebbe essere eletto il Capo dello Stato». In quei giorni, infatti, si sta consumando «il gioco al massacro», per usare le parole di Craxi, per eleggere il successore di Cossiga: circola il nome di Spadolini come favorito. Sarà eletto, invece, Oscar Luigi Scalfaro.
«Perché proprio ora?», si domanda Marino. «Il coinvolgimento della moglie richiama alla mente l’uccisione del generale Dalla Chiesa con la sua sposa. La spaventosa potenza dell’esplosione somiglia alle stragi dei treni, dalla stazione di Bologna all’Italicus. La fine dei tre agenti, ancora una volta eroi anonimi e umili del servizio allo Stato, tutti e tre figli della Puglia – (per alcune ore circola la notizia, errata, che Schifani fosse originario di Ostuni)–, ripropone quello dello scorta di Aldo Moro in via Fani».
Gli agenti, appunto: «tre vite spazzate, cancellate dalla violenza omicida della Piovra. Erano tre ragazzi venuti dal Sud, entrati a far parte della scorta di Giovanni Falcone da diversi anni». Sfogliando le pagine del quotidiano si avverte la complessità del momento: oltre alla terribile strage, grande spazio è dedicato alle dimissioni irrevocabili del segretario della Dc Forlani, allo sviluppo dell’inchiesta «Mani pulite», condotta dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro, al conflitto in Bosnia Erzegovina.
Anche in Puglia, però, qualcosa si sta muovendo sul piano della lotta alla criminalità: significativa è l’intervista di Dionisio Ciccarese all’arcivescovo di Bari sull’emergenza «malavita» nella città vecchia. « È l’ora del coraggio», afferma Mons. Magrassi.
Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 21 maggio 2022.
[…] Non è una famiglia come tante quella ritratta nella foto che Repubblica è in grado di mostrare in esclusiva. L'anziano ammalato - che morirà pochi mesi dopo, il 17 novembre 2017 - è Salvatore Riina, il famigerato capo dei capi di Cosa nostra siciliana: alla fine degli anni Settanta aveva scatenato la guerra allo Stato, nel 1992 fece saltare in aria i giudici Falcone e Borsellino. Il padrino arrivato da Corleone era al carcere duro dal 15 gennaio 1993, in quell'ala dell'ospedale di Parma era stato trasferito nel 2015, quando le sue condizioni di salute si erano aggravate.
Aveva una corsia blindata solo per lui, un 41 bis in ospedale, con uno staff di medici di prim' ordine. Quel giorno, erano venuti a trovarlo i figli Salvo e Maria Concetta, con Ninetta Bagarella.
[…] In quei giorni del 2017, si sollevò un gran dibattito dopo che le condizioni di Riina si aggravarono. Ecco la questione: giusto o no continuare a tenere al carcere duro un mafioso di 87 anni? La Cassazione intervenne per ribadire il «diritto a morire dignitosamente », lo scrisse in un provvedimento che accoglieva un ricorso dei legali del padrino di Corleone.
Un ricorso contro la decisione del tribunale di sorveglianza che aveva negato a Riina il differimento della pena o gli arresti domiciliari per motivi di salute: i giudici della Cassazione chiesero una nuova istruttoria. Alla fine, il boss restò comunque nel suo bunker in corsia.
Intanto, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria assicurava non solo il massimo della sorveglianza in ospedale per il capo di Cosa nostra, ma anche il colloquio mensile con i suoi familiari. Tutto secondo le regole del 41 bis stabilite all'indomani della strage Falcone.
Riina era tenuto sotto controllo 24 ore su 24 non solo dal reparto di eccellenza della polizia penitenziaria, il Gom, ma anche dai magistrati della procura di Palermo: le intercettazioni venivano esaminate con cura dal sostituto procuratore Roberto Tartaglia (oggi vice capo del dipartimento delle carceri) e dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che indagavano su alcuni strani movimenti dei mafiosi corleonesi in Sicilia.
A rivedere oggi quell'immagine di Riina con i suoi familiari, tratta dai video di sorveglianza in corsia, viene da pensare che lo Stato abbia rispettato il monito della Cassazione: «Anche i mafiosi hanno diritto a morire dignitosamente». Senza che venga tolto il conforto dei propri cari. […]
Dedicato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per non dimenticare. Le esplosioni delle bombe sono sempre troppo assordanti per far finta di niente. Sono anni sfiancanti. Per l’Italia, per il mondo. L’Espresso è stato uno dei pochi giornali che ha sostenuto i due magistrati in quel periodo buio e avvelenato. E a trent’anni dalle stragi siamo tornati a fare memoria. Lirio Abbate su L'Espresso il 13 Maggio 2022.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino segnano in modo irrevocabile prima la lotta alla mafia, e poi le idee di un Paese intero. Cristallizzati e idealizzati nel momento del sacrificio, assurgono allo stato di eroi senza macchia, abbattuti vigliaccamente dai cattivi. E si sa che i cattivi sono sempre quelli che attirano di più l’interesse del pubblico. Comincia così una sorta di fascinazione per gli esponenti più in vista dell’organizzazione mafiosa: Giovanni Brusca, Filippo e Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro.
Il 1992 è quello che più di ogni altro rappresenta il punto di passaggio tra il prima e il dopo. Già da decenni in realtà, per non dire da secoli, la mafia spadroneggiava, uccideva e imponeva la sua legge: non è certo questa la novità. Ciò che cambia dopo i fatidici 57 giorni che separano il cratere di Capaci dalla devastazione di via d’Amelio è la disposizione d’animo della nazione. Se prima si dimenticava, si cercava di non vedere, adesso d’un tratto il vaso di Pandora è stato scoperchiato. Quello tra Cosa nostra e il Paese è un rapporto incancrenito e denso di sofferenze. Sono un po’ come due amanti alla fine di una storia malata: l’Italia sempre pronta a cedere alla secolare tentazione di dimenticare e di girare pagina, la mafia che torna, vuole fare male, riapre di continuo la vecchia ferita.
Tra il 1992 e il 1993, se c’è qualcuno che spera di chiudere gli occhi e scordarsi del passato, viene bruscamente riportato alla realtà, mese dopo mese. Le esplosioni delle bombe sono sempre troppo assordanti per far finta di niente.
L’apogeo della potenza e della capacità distruttiva della mafia è racchiuso in un periodo tutto sommato breve: dopo le stragi del 1992, già nel gennaio del 1993 viene arrestato Riina, mentre nel gennaio del 1994 fanno la stessa fine anche Giuseppe e Filippo Graviano. Con le sue macchinose procedure, con le sue mille incertezze bizantine, l’elefantiaco corpo dello Stato ha iniziato a reagire. A pungolarlo è un’opinione pubblica sempre più accesa, e non solo dallo sdegno provocato dal sacrificio dei due eroi civili. L’arresto dei Graviano simbolicamente può essere visto come la chiusura di un’era breve e sanguinaria. Da quel momento la mafia cambia strategia, dalle bombe si passa al silenzio. I criminali cercano di inabissarsi, di togliersi dai riflettori. Troppo clamore non fa bene agli affari.
Gli anni del sangue sono quindi in realtà poco più di ventidue mesi, tra il maggio del 1992 in cui perde la vita Falcone e il gennaio del 1994 in cui i due Graviano finiscono in manette. Sarebbe impossibile comprendere il senso profondo dell’offensiva mafiosa e della risposta dello Stato senza tracciare anche solo a grandi linee il contesto nazionale e internazionale. Nei ventidue mesi fatali sono compressi infatti molti punti di svolta per un gran numero di questioni diverse. Impossibile condensarne le complessità in un solo termine. Anche se forse c’è una parola che potrebbe fare da etichetta a questo lungo e spesso atroce intervallo: sfiancante.
Sì, sono anni sfiancanti. Per l’Italia, per il mondo. L’Espresso quegli anni li ha raccontati. Ed è stato uno dei pochi giornali che ha sostenuto Falcone e Borsellino in quel periodo buio e avvelenato per i due magistrati. In linea con l’identità di questo giornale. Ieri, oggi e lo sarà anche domani.
A trent’anni da quelle stragi noi siamo tornati a ricordare, a fare memoria, a testimoniare, e perciò ringrazio tutti quelli che hanno accettato di scrivere per questo speciale che trovate in edicola da domenica 15 e online. Dedicato a Falcone e Borsellino e alle vittime innocenti della mafia.
Anticipazione da “Oggi” il 18 maggio 2022.
Tony Gentile, il fotografo dello scatto più famoso di Falcone e Borsellino, esposto negli uffici pubblici, nelle caserme, nelle scuole, racconta a OGGI, in edicola da domani, cosa c’è dietro quell’istantanea, la numero 17 del rullino, e rivela che per decisione di un giudice non un’opera dell’ingegno e quindi, trascorsi 20 anni, è di tutti.
«Eppure per lei ho ricevuto anche un’onorificenza, qualcuno le ha riconosciuto un valore e allora dico: è giusto che venga difesa, protetta», dice. La sentenza è del 2020, confermata in Appello, ora Tony Gentile attende la Cassazione «con fiducia, ma non tanto», mentre un nuovo rifiuto è giunto a inquietarlo. La foto è diventata il soggetto della moneta da 2 euro con cui verranno ricordate le stragi del ‘92: 3 milioni di pezzi inonderanno l’Italia.
«Mi contattò la Zecca», spiega, «per chiedermi una liberatoria all’utilizzo del soggetto da parte dell’incisore. Poi più niente. Il motivo? Nel frattempo avevano saputo della sentenza, non c’era più bisogno del mio consenso. Lo Stato, dico lo Stato, che certifica che io non esisto, che quella foto non vale nulla. Sia chiaro, mi trovo a difendere un principio che sembra interessare pochi: la musica, l’arte e io dico anche la fotografia sono sempre il frutto di una scelta, di un gesto creativo».
Rita Atria, la settima vittima di via D'Amelio. Documenti inediti nel libro di Cucè, Furnari e Proto. Lucio Luca su La Repubblica il 9 Giugno 2022.
Il volume pubblicato da Marotta&Cafiero Editori sarà presentato sabato 11 giugno alle ore 18 a Palermo nel corso di Una Marina di libri a Villa Filippina.
Quel 19 luglio, in via D’Amelio, esattamente trent’anni fa, le vittime non furono sei. Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, certo. Ma non soltanto loro. Perché a distanza di un migliaio di chilometri, in uno squallido appartamento del quartiere Tuscolano, quel giorno cominciò a morire anche una ragazzina trapanese di nemmeno 18 anni, figlia e sorella di mafiosi uccisi nella terribile faida di Partanna, che a Borsellino aveva affidato la sua vita di collaboratrice di giustizia. Si chiamava Rita Atria, il 19 luglio del 1992 capì che per lei non c’era più alcun futuro.
“Io sono Rita, la settima vittima di via D’Amelio”, pubblicato da Marotta&Cafiero Editori, la casa editrice indipendente open access di Scampia, non è soltanto un libro che ripercorre il calvario di quella ragazzina, fuggita dalla sua famiglia, da una madre che la voleva chiusa in casa, un fidanzato spacciatore nelle mani della mafia, gli sguardi di un paese che non sentiva più suo. No, si tratta piuttosto di una contro-inchiesta giudiziaria fatta sulle carte ingiallite della Procura che, finalmente, sono venute fuori grazie alla determinazione di tre donne: Giovanna Cucé, giornalista del Tg1, Nadia Furnari, fondatrice e vicepresidente nazionale dell’Associazione Antimafie Rita Atria e Graziella Proto, direttrice della rivista antimafia Le Siciliane/Casablanca.
Rita Atria Documenti e verbali inediti e una serie di dubbi sui quali, con ogni probabilità, regnerà per sempre il mistero. L’unica impronta ritrovata nell’appartamento del Tuscolano e mai nemmeno comparata con quelle di Rita dopo il suicidio della ragazza avvenuto il 26 luglio del ’92, una settimana dopo la strage di via D’Amelio. L’agendina di Rita, con tanti numeri “sensibili”, fatta sparire con una semplice richiesta - senza un nome né un cognome - al magistrato incaricato dell’inchiesta quando la giovane trapanese era ancora all’obitorio dell’ospedale, i suoi spostamenti senza protezione, i venti giorni in un liceo classico della capitale dove era stata trasferita dall’Alto Commissariato antimafia, le indagini sulla morte della ragazza chiuse – forse – un po’ troppo in fretta.
Non ci sono accuse ma solo una minuziosa ricostruzione di quella settimana terribile conclusa con quel corpo che si lascia cadere dal settimo piano di una palazzina anonima del Tuscolano. Dove, peraltro, Rita era riuscita a trasferirsi solo da qualche giorno, dopo aver convissuto per mesi con la cognata Piera Aiello – oggi parlamentare – anch’essa collaboratrice di giustizia dopo l’uccisione del marito Nicola.
“Se dovessi morire non devi piangere, anzi, brindare, perché, finalmente, raggiungerò le persone che ho veramente amato, mio padre e mio fratello”, è il saluto inaspettato che Rita rivolge a Piera quando gli agenti la accompagnano nella sua nuova – ultima – dimora di via Amelia. “Ho preso una decisione importante, ma non posso dirti niente, te lo dirò al tuo ritorno”.
Giovanna Cucè, Nadia Furnari e Graziella Proto “Ci sono storie che non sbiadiscono, storie che racchiudono in sé tutti i fotogrammi di una tragedia antica ed al contempo raccontano anche la nostra triste attualità – scrive nella prefazione del libro Franca Imbergamo, sostituta procuratrice nazionale antimafia - La storia di Rita Atria, la ragazza che ancora minorenne raccontò a Paolo Borsellino ed alle sue sostitute procuratrici, i segreti della mafia di Partanna, è in realtà un percorso dentro la vita di una famiglia mafiosa e di un’intera società”.
“Questo libro, scritto con autentica sincerità ed impegno civile – continua Imbergamo - ci porta a conoscere uno spaccato di vita siciliana, ci rende visibile l’essenza del dominio mafioso. Ed è anche la storia della passione di chi mette in gioco tutto in solo momento, quello della decisione di collaborare. Una passione che la porterà ad un gesto terribile, un esito tragico maturato nella solitudine vergognosamente inflitta ad una ragazza non ancora maggiorenne senza che le istituzioni chiamate a proteggerla si fossero curate della sua fragilità e della necessità di adeguato sostegno”.
Il libro: Io sono Rita. Rita Atria: la settima vittima di via D’Amelio di Giovanna Cucè, Nadia Furnari e Graziella Proto Marotta&Cafiero
Salvatore Borsellino: ''L'Italia non meritava il sacrificio di Falcone e Borsellino''. Fonte: AndKronos -AMDuemila 11 Maggio 2022
Il fratello del giudice assassinato: "A trent'anni dalle stragi la Sicilia è in mano a condannati per mafia"
"Viene davvero da pensare che Paolo Borsellino e Giovanni Falcone abbiano sacrificato la propria vita per un Paese che non lo meritava. Purtroppo al peggio non c'è mai fine. Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni in Sicilia è quanto non ci si doveva e poteva aspettare". Così ha detto all'AdnkronosSalvatore Borsellino, fratello di Paolo Borsellino, il magistrato ucciso insieme agli agenti della scorta il 19 luglio 1992 in via D'Amelio, a Palermo.
Il suo duro atto di accusa si accosta alle parole pronunciate ieri da Alfredo Morvillo, fratello di Francesca Morvillo, magistrato e moglie di Giovanni Falcone, assassinata dal tritolo dei boss 30 anni fa nella strage di Capaci assieme al marito.
"A trent'anni dalle stragi la Sicilia è in mano a condannati per mafia", aveva detto Alfredo partecipando alla presentazione del libro 'Francesca. Storia di un amore in tempo di guerra' di Felice Cavallaro.
Salvatore ha raccolto queste parole: "Purtroppo non posso che essere d'accordo - ha detto - Alfredo Morvillo utilizza toni pacati nella sua denuncia, ma dice cose vere e lo fa con forza". Il riferimento è alla campagna elettorale per le amministrative di Palermo e al ritorno al centro delle cronache politiche nelle ultime settimane di Marcello Dell'Utri e Totò Cuffaro. Entrambi hanno avuto delle vicende giudiziarie legate a Cosa Nostra. L'ex presidente della Regione siciliana dopo aver scontato una condanna per favoreggiamento a Cosa nostra, ha rifondato la 'Nuova Dc', partito che sostiene nella corsa a Palazzo delle Aquile il candidato sindaco del centrodestra, Roberto Lagalla.
Mentre Marcello Dell'Utri, cofondatore di Forza Italia, era stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Condanna finita di scontare nel 2019.
"È assurdo che due persone con condanne per mafia possano fare da grandi elettori per le elezioni siciliane - ha sottolineato il fondatore del movimento delle Agende rosse - Ancora di più che i candidati appoggiati non si dissocino in nessun modo da questo sostegno, finendo anzi per accettarlo e, in qualche caso, per ricercarlo". Insomma, avverte Salvatore Borsellino, "il problema non è Cuffaro", anche perché "nel nostro Paese esiste il diritto all'oblio", ma chi accetta il suo appoggio. "Lui è padrone di fare ciò che vuole, ha pagato il suo debito con la giustizia. Il problema è chi accetta l'appoggio di una persona dalla quale per i suoi trascorsi giudiziari dovrebbe invece assolutamente prendere le distanze". E' un tema di "opportunità morale", ha ribadito. "Esiste qualcosa che è al sopra delle leggi: l'etica e la morale, anche se in Italia non so ancora quanto esistano e che peso abbiano". Ma "non c'è da aspettarsi molto in un Paese in cui un condannato per frode fiscale, indagato dalla Procura di Firenze per cose ancora più gravi, ha potuto ipotizzare di candidarsi alla Presidenza della Repubblica tenendo in sospeso per mesi le trattative con la sua ingombrante presenza".
Ancora una volta, a 30 anni dalle stragi, il fratello di Paolo Borsellino, ha fatto sapere che non parteciperà alle cerimonie in programma il 23 maggio. "Mio fratello è stato ucciso il 19 luglio. Queste unificazioni di anniversari, forse per lavarsi la coscienza più in fretta, non le ho mai accettate e continuerò a non accettarle". Il 23 maggio non sarà all'Aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. "Non ci sono mai stato e non farò un'eccezione quest'anno. Le manifestazioni istituzionali non mi interessano", dice Salvatore Borsellino, per il quale quelle stesse "Istituzioni che ancora non sono state capaci a 30 anni di distanza di dare verità e giustizia dovrebbero evitare di presenziare a cerimonie in ricordo di servitori dello Stato che per fare fino all'ultimo il loro dovere hanno sacrificato la loro vita". L'invito, allora, è "a non fare passerelle". In via D'Amelio il 19 luglio non ci saranno palchi e interventi. "Poiché in questo 30ennale delle stragi si scateneranno i megafoni della retorica e parlerà anche chi, come disse mio fratello tanti anni fa, ha perso il diritto di parlare, quest'anno faremo una manifestazione all'insegna del silenzio. La chiameremo 'La voce del silenzio'. Non ci saranno né palchi né dibattiti, perché ai megafoni della retorica vogliamo rispondere con il silenzio". Su una semplice pedana allestita là dove il tritolo di Cosa nostra spezzò le vite del giudice Paolo Borsellino e dei suoi 'angeli' si esibirà il violoncellista Luca Franzetti. "Eseguirà le sei Suites per violoncello di Bach, in particolare la numero 2, ispirata alla rabbia, e la 3 all'amore: i due sentimenti che mi hanno tenuto in piedi in questi 30 anni", ha concluso Salvatore Borsellino.
Il fratello di Borsellino: "Quest'anno via D'Amelio vietata alle passerelle". La Repubblica il 18 Luglio 2022.
Basta alle passerelle di autorià. celebrazioni vietate a chi non collabora alla verità su via D'Amelio. Lo dice, alla vigilia del trentennale della strage, il fratello del giudice paolo Borsellino, Salvatore: "Sono passati trenta lunghi anni senza verità. Sono stati celebrati numerosi processi, ma ancora attendiamo di conoscere tutti in nomi di coloro che hanno voluto le stragi del '92-'93. Abbiamo chiaro che mani diverse hanno concorso con quelle di Cosa nostra per commettere questi crimini, ma chi conosce queste relazioni occulte resta vincolato al ricatto del silenzio. Ora chiediamo noi il silenzio. Silenzio alle passerelle. Silenzio alla politica".
E così via D'Amelio, epicentro delle manifestazioni del 19 luglio, diventa strada "vietata alle passerelle politiche".
"Invece di fare tesoro di ciò che in questi trent'anni è successo - aggiungono Salvatore Borsellino e il movimento delle Agende rosse - ci accorgiamo che la lotta alla mafia non fa più parte di nessun programma politico. Anzi, alcuni recenti provvedimenti legislativi, come la cosiddetta riforma che introduce il principio dell'improcedibilità per numerosi tipi di reati e la cosiddetta riforma dell'ergastolo ostativo in discussione presso il Senato, fanno carta straccia degli insegnamenti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Adesso basta con queste disonestà. I cittadini si aspettano dalle istituzioni azioni concrete, dissociazioni dalla mafia e soprattutto trasparenza per riavere la loro fiducia. Quest'anno la nostra giornata di memoria si intitolerà "Il suono del silenzio" e poichè niente deve poter rompere questo silenzio, se non la musica, ci sarà in via D'Amelio soltanto una pedana sopra la quale un grande violoncellista, Luca Franzetti, che abbiamo scelto non soltanto per la sua arte ma anche per il suo grande impegno civile, suonerà e commenterà le sei suites per violoncello solo di Bach, in particolare la numero 2, ispirata alla rabbia e la numero 3, ispirata all'amore".
Fiammetta Borsellino: «Non partecipo agli anniversari di via D’Amelio. Mio padre fu lasciato solo e tradito». su L'Espresso il 24 giugno 2022.
La figlia di Paolo Borsellino diserterà le cerimonie. E a L’Espresso dice la sua su magistrati, depistaggi e riforme. «Una parte si è appropriata della memoria, anche indebitamente, monopolizzandola. Quando ho denunciato la solitudine di mio padre e il tradimento da parte dei suoi colleghi ho sentito il gelo intorno a me». Piero Melati su L'Espresso il 24 giugno 2022.
Il trentennale della strage di via D’Amelio per Fiammetta Borsellino è cominciato così. Una mattina si è affacciata al balcone della sua abitazione, nel quartiere palermitano della Kalsa, lo stesso dove suo padre è nato e cresciuto. Sul muro di fronte, come una apparizione, ha visto un murales a colori che ritraeva il giudice Paolo Borsellino, in giacca e cravatta, con la mano sinistra in tasca e con la destra a reggere quella borsa che è stata sottratta il 19 luglio del 1992 dalla sua auto blindata ancora in fiamme, dopo l’esplosione dell’autobomba.
Parla la figlia del magistrato. “Paolo Borsellino tradito dai Pm, non è stato ucciso solo dalla mafia”, parla Fiammetta la figlia del magistrato vittima della strage di via D’Amelio. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Luglio 2022.
«Ho deciso di disertare tutte le manifestazioni ufficiali per la strage di via D’Amelio fino a quando lo Stato non spiegherà cosa è accaduto davvero e non dirà la verità: nonostante le celebrazioni, si è sempre fatto un lavoro diametralmente opposto su questo barbaro eccidio». A dirlo è Fiammetta Borsellino, la figlia di Paolo, il magistrato palermitano che trenta anni fa perse la vita nell’attentato di via D’Amelio assieme a cinque agenti della sua scorta. Fiammetta, in questi giorni non si trova a Palermo e nessuno è riuscito a farle cambiare idea. «Mio padre non è stato ucciso solo da Cosa nostra, ma il lavoro di Cosa nostra è stato ben agevolato da persone che sicuramente hanno tradito», prosegue Fiammetta.
Erano le 16:58 del 19 luglio del 1992 quando una Fiat 126 rubata e imbottita di 90 chilogrammi di esplosivo telecomandato a distanza esplose in prossimità del civico 21, proprio nel momento in cui il magistrato stava entrando nella casa della madre. Da quel giorno un susseguirsi di presenze continue nell’abitazione di casa Borsellino invase la vita dei tre figli Lucia, Manfredi e Fiammetta, oltre che della moglie Agnese. «A casa mia da quando è morto mio padre, è entrato chiunque. Ma se all’inizio questa presenza continua era giustificata come forma di attenzione, alla luce di tradimenti e depistaggi, ci ha fatto capire che c’era una forma di controllo, una necessità di una sorta di ‘stordimento’. Ad una finta attenzione non è infatti seguito alcun percorso di verità: abbiamo avuto solo tradimenti e false rappresentazioni». Fiammetta, la più giovane dei tre figli del magistrato, ha ingaggiato una battaglia di verità soprattutto negli ultimi anni da quando, dopo la sentenza di primo grado del Borsellino Quater, poi confermata dalla Cassazione, si è accertato che le dichiarazioni rese dall’allora super teste dell’accusa Vincenzo Scarantino furono “al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”.
Furono diversi i magistrati che si occuparono di Scarantino, ad iniziare da Ilda Boccassini. «Lei non sapeva dire di no alle pressioni del questore Arnaldo La Barbera», puntualizza Fiammetta: «Per mettersi il ferro dietro la porta ha scritto una letterina al procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra. Io dico che se la dottoressa Boccassini aveva qualche dubbio sul falso pentito Scarantino doveva fare una denuncia pubblica, così è troppo comodo». «La Boccassini – ricorda Fiammetta – è quello stesso magistrato che ha autorizzato dieci colloqui investigativi di Scarantino nel super carcere di Pianosa e poi si è saputo che servivano a fargli dire il falso con torture e minacce». «Ilda Boccassini chiede ai colleghi di applicare le norme del codice perché si rende conto di ciò che fanno, una cosa così grave non la puoi scrivere in una letterina. E darla a un procuratore che poi la mette in un cassetto e la lascia lì. Per me la denuncia è un’altra cosa. La si fa pubblicamente. Come mi ha insegnato mio padre. Io l’ho letto come un mettersi il ferro dietro la porta. Questa non è una denuncia o stoppare un percorso deviato», continua Fiammetta. La figlia del magistrato è da sempre critica verso quella magistratura che non ha saputo (o voluto), a tempo debito, effettuare indagini efficaci per scoprire gli autori della strage.
Fu solo grazie al pentito Gaspare Spatuzza che Scarantino si scoprì essere un taroccatore. «Abbiamo avuto magistrati che non hanno fatto le verbalizzazioni dei sopralluoghi nei garage dove Scarantino diceva di avere rubato la macchina. Se fosse stato fatto un verbale ci si sarebbe resi subito conto della inattendibilità di Scarantino che non sapeva neppure come si apriva quel garage, se non avessero delegato segmenti di indagine ai servizi segreti, se avessero esercitato quel controllo previsto dalla legge sugli organi investigativi il depistaggio non ci sarebbe stato. Tutto questo non può avvenire sotto gli occhi di chi invece deve controllare e coordinare, cioè i magistrati», prosegue ancora Fiammetta.
«Se un medico avesse sbagliato un’operazione di questo tipo – aggiunge – sarebbe stato messo subito dietro le sbarre, qui invece si è deciso di non avviare nessuna indagine, né sul piano disciplinare o penale. E quel poco che si è fatto è stato subito archiviato. C’era la volontà della magistratura di non guardare dentro se stessa, perché si doveva partire da quella frase che disse mio padre quando definì la Procura di Palermo ‘quel nido di vipere’”. «Mio padre, pochi giorni prima di quel tragico 19 luglio 1992 disse a mia madre che “non sarà la mafia ad uccidermi, ma i miei colleghi che glielo permetteranno”. Bene, qualcuno vuole andare a vedere finalmente cosa c’era dentro quel ‘nido di vipere’?», conclude Fiammetta. Paolo Comi
Borsellino, ritratto di famiglia dall'interno. Piero Melati su L'Espresso il 15 Luglio 2022.
Il lutto, l’incontro con i killer del padre, il gelo con lo Stato, le scuse mai arrivate. I figli del giudice si raccontano in un libro. Nato al tavolino di un bar
Questo libro, Paolo Borsellino, per amore della verità, è stato tessuto da due donne, Lucia e Fiammetta Borsellino. L’autore ha fatto semplicemente da telaio. Con Fiammetta, la figlia minore del giudice, avevamo una consuetudine. Prima della pandemia, ci incontravamo al mattino in un paio di bar del quartiere palermitano della Kalsa, mentre le sue figlie Felicita e Futura erano a scuola.
La figlia di Borsellino e le accuse choc: “Papà e Giovanni Falcone morti perché abbandonati dai colleghi”. Il Tempo il 19 maggio 2022
«Non è questa città che ha ucciso mio padre e Giovanni Falcone. Sono passati 30 anni e ormai ci siamo rassegnati all’idea che noi familiari di tutte le vittime delle stragi non avremo mai una verità giudiziaria. Perché nessuno ha voluto guardare dove si doveva guardare da subito, a quel palazzo di giustizia covo di vipere, come lo chiamava mio padre». A parlare in maniera così forte in un’intervista a Repubblica è Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso dalla mafia di Cosa Nostra il 19 luglio 1992 nella strage di via D’Amelio.
«C’è stata la mano armata di Cosa nostra ovviamente ma anche chi a questa mano armata ha spianato la strada, consegnando le teste di Falcone e Borsellino su un piatto d’argento. L’ormai famosa convergenza di interessi di cui parlava Falcone. Io oggi da figlia sono consapevole che mio padre è morto perché è stato abbandonato dai suoi colleghi» le parole di fuoco della figlia del giudice antimafia, che poi continua: «Dirò anche di più. Fin quando siamo stati zitti, il salone di casa nostra era pieno di presunti amici di mio padre che venivano a raccontare balle a mia madre. Da quando invece io ho deciso di parlare, di dire senza peli sulla lingua che le responsabilità delle stragi di Capaci e via D’Amelio sono a più livelli, da quel momento ci siamo improvvisamente ritrovati soli. Di tutto quello stuolo di magistrati che ci stava attorno non si vede più nessuno. Qualche settimana fa sono andata a Marsala, la città dove mio padre è stato procuratore, per l’intitolazione di una strada ad Emanuela Loi, una degli agenti di scorta uccisi con lui. Sono rimasta sola. Nessuno, dico nessuno dei magistrati presenti, mi ha avvicinato anche solo per salutarmi. Ma a me sta bene così».
Quanto alla prossima sentenza del processo a Caltanissetta sul depistaggio la Borsellino dice: «Non abbiamo più bisogno di sentenze di condanna che tanto non arriveranno mai. Per noi ormai sono chiare le connivenze vere, le omissioni, le menzogne, le condotte sbagliate di uomini e donne delle istituzioni che non hanno avuto rossore a presentarsi in un’aula di tribunale e a balbettare monosillabi. A essere offesi non siamo solo noi familiari ma l’intelligenza del popolo italiano».
Brunella Bololli per “Libero quotidiano” il 20 maggio 2022.
L'atto d'accusa arriva a pagina 25 de La Repubblica, eppure le parole di Fiammetta Borsellino meriterebbero la ribalta in un momento in cui c'è chi s' interroga ancora sull'opportunità di organizzare un referendum sulla giustizia italiana e se è il caso di votare sì per cambiare le cose, oppure se è meglio aspettare.
Chissà quando. La figlia del giudice assassinato dalla mafia 30 anni fa era una ragazzina quando ha realizzato che nulla sarebbe più stato come prima, la sua famiglia distrutta dall'assenza di un padre tanto amato, la decisione comunque di restare a Palermo e poi anni di processi, testimonianze, ricerca di colpevoli funestata da continui depistaggi perfino da parte di chi doveva indagare.
Ora, mentre si organizzano cerimonie e i vertici della magistratura fanno discorsi pieni di retorica per omaggiare Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, Fiammetta si sfoga. «Ormai ci siamo rassegnati all’idea che noi familiari di tutte le vittime delle stragi non avremo mai una verità giudiziaria», dice.
«Perché nessuno ha voluto guardare dove si doveva guardare: a quel palazzo di giustizia covo di vipere, come lo chiamava mio padre. Non abbiamo più bisogno di sentenze di condanna che lo affermino e che tanto non arriveranno mai. Per noi», continua la figlia del giudice, «sono chiare le connivenze, le omissioni, le menzogne, le condotte sbagliate di uomini e donne delle istituzioni che non hanno avuto rossore a presentarsi in un’aula di tribunale a balbettare sfilze di “non ricordo”.
Ad essere offesi non siamo solo noi familiari ma l’intelligenza del popolo italiano». Parole coraggiose, come quelle che affido a Libero il 25 settembre all’indomani della sentenza sul processo trattativa Stato-mafia. Perché non vi e dubbio che ci sia stata la mano armata di Cosa nostra a Palermo e a Capaci, ma «anche chi a questa mano armata ha spianato la strada, consegnando le teste di Falcone e Borsellino su un piatto d’argento».
Fiammetta Borsellino: "Mio padre e Falcone consegnati alla mafia dai loro colleghi". La Repubblica il 18 maggio 2022.
Dalla sua terrazza nel centro storico, Fiammetta Borsellino guarda Palermo senza alcun rancore. «Non è questa città che ha ucciso mio padre e Giovanni Falcone. Sono passati 30 anni e ormai ci siamo rassegnati all’idea che noi familiari di tutte le vittime delle stragi non avremo mai una verità giudiziaria. Perchè nessuno ha voluto guardare dove si doveva guardare da subito: a quel palazzo di giustizia covo di vipere, come lo chiamava mio padre.
Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 19 maggio 2022.
Dalla sua terrazza nel centro storico, Fiammetta Borsellino guarda Palermo senza alcun rancore. «Non è questa città che ha ucciso mio padre e Giovanni Falcone. Sono passati 30 anni e ormai ci siamo rassegnati all'idea che noi familiari di tutte le vittime delle stragi non avremo mai una verità giudiziaria.
Perché nessuno ha voluto guardare dove si doveva guardare da subito: a quel palazzo di giustizia covo di vipere, come lo chiamava mio padre. Lui e Giovanni Falcone, almeno nell'ultimo anno della loro vita ne avevano piena consapevolezza».
Lei era ancora una ragazzina nel 1992. Si ricorda cosa diceva suo padre?
«Dopo la strage di Capaci disse a mia madre: "La mafia ucciderà anche me quando i miei colleghi glielo permetteranno, quando Cosa nostra avrà la certezza che adesso sono rimasto davvero solo"».
E così è stato?
«Senza dubbio. C'è stata la mano armata di Cosa nostra ovviamente ma anche chi a questa mano armata ha spianato la strada, consegnando le teste di Falcone e Borsellino su un piatto d'argento. L'ormai famosa convergenza di interessi di cui parlava Falcone. Io oggi da figlia sono consapevole che mio padre è morto perché è stato abbandonato dai suoi colleghi».
Parole dure le sue
«Che occorreva dire. E dirò anche di più. Fin quando siamo stati zitti, il salone di casa nostra era pieno di presunti amici di mio padre che venivano a raccontare balle a mia madre.
Da quando invece io ho deciso di parlare, di dire senza peli sulla lingua che le responsabilità delle stragi di Capaci e via D'Amelio sono a più livelli, da quel momento ci siamo improvvisamente ritrovati soli. Di tutto quello stuolo di magistrati che ci stava attorno non si vede più nessuno. Qualche settimana fa sono andata a Marsala, la città dove mio padre è stato procuratore, per l'intitolazione di una strada ad Emanuela Loi, una degli agenti di scorta uccisi con lui.
Sono rimasta sola. Nessuno, dico nessuno dei magistrati presenti, mi ha avvicinato anche solo per salutarmi. Ma a me sta bene così».
L'ultimo processo, quello sul depistaggio, andrà a sentenza proprio in coincidenza con i 30 anni delle stragi. Non crede che riuscirà a stabilire la verità?
«Ho assistito a decine di testimonianze di magistrati, avvocati, investigatori, una sfilata di reticenza, di "non ricordo" di fatti che avrebbero dovuto segnare anche le loro vite. Una cosa, dal punto di vista umano, veramente inaccettabile, misera, pietosa. Dall'aula della corte d'assise di Caltanissetta sarei potuta uscire con un sentimento umano diverso se solo avessi percepito una disponibilità alla ricerca della verità che non ho visto».
Tanta amarezza dunque in questo trentennale dalle stragi?
«Mi creda, ormai, abbiamo trovato pace. Tutto finalmente è chiaro. Non abbiamo più bisogno di sentenze di condanna che tanto non arriveranno mai. Per noi ormai sono chiare le connivenze vere, le omissioni, le menzogne, le condotte sbagliate di uomini e donne delle istituzioni che non hanno avuto rossore a presentarsi in un'aula di tribunale e a balbettare monosillabi. A essere offesi non siamo solo noi familiari ma l'intelligenza del popolo italiano».
Come ha raccontato alle sue figlie la storia del nonno e di Giovanni Falcone?
«Capisco che può sembrare strano ma non c'è stato bisogno di raccontare loro nulla. In casa siamo stati sempre circondati dai nonni anche quando non c'erano più. C'è la bicicletta di mio padre appesa a una parete, la vecchia insegna della farmacia di famiglia, le foto della cena di riappacificazione di mio padre e Leonardo Sciascia. Ne parliamo sempre con grande serenità.
Posso dire che i nostri figli hanno vissuto quel passato come presente. Certo, a scuola, qualche volta è capitato che gli abbiano detto: "Tuo nonno è morto con un'autobomba" ma anche loro hanno imparato a gestire questa parte pubblica».
Qual è la più grande eredità che le ha lasciato suo padre?
«La faccia pulita dell'Italia, io oggi mi sento ricca, non sola, per la grandissima relazione che ho con tantissima gente onesta, vera. Ricca non certo materialmente. Quando papà è morto sul suo conto corrente abbiamo trovato un milione di lire. Perchè oltre alla nostra famiglia portava avanti quella di una sua sorella rimasta sola con sette figli e aiutava anche quelle di alcuni uomini delle forze dell'ordine a lui vicini. Era il papà silenzioso di tanti».
Il j’accuse di Fiammetta Borsellino: «L’omertà è nello Stato, questa è una certezza». Fiammetta Borsellino su L'Espresso il 18 maggio 2022.
È accettabile che i mafiosi si trincerino dietro i «non ricordo». Ma è inaccettabile il silenzio di pezzi delle istituzioni.
No che non mi sentirò appagata dall’esito dei processi sulla morte di mio padre e, soprattutto, su quel che è successo dopo: il più grande depistaggio della storia, come è stato definito. E so che tanta parte dell’opinione pubblica la pensa esattamente come me.
Nonostante l’encomiabile sforzo di pochi, pochissimi, magistrati come Stefano Luciani e Gabriele Paci, la verità giudiziaria non potrà dare conto dell’omertà di Stato che ha coperto e copre chi ha lavorato nelle istituzioni per inquinare tutto. Più mi addentro in questa melma e più il marcio risulta evidente. So però che anche questa è una verità, patrimonio ormai di tutti. O quasi.
È accettabile, fa parte della loro natura, che i mafiosi si trincerino dietro i «non ricordo». Ho incontrato i Graviano, loro negano perfino la loro stessa esistenza, negano l’evidenza. I mafiosi preferiscono morire in galera anziché parlare.
È inaccettabile però constatare il silenzio di pezzi dello Stato. I “non ricordo” di magistrati e poliziotti. L’ostinata negazione delle loro omissioni e delle loro manipolazioni. Per queste, non solo non hanno pagato ma, al contrario, sono stati premiati con riconoscimenti di carriera. Sono tutti giunti all’apice dei loro uffici. E anche questa è una verità che ci viene spiattellata davanti con violenta evidenza.
Nessuno può veramente credere che solo un manipolo di poliziotti abbia depistato le indagini sulla strage senza avalli e coperture da parte di chi ha orchestrato tutto. Senza connivenze di poteri istituzionali e della magistratura. Perché in definitiva è per questa gente che mio padre è morto. Sono le stesse persone, gli stessi settori delle istituzioni che hanno ostacolato, isolato e mandato a morire un uomo che aveva una incrollabile fede nello Stato.
Per questo, anche nell’amarezza, non resta che andare avanti, facendo tesoro di quanto abbiamo capito fin qui. La nostra consapevolezza è la spinta che mi porta a rifuggire dalle commemorazioni di facciata, anche da quelle con il crisma dell’ufficialità, e aderire con slancio, al contrario, a tutte le occasioni di confronto diretto e franco con i giovani delle scuole.
Ho ricevuto nei giorni scorsi l’invito a partecipare a un evento da parte del procuratore generale della Cassazione. Quando mi ha cercato, credevo volesse darmi conto delle doverose iniziative istituzionali adottate per sanzionare chi ha permesso che nelle istituzioni si lavorasse contro la verità. Mi ha spiegato che la prescrizione impedisce qualsiasi intervento. Ho ribattuto che dovrebbe sentire la responsabilità di spiegarlo al Paese che ha il diritto di sapere. Dovrebbe avvertire l’onere di informare tutti noi sulle ragioni che non permettono di punire gli errori commessi. Sarebbe quantomeno un atto di onestà intellettuale.
In assenza di questo, ogni altra richiesta suona come offensiva. Se il cancro della menzogna e dell’omertà infesta i palazzi, c’è una speranza che viene dal senso di giustizia e dalla purezza che constato nei giovani che incontro. Raccolgo con loro il principale insegnamento di mio padre e li invito, malgrado tutto, a considerare lo Stato come amico e non come un nemico. Perché non possiamo correre il rischio di cedere alla sfiducia, di cadere nel disfattismo. Tradiremmo il senso dell’impegno di Paolo Borsellino.
Noi stessi, noi figli siamo andati avanti e crediamo ancora nell’essenza di quello stesso Stato in cui credeva mio padre. Nell’impegno per fare della nostra terra, della nostra città un posto dove è bello vivere e per il quale vale la pena spendersi.
Dobbiamo tutti quanti andare avanti, andare oltre. Senza mai dimenticare. E se il depistaggio rende impossibile il miracolo della completa verità giudiziaria, abbiamo già tutti gli elementi per giudicare e comprendere ciò che è realmente accaduto.
30 anni dalla strage di Via D'Amelio. La furia di Fiammetta Borsellino: “Sulla strage di via D’Amelio lo Stato non ci ha detto la verità”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Luglio 2022.
Ci sono due date nei prossimi giorni che non potranno essere dimenticate: il 19 luglio, perché saranno trent’anni da quando è stato assassinato Paolo Borsellino, e il 12 luglio, perché una sentenza potrebbe produrre un pezzetto di giustizia sul più grande depistaggio di Stato, la costruzione del falso pentito Vincenzo Scarantino. È tornata alla carica in questi giorni Fiammetta, combattiva figlia del magistrato vittima della mafia, che ha le idee molto chiare sulle responsabilità, ed è chiaro che quando parla di “uomini che lavorano per allontanare la verità sulla strage di via D’Amelio”, il suo pensiero non va a quei tre poliziotti, di cui due ormai in pensione, che rischiano la condanna per calunnia nell’aula del tribunale di Caltanissetta.
La famiglia Borsellino non andrà alle celebrazioni ufficiali. Ci asterremo, ha detto Fiammetta in occasione della presentazione di un libro su suo padre, “…fino a quando lo Stato non ci spiegherà cosa è accaduto davvero, non ci dirà la verità: nonostante tutte queste celebrazioni si è fatto un lavoro diametralmente opposto su questo barbaro eccidio”. Non salva nessuno, la figlia del magistrato, anche se la catena è lunga. Non assolve nemmeno l’ex pm “antimafia” Ilda Boccassini, la prima tra i magistrati che operarono in quegli anni in Sicilia (fu applicata per due anni a Caltanissetta, dopo le stragi di mafia, dal 1992 al 1994) ad avanzare dubbi sulla genuinità delle parole di Scarantino. Aveva lasciato una relazione scritta al procuratore capo Tinebra, prima di tornare a Milano. A Fiammetta Borsellino questo non basta: “Io dico che se la Boccassini aveva qualche dubbio sul falso pentito Scarantino doveva fare una denuncia pubblica, così è troppo comodo. La Boccassini è quello stesso magistrato che ha autorizzato dieci colloqui investigativi di Scarantino a Pianosa e poi si è saputo che servivano a fare dire il falso a Scarantino con torture e minacce…”. La ex pm, conclude la figlia del magistrato, non avrebbe dovuto limitarsi a una “letterina”. Perché avrebbe potuto far esplodere il caso. Forse. O forse no, visti i tempi.
Già, i tempi. La fila delle responsabilità è lunga, dovrebbe partire da quegli agenti di polizia penitenziaria che fisicamente furono addosso tra il 1992 e il 1993 ai detenuti, mafiosi e non, deportati nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. E poi quegli altri che tramite i colloqui investigativi si attivavano per costruire il “pentitificio” che avrebbe consentito a questori, capi di polizia, magistrati e governi di risolvere i “casi” delle stragi di Cosa Nostra. Le uccisioni di Falcone e Borsellino e tutte le altre, in modo da chiudere in bellezza (si fa per dire) un’intera storia. Con le leggi speciali, i colloqui investigativi senza controlli e qualche capro espiatorio da tenere in galera a vita. Non Totò Riina e gli altri boss, perché erano tutti latitanti. Se il 12 luglio prossimo Mario Bò, l’ex capo del gruppo di indagine Falcone- Borsellino e gli ispettori in pensione Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, imputati a Caltanissetta per calunnia aggravata, dovessero essere condannati, forse si sarebbe raggiunto un pezzetto di giustizia. Il pubblico ministero Stefano Luciani ha usato parole durissime, prima di chiedere le condanne rispettivamente a undici anni a dieci mesi al primo e nove anni e mezzo agli altri due.
Non saremo noi a chiedere per loro più carcere, per una severità che somiglia tanto alle famose lacrime di coccodrillo. Perché, anche a voler partire dalla coda, dovremmo chiamare a processo dei fantasmi, prima di tutto. Cioè coloro che, obbedendo a ordini o a “suggerimenti”, ha messo le mani su quei corpi reclusi, ha picchiato e torturato, ha messo vermi e pezzetti di vetro nelle minestre ed è arrivato a terrorizzare eseguendo persino le finte esecuzioni. Nessuno è sul banco degli imputati per questi reati, quelli che, attraverso i colloqui investigativi, hanno costruito il falso pentito. Ci sono solo le calunnie, dopo che un “pentito” vero, Gaspare Spatuzza nel 2017 ha dato una verità più credibile sulla strage di via D’Amelio, facendo anche liberare otto innocenti dopo quindici anni di carcere ingiusto. Ma dovrebbero esserci anche ben altre responsabilità. Risalendo nella piramide, troviamo il questore di Palermo Arnaldo La Barbera, che fece una brillante carriera dopo aver collaborato a “risolvere” il tragico caso della morte di Borsellino.
Lui non c’è più, ma anche se fosse sopravvissuto al disvelamento di questo scandalo, difficilmente si troverebbe sul banco degli imputati. Perché avrebbe trascinato con sé un bel po’ di persone. A meno che non vogliamo pensare che un questore e un po’ di poliziotti abbiano potuto costruire il più grande depistaggio della storia degli ultimi trent’anni, quasi un colpo di Stato, all’insaputa della magistratura. Qui entra in scena un altro personaggio, ormai deceduto da vent’anni, il procuratore capo di Caltanissetta, il regista delle indagini sulle morti di Falcone e Borsellino, Giovanni Tinebra. Di lui Ilda Boccassini dice che le avrebbe impedito di prolungare la sua permanenza in Sicilia per poter smascherare le falsità di Scarantino. Certo è che, come dice la figlia del magistrato Fiammetta, forse la pm avrebbe potuto insistere, denunciare, strillare. Lo ha fatto con molto ritardo, da testimone al processo contro i poliziotti nel 2020, raccontando anche che il falso pentito si chiudeva per ore nell’ufficio del procuratore Tinebra, prima o dopo gli interrogatori. Che venivano svolti dai pm di Caltanissetta Annamaria Palma, Carmelo Petralia e il giovane Nino Di Matteo.
Tutti usciti (il giovincello non è stato mai neppure indagato, avendo svolto un ruolo minore) freschi e puliti dalle indagini con le archiviazioni perché, disse il giudice di Messina, non c’erano le prove che avessero partecipato o diretto il depistaggio. Una storia da far scoppiare il cervello. È mai possibile che un ragazzotto tossicodipendente e frequentatore di prostitute trans fosse il tipo più affidabile per i boss di Cosa Nostra, tanto da essere incaricato di procurare un’auto e imbottirla di tritolo per uccidere il nemico numero uno della mafia? Enzino della Guadagna, lo ricorda ancora Fiammetta Borsellino, non era neanche capace di aprire la porta di quel garage dove diceva di aver tenuto l’auto. E poi, nessuno tra i capi e neanche i livelli intermedi dell’organizzazione mafiosa lo conosceva. Possibile, possibile che quei magistrati fossero tutti cretini, oltre che ingenui e sprovveduti?
Ma c’è dell’altro. Perché, dopo che era stata resa pubblica la lettera in cui la moglie di Scarantino accusava esplicitamente Arnaldo La Barbera di far torturare suo marito per trasformarlo in “pentito”, si mossero alti vertici dello Stato a costruire un bel cordone sanitario intorno al questore. Ma anche intorno al falso pentito. Fu Giancarlo Caselli, procuratore di Palermo, a prendere l’iniziativa di una conferenza stampa, accompagnato dal procuratore generale e dal prefetto. Le massime autorità di Palermo in quell’occasione difesero l’onore di La Barbera, ma anche l’autenticità di Scarantino. Disinformati in buona fede? Mah. Ciliegina sulla torta, nella piramide delle responsabilità, quando meno politiche, l’ex procuratore generale della cassazione Riccardo Fuzio, cui le figlie di Paolo Borsellino avevano scritto una lettera in cui venivano circostanziati fatti e misfatti degli uomini delle istituzioni e che tenne lo scritto nel cassetto per un anno, lamentando poi ipocritamente di non poter fare niente solo alla vigilia delle sue forzose anticipate dimissioni dopo il “caso Palamara”.
Il Csm infine, come raccontato proprio dall’ex capo delle spartizioni di carriera tra le toghe nel suo secondo libro. Il Consiglio superiore della magistratura (cui si era rivolta Fiammetta Borsellino), che finse di impegnare i suoi migliori uomini della prima commissione, quella che tratta le azioni disciplinari, sulle responsabilità di qualche magistrato. Ce ne siamo infischiati, dice con sincerità Luca Palamara, abbiamo “fatto ammuina”. Non interessava sapere se qualche toga avesse sbagliato. Ecco perché le eventuali celebrazioni di Borsellino del 19 luglio, cui la famiglia giustamente non parteciperà, saranno solo una presa in giro. E l’eventuale condanna di tre poliziotti per calunnia, sarebbe solo un pezzetto di giustizia.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza. Attilio Bolzoni su Il Domani il 26 giugno 2022
C’è l’attentato del 19 luglio 1992, ci sono i sicari di Cosa Nostra e quegli uomini “in giacca e cravatta” che si materializzano in via Mariano D'Amelio poco dopo l'esplosione. Ci sono montagne di atti processuali ma non c'è ancora una piena verità su chi ha voluto morto Paolo Borsellino.
Una sentenza di Corte d'Assise definisce l'inchiesta sull'uccisione del procuratore “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, il caso però non è chiuso e forse solo la storia ci dirà cosa è accaduto a Palermo in quell'estate.
A trent'anni dalla strage in cui morirono Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta – Agostino Catalano, Eddie Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina ed Emanuela Loi – qualcosa di oscuro affiora dal passato e fa molta paura. Perché coinvolti nel massacro ci sono “soggetti inseriti negli apparati dello Stato”, gli stessi che hanno indotto il “pupo” Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni accusando innocenti, quelli che hanno fatto sparire l'agenda rossa del magistrato, quelli che in più momenti hanno tentato in tutti i modi di sviare le indagini.
E poi quei cinquantasette giorni che separano il 23 maggio dal 19 luglio.
Il procuratore Paolo Borsellino mai ascoltato come testimone dai suoi colleghi di Caltanissetta, i titolari dell'inchiesta sul massacro di Capaci. L'isolamento subito da Borsellino dentro la procura di Palermo guidata da Pietro Giammanco, le indagini affidate “irritualmente” dal procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra ai servizi segreti, in particolare a Bruno Contrada che appena qualche mese dopo sarà accusato di connivenza con i boss.
Omertà di mafia e omertà di Stato.
Nel trentennale di via D'Amelio sul Blog Mafie pubblicheremo per circa un mese ampi stralci del libro "Uomini Soli” di Attilio Bolzoni
LA STRAGE DI VIA D’AMELIO. Paolo Borsellino, il giudice tradito e venduto. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 26 giugno 2022
Dicono che è l’erede, l’ultimo testimone. Ora è diventato anche il bersaglio. Ha poco tempo. Vuole parlare. Non lo fanno parlare. Vuole indagare. Non lo fanno indagare.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Porta in spalla la bara di Giovanni Falcone, gli restano ancora cinquantacinque giorni.
Una pioggia violenta lava Palermo, il carro funebre è già scomparso fra i vicoli che scendono verso il mare. Anche il becchino ha fretta di seppellire il morto.
È solo, adesso è solo come non lo è stato mai. Neanche quando la sua vita è cambiata in una notte di maggio di tanti anni prima, il capitano di Monreale steso a terra e lui precipitato in un incubo.
Dicono che è l’erede, l’ultimo testimone. Ora è diventato anche il bersaglio.
Ha poco tempo. Vuole parlare. Non lo fanno parlare. Vuole indagare. Non lo fanno indagare.
Si scopre abbandonato, mandato allo sbaraglio da gente di Roma che nell’ombra sta trattando la resa. Sono in molti a tremare per i suoi segreti. Forse aspettano un miracolo o un’altra bomba.
Uomo di legge e di coraggio, siciliano di fibra forte, fino all’ultimo non si rassegna. Ha rabbia e orgoglio per non piegarsi nemmeno ai nemici più invisibili.
Si getta nel vuoto Paolo Borsellino, magistrato di Palermo, assassinato dall’esplosivo mafioso e dal cinismo di un’Italia canaglia che l’ha visto morire senza fare nulla. Tradito e venduto.
Va incontro al suo destino accarezzando i figli, tenta disperatamente di sopravvivere fino a quella domenica afosa di mezza estate. Il 19 luglio del 1992.
L’agenda rossa che ha sempre con sé non si troverà mai.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
A Monreale le lacrime per il capitano Emanuele Basile. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 27 giugno 2022
È la notte del 4 maggio del 1980. Alla camera mortuaria dell’ospedale civico di Palermo, il medico di guardia certifica «il decesso di Basile Emanuele, nato a Taranto il 27 luglio del 1949». È un capitano dei carabinieri, il comandante della Compagnia di Monreale. La città di un Duomo superbo e di una mafia sconosciuta.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Un lenzuolo bianco avvolge il cadavere. È scoperto solo un piede, dallo spago intorno all’alluce pende un cartoncino.
Scrivono un nome.
È la notte del 4 maggio del 1980. Alla camera mortuaria dell’ospedale civico di Palermo, il medico di guardia certifica «il decesso di Basile Emanuele, nato a Taranto il 27 luglio del 1949».
È un capitano dei carabinieri, il comandante della Compagnia di Monreale. La città di un Duomo superbo e di una mafia sconosciuta.
Il capitano ha appena consegnato in Tribunale un rapporto di sessantadue pagine. La sua condanna a morte.
Le carte sono nell’armadio blindato del giudice istruttore
Paolo Borsellino, il magistrato che assieme a lui ha seguito fin dall’inizio l’indagine e che questa notte esplode in un pianto disperato. È in lacrime, in fondo ai viali dell’ospedale. «Mi hanno ammazzato un fratello», singhiozza nel buio.
In meno di un anno, ne ha persi due di amici che davano la caccia ai boss di Monreale.
Il 21 luglio del 1979, il capo della squadra mobile Boris Giuliano. E ora Emanuele Basile. Chi sono gli assassini?
«Li abbiamo presi, questa volta li abbiamo presi», avvisa un ufficiale dei carabinieri.
Sono già rinchiusi in una caserma di Palermo. Uno è Armando Bonanno, l’altro Vincenzo Puccio, il terzo Giuseppe Madonia.
Li hanno fermati in aperta campagna, due ore dopo il delitto.
Sono sporchi di fango. Lungo un sentiero trovano anche l’auto usata per la fuga. Dentro c’è una pistola che ha appena sparato.
Dicono i killer: «Siamo qui perché abbiamo avuto un incontro galante con donne di Agrigento, signore sposate, siamo dei gentiluomini e non faremo mai i loro nomi». È il loro alibi. Sarà per sempre il loro alibi. Da quando incontra quei tre sicari di mafia, Paolo Borsellino entra in un’altra vita. Gli assassini del capitano decidono il suo futuro.
Il comandante della compagnia dei carabinieri di Monreale è stato ucciso in mezzo alla folla del Santissimo Crocifisso, la processione che, da tre secoli e mezzo, si ripete nella notte fra il 3 il 4 maggio. Per la prima volta, la statua l’hanno portata per le strade nel 1626 e il Santissimo Crocifisso ha spazzato via il «morbo rio», la peste di Monreale.
Emanuele Basile ha in braccio la figlia Barbara, la moglie Silvana è fra bancarelle stracolme di ceci abbrustoliti, torrone caramellato, semi di zucca secchi. I tre sbucano da una stradina, in un attimo gli sono alle spalle. Fanno partire i primi colpi quando il cielo s’illumina dei fuochi d’artificio. Esplode la masculiata, l’atto finale dei giochi pirotecnici, i botti.
Silvana scambia il primo sparo per un mortaretto. Poi Barbara, quattro anni, si ritrova in mezzo al sangue del padre. Due testimoni vedono tutto. Parlano, raccontano, riconoscono gli assassini. Non è mai capitato a Palermo. «È un’inchiesta facile che si può chiudere in fretta», annuncia Paolo Borsellino ai suoi colleghi della procura.
Manca solo la prova del guanto di paraffina.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Un processo simbolo della giustizia “aggiustata” nella Sicilia mafiosa. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 28 giugno 2022
Paolo Borsellino sa già tutto. Conosce ogni piega dell’indagine, ha esaminato i profili dei personaggi coinvolti, ora all’Ucciardone ci sono anche i tre killer del capitano. Sembra un incastro perfetto. Un caso chiuso.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Il giudice non lo sa ancora: quella sui tre sicari di Emanuele Basile si rivelerà l’inchiesta più tormentata degli Anni Ottanta, il simbolo della giustizia «aggiustata» nella Sicilia mafiosa.
L’omicidio è avvenuto a Monreale ma è la Cupola che l’ha ordinato.
Il capitano ha portato avanti un’indagine iniziata dal commissario Boris Giuliano, valigie piene di dollari sequestrate a Punta Raisi, direttori di banca collusi, un traffico di eroina tra Altofonte e gli Stati Uniti. E non solo. L’ufficiale ha scoperto anche gli
oscuri rapporti fra alcuni boss e alti prelati dell’arcivescovado.
La diocesi di Monreale è la più ricca, la più estesa e la più misteriosa dell’isola. Vescovi chiacchierati e preti mafiosi.
Paolo Borsellino sa già tutto. Conosce ogni piega dell’indagine, ha esaminato i profili dei personaggi coinvolti, ora all’Ucciardone ci sono anche i tre killer del capitano.
Sembra un incastro perfetto. Un caso chiuso.
Quando l’inchiesta riprende, ciò che appariva chiaro s’intorbida all’improvviso. Nel suo ufficio si presentano falsi testimoni. Qualcuno tenta di manipolare una perizia balistica. Arrivano «consigli» e minacce ai medici legali, agli avvocati di parte civile, a lui stesso.
Il giudice sospetta che qualcuno stia spiando i suoi movimenti. E ogni atto dell’indagine.
Non è un processo facile. È un inferno.
Borsellino conduce la sua istruttoria scansando insidie e trappole.
Quasi un anno dopo, il 6 aprile del 1981, rinvia a giudizio Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia per l’uccisione del capitano Basile.
Il processo è fissato per l’autunno.
Gli imputati sono tre, ma è tutta la mafia di Palermo alla sbarra.
È la prima volta che tre sicari di «famiglie» importanti sembrano non avere scampo.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Boss e “talpe“, una finta rivolta all’Ucciardone nella Palermo collusa. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 29 giugno 2022
Il questore di Palermo Vincenzo Immordino, all’una del mattino, ha svegliato tutti i funzionari della squadra mobile e li ha convocati d’urgenza «per sedare una sommossa all’Ucciardone». Ma non c’è rivolta, nei bracci del carcere è tutto tranquillo. Il questore Immordino ha fatto scortare alla Lungaro – da agenti scelti da lui, uno per uno – i funzionari della squadra mobile.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
All’alba del 4 maggio del 1980 sono ancora a Monreale, fra i vicoli dove è passata la processione del Santissimo Crocifisso.
Di mattina scendo alla caserma «Carini» di Palermo, dietro il mercato del Capo.
Ci sono tre ufficiali dei carabinieri stravolti, per tutta la notte hanno interrogato – e forse anche torturato – i tre killer del capitano.
Ma quelli non hanno aperto bocca.
Verso le dieci arriva la notizia che sono stati appena arrestati una ventina di mafiosi della borgata dell’Uditore. Gli Spatola, gli Inzerillo, i Gambino. È un’altra operazione, questa volta si è mossa la polizia.
C’è confusione. Noi giornalisti siamo disorientati. Non riusciamo a capire il collegamento che c’è fra i tre killer del capitano Basile e i boss dell’Uditore.
Sappiamo ancora poco di quello che sta accadendo dentro la mafia palermitana, non conosciamo esattamente chi sono i Corleonesi di Totò Riina. Nei nostri articoli chiamiamo «vincenti» quelli che vengono dai paesi della provincia e «perdenti» quegli altri della città.
Sto per tornare al giornale per scrivere in fretta il mio «pezzo», ed è allora che si diffonde la notizia.
Non è solo una voce.
Il questore di Palermo Vincenzo Immordino, all’una del mattino, ha svegliato tutti i funzionari della squadra mobile e li ha convocati d’urgenza «per sedare una sommossa all’Ucciardone».
Ma non c’è rivolta, nei bracci del carcere è tutto tranquillo.
Il questore Immordino ha fatto scortare alla Lungaro – da agenti scelti da lui, uno per uno – i funzionari della squadra mobile.
E li ha rinchiusi lì dentro, nella caserma della polizia stradale, fino all’alba.
Sono «consegnati» in alcune stanze, praticamente prigionieri. Non possono uscire, non possono telefonare, non possono parlare con nessuno. Il questore non si fida di loro.
Deve partire la retata contro i boss dell’Uditore e, per non farseli scappare, ha chiamato poliziotti da fuori. Alcuni sono arrivati da Roma, altri da Reggio Calabria. Non so come iniziare il mio articolo. Dall’arresto dei killer del capitano? Dal sequestro di persona compiuto dal questore Immordino? Dalla retata?
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Le pesanti accusate. L’avvocato di Borsellino contro Di Matteo: “Ha difeso il depistaggio di Scarantino screditando Spatuzza”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Giugno 2022.
Al processo che è in corso a Caltanissetta sul depistaggio delle indagini sull’omicidio di Paolo Borsellino e la strage della sua scorta, ieri ha parlato l’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, e ha sparato bordate pesantissime contro alcuni Pm, e in particolare contro Nino Di Matteo, cioè il protagonista – seppure sconfitto – del processo sulla cosiddetta trattativa stato mafia, che dopo molti anni di tribolazioni – soprattutto per il generale Mario Mori, risultato poi del tutto innocente – si è concluso qualche mese fa con una bolla di sapone.
Trizzino ha accusato Di Matteo innanzitutto di avere pervicacemente difeso il depistaggio delle indagini sull’uccisione di Borsellino (cioè l’oggetto del processo in corso) condotto attraverso la falsa testimonianza del falso pentito Vincenzo Scarantino, che portò alla carcerazione e alla condanna di diversi innocenti, e al sabotaggio, di fatto, delle indagini sulle piste vere. Ormai – ha detto Trizzino – il danno provocato da questi depistaggi è irreparabile, però è giusto ricostruire come sono andati i fatti.
La parte più severa dell’arringa di Trizzino è stata riservata proprio a Di Matteo, che oggi è un autorevolissimo membro del Csm. Ha detto testualmente Trizzino: «Il Pm Di Matteo nel 2009 fece una dichiarazione sul collaboratore di giustizia Spatuzza senza alcuna competenza. L’elemento incredibile è che Di Matteo, quell’anno, da Pm di Palermo, non aveva alcuna competenza per entrare nei processi Borsellino uno e Borsellino due, a meno che non temesse qualcosa che potesse compromettere la sua carriera professionale. Bisogna avere il coraggio di dirle queste cose.»
Trizzino si riferisce all’intervento dell’epoca di Nino Di Matteo, che si oppose alla richiesta di protezione di Gaspare Spatuzza, pentito molto importante, il quale aveva del tutto smentito la ricostruzione di Scarantino cioè della ricostruzione che fu poi lo strumento del depistaggio. Per quale ragione, si è chiesto l’avvocato Trizzino, Di Matteo “si doveva occupare di dare il proprio parere su Spatuzza? Cosa gli interessava del processo Borsellino uno e del Borsellino bis? Non è questo uno schizzo di fango su Di Matteo, è una analisi critica e non possiamo far finta di niente. Solo perché uno fa il magistrato o il poliziotto non deve parlare? Non ci sto.” Poi Trizzino ha aggiunto: “Il danno provocato dall’incapacità di alcuni magistrati è fatto. Non si può riparare. Quale verità stiamo cercando ora? La ricerca della verità, a mio giudizio, in questo paese è stata affidata a persone che erano in conflitto di interesse”.
L’accusa di Trizzino, cioè della famiglia del magistrato Borsellino è pesantissimo. Conflitto di interesse, per Di Matteo, nelle indagini e nelle richieste del magistrato. Oltretutto Trizzino, oltre ad essere l’avvocato della famiglia è anche il marito di una delle figlie di Paolo Borsellino. Nel processo in corso la questione Di Matteo può anche essere tralasciata, visto che gli imputati sono solo tre poliziotti, perché i giudici hanno deciso di archiviare la posizione di due magistrati che erano stati indagati (non Di Matteo). Però il problema posto da Trizzino è grande come una casa. L’accusa è sanguinosa: conflitto di interesse e sulla base di questo conflitto errore giudiziario clamoroso con conseguenze devastanti per la ricerca della verità. C’è un pezzo di magistratura che ha scommesso tutta la propria credibilità e la propria carriera sull’ipotesi della trattativa stato mafia, ipotesi in contrasto con altre ipotesi, che erano quelle giuste, che però erano state oscurate dal depistaggio.
Può succedere che questa parte della magistratura rinunci a rendere conto, senza che nessuno, tranne la famiglia Borsellino, gliene chieda la ragione? Oggi noi sappiamo di non poter sapere la verità sull’omicidio Borsellino per colpa di un depistaggio sostenuto dalla magistratura inquirente. Vi pare poco? Lo stesso Csm può far finta che le parole di Trizzino non siano mai state pronunciate? La logica dice che o si dimostra che non è vero che Di Matteo chiese di levare la protezione a Spatuzza, e allora che Trizzino ha detto cose non vere, oppure occorre intervenire. Ne va o no della credibilità della magistratura? Qualcuno risponderà a queste domande o ci si affiderà, al solito, solo al sicuro silenzio del grandi giornali amici?
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Primo magistrato siciliano con la scorta e la “mania” delle indagini. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI Il Domani 30 giugno 2022
Paolo Borsellino è il primo magistrato siciliano con una scorta. Tre carabinieri e una sgangherata Alfa Romeo color amaranto che divide con Antonino Gatto, il sostituto procuratore della repubblica titolare con lui dell’inchiesta sull’uccisione dell’ufficiale dei carabinieri.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Quando muore il capitano, Lucia ha dieci anni, Manfredi otto, Fiammetta sei. Sono i tre figli di Paolo Borsellino.
Ricorda sua moglie Agnese: «Fino all’omicidio di Emanuele Basile la nostra è stata una vita normale, come quella di tante famiglie palermitane. Ci incontravamo nei giorni di festa con i parenti o con gli amici, qualche collega di mio marito, i ragazzi erano spensierati». Poi è il finimondo.
Paolo Borsellino è il primo magistrato siciliano con una scorta. Tre carabinieri e una sgangherata Alfa Romeo color amaranto che divide con Antonino Gatto, il sostituto procuratore della repubblica titolare con lui dell’inchiesta sull’uccisione dell’ufficiale dei carabinieri. È una tranquilla vita borghese quella che viene sconvolta.
Tutta la città è testimone della metamorfosi di un uomo e di un giudice.
«Chi te lo fa fare?», gli dice qualche amico.
«Tanto la medaglia non te la danno lo stesso», lo avvertono alcuni colleghi.
Paolo Borsellino scuote la testa, perde il sorriso. Non gli piacciono quei discorsi. Non li manda giù. Sente un groppo in gola. È un magistrato, un uomo perbene, ha giurato di far rispettare la legge. Quelle chiacchiere non lo fermano. Ma neanche lui sa ancora in quale fossa si sta per infilare.
Né Paolo Borsellino né nessun altro, in quegli ultimi mesi del 1980, può sospettare che dietro a quei tre sicari presi a Monreale ci siano i nuovi capi della mafia siciliana.
C’è Totò Riina.
In un Tribunale dove è consuetudine «buttarsi dietro il pietrone», confondersi, nascondersi, Paolo Borsellino si ritrova sempre un passo avanti agli altri. È in vista, allo scoperto. Additato come un giudice troppo audace e con la «mania» delle indagini.
Lui è convinto di aver fatto tutto quello che doveva fare nell’istruttoria sulla morte di Basile. Ed è sicuro che i tre sicari del capitano saranno condannati. C’è ressa al Palazzo di Giustizia, la mattina del 7 ottobre del 1981. Una folla di parenti. Nonne, figli, nipoti. Nella prima aula della Corte di Assise di Palermo comincia il processo per l’agguato nella notte del Santissimo Crocifisso.
Una bella giornalista americana della Cbs si aggira per il tribunale con la sua troupe, i principi del Foro sono tutti schierati, gli imputati ai ceppi. Ridono spavaldi, i tre. Come se non temessero l’ergastolo.
Un giudice popolare viene subito cacciato. È pregiudicato. Un altro è già stato «avvicinato» da un avvocato del suo
paese. Alla quarta udienza, il primo presidente della Corte di Appello Giovanni Pizzillo firma a sorpresa un’ordinanza di espulsione dall’aula di tutti i fotografi e cineoperatori. Vuole «evitare elementi di distrazione».
È quasi un processo a porte chiuse.
Più il dibattimento va avanti e più s’intuisce che in quel processo c’è un solo imputato: il giudice istruttore. È lui, Paolo Borsellino, la fonte di tutte le «disgrazie» dei tre dietro le sbarre. È lui che non ha creduto a certi testimoni, che non ha tenuto conto di una nuova perizia sulle armi, che ha voluto investigare solo su di loro scartando fin dal principio qualsiasi altra pista.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Un giudice nel mirino, così Cosa Nostra ha trovato il suo bersaglio. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il domani l'01 luglio 2022
Il 31 marzo del 1983, nemmeno tre anni dopo l’uccisione del capitano, gli imputati vengono assolti. Tutti per insufficienza di prove. I testimoni non vengono creduti, le prove spazzate via. I carabinieri si sfogano: «Qui a Palermo succedono cose molto gravi». Il giudice Paolo Borsellino è annichilito.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
La mafia di Palermo ha individuato il suo obiettivo.
In procura, per una volta sono tutti uniti. Il pubblico ministero Vincenzo Geraci chiede tre ergastoli. Il processo sembra segnato. La sentenza è vicina.
Ma non è così. Una mattina, il presidente della Corte di Assise Carlo Aiello ordina la sospensione del dibattimento.
Il pretesto è una macchia. Una macchia bianca ritrovata su uno stivale di cuoio nero di Giuseppe Madonia e mai esaminata
dai periti. Da dove viene? Cos’è? Perché nessuno l’ha mai notata prima?
Un processo che si sta avviando verso la conclusione viene fermato. Tutti gli atti tornano al giudice istruttore. A Paolo Borsellino.
Deve ordinare una perizia su quella macchia bianca. È una manna che cade dal cielo per i tre killer.
La «prova del fango», come viene definita con evidente allusione dai palermitani, dura quindici mesi.
La perizia non accerta niente. È servita solo a prendere tempo.
Il processo riprende in un clima di terrore. Minacciano altri avvocati. I giudici popolari tremano. E intanto il presidente della
prima Corte di Assise cambia. Non è più Carlo Aiello ma Salvatore Curti Giardina. È un anonimo magistrato che ha fatto una carriera silenziosa nei Palazzi di Giustizia di mezza Sicilia, fino a quando arriva a Palermo e si ritrova difronte ai tre killer di Emanuele Basile.
Il processo che a qualunque costo non si doveva celebrare, è un’altra volta alla vigilia del verdetto. Sembra scontato. Condanne. Ergastoli.
Il 31 marzo del 1983, nemmeno tre anni dopo l’uccisione del capitano, gli imputati vengono assolti. Tutti per insufficienza di
prove. I testimoni non vengono creduti, le prove spazzate via.
Clamorose le motivazioni del presidente della Corte: «Paradossalmente bisogna concludere, quindi, che meno problematico, se non addirittura certo, sarebbe stato il convincimento di colpevolezza di questa Corte in presenza di un più ristretto numero di indizi».
Troppi indizi per una condanna.
Così, il presidente Salvatore Curti Giardina ordina «l’immediata scarcerazione se non detenuti per altra causa» di Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia. Gli avvocati difensori sono euforici: «Per fortuna ci sono ancora magistrati coraggiosi».
I carabinieri si sfogano: «Qui a Palermo succedono cose molto gravi, ora sappiamo che non possiamo contare sull’appoggio di altre forze dello Stato».
Il giudice Paolo Borsellino è annichilito.
La sua istruttoria è stata demolita con cavilli e mosse fraudolente. L’assoluzione lo lascia ancora più solo, indifeso. Nel mirino.
Il giorno dopo la sentenza, firma un’ordinanza di «accompagnamento coatto» degli imputati del processo Basile in tre comuni della Sardegna. Al soggiorno obbligato. Ci stanno due settimane. Poi fuggono indisturbati su grossi motoscafi d’altura.
Tornano a Palermo. Per uccidere. È la prima volta che Paolo Borsellino ha veramente paura. Per sé e per la sua famiglia. Nella sua casa di via Cilea quei nomi – Bonanno, Madonia, Puccio – si ripetono sottovoce ogni giorno. Sono fuori. Sono «innocenti» e pronti a sparare ancora
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Palermo brucia, un’altra strage di carabinieri. DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 02 luglio 2022
La sera del 13 giugno 1983 Rocco Chinnici e Paolo Borsellino sono davanti a un altro morto. È il nuovo comandante della Compagnia dei carabinieri di Monreale Mario D’Aleo, l’ufficiale che ha preso il posto di Emanuele Basile. Con lui sono morti anche i brigadieri Giuseppe Bommarito e Pietro Morici.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Paolo Borsellino ormai è dentro ai gironi infernali di Palermo.
La città brucia.
Una sera d’inizio estate, qualche mese dopo la facile evasione dei tre sicari, qualcuno attacca un cartello alla vetrina della gelateria di via Scobar. È una stradina al confine fra le borgate della Noce e dell’Uditore.
Una scritta in rosso: «Fate pagare questa strage a chi ha assolto i killer di Emanuele Basile».
Il consigliere istruttore Rocco Chinnici e il giudice Paolo Borsellino, la sera del 13 giugno 1983 sono davanti a un altro morto.
È il nuovo comandante della Compagnia dei carabinieri di Monreale Mario D’Aleo, l’ufficiale che ha preso il posto di Emanuele Basile.
È a qualche metro dal palazzo dove abita Antonella, la sua fidanzata. Non ci arriva mai al portone. Accanto all’auto sono morti anche i brigadieri Giuseppe Bommarito e Pietro Morici.
Il capitano D’Aleo, sceso in Sicilia cinque settimane dopo l’uccisione di Basile, aveva ripreso le sue indagini.
Il messaggio che i boss lanciano allo Stato è molto diretto: l’Arma dei carabinieri non può e non deve occuparsi della mafia di Monreale.
Con Mario D’Aleo, sono ventisei i carabinieri uccisi nella provincia di Palermo negli ultimi vent’anni.
La mattina dopo l’agguato di via Scobar, l’Alto Commissario per la lotta alla mafia Emanuele De Francesco, quello nominato dal governo con poteri speciali nei giorni successivi alla morte del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, convoca i giornalisti a Villa Whitaker e indica pubblicamente i mandanti della strage.
Dice che sono stati i Gambino, gli Spatola, gli Inzerillo. Tutte «famiglie» mafiose ormai decimate dalle vendette dei
Corleonesi.
L’Alto commissario mente o ignora tutto di Palermo? Depista o è all’oscuro di vicende che persino noi giornalisti conosciamo?
DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Lapidi e ricordi, gli incontri col capitano Mario D’Aleo. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 03 luglio 2022
Mario è più ragazzo. Come me. La sera di via Scobar non riesco ad avvicinarmi al marciapiedi dove c’è il suo cadavere. Comincio a tremare. Più di venticinque anni dopo, andando in giro per San Giovanni, a Roma, una mattina mi trovo a passare per caso da via Imera. E vedo una lapide che lo ricorda e una corona di fiori appassiti.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
«Stasera sali a Monreale e poi ce ne andiamo su, a San Martino delle Scale, in una trattoria in mezzo al bosco», mi dice Mario un pomeriggio.
San Martino delle Scale, quasi a 600 metri, un monastero benedettino, carne alla brace, forno a legna per le pizze.
Siamo quasi coetanei, lui ha ventinove anni, io ventotto. Ci siamo conosciuti in Tribunale, ogni tanto ceniamo insieme. A volte ci sono altri due ufficiali, Diego Minnella e Tito Baldo Honorati.
Mario D’Aleo è romano. Altissimo, magro come un chiodo. Si sente solo a Monreale. Ha bisogno di compagnia.
È molto diverso da Emanuele Basile, che ho conosciuto solo fra i corridoi delle caserme e della procura. Basile era un uomo molto formale, sempre impeccabile nella sua divisa nera e le scarpe tirate a lucido, di poche parole, grande investigatore, serissimo.
Mario è più ragazzo. Come me.
La sera di via Scobar non riesco ad avvicinarmi al marciapiedi dove c’è il suo cadavere. Comincio a tremare.
Più di venticinque anni dopo, andando in giro per San Giovanni, a Roma, una mattina mi trovo a passare per caso da via Imera. E vedo una lapide che lo ricorda e una corona di fiori appassiti.
Era la sua casa.
C’è un cancello, resto lì per dieci minuti, non so cosa fare, se bussare alla porta, chiedere di qualcuno, presentarmi – come, dopo tutto quel tempo? – e raccontare a qualche parente che io lo conoscevo, che l’ho visto a San Martino delle Scale e anche in via Scobar.
Non ce la faccio. Sfioro la lapide con la mano e me ne vado.
Qualche mese fa, ho letto una piccola notizia sulle pagine di cronaca. Il 15 ottobre 2011, durante la manifestazione violenta dei black bloc a Roma, qualcuno ha preso a martellate quella targa di via Imera.
Sarà stato un ragazzo. Uno dei tanti che non sa niente di questa Italia.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Palermo come Beirut, un’autobomba uccide Rocco Chinnici. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 04 luglio 2022
Borsellino si ritrova ormai circondato da cadaveri. Boris Giuliano. Emanuele Basile. Mario D’Aleo. Rocco Chinnici. Si rintana nel bunker. Con Giovanni Falcone. Con Leonardo Guarnotta. Si immerge nelle indagini. Affoga fra le sue carte. Ha un debito d’amore verso gli amici che non ci sono più e verso se stesso.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Dopo l’omicidio di Mario D’Aleo, a Palermo c’è paura di un’altra strage.
Gli apparati investigativi sono allo sbando. I funzionari della squadra mobile una mattina si ribellano, protestano a Villa Whitaker contro «i ministri di Roma». Davanti alla prefettura ci sono centinaia di poliziotti respinti a forza da altri poliziotti.
Il Palazzo di Giustizia è una sacca di veleni. Il presidente della Commissione Antimafia, Nicola La Penta, è in Sicilia con una delegazione di parlamentari per ascoltare i magistrati. Dopo tre giorni di audizioni annota nella sua relazione: «La Commissione ha potuto osservare negli incontri con i giudici siciliani atteggiamenti molto diversi. Vi è una larga fascia che fa il proprio dovere, senza però spingersi molto in avanti. Vi è anche qualche pusillanime. Ve ne sono quattro o cinque che dimostrano uno straordinario coraggio e ogni giorno rischiano la vita».
Sta parlando del consigliere Rocco Chinnici, dei giudici Giovanni Falcone, Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello. E di Paolo Borsellino.
Non passano due mesi dall’agguato di via Scobar e, il 29 luglio 1983, salta in aria anche il consigliere istruttore Rocco Chinnici.
Palermo è nel dramma.
Quella mattina Paolo Borsellino è nella sua casa in riva al mare, a Villagrazia di Carini. Squilla il telefono.
Il giudice sbianca in volto. Dice alla moglie come un automa: «È morto Rocco».
Rocco Chinnici è uno di famiglia. Arriva a casa loro senza annunciarsi. È affettuoso, protettivo. Per Lucia, la primogenita di Paolo e Agnese, è come uno zio. La settimana prima, è andata con Chinnici e sua figlia Caterina in gita a Pantelleria in elicottero.
Borsellino si ritrova ormai circondato da cadaveri.
Boris Giuliano. Emanuele Basile. Mario D’Aleo. Rocco Chinnici.
Si rintana nel bunker. Con Giovanni Falcone. Con Leonardo Guarnotta. Si immerge nelle indagini. Affoga fra le sue carte. Ha un debito d’amore verso gli amici che non ci sono più e verso se stesso.
«Chi te lo fa fare?», continuano a ripetergli conoscenti e colleghi.
Taglia rapporti, seleziona le frequentazioni, si fa sempre più guardingo. Si tiene vicino solo gli amici veri.
È un uomo diritto Paolo Borsellino, ha il culto della parola data, il senso dell’onore, è leale, generoso, sanguigno.
L’uccisione di Rocco Chinnici l’ha scaraventato in una Palermo sempre più minacciosa che nasconde tanti tradimenti.
Sfila come testimone davanti ai suoi colleghi di Caltanissetta che indagano sulla morte del consigliere istruttore, racconta gli ultimi giorni di Rocco Chinnici, trascina gli esattori Nino e Ignazio Salvo in un vortice. È solo anche in quel momento.
Molti magistrati palermitani «dimenticano» quello che aveva in mente Chinnici, le sue indagini sui potenti cugini di Salemi, la sua intenzione di indagarli per mafia. Borsellino riferisce ogni dettaglio, spiega tutto.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Cresciuto alla Kalsa, il giudice recitava Goethe a memoria in tedesco. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI Il Domani il 05 luglio 2022
Paolo Borsellino ha passione, sentimenti forti, resiste a ogni compromesso, è di una semplicità disarmante, vero, colto. È un uomo che ha paura per sé e per i suoi figli ma non arretra mai. È indignato. Non ci pensa un istante a mollare.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Palermo l’ha indurito, vive nel dolore. I suoi figli stanno crescendo in una città che non riconosce più. Lo sa che rischia lui e rischia anche tutta la sua famiglia.
Ma Paolo Borsellino ha passione, sentimenti forti, resiste a ogni compromesso, è di una semplicità disarmante, vero, colto, capace di parlare per mezz’ora in un siciliano strettissimo e poi, all’improvviso, di recitare a memoria il Paradiso o i versi di Goethe sulla sua Palermo in tedesco.
È un uomo che ha paura per sé e per i suoi figli ma non arretra mai. È indignato.
Non ci pensa un istante a mollare. E finisce giù anche lui.
Muore neanche due mesi dopo la strage di Capaci. Come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino viene dalla Kalsa. Da bambini hanno abitato a pochi passi l’uno dall’altro.
La farmacia è lì dalla fine dell’Ottocento. Il palazzo dove vivono è proprio difronte, in via della Vetreria. Al piano nobile ci sono i padroni, i marchesi Salvo, al secondo piano c’è la loro casa. Dieci stanze, pavimenti con i mosaici, soffitti altissimi, un grande terrazzo dal quale si scorge il mare del Foro Italico.
Diego Borsellino e Maria Lepanto si sposano nel 1935. Nello stesso anno si ritrovano tutti e due dietro il bancone di legno
della farmacia.
Nel 1938 la prima figlia, Adele. Nel 1940 nasce Paolo. Nel 1942 Salvatore. Nel 1945 arriva Rita.
È una famiglia rispettata alla Magione, quella dei Borsellino.
È benestante, molto religiosa. In casa sono conservatori, credono nel fascismo e sono affascinati dal Duce. Quando la guerra finisce e sbarcano gli americani crolla un mondo.
In via della Vetreria c’è anche lo zio Ciccio, fratello della madre, ex ufficiale di cavalleria, che fa rivivere Mussolini e l’Impero con i suoi strabilianti racconti sulle «campagne» d’Africa.
Paolo Borsellino non ha ancora dieci anni e lo ascolta estasiato. Raccoglie tutto quello che trova sui Savoia, studia la storia di Umberto I e di Vittorio Emanuele III, cataloga tutto quello che trova sulla famiglia reale.
Cominciano però i tempi duri, alla Kalsa. Quello che più di mille anni prima era approdo di emiri e condottieri, ora è un quartiere sopravvissuto ai bombardamenti. Paolo Borsellino cresce in una Palermo che fa fatica ad uscire dalla miseria. La farmacia di via della Vetreria non ha più i clienti di una volta, i Borsellino cambiano casa. Vanno ad abitare in una più piccola, in via Roma.
Il gelato è solo nei giorni di festa.
Alla Marina, sotto la passeggiata delle Mura delle Cattive. Da Ilardo. Spongati. Spumoni. Pezzi duri. Semifreddi. Fette brasiliane e fette gianduia.
Dopo le medie Paolo s’iscrive al «Meli», il liceo classico. La maturità nel 1958. Poi Giurisprudenza. E la politica. Entra alla «Giovane Italia» che poi diventerà Fuan, il Fronte Universitario di Azione Nazionale. È un movimento neofascista.
Davanti alle facoltà ci sono sempre scontri fra studenti. Una mattina c’è una rissa violenta. Feriti. Lì in mezzo c’è anche lui.
Lo denunciano. L’inchiesta finisce a Cesare Terranova, un magistrato che non nasconde le sue simpatie per i comunisti. Paolo Borsellino viene ascoltato in Tribunale. Dice che non c’entra niente con il pestaggio. Terranova gli crede. Archivia.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
A ventitré anni, Paolo Borsellino è il magistrato più giovane d’Italia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 06 luglio 2022
Fa pratica nello studio di un avvocato. Intanto si prepara a sostenere gli esami per entrare in magistratura. Ci riesce un anno dopo. A ventitré anni è il più giovane giudice d’Italia. Per uno di quegli strani giochi del destino finisce a fare l’uditore nella stanza di Cesare Terranova, il magistrato che l’ha prosciolto qualche tempo prima dall’accusa di rissa fra gli studenti di Giurisprudenza.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Si laurea nel 1962. Quell’anno muore anche suo padre. Lo vede spegnersi. Paolo Borsellino ha ventidue anni.
La farmacia ha bisogno di un titolare ma in famiglia non c’è.
Viene data in affitto per una cifra bassissima, in attesa che la sorella Rita prenda la laurea in farmacia. È un periodo difficile, di sacrifici.
Paolo racimola qualche soldo con le lezioni private, italiano.
Fa pratica nello studio di un avvocato. Intanto si prepara a sostenere gli esami per entrare in magistratura. Ci riesce un anno dopo. A ventitré anni è il più giovane giudice d’Italia.
Per uno di quegli strani giochi del destino finisce a fare l’uditore nella stanza di Cesare Terranova, il magistrato che l’ha prosciolto qualche tempo prima dall’accusa di rissa fra gli studenti di Giurisprudenza.
Comincia al «civile» ad Enna, al centro della Sicilia. Dopo due anni, nel 1967, è pretore a Mazara del Vallo. Va avanti e indietro, dalla mattina alla sera. In uno studio notarile conosce Agnese Piraino Leto, la figlia del presidente del Tribunale di Palermo.
Un anno dopo, nel 1968, Paolo e Agnese si sposano.
Da Mazara del Vallo a Monreale. Ancora in pretura. È il 1969. Sei anni tranquilli. Nel 1975 è a Palermo. Prima giudice di Tribunale e, alla fine dell’estate del 1975, giudice istruttore.
È una città addormentata Palermo. Sembra fuori dall’Italia. Brilla di luce propria. Si sente diversa, lontana. La sua magistratura affonda nel ventre molle di una Sicilia complice.
Ma l’uomo è quello che è. Giusto. Intransigente. Educato ai vecchi principi, cresciuto con il senso del dovere.
Rispettosissimo delle regole. E della legge.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Stanza numero 63 e stanza numero 64, una grande amicizia in tribunale. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 07 luglio 2022
La sua stanza all’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo è la numero 64. La numero 63 è quella di Giovanni Falcone. Si conoscono fin da ragazzi, fra i vicoli e della Kalsa e i cortili intorno alla chiesa della Magione. Si rivedono nelle aule della facoltà, a Giurisprudenza. Si rincontrano lì, al Palazzo di Giustizia, tanto tempo dopo.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Uno dei primi fascicoli che arriva nel suo ufficio è un’indagine preliminare sulle ruberie della Valle del Belice, i fondi che sono spariti per la ricostruzione dei paesi distrutti dal terremoto del 1968. Comincia a indagare su un presidente della Regione. È un’inchiesta choc. In città parlano tutti del giudice che è partito all’attacco dei potenti.
Arriva sulla sua scrivania anche l’indagine su un appalto sospetto che coinvolge il presidente della Provincia Gaspare Giganti.
Si convince della sua colpevolezza, piomba in consiglio provinciale insieme agli agenti di polizia giudiziaria, sequestra documenti, firma contro di lui un mandato di cattura.
Gaspare Giganti è il primo uomo politico di Palermo che entra all’Ucciardone.
Gli anni di Palermo «felicissima» stanno per finire. Cominciano quelli della paura e dei «grandi delitti».
Anche l’inchiesta sull’uccisione del commissario Boris Giuliano è sua. Mese dopo mese, insieme al capitano Emanuele Basile, si avvicina alla mafia di Monreale. E alla notte del Santissimo Crocifisso.
La sua stanza all’ufficio istruzione del tribunale di Palermo è la numero 64. La numero 63 è quella di Giovanni Falcone.
Si conoscono fin da ragazzi, fra i vicoli e della Kalsa e i cortili intorno alla chiesa della Magione. Si rivedono nelle aule della facoltà, a Giurisprudenza. Si rincontrano lì, al Palazzo di Giustizia, tanto tempo dopo.
Nel 1979 Borsellino ha trentanove anni, Falcone uno di più. Sono fianco a fianco, giorno dopo giorno. Lo resteranno fino alla primavera del 1992.
La scrivania di Paolo Borsellino è un mare di carte, faldoni, rapporti di polizia.
C’è l’inchiesta sul Palazzo dei Congressi, uno scandalo sulle alleanze mafiose e imprenditoriali svelate nel 1982 da Pio La Torre e dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa.
C’è quella sull’avvocato Salvatore Chiaracane, un penalista legato alla feroce cosca di Corso dei Mille.
C’è anche l’indagine su Giancarlo Parretti, il cameriere di un hotel di Siracusa, Villa Politi, che dopo pochi anni è diventato un noto finanziere e il boss della società cinematografica più famosa del mondo, la Metro Goldwyn Mayer.
Paolo Borsellino va ad ascoltare Luciano Liggio nel carcere di Bad’ e Carros in Sardegna. Interroga Vito Ciancimino, per la prima volta in carcere, a Rebibbia.
Lui e Giovanni Falcone sono legatissimi, due fratelli. E buoni sono anche i rapporti con gli altri giudici dell’ufficio istruzione. Soprattutto con Leonardo Guarnotta. Tutti indagano su tutto. Si scambiano informazioni, incrociano nomi e dati. Mafia. Traffico di droga e armi. Riciclaggio. Cominciano le prime rogatorie internazionali. Singapore. Ankara. New York.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
L’estate di fuoco e il soggiorno “sicuro” nel carcere dell’Asinara. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'08 luglio 2022
Un funzionario di polizia avverte il consigliere istruttore Antonino Caponnetto che una sua «fonte», all’interno delle carceri, gli ha raccontato che stanno per far fuori anche due giudici. Prima Borsellino e poi Falcone. I due giudici vengono caricati dopo poche ore su un elicottero. Conoscono il luogo dove li nasconderanno solo in volo: l’isola dell’Asinara.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Paolo Borsellino, un giorno, deve affrontare un viaggio molto lungo, arrivare fino in Brasile per interrogare quattro mafiosi a Belo Horizonte. Gli altri, così, scoprono che ha paura di volare.
Salire su un aereo per lui è un incubo. Si affida sempre a riti scaramantici. Sono in quattro, in Brasile. C’è Falcone. C’è il sostituto procuratore Giuseppe Ayala e c’è anche Ninni Cassarà, il capo della sezione investigativa della squadra mobile.
La sentenza ordinanza del maxi processo nell’estate del 1985 è quasi conclusa. Ma, a pochi mesi dall’inizio del dibattimento, Ninni Cassarà muore ammazzato. Una settimana prima hanno ucciso anche Giuseppe Montana, il suo collega che dà la caccia ai latitanti.
Un funzionario di polizia avverte il consigliere istruttore Antonino Caponnetto che una sua «fonte», all’interno delle carceri, gli ha raccontato che stanno per far fuori anche due giudici. Prima Borsellino e poi Falcone.
I due giudici vengono caricati dopo poche ore su un elicottero. Borsellino, la moglie Agnese, i tre figli. Falcone, la compagna Francesca e la madre di lei. Conoscono il luogo dove li nasconderanno solo in volo: l’isola dell’Asinara. Li rinchiudono in un carcere di massima sicurezza. Sono al sicuro soltanto in mezzo al mare.
La tragedia pubblica di Palermo per Paolo Borsellino è anche una grande tragedia privata.
Lucia, la figlia più grande, si ammala. Non mangia più. Da molti mesi è scivolata in un malessere profondo. È una ragazzina, la vita blindata del padre la sta devastando. La sera prima dell’Asinara, nella loro casa sul mare di Villagrazia irrompono all’improvviso gli agenti dei corpi speciali. C’è anche un mezzo blindato per trasportare la famiglia Borsellino fino all’aeroporto.
Su quei giorni all’Asinara, il ricordo di Lucia è affidato al giornalista Umberto Lucentini:
Sono lì da una settimana quando decido di passeggiare, di esplorarla un po’ quest’isola dove ci hanno spedito lontano dal pericolo di vendetta della mafia. È il momento che mi rendo conto che nemmeno all’Asinara possiamo stare tranquilli… Nell’attimo in cui metto un piede fuori dal giardino che circonda la foresteria e mi incammino con mia sorella tra i campi, scorgo un corteo di persone che ci
seguono, si nascondono dietro i cespugli, con i mitra spianati… mi crolla il mondo addosso, altro che rifugio sicuro.
Da quell’attimo mi passa la voglia di passeggiare, di fare qualsiasi cosa. Mi rinchiudo in camera per cinque giorni di fila. Non ho
più fame. Ogni giorno che passa è sempre peggio. Mio padre capisce subito cosa sta succedendo. Io no: quando mi chiede «Perché non mangi?» non so dargli risposta. Gli dico che vorrei tornare a casa.
Papà sa che il rischio è altissimo, ma non sente ragioni: prende me e Fiammetta, ci infila in gran segreto in elicottero e ci accompagna fino a Palermo. Restiamo con i nonni a Villagrazia, lui torna all’Asinara. Sono ridotta a uno scheletro quando papà torna a Palermo. Da quel momento papà non mi lascia un secondo.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Dal pool antimafia di Palermo alle misteriose terre trapanesi. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 09 luglio 2022
Ultime settimane del 1985. Paolo Borsellino decide di presentare domanda al Consiglio Superiore della Magistratura per la nomina a procuratore capo della repubblica a Marsala. Non sta scappando da Palermo. Al contrario. Marsala è una città al centro di una provincia, quella di Trapani, dove da vent’anni non si celebra un processo alla criminalità organizzata.
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Paolo Borsellino è segnato dal dolore. Fuori la guerra a Cosa Nostra e una città nemica, in famiglia il dramma di Lucia. Ma quel 1985 non è ancora finito. Gli ultimi mesi riservano altre sofferenze.
È il 25 novembre e un corteo blindato attraversa a tutta velocità le strade di Palermo. È all’altezza di un incrocio di via Libertà, quasi davanti al «Meli», il liceo che ha frequentato Borsellino. Sbuca un’utilitaria, una delle Alfette dei carabinieri sbanda e finisce su un marciapiedi dove stanno gli studenti appena usciti dalla scuola. Biagio Siciliano, 15 anni, muore sul colpo, Maria Giuditta Milella, 16 anni, muore dopo sette giorni. Altri tre sono in coma.
Sull’auto blindata ci sono Paolo Borsellino e il suo amico Leonardo Guarnotta.
Per la Palermo infastidita o spaventata dalle indagini antimafia, è il momento ideale per scatenarsi. Per rilanciare le polemiche sulla magistratura che sta «rovinando» la città. Gli sciacalli non mancano. Si avvicina l’inizio del maxi processo.
E ogni occasione è buona per dare addosso ai giudici del pool.
Ricomincia la campagna contro una Palermo sotto assedio. La «lotta alla mafia» che porta solo sventure in Sicilia. Uccide «anche gli innocenti».
Ogni sera, Paolo Borsellino va a trovare in ospedale i ragazzi feriti. Parla con i loro genitori. Per gli anni che gli restano si trascinerà un profondo senso di colpa per i ragazzi del «Meli».
La monumentale istruttoria è conclusa. Nel bunker dell’ufficio istruzione c’è molta eccitazione, l’aula bunker ha bisogno degli ultimi ritocchi. Una cinta esterna, le telecamere, un camminamento sotterraneo per trasferire ogni mattina in sicurezza i detenuti rinchiusi all’Ucciardone.
Il lavoro del pool è finito, per il momento.
È in quelle ultime settimane del 1985 che Paolo Borsellino decide di presentare una domanda al Consiglio Superiore della Magistratura: è in pista per la nomina a procuratore capo della repubblica a Marsala.
Ne parla con gli amici del pool. Sono tutti felici. Il sostituto procuratore Vincenzo Geraci – il pubblico ministero che ha
sostenuto in aula l’accusa contro gli assassini del capitano Basile nel primo processo – è al Consiglio Superiore della Magistratura e gli annuncia il suo appoggio e quello della sua corrente.
Paolo Borsellino non sta abbandonando la prima linea, non sta scappando da Palermo. Al contrario. Marsala è una città al centro di una provincia, quella di Trapani, dove da vent’anni non si celebra un processo alla criminalità organizzata. Il territorio, dal golfo di Castellammare fino alla Valle del Belice e a Mazara del Vallo, è governato da decine di famiglie mafiose.
Nessuno ha mai indagato.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Invidie, sentenze cassate e tanti veleni nel palazzo di Giustizia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 10 luglio 2022
Paolo Borsellino vuole ricominciare da lì. Da Marsala. Candidato a quel posto di procuratore c’è anche Giuseppe Prinzivalli, presidente di Corte di Assise, più tardi arrestato e rinviato a giudizio. Verrà accertato “il suo contrasto livoroso” per tutte le inchieste del giudice Falcone e la sua disponibilità «ad assecondare le richieste degli imputati di mafia.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Paolo Borsellino vuole ricominciare da lì. Da Marsala.
Candidati a quel posto di procuratore ci sono altri due magistrati. Tutti e due godono di una maggiore anzianità in magistratura. Uno è Giuseppe Alcamo, presidente di una sezione del Tribunale di Palermo. L’altro è Giuseppe Prinzivalli, presidente di Corte di Assise.
Il più giovane fra loro è proprio Paolo Borsellino. Ma è anche quello che, dopo quasi sei anni all’ufficio istruzione, ha accumulato una straordinaria esperienza in materia di indagini mafiose.
Il Consiglio Superiore deciderà a breve. Paolo Borsellino è in attesa.
Ma intanto a Palermo una sua inchiesta viene cancellata con una sentenza.
«Un brutto segnale per il maxi processo», scrivono sui giornali i commentatori di cose di mafia.
È l’istruttoria sul massacro di piazza Scaffa, otto morti ritrovati la notte del 18 ottobre 1984 in una stalla nei quartieri orientali della città. Macellavano clandestinamente senza l’«autorizzazione» dei boss di Ponte Ammiraglio e di Sant’Erasmo, gli Zanca e i Vernengo. Uno sgarro che provoca la strage.
Paolo Borsellino istruisce l’inchiesta sulle accuse della moglie di una delle vittime – Pietra Lo Verso – e di due pentiti, Vincenzo Sinagra e Stefano Calzetta.
Per la Corte di Assise, la denuncia della donna «è il risultato di uno scambio di idee fra comari». Ai pentiti non credono. Tutti assolti anche questa volta. Anche i latitanti Carmelo Zanca e Pietro Vernengo.
Il presidente della Corte di Assise è Giuseppe Prinzivalli, uno dei «concorrenti» di Paolo Borsellino alla guida della procura della repubblica di Marsala.
L’aula bunker è avvolta nel silenzio quando all’improvviso sento una voce: «Quel giudice ha coraggio da vendere: ha due
palle come il mio mulo di Ciaculli». Mi volto e vedo un sorridente Michele Greco aggrappato alle sbarre della sua cella. Sta commentando la sentenza con la quale – per la prima volta – una Corte lo ha appena assolto dal reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Con lui, altri 78 imputati vengono dichiarati innocenti. È il verdetto di un troncone del maxi processo, presidente è Giuseppe Prinzivalli, giudice intento solo a demolire tutte le inchieste del pool antimafia. Chiacchierato da anni per i suoi benevoli giudizi nei confronti dei boss della Cupola, Prinzivalli è «chiamato» da alcuni pentiti che raccontano di borse piene di soldi e di favori che non si possono rifiutare.
Condannato a 10 anni in primo grado per l’«aggiustamento» di processi, condannato a 8 anni in Appello, il presidente Prinzivalli viene graziato dalla Cassazione e poi ancora condannato da un’altra Corte di Appello. Ma è troppo tardi. Il reato contestato ormai è prescritto. Anche se viene accertato «il suo contrasto livoroso» per tutte le inchieste del giudice Falcone e la sua disponibilità «ad assecondare le richieste degli imputati di mafia».
Il mulo di Ciaculli non gli somigliava per niente
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Paolo Borsellino è a Marsala e scopre una mafia sconosciuta. DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'11 luglio 2022
L’uomo è espansivo, estroverso, generoso. Più che un procuratore sembra un fratello maggiore. Pranza con loro, ascolta i loro problemi, li guida, li consiglia, li aiuta. È fatto così Paolo Borsellino. Poi il procuratore si rivela anche a Marsala, mai violata fino a quel momento dalle indagini antimafia.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
È estate piena quando arriva dall’altra parte della Sicilia. Il 4 agosto 1986 Paolo Borsellino «prende possesso» come capo
della procura della repubblica di Marsala.
La sua stanza è enorme. Lui, piccolo di statura è là in fondo avvolto in una nuvola di fumo. Il pacchetto di Dunhill in mano, una sigaretta in bocca, l’altra ancora accesa e dimenticata nel posacenere.
Il Consiglio Superiore della Magistratura, alla fine, ha scelto lui per guidare quella procura.
Il silenzio di una città è spezzato per sempre.
Il primo uomo che incontra in Tribunale è un maresciallo dei carabinieri. Si chiama Carmelo Canale, diventa la sua ombra. Il maresciallo è anche lui palermitano. E come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone è originario del quartiere della Kalsa.
Il nuovo procuratore capo è circondato da giudici ragazzini. Quasi tutti sotto i trent’anni, tutti freschi di concorso in magistratura.
Diego Cavaliero viene da Napoli. Antonina Sabatino e Antonio Ingroia da Palermo, Massimo Russo è di Mazara, Alessandra Camassa e Giuseppe Salvo sono marsalesi.
Dopo gli anni del pool con Antonino Caponnetto e Giovanni Falcone, questa è la sua nuova squadra.
Paolo Borsellino è un personaggio già famoso, è uno dei magistrati del maxi processo a Cosa Nostra, un mito per i suoi giovani colleghi. Se le ritrovano come loro capo e sono tutti emozionati. La vera sorpresa, però, è quando lo conoscono.
L’uomo è espansivo, estroverso, generoso. Più che un procuratore sembra un fratello maggiore. Pranza con loro, ascolta i loro problemi, li guida, li consiglia, li aiuta. È fatto così Paolo Borsellino.
Poi il procuratore si rivela anche a Marsala, mai violata fino a quel momento dalle indagini antimafia.
Vicino c’è Mazara del Vallo con la sua grande flotta peschereccia, barconi che navigano nel Mediterraneo e davanti alle coste dell’Africa occidentale. Paolo Borsellino mette gli occhi su quattro fratelli, ricchi macellai e forse anche trafficanti di eroina.
Comincia la sua prima inchiesta.
Arrivano le indagini sulla corruzione nella pubblica amministrazione. La città non è abituata a perquisizioni negli uffici, funzionari accusati di peculato, scandali.
Arrivano anche le indagini sui boss. La mafia in provincia di Trapani è Mariano Agate, uno della Cupola. È amico di Totò Riina, il suo regno è Mazara dove si nascondono molti Corleonesi latitanti e forse anche lo stesso capo dei capi di Cosa Nostra.
Paolo Borsellino trova alloggio in un appartamento sopra il commissariato di polizia di Marsala. Torna spesso a Palermo.
Incontra gli amici del pool. Ogni tanto è sua moglie Agnese che va a trovarlo nella sua nuova città.
Questa nuova avventura lo carica, lo emoziona. Le tensioni vissute durante l’istruttoria del maxi sono alle spalle, Lucia sta meglio, lui è felice del suo nuovo incarico, il grande processo alla mafia è iniziato a febbraio e tutto il mondo ha scoperto per la prima volta Cosa Nostra. Ci sono anche il suo sudore e il suo coraggio lì dentro.
Intorno a lui tutto sembra tutto più tranquillo e tutto più normale quando viene ricacciato nell’arena.
DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
«I professionisti dell’Antimafia», l’attacco di Sciascia contro Borsellino. DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 12 luglio 2022
La riflessione di Sciascia parte proprio dalla nomina del nuovo procuratore capo di Marsala, scelto per «meriti di antimafia» a scapito dei criteri di «anzianità». L’articolo del Corriere ha l’effetto di una bomba. Con Leonardo Sciascia si schiera quasi tutta l’Italia.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
La mattina del 10 gennaio 1987 un articolo in prima pagina su Corriere della Sera parla di lui. E di come è diventato procuratore capo della repubblica di Marsala.
Il titolo è una perfetta sintesi: «I professionisti dell’Antimafia».
L’articolo è di Leonardo Sciascia, il siciliano che ha fatto conoscere con i suoi libri la mafia agli italiani.
Che cosa scrive Sciascia?
Prende spunto da una documentata analisi dello storico inglese Christopher Duggan sulla mafia ai tempi del Fascismo, ricorda le retate del prefetto Mori, poi sostiene che l’antimafia può trasformarsi in «uno strumento di potere». E fa due esempi. Il primo è quello del popolarissimo sindaco di Palermo: Leoluca Orlando. È un democristiano che, proprio sul tema dell’antimafia, ha diviso e fatto rivivere Palermo. Leonardo Sciascia non cita il suo nome. Cita però quello di Paolo Borsellino.
È lui il secondo «campione» di quell’antimafia che può raggiungere «un potere incontrastato e incontrastabile».
La riflessione di Sciascia parte proprio dalla nomina del nuovo procuratore capo di Marsala, scelto per «meriti di antimafia» a scapito dei criteri di «anzianità». Borsellino, grazie alla sua attività nel pool di Caponnetto e di Falcone, ha superato in graduatoria colleghi – come Alcamo e Prinzivalli – che potevano contare su una più lunga carriera in magistratura.
L’articolo del Corriere ha l’effetto di una bomba. Con Leonardo Sciascia si schiera quasi tutta l’Italia. Intellettuali. Professori. Uomini politici al di sopra e al di sotto di ogni sospetto. E tutti i personaggi di quella Sicilia livorosa che detesta il pool. C’è chi non sta più nella pelle per la felicità: uno dei più grandi scrittori italiani del secolo è al loro fianco.
Non se ne può più di indagini nel mucchio. Finiamola con i talebani della giustizia. È la dittatura dell’antimafia.
Contro Leonardo Sciascia scrivono Eugenio Scalfari, Giampaolo Pansa, Nando dalla Chiesa e pochi altri.
La polemica monta giorno dopo giorno.
Si scopre anche che un paio di vecchi giudici del Tribunale di Palermo hanno incontrato Sciascia per consegnargli la copia della sentenza sulla strage di piazza Scaffa, il verdetto del presidente Giuseppe Prinzivalli che ha annullato e mortificato l’istruttoria di Paolo Borsellino.
Il procuratore di Marsala è nella tempesta. Per alcuni giorni tace. Tutti lo cercano, Borsellino si fa negare. Anche perché lui, come moltissimi siciliani, ha sempre amato i libri di Sciascia.
Le parole dello scrittore offrono a tutti i nemici dell’antimafia l’occasione di scatenarsi una volta ancora contro i giudici. Il maxi processo è in corso. La sentenza è attesa per la fine dell’anno.
DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Il mistero del boss ucciso da Riina prima dell’attentato a Borsellino. GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 13 luglio 2022
Trent'anni dopo quel terribile 1992, c’è un episodio che è snodo importante per capire il senso di quella guerra di Cosa nostra allo Stato. Ed è l’omicidio di Vincenzo Milazzo. Capomafia di Alcamo.
Il suo omicidio è uno degli episodi più significativi e meno raccontati, finora, di quel periodo. Avviene il 14 Luglio 1992, pochi giorni prima della strage di Via D’Amelio. Per anni si è ritenuto che l’ eliminazione di Milazzo fosse da inserire nella lotta per il controllo del traffico di droga o per le proteste sulla sua gestione delle entrate della “famiglia”.
Ma alcuni elementi hanno sempre destato sospetto: il periodo dell’omicidio - tra le grandi stragi di mafia, il meno opportuno per un regolamento di conti - la partecipazione di Matteo Messina Denaro, amico di Milazzo, all’omicidio, alla presenza di tutti i giovani rappresentanti delle altre famiglie, e l’uccisione, dopo qualche giorno, della sua compagna.
GIACOMO DI GIROLAMO. Giornalista. Si occupa di criminalità organizzata e corruzione per il portale Tp24.it e per la radio Rmc 101. Autore della biografia del boss Matteo Messina Denaro: L’invisibile (2017), di Cosa Grigia (il Saggiatore 2012, finalista al premio Piersanti Mattarella), Dormono sulla collina (il Saggiatore 2014), Contro l’antimafia (Il Saggiatore, 2016). Con Andrea Bulgarella ha scritto La partita truccata (Rubbettino, 2018).
UN PASSATO DI MISTERI. La storia del principe palermitano all’origine della strategia della tensione. PAOLO MORANDO su Il Domani il 13 luglio 2022
Giovanni Tamburino è stato il magistrato che nel 1974 a Padova ha condotto l’inchiesta contro l’organizzazione neofascista Rosa dei venti.
Ora, in un libro e con documenti inediti, ha scoperto le connessioni di Gianfranco Alliata con l’eversione italiana. A partire dalla strage di Portella della Ginestra.
Il capitolo finale del libro, Dalla Rosa dei venti a Portella della Ginestra, si chiude infatti con un’incalzante serie di asserzioni conclusive, frutto di meticolose ricerche anche nel Fondo Alliata riversato all’Archivio storico della Camera dai familiari del principe, dopo la sua morte avvenuta il 20 giugno 1994.
PAOLO MORANDO. Giornalista, ha lavorato in quotidiani di Trento, Bolzano e Verona. Ora scrive per Domani, Huffington Post, Internazionale, L'Essenziale e sul blog minima&moralia. Per Editori Laterza è autore di Dancing Days. 1978-1979: i due anni che hanno cambiato l’Italia (2009, ristampato nel 2020), ’80. L’inizio della barbarie (2016, finalista al Premio Estense), Prima di Piazza Fontana. La prova generale (2019, vincitore del Premio Fiuggi Storia, sezione Anniversari) e Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (2021).
Quell’articolo sul Corriere, le polemiche e una ferita che sanguina sempre. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 13 luglio 2022
Le ferite per quell’articolo sui «professionisti dell’Antimafia» non si sono ancora rimarginate. Paolo Borsellino non ha mai dimenticato l’articolo sul Corriere. «È cominciato tutto da lì», dice la sera del suo ultimo discorso pubblico, appena un mese dopo l’uccisione di Giovanni Falcone.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
La bufera di accuse e controaccuse sul «potere» di chi combatte Cosa Nostra, in verità si accende violentissima quando il «Coordinamento Antimafia» di Palermo – un movimento di trecento fra ragazzi e vecchi militanti, ci sono quelli delle Acli e dell’Arci, del Pci e di Democrazia Proletaria – scrive una lettera aperta a Sciascia e «lo colloca ai margini della società civile».
Gli dà anche del quaraquaquà.
E un vocabolo utilizzato dallo stesso Sciascia ne Il Giorno della Civetta per indicare uomini «inutili», senza spina dorsale.
Quel quaraquaquà infiamma gli animi.
Per una settimana, la stampa non fa che parlare dei «meriti antimafia» di certi giudici.
Come Paolo Borsellino, che dopo una vita blindata a Palermo adesso è a Marsala, sempre prigioniero fra il Tribunale dove lavora e il commissariato di polizia dove abita.
Una mattina il Giornale di Sicilia pubblica l’elenco completo, nome per nome, degli iscritti al «Coordinamento Antimafia» che hanno «osato» insultare Leonardo Sciascia. Una lista di proscrizione.
Oggi, venticinque anni dopo, le ferite per quell’articolo sui «professionisti dell’Antimafia» non si sono ancora rimarginate.
Paolo Borsellino non ha mai dimenticato l’articolo sul Corriere.
«È cominciato tutto da lì», dice la sera del suo ultimo discorso pubblico, appena un mese dopo l’uccisione di Giovanni Falcone.
«Sono stato io a scrivere quel comunicato. Non rinnego nulla», mi svela Francesco Petruzzella.
È il 6 gennaio del 2007 e, nel ventennale della polemica, in Italia ancora si dibatte su Sciascia e sui «meriti» dell’antimafia. Chiamo Francesco a Palermo per farmi raccontare qualche particolare – un ricordo, un retroscena – su quella riunione in cui il «Coordinamento» aveva deciso di attaccare lo scrittore frontalmente e con quell’espressione.
Francesco Petruzzella è un analista informatico della procura della repubblica. Vent’anni prima era uno studente di Giurisprudenza.
Mi prende di sorpresa: «Sai, sono stato io a dare del quaraquaquà a Sciascia, puoi scriverlo, dopo vent’anni mi sembra anche giusto uscire allo scoperto». Perché l’hai fatto? «Quando ho letto il suo articolo sono rimasto pietrificato, vivevo in una Palermo di morti e non riuscivo a comprendere come aveva potuto indicare proprio quei due uomini, il sindaco Orlando e il procuratore Borsellino. Ero in preda alla rabbia».
Francesco Petruzzella è nato a Racalmuto, il paese di Sciascia. E, come ogni siciliano, fin da bambino ha sempre letto i suoi libri.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Quel “dito” di Sciascia che anticipò l’isolamento di Falcone e Borsellino. Vincenzo Ceruso, allievo di don Pino Puglisi, nel libro “Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia” ha ricostruito sia la nascita della mafia corleonese sia la via crucis che hanno dovuto affrontare i due magistrati. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 15 luglio 2022.
Non manca la letteratura sul fenomeno mafioso, così come non mancano i libri su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che, puntualmente, escono nelle librerie a ridosso di ogni anniversario delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Negli ultimi anni, però, è sempre più difficile trovare libri sul tema che si distinguano in qualche modo dai romanzi fantasy, senza una vera ricerca delle fonti, lettura degli atti processuali, verbali, testimonianze credibili e che restituiscano il vero pensiero dei due giudici. Ciò sta creando un analfabetismo culturale di ritorno. La mafia scompare come attore principale, e a lei si sostituiscono non meglio precisate entità. Manca un punto di riferimento sia per i giovani che cominciano ad approcciarsi alla storia terribile di Cosa nostra, sia per quelli che hanno una conoscenza maggiore ma rischiano di perdersi.
Un libro utile anche per gli addetti ai lavori, magistrati compresi
Da qualche tempo, però, nelle librerie è uscito il libro edito da Newton Compton Editori, dal titolo “Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia”. L’autore è Vincenzo Ceruso e gli va riconosciuto il merito di aver ricostruito in maniera scrupolosa sia la nascita della mafia corleonese che la via crucis che dovettero affrontare Falcone e Borsellino. Un libro che è utile anche per gli addetti ai lavori, magistrati compresi. Vincenzo Ceruso è un palermitano, allievo di padre Pino Puglisi, si è occupato di devianza con la comunità di Sant’Egidio e ha già scritto numerosi libri sulla mafia. Balza subito all’occhio che l’autore per scrivere questo libro ha svolto una scrupolosa ricerca, non tralasciando nulla e arricchendo di particolari, anche inediti, la genesi delle stragi.
Chi si aspetta la solita storia di entità che eterodirigono la mafia, rimarrà deluso. Così come, d’altronde, rimasero delusi coloro che da Falcone attendevano una narrazione alla James Bond e di una Spectre che governava gli eventi. La questione è più semplice e complessa nel contempo. Il sistema binario, in questo libro non è contemplato. Si intravvedono sfumature, dubbi, ma anche fatti certi e inoppugnabili che aiutano lo spirito critico. Tale esercizio va fatto costantemente, ma solo se si ha la conoscenza dei fatti. Questo libro è indispensabile per chi vuole intraprendere tale percorso.
Un capitolo del libro fa un riferimento intellettuale al “dito di Leonardo Sciascia”
“Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia” però narra anche la lotta, sofferenza e isolamento dei due giudici. I primi a colpirli, soprattutto Falcone, sono stati i loro colleghi. C’è un capitolo del libro dove si fa un riferimento intellettuale al “dito di Leonardo Sciascia”. L’autore cita una riflessione dello scrittore di Racalmuto relativa all’assassinio del procuratore Gaetano Costa. Lo fa dopo alcune settimane dal delitto eccellente di Cosa nostra, in una intervista rilasciata a Felice Cavallaro. Alla domanda su cosa ne pensava della riunione nel corso della quale Costa, in contrasto con alcuni magistrati, decise di firmare i mandati di cattura contro i bossi del traffico di droga, Sciascia ha risposto così: «Uno scrittore americano, Damon Runyon, un umorista, usa un termine mutuato dal gergo della malavita, il dito. Chiama così colui che indica le persone da uccidere, da sequestrare, da rapinare. Credo che in Italia, in ogni ambiente ed in ogni categoria, ci sia un dito, e questo vale anche per certi omicidi del terrorismo. Il dito può funzionare per volontà, consapevolmente, e può funzionare incidentalmente; per esempio, lasciando solo la persona che vuol fare qualcosa».
Falcone fa riferimento a Sciascia in una pagina dell’ordinanza che avvia il maxiprocesso
Vincenzo Ceruso rivela che questa intervista è stata molto apprezzata da Falcone, il quale la cita durante un convegno. Ma soprattutto, il riferimento a Sciascia è nitido in una pagina dell’ordinanza che avvia il maxiprocesso. L’autore del libro “Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia” l’ha scovata e si tratta di un passaggio fondamentale relativo all’omicidio del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie e l’agente di scorta. Anche in questo caso vale la pena riportarlo: «Un noto scrittore siciliano, a proposito degli omicidi di pubblici funzionari, ha elaborato una interessante teoria secondo cui la mafia attacca e uccide quando la vittima, particolarmente distintasi per l’impegno profuso nella repressione del fenomeno mafioso, non appare assistita e circondata dall’appoggio e dal consenso delle istituzioni, per cui appare all’esterno come una monade isolata, impegnata in una sorta di crociata personale».
“Il dito di Sciascia” che riappare sulla bocca di Borsellino
Inutile dire che, leggendo questo passaggio, inevitabilmente la pelle è attraversata da un brivido. È esattamente quello che poi accadrà a lui stesso: il ditino contro Falcone che proviene dai suoi stessi ambienti lavorativi. Cosa che poi dovrà affrontare anche Borsellino. Quel dito che in qualche modo sembra rievocarlo quando, proprio il giorno prima dell’attentato a Via D’Amelio, il giudice disse alla moglie Agnese che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. “Il dito di Sciascia” che riappare sulla bocca di Borsellino. Un dito che però, di fatto, viene ricercato altrove. Lo stesso Ceruso, in un capitolo del libro fa riferimento a una audizione di un magistrato che sembra mutuare le parole di Borsellino.
Ceruso ricorda che Falcone e Borsellino erano considerati nemici numero uno da Cosa nostra
Scompaiono i colleghi e appaiono i servizi segreti deviati. Le “entità”, definizione che va di moda. Ma quel dito, nel caso delle stragi, soprattutto quella di Via D’Amelio crea l’humus per poter neutralizzare i giudici, sia per vendetta che per cautela preventiva. Soprattutto quest’ultima che va ad inserirsi nell’interessamento dell’indagine su mafia appalti. L’autore, e per la prima volta lo troviamo in maniera dettagliata in un libro, spiega bene ogni minimo particolare. Solo leggendolo, con tanto di riferimenti documentali, un lettore desideroso di conoscenza può comprenderne l’importanza. Ceruso ci tiene a ricordare che sia Falcone che Borsellino erano considerati nemici numero uno da Cosa nostra fin da subito. Comincia con l’ascesa di Totò Riina – qui l’autore spiega molto bene la sua figura che è l’incarnazione vivente dell’anti-trattativa -, il quale non scende a patti con nessun potere, distrugge la vecchia mafia e ne crea una nuova. Soprattutto desiderosa di eterodirigere l’amministrazione pubblica fino ad essere quotata in Borsa.
L’omicidio del capitano Basile stravolse la vita di Borsellino
Ceruso ricorda le indagini di Borsellino che colpirono a segno la mafia e l’episodio che gli stravolse la vita. Primo tra tutti, l’omicidio del capitano Emanuele Basile. La mafia proverà ad avvicinarlo attraverso dei segnali, ma rifiutò e andò avanti con l’indagine entrando nel cuore del mandamento di San Giuseppe Jato. Siamo nel 1980 e Totò Riina voleva ucciderlo, e con lui ha individuato Basile che era riuscito a fare una indagine capillare. Quest’ultimo sarà ucciso alle spalle dai sicari mentre, assieme alla moglie e figlia piccola, mentre partecipava a una processione del santissimo crocifisso di Monreale. Dirà il giornalista Attilio Bolzoni: «Quella sera cambiò per sempre la vita di Paolo Borsellino».
Il libro va letto tutto, perché ci sono dettagli che nel tempo sono sfuggiti, oppure evaporati tra tesi giudiziarie inconcludenti, seppur affascinanti. La vicenda di Cosa nostra e le stragi, non sono un romanzo. Non si può fantasticare su fatti tragici. Basta Cosa nostra stessa che, durante l’epoca corleonese, usava una tecnica – così ricorda l’autore nel libro – che evoca la strategia terrorista sudamericana: attuava omicidi e stragi depistandoli attraverso sigle come quella della “falange armata”. Ai tempi dell’impoverimento culturale, dove purtroppo mancano intellettuali e storici di riferimento, il libro di Ceruso è una boccata d’ossigeno. Da leggere per chi vuole riconciliarsi con la verità storica e giudiziaria. E magari riprendere il percorso tracciato da Falcone stesso.
Lo studio di Paolo Borsellino e quella corrispondenza con Leonardo Sciascia. DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 15 luglio 2022
Ero stato diverse volte a trovare Paolo Borsellino lì. Solo di sera e solo nel suo studio. Non avevo mai visto le altre stanze della casa. Con Manfredi rientro nello studio di Paolo Borsellino. Mi fa vedere la lettera di Sciascia, con la quale chiede di entrare in possesso del vecchio processo di Joseph Bonanno. Parliamo di suo padre.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Passano due mesi e Leonardo Sciascia spedisce un’altra lettera a Paolo Borsellino: «Le Scrivo per chiederLe un favore: spero non Le sia, la mia richiesta, di troppo fastidio. Non so se Lei ha letto il libro di Joseph Bonanno, di cui la Mondadori ha pubblicato la traduzione nel 1985… Bonanno è allergico alle date ma il suo processo potrebbe essere stato celebrato, a Trapani, fra il 1912 e il 1914. Quel che Le chiedo è dunque questo: è possibile, trovandosi l’incarto, che io possa prenderne visione…».
Questa lettera, datata 26 ottobre 1988, me la dà Manfredi Borsellino, il figlio.
È il 2002 e gli dico che mi piacerebbe pubblicare tutta la corrispondenza fra suo padre e Leonardo Sciascia, a proposito dell’“Uomo cane” di Mazara del Vallo. Mi fa vedere anche questo messaggio dello scrittore.
Manfredi è un funzionario della Polizia di Stato, lo conosco da qualche anno. Non lo incontro da un po’. Ho un momento di smarrimento. La somiglianza con Paolo Borsellino è impressionante. Manfredi è un ragazzo garbato e riservato.
Un paio di giorni dopo mi invita a casa sua, in via Cilea. Ero stato diverse volte a trovare Paolo Borsellino lì. Solo di sera e solo nel suo studio. Non avevo mai visto le altre stanze della casa.
Con Manfredi rientro nello studio di Paolo Borsellino. Mi fa vedere la lettera di Sciascia, con la quale chiede di entrare in possesso del vecchio processo di Joseph Bonanno. Parliamo di suo padre. Gli racconto: «Io sono venuto diverse volte in questa casa ma tuo padre non mi ha mai fatto varcare quella porta oltre lo studio, teneva moltissimo alla famiglia e cercava di tenere rigorosamente separato il suo lavoro da voi. Conosco solo questa stanza e ho sempre ho avuto la sensazione che fosse staccata dal resto della casa».
Manfredi sfila da uno scaffale uno dei tanti faldoni custoditi da suo padre. Paolo Borsellino segnava e conservava tutto.
Incontri, interviste, appunti, fotografie, ritagli di giornale.
Poi sorride e mi dice: «In effetti non hai avuto una sensazione sbagliata: questa stanza era della casa accanto, i miei genitori l’hanno comprata successivamente dal vicino per allargare il nostro appartamento».
A Palermo sono gli ultimi giorni di Antonino Caponnetto. Il consigliere istruttore sta tornando a Firenze e il giudice Falcone è sicuro di prendere il suo posto. Non sarà così. Quando all’ufficio istruzione arriva il nuovo capo Antonino Meli, in pochi mesi viene disintegrato il pool antimafia.
Paolo Borsellino non ha dimenticato gli amici di Palermo. È uno di loro. Giovanni Falcone non può parlare, è un giudice di quell’ufficio e deve rispettare regole e gerarchie. Paolo Borsellino, invece, sta fuori e può dire ciò che pensa. È sempre a Marsala. Aspetta soltanto l’occasione per denunciare quello che ha dentro.
DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Il giallo del fisico Ettore Majorana sul tavolo del procuratore Borsellino. DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 14 luglio 2022
Leonardo Sciascia è incuriosito da una storia che i quotidiani locali stanno seguendo da qualche giorno. Ci sono due fratelli di Mazara del Vallo, Edoardo e Antonio Romeo, che si rivolgono al procuratore Borsellino sostenendo che conoscono la vera identità di un barbone morto molti anni prima nella loro città. «Era Ettore Majorana», gli dicono.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Il maxi processo finisce nel mese di dicembre del 1987. È una vittoria per il pool. E per un’Italia che spera ancora.
Paolo Borsellino è sempre a Marsala. È passato ormai quasi un anno dalla polemica sui «professionisti dell’Antimafia».
E un giorno, sulla sua scrivania, trova una lettera di Leonardo Sciascia:
«Caro Dottor Borsellino, Le scrivo confidenzialmente, amichevolmente, a proposito dell’inchiesta che, dai giornali, apprendo Lei sta conducendo sul cosiddetto “Uomo cane” di Mazara del Vallo…».
C’è qualcuno che crede di sapere dove, per mezzo secolo e avvolto nel mistero, ha vissuto Ettore Majorana, il fisico siciliano misteriosamente scomparso nel 1938.
Alla sua sparizione, Leonardo Sciascia ha dedicato un bellissimo libro nel 1975. Nessuno ha mai più avuto notizie di lui. Qualcuno dice che è riparato in Sudamerica. Qualcun altro in un convento in Calabria. Molti sono sicuri che sia in fondo al mare.
Suicida, annegato, durante il suo ultimo viaggio sul postale Palermo-Napoli.
Leonardo Sciascia è incuriosito da una storia che i quotidiani locali stanno seguendo da qualche giorno.
Ci sono due fratelli di Mazara del Vallo, Edoardo e Antonio Romeo, che si rivolgono al procuratore Borsellino sostenendo che conoscono la vera identità di un barbone morto molti anni prima nella loro città. «Era Ettore Majorana», gli dicono. E aggiungono: «Lui ci ha raccontato che era stato un insegnante di fisica, aveva sulla mano destra una cicatrice identica a quella di Majorana. Ci ha fatto giurare che potevamo svelare il suo segreto a quindici anni dalla sua morte».
Il nome del barbone era Tommaso Lipari ma per tutti era l’“Uomo cane”. Si sosteneva con un bastone con incise due iniziale: E.M. Proprio come Ettore Majorana.
Paolo Borsellino affida l’indagine al maresciallo Carmelo Canale e aspetta i risultati delle sue verifiche.
Intanto Leonardo Sciascia gli manda quella lettera.
L’incontro con lo scrittore è a Marsala. Di mattina si vedono allo Stagnone di Mozia davanti alle isole Egadi, a pranzo sono seduti in una trattoria sul mare. C’è anche Agnese, la moglie di Paolo Borsellino.
È un momento di distensione dopo quell’articolo sui «professionisti dell’Antimafia». Con loro c’è pure il giudice Giuseppe
Alcamo, uno dei tre «concorrenti» nel 1986 a procuratore capo di Marsala.
Paolo Borsellino e Leonardo Sciascia parlano delle comuni origini agrigentine, dei figli, del loro lavoro.
Dopo qualche settimana si scopre che Tommaso Lipari è in effetti Tommaso Lipari e non il fisico Ettore Majorana. Il barbone, tantissimi anni prima, era finito nel carcere di Favignana dopo aver insultato un vigile urbano. Ci sono ancora le sue impronte digitali. Il mistero è chiarito per sempre.
DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
La denuncia della fine del pool antimafia, così esplode il “caso Palermo”. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 16 luglio 2022
Borsellino comincia a raccontare cosa sta accadendo a Palermo. Nel bunker del Tribunale. Nel pool antimafia dove fino a un paio di anni prima c’era anche lui. Il suo atto di accusa è durissimo. Paolo Borsellino dice che: «la lotta al crimine organizzato è stata azzerata»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Arriva il 16 luglio del 1988, ad Agrigento. Paolo Borsellino è alla presentazione di un libro di Giuseppe Arnone, il leader siciliano di Legambiente che ha raccolto gli atti di un processo di mafia nella sua città, il primo dopo quarantadue anni. Con lui c’è Luciano Violante, il responsabile dei problemi per la giustizia del Pci, c’è il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, c’è l’avvocato Alfredo Galasso.
Nel chiostro di San Nicola si parla dei «ritardi» dello Stato, della mafia agrigentina mai esplorata. Poi, all’improvviso
Borsellino comincia a raccontare cosa sta accadendo a Palermo. Nel bunker del Tribunale. Nel pool antimafia dove fino a un paio di anni prima c’era anche lui. Il suo atto di accusa è durissimo. Paolo Borsellino dice che: «la lotta al crimine organizzato è stata azzerata», che l’«ultimo rapporto di polizia degno di questo nome risale al 1982 ai tempi di Montana e di Cassarà», che da quando il consigliere Antonino Meli è «all’ufficio istruzione di Palermo i processi si perdono in mille rivoli».
I giornali locali non pubblicano niente. Nessuno viene informato su cosa ha detto il procuratore Borsellino ad Agrigento.
Giuseppe Arnone chiama me e Saverio Lodato dell’Unità. Ricostruisce per noi la giornata agrigentina del procuratore Borsellino. Il pomeriggio successivo siamo a Marsala. È il 19 luglio del 1988.
Paolo Borsellino è in piedi, dietro la sua scrivania. «Siete venuti fin qui per consumarmi? Per farmi ripetere quello che ho detto ad Agrigento e che non è fregato niente a nessuno?», chiede sorridendo.
Ci rilascia un’intervista sulla solitudine di Giovanni Falcone. Sul pool smembrato. Sulla lotta alla mafia che è finita. Sugli apparati investigativi che girano a vuoto. Per una settimana la sua denuncia cade nel silenzio. Tutti in Italia fanno finta di niente.
Poi, il presidente della Repubblica Francesco Cossiga dice che vuole sapere cosa sta accadendo in Sicilia.
Il Capo dello Stato chiede al Consiglio Superiore della Magistratura di ascoltare i giudici di Palermo.
A Palazzo dei Marescialli aprono subito un «procedimento» contro Paolo Borsellino per l’intervista che ci ha concesso.
È il «caso Palermo» che esplode.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Tradito e venduto, Paolo Borsellino è andato solo incontro alla morte. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 18 luglio 2022
Dalla strage di Capaci all’attentato di via D’Amelio, cinquantasei giorni che hanno segnato la sorte dell’Italia. Dalle rivendicazioni della Falange Armata alle informative dei carabinieri nascoste dal suo capo Pietro Giammanco, dalla caccia ai diari di Falcone a un anonimo che annuncia terrore.
Sono passati più di venti giorni dall'attentato e nessuno, fra i procuratori che indagano sulla strage, ha ancora trovato il tempo per interrogarlo. Perché? Non è lui, più di chiunque altro, a custodire le confidenze e i segreti di Falcone?
Il tritolo che arriva a Palermo, il tam tam di radio carcere che dà “Borsellino morto“, un misterioso incontro a Viminale
Attilio Bolzoni per editorialedomani.it il 19 luglio 2022.
Una pioggia violenta lava Palermo, il cielo è nero, la piazza vuota. Dentro la chiesa Paolo Borsellino è in ginocchio davanti a un prete, si sta confessando. Esce per ultimo dalla basilica di San Domenico, si guarda intorno, è fradicio d’acqua, cerca con gli occhi gli uomini della sua scorta e poi si ripara sotto la pensilina del 101, l’autobus che scende da via Libertà fino alla stazione.
È lunedì 25 maggio 1992, Giovanni Falcone non c’è più da trentasei ore. E il suo amico, il fratello, quello che tutti indicano come l’erede, è sotto un temporale d’estate, disperato come lo sarà sempre nei cinquantasei giorni che seguiranno. Solo, sta andando incontro alla morte. Basta mettere in fila le date e gli avvenimenti per intuire che Paolo Borsellino doveva saltare in aria, basta ricordare come è stato tradito da alcuni suoi colleghi per capire che non aveva altro destino. La cronaca dei fatti, nuda, scarna, a volte spiega tanto.
I funerali di stato sono finiti, la rivolta dei poliziotti sedata, il becchino ha già seppellito Giovanni Falcone. Il presidente del Consiglio Giulio Andreotti non è a Palermo, ma fa sapere di una telefonata anonima dopo il “botto” di Capaci: «È un regalo di matrimonio di Salvino Madonia». Salvino Madonia, uno dei quattro figli del patriarca della Piana dei Colli don Ciccio, che si è sposato all’Ucciardone proprio il giorno della strage, il 23 maggio.
Il capo del governo parla anche di altre due telefonate, una alla redazione Ansa di Genova e un’altra alla redazione Ansa di Bari. La rivendicazione dell’uccisione del giudice, firmata Falange armata, una sigla al tempo molto misteriosa, miscuglio di spioni e boss della Cupola. Andreotti dedica poche parole alla strage: «Non facciamo certo discriminazioni fra le vittime, ma quando cadono uomini come Falcone, siamo colpiti in modo tutto particolare».
Alla fine della giornata non è lui, come aveva lungamente sperato, il nuovo presidente della Repubblica. L’omicidio nel marzo precedente di Salvo Lima, il suo console siciliano, l’ha messo fuori gioco per sempre. Dopo 15 scrutini segreti e 15 fumate nere dal 13 maggio, i deputati e i senatori finalmente eleggono il capo dello stato.
È Oscar Luigi Scalfaro, ex magistrato, un democristiano più volte sottosegretario e ministro. Il “botto” ha avuto un effetto politico “stabilizzante”, il terrorismo mafioso unisce i due rami del parlamento che si ritrovano insieme per resistere alla minaccia eversiva.
Nel mio taccuino segno alcune parole: il botto di Capaci, la bomba di Capaci, l’inferno di Capaci, segno anche “la disgrazia di Capaci”, come mi dirà qualche giorno dopo Antonina Brusca, dama di carità di San Vincenzo e madre di Giovanni, il mafioso che il 23 maggio era sulla collinetta con un radiocomando fra le mani.
Il conto alla rovescia forse può iniziare il 26 maggio, un martedì. Il nuovo capo dello stato è a Palermo, scende a Punta Raisi e va subito a pregare sul curvone dove il cratere butta ancora fumi e veleni. Poi è a villa Withaker, sede della prefettura. In quelle stesse ore, dall’altra parte dell’Atlantico, sta partendo una squadra di agenti speciali dell’Fbi, destinazione Sicilia. Indagano anche loro sull’attentato. A Washington annunciano una commemorazione al Congresso, repubblicani e democratici firmano una risoluzione: «L’uccisione del giudice italiano Giovanni Falcone è un delitto commesso anche contro gli Stati Uniti d’America».
Mercoledì, 27 maggio. Vado a Caltanissetta perché è quella procura della repubblica che, per competenza, indaga su Capaci. Scopro che il procuratore capo Salvatore Celesti non è mai andato sul luogo del massacro, investiga “in differita”. Celesti è in scadenza, sono i suoi ultimi giorni a Caltanissetta. Per sostituirlo c’è solo un pretendente, Gianni Tinebra, un magistrato che da quasi un quarto di secolo è nello stesso distretto giudiziario.
La Sicilia intanto è stordita dalla strage, l’Italia è stordita dalla strage, noi che viviamo a Palermo siamo in stato di tranche. Vediamo tutto e vediamo niente. Giovedì 28 maggio. A Roma, il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti candida a sorpresa Paolo Borsellino a capo della neo procura nazionale antimafia. Borsellino non ne sa niente, è disorientato, impaurito: quella candidatura lo fa diventare ancora di più bersaglio dopo l’uccisione di Falcone. Due giorni da brivido.
Perché il nome di Borsellino viene scaraventato all’esterno? Il procuratore scrive una lettera a Scotti e declina l’invito, dice che il suo posto è a Palermo. Tutta Italia crede però che lui, solo lui andrà alla Superprocura.
Il mese di giugno inizia male. Ci sono pentiti che non vogliono più parlare «perché non si sentono tutelati dallo stato», fra loro anche Totuccio Contorno e Antonino Calderone. A Palermo intanto rafforzano la scorta a Borsellino. Un’altra auto blindata, una vigilanza più intensa intorno alla zona rimozione sotto la sua casa in via Cilea e davanti alla chiesa di Santa Luisa di Marillac dove il procuratore va almeno una volta la settimana.
Gli agenti che lo proteggono chiedono al questore Vito Plantone e al prefetto Mario Iovine di trasformare via Mariano D’Amelio, la via dove abita la madre di Borsellino, in una grande area protetta. Non ricevono risposta. Palermo è terrorizzata. Al palazzo di Giustizia arrivano tre o quattro magistrati da altre procure per seguire, indirettamente dal capoluogo siciliano, le indagini sull’uccisione di Giovanni Falcone.
Vengono da Catania e da Messina, si aggirano come fantasmi nei lunghi corridoi della procura, non conoscono le strade della città, non conoscono le mappe criminali – organigrammi, composizione delle famiglie, capi e sottocapi – non conoscono la mafia. Noi giornalisti facciamo la spola fra Palermo e Caltanissetta, riempiamo pagine di niente, titoloni a sei colonne, il vuoto dentro gli articoli. Notizie che si rincorrono, si scrive tutto e il contrario di tutto.
Sono più concrete le informazioni che vengono dalla politica, Vincenzo Scotti e Claudio Martelli stanno preparando un “decretone” di misure contro la mafia: è lo stato che reagisce alla strage. Protezione e aiuto economico ai mafiosi che collaborano, aboliti i benefici di legge ai boss che non parlano, l’introduzione del 41 bis, il carcere speciale. È ancora tutto sulla carta: non se ne farà nulla sino a dopo il 19 luglio. Ma c’è chi intuisce che sta succedendo qualcosa di importante, qualcosa che può portare un grave danno a Cosa nostra.
E così si rifà viva la fantomatica Falange armata: «I politici hanno ottenuto quello che volevano, noi no. Certe cose non sono state rispettate». Nel disordine di quei giorni nessuno fa caso più di tanto alla Falange armata e a quella telefonata anonima, la voce di un uomo con un marcato accento catanese. Ma quali “cose” non sono state rispettate? C’è stato un patto? Ci sono state promesse?
Nel caldo insopportabile dello scirocco Palermo il 9 giugno si sveglia con le lenzuola bianche che scendono dai balconi dei palazzi. È una rivolta di massa. Dietro al “Comitato dei lenzuoli” c’è Giuliana Saladino, intellettuale raffinata, giornalista del quotidiano L’Ora per tre decenni, autrice di memorabili inchieste sul malaffare siciliano. Il Comitato chiede all’arcivescovo, il cardinale Salvatore Pappalardo, di far suonare le campane di tutte le chiese della città alle 17.58 del 23 giugno, un mese dopo Capaci.
Ci sono mafiosi che non vogliono parlare più e ci sono mafiosi saltano il fosso. Uno è della provincia di Caltanissetta, si chiama Leonardo Messina, è a conoscenza di tanti segreti. Il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti torna sulla strage di Capaci: «È stato un delitto di mafia che ha trasceso i confini nazionali, il modo in cui è stato perpetrato, le tecniche che sono state usate: tutto punta verso una matrice non esclusivamente siciliana».
Paolo Borsellino ogni mattina è nella sua stanza al secondo piano del palazzo di Giustizia di Palermo. È barricato, stravolto, schiacciato. Un giorno lo vado a trovare. La porta si apre, ha ancora il telefono in mano: «Ho appena parlato con Antonio Di Pietro sull’informatizzazione della Giustizia, io sono il referente qui a Palermo».
Gli chiedo se i suoi colleghi di Caltanissetta l’hanno già chiamato come testimone per dire tutto ciò che sa su Giovanni Falcone. Risponde: «No, sto ancora aspettando». Sono passati più di 20 giorni dall’attentato e nessuno, fra i procuratori che indagano sulla strage ha ancora trovato il tempo di interrogarlo. Perché? Non è lui, più di chiunque altro, a custodire le confidenze e i segreti di Falcone? Tutti la pensano così, tutti tranne i magistrati della procura di Caltanissetta.
In un’atmosfera cupa che non annuncia niente di buono al comando generale dell’Arma dei carabinieri viene trasmesso un rapporto con oggetto “Minacce nei confronti di personalità e inquirenti”.
È firmato dal generale Antonino Subranni, l’ufficiale che guida il Ros, il raggruppamento operativo speciale. Nel dossier vengono indicati i possibili obiettivi: l’ex ministro dell’Agricoltura Calogero Mannino e il ministro della difesa Salvo Andò, il capitano dell’Arma Umberto Sinico e infine lo stesso Paolo Borsellino. Sono numerose le fonti “ascoltate” dal Ros, dentro e fuori Cosa nostra. È venerdì 19 giugno.
Il giorno dopo, sabato 20, Giuseppe Ayala, amico di Falcone, pubblico ministero al maxi processo e da qualche mese parlamentare eletto fra le fila dei repubblicani, rivela: «Falcone aveva un diario dove scriveva tutto».
È caccia al diario. Chi ce l’ha? È nelle mani degli inquirenti? È sparito? A Roma intanto viene nominato il presidente del Consiglio, è il socialista Giuliano Amato, sarà lui a guidare un governo in mezzo fra la Prima e la Seconda Repubblica dopo il terremoto di Tangentopoli e il cratere di Capaci. Il 24 giugno Paolo Borsellino entra al mattino presto in procura ed esce di sera. Il 24 giugno Il Sole 24 ore, a firma Liana Milella, pubblica alcuni stralci dei diari di Falcone.
Sui contrasti il procuratore capo Pietro Giammanco, sull’emarginazione subita dai suoi colleghi, sulla lentezza delle indagini sui cosiddetti “delitti politici”. Si eseguono perizie sui computer di Falcone: alcuni file sono stati cancellati, altri «consultati da ignoti». Dalle carceri si diffonde un tam tam: «Borsellino è morto».
Sempre più sospettoso e sempre più isolato, il magistrato chiede di parlare, «ma fuori dalla procura» con il colonnello Mario Mori e con il capitano Giuseppe De Donno del Ros dei carabinieri. L’appuntamento è alle 15.30 del 25 giugno alla caserma Carini, la postazione dell’Arma dietro il teatro Politeama. Cosa si dicono? Per quale ragione Borsellino vuole un incontro clandestino con i due ufficiali?
Secondo le successive testimonianze di Mori e di De Donno per parlare dell’inchiesta “Mafia e appalti”, una contestatissima indagine che aveva provocato una divisione fra il Ros e la procura di Palermo, inchiesta sottovalutata se non addirittura insabbiata per i due ufficiali, inchiesta ancora tutta da sviluppare per i magistrati.
Il 25 giugno 1992 Mori e De Donno non riferiscono a Borsellino che, qualche giorno prima, avevano avuto un faccia a faccia con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. I due ufficiali, attraverso Ciancimino, volevano catturare Totò Riina, il capo dei capi di Cosa nostra all’epoca latitante da 24 anni.
In realtà nessuno sa nulla di cosa sia veramente accaduto nel primo pomeriggio del 25 giugno in una stanza della caserma Carini: le versioni sono troppo contrastanti e traballanti. Per i magistrati palermitani quell’incontro sarà la “prova” dell’inizio della famosa trattativa fra stato e mafia, che sfocerà in un processo con una sfilza di condanne in primo grado e una sfilza di assoluzioni in appello per gli uomini delle istituzioni.
Il 25 giugno, di sera, succede anche altro. Alla biblioteca di Casa Professa, a Palermo, in un dibattito organizzato dalla rivista Micromega, c’è il sindaco Leoluca Orlando, ci sono l’avvocato Alfredo Galasso e Nando dalla Chiesa, arriva anche Borsellino. È il suo ultimo discorso pubblico.
Dice: «In questo momento, oltre che magistrato, io sono testimone e avendo vissuto a lungo la mia esperienza accanto a Giovanni Falcone e avendo raccolto comunque come amico tante sue confidenze, prima di parlarne qui devo riferirle all’autorità giudiziaria». È passato più di un mese da Capaci, Borsellino manifesta la sua ansia di raccontare ciò che sa. Ma i procuratori di Caltanissetta ancora non lo hanno chiamato.
In famiglia Paolo Borsellino si sfoga. Confida alla moglie Agnese: «Ho capito tutto». Allude alla morte di Giovanni Falcone. E poi aggiunge: «Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri».
Il 28 giugno è domenica e Paolo Borsellino e sua moglie sono a Fiumicino, aspettano l’aereo per Palermo. Con loro c’è Liliana Ferraro, che era la vice di Falcone agli Affari penali del ministero della Giustizia. A Fiumicino c’è anche il ministro della Difesa Andò, vede Borsellino, si avvicina. Gli chiede cosa ne pensa delle ultime minacce arrivate – un’altra informativa del Ros – contro lo stesso Andò, contro Borsellino, contro il sostituto procuratore Antonio Di Pietro.
Borsellino è furioso: nessuno l’ha avvertito. L’informativa è finita sulla scrivania del suo capo Pietro Giammanco ma il suo capo non l’ha avvisato. Lunedì 29 giugno di primo mattino Borsellino entra nella stanza di Giammanco e urla, sbatte i pugni sulla sua scrivania.
Il procuratore capo fa il vago, dice che la competenza per quelle minacce è della procura di Caltanissetta, farfuglia qualcosa. Paolo Borsellino si sente in trappola. «Lo arrestano, vedrete che prima o poi l’arrestano», ripete ossessivamente fra le mura di casa come ricorda la figlia Lucia a Piero Melati nel libro Paolo Borsellino per amore di verità scritto per Sperling & Kupfer e appena uscito. Parlava di Pietro Giammanco?
Luglio. Il primo giorno del mese c’è il nuovo governo, al posto di Vincenzo Scotti all’Interno arriva Nicola Mancino. Borsellino è a Roma. C’è un nuovo pentito da ascoltare, è Gaspare Mutolo, l’ex autista di Riina. Alla fine del 1991 Mutolo aveva chiesto di parlare Falcone.
Ma Falcone, direttore degli Affari penali è fuori ruolo, non può interrogarlo. Così Mutolo dice: «Mi fido solo di Borsellino». La richiesta di Mutolo è sempre sul tavolo del procuratore capo Giammaco che, ancora una volta, non avverte Borsellino e delega altri magistrati per l’interrogatorio del pentito. Borsellino lo viene a sapere qualche giorno dopo. È un altro scontro con il suo capo, Giammanco alla fine cede e consente che Mutolo parli anche con Borsellino.
L’interrogatorio si apre alle 15 nella sede romana della Dia, la direzione investigativa antimafia. Con Borsellino e il procuratore aggiunto Aliquò ci sono il colonnello dei carabinieri Domenico Di Petrillo e il vicequestore Francesco Gratteri.
Il pentito ha già anticipato che farà rivelazioni su due personaggi famosi a Palermo, il primo è Domenico Signorino, uno dei due pubblici ministeri al maxi processo, il secondo è Bruno Contrada, il numero tre del Sisde, il servizio segreto civile. Mentre Mutolo svela i misteri di Palermo, Borsellino riceve una telefonata dal Viminale.
Interrompe l’interrogatorio e, con Aliquò, va verso il centro di Roma dove si è appena insediato il nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino. Lì, al Viminale - e questa è la versione di Mutolo - avrebbe incontrato “casualmente” il capo della polizia Vincenzo Parisi con accanto proprio Bruno Contrada, uno dei nomi appena fatti dal pentito. Un avvertimento? Mancino non ricorda di avere mai incontrato Borsellino quel giorno.
L’aria di Palermo si fa sempre più velenosa. Il 2 luglio un anonimo molto informato spedisce otto cartelle a 39 indirizzi, vertici dello stato, uomini politici e giornalisti. Si riferisce di summit fra ministri e latitanti, di un pentimento di massa dei mafiosi, di quello che avverrà nei prossimi mesi in Sicilia e in Italia.
Ci sono notizie vere mischiate a notizie false: è un’operazione di intossicazione. Il giorno dopo la Falange armata rivendica l’anonimo: «Se questo deludente risultato hanno sortito quelle otto cartelle, allora vuol dire che ulteriori segnali forti, chiari, devastanti necessariamente si impongono».
Sabato 4 luglio Paolo Borsellino va a Marsala per l’ultimo saluto ai giovani sostituti che hanno lavorato al suo fianco, martedì 7 luglio il premier Giuliano Amato dice che «l’assassinio di Falcone è avvenuto a Palermo ma probabilmente deciso altrove perché la criminalità è un fenomeno internazionale con più teste in più paesi», lunedì 13 luglio a Palermo arriva il tritolo per uccidere Paolo Borsellino.
Lui ascolta ancora il pentito Mutolo, torna a Palermo e mette in cassaforte i verbali. Poi passa in procura – è il 17 luglio – e saluta uno per uno una mezza dozzina di giovani sostituti. Il giorno dopo, il 18 luglio, bacia il portiere del suo palazzo. Non l’aveva mai fatto.
La mattina di domenica 19 luglio si sveglia presto. Una telefonata con la figlia Fiammetta che è in vacanza in Thailandia, il pranzo a Marina Longa nel villino del suo amico Pippo Tricoli, poi si congeda da suo figlio Mandredi e da Angese: «Vado a prendere mia madre, devo portarla dal dottore».
La guerra ai giudici e ai poliziotti dell’Antimafia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 17 luglio 2022.
ll giudice Falcone annuncia le sue dimissioni dal pool e poi – convinto dalle pressioni degli amici – le ritira. Gli altri magistrati dell’ufficio istruzione confermano la denuncia di Borsellino «sulla fine della lotta alla mafia». Sotto accusa, però, torna il pool antimafia. E l’imputato principale ancora una volta è lui: Paolo Borsellino.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Il primo «caso Palermo». Ce ne saranno molti altri negli anni a venire.
I magistrati vengono convocati a Roma, a Palazzo dei Marescialli, per tutto il mese di agosto. Il Tribunale è spaccato.
Il Csm vuole censurare il procuratore Borsellino «perché si è rivolto alla stampa e non nelle sedi istituzionali».
Vogliono la testa di Paolo Borsellino.
Il Consiglio Superiore della Magistratura non può prendersela con se stesso per la scelta di qualche mese prima – la vergognosa esclusione di Falcone a capo dell’ufficio istruzione e la nomina di Antonino Meli – e cerca a tutti i costi un colpevole per la polemica che sta scuotendo l’Italia.
Il giudice Falcone annuncia le sue dimissioni dal pool e poi – convinto dalle pressioni degli amici – le ritira. Gli altri magistrati dell’ufficio istruzione confermano la denuncia di Borsellino «sulla fine della lotta alla mafia». Il consigliere Meli vuole querelarlo per diffamazione. Straparla anche di Falcone. Getta sospetti.
È la realtà che viene capovolta. Sotto accusa torna il pool antimafia. E l’imputato principale ancora una volta è lui: Paolo Borsellino.
Lo ascoltano al Consiglio Superiore della Magistratura. Dice: «Ho riferito solo mie convinzioni mentre si discuteva dello stato delle indagini antimafia. O parliamo per enigmi e per allusioni e parliamo di “una caduta di tensione” e la gente poi non capisce bene che cosa significa, oppure, se questi problemi li dobbiamo affrontare concretamente, dobbiamo citare fatti e mettere il coltello nella piaga e dire che c’è un organismo centrale delle indagini antimafia che in questo momento non funziona più».
Paolo Borsellino ripete il suo atto di accusa a Palazzo dei Marescialli.
Il Guardasigilli Giuliano Vassalli annuncia alla commissione giustizia del Senato: «Io non punirò Borsellino». E invia un ispettore ministeriale in Sicilia, Vincenzo Rovello, un magistrato di grande esperienza e di straordinaria umanità che qualche anno dopo sarà nominato procuratore generale a Palermo.
In una relazione di 54 pagine, l’ispettore Rovello ricostruisce ciò che è avvenuto nel Palazzo di giustizia di Palermo negli ultimi mesi. Conferma al ministro la denuncia lanciata da Borsellino: il consigliere istruttore Antonino Meli ha distrutto il pool antimafia.
Il Consiglio Superiore della Magistratura fa finta di niente. Alla fine di una lunghissima seduta notturna, decide di non «punire» il procuratore capo di Marsala per la sua intervista. Certifica che Paolo Borsellino «ha sbagliato», ma «in buona
fede». È il 14 settembre del 1988. Borsellino se ne torna a Marsala. Falcone resta al suo posto all’ufficio istruzione. Sempre più solo e sempre più disarmato.
Ricominciano gli attacchi a mezzo stampa. Questa volta è il Giornale di Indro Montanelli che va alla carica contro Giovanni Falcone e il pool. Dietro, ci sono i soliti «suggeritori» del Palazzo di giustizia di Palermo. Quelli che odiano Giovanni Falcone sono sempre più numerosi. Sono giorni molto difficili per Palermo. Il sindaco Orlando parla di una mafia che «ha il volto delle Istituzioni».
Alla squadra mobile di Palermo vengono rimossi tutti i capi. Cambia anche l’Alto Commissario Antimafia. Il prefetto Pietro Verga viene sostituito da Domenico Sica. I poliziotti che quell’estate si schierano al fianco di Paolo Borsellino e dei giudici del pool di Palermo, vengono tutti trasferiti. Qualcuno nei commissariati della città. Uno nel luogo più distante da Palermo, dall’altra parte dell’Italia.
È Francesco Accordino, capo della sezione omicidi della squadra mobile, uno dei migliori investigatori siciliani. Prima lo «comandano» a Bressanone, in provincia di Bolzano. Poi lo nominano capo della polizia postale di Reggio Calabria.
Dalle indagini sui boss al furto delle raccomandate.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Le indagini di Borsellino su mafia e politica nella Sicilia più ambigua. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI Il Domani il 18 luglio 2022
Il pentito Rosario Spatola fa a Borsellino alcuni nomi di uomini politici invischiati in faccende di mafia. Soprattutto gliene fa uno: Calogero Mannino. È uno degli uomini più potenti della Sicilia, in quel 1989 Mannino è la stella del partito nell’isola. E Il pentito Spatola racconta a Borsellino che i mafiosi lo chiamano confidenzialmente Caliddu.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
E, in Sicilia, ricominciano anche a uccidere i magistrati.
Ce n’è uno che ha appena condannato i tre killer del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Ma Totò Riina condanna a morte lui.
È il 25 settembre del 1988 e il presidente della Corte di Appello Antonino Saetta è ucciso insieme al figlio Stefano.
Le motivazioni della sentenza con la quale Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia vengono ritenuti colpevoli dell’omicidio sono depositate in cancelleria intorno a mezzogiorno del 16 settembre 1988. Un’ora dopo, a Palermo, rubano l’auto che servirà per l’agguato al giudice.
È finito dopo quattordici anni e dodici dibattimenti. Cancellato a più riprese dalla Cassazione, si è lasciato alle spalle una scia
di morti. Il processo Basile pesa un quintale di carte nel 1994, quando l’ultimo imputato minore – un favoreggiamento – è sballottato fra una Corte e l’altra indecise su chi lo deve giudicare.
Iniziato nel 1981, sospeso per una perizia e rinviato alla primavera del 1983, i sicari del capitano ucciso ricevono la prima grazia dai giudici di Palermo. Condannati in Appello all’ergastolo il 24 ottobre del 1984, il processo viene annullato per un cavillo da Corrado Carnevale il 23 febbraio 1987 e rimandato a un’altra Corte di Assise di Appello. Passa un altro anno.
È il 23 giugno quando 1988 i tre sicari vengono condannati ancora all’ergastolo. La sentenza definitiva arriva solo nel febbraio del 1992. Ma ormai due dei tre sicari del capitano sono morti. Uno, Armando Bonanno, lo fanno sparire. Un altro, Vincenzo Puccio, viene assassinato nella cella dell’Ucciardone dove è stato rinchiuso qualche mese prima.
Rimane vivo solo Giuseppe Madonia.
L’INCHIESTA SU “CALIDDU”
Il procuratore Borsellino è ormai da tre anni a Marsala. Ha cominciato a indagare sulla mafia della provincia con il «metodo» sperimentato al pool dell’ufficio istruzione, paese dopo paese, famiglia dopo famiglia. Prima Partanna, poi Castelvetrano. Adesso tocca a Campobello di Mazara.
Una mattina, il maresciallo Carmelo Canale entra nella sua stanza e gli comunica che un grosso trafficante di droga vuole
«parlare», collaborare con la giustizia. Si chiama Rosario Spatola, è solo un omonimo dello Spatola dell’Uditore sul quale ha indagato Giovanni Falcone nei primi Anni Ottanta.
Rosario Spatola è originario di Campobello di Mazara e non ha conti con la giustizia da regolare. Ha qualcosa di più importante da difendere: la vita. I suoi vecchi amici sospettano che abbia fatto sparire un carico di cocaina, lo cercano per ucciderlo. Comincia a svelare particolari dell’omicidio di un sindaco a Castelvetrano, degli interessi economici dei Madonia di Palermo nel trapanese, del delitto di un siriano a Milano. Paolo Borsellino lo studia, capisce che sta dicendo la verità.
Ha grande esperienza il procuratore. Ma Spatola è un tipo stravagante, non sembra il classico mafioso, veste vistoso, è chiacchierone, molto esuberante. Con lui, il procuratore di Marsala stabilisce un rapporto ravvicinato ma sempre dentro le regole. Appena si accorge che Spatola fa le bizze, ne approfitta, Borsellino lo fa rinchiudere in un carcere. Quando esce, un mese dopo, il pentito elenca a Borsellino alcuni nomi di uomini politici invischiati in faccende di mafia.
Soprattutto gliene fa uno: Calogero Mannino.
È uno degli uomini più potenti della Sicilia. Enfant prodige della Democrazia Cristiana agrigentina, in quel 1989 Mannino è la stella del partito nell’isola. Dicono che, forse, è ancora più potente di Salvo Lima. È il padrone dei voti, nella Sicilia occidentale e in quella orientale. È uno degli uomini voluti dal segretario nazionale della Dc Ciriaco De Mita per portare avanti il «rinnovamento» al Sud, è ministro della Repubblica, uno che conta molto anche a Roma. Il pentito Spatola racconta a Borsellino che i mafiosi lo chiamano confidenzialmente Caliddu. Nella suggestione di questo nomignolo, Caliddu, qualcuno imbastisce un’operazione per «azzoppare» o avvertire – non si è mai capito – l’interessato, il ministro Mannino.
La notizia del coinvolgimento di Calogero Mannino in un’inchiesta di mafia finisce sulle prime pagine dei giornali a tempo di record.
Non è l’indagine del procuratore Borsellino, è una parallela aperta a sua insaputa da un magistrato di Trapani che ascolta Rosario Spatola senza informarne lui, titolare del caso, il procuratore di Marsala. Con nomi e cognomi gettati in pasto all’opinione pubblica ancor prima di far partire una verifica o un riscontro.
Paolo Borsellino sospetta una trappola. Frena, procede con prudenza, prova a districarsi da una polemica dove altri lo vogliono trascinare a ogni costo. Una cautela – altra lezione appresa negli anni del pool a Palermo – che però in questo caso rischia di travolgerlo. Qualcuno insinua perfino che intenda «insabbiare» l’inchiesta su Calogero Mannino e gli altri personaggi politici. Fanno girare la falsa voce che per lui «è pronto un seggio al Senato» nelle liste socialiste. Prima gli «bruciano» l’inchiesta e poi tentano di sputtanarlo. Come uno che si è venduto al potere.
Non perde la calma. Fa la sua indagine. Anni dopo sarà ripescata anche dalla procura palermitana di Gian Carlo Caselli che mette sotto accusa il ministro per concorso esterno in associazione mafiosa. Assolto in primo grado, condannato in Appello, Calogero Mannino sarà definitivamente scagionato dalla Cassazione.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
E la “picciridda” Rita Atria consegna la sua vita al procuratore. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 19 luglio 2022.
Rita è una ragazzina di diciassette anni. Lei e Piera Aiello spezzano il vincolo di omertà della famiglia. Paolo Borsellino le ascolta. Rita è fragilissima, per raccontare il mondo mafioso ha dovuto abbandonare tutto. Famiglia, amici, fidanzato. Vengono allontanate dal loro paese, Borsellino sente ogni giorno Rita, appena può la va trovare.
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Con Rosario Spatola, c’è qualcun altro che decide di vuotare il sacco. È Giacoma Filippello, la donna di Natale L’Ala, il boss di Campobello. Lo vede morire e consuma la sua vendetta raccontando tutto quello che sa a Paolo Borsellino.
Un anno dopo, sono due donne che si presentano al procuratore capo della repubblica di Marsala. Sono cognate. Piera Aiello e Rita Atria. Sono tutte e due di Partanna, in fondo alla provincia di Trapani. Piera è la moglie di Nicola Atria, un mafioso ucciso dai boss rivali. Anche il padre di Nicola – Vito – è morto ammazzato tanto tempo prima. Rita è figlia di una vittima e sorella dell’altra.
È una ragazzina di diciassette anni. Lei e Piera spezzano il vincolo di omertà della famiglia. Paolo Borsellino le ascolta.
Rita è fragilissima, per raccontare il mondo mafioso ha dovuto abbandonare tutto. Famiglia, amici, fidanzato. Vengono allontanate dal loro paese, Borsellino sente ogni giorno Rita, appena può la va trovare.
Una settimana dopo il 19 luglio 1992 Rita Atria, una «picciridda» che aveva creduto nello Stato, decide che non ha più senso vivere. Si lancia dal settimo piano di un palazzo di Roma, sulla Tuscolana, dove è nascosta.
Si pente con Paolo Borsellino anche Vincenzo Calcara, uomo d’onore della famiglia di Castelvetrano. Il procuratore lo incontra nel carcere di Favignana. Il mafioso lo abbraccia e gli dice: «Mi avevano incaricato di ucciderla. Con un fucile di precisione». Se non avesse trovato lui, Calcara aveva l’ordine di far fuori uno dei suoi «ragazzi» di Marsala, uno dei giovani sostituti al suo fianco.
Paolo Borsellino chiama il ministero e fa assegnare la scorta a tutti. Vuole dare subito la sua blindata ad Antonio Ingroia, quello che si muove più per le indagini, che si sposta, viaggia. Ingroia è il più esposto. Anche Marsala adesso è come Palermo. Un fortino assediato.
«Mi piacerebbe conoscere Borsellino», mi dice Giorgio Bocca. Dopo qualche giorno è in Sicilia. Alloggia in una bella stanza sul mare di Villa Igiea, un pomeriggio un taxi lo porta in pochi minuti a casa del procuratore. Stanno insieme per quattro ore. Bocca ne rimane incantato. Mi racconta tutto a cena. Entriamo in un ristorante di Mondello e mentre ci avviciniamo al tavolo, qualcuno mi ferma. Ufficialmente lo spione è in polizia, ma tutti in città sanno che lavora per i «servizi».
Saluta e lancia il suo avvertimento: «Ne avevano cose da dirsi oggi il giudice Borsellino e il dottor Bocca eh…». Sapeva già dell’incontro. Tenevano d’occhio lui o il procuratore. O tutti e due insieme. Glielo racconto. Lo ricorderà anche nel libro che sta scrivendo, L’Inferno, che uscirà un anno dopo. Come scriverà anche quello che mi dice quella sera a cena, fra un polpo bollito e i ricci di mare.
«Paolo Borsellino è uno che non parla l’italiano del potere ma dei provinciali che l’hanno studiato come una lingua straniera e ne hanno fatto qualcosa di essenziale, di scarno, con pochi aggettivi e nessuno eclatante, un italiano che va dritto al cuore delle cose con evidente fastidio per i ghirigori e i salamelecchi»
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Giovanni Falcone e l’idea della “Superprocura” antimafia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 20 luglio 2022
Giovanni Falcone lancia l’idea di una Superprocura, un organismo di coordinamento di tutti i pubblici ministeri antimafia. Pensa anche alla Dia, la Direzione Investigativa Antimafia, una polizia sul modello americano del Federal Bureau of Investigation. Paolo Borsellino, per la prima volta dopo tanti anni, non è d’accordo con il suo vecchio amico.
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È il gennaio del 1991. Sono settimane di grande fermento. Il suo amico Falcone sta per lasciare la Sicilia e trasferirsi a Roma, al ministero di Grazia e Giustizia.
Giovanni Falcone lancia l’idea di una Superprocura, un organismo di coordinamento di tutti i pubblici ministeri antimafia.
Pensa anche alla Dia, la Direzione Investigativa Antimafia, una polizia sul modello americano del Federal Bureau of Investigation.
Paolo Borsellino, per la prima volta dopo tanti anni, non è d’accordo con il suo vecchio amico. La Superprocura gli sembra un organismo «pericoloso», troppo potere concentrato in una sola struttura per indagini da sviluppare non solo in Sicilia ma in tutta Italia e nel mondo. Borsellino ha molti dubbi. Ne parla privatamente con Giovanni Falcone. Discutono per settimane.
Falcone non riesce a convincere nessuno. Neanche Paolo. Quando il dibattito sulla Superprocura diventa pubblico 63 magistrati italiani firmano un documento contro il decreto Martelli che istituisce la Procura nazionale antimafia. Ci sono i nomi degli amici di una vita e di quasi tutti i colleghi che stimano Falcone, che l’hanno sempre sostenuto.
Firmano Armando Spataro e Mario Almerighi, Gian Carlo Caselli e Roberto Scarpinato, Gerardo D’Ambrosio e Giuliano Turone. Firma anche Paolo Borsellino.
La Superprocura passa. E negli uffici giudiziari sedi di Corte di Appello vengono istituite le procure «distrettuali», le sole che d’ora in poi saranno titolate a condurre inchieste antimafia. Procure come quelle di Marsala non potranno più indagare sui boss ma trasferire gli atti a Palermo.
«Che ci faccio io qui?», si sfoga Borsellino con i giudici del pool di Palermo.
Si muove tutto velocemente fra la fine del 1991 e l’inizio del 1992. Nei piani del ministro della Giustizia Claudio Martelli, il giudice Falcone è destinato alla Superprocura. Se Borsellino torna a Palermo potrebbe diventare il suo punto di riferimento per la mafia siciliana.
E Borsellino torna a Palermo, in procura c’è il capo nemico di Falcone. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 21 luglio 2022
Paolo Borsellino decide di presentare domanda per procuratore aggiunto a Palermo. Il capo è sempre Pietro Giammanco, quello che nei mesi precedenti ha ostacolato in tutti i modi Giovanni Falcone.
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Paolo Borsellino decide di presentare domanda per procuratore aggiunto a Palermo. Il capo è sempre Pietro Giammanco, quello che nei mesi precedenti ha ostacolato in tutti i modi Giovanni Falcone.
«Andare a Palermo e non occuparmi di mafia? Farmi bloccare da Giammanco come è accaduto a Giovanni?», riflette Borsellino nel timore di scivolare anche lui in una trappola.
Alla fine decide. Presenta domanda per procuratore aggiunto.
Chiama Piero Giammanco e glielo annuncia. Il procuratore capo gli assicura che, quando arriverà a Palermo, sarà lui il magistrato ad indagare sulla mafia di Trapani e di Agrigento.
Con lui si trasferisce a Palermo Antonio Ingroia. Vogliono seguirlo anche Alessandra Camassa e Giuseppe Salvo, altri due dei suoi sostituti di Marsala. E pure il maresciallo Carmelo Canale.
Con qualche telefonata – una al Ros, l’altra al Comando generale dell’Arma – Canale viene «aggregato» al
Raggruppamento operativo speciale e sbarca a Palermo.
È un uomo soffocato dal dolore. La figlia Antonella, una ragazzina, ha un tumore. Paolo Borsellino gli starà vicino come un fratello sino alla fine. Qualche anno dopo il maresciallo sarà sospettato di rapporti troppo ravvicinati con i boss. Processato e assolto.
Paolo Borsellino arriva a Palermo ed entra in una procura che è immobile.
Trova quello che ha appena lasciato Giovanni Falcone.
Paolo Borsellino si «prende» le deleghe per la mafia di Trapani e Agrigento. La città di Palermo è invece affare del procuratore capo Piero Giammanco. Ci pensa lui a proteggere i suoi amici. «Per cominciare a indagare su Palermo è solo questione di tempo, bisogna avere pazienza», confida lui. Ma tempo non ce n’è più. Il 12 marzo del 1992 uccidono Salvo Lima.
La storia della Sicilia cambia per sempre.
L’omicidio del potente uomo politico rivela violentemente la rottura di antichi patti. Annuncia scenari tragici.
«Non finirà con Lima», confessa Giovanni Falcone a Paolo Borsellino barricato nella sua stanza al secondo piano del Palazzo di Giustizia di Palermo.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Allarme ai piani alti. Dopo l’omicidio di Salvo Lima, a Roma tremano. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 22 luglio 2022
Il capo della Polizia Vincenzo Parisi teme stragi. Fra i personaggi a rischio vengono indicati il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, i ministri siciliani Calogero Mannino, Carlo Vizzini e Salvò Andò, il ministro della Giustizia Claudio Martelli.
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Sono passati appena quattro giorni dalla morte di Salvo Lima e un nuovo inquietante messaggio scuote i Palazzi. Questa volta arriva dagli uffici del Viminale.
È un telegramma inviato dal capo della Polizia, Vincenzo Parisi, a prefetti e questori, comandanti dei Carabinieri e della Guardia di Finanza per segnalare il rischio di una campagna terroristica in grande stile che punterebbe all’eliminazione di politici di primo piano dei maggiori partiti.
L’allarme, che fa riferimento a documenti e telefonate anonime, parla di “eventi omicidiari” e “strategie destabilizzanti che in breve tempo potrebbero insanguinare il Paese”.
Il capo della Polizia teme stragi. Fra i personaggi a rischio vengono indicati il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, i ministri siciliani Calogero Mannino, Carlo Vizzini e Salvò Andò, il ministro della Giustizia Claudio Martelli.
Ma il suo avvertimento cade nel vuoto.
«È lo scherzo di un pataccaro», si precipita a dichiarare il capo del governo Andreotti. Anche il presidente della Repubblica Cossiga ridimensiona il pericolo.
Alcuni degli uomini politici nel mirino della mafia siciliana però hanno paura. Vogliono salvarsi la pelle. E, dopo l’omicidio di Salvo Lima, sanno bene che potrebbe toccare a loro.
Così incaricano uomini di fiducia dei servizi segreti e dei reparti investigativi di agganciare i boss per fermare i sicari.
È il principio di quella che – si scoprirà solo molti anni dopo – diventerà la prima trattativa fra Stato e mafia. Un patto che non cerca la mafia ma che vuole lo Stato.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Sicilia insanguinata, l’agguato al maresciallo Giuliano Guazzelli. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 23 luglio 2022
Il 4 aprile cade in un agguato Giuliano Guazzelli, un carabiniere che conosce tutta la mafia dell’agrigentino e che da mesi lavora con Paolo Borsellino nelle indagini sulle famiglie di Porto Empedocle, Ribera, Canicattì, Palma di Montechiaro.
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In Sicilia, intanto, si continua a uccidere.
Il 4 aprile cade in un agguato Giuliano Guazzelli, un carabiniere che conosce tutta la mafia dell’agrigentino e che da mesi lavora con Paolo Borsellino nelle indagini sulle famiglie di Porto Empedocle, Ribera, Canicattì, Palma di Montechiaro.
Sono sotto il viadotto Morandi, un ponte che sembra sospeso nell’aria. Da una parte ci sono i palazzi di Agrigento costruiti sull’argilla, in bilico sul tempio della Concordia. Giù c’è il cadavere di Guazzelli.
Non è un maresciallo qualunque, è un’«antenna» dell’Arma sul territorio.
La mattina dopo sfoglio i quotidiani locali. Le prime pagine sono dedicate all’omicidio del carabiniere.
Più indietro, nelle cronache cittadine, c’è un articolo su un altro delitto del giorno prima. Alla stessa ora del maresciallo Guazzelli.
Gli occhi mi cadono su una foto. Conosco quella faccia. Leggo il titolo: «Assassinato boss di Pietraperzia».
È Liborio Micciché. In classe lo chiamavamo «Borino». Era mio compagno di banco al primo anno di liceo scientifico, sezione «D», all’“Alessandro Volta” di Caltanissetta, quando la scuola stava ancora in un vecchio convento nella discesa della pescheria di San Francesco.
A fine anno, «Borino» lasciò il liceo. Non l’ho più visto. Però sapevo cos’era diventato. Non immaginavo fino a che punto.
L’ho scoperto molti anni dopo.
Un pentito ha raccontato che, a fine febbraio del 1992, aveva visto Liborio Micciché a Pietraperzia mentre aspettava Totò Riina, Bernardo Provenzano, Nitto Santapaola. La Cupola.
Erano tutti attesi in un casolare «a forma di ferro di cavallo» sulla strada che porta a Barrafranca per decidere – così ha detto il pentito – gli agguati contro Salvo Lima e Giovanni Falcone.
La mafia siciliana stava preparando i suoi piani. Poi cambierà programma per Falcone. Sceglieranno Capaci, useranno l’esplosivo.
Ho ripensato molte volte a «Borino» Micciché. In Sicilia capita spesso di trovarsi vicino a persone con un diverso destino
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Il cratere di Capaci e l’amico Giovanni Falcone che non c’è più. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 24 luglio 2022
Il pomeriggio del 23 maggio del 1992 Paolo Borsellino è dal barbiere. Arriva la chiamata. È paralizzato. Corre a casa. Telefona. Non riesce a parlare. Poi esplode in un grido disperato: «Giovanni, Giovanni è ferito… Capaci… un attentato». Poi se ne va anche Giovanni Falcone. «Mi è morto fra le braccia», dice fra le lacrime Paolo Borsellino alla figlia Lucia.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Il pomeriggio del 23 maggio del 1992 Paolo Borsellino è dal barbiere. Arriva la chiamata. È paralizzato. Corre a casa.
Telefona. Non riesce a parlare. Poi esplode in un grido disperato: «Giovanni, Giovanni è ferito… Capaci… un attentato».
S’infila nell’utilitaria della figlia Fiammetta e attraversa Palermo. Fino all’ospedale civico.
Francesca Morvillo si è appena spenta. Poi se ne va anche Giovanni Falcone.
«Mi è morto fra le braccia», dice fra le lacrime Paolo Borsellino alla figlia Lucia.
Il nuovo presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, è a Palermo il 26 maggio. Al Quirinale è entrato da meno di ventiquattro ore. «La strage di Capaci ha avuto un effetto stabilizzante», dicono in Sicilia. Dopo sedici votazioni a vuoto e una bomba l’Italia ha un nuovo Capo dello Stato. Il presidente della Repubblica è a Villa Whitaker con il prefetto Mario Iovine.
La Falange Armata rivendica l’attentato. Nessuno sa niente di quest’organizzazione. C’è puzza di spie.
Il Consiglio superiore della Magistratura nomina Giovanni Tinebra procuratore della repubblica di Caltanissetta, l’ufficio giudiziario che per competenza dovrà indagare sull’uccisione di Giovanni Falcone.
Paolo Borsellino è nella sua stanza in procura, si tormenta. Ripensa agli ultimi giorni, agli ultimi incontri con Giovanni Falcone, alle ultime confidenze ricevute.
È sera quando decide di uscire allo scoperto.
Lo va a trovare Giuseppe D’Avanzo. Rilascia un’intervista che spiega molte cose.
Purtroppo la Procura di Palermo non è titolare delle indagini. Dico “purtroppo" perché, se avessi avuto io la possibilità di seguire questa indagine, avrei trovato un lenimento al mio dolore. Quando si è verificato il primo omicidio che mi ha coinvolto emotivamente – l’omicidio del capitano Emanuele Basile – sono riuscito, facendo il mio dovere di magistrato, a superare la paura enorme e a spezzare il blocco emotivo. Per indagare sulla morte di Giovanni ho sollecitato la mia ‘applicazione’ a Caltanissetta, ma mi hanno ricordato che in quella città non c’è la funzione di procuratore aggiunto. In ogni caso andrò a Caltanissetta. Ci andrò come testimone. Per raccontare piccole cose che possono aiutare l’inchiesta. Riferirò fatti, episodi e circostanze. Racconterò gli ultimi colloqui avuti con Giovanni.
Io sono riuscito finora soltanto a fare un ragionamento essenziale in merito a tre questioni. Perché hanno ucciso Giovanni; perché lo hanno ucciso ora; perché lo hanno ucciso a Palermo. Va osservato che c’è una coincidenza tra l’omicidio e una notizia che io avevo appreso qualche giorno fa: Giovanni Falcone aveva ormai nel Csm la maggioranza per essere nominato procuratore nazionale antimafia. Avevo detto a Giovanni che queste condizioni ormai c’erano. Dell’esistenza di questa maggioranza avevo saputo, durante un convegno a Napoli la domenica prima dell’attentato, da alcuni membri del Consiglio. Nonostante la fortissima opposizione della magistratura alla sua candidatura, dunque, Giovanni ce l’aveva fatta. Era una sensazione che si era diffusa in questo palazzo. Voglio dire che non so se la notizia che Falcone sarebbe stato il nuovo procuratore antimafia era conosciuta fuori.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Una corsa contro il tempo, Paolo Borsellino sempre più isolato. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 25 luglio 2022
Paolo Borsellino capisce che nemmeno la strage di Capaci è servita a qualcosa. Da alcuni giorni è sempre impegnato a riempire i fogli di un’agenda. È di colore rosso, con lo stemma dell’Arma dei carabinieri in copertina. Lì dentro, probabilmente, ci sono tutti i segreti della morte di Giovanni Falcone. E anche altro. Borsellino annota tutto.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Il giorno dopo Paolo Borsellino chiama il nuovo procuratore di Caltanissetta. Gli fa sapere che è pronto ad affiancarlo, a collaborare subito per raccontargli tutto quello che ha saputo dal suo amico Falcone.
Gli dice anche che ha informato il Csm della sua disponibilità per un trasferimento a Caltanissetta: vuole buttarsi a capofitto, con un ruolo istituzionalmente riconosciuto, nell’inchiesta su Capaci. Anche nel dolore è pronto ad andare avanti. Indagare per rendere giustizia a Giovanni Falcone.
Passano pochi giorni e qualcuno dal Consiglio Superiore della Magistratura – presidente è Giovanni Galloni – comunica «amichevolmente» a Paolo Borsellino «l’inopportunità di una sua partecipazione alle indagini per il suo coinvolgimento emotivo». Il procuratore resta di sasso. Non ne parla con nessuno.
A Caltanissetta vengono inviati intanto alcuni sostituti procuratori da Catania e Messina, magistrati che non conoscono quasi niente di Cosa Nostra.
Borsellino è avvilito. E mette in fila cattivi pensieri: il Consiglio superiore che non lo vuole trasferire a Caltanissetta è lo stesso che, qualche settimana prima, si è violentemente opposto alla nomina di Falcone al vertice della Superprocura.
Paolo Borsellino capisce che nemmeno la strage di Capaci è servita a qualcosa.
Da alcuni giorni è sempre impegnato a riempire i fogli di un’agenda.
È di colore rosso, con lo stemma dell’Arma dei carabinieri in copertina. Lì dentro, probabilmente, ci sono tutti i segreti della morte di Giovanni Falcone. E anche altro.
Borsellino annota tutto. Incontri. Telefonate. Ordini che riceve dal suo capo Giammanco. Segna data e ora di ogni appuntamento con ufficiali dei carabinieri e funzionari del ministero dell’Interno, con giornalisti e avvocati. Meticoloso, riporta ogni particolare. Vorrebbe urlare al mondo quello che sa, ma aspetta.
Aspetta che i magistrati di Caltanissetta lo convochino per ascoltarlo. Un interrogatorio formale, vero, e non quelle due battute al volo scambiate nei corridoi. Aspetta una settimana. Aspetta due settimane. Aspetta inutilmente. Nessun magistrato di Caltanissetta si fa vivo.
Il testimone chiave della strage di Capaci, l’uomo più vicino a Falcone negli ultimi dieci anni, il depositario dei suoi segreti, il suo erede non sarà mai interrogato dai magistrati titolari delle indagini su Capaci.
Perché?
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
L’ultimo discorso pubblico a Palermo è il suo testamento. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 26 luglio 2022
La sera del 25 giugno Paolo Borsellino parla in pubblico per l’ultima volta. È un dibattito organizzato dalla rivista «Micromega» nella biblioteca comunale di Casa Professa. L’atrio è stracolmo. Paolo Borsellino arriva con qualche minuto di ritardo. Non ha niente di scritto. Parla con il cuore e a braccio
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Così Paolo Borsellino va da solo incontro alla morte. Da solo.
In un incontro pubblico a Roma il ministro degli Interni, Vincenzo Scotti, lo candida alla carica di Superprocuratore. Dice di parlare anche a nome del ministro della Giustizia Claudio Martelli. Paolo Borsellino è frastornato. Non gli hanno comunicato niente, prima. Lo sta sapendo solo ora, in diretta, alla presentazione di un libro. Borsellino pensa che Falcone sia stato ucciso anche perchè stava per diventare Superprocuratore. E, adesso, indicano lui per quell’incarico.
Comincia il mese di giugno. Comincia anche il conto alla rovescia. Gli agenti della scorta di Borsellino segnalano mancanza di protezione in via D’Amelio, dove il procuratore va a trovare l’anziana madre. «Non si possono lasciare parcheggiate tutte quelle auto nella strada: è troppo pericoloso», dicono i poliziotti.
Il questore Vito Plantone e il prefetto Mario Iovine non si muovono. Il 20 giugno il socialista Giuliano Amato è il nuovo capo del governo.
La mattina del 25 giugno il procuratore Paolo Borsellino viene a sapere che alcuni ufficiali dei reparti speciali dei carabinieri stanno incontrando l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. È un’altra trattativa fra pezzi dello Stato e i Corleonesi. Cercano Totò Riina e chiedono aiuto a don Vito. In cambio di che cosa?
Contro ogni patto da sempre, Paolo Borsellino è turbato. La sera del 25 giugno Paolo Borsellino parla in pubblico per l’ultima volta. È un dibattito organizzato dalla rivista «Micromega» nella biblioteca comunale di Casa Professa. L’atrio è stracolmo. Paolo Borsellino arriva con qualche minuto di ritardo. Non ha niente di scritto. Parla con il cuore e a braccio. Intorno a lui ci sono l’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando, Nando dalla Chiesa, l’avvocato Alfredo Galasso e Tano Grasso, il leader dei commercianti di Capo d’Orlando che si sono ribellati al racket.
E una Palermo sfregiata dal dolore. Paolo Borsellino ricorda l’amico Falcone e «il giuda che si impegnò a prenderlo in giro», ricostruisce i due fatti che secondo lui hanno segnato il percorso tormentato di Giovanni Falcone: la scelta di avergli preferito il consigliere Meli e la polemica sui «Professionisti dell’Antimafia».
È il testamento di Paolo Borsellino.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
La “cantata” di Gaspare Mutolo sul super-poliziotto Bruno Contrada. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 27 luglio 2022
Quando esce dalla stanza del ministro, Borsellino incrocia il capo della polizia Vincenzo Parisi. Lui sa che Borsellino è a Roma per interrogare Mutolo. Alle spalle di Parisi c’è un uomo, Bruno Contrada, lo stesso funzionario indicato qualche ora prima dal pentito di Palermo come «colluso».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
In quei giorni Totò Riina sta stilando un «papello» da sottoporre allo Stato, una serie di richieste – l’abolizione del carcere duro, la modifica della legge sui pentiti, nuove norme sulla confisca dei beni – per fermare le stragi.
Borsellino non lo sa ancora. Ma altri uomini dello Stato stanno scendendo a patti.
In procura arriva una segnalazione su un possibile attentato contro di lui. Non gli dicono niente. Va ad ascoltare un nuovo pentito, Leonardo Messina. Decide di collaborare con la giustizia anche Gaspare Mutolo, il mafioso che nel dicembre precedente aveva chiesto di parlare con Giovanni Falcone.
«Mi pento ma mi fido solo di Borsellino», fa sapere questa volta Mutolo.
Il procuratore capo Piero Giammanco gli spedisce un altro magistrato. L’aspirante pentito fa scena muta. Borsellino, di ritorno dalla Germania per una rogatoria, va su tutte le furie.
Il 1 luglio è anche lui a Roma – con il procuratore aggiunto Vittorio Aliquò – per ascoltare Gaspare Mutolo.
Il mafioso annuncia subito a Borsellino che ha «delle cose importanti da dire» su «esponenti delle istituzioni che sono collusi». Si avvicina a Borsellino e gli bisbiglia un nome all’orecchio: «Il dottore Contrada…».
È il poliziotto più famoso di Palermo. Ex capo della squadra mobile della città ed ex capo della Criminalpol della Sicilia occidentale, Bruno Contrada in quel luglio del 1992 è il numero tre del Sisde, il servizio segreto civile. E ha anche un incarico operativo all’Alto Commissariato antimafia. Paolo Borsellino ascolta e comincia a verbalizzare. Gaspare Mutolo è un fiume in piena, ha una memoria di ferro, ricorda tutto. Va avanti per più di due ore e mezzo fino a quando, alle 17.40, sul cellulare del procuratore arriva una telefonata. È il Viminale. Un funzionario comunica a Borsellino che il nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino – nominato proprio quel 1 luglio – lo vuole incontrare.
Il magistrato chiude il verbale e dà appuntamento a Mutolo per le 19.
Un’auto blindata porta lui e Vittorio Aliquò a tutta velocità nel centro di Roma, al Viminale. Neanche venti minuti dopo entrano nella stanza di Mancino. Una brevissima chiacchierata, i soliti convenevoli per l’insediamento di un nuovo ministro. Mancino non ricorderà mai, in futuro, di avere incontrato quel giorno Paolo Borsellino. Nemmeno quando glielo chiederanno i procuratori: «Quel giorno ho visto tanta gente…», risponde. Quando esce dalla stanza del ministro, Borsellino incrocia il capo della polizia Vincenzo Parisi. Lui sa che Borsellino è a Roma per interrogare Mutolo. Alle spalle di Parisi c’è un uomo, Bruno Contrada, lo stesso funzionario indicato qualche ora prima dal pentito di Palermo come «colluso». Glielo aveva appena detto Mutolo: «Il dottore Contrada…». Paolo Borsellino torna dal pentito Mutolo. Quello ricomincia a parlare.
Dopo mezz’ora, quattro pagine di verbale sono piene del racconto di Gaspare Mutolo sul poliziotto più famoso della Sicilia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
«Non sarà la mafia ad uccidermi», le ultime parole sussurrate alla moglie. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 28 luglio 2022
La mattina del 18 luglio prende per mano Agnese, percorrono da soli un viottolo e scendono fino al mare. Finalmente il magistrato parla. Dice ad Agnese: «Non sarà la mafia ad uccidermi ma saranno altri. E questo accadrà perché c’è qualcuno che lo permetterà. E fra quel qualcuno, ci sono anche miei colleghi…».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Paolo Borsellino torna a Palermo. È carico di pensieri neri. E ha paura. La «cantata» di Mutolo è solo all’inizio. Ha tanti altri nomi da fare. Tutti importanti. Avvocati. Alti magistrati. Commercialisti. Uomini politici. Altri poliziotti. Medici. Notai. Imprenditori. Tutta la Palermo che conta, la Palermo più insospettabile. Di giorno Borsellino legge e rilegge i verbali del pentito e di notte – chiuso nel suo studio di casa, in via Cilea – riempie la sua agenda rossa.
E mentre lui entra in un gorgo di solitudine e di terrore per la sua famiglia che lascerà – è sicuro di morire Paolo Borsellino, ormai è certo che da un momento all’altro lo ammazzeranno – a Palermo accade qualcosa di definitivo.
È la mattina del 10 luglio. La signora Pietrina Valenti entra nella stazione dei carabinieri «Oreto» per denunciare il furto della sua Fiat 126 color amaranto, parcheggiata in una stradina della borgata della Guadagna. Non è un furto qualsiasi.
Quell’auto serve a qualcuno per imbottirla di esplosivo e fare una strage.
«È arrivato il tritolo per me», dice Paolo Borsellino ai pochi amici che gli sono rimasti in Procura.
Il 14 luglio c’è «Il Festino», è Santa Rosalia patrona di Palermo, la Santuzza quest’anno è tutta per Giovanni Falcone e Francesca Morvillo assassinati a Capaci.
È venerdì 17 luglio. Paolo Borsellino è ancora a Roma per interrogare Gaspare Mutolo. Di sera torna a Palermo, poi va a Villagrazia di Carini dove – in una casetta in riva al mare – Agnese e i suoi figli si sono trasferiti da alcuni giorni. Una notte agitatissima, di incubi. Paolo Borsellino è segnato. La mattina del 18 luglio prende per mano Agnese, percorrono da soli un viottolo e scendono fino al mare. Una passeggiata sulla spiaggia, senza la scorta. Non c’è nessuno. Camminano in silenzio per qualche minuto, le prime barche cariche di pesce stanno tornando a riva. Borsellino e sua moglie sono lì, incantati, a guardarle. Poi un altro lungo silenzio. E finalmente il magistrato parla. Dice ad Agnese: «Non sarà la mafia ad uccidermi ma saranno altri. E questo accadrà perché c’è qualcuno che lo permetterà. E fra quel qualcuno, ci sono anche miei colleghi…».
Agnese è senza fiato. Si copre il viso con le mani e scoppia in un pianto. Paolo Borsellino è venuto a sapere della trattativa fra Stato e mafia. Il giorno dopo, di pomeriggio, qualcuno vede uscire il procuratore dalla casa di Villagrazia di Carini, lo segue a distanza. Qualcun altro tiene sotto controllo i telefoni nell’appartamento della madre. I mafiosi sanno che Paolo Borsellino sta per arrivare lì, in via Mariano D’Amelio, alle 17 di domenica 19 luglio.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Il boato, il fumo nero, le auto distrutte. Ecco l’inferno di via D’Amelio. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 29 luglio 2022
Alle 16.58 e 20 secondi il procuratore salta in aria con i cinque poliziotti della sua scorta. I resti di Emanuela Loi, pezzi di carne insanguinata, finiscono appiccicati al quinto piano sulla parete dell’edificio. Morti anche Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Le due auto blindate del magistrato imboccano via Sampolo, proseguono in via Ammiraglio Rizzo e svoltano a tutta velocità su via Mariano D’Amelio. Giuseppe Graviano aspetta che le due macchine si fermino davanti al palazzo. Poi schiaccia il pulsante.
Alle 16.58 e 20 secondi il procuratore salta in aria con i cinque poliziotti della sua scorta. I resti di Emanuela Loi, pezzi di carne insanguinata, finiscono appiccicati al quinto piano sulla parete dell’edificio. Morti anche Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.
La prima notizia Ansa viene battuta alle 17.16: «Un attentato dinamitardo è avvenuto a Palermo nei pressi della Fiera del Mediterraneo. Vengono richieste ambulanze da tutti gli ospedali. Secondo le prime indicazioni della polizia, sembra che sia rimasto coinvolto nell’attentato un magistrato»
La seconda Ansa è delle 17,47: «Secondo le prime notizie fornite dalla polizia, nell’attentato di Palermo sarebbe rimasto ferito il giudice Paolo Borsellino».
La terza esce alle 18.14: «Il giudice Paolo Borsellino è rimasto ucciso nell’attentato».
Fumo, urla, fiamme, sirene, terrore. Cinquantasei giorni dopo Capaci, hanno ammazzato anche Paolo Borsellino.
Tornano i ministri a Palermo. Tornano anche le rivendicazioni della Falange Armata.
La zona dell’attentato non viene recintata. Una folla di curiosi avanza fra i rottami delle due auto blindate e i copertoni che ancora bruciano. C’è qualcuno che prende in mano un parafango, chi rovista fra i sedili delle auto, chi calpesta la carcassa della Croma del magistrato. Non c’è protezione della scena del crimine.
Fra i resti delle auto blindate si aggirano centinaia di uomini. In divisa e in borghese. Ci sono magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti, avvocati, tantissimi palermitani attirati dal fuoco.
Nello scompiglio c’è però qualcuno che si muove con freddezza. Sa che deve trovare qualcosa lì in mezzo: la borsa di cuoio di Paolo Borsellino. E un’agenda rossa. Un’agenda di pelle con lo stemma dell’Arma dei carabinieri stampato sulla copertina.
C’è un uomo che apre il portabagagli della Croma del magistrato, la blindatura ha risparmiato tutto quello che si trovava al suo interno. La borsa di Paolo Borsellino è intatta. Passa di mano in mano, poi finisce in quelle di un capitano dei carabinieri e ancora in quelle di qualcun altro. Alla fine sparisce. L’agenda dove Borsellino segnava ogni suo pensiero dal giorno della morte di Giovanni Falcone, è ormai al sicuro. Nelle mani di chi non vuole fare sapere certi segreti.
La borsa di cuoio viene subito consegnata ai familiari di Paolo Borsellino. Non manca niente. Sigarette. Fogli di interrogatorio. Oggetti personali. C’è tutto tranne quell’agenda rossa.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Una strage senza verità, falsi pentiti e “assassini” innocenti. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 30 luglio 2022
Gli «assassini» di Paolo Borsellino si trovano presto. Dopo pochi mesi. Per quasi vent’anni alcuni di loro marciscono in carcere. Poi tornano in libertà. È un falso pentito quello che li ha accusati, l’indagine è stata avvelenata per portare tutti lontano dalla verità. Come sempre, in Italia.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
La notte del 19 luglio 1992 non prendo sonno. Resto in piedi fino all’alba, quando mi avvertono che i parà della Folgore sono penetrati nei bracci dell’Ucciardone. Stanno caricando sugli elicotteri i boss detenuti per trasportarli nelle carceri di Pianosa e dell’Asinara.
Per tutta la notte, vengo inseguito da paure e dubbi che poi sono le paure e i dubbi di qualunque altro siciliano che conosce la sua terra: questa volta non sono stati loro i mandanti veri, questa volta c’è qualcun altro che ha voluto la strage.
Troppo ravvicinate le morti di Falcone e Borsellino, troppo «clamorose» per rientrare in una logica di mafia pura. Troppo controproducenti per loro, dannose, letali, quelle bombe e quei massacri in rapida successione.
Ho pensato: sono finiti, i Corleonesi dopo via Mariano D’Amelio sono finiti.
Le conseguenze della strage sarebbero state spaventose per la mafia siciliana. È così è stato.
E allora, perché Totò Riina e i suoi macellai avrebbero deciso ugualmente di uccidere Paolo Borsellino dopo Giovanni Falcone? Quale vantaggio ne avrebbero avuto, cosa avrebbe messo all’incasso Cosa Nostra se non una repressione poliziesca senza precedenti, carcere duro, indagini, processi, confisca di beni, caccia grossa fino all’ultimo latitante?
Per anni mi sono arrovellato su tutto questo, poi mi sono dato una spiegazione semplice: Totò Riina non era più utile, Totò Riina è stato messo nel sacco, usato e gettato via, armato e sacrificato.
Lui e tutti i suoi lanzichenecchi – il popolo mafioso – dopo le stragi sono stati seppelliti per sempre sotto una caterva di ergastoli. Non usciranno mai più dalle galere. Sono marchiati a vita anche i loro figli. E i figli dei loro figli.
Quello che dovevano fare a Palermo, l’hanno fatto. Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. E tutti gli altri. Non c’è più bisogno di loro. Tanto, ormai lo sappiamo, la mafia cambia sempre. Quelle facce sconce sono diventate «impresentabili». Serve una mafia più rassicurante che non abbia il volto di Totò Riina. Una mafia più simpatica, più pettinata e, all’occorrenza, anche politicamente corretta.
Gli «assassini» di Paolo Borsellino si trovano presto. Dopo pochi mesi. Per quasi vent’anni alcuni di loro marciscono in carcere. Poi tornano in libertà. È un falso pentito quello che li ha accusati, l’indagine è stata avvelenata per portare tutti lontano dalla verità. Come sempre, in Italia
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
La mafia uccide il giudice Borsellino. Trent’anni fa, ieri la strage di via D’Amelio. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Luglio 2022.
«Guai a noi se perderemo questa battaglia»: con le parole del presidente Oscar Luigi Scalfaro «La Gazzetta del Mezzogiorno» tragicamente annuncia, sulla prima pagina dell’edizione del 20 luglio 1992, la strage di via D’Amelio.
«Nuovo pomeriggio d’inferno a Palermo. Esplode un’autobomba. Alle 17 è stato ucciso Paolo Borsellino, procuratore aggiunto, magistrato di punta nella lotta alla mafia, possibile candidato alla Superprocura antimafia, amico ed erede di Giovanni Falcone. Con lui sono morti cinque agenti (tra i quali una donna) della scorta. Una trentina i feriti, in gran parte inquilini di due palazzi sventrati (alcuni si sono lanciati dai balconi), decine di auto distrutte. L’attentato è stato compiuto davanti alla casa della madre: Borsellino era solito andare a trovarla ogni domenica. I primi ad accorrere sul luogo della strage non hanno creduto ai propri occhi: cadaveri e resti umani sull’asfalto, automobili che bruciavano».
Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina muoiono due mesi dopo l’assassinio dei giudici Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e dei tre uomini della scorta. Sulla «Gazzetta» si ripropone integralmente l’ultima intervista concessa dal giudice Borsellino al giornalista Lello Parise. L’incontro era avvenuto il 27 giugno a Giovinazzo, dove il magistrato si trovava per un convegno: «Camminiamo uno di fianco all’altro lungo i vialetti dell’Hotel Riva del sole. Alle nostre spalle gli uomini della scorta non ci perdono mai di vista. Gli facciamo una domanda che gli avranno fatto centinaia di volte: che cos’è per lei la paura ? Si stringe nelle spalle, quasi storce il muso, annoiato: «Sono abituato a conviverci. È inevitabile che questo accada». Il giudice parla con Parise per circa due ore, e il saluto finale tra i due è inaspettato: «Vinceremo, in qualche modo la vinceremo questa guerra contro la mafia».
Borsellino ha fiducia soprattutto nei giovani siciliani, non più avvinti dalla cultura mafiosa: «I giovani di oggi sono diversi da quando eravamo giovani noi. Pensi che io e Giovanni Falcone, nati e cresciuti nel quartiere popolare dell’Albergheria, quando avevamo 15-16 anni, credevamo che i mafiosi fossero dei modelli, se non proprio da imitare, da considerare con il massimo rispetto». Oggi, a 30 anni di distanza, ancora non si è arrivati a una ricostruzione convincente dell’attentato di via D’Amelio. Nessun passo avanti è stato compiuto con l’ultima sentenza del processo contro gli inquirenti e poliziotti, accusati di aver ostacolato e distorto l’orientamento dell’inchiesta giudiziaria, pronunciata a Caltanissetta pochi giorni fa.
Paolo Borsellino, trent’anni dopo via d’Amelio cosa sappiamo (e cosa no) di quella strage. Le indagini, le conseguenze politiche, i depistaggi e le domande ancora senza risposta. Luca Tescaroli su L'Espresso il 19 Luglio 2022.
Dopo appena 57 giorni dall’assassinio di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta, il 19 luglio 1992, nella medesima città a Palermo o, comunque, nelle immediate vicinanze, si verificava la strage di via Mariano d’Amelio, costata la vita a Paolo Borsellino e a 5 agenti della scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Eddie Walter Cusina.
Un attacco terroristico ed eversivo diretto al cuore delle istituzioni, capace di generare disordini, panico e sgomento tra i cittadini, idoneo a intervenire sui poteri fondamentali dell'assetto costituzionale, quello giudiziario e quello legislativo, di compromettere la sicurezza dello Stato, posto che faceva emergere l'incapacità degli organi statali a tutelare i suoi funzionari più esposti a rischio, attuato con un'autobomba imbottita da circa 90 chilogrammi di esplosivo plastico Semtex-H di tipo militare e di produzione cecoslovacca, che cosa nostra aveva già impiegato.
Sui reperti trovati a seguito della strage del treno rapido 904 del 23 dicembre 1984, furono, infatti, rinvenute tracce sia di pentrite sia di T4 (RDX), componenti del Semtex, alcuni pani del quale sono stati rinvenuti sia nella villa di Pippo Calò immersa nel verde del rietino, a Poggio San Lorenzo, sia nel deposito bunker di San Giuseppe Jato, in contrada Giambascio, costruito dall'imprenditore Giuseppe Monticciolo, genero di Giuseppe Agrigento, arrestato il 20 febbraio 1996, che immediatamente iniziò a collaborare con la giustizia. La strage di via d'Amelio, a livello istituzionale, produsse un condizionamento del potere legislativo, che si concretizzò nella conversione in legge il 7 agosto del decreto legge dell'8 giugno 1992, superando le difficoltà connesse alle contrapposizioni politiche che fino al quel momento avevano accompagnato il difficoltoso cammino parlamentare.
Quel decreto aveva varato misure repressive di contrasto alla criminalità mafiosa, fra le quali, l'estensione del regime del carcere duro ai mafiosi di cui all'art. 41 bis O. P. (che in molti oggi intendono eliminare) e un inasprimento della regolamentazione dell'ergastolo ostativo per i mafiosi che impediva loro l'ottenimento dei benefici penitenziari, fra i quali, quelli della liberazione condizionale e dei permessi premio (che, nel 2019 e nel 2021, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale).
Il giorno dopo l'attentato vennero sottoposti al 41 bis centinaia di mafiosi, che vennero spediti nelle carceri di Pianosa e dell'Asinara; di lì a qualche giorno vennero inviati in Sicilia 7000 uomini dell'esercito. Una prima prova di forza del Ministro di Grazia e Giustizia e del nuovo Governo presieduto dall'on. Giuliano Amato, che il 18 giugno precedente aveva ricevuto l'incarico di formare il nuovo esecutivo dal neo eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
Indicato pubblicamente dal Ministro dell'Interno in carica come naturale successore di Falcone nella guida della Procura Nazionale Antimafia, consapevole di essere isolato una vittima designata, Borsellino aveva compreso l'intreccio esistente tra l'area criminale di cosa nostra e le sfere istituzionale, imprenditoriale e politica per averlo costatato nel corso del suo lavoro. Nei frenetici cinquantasette giorni che precedettero la sua morte, è risultato impegnato nella gestione di plurimi collaboratori di giustizia: Leonardo Messina, il quale aveva iniziato a collaborare con lui a seguito della strage di Capaci, spiegando, fra l’altro, come funzionava il meccanismo spartitorio degli appalti pubblici tra cosa nostra, gli esponenti politici e gli imprenditori e delle correlate tangenti pagate da questi ultimi; Gioacchino Schembri, appartenente alla stidda di Palma di Montechiaro, che conosceva le dinamiche sottese all’assassinio del giudice Rosario Livatino; Gaspare Mutolo, che aveva iniziato a lanciare accuse nei confronti di appartenenti alle istituzioni e, in particolare, dei Servizi Segreti, il quale riferì che, mentre Borsellino lo stava interrogando, quest'ultimo aveva ricevuto una telefonata da parte del Ministro dell'Interno e che il magistrato, una volta recatosi al Ministero, aveva trovato il capo della Polizia dottor Vincenzo Parisi e il dottor Bruno Contrada al posto del Ministro.
Borsellino aveva manifestato il proposito di individuare i responsabili della strage di Capaci e, nel corso di un’intervista a due giornalisti francesi Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo, aveva fatto riferimento a Vittorio Mangano, e sostenuto di essere a conoscenza di rapporti tra mafiosi ed esponenti del mondo imprenditoriale, citando l'esistenza di una indagine nei confronti di Marcello Dell'Utri. E aveva pubblicamente manifestato l'intenzione di essere sentito come testimone dai magistrati di Caltanissetta per mettere a disposizione quanto a sua conoscenza sulla strage di Capaci, ma non venne ascoltato. Perciò, non sapremo mai cosa avrebbe riferito.
In quel lasso temporale del 1992, i vertici di cosa nostra ricevettero un segnale istituzionale, consistito nell’avvio di una trattativa da parte di esponenti delle istituzioni (ufficiali del ROS). Nella prospettiva dei mafiosi, suonava come una conferma che la loro attività stragista, proiettata a colpire lo Stato minacciandolo per ottenere benefici, fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico istituzionali. Se fosse stato informato dei negoziati in corso tra i vertici del sodalizio ed esponenti delle istituzioni, Borsellino si sarebbe certamente opposto. La strage inghiottì l'agenda rossa dell'Arma dei Carabinieri che il magistrato portava con sé, ove annotava i dati rilevanti. Venne fatta scomparire dopo l'attentato e a oggi non sono stati ancora raccolti elementi chiarificatori in grado di dipanare, in maniera definitiva, la matassa relativa alle modalità della sparizione. Certamente non fu opera di cosa nostra.
A distanza di trent'anni, decine di ergastoli sono stati irrogati, con plurimi verdetti della Corte di Cassazione, fra i quali, quelli del 17-18 gennaio 2003 e del 18 settembre 2008. Tre processi celebrati (c. d. via d'Amelio bis, ter e quater) hanno condotto al riconoscimento del coinvolgimento di cosa nostra nella deliberazione, ideazione ed esecuzione della strage, con condanna definitiva dei componenti degli organi di vertice del sodalizio: la commissione provinciale di Palermo e la commissione regionale. Sono state individuate le ragioni dell'eccidio: la vendetta di un acerrimo nemico di cosa nostra, protagonista del maxiprocesso; l'esigenza di natura preventiva dell'uccisione del dottor Borsellino, derivanti dal pericolo per quanto stava facendo e avrebbe potuto effettuare, che possiedono una specificità rispetto al più ampio progetto criminale aperto, attuato nel triennio 92-94, in cui l’evento delittuoso si inserì tanto da comportare un’accelerazione della strage e di stoppare l’attività preparatoria in corso volta a colpire un altro obiettivo (l’on. Calogero Mannino).
Uomini d’onore appartenenti alle famiglie mafiose di San Lorenzo, di Porta Nuova, di Brancaccio, di Corso dei Mille e della Noce sono stati coinvolti nell’esecuzione della strage. Una porzione significativa della stessa è stata ricostruita ancora una volta con il fondamentale ausilio di più collaboratori di giustizia, fra i quali, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante, Giovanni Brusca, Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina, che hanno anche consentito di smascherare il depistaggio attuato da un soggetto non appartenente a cosa nostra Vincenzo Scarantino, con l'ausilio di Salvatore Candura, Francesco Andriotta e Calogero Pulci, che aveva portato alla condanna anche di sette mafiosi innocenti (poi, assolti a seguito di giudizio di revisione).
Sono stati accusati di aver contribuito al depistaggio anche appartenenti alle forze dell'ordine e il relativo processo è in fase di celebrazione. Una settimana prima della strage, Fabio Tranchina compì due appostamenti in via Mariano d'Amelio insieme a Giuseppe Graviano, il quale gli chiese, in un primo momento, anche di procurargli un appartamento nelle vicinanze, per poi dirgli che aveva deciso di piazzarsi nel giardino dietro un muretto in fondo a via d'Amelio per azionare il telecomando che provocò l'esplosione. Su incarico di Giuseppe Graviano (veicolato tramite Cristofaro Cannella), Gaspare Spatuzza e Vittorio Tutino rubarono una Fiat 126, tra la fine della prima settimana di luglio e la sera del giorno nove. La proprietaria dell’auto, Pietra Valenti sporse denuncia di furto il 10 luglio 1992. Dopo le iniziali difficoltà, Tutino riuscì a rompere il bloccasterzo con un «tenaglione» e l’auto venne portata via a spinta. La ricoverarono nel magazzino di via Gaspare Ciprì, n. 19, a Palermo.
Dopo il furto, Spatuzza incontrò Giuseppe Graviano a Falsomiele nella casa di Cesare Lupo (cognato di Fabio Tranchina) e lo informò di alcuni problemi che l’autovettura presentava alla frizione e ai freni. Graviano gli raccomandò di ripristinarne l’efficienza e di togliere dalla macchina ogni elemento che potesse consentire di risalire al proprietario. E così fece. Si era, perciò, rivolto a un meccanico di sua conoscenza, che lavorava presso l’officina di Agostino Trombetta per farle riparare e per questo aveva pagato 100.000 lire.
Poi, Spatuzza la trasportò sabato 18 luglio 1992, mentre Cannella e Antonino Mangano lo precedevano alla guida di due auto per indicargli il percorso, nel garage di via Villasevaglios, ove Lorenzo Tinnirello, Francesco Tagliavia e altri membri del commando operativo la imbottirono di esplosivo. Tutino e Spatuzza recuperarono due batterie e un'antenna per alimentare e collegare i micidiali dispositivi destinati a far brillare la carica, nonché le targhe, che venivano consegnate a Giuseppe Graviano, da apporre alla 126 rubata per dissimularne la presenza sui luoghi della strage. Su incarico di Giuseppe Graviano, Tranchina procurò il telecomando. Salvatore Biondo (classe 1955), l'omonimo Salvatore Biondo (classe 1956), Domenico e Stefano Ganci, Cristofaro Cannella e lo stesso collaboratore Ferrante hanno provato il funzionamento del telecomando e dei congegni elettrici che servirono per l'esplosione e segnalato telefonicamente, anche procedendo a pedinamenti, gli spostamenti del giudice Borsellino e della scorta fino a poco prima della strage (dato che ha trovato conferma nell’analisi dei tabulati telefonici delle utenze poste nella loro disponibilità).
Salvatore Biondino, in particolare, avvisò Ferrante perché la domenica 19 luglio si sarebbe dovuto colpire il dottor Borsellino e lo incaricò di segnalare lo spostamento del giudice dalla sua abitazione. Raffaele Gangi, il quale fornì un notevole contributo, informò Salvatore Cancemi che l'attentato sarebbe avvenuto quella domenica sotto casa della madre del giudice. Biondino aveva già riferito a Giovanni Brusca di «essere sotto lavoro». I membri del commando operativo si incontrarono a casa di Priolo immediatamente dopo l’evento per brindare al buon esito della strage.
Rimangono, invero, spunti investigativi e interrogativi che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell’ideazione e nell’esecuzione della strage. Non si è appurato, infatti:
chi azionò il telecomando che fece esplodere l'autobomba il 19 luglio 1992;
le ragioni dell’accelerazione dell’eliminazione di Paolo Borsellino;
se vi sia stata una finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per tale strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato;
la persona rimasta sconosciuta, indicata da Spatuzza, presente al momento della consegna della Fiat 126 nel garage di via Villasevaglios;
a chi sono gli infiltrati in via D'Amelio ai quali si riferiscono Mario Santo Di Matteo e la moglie nella nota intercettazione del loro dialogo;
perché è cessata la campagna stragista, in cui si inserisce l'attentato del 19 luglio 1992, dopo il fallito attentato allo stadio Olimpico del 23 gennaio 1994.
Luca Tescaroli è procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze
Paolo Borsellino, storia di un eroe condannato a morte. Fernando Massimo Adonia su Culturaidentita.it il 18 Luglio 2022
Il 19 luglio è il trentesimo anniversario della strage di Via d’Amelio, l’attentato costato la vita a Paolo Borsellino (e due mesi prima toccò a Falcone sull’autostrada per Capaci) e agli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina: è vero che Riina anticipò l’attentato prima che Borsellino verbalizzasse le sue scoperte sui retroscena della strage di Capaci? Chi caricò di esplosivo l’auto parcheggiata in via D’Amelio? Che fine ha fatto l’agenda di Borsellino? (Redazione)
Perdendo la vita, Paolo Borsellino ha donato una grande opportunità ai giovani italiani (e siciliani in particolare): quella di poter onorare un eroe vicino, semplice e figlio dei tempi, senza doverlo andare a rintracciare in chissà quale paese straniero o epoca lontana. Un eroe, sì. Non soltanto una vittima eccellente del terrorismo mafioso, ma un esempio cristallino di umanità e dedizione alla toga. Un professionista scrupoloso, un lavoratore infaticabile, un padre esemplare. Se durante le udienze del Maxi-processo l’attenzione dei media fu tutta per Giovanni Falcone, lui non ne ebbe affatto gelosia. A Borsellino interessava il risultato: quello di assicurare alla giustizia quella banda di balordi che aveva preso in ostaggio la Sicilia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi. Ha lavorato tantissimo per raggiungere quell’obiettivo, con disciplina, inseguendo i necessari riscontri a tutte le ipotesi investigative portate in aula.
Falcone e Borsellino sono morti perché hanno lavorato bene. Lo ha detto la Cassazione quando ha confermato le condanne emesse nell’aula-bunker di Palermo. Un giudizio tutt’altro che sereno, tant’è che il procuratore generale della suprema corte, Antonio Scopelliti, chiamato a studiare i faldoni, fu ucciso il 9 agosto 1991 da Cosa Nostra per intimidire tutto il collegio. Le bombe contro i giudici palermitani sono esplose soltanto quando Totò Riina e soci hanno capito che non sarebbe stato più possibile ribaltare i primi due gradi di giudizio.
Tra il tritolo di Capaci e quello di via D’Amelio ci sono 57 giorni di angoscia. Morto Falcone, sa che tocca a lui. È consapevole che la condanna a morte è già stata emessa. Ma è l’unico che ha le capacità investigative, la libertà di spirito, per continuare il lavoro del collega ucciso.
Comincia una battaglia solitaria, abbandonato anche dai colleghi. Non si risparmia: partecipa a incontri pubblici drammatici, segue piste complicatissime, assaggia l’amarezza del tradimento. Ha fretta. Va avanti nonostante abbia saputo che a Palermo è arrivato il tritolo che lo farà saltare in aria. Chi gli è stato accanto in quei giorni dice che vivesse con distacco anche i rapporti coi figli, per rendere loro meno pesante il lutto. Un profilo ascetico che solo i santi sanno decifrare.
Non è un caso che il suo nome e volto siano diventati simboli di vittoria. Chi ha deciso la sua morte ha sbagliato tutto. Quel sangue ha riscattato un territorio spesso vile. All’appello però manca ancora una fetta importante di verità. La sentenza del Borsellino IV ha parlato del “più grande depistaggio della storia repubblicana”. La famiglia, intanto, attende risposte a molte domande. Una su tutte: chi ha sottratto l’agenda di Paolo dal luogo della Strage?
Vidi la strage di via D’Amelio e a trent’anni di distanza apro lo scrigno dei ricordi. Nicola Fragassi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Luglio 2022.
Io c’ero davvero e raccontai dalle pagine de La Gazzetta del Mezzogiorno, quei giorni che fecero la storia del nostro Paese e che scrissero pagine fondamentali per la guerra alla mafia
Per non dimenticare. Io non dimenticherò mai! Non preoccupatevi, non è l’attacco stereotipato di un post social dei tanti che vogliono surfare sull’onda lunga dei luoghi comuni in anniversari come questo. Io c’ero davvero ed a distanza di trenta lunghi anni non dimentico (ma nemmeno lo voglio) quelle emozioni, quelle sensazioni, quelle scene, quelle lacrime, quei momenti di tensione scatenati da una tragedia come quella della strage di via D’Amelio. Io c’ero davvero e raccontai dalle pagine de La Gazzetta del Mezzogiorno, quei giorni che fecero la storia del nostro Paese e che scrissero pagine fondamentali per la guerra alla mafia. A trent’anni di distanza, ho deciso di aprire lo scrigno dei ricordi e raccontare, come fosse un diario.
Ero arrivato in Sicilia ventiquattr’ore prima della strage, precisamente a Patti inviato dal giornale al seguito del compianto avv. Paolo Pinto che, proprio in quei giorni, aveva in programma un’altra delle sue imprese: la traversata a nuoto dello stretto di Messina. La mattina del 19 era trascorsa in tranquillità con Pinto alle prese con gli allenamenti. Intorno alle 16 di quel pomeriggio bussano alla porta del mio bungalow, un addetto della reception del villaggio che ci ospitava mi invita ad andare in ufficio per una telefonata urgente. Nel 1992 i cellulari in giro erano ancora pochi, io ne avevo uno ma il segnale… Dall’altro capo del telefono sento la voce del mio capocronista di allora, Dionisio Ciccarese, che mi dice di andare immediatamente a Palermo perché «hanno ucciso il giudice Borsellino e la sua scorta». Io, giovane cronista, mi faccio prendere dal panico e dalla paura di non essere all’altezza. Ho ancora impresse nella mia mente (e nelle mie orecchie…) le urla (non solo di incoraggiamento…) del mio capo che mi ordina di fare i bagagli e catapultarmi in via D’Amelio. Lo ringrazio ancora perché lui era già convinto che io fossi all’altezza. E così fu…
Corro al volante della mia auto e parto per Palermo, un viaggio lungo, difficile perché in quegli anni le strade di collegamento tra Messina e Palermo non erano così «comode». Se a questo si aggiungono i mille interrogativi che affollano la mia mente, il quadro è davvero completo. Durante il lungo tragitto ci pensa il caro collega Manlio Triggiani a tenermi informato sui fatti: in auto c’è un cellulare fisso che, quello sì, riesce a captare il segnale anche tra tornanti e strade impervie della Sicilia più interna. Tra un aggiornamento e l’altro, arrivo a Palermo, è la prima volta che sono nel capoluogo siciliano e non ho proprio alcuna idea di dove possa essere via D’Amelio. I navigatori? Trent’anni fa, al massimo c’erano le piantine delle città. Ma non ho bisogno di alcun aiuto perché è sufficiente mettermi all’inseguimento delle decine e decine di auto di polizia e carabinieri o dei mezzi di soccorso per arrivare a pochi metri da via D’Amelio. Con il cuore in gola, arrivo fino all’inizio di quella che è diventata la strada simbolo della lotta alla mafia.
Ovviamente, c’è una barriera umana di uomini delle forze dell’ordine, l’ingresso alla strada è delimitato dal classico nastro bianco e rosso. Mostro il tesserino professionale e, stranamente, mi fanno passare senza fare storie e a distanza di 30 anni ho capito il perché: volevano che tutti noi della stampa testimoniassimo cosa fosse accaduto vedendolo con i nostri occhi.
Il tragitto dall’inizio della strada all’area dell’esplosione è un vero incubo: per terra ci sono fogli, cartelline, indumenti, vetri e… tanto altro. E schiuma, una marea di schiuma utilizzata dai vigili del fuoco. A trent’anni di distanza, quando qualcuno mi chiede la prima sensazione di quel giorno rispondo secco: non so ancora oggi cosa io abbia calpestato sotto i miei piedi…
Negli occhi di tutti si legge disperazione e rabbia, la colonna sonora di quel pomeriggio è fatto dal rumore assordante dei mezzi dei vigili del fuoco che sono ancora al lavoro e dal suono delle sirene che rompe il silenzio degli altri quartieri della città, quelli più distanti dal luogo della strage, una città ancora incredula di quanto la mafia avesse alzato il tiro.
Faccio domande, non ottengo risposte, vedo uomini e donne piangere ed anche il mio viso comincia a rigarsi di lacrime: penso a vite spezzate, sogni infranti, mogli diventate vedove e figli orfani. E la rabbia di quanto dolore l’uomo possa causare. Devo recuperare la lucidità perché in redazione aspettano il mio pezzo. E allora, torno in auto, prendo penna e taccuino e scrivo. Scrivo quello che ho visto, racconto le mie emozioni e detto il pezzo per telefono: i colleghi della Cronaca di Bari si trasformano in dimafoni per cercare, così, di ridurre i tempi e dare alla direzione il testo per la prima pagina.
Trent’anni e quelle emozioni e sensazioni sono sempre le stesse, non cambiano, non si cancellano e mai verranno cancellate. Così come, quelle stesse lacrime tornano a rigare il mio viso al ricordo di quelle vite spezzate, di uomini e donne che si sono sacrificati per rendere migliore la nostra amata Italia.
Via D’Amelio, 19 luglio 1992: voci dall’altra strage. Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022.
Nella seconda puntata speciale di Giovanni Bianconi a trent’anni dall’omicidio del giudice, l’esplosione in via D’Amelio è appena avvenuta. Ma da subito ci si rende conto che molte cose non tornano, come le troppe persone non identificate sul luogo della strage. La voce di Lucia Borsellino, figlia del magistrato, racconta tutti gli aspetti che ancora oggi non sono stati chiariti
Non sappiamo i loro nomi, ma a uccidere Borsellino non è stata solo la mafia. ATTILIO BOLZONI Il Domani il 19 luglio 2022
Con l’autobomba del 19 luglio 1992 hanno assassinato Borsellino e “suicidato” la Cosa Nostra di Totò Riina. Un piano perfetto.
La regia è altrove e se ne rintracciano indizi fin da prime indagini. Mai un'investigazione ha raccolto in sé tante anomalie e forzature, mai tanti inganni sono riusciti a passare al vaglio di procure della repubblica, corti di assise e corti di assise di appello fino a ricevere il bollo ultimo della Cassazione.
Il depistaggio di cui tanto si parla non è partito dopo l'attentato, il depistaggio è partito prima. Pentiti fabbricati in laboratorio, atti spariti, procuratori ben disposti a prendere ordini dagli apparati. Una giustizia piegata a interessi non di giustizia.
"Hanno ammazzato il giudice Borsellino. Minchia". Il racconto di quel luglio del 1992. Davide Enia su La Repubblica il 18 Luglio 2022.
Tra fine della scuola, esami, l'attentato a Capaci di pochi mesi prima. Lo scrittore Davide Enia ricorda quei giorni d'estate di trent'anni fa.
Li hai presenti i pesci? I pesci che saltano fuori dall’acqua, i pesci muti…
O i vitelli che camminano per il mondo e l’osservano sempre col loro occhio commosso…
O i gabbiani che volano veloci e ci mostrano da un cielo alto e azzurro il culo bianco come un giglio…
Mi piacciono gli animali. E mi piace Nina.
Strage di via D’Amelio: parlano gli eroi silenziosi della lotta alla mafia. Emanuele Beluffi su culturaidentita.it il 17 Luglio 2022
Gli eroi silenziosi, memorie dei grandi servitori dello Stato è il convegno che si terrà lunedì alle 18.30 a Villa Cuturi a Marina di Massa in occasione del trentennale dell’assassinio di Paolo Borsellino e della strage di via D’Amelio. Presenti quegli uomini che hanno affrontato la lotta al crimine organizzato a Palermo ai diretti ordini dei grandi magistrati vittime di attentati mafiosi. L’evento è organizzato dall’associazione La Rivincita, guidata dall’avvocato Carmela Federico (che introdurrà i lavori) e dalla vice presidente Mirka Morandi. Col vice sindaco e assessore al Turismo del Comune di Massa Andrea Cella ci saranno Roberto Pennisi già sostituto procuratore impegnato nell’antimafia, il colonnello Angelo Jannone autore del libro Un’arma nel cuore e il Generale della Guardia di Finanza Emilio Errigo: il dibattito sarà moderato dal direttore di CulturaIdentità Edoardo Sylos Labini. Presenti anche gli onorevoli Gianluca Cantalamessa (Responsabile Nazionale Dipartimento Antimafia) e Manfredi Potenti (Responsabile Dipartimenti Giustizia e Antimafia Toscana). Gli eroi silenziosi riserva alla memoria collettiva una serie di testimonianze uniche e mai finora riunite in un unico evento, proprio a pochi giorni dalla sentenza del tribunale di Caltanissetta nel processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio che ha dichiarato prescritte le accuse contestate. Durante il convegno saranno esposte opere degli artisti locali Manola Caribotti, Mafalda Pegollo e Emanuele Rebughini.
«Io, caposcorta di Borsellino all’ultimo cambiai turno: salvo per un testa o croce». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 17 Luglio 2022.
L’agente Nicola Catanese a 30 anni dalla strage: devo tutto a mia moglie: stavamo per sposarci, era il suo compleanno e voleva che stessi con lei, così le feci una sorpresa. «Il magistrato mi disse: è arrivato l’esplosivo per me, ma temo più per voi»
A decidere fu il lancio della monetina, testa o croce. «Uscì croce e chiedemmo il cambio ai colleghi del turno pomeridiano, che arrivarono a Villagrazia di Carini e ci sostituirono. Se invece fosse uscito testa avremmo riaccompagnato noi il giudice Borsellino in via D’Amelio, e il cambio lo avremmo fatto dove c’era l’autobomba. Che sarebbe successo? I colleghi arrivati prima avrebbero notato la macchina sospetta o, com’è più probabile, saremmo morti anche noi?». Il vice-sovrintendente di polizia Nicola Catanese — 59 anni, in servizio da 36, uno dei capiscorta di Paolo Borsellino — se lo chiede da trent’anni. Da quel 19 luglio del 1992 in cui salutò il magistrato nella sua casa sul mare per apprendere, qualche ora dopo, che era stato ammazzato insieme a chi avrebbe dovuto proteggerlo. Poteva toccare a lui, la sorte decise che fossero altri.
Il compleanno della moglie e il cambio di turno
Essendo fuori Palermo dal mattino, c’era la possibilità di attivare lo straordinario (guadagnando qualcosa in più su una busta paga non ricca) e spostare il cambio turno al rientro in città; ma si poteva anche chiedere il rimpiazzo all’orario previsto, fuori Comune. Un’alternativa decisa da una coincidenza: il compleanno della futura moglie di Catanese, nata il 20 luglio, che viveva a Messina come lui. «Io tendevo ad accumulare i turni di riposo — ricorda il poliziotto — per avere qualche giorno in più quando tornavo a casa, e quella domenica avevo deciso di non rientrare. Dunque potevamo rimanere con il giudice fino al ritorno a Palermo. Verso fine mattinata, da una cabina telefonica, chiamai Sofia, la mia fidanzata, e le confermai che non sarei andato, ma si dispiacque. Così pensai di farle una sorpresa e di andare, senza dirglielo. Tornai dai colleghi e dissi: io vorrei smontare, voi che dite? Eravamo in sei, il responso fu tre a tre. A quel punto potevo decidere io, ma per non scontentare nessuno scelsi di affidarmi alla monetina: testa restiamo, croce chiediamo il cambio».
Il lancio della monetina e l’autobomba
Croce. Dopo poco, a Villagrazia arrivarono le due pattuglie guidate da Agostino Catalano e Claudio Traina, insieme a Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Antonio Vullo. Tutti saltati in aria con Borsellino tranne Vullo, l’unico superstite della strage di via D’Amelio. Cinque vittime «collaterali» selezionate dal caso, come in una sliding door, di un attentato dato per certo dallo stesso bersaglio. Al punto di preoccuparsi non per sé, ma per i morti che si sarebbe tirato dietro.
«Disse: è arrivato l’esplosivo per me, ma temo per voi»
Come racconta Catanese: «Da qualche giorno lo vedevo nervoso e più preoccupato del solito, così il lunedì precedente la strage gli chiesi se ci fosse qualcosa che non andava. Borsellino mi rispose “Sono dispiaciuto per voi”. Domandai perché e lui aggiunse: “Perché so che è arrivato l’esplosivo destinato a me, e mi dà angoscia pensare che possano colpire anche voi”. Io cercai di tranquillizzarlo, poi ne parlai con gli altri colleghi: eravamo tutti coscienti del rischio che correvamo, e decidemmo di continuare a proteggerlo. Con la paura, certo, ma anche con la convinzione di fare una cosa giusta, tentando di farla nel miglior modo possibile. Anche perché il giudice si faceva volere bene, ci trattava sempre con grande rispetto e riguardo, non potevamo abbandonarlo».
la visita del giudice alla madre
Le sirene quasi sempre accese, la tensione al massimo in ogni spostamento, l’attenzione ai minimi particolari, nella consapevolezza che non tutti i pericoli si potessero evitare: «Il giudice doveva continuare a fare la sua vita. Non sempre, ad esempio, poteva aspettare che arrivasse la seconda macchina di scorta prima di muoversi da casa». Accadde pure alla vigilia della strage, il pomeriggio del 18 luglio. «Mi comunicò che doveva andare dalla madre, era con un’altra persona, probabilmente un medico. Io gli dissi di attendere qualche minuto, il tempo di far arrivare l’altra auto, ma lui aveva premura, volle partire subito, e così fece arrivare la staffetta direttamente in via D’Amelio».
Le troppe auto parcheggiate in via D’Amelio
In quella strada Catanese era già stato altre volte — «di solito la domenica mattina dopo la messa, anche se noi sconsigliavamo le abitudini fisse» — e aveva notato con disappunto le tante auto parcheggiate davanti al portone dove entrava Borsellino: «Segnalai la situazione al dirigente dell’ufficio, si sarebbe dovuta istituire la zona rimozione, ma in quel periodo non era facile per le proteste dei residenti, le concedevano solo per le abitazioni dei potenziali obiettivi». Davanti a casa Borsellino fu messa solo qualche settimana dopo la strage di Capaci.
La 126 carica di tritolo
Grazie al mancato divieto di parcheggio, i mafiosi poterono sistemare la Fiat 126 carica di tritolo davanti al civico 19 di via D’Amelio. Probabilmente la sera di sabato 18 luglio o la mattina di domenica 19: in trent’anni di indagini non si è arrivati a ricostruire nel dettaglio le ultime fasi della preparazione e dell’esecuzione dell’attentato. Quella domenica il magistrato cambiò programma, rinviando la visita alla madre al pomeriggio. «La mia squadra montò alle 7 — racconta Catanese —, e verso le 9 il giudice mi avvisò che saremmo andati nella casa di Villagrazia».
La gita al mare
Borsellino aveva deciso di trascorrere qualche ora al mare con la moglie, il figlio e alcuni amici. «Avvertii la staffetta — continua il caposcorta — aspettammo il suo arrivo e siamo partiti. Verso la tarda mattinata decise di fare un giro in motoscafo, io provai a dire che non era prudente ma lui andò ugualmente. Chiamai la sala operativa per sapere se c’era una motovedetta o un elicottero in zona per controllare, ma mi risposero di no. Dopo nemmeno mezz’ora il giudice tornò a casa. Poi arrivò l’ora di cambio turno, telefonai alla mia fidanzata e tirai la monetina».
«Sono vivo grazie a te»
Rientrato in caserma a Palermo, l’agente scelto Nicola Catanese si liberò dell’equipaggiamento, salì sulla sua macchina e partì per Messina. Senza avvisare nessuno, e senza sapere nulla della strage. Arrivato a casa, aprì la porta e trovò la madre in lacrime che gli gettò le braccia al collo: «Non capivo perché, e mio padre mi indicò il televisore con le immagini della strage; si sapeva che c’erano dei poliziotti morti e pensavano che io fossi tra loro. Rimasi a lungo immobile davanti alla tv, piansi anch’io. E a Sofia, la donna che poi diventò mia moglie dissi: “Sono vivo grazie a te”. Perché è andata proprio così».
Borsellino e il «pessimo affare» di Totò Riina. Gian Carlo Caselli su Il Corriere della Sera il 16 Luglio 2022.
A trent’anni dalla strage di via D’Amelio, dove insieme al magistrato furono trucidati Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi.
Moltissimo è stato scritto in occasione del XXX anniversario della strage di via d’Amelio, dove insieme al grande Paolo Borsellino furono trucidati Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi . Mi ha colpito il bel libro di Giovanni Bianconi ( «Un pessimo affare» - Solferino ed.), che oltre alla preziosa e obiettiva esaltazione dei grandi meriti e dell’eccezionale coraggio di Borsellino contiene una ricostruzione dei fatti che fa riflettere.
In particolare, Bianconi ricostruisce nel dettaglio la storia del decreto -legge varato dal Consiglio dei ministri l’8 giugno 1992 dopo la morte di Falcone. Un giro di vite contro la mafia che introduce il cosiddetto «doppio binario» - cioè una normativa pensata con concreto riferimento alla «specificità» della mafia - che in particolare incentiva i pentimenti e introduce un carcere finalmente duro (per porre fine alla vergogna di una detenzione che confermava ogni giorno, anche in galera, la supremazia della mafia sullo stato). Contro questo decreto si scatenò una campagna ostile (contestazioni pesanti di avvocati penalisti e detenuti in rivolta), sicché la conversione in legge del decreto procedeva a rilento. Quando i tempi stavano ormai per scadere, sulla spinta dell’autobomba di via d’Amelio il Parlamento, lavorando a tappe forzate, riuscì a convertire il decreto in legge.
Riveleranno poi alcuni «pentiti» che un mantra del «capo dei capi» (Riina) era che si sarebbe giocato anche i denti, volendo dire una cosa preziosa, e cioè che avrebbe fatto di tutto per far annullare la legge sui pentiti ed eliminare l’articolo 41 bis che costringendo all’isolamento i mafiosi poteva determinare nuovi pentimenti. Invece, uccidendo dopo Falcone anche Borsellino (per di più - come pare certo - accelerandone la morte) Riina ha di fatto agevolato l’approvazione di una legge da lui stesso osteggiatissima. Una mossa controproducente, un «pessimo affare». Oltretutto ....recidivo! Perché già dieci anni prima la strage di via Carini, con la morte del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, si era trasformata in un «pessimo affare» per la mafia. La reazione dello Stato aveva prodotto la Legge Rognoni-LaTorre, con il 416 bis e l’aborrito attacco alle ricchezze illegali: quanto di peggio i mafiosi abbiano mai dovuto registrare.
Difficile immaginare - sostiene Bianconi - che Riina non abbia previsto questi effetti nefasti per l’organizzazione criminale. E allora si potrebbe pensare che qualcuno lo abbia mal consigliato o possa averlo condizionato o convinto, prospettandogli chissà che. Qualcuno che magari conosceva bene la psicologia mafiosa. Vale dunque la pena parlare anche di questo profilo.
Il mafioso interiorizza Cosa nostra come l’unico mondo nel quale vi sono individui degni di essere riconosciuti come «persone». Il mondo esterno è invece una realtà «nemica» da depredare, nella quale vivono individui destinati a essere assoggettati, «oggetti» che non hanno dignità umana. Una «reificazione» del mondo esterno che sfocia nell’assoluta mancanza di senso di colpa dei Killer e di chi li comanda. La convinzione di appartenenza a una entità speciale crea infatti un totale distacco emotivo che disattiva la sfera dei sentimenti.
L’identità psicologica perversamente deviata del mafioso si intreccia poi con una «sacralità atea»: il mafioso ostenta una «fede» che è soltanto superstizione. E questa sua «religione» la interpreta in modo blasfemo, come conferimento di una specie di «missione» che tutto giustifica, anche le peggiori nefandezze. Dopo l’appartenenza, un ulteriore fattore di forza.
Se tutto ciò vale per il mafioso «medio», figuriamoci per il «capo dei capi». Temuto e ossequiato da tutti (mafiosi e non); forte di protezioni, anche politiche, di alto livello e di una immensa fortuna economica; proiettato verso obiettivi di egemonia totalizzante; trionfatore in guerre di mafia, con migliaia di avversari sterminati o «scappati»; regista di una decapitazione sistematica e feroce di tutti i vertici istituzionali; capace per decenni di una «comoda» latitanza. E allora, è possibile accostare al «capo dei capi» una sindrome tipo delirio di grandezza? Si può ipotizzare che abbia finito per convincersi di essere un super-uomo irraggiungibile e invulnerabile, quasi un Dio? E che qualcuno di questa sindrome possa aver approfittato?
Viene utile, a questo punto, una frase di Falcone scelta da Bianconi come esergo: «Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non si siano alleati a Cosa nostra - per un’evidente convergenza di interessi - nel tentativo di condizionare la nostra democrazia, ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi».
Da oggi.it il 16 luglio 2022.
Il 3 febbraio del 1992 Sara Caon, studentessa di 17 anni del Liceo scientifico Alvise Cornaro di Padova, scrisse «su un foglio protocollo avanzato dalla versione di latino» una lettera a Paolo Borsellino, lamentando la sua mancata partecipazione, per un equivoco, a un incontro nella sua scuola e ponendo nove domande sulla mafia.
Il magistrato iniziò a risponderle proprio la mattina del giorno in cui fu ucciso sebbene, scrisse, «oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perché la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente perché dormono quando esco da casa e al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati. Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande».
Sara Caon ne aveva parlato solo al «Mattino» di Padova nel 1993 e torna farlo adesso con OGGI, da domani in edicola, perché «a chiedermelo è stato Giovanni Paparcuri (collaboratore di Falcone e Borsellino, curatore del museo a loro dedicato nel “bunkerino” di Palermo, ndr), cui tutti noi dobbiamo riconoscenza. E perché il nostro è un Paese che non coltiva la memoria: ci sono generazioni che non sanno chi sia Borsellino, invece quella sua lettera andrebbe scolpita sui muri».
A OGGI racconta come nacque il suo impegno antimafia, lontano mille chilometri dalla Sicilia. «La molla scattò con Saveria Antiochia (attivista antimafia, madre di un poliziotto ucciso da Cosa Nostra, ndr). Era stata invitata a parlare di donne e mafia qui a Padova. Le sue parole mi incollarono alla sedia. Poi mi guardai intorno e notai che ero l’unica sotto i 40: avevo 15 anni. Mi sono detta: “Se i miei coetanei non vengono qui, la porto io da loro”. E la invitai nella mia scuola. Di lì in poi ho organizzato tanti altri incontri sulla mafia».
OGGI pubblica anche la lettera del giudice, che rispose a tre delle nove domande prima di interrompersi per non poter più proseguire. Un’ultima testimonianza sulla mafia e una prova del suo impegno anche culturale, nelle scuole, nella battaglia per sconfiggerla:
«Intanto vorrei rassicurarla che non mi sono affatto trincerato dietro un compiacente centralino telefonico… Se le sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi abbia mai trovato. Comunque il mio numero di telefono presso la Procura di Palermo è 091/***963, utenza alla quale rispondo direttamente».
«Cose nostre», puntate sulla mafia da far circolare nelle scuole. Ado Grasso su Il Corriere della Sera il 12 Luglio 2022.
Con il suo avamposto di autori, Emilia Brandi riesce a redigere un altro capitolo sulle imprese delittuose della criminalità organizzata.
Due figure chiave nella lunga storia che contrappone lo Stato alla mafia: Ninni Cassarà e Natale Mondo. Cassarà era Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato in forza presso la questura di Palermo , sposato e padre di tre figli. Il 6 agosto 1985 un gruppo di circa dieci uomini armati sparava sull’Alfetta che trasportava il funzionario e i tre agenti che lo scortavano. Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia restano uccisi nel conflitto a fuoco, uno degli altri agenti riporta ferite gravissime, il quarto agente, Natale Mondo resta illeso (ma sarebbe stato ucciso il 14 gennaio 1988). Cassarà muore tra le braccia della moglie, accorsa in strada. Braccio destro di Cassarà, Mondo faceva parte di quella squadra di superpoliziotti della questura di Palermo, l’«avamposto degli uomini perduti» diretto da Boris Giuliano, che dava la caccia ai latitanti più pericolosi della Sicilia.
Sposato e padre di due bambine, Mondo lavorava anche come infiltrato: così viene arrestato con la più infamante delle accuse, quella di essere la talpa dei clan all’interno della questura di Palermo. Dopo un lungo calvario giudiziario riesce a dimostrare ai magistrati la sua innocenza, ma questo segna anche la sua condanna a morte. Il doppio gioco è ormai venuto alla luce e la mafia non perdona. Ancora una volta, con «Cose nostre» (Rai1), Emilia Brandi e il suo avamposto di autori, riesce a redigere un altro mirabile capitolo sulla mafia, ricostruendo con precisione i fatti, intervistando i superstiti (commovente l’intervista a Francesco Accordino, allora capo della squadra omicidi e unico sopravvissuto alla mattanza degli eroici servitori dello Stato), ricomponendo le tessere di un mosaico che ancora sanguina. Non dovrebbe essere difficile far circolare le puntate di «Cose nostre» nelle scuole italiana. Basterebbe solo la buona volontà.
Strage di via D’Amelio, la grande impostura. Cinquantasette giorni dopo Capaci viene ucciso Paolo Borsellino, l’alter ego di Falcone, arrivato a un passo dalla verità. E dopo la sua morte, colleghi e investigatori inscenano il gigantesco depistaggio utilizzando il falso pentito Scarantino. Enrico Bellavia su L'Espresso il 18 maggio 2022.
Una chiamata all’alba della domenica in cui l’avrebbero ucciso. Il procuratore capo Pietro Giammanco avverte l’incongrua urgenza di dirgli a quell’ora e in quel giorno che «sì, potrà finalmente indagare su Palermo. Così la partita si chiude». «Si apre, invece», è la replica gelida di chi sa di essere alla resa dei conti.
È cronaca di una morte annunciata quella di Paolo Borsellino. Mandato al patibolo in quelle stesse eccellentissime stanze in cui, sostenendo di indagare sulla sua fine, avrebbero poi inscenato per anni la più grottesca delle imposture. In un Paese che pure non si è mai risparmiato menzogne. Non arriva mai, invece, lo squillo che Borsellino ha atteso nei 57 giorni precedenti. Consumati invano nella disperata corsa per riscattare la morte dell’amico Giovanni Falcone. E salvare sé stesso. Né il Csm, né la procura di Caltanissetta, dove il capo Giovanni Tinebra, violando la legge, si è già consegnato, su indicazione del capo della polizia Vincenzo Parisi, al Sisde di Bruno Contrada, hanno sentito la necessità di ascoltarlo.
16,58 del 19 luglio di 30 anni fa, Palermo, via D’Amelio: budello nel ventre dell’Italia dell’eterno compromesso, strada cieca di una Repubblica che ancora oggi non sa trovare via d’uscita. Dista 500 metri dal vicolo Pipitone dove sbirri, spioni doppiogiochisti con licenza di uccidere, e padrini padreterni che li hanno a libro paga si danno appuntamento. Nel pomeriggio assolato di una città che si è già messa alle spalle l’orrore del cratere di Capaci, il bagliore di un’altra bomba inghiotte altre vite e verità. Con il procuratore aggiunto di Palermo muore la prima e unica donna delle scorte assassinata, Emanuela Loi, spedita in trincea al primo incarico. E muoiono Agostino Catalano, il veterano del gruppo, e i colleghi Eddie Walter Cosina, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli. Si salva soltanto Antonio Vullo.
A meno di due mesi dalla morte di Giovanni Falcone, tocca all’uomo che ne è da sempre l’alter ego. Dai tempi dell’oratorio alla toga. Dal concorso in magistratura all’ufficio istruzione. Dalla precipitosa reclusione all’Asinara per stendere l’ordinanza del maxiprocesso, al successo di una sentenza che sancisce la fine dell’impunità di Cosa nostra. Dalle accuse di protagonismo al cocente isolamento.
Non occorrono pronostici nella città che sussurra. Lo dicono nei vicoli, lo bisbigliano nei salotti, lo sanno bene i suoi colleghi, lo registrano le informative dei servizi. Borsellino, 52 anni, da uno procuratore aggiunto di Palermo, è il prossimo. I missini lo hanno pure votato come presidente della Repubblica, i ministri del governo Andreotti, Claudio Martelli, Giustizia, e Vincenzo Scotti, Interno - che lascerà il posto a giugno a Nicola Mancino, quando a Palazzo Chigi arriva Giuliano Amato - lo vorrebbero capo della Direzione nazionale Antimafia.
Eppure la Squadra Mobile di Arnaldo La Barbera e l’ufficio scorte non gli hanno rinforzato la tutela, non hanno piazzato una zona rimozione davanti casa della madre, niente rilevatori d’esplosivo, né bonifiche preventive. Non hanno preso uno straccio di precauzione. Lo mandano incontro ai boia quasi avessero deciso deliberatamente di farlo, tradendolo anche all’ultimo miglio.
Per Cosa nostra è un’altra spunta nell’elenco che Totò Riina ha stilato nel 1991 e che rivede subito dopo la strage di Capaci dando priorità assoluta a Borsellino. Il giudice, nell’estate del 1992, corre per capire. Riprende in mano l’indagine sugli appalti che ha già portato Falcone a ipotizzare una finanziarizzazione della mafia con l’ingresso in Borsa dietro il paravento di colossi dell’imprenditoria nazionale, come la Calcestruzzi di Raul Gardini. Scambia informazioni con il pool milanese di Tangentopoli. Ma corre anche il capo di Cosa nostra. Avverte la pressante esigenza di impedire che il giudice giunga alle conclusioni.
Serve un’altra strage, preventiva.
Poco prima di morire, nell’intervista ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo insabbiata per anni - la cui trascrizione è stata pubblicata da L’Espresso nel 1994 e la cui sintesi video, sepolta in Rai, sotto montagne di nastri, è rispuntata solo nel 2001 - Borsellino parla a lungo di un semisconosciuto Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore e del fratello di Marcello Dell’Utri, il braccio destro di Silvio Berlusconi, ancora solo un magnate televisivo.
Lascia intendere che la storia dei traffici di droga lungo l’asse Palermo-Milano è una traccia da approfondire, forse per arrivare alle opache origini delle fortune immobiliari del patron del Biscione. Ha ascoltato il pentito Leonardo Messina. E, ingaggiando una battaglia con Giammanco che vorrebbe impedirglielo, sta già sentendo Gaspare Mutolo che a fine 1992 porterà in carcere proprio Bruno Contrada. Mentre Borsellino interroga in gran segreto il pentito viene chiamato al Viminale per l’insediamento di Nicola Mancino. Lì, con Parisi ci trova proprio lo 007, di cui Falcone diffidava e che Mutolo accusa. Contrada sa dell’interrogatorio e glielo dice.
Nel fumo dell’inferno di via D’Amelio, tra pezzi di corpi volati fin su nei balconi, tra macerie e macchine a fuoco, nello stordimento di un boato udito a chilometri di distanza, uomini in abito scuro e camicie inamidate, sbucati dal nulla con le tessere del ministero dell’Interno in mano, trafficano tra le lamiere, portandosi via l’agenda del giudice. Sparita dalla borsa di cuoio trafugata e ricomparsa, vuota, dopo un mese, sul divano dell’ufficio di La Barbera. Al centro Sisde di Palermo, in contemporanea, c’è un insolito traffico telefonico mai registrato prima di domenica.
Il resto, lo fanno scrivendo subito di una 126 rubata e imbottita di tritolo. Serve quel dettaglio per far combaciare ciò che hanno in mente. Prima ancora che gli artificieri si raccapezzino tra i rottami, hanno già confezionato la premessa per la più dubbia delle conclusioni. Si mettono a caccia dell’auto, scovano miracolosamente un’intercettazione. Individuano gli autori del furto e tirano fuori dal cilindro delle invenzioni un balordo di periferia, Vincenzo Scarantino. Uno spacciatore di droga che hanno già provato a far riconoscere al padre del poliziotto assassinato Nino Agostino nel 1989. Scarantino diventa il pupo del grande depistaggio. La Barbera e soci lo presentano come un mafioso, lo spediscono nel lager di Pianosa, lo imbeccano e lo istruiscono, lo minacciano e lo ricattano con la stessa determinazione con cui lo blandiscono. Schiere di pm, anche di esperienza, non capiscono nulla. I dubbi, se li hanno, li tengono per loro. Al massimo scrivono una nota a futura memoria per pararsi. Non sollevano alcun caso pubblico neanche quando, dopo le ritrattazioni di Scarantino che si pente di essersi pentito e poi si ripente, 11 innocenti finiscono al 41 bis e condannati per una strage di cui non sanno nulla.
A fermare pm e giudici abbindolati da La Barbera e dai suoi superiori, non serve constatare che la storia del furto della 126 fa acqua da tutte le parti. Né sono sufficienti le parole chiare degli altri collaboratori che bollano Scarantino come inattendibile. Il pupo vestito ha perfino raccontato che della strage Borsellino ascoltò il momento clou della decisione di ucciderlo, prelevando una bottiglia d’acqua dal frigo, durante un summit della cupola. Gli credono anche quando le difese degli 11, otto all’ergastolo, sollevano più di un interrogativo sulle note a margine dei verbali depositati che sembrano, e lo sono, istruzioni per l’uso. E continuano a farlo quando nel 1998 Gaspare Spatuzza, non ancora pentito, li mette in guardia su Scarantino. Bisognerà arrivare al 2008 e tornare a Spatuzza, il vero artefice del furto della 126, finalmente collaboratore di giustizia, per convincere tutti che Scarantino ha mentito. E con lui chi lo ha gestito. Qualcuno è morto e qualcun altro ha fatto carriera. I sepolti vivi nel girone del carcere duro vengono liberati. E sul perché si sia arrivato a tanto ci si trincera dietro il veniale peccato di ansia da risultato. E invece è stata una partita truccata contro la verità. Un “furto di verità”, l’ha definito il presidente della commissione regionale antimafia siciliana, Claudio Fava.
Non la cosca della Guadagna che con il falso di Scarantino si è presa il centro della scena ma i terribili fratelli Giuseppe e Filippo Graviano di Brancaccio hanno gestito la strage Borsellino, occupandosene direttamente. E fino a quel punto solo uno, Giuseppe, è stato coinvolto. Il fratello Filippo, il contabile, l’ha fatta franca. E sarà poi proprio Giuseppe Graviano a raccontare, da mafioso non pentito in vena di contrattare a distanza la scarcerazione, di essere stato in affari con Silvio Berlusconi. Cerchio chiuso? Neanche per sogno. Perché sulla strada di un’indagine che finalmente dopo 14 processi sembra aver imboccato la via maestra si innesta la storia della trattativa. Ci credono i pm di Palermo, scettici quelli di Caltanissetta. Complice un clamore mediatico che si trasforma presto in coro da stadio, si finisce per sovrapporre i piani e confondere tutto. Borsellino morto per rimuovere l’ultimo ostacolo al compimento della trattativa Stato-mafia, questa diventa la tesi. Che però le sentenze rendono monca. La mafia trattò ma lo Stato, che pure arretrò davvero sul 41 bis, non rimane traccia. E le manomissioni? E l’agenda sparita? E la pista degli appalti? E il palazzo dei mafio-costruttori Graziano, di fronte al luogo della strage, con terrazzo attrezzato di paratie antisfondamento, ignorato?
Con i boia condannati, al massimo, si inseguono ora i tre poliziotti che per conto di La Barbera imbeccavano Scarantino. Nessuna colpa e, anzi, orizzonti di gloria per tutti quei pm che presero per oro colato le sue panzane. E che non chiesero mai a Tinebra conto del coinvolgimento di Contrada nelle indagini. Coperti da una coltre omertosa di «non ricordo», diventano ombre quanti nel Palazzo vollero Borsellino morto. Non sentendolo in quei 57 giorni e non convocando, dopo, il procuratore Giammanco per chiedergli perché non lo informò dell’allerta su un attentato e lo tenne lontano dalle indagini su Palermo. E perché quella telefonata, il più lugubre dei presagi, proprio il giorno in cui l’avrebbero ucciso.
"Borsellino indaghi su Capaci". Ecco il documento inedito. Felice Manti e Edoardo Montolli il 7 Giugno 2022 su Il Giornale.
Nell'agenda del giudice morto in via D'Amelio l'incontro con l'emissaria del Guardasigilli. La conferma nel dispaccio Usa.
Ci sono tre episodi piuttosto importanti su Giovanni Falcone che Il Giornale è in grado di ricostruire attraverso tre documenti inediti. Persino l'ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, che per scrivere Vita e persecuzione di Giovanni Falcone si è appoggiato alle sue agende ministeriali dell'epoca, intervistato nei giorni scorsi, non ne parla.
Il primo è l'incontro segreto che il magistrato ebbe con Gaspare Mutolo il 16 dicembre 1991 nel carcere di Spoleto. Martelli esclude che Falcone compisse indagini e che probabilmente, dopo averlo sentito, indirizzò l'aspirante pentito, che voleva parlare solo con Falcone, a Paolo Borsellino. Però l'episodio resta controverso. Mutolo dirà, nelle varie versioni che diede di quell'incontro in aula, nelle interviste e nei libri, di avergli fatto il nome di Domenico Signorino (ovvero il pm che aveva chiesto e ottenuto la sua condanna al maxiprocesso) senza suscitare la sorpresa del magistrato, che si rivolse a quel punto al collega Gian Nicola Sinisi dicendogli: «Hai visto?». Eppure questo contrasta con l'approccio di Falcone con gli aspiranti pentiti, se si pensa che sul solo Tommaso Buscetta aveva chiesto 2.600 riscontri prima di credergli. E ancora contrasta con l'agenda elettronica Sharp del giudice, su cui era stato appuntato il numero di casa di Signorino (e Falcone non segnava il numero di casa di tutti i magistrati con cui aveva lavorato). Indagato, Signorino morirà suicida professandosi innocente: «Qualcuno vuole fregarmi», disse all'Unità.
Infine, Falcone era andato a Spoleto proprio su disposizione diretta del capo di gabinetto al ministero della Giustizia Livia Pomodoro, a cui il giorno dopo però scrisse, come si legge nel documento che pubblichiamo: «Non mi è sembrato che il Mutolo sia disposto a una formale collaborazione con l'autorità giudiziaria e non ritengo, quindi, che debba essere informata la magistratura». Verrà invece fuori, ai processi, che Falcone avrebbe poi informato Gianni De Gennaro dell'intenzione di Mutolo di pentirsi e «per le vie brevi» (dirà De Gennaro), il procuratore di Palermo Pietro Gianmanco. Ma perché scrivere l'opposto nella relazione al ministero?
Il secondo dettaglio su cui mancano ancora risposte è il presunto viaggio a Washington di Falcone a fine aprile del 1992, per interrogare Buscetta sul delitto di Salvo Lima e, verosimilmente, sul presunto piano di destabilizzazione dell'Italia di cui era stato messo al corrente il Parlamento e che profetizzava attentati tra marzo e luglio 1992 (tutti puntualmente avvenuti). Un viaggio confermato inizialmente da autorevoli esponenti istituzionali, anche americani, ma sempre smentito da Via Arenula. Tuttavia, mesi dopo questa smentita, l'allora commissario Gioacchino Genchi, che indagava sulle stragi, recuperò il contenuto della seconda agenda elettronica del giudice, una Casio risultata cancellata «in maniera non accidentale» dopo la morte di Falcone e il relativo sequestro: dentro, erano segnati appuntamenti a Washington di Falcone tra il 28 aprile e il 3 maggio (di cui pubblichiamo la schermata), unica discrasia con l'altra agenda elettronica Sharp. Genchi, che aveva acquisito i tabulati di Falcone, si accorse anche, e lo testimoniò in aula, che in quei giorni i cellulari di Falcone non registravano chiamate: e i telefonini dell'epoca, in effetti, all'estero non prendevano. Chiese di acquisire allora le carte di credito di Falcone, per accertare il viaggio, ma trovò la ferma opposizione di Ilda Boccassini, che riteneva quell'accertamento «invasivo». Di certo, nessuno al ministero della Giustizia ha mai chiarito dove si trovasse il giudice più controllato d'Italia per una settimana. Ai processi Liliana Ferraro, che lavorava a stretto contatto con Falcone, elencò una serie di eventi, verificati ma antecedenti al 28 aprile.
Il terzo episodio che Martelli al Giornale definisce una «colossale bufala» riguarda proprio la Ferraro. Nel libro L'Italia vista dalla Cia del 2005, Paolo Mastrolilli e l'attuale direttore di Repubblica Maurizio Molinari, ricorrendo al Freedom of Information Act, raccolsero alcuni documenti riservati dagli archivi federali del College Park, nel Maryland. Tra questi un dispaccio confidenziale dell'ambasciata di Roma del primo giugno del 1992, in cui si sintetizza un incontro che sarebbe avvenuto il 29 maggio tra l'ambasciatore, il ministro Martelli e alcuni membri del suo staff. Precisava che l'inchiesta su Capaci sarebbe passata a Borsellino: «Il ministro ha annunciato che il 30 maggio avrebbe inviato Liliana Ferraro a Palermo per gestire il passaggio dell'intera indagine nelle mani di Paolo Borsellino, viceprocuratore locale e vecchio collaboratore di Falcone», morto in Via d'Amelio. Una morte su cui ancora oggi c'è un processo per depistaggio ad alcuni poliziotti. Martelli nega di aver mai dato tale incarico alla Ferraro, anche perché il 28 maggio era stato nominato Gianni Tinebra procuratore di Caltanissetta. E di un incontro tra Ferraro e Borsellino il 30 maggio 1992 non si è mai parlato in alcun processo.
Ma, dato che Molinari e Mastrolilli non si sono inventati nulla, resta allora da capire il senso del dispaccio. Anche perché, al 30 maggio, giorno in cui Borsellino era certamente a Palermo, sull'agenda grigia del giudice - altro documento finora inedito - dalle 18.30 alle 19.30 c'è un memo: «Morvillo (L. Ferraro)».
Francesco La Licata per “la Stampa” il 19 maggio 2022.
I familiari delle vittime della violenza mafiosa sembrano destinati a dover sopportare un dolore più acuto di quanti abbiano avuto perdite in altri ambiti. Alla ferita del danno subìto, molto spesso si è aggiunta la frustrazione, il senso di impotenza di fronte alla giustizia negata.
E per questo li abbiamo visti sempre in prima linea nella difesa di una memoria che non può essere cancellata perché senza memoria è impossibile la ricerca della verità.
Maria Falcone, sorella e cognata dei due magistrati uccisi a Capaci insieme con tre dei poliziotti di scorta, è certamente tra quelli che questa «missione» la portano avanti da sempre, certamente sin dal giorno in cui il tritolo sull'autostrada le ha aperto un mondo che mai e poi mai pensava di dover conoscere.
Sono passati trent' anni da quel 23 maggio del 1992, un tempo intimamente lunghissimo, ma mai la «professoressa Maria» ha dato segni di stanchezza o di cedimento, anche di fronte all'altalenarsi dell'impegno antimafia di cittadini e istituzioni, anche di fronte alle inevitabili delusioni che una simile battaglia può offrire. Tutto questo segmento di vissuto adesso, Maria Falcone, lo ha voluto «chiudere» in una sorta di diario che racconta la sua «nuova vita», nata dalle macerie di Capaci. Ne è venuto fuori un libro emozionante scritto per Mondadori, con l'aiuto della giornalista Lara Sirignano: «L'eredità di un giudice», «Trent' anni in nome di mio fratello Giovanni».
E allora, cominciamo dal titolo. Perché questo racconto a distanza di tre decenni?
«Il tempo trascorso mi sembra quello giusto per una riflessione su ciò che è accaduto, a me, alla mia famiglia, alla mia terra e al Paese intero. La storia di Giovanni Falcone non appartiene più soltanto agli affetti familiari, ciò che lui è stato, la sua eredità in termini di esempio, di etica e correttezza istituzionale, è entrata a far parte di un patrimonio collettivo ormai intoccabile. Gli stessi strumenti giuridici lasciati a chi è venuto dopo rappresentano una ricchezza che ci viene invidiata e copiata da molte legislazioni di Paesi anche più progrediti del nostro. Ecco l'eredità del giudice».
Un ruolo fondamentale in questa difesa della memoria di Giovanni Falcone è da attribuire alla Fondazione nata subito dopo la strage.
«Era troppo fresco il ricordo di quanto aveva dovuto subire Giovanni in vita, ingiustizie, avversione politica e professionale, calunnie e bugie, per non aver chiaro che bisognava costruire una protezione forte alla memoria di mio fratello. La Fondazione nacque per volere dei familiari più stretti e con l'ausilio di poche persone: il ministro Martelli, Liliana Ferraro, il rettore dell'epoca, Ignazio Melisenda, e Giannicola Sinisi che di Giovanni era stato stretto collaboratore al ministero. Passo dopo passo, è diventata un centro di aggregazione di uomini e donne di buona volontà e cuore pulsante di tante attività rivolte alla creazione e al sostegno di una coscienza antimafia».
Lei stessa è stata, per anni, protagonista di un instancabile giro per le scuole d'Italia.
«Sono stata e rimango convinta che una delle battaglie fondamentali da vincere è riuscire a strappare i giovani al fascino della "via breve", dei soldi facili e delle scelte "furbe". E nessuno sa meglio di me quanto difficile e impari sia la lotta contro il fascino del male, specialmente nelle zone più diseredate del nostro Paese».
Immagino sia andata incontro a più d'una delusione.
«Certo: una volta, in una scuola della Campania, si alzò un ragazzino che parlò in difesa della mafia perché, a suo dire, assicurava lavoro e benessere. Disse che la stessa sopravvivenza era garantita dal boss del suo paese. Rimasi per un attimo paralizzata, poi gli spiegai che la sola cosa che i boss potevano garantirgli era il carcere e la morte. Ma è dura contrastare la suggestione della mafia buona».
Ci saranno stati, però, momenti più esaltanti, vero?
«Nel carcere di Rossano, in Calabria, dove un gruppo di detenuti aveva dipinto ottanta tele e aveva organizzato una mostra dal titolo emblematico: "La riconciliazione è possibile". Il ricavato delle vendite vollero donarlo alla Fondazione, certamente un bel segnale di speranza».
Nel suo libro ricorda i momenti difficili di Giovanni a Palermo e a Roma. I «processi» al Csm, le «bocciature», l'astio dei colleghi e dei politici, il dolore terribile di quel 23 maggio dopo l'illusione della vittoria in Cassazione che confermava le condanne di primo grado al maxiprocesso. Un racconto davvero faticoso e doloroso.
«Neppure dopo la sua morte, si rassegnarono gli sciacalli. Anche cercando di disperdere quanto di buono il pool antimafia aveva creato in Sicilia e quanto Giovanni aveva reso "sistema" stando agli "affari penali" del ministero. Da vivo aveva subìto attacchi anche da persone insospettabili: Sciascia con la polemica sui professionisti dell'Antimafia (con lo scrittore però si chiarì) e Orlando che lo accusò di tenere le carte nei cassetti, come se mio fratello volesse nascondere la verità per mire politiche. Per non parlare degli attacchi sul Giornale di Sicilia e le critiche di semplici cittadini che lamentavano il continuo via vai di sirene della sua scorta».
Poi fu accusato di essersi venduto alla politica.
«Già. Io poi ho avuto contatti con alcuni politici e non sempre felici. Ricordo una lettera di Cossiga che, senza neppure troppa reticenza, mi consigliava di non andare oltre nella mia richiesta di essere ascoltata dal Csm e una risposta di Andreotti di cui avevo sommessamente sottolineato l'assenza ai funerali di Giovanni in contrapposizione con i funerali di Salvo Lima, dove invece era andato pure per difenderne l'onore macchiato dai sospetti di contiguità con la mafia. Andreotti mi scrisse quasi rimproverandomi di essermi prestata a una strumentalizzazione antidemocristiana. Cose da pazzi».
E la sinistra?
«Ricordo gli attacchi a Giovanni di grandi nomi della sinistra: Augias durante la trasmissione di Babele, la recensione di Sandro Viola su La Repubblica che gli rimproverava di aver scritto Cose di Cosa nostra quasi a voler chiedere: ma chi si crede di essere? E poi l'attacco di Pizzorusso che lo bocciava come candidato alla Procura nazionale perché troppo intimo di Claudio Martelli. Io stessa, in anni più recenti, ero stata convinta da Valter Veltroni a candidarmi nel Partito democratico. Misteriosamente, però, quando fu resa pubblica la lista dei candidati non conteneva il mio nome».
Per concludere, prof. Maria Falcone, non mi sembra sia molto presente dalle nostre parti una cultura dell'antimafia.
«Mi duole ricordare come, mentre in Italia si cercava di dimenticare il nome di Giovanni Falcone, negli Usa veniva eretto un busto nell'atrio della sede principale dell'Fbi. E quando chiesi al direttore della polizia federale cosa rappresentasse Giovanni per loro, mi rispose: "La personificazione del senso dello Stato". Atteggiamenti distanti dalla nostra politica. Ripenso, e finisco, a una riunione a Palermo nel terzo anniversario della strage per parlare di azioni di contrasto alla mafia. Invitammo, insieme con i leader di tutti i partiti, Silvio Berlusconi che rispose di non poter venire ma avrebbe mandato al suo posto l'avv. Previti. Non accettammo la sostituzione perché c'è un limite a tutto e così Berlusconi si liberò dagli impegni e venne».
“Falcone era un magistrato con la M maiuscola, non cercava popolarità”. Edoardo Sylos Labini su Culturaidentita.it il 19 Giugno 2022
Dalla banda della Magliana a Corleone l’ex colonnello che lavorò fianco a fianco con Falcone si racconta
Una vita spesa per la ricerca della verità e la difesa della giustizia, contro qualsiasi forma di criminalità, in Italia ed all’estero. Angelo Jannone è autore di numerose indagini su Cosa Nostra, ‘ndrangheta, narcotraffico internazionale, riciclaggio e corruzione. Queste vicende sono raccontate senza enfasi, ma con molta umiltà e umanità, nel romanzo autobiografico Un’arma nel cuore, edito da Gambini Editore. A poca distanza dal 208° anniversario della fondazione dell’Arma dei Carabinieri, con le celebrazioni in tutta Italia il 6 giugno, abbiamo posto alcune domande al Colonnello Jannone, molto noto tra i carabinieri e la gente.
Dottor Jannone, Lei a soli 27 anni ha comandato la compagnia carabinieri a Corleone e ha condotto indagini insieme al simbolo per eccellenza dell’eroismo anti mafioso, Giovanni Falcone. Perché un giovane sceglie di impegnarsi nel contrasto alle mafie?
Il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, per noi giovani dell’epoca, era un esempio. Gli esempi ed i modelli sono importanti. Prima di Corleone ero a Roma, realtà altrettanto difficile con la banda della Magliana e le rapine, ma scalpitavo per andare in Sicilia. E l’Arma mi accontentò.
Ha condotto indagini anche a fianco di Giovanni Falcone. Cosa le ha dato in termini umani e professionali questo rapporto?
Giovanni Falcone era già per me un mito. Stare al suo fianco mi dato molto. Ma soprattutto mi ha fatto capire cosa significa essere Magistrati, con la M maiuscola. Il suo rispetto per le regole era raro ed esemplare. Lui non cercava popolarità.
Sa meglio di chiunque altro che la verità è spesso scomoda, come si evince dalla sua esperienza nell’Arma e come dirigente Telecom. A causa delle sue attività da dirigente in Sud America per Telecom Italia è stato accusato di controspionaggio e successivamente assolto da ogni accusa. É forse il prezzo che ha pagato per portare avanti la giustizia a ogni costo?
Da decenni nessuna mafia ammazza uomini dello Stato. Hanno compreso, mafie di ogni genere, che qualche schizzo di fango e qualche ferita all’onore possono essere molto più efficaci. Ed una Giustizia che si presta a ciò non rende un buon servizio alla sua stessa credibilità, perché l’opinione pubblica non distingue più chi è buono e chi è cattivo. La vicenda Telecom sarebbe tutta da riscrivere. Io servivo in una veste diversa una struttura strategica del Paese con lo stesso spirito con cui ho fatto il carabiniere e ho semplicemente fatto ciò per cui venivo pagato: difendere l’azienda da banditi, faccendieri e corrotti che la stavano depredando. Gli interessi in gioco erano di miliardi, cifre da far impallidire Cosa Nostra. Le invidie hanno fatto il resto. Ma la Procura di Milano aveva preferito credere a discutibili personaggi, piuttosto che studiare le carte del processo e quelle da me stesso messe a disposizione. E così ho dovuto subire l’onta di un lungo processo, conclusosi per me già nel primo grado: 7 anni. Mi dispiace che vi siano ancora oggi quotidiani, come la Nazione, che cercano di riproporre in maniera capziosa questa storia nel tentativo di infangare la mia immagine (“coinvolto in passato nello scandalo dei dossier Telecom”) e solo per chiari obiettivi politici. Ma tendo loro la mano. E’ il mio stile.
Un’arma nel cuore è una espressione che racconta il suo amore per la sua professione, ma è anche il titolo del suo recente romanzo autobiografico. Come e perché ha deciso di raccontarsi?
Un’arma nel cuore è un libro di ricordi ed è dedicato ai tanti collaboratori che ho avuto l’onore di avere alle dipendenze durante gli anni trascorsi nell’Arma. E’ il tentativo di descrivere lo spirito che animava i Carabinieri dal profondo sud al profondo nord, in un mondo che è la nostra storia recente ma che pare antico. Ed è una storia di criminali e di sbirri, di uomini veri e uomini falsi.
All’uscita di questo libro non ha temuto qualche ripercussione personale, per aver reso pubbliche vicende e indagini delicate, tra cui l’esperienza da infiltrato?
Ho sempre pensato che, trattandosi di storie pubbliche, nel senso che fanno riferimento a processi passati, non ci fosse alcun rischio. Ma di recente ho avuto qualche motivo per credere che non sia più così. Ma preferisco non parlarne.
In congedo come ufficiale, oggi è presidente di numerosi organismi di vigilanza, manager e consulente presso numerose società per le quali si occupa anche di cyber security. Come si può conciliare l’impulso all’innovazione digitale con valori portanti e anche tradizionali come quelli dell’Arma?
L’Arma è in questo un esempio: capacità di coniugare innovazione tecnologica con tradizione. E’ sempre stata la sua forza.
Claudio Martelli: Falcone ballava da solo. Enrico Del Mercato su La Repubblica il 20 Maggio 2022.
A trent'anni da Capaci l'ex ministro della Giustizia ricorda le "persecuzioni" di cui fu vittima il magistrato palermitano. "La mafia lo uccise, ma altri glielo consegnarono". Intervista
La prima volta che Claudio Martelli incontrò Giovanni Falcone fu in un giorno di aprile del 1987 al palazzo di Giustizia di Palermo. Si sarebbero rivisti, l'allora vice segretario del Psi e il giudice che aveva fatto cadere il velo sui segreti e sui capi di Cosa nostra, nei primi mesi del 1991, quando Martelli - che nel frattempo era diventato ministro della Giustizia - chiamò Falcone a collaborare con lui.
Quei silenzi sugli errori delle toghe. Claudio Brachino il 23 Maggio 2022 su Il Giornale.
Falcone fu certamente ucciso dalla mafia, ma non è tutto. È su quel corsivo che in ogni ricorrenza si esercita una sorta di immaginario investigativo, anche di alto livello, che rischia però di confondere l'opinione pubblica.
Falcone fu certamente ucciso dalla mafia, ma non è tutto. È su quel corsivo che in ogni ricorrenza si esercita una sorta di immaginario investigativo, anche di alto livello, che rischia però di confondere l'opinione pubblica. Il tema è sempre lo stesso, la presenza di un livello insieme più alto e più profondo della fenomenologia mafiosa in quanto tale. Come dire, per «decidere» di uccidere un magistrato che era già un mito mondiale, ci voleva qualcosa di più, la complicità politica di pezzi di Potere deviato. Ho messo decidere tra virgolette perché in altri omicidi eccellenti, vedi John Kennedy, la mafia era presente e ne traeva vantaggi vista la battaglia del fratello Bob contro di lei, ma era «manovalanza» rispetto a una sentenza di morte stabilita ad altri livelli.
A Capaci il manovale della morte, Brusca, prende ordini dalla cupola di Riina e Provenzano, ma non ci sono prove che quei boss passarono alla strategia dello sterminio contro lo Stato con la complicità esplicita del cosiddetto «terzo livello». L'analisi storica ci dice invece che le coperture istituzionali malate su cui Cosa nostra aveva contato negli ultimi anni erano saltate, che il maxiprocesso fu un colpo duro, che la strategia dei pentiti, Buscetta in testa, teneva, che le novità investigative di Falcone, centralizzare i dati in strutture coordinate e seguire i movimenti del capitalismo finanziario mafioso, erano capisaldi raffinati di un lotta nuova alla malavita.
E qui spunta l'altra mitologia di ogni ricorrenza, quella di Falcone isolato. Ma da chi? Dai media, dalla politica, dall'antropologia del potere locale, il cosiddetto Partito siciliano come lo chiama Martelli che ho intervistato sul libro che ha dedicato al magistrato dal titolo inequivocabile, Vita e persecuzione? Alla fine si scopre che a isolare Falcone furono soprattutto i suoi colleghi, non tutti certo, soprattutto quelli delle massime istituzioni della magistratura dell'epoca. Come fa il Csm a preferirgli come capo dell'Ufficio istruzione di Palermo un uomo più anziano ma all'oscuro della mafia come Meli? Invidia, conflitto narcisistico, incomprensione storica, va bene tutto, ma sul piano oggettivo un grave errore nella lotta alla mafia. Falcone amareggiato fugge a Roma e proprio sotto la protezione di Martelli fa ancora cose importanti e durature per sconfiggere il Mostro, dalla Dia, alla superprocura, alle leggi sui collaboratori di giustizia. Il paradosso è che il premier di Martelli fu, per un periodo, proprio quell'Andreotti sulla cui ombre sono stati scritti, come si dice, fiumi di parole.
Sugli errori interni della magistratura invece si è scritto poco, troppo poco. E si capisce perché, basta piombare ai giorni nostri per vedere quello che succede con riforma e referendum. Tutto tace, o quasi.
Claudio Martelli: «Quella strategia contro Giovanni Falcone per fermare la sua lotta alla mafia». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 19 maggio 2022.
A bordo del piccolo aereo che li stava trasportando dall’altra parte del mondo, l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli si era appena appisolato, quando fu svegliato dal respiro affannato e ansimante di Giovanni Falcone. Lo vide paonazzo in volto e temé che si stesse sentendo male. «Tutto bene?», gli chiese preoccupato. «Sì sì, sto solo facendo esercizi», rispose il magistrato. «Contraeva e rilasciava i vari muscoli del corpo, era il suo modo di tenersi in forma nella vita blindata che lo costringeva a muoversi poco e rinunciare allo sport; soprattutto il nuoto e il canottaggio, che amava moltissimo», ricorda Martelli, che a trent’anni dalla strage di Capaci ha scritto un libro, pubblicato da La nave di Teseo, dal titolo più che esplicito: «Vita e persecuzione di Giovanni Falcone». Al magistrato che l’allora ministro socialista chiamò al suo fianco come direttore degli Affari penali, piaceva pure guidare la macchina. E così il 12 marzo 1992, giunto a Palermo subito dopo l’omicidio di Salvo Lima, si fermò in aeroporto ad aspettare Martelli, in arrivo dal Nord Italia. E salendo in macchina col ministro, si mise al volante: «Gli chiesi “ma perché?”, e lui: “Tranquillo, è più sicuro”. Allora, come per ripicca, mi sedetti dietro, e finì a ridere».
L’omicidio Lima
Il delitto Lima, invece, non faceva ridere Falcone. Per niente. L’assassinio del referente siciliano del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, molto chiacchierato per i presunti rapporti con la mafia, segnò l’inizio della stagione del fuoco mafioso dopo la sentenza della Cassazione che aveva confermato l’impianto del maxi-processo istruito proprio da Falcone e dal pool antimafia. «Dopo l’omicidio — racconta Martelli — mi disse con aria preoccupata: “Adesso può succedere di tutto”. E in precedenza, quando gli avevo chiesto se Lima fosse mafioso come si vociferava, mi rispose: “Questo non posso dirlo. Aveva dei rapporti con la mafia di Bontate, ma non era un affiliato”. Evidentemente era quanto gli aveva riferito Buscetta, e lui è sempre stato molto scrupoloso prima di trasformare le affermazioni in accuse». In effetti, dopo la morte di Lima, trent’anni fa successe davvero di tutto.
La strage di Capaci
Compresa la strage di Capaci che uccise Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Ma prima dell’attentato mafioso, Falcone dovette subire attacchi e accuse dall’interno del mondo istituzionale. Cominciando proprio dalla magistratura che all’inizio del 1988, dopo la sentenza di primo grado del «maxi», gli negò la nomina a consigliere istruttore di Palermo. «Fu una decisione gravissima — dice oggi Martelli — perché non si trattò solo di una bocciatura bensì di una retrocessione. Al suo posto fu scelto un magistrato più anziano, Antonino Meli, che non s’era mai occupato di mafia, con l’obiettivo di distruggere l’opera di Falcone, attraverso lo smembramento delle inchieste antimafia e la negazione della struttura unitaria e verticistica di Cosa nostra. Additando lui come un’anomalia da rimuovere. Non a caso, dopo la bocciatura, Falcone disse a chi l’aveva sostenuto inutilmente nel Csm: “Mi avete crocifisso, mi avete consegnato alla mafia”».
L’amarezza
Dietro quell’operazione, secondo l’ex ministro, non c’erano solo invidie e gelosie professionali per un magistrato ingiustamente accusato di arrivismo e protagonismo, ma una raffinata «strategia per distruggere il suo lavoro». Da parte di chi? «Del partito del potere siciliano, di cui la magistratura era una componente. E poi pezzi di politica e dell’imprenditoria. Del resto, tutto comincia con il procuratore generale che nel 1982 va da Rocco Chinnici, allora capo di Falcone, per chiedergli di fermare quel giudice che metteva in pericolo l’economia locale. Bisognava mantenere il quieto vivere con la mafia. Ed è una cosa che io ho rivissuto nel 1992, prima e dopo la strage, quando sentivo dire: ma che pretesa è quella di fare la guerra alla mafia? Perché?». Già.
Al ministero
Perché Martelli chiamò Falcone al ministero e mise al primo posto della sua missione di Guardasigilli la battaglia contro le cosche? «Perché altrimenti non avrebbe avuto senso accettare di fare il ministro della Giustizia, ero già vice-presidente del Consiglio. Falcone l’avevo conosciuto nel 1987 a Palermo, e decisi di averlo al mio fianco per far diventare la lotta alla mafia non un’emergenza bensì una regola. Attraverso leggi che codificassero l’esperienza che lui aveva maturato con le sue indagini. E Giovanni accettò». Il giudice ha pagato anche quella scelta, «nonostante la decisione della mafia di ucciderlo risalisse al periodo precedente. Ma pensavano che con il trasferimento a Roma se ne fossero liberati. Invece, come ha detto Totò Riina nei suoi dialoghi intercettati, li contrastava anche da lì. E più di prima». Ma anche a Roma, dove aveva creato la Procura nazionale antimafia e s’era candidato a guidarla, per tornare a fare indagini sulla mafia, Falcone trovò nuovi ostacoli nella sua stessa categoria. Il Consiglio superiore della magistratura si stava preparando a scegliere un altro nome per quel posto. La bomba di Capaci arrivò alla vigilia del voto, e dopo la strage — ricorda Martelli — ci fu chi immaginò una smobilitazione anche al governo: «La rimozione di Enzo Scotti da ministro dell’Interno da parte della Dc per me resta inspiegabile, e tentarono anche con me. Il neo-presidente del Consiglio Giuliano Amato mi disse che Craxi, segretario del mio partito, non mi voleva più alla Giustizia, offrendomi la Difesa. Risposi che o rimanevo lì o sarei uscito dal governo. Mi lasciarono dov’ero. Lo dovevo a Giovanni Falcone. In quel periodo al ministero l’ho visto felice, perché stava realizzando quello che pensava di dover fare. Per lo Stato».
Loro sanno perché è stato ucciso...Giovanni Falcone e la lettera che lo affossava: qualcuno in Procura non pianse per la sua morte. Leonardo Berneri su Il Riformista il 22 Maggio 2022.
«Fu un colpo veramente che … Minchia Salvatore te l’ha combinata …. Salvatore …». È Totò Riina che parla, e lo fa riferendosi all’attentato di Capaci dove perse la vita Giovanni Falcone. Poi aggiunge: «Salvatore … il piccolo cosi…si è messo a fare… ride … Minchia si è messo a fare … se sapevo fare il costruttore. Ti chiudo là dentro … anche per questo è successo, è successo … è successo». Sono le intercettazioni del 2013 di quando il “capo dei capi” era al 41 bis. Sono le sue parole dove ammette la responsabilità della strage, ma soprattutto si intravvede il motivo già cristallizzato nelle sentenze di Capaci e Capaci bis: vendetta per l’esito del maxiprocesso (Riina ne parla diffusamente durante l’ora d’aria al 41 bis) e “cautela preventiva” per quanto riguarda l’indagine mafia – appalti.
La strage avvenuta trent’anni fa, -nella quale furono uccisi Giovanni Falcone, la moglie e collega Francesca Morvillo, la scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani – è uno dei più gravi episodi delittuosi della storia italiana. È rimasta scolpita nella memoria collettiva e ha segnato uno dei momenti più drammatici della strategia del terrorismo mafioso, ma anche un punto di svolta nella coscienza civile del Paese e nell’azione dello Stato contro la criminalità organizzata. Questa impresa criminosa, che per “Cosa Nostra” doveva rappresentare l’espressione della massima potenza, costituì, in realtà, l’inizio della fine di un’epoca nella quale la mafia dei “corleonesi” poteva contare su un solido rapporto di alleanza e cointeressenza con numerosi settori del mondo sociale, dell’economia e della politica.
L’attentato si verificò il 23 maggio 1992, alle ore 17.56, per effetto di una potentissima e devastante carica di esplosivo, collocata sotto la carreggiata 87 dell’autostrada A/29, presso il km 4 +773 del tratto Punta Raisi-Palermo, in prossimità di Capaci. A metà strada tra l’aeroporto e la città. Gli effetti dello spostamento d’aria provocato dallo scoppio dell’esplosivo furono registrati dai sismografi dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento) attraverso un aumento di ampiezza del segnale ad alta frequenza avente la forma tipica dell’esplosione. I primi soccorritori ebbero modo di constatare che tutti gli occupanti della Fiat Croma di colore bianco erano in vita: Francesca Morvillo respirava ancora, pur se priva di conoscenza, mentre Giovanni Falcone mostrava di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli venivano dai soccorritori. Tuttavia, malgrado gli sforzi profusi da costoro, e poi dai sanitari, entrambi i magistrati spirarono in serata per le emorragie causate dalle lesioni interne determinate dall’onda d’urto provocata dall’esplosione.
Tutte le sentenze riguardanti la strage di Capaci, hanno individuato un movente ben preciso. Sono diversi i passaggi cristallizzati nelle motivazioni. C’è quello di Giovanni Brusca che, nelle udienze degli anni passati, disse che, in seno a Cosa Nostra, sussisteva la preoccupazione che Falcone, divenendo Procuratore Nazionale Antimafia, potesse imprimere un impulso alle investigazioni nel settore inerente la gestione illecita degli appalti. C’è quello del pentito Angelo Siino, che sosteneva che le cause della sua eliminazione andavano cercate nelle indagini promosse dal magistrato nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interessi”. Difatti – si legge nelle sentenze- in Cosa Nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare» (pag. 74, ud. del 17 novembre 1999).
In maniera del tutto pertinente al tema, Siino ha rievocato l ’esternazione pubblica di Falcone, avente ad oggetto il fatto che la mafia era entrata in Borsa; dichiarazione che aveva mandato su tutte le furie Antonino Buscemi, il quale, sentendo quelle parole, gli aveva manifestato la convinzione che il magistrato avesse compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi «c’era effettivamente Cosa Nostra». Senza parlare del pentito Nino Giuffrè che parla esplicitamente del rapporto mafia- appalti e di come mise in allarme tutta Cosa Nostra e il mondo politico – imprenditoriale. Da una parte la “pericolosità” di Falcone per quell’indagine, dall’altra l’isolamento da parte di un gruppo consistente della magistratura stessa. Il giudice Antonio Balsamo, nelle motivazioni del Capaci-Bis, scrive che alla eccezionale statura professionale e intellettuale di Falcone non faceva riscontro, purtroppo, un impegno in suo favore di tutte le forze sociali e di tutte le realtà istituzionali, come sarebbe stato logico attendersi in un momento nel quale la sfida mafiosa era particolarmente elevata.
«Il contesto descritto dalle fonti di prova esaminate – scrive duramente il giudice Balsamo – è, invece, quello di una convergenza, in parte dimostrata e in parte soltanto ipotizzata (sia pure sulla scorta di elementi oggettivi), tra forze mafiose e forze esterne; una sinergia che si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Giovanni Falcone». Ed è proprio alla base di questa campagna di delegittimazione che vi era una precisa consapevolezza del pericolo che l’attività di Giovanni Falcone rappresentava non solo per “Cosa Nostra”, ma – aggiunge sempre Balsamo – «anche per una molteplicità di ambienti economico-politici abituati a stabilire rapporti di reciproco tornaconto con l’organizzazione criminale, a partire dal settore degli appalti e delle forniture pubbliche». Nel corso del processo Borsellino Quater, quello che svelò il depistaggio sulla strage di Via D’Amelio, ritorna come oggetto il dossier mafia appalti redatto dagli allora Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno su impulso di Falcone stesso.
Ebbene, di particolare rilevanza, è stata la testimonianza dell’ex guardasigilli Claudio Martelli. I fatti riguardano quando Falcone cominciò a lavorare con lui al ministero della giustizia. Nell’estate del 1991, nel pieno del segreto istruttorio, l’allora procuratore capo Pietro Giammanco inviò il plico del dossier mafia appalti non solo al ministero della giustizia, ma anche al Presidente della Repubblica e a quello del Consiglio. Falcone si arrabbiò. Martelli, durante l’udienza del Borsellino Quater, riferisce le sue parole: «Ma come è possibile? Quando stavo alla Procura e questo materiale avrebbe richiesto degli approfondimenti pazienti, accurati e questo non mi è stato consentito di farlo dal mio superiore? Dopodiché io non ci sono più e lui lo manda sui tavoli dei politici più importanti del Paese?». Il resto della storia la racconta Liliana Ferraro, recentemente scomparsa. Oltre ad essere legata a Falcone da una sincera amicizia, lavorava con lui nell’ufficio del ministero. Falcone le disse di chiudere il plico del dossier e rispedirlo immediatamente al mittente. Contestualmente le dettò due note, una indirizzata al Csm e l’altra alla Procura di Palermo.
Quest’ultima fu firmata da Martelli e inviata all’attenzione di Giammanco. La lettera è del 23 agosto 1991. Poco tempo prima la procura chiese la custodia cautelare per soli cinque soggetti su una posizione di 44 persone attenzionate. Ci furono polemiche, perfino Falcone – così testimoniò a verbale sia Martelli che la giornalista Milella – si indignò dicendo che «hanno voluto salvare delle persone». Per la prima volta un giornale, Il Riformista, rende pubblica la lettera. «Nel rilevare la singolarità dell’inoltro, con appunto privo di sottoscrizione e di data, di atti coperti da segreto – si legge in un passaggio della nota indirizzata al capo procuratore di Palermo -, per parte mia posso solo esprimere l’avviso che tutte le indagini necessarie ed opportune devono essere prontamente ed efficacemente svolte, con riguardo ad ogni aspetto, incluse le eventuali responsabilità impegnate in attività politiche».
La lettera, ricordiamo, è stata preparata dalla Ferraro sotto dettatura di Falcone. A tal proposito, lei racconta che Borsellino – esattamente il 28 giugno 1992 in aeroporto – le disse di rievocargli in maniera approfondita quell’episodio. Si, perché Falcone stesso ne aveva già parlato con lui. «Loro due – racconta la Ferraro al processo Borsellino Quater – ne avevano parlato, perché un giorno che loro stavano parlando a telefono, Paolo era appena arrivato a Palermo e Giovanni era a Roma, io ero entrata nella stanza… nell’ufficio di Giovanni e Giovanni gli aveva detto: “Ecco, anche Liliana, per quel poco che ha visto, ha capito che era una cosa anomala e che non doveva essere inviata al Ministero di Grazia e Giustizia”». Leonardo Berneri
Giovanni Falcone, il giudice Carnevale: "Lotta alla mafia? No, a cosa puntava davvero". Libero Quotidiano il 23 maggio 2022
"Esaltato oltre i suoi meriti". Nel giorno del trentennale della strage di Capace, Giovanni Falcone viene ricordato così da Corrado Carnevale, ex presidente della prima sezione penale della Cassazione. Ed è di nuovo un'onda di veleni a travolgere le Procure anti-mafia italiane. Intervistato dall'agenzia Adnkronos, la toga nota come "giudice ammazza-sentenze", processato per concorso esterno in associazione mafiosa e assolto con formula piena, torna a tuonare contro Falcone, ucciso da un attentato di Cosa Nostra insieme a moglie e agenti della scorta il 23 maggio del 1992.
"Falcone era considerato il magistrato antimafia per eccellenza. Non credo che fosse l'unico. Né l'unico né il più importante". Inizialmente, spiega Carnevale riguardo al magistrato, "è stato amato, poi quando si accorsero che forse il suo entusiasmo, la sua campagna ideologica non erano tutte disinteressate ma ispirate dal desiderio di fare carriera, allora nell'ambiente cominciò a decadere nella considerazione almeno di una parte dell'opinione pubblica. Era inevitabile che questa sua campagna ideologica gli portasse dei nemici, anche se non credo che Falcone avesse tutti questi nemici di cui si parla. Aveva i suoi esaltatori e i suoi critici, come accade per qualunque persona. Ma quello che vorrei dire è che Falcone è stato esaltato al di là dei suoi meriti effettivi".
Per anni Carnevale è stato dipinto quasi come l''avversario' di Falcone, che in Cassazione assolveva ingiustamente i mafiosi. Fra le molte tesi c'è quella che vede Totò Riina convinto che le condanne emesse nel Maxiprocesso sarebbero state ribaltate proprio dal giudice Carnevale in Cassazione, circostanza che non si verificò, sostengono i detrattori del giudice, solo perché venne decisa una rotazione nell'assegnazione dei processi di mafia facendo in modo che non finissero sempre alla prima sezione presieduta da Carnevale. "Io ho sempre cercato di avere una stella polare - insiste Carnevale - quella di applicare la legge, che non può non essere applicata a tutti i cittadini, quindi anche Falcone aveva gli stessi diritti che avevano gli altri cittadini. Se in un ordinamento democratico non esiste l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, veramente c'è da restare trasecolati. E io ho sempre sostenuto questo, che ogni cittadino, anche il peggiore dei mafiosi, davanti al giudice ha gli stessi diritti e gli stessi doveri di ogni altro". "Rifarei senz'altro tutto quello che ho fatto da presidente di sezione di Cassazione - conclude -, non sono un 'pentito'".
Di fronte a queste parole, è durissima la reazione di Maria Falcone, sorella di Giovanni: "Carnevale non ha ancora imparato a tacere. Ricordiamo tutti le sue sgradevoli e ingiuriose parole nei confronti di Giovanni intercettate dagli inquirenti. Ricordiamo quando lo definiva 'un cretino'. Ma al di là degli insulti di un uomo che passerà alla storia solo come l'ammazza-sentenze, resta il fatto che grazie al lavoro di mio fratello sono finiti in carcere con condanne definitive centinaia di mafiosi come mai prima. Lui può vantare solo assoluzioni e scarcerazioni. In una giornata in cui da tutto il mondo sono stati tributati a Giovanni riconoscenza e affetto, parole simili pronunciate da una persona del genere per noi equivalgono a una medaglia".
Così Falcone parlava di sé della mafia e del «contesto». In questa confessione-fiume resa trent’anni fa al giornalista di Panorama prima della strage di Capaci, ...Panorama il 24 maggio 2022.
Esclusivo. Così Falcone parlava di sé, della mafia e del «contesto» (Di mercoledì 25 maggio 2022) In questa confessione-fiume resa trent’anni fa al giornalista di Panorama prima della strage di Capaci, il 23 maggio 1992, il celebre magistrato parla a ruota libera, come mai prima. E quello che emerge, dai contrasti con i colleghi alle critiche da parte dei (tanti) politici di allora, dalla mentalità degli «uomini d’onore» a come si combatte Cosa nostra, se si vuole farlo davvero, non solo è ancora terribilmente valido. Ma rende insopportabile tutta la retorica che, come sempre, ha travolto l’anniversario della sua morte.
Esclusivo. Così Falcone parlava di sé, della mafia e del «contesto» Da Italia Libera Stampa BY AMNON JAKONY il 25 maggio 2022 su thedailyreformer.com.
In questa confessione-fiume resa trent’anni fa al giornalista di Panorama prima della strage di Capaci, il 23 maggio 1992, il celebre magistrato parla a ruota libera, come mai prima. E quello che emerge, dai contrasti con i colleghi alle critiche da parte dei (tanti) politici di allora, dalla mentalità degli «uomini d’onore» a come si combatte Cosa nostra, se si vuole farlo davvero, non solo è ancora terribilmente valido. Ma rende insopportabile tutta la retorica che, come sempre, ha travolto l’anniversario della sua morte.
Chi erano i suoi veri nemici? E chi ha tentato di cavalcarlo? In questa straordinaria confessione era lui stesso a rivelarlo. Stroncando le polemiche di oggi. Un giorno ho visto Leoluca Orlando, gli ho chiesto: come va? «Se tutto va bene» ha detto «siamo rovinati». È andato tutto bene. Giovanni Falcone era morto da cinque minuti, e si sentivano le prime fesserie. Prima lo accusavano di essere colluso con il potere: per questo, dicevano, non è stato ancora ammazzato. Ora gli stessi dicono: l’hanno ammazzato perché ignorava la pista politica, quella del potere. Stavo scrivendo un libro, anzi: lo sto ancora scrivendo. È un libro sulla storia del pool antimafia e della Squadra mobile di Palermo, Falcone e Ninni Cassarà. Si chiamerà I disarmati (Mondadori). Per un anno ho vissuto con i poliziotti e i giudici siciliani, e sono diventato vagamente sbirro. Ciò che segue è una piccola parte di quanto Falcone aveva da insegnare al tempo della sua battaglia contro il Csm e Antonino Meli, consigliere istruttore di Palermo. Per non ucciderlo due volte, mi piacerebbe che lo ascoltassero oggi. «Formalmente, non esiste più un pool. Ci sono processi assegnati singolarmente, e basta».
«Perché?». Falcone alza le sopracciglia. «Perché c’è lui». Meli. «D’altra parte, il riflusso era ampiamente previsto. Buscetta mi disse: prima cercheranno di distruggere me, poi lei. Ma non credo che ci sia chissà quale disegno: non credo alla dietrologia. Mi sembra più semplice: c’è un’obiettiva difficoltà a comprendere il nuovo. Le mie dimissioni nascevano da questo: se fare questo tipo di attività crea disturbo, tanti saluti. E quando si afferma che Borsellino dice sciocchezze, allora diventa anche un dovere morale. Quello che abbiamo fatto assieme non era niente di nuovo: era esattamente ciò che altri fecero in tema di terrorismo. Solo che qui c’era l’immobile clima siciliano. Non è vero che noi abbiamo fatto la differenza: è che nel Paese dei ciechi, beati i monocoli. E costretto a rientrare nei ranghi perché non ne ero mai uscito: questa è la realtà. Quando tutto viene sbriciolato e Borsellino viene linciato, mi sono limitato a dire: fare il magistrato non è un’investitura divina, né un fatto personale: se si creano le condizioni per lavorare, se le istituzioni garantiscono, vado avanti; se no, via.
«Il fatto è che il sedere di Falcone ha fatto comodo a tutti. Anche a quelli che volevano cavalcare la lotta antimafia. In questo, condivido una critica dei conservatori: l’antimafia è stata più parlata che agìta. Per me, meno si parla, meglio è. Ne ho i coglioni pieni di gente che giostra con il mio culo. La molla che comprime, la differenza: lo dicono loro, non io. Non siamo un’epopea, non siamo superuomini: e altri lo sono molto meno di me. Sciascia aveva perfettamente ragione: non mi riferisco agli esempi che faceva in concreto, ma più in generale. Questi personaggi prima si lamentano perché non ho fatto carriera; poi, se mi presento per il posto di procuratore, cominciano a vedere chissà quali manovre. Gente che occupa i 4/5 del tempo a discutere in corridoio; se lavorassero, sarebbe molto meglio. Nel momento in cui non t’impegni, hai il tempo di criticare: guarda che cazzate fa quello, guarda quello che è passato al Pei, e via dicendo. Basta, non è serio. Lo so di essere estremamente impopolare, ma la verità è questa».
«Sono convinto che ci sia bisogno di una visione più duttile: non è tutto in bianco e nero. Quando si cominciò a lavorare sui Salvo, Rocco Chinnici voleva bruciare le tappe, e alla fine dei conti io risultavo quello che non voleva mai arrestare, che diceva: stiamo attenti, andiamoci adagio, vediamo la rete delle connessioni. Bruciare le tappe a volte ti fa andare indietro, io esorto tutti alla prudenza, non si possono affrontare questi problemi se non vi è una società che lo vuole. Ma tutto ciò non viene compreso, avviene il contrario: si azzerano i tentativi di andare avanti. Del resto, è già un enorme risultato essere ancora qui, anche se nel contingente non lo si nota. Si è gridato allo scandalo per le assoluzioni del Maxi-ter: trascurando i sei ergastoli confermati. Bene. Andate a prendere le sentenze degli anni Settanta, poi mi dite. Questi erano i padroni di Palermo, godevano di una sostanziale impunità; si è creata un’inversione di tendenza. E nessuno ci ha potuto accusare di leggerezza, nessuno ha detto: aria fritta, panna montata. Al massimo, si è invocato un certo garantismo. Questi sono risultati. Non si potrà tornare indietro. L’importante è creare una struttura in cui nessuno potrà accusare altri di essere un centro di potere».
IL POTERE DI CHI NON HA POTERE
«Un altissimo magistrato, parlando di me, disse a Chinnici: riempilo di processetti, così non rompe. Il discorso del centro di potere è sbagliato nell’impostazione: qualsiasi processo mi si dia, anche uno solo, mi consente di arrivare dovunque. E non perché io sia particolarmente bravo, ma perché le indagini sono così complicate che hai bisogno del quadro generale. Io sono arrivato al maxiprocesso con l’omicidio di Alfio Ferlito. Faceva parte di un gruppo della mafia catanese in opposizione a Nitto Santapaola, venne ucciso nel giugno ‘82 a Palermo: era la prova evidente che c’erano rapporti tra la mafia catanese e quella palermitana. Ma per inquadrare un omicidio devi inquadrare i collegamenti, e allora diventano importanti le conoscenze».
«Prima cosa, la zona dell’omicidio: Partanna. Mettiamo sotto controllo i telefoni dei personaggi locali, in particolare Riccobono. Cominciano a emergere i collegamenti: con Gaspare Mutolo, Domenico Condorelli, Domenico Russo. E soprattutto, viene fuori un traffico di stupefacenti di dimensioni straordinarie, che fa capo alla Thailandia, a Koh Bah Kin. Cominciano a essere arrestati i corrieri, e uno di loro, Francesco Gasparini, arrestato in Francia, collabora: ci parla dei canali della droga a Palermo. Contemporaneamente, facciamo indagini sul Kalashnikov che ha ucciso Ferlito, e che allora era un’arma nuovissima: lo compariamo con altri episodi, l’omicidio di Inzerillo, di Bontade, la presunta rapina alla gioielleria Contino, il tentato omicidio di Contorno, l’omicidio Dalla Chiesa. Dalle perizie emerge che in tutti questi episodi è stato usato lo stesso Kalashnikov, e per Ferlito e Dalla Chiesa se n’è aggiunto un secondo. A questo punto è chiaro che tutti i fatti vanno esaminati congiuntamente, sono legati uno all’altro, ed è chiaro anche come si crea il processo monstre: ma è l’unica maniera, altrimenti non cavi un ragno dal buco».
«È il fenomeno che è mostruoso e che comporta questi risultati: non sono io l’accentratore. Non l’ho inventata io, la mafia. Certo, se vogliamo dire che l’informazione è potere, va bene, il risultato è un centro di potere. Ma chiunque abbia un lavoro specializzato e lo sappia fare bene è un centro di potere. Il bravo chirurgo è un centro di potere, chi spegne i pozzi di petrolio è un centro di potere: più è sofisticato il bagaglio culturale, più diventi centro di potere. La garanzia, per me, è sempre stata il rispetto della legge: al maxi, non un’eccezione di nullità processuale è stata accolta in primo grado. Questa è la garanzia. Ma quale potere? Mi hanno offerto su un piatto d’argento un posto al Csm, e l’ho rifiutato. Questo è il centro di potere?».
Perché lo fa? Sorride. «Lasci stare». No, davvero. Perché? Guarda i monitor. C’è l’immagine in bianco e nero del corridoio oltre la porta blindata. Si vede un angolo di un tavolo, un uomo seduto. L’immagine trema leggermente. Dice: «Non mi piace parlarne. Nella migliore delle ipotesi, faccio la figura del retorico coglione. E allora, sono cose mie. Le tengo per me». E lei, cos’è? Luccica. «No» dice. «Niente giustiziere, niente missionario. E neanche mi sono mai posto il problema del potere. Anzi, il potere è una gran rottura di scatole». Lei ha potere? «Sì, come influenza. Il potere di chi è ritenuto esperto in determinati problemi. Il potere di chi non ha potere». Abbassa il tono. «Vede» dice. «Si rischia sempre di essere retorici». Cerchi di non esserlo. «Cosa vuole». Allarga una mano, la piega in basso, guarda la scrivania. Dice: «Sono i valori della vita. Si vede che i miei non coincidono con quelli della generalità».
Generalità. Vale a dire? «Chiunque è in grado di esprimere qualcosa, deve esprimerlo al meglio. Questo è tutto quello che si può dire. Non si può chiedere perché. Non si può chiedere a un alpinista perché lo fa. Lo fa, e basta. A scuola avevo un professore di filosofia che voleva sapere se, secondo noi, si era felici quando si è ricchi o quando si soddisfano gli ideali. Allora avrei risposto: quando si è ricchi». Fa una pausa breve. «Invece, aveva ragione lui». «Ayala (altro ex giudice del pool, ndr) non ha torto. Sono stato tutt’altro che contento dell’uscita di Borsellino. Mi fanno ridere quando dicono che era una faccenda orchestrata tra me e lui. Anzi. Fu un problema». «Perché?». Allarga gli occhi, prende un’espressione didattica, di ovvietà. «Mi ha aumentato la conflittualità dell’ufficio».
Conflittualità. Apre la mano. «Nel momento in cui sollevi un grande problema di sostanza e non curi la forma, ti fottono, nella forma e nella sostanza. Borsellino, sotto il profilo umano, fece quanto di più generoso si poteva fare, e per questo ho sentito il dovere di stargli accanto. Ma dal punto di vista politico fu un grande errore. Solo la forza dei fatti ha impedito che lo schiacciassero. Nella grande amicizia, c’è una divergenza tra noi riguardo le tattiche. Il Csm non si è mai chiesto se i problemi sollevati da Borsellino ci sono o non ci sono. No. Hanno detto: non devi rivolgerti ai giornali. Attraverso la delegittimazione di Borsellino, volevano delegittimare anche me, trasformando il caso Borsellino-Meli in Meli-Falcone. Dire: ecco chi sono i paladini dell’antimafia. A quel punto, Borsellino diventa marginale: è importante dire: se Falcone ha sbagliato tutto, se se ne deve andare. Quello che, in teoria, il Csm avrebbe dovuto dire: in Sicilia va tutto bene, e tu Falcone te ne devi andare dalle palle». «Per questo, feci la lettera di dimissioni: solo esaltando ed elevando il livello dello scontro si poteva fare chiarezza, e questo si è rivelato fondamentale per non essere schiacciati. Altrimenti, saremmo stati costretti nell’angolo. Sarebbe venuta fuori un’antimafia d’accatto, Borsellino dice le bugie, e allora no: prendetevela con me. Vi dirò di più; mi sono rotto, me ne voglio andare».
«L’unica divergenza con Borsellino era sulla tattica: non mi piace andare allo scontro se non sono preparato. Lo dico sempre: che tu abbia ragione non significa niente. Devi avere alcuni che te lo dicono. Se ci scopriamo troppo spesso, ci bruciamo. È allucinante, ma è così. La mafia dura da decenni: un motivo ci deve essere. Non si può andare contro i missili con arco e frecce: in queste vicende certe intemperanze si pagano duramente. Con il terrorismo, con il consenso sociale totale, potevi permettertele: con la mafia non è così. Nella società c’è un consenso distorto. Altro che bubbone in un tessuto sociale sano. Il tessuto non è affatto sano. Noi estirperemo Michele Greco, poi arriverà il secondo, poi il terzo, poi il quarto».
Il CONIGLIO DAL CAPPELLO
«In un manoscritto sequestrato a Spatola c’è scritto: “La mafia non esiste, si chiama omertà. La vera mafia è quella dei giudici, che usano la parola mafia contro i deboli”. Questi concetti sono radicati nelle popolazioni del Sud. Amicizia, onore: sono valori censurabili? No. È un errore considerare queste organizzazioni prive di ideologia. Se fosse così, basterebbero pochi drappelli di poliziotti. Come quando si parla di collaborazione dei pentiti: ma veramente credete che Buscetta venga fuori come un coniglio dal cappello? Esce perché riconosce lo Stato. Vede che gli può servire. Strumentalizza lo Stato? E allora, una donna violentata che denuncia gli aggressori, cosa fa? Strumentalizza lo Stato? Buscetta ha ottenuto dalle gabbie lo stesso silenzio, lo stesso rispetto di Michele Greco. Gli è stato riconosciuto che era la strada giusta. Quando Contorno dice a Greco “signor Greco”, gli ha fatto un insulto gravissimo. Doveva dire “don, su”, usare un termine di rispetto. Se non si capisce tutto questo, come si può pensare di fare dei passi avanti?».
«La mafia ha un’organizzazione ferrea: si deve basare su dei valori. Non sono i nostri, ma è miopia non vederli. Questo ci si ostina a non capire: sono uomini, non vermiciattoli. Li chiamiamo pecorai, ma sono il precipitato della saggezza siciliana: è gente che ti comanda con gli occhi. Una volta, un collega di Milano chiese a Buscetta, durante un interrogatorio: ma mi spiega come fate voi mafiosi a imporvi, a dialogare con tutti. Come con una bella donna, disse Buscetta: ti accorgi subito che ci sta. Prima devi capire questo, poi risolvi i problemi. Io sono tutt’altro che un missionario, ma questa è la realtà. La mafia è il segno di un’identità: per la Sicilia, per la nostra storia. Tutto sommato, il meno peggio che le poteva capitare. Noi abbiamo avuto 500 anni di feudalesimo, poi il totale disinteresse dello Stato; immaginiamoci se non ci fosse stata questa identità. La forte identità di un popolo può produrre questo frutto malato, perché diventa distorsione di valori: in questo senso, non è il tessuto canceroso sul tessuto sano, ma una malattia complessiva».
«L’amicizia e la famiglia, se diventano vincoli di clan, si trasformano radicalmente. Ieri sera, un amico mi diceva: qui non si domanda perché una persona fa una determinata cosa, ma cosa vuole. Il senso della collettività non esiste, c’è solo un sistema complesso e intrecciato di interessi privati. Del resto, che cos’è la mafiosità se non pretendere come privilegio ciò che ti spetta come diritto? L’organizzazione mafiosa in sé è un’altra cosa, e non tollera rapporti di subalternità a niente. Sopra Michele Greco non c’è nessuno. Quando si dice “il terzo livello” si equivoca su una frase detta da me; ma intendevo tutt’altra cosa. Avevo distinto i reati mafiosi in tre categorie: al primo livello, i reati d’ordinaria amministrazione, come estorsioni e contrabbando; al secondo, reati che servono ad assicurare la funzionalità interna dell’organizzazione, come l’omicidio di chi sgarra; al terzo, quelli che assicurano la sopravvivenza dell’organizzazione nel suo complesso, gli omicidi eccellenti. Invece, ci si è riferiti a un fantomatico terzo livello, intendendo una specie di vertice politico-finanziario della mafia».
GRANELLI DI SABBIA
«Non nego che ci siano rapporti con la politica, e possano esistere trame trasversali, ma pretendere che ci sia una sorta di strategia occulta, con un vertice che dirige la mafia dal di fuori, è sbagliato. Il mafioso non si sottopone a nessuno. Quando a Calderone offrono l’iscrizione alla P2, lui si pone il problema: come faccio a giurare fedeltà a due cose diverse? Rifiuta, perché per lui l’unico giuramento che conta è alla mafia. Un uomo politico può essere affiliato a Cosa nostra, ma solo se ha le qualità dell’uomo d’onore: altrimenti, non conta nulla. Quindi, il problema non è: ma come fa una banda di pecorai a dirigere imperi di miliardi, il problema è che la banda usa e strumentalizza tutti. Chiama Tizio, e gli dice: fa’ fruttare i nostri 30 miliardi. È una realtà semplice, e il collegamento che determina tra criminalità organizzata e criminalità dei colletti bianchi è esplosivo: ma è cosa diversa dal terzo livello. Non essere a contatto con la realtà porta a cantonate pazzesche. Quando si parla di mafia, si tende a oscillare tra due poli: o la si sminuisce, negandone l’unitarietà, o la si descrive come un’organizzazione onnipotente, che comanda ogni cosa. In entrambi i casi, si impedisce una strategia seria. La realtà è grigia, non è né bianca né nera».
«Credo che le cose si facciano con i granelli di sabbia. Mi rifiuto di credere che Cassarà (capo della Mobile di Palermo ucciso dalla mafia, ndr) non sia servito a niente. Se i risultati li vogliamo tutti e subito, forse; ma non è così. Viene sempre il momento in cui devi pagare: più la cosa è importante, più il prezzo è elevato. Io lo sto pagando. Quando si dice che il pool non è mai esistito, si dice una cosa vera e falsa. Supposto che io sia Maradona, senza la squadra non ce l’avrei mai fatta. Se si pensa solo al tempo impiegato, alla fatica. Ma allora, se concorro per uno squallido posto di procuratore, si dice che faccio la primadonna. Se dico che me ne voglio andare, allora non ho il senso delle istituzioni. Se rimango a lavorare con il pool, faccio un centro di potere. Cosa devo fare? Qualsiasi cosa faccio viene immediatamente enfatizzata. Se partecipo a una riunione con Orlando divento collaterale a Orlando, se mi invitano a un convegno del Pci, apriti cielo. Ritengo di fare un lavoro utile e arriva qualcuno e dice che non lo devo fare. Allora, cambio».
«Allora no, ti dicono di rimanere. Dico che voglio fare il calzolaio, e mi dicono di fare cappelli. Va bene, dico, faccio cappelli: allora non ho il senso delle istituzioni. Ricevo i giornalisti in un momento delicato delle indagini, sorrido; bene, Falcone sorride ironicamente, vuol dire che è in contrasto con Di Pisa. Mi stanno bene le critiche se mi inducono a pensare: ma questa è solo volontà di bloccare».
«Tutta la vicenda con Meli è un segno di questo, la dimostrazione più chiara, emblematica, della scollatura tra magistratura e società. Era una vicenda personale, sono intervenuti fattori di opportunità politica, e di utilizzo di ambienti esterni, che hanno trovato utile sfruttare la questione personale. Faccio un esempio. Magistratura democratica, che ha tre consiglieri nel Csm e quindi è in minoranza, ha sempre sostenuto la necessità di criteri rigidi, privilegiando l’anzianità, per limitare lo strapotere delle correnti e l’uso spregiudicato delle clientele. Quindi, quando si è posta la questione Meli-Falcone, ha votato Meli. Si è radicalizzato al massimo: da un lato la professionalità, dall’altro l’anzianità senza demerito. Si è sfruttata la caratterialità di Meli, ben chiuso nel suo particulare, e il suo sentimento becero dell’amicizia, pensando: Falcone, scornato per lesa maestà, abbandonerà tutto. In commissione Antimafia, Meli mi ha rivolto accuse da manicomio a proposito dei Costanzo di Catania, e il Csm ha detto subito: bene, trasferiamoli entrambi, così si scannano tra di loro e tutto si blocca. Il tentativo era ridurre ogni cosa a uno scontro personale, misero».
«Oppure, come per la nomina dell’Alto commissario. Oltre a Sica, i candidati erano Parisi e Falcone. Me lo dissero amici, ministri, le fonti più diverse: ma non quelle ufficiali. Non venni informato di essere candidato. Ma si è mai sentito, un candidato cui nessuno dice nulla? Il giorno dopo la nomina di Sica, Gava dice: eh, non si poteva nominare Falcone, sarebbe stato andare contro il Csm. E poi, guarda un po’, con Sica si sceglie Riggio, e allora scopri che Riggio è il primo dei non eletti nelle liste Psi, stesso sponsor di Sica. È chiaro che, in un’ottica che non mi scandalizza, si è temuto che io fossi espressione del Pci, e che se si fosse proseguito su questa strada ne sarebbero venute grane al governo».
«Tutto questo ha un grado di corporativismo allucinante, di ignoranza totale della realtà, che porta a una concezione del magistrato assurda, per il Duemila. C’è il rispetto formale di una legge che andava bene in un sistema pluriclasse, in cui la classe al potere, liberale, poteva applicarla, perché le era funzionale. Subito dopo l’unità d’Italia, la legge era l’espressione di un lucido disegno, e il magistrato era espressione di quegli interessi. Oggi è espressione di tensioni diverse, e deve soggiacere a una serie di compromessi. Ci troviamo con una magistratura che ha abolito il sistema gerarchico piramidale, ed è stata una nobilissima battaglia, ma l’abbiamo sostituito con il nulla. Ora abbiamo una magistratura avvitata su se stessa, un’associazione di mutuo soccorso che è potere, non servizio. E allora, dite quel che volete della Cassazione, di Carnevale, ma non è questo il problema. Dopo Carnevale, ne verrà un altro. Nel momento in cui la legge è mediazione tra gruppi differenti, esplode il problema, e il magistrato è costretto a scegliere: il vecchio è decrepito, ma il nuovo stenta. Allora ecco, basta che crei la situazione, e non ci si muove più. Nel mio caso, basta contrappormi un magistrato più anziano; basta che a livello politico venga agitato lo spauracchio comunista. Basta affermare che io sono uno sceriffo, che mi metto il codice sotto ai piedi. Non importa che tutto questo non sia affatto vero: il risultato è stato raggiunto ugualmente».
CORPO ESTRANEO
«I giudici hanno più paura di questo che della mafia. Per i miei colleghi, il solo pensiero di venir trasferiti, di andare a Milano, è la catastrofe. Quando dico che la nostra è una società immobile, dico anche questo. Hanno più paura del Csm che della mafia. Il Csm può farti un provvedimento disciplinare, può trasferirti; la mafia ammazza solo quelli come me. In questa ottica, si fomentano le risse, ci si impallina. Il metodo non è diverso da quello mafioso: creare separazioni, operare sempre nell’ombra, non uscire mai con posizioni nette. In questo senso, io sono un corpo estraneo, in un ambiente che mi respinge: non me ne fotte niente, né della mafia né del Csm. Tutti devono sapere che non si possono fidare di me: nessuno mi può dare etichette. Ma beati i Paesi che non hanno bisogno di eroi: voglio dire dove le strutture non hanno bisogno di corpi estranei. Se si fa un paragone tra l’Fbi e la nostra polizia, tra una struttura media molto forte e una che esalta solo le grandi individualità, mi dite quale serve di più?».
Chi ha ucciso il pool? La volontà politica o le inerzie della casta? «Tutte e due. Le minori responsabilità le ha il potere politico». «È già un risultato che io abbia potuto resistere. Quante volte mi hanno detto, con la migliore buona fede: adesso puoi fare altre cose, stai diventando ripetitivo. È stata una lotta giorno per giorno. Quando ti ammazzano tutti gli amici più cari, per anni, resistere è un successo. Con Ninni (Cassarà, ndr) siamo andati a vedere il cadavere martoriato di Beppe Montana. Ninni mi disse: ma ci pensi che adesso all’Ucciardone stanno brindando, e noi siamo cadaveri che camminano? Tutte le volte che sono andato a vedere i cadaveri dei miei amici, i familiari mi dicevano: è stato inutile, io lo contesto. Ho sempre detto che queste persone hanno dato moltissimo, e rimarranno. Non è una dichiarazione di comodo. Se non ci si spersonalizza, se non si guardano le cose dall’alto, tutto sembra caduco. La differenza è quello che hanno fatto. Sì, certo, di loro ci si dimenticherà; tra dieci anni non si saprà chi era Ninni Cassarà. Ma il suo metodo resta. Prima, tutto questo succedeva senza che se ne sapesse nulla: oggi, se non altro, devono scusarsi. Se gli studenti di Gela vengono ricevuti al Quirinale, lui ha contribuito non poco. Non è un passo avanti gigantesco, ma prima si diceva: uffa, sempre di mafia si parla».
«Allora dicono: bene, facciamo Falcone paladino dell’antimafia, mettiamoci dietro 50-60 persone, creiamo l’asse Falcone-Orlando. Ma quando mai. A nessuno passa per la testa che io faccio il magistrato, e basta. È facile dire Lima bandito, Falcone galantuomo. Ma quando io dico che non è così, divento ambiguo. In realtà, è tutto più difficile, la realtà è più complessa. Ci sono persone molto peggiori di Lima, o di Gunnella: ma li hanno scelti come parafulmine, li usano per tutto ciò che c’è di negativo. Di fatto, non ci si vuole occupare di questi problemi, perché sono faticosi, difficili. Quindi Orlando è tutto il bene, Lima tutto il male, Gunnella assume i mafiosi, il Pei è l’unico buono. Ma perché? Se ci si rendesse conto che il siciliano è prima di tutto siciliano, poi medico, avvocato o poliziotto, si capirebbe già meglio. C’è un sostrato comune, tutto il resto viene dopo».
LA CULTURA MAFIOSA
«Che poi, il panorama non è granché mutato, dal Gattopardo a oggi. La supponenza, la spocchia, l’atteggiamento di critica: chiunque fa, in questa infelicissima piaga, è condannato. Bisogna star fermi. Anzi, star fermi dando l’impressione di grandissima attività. Tomasi di Lampedusa diceva: siamo un popolo di dei. Quello di Pavia non può capire, perché non è siciliano. Noi abbiamo già visto tutto, sappiamo già tutto: ci siamo fermati qui. Tutto quello che c’è di nuovo lo devi incasellare, con un’operazione analoga a quella dei glossatori medioevali, che cercavano di adeguare le norme del codice giustinianeo con l’interpretazione delle norme stesse: una forma farisaica di manipolazione della realtà».
«D’altra parte, in una società in cui lo Stato è assente, l’alto sentire di sé diventa un’identità, così come il rapporto d’amicizia, il rispetto della fratellanza, del clan. Sono distorsioni, il problema è come vengono riempite. Io se devo spiccare un mandato contro un amico, forse proprio per amicizia me lo inculo di più. Ma quando diciamo che la mafia non è esterna alla società, diciamo proprio questo: è estremamente probabile incontrare soggetti coinvolti malgrado le tue intenzioni. Allora, hai due scelte: o ti chiudi in casa, con il rischio di non capire nulla di quello che succede, oppure vivi. Corri il rischio di incontrare persone non limpide. Ma non è questo il problema; il problema è creare un cordone sanitario. Anche perché è praticamente impossibile capire dove finisce la mafia e dove comincia l’appartenenza all’area culturale mafiosa».
«La più enorme cazzata è che per risolvere il problema ci vorrebbe l’esercito. E dov’è il nemico, dico io. Ecco perché è importante cercare almeno di delimitare i confini: tutto il resto viene dopo. Noi abbiamo cominciato dieci anni fa, e siamo appena all’inizio. Dieci anni fa, queste persone erano i padroni di Palermo; oggi sono costrette a giustificarsi, a dire che non avevano capito, che non erano poi così amici di… Dieci anni fa, era impossibile pensarlo. In questo senso, l’atteggiamento di chi dice che lo Stato è sempre assente, che non provvede, è sterile, puerile, non fa progredire di un passo. Fare, non lamentarsi. Quando ci fu l’alluvione a Firenze, tutti presero badili e picconi. Diverso è a Gibellina. Da noi, c’è la professione del terremotato, e in questo c’è tutta l’essenza del sicilianismo: vedere lo Stato estraneo per precostituirsi un alibi, per scusare la propria inerzia, per fare i propri comodi. Un atteggiamento da Terzo mondo. Dopodiché, anche per me lo Stato può avere tutte le colpe immaginabili: ma il problema non si risolve rimanendo in panciolle. È quello che mi separa da Paolo Borsellino; lui ritiene di poter recuperare valori che per me sono obsoleti. A me non piace stare qui: non amo la Sicilia. Certamente, alla fine vivere a Parigi o in Sicilia è lo stesso: ma se mi consentite, a Parigi è meglio. Con tutto il rispetto per i miei avi sepolti qui».
«Sotto il profilo personale sì, la mia esperienza è stata uno spreco. Totalmente fallimentare. Ma sono ottimista, e il problema è di non mettermi mai al centro dell’univeso. Ho messo la mia pagliuzza, come tanti altri, vogliamo chiamarlo progresso? Bon, diciamo progresso». Telefono a Falcone per salutarlo. Dico: «Buongiorno sono Luca Rossi». «Io no» dice. L’ultima volta lo vedo all’Addaura, a casa sua. Una casa che ha affittato per l’estate. Ci sono due agenti in macchina al cancello; poi, una scala scende fino a una grande terrazza sul mare. Sediamo a un tavolo bianco, Falcone ha una Lacoste gialla. Beviamo whisky con ghiaccio. C’è caldo, l’aria nera del mare contro la luce bianca della luna, mobile sull’acqua scintillante di riflesso, con l’orizzonte chiaro e rotondo, libero al centro e ai lati fin dove possiamo vedere. La nuova moglie di Falcone siede in soggiorno, illuminata da una luce gialla guarda la televisione.
Seguo Falcone con facilità, ho meno timore. Ci siamo incontrati molte altre volte, sempre nel suo ufficio. Sedevo in corridoio, su una sedia di plastica appoggiata alla parete di fondo, e aspettavo che finisse di lavorare. Poi parlavamo un quarto d’ora, mezz’ora. Non c’erano finestre nel corridoio, e dal mio posto vedevo soltanto la porta blindata e il neon bianco. Una volta è arrivato Ayala, e Falcone ha preso la bottiglia di whisky, nascosta dietro a uno schedario. Ha detto che l’aveva nascosta per difenderla da lui, da Ayala. Abbiamo riso e bevuto nei bicchierini da caffè. Il whisky aveva un sapore caldo e troppo forte, nella plastica, ed era leggero in mano. Avevo una sensazione familiare, di condivisione: avrei voluto rimanere più a lungo, ritornare.
Ho pensato che loro erano una squadra, e ho ripetuto mentalmente la parola «squadra». Per la prima volta, mi sembrava che avesse un bellissimo suono; pensavo che mi sarebbe piaciuto far parte di «una squadra». Adesso abbiamo il ghiaccio nei bicchieri, che sono pesanti e ben bilanciati. Il tono di Falcone è liquido, soffice: arrotonda di più, s’impunta di meno sui silenzi, scivola via senza conseguenze. Anche il mio tono è facile, i gesti mi seguono con naturalezza; ci alziamo, guardiamo il mare, la notte. Dico che è bello, e Falcone dice che è stata una fortuna, trovare quella casa. La terrazza è bassa sugli scogli, a pochi metri dal mare.
Penso subito: la casa non è difendibile. Dico: «Non è pericoloso?». «Perché?». Indico il mare: «Potrebbero venire da qui». «Venga». Ci appoggiamo al parapetto. Falcone dice: «Buonasera». Vedo un carabiniere. Si gira, ripete «buonasera» con un tono leggermente indeciso, sottomesso. Ne vedo un altro, appoggiato agli scogli, con il mitra steso davanti. Hanno le divise nere come la roccia, la bandoliera bianca, guardano il mare. Il metallo delle armi non luccica.
UN ALTRO MARE
Due giorni dopo, è un altro mare. Sono sceso dalla nave a Genova, ho preso l’autostrada, ho lasciato la macchina a Paraggi e ho camminato verso Portofino. Il mare è, visto dall’alto, lontano e pulito. Ci sono sentieri ripidi che portano a piccole baie, quasi impossibili per dimensioni e chiusura. Non è ancora stagione, ci sono solo due ragazzi abbracciati su un asciugamano, e fa meno caldo che a Palermo.
Ho i calzoni di tela beige che mi sembrano leggerissimi, volano e sono freschi. Non penso a Palermo, penso solo alla leggerezza degli abiti, del tempo, della luce oblunga e blu della sera, della vacanza. C’è un profumo, passano poche macchine. Quando rientro a Paraggi è ora di cena, non c’è quasi nessuno. Mi fermo in un bar sulla spiaggia, respiro: ogni cosa è pulita e nitida, guardo la passerella lunga e verde che si stende sull’acqua, al centro della baia; una notte d’estate, molti anni fa, eravamo venuti da Milano su una Volkswagen gialla e ci eravamo tuffati all’infinito da quella passerella: mi ero svegliato sul muretto di Portofino, con il sole di mezzogiorno. Il bar è vuoto, c’è un televisore acceso, con le notizie in bianco e nero del telegiornale. C’è l’immagine di una casa bassa, con una terrazza sul mare. La casa è ripresa dagli scogli, frontalmente: la speaker dice che c’è stato un attentato a Falcone, hanno trovato una bomba davanti alla terrazza di casa sua. All’Addaura.
In questa straordinaria confessione era lui stesso a rivelarlo. Stroncando le polemiche di oggi. Un giorno ho visto Leoluca Orlando, gli ho chiesto: come va? «Se tutto va bene» ha detto «siamo rovinati». È andato tutto bene. Giovanni Falcone era morto da ...
G. Sal. per “la Stampa” il 24 maggio 2022.
«Non mi piacciono le parate istituzionali e come tanti cittadini non sopporto lo sterile esercizio di una stucchevole retorica di Stato». Nino Di Matteo ha disertato le manifestazioni ufficiali «in cui mi pare si sia data una lettura minimalista e rassicurante della strage di Capaci, come se la vendetta dei macellai corleonesi fosse il movente prevalente se non esclusivo, tralasciando due aspetti.
Il primo è il ruolo di leadership in termini di politica giudiziaria che Falcone aveva assunto al ministero: aveva portato in politica la lotta alla mafia - altro che porte girevoli! - e nella sua rozzezza Riina l'aveva capito. Secondo: la contestualizzazione dell'eccidio tra l'assassinio eccellente di Salvo Lima e la stagione delle altre sei stragi successive» anche nel continente.
A due isolati da casa Falcone, Di Matteo confida il suo disagio nel retropalco del teatro Golden, dove la rivista Antimafia Duemila ha radunato anche l'ex procuratore palermitano Roberto Scarpinato, il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, il procuratore calabrese Giuseppe Lombardo (autore del processo sulle connessioni stragiste tra cosa nostra e 'ndrangheta) e quello fiorentino Luca Tescaroli (che indaga sulle stragi del '93).
Lo slogan «Fuori la mafia dallo Stato» scandito dalla platea e il titolo Traditi, uccisi, dimenticati configura a tutti gli effetti il convegno come una contromanifestazione che denuncia (Scarpinato dixit, commosso) «una falconeide sedativa da corriere dei piccoli».
Di Matteo legge in parallelo l'Italia di oggi con quella del 1992.
«Falcone è stato tradito e ucciso da quelle istituzioni che in queste ore hanno partecipato al gran gioco delle finte commemorazioni e domani, tornate a Roma, riprenderanno a lavorare per smantellare pezzo dopo pezzo le leggi antimafia da lui ispirate, 41 bis ed ergastolo ostativo; voteranno una riforma che crea un modello di magistrato-burocrate antitetico al suo; introdurranno una legge elettorale del Csm che aumenterà il correntismo, perché la politica non ha alcun interesse a debellare un sistema di cui si nutre e da cui trae vantaggio».
Quando cita tra gli applausi, Andreotti, Berlusconi e Dell'Utri si riferisce anche alle imminenti elezioni palermitane: «Il problema non è che un condannato, espiata la pena, dica la sua. Mi preoccupa che qualcuno chieda la sua intermediazione per ottenere la candidatura o per aumentare i consensi», come accaduto nel centrodestra sia al Comune che alla Regione.
Ma anche nella magistratura «vedo troppi segnali negativi. I magistrati che continuano coraggiosamente a occuparsi delle stragi sono sempre meno e sempre più ostracizzati. Trattati come i giapponesi che combattono una battaglia finita. Anche gli investigatori sono sempre meno, al punto che mi domando se non ci siano direttive gerarchiche che spingono a fare indagini più semplici e con risultati spendibili nelle statistiche». L'esatto contrario di quelle sulle stragi, dove non ci sono droga o villette da sequestrare. No, al teatro Golden non si celebra un trentennale a lieto fine.
30 anni dalla morte del magistrato. Perché Giovanni Falcone fu ostacolato e messo alla gogna dai suoi colleghi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Maggio 2022.
Quale Falcone volete ricordare? Quello del maxiprocesso, nel corso del quale inflisse a Cosa Nostra la sconfitta più devastante in due secoli di storia? O preferite ricordare il Falcone che escludeva l’esistenza del terzo livello, cioè di una cupola della mafia guidata dai politici, e che incriminò per calunnia il pentito Pellegriti, e si prese le contumelie di tutti gli antimafiosi doc dell’epoca? Ditemi quale preferite: il Falcone che interrogava Buscetta, e soppesava ogni sua dichiarazione, e cercava i riscontri, oppure il Falcone che quando la mafia gli mise una bomba sotto casa, all’Addaura, si beccò gli attacchi, le ingiurie e i sorrisi sfottenti di tutti, e dei giornali che fecero capire che quell’attentato era una messa in scena per dare un po’ di slancio alla sua credibilità?
Preferite che vi parli del Falcone circondato dai nemici in magistratura, dai suoi colleghi, che gli diedero assedio, del Falcone che non si fidava di Giammanco, il Procuratore, e del giovane Pignatone, che considerava un uomo di Giammanco, oppure del Falcone che andò a Roma, da Martelli, cioè dal ministro, e fu accusato di tradimento perché era passato coi socialisti, cioè con i craxiani, con gli andreottiani, quindi, più o meno con la mafia? O ancora volete parlare del Falcone al quale un Csm molto impegnato nella lotta alla mafia impedì di diventare capo dell’ufficio istruzione di Palermo, preferendogli Antonino Meli, perché anche se di mafia ne sapeva poco poco però era più anziano? O magari preferite che vi parli del Falcone messo sotto accusa dal Csm per i suoi atteggiamenti spavaldi, e che fu costretto a difendersi coi fucili puntati contro, compresi i fucili dei più brillanti magistrati e politici antimafia, escluso – onore a lui – Caselli? Sapete come finì quel procedimento disciplinare? Fu dichiarato estinto per morte del reo. Sapete a che serviva? A troncare sul nascere la sua candidatura alla procura nazionale antimafia. Si faceva così allora. Si fa così anche oggi. Son le correnti, bellezza.
No, no, non è come potete pensare: che ci siano due Giovanni Falcone. Uno passionario e l’altro prudente. Uno gradasso e l’altro pauroso. Uno contro la mafia e l’altro con il potere. È quello che la rispettabile associazione “l’antimafia siamo noi…” ha sempre voluto farci credere. Fino a che Falcone non è stato ucciso da Cosa Nostra, tra qualche riga cercheremo di capire perché. Poi la rispettabile associazione ha cambiato linea (dopo averlo processato e messo alla gogna anche in Tv…) e ha deciso di sequestrarne la memoria. Falcone e Borsellino – ha stabilito – sono una cosa nostra e nessuno ha il diritto di toccarli. Santi che stanno lì a dimostrare che noi abbiamo ragione, che le persone che indichiamo al sospetto sono colpevoli e vanno maciullate. Che i magistrati sono eroi in trincea e rischiano tutti i giorni la vita.
Non è così. Falcone era uno solo. Era un gigante. Di Falcone si possono dire tante cose, ma due sono evidenti e incontestabili. La prima è che era un magistrato con doti professionali clamorose, che forse nessun altro magistrato ha mai avuto; la seconda è che aveva una idea alta del diritto, e aveva questa idea alta non perché fosse un garantista dalla parte degli imputati, ma perché era convinto che quello che contava, nella giurisdizione, fosse la sentenza di terzo grado, e che il magistrato doveva calibrare le accuse e i processi a seconda delle prove che aveva o che poteva avere in mano, e doveva rispettare tutte le regole, altrimenti rischiava il fallimento del suo lavoro. Oggi sono pochi i magistrati di prima fila che ragionano così. Oggi quel che conta è l’effetto che fa. Cioè il rumore che si può realizzare con un arresto, una conferenza stampa, un giro in Tv. Che poi un procedimento giudiziario si concluda con la condanna e l’assoluzione conta poco, conta sbattere un po’ di gente in carcere e tenercela per più tempo possibile.
La campagna contro Giovanni Falcone condotta con incredibile disponibilità di mezzi all’inizio degli anni 90 è un fatto quasi unico nella storia della magistratura. Falcone fu delegittimato prima dai suoi colleghi (destra e sinistra insieme) in modo sistematico, e poi dai politici e poi dai giornali. Ho dei ricordi di quell’epoca. Ero caporedattore all’Unità e mi occupavo anche di Sicilia e di mafia. Noi avevamo sostenuto Falcone convinti, all’epoca del maxiprocesso, poi avevamo iniziato a sospettare di lui. Ci aspettavamo che azzannasse al collo il pentapartito, Andreotti, i socialisti, perché anche allora, un po’ come oggi, la sinistra era così. Residui di stalinismo. Cioè speranza che qualche Potenza superiore riuscisse a ottenere i risultati che non arrivavano sul campo. Il Pci e poi il Pds stavano perdendo voti e l’illusione era che il colpo di magia ai propri avversari arrivasse da fuori.
Ma Falcone dopo aver abbattuto il vertice di Cosa Nostra si rifiutava di servire su un piatto d’argento la tesi che il vertice dei vertici fosse la politica. E in particolare la Dc. E in particolare Andreotti. E questo apparve come un tradimento. Era solo la dichiarazione onesta di un magistrato onesto che aveva capito davvero la mafia e la sua struttura. A noi non piaceva. E nel 1991 ci fece indignare una sua intervista nella quale esplicitamente diceva che non era la politica a guidare la mafia, casomai il contrario. Il terzo livello era fantascienza. Pubblicammo su l’Unità un articolo di un intellettuale prestigiosissimo come il giurista Alessandro Pizzorusso, che stroncava Falcone. Seppellendo la sua candidatura alla Superprocura. Vi dico la verità: anch’io ero abbastanza convinto. Sebbene stimassi Falcone. Lo avevo seguito per molti anni, lo avevo conosciuto anche personalmente, non lo consideravo certo un farabutto. Però…
Quel pomeriggio del 23 maggio, quando arrivò la notizia dell’attentato, restai senza parole. Dovevo fare il giornale, l’Unità, perché il direttore che era Walter Veltroni (ma era arrivato appena da due giorni e non aveva ancora gran dimestichezza) non era in redazione per non so quale impegno politico. Facevo il giornale e mi sentivo morire. Capii all’improvviso di non avere capito niente. Capii anche che l’abbandono da parte della sinistra poteva aver favorito i mafiosi nel loro disegno. Stavo malissimo. Il giorno dopo chiesi a Veltroni di poter scrivere un articolo di scuse a Falcone. Mi disse di sì, e lo pubblicò come editoriale di pagina 2. Non lo trovo più quell’articolo perché l’archivio dell’Unità è bloccato. Ho trovato queste poche righe in rete, e le trascrivo: «Questo giornale, negli ultimi mesi, e più di una volta, ha criticato Falcone per la sua nuova amicizia con i socialisti e per la sua scelta di lasciare Palermo. E ha osteggiato la sua candidatura alla direzione della superprocura. In queste ore terribili una cosa l’abbiamo capita tutti, credo: Giovanni Falcone era un uomo libero. Abbiamo invece fatto prevalere il dubbio politico: forse non è uno dei nostri. Forse è politicamente ambiguo…. Siamo stati faziosi».
Perché hanno ucciso Falcone? Credo per due ragioni. La prima è la vendetta, per avere decapitato Cosa Nostra e per averne svelato, per la prima volta, lo scheletro interno, il funzionamento e il Dna. La seconda è che Falcone aveva avviato un dossier su mafia e appalti che considerava importantissimo e che aveva affidato al colonnello Mori. Quel dossier fu archiviato due mesi dopo la sua morte, sebbene Borsellino avesse chiesto di lavorarci. Non avvertirono Borsellino di aver chiesto l’archiviazione. La mafia considerava quel dossier molto pericoloso. Coinvolgeva moltissime aziende del nord.
Andò a finire che invece di produrre un processo agli autori dei rapporti tra mafia e appalti quel dossier produsse un processo al colonnello Mori, cioè all’autore del dossier, l’uomo forte di Falcone. È così: era il suo destino. Essere perseguitato perché troppo Grande. Anche dopo la morte è stato perseguitato. In cambio, per ricompensarlo, ne hanno fatto un’icona che viene portata a spalla dai suoi nemici. Fatemi usare le parole del Vangelo: “Sepolcri imbiancati”.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Mattarella a Palermo: «Le visioni “profetiche” di Falcone furono osteggiate anche dai magistrati». Sara Gentile lunedì 23 Maggio 2022 su Il Secolo d'Italia.
Un lungo applauso ha accolto il capo dello Stato, Sergio Mattarella, al Foro italico, a Palermo, dove è stato allestito un grande palco in occasione delle cerimonie per il trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. «Stiamo affrontando una stagione difficile, dolorosa, segnata prima dalla pandemia e poi dalla guerra nel cuore dell’Europa», ha detto Mattarella. «Raccogliere il testimone della “visione” di Falcone significa affrontare con la stessa lucidità le prove dell’oggi, perché a prevalere sia –ovunque, in ogni dimensione – la causa della giustizia; al servizio della libertà e della democrazia».
Mattarella: «Alla ferocia della mafia si opposero Stato diritto e società civile»
«Sono trascorsi trent’anni – ha detto Mattarella – da quel terribile 23 maggio allorché la vita della nostra Repubblica sembrò fermarsi come annientata dal dolore e dalla paura. Del tutto al contrario di quanto avevano immaginato gli autori del vile attentato, allo smarrimento iniziale seguì l’immediata reazione delle Istituzioni democratiche. Il dolore e lo sgomento di quei giorni divennero la drammatica occasione per reagire al violento attacco sferrato dalla mafia; a quella ferocia la nostra democrazia si oppose con la forza degli strumenti dello Stato di diritto. Altrettanto significativa fu la risposta della società civile, che non accettò di subire in silenzio quella umiliazione e incoraggiò il lavoro degli investigatori contribuendo alla stagione di rinnovamento. Neanche questo la mafia aveva previsto».
Mattarella: «L’impegno contro la mafia non consente pause o distrazioni»
Nel 1992 Giovanni Falcone e Paolo Borsellino «furono colpiti perché, con la loro professionalità e determinazione, avevano inferto colpi durissimi alla mafia, con prospettive di ulteriori seguiti di grande efficacia, attraverso una rigorosa strategia investigativa capace di portarne allo scoperto l’organizzazione. La mafia li temeva per questo: perché avevano dimostrato che essa non era imbattibile e che lo Stato era in grado di sconfiggerla attraverso la forza del diritto». E poi ancora: «Onorare oggi la memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – ha aggiunto il Capo dello Stato – vuol dire rinnovare quell’impegno, riproponendone il coraggio e la determinazione. L’impegno contro la criminalità non consente pause né distrazioni».
«Falcone agiva nel perseguimento della legalità»
Giovanni Falcone «agiva non in spregio del pericolo o alla ricerca di forme ostentate di eroismo bensì nella consapevolezza che l’unico percorso possibile fosse quello che offre il tenace perseguimento della legalità, attraverso cui si realizza il riscatto morale della società civile. La fermezza del suo operato nasceva dalla radicata convinzione che non vi fossero alternative al rispetto della legge, a qualunque costo, anche a quello della vita. Con la consapevolezza che in gioco fosse la dignità delle funzioni rivestite e la propria dignità. Coltivava il coraggio contro la viltà, frutto della paura e della fragilità di fronte all’arroganza della mafia».
«Falcone – ha sottolineato Mattarella – non si abbandonò mai alla rassegnazione o all’indifferenza ma si fece guidare senza timore dalla “visione” che la sua Sicilia e l’intero nostro Paese si sarebbero liberati dalla proterva presenza della criminalità mafiosa. Questa “visione” gli conferiva la determinazione per perseguire con decisione le forme subdole e spietate attraverso le quali si manifesta l’illegalità mafiosa».
«È compito delle istituzioni prevedere e agire per tempo»
«Da queste drammatiche esperienze si dovrebbe trarre un importante insegnamento per il futuro: evitare di adottare le misure necessarie solo quando si presentano condizioni di emergenza. È compito delle istituzioni -di tutte le istituzioni- prevedere e agire per tempo, senza dover attendere il verificarsi di eventi drammatici per essere costretti a intervenire. È questa consapevolezza che dovrebbe guidare costantemente l’azione delle Istituzioni per rendere onore alla memoria dei servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la tutela dei valori su cui si fonda la nostra Repubblica».
«Le sue visioni d’avanguardia non furono sempre comprese»
«Le visioni d’avanguardia, lucidamente “profetiche”, di Falcone non furono sempre comprese; anzi in taluni casi vennero osteggiate anche da atteggiamenti diffusi nella stessa magistratura, che col tempo, superando errori, ha saputo farne patrimonio comune e valorizzarle».
«Anche l’ordinamento giudiziario – ha proseguito il Capo dello Stato – è stato modificato per attribuire un maggior rilievo alle obiettive qualità professionali del magistrato rispetto al criterio della mera anzianità, non idoneo a rispondere alle esigenze dell’Ordine giudiziario. Le esperienze innovative di quegli anni si sono tradotte, all’indomani dei drammatici attentati, in leggi che hanno fatto assumere alla lotta alla mafia un livello di incisività ed efficacia mai raggiunto fino ad allora. Con la determinazione di fare giustizia, facendo prevalere il diritto, ripristinandolo. Per consentire alle persone pienezza di libertà e maggiori opportunità di futuro contro la presenza delle mafie che ne ostacola e talvolta ne impedisce l’effettiva libertà».
Così la retorica antimafia ha insabbiato il vero pensiero di Falcone. Trent'anni dalla strage di Capaci. Con gesto di rara brutalità, ancora una volta oggi viene rimossa la “poetica” del “metodico dubbio” con la quale Falcone ha affrontato le sfide del Diritto. Davide Varì Il Dubbio il 24 maggio 2022.
Sono passati trent’anni esatti dalla strage che uccise Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e la scorta. E nel mare di retorica che in questa giornata inonda giornali, radio e tv – e che di certo la disincantata ironia di Falcone avrebbe accolto con un ghigno sardonico e col sopracciglio alzato – quello che proprio non riusciamo a digerire è il viziaccio tutto italiano di piegare il pensiero del “caro estinto” ai propri miseri interessi, alle battaglie di basso cabotaggio.
E così, ancora una volta, assistiamo allo scempio e alla rimozione di una parte centrale del suo pensiero; si tratta della parte più scomoda e meno spendibile sul mercato delle polemiche manichee e difficilmente riducibile a slogan da intonare nelle inutili parate autocelebrative. Distraendo ogni forma di complessità dal suo pensiero articolato e addirittura sofferto, Falcone è divenuto “uomo a una dimensione”. Ma celebrarlo e nello stesso tempo deturpare le sue idee, è frutto di una violenza sottile e intollerabile.
Con gesto di rara brutalità, è stata dunque rimossa la “poetica” del “metodico dubbio” con la quale Falcone ha affrontato le sfide del Diritto. Un dubbio coltivato con cura che lo ha convinto, per esempio, della inesistenza del famigerato terzo livello, ovvero quel luogo leggendario in cui mafia e politica si fonderebbero per dar vita, nelle fantasie di molti, troppi inquirenti, al leviatano che in questi decenni avrebbe governato il paese in modo occulto. Ecco, per Falcone quel “terzo livello”, quella ossessione giudiziaria che ha portato fuori strada le indagini antimafia degli ultimi 20 anni (dal fallimentare processo ad Andreotti al teorema sulla trattativa Stato-mafia), non esisteva. «Ho detto spesso che non esiste il terzo livello – spiegò infatti Falcone -. E Sopra i vertici di Cosa Nostra non esiste nulla e non vi è affatto una connessione organica tra partiti o fette di partiti e le organizzazioni mafiose. Il fenomeno è molto più articolato e complesso e come tale molto più sfuggente alla repressione penale».
Ma non è tutto. Nessuno sospetterà che Falcone era favorevole alla separazione delle carriere. Proprio così: il magistrato simbolo dell’antimafia era convinto che l’autonomia della magistratura si sarebbe salvata separando i giudici dalle procure. “Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti».
Ma a quanto pare la lezione non è servita: dopo averlo isolato fisicamente, il grumo mediatico-giudiziario che ha generato e nutrito il pensiero unico del Paese, sta cannibalizzando il suo pensiero. Noi non ci stiamo: non è così che si celebra Falcone.
Falcone voleva carriere separate per pm e giudici. "Lo chiede il nuovo codice, hanno funzioni diverse". Felice Manti il 24 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il coraggio della toga ostracizzata da Anm e Csm perché avrebbe indebolito le correnti definite "macchine elettorali". Berlusconi: la mafia deturpa l'Italia.
«Il referendum ha consentito di accertare che la stragrande maggioranza dell'elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non sia svolta attualmente con la necessaria professionalità, e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati». Era il 5 novembre 1988, a Milano Giovanni Falcone leggeva la sua relazione davanti ai suoi colleghi. Il referendum del 1987 che avrebbe dovuto introdurre la responsabilità civile dei magistrati ottenne l'83% dei sì venne annacquato dalla «legge Vassalli» numero 117, che prevede che sia lo Stato a pagare se un magistrato è colpevole di dolo o di colpa grave.
A distanza di 35 anni gli italiani sono nuovamente chiamati a riformare la giustizia per via referendaria. Il nodo è la separazione delle funzioni - e quindi delle carriere - di toghe inquirenti e giudicanti, come avrebbe voluto Falcone. Che già prima che il nuovo Codice di procedura consegnasse al pm il ruolo di dominus dell'azione giudiziaria avvertiva i rischi di mancata terzietà del giudice: «Le attitudini e i compiti specifici del pm richiesti dal nuovo modello di processo penale comportano una sua specifica formazione professionale, che solo in parte coincide con quella del giudice e in punti qualificanti ne diverge nettamente. Diverse funzioni e attitudini, habitus mentale, capacità professionali richieste: investigatore il pm, arbitro il giudice».
Bestemmie per le correnti dell'Anm «che si sono trasformate in macchine elettorali per il Csm», scriveva Falcone nel 1990. La sua visione lungimirante - come dimostra drammaticamente la ricostruzione di Luca Palamara - era malvista da chi temeva di perdere potere e prestigio, assieme all'automatismo delle carriere e alla pretesa di considerare il magistrato una sorta di superuomo infallibile e incensurabile solo perché ha vinto un concorso. L'alibi per impedirlo? Il solito mantra: «Così si mette a rischio l'autonomia e l'indipendenza della magistratura». Un'obiezione alla quale Falcone rispose così: «I valori di autonomia e indipendenza non equivalgono a sostanziale irresponsabilità di un pm, reso così da una visione feticistica dell'obbligatorietà dell'azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli sulla sua attività», altra misura in discussione alle Camere.
Di più: «Piero Calamandrei si era dichiarato favorevole a un Pg di Cassazione in Consiglio dei ministri a titolo consultivo sulla giustizia». Idee, contributi al dibattito che la magistratura non volle raccogliere. E sì che Falcone aveva anche capito che la riforma del codice avrebbe potuto creare protagonismi eccessivi, alla Tonino Di Pietro. Per questo predicava «non un pm sotto il controllo dell'esecutivo» ma procure «autonome, indipendenti, efficiente e responsabili della loro attività» limitando i rischi di sovraesposizione, iperattivismo e iperpersonalizzazione oggi molto diffusi tra funzionari di polizia e magistrati». Una follia, per l'Anm, che gliel'avrebbe fatta pagare. Ad esempio demonizzando il suo disegno di Superprocura e organizzando uno sciopero (benedetto anche da Oscar Luigi Scalfaro, che mandò un messaggio di solidarietà). Alla manifestazione partecipò Elena Paciotti, che poi ne sarebbe divenuta presidente. La stessa Paciotti il 19 gennaio 1988 al Csm sostenne la candidatura di Meli contro quella di Falcone per la nomina a procuratore capo di Palermo. E il cerchio si chiuse.
Oggi gli smemorati e i cronisti in malafede puntano il dito contro Silvio Berlusconi e le infamanti accuse di essere il mandante delle stragi del 1992, già ampiamente smontate. «I nostri governi hanno fatto della lotta alla criminalità organizzata una priorità», dice l'ex premier, ricordando il sacrificio del giudice per mano della mafia, una sciagura che secondo Berlusconi «deturpa l'Italia, allontana gli investimenti e scoraggia chi fa impresa». La riforma della giustizia che aveva in mente il centrodestra, messa a punto dall'ex Guardasigilli Angelino Alfano, fallita dopo la rovinosa caduta dell'esecutivo nel 2011. Quella Castelli, molto simile, saltò la notte tra il 27 e il 28 luglio 2007, tre giorni prima che entrasse in vigore, grazie a un accordo in extremis tra il ministro della Giustizia Clemente Mastella e l'allora segretario dell'Anm Nello Rossi, ideologo di Md - come si legge nel libro Il caso Genchi di Edoardo Montolli - nel bel mezzo del caso Why Not. Qualche mese dopo un'inchiesta sfiorerà lo stesso Mastella e contribuirà a far cadere il secondo governo Prodi. Segno che le toghe non fanno prigionieri. Neanche con gli alleati.
Mezz'ora in Più, l'ex giudice Giancarlo Caselli accusa la politica: “Non si occupa mai di mafia”. Il Tempo il 22 maggio 2022.
A 30 anni dalla morte di Giovanni Falcone, ucciso dalla mafia nella strage di Capaci, Giancarlo Caselli, ex procuratore di Palermo e di Torino, ospite di Lucia Annunziata a Mezz’ora in Più su Rai3, ricorda il magistrato che per combattere Cosa Nostra ha perso la vita. “I mafiosi sopravvivono nel tempo perché la spina dorsale del loro potere sono le relazioni esterne. Oggi - ha spiegato Caselli - il pentimento è depotenziato ed in realtà è un caposaldo della lotta alla mafia. La mafia nell’agenda politica è sempre all’ultimo posto, o non c'è, invece dovrebbe essere oggetto di specifica attenzione, la mafia è un camaleonte e si adatta sempre al periodo. Bisogna occuparsene con continuità. Avvelena parti legali dello Stato consistenti, quando non sono alleati per fare affari insieme. Falcone e Paolo Borsellino sono morti perché noi non siamo stati abbastanza vivi, perché non ci siamo abbastanza indignati di quello che Falcone e Borsellino vedevano e combattevano anche a sacrificio della loro vita. La società civile non è stata abbastanza viva, chi combatteva contro la mafia è stato sovraesposto e in questo modo è rimasto solo. I mafiosi sono dei gangster senza dubbio, fanno traffico di armi, di droga, di rifiuti, ma se fosse soltanto gangster non saremmo qui a parlarne. Sarebbero scomparsi da chissà quanto. Persistono nel tempo grazie a legami, collegamenti, coperture e collusione con pezzi della politica e dell’imprenditoria”.
“Tutte le vittime di mafia - dice ancora l’ex magistrato - sono morte anche perché la mafia le ha uccise ma anche perché non siamo stati abbastanza vivi. Falcone e Borsellino e gli altri hanno visto una serie di nefandezze, omicidi, stragi, lo scempio della democrazia, il voto di scambio ma non si sono girati dall’altra parte hanno continuato a darci dentro sacrificando la vita. Noi cittadini, noi Stato, noi Chiesa, per chi è credente, davanti a quelle stesse nefandezze ci siamo accontentati del compromesso, del quieto vivere. Non - ammonisce e conclude Caselli siamo stati abbastanza vivi nel senso che non ci siamo abbastanza indignati di quello che Falcone e Borsellino vedevano e combattevano fino al sacrificio della vita. Il Csm aveva negato a Falcone il ruolo di capo del pool antimafia”.
Quella notte Santino Di Matteo mi raccontò la strage di Capaci. Gian Carlo Caselli su Il Corriere della Sera il 21 Maggio 2022.
La prima rivelazione sulla morte di Giovanni Falcone nelle parole di uno degli autori materiali. La mafia gli ucciderà il figlio di 13 anni, sciogliendolo nell’acido.
Trent’anni fa, il 23 maggio 1992, la mafia più feroce e organizzata di allora, Cosa nostra, realizzava a Capaci l’ attentatuni (così nel gergo dei criminali), massacrando Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, insieme ai poliziotti di scorta Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro.
All’attentatuni si ricollega l’esperienza forse più forte e intensa dei quasi sette anni che ho trascorso a Palermo come procuratore capo, nominato dal CSM su domanda che avevo presentato subito dopo le stragi del ‘92 . Mi riferisco all’interrogatorio di Santino Di Matteo, un mafioso arrestato per gravi delitti (anche omicidi) commessi nel territorio di competenza delle Procura di Palermo. Un paio di volte Di Matteo mi fa sapere che vorrebbe essere sentito (mia la firma, come procuratore capo, in calce al suo ordine di cattura). Ci vado tutte e due le volte, ma in pratica non succede nulla. Anzi, dentro di me penso: se questo mi richiama una terza volta non ci vado proprio. Addirittura c’è chi mi raccomanda prudenza, ipotizzando che tutte quelle chiamate «a vuoto» siano solo espedienti per vedere se davvero mi muovevo e magari preparare qualcosa.
Ma poi, un giorno che sono a Venezia, gli uomini della Dia mi fanno di nuovo sapere che Di Matteo mi vuole vedere. Viene organizzato un rocambolesco e precipitoso viaggio e nel cuore della notte mi trovo di fronte a lui per interrogarlo. Credevo che mi avrebbe parlato degli omicidi commessi con la sua cosca. In effetti comincia confessando di essere stato «combinato» in Cosa nostra circa quindici anni prima, assumendo in seguito ruoli di rilievo nell’organizzazione e commettendo i delitti contestatigli nell’ordine di cattura che teneva in mano. Ma subito aggiunge che di questi fatti parlerà poi, perché, dice, «Voglio parlare fin da subito di un fatto più grave... Capaci».
È in assoluto la prima volta che qualcuno lo fa. Fino alle ore 04,10 del giorno 24 Ottobre 1993 mi racconta per filo e per segno la strage di Capaci. Può farlo perché, confessa, lui era presente ed è stato uno degli esecutori materiali... Provo un insieme di sensazioni che non avevo mai avvertito: da un lato l’orrore e l’ emozione incontenibile per la rievocazione di un fatto tanto tragico e coinvolgente; dall’ altro la soddisfazione professionale per essere il primo a raccogliere la confessione di un episodio così influente sulla storia del nostro Paese. Avverto in sostanza che il sacrificio di Falcone (che era ed è presente nel cuore di tutti) cominciava a trovare risposte anche in atti concreti di giustizia. Assieme, lo ammetto, a qualche dubbio. C’è un particolare che quella notte non mi convince troppo. Di Matteo ha verbalizzato che, per far passare l’esplosivo sotto l’autostrada dove sarebbe transitato Falcone, i mafiosi avevano utilizzato, attraverso una canalina sotterranea, una specie di skateboard. Più per suggestione che per logica, la storia di un semplice strumento di gioco, destinato a portare divertimento, non morte, mi sembrava incompatibile con la feroce spietatezza di Cosa nostra. Anche questo particolare, invece, risulterà esatto e riscontrato dai colleghi di Caltanissetta (competenti per la strage) cui avevo subito trasmesso il verbale.
Purtroppo questo momento così determinante sarebbe stato terribilmente avvelenato dall’assassinio del figlio di Santino Di Matteo, il piccolo Giuseppe, tredici anni: sequestrato da Cosa nostra, tenuto prigioniero per 779 giorni, picchiato, torturato e alla fine strangolato e sciolto nell’acido, di modo che la madre non potesse neanche portare un fiore o dire una preghiera sulla sua tomba. E tutto questo sol perché Giuseppe era figlio di suo padre, il pentito, il collaboratore di giustizia, che per primo aveva reso dichiarazioni spontanee, decisive per ricostruire il segreto dei segreti di Cosa nostra, la strage di Capaci. Una rappresaglia di stampo nazista, altro che «uomini d’onore». Una tragedia che ancora oggi ricordo con grande tormento.
Gian Carlo Caselli per “il Fatto quotidiano” il 23 maggio 2022.
La mia strada si è intrecciata con quella di Falcone e Borsellino quando - dopo la strage di Capaci e via D'Amelio - decisi di fare domanda al Csm per essere trasferito da Torino a Palermo come capo della Procura.
Ma le nostre strade si erano intrecciate già prima, durante gli anni (1986-90) in cui ho fatto parte del Csm. Quattro anni caratterizzati dal susseguirsi di casi con forti ripercussioni sull'antimafia siciliana.
Il primo caso riguarda Paolo Borsellino. La maggioranza del Csm lo nomina capo della procura della Repubblica di Marsala, preferendolo a un magistrato molto più anziano ma pressoché ignaro di mafia. Anche in forza di una direttiva specifica del Csm (varata da poco) che per gli incarichi in zona di mafia disponeva di privilegiare il criterio della professionalità.
Nella vicenda irrompe Leonardo Sciascia, con un editoriale intitolato "I professionisti dell'Antimafia", che accusa Borsellino, se pure in maniera indiretta, di essere un carrierista, uno che in nome dell'antimafia sgomita per scavalcare colleghi più anziani e meritevoli.
Un'accusa assurda. Lo stesso Sciascia, qualche anno dopo, ammetterà di essere stato male informato. Il danno provocato è comunque enorme. Quella definizione di "professionisti dell'antimafia" affonderà un bersaglio che non era nel mirino di Sciascia. Un bersaglio grosso, Giovanni Falcone. Nel 1987, Nino Caponnetto, conseguito con il pool dei giudici istruttori di Palermo (da lui diretti) lo straordinario risultato del "maxiprocesso", lascia Palermo convinto - come tutti - che il suo testimone passerà a Falcone.
Ma non va così, e l'articolo di Sciascia - strumentalizzato in modo spregevole - ha un peso decisivo. La maggioranza che aveva votato Borsellino perde pezzi e il risultato è a dir poco sconcertante: il più bravo nell'antimafia, il grande protagonista del maxiprocesso, viene scavalcato da un magistrato che di processi di mafia non ha esperienza, ma può vantare un titolo che fa tremare i mafiosi di paura: quello di essere un signore molto avanti negli anni. Che oltretutto, nell'audizione avanti al Csm, aveva sostenuto senza perifrasi che non avrebbe seguito i metodi del pool di Falcone. Nel suo ufficio non dovevano più esserci specialisti che si occupassero solo di mafia, ma magistrati destinati a fare di tutto un po'.
Commentando poi la funesta vicenda, Borsellino parlerà di "giuda". E dirà che Falcone aveva cominciato a morire in quel momento. Per quanto mi riguarda rivendico con orgoglio di aver votato a favore di Borsellino prima e di Falcone poi. Attenzione, la scelta fra Meli e Falcone fu una vera bagarre.
Eppure riguardava un ufficio ormai in via di estinzione con l'entrata in vigore - di lì a poco, nel 1989 - del nuovo codice di Procedura penale, che difatti ha cancellato i giudici istruttori. Il che rende evidente come il punto del contendere non fosse tanto il nome del successore di Caponnetto quanto il metodo di lavoro del pool, che aveva portato alla clamorosa vittoria del maxiprocesso.
Al di là della persona, la scelta di Meli ha quindi un chiaro significato politico: lo Stato anziché proseguire sulla strada del pool di Falcone che stava portando alla sconfitta della mafia, rinuncia a combattere.
Mentre sul Palazzo di giustizia di Palermo si addensano veleni, corvi e lettere anonime, soprattutto contro Falcone. Accusato delle più svariate nefandezze, inventate per fargli pagare la sua vera "colpa": aver osato inquisire (oltre ai mafiosi di strada) "colletti bianchi" potentissimi, collusi con la mafia, del calibro di Ciancimino padre, i cugini Salvo, i Cavalieri del lavoro di Catania.
Intanto Borsellino, con due interviste del 20 luglio 1988, lancia un j'accuse molto pesante: "C'è stato un taglio netto con il passato... Adesso si tende a dividere la stessa inchiesta in tanti tronconi e, così, si perde inevitabilmente la visione del fenomeno. Come vent'anni fa... le indagini si disperdono in mille canali e intanto Cosa Nostra si è riorganizzata, come prima, più di prima... Ho la spiacevole sensazione che qualcuno voglia tornare indietro".
Reazioni? Sì, ma contro...Borsellino. Il Csm apre un procedimento para-disciplinare, perché le sue denunzie non hanno seguito le vie istituzionali (la prova che se c'è un servizio da rendere anche i burocrati più ottusi sanno lavorare di fantasia). Ma i giochi ormai sono fatti: il pool è morto. Abbasso Falcone e viva la mafia.
In conclusione, a quelli della mia generazione che l'hanno dimenticato e ai giovani che non lo sanno, diciamo che Falcone e Borsellino, se oggi - da morti - sono giustamente osannati, furono invece umiliati e discriminati quando erano vivi. Vivi e scomodi. Perciò maltrattati.
Gian Carlo Caselli per “La Stampa” il 23 maggio 2022.
L'anniversario della morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e di Paolo Borsellino (19 luglio) ci interpella sull'eredità delle vittime di mafia. Lo storico Salvatore Lupo sostiene che dal loro martirio nasce la sorpresa che in un'Italia senza senso della patria e dello stato, ci siano soggetti disposti a morire per il loro dovere, per questa patria e per questo stato.
Prende così forma l'idea (di per sé paradossale) delle vittime di mafia come rivoluzionari, in quanto operatori di legalità. Viviamo in un Paese nel quale agli occhi dei cittadini lo stato si manifesta anche con i volti impresentabili di personaggi che con il malaffare hanno scelto di convivere. La vittime di violenza mafiosa, a fronte di ciò, sono state soprattutto straordinari costruttori di credibilità e rispettabilità.
Vale a dire che operando come hanno operato in vita, e sacrificandosi fino alla morte, hanno restituito lo stato alla gente, che così riesce a dare un senso alle parole, altrimenti vuote, «lo stato siamo noi». Alla riflessione di Lupo faccio seguire una domanda: perché sono morti Falcone, Borsellino e tanti altri, vittime innocenti della criminalità mafiosa?
Prima di tutto, va da sé, perché la mafia li ha uccisi. Ma anche perché noi non siamo stati abbastanza "vivi". Loro hanno visto la violenza, l'illegalità, l'ingiustizia, lo scempio della democrazia, la compravendita di voti... E non si sono tirati indietro. Hanno continuato a fare il loro dovere ben conoscendone i rischi. E noi? Noi stato, noi chiesa, noi cittadini troppe volte non siamo stati abbastanza "vivi".
Nel senso che non ci siamo indignati abbastanza pur vedendo le stesse lordure contro cui Falcone, Borsellino e gli altri si battevano. Abbiamo preferito subire il giogo del facile compromesso, ci siamo accontentati del quieto vivere. E non essendo abbastanza "vivi", Falcone, Borsellino e gli altri li abbiamo sovraesposti. Lasciati soli. I «professionisti dell'antimafia» La storia di Falcone e Borsellino, per altro, è anche storia di aggressioni e calunnie. Come parte del pool antimafia creato da Rocco Chinnici, e perfezionato da Nino Caponnetto, essi furono decisivi nell'organizzare e condurre in porto il capolavoro investigativo-giudiziario chiamato "maxiprocesso".
Nel rispetto delle regole, vengono condannati a pene pesanti mafiosi di ogni ordine e grado, dai capi ai soldati. Mai successo, in pratica, prima di allora. La fine del mito dell'invulnerabilità di Cosa nostra, della sua eterna sostanziale impunità.
A questo punto però succede una cosa scandalosa. La mafia è una minaccia per la liberà e la democrazia. Falcone e Borsellino riescono a sconfiggerla rendendo un servizio all'intero Paese (era già chiaro che il problema si estendesse oltre la Sicilia). Ma invece di aiutarli ad andare avanti, professionalmente parlando li hanno spazzati via con una tempesta di polemiche diffamatorie ma efficacissime, che purtroppo vanno a bersaglio.
Si comincia con «professionisti dell'antimafia», sinonimo di carrieristi a spese di coloro che non avevano avuto la "fortuna" di fare processi di mafia. Si prosegue con «uso spregiudicato dei pentiti» ( Falcone che portava i cannoli a Buscetta, per creare un rapporto intimo e fargli dire quel che voleva). E poi «uso distorto della giustizia per fini politici di parte» (un refrain sempre verde).
Alla fine il pool viene cancellato e con lui il suo metodo di lavoro vincente. Il contrasto alla mafia - commenta Borsellino - arretra di una ventina d'anni.
In questa storia non si può non ricordare il ruolo avuto anche dal Consiglio superiore della magistratura. Dovendo nominare il successore di Caponnetto, la maggioranza del Csm non sceglie il campione dell'antimafia, cioè Falcone. Nomina un magistrato, Antonino Meli, poco esperto di mafia, che rispetto a Falcone aveva il vantaggio di essere molto più anziano di carriera.
Dirà Borsellino, dopo la strage di Capaci, che Falcone comincia a morire proprio in questo momento, quando viene umiliato preferendogli un magistrato senza titoli antimafia in una situazione che invece ne esigeva al massimo livello (io ho fatto parte di quel Csm e rivendico con orgoglio di aver sempre votato per Falcone).
La Procura nazionale Ma la storia non finisce qui. Di mortificazioni ne arrivano altre. Corvi e veleni con accuse inaudite si moltiplicano, e alla fine tutte le porte, anche quelle degli uffici giudiziari, vengono chiuse in faccia a Falcone. Che deve cercare una sorta di asilo politico-giudiziario a Roma, presso il ministero. Dove (coraggioso e tenace) continua nel suo impegno antimafia e crea l'antimafia moderna, quella che funziona bene ancora oggi, con la Procura nazionale e le Procure distrettuali antimafia e con la Dia (una specie di Fbi italiana).
Intanto la Cassazione conferma in via definitiva (gennaio 1992) le condanne del maxiprocesso, avallando tutta la ricostruzione fatta dal pool in ordine alla struttura di Cosa nostra e alle responsabilità sia associative sia individuali.
Facciamo il punto. Da un lato c'è Falcone che sta creando l'antimafia moderna; dall'altro c'è la Cassazione che frustra le aspettative di Cosa nostra, che pure aveva cercato in tutti i modi di «appattare» (aggiustare) il processo: un uno-due micidiale che per Cosa nostra è assolutamente intollerabile.
Un uno-due che nella logica criminale di Cosa nostra significa strage. Ecco allora le stragi di Capaci e via d'Amelio, che sono una vendetta postuma di Cosa nostra nei confronti dei suoi peggiori nemici, Falcone e Borsellino; e nel tempo stesso un tentativo di seppellire definitivamente nel sangue il loro metodo di lavoro. Dopo le stragi Falcone e Borsellino diventano eroi, giustamente celebrati come tali. Da tutti. Pure da chi in vita li aveva ostacolati e denigrati. Anche dai "giuda" che in vita avevano tradito Falcone.
Francesco La Licata per “la Stampa” il 23 maggio 2022.
Qualcuno dice che Giovanni Falcone cominciò a morire il giorno stesso in cui la Corte di Cassazione confermava la pesantissima sentenza contro i vertici di Cosa nostra. E fu lui stesso, il giudice, ad accreditare questa deduzione quando, insieme con la gioia per il successo del suo lavoro (e di tutto il pool antimafia), esternò anche il timore per le conseguenze di quel successo. Liliana Ferraro, sua fedele amica e collaboratrice, aveva organizzato un brindisi al ministero della Giustizia e Falcone brindò, ma, lasciandosi andare a un sorriso amaro, aggiunse: «Adesso viene il bello», anticipando - con questo - la certezza che c'era da aspettarsi da Cosa nostra una reazione violenta.
Era il 30 gennaio del 1992 e l'intera direzione strategica della mafia veniva annullata dai 19 ergastoli inflitti dalla Suprema Corte. Ciò potrebbe esser considerato un ottimo movente per una strage come quella di Capaci, ma solo se si pensa che quel tritolo sia stato fatto esplodere per esigenze di vendetta. Noi, però, sappiamo che non è così e lo sanno anche gli investigatori che in questi ultimi anni hanno scandagliato la storia di Giovanni Falcone, fino alla sua clamorosa eliminazione.
La vendetta, nelle grandi storie di mafia, è solo una parte del movente. Una parte minoritaria: il grosso delle motivazioni vanno sempre cercate nella necessità di Cosa nostra di prevenire il peggio, di proteggere interessi innominabili, alleanze insane e tutelare le identità di grossi nomi del potere coinvolti nelle trame oscure.
La strage di Capaci non fa eccezione e non può essere analizzata fuori contesto rispetto a quanto era avvenuto prima di quel 23 maggio 1992 e quanto avverrà dopo con il replay di via D'Amelio e successivamente ancora con gli attentati di Roma, Firenze e Milano.
Già, perché dopo trent' anni si può pacificamente affermare che lo stragismo mafioso è un unicum, un pozzo nero che decine di processi hanno appena sfiorato consegnando alla giustizia la manodopera, ma non le menti pensanti, i burattinai che dirigevano la compagnia al completo. Le «menti raffinatissime» evocate dallo stesso Falcone all'indomani dell'attentato (fallito) organizzato, il 21 giugno 1989, per uccidere lui e i colleghi svizzeri (Carla del Ponte e Claudio Lehmann) ospiti nella sua villa all'Addaura.
L'attentato fallito Ecco, quell'attentato - fallito per una serie di imprevisti e forse per l'intervento di "spie buone" che neutralizzarono "spie cattive" - può esser considerato una tappa di avvicinamento all'annientamento di un giudice sempre mal sopportato dai padroni del vapore che lo sentivano come una minaccia alla strategia del quieto vivere che governava la brutta politica, la cattiva economia e i soldi facili del narcotraffico di Cosa nostra.
I 58 candelotti di dinamite collocati sulla scogliera davanti al patio della villa avrebbero dovuto funzionare come una conferma al fango e ai veleni anticipati in alcune lettere anonime (le lettere del Corvo). L'amanuense (o gli amanuensi) accusava Falcone e il poliziotto Gianni De Gennaro di aver utilizzato il collaboratore Totuccio Contorno come killer di Stato, nel tentativo di far uscire allo scoperto l'allora superlatitante Totò Riina. La bomba, dunque, altro non sarebbe stata che la chiusura del cerchio: Falcone scorretto assassinato a causa delle proprie scelte illegittime.
Il risultato sarebbe stato, dunque, di offrire all'opinione pubblica un giudice morto ma non da eroe. Un doppio omicidio: annientamento fisico e delegittimazione morale.
Ovviamente non si poteva avallare la tesi di un errore di Cosa nostra e allora la disinformazione delle «menti raffinatissime» mise in rete la falsa notizia che l'attentato non era fallito, ma era stato pensato (dallo stesso Falcone) per non fare vittime. Insomma l'attentato se l'era fatto Falcone per fare carriera.
Le indagini dicono altro: per esempio che Alberto Di Pisa, il collega di Falcone individuato come autore dell'anonimo, non aveva scritto quelle lettere, anche se sulla busta era stata trovata una porzione di impronta sua recuperata, però, dal bicchiere dell'aperitivo offertogli "amichevolmente" dall'Alto commissario per la lotta alla mafia.
Le indagini dicono ancora che sulla scena dell'attentato all'Addaura potrebbe essere stato presente l'agente Nino Agostino (successivamente ucciso insieme con la moglie incinta), agente a mezzo servizio con il Sisde, che potrebbe essere il poliziotto buono che Falcone indicherà come «quello che mi ha salvato la vita». E a mare, vicino agli scogli, c'era anche un mafioso che pare non sia riuscito ad azionare il telecomando perché sbalzato goffamente fuori dal canotto nel momento culminante. Di lui si sono trovate tracce del Dna recuperato su un asciugamano abbandonato. E tanti approfondimenti andrebbero fatti ancora per meglio chiarire il ruolo svolto in quel periodo dal commissariato di San Lorenzo dove prestava servizio l'agente Agostino e un altro giovane collaboratore del Sisde, Emanuele Piazza, impiegato nella caccia ai latitanti. Anche lui sarà ucciso.
Un bell'intreccio dentro quel commissariato, frequentato pure da simpatizzanti del terrorismo neofascista del calibro di Alberto Volo, il preside che racconterà a Falcone l'esistenza di una Universal Legion, un'organizzazione paramilitare vicina alla Nato, molto simile a quella Gladio, rivelata da Giulio Andreotti, che molto aveva incuriosito il giudice istruttore palermitano mentre indagava sull'assassinio del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. Falcone aveva dato molto credito alla pista nera per l'omicidio Mattarella. Fino a convincerlo, come ha recentemente rivelato Pino Arlacchi nel suo libro dedicato a Falcone, Giovanni e io (Chiarelettere), che la morte del «democristiano perbene» fosse addirittura «un caso Moro bis».
Il filo nero La convinzione che guidava le ricerche del giudice era che ci fosse sempre stato un filo che legava Cosa nostra, i servizi segreti e le organizzazioni terroristiche di estrema destra. Con una mente politica in grado di indirizzare l'attività dei servizi in chiave ovviamente filoatlantica e di argine al pericolo comunista. Il ruolo che in Europa aveva ricoperto Gladio. Mafia e neri, dunque, avrebbero avuto negli anni il ruolo di "service" a disposizione degli agenti segreti per le operazioni non propriamente legali.
In qualche occasione Falcone aveva ricordato come esistessero precedenti in quel senso: gli attentati della notte di Capodanno 1971 (cinque bombe al comune e in alcuni assessorati) con esplosivo compatibile con quello a disposizione della famiglia Madonia di san Lorenzo; il coinvolgimento della mafia nel tentativo del golpe Borghese (1980), gli attentati ai tralicci dell'Enel compiuti dai neofascisti in modo che fossero attribuiti alla sinistra. Per non parlare del coinvolgimento della mafia (la condanna a Pippo Calò, il cassiere di Cosa nostra) negli attentati ai treni e persino nella strage di Bologna.
Non è esagerato dire che questo filone, insieme con l'attività storica di Giovanni Falcone sul terreno della lotta al narcotraffico, al riciclaggio e agli scandali degli appalti che coinvolgevano anche grandi imprese del Nord (il giudice disse durante un convegno: la mafia è entrata in Borsa, alludendo alla Calcestruzzi di Gardini che aveva nel proprio gruppo dirigente siciliano un emissario di Totò Riina), rappresenti il cuore dei tanti motivi che il potere aveva di liberarsi di Giovanni Falcone.
I soldi del narcotraffico Per anni politica e grande finanza hanno monitorato l'attività del giudice, sin da quando aveva rotto la consuetudine di star lontano dalle banche ed aveva preso a cercare lì i soldi che provenivano dal narcotraffico. Era l'inizio degli anni Ottanta e Falcone dava molto fastidio. Diede fastidio a Vito Ciancimino (Arlacchi ci conferma che il giudice sapesse dell'appartenenza a Gladio dell'ex sindaco democristiano), fece irritare parecchio i potenti esattori Nino e Ignazio Salvo che si adoperarono, senza riuscirci, per farlo trasferire. Le lettere del Corvo certamente furono parte di questo progetto abortito. E quando Falcone vince e si appresta a prendere il posto di capo della Procura nazionale antimafia non esitano ad eliminarlo fisicamente: la soluzione finale.
Ecco il movente preventivo, sempre presente nelle grandi storie di mafia. E poi bisognava interrompere il filo che aveva portato il giudice a incuriosirsi per la Gladio. Aveva provato ad entrare negli archivi ma glielo impedì il suo capo di allora, il procuratore Pietro Giammanco. La curiosità tuttavia era rimasta, come dimostra una sua audizione in Commissione antimafia di recente desecretata. Era il 22 giugno 1990 e Falcone dice in Parlamento che per l'omicidio di Piersanti Mattarella è accertata la presenza di mandanti esterni alla mafia. Tutto quello che accadrà dopo in Italia, dalle stragi alla trattativa, non può trovare spiegazione senza il presente prologo.
Dagospia il 23 maggio 2022. Da "Un giorno da pecora"
“Io da sempre continuo a cercare la verità, è un impegno che presi davanti alle loro bare, avvolte dal tricolore e dalle loro toghe. Io ho dato il mio contributo all'accertamento della verità quando ero magistrato, convincendo molti mafiosi a pentirsi a passare dalla parte dello Stato. Sono arrivato via via a mettere insieme brandelli di verità ma sono ancora convinto che quella convergenza di interessi, quella mano esterna..."
Così a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, il senatore ed ex magistrato Pietro Grasso, intervistato da Giorgio Lauro e Francesca Fagnani in occasione del trentennale delle stragi palermitane. Da dove arrivava quella 'mano esterna? “Falcone li definiva 'poteri occulti', con queste parole comprendeva politica, imprenditoria, affaristi e anche la massoneria”.
La verità non è ancora stata trovata quindi? “Avremmo bisogno di un pentito di questa parte esterna. Tutti i mafiosi che hanno collaborato – ha detto Grasso a Rai Radio1 - ci hanno detto ad esempio che prima delle stragi sia Riina che Provenzano avevano consultato 'persone importanti', ma non ci hanno saputo dire quali fossero”.
Report, perquisizioni in redazione e a casa del giornalista Mondani: "Si indaga sui legami tra mafia ed estrema destra nell'attentato a Falcone". La Repubblica il 24 maggio 2022.
Nella trasmissione andata in onda ieri sera su Rai Tre veniva evidenziata la presenza del leader di Avanguardia nazionale, Stefano delle Chiaie, sul luogo dell'attentato di Capaci. Morra, commissione Antimafia: "Non va bene".
Perquisizioni nella redazione del programma Rai Report e nell'abitazione dell'inviato della trasmissione Paolo Mondani. Questa mattina la Direzione investigativa antimafia, su mandato della procura di Caltanissetta, ha bussato alle porte della trasmissione d'inchiesta andata in onda ieri sera su Rai Tre e dell'inviato autore del servizio "La bestia nera", durante il quale Report ha provato a ricostruire, a 30 anni di distanza, i legami tra estremisti di destra e uomini di mafia nell'omicidio di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, e degli uomini della scorta.
A dare notizia delle perquisizioni è stato Sigfrido Ranucci, conduttore e autore di Report, vicedirettore di Rai Tre. Il motivo delle perquisizioni, scrive Ranucci su Twitter, "sarebbe quello di sequestrare atti riguardanti l'inchiesta di ieri sera sulla strage di Capaci nella quale si evidenziava la presenza di Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, sul luogo dell'attentato di Capaci. Gli investigatori cercano atti e testimonianze su telefonini e Pc.
"Questo non va bene", è stato il commento a caldo di Nicola Morra, presidente della commissione parlamentare Antimafia.
Strage di Capaci, blitz della Dia nella redazione di Report. E Morra si “oppone”: «Non va bene…». Gli investigatori sono entrati anche a casa del giornalista Paolo Mondani che ha realizzato il servizio sul presunto coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie nell'evento mortale che portò all'uccisione di Giovanni Falcone. Il Dubbio il 24 maggio 2022.
È in corso una perquisizione della Dia «su mandato della Procura di Caltanissetta, presso l’abitazione dell’inviato di Report Paolo Mondani» e la redazione dei Report di Sigfrido Ranucci. A darne notizia è lo stesso giornalista Ranucci che ieri ha condotto la trasmissione. «Il motivo – dice Ranucci – sarebbe quello di sequestrare atti riguardanti l’inchiesta di ieri sera sulla strage di Capaci nella quale si evidenziava la presenza di Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, sul luogo dell’attentato di Capaci». «Gli investigatori cercano atti e testimonianze su telefonini e Pc», dice.
Perquisizioni della Dia nella redazione di Report, parla Morra
«Questo è….e non va bene». Così, il Presidente della Commissione nazionale antimafia Nicola Morra commenta la perquisizione, ancora in atto, della Dia nella redazione di Report e presso l’abitazione dell’inviato Paolo Mondani, dopo la puntata di ieri sera sulla strage di Capaci e il presunto coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie.
L’ANTEPRIMA DI REPORT. A preparare l’attentato a Falcone c’era anche il terrorista nero Delle Chiaie. GIULIA MERLO su Il Domani il 23 maggio 2022
Nella puntata di Report in onda stasera, lunedì 23 maggio, alle ore 21.20, si mostra come, a trent’anni di distanza dalla strage di Capaci, la pista mafiosa e quella nera si potrebbero sovrapporre
A trent’anni di distanza dalla strage di Capaci, la pista mafiosa e quella nera si potrebbero sovrapporre.
A farlo emergere - in una inchiesta di Report a firma di Paolo Mondani in onda questa sera (lunedì 23 maggio alle ore 21.20) e che Domani è in grado di anticipare - sono i contenuti di informative di polizia, dichiarazioni di pentiti ascoltate in altri processi e parole inedite di testimoni.
Uno dei profili fondamentali è quello di Mariano Tullio Troia, soprannominato U'Mussolini per le sue simpatie politiche, uno dei boss mafiosi di Palermo.
Il suo autista e guardaspalle si chiama Alberto lo Cicero, informatore della polizia e poi pentito. Secondo quanto racconta a Report l’ex brigadiere Walter Giustini, che di Lo Cicero era il contatto, l’informatore mette le forze dell’ordine sulla strada giusta per catturare Totò Riina già nel 1991, pochi mesi prima della strage di Capaci e due anni prima del suo arresto.
Giustini, infatti, racconta che Lo Cicero lo avvisò di aver notato, durante le riunioni dei vertici di Cosa Nostra nella proprietà di Troia, «Totò Riina veniva accompagnato da Biondino Salvatore». Biondino, di cui i carabinieri avevano tutti gli indirizzi e avrebbero potuto pedinare. Ma nulla sarebbe accaduto dopo questa informativa.
Non solo: Lo Cicero abita a Capaci e avverte anche di aver notato «la presenza di personaggi di spicco di Cosa Nostra che secondo lui non avrebbero avuto motivo di essere lì se non perché doveva succedere un qualcosa di eclatante», riferisce il brigadiere Giustini. Anche questo, però, secondo Report sarebbe caduto nel nulla.
IL RUOLO DI DELLE CHIAIE
Dalle parole di Lo Cicero emerge anche altro. Nel servizio di Report lo racconta Maria Romeo, compagna di Lo Cicero, che parla della presenza a Capaci di Stefano Delle Chiaie.
Il capo di Avanguardia Nazionale, coinvolto nel tentato golpe Borghese, nei processi per le stragi di Piazza Fontana e della stazione di Bologna, è stato collocato dal pentito sul luogo della strage che uccide il giudice Falcone.
Delle Chiaie, infatti, incontra il boss Troia e, secondo quanto Lo Cicero dice alla compagna, sarebbe stato «l’aggancio fra mafia e lo Stato», spedito in Sicilia «con il mandato di “quelli di Roma”». Maria Romeo dice che Lo Cicero ha fatto un sopralluogo con Delle Chiaie «dove c’era un tunnel a Capaci», ovvero dove poi sarebbe stato messo il tritolo per colpire la macchina di Falcone.
Dalla ricostruzione di Report, però, i colloqui investigativi di Giustini non vengono tenuti in considerazione. L’unico a farlo, dopo la morte dell’amico, è Paolo Borsellino che sta indagando in via riservata. Maria Romeo, infatti, racconta di aver accompagnato Lo Cicero (nel frattempo entrato nel progrmma di protezione testimoni) nell’ufficio del giudice, dove i due si sono trattenuti per quattro ore e il pentito gli ha confidato anche della presenza di Delle Chiaie a Capaci.
Borsellino non fa in tempo a fare nulla: il 19 luglio, viene eliminato nella strage di via D’Amelio. Solo un anno dopo la morte di Falcone, invece, Antonino Troia è tra i mafiosi a finire in carcere per la strage.
Nel maggio 1999, il rapporto di Delle Chiaie con la mafia spunta anche nelle parole di un altro collaboratore, il messinese Luigi Sparacio, ascoltato dal magistrato Gabriele Chelazzi che stava indagando sulle bombe di Roma del 1933 e sulle stragi di Firenze e Millano. Sparacio rivela al magistrato di aver incontrato a Roma il capo di Avanguardia nazionale, il quale «Dava delle strategie politiche da seguire a “cosa nostra” e che consegnò una mappa dell'Italia con dei "segni fatti con la x» che rappresentavano «degli attentati da fare».
Se le testimonianze raccolte da Report fossero confermate, il quadro sarebbe quindi inedito: Delle Chiaie si sarebbe comportato in Sicilia negli anni Novanta nello stesso modo con cui si era relazionato con la ‘ndrangheta nell’ottobre del 1969, quando si era recato in Aspromonte insieme al leader di Ordine Nuovo Pierluigi Concutelli e l’ex gerarca fascista Junio Valerio Borghese, per partecipare a un summit dei boss calabresi. Il suo ruolo, infatti, sarebbe stato quello di supervisore della strage di Capaci e di suggeritore delle bombe del 1993.
LA STRATEGIA STRAGISTA
Agli inizi degli anni Novanta, inoltre, Delle Chiaie si butta in politica con il progetto delle Lege meridionali e questo gli dà modo di muoversi sull’isola. Non solo per la politica, però. Secondo le testimonianze di Report anche per svolgere riunioni segrete per organizzare le stragi: insieme a lui, che rappresentava la destra eversiva, ci sarebbero stati con la cupola di Cosa Nostra e uomini della P2 di Licio Gelli.
Nella strategia di destabilizzazione degli anni Novanta, infatti, Report ricostruisce anche la possibile presenza dei servizi segreti. A partire dalla strage di Capaci: l‘ex agente di polizia penitenziaria ed ex membro della famiglia Madonia, Pietro Riggio, rivela infatti il coinvolgimento di uomini dei servizi segreti nella strage. In particolare, parla di un agente dei servizi segreti, Giovanni Peluso, indagato come "compartecipe ed esecutore materiale" della strage.
La compagna Marianna Castro racconta a Report che il militare sarebbe sparito per tre giorni a cavallo della strage e che poi le avrebbe confessato che a uccidere Falcone erano stati i servizi segreti. Del dipartimento dove lavorava il compagno, dice: «La politica li chiamava quando c’era qualcuno che dava fastidio e loro intervenivano facendo pulizie».
Coincidenze, informative non utilizzate e verbali mai incrociati: in queste pieghe, secondo Report, potrebbero nascondersi i segreti del livello superiore rispetto agli esecutori materiali della strage di Capaci. Del resto, dopo il fallito attentato dell’Addaura era stato lo stesso Falcone a voler guardare oltre, dicendo che, per capire le ragioni di chi aveva provato ad ucciderlo, bisognava pensare all’esistenza di «centri occulti di potere in grado di orientare certe azioni della mafia». GIULIA MERLO
La bestia nera. Report Rai PUNTATA DEL 23/05/2022 di Paolo Mondani
Collaborazione di Marco Bova, Roberto Persia
Consulenza di Andrea Palladino
A 30 anni dalla morte di Giovanni Falcone, emergono documenti e protagonisti dimenticati in grado di gettare una nuova luce su quei fatti.
A Capaci, Cosa Nostra non ha agito da sola: estremisti di destra e uomini di mafia, secondo testimoni e documenti ritrovati, sarebbero stati di nuovo insieme, dopo gli anni della strategia della tensione, in un abbraccio mortale costato la vita ai giudici Falcone e Borsellino. I due magistrati avevano il quadro completo, e oggi, tornando ad ascoltare collaboratori ed ex carabinieri, Report prova a ricostruirlo.
LA BESTIA NERA di Paolo Mondani Collaborazione Marco Bova, Roberto Persia Consulenza Andrea Palladino Videomaker Dario D'India, Davide Fonda, Alessandro Spinnato e Andrea Lilli
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Capaci 23 maggio come via D'Amelio 19 luglio. Sono passati trent'anni. Storici e magistrati hanno letto i fatti della strategia della tensione degli anni '70 e '80 distinguendoli dalle stragi di mafia dei primi anni '90. Oggi scopriamo invece che gli uomini dell'eversione di destra, dei depistaggi degli apparati deviati dello Stato, della massoneria piduista potrebbero non essere estranei ai morti di trenta anni fa. E dei mandanti cominciamo a scorgere l'identikit. Ben oltre Totò Riina.
PAOLO MONDANI Falcone dopo l’Addaura parla di menti raffinatissime, che avevano organizzato quell’attentato. In realtà, noi conosciamo e rappresentiamo solo quella frase, ma la frase è più lunga.
ROBERTO TARTAGLIA VICE CAPO DAP - EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATOMAFIA È esattamente così perché dice "ho la sensazione – vado quasi a memoria – che per comprendere le ragioni che hanno portato qualcuno a decidere e a pensare di eliminarmi bisognerà pensare all’esistenza di – e questo è testuale – centri occulti di potere in grado di orientare certe azioni della mafia”.
GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO DI REGGIO CALABRIA Le dico sinceramente che bisogna anche abbandonare una ipocrisia di fondo che spesso e volentieri ruota attorno al concetto di zona grigia che è un concetto che non mi convince. Io sono assolutamente convinto che quello che è il grigio in questo caso è una sfumatura del nero è il nero è mafia.
ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Emergono sempre di più momenti di connessione tra delitti eccellenti e stragi imputate alla mafia nel 1992-93 e stragi che sono imputate all’estremismo di destra, in collaborazione con esponenti della P2 e dei servizi segreti al nord ed è per questo che la Corte d’assise di Bologna cita Falcone, il quale Falcone in una audizione del 1988 alla Commissione parlamentare Antimafia dice, forse dovremmo rileggere tutta la storia italiana.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ci si è guardati bene dal rileggere la storia italiana. La storia delle stragi. Giovanni Falcone aveva rilasciato in alcune audizioni della Commissione Antimafia dell’88 e del ‘90 alcune dichiarazioni a lungo segretate in base alle quali proponeva appunto di rileggere la storia degli omicidi eccellenti e delle stragi in Sicilia. Lui era rimasto folgorato dalla morte, dall’uccisione, di Piersanti Mattarella, fratello del presidente, un politico che aveva cercato di rivoluzionare la politica regionale siciliana. Aveva abbracciato la linea di Aldo Moro, quella del compromesso storico, in contrapposizione con le correnti della Dc di Salvo Lima, Andreotti e Forlani. Mattarella sarebbe diventato dà la a poco probabilmente vicesegretario nazionale, perché c’era il congresso e forse per questo andava eliminato immediatamente. Falcone non credeva che fosse opera esclusivamente della mafia. Aveva raccolto testimonianze in base alle quali Licio Gelli sarebbe stato il mandante, gli esecutori invece membri dei Nuclei Armati Rivoluzionari, Giusva Fioravanti e Cavallini cioè gli stessi che poi verranno coinvolti nella strage di Bologna. Una pista quella investigativa di Falcone, che è rimasta però in sospeso ma dai verbali dimenticati emerge che Falcone e Borsellino stavano realmente indagando e credevano a un ruolo della massoneria deviata, della P2, di gladio, della destra eversiva un ruolo nelle stragi e negli omicidi eccellenti avvenuti per opera della mafia in Sicilia. È una realtà che sta emergendo con prepotenza dalle carte del processo di primo grado sui mandanti della strage di Bologna dove si ipotizza anche che alcuni membri dei movimenti disciolti di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo si fossero poi uniti a quelli dei Nar per realizzare attentati e omicidi con il fine di destabilizzare il Paese. Il nostro Paolo Mondani ha raccolto delle testimonianze che vi proponiamo in esclusiva che confermerebbero che la pista della destra eversiva è perfettamente sovrapponibile a quella della mafia, per quello che riguarda se non altro gli attentati, l’attentato a Capaci. Ha raccolto la testimonianza dell’ex brigadiere Giustini che aveva a sua volta raccolto la confidenza di Alberto Lo Cicero, che era l’autista di un boss molto rispettato dell’organizzazione mafiosa, e Lo Cicero dice che Riina si sarebbe potuto catturare prima delle stragi. Lo Cicero racconta anche di un sopralluogo prima della strage di Capaci del leader di Avanguardia Nazionale, Stefano Delle Chiaie.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Dopo la morte di Giovanni Falcone ci si è guardati bene dal rileggere la storia italiana, eppure sotto montagne di carte sta riemergendo una vicenda straordinaria. Da vecchi archivi stanno emergendo verbali colpevolmente scomparsi per decenni, come quelli riguardanti un pentito pressoché sconosciuto: Alberto Lo Cicero. Autista e guardaspalle del boss Mariano Tullio Troia, Lo Cicero nel 1991, a pochi mesi dalla strage di Capaci, mette sulla strada giusta un brigadiere dei carabinieri, raccontandogli come catturare nientemeno che Totò Riina.
WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Ci disse che lui partecipava a degli incontri perché lui faceva l’autista all’altro boss Troia Mariano Tullio e notava che quando c ’erano queste riunioni nella proprietà del Troia, Totò Riina veniva accompagnato da Biondino Salvatore.
PAOLO MONDANI Quando fa l’informativa nella quale fa sapere ai suoi superiori che Biondino era l’autista di Totò Riina?
WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Prima delle stragi.
PAOLO MONDANI Se avessero dato ascolto a questo Lo Cicero...
WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Certo.
PAOLO MONDANI Si sarebbe potuto arrestare Riina prima della strage di Capaci.
WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Riina, non solo. Pochi giorni prima della strage di Capaci mi disse che aveva notato a Capaci, perché Lo Cicero abitava a Capaci, la presenza di personaggi di spicco di Cosa Nostra che secondo lui non avrebbero avuto motivo di essere lì se non perché doveva succedere un qualcosa di eclatante.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO I magistrati di Palermo non credono subito a Lo Cicero e Riina verrà catturato solo il 15 gennaio del 1993. Lo Cicero parla ai carabinieri da fine '91 e continua per qualche mese, da infiltrato, a fare l'autista di Mariano Tullio Troia, boss di San Lorenzo e componente della cupola di Cosa nostra che verrà catturato nel 1998. Lo Cicero racconta che Riina lo rispettava al punto da abbassare gli occhi quando lo incontrava. Ma chi era Mariano Tullio Troia?
ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Il collaboratore Onorato ha riferito che nel villino di Mariano Tullio Troia ci furono delle riunioni in cui si discusse l’attentato all’Addaura a Giovanni Falcone. E da altre risultanze risulta che Mariano Tullio Troia era uno dei personaggi più vicini alla destra eversiva tanto che veniva soprannominato U ’Mussolini, il Mussolini.
PAOLO MONDANI Poi lo Cicero le parla di un personaggio che incontra in quei mesi, che conosce forse in quel periodo, che è Stefano delle Chiaie.
WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE DEI CARABINIERI PALERMO A noi di Stefano delle Chiaie ce ne ha parlato prima la Romeo.
PAOLO MONDANI Si, che era la fidanzata di Lo Cicero.
WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Esatto. Mi ha detto: “è ma è molto amico di mio fratello”, si vabbè dai, mo conosci Stefano Delle Chiaie te? E lei mi ha detto. “guarda io c’ho anche delle foto” e mi fornì delle foto in bianco e nero, che raffiguravano Stefano Delle Chiaie insieme al fratello della Romeo, Domenico Romeo, seduti a un tavolo come se parlassero a un pubblico, come se fosse un convegno, un incontro.
PAOLO MONDANI E Lo Cicero le parla di Delle Chiaie?
WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO So che è amico del fratello di Maria, ogni tanto l’ho visto qui a Capaci però….
PAOLO MONDANI Delle Chiaie veniva a Capaci?
WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Lui lo aveva visto un paio di volte pure a Capaci. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stefano delle Chiaie è stato il capo di Avanguardia Nazionale, coinvolto nel tentato golpe Borghese, indagato e prosciolto nei processi sulle stragi di Piazza Fontana e della stazione di Bologna. Esperto di guerra non ortodossa e guerriglia urbana. Vincenzo Vinciguerra, all'ergastolo per strage, è stato un fedelissimo amico di delle Chiaie e ha parlato dei suoi rapporti con la P2 di Licio Gelli e con i servizi segreti.
PAOLO MONDANI Stefano delle Chiaie ha mai avuto relazioni con Cosa Nostra? Con uomini di Cosa Nostra?
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE A me è rimasto sempre un dubbio. Quando nell’estate, nel luglio del '79 eravamo in difficoltà io e Stefano, era difficile anche trovare un posto dove fare la latitanza, dove stare. A un certo punto lui mi dice “al limite andiamo a Caltanissetta a trovare una persona”, in tutti questi anni io ho cercato a Caltanissetta se c’era un camerata, non ho trovato un solo nome. Comunque, è chiaro che Stefano, come tutti quelli dell’estrema destra, perché non dobbiamo personalizzare, il rapporto con la criminalità organizzata è stato sempre costante. È stato costante con la mafia, io ho parlato dei rapporti con Frank Coppola, quelli li avevano chiaramente i rapporti con Frank Coppola. Io dico che l’estrema destra non è stata mai una forza di opposizione allo Stato, l’estrema destra è stata una forza di appoggio allo Stato. Ha fatto ciò che gli apparati ufficiali dello Stato non potevano fare.
PAOLO MONDANI Lei ha scritto che Stefano delle Chiaie aveva una massa di informazioni impressionante, ma chi gliele dava queste informazioni? Per farne che cosa?
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Avanguardia Nazionale era un’organizzazione come Ordine Nuovo preposta alla raccolta di informazioni, per questo infiltrava anche i propri uomini in altri partiti e in altre organizzazioni. È chiaro che queste informazioni affluivano all’apparato di riferimento.
PAOLO MONDANI Le passava ai servizi, insomma, per intenderci.
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Ovvio.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Molti collaboratori hanno riferito di stretti legami di Delle Chiaie con la ‘ndrangheta. Anche l’ex compagna di lo Cicero ci conferma i contatti con la mafia e parla di uno Stefano Delle Chiaie a Capaci prima della strage del 23 maggio.
PAOLO MONDANI Alberto Lo Cicero racconta che Stefano Delle Chiaie lo accompagna da Mariano Tullio Troia che era il boss di …
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO …di Palermo, sì. Sì, ma da Alberto l’ho saputo perché Alberto mi raccontava tutto.
PAOLO MONDANI Alberto Lo Cicero accompagna Stefano delle Chiaie a Capaci nell’area che poi sarà di interesse per la strage.
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Glielo ho detto prima se non mi sbaglio che Alberto ha fatto un sopralluogo con queste persone dove c’era un tunnel a Capaci.
PAOLO MONDANI Il tunnel dove hanno messo la bomba?
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Si perché poi io ne ho parlato con i carabinieri, ho menzionato tutte queste persone.
PAOLO MONDANI Mi spieghi cosa le ha detto Alberto rispetto al ruolo di Stefano delle Chiaie nella preparazione di quell’attentato.
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Alberto pensava che Stefano delle Chiaie era l’aggancio fra mafia e lo Stato.
PAOLO MONDANI Cioè Alberto le disse che Stefano delle Chiaie aveva il ruolo di …
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO …di portavoce di quelli di Roma.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Siamo a fine maggio del 1992, tra la strage di Capaci e quella di Via D'Amelio. Lo Cicero sta entrando nel programma di protezione e viene convocato da Paolo Borsellino che riservatamente indaga sulla morte dell'amico Giovanni.
PAOLO MONDANI Dove avviene quell’incontro?
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO A Palazzo di Giustizia.
PAOLO MONDANI Verso che ora?
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Verso le 19:00.
PAOLO MONDANI Per quanto tempo sta con Borsellino?
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Me lo ricordo perfettamente, verso mezzanotte è uscito.
PAOLO MONDANI E lei l’aspettava in macchina…
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO No, no io aspettavo fuori la stanza seduta in una poltrona.
PAOLO MONDANI Cosa aveva voluto sapere Borsellino?
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Chi erano le persone che lui aveva visto a Capaci, con chi aveva parlato.
PAOLO MONDANI Quindi Alberto Lo Cicero, mi conferma gli parlò di Stefano delle Chiaie?
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Si parlò di Stefano delle Chiaie.
PAOLO MONDANI Ma questo a lei lo disse Alberto Lo Cicero?
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Certo che me l’ha detto.
PAOLO MONDANI Guarda che io a Borsellino gli ho detto di Stefano delle Chiaie.
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO …a me mi ha detto Alberto uscendo di là, strada facendo in macchina, per arrivare che io abitavo a Isola, mi ha detto che gli ha parlato della nuova organizzazione mafiosa che i contatti Roma – Palermo li teneva Stefano delle Chiaie. Diciamo che Borsellino non era nuovo di queste cose. Già forse qualcun altro gli aveva parlato. Alberto ha avuto l’impressione che Borsellino avesse tutto il quadro.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Borsellino aveva il quadro e convocò il brigadiere dei carabinieri Walter Giustini dopo aver letto tutte le sue informative.
PAOLO MONDANI La cosa importante è che Borsellino quando parlate di Lo Cicero, lei Giustini con Borsellino, Borsellino le dice qualcosa….
WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Mi ricordo era verso l’ora di pranzo, era verso mezzogiorno e mi disse: "senti tu stai attento, guardati le spalle perché hai messo le mani su dei personaggi particolari, quindi di solito Cosa Nostra quando tu gli tiri fuori dei personaggi che loro tengono celati reagiscono” e mi disse ”tu sei giovane e ti devi guardare le spalle. Io devo morire, ma tu no perché tu sei giovane e guardati le spalle”. E io gli feci la battuta e dissi: “Dottò, e basta co sto devo morì”, mi disse “dai casomai ci vediamo lunedì, se mi serve qualcosa ti chiamo” e invece purtroppo non ha fatto più in tempo perché la domenica è saltato in aria.
PAOLO MONDANI A un certo punto viene a sapere, lei Giustini, che contro di lei si era messo addirittura Bruno Contrada.
WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Ho saputo che era andato dal mio comandante provinciale, comandante di gruppo all’epoca, a chiedere il mio allontanamento da Palermo perché secondo lui io stavo intralciando delle indagini dei servizi.
PAOLO MONDANI Lei il 23 maggio '92, proprio il giorno della strage, infatti, stava facendo un servizio di osservazione...
WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Lì a Capaci. A Troia Antonino, Sensale, facevamo dei servizi di osservazione dentro Capaci perché non sapendo ancora che sarebbe successa la strage...
PAOLO MONDANI Ma sempre sulla base delle cose dette da Lo Cicero.
WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Da Lo Cicero, da quell’indagine poi dalle intercettazioni telefoniche...
PAOLO MONDANI Si rende conto che stavate sulla pista giusta?
WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Io lo so, che stavamo sulla pista giusta.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma non hanno fatto in tempo. L’ex brigadiere Giustini che ha raccolto la testimonianza del suo confidente Lo Cicero, autista di un boss, Mariano Tullio Troia, tenuto molto in considerazione anche da Riina, chiamato U’Mussolini per le sue simpatie fasciste. Lo Cicero dice, dà delle indicazioni, dice l’autista di Totò Riina è Salvatore Biondino, un’informazione che sarebbe stata fondamentale per poter arrestare Riina prima delle stragi di Capaci e via d’Amelio perché i carabinieri sapevano tutto di Salvatore Biondino e infatti è proprio Biondino che viene arrestato con il capo dei capi nel gennaio del ’93 alla guida della sua auto. Tuttavia, le informazioni di Lo Cicero rimasero lettera morta. Oggi le conferma la sua compagna Maria Romeo, la quale conferma che delle Chiaie è sceso giù in Sicilia, ha incontrato Troia nella sua abitazione, quella dove si sarebbero anche svolte alcune riunioni propedeutiche alle stragi, anche a quell’attentato poi mai realizzato, ma era un’intimidazione dell’Addaura. Poi ha anche confermato che Delle Chiaie ha fatto un sopralluogo a Capaci prima della strage e ha confermato anche che Lo Cicero, il suo compagno avrebbe parlato di tutto questo a lungo con Borsellino. Se queste testimonianze venissero confermate, Delle Chiaie si sarebbe comportato come già si era comportato nell’ottobre del ’69 quando insieme a Concutelli e Junio Valerio Borghese, Concutelli il leader di Ordine Nuovo, si erano recati sull’Aspromonte e hanno partecipato a un summit della ’ndrangheta. I tre avrebbero dovuto portare secondo le testimonianze soldi, armi e competenze per azioni eversive e infatti da lì a poco si sarebbero consumati i moti di Reggio e anche organizzato il fallito golpe borghese. Oggi Delle Chiaie lo ritroviamo invece in Sicilia, secondo la testimonianza di Lo Cicero. Lo Cicero era considerato un collaboratore scomodo anche dall’organizzazione mafiosa. Cosa Nostra voleva ucciderlo e avrebbe anche impiegato un killer d’eccezione, Spatuzza, il killer dei fratelli Graviano. Ma non c’è solo la testimonianza di Lo Cicero, altri parlano dell’attivismo di Delle Chiaie in Sicilia soprattutto negli anni ’90 quando perseguiva un progetto, quello delle leghe teso a balcanizzare il nostro paese e stabilizzarlo. Lungo questo cammino ha trovato anche dei compagni di viaggio pidduisti, commercialisti di stragisti e avvocati legati ai servizi segreti.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Solo un anno dopo la morte di Falcone, Giuseppe Sensale e Antonino Troia, finiranno in carcere per la strage. Perché le informative del brigadiere Giustini non furono tenute nel giusto conto? Ma c'è di più: il 19 maggio 1999, il magistrato Gabriele Chelazzi che indagava sulle stragi di Firenze e Milano e sulle bombe di Roma del 1993 interrogò il pentito messinese Luigi Sparacio, un collaboratore assai controverso, che rivelò che prima di questi attentati si era incontrato a Roma con Stefano Delle Chiaie che: "dava delle strategie politiche da seguire a Cosa nostra” e che consegnò una mappa dell'Italia con dei "segni fatti con la x" che rappresentavano "degli attentati da fare". Delle Chiaie avrebbe quindi fatto da supervisore della strage di Capaci e suggeritore delle bombe del 1993. Chelazzi si fermò ma non conosceva le rivelazioni di Alberto Lo Cicero. Ora facciamo un passo indietro. Siamo nel 1990 e Delle Chiaie si butta in politica ...
PAOLO MONDANI 90-91-92-93… c'è questo fenomeno del leghismo meridionale.
ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 C'era una connessione molto stretta tra un progetto politico iniziale, che era quello di creare un nuovo soggetto politico, la Lega Meridionale, che doveva agire di concerto con la Lega Nord per creare un’ Italia federale nell’ambito della quale il sud deve essere lasciato alle mafie e la strategia stragista di destabilizzazione. Ce lo dicono vari collaboratori di giustizia che ci riferiscono appunto, che questo progetto fu discusso segretamente nel 1991, in tutti i suoi dettagli, che appunto dietro questo progetto c’erano Gelli, la massoneria deviata, esponenti della destra eversiava.
PAOLO MONDANI Anche Stefano Menicacci e Stefano Delle Chiaie entrano in queste formazioni politiche, in questa ondata di leghismo meridionale. Lei ha mai discusso con Delle Chiaie di questa iniziativa? È entrato anche lei in queste iniziative?
ADRIANO TILGHER - EX PRESIDENTE AVANGUARDIA NAZIONALE Io sono entrato nella Lega Nazional popolare, che è la prima lega in Italia.
PAOLO MONDANI E Stefano delle Chiaie addirittura si candidò?
ADRIANO TILGHER - EX PRESIDENTE AVANGUARDIA NAZIONALE Sì.
PAOLO MONDANI E come andarono le lezioni?
ADRIANO TILGHER - EX PRESIDENTE AVANGUARDIA NAZIONALE Male.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La storia di quegli anni la ricorda bene Antonio D'Andrea, vice segretario nazionale della Lega Meridionale Centro Sud e Isole: la più importante di quelle Leghe dove si iscrissero Vito Ciancimino, Licio Gelli, il figlio del "Papa" di Cosa Nostra, Michele Greco, e Pino Mandalari, il commercialista di Totò Riina. Obiettivo: dividere e destabilizzare l'Italia.
ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Questo progetto di divisione dell’Italia non era un progetto massonico, non era un progetto estraneo allo Stato, assolutamente no. Era un progetto nato e partorito all’interno della vita politica italiana istituzionale, quindi di vertice.
PAOLO MONDANI Questo progetto di divisione dell’Italia inizialmente è appoggiato anche da Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, vero?
ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Appunto, e quindi parliamo del Presidente della Repubblica e capo dello Stato e del Presidente del Consiglio.
PAOLO MONDANI Ad un certo punto alla Lega Meridionale centro sud e isole si dice interessato Stefano Delle Chiaie. Perché secondo lei Delle Chiaie era interessato a …..
ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Perché avrà avuto anche lui delle disposizioni.
PAOLO MONDANI Lei immagina da chi?
ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Immagino dai vertici politici dello Stato.
PAOLO MONDANI E a cosa doveva servire Stefano Delle Chiaie in quel movimento? Cioè era uno che era in grado di fare, di mettere a punto una piccola o grande guerra civile nel paese.
ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Perché una nazione si può unificare con la forza, con la violenza. E alla stessa maniera si può dividere con la forza e con la violenza, soltanto così si può arrivare a una divisione
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Tra il '90 e il '91 la Lega Meridionale Centro Sud e Isole cambia nome in Lega Meridionale per l'Unità Nazionale. Da secessionisti diventarono nazionalisti e tutti coloro che volevano dividere l'Italia se ne andarono fondando leghe in tutto il Sud. Stefano Menicacci, parlamentare del Msi e legale di Stefano delle Chiaie, ne fondò dieci dal suo studio di Roma.
PAOLO MONDANI Lei insieme a Stefano delle Chiaie dà vita a una serie di Leghe.
STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Falso, decisamente falso.
PAOLO MONDANI Ma scusi è.. sono tutte, la sede...
STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Glieli racconto io i particolari
PAOLO MONDANI ...la sede sociale di queste leghe è presso il suo studio.
STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Feci una cosa stupida, veramente stupida e cioè feci una lettera "noi sottoscritti dichiariamo di aver creato, di aver costituito la Lega Umbria il giorno tot." Fu tutto al maggio del '90.
PAOLO MONDANI Glielo dico io guardi, a maggio lei fa, 8 maggio fa…
STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Ma sì...
PAOLO MONDANI …la Lega Pugliese, l’11 maggio la Lega Marchigiana,
STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Esatto.
PAOLO MONDANI Il 13 maggio la Lega Molisana.
STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE In una settimana...
PAOLO MONDANI La Lega Meridionale del Sud, la Lega Siciliana.
STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Ero ufficio unico, nel mio studio.
PAOLO MONDANI Fa la Lega del Lazio, la Lega Calabrese, la Lega Siciliana, la Lega della Sicilia e la Lega dell’Umbria. Tutti quanti in dieci giorni.
STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Sì…
PAOLO MONDANI A maggio del 1990.
STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE …perdoni senza un iscritto.
PAOLO MONDANI Nel '90-'91 tutti facevano queste leghe lei compreso.
STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE No, io ce stavo nel '90 con la lettera e basta...
PAOLO MONDANI Ma sembravano tutti impazziti per fare leghe, c'è la mafia che lo fa, Ciancimino...
STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Sì, sì, sì fanno le leghe...
PAOLO MONDANI Licio Gelli...
STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Si erano innamorati delle Leghe...
PAOLO MONDANI E Delle Chiaie, anche Delle Chiaie...
STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Delle Chiaie fa la Lega delle Leghe per suo conto, io non ho mai partecipato a una sua riunione, non ho mai avuto a che fare.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Domenico Romeo, da decenni collaboratore di Stefano Menicacci, afferma però il contrario, e alla fine del 1991 affronta un viaggio pericoloso...
PAOLO MONDANI Accompagnava Stefano delle Chiaie in Sicilia...
DOMENICO ROMEO - COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Sì, per la campagna elettorale.
PAOLO MONDANI Volevo sapere che cosa si ricorda e in che periodo c'era stato?
DOMENICO ROMEO - COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Quando c'è stato il fatto della politica, perché con Menicacci lui era andato sia a Roma alla televisione...
PAOLO MONDANI E dove lo accompagna in Sicilia se lo ricorda?
DOMENICO ROMEO - COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Allora in Sicilia c'era Delle Chiaie in macchina, che io poi me l'ha presentato Menicacci quel giorno e dice accompagnalo, Menicacci mi aveva ordinato di passare lo Stretto di Messina e andare a trovare un, il politico...
PAOLO MONDANI Vi hanno fermato i carabinieri? No...
DOMENICO ROMEO - COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Sì, non una pattuglia, tante pattuglie. Qui io mi ero proprio...
PAOLO MONDANI Spaventato...
DOMENICO ROMEO - COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Spaventato poi ho telefonato a Menicacci e Menicacci poi ad un certo punto i carabinieri hanno scritto, eccetera, eccetera, quindi poi siamo traghettati per andare a Ragusa.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Chi andava a incontrare Delle Chiaie in Sicilia? E per quale motivo forma una sua Lega?
ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Il loro fine è di coinvolgere i meridionali, che i meridionali in quel momento servivano come fanteria diciamo, da mandare al macello.
PAOLO MONDANI Qual è il contesto che porta alla uccisione di Giovanni Falcone e poi di Paolo Borsellino?
ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Lo Stato quando non sa cosa dire, escono fuori sempre i servizi segreti deviati. I servizi segreti deviati per definizione non esistono e non possono esistere i servizi segreti agiscono nell'esecuzione di ordini che ricevono dai ministri di riferimento, dalla Presidenza del Consiglio. Per cui l’omicidio di Falcone non può che essere stato concepito all’interno del governo, delle più alte sfere istituzionali.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Antonio D'Andrea, vicesegretario della Lega Meridionale, è uno dei testimoni dell’attivismo di Delle Chiaie nei primi anni Novanta, in coincidenza con la nuova strategia della tensione. Con la forza e con la violenza si può unire, ma con la forza e con la violenza si può anche dividere. Per capire il contesto bisogna ricostruire che cosa è accaduto in quegli anni. È caduto il muro di Berlino, poi c’è Mani Pulite che ha sgretolato il sistema dei partiti della prima repubblica e c’era il rischio che la sinistra poi finisse al governo. Insomma, c’erano tanti orfani in giro. Cosa Nostra aveva bisogno di aggrapparsi a nuovi referenti politici perché era in corso il maxi-processo che avrebbe decapitato la cupola, poi c’era una emorragia da fermare, quella che aveva aperto all’interno dell’organizzazione una crepa quella cioè dei collaboratori di giustizia. Bisognava poi modificare la legge sulla confisca dei beni, modificare la legge sul carcere duro. Insomma, Cosa Nostra decise a un certo punto di diventare Stato, perché aveva necessità per garantire la propria sopravvivenza di fare approvare delle leggi dallo Stato. E per farlo si mette in viaggio con dei compagni consolidati nel tempo. Cioè compagni dell’eversione di destra, alla massoneria deviata e alla P2. Insieme costituiscono un nuovo sistema di potere. Cercano di costruire un nuovo sistema di potere, sullo sfondo ci sono Miglio, l’ideologo della Lega, Andreotti e il solito Licio Gelli. In che cosa consisterebbe questo tentativo? Quello di creare tanti movimenti indipendenti, di lasciare il sud alla gestione della criminalità organizzata. In questo Delle Chiaie ha un ruolo: bazzica la Lega Meridionale, fonda una lega sua, la Lega Nazionalpopolare. Il suo avvocato Menicacci nel suo studio ne fonda addirittura dieci e Delle Chiaie fa dei viaggi in Sicilia con un collaboratore del suo avvocato Domenico Romeo. Di questo viaggio c’è testimonianza. Incontra degli uomini di Cosa Nostra, ne parla il collaboratore Lo Cicero, ne parla soprattutto la compagna di Lo Cicero, Maria Romeo e la sua testimonianza vale perché è la sorella di quel Domenico Romeo che ha accompagnato Delle Chiaie in Sicilia, ma la loro non è l’unica testimonianza lo vedremo dopo la pubblicità tra 30 secondi.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Stavamo parlando del ruolo fino a oggi inedito dell’estremista di destra Stefano Delle Chiaie nell’attentato di Capaci. Il PM Gabriele Chelazzi che indagava sugli attentati a Roma, a Milano e Firenze aveva ascoltato un collaboratore di giustizia, Luigi Sparacio che aveva raccontato di aver incontrato Stefano Delle Chiaie prima degli attentati. Che Delle Chiaie aveva consegnato una mappa con i luoghi da colpire contrassegnati con delle x. Nel 1999 Gabriele Chelazzi non continua le sue indagini perché Sparacio è considerato un testimone controverso e in più soprattutto non aveva Chelazzi le dichiarazioni fatte da Lo Cicero a Borsellino sul ruolo e la presenza di Delle Chiaie sul luogo della strage di Capaci prima che venisse ucciso Falcone e la sua scorta. Se queste testimonianze venissero confermate emergerebbe un ruolo di Delle Chiaie come supervisore di fatti destabilizzanti il Paese come del resto aveva già fatto come in occasione della riunione, del summit sull’Aspromonte con gli ‘ndranghetisti quando erano stati pianificati i moti di Reggio e il fallito golpe borghese. Ora Delle Chiaie avrebbe partecipato così a quella strategia stragista che si era delineata e chi si era concepita in numerosi incontri nel 1991 nel quale avevano partecipato membri dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra, piduisti, uomini dei servizi segreti. Una strategia tesa a destabilizzare l’Italia attraverso le stragi che dovevano essere attribuite almeno qualcuno aveva suggerito così a Riina alla sigla “falange armata”. Una sigla che evoca gladio il cui ruolo non è stato mai chiarito fino in fondo.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Pietro Riggio, membro della famiglia mafiosa di Caltanissetta, e da alcuni anni collaboratore di giustizia racconta di uomini dello Stato coinvolti a suo dire nelle stragi. Per esempio, parla di un agente dei servizi segreti, Giovanni Peluso.
SERGIO BARBIERA - SOSTITUO PROCURATORE GENERALE DI PALERMO 19/10/2020 PROCESSO D’APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA Lei ricorda se in quella occasione, di quest’ultimo incontro con Peluso, il Peluso fece cenni o gli parlò anche della strage Falcone?
PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA 19/10/2020
PROCESSO D'APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA Sì, fu in questa occasione che lui per accreditare questi discorsi che mi stava facendo parlò tutto di una serie di situazioni che riguardavano la strage di Falcone. Ha fatto riferimenti di come fu riempito il canale di scolo, con gli skateboard, ha fatto riferimento che c ’erano persone esterne a Cosa Nostra e soprattutto ha fatto riferimento alla frase famosa che io mi è rimasta impressa: “ancora Brusca è convinto che il telecomando lo ha schiacciato lui”.
GIOVANNI PELUSO – EX POLIZIOTTO Posso semplicemente dire e affermare con certezza che in merito alla dichiarazione di Riggio di essere l’esecutore materiale della strage non è possibile.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Peluso smentisce anche la sua ex compagna che nel 2019 conferma ai magistrati di Caltanissetta le parole di Pietro Riggio.
PAOLO MONDANI Peluso, le aveva già detto che lui faceva lavori strani per lo Stato...
MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì, che la politica li chiamava quando c’era qualcuno che dava fastidio e loro intervenivano facendo pulizie.
PAOLO MONDANI Pulizie che significa?
MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Pulizie nel senso che dovevano mettere a tacere la gente che dava fastidio alla politica...
PAOLO MONDANI E lei le ha mai detto: tu hai mai ucciso qualcuno?
MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Io l’ho chiesto, ho detto “vabbè ma dimmi che cosa hai fatto”, gli ho detto “hai ammazzato la gente?” e stava zitto, poi ha annuito, ha fatto così.
PAOLO MONDANI Cioè ha fatto, lei le ha….
MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Il cenno come per dire sì.
PAOLO MONDANI Suo marito sparisce qualche giorno durante l’attentato a Falcone, no?
MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Si, venerdì mattina.
PAOLO MONDANI Tre giorni. Successivamente le dice che secondo lui Falcone era stato ucciso….
MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Si, aveva detto che Falcone non era stata la mafia ma erano stati i servizi segreti.
PAOLO MONDANI E lei non ha chiesto spiegazioni? A chi dava fastidio Falcone? Perché i servizi hanno fatto saltare Falcone?
MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Dice che dava fastidio alla politica italiana e poi dice pure che era dei favori fatti a degli amici americani.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Pietro Riggio dice che Peluso gli racconta come venne materialmente piazzato l’esplosivo di Capaci.
GIANFRANCO DONADIO - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DNA Tutti sappiamo che sotto l’autostrada in un cunicolo dell’autostrada a Capaci viene collocata una grande quantità di materiale esplodente e prevalentemente nitrato d’ammonio, che in realtà è un concime e tritolo. Ma, c’è un ma, nel senso che è noto dall’esame degli atti che esistono tracce di pentrite.
PAOLO MONDANI La pentrite che cos’è?
GIANFRANCO DONADIO - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DNA La pentrite è una sostanza che si ritrova largamente in esplosivi di tipo militare.
PAOLO MONDANI Secondo lei il rafforzamento non è effettuato solo dalla mafia?
GIANFRANCO DONADIO - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DNA Quel rafforzamento all’ultimo minuto potrebbe essere stato effettuato da altri.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Pietro Riggio aggiunge che Peluso stava organizzando un attentato al giudice Leonardo Guarnotta, già componente del pool antimafia con Falcone e Borsellino.
SERGIO BARBIERA -SOSTITUO PROCURATORE GENERALE DI PALERMO 19/10/2020 PROCESSO D'APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA Le fu detto il motivo per il quale doveva essere organizzato un attentato ai danni del dottore Guarnotta?
PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA 19/10/2020 PROCESSO D'APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA Il motivo fu quello che mi fu detto che dovevamo fare un favore politico. E quindi noi ci saremmo sistemati con una mansione all’interno dei servizi. Poi informandomi ho visto che il dottore Guarnotta stava istruendo, stava seguendo il processo nei confronti di Dell 'Utri a Palermo. E quindi io ho collegato la cosa, ecco: prima Falcone, poi Borsellino, adesso il dottore Guarnotta.
MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Ha detto bisogna fare un attentato a Palermo.
PAOLO MONDANI Il nome del magistrato che le fece chi era?
MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Guarnotta.
PAOLO MONDANI E questo glielo dice nel febbraio...
MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Del 2001.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Giovanni Peluso fa conoscere alla compagna Giovanni Aiello, alias Faccia di Mostro. Agente di Polizia che molti pentiti ritengono coinvolto nell'attentato all'Addaura a Giovanni Falcone, nelle stragi di Capaci e via D'Amelio, nel delitto del commissario Ninni Cassarà e dell'agente Nino Agostino. Legato ai servizi, alla 'ndrangheta, a Cosa Nostra e alla destra eversiva. Aiello non ha mai subito una condanna.
PAOLO MONDANI Faccia di Mostro per suo marito era il…..
MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì lavoravano insieme però era il suo superiore.
PAOLO MONDANI Contrada?
MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Era il superiore di loro.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La catena di Comando di questo gruppetto di agenti speciali, secondo la signora Castro, era formata da Giovanni Aiello, soprannominato Faccia da Mostro, e da Bruno Contrada ex numero tre del Sisde.
PAOLO MONDANI Questo Giovanni Aiello era un uomo dei servizi?
BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Assolutamente no!
PAOLO MONDANI Aveva fatto parte…
BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Assolutamente no. Io sono stato 10 anni nei servizi avrei saputo che questo soggetto che aveva fatto servizio, ho un vago, avevo un vago vaghissimo ricordo di questo individuo per il suo modo di essere per il suo modo di essere trasandato.
PAOLO MONDANI Lei ritiene che qualcuno nei servizi potrebbe aver avuto a che fare con la vicenda delle stragi del 92-93?
BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Ma quando mai. Ma quando mai.
PAOLO MONDANI Secondo lei chi era la Falange Armata che ha rivendicato le stragi di mafia del ‘92-93?
BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Non era compito mio e non ero manco preso dalla curiosità di sapere che cos' era.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ascoltando Bruno Contrada, prima condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e poi salvato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, viene il dubbio che abbiamo sempre avuto davanti agli occhi la verità sulle stragi. E trent'anni dopo scopriamo anche un'altra pista che porta ad Alcamo, paesino del trapanese famoso per il vino. Oggi più noto anche per un poliziotto, un "bandito poliziotto" come si definisce lui stesso, perché restio a seguire le regole. Questo poliziotto sulla base delle indicazioni di un confidente il 29 settembre del 1993 trova un "tesoro".
PAOLO MONDANI Lei tramite una fonte molto importante arriva in una casa di Alcamo dove trova una gigantesca Santa Barbara, detenuta da due carabinieri. Cosa vede quando entra? Cosa trova?
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Casse di armi, casse di munizioni, polvere...
PAOLO MONDANI Pistole con la matricola abrasa.
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Pistole, sì. C’era di tutto, coltelli, ma in particolare quello che mi ha colpito di più sono i fucili.
PAOLO MONDANI E lei però trova anche una cosa particolare...
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Era una cassetta di metallo con sopra un adesivo che indicava radiazioni.
PAOLO MONDANI La cassa segnalava che c’era materiale ...
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Materiale radioattivo. Nel primo sopralluogo l’ho trovata, nel secondo no. Quando abbiamo rifatto la perquisizione, la sera successiva, delle armi c’erano tutte, ma non c’era la cassetta.
PAOLO MONDANI Senta i due carabinieri si chiamano Bertotto e La Colla, vengono processati e alla fine di tutta questa storia processuale prendono come dire una condanna sostanzialmente minima. Vengono trattati come dei collezionisti di armi.
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO È strano, molto strano.
PAOLO MONDANI Senta per parlare chiaro lei ebbe la sensazione che questi due carabinieri o uno di loro due avesse a che fare con i nostri servizi?
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Si, tutti e due.
PAOLO MONDANI Tutti e due.
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Non ho dubbi.
ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Ricordiamo che nella provincia di Trapani c’era un’articolazione di Gladio, che in quella provincia nel 1993 fu scoperto nella villa di un carabiniere un deposito enorme di armi da guerra di esplosivo di cui non si è mai capito l’origine e che molti ritengo essere uno degli arsenali utilizzati dalla struttura Gladio o da una struttura similare.
PAOLO MONDANI Carabiniere Carmelo La Colla...
ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Esatto, La Colla Bertotto, si...
PAOLO MONDANI Che era il caposcorta della ministra Vincenza Bono Parrino.
ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Esatto.
PAOLO MONDANI Poi trova in questa casa anche una...
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Una foto, e il confidente mi dice di fare vedere la fotografia nell’immediatezza, ecco è qua che c’è qualcosa che… nell’immediatezza della perquisizione ai presenti. Dobbiamo capire che i presenti erano circa 200, 200, tra uomini della polizia e carabinieri. Addirittura, c’era il generale Cancelleri. Il significato di fare vedere la foto non l’ho mai capito, m’ha detto semplicemente: chi deve capire capirà della foto.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Questa è la foto trovata da Federico. Che sparisce, riappare e viene ignorata per 29 anni. Ritrae una giovane donna che solo oggi è diventata elemento di prova per la procura di Firenze. Nella foto viene infatti riconosciuta Rosa Belotti, imprenditrice con qualche precedente penale, ora accusata di essere coinvolta nell'esecuzione dell'attentato di via Palestro a Milano del 27 luglio 1993 e forse anche quello di Firenze del 27 maggio. La Belotti si è riconosciuta nella foto ma dichiara di non aver nulla a che fare con le stragi. E torniamo a Federico e al suo confidente di Stato.
PAOLO MONDANI La fonte, ad un certo punto, le segnala anche l’esistenza di una villa bunker in contrada Calatubo, che è qua vicino, sempre vicino Alcamo. Lei va a fare un sopralluogo notturno e dentro questa villa cosa trova?
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Come quando una persona entra in un aereo e vede la strumentazione dell’aereo, no. Io l’ho vista questa strumentazione diciamo, moltiplicandola per circa 100 metri quadrati.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Questa è la villa bunker in mezzo alla campagna di Alcamo. Siamo sempre nel 1993, poco dopo il sopralluogo di Federico la polizia fa una perquisizione ma la villa risulta svuotata di tutto. La fonte a questo punto raccomanda a Federico di appostarsi di notte sotto il ponte dell'autostrada.
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Verso le tre e un quarto, tre e mezza, comincio a sentire rumore dall'alto però. E dall'alto dove passa l’autostrada e dà la ho visto scendere delle persone erano 10 -15, tutte armate. Me ne sono accorto che erano armate quando...
PAOLO MONDANI Cioè persone che si calavano dal ponte dell’autostrada?
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Si, si.
PAOLO MONDANI Con le corde diciamo...
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Si con le corde. In questo posto dove loro sono scesi c’è una Madonnina dove c’è una lampadina sempre accesa.
PAOLO MONDANI Queste persone le si avvicinano in qualche modo, lei ne riconosce una...
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Uno aveva una cicatrice enorme sulla faccia e a me sembrava veramente un mostro.
PAOLO MONDANI Anni dopo lei per via della storia che riguarda Giovani Aiello.
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Giovanni Aiello.
PAOLO MONDANI Faccia di Mostro.
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Faccia di Mostro.
PAOLO MONDANI Lei lo riconosce?
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Certo.
PAOLO MONDANI Era lui?
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Si. Era l’unico più basso rispetto agli altri.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Federico accerta che a poche centinaia di metri dalla villa bunker e dal ponte sull'autostrada c'è una misteriosa pista di atterraggio, con altri poliziotti identifica i piloti di un velivolo leggero ma nulla si muove. Nel frattempo, raccoglie indizi su un traffico di materiale nucleare e su una cava vicino Alcamo che fungerebbe da deposito. E la solita fonte gli fa trovare, in un casolare, alcuni fucili ad alto potenziale destinati all'omicidio di Luca Pistorelli, il magistrato che in quel periodo svolgeva indagini sul centro Scorpione della Gladio trapanese. E non è finita qui.
PAOLO MONDANI Questa fonte importantissima tra le due stragi del 1992 le dice che si svolgerà a Balestrate, che è un paesino vicino Alcamo....
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Vicina, a venti chilometri da Alcamo.
PAOLO MONDANI Un summit di mafia...
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Non solo di mafia è un summit di mafia e politica.
PAOLO MONDANI Mafiosi presenti?
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO C’era Provenzano, c ’era Messina Denaro, Bagarella, c’erano tutti. C’era il gotha mafioso di quell’epoca.
PAOLO MONDANI Brusca?
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO C’era sì, c’era sì Brusca. I superlatitanti erano tutti là.
PAOLO MONDANI Politici?
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Politici i nomi non me li ha fatti, mi ha detto li vedrai durante la perquisizione chi sono.
PAOLO MONDANI Cosa accade?
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO La perquisizione doveva essere fatta la sera e non è stata fatta. E’ stata fatta mi pare dopo quattro giorni.
PAOLO MONDANI Lei nel 2013 poi scrive questo libro.
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Scusa se ti interrompo questo non è un libro, questo è uno sfogo.
PAOLO MONDANI Il libro si intitola la struttura segreta di Gladio sul territorio di Alcamo.
ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Io penso che ci sia un secondo stato parallelo. La criminalità organizzata è dal mio punto di vista è pilotata, comandata, gestita da queste persone.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nella sentenza di condanna per i boss che nel 1988 uccisero il giornalista Mauro Rostagno emerge un rapporto riservatissimo del Sisde del 1991 nel quale si dice che i dirigenti del centro Scorpione di Trapani, la Gladio siciliana, incontravano elementi di spicco di alcune famiglie mafiose. A luglio del 1993 il governo Ciampi aveva sciolto la Settima divisione del Sismi, quella di Gladio. E poco dopo annunciava un repulisti al Sismi e al Sisde. Il governo si era convinto che nei servizi c’erano uomini collegati alle stragi che agivano come orfani della guerra fredda. Ciampi se ne accorgerà.
PAOLO MONDANI Siamo a Palazzo Chigi, la presidenza del Consiglio. La notte del 27/28 luglio del 1993. Sono appena esplose le bombe a Milano, a San Giorgio al Velabro e San Giovanni Laterano a Roma. Alla presidenza del Consiglio si staccano i telefoni.
ANTONINO DI MATTEO - MEMBRO CSM - EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATO MAFIA Rimasi colpito dalla forza con la quale il Presidente Ciampi volle ribadirci il suo convincimento di quella notte tra il 27/28 luglio ‘93 circa la possibilità che in quel momento fosse in corso un golpe. Il presidente era rientrato precipitosamente da una località di villeggiatura nella quale si trovava, le normali comunicazioni con Palazzo Chigi si erano interrotte, arrivavano le notizie di questi attentati a Roma, a Milano e a Roma in più siti. Il presidente nel 2010 volle proprio indicarci con forza che in quel momento avevano chiarissima la forza dirompente del ricatto che era in atto.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Secondo il magistrato Di Matteo di ricatto ce ne sarebbe in piedi un altro. Matteo Messina Denaro è a conoscenza dei rapporti intercorsi tra Cosa Nostra e soggetti esterni nel periodo delle stragi. Quelle informazioni valgono più di quintali di tritolo, sono un’arma formidabile di ricatto. Chi tra le istituzioni e anche tra i giornali celebra la vittoria sulla mafia dovrebbe anche avere il pudore di ricordare ogni giorno che c’è un esponente importantissimo di primo piano di Cosa Nostra che ha avuto un ruolo nelle stragi che è libero da trent’anni ed è libero di ricattare. È emerso processualmente che nelle stragi sono intervenute delle mani esterne. Uno dei collaboratori che sa di più di queste vicende, Pietro Riggio, ha parlato dei servizi segreti quali autori della strage di capaci e ha identificato anche in un ex poliziotto Peluso uno di questi componenti. Oggi Peluso è indagato come "compartecipe ed esecutore materiale" della strage di Capaci però lui nega. Ma il nostro Paolo Mondani ha raccolto le confidenze della compagna Marianna Castro che ha detto che Peluso gli avrebbe confidato che Peluso avrebbe fatto il lavoro sporco per liberare dai nemici i politici anche uccidendo qualche volta. Glielo ha chiesto espressamente, lui ha annuito. Ha detto, ha confidato che stava preparando un attentato ai danni del magistrato Guarnotta, ha detto anche che a uccidere Falcone sono stati i servizi segreti. La Castro ha anche detto che il superiore di Peluso era “faccia da mostro” e sopra di lui c’era Contrada, che però con noi nega. Perché sono importanti queste testimonianze perché intanto coincidono con quanto ha raccontato Riggio. Riggio è un esponente importantissimo, di un’importantissima famiglia, quella dei Madonia, nel nisseno. La stessa famiglia a cui apparteneva Luigi Ilardo, boss, cugino di Piddu Madonia, membro della commissione regionale di Cosa Nostra, quella che decideva la linea stragista. Luigi Ilardo è stato il primo nel ’93 a denunciare che dietro gli omicidi eccellenti e dietro le stragi non c’era solo la mano della mafia ma anche quella destra eversiva, della massoneria deviata, dei servizi segreti. E ha citato l’omicidio dell’ex sindaco Insalaco, quello di Piersanti Mattarella, quello del poliziotto Agostino esperto in caccia di latitanti. Sui luoghi delle stragi di questi omicidi era sempre presente l’ex poliziotto Aiello “faccia da mostro” uomo legato anche alla CIA. E facci da mostro rientra anche nelle testimonianze di un altro poliziotto, Federico. Che grazie alle confidenze di una sua fonte riesce a scoprire ad Alcamo un aeroporto privato e una villa bunker dove dentro c’è un enorme sala controllo voli, che però sparirà quando ci sarà un’ispezione successiva. Scoprirà anche una villa che era in uso di due carabinieri dove dentro c’è una santa barbara: armi da sparo, polvero da sparo e una cassetta che indicava la presenza di materiale radioattivo. Sparirà anche questa cassetta, in questa villa Federico troverà anche una foto che coincide con l’identikit di una donna che si sospetta essere l’autista del commando che ha realizzato le stragi a Milano e forse anche in via dei Georgofili. Questa donna riconosce se stessa in questa foto ma dice di non entrarci nulla con gli attentati, ma la domanda è: tutto questo materiale a che cosa serviva? Era nella disponibilità di chi? Federico ricorda a un certo punto, una notte 15 uomini armati che si calano con una corda dal viadotto, tra questi c’era ancora una volta faccia da mostro. Una struttura che riguarda gladio e sappiamo perfettamente che Falcone e Borsellino stavano indagando su gladio, sul ruolo di gladio e della P2 nelle stragi e negli omicidi eccellenti avvenuti in Sicilia e le prove arrivano ancora una volta dalle carte della strage di Bologna.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO In questa rara foto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono in Brasile. Siamo nel 1984 e Tommaso Buscetta ha da poco iniziato la sua collaborazione. Un giorno d'autunno a San Paolo i due giudici convocano un famoso giornalista.
NUNZIO BRIGUGLIO - GIORNALISTA Il console italiano mi chiamò al telefono e mi disse che Falcone e Borsellino volevano parlare con me. Ero stupito ma mi misi ovviamente a disposizione e andammo a cena al ristorante dell’Hotel Ca ’d 'oro, qui in Rua Augusta a San Paolo. Parlammo per circa tre ore. All'inizio immaginai che volessero informazioni su Tommaso Buscetta, ma in realtà no, volevano conoscere più dettagli sulla P2.
PAOLO MONDANI Ti ha detto che Buscetta sapeva qualcosa della P2?
NUNZIO BRIGUGLIO - GIORNALISTA No. Ma io avevo fatto un'intervista a Buscetta nella prigione di San Paolo i primi giorni del suo arresto e gli avevo chiesto della P2. Lui mi rispose come di sfuggita, rientrando in cella. Si girò verso di me e disse: «Nunzio, la P2 è una cosa molto seria, la mafia al confronto è una banda di cattivi ragazzi».
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO In questo articolo del 30 ottobre 1985, Nunzio Briguglio parlò del ruolo di Bafisud, il Banco Financiero Sudamericano di proprietà di Umberto Ortolani, l'eminenza finanziaria della P2, già condannato per il crack della Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e indicato dalla procura Generale di Bologna come uno dei mandanti della strage del 2 agosto 1980. La Bafisud era sospettata di realizzare una vasta attività di riciclaggio.
NUNZIO BRIGUGLIO - GIORNALISTA Cercando notizie sulla P2, parlai con il presidente della Banca Centrale brasiliana, il dottor Alfonso Celso Pastore, e gli chiesi se potevo avere accesso alle informazioni sulla Bafisud. Era un venerdì, e lui mi disse cercami lunedì, ti farò accedere ai documenti sulla Bafisud. In quel fine settimana, un incendio nella Banca Centrale a San Paolo, distrusse proprio la parte di archivio dove stavano i documenti che mi interessavano.
PAOLO MONDANI Il 30 ottobre e il primo novembre 1985 tu scrivi due articoli per il Correio Braziliense, nei quali parli del contenuto di una informativa dei servizi segreti brasiliani del 1983. Scrivi che «l’ondata di attentati e le manovre di destabilizzazione contro il governo argentino di Alfonsin secondo i servizi segreti argentini erano opera della Loggia P2».
NUNZIO BRIGUGLIO - GIORNALISTA Sì, avevo una fonte molto in alto nel governo argentino che mi aveva dato questa informazione. Il governo Alfonsin nel 1983 iniziò il lavoro di ricostruzione democratica e i processi contro i torturatori della precedente dittatura militare e la P2 con alcuni vecchi generali provò persino a organizzare un golpe.
FRANCESCO MARIA CARUSO - PRESIDENTE TRIBUNALE BOLOGNA CORTE DI ASSISE DI BOLOGNA 6/04/ 2022 La Corte d’Assise di Bologna nel procedimento penale nei confronti di Paolo Bellini, Piegiorgio Segatel, Domenico Catracchia ha pronunciato la seguente sentenza: visti gli articoli 533, 535 dichiara Paolo Bellini responsabile dei delitti a lui ascritti uniti dal vincolo della continuazione e lo condanna alla pena dell’ergastolo.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il 6 aprile scorso la sentenza di primo grado della Corte di Assise di Bologna condanna Paolo Bellini all'ergastolo.
PAOLO BELLINI È quarant'anni che mi massacrate anche voi giornalisti, non voi, in senso generale. Quarant’anni di attacchi viscerali contro la mia persona. Mi dovete dire: capo dei servizi segreti de che? De chi?
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Secondo i giudici è il quinto uomo della strage del 2 agosto 1980. Bellini, militante di Avanguardia Nazionale, è stato un killer per una cosca della ‘ndrangheta. Ha alle spalle altri dieci omicidi. E un antico rapporto con Cosa Nostra. La moglie di Bellini, Maurizia Bonini, dopo aver garantito per decenni un falso alibi al marito, lo ha riconosciuto in un filmato realizzato alla stazione di Bologna nei minuti a cavallo dell’esplosione.
ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 La cosa straordinaria è che questo Paolo Bellini implicato nella strage di Bologna, esponente a sua volta della destra eversiva, collegato con i servizi deviati ce lo ritroviamo poi nel 1991, nel 1992, a Palermo nelle stragi di quel periodo. Nel 1991 Paolo Bellini è presente a Enna nello stesso periodo in cui a Enna sono riuniti i massimi vertici della mafia regionale per discutere il progetto politico che è stato concepito dalla massoneria deviata, dalla destra eversiva, di destabilizzazione dell’Italia con la campagna stragista che sarà iniziata di lì a poco e con la creazione di un nuovo soggetto politico. E poi troviamo Paolo Bellini che ha continui rapporti con Antonino Gioè anche lui militante della destra, esecutore della strage di Capaci...
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Paolo Bellini, nel 1992, conduce con i carabinieri del Ros una singolare trattativa con Cosa Nostra tramite il vecchio amico Gioè che una volta arrestato, a luglio del 1993, dopo aver comunicato di voler collaborare con la giustizia viene trovato impiccato con modalità assolutamente inspiegabili. Antonino Gioè era un anello di collegamento tra Cosa Nostra e i servizi, come ci ha detto suo cugino, il boss pentito Francesco Di Carlo: una specie di agente doppio tra la criminalità e lo Stato deviato. Identikit simile a quello dell'amico Bellini.
ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Un Paolo Bellini, che ci dice Giovanni Brusca, è quello che propone di fare attentati contro i monumenti perché questo tipo di attentati contro i monumenti perché questo tipo di attentati avrebbe potuto mettere in ginocchio lo Stato. Ed è estremamente interessante che da altre indagini svolte in altre Procure della Repubblica sulle stragi del nord emerge che già negli anni ’70 esponenti della destra eversiva riunitisi avevano messo in cantiere la possibilità di fare attentati contro i beni artistici nazionali proprio per attaccare lo Stato.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 2015, infatti, il neofascista Umberto Zamboni rivelò ai carabinieri che negli anni '70, durante una riunione di Ordine Nuovo, Massimiliano Fachini che ne era dirigente, propose "una campagna di attentati contro opere d’arte ed infrastrutture pubbliche". Ma torniamo al processo e ai mandanti della strage di Bologna. Licio Gelli, già condannato per aver depistato le indagini viene indicato come il finanziatore dei terroristi neri che piazzarono la bomba. Nelle sue tasche, arrestato in Svizzera, venne trovato un appunto di movimenti bancari. Quella intestazione con la scritta Bologna e il numero del conto svizzero di Gelli è sparita per 40 anni.
CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Ecco, questo è il documento Bologna. Lei come vedrà è un documento che è piegato in maniera tale da essere costudito nel portafoglio, tant’è che è stato...
PAOLO MONDANI Stava nel portafoglio di Licio Gelli ed è stato sequestrato in Svizzera il 13 settembre...
CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA 1982.
PAOLO MONDANI I soldi che vanno ai presunti mandanti della strage, Mario Tedeschi e Federico Umberto d’Amato. Me li fa vedere?
CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Allora, quelli di Federico Umberto d ’Amato e Tedeschi sono 850 mila dollari che vanno a Federico Umberto d’Amato e 20mila dollari che vanno a Tedeschi. Sul documento Federico Umberto d ’Amato non è indicato come Federico Umberto d’Amato...
PAOLO MONDANI Ma come…
CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Viene indicato ”Relaz. Zaff”.
PAOLO MONDANI Il motivo per cui viene chiamato zafferano...
CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Era un amante del pesce con lo zafferano. In realtà non ha, Gelli, finanziato soltanto Federico Umberto d ’Amato, Zaff, e Tedeschi, perché in ballo almeno in questo movimento c’è un milione di dollari pagato in contanti tra il 20 luglio e il 30 luglio dell’80...
PAOLO MONDANI A chi è andato questo milione e cinquanta mila dollari?
CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Secondo La ricostruzione operata dalla Procura Generale di Bologna sarebbero andati agli esecutori materiali della strage.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Pochi anni fa la procura generale di Bologna scoprì il cosiddetto documento Artigli, trovato nell'archivio dell'Ufficio Affari Riservati diretto da Federico Umberto D'Amato. Leggendolo capiamo perché per 40 anni è sparito l'appunto Bologna di Licio Gelli. Artigli è un documento del 15 ottobre 1987 a firma del capo della Polizia Parisi e indirizzato al Ministro degli Interni.
CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Documenta sostanzialmente un incontro che ci è stato il giorno prima presso la Polizia di prevenzione, che era la nuova denominazione che aveva assunto l’Ufficio Affari Riservati del ministero degli Interni presso il quale si era recato l’avvocato Dean, l’avvocato di Gelli, dove dopo alcuni convenevoli alla fine è andato al succo del discorso, sostanzialmente si lamentava di come Gelli veniva trattato al processo bolognese sulla strage di Bologna...
PAOLO MONDANI Dove era imputato.
CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Era imputato.
PAOLO MONDANI Gelli aveva paura che si andasse al nodo e quindi manda il suo avvocato Dean a incontrare, diciamo l ’uomo di Parisi e cosa gli dice?
CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Gli dice che se “la vicenda viene esasperata e lo costringono necessariamente a tirare fuori gli artigli allora quei pochi che ha li tirerà fuori tutti”, ecco perché documento Artigli.
PAOLO MONDANI Ricatta lo Stato Gelli, insomma, in qualche modo...
CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA In un certo senso sì.
PAOLO MONDANI E non gli verrà mai fatta una domanda sull’intestazione?
CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Nessuna domanda su Bologna.
PAOLO MONDANI Possiamo dire che il ricatto di Gelli a Parisi ha funzionato?
CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Sono i fatti a dirlo.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Licio Gelli aveva coperture internazionali. Lo testimonia il generale Pasquale Notarnicola che fu al Sismi, tra il '78 e l'83, comandante della prima divisione, quella che si occupava di controspionaggio e antiterrorismo e accusò il vertice del servizio di aver costruito i depistaggi della strage. Il generale, morto poco dopo la nostra intervista, descrive il contesto della bomba di Bologna.
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Se lei ricorda subito dopo la guerra mondiale, la seconda guerra mondiale, emersero due potenze egemoni che erano l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. La prima strategia a cui hanno pensato gli Stati Uniti visto l’imperialismo dominante dell’Unione Sovietica fu quello di fare i colpi di Stato. Fu così che i servizi statunitensi organizzarono nel mondo, soprattutto nel Sud America, ma anche in Europa i colpi di Stato. Però questi colpi di stato non furono producenti come loro speravano, anzi spesso furono controproducenti, come in Grecia. Invece di compattare e di far diminuire l’influenza della grande presenza comunista che c’era nell’Europa...
PAOLO MONDANI L’aumentavano.
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 L’aumentavano. E allora qualcuno ha pensato a una strategia nuova, ma questa strategia nuova alla quale accennerò è una strategia criminale. Questa strategia fu teorizzata dal generale americano...
PAOLO MONDANI Westmoreland.
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Westmoreland, capo delle forze armate americane. Una copia di questa direttiva che il generale aveva pensato fu trovata...
PAOLO MONDANI Il Field Manual, famoso...
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 ...alla figlia di Gelli.
PAOLO MONDANI Fu trovata nella borsa della figlia di Licio Gelli, Maria Grazia Gelli.
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Westmoreland aveva pensato, non è producente il colpo di stato, ma bisogna cambiare i governi non affidabili o meno affidabili dall’interno con una sostituzione, per modo di dire dolce, perché questa sostituzione all’interno prevedeva appunto atti clamorosi come le stragi. Ecco perché i servizi proteggevano non solo i NAR, in particolare i NAR.
PAOLO MONDANI Lei pensa che il tramite tra questa strategia statunitense, diciamo così, che era contenuta nel documento Westmoreland e coloro che hanno eseguito materialmente la strage, il tramite di tutto questo fosse...
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 La P2, fosse Gelli, la P2.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO In Sicilia a Bagheria c'è un posto leggendario. Villa Palagonia più nota come la villa dei mostri. Lungo il perimetro musicisti caprini, corpi deformi, mori, turchi, gobbi, storpi, chimere e nani barbuti, pulcinelli, dei e dee, un cavallo con mani umane e un uomo con testa equina, draghi e serpenti, cori di scimmie musicanti, un atlante che regge un otre anziché la sfera celeste. Fu il principe di Palagonia a volerla così e Goethe che la visitò nel 1787 raccontò di sedie con i piedi segati a diverse altezze in modo che nessuno potesse sedersi e di spine nascoste sotto i cuscini di velluto. A Bagheria si credeva che le statue avessero un potere malefico e che il principe fosse pazzo, frenetico, delirante e persino un po' deforme. O forse un emerito burlone, uno a cui piaceva beffarsi del prossimo e della casta a cui apparteneva. Trent'anni dopo le stragi di mafia la retorica delle commemorazioni ha deformato la storia. Ci ha resi incapaci di ricordare. Siamo circondati dai mostri che vollero quelle stragi e conviviamo con una possente manipolazione della realtà. Forse per questo villa Palagonia è così moderna, perché nel secolo delle guerre combattute da famiglie regnanti tutte imparentate tra loro questo luogo rappresentò una clamorosa critica dei potenti. Eccoli là i mostri.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Verità deformate. Dalle ceneri della strage di Bologna, è emerso dopo 40 anni quel filo che lega la P2, i servizi segreti alla destra eversiva, a Cosa Nostra e anche alla ‘ndrangheta. Entità che quando vedono a rischio lo status quo che gli ha garantito il potere, gli affari e anche l’impunità reagiscono come se fossero un corpo unico. Dalle carte di Bologna hanno rivitalizzato anche quei personaggi su cui indagavano Falcone e Borsellino sul ruolo di cioè di quell’estrema destra che secondo i magistrati avrebbe avuto parte attiva negli omicidi eccellenti in Sicilia. Perché la figura, dopo tutto quello che abbiamo ascoltato oggi, di Delle Chiaie è rimasta nell’ombra? Forse la verità va cercata nelle carte che sono state sequestrate in Venezuela nel 1987 nel luogo dove Delle Chiaie si è rifugiato ed è stato a lungo latitante. Sono stati ritrovati dei documenti che farebbero pensare ad un vero è proprio piano di disinformazione un piano che aveva la finalità di scagionare l’estrema destra dalla paternità delle stragi. Consisteva sostanzialmente in due strategie: portare in Parlamento la tesi che a realizzare le stragi non era stata l’estrema destra bensì gli apparati e i responsabili dei governi degli anni ’60 e ’70. Poi l’altro piano era anche quello di intossicare la politica e l’informazione attraverso un “centro neutro” che era formato da tre avvocati: un socialista, un missino e un cattolico. Insomma, un filtro che serviva per dialogare, anche infiltrare se volete magistrati, politici e giornalisti. Nel piano che è stato depositato al processo “Italicus” si legge, c’è un elenco impressionante di contatti: oltre all’asse con l’MSI ci sono socialisti, il partito radicale, alcuni gruppi della sinistra, i cattolici conservatori. Una parte importante del paese, scrive Delle Chiaie, Comunione e liberazione, si è spostata notevolmente verso le nostre tesi. Inoltre, scrive il leader di avanguardia nazionale: “Molti giornalisti sono nostri amici, sappiamo dove bussare per far passare i nostri comunicati; esiste un’area politica del paese che esclude la nostra responsabilità nelle stragi”. Invece le sentenze in questi anni, quella della strage di Piazza Fontana, Brescia e anche quella della stazione di Bologna confermano esattamente il contrario. Un patto che è nato negli anni ’60 tra la destra eversiva e i servizi di sicurezza, un piano per destabilizzare il paese. Anche il funzionario Guglielmo Carlucci, funzionario dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale parla di un Delle Chiaie che è un vero e proprio dipendente nei fatti del capo dei servizi segreti di allora Umberto d’Amato, che secondo i magistrati e i giudici di Bologna sarebbe il mandante delle stragi della stazione di Bologna insieme a Licio Gelli. Quello che c’è da chiedersi, ma questo piano di disinformazione è mai stato attuato? Questo non lo sappiamo, sappiamo che però tutti i processi e le indagini sulle stragi hanno subito dei depistaggi. Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato. George Orwell 1984.
La pista nera. PUNTATA DEL 30/05/2022 Report Rai di Paolo Mondani. Collaborazione di Roberto Persia
La presenza di Stefano Delle Chiaie, il fondatore di Avanguardia Nazionale, a Capaci e i suoi contatti con esponenti mafiosi.
La presenza di Stefano Delle Chiaie, il fondatore di Avanguardia Nazionale, a Capaci e i suoi contatti con esponenti mafiosi continuano a emergere dalle parole dell'ex brigadiere dei carabinieri Walter Giustini e da quelle di Maria Romeo, ex compagna del pentito Alberto Lo Cicero. Nel racconto della Romeo a Report emerge la testimonianza da lei fornita all’allora ufficiale dei carabinieri Gianfranco Cavallo. Nella informativa scaturita da quell’incontro si attesta il coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie nella strage di Capaci del 23 maggio 1992.
LA PISTA NERA di Paolo Mondani collaborazione Roberto Persia immagini Fabio Martinelli montaggio Giorgio Vallati
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A proposito di come funziona la democrazia, torniamo sui nostril passi. Lunedì scorso, 23 maggio, abbiamo mandato in onda un’inchiesta che evocava la strage di Capaci. Il nostro inviato Paolo Mondani ha raccolto le testimonianze di Walter Giustini, un ex brigadiere, che aveva messo nero su bianco sulle informative le confidenze di Alberto Lo Cicero, autista di un boss, Troia, importante, temuto, e aveva anche raccontato che ’autista di Totò Riina, il capo di Cosa nostra, all’epoca era Salvatore Biondino. Questa informazione avrebbe potuto portare all’arresto di Riina prima delle stragi. Lo Cicero aveva anche confidato a Giustini del leader di Avanguardia Nazionale, movimento dell’estrema destra, Stefano Delle Chiaie, a Capaci e anche che aveva fatto dei sopralluoghi con i boss proprio nel luogo dell’attentato. Versione confermata anche dalla compagna di Lo Cicero, Maria Romeo. Il giorno dopo la messa in onda è scoppiato un putiferio, sono scattate le perquisizioni, poi revocate, c’è chi ha invocato il depistaggio, la fuga di notizie, chi invece ha semplicemente detto: “No, è vero, Delle Chiaie c’era”. Ma c’era o non c’era? Oggi cercheremo di aggiungere nuovi tasselli e anche, forse qualche mistero.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Capaci 23 maggio come via D'Amelio 19 luglio. Sono passati trent'anni. Storici e magistrati hanno letto i fatti della strategia della tensione degli anni '70 e '80 distinguendoli dalle stragi di mafia dei primi anni '90. Oggi scopriamo invece che gli uomini dell'eversione di destra, dei depistaggi degli apparati deviati dello Stato, della massoneria piduista potrebbero non essere estranei ai morti di trenta anni fa. E dei mandanti cominciamo a scorgere l'identikit. Ben oltre Totò Riina.
PAOLO MONDANI Poi lo Cicero le parla di un personaggio che incontra in quei mesi, che conosce forse in quel periodo, che è Stefano delle Chiaie.
WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE DEI CARABINIERI PALERMO A noi di Stefano delle Chiaie ce ne ha parlato prima la Romeo.
PAOLO MONDANI Si, che era la fidanzata di Lo Cicero.
WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Esatto. Mi ha detto: “è ma è molto amico di mio fratello”, si vabbè dai, mo conosci Stefano Delle Chiaie te? E lei mi ha detto. “guarda io c’ho anche delle foto
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stefano delle Chiaie è stato il capo di Avanguardia Nazionale, coinvolto nel tentato golpe Borghese, indagato e prosciolto nei processi sulle stragi di Piazza Fontana e della stazione di Bologna. Esperto di guerra non ortodossa e guerriglia urbana. Vincenzo Vinciguerra, all'ergastolo per strage, è stato un fedelissimo amico di delle Chiaie e ha parlato dei suoi rapporti con la P2 di Licio Gelli e con i servizi segreti.
PAOLO MONDANI Stefano delle Chiaie ha mai avuto relazioni con Cosa Nostra? Con uomini di Cosa Nostra?
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE è chiaro che Stefano, come tutti quelli dell’estrema destra, perché non dobbiamo personalizzare, il rapporto con la criminalità organizzata è stato sempre costante. È stato costante con la mafia, io ho parlato dei rapporti con Frank Coppola, quelli li avevano chiaramente i rapporti con Frank Coppola. Io dico che l’estrema destra non è stata mai una forza di opposizione allo Stato, l’estrema destra è stata una forza di appoggio allo Stato. Ha fatto ciò che gli apparati ufficiali dello Stato non potevano fare.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Molti collaboratori hanno riferito di stretti legami di Delle Chiaie con la ‘ndrangheta. Anche l’ex compagna di lo Cicero ci conferma i contatti con la mafia e parla di uno Stefano Delle Chiaie a Capaci prima della strage del 23 maggio.
PAOLO MONDANI Alberto Lo Cicero racconta che Stefano Delle Chiaie lo accompagna da Mariano Tullio Troia che era il boss di …
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO …di Palermo, sì. Sì, ma da Alberto l’ho saputo perché Alberto mi raccontava tutto.
PAOLO MONDANI Alberto Lo Cicero accompagna Stefano delle Chiaie a Capaci nell’area che poi sarà di interesse per la strage.
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Glielo ho detto prima se non mi sbaglio che Alberto ha fatto un sopralluogo con queste persone dove c’era un tunnel a Capaci.
PAOLO MONDANI Il tunnel dove hanno messo la bomba?
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Si perché poi io ne ho parlato con i carabinieri, ho menzionato tutte queste persone.
PAOLO MONDANI Mi spieghi cosa le ha detto Alberto rispetto al ruolo di Stefano delle Chiaie nella preparazione di quell’attentato.
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Alberto pensava che Stefano delle Chiaie era l’aggancio fra mafia e lo Stato.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Siamo a fine maggio del 1992, tra la strage di Capaci e quella di Via D'Amelio. Lo Cicero sta entrando nel programma di protezione e viene convocato da Paolo Borsellino che riservatamente indaga sulla morte dell'amico Giovanni.
PAOLO MONDANI Cosa aveva voluto sapere Borsellino?
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Chi erano le persone che lui aveva visto a Capaci, con chi aveva parlato.
PAOLO MONDANI Quindi Alberto Lo Cicero, mi conferma gli parlò di Stefano delle Chiaie?
MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Si parlò di Stefano delle Chiaie. Alberto ha avuto l’impressione che Borsellino avesse tutto il quadro.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dunque secondo la testimonianza della compagna di Lo Cicero, Maria Romeo, Lo Cicero avrebbe informato Borsellino della presenza di Delle Chiaie in un lungo interrogatorio, proprio quando Borsellino stave indagando sulla morte dell’amico Giovanni. Non sappiamo se ha verbalizzato o se abbia appuntato nell’agenda rossa quei colloqui. Fatto sta che Borsellino parla anche con Walter Giustini, l’ex brigadiere, il quale gli racconta tutti i contenuti di quelle informative che contenevano le informazioni di Lo Cicero. Gli racconta anche del tentative da parte di Contrada, all’epoca, di spostarlo dale indagini. Noi andiamo in onda, il giorno dopo cosa accade? Che il 24 maggio, martedì, alle 7 a casa del nostro inviato Paolo Mondani e poi dopo anche presso la redazione di Report si affaccia la Dia. Ha un mandato di perquisizione firmato dalla Dda di Caltanissetta. Vuole acquisire tutto il materiale cartaceo o che è presente sui telefonini e sui pc riguardante i contenuti dell’inchiesta andata in onda. Poi la perquisizione viene sospesa, il decreto viene revocato. Anche perché poi si scopre che erano documenti vecchi di 30 anni e riguardano sostanzialmente le parole di Walter Giustini, di Maria Romeo, di Alberto Lo Cicero. Nulla di segreto, nulla di riservato, semmai di dimenticato. Ecco perché poi il decreto di perquisizione viene revocato. Tuttavia il nostro Paolo Mondani scopre proprio da questo decreto di essere stato seguito, pedinato, intercettato e anche filmato nel corso della sua inchiesta sulle stragi di mafia. Viene anche convocato dalla procura un mese prima della messa in onda del servizio e oppone poi il segreto per quello che riguarda le fonti, segreto professionale. Ma i magistrati dicono: “Se manderete in onda quelle interviste noi saremo costretti, forse, a smentirne i contenuti”. Cosa che si è effettivamente poi realizzata con un comunicato proprio mentre stavano svolgendo le perquisizioni. La procura sottolinea che Mondani non è indagato e però si sta realizzando una fuga di notizie e che la presenza di Delle Chiaie a Capaci è destituita di ogni fondamento. Ma è veramente così? L’ex procuratore generale della procura di Palermo in un’intervista rilasciata ai colleghi di RaiNews24 parla di un documento fino a poco tempo fa rimasto occuto. L’hanno scoperto da poco, e parla proprio della presenza di Delle Chiaie a Capaci e dei suoi contatti con i boss. Noi oggi cercheremo di aggiungere qualche tassello a questa vicenda e anche qualche mistero. Il nostro Paolo Mondani.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Walter Giustini è il brigadiere dei carabinieri che alla fine del 1991 riceve le confidenze di Alberto Lo Cicero, guardaspalle e autista del boss di Cosa Nostra Mariano Tullio Troia, soprannominato U'Mussolini per le sue dichiarate idee politiche. Quelle confidenze di un uomo che ha deciso di tradire Cosa Nostra nascondono un tesoro ma la procura della repubblica di Palermo e alcuni ufficiali dei carabinieri sembrano non capire la forza dirompente di Lo Cicero.
PAOLO MONDANI Siamo all'8 gennaio del 1993 Balduccio Di Maggio viene catturato dai carabinieri dal colonnello Delfino vicino a Novara e Di Maggio racconta come arrestare Totò Riina a partire dal suo autista. A questo punto entra in gioco lei
WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Arrivai che era quasi notte, verso mezzanotte, l’una. E li negli uffici incontrai il mio comandante di reparto, mi informò che era stato arrestato Balduccio Di Maggio. E che aveva indicato il nome dell’autista di Totò Riina e che in quel momento personale del Ros era negli uffici dell’anagrafe a cercare di identificare questo personaggio indicato da Balduccio Di Maggio
PAOLO MONDANI L’autista di Riina
WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO L’autista di Riina. Quando io chiesi al mio capitano: “ma chi sarebbe questo autista?”, mi disse Salvatore Biondolillo. Io li dissi, “no, è Salvatore Biondino, come io affermo da 8/9 mesi, anche un anno. A me ne aveva parlato un collaboratore di giustizia Alberto Lo Cicero
PAOLO MONDANI Che era confidente
WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Prima all’inizio era confidente, parlava con me in via confidenziale, poi, per qualche mese insomma. Poi ci fu la strage di Capaci, e la strage di Borsellino e lui decise proprio di collaborare con la giustizia perché non condivideva più
PAOLO MONDANI Lei mi conferma che la notizia di Biondino, Salvatore Biondino che faceva da accompagnatore di Totò Riina
MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Si, si, si
PAOLO MONDANI Lei e Alberto la passate ai carabinieri prima della strage di Capaci?
MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Sì
PAOLO MONDANI Voglio sapere all’incirca quanto tempo prima lei ha saputo di Biondino autista di Riina rispetto alla strage di Capaci 23 maggio….
WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO È, qualche mese prima
PAOLO MONDANI Arriviamo al giorno dell’arresto di Riina, 15 gennaio
WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Gennaio
PAOLO MONDANI ….del 1993. Lei si trova in caserma e mi ha detto che incontra il Procuratore Caselli, appena arrivato a Palermo in quelle ore, aveva preso servizio come Procuratore capo e un altro pubblico ministero che era Aliquò, Vittorio Aliquò
WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Si. Erano lì nel cortile…..
PAOLO MONDANI Mi vuole dire che cosa succede tra di voi?
WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Niente, io mi avvicinai, siccome, ma anche un po’ in tono scherzoso, siccome non ero stato creduto, forse non è che non ero stato creduto io, non era stato creduto Lo Cicero e neanche forse avevano dato tanto credito ai riscontri che noi portavamo sulle dichiarazioni di Lo Cicero
PAOLO MONDANI Tutti positivi..
WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Diciamo al 98%. Poi qualcosa non si riusciva ad accertare perché non c’erano elementi per farlo. Io mi avvicinai al dottor Aliquò e gli dissi: “dottore Aliquò non mi deve dire niente lei?”, lui mi guarda e mi dice: “che cosa?”, dico “non mi deve dire niente? Lo sa chi è l’autista di Salvatore Riina, quel Biondino Salvatore che per lei era un perfetto sconosciuto.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ma Lo Cicero non si limita a tentate di far catturare Totò Riina, racconta ai carabinieri che Stefano delle Chiaie, l'estremista di destra coinvolto in prima persona nella strategia della tensione degli anni '70, leader di Avanguardia Nazionale, gruppo sciolto per decreto nel 1976, era presente a Capaci nei mesi precedenti la strage e avrebbe supervisionato il cantiere dell'attentato al giudice Falcone.
MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Alberto mi ha detto...
PAOLO MONDANI Le disse cosa?
MARIA ROMEO EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO che Stefano Delle Chiaie era il portavoce dei politici di Roma PAOLO MONDANI Per fare la strage?
MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Per fare la strage perché questo magistrato dava fastidio, sia ai politici, allo Stato e alla mafia
PAOLO MONDANI Che altri boss aveva incontrato Stefano Delle Chiaie?
MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO So che in quell’occasione c’erano i Bonanno, c’erano i Biondino. Alberto mi ha detto così, che c’è, che stavano organizzando i Bonanno, i Troia e c’era pure questo Stefano Delle Chiaie: stavano organizzando qualcosa di grosso
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Dopo la nostra puntata di lunedì scorso qualcuno ha obiettato sulla veridicità del coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie nel progetto stragista di Capaci il 25 maggio Spotlive l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato è intervenuto così
SPOTLIVE- 25 MAGGIO 2022 ROBERTO SCARPINATO-PROCURATORE GENERALE PALERMO FIANO AL 14 GENNAIO 2022 Noi già dopo le stragi abbiamo indagato Stefano Delle Chiaie, unitamente a Licio Gelli, a Salvatore Riina, ad altri soggetti perché secondo noi coinvolti in un progetto di destabilizzazione dello Stato connesso alla strategia stragista. Nel maggio del 2001 fummo costretti ad archiviare perché non avevamo elementi sufficienti, ma successivamente sono stati acquisite importanti risultanze processuali che noi non conoscevamo. Ed è stato acquisito anche un documento ufficiale redatto nel 1992 con la quale si comunicava a più autorità che Stefano delle Chiaie nella primavera del ’92 era venuto a Palermo, si era incontrato con boss mafiosi e che era coinvolto nella strage di Capaci
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nell'autunno del 1992 il capitano dei carabinieri Gianfranco Cavallo, ora generale, fa un’informativa su Lo Cicero dopo aver sentito a lungo Maria Romeo. Quella informativa sparisce per lungo tempo ma poi improvvisamente ricompare. Maria Romeo viene sentita a verbale anche dal capitano Arcangioli che successivamente verrà indagato e poi prosciolto per la sparizione dell'agenda rossa di Paolo Borsellino, è lui qui quel 19 luglio del '92 con la borsa del giudice nella mano sinistra. Ma le vicende misteriose che avvolgono le dichiarazioni di Lo Cicero non si fermano qui.
PAOLO MONDANI C’è un capitano dei carabinieri nel 1992 che si chiama Gianfranco Cavallo
WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Si. Che conosco molto bene
PAOLO MONDANI Ora generale
WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Si
PAOLO MONDANI Che fa un’informativa su tutta questa vicenda Lo Cicero e altre cose, l’informativa è del 5 ottobre ’92, lei si ricorda che cosa dice questa informativa?
WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO No, io quell’informativa non mi ricordo neanche di averla letta, io ho solo saputo che la Romeo Maria era stata convocata dai carabinieri della sezione di PG della pretura per una questione di assegni. E io dopo la ripresi pure alla Romeo, gli ho detto “ma scusa, ma stiamo facendo delle indagini, ma perché vai a raccontare le stesse cosa a un altro reparto. Poi dici, magari esce una notizia che non deve uscì e a noi ci invalida tutta l’indagine
PAOLO MONDANI E perché Giustini, sa perché? Perché lei capisce, da quello che immagino che nonostante la sua buona volontà poi i magistrati non le danno retta
WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO È lo so
PAOLO MONDANI Lei ha conosciuto un capitano dei carabinieri che si chiama Cavallo?
MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Si
PAOLO MONDANI Che a un certo punto la sente. Diciamo così. Nel 1992?
MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Si
PAOLO MONDANI Che anche sulla base delle sue dichiarazioni
MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Ma anche con il capitano Arcangioli ho parlato
PAOLO MONDANI Poi succede che nel 2007 sia lei che Lo Cicero venite sentiti dalla procura nazionale antimafia
MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Si, ma non si trova nulla di quello che gli ho dato io
PAOLO MONDANI Cioè cosa le, ha dato?
MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Io gli ho dato tutte le registrazioni di Alberto
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Storicamente quando si incontra l’eversione di destra si sbatte sempre su un depistaggio, un insabbiamento, una prova che sparisce. Giuliano Turone è il magistrato che nel 1984 rinviò a giudizio Michele Sindona nel corso dell’inchiesta sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli. Nel 1981 con Gherardo Colombo scoprì la P2 e nella villa di Licio Gelli sequestrò la lista degli affiliati. Oggi indaga sul caso dell’omicidio di Piersanti Mattarella perché pensa che i misteri siano troppi e ritiene che la pista calda sia ancora quella nera. Esattamente come riteneva Giovanni Falcone
GIULIANO TURONE-EX MAGISTRATO Giovanni Falcone, nel novembre dell’88 era stato sentito dalla commissione parlamentare antimafia e aveva come dire lanciato una sorta di appello a proposito dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Aveva detto alla commissione parlamentare che, in quel processo era molto importante approfondire proprio l’ipotesi di un rapporto tra l’ambiente mafioso e la destra eversiva questo appello la commissione parlamentare antimafia non ha, non l’ha evidentemente colto. Ma quello che è più inquietante è che questa audizione di Falcone è stata segretata dai servizi segreti. È stata segretata ed è rimasta segretata dal 1988 fino al 2018
PAOLO MONDANI Nel gennaio del 2021 la corte d’Assise di Bologna condanna Gilberto Cavallini in primo grado come quarto componente della strage del 2 agosto ’80. Nella sentenza scrive che bisognerebbe rifare il processo che aveva prosciolto Fioravanti e Cavallini sull’omicidio Mattarella
GIULIANO TURONE-EX MAGISTRATO La mia conclusione è che sia necessario comunque riaprire le indagini sul caso dell’omicidio di Piersanti Mattarella
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bisognerebbe cioè riaprire i cassetti. E a proposito di cassetti: che fine hanno fatto le registrazioni con le voci di Lo Cicero che la sua compagna, Maria Romeo, aveva consegnato agli investigatori? Insomma, abbiamo capito che sui mandanti esterni delle stragi c’è ancora molto da lavorare. È il pensiero del resto del gip di Caltanissetta, la giudice Graziella Luparello, che appena pochi giorni fa, il 18 maggio, ha respinto la richiesta di archiviazione sui mandanti esterni della strage di via D’Amelio. Il gip chiede di approfondire ben 32 punti, e le nuove indagini dovranno capire meglio l’ "interazione tra mafia, destra eversiva, servizi segreti e massoneria." Cioè verificare "l'esistenza di un patto occulto finalizzato a sostenere forze politiche filoatlantiche” . Questo anche in virtù degli elementi emersi negli ultimi processi, quello della strage di Bologna, quello di Reggio Calabria, del processo Italicus, quei documenti relativi alla desecretazione dei verbali dell'audizione di Giovanni Falcone in Commissione antimafia sul delitto Mattarella. Falcone ipotizzava un ruolo, una co-regia, della destra eversiva. E poi il gip chiede anche di approfondire il ruolo di Paolo Bellini, killer di Avanguardia nazionale imputato come uno degli autori nel processo per la strage della stazione di Bologna, autore di una trattativa misteriosa nel 1991 basata sui beni artistici. È in collegamento con Gioè, autore della strage di Capaci, anche lui legato a Avanguardia Nazionale, morto poi misteriosamente in carcere. Un suicidio misterioso. Il gip chiede anche di acquisire nuovi elementi sulla morte di Antonino Agostino, poliziotto esperto anche lui nella ricerca di latitanti ucciso dopo l'attentato dell'Addaura e quello del suo collega Emanuele Piazza il giovane poliziotto anche lui a caccia di latitanti sciolto nell’ acido. Il gip chiede di intersecare gli elementi di questi omicidi con quelli emersi durante la sentenza di condanna di Contrada, perché tutto questo sostanzierebbe la tesi che in quegli anni, la Questura di Palermo e il SISDE potrebbero avere allevato, al loro interno, un nucleo operativo trasversale occulto, che potrebbe avere avuto un ruolo fondamentale negli omicidi eccellenti e nelle stragi di Capaci e via D'Amelio. E sempre il gip chiede ancora di indagare sui conti di faccia da mostro, il poliziotto Aiello, su quelli della moglie, e della figlia. Di verificare i suoi rapporti con la destra eversiva. Ultimo livello da sondare, ma non per questo meno importante, è quello politico, cioè è quello di indagare su quel personaggio, o su quel partito, che potrebbe avere avuto un ruolo o che potrebbe aver contribuito a definire la strategia della tensione. Chiede quindi il gip di acquisire le dichiarazioni del collaboratore Salvatore Cancemi su Dell’Utri e Berlusconi, quelle relative ai fratelli Graviano e semmai dovesse essere necessario anche di interrogare nuovamente i fratelli Graviano. E infine di indagare sul ruolo delle Leghe nate nel 1990 acquisendo le dichiarazioni di Antonio D’Andrea, ex segretario della Lega Meridionale, noi le abbiamo trasmesse lunedì scorso, che parla appunto di un ruolo di Delle Chiaie anche in queste leghe, sul ruolo di Forza Italia a fare approvare leggi favorevoli alle organizzazioni criminali. Insomma si tratta di rivisitare circa 30 anni e più di indagini. Che sono poi i filoni che Report da sempre sta raccontando e soprattutto con le ultime inchieste sulla mafia. Eppure qualcuno ci ha accusato di depistaggio, i giornali ci hanno accusato di depistaggio, alcuni hanno invocato l’intervento della commissione parlamentare di vigilanza Rai, hanno invocato addirittura una puntata riparatoria. Ecco vorrei dire a questi giornali che l’unico depistaggio certificato dai fatti della storia è quello che è stato operato da alcuni giornali in una campagna di diffamazione nei confronti di Report, della redazione e del sottoscritto. Vorrei anche ricordare che l’unica puntata riparatoria che è stata fatta in seguito a un’inchiesta di Report, a firma della collega Maria Grazia Mazzola, riguardava il governatore Totò Cuffaro, che poi però è stato condannato con l’accusa di aver favorito uomini di Cosa nostra. Ecco questo per amore della verità, che emerge sempre da sola la verità, mentre la menzogna ha sempre bisogno di complici.
Carola Delle Chiaie contro Report: su Capaci raccontano un film senza fondamento. Il Tempo il 24 maggio 2022.
Non si placano le polemiche dopo la trasmissione "Report" andata in onda lunedì 23 maggio su Rai3. Dopo le perquisizioni della Dia nella redazione di "Report" e a casa dell’inviato Paolo Mondani, prende la parola Carola Delle Chiaie, vedova di Stefano, il fondatore di Avanguardia Nazionale morto a Roma il 12 settembre 2019 e accusato proprio durante la trasmissione di Sigfrido Ranucci. Carola Delle Chiaie, commenta così all’Adnkronos la puntata andata in onda. «Quello che ho visto non è giornalismo, è una forma di sciacallaggio su una persona che non solo è stata prosciolta da qualsiasi imputazione che ha avuto nel corso degli anni, dopo essersi fatto 17 anni di latitanza e 2 di galera, ma che non c’è più e che non è in grado di difendersi. Si permettono di inserirlo in uno scenario incredibile: dopo quanti anni scoprono che Delle Chiaie era a Capaci, che addirittura ha dettato la strategia delle stragi? È una follia, non c’è altra spiegazione». «Che vogliano coprire la pista dell’oro di Mosca che sta uscendo e a cui mai è stato dato seguito? È una contrapposizione? - chiede la moglie dell’ex leader di destra - Non hanno considerato, però, che Stefano Delle Chiaie ha una moglie, che prima ancora è stata sua militante, che non permette queste cose. Non solo per il suo onore ma per il mio e per il nostro, di tutti quelli che hanno militato in una formazione che si può accusare di tante cose, ma non di connessioni con gentaccia come la mafia e tanto meno con la Massoneria, che mio marito detestava come poche altre cose».
Nella trasmissione di inchiesta, infatti, si sosteneva la sovrapposizione della destra eversiva alla mafia e, nello specifico, un ruolo ben definito, anzi decisivo, di Delle Chiaie nell’attentato al giudice Giovanni Falcone, di cui ricorrevano i 30 anni. «Hanno inventato connivenze con Licio Gelli, addirittura un numero di telefono che il suo avvocato per fortuna ha trovato nel processo di Bologna. Cose smentite in sede processuali oggi ritirate fuori. Report, a mio avviso, non è un programma serio così come chi si è prestato alla pagliacciata di ieri: mi auguro di trovare gli estremi per una querela. “Bastardi senza onore”, li avrebbe definiti Stefano. Perché si può anche essere schierati come giornalisti, ma mai senza onestà intellettuale. Quello che hanno raccontato - conclude la vedova Delle Chiaie - è un film, non ci sono prove o indizi che documentino la presenza a Capaci di mio marito. Se non mi fossi arrabbiata, sentendomi io colpita in prima persona nella doppia veste di moglie e militante, ci sarebbe stato solo da ridere».
Stragi di mafia, Report omette quello che Falcone scoprì su Gladio e sull’ex neofascista Volo. Per Michele Anzaldi di Italia Viva della commissione di vigilanza Rai, la trasmissione fa vero servizio pubblico. In realtà spaccia per giornalismo di inchiesta un romanzo sulla Spectre. A che pro, omettere l’indagine di Falcone sul punto? Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 30 maggio 2022.
«Da Report è arrivato un contributo davvero di servizio pubblico, nel giorno della ricorrenza della strage contro Falcone e la sua scorta», ha affermato il deputato di Italia Viva e segretario della commissione Vigilanza Rai, Michele Anzaldi. Quindi sarebbe servizio pubblico dare credito alla pista Gladio o all’ex estremista di destra Alberto Volo, scartati entrambi già da Falcone nel suo ultimo atto prima di lasciare l’allora procura di Palermo? Sulla presenza a Capaci dell’ex appartenente di Avanguardia nazionale, detto “er caccola”, Stefano Delle Chiaie, il livello è identico visto che ci si aggrappa a un de relato (e ora casualmente si parla di registrazioni sparite).
Nel ’92 in 10 verbali il collaboratore Alberto Lo Cicero mai ha menzionato Delle Chiaie
Curioso che nel ’92, innanzi ai pm di diverse procure e anche all’allora brigadiere Walter Giustini, in tutti e 10 i verbali che vanno dal ‘92 al 1996, mai il collaboratore Alberto Lo Cicero ha menzionato Delle Chiaie, personaggio già alla ribalta. Ma tutto ciò meriterà un altro approfondimento a parte. Dobbiamo pensare che nel nostro Paese, non a caso al 58esimo posto nella classifica annuale che valuta lo stato del giornalismo, è servizio pubblico omettere le conclusioni delle indagini di Falcone che farebbe mettere in discussione l’eterna pista usata e abusata che, di fatto, allontana altre verità ben documentate?
Il pentito Pietro Riggio considerato inattendibile dalla procura di Caltanissetta
È grande giornalismo di inchiesta riproporre il pentito Pietro Riggio considerato – come ha riportato Repubblica (ma Il Dubbio – il 26 ottobre 2020 e il 18 dicembre 2020 – lo ha già analizzato come dovrebbe fare il giornalismo indipendente) – inattendibile dalla procura di Caltanissetta? È vero giornalismo intervistare Marianna Castro, ex moglie dell’ex poliziotto millantatore Peluso, senza accorgersene che ha detto cose diverse rispetto a ciò che si legge nelle sue dichiarazioni (altrettanto surreali) rese alla procura nissena? Quindi, anche secondo il deputato di Italia Viva (non del M5s, dai quali è più naturale attendersi tali dichiarazioni), a quanto pare è giusto fuorviare l’opinione pubblica assuefatta dalle dietrologie più disparate.
La reazione dell’avvocato Fabio Trizzino alle puntate di Report dove riesuma la pista P2, Gladio ed eversione nera
A trent’anni di distanza dalla strage di Capaci, per onorare la memoria di Falcone si infanga stravolgendo non solo il suo pensiero distante anni luce da taluni teoremi che già lo perseguitavano, ma anche il suo metodo di indagine. Non è interessato a nessun politico, tantomeno della commissione Vigilanza Rai, il grido di dolore dell’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino come reazione alle puntate di Report dove riesuma la pista P2, Gladio ed eversione nera, che nulla hanno che fare con le stragi di Capaci e di Via D’Amelio.
A nessuno, tranne che alla procura di Caltanissetta che – con un comunicato a firma del procuratore Salvatore De Luca – è stata costretta a smentire talune notizie riportate da Report che «possano causare disorientamento nella pubblica opinione e profonda ulteriore amarezza nei prossimi congiunti delle vittime delle stragi».
Report ritira fuori un interrogatorio al neofascista Volo del 2016
Ancora una volta, Report, senza alcun pudore, ritira fuori un interrogatorio del neofascista Alberto Volo reso ai pm nel 2016. Ed è lì che ha dichiarato di aver parlato con Borsellino, tanto che quest’ultimo gli avrebbe addirittura confidato di essere certo che ad armare quell’attentato contro il collega Falcone non fu la mafia. «Gli dissi quello che io temevo e scoprii – dice Volo ai pm – che lui era praticamente sulla stessa linea di pensiero, assolutamente. Soprattutto che non credeva assolutamente alla teoria del bottoncino. Io sono troppo intelligente per credere a questa sciocchezza». Volo, sempre davanti ai pm, sostiene che fu l’ex dirigente del Commissariato competente, Elio Antinoro, a organizzare l’incontro con Borsellino. Un episodio smentito clamorosamente dall’ex commissario.
Per Falcone l’ex neofascista Volo era del tutto inattendibile
Che le parole di Volo siano stato invece vagliate da Falcone, è cosa nota. Talmente nota che il giudice ucciso a Capaci, scrisse nero su bianco che è del tutto inattendibile: «Si consideri ancora – si legge nell’ordinanza sui delitti eccellenti sottoscritta da Falcone – , come sull’onda dell’attualità il Volo abbia preteso progressivamente di identificare un modesto circolo palermitano come la “Universal Legion” con la “Rosa dei venti”, oggetto di notissime inchieste giudiziarie negli anni 70, e poi con la struttura “Gladio”, alla quale infine egli afferma, anzi deduce di appartenere, “rivelando” i suoi presunti rapporti con il generale Inzerilli (dirigente effettivo della struttura negli anni 80) soltanto il 20 novembre 1990, dopo che l’alto ufficiale ha rilasciato un’intervista alla Rai – Tv, e “deducendo” ancora l’appartenenza alla stessa Gladio di Giuseppe Insalaco da una battuta che quest’ultimo (per la verità assai improbabilmente) gli avrebbe fatto sulla ”Universal Legion”».
Falcone a proposito di Volo parla di “mitomanie” e “protagonismo”
Non solo. «La palma del “migliore” se così si può dire – scrive ancora Falcone -, spetta certamente ad Alberto Volo. Nei suoi racconti egli è capace di accomunare idee politiche e tarocchi, contatti con servizi segreti e vicende amorose. La vicenda nella quale è implicato esalta la sua mania di protagonismo. Vale la pena di rilevare immediatamente come il comportamento del Volo in questo processo risponda a quel ruolo fantastico e delirante del quale l’imputato ha deciso di connotare ogni momento della sua esistenza». Poi Falcone prosegue con un esempio quando Volo si autoaccusò di far parte di organizzazioni eversive e di sapere tutto sulla strage di Bologna Ma quindi Falcone ha preso in considerazione Alberto Volo su quale aspetto? Presto detto. «Deve essere chiaro – spiega sempre Falcone-, peraltro, che dietro alle “mitomanie” ed al “protagonismo” del Volo (e che lo inducono alle più distorte e talvolta fantasiose ricostruzioni dei fatti) sta comunque il suo inserimento, quantomeno a livello conoscitivo, nella realtà umana della destra eversiva. La frequentazione del Mangiameli lo ha portato a sapere molto dei fatti legati al terrorismo ed anche dei progetti in atto».
Anche all’epoca di Falcone i mass media pompavano il millantatore Alberto Volo
Ma per essere più chiari, è utile riportare fedelmente anche cosa Falcone ha scoperto su Gladio, pista che – solo per fare un esempio – creò grossi intralci anche alle indagini che il giudice Guido Salvini intraprese sulla strage di Piazza Fontana. Ecco, quindi, un passaggio chiaro su cosa pensava Falcone del presunto coinvolgimento della Gladio: una sciocchezza. Da notare quanto non sia cambiato nulla: anche all’epoca i mass media pompavano il millantatore Alberto Volo.
A pagina 1550 dell’ordinanza Falcone smentisce che abbia avuto mai contatti con i servizi segreti
È un passaggio che si trova pagina 1550 dell’ordinanza sui delitti eccellenti. È l’ultimo atto di Falcone, ma Report, il servizio pubblico elogiato anche dal deputato di Italia Viva Anzaldi, non lo cita: «Va pure evidenziato che non è risultato che Alberto Stefano Volo abbia mai avuto contatti con i servizi di sicurezza o con l’organizzazione Gladio, nonostante le dichiarazioni recentemente rese ai giornali ed alle tv dal medesimo. Con riguardo alla Gladio, è opportuno ricordare, poi, che ulteriori accertamenti documentali sono stati compiuti dall’ufficio del pm di Palermo, nell’ambito di un diverso procedimento, riguardante l’omicidio di Giuseppe Insalaco.
Grave che l’opinione pubblica venga disinformata
In tale sede, l’esame della documentazione completa concernente tutte le persone inserite nella struttura o anche semplicemente “valutate” per un loro eventuale inserimento, ha consentito di escludere l’esistenza di alcuna relazione con i temi e le persone costituenti oggetto del presente procedimento. In tal modo, come si è già detto nella parte relativa all’omicidio dell’on. La Torre, si è pure venuti incontro ad una specifica richiesta della p.o. P.C.I. – P.D.S.». Grave che un canale di Stato ometta tali circostanze. Grave che l’opinione pubblica venga disinformata, creando un devastante e forse irreparabile sprofondamento nell’ignoranza. Oltre a eventuali pressioni contro quei magistrati seri in circolazione che si occupano delle stragi.
Capaci, il depistaggio della Rai smentito dai magistrati. Piero Sansonetti su Il Riformista il 31 Maggio 2022.
La Tv di Stato insiste a riproporre il depistaggio sull’uccisione di Giovanni Falcone, di sua moglie e della scorta. Rimesta la pappa – già categoricamente smentita dalla procura di Caltanissetta – con i soliti testimoni fantasiosi, con il ritorno di affermazioni di terza mano, con l’accreditare testimoni già considerati inattendibili dalla magistratura e col racconto di misteriosi documenti spariti e di cose conosciute dal dottor Scarpinato, che però non è un passante, è un magistrato che ha lavorato in Sicilia per trent’anni ed è stato anche Procuratore generale di Palermo, ma le interviste clamorose le rilascia ora che è in pensione.
La tesi della Rai (e del Fatto) è più o meno questa: per l’attentato a Falcone bisogna seguire una pista nera. E la mafia? Beh, la mafia non è così importante. Gregari. È la vecchia tesi (riassumibile con la celeberrima frase: “la mafia non esiste”) che da due secoli viene usata dai circoli reazionari per gettare fango sulle indagini dei magistrati seri. È la tesi contro la quale vittoriosamente si batté proprio Falcone, che la demolì nel maxiprocesso per il quale, poi, ha pagato con la vita. Il problema non è la buffonata del depistaggio, ma il fatto che il depistaggio è condotto dalla Rai. Che addirittura accredita la tesi di una signora che sostiene di avere portato alla Procura nazionale antimafia una bobina, con le accuse di suo marito (morto) a Stefano Delle Chiaie (morto), forse longa manus di Gelli (morto) forse, perché no? – ma questo non si dice esplicitamente – mosso da Andreotti (morto); e sostiene – la signora – che però la bobina è sparita. Ci sarebbe da ridere, su una storia così scombiccherata, se non fosse che è stata accreditata dal servizio pubblico. Come tutta la storia sulla pista nera, nonostante le smentite secche della procura di Caltanissetta.
Cosa fa la vigilanza? E cosa c’è dietro? Faccio un ipotesi: dietro c’è la battaglia per la nomina del nuovo procuratore di Palermo. La vecchia, e arrugginita antimafia (che non ha mai preso un mafioso in vita sua) dopo aver perso Roma, Milano e la procura nazionale ora teme di perdere anche Palermo. E chiede aiuto alla Rai per la controffensiva.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
La trasmissione Rai insiste con la bufala di Delle Chiaie. Le fake news di Ranucci sulla strage di Capaci, tutte le fantasie (smentite) di Report. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 31 Maggio 2022.
Non è RaiPlay, ma poco ci manca. “Report”, RaiTre, ieri si è ripetuto: è tornato in onda con una puntata-sequel all’insegna dell’inseguimento di fantomatiche “ombre nere”. Paolo Mondani, con la collaborazione di Roberto Persia, torna a cercare le tracce della presenza di Stefano Delle Chiaie, il fondatore di Avanguardia Nazionale, a Capaci. Una presenza più che misteriosa, intangibile: non risulta affatto nei pur approfonditi faldoni dell’inchiesta giudiziaria sulla strage che costò la vita, trent’anni fa, a Giovanni Falcone, alla moglie e agli uomini della scorta.
Dopo una settimana in cui viale Mazzini ha preteso – e in più casi incassato – la solidarietà del giornalismo sindacalizzato, ecco la nota che ieri ha provato a mettere di nuovo in discussione la storia: «I contatti di Delle Chiaie con esponenti mafiosi continuano a emergere dalle parole dell’ex brigadiere dei carabinieri Walter Giustini e da quelle di Maria Romeo, ex compagna del pentito Alberto Lo Cicero. Nel racconto della Romeo a Report emerge la testimonianza da lei fornita all’allora ufficiale dei carabinieri Gianfranco Cavallo. Nella informativa scaturita da quell’incontro “si attesta il coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie nella strage di Capaci del 23 maggio 1992”. Insomma, ecco le inoppugnabili fonti, le inconfutabili prove: di Delle Chiaie, morto nel settembre 2019, parla la vedova di un collaboratore defunto a sua volta, che ancora in vita era stato considerato inattendibile.
È lo stesso Fatto Quotidiano, che su questa inchiesta è stato lo scenarista di Report, a doverlo ammettere: «Lo Cicero sarà stato inattendibile per alcuni giudici ma di certo era considerato un pentito ‘pericoloso’ per la mafia». Inattendibile per i magistrati ma non per Il Fatto – Report, che ci cascano con tutti i piedi. Ci sarebbe, questa la novità, una informativa dei Carabinieri a supportare la tesi. Di più: ci sarebbero stati dei nastri con la voce di Lo Cicero che indicava, pensate un po’, proprio la presenza di Delle Chiaie in quella parte di Sicilia, prima di Capaci. Peccato che poi – è la malasorte di Report – questi nastri siano scomparsi. E a dare manforte alla flebile tesi della “pista nera” vengono chiamati i servizi segreti del Paraguay. Misconosciuti ai più, non certo leggendari. Ma comunque utili per imbastire una trama esotica. Ecco spuntare un documento inedito su Stefano Delle Chiaie redatto in Paraguay all’epoca della giunta militare di Alfredo Stroessner. Ma il dittatore paraguayano è morto nel 1989, come avrebbe potuto documentare l’attività di Delle Chiaie, a ridosso del maggio ’92? Preveggenza.
Risulterebbe comunque una relazione del Sisde sui movimenti di Delle Chiaie, che prova a riannodare le fila della destra extraparlamentare in Calabria – incontrando nel 1990 il tarantino Giancarlo Cito – e in Sicilia dove l’unica nota puntuale riguarda una riunione avuta nel novembre 1991 con “uno storico esponente del Msi di Ragusa”. Siamo un po’ troppo distanti, in termini di spazio e di tempo, dalla strage di Capaci. “Si tratta di un fantasy giudiziario”, dice al Riformista il deputato di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone. Il parlamentare, membro della Vigilanza Rai, segue da vicino lo strano caso della “pista nera”. «Abbiamo presentato un question-time in Vigilanza: questa pista nera era stata battuta e abbandonata anni fa, quando si era già capito che non c’erano elementi. Era una bufala già nota», la stroncatura del parlamentare. E allora? «Ha fatto benissimo la Procura di Caltanissetta a chiedere quali fossero le fonti e da dove esce fuori questo fantasy giudiziario». Si tratterebbe, par di capire dalle parole di Mollicone, di un fuori pista che depista. Servito ad arte per confondere la scena, come in un elenco di operazioni che può essere qui utile riepilogare.
Si va dalla costruzione a tavolino della falsa verità sulla strage di via D’Amelio, per cui sono sotto processo, grazie proprio al lavoro della Procura di Caltanissetta, tre poliziotti, a indiscrezioni di ogni tipo: un parasole scambiato per l’agenda rossa scomparsa di Borsellino, rivelazioni su 007 col volto deturpato e donne killer dietro le quinte delle stragi, testimoni falsi come Massimo Ciancimino che tirano in ballo uomini delle istituzioni, pentiti come Maurizio Avola che, mentendo, si autoaccusano dell’eccidio di via D’Amelio. Ed ecco su questo elenco allungarsi l’ombra delle rivelazioni attribuite al collaboratore di giustizia Alberto Lo Cicero, poi smentite dai pm, della presenza a Capaci del terrorista nero Stefano delle Chiaie.
Di riscontrato al momento c’è solo il clamoroso depistaggio dell’inchiesta sulla morte di Borsellino, costato l’ergastolo a sette innocenti e sventato grazie alle dichiarazioni dell’ex boss Gaspare Spatuzza, con pentiti costruiti ad arte, costretti a dire il falso e un processo in corso a tre investigatori. Il resto, al momento, è frutto di ipotesi giornalistiche bocciate dalle ricostruzioni degli inquirenti, con un unico effetto: rimescolare le carte. L’ultima nota dei magistrati nisseni è di martedì scorso: «Alberto Lo Cicero sia nel corso delle conversazioni intercettate, che nel corso degli interrogatori resi, al pubblico ministero e ai carabinieri, non fa alcuna menzione di Stefano Delle Chiaie», ha fatto sapere, secco, il procuratore di Caltanissetta, Salvatore De Luca.
La distrazione di massa ha qualche effetto secondario sull’agenda politica. I referendum vanno in votazione tra dodici giorni e di informazione istituzionale ce n’è poca, pochissima. I radicali denunciano all’AgCom la scomparsa del diritto a una informazione corretta, mentre Fratelli d’Italia ha presentato una interrogazione: «Ci vuole una finestra nei talk show di prima e seconda serata dedicata ai referendum», insiste Mollicone. «Stranamente, mentre ci avviciniamo alla data del voto, la Rai parla di tutt’altro, perfino di trame nere e di revisione della storia giudiziaria, pur di non mettere al centro il tema dell’urgente riforma di una giustizia che non funziona».
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
I 30 anni di Falcone e la strage di Capaci. “Su Delle Chiaie a Capaci la Rai si è prestata al complottismo”, intervista all’avvocato Basilio Milio. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 26 Maggio 2022.
Legale dei grandi processi, tra cui quello al generale Mario Mori, Basilio Milio è memoria storica e parte attiva – perché attivista del garantismo e dei diritti – in quella Palermo che fatica a uscire dal gomitolo delle trame. A lui chiediamo un parere sul caso del depistaggio Rai (Report).
Report sui misteri di Capaci cala l’asso di Delle Chiaie. Cosa ne pensa?
La tempestiva ed opportuna iniziativa della Procura di Caltanissetta, che ha ritenuto di dover perquisire la redazione di Report nonché l’abitazione di un suo giornalista e “smentire notizie che possano causare disorientamento nella pubblica opinione e profonda ulteriore amarezza nei prossimi congiunti delle vittime delle stragi” è tranciante. Se vuole la mia opinione, basata sulla mia esperienza – ricordo che io e l’avv. Romito, difensori rispettivamente del Prefetto Mario Mori e del Colonnello Giuseppe De Donno, abbiamo per ben tre volte segnalato al presidente della Repubblica, alla commissione di Vigilanza Rai e ad altre autorità istituzionali le ricostruzioni non aderenti alla realtà proposte da Report – si tratta dell’ennesima dimostrazione di tale modus operandi. Aggiungo che, con queste trasmissioni, si intende celebrare Giovanni Falcone e non si tiene conto di uno dei suoi insegnamenti, quello secondo cui la mafia non prende ordini da nessuno e non esiste alcun terzo livello. E, restando a Falcone, qualche anno fa ho letto un interessante libro, Il viaggio di Falcone a Mosca. Viaggio che il magistrato aveva in programma per indagare sui finanziamenti del Pcus al Pci-Pds; purtroppo non arrivò in tempo perché fu ucciso a Capaci. Se mi permette una battuta, allora, dove c’è il giallo c’è sovente anche il rosso.
Di depistaggi ce ne sono stati già tanti. Possibile che si creino ancora corto circuiti in cui la Rai sostiene piste misteriose senza alcuna fonte attendibile, malgrado appunto i processi per le false piste?
Ritengo sia grave in generale e ancor di più per il servizio pubblico, che è sovvenzionato da tutti noi, prestarsi, consapevolmente o meno, ad accreditare quelle che il Procuratore di Caltanissetta ha definito “notizie che possano causare disorientamento nella pubblica opinione e profonda ulteriore amarezza nei prossimi congiunti delle vittime delle stragi”. Occorrerebbe interrogarsi sul cui prodest, con particolare riguardo a quale o quali forze politiche possano trarre giovamento dal propagandare teorie complottiste.
Sulla Trattativa Stato-mafia Martelli precisa che vi fu un negoziato investigativo volto a ottenere informazioni. Che è tutt’altra cosa della inesistente Trattativa romanzata. Lei è d’accordo?
È quello che sosteniamo da circa vent’anni, da quando è iniziato il calvario giudiziario del prefetto Mori. Ma veda, la cosa interessante è che tutti i giudici che si sono occupati di queste vicende hanno sempre sancito, nelle loro sentenze di assoluzione, che quei contatti furono una legittima e perfino “lodevole e meritoria” attività investigativa. Un rapporto tra ufficiali di polizia giudiziaria ed una fonte confidenziale, Vito Ciancimino, finalizzato ad ottenere informazioni per catturare Riina e Provenzano e contribuire, decapitando il vertice di “Cosa nostra”, a far cessare le stragi.
Quello di concedere per due volte, nel 1993, deroghe e cancellazioni per centinaia di regimi 41bis, fu una decisione tutta politica e, in questo, un grave errore?
Ho letto l’intervista all’On. Martelli. Concordo sul fatto che si trattò di una decisione politica. Per quanto riguarda la giustezza o erroneità della stessa, vi fornisco un dato che non tutti conoscono. Dei 334 ai quali Conso, nel novembre 1993, non prorogò il 41 bis, solo a 52 venne negli anni – e in qualche caso nel decennio – successivi nuovamente applicato il regime speciale. Ciò significa una cosa: che per i restanti 282 non venne, nemmeno successivamente alla decisione di Conso e negli anni a seguire, riscontrata l’esistenza delle condizioni legittimanti il ripristino del 41 bis. Credo che di questo occorra tener conto nel formulare qualsiasi giudizio sulla scelta di Conso.
Chi o cosa può avere oggi interesse nel rimestare nel torbido di quella vicenda?
Io credo che i teoremi attorno a queste vicende (“trattativa”, mancate proroghe dei 41 bis, stragi di Capaci e via D’Amelio e relative cause, eccetera) siano il frutto di interessi convergenti. Per un verso si tratta di “armi di distrazione di massa”, ossia racconti finalizzati a distrarre l’opinione pubblica, le masse appunto, dall’interrogarsi su altri accadimenti. Per fare un esempio, è più facile convincere “il popolo” che vi sia stata una “trattativa” illecita tra lo Stato e la mafia nel 1992-1993 che cercare di fargli comprendere le ragioni per le quali, nelle indagini sulla strage di via D’Amelio, si è dato credito ad un falso pentito di nome Scarantino realizzando, così, quello che nella sentenza del processo “Borsellino Quater” è stato definito “il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana” e mandando in galera cinque innocenti. Tali teoremi sono sovente funzionali anche a costruire carriere giornalistiche, professionali, politiche. Ed anche a qualche punto in più di audience o a vendere qualche copia in più di un quotidiano.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
"I neofascisti dietro Capaci". Ma i pm smentiscono Report. Felice Manti il 25 Maggio 2022 su Il Giornale.
Capaci di tutto. Da tre giorni il Fatto martella sulla "pista nera" dietro la strage, anticipando il servizio di Report in onda lunedì sera.
Capaci di tutto. Da tre giorni il Fatto martella sulla «pista nera» dietro la strage, anticipando il servizio di Report in onda lunedì sera. Secondo questa ipotesi Stefano Delle Chiaie, anima nera della Prima Repubblica e fondatore di Avanguardia Nazionale, morto a Roma nel 2019, sarebbe stato visto a Capaci un mese prima della bomba. A dirlo è la fidanzata del pentito Alberto Lo Cicero, sorella del factotum del legale di Delle Chiaie. C'è anche un carabiniere in congedo, Walter Giustini, che sostiene che l'arresto di Totò Riina poteva scattare prima della strage.
Peccato siano tutte circostanze che, a detta di chi indaga sulle stragi di Capaci e Via D'Amelio, sono «totalmente smentite dagli atti» ma che «possono comunque causare disorientamento e profonda ulteriore amarezza nei congiunti delle vittime», scrive in una nota il procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca, che parla di «macroscopica fuga di notizie su atti posti in essere da altro ufficio giudiziario». «C'è una verità giudiziaria ed una storica e giornalistica da raccontare», si difende Sigfrido Ranucci, che con il Giornale non vuol parlare. Ieri mattina il giornalista di Report che ha firmato il servizio, Paolo Mondani, è stato perquisito dalla Dia (ma il provvedimento, datato 20 maggio, è stato ritirato in serata) perché avrebbe dato «al luogotenente dei carabinieri in congedo documentazione in possesso del giornalista» in modo che fosse «preparato» prima di un interrogatorio davanti ai pm nisseni.
La morte di Giovanni Falcone non è andata come dicono i processi, Il Giornale lo scrive da anni. Ora, che il commando raffazzonato che ha piazzato l'esplosivo sotto l'autostrada non fosse in grado di agire da solo era chiaro. Che al servizio dei boss ci fossero schegge impazzite dei servizi o di intelligence straniera era plausibile. Sui telefonini clonati collegati agli Usa sul luogo della strage - come rivelò il libro I Diari di Falcone di Edoardo Montolli (Chiarelettere) basato sulle perizie di Gioacchino Genchi - e sulla circostanza che l'esplosivo potesse provenire dalla Laura C, la Santa Barbara della 'ndrangheta affondata al largo di Saline Joniche, nessuno ha però mai indagato a fondo. La verità sui reali mandanti viene ancora una volta distorta per giochi politici di bassissima lega, chiamando in causa, anche senza nominarlo, Silvio Berlusconi, e Forza Italia come mandanti occulti, manovrati da Cosa Nostra. Ma la realtà punta in direzione opposta, come aveva scoperto il giudice Gabriele Chelazzi, morto prematuramente: a cedere al ricatto mafioso nel 1993 fu il governo di centrosinistra, che revocò ad un migliaio di mafiosi il carcere duro, il 41 bis. Ma la pista fascio mafiosa piduista, anche se già archiviata, fa così gola che sopra ci piombano i Cinque stelle, tanto che il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra parla di «censura» a Report.
Prima, strana coincidenza. Lo Cicero era stato ascoltato in un paio di colloqui investigativi del 2006 dal pm della Dna Gianfranco Donadio, che per primo ha ipotizzato la «pista nera» chiamando in causa anche l'ex agente Giovanni Aiello (accusato di essere quel Faccia di mostro al centro di torbidi complicità) e l'ex 007 Bruno Contrada. Per aver condotto indagini «parallele» a quelle dei pm siciliani di Catania e Caltanissetta Donadio fu cacciato dalla Direzione nazionale antimafia guidata da Piero Grasso di cui era il vice ma graziato dal Csm: «La procura generale della Cassazione, pressata dai procuratori imbufaliti, aprì un'inchiesta», spiega l'ex leader Anm Luca Palamara nel suo libro Lobby&Logge. Al Csm l'allora seconda carica dello Stato in quota Pd ci raccontò, è la versione di Palamara, che Donadio non faceva un'inchiesta parallela ma era coperto da una sorta di prerogativa della Dna che gli consentiva persino di utilizzare persone legate ai servizi segreti. Il Csm si bevve la versione di Grasso. Ah, oggi Donadio è consulente di Morra.
Seconda coincidenza. Lo spunto investigativo del 2006 di Donadio è stato rivitalizzato dall'ex pg Roberto Scarpinato - vicino alla pensione, come lamenta Marco Travaglio - con una lunga informativa alla Dna. Riciccia fuori anche Sistemi criminali, una sua inchiesta archiviata nel 2002 ma sempre funzionale a riesumare vecchi scheletri, visto che ipotizza l'esistenza di una cupola con dentro mafia, 'ndrangheta e P2. Mentre invece fascicoli seri come il rapporto «Mafia e appalti» a Palermo vennero archiviati proprio da Scarpinato «e senza dirlo al giudice Borsellino», come ricorda il legale dei familiari del giudice Fabio Trizzino allo stesso Scarpinato. Un magistrato che, a dire di Ilda Boccassini, era «un narciso siciliano che aveva ostacolato Falcone perché dissentiva dalle sue interpretazioni del fenomeno mafioso». Certo, è anche vero che nel 1990, quando Falcone interrogava Licio Gelli assieme ai magistrati Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone per scoprire chi c'era dietro gli omicidi di Piersanti Mattarella, Michele Reina e Pio La Torre, il Viminale ne era informato da Luigi Rossi, prefetto ed al tempo capo della Criminalpol «violando il segreto istruttorio», come racconta Simona Zecchi su The Post Internazionale.
Terza coincidenza. Donadio ha lavorato con Giovanni Melillo, oggi Procuratore nazionale antimafia, su strage di Bologna e Paolo Bellini, finito suo malgrado nel frittatone complottista. Il suo legale Antonio Capitella spara: «Il processo lo andiamo a fare nei cimiteri». Sì, ma per favore lontano dalle tombe di Falcone e Borsellino.
Strage di Capaci, la procura di Caltanissetta smentisce “Report”: «Lo Cicero non ha mai menzionato Delle Chiaie». Il procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca riporta passaggi delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia che smentirebbero le ricostruzioni giornalistiche andate in onda su Rai3. Il Dubbio il 24 maggio 2022.
La procura di Caltanissetta, «che si era imposta la rigorosa consegna del silenzio, è costretta a intervenire per smentire notizie che possano causare disorientamento nella pubblica opinione e profonda ulteriore amarezza nei prossimi congiunti delle vittime delle stragi, che si verrebbe a sommare al tremendo dolore sofferto». È quanto si legge in una nota della stessa procura nissena, guidata da Salvatore De Luca. «Non compete a questo Ufficio esprimere valutazioni generali in ordine alla completezza e tempestività delle indagini coordinate da altra autorità giudiziaria a meno che le stesse non abbiano una rilevanza penale in un procedimento di sua competenza; qui si intende solamente affermare che sono del tutto destituite di fondamento le affermazioni circa la sussistenza di specifiche e tempestive dichiarazioni rese dal Lo Cicero sugli argomenti sopra indicati e, quindi, che sarebbe stato possibile evitare la strage di Capaci ed anticipare di alcuni mesi la cattura di Salvatore Riina – si legge nel testo – Questa Procura ha già espresso il proprio convincimento circa la sussistenza di mandanti e concorrenti esterni nella strage di via D’Amelio, chiedendo nel processo per il depistaggio la condanna degli imputati con la contestata aggravante di mafia, riguardante la finalità di coprire le alleanze di alto livello di cosa nostra in quel periodo. Tuttavia, le difficilissime indagini che possono consentire l’accertamento della verità devono essere ancorate ad elementi di fatto solidi e riscontrati».
Allo stesso modo, la procura definisce «destituite di fondamento le affermazioni circa la sussistenza di specifiche e tempestive dichiarazioni rese da Alberto Lo Cicero e, quindi, che sarebbe stato possibile evitare la strage di Capaci e anticipare di alcuni mesi la cattura di Salvatore Riina». «Nell’ambito della trasmissione televisiva Report, andata in onda il 23 maggio sono state inserite le interviste al luogotenente dei Carabinieri in congedo Walter Giustini e alla signora Maria Romeo, dalle quali è emerso complessivamente che, nel corso delle indagini condotte nel 1992 dai Carabinieri del Gruppo 1 – Palermo, coordinate dalla Procura di Palermo, sono state fornite da parte di Alberto Lo Cicero, prima quale confidente e poi quale collaboratore di giustizia, preziose informazioni circa la preparazione della strage di Capaci (quindi prima del tragico evento), nonché circa la funzione svolta da Salvatore Biondino quale autista del latitante Salvatore Riina, molti mesi prima che lo stesso venisse catturato in compagnia dello stesso Biondino», si legge nella nota. Dichiarazioni che, spiega la Procura, «sono totalmente smentite dagli atti acquisita sia presso gli archivi dei Carabinieri, sia nell’ambito del relativo procedimento penale della Procura di Palermo».
.«Il riscontro negativo emerge dalle trascrizioni delle intercettazioni ambientali fatte nei confronti del Lo Cicero, prima della sua collaborazione, nonché da tutti i verbali di sommarie informazioni e di interrogatorio dallo stesso resi prima dei su indicati eventi – si legge nella nota della procura – In particolare, nel corso delle sommarie informazioni in data 25 agosto 1992, il Lo Cicero dichiara di aver riscontrato delle anomalie nel comportamento di alcuni uomini d’onore poco prima della strage di Capaci, pensando però che volessero organizzare qualcosa per ucciderlo (Lo Cicero era già stato vittima di un tentato omicidio nel dicembre del 1992), concludendo “Mai avrei pensato quello che poi è avvenuto”».
Per quel che riguarda la rilevanza di Biondino, Lo Cicero ha affermato, «sia nel corso delle discussioni intercettate, che nell’ambito degli interrogatori antecedenti alla cattura di Salvatore Riina, che Biondino era l’autista del latitante Giacomo Giuseppe Gambino Giuseppe, arrestato già diversi anni prima delle dichiarazioni in esame, non facendo in alcun modo menzione del Salvatore Riina, se non in data 22.1.1993 (cioè in data successiva alla cattura del detto latitante): »vedendo la sua immagine proprio sui giornali e in televisione, mi sono ricordato che quella persona l’ho vista qualche volta nella villa del Troia». Allo stesso modo «Lo Cicero, sia nel corso delle conversazioni intercettate, sia nel corso degli interrogatori da lui resi, al Pubblico Ministero e ai carabinieri, non fa alcuna menzione di Stefano Delle Chiaie».
Stragi di mafia, qualcuno avvelena i pozzi all’insaputa di Report? Naufragato il teorema Trattativa, ora per gli attentati del ’92 rispunta la presunta pista nera. Ma la procura smentisce. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 25 maggio 2022.
«Questo Ufficio è costretto ad intervenire per smentire notizie che possano causare disorientamento nella pubblica opinione e profonda ulteriore amarezza nei prossimi congiunti delle vittime delle stragi, che si verrebbe a sommare al tremendo dolore sofferto». È un passaggio del comunicato stampa della Procura di Caltanissetta in merito al servizio di lunedì sera andato su Report. Precisamente su rai tre, un canale pubblico che per l’ennesima volta compie una ricostruzione del tutto opinabile in merito alla strage di Capaci e di Via D’Amelio.
Accantonato il teorema trattativa Stato Mafia, tesi decostruita dalla sentenza d’appello, ora si riesuma la pista nera che, pilotata da “entità” tipo la P2 di Gelli (e a sua volta dagli Stati Uniti tramite la Gladio), avrebbe portato avanti la strategia della tensione manovrando l’ignaro Totò Riina. Non solo. Lo scoop – smentito puntualmente dalla procura nissena – è che sul luogo dell’attentato di Capaci, insieme ai boss, sarebbe stato presente Stefano Delle Chiaie, capo di Avanguardia Nazionale deceduto nel 2019. Quindi ecco la pista: Falcone è stato ucciso per via della strategia della tensione (a quanto pare fuori tempo massimo visto che in quel periodo era decisamente anacronistico), e poi ucciso a sua volta Paolo Borsellino perché stava indagando informalmente su quel fronte. Una tesi che farebbe impallidire i QAnon americani, i cui membri sostengono una teoria secondo la quale esisterebbe un’ipotetica trama segreta organizzata da un presunto Deep State. Lo Stato profondo. Ed è ciò che ritroviamo in talune “inchieste” in prima serata: una sorta di terzo livello che coordina tutto, perfino la Storia italiana. Tutto ciò è un insulto alla memoria di Falcone che si è sempre differenziato per l’approccio scientifico sul fenomeno mafioso, stigmatizzando la teoria del terzo livello che vede un grumo di entità che eterodirigerebbe la cupola di Cosa Nostra. Fino al resto della sua vita, Falcone ha detto chiaro e tondo che la realtà è molto più grave e complessa. In una sua ultima intervista poco prima di morire disse: «Negare l’esistenza del terzo livello significa che comanda Cosa Nostra e non i politici». Nel suo ultimo libro “Cose di cosa nostra” scritto assieme a Marcelle Padovani, non a caso dice quanto siano «abili, decisi, intelligenti i mafiosi», aggiungendo «quanta capacità e professionalità è necessaria per contrastare la violenza mafiosa». Falcone, professionale lo era. Una mente che Totò Riina ha voluto sopprimere con un’azione eclatante e che ha rivendicato in segreto, parlandone a più riprese con il suo compagno d’ora d’aria al chiuso del 41 bis.
Che ci siano stati interessi convergenti con personaggi esterni a cosa nostra, questo è accertato processualmente attraverso le indagini sulle stragi. Ma quali? Ci viene in aiuto la motivazione della sentenza Capaci Bis. Il “gioco troppo grande” è stato individuato dalla Corte di Caltanissetta in una sinergia che «si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Giovanni Falcone». Ed ecco che si arriva al movente che singolarmente viene continuamente insabbiato da presunte “inchieste” televisive: «Alla base di questa campagna di delegittimazione – scrive la Corte – vi era una precisa consapevolezza del pericolo che l’attività di Giovanni Falcone rappresentava non solo per “Cosa nostra”, ma anche per una molteplicità di ambienti economico-politici abituati a stabilire rapporti di reciproco tornaconto con l’organizzazione criminale, a partire dal settore degli appalti e delle forniture pubbliche».
Lo stesso Falcone, sempre tramite i suoi scritti, ha considerato che la ricchezza crescente di Cosa nostra le dava un potere accresciuto, che «l’organizzazione cerca di usare per bloccare le indagini». Ha osservato che le connessioni fra una politica affarista e una criminalità mafiosa sempre più implicata nell’economia, rendono ancora più inestricabili le indagini. Non è un caso che, nelle sentenze, tra i mandanti della strage di Capaci (ma anche di Via D’Amelio) compare anche Salvatore Buscemi. Non è un personaggio secondario, visto che, assieme al fratello Antonino, erano fondamentali all’interno di Cosa nostra visto che ricoprivano un ruolo assolutamente dominante nella cosiddetta imprenditoria mafiosa avvalendosi della compiacente “collaborazione” fornitagli da taluni esponenti delle istituzioni di allora e da enormi settori del mondo dell’imprenditoria e della finanza.
La pista è quella di mafia appalti, ed è quella che viene reclamata più volte dalla famiglia Borsellino, in particolar modo dall’avvocato Fabio Trizzino. Ci sono una quantità industriali di atti, testimonianze, verbali, che fanno chiaramente capire che Borsellino, anche informalmente, stava indagando sulla causale appalti e forse anche cose gravi che sarebbero avvenute all’interno della procura di Palermo guidata dall’allora capo Pietro Giammanco. Lo disse pubblicamente nel discorso a casa professa: «Falcone approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, di non poter più continuare ad operare al meglio». Cosa ha scoperto Borsellino? Purtroppo non fece in tempo: ci fu l’accelerazione della strage di Via D’Amelio. Secondo il Borsellino quater, la causale è da ritrovarsi sul suo interessamento riguardante il “dossier mafia appalti”. Il che inquadra un periodo ben preciso pieno zeppo di avvenimenti, incontri, sofferenze e inquietudini. Il problema è che si tratta di una pista ancora non approfondita fino in fondo, nonostante siano emersi nuovi materiali grazia anche al contributo de Il Dubbio. Ma ancora una volta, ci sono trasmissioni in prima serata che puntano su piste surreali. E forse c’è anche dell’altro. Qualcuno imbecca gli ignari giornalisti di Report per deviare l’opinione pubblica e magari anche gli inquirenti? Interessante il comunicato della procura di Caltanissetta in merito alle perquisizioni effettuate nei confronti della redazione di Report: non sono indagati e la perquisizione non è stata fatta perché hanno disorientato il pubblico.
Ci sarebbe qualcosa di più. Come precisa il procuratore di Caltanissetta, Salvatore De Luca, la perquisizione non riguarda in alcun modo l’attività di informazione svolta dal giornalista, «benché la stessa sia presumibilmente susseguente ad una macroscopica fuga di notizie, riguardante gli atti posti in essere da altro ufficio giudiziario». Secondo quanto accertato dalla procura, il giornalista avrebbe incontrato il luogotenente dei carabinieri in congedo Walter Giustini, non per richiedergli informazioni, ma per fargli consultare la documentazione in possesso in modo che lo stesso Giustini fosse preparato per le imminenti sommarie informazioni da rendere alla Procura nissena. Secondo quest’ultima è quindi necessario verificare la natura di tale documentazione posta in lettura al Giustini, che «presumibilmente costituisce corpo del reato di rivelazione di segreto d’ufficio relativo alla menzionata attività di altra autorità requirente». La procura smentisce categoricamente le dichiarazioni rese da Lo Cicero (autista del boss Mariano Tullio Troia) sul fatto che sarebbe stato possibile evitare la strage di Capaci e anticipare di alcuni mesi la cattura di Salvatore Riina. Così come, sia nel corso delle conversazioni intercettate, che nel corso degli interrogatori da lui resi, al Pubblico Ministero e ai Carabinieri, Lo Cicero non fa alcuna menzione di Stefano Delle Chiaie sul luogo dell’attentato di Capaci. Ora però c’è da chiedersi a chi giova tutta questa disinformazione, magari fatta all’insaputa degli autori dell’inchiesta televisiva. Qualcuno avvelena i pozzi da moltissimo tempo.
La Procura smentisce "notizie che possano causare disorientamento nella pubblica opinione". Blitz contro Report dopo servizio su strage Capaci: “Fuga macroscopica di notizie”. Redazione su Il Riformista il 24 Maggio 2022.
Blitz della Direzione Investigativa Antimafia nell’abitazione di Paolo Mondani, inviato della trasmissione Report, in onda su Rai 3. Una perquisizione “su mandato della Procura di Caltanissetta, presso l’abitazione dell’inviato di Report Paolo Mondani” e la redazione di Report. A darne notizia è lo stesso giornalista Sigfrido Ranucci che ieri ha condotto la trasmissione.
“Il motivo – spiega – sarebbe quello di sequestrare atti riguardanti l’inchiesta di ieri sera sulla strage di Capaci nella quale si evidenziava la presenza di Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, sul luogo dell’attentato di Capaci”. “Gli investigatori cercano atti e testimonianze su telefonini e Pc“, dice.
Poco dopo arrivano le parole del procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca che spiega che la perquisizione a casa Mondani, “che non è indagato”, punta a “verificare la genuinità delle fonti“. De Luca precisa che la “perquisizione non riguarda in alcun modo l’attività di informazione svolta dal giornalista, benché la stessa sia presumibilmente susseguente ad una macroscopica fuga di notizie, riguardante gli atti posti in essere da altro ufficio giudiziario”.
In una nota la Direzione Distrettuale Antimafia di Caltanissetta entra nel merito: “Nell’ambito della trasmissione televisiva Report, andata in onda in data 23.5.2022, sono state inserite le interviste al Luogotenente dei Carabinieri in congedo Walter Giustini ed alla signora Maria Romeo, dalle quali è emerso complessivamente che, nel corso delle indagini condotte nel 1992 dai Carabinieri del Gruppo 1 – Palermo, coordinate dalla Procura di Palermo, sono state fornite da parte di Alberto Lo Cicero, prima quale confidente e poi quale collaboratore di giustizia, preziose informazioni circa la preparazione della strage di Capaci (quindi prima del tragico evento), nonché circa la funzione svolta da Biondino Salvatore quale autista del latitante Salvatore Riina, molti mesi prima che lo stesso venisse catturato in compagnia dello stesso Biondino”.
Poi la smentita: “Tali dichiarazioni sono totalmente smentite dagli atti acquisiti da questa Procura sia presso gli archivi dei Carabinieri, sia nell’ambito del relativo procedimento penale della Procura di Palermo. Il riscontro negativo emerge dalle trascrizioni delle intercettazioni ambientali fatte nei confronti del Lo Cicero, prima della sua collaborazione, nonché da tutti i verbali di sommarie informazioni e di interrogatorio dallo stesso resi prima dei su indicati eventi. In particolare, nel corso delle sommarie informazioni in data 25 agosto 1992, il Lo Cicero dichiara di aver riscontrato delle anomalie nel comportamento di alcuni uomini d’onore poco prima della strage di Capaci, pensando però che volessero organizzare qualcosa per ucciderlo (il Lo Cicero era già stato vittima di un tentato omicidio nel dicembre del 1992), concludendo “mai avrei pensato quello che poi è avvenuto” (e cioè la suindicata strage)”.
“Per quel che riguarda la rilevanza di Biondino Salvatore – prosegue la nota – il Lo Cicero ha affermato, sia nel corso delle discussioni intercettate, che nell’ambito degli interrogatori antecedenti alla cattura di Salvatore Riina, che il detto Biondino era l’autista del latitante Gambino Giacomo Giuseppe, arrestato già diversi anni prima delle dichiarazioni in esame, non facendo in alcun modo menzione del Salvatore Riina, se non in data 22.1.1993 (cioè in data successiva alla cattura del detto latitante): “vedendo la sua immagine proprio sui giornali e in televisione, mi sono ricordato che quella persona l’ho vista qualche volta nella villa del Troia”. Allo stesso modo il Lo Cicero, sia nel corso delle conversazioni intercettate, che nel corso degli interrogatori da lui resi, al Pubblico Ministero e ai Carabinieri, non fa alcuna menzione di Stefano Delle Chiaie”.
“Non compete a questo Ufficio esprimere valutazioni generali in ordine alla completezza e tempestività delle indagini coordinate da altra autorità giudiziaria a meno che le stesse non abbiano una rilevanza penale in un procedimento di sua competenza; qui si intende solamente affermare che sono del tutto destituite di fondamento le affermazioni circa la sussistenza di specifiche e tempestive dichiarazioni rese dal Lo Cicero sugli argomenti sopra indicati e, quindi, che sarebbe stato possibile evitare la strage di Capaci ed anticipare di alcuni mesi la cattura di Salvatore Riina. Questa Procura ha già espresso il proprio convincimento circa la sussistenza di mandanti e concorrenti esterni nella strage di via D’Amelio, chiedendo nel processo per il c.d. depistaggio la condanna degli imputati con la contestata aggravante di mafia, riguardante la finalità di coprire le alleanze di alto livello di cosa nostra in quel periodo. Tuttavia, le difficilissime indagini che possono consentire l’accertamento della verità devono essere ancorate ad elementi di fatto solidi e riscontrati”.
“Per tali motivi questo Ufficio, che si era imposta la rigorosa consegna del silenzio, è costretto ad intervenire per smentire notizie che possano causare disorientamento nella pubblica opinione e profonda ulteriore amarezza nei prossimi congiunti delle vittime delle stragi, che si verrebbe a sommare al tremendo dolore sofferto. Ed è proprio per verificare la genuinità delle fonti che questa Procura ha disposto una perquisizione a carico di un giornalista di Report, che non è indagato. Tale perquisizione non riguarda in alcun modo l’attività di informazione svolta da tale giornalista, benché la stessa sia presumibilmente susseguente ad una macroscopica fuga di notizie, riguardante gli atti posti in essere da altro ufficio giudiziario. Infatti, secondo quanto accertato da questo Ufficio, in una occasione, il detto giornalista avrebbe incontrato il suindicato Luogotenente in congedo Giustini, non per richiedergli informazioni, ma per fargli consultare la documentazione in possesso di esso giornalista in modo che lo stesso Giustini fosse preparato per le imminenti sommarie informazioni da rendere a questa Procura. E’ necessario verificare la natura di tale documentazione posta in lettura al Giustini, che presumibilmente costituisce corpo del reato di rivelazione di segreto d’ufficio relativo alla menzionata attività di altra autorità requirente. Tale accertamento è tanto più rilevante in considerazione dell’importanza che Giustini attribuisce a tale documentazione, nonché a seguito delle contraddittorie versioni fornite da quest’ultimo in materia di comunicazione nel 1992 delle informazioni da parte dell’Arma all’Autorità Giudiziaria di Palermo”.
“Questo è….e non va bene”. Così, il Presidente della Commissione nazionale antimafia Nicola Morra commenta la perquisizione, ancora in atto, della Dia nella redazione di Report e presso l’abitazione dell’inviato Paolo Mondani, dopo la puntata di ieri sera sulla strage di Capaci e il presunto coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie.
Report, nuovo sospetto su Ranucci: cosa non torna su Falcone e il pentito morto. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 25 maggio 2022.
Leggete pure questo articolo, se avete tempo da perdere. Parla di un pentito morto e sconosciuto che faceva il falegname, a suo tempo considerato inattendibile dai magistrati, che in un colloquio investigativo confidenziale, e non utilizzabile processualmente, 30 anni fa, avrebbe detto che l'ex estremista di destra Stefano Delle Chiaie (morto anche lui) avrebbe fatto un «sopralluogo» a Capaci prima della strage, e che in precedenza avrebbe contattato un generico capo mafia e cercato dell'esplosivo in una cava. A confermare questa improbabilissima cazzata c'è una «testimone protetta» che sarebbe la compagna del pentito-morto-falegname, che lunedì sera è stata intervistata da Report, il decaduto programma Rai di Sigfrido Ranucci.
Nella puntata ha parlato anche un ex carabiniere (ancora vivo) che raccolse le confidenze del pentito-morto-falegname: ha riferito di «strani movimenti a Capaci prima della strage» e della presenza in zona di uomini di Cosa Nostra «che facevano presagire qualcosa di eclatante». Facevano presagire. A Capaci, che è uno svincolo di autostrada in mezzo al nulla. Questo carabiniere ha pure detto che in tempi non sospetti aveva riferito che Salvatore Biondino era l'autista di Totò Riina, ma in pratica nessuno gli diede retta: se invece Biondino fosse stato pedinato - ha detto il carabiniere con l'intervistatore Paolo Mondani che intanto annuiva - Riina si sarebbe potuto arrestare prima delle stragi.
PUZZA DI DOSSIER
Sicuramente Giovanni Falcone, osteggiato e svillaneggiato da tutti mentre concepiva la Direzione distrettuale antimafia e la Direzione investigativa antimafia, non avrebbe certo pensato che questi organismi dovessero occuparsi di scemenze del genere: ma è quello che sta succedendo a Caltanissetta, dove la Dia sta «verificando» tutto l'intreccio e ha pure perquisito l'abitazione dell'inviato di Report Paolo Mondani e la redazione del programma di Rai3, rei di aver abboccato alla scemenza che nella migliore delle ipotesi puzza di servizi segreti lontano un chilometro. Abbiamo pure dovuto sorbirci tutta la commediola della «tutela delle fonti» e degli interventi di Fnsi e Usigrai (Federazione della stampa e sindacato Rai) con l'immortale Beppe Giulietti (Fnsi) a scongiurare le perquisizioni dei giornalisti e a infilare che le perquisizioni vengano fatte a «quelli che da trenta anni sono riusciti a restare in una ben protetta oscurità».
Vi avevamo avvertito: è una gara di cazzate. In pratica la Dda si è colo occupata di verificare la genuinità delle fonti (quelle esposte pubblicamente, non quelle segrete, sempre che esistano) e ha spiegato agli amici di Report che in un programma dell'emittente pubblica aveva sciorinato una serie di scemenze. Volete capirle meglio? Volete sapere quanto sono scemenze? Oltretutto il procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca, nello spiegare i motivi della perquisizione a Report, ha spiegato che tutte le rivelazioni fatte dal pentito morto che faceva il falegname, e anche quelle fatte del carabiniere sulle funzioni di Salvatore Biondino come autista di Salvatore Riina, si sono rivelate - indovinate un po'? - delle cazzate, o in linguaggio corretto: «Sono totalmente smentite dagli atti acquisiti da questa Procura, sia presso gli archivi dei Carabinieri sia nell'ambito del relativo procedimento penale della Procura di Palermo».
INTERCETTAZIONI
Non bastasse, in tutte le intercettazioni fatte nei confronti del pentito morto che faceva il falegname, o in suoi verbali di interrogatorio, il medesimo non aveva mai detto le cose attribuitegli dalla testimone sua ex compagna e subito raccolte da Report e, per inciso, dall'immancabile Fatto Quotidiano; anzi, dopo la strage di Capaci lo si sente espressamente dire «mai avrei pensato quello che poi è avvenuto». Ancora: Salvatore Biondino non era l'autista ufficiale di Riina - anche se lo fu quando entrambi furono catturati- ma lo era del latitante Giuseppe Gambino. Infine: il pentito morto che faceva il falegname - ha concluso la Dia - in nessun genere di colloquio ufficiale o intercettato ha mai pronunciato il nome di Stefano Delle Chiaie.
La deposizione al processo di Verona. La verità di Ranucci: “Controllo 5 procure, sono lo Stato nello Stato”.
Aldo Torchiaro su Il Riformista il 24 Febbraio 2022.
Le dichiarazioni di Sigfrido Ranucci sono clamorose: abbiamo appreso che ha un fratello ai vertici della Guardia di Finanza del quale parla a sproposito anche con gli sconosciuti. Come nel caso dell’incontro-tranello con Sergio Borsato, emissario di Flavio Tosi, che lo incontra il 13 febbraio 2014 alla stazione di Padova. Allo sconosciuto, Ranucci affiderà confidenze che fanno pensare: «Ho un fratello che conta nelle Fiamme Gialle, ecco perché vengo a sapere certe informazioni». Esplosa la bomba della video-trappola che ha catturato audio e video di grande imbarazzo per il conduttore di Report, Flavio Tosi e Ranucci si danno appuntamento nelle aule giudiziarie.
È in quella sede che il 31 gennaio 2018 il popolare conduttore di Rai Tre viene sentito da due magistrati: il dottor Andrea Filippo Castronuovo e la dottoressa Elisabetta Labate. Davanti a loro farà un mesto showdown: «Non è vero che mi passa informazioni. L’ho inventato io. È una menzogna al 100 per cento», sarà costretto ad ammettere. Il fratello di Ranucci – che aveva anche il padre nella Guardia di Finanza – sarebbe stato anche sentito dalla Procura su questo punto. Tra una millanteria e un’altra, ecco l’avvocato di Tosi vincere l’imbarazzo e chiedere al conduttore di Report, seduto al centro dell’aula B14 del Tribunale di Verona, “se è vero che ha agganci a vari livelli anche in Procura a Verona?”. Ranucci reagisce come se ragionasse solo in termini di gole profonde e informatori: «Mi sta chiedendo di rivelare le mie fonti?», risponde. L’aria deve essersi fatta tagliente se a quel punto è stato costretto a intervenire il Pubblico Ministero. «Dica se è vero o se è falso». «È falso», si affretta a chiudere l’argomento Ranucci.
A questo punto, la Corte insiste sulla metodologia di pagamento del famigerato video hard che il conduttore di Report aveva tentato di acquistare. Pagamento solo ipotizzato, non essendosi mai perfezionata l’operazione. A pagina 54 del verbale, Ranucci conferma la trattativa. E cade in una contraddizione che il Pm gli fa notare subito. Inizia l’avvocato di Tosi, Cassini: «Veniamo al discorso del presunto pagamento del video, okay? Allora, lei prima ci ha detto non sono stato sicuramente io a proporre questo, diciamo questo pagamento…». Ranucci conferma. Il legale specifica: «perché c’è, ed è pagina 33 della trascrizione, c’è tutta una descrizione molto specifica, lei non è che dice: ‘sì, va bene, poi ci mettiamo d’accordo’, cioè lei dà delle indicazioni molto precise». Ranucci conferma: «Esatto». Si tratta, per chi ha visto il video da noi pubblicato, del momento in cui Ranucci spiega il giochino delle fatture: «Me ne mandi una contenente delle indicazioni diverse, mi parlate di un girato fatto a Crotone. Io lo valuterò di interesse giornalistico importante e ve lo faccio pagare. Nel frattempo mi dovete far arrivare il materiale vero con un plico anonimo».
L’avvocato Cassini – che rappresenta la difesa di Flavio Tosi – prosegue mentre Ranucci prova a interromperlo: «Che ci potrebbe, mi faccia finire, che ci potrebbe essere una falsa fatturazione avente ad oggetto beni strumentali, fotografici o video fatti attraverso una società compiacente con la quale potrebbe essere versato questo compenso». Ranucci: «Sì, non è una falsa fatturazione, mi sono espresso male, era una fatturazione intestata ad altra persona…» – e subito Cassini: «Che è una falsa fatturazione, perché è una fattura soggettivamente inesistente». Ranucci: «È una cosa che mi sono inventato sul momento perché giustificava l’acquisto del video». In aula devono essere cadute le braccia un po’ a tutti. Il legale di Tosi vuole capire quello che tutti, in questa vicenda, si sono chiesti e si stanno chiedendo. «E senta una cosa, lei di questo video… cioè voglio dire lei è una persona che ne ha viste di tutti i colori, preparata e intelligente, non si è reso conto che forse potevano prenderla per i fondelli?», domanda senza giri di parole. E qui Ranucci ammette di essere caduto in quello che definisce lui stesso “un trappolone”. Prova a giustificarsi: «Allora, il discorso perché poi alla fine cado nel trappolone? Perché io ho notizia, prima che venga ad incontrare Borsato, che Borsato è l’uomo che porta questo filmato su ai vertici della Lega». E qui crolla completamente l’alibi del bluff. Ranucci dovrebbe spiegarci: se ammette di esser caduto in trappola, perché sui social sostiene di aver bluffato?
Tocca all’avvocato Mezzomo, che difende Borsato, intervenire. Torna sul punto delle millanterie di Ranucci. «È vero o falso che lei ha detto che: ‘noi siamo lo Stato nello Stato’?». Ranucci non nega: «È vero che l’ho detto». Mezzomo: «L’ha detto?». «Sì». Mezzomo: «È vero o falso che lei ha detto che controlla cinque Procure nel Veneto?». Ranucci prova a scrollare le spalle: «È vero che l’ho detto ma è falso che controllo le procure, cioè si immagina… cioè lei ci credeva a una cosa del genere?». A questo punto interviene il giudice. «L’avvocato le ha chiesto se è vero che l’ha detto». «Sì, è vero che l’ho detto, sì, sì». L’avvocato Mezzomo non molla: «È vero o falso che lei ha mandato dei messaggi al signor Borsato?». Ranucci: “E’ vero”. Riprende Mezzomo: «Vero. Si ricorda uno di questi messaggi? Glielo dico io, riferiti a Tosi: “con queste informazioni è politicamente finito”. Ranucci non nega. A pagina 77 delle 84 pagine di cui si compone il documento l’avvocato Mezzomo interroga Ranucci sul compenso promesso per mettere le mani sul video compromettente. «Lei prima invece ha detto, proprio parlando dell’incontro di Roma, me lo sono appuntato: “che ho capito che erano falsi perché chi vuole soldi porta il materiale, chiedevano solo soldi però non hanno portato i documenti” Ecco, da quello che lei ha detto prima…». «Il documento che ho portato era finto», specifica sul punto Ranucci. «Non si poteva far nulla con quel documento. Quindi se mi aspettavo il video dice che porti a fare documenti finti?», anticipa la domanda Ranucci stesso. «Esatto. «E quindi lei ha spiegato che si poteva fare un’operazione soggettivamente inesistente?».
A questo punto i tempi sono maturi, nell’aula del Tribunale di Verona, per il riesame del Pubblico Ministero che prova a tirare le fila dell’udienza. «Parliamo del sistema di pagamento, sistema maccheronico, non so se l’ha detto lei… Ma era vero questo sistema o era inventato?», domanda. «È vero che l’ho detto». Il Pm: «Ma è falso il metodo». La replica: «È falso che si possa acquistare in questa maniera. Chi conosce un po’ le procedure di acquisti della Rai sa che non è possibile». Peccato che nel “trappolone” tesogli da Sergio Borsato, Ranucci dichiari tutt’altro, mostri dei moduli, insista affinché l’interlocutore li trattenga, li valuti e poi glieli firmi. «Per vedere se il video alla fine c’era o no», insiste l’interrogato.
Proprio ieri il Tribunale del Riesame di Roma ha confermato i sequestri e i domiciliari nei confronti dell’ex capo della Direzione acquisti della Rai, Gianluca Ronchetti, finito agli arresti per le ipotesi di reato di corruzione e turbata libertà degli incanti. Le indagini, coordinate dalla procura di Roma, delegate al Nucleo di Polizia Economico Finanziaria e svolte con la collaborazione della Rai, hanno riguardato alcuni affidamenti senza gara competitiva, nel periodo dal 2014 al 2019. Al contrario di quanto affermato dal conduttore di Report, il sistema degli acquisti di materiali e servizi in Rai, stando alle prime indagini, sarebbe stato in questi anni particolarmente permeabile.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Mattia Feltri per “la Stampa” il 25 maggio 2022.
Grande sconcerto nel mondo democratico per la perquisizione della Direzione distrettuale antimafia nella redazione di Report e a casa di un suo giornalista.
Io mi unisco allo sconcerto e alzo il mio grido di dolore in difesa della libertà di stampa come caposaldo dello stato liberale e così via (aggiungerei un grido di dolore anche per Stefano Esposito, da senatore intercettato cinquecento volte senza autorizzazione, che dovrebbe far rima con Costituzione, ma mai mischiare la casta con noi eroici giornalisti).
È successo che l'altra sera Report ha dato la notizia sensazionale: nel 1992, poco prima della strage in cui morì Giovanni Falcone, a Capaci fu visto Stefano Delle Chiaie.
Per i pochi ignari, Delle Chiaie è stato un fascista al cubo, di quelli affascinati da Pino Rauti, i miti esoterici, l'Età del Lupo, il Walhalla, quelle robe lì. È morto da tre anni, ma in vita lo hanno accusato di tutto: strage di Bologna, piazza Fontana, Italicus, golpe Borghese, solo per citare le canagliate più celebri. Sempre assolto. Poi era uno che lavorava con Augusto Pinochet, intendiamoci, ma lo hanno infilato in tutte le porcherie italiane, e ne è sempre uscito.
Gli mancava solo Falcone, ed ecco Falcone. Ecco i fascisti in combutta con la mafia. Di colpo, dopo trent' anni di indagini condotte dai più fantasmagorici magistrati del globo, ecco Delle Chiaie con le sue tradizionali bombe. Ecco la clamorosa pista nera.
E infatti non è vero: una stupidaggine archiviata in dieci minuti nel secolo scorso - specifica la procura di Caltanissetta. Diciamo che il grido di dolore per la libertà di stampa mi è uscito leggermente strozzato.
Grazia Longo per “La Stampa” il 25 maggio 2022.
«Non lo voglio vedere come atto ostile alla libertà di stampa, ma certo la modalità dell'intervento, firmato peraltro tre giorni prima della messa in onda, fa molto riflettere sul rischio della tutela delle fonti che danneggiano il pluralismo libero e il giornalismo d'inchiesta».
Sigfrido Ranucci, conduttore di Report su Rai 3, sta aspettando che la Procura di Caltanissetta decida se sequestrare il computer e il telefonino del giornalista Paolo Mondani, dopo aver perquisito la sua abitazione e la redazione per lo scoop sulla presenza dell'estremista di destra Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, a Capaci dove venne ucciso Giovanni Falcone insieme alla moglie e alla scorta.
L'informazione libera è sotto attacco?
«Mi limito a leggere i fatti: alle 7 del mattino hanno perquisito l'appartamento di Paolo, poi la redazione di Report in via Teulada e probabilmente non hanno sequestrato il materiale informatico solo per il can can che si è sollevato. Noi siamo collaborativi, ma ribadiamo l'importanza del nostro lavoro. Ritengo sia fondamentale tutelare le fonti e invece qui siamo di fonte al tentativo di delegittimarle. La stampa libera è fondamentale per la difesa della democrazia».
La procura però in una nota precisa che la «perquisizione non riguarda in alcun modo l'attività di informazione svolta dal giornalista, benché la stessa sia presumibilmente susseguente ad una macroscopica fuga di notizie».
«L'effetto di questa perquisizione non sarà certo positivo, perché se esiste qualcuno che in base alle nuove rivelazioni che abbiamo fornito volesse contribuire alla ricerca della verità, ora ci penserà due volte prima di farlo, per evitare di finire nel tritacarne dei magistrati».
I magistrati insistono sul fatto che non esistono intercettazioni sulla presenza del "signore nero" dell'eversione Stefano Delle Chiaie sul luogo della strage di Capaci.
«Basterebbe leggere l'informativa delle forze dell'ordine riguardo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Alberto Lo Cicero agli investigatori e ai pm. Anche la sua compagna Maria Romeo parla di Delle Chiaie. Credo che scavando si possa scoprire una cosa enorme».
Ma allora la Procura di Caltanissetta non ha fatto abbastanza?
«Da 30 anni sta indagando sui mandanti esterni della strage di Capaci. Che cosa ha trovato finora? Zero. Ogni volta sentiamo dire che sono coinvolti soggetti esterni alla mafia, ma mai nessuno che faccia i nomi. Io mi chiedo quali siano realmente le indagini in piedi su mandanti esterni alla mafia».
Dopo 30 anni ci sono dunque ancora molti misteri da svelare?
«Moltissimi. L'ho detto anche a fine trasmissione, concludendo con una citazione di George Orwell: "Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato"».
Ci sono responsabilità anche nel mondo politico di 30 anni fa, magari con ripercussioni su quello attuale?
«Ci sono centri occulti di potere che rimangono ancora un segreto. Nel 1987, durante una perquisizione a Stefano Delle Chiaie in Venezuela, vennero ritrovati dei documenti su un piano di disinformazione basato su due strategie.
La prima puntava a far passare in Parlamento una linea per scagionare l'estrema destra dalle stragi del passato. La seconda mirava a intossicare l'informazione con un "Centro neutro", così era definito, formato da missini, Comunione e liberazione, socialisti. L'elenco con i nomi è stato secretato. Nel nostro Paese, purtroppo, su ogni strage, da quella di piazza Fontana a quella di Bologna, sono stati messi in atto depistaggi».
Da chi?
«Spesso da cani sciolti della destra eversiva e servizi segreti deviati».
Voi continuerete ad andare avanti con il vostro lavoro?
«Ci proveremo e andremo avanti sempre con il nostro giornalismo d'inchiesta»
Troppi errori nelle indagini sulle stragi. Il depistaggio diventa un alibi per i pm. Felice Manti il 28 Maggio 2022 su Il Giornale.
La pista eversiva che porta a Delle Chiaie emerge dai cassetti dell'accusa, appiattita sui pentiti. Imbeccati ma mai credibili.
Il depistaggio è il facile alibi dei pm inconcludenti. Quando un'inchiesta non funziona si evocano «poteri forti», manine che cambiano le carte in tavola, poliziotti o carabinieri corrotti che imbeccano i testi, smontando e rimontando ipotesi investigative. È quello che certamente è successo per la strage di Via d'Amelio: Vincenzo Scarantino si è autoaccusato della strage, chi è finito in quel falso commando è stato giudicato colpevole salvo poi accusare gli inquirenti di averli forzati con metodi brutali e manipolati con false promesse.
Ma è un alibi che aveva un senso fino al nuovo codice di procedura. Dopo il 1989 il pm è il dominus assoluto dell'attività giudiziaria. Si sceglie gli ufficiali di polizia, ne conosce punti di forza e di debolezza. Lo scrive benissimo Claudio Martelli nel suo libro Vita e persecuzione di Giovanni Falcone (La Nave di Teseo): «Anziché fare del pubblico ministero l'avvocato della polizia, come Falcone avrebbe voluto, lo ha reso arbitro irresponsabile dell'iniziativa giudiziaria e padrone delle indagini anche se niente e nessuno lo ha preparato a un compito così impegnativo».
Chi come Antonino Di Matteo si è bevuto le panzane di Scarantino ha insistito nel chiedere la condanna del fantomatico commando in Appello, quasi come se quella verità di comodo andasse comunque difesa d'ufficio. I poveri rei confessi sono stati prima creduti dai magistrati poi scaricati solo perché rivendicavano la loro innocenza. «Per vent'anni non ci sono state nei loro confronti iniziative e nemmeno indagini», ricorda ancora Martelli nel suo libro parlando degli «abbagli» della Procura di Caltanissetta dopo quelli dei colleghi che si erano occupati dell'attentato dell'Addaura.
La stessa Caltanissetta che oggi reclama di non aver mai avuto contezza di una fantomatica pista eversiva né del possibile ruolo di Stefano Delle Chiaie nell'organizzazione della bomba piazzata sotto l'autostrada ma viene sbugiardata dai ricordi postumi di un ex carabiniere a Report e dal Pg Roberto Scarpinato, mai stato troppo simpatico a Falcone (secondo Ilda Boccassini, che lo chiamava D'Artagnan), pronto alla pensione, che ha tirato fuori dal cassetto una carta sparita da 30 anni e - pare - miracolosamente riapparsa sebbene da anni indaghi senza risultati sui cosiddetti «Sistemi criminali» e sui rapporti tra mafia, 'ndrangheta e P2 che potrebbero aver causato la morte del giudice calabrese Antonino Scopelliti, vergognosamente senza responsabili dopo 31 anni.
C'è una verità claudicante anche dietro la strage di Capaci dove morì Falcone con la moglie magistrato Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. Dalla decriptazione realizzata da Gioacchino Genchi delle agende elettroniche di Falcone, come raccontate nel libro di Chiarelettere scritto da Edoardo Montolli, I Diari di Falcone , venne fuori che al ministero di via Arenula, alla presenza di un magistrato, Carmelo Petralia, pretesa da Genchi, venne fuori che qualcuno aveva acceso il pc di Falcone dopo la sua morte. In una stanza chiusa, messa subito sotto sequestro dal procuratore di Caltanissetta Salvatore Celesti, coi sigilli, al ministero della Giustizia. «C'era un file nascosto, denominato Orlando.bak, un file di backup per il quale mancava il file Orlando.doc - dice Genchi - Era sparito. Qualcuno lo ha cancellato... probabilmente perché dava fastidio. Il file Orlando.bak conteneva tracce degli appunti di Falcone per difendersi al Csm dalle accuse dell'allora sindaco». Quel Leoluca Orlando Cascio che oggi rivendica la verità sul «filo nero che lega Capaci e Via D'Amelio alle bombe di Firenze e Roma del 1993» (ieri era il 29mo anniversario della strage di via Georgofili, su cui indaga senza grossi risultati la Procura di Firenze), lo stesso Orlando che trascinò Falcone per umiliarlo davanti al Csm con l'accusa di tenersi «le carte nei cassetti».
Accuse che oggi si potrebbero rivolgere agli stessi magistrati che hanno indagato a vuoto sulla morte dei loro colleghi. Senza neppure un timido mea culpa.
Depistaggio Report e archivio Persichetti: la solidarietà a dondolo del sindacato. Frank Cimini su Il Riformista il 26 Maggio 2022.
Chi spaccia bufale e chi le contrasta. Chi diffonde la panzana su Stefano Delle Chiaie presente a Capaci riceve la solidarietà del sindacato dei pennini e di tanti “sinceri democratici”: il destino di Report. Chi contrasta la dietrologia sul caso Moro e sulla storia maledetta degli anni ‘70 sta sotto inchiesta da un anno, perquisito, con l’archivio sequestrato e impossibilitato a lavorare: il destino del ricercatore indipendente Paolo Persichetti.
Viene da pensare a un mondo alla rovescia, ma questa è la realtà. Report vive ossessionato dai mandanti esterni a Cosa Nostra, un’ipotesi che Giovanni Falcone aveva escluso con le famose parole sull’inesistenza del famoso “terzo livello”. Ma da trent’anni si commemora Falcone stravolgendo il significato e il valore della sua attività di magistrato, arrivando a “dimenticare” le posizioni che prendeva come quella favorevole alla separazione delle carriere. Torna la “pista nera” dopo che una sentenza ha mandato al macero la storia della trattativa Stato-mafia. Non si vuole prendere atto che Cosa Nostra non prende ordini da nessuno.
La responsabilità però non è solo dei dietrologi nel mondo dell’informazione. C’è nelle procure chi non si rassegna ad archiviare in via definitiva la bufala di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi. Va ricordato che Report ha una tradizione complottarda già dai tempi di Gabanelli. Indimenticabile una puntata di ore e ore sull’11 settembre e Bush che se l’era fatto da solo. Persichetti invece diciamo che non ha la forza di attrarre solidarietà. Un’inchiesta già archiviata a Milano su presunti favoreggiatori della latitanza di Cesare Battisti con il pm Nobili che cestina una richiesta di perquisizione formulata dalla polizia approda a Roma. Qui il pm Eugenio Albamonte (Md) ipotizza l’associazione sovversiva finalizzata al terrorismo poggiata sulla divulgazione di atti della commissione Moro che segreti non erano.
Così ha deciso il perito nominato dal gip. Ma il giudice pure lui di Md non ha avuto il coraggio di dissequestrare il maltolto tra cui i certificati medici del figlio di Persichetti. Gli atti sono stati restituiti al pm che indagherà ancora almeno fino alla fine dell’anno in corso dopo aver messo in dubbio nell’udienza del 20 maggio scorso la validità del lavoro del perito. Il capo di incolpazione è già cambiato 5 volte. Siamo tornati alla violazione del segreto d’ufficio che non può essere contestato a fini di terrorismo formalmente. Ma lo è in pratica. Politicamente perché il problema è politico. Non si vuole ammettere che dietro le Br c’erano solo le Br come dietro Cosa Nostra c’era e c’è solo Cosa Nostra. E non si tratta di una dietrologia fine a se stessa. Serve in modo diverso per governare e riprodurre potere oggi. Frank Cimini
Responsabilità e intelligente vigoria: ecco il vero Giovanni Falcone. Evi Crotti il 28 Maggio 2022 su Il Giornale.
La scrittura e la firma (clicca qui) di Giovanni Falcone, che risultano uguali tra loro, cioè senza alcuna differenza grafica, indicano una personalità coerente, ossia ciò che dice fa e questo forse non è gradito a tutti.
La semplicità e la voglia di crescita caratterizzano l'operato del magistrato siciliano dove la capacità di prevedere situazioni anche complesse e di trovare il bandolo della matassa per risolverle con semplicità e saggezza sono doti per lui naturali (vedi chiarezza delle lettere e rigo ben delineato, senza sbalzi né in alto né in basso).
Egli porta avanti la professione con idealità e linearità, essendo persona che non adotta né forme di narcisismo né di astuzia. Il suo motto sembra essere: “Avanti con le proprie idee costi quel che costi”.
È anche vero che persone così impegnate fanno paura a chi non è etico né lineare. Falcone ha saputo scrutare con sagacia la realtà giudiziaria, portando avanti il proprio lavoro con logica consequenziale, seguendo il suo sentiero passo dopo passo, senza scossoni né sobbalzi emotivi. Egli ha fatto tremare chi tramava, poiché per lui era essenziale assolvere il proprio mandato, arrivando alla radice delle cose con competenza e senso di giustizia, peraltro in lui assai radicato. Ce lo dice il suo modo di scrivere con una grafia parca, lineare e semplice, con un’energia vitale ben distribuita, senza scosse e priva di alcuna forma di rigidità, ma in piena armonia.
Persona consapevole delle proprie responsabilità, è stato capace di risolvere le complessità con acume e calma, ma anche con intelligente vigoria, indice di una personalità “sana”. Come direbbe Fromm, egli ha saputo affrontare la realtà con consapevolezza, dote che ha come fine la Verità.
È proprio per amore della verità che egli ha sacrificato sé stesso, dimostrando di essere uomo di alta levatura etica e professionale.
Una pista rossa per la morte di Falcone: nel 1992 si occupava dell’Oro di Mosca. Andrea Soglio il 23 Maggio 2022 su Panorama.
Arrivato nel 1991 al ministero della Giustizia, il magistrato ebbe ripetuti contatti con Valentin Stepankov, il procuratore di Russia che indagava sui miliardi versati dal Pcus ai partiti comunisti europei e al Pci…
Cosa Nostra, certo. Ma forse non soltanto. Vi stupireste se, dietro la strage di Capaci di 30 anni fa, si nascondessero altri interessi, coerenti con quelli dei boss? E se altre organizzazioni criminali avessero partecipato all’attentato che il 23 maggio 1992 uccise Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta?
Una pista d’indagine assai interessante, con un possibile e concretissimo movente per la tragica fine di Falcone, è stata misteriosamente abbandonata dalla magistratura italiana. È quella del cosiddetto «Oro di Mosca», cioè i finanziamenti versati al Partito comunista italiano: l’equivalente di oltre 989 miliardi di lire tra il 1951 e il 1991. Quella montagna di denaro era stata spedita in 40 anni al Pci e al suo scioglimento (nell’ottobre 1989) era andata anche al suo erede, il Pds. Il mittente era il «Fondo di assistenza internazionale ai partiti e alle organizzazioni operaie e di sinistra» dell’Unione sovietica. Si tratta di quasi mille miliardi di lire, che hanno pesantemente condizionato la vita politica del Dopoguerra. E l’Italia era la destinazione privilegiata del Fondo di assistenza, visto che da sola pesava in media per il 55 per cento dei versamenti.
A fine maggio Falcone doveva «tornare a Mosca»
Ma c’è un importante collegamento tra l’Oro di Mosca e Falcone, che nel febbraio 1991 aveva lasciato il suo posto di magistrato inquirente ed era stato chiamato dal ministro della Giustizia socialista Claudio Martelli a dirigere l’importante Ufficio affari penali del ministero.
In quel ruolo, uno dei suoi incarichi specifici era proprio quello di occuparsi delle rogatorie internazionali: le pratiche giudiziarie che richiedono l’intesa e l’assistenza reciproca tra i ministeri della Giustizia dei Paesi coinvolti. E tre giorni esatti dopo la morte di Falcone il quotidiano moscovita La Nuova Isvestia pubblicò una notizia che in Italia passò inosservata. Il 26 maggio 1992 il giornale rivelò che tra la fine di maggio e i primi di giugno di quell’anno Falcone sarebbe dovuto «tornare a Mosca per coordinare le indagini sul trasferimento all'estero dei soldi del Pcus».
La notizia è assolutamente vera, ed è confermata da fonti autorevoli: prima di morire, tra la primavera e l’inizio dell’estate 1992, Falcone ebbe ripetuti contatti con Valentin Stepankov, il nuovo procuratore generale della Russia post-sovietica, che come primo incarico si era messo a indagare sui finanziamenti versati dall’Urss ai partiti fratelli. Lo stesso Martelli, in un convegno romano organizzato l’8 novembre 1999 per presentare il libro L’Oro di Mosca (Mondadori) di Valerio Riva e Francesco Bigazzi, da poco uscito, conferma che Falcone era coinvolto nell’indagine di Stepankov tra Italia e Russia.
Quel giorno, a Roma, Martelli dice testualmente: «Falcone un giorno venne in ufficio da me, e ricordo che fra gli altri argomenti mi parlò di questa questione. Era molto eccitato, e lo era sia perché aveva avuto un’eccellente impressione di Stepankov, di cui mi disse: “È un uomo di prim’ordine” , e poi per la materia, evidentemente un po’ incandescente, o almeno scottante, e in terzo luogo perché pensava, sfruttando anche quest’episodio, di poter inaugurare una stagione di collaborazione giudiziaria con l’ex unione Sovietica, con la quale non c’era un rapporto di cooperazione».
L’ex ministro della Giustizia aggiunge: «Ricordo che a un certo punto le carte (di Stepankov, ndr) vennero trasmesse alla Procura di Roma (…) e mi pare, in una fase successiva anche alla Procura generale, il cui capo era allora Filippo Mancuso, e dopo la morte di Falcone come è noto la vicenda si è conclusa con un’archiviazione. Credo perché si è indagato soltanto sotto la fattispecie d’ipotesi di finanziamento illecito, e non sotto altre fattispecie che pure potevano essere configurate».
Martelli, che nel 1991-1992 ha lavorato spalla a spalla con Falcone, conferma quindi i preparativi del viaggio a Mosca: «Falcone me ne parlò e io lo incoraggiai ad andare per prestare tutta l’assistenza, la collaborazione ai nostri magistrati, e anche per trovare la possibilità di inaugurare una forma di cooperazione giudiziaria stabile». Aggiunge Martelli: «Che vi fossero altre carte oltre a quelle che poi Stepankov ha trasmesso alle autorità giudiziarie italiane, anche di questo, sì, ho il ricordo: me lo disse Falcone. E questo era uno dei motivi per cui era così interessato e sollecito nel volere andare, nel recarsi di persona a Mosca. Io lo consigliai di accompagnare i magistrati italiani».
Una pista battuta e abbandonata
La pista dell’Oro di Mosca nel corso del tempo è stata battuta e poi abbandonata, ma ancora oggi resta fra le più misteriose e suggestive tra le possibili concause della morte di Falcone. Secondo la Nuova Isvestia di 30 anni fa, il magistrato sarebbe stato incaricato di coordinare le indagini su un colossale riciclaggio dei fondi del Pcus in Italia, «su invito dell'ex presidente della Repubblica italiana, Francesco Cossiga». Falcone, scriveva ancora il giornale russo, «lavorava in coordinazione con la brigata speciale che si occupa della medesima indagine a Mosca». L'Italia, per la Nuova Isvestia, «faceva parte del ristretto numero di Paesi in cui i soldi del disciolto Pcus e dello Stato sovietico scorrevano a fiumi: solo negli anni Settanta, 6 milioni di dollari erano stati trasferiti annualmente dal Politburo come aiuti fraterni».
«Non è escluso» aggiungeva l’articolista russo «che i fondi del partito e dello Stato (cioè l’Urss, ndr) siano stati pompati in strutture occulte italiane per altre strade: attraverso Paesi terzi, sotto forma di tangenti per contratti, e come profitti derivanti dal traffico illegale di Oro e di altri preziosi (...). L'Italia non veniva scelta a caso per gli investimenti del Partito. Le strutture della mafia molto sviluppate, la posizione di forza dei comunisti locali, i solidi contatti stabiliti da tempo, tutto ciò prometteva grandi profitti agli investitori del Pcus».
La notizia dell’incarico di Cossiga viene confermata anche nel saggio L’inganno di Tangentopoli (Marsilio editore) scritto nel 2012 dall’ex ministro liberale dell’Industria Renato Altissimo, Con un’aggiunta: «Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio nessuno però seguì quella pista, che portava ai segreti bancari di San Marino».
Nel libro Strettamente riservato (scritto sotto lo pseudonimo di «Geronimo» e pubblicato dalla Mondadori nel 2000), anche Paolo Cirino Pomicino parla della morte di Falcone. Va ricordato che, mentre scoppiava la bomba di Capaci, Cirino Pomicino era ministro del Bilancio nel governo guidato da Giulio Andreotti. Le sue considerazioni partono dalla errata convinzione che gli ultimi finanziamenti da Mosca al Pci fossero arrivati nel 1984: in realtà è stato provato in base a documenti ufficiali che il flusso è continuato almeno fino al 1991. Ma leggiamo quel che scrive Pomicino: «Furono versati dopo che Michail Gorbaciov dette ordine di non finanziare più i partiti satelliti e quindi su questi finanziamenti indagò la magistratura sovietica dopo il colpo di stato di agosto, e quell’ultimo finanziamento saltò fuori. La domanda è: chi riciclava i dollari trasformandoli in lire? La mafia. Ed è su questo che indagavano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: non a caso due magistrati di destra…».
Anche Borsellino indagava sull’Oro di Mosca
Insomma: prima di morire, sia Falcone sia Borsellino indagavano sull’Oro di Mosca e sui suoi passaggi attraverso Cosa nostra. E forse anche sui collegamenti tra mafia italiana e mafia russa. E Geronimo, subito dopo, conferma anche l’imprimatur del Quirinale su quelle indagini: «Falcone aveva informato allora Andreotti che il suo interessamento era stato sollecitato dal presidente Cossiga qualche mese prima».
Cirino insiste anche sulle caratteristiche tecniche dell’attentato: «Falcone venne ucciso a Capaci, in una strage in cui furono utilizzati materiali abbastanza insoliti per la mafia e più consueti, invece, per le centrali del terrorismo internazionale». Sta di fatto che, scrive l’ex ministro, «tutte le conoscenze che Falcone aveva sui flussi di denaro sporco passarono allora a Borsellino che, a sua volta, secondo l’annuncio dato da Enzo Scotti e Claudio Martelli in tv, avrebbe dovuto assumere la guida della Procura nazionale antimafia. Fu la sua condanna a morte. Due mesi dopo Borsellino saltò in aria alla stessa maniera di Falcone».
Geronimo non lo scrive esplicitamente, ma con questo collegamento diretto inserisce quindi anche la strage di via D’Amelio sotto lo stesso inquietante cono d’ombra, che mescola mafia e «terrorismo internazionale», per usare le sue parole. E subito dopo, per inquadrare ancora meglio quel diabolico maggio del 1992, l’ex ministro conclude così il capitolo: «Alla fine del mese, infine, Vincenzo Scotti (ministro dell’Interno dello stesso governo Andreotti, ndr) mi disse che il Sisde lo aveva informato di un fatto strano: a notte fonda erano partiti da Botteghe Oscure due camion carichi di carte e di armi. Il ricordo mi è stato confermato ancora una volta dallo stesso Scotti nell’autunno 1999».
Andreotti: «Il Kgb ebbe un ruolo nella morte di Falcone»
Ma c’è un altro ex ministro che conferma il collegamento tra Falcone e l’Oro di Mosca, e si tratta addirittura di Giulio Andreotti. Nel saggio Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi (Rai-Eri e Mondadori, uscito nel 2006), Bruno Vespa raccoglie in un lungo paragrafo i sospetti del sette volte presidente del Consiglio, che negli anni fu anche ministro degli Interni, degli Esteri, della Difesa. «Andreotti» rivela il giornalista «ha sempre avuto il sospetto che dietro l’assassinio di Falcone ci fosse anche lo zampino dei servizi segreti sovietici». Poi dà direttamente la parola all’ex presidente del Consiglio, che conferma i suoi sospetti: «Non l’ho mai detto» racconta Andreotti «per non attirarmi l’accusa di voler distogliere i sospetti dalla mafia, ma nulla impedisce di pensare che le due cose si siano sommate. L’attentato a Falcone fu organizzato in modo così spettacolare che, né prima né dopo, la mafia da sola fece niente di simile».
Vespa chiede ad Andreotti perché mai i servizi sovietici, o meglio quanto ne era rimasto dopo la caduta del Muro, avrebbero avuto interesse a uccidere Falcone. E Andreotti, nel libro, risponde così: «Perché Falcone si occupava della fine che avevano fatto i fondi segreti che il Pcus aveva tentato di esportare in Italia dopo la caduta del Muro, ricevendo il rifiuto dei comunisti italiani. Si riteneva, in ogni caso, che quei fondi fossero transitati in Italia, ma dai documenti noti non si riusciva a ricostruirne il percorso e la destinazione finale».
Andreotti aggiunge un fatto inquietante: «Al ministero degli Esteri» racconta «è archiviato un telegramma che dimostra che il procuratore russo Stepankov avrebbe dovuto incontrare Falcone subito dopo la strage di Capaci. Il procuratore stava svolgendo l’indagine, e Falcone, dal ministero, gli stava dando una mano». Di quel telegramma, però, si scoprirà in un secondo momento che è scomparso.
Cossiga conferma: l’inchiesta ci fu
Nel libro, Vespa intervista anche a Francesco Cossiga, e anche a lui chiede di ragionare sulla strana coincidenza tra l’attentato di Capaci e il mancato viaggio a Mosca. E l’ex capo dello Stato gli conferma che «Stepankov aveva rivolto al nostro governo una duplice richiesta di assistenza giudiziaria. Voleva conoscere anzitutto l’ammontare dei finanziamenti ricevuti dal Pci: aveva scoperto che parte di quei soldi proveniva dal bilancio del ministero del Commercio con l’estero e voleva rivalersi contro il vecchio Pcus, accusandolo di aver distratto soldi dello Stato. E poi voleva capire dov’erano finiti i soldi esportati in Occidente dai sovietici prima che Boris Eltsin sciogliesse il Pcus».
Cossiga prosegue rivelando altri fatti importanti: «Massimo D’Alema mi ha confermato che i sovietici allocarono questi fondi presso i conti dei partiti comunisti occidentali e di organizzazioni collaterali. Però ha aggiunto che, quando un uomo di finanza italiano, non comunista, andò a chiedergli se poteva mettere a disposizione i conti del Pci in Italia e in Svizzera per versarvi i fondi del Pcus, lui gli rispose negativamente. I russi inoltrarono le richieste attraverso il ministero degli Esteri. Il governo italiano non rispose, e loro si arrabbiarono».
Nel libro di Vespa, così conclude Cossiga: «Quando Falcone diventò direttore generale degli Affari penali voleva da un lato compiere il monitoraggio delle sentenze, dall’altro coltivare i rapporti con il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (…). Falcone voleva recarsi a Mosca, invece fu Stepankov che venne una prima volta in Italia. Andammo a prendere il caffè in piazza Navona. La seconda volta che venne, Falcone non c’era più». Nel senso che era morto.
L’inchiesta della Procura di Roma
L’ultimo capitolo di questa storia riguarda la magistratura italiana. Poco dopo la tragica morte di Falcone, una sua delegazione parte da Roma, e la destinazione è proprio Mosca. La delegazione comprende il procuratore della Capitale, Ugo Giudiceandrea, con i sostituti Franco Ionta, Luigi De Ficchy e Francesco Nitto Palma. Li seguono due ufficiali di polizia giudiziaria, destinati in seguito a ruoli di primissimo piano nei nostri servizi segreti: sono il colonnello dei Carabinieri Antonio Ragusa e il colonnello della Guardia di finanza Nicolò Pollari.
A Mosca gli italiani atterrano nel pomeriggio del 3 giugno 1992, seguiti da un codazzo di giornalisti. E da subito le loro cronache descrivono notevoli progressi, sono decisamente promettenti. Il giorno dopo, sul Corriere della Sera, Marco Nese scrive per esempio che «se le carte dei russi sono veritiere, dal punto di vista giudiziario (per i responsabili del Pci-Pds, ndr) non si configura solo il reato di violazione della legge sul finanziamento dei partiti. Ci sono anche illeciti tributari e falsi in bilancio. Dai documenti pare che risulti una clausola speciale. Se venisse confermata, sarebbe un fatto clamoroso. Si tratta di questo: i soldi arrivavano a condizione che il Pci seguisse in certe occasioni la linea dettata da Mosca».
Il giorno in cui gli inquirenti italiani ripartono per Roma, il 5 giugno 1992, sulla Repubblica così scrive Franco Coppola, che ha seguito la missione: «A Mosca gli inquirenti italiani hanno avuto l’autorizzazione di consultare i documenti (cioè le carte segrete custodite negli archivi sequestrati dal governo russo dopo il fallito golpe dell’agosto 1991, ndr) e di portarne a casa una parte, utile per le indagini in corso. Il 20 di questo mese ricambieranno la cortesia, ricevendo a Roma il procuratore generale Stepankov».
Coppola, che evidentemente ha avuto modo di parlare con gli inquirenti italiani, parla dei risultati dei loro contatti moscoviti in termini molto concreti e quasi trionfali: «Le indagini hanno permesso di ricostruire i complessi meccanismi in base ai quali i rubli arrivavano a società italiane che, gestite per conto del Pci, avevano rapporti commerciali con l’Urss e venivano accumulati come capitali in nero utilizzati dal partito».
Il giornalista, che pure scrive per un quotidiano che in quel momento è vicino al Pci-Pds, azzarda anche qualche interessante conclusione giudiziaria. Ed è evidente che i suoi suggeritori sono gli stessi magistrati romani in missione, oppure gli ufficiali di polizia giudiziaria: «Questa ipotesi» scrive Coppola «configurerebbe reati che superano la violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti, per arrivare fino a illeciti tributari e a falsi in bilancio. Anche perché i conti sarebbero stati accreditati in Italia, ma su banche estere».
Nell’articolo, poche righe dopo, arriva poi quello che oggi suona come un intenso colpo di gong, tanto più se letto alla luce dei sospetti o delle tesi dei quattro ministri dell’epoca. Coppola annota questa frase, che dà conto delle scoperte dei magistrati italiani: «I rubli che lasciavano l’Urss arrivavano anche alle cosche siciliane. Ecco perché, dicono, se ne interessava anche Falcone. Insomma, consultando i documenti, gli inquirenti italiani sono inciampati in un filone che porta dritto a Cosa nostra. (…) Tra i documenti consegnati da Stepankov figurerebbe anche un elenco delle ditte che in Italia avrebbero costituito il terminale del denaro stanziato dalle autorità sovietiche».
Ad affiancare Cosa nostra e il traffico dei rubli, e quindi anche qualche uomo del vecchio Pci o qualche ditta «vicina» al partito, insomma, nel giugno 1992 sono gli stessi inquirenti italiani, che ne sembrano convinti come Stepankov e i colleghi della Procura generale moscovita. E i russi sono giustamente preoccupati per l’incolumità degli inquirenti italiani: sempre Repubblica sottolinea il clima di tensione e preoccupazione che circonda la loro missione. «I quattro magistrati e i due funzionari, all’arrivo all’aeroporto di Mosca mercoledì pomeriggio, sono stati praticamente sequestrati dalla polizia russa e accompagnati in una località segreta».
Coppola conclude la sua cronaca sottolineando quel che intanto va scrivendo Izvestia sulla missione giudiziaria. Il quotidiano russo «sostiene che Falcone doveva venire a Mosca in questi giorni per verificare la fondatezza dell’ipotesi di “un possibile collegamento tra boss del Pcus e mafia internazionale”. Infatti, aggiunge il giornale, “si può presumere che non sia un caso che sia stata scelta proprio l’Italia per il trasferimento di capitali del Pcus all’estero, poiché le esistenti strutture mafiose, legate storicamente con clan criminali stranieri, e le forti posizioni dei comunisti locali, promettevano grandi profitti ai sovietici che investivano quei soldi”».
Il 6 giugno 1992, sul Corriere, Nese racconta ancora altro: «Negli anni Settanta le campagne dei comunisti italiani per i referendum sull'aborto e sul divorzio furono pagate dai sovietici. E un'altra clamorosa sorpresa che i magistrati della Procura di Roma hanno trovato fra le carte degli archivi segreti che il procuratore generale di Mosca Stepankov ha messo a loro disposizione. I dossier sui pagamenti sono molto precisi. Spiegano nei dettagli le cifre versate e lo scopo con cui venivano erogate le somme: aiutare il Pci a fare una propaganda massiccia».
Ma l’inchiesta scompare
Come in un buon giallo, non manca nemmeno il personaggio misterioso. Nese aggiunge che i miliardi sovietici «furono accreditati in Svizzera, un canale già utilizzato in altre occasioni». L’inviato a Mosca aggiunge che «adesso i magistrati italiani conoscono il numero del conto bancario svizzero. Sanno anche a chi era intestato. Un personaggio molto importante che viene definito "assolutamente insospettabile". Al loro ritorno a Roma, il procuratore Giudiceandrea e i tre sostituti, Ionta, Palma e De Ficchy, vorranno sicuramente ascoltare questo "insospettabile" titolare del conto svizzero. E chiedergli spiegazioni».
Sembra tutto molto promettente, vero? E invece no. Perché, a sorpresa, dell’inchiesta romana quasi subito si perdono le tracce. Puf. Spariscono i sospetti, le certezze, i miliardi, i dossier, la mafia, le società fiancheggiatrici, perfino il misterioso titolare del conto svizzero, agente in nome e per conto del Pci-Pds. È vero che tra i pubblici ministeri italiani e Stepankov ci saranno altri incontri, uno sicuramente a Roma il 20 di quello stesso giugno 1992. Ma dopo quel giugno non si leggono cronache, non si percepisce alcuno sforzo di scavo. L’inchiesta s’inabissa, come nella storia capita a certi procedimenti italiani, particolarmente scomodi o «impopolari». I giornali ne parlano sempre meno. Due anni dopo, nel 1994, la Procura di Roma chiede e ottiene l’archiviazione del procedimento sull’Oro di Mosca. E il collegamento con Falcone scompare per sempre.
La figlia del commissario Giuliano, ucciso nel ‘79: «Da quel giorno la mafia diventò problema di tutti. Un riscatto per noi vittime». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 24 maggio 2022.
Selima Giuliano: «Le stragi del 1992 sono state un momento drammatico, ma anche di riscatto per le tante vittime di mafia precedenti a Falcone e Borsellino, fino a quel momento quasi ignorate e confinate nel dolore e nel ricordo dei familiari».
«Le stragi del 1992 sono state un momento drammatico, ma anche di riscatto per le tante vittime di mafia precedenti a Falcone e Borsellino, fino a quel momento quasi ignorate e confinate nel dolore e nel ricordo dei familiari», spiega Selima Giuliano, figlia del commissario di polizia Giorgio Boris Giuliano, assassinato a Palermo il 21 luglio 1979; prima di lui, nello stesso anno, era stato ucciso il segretario provinciale della Dc Michele Reina, e successivamente — tra il ’79 e il 1983, ma prima e dopo l’elenco è ancora più lungo — il giudice Cesare Terranova, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il procuratore Gaetano Costa, il segretario regionale del Pci Pio La Torre, il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, il consigliere istruttore Rocco Chinnici. Palermo decapitata dei suoi vertici politici, investigativi e giudiziari.
«Con Capaci e via D’Amelio è cambiato tutto», ha detto dal palco della commemorazione la più giovane dei tre figli di Boris Giuliano, che oggi ha 49 anni ed è soprintendente ai Beni culturali e ambientali del Comune di Palermo.
Perché dottoressa Giuliano?
«Prima il problema era esclusivamente dei morti ammazzati perché contrastavano la mafia e di noi familiari. Non c’era la reazione della società civile, ma un clima di omertà e indifferenza. Anche dopo la morte di Chinnici, nonostante nell’attentato morì pure il portiere del palazzo. Di mafia si parlava molto poco nelle scuole, io ho frequentato un istituto dei gesuiti dove la mia presenza era vissuta con un certo imbarazzo».
Adesso invece?
«Adesso se tra gli studenti c’è il nipote di una persona uccisa i professori sono contenti, perché è un’occasione in più per parlare di mafia. È una conseguenza della consapevolezza maturata nella popolazione palermitana dopo le stragi del 1992, quando i lenzuoli bianchi esposti alle finestre furono il segno visibile della rivolta dei cittadini contro la violenza e il terrorismo mafioso».
Lei come ricorda il 23 maggio 1992?
«Non avevo ancora vent’anni, ero a casa con alcuni amici e apprendemmo della strage dalla televisione. Fu un momento terribile, una sensazione di guerra. E ancor più, 57 giorni dopo, la morte di Borsellino. Imperdonabile. Tutti sapevano che la vittima designata era lui, ma fece la stessa fine di Falcone senza che lo Stato riuscisse a proteggerlo».
Due personaggi importanti per la sua famiglia.
«Certo, perché nel maxi processo istruito anche da loro furono condannati i mandanti del delitto di mio padre e in seguito l’esecutore materiale. Nell’ordinanza di rinvio a giudizio scrissero che se le intuizioni di Boris Giuliano fossero state seguite prima e meglio, la lotta alla mafia avrebbe portato a ben altri risultati. Anche per questo provai una sensazione di rabbia vedendoli morire in quel modo. Ma non ho mai pensato che fosse tutto finito. Anche per via dell’immediata reazione dell’opinione pubblica, che ha provocato un’indignazione ormai inarrestabile».
Perché pensa che questo rappresenti un momento di riscatto anche per suo padre e le altre vittime di mafia?
«Perché da quel momento anche lui, come gli altri, ha cominciato a essere ricordato per quello che fu: un uomo delle istituzioni che combatteva la mafia non per sé, ma per lo Stato che rappresentava. Noi in famiglia abbiamo sempre vissuto con grande orgoglio il suo sacrificio, e la polizia ci è stata sempre vicina, ma per il resto non c’era partecipazione né consapevolezza. Perfino le commemorazioni ufficiali erano quasi un atto dovuto. Dopo le stragi lui e le altre vittime sono come riemerse dal buio, per quello che erano: persone che facevano semplicemente il loro lavoro, uccise spesso perché lasciate sole. E questo è stato un altro risultato ottenuto da Falcone e Borsellino con la loro morte, dopo che in vita avevano tentato di rendere giustizia a quelle vittime».
Dunque anche il maxi processo fu un momento di svolta.
«Sì, ma sempre per una cerchia ristretta di persone. Ricordo bene le gabbie dell’aula bunker piene di imputati urlanti, e nella parte riservata al pubblico i loro parenti che gridavano allo stesso modo e i parenti delle vittime che guardavano sgomenti. I cittadini di Palermo non c’erano, come se quello che stava accadendo non li riguardasse».
Oggi non succerebbe più?
«Non credo, sebbene ci sia ancora tanta strada da fare. Tempo fa sono stata presentata a un rappresentante politico di una piccola cittadina che quando ha sentito il mio cognome ha chiesto se fossi parente del bandito Giuliano (ride, ndr), ma in generale c’è grande consapevolezza. E restano verità da scoprire, come le ragioni del depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Di mafia si parla e si deve continuare a parlare, anche grazie alle opere di tanti artisti contemporanei, di cui mi occupo direttamente nel mio lavoro».
L’accusa del figlio di Alfonso Giordano, giudice del Maxiprocesso: “Mio papà dimenticato nelle commemorazioni delle stragi di mafia”. La Stampa il 24 maggio 2022.
«Caro papà, nella fiera delle passerelle nessuno ti ha ricordato, né ha fatto il tuo nome. Nessuno della tua famiglia è stato invitato, come se il Maxiprocesso si fosse fatto da solo. So che tu lo sapevi, che era già ampiamente da noi previsto, che tu lo avevi già subito ( evidentemente non si era trattato di un errore), che i tuoi “colleghi” ti hanno isolato e dimenticato da tempo». Lo scrive su Facebook, il giorno dopo le commemorazioni per il trentennale delle stragi di mafia del 1992, l'avvocato Stefano Giordano, figlio del giudice Alfonso Giordano che, nella Palermo degli anni Ottanta, fu l'unico magistrato ad accettare di dirigere la corte d'assise del primo grande processo alla mafia, il “Maxiprocesso”. Il giudice Alfonso Giordano è morto il 12 luglio dell'anno scorso a 92 anni. «Hai fatto solo il tuo dovere – aggiunge il figlio – e questo non viene mai apprezzato per se stesso, se non, talvolta, dalla gente comune, e dal buon Dio».
I sopravvissuti alle stragi del 1992: "Siamo morti anche noi, dimenticati dallo Stato". Salvo Palazzolo su La Repubblica il 20 Maggio 2022.
Giuseppe Costanza, l'autista di Falcone. L'autista e i poliziotti scampati al tritolo di Capaci e via d'amelio: "Spesso trattati come vittime dei serie B. Ma non smettiamo di raccontare ai giovani gli anni bui"
Giuseppe Costanza, l’autista di Giovanni Falcone, ripensa spesso alle ultime parole del giudice: «La settimana prima dell’attentato, mentre eravamo in macchina, mi disse: “È fatta, sarò il nuovo procuratore nazionale antimafia”. Ma non gli hanno dato il tempo». Angelo Corbo, uno dei poliziotti di scorta, ha impresso nella mente lo sguardo di Giovanni Falcone intrappolato nell’auto appena saltata in aria fra un cumulo di macerie: «Era ancora vivo», sussurra.
Strage di Capaci, l'autista di Falcone e quell'incontro con Paolo Borsellino. ALESSANDRA ARINI su Il Domani il 22 maggio 2022
Il racconto di Giuseppe Costanza, l’unico sopravvissuto della macchina che trasportava il giudice quel 23 maggio 1992: «Quando mi risvegliai in ospedale, c'era Paolo Borsellino. Ma la mia strage è iniziata dopo l'attentato: in tribunale mi facevano fare il tappabuchi. E non sono mai stato invitato alle cerimonie per gli anniversari. A volte ho pensato che in questo paese è una disgrazia se rimani vivo. Il dottore e la moglie, Francesca Morvillo, oltre a professionisti straordinari, erano bellissime persone normali»
Giuseppe Costanza è stato per anni l’autista di Giovanni Falcone. È l’unico sopravvissuto all’interno dell’auto guidata dal giudice, quel pomeriggio del 23 maggio 1992 all’altezza di Capaci. A salvarlo, una serie di casualità, che fecero in modo che l’esplosione innescata da Giovanni Brusca non prendesse in pieno l’intero convoglio (di tre auto). Oggi ha 75 anni, ma non ha ancora una spiegazione a quella che definisce una «seconda strage», quella che – da sopravvissuto – lo ha visto ai margini del tribunale per cui lavorava. E totalmente in ombra nelle commemorazioni della strage di Capaci. Ecco la sua testimonianza, in occasione del trentennale della morte di Falcone, della moglie Francesca Morvillo, e dei tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Quando Giovanni Falcone mi chiamò nel suo ufficio era il 1984. Lavoravo all'accoglienza dell'Ufficio istruzione del tribunale di Palermo, lui mi aveva osservato per un po' di tempo e quel giorno mi chiese: «Vuoi essere il mio autista?». Dissì di sì.
Fino a quel momento la mafia vera non sapevo nemmeno cosa fosse: la vivevo come un cittadino qualunque, ero convinto che portasse dei panni più grezzi rispetto a quelli che il giudice ha mostrato. «Menti raffinatissime», come le chiamava lui. Da quando sono salito su quell'auto, invece, ho capito cos'era. Le sentivo le voci della gente, quando passavamo a sirene spiegate, che dicevano: «Ma non li possono fare vivere tutti in una caserma questi giudici?». Ma sapevo che stavamo facendo il nostro dovere.
Quel 23 maggio 1992, alle 7 del mattino, Falcone mi chiamò - come sempre, quando doveva organizzare i suoi spostamenti - per dirmi che sarebbe atterrato da Roma all'aeroporto di Palermo alle 17.45. Avvisai anche gli uomini della scorta. A quell’ora, eravamo tutti lì.
Il dottor Falcone e la moglie scesero dall'aereo e vennero verso di me, ma mi fecero spostare dal mio consueto posto di guida. La dottoressa Morvillo soffriva il mal d'auto e quel giorno si mise sul sedile anteriore dell'auto. Falcone, che voleva starle accanto, decise di guidare per sedere vicino a lei. Io mi accomodai dietro.
Eravamo quasi arrivati allo svincolo per Capaci. La macchina civetta e quelle della scorta erano davanti a noi. Quando a un certo punto successe un'altra cosa insolita. Il dottore mi informò che non si sarebbe fermato a casa, per via di un altro incontro di lavoro subito dopo, e che avrei quindi potuto riprendermi l'auto.
Così mentre era alla guida sull'autostrada, estrasse le chiavi dal quadrante e fece per passarmele dietro. «Le tenga», disse. La macchina rallentò di molto, pur rimanendo in corsa (era stato un gesto di scatto, inconsueto) e io sorpreso dissi ad alta voce: «Ma che fa dottore? Così ci andiamo a schiantare». Fu in quel momento che avvenne lo scoppio.
La macchina, che per quel gesto aveva perso velocità, si scontrò con meno forza verso il muro dei detriti che nel mentre si era alzato. Fu per questo, e per la mia posizione in auto, che riuscì a salvarmi. Fui l'unico. Da quell'attimo in poi non ho ricordi, fino a quando non riaprii gli occhi in ospedale.
Lì venne a trovarmi il giudice Paolo Borsellino, fu l'unico magistrato a venire. Chiese alla sua scorta di lasciarci soli nella stanza e parlammo. Era un uomo a cui avevano portato via un amico e un compagno dello stesso viaggio. Appena due mesi dopo sarei stato io, in una calda domenica di luglio, a correre verso via D'Amelio e a cercare tracce di lui e del suo enorme coraggio.
La mia vita è cambiata. Ma è dopo l'attentato che è iniziata la mia strage. Dopo 18 mesi di malattia, sono tornato in tribunale e mi aspettavo un'accoglienza diversa. Invece, non riuscivano a trovarmi un posto, una mansione. Mi facevano fare il tappabuchi, a volte ho pensato che in questo paese è una disgrazia se rimani vivo.
E in più, per 23 anni non ho ricevuto nessun invito alle commemorazioni di Capaci. Anche quest'anno (quest'intervista è stata raccolta il 13 maggio, ndr) non ho ricevuto nessuna convocazione per il trentennale. Eppure, io sono l'unico sopravvissuto su quell’auto. Ti chiedi, ti richiedi perché. Alla fine, dopo trent’anni, l'unica spiegazione che ti dai è che devi trovare dentro di te il senso e la voglia di dare una continuità a quell'esempio.
Del dottor Falcone, il ricordo più dolce che ho sono le mattine a casa sua. Di solito un autista non entra in casa, ma il giudice aveva fatto delle "indagini" su di me e aveva scoperto che nella mia vita precedente - prima di lavorare in tribunale - ero un parrucchiere. Siccome per lui era troppo pericoloso uscire per farsi barba e capelli, aveva chiesto a me. Lo feci per otto anni. Quando suonavo il campanello, comparivano lui e la moglie in vestaglia. Poi la dottoressa Morvillo scompariva e si ripresentava due minuti dopo dicendo: «Ecco il caffè». Erano questi. Persone normali.
1992 Palermo archivio storico La strage di Capaci fu un attentato (mafioso -stragista e politico) esplosivo compiuto da Cosa Nostra il 23 maggio 1992 nei pressi di Capaci (sul territorio di Isola delle Femmine), per uccidere il magistrato antimafia Giovanni Falcone. Gli attentatori fecero esplodere un tratto dell'autostrada A29, alle ore 17:57, mentre vi transitava sopra il corteo della scorta con a bordo il giudice, la moglie e gli agenti di Polizia, sistemati in tre Fiat Croma blindate. Oltre al giudice, morirono altre quattro persone: la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Vi furono 23 feriti, fra i quali gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l'autista giudiziario Giuseppe Costanza.
ALESSANDRA ARINI. Annata 1994, la stessa dell’ascesa di Forza Italia ma anche dell’uscita di Friends. Sono un po’ cinica e molto umana. Nel 2019 aperto una piccola pagina per la mia città: umanidibologna e da allora vorrei andare sempre in giro a raccontare quello che succede attraverso le facce delle persone.
30 ANNI DALLA STRAGE DI CAPACI. «Non posso perdonare senza sapere la verità», parla Matilde Montinaro, sorella del caposcorta di Falcone. «Ero a San Foca a prendere un caffè con amici, avevo 26 anni. Al Tg dettero la notizia e mi crollò il mondo addosso. Don Luigi Ciotti mi ha preso per mano e mi ha fatto tramutare il dolore in impegno». Fabiana Pacella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Maggio 2022.
Un trattino infinitamente piccolo tra due date, quella della nascita e quella della morte di una persona.
In quella linea minuscola c’è tutto. C’è la vita. Inizia così, col soliloquio della coscienza, l’incontro a cuore nudo con Matilde Montinaro, sorella di Antonio, per la memoria collettiva «caposcorta di Falcone». Alla vigilia dei 30 anni da quella mezza tonnellata di tritolo che da Capaci ha cambiato il corso della storia di questo Paese, non serve citare date, targhe, frangenti di quel giorno. Perchè tanto, troppo è stato detto e stucca sull’animo.
Quel tritolo fu l’amaro senza fine di un caffè che sorseggiavi felice, Matilde.
«Ho conosciuto la violenza della mafia attraverso centinaia di chili di tritolo entrati in casa nostra, che ci hanno costretto a fare i conti col dolore. Il 23 maggio del ‘92 era sabato, nella nostra terra fine maggio significa salutare la primavera e accogliere l’estate. Ero a San Foca a prendere un caffè con amici, avevo 26 anni, entrò in stanza la moglie di un amico che aveva visto l’edizione speciale del tg: "Strage, il dottor Falcone era stato ucciso con la sua scorta". Non sapevamo nulla di Antonio, cosa facesse di preciso, si era arruolato negli anni del terrorismo, del rapimento Moro, dei poliziotti morti ammazzati e lui parlava poco per fare stare serena la mamma. Eppure ebbi un’intuizione, ebbi paura che fosse accaduto qualcosa a lui. Mamma aveva subito un intervento al cuore delicatissimo ed ebbi paura. Presi l’auto e correndo andai a casa da lei. Arrivata lì vidi che era tutto sereno. Accompagnai mia sorella a casa. Arrivate da lei mi raggiunse mio cognato…avevano appena saputo che Antonio era morto. Fu disperazione, mi trovai catapultata in una realtà mai appartenuta, letta sui giornali. Solo dopo sarebbe arrivata la consapevolezza, il tempo ti aiuta a metabolizzare un dolore che diventa compagno di vita».
Ma che non è mai diventato sete di vendetta. E neanche perdono, o sbaglio?
«Abbiamo provato a non trasformare il dolore in vendetta. Ho avuto la fortuna, molti anni dopo la morte di mio fratello, di incontrare ragazzi, parlare di lui, raccontare la nostra terra in quegli anni per riconoscere che anche qui c’erano stati morti di mafia. Sulla mia strada ho incontrato don Luigi Ciotti che mi ha preso per mano e mi ha fatto tramutare il dolore in impegno. Parlare di quei fatti significa mettere le mani nel dolore, in un pezzo di noi. Ma noi a differenza di loro, della mafia, siamo ancora capaci di amare. Mi chiedono se ho mai perdonato, è una domanda difficile. È quasi un’offesa perché è difficile rispondere, probabilmente no e non ci riuscirò mai perché il perdono è un percorso e prima del perdono deve arrivare la verità. Sono riuscita a fare una cosa in questi anni, ho cercato di placare la rabbia perché non si trasformasse in vendetta. La pena di morte per chi ha pigiato il telecomando a che sarebbe servita? Questa gente avrebbe dovuto avere un ravvedimento e aiutarci ad avere verità, mi sarebbe piaciuto che Riina prima della sua morte avesse raccontato un pezzo di verità per aggiungerla al mosaico di una storia non chiusa. In via Capaci, come in via D’Amelio c’è stata la guerra, le immagini dell’Ucraina oggi mi riportano al cratere di Capaci, la guerra…capisci?».
Solo la verità può placare un animo ostaggio del dolore?
«Facciamo i conti con la non verità che a distanza 30 anni pesa sul nostro Paese. Nonostante tre processi, Capaci, Capaci bis e Capaci ter, che ha da poco condannato Matteo Messina Denaro all’ergastolo, continuiamo a rincorrere una verità non vera e una giustizia non giusta».
Cosa pensi dell’espressione «i ragazzi della scorta» associata a Giovanni Falcone e Francesca Morvillo?
«La scorta è un nome collettivo, sbrigativo. E invece, Rocco Dicillo aveva una fidanzata a Palermo, un matrimonio vicino e la famiglia a Triggiano, Vito Schifani era sposato e aveva un figlio piccolo e Antonio Montinaro aveva moglie e due figli, Gaetano (come mio padre) e Giovanni (come Falcone) di 4 anni e 21 mesi. C’erano loro su quell’auto scaraventata in un giardino, il più grande aveva trent’anni, avevano paura e la affrontavano. I ragazzi della Quarto Savona Quindici erano storie, vite. Mia madre Carmela fu lungimirante col suo grido di dolore nel voler sentire il nome di suo figlio, perché tutti i nomi delle vittime di mafia devono essere pronunciati, ci deve essere il tempo per nominarli, questa gente deve avere identità e dignità. Un grande inconsapevole gesto spinto dal dolore di una mamma, la mia, ha portato alla giornata del 21 marzo in cui si pronunciano i nomi di tutte le vittime della mafia. Quei nomi vanno pronunziati perché si immaginino i loro volti e se ne cerchino le storie. Il grazie a mia madre per questa rivoluzione impastata di disperazione e impegno sociale è infinito».
E allora, non chiamiamoli eroi, vero?
«Eroe è un appellativo bruttissimo che a lui stesso non sarebbe piaciuto. Le vittime della Strage di Capaci e tante vittime come loro, sono in un’urna sacrale, tirate fuori per le commemorazioni, piante e riposte lì ancora una volta. No. Non si sto! Antonio è stato un bambino, un’adolescente con i suoi turbamenti, le sue scelte, un uomo normale. Così lo ricordo, così lo racconto, e allora che lui scende da quel piedistallo costruito dagli alibi di chi resta».
Sei andata a trovare tuo fratello in questi giorni, a Palermo, salendo fin lì dove c’è la sua tomba. Cosa vorresti dirgli oggi?
«Avevo difficoltà a salire tanto che mia figlia mi ha fatto notare che somiglio sempre di più a mia madre. Che strani scherzi fanno il tempo e il destino…Ho avuto la fortuna di prendere la faccia migliore del dolore, quella che umanizza, gettandomi alle spalle l’altra, che rende cupi. Ho tre anni in meno di Antonio, mi nostri acciacchi. Forse dalle sue parole avrei conosciuto la sua vita di poliziotto che poi diventava figlio, fratello, marito, padre, persona normale. Non voleva fare il lavoro pesante di papà a 16 anni, stare nella pescheria di famiglia, un ambiente che tu conosci bene essendo cresciuta come noi proprio in una pescheria. Chissà anche il nostro incontro non è casuale, sarà un dono di Antonio…Quant’era orgoglioso mio fratello, proprio come papà. Gente abituata a farsi da sé sudando, senza mai chiedere scorciatoie».
Emanuele Schifani, figlio dell’agente della scorta di Falcone: «Avevo 4 mesi quando la mafia uccise mio padre: da piccolo provai rabbia, mai odio». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.
Il figlio dell’agente di scorta è diventato capitano della Finanza: «Scoprii che papà era stato ucciso a una festa di compleanno, me lo disse un bambino. Andai a mia madre piangendo. La prima volta che vidi le immagini della strage di Capaci mi chiesi: perché»
Emanuele Antonino Schifani, 30 anni, nel suo ufficio della Guardia di Finanza: è figlio di Rosaria e Vito Schifani, l’agente di scorta ucciso con Falcone nell’attentato di Capaci, il 23 maggio del 1992 (foto Massimo Di Nonno)
Chi era Vito Schifani? Un lungo silenzio. Un sospiro. «Vito Schifani poteva essere tante cose. Poteva essere mio padre. Poteva essere un marito. Mentre l’unica cosa certa è che era un poliziotto ed è morto a Capaci il 23 maggio del 1992 alle 17.58». Emanuele Antonino Schifani aveva quattro mesi quando suo padre fu ammazzato da quella montagna di tritolo assieme al giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e altri due membri della scorta: Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Oggi sono passati 30 anni da quando la mafia dichiarò guerra allo Stato. Schifani ha 30 anni (e 4 mesi) ed è un capitano della Guardia di Finanza, che, assai orgoglioso, comanda una compagnia di 170 uomini alla Scuola ispettori e sovrintendenti dell’Aquila, dove si stanno formando 3.000 divise delle Fiamme gialle.
Capitano, ricorda la prima volta in cui ha scoperto che suo padre era stato ucciso dalla mafia?
«Non c’è mai stato un giorno preciso in cui mi sono seduto e mia madre mi ha raccontato la nostra storia. C’è stato però un episodio, quando ero a Palermo, che mi ha fatto scontrare con la verità. Avevo 3 anni e, alla mia festa di compleanno, un bambino mi disse: “Tanto tu non hai il papà”. Andai a piangere da mia mamma e lì ci fu la prima spiegazione. La tragica morte di mio padre è stata una consapevolezza maturata con la crescita: c’è voluto molto tempo per capire quale era la mia storia».
Ha mai sognato suo padre?
«Non che io ricordi. Probabilmente l’ho fatto. Ma al mattino i sogni svaniscono».
Deve essere stato durissimo iniziare una nuova vita.
«La svolta c’è stata nel ‘95, quando avevo 3 anni. Mia madre Rosaria, all’epoca dell’attentato, aveva 22 anni. Si ritrova sola. Cerca una spiegazione. Una spiegazione che non riesce a trovare. E probabilmente, nella ricerca di questa spiegazione, incontra quello che poi è stato mio padre. Lo conosce a Palermo. È stato, secondo me, un segno del destino, perché indossava un’uniforme, seppure diversa. Lavorava al Gico, il reparto della guardia di Finanza che fu costituito per reprimere il fenomeno mafioso. Non gli ho mai chiesto come si sono conosciuti. Ma è stato sicuramente un evento che ha cambiato il corso della vita mio e di mia madre. Nel ‘95 ci siamo trasferiti a Firenze. E lì è appunto ripartita la vita. Poi ci siamo trasferiti in Liguria: lì sono cresciuto. Ho fatto il liceo e realizzato il mio sogno: entrare nella Guardia di Finanza. Un obiettivo raggiunto anche grazie all’influenza positiva di avere un’altra divisa in casa. Il merito è di mia madre e dei valori che mi sono stati insegnati da Gianluigi, mio padre».
«LA SVOLTA NELLA MIA VITA AVVENNE QUANDO AVEVO TRE ANNI, E MIA MADRE INCONTRÒ GIANLUIGI, CHE POI MI HA CRESCIUTO»
Rosaria Schifani il giorno dei funerali del marito Vito, il 25 maggio 1992, quando pronunciò una storica orazione funebre: «Vi perdono ma vi dovete inginocchiare»
«Vi perdono, ma inginocchiatevi». Il j’accuse di sua madre durante i funerali dopo la strage è un pezzo di storia, un messaggio ancora più forte di quella maledetta esplosione. Riesce a vedere quel video?
«Quei 2 minuti e 20 secondi sono complicati da guardare per tante persone che io conosco. Ho difficoltà a vederle anche io. Ovviamente ora li vedo con gli occhi di un uomo di 30 anni: a 16 avevo altri occhi. Ma c’è una cosa che accomuna i 16 ai 30: il senso di dolore provocato da quelle immagini. Ed è un senso di dolore che accomuna me a tutti coloro che non riescono a vedere con tranquillità quelle immagini, a meno che tu non sia senza cuore e non ti renda conto ciò che è successo 30 anni fa».
I responsabili della strage di Capaci sono stati quasi tutti individuati e condannati. Prova odio? O cos’altro?
«Io, oggi, di sicuro non provo odio. Quello che ho provato in passato, e che adesso si è acquietato, è un sentimento di rabbia. Ho sempre pensato che l’odio sia una pulsione inutile. Perché ti rende ottuso, non ti permette di ragionare. La rabbia è comunque un sentimento che ti dà anche la forza di andare avanti. Anche se io la mia situazione non l’ho mai definita, penso che la rabbia sia stata una parte della mia vita. E penso di essere riuscito a controllarla nel modo migliore, perché sennò non sarei qui oggi, con questa divisa. La rabbia, se estrema, non ti permette di ragionare, ma se correttamente incanalata ti dà l’energia anche per cambiare e fare qualcosa di utile, anche nel piccolo».
Rosaria e Vito Schifani: erano sposati da poco, lei aveva 22 anni e lui, agente di scorta di Giovanni Falcone, ne aveva 27
Ha fiducia nella giustizia?
«Io ho assolutamente fiducia. Non ne ho mai dubitato una volta».
Alla camera ardente a Palermo, il presidente del Senato Spadolini si avvicinò a sua madre e lei gli disse: «Presidente, io voglio sentire una sola parola: “Lo vendicheremo”. Se non può dirmela, presidente, non voglio sentire nulla, neanche una parola». Lo Stato ha vendicato suo padre?
«Innanzitutto, non penso che lo Stato vendichi. Non esiste uno Stato vendicatore. Lo Stato non fa vendetta, fa giustizia».
«LA PRIMA VOLTA CHE HO VISTO LE IMMAGINI DELLA STRAGE È STATA DOPO CHE NE AVEVANO PARLATO A SCUOLA. MI CHIESI SOLO “PERCHÉ”?»
Cosa prova davanti alle immagini della strage?
«Io le immagini dell’esplosione a Capaci le guardo quando capita. Di certo non le vado a cercare. Così come guardo e ascolto le parole di mia madre dal pulpito, ai funerali. Le guardo in un certo modo, con un determinato sentimento. Forse è lì che nasce tutta la mia rabbia. Forse perché, da giovane, la prima volta le ho viste dopo che a scuola si era parlato per la prima volta delle stragi di mafia e le andai a cercare. Provai rabbia, amarezza. Perché? Perché? Come fa l’uomo a essere così crudele, a spingersi così tanto in là? A spingersi dove, poi?».
Che rapporto ha con la Sicilia?
«Scendo in Sicilia per le vacanze. Per andare a trovare i pochi parenti che sono rimasti».
Ha mai incontrato altri figli come lei, figli di donne e uomini uccisi dalla mafia? Cosa vi siete detti?
«Ne ho incontrati più di uno. Di recente ci siamo visti con Giovanni Montinaro, figlio del caposcorta di Falcone: l’anno scorso, nell’Aula bunker a Palermo, per le commemorazioni. In realtà non c’è bisogno di parlare. Siamo accomunati da questo. Siamo simili, non serve dire altro. Io avevo 4 mesi, lui nemmeno 2 anni: ci capiamo con uno sguardo».
Nec recisa recedit («Neanche spezzata retrocede») è il motto della Guardia di Finanza. È per questo che ha deciso di entrare nella Fiamme gialle?
«Ho scelto la Guardia di Finanza perché quella rabbia di cui parlavo prima mi ha spinto a volermi rendere utile. Mi sembrava la cosa più giusta da fare. Non ho solo seguito le orme dei miei padri. Il percorso l’ho tracciato io».
Emanuele Schifani è oggi capitano della Guardia di Finanza
Come racconterà, un giorno, ai suoi figli chi era il loro nonno?
«È ancora presto per avere figli».
Lei si occupa di reati legati soprattutto al denaro, il motore della mafia. La mafia è diversa da quella di 30 anni fa: oggi è più forte o inchieste e condanne l’hanno indebolita?
«Questo non so dirlo. Sicuramente il metodo di indagine è cambiato. In 30 anni è cambiato tutto. Ci sono state tante vittorie e continueranno ad esserci sia grazie al nostro lavoro, sia a quello instancabile dei magistrati».
Il 23 maggio cosa farà per ricordare suo padre, i colleghi della scorta, il giudice Falcone e sua moglie Francesca?
«Saranno 30 anni. E come sempre sarò a Palermo, in quell’Aula bunker dove tutto è nato».
Strage di Capaci, tutto quello che c’è da sapere: quando la mafia uccise Falcone. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2022.
Tutto quello che c’è da sapere sulla strage di Capaci, l’attentato di mafia dove persero la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e la scorta.
Dopo trent’anni, la ricorrenza della strage di Capaci non è solo un anniversario più solenne degli altri che si susseguono, quasi stancamente, ogni dodici mesi. È un’occasione per riflettere con maggiore attenzione su quanto accadde il 23 maggio 1992 all’altezza dello svincolo autostradale di Capaci, e cercare qualche risposta in più. Sulle responsabilità della mafia in quel terribile attentato, che ha inciso così profondamente sulla storia dell’Italia repubblicana; e sulle responsabilità dello Stato – la politica, la magistratura – sul clima e i comportamenti che hanno preceduto e seguito l’eccidio in cui sono morti Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre poliziotti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. L’attribuzione dell’omicidio è chiara: fu la mafia a far esplodere la bomba. Come furono i neofascisti a compiere gli attentati che hanno insanguinato l’Italia tra il 1969 e il 1974, da piazza Fontana a piazza della Loggia, e furono le Brigate rosse a sequestrare e uccidere Aldo Moro. Restano però da chiarire molti aspetti collaterali di ciò che ruotò intorno a quelle responsabilità, che cosa rese possibile quei delitti, quali connivenze e complicità si attivarono prima e quali coperture scattarono dopo. Per la strage di Capaci e ancor più per quella di via D’Amelio, che 57 giorni dopo cancellò dalla faccia della terra Paolo Borsellino insieme a cinque agenti di scorta, esattamente come per le trame nere e l’assassinio di Moro.
L’ultima sentenza
Dopo trent’anni, rispetto agli anniversari precedenti, abbiamo ad esempio una sentenza in più sull’organizzazione e l’esecuzione della strage. Lo scorso agosto sono state depositate le motivazioni con cui la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta ha condannato all’ergastolo altri quattro mafiosi nel processo «Capaci bis». Quel verdetto conferma la ricostruzione del pentito Gaspare Spatuzza che dal 2008 ha aggiunto la sua versione a quella di altri quattro esecutori della strage; e ha fornito ulteriori tasselli a un mosaico già delineato. I giudici hanno ribadito una volta di più quello che proprio Borsellino aveva detto pubblicamente la sera del 25 giugno ’92: «Non voglio esprimere opinione circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque».
Vendetta e prevenzione
È una verità acclarata che può sembrare scontata e banale, ma non lo è. Dire che non è solo mafia non significa che la mafia non c’entra, o che sarebbe stata poco più di una copertura. Non è così: il nemico numero uno di Cosa nostra è stato trucidato da Cosa nostra, e in particolare dalla fazione corleonese guidata da Totò Riina che da tempo aveva preso il controllo dell’organizzazione. E che uccidendo Giovanni Falcone ha compiuto un’azione punitiva e preventiva, pianificata alla fine del 1991, vigilia della decisione della Cassazione sul maxi-processo che sancì la struttura unitaria e verticistica di Cosa nostra, distribuendo una pioggia di ergastoli. Al «capo dei capi» erano giunte voci che così sarebbe andata e così andò. La sentenza del 30 gennaio 1992 diede il via alla reazione. Punitiva perché il giudice che aveva istruito il maxi-processo a Palermo, e che a Roma s’era adoperato affinché non s’inabissasse nelle sabbie mobili della Cassazione, doveva pagare il conto. Preventiva perché quello stesso giudice continuava a «fare danni», e dal ministero della Giustizia stava ideando nuove norme e strutture per un più efficace contrasto alle cosche. A cominciare da quella Superprocura antimafia che s’era messo in testa di andare a dirigere. Meglio toglierlo di mezzo, quindi. Tuttavia le modalità (una strage di tipo terroristico) e i e i tempi (nel pieno di una stagione che annunciava il tramonto della cosiddetta Prima Repubblica) dell’esecuzione lasciano spazio ad altri moventi e interessi, sia interni che esterni all’organizzazione mafiosa.
Movente politico
«Non pare in dubbio – hanno scritto i giudici della Corte d’Assise d’Appello – che dietro la strage di Capaci sia configurabile anche un movente politico, identificabile nella ricerca da parte di Cosa nostra di nuovi referenti politici, oltre che una contestuale finalità di destabilizzazione intesa a esercitare una pressione sulla compagine politica e governativa che aveva fino a quel momento attuato una drastica politica di contrasto all’espansione del crimine organizzato mafioso». Di conseguenza, «è possibile che la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi nella riunione degli auguri di fine anno 1991, abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra». Le famose «tastatine di polso» – di cui hanno parlato molti pentiti – effettuate da Riina nel mondo politico, dell’imprenditoria e della finanza, anche per via mediata, prima di deliberare la strage. Per valutare le reazioni di chi pure poteva trarre beneficio dall’eliminazione del giudice che già aveva avvertito tutti delle sue intuizioni e convinzioni: «La mafia è entrata in Borsa».
Convergenze d’interessi
Niente che possa «mettere in ombra la paternità della terribile decisione di morte» assunta e portata a termine dalla mafia, ma abbastanza per immaginare ulteriori connivenze e correità (non necessariamente penali). Come per le stragi nere che hanno fatto comodo a chi, in Italia e all’estero, nei primi anni Settata sollecitava il disordine per mantenere o ristabilire l’ordine; e come per Moro, pochi anni più tardi, quando dopo il rapimento ci fu chi cominciò a muoversi per evitare che l’ostaggio delle Br tornasse a casa vivo. Sono le «convergenze di interessi» di cui parlava proprio Falcone a proposito dei «delitti politici» commessi dalla mafia, da Michele Reina a Cal Alberto dalla Chiesa passando per Piersanti Mattarella e Pio La Torre, che probabilmente si sono riproposte per lui e per il suo amico Paolo Borsellino. In Sicilia, scrisse Falcone nelle ultime righe di Cose di Cosa Nostra, «si muore generalmente perché si è soli, o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno». È successo il 23 maggio a Capaci, ma poteva succedere tre anni prima, nel 1989, all’Addaura. In quel caso l’attentato fallì, tuttavia le calunnie delle lettere anonime del Corvo avevano già messo il bersaglio in un angolo, quasi messo all’indice all’interno delle istituzioni, da una parte della politica e di quella magistratura di cui fu un rappresentante molto più sopportato che supportato.
Dopo il colpo andato a vuoto all’Addaura Riina si lamentò del tentato omicidio perché, disse, «era il momento giusto». Ma era il momento giusto anche nel 1992, quando il giudice antimafia più famoso al mondo in Italia era osteggiato, vilipeso e malvisto; pure da chi in passato lo aveva sostenuto, o aveva approfittato delle sue indagini sui rapporti tra mafia e politica per guadagnare spazi e visibilità. Non ebbero remore ad accusarlo di essersi troppo avvicinato alla politica con il suo incarico ministeriale (accettato solo perché alla Procura di Palermo gli veniva impedito di lavorare come avrebbe voluto), di aver abbandonato l’avamposto della lotta alla mafia e di essere un magistrato corroso dalla brama di protagonismo e di potere. Giovanni Falcone aveva fatto le sue scelte, che potevano essere certamente discutibili purché discusse «in buona fede», come spiegò Paolo Borsellino dopo la sua morte. Ma una cosa era certa allora e lo oggi ancor di più oggi: al ministero della Giustizia, aggiunse il giudice suo amico che con lui istruì il maxi-processo, Falcone andò e «lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura». Lo stesso destino imposto a Borsellino, neanche due mesi dopo, in attentato ben più denso di misteri, depistaggi e complicità occulte. Non ancora svelate. È bene tenerlo a mente, trent’anni dopo.
L'inedita profezia di Falcone: "La mafia non sbaglia obiettivi". Serena Sartini il 23 Maggio 2022 su Il Giornale.
Le parole del pm tre anni prima di essere ucciso: "Hanno sempre colpito al momento opportuno..."
«Non c'è un omicidio sbagliato, finora, in seno a Cosa nostra. Quando si uccise Dalla Chiesa tutti dissero è stato commesso un errore storico. Poi hanno ucciso Chinnici, anche questo fu un errore storico, poi hanno ucciso Cassarà e hanno detto, altro errore storico. Non hanno sbagliato. Hanno sempre indovinato il momento opportuno, hanno colpito al momento giusto e questo dimostra, a parte la ferocia e la determinazione, una assoluta conoscenza di notizie di prima mano». Era il marzo 1989: Giovanni Falcone conosceva bene Cosa nostra. Talmente bene da utilizzare parole quasi profetiche. Tre anni dopo, il 23 maggio 1992, infatti, sarebbe toccato a lui.
In un audio esclusivo diffuso dall'agenzia di stampa askanews il magistrato parla in un incontro con agenti di polizia giudiziaria. E racconta, senza mezzi termini, un'organizzazione «unica ed unitaria» che va combattuta. Una rete tentacolare, il cui «epicentro è e resta Palermo», una «organizzazione a raggiera» che «produce certi risultati». La viva voce di Giovanni Falcone emerge dal passato e diventa straordinariamente attuale nel trentennale delle stragi di Capaci e via D'Amelio che si celebrano oggi.
«Su spostamenti di consigli di amministrazione della mafia dalla Sicilia ad altrove affermava il magistrato alla vigilia dell'attentato sventato all'Addaura - togliamocelo dalla testa. Epicentro della mafia è sempre la Sicilia e Palermo. Non si può far parte e gestire Cosa nostra se non hai controllo del territorio nei punti cardine altrimenti duri lo spazio di un mattino». «Piaccia o non piaccia vi è una organizzazione unica ed unitaria che è Cosa nostra. E quella è l'associazione mafiosa, qualcosa che investe tanto a reticolo tutto il territorio che basta che solo alcuni diano gli ordini e tutto il resto diventa un fatto automatico».
Nell'audio ritrovato, il magistrato disegna anche i rapporti tra clan, uomini d'onore e organizzazioni mafiose tra Sicilia e Stati Uniti, citando perfino il «corto», Totò Riina: «Giuseppe Gambino, parlando del corto, dice che non si muove foglia senza che il corto non dia il suo benestare».
Un passaggio anche sul boss di Cosa nostra Pippo Calò («era importante a Roma per se stesso, per i suoi importantissimi contatti con la delinquenza locale, la banda della Magliana in particolare. Non era cassiere della mafia, ma era cassiere di se stesso») e sul pentito Tommaso Buscetta, il «boss dei due mondi». «Quando sono andato a interrogare Buscetta dopo la sua deposizione al processo della Pizza Connection - racconta Falcone - era in particolare stato di prostrazione psichica. Ma cosa è successo? Sono stato addestrato per il processo, rispondeva. Dall'oggi al domani, le persone che qualche mese prima del suo esame gli stavano accanto - i funzionari addetti alla sua protezione - prima erano in rapporti estremamente cordiali con lui, poi non gli rivolsero più la parola».
Racconta, Falcone, anche degli «scontri» che aveva con i colleghi di Milano. «Ho avuto una lunga discussione, quasi uno scontro affermava - con i colleghi di Milano che si lamentavano perché a Palermo non si potevano fare pedinamenti. E dicevo: c'è una piccolissima differenza. A Milano voi fate i pedinamenti, qui si muore per queste cose».
C'è anche un passaggio sul legame tra Cosa nostra e i voti elettorali. «Le linee di tendenza le stabiliscono i capi. Se tenete conto che a Palermo, almeno fino a un certo momento, vi erano 18 mandamenti, ognuno ha almeno tre famiglie; ogni famiglia mediamente ha o aveva una cinquantina di uomini d'onore... ci rendiamo conto come certe linee di tendenza siano operative per orientare fasce non indifferenti dell'elettorato in un senso anziché in un altro. Altra conferma dell'unicità di Cosa nostra».
Infine, il rapporto tra magistratura e governo, anche questo in una visione lungimirante. «Non ha senso l'obiezione di gran parte della magistratura: attenzione perché così il pm dipenderà dall'esecutivo... a parte il fatto, ma io sono eretico nella materia, non lo vedo come un dramma», diceva il magistrato.
Le ultime ore di Giovanni Falcone con Francesca Morvillo: la cena a Roma e il sogno della vacanza a Favignana. Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2022.
Le ultime ore trascorse in serenità a Roma, a poche ore dalla strage di Capaci. A Francesca Morvillo, giudice impegnata nel processo d’appello contro Vito Ciancimino, era stata offerta dai servizi di sicurezza una diversa scorta. Rifiutata.
Una certa parvenza di normalità che Giovanni Falcone si era illuso di avere ritrovato con Francesca Morvillo si intuisce anche da piccoli dettagli dell’ultimo giorno trascorso a Roma, a poche ore dalla strage di Capaci. In attesa di ripartire per Palermo nel pomeriggio con la moglie, impegnata fino alle 16 nei lavori della commissione d’esami per nuovi magistrati. Un ritorno nella loro città deciso qualche sera prima, alla vigilia di quel drammatico 23 maggio, cenando come due fidanzati all’inizio di un amore, fra i tavoli di Campo dè Fiori, a due passi dalla statua di Giordano Bruno, senza scorta. Di una vacanza a Favignana, avevano parlato tante volte. La mattanza dei tonni, spettacolo truce, ma carico di storia. Un sogno inseguito sin dall’inizio della loro storia, dal 1979. Ogni volta bloccato dai sussulti di quella città mattatoio dove avevano perduto colleghi, poliziotti, amici caduti per mano mafiosa, nella Palermo dove avevano rischiato la vita per una bomba fra gli scogli della villa in affitto. Incubi diradati nella pace di serate romane, cariche di improvvisa normalità.
«Va bene, sabato. Segno, 23 maggio».
Lei era uscita da casa di buon’ora quel sabato, raggiungendo la sede degli esami, l’Hotel Ergife. Mentre il regista del Maxiprocesso, da un anno al ministero della Giustizia, era passato dall’ufficio di via Arenula salutando intorno alle 13 la segretaria con un allegro «Io vado, ci vediamo lunedì». Spensierato e gioviale, come lo ricorda il fraterno amico Piero Grasso nel suo ultimo libro appena pubblicato, rievocando la serenità riconquistata nelle ultime settimane. Confermata quando Falcone torna nella casa romana, assente Francesca, per prepararsi da solo un piatto di spaghetti. Altro dettaglio di sconfortante semplicità sottolineato dall’ex presidente del Senato per ribadire che, se un minimo sospetto si fosse presentato nello scenario di quella funesta vigilia, Falcone avrebbe costretto la moglie a viaggiare con mezzi diversi.
E in effetti qualche tempo prima glielo aveva proposto. Non solo lui. A Francesca Morvillo, giudice impegnata nel processo d’appello contro Vito Ciancimino, era stata offerta dai servizi di sicurezza una diversa scorta. Rifiutata. Come i voli separati. Con Falcone infine acquietato nelle serate trascorse passeggiando da soli fra Campo dè Fiori e piazza Farnese, gli occhi sulle vetrine, un passaggio in drogheria, diretti in trattoria.
Ecco il sogno di una normalità mai provata nell’inferno di Palermo, recuperata a Roma in abbracci che Francesca vorrebbe non finissero mai più. Una storia d’amore saldata sin dai primi incontri fra Trapani e Salemi, quando nel 1979 esplode la scintilla della seduzione. Una felicità soffocata da lutti atroci, da amici e colleghi caduti via via sul fronte dell’antimafia, mentre si impiantava il maxiprocesso in «esilio» all’Asinara o si penava per la bomba dell’Addaura, fino ai veleni di Palermo e Roma con insinuazioni moltiplicate in un accavallarsi di infondati sospetti, a forza minimizzati da Falcone davanti alla sua donna. Finalmente rilassati mentre alle quattro del pomeriggio lui passa a prenderla dall’Ergife, al volo, catturandola per la vacanza a Favignana. E lei si lascia alle spalle le amarezze di una vita che finalmente sta mutando, pensa, spera, sogna, mentre saluta con un sorriso gli aspiranti uditori. Ragazzi freschi e stanchi di anni affondati fra i libri. Ignari dei vortici di un magistrato nelle trincee più esposte. E nulla di questo dice loro Francesca, finalmente accanto al suo Giovanni, sulla blindata, le mani strette, diretti a Ciampino, il Falcon pronto a rullare.
È l’ultima ora. Dimenticato anche l’appunto di Francesca, turbata da una frase consegnata a tre cronisti da Falcone per spiegare che il suo trasferimento a Roma non era legato alla paura. Alzandosi in piedi, di scatto, un bottone dorato della giacca blu stretto fra le dita, conscio che la guerra alla mafia non fosse finita: «So che la mia vita vale meno del bottone di questa giacca». Parole agghiaccianti per Francesca: «Ma cosa dici? La tua vita è tutto per me». E lui a tranquillizzarla. Come forse ha fatto mentre il Falcon planava su Punta Raisi. Ignaro di vedette e assassini già schierati lungo l’autostrada, sulla collinetta di Capaci. Tornando nella terra da dove non sarebbe mai andato via, con il suo lavoro. Come in fondo è accaduto. Sopravvivendo ai Riina e ai Provenzano. Loro, morti in cella. Lui e Francesca, ancora vivi.
Falcone e Morvillo: la storia di due toghe che non riposano assieme. PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud il 23 Maggio 2022.
Come tutti gli italiani anche io ricordo dove ero il 23 maggio del 1992 quando a Capaci Cosa nostra ritiene di chiudere la partita con Giovanni Falcone con l’attentato che entra nella storia nazionale.
Ma io ricordo, ho il vizio della memoria, ricordo quello che molti pensavano e scrivevano di Falcone prima della sua morte, di quella della moglie e dei suoi agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. Io ricordo Leoluca Orlando, eterno sindaco di Palermo, amico di Giovanni Falcone, che non esita alla celebre trasmissione di Maurizio Costanzo e Michele Santoro a chiedergli conto dei fascicoli “che dormono nei cassetti”. C’era anche Alfredo Galasso della Rete che diceva: “Non mi piace Giovanni che stai nel palazzo del Potere”. Era la stessa trasmissione dove guardammo le intemerate di uno allora sconosciuto Totò Cuffaro, condanna scontata per mafia e oggi riapparso come mossiere delle prossime elezioni in Sicilia.
Falcone non aveva insabbiato nessuna inchiesta perché era un inquirente che cercava le prove. Io me li ricordo i diari di Falcone, era stato un suggerimento di Rocco Chinnici quello di scrivere ogni notizia rilevante, in cui ho letto dei colleghi Pignatone e Lo Forte che vanno dal cardinale Pappalardo per acquisire notizie sul delitto Mattarella, senza informare il coordinatore delle indagini antimafia a Palermo. Pignatone e Lo Forte, i preferiti del procuratore Pietro Giammanco che costrinse Falcone ad andare via da Palermo. Ricordo una signora democristiana membro laico del Csm, Ombretta Fumagalli Carulli, che accusava Falcone di aver coperto le indagini del costruttore Costanzo.
I quotidiani dell’epoca sono nelle emeroteche. Andate a consultare “Il giornale di Sicilia” e leggerete i fondi del direttore Pepi e di editorialisti che sparavano a zero su Falcone. Oggi sono sicuro che non ne faranno cenno. La gloriosa Unità non si stampa più. All’epoca ospitò un’articolessa del costituzionalista Pizzorusso membro del Csm che spiegava ai postcomunisti in punto di diritto perché Falcone non poteva guidare la superprocura antimafia. A Repubblica giornale dell’antimafia militante non hanno mai spiegato perché una delle sue firme più celebri, Sandro Viola, sia stato chiamato a demolire il libro-intervista a Falcone di Marcelle Padovani scrivendo: “…scorrendo il libro s’avverte (anche per il concorso d’una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi…”. L’articolo è scomparso da anni dall’archivio digitale del giornale.
Nei magistrati che hanno celebrato Falcone in questi trent’anni c’erano quelli dell’Anm che lo avevano considerato un traditore, molti di Magistratura democratica che di Giovanni avevano sempre diffidato, e anche il pool di Mani Pulite aveva ignorato la sua richiesta per avere degli allegati utili ad una rogatoria internazionale.
Roberto Saviano nei giorni scorsi ha scritto che l’uomo Giovanni Falcone sia stato poco raccontato. Non so se è vero. Di certo poco è stata raccontata Francesca Morvillo, sua moglie, unica magistrata uccisa dalla mafia. Una lacuna colmata nel trentennale dal libro “Francesca. Storia di un amore in tempo di guerra” scritto da Felice Cavallaro. Francesca che dopo il botto di Capaci è svenuta. Mantiene gli occhi aperti e ai soccorritori chiede: “Giovanni dov’è? Come sta mio marito?”. All’ospedale tenta di salvarla il professore Andrea Vassallo, rinviato a giudizio da Falcone per aver operato illegalmente mafiosi feriti in agguati. Due interventi in quattro ore non fanno il miracolo. Francesca è la quinta vittima di Capaci. Aveva solo 46 anni. Tra odi, rancori, vite blindate, quella di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo è una grande storia di amore e morte come quella dei danteschi Paolo e Francesca.
Francesca Morvillo, figlia e sorella di magistrati, una delle prime donne a prendere la toga. Procura dei minori a Palermo. Si sposa molto giovane, va male. Decide di andare a vivere con la mamma vedova. Una grande lavoratrice. In tre anni capace di chiudere 1070 pratiche. In casa di amici incontra Giovanni Falcone. Anche lui con un matrimonio da dimenticare. È amore a prima vista. Da nascondere ai veleni del Tribunale di Palermo.
Francesca sarà il porto di quiete del personaggio Falcone. Vita da guerra blindata. Francesca si cura della piccola quotidianità di Giovanni. Gli prende un oggetto, compra una cravatta, segue le novità editoriali e discografiche. Il presidente della Corte d’Appello, Giovanni Pizzillo, affronterà a muso duro Falcone che avversava: “Giudice, lei da scandalo per la sua relazione con la collega, le consiglio di chiedere trasferimento per non essere costretto a rivolgermi al Csm”. Falcone non si scompone e risponde: “Eccellenza, non abbiamo nulla da nascondere. Nulla da rimproverarci. Faccia pure quello che ritiene suo dovere”. Quelli come il dottor Pizzillo, oltre a capir poco di Giustizia, comprendono poco di sentimenti. Si sposeranno nel 1986. In municipio solo i testimoni. Per Giovanni il giudice Caponnetto. Falcone per l’occasione ha rinunciato alla scorta. La sera cena da un caro amico con sei invitati. C’è anche Enzo Biagi che per il magistrato non è solo un giornalista.
Le uniche vacanze della coppia con gli amici magistrati sono causate da indagini internazionali. Una parentesi nella vita blindata. Andarono anche all’Asinara quando Falcone e Borsellino preparano il maxiprocesso e Francesca si porta anche la mamma dietro. Il fallito attentato dell’Addaura alza la tensione a mille. A Francesca per 48 ore cala la voce, riesce a trovarne un filo per dire ad un amico: “Qualcuno ha tradito”. Falcone capisce che anche Francesca è in pericolo. La manda via e resta solo all’Addaura, sdraiato su un pavimento e con una pistola sul tavolo.
Dopo Capaci, nella casa di via Notarbartolo, sarà ritrovato un biglietto scritto da Francesca in quella notte dopo l’Addaura: “Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore”. Di recente Ilda Boccasini ha ritenuto opportuno confessare una sua passione per Falcone. Un’altra parentesi che non cambia molto nella storia di Giovanni e Francesca. Ritroveranno serenità a Roma. Nelle settimane prima dell’attentato. Avevano deciso di non avere figli consapevoli del rischio che correvano. Dopo la strage di Capaci, davanti alla loro casa in fitto di via Notarbartolo a Palermo, comparirà una scritta anonima: “Sempre vivranno nella memoria della gente onesta”.
Qualche disonesto si presenterà ai loro funerali. C’è una chiusa triste. Francesca e Giovanni erano stati seppelliti insieme al cimitero di Sant’Orsola. Nel 2015 per volontà di Maria Falcone Giovanni fu traslato nella Basilica di san Domenico, il Pantheon dei siciliani illustri. In conseguenza di questa scelta Francesca è stata portata al Cimitero dei Rotoli. Resta unito il loro amore che nella sepoltura lacrimata hanno voluto dividere. Ricordiamo i morti. Ma ricordiamoli vivi.
(L’autore ha scritto “Toghe rosso sangue. Le storie dei magistrati uccisi in Italia”. Città del Sole).
L'attentato del 23 maggio 1992. Chi era Francesca Morvillo, non solo la moglie di Giovanni Falcone: la prima magistrata assassinata in Italia. Vito Califano su Il Riformista il 23 Maggio 2022.
Francesca Morvillo è stata l’unica magistrata donna a essere assassinata in Italia. Erano le 17:57 di sabato 23 maggio 1992 quando una carica della potenza di 500 chilogrammi di tritolo fece esplodere un tratto dell’autostrada A29. Nella strage di Capaci morirono Morvillo, il marito giudice Giovanni Falcone, i tre agenti della scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo che viaggiavano sulla prima auto investita in pieno dall’esplosione.
La magistrata aveva 46 anni. Viaggiava in auto, una Croma Bianca, con il marito e l’autista Giuseppe Costanza. A guidare però era Falcone. La moglie era seduta al suo fianco. Furono entrambi scaraventati contro il parabrezza al momento dell’esplosione. Stavano viaggiando dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Gli uomini della scorta nella terza auto sopravvissero all’attentato. Il convoglio era l’obiettivo della Mafia che voleva colpire Falcone da quando all’inizio degli anni ’80 fu costituito il pool antimafia di Palermo che indagò Cosa Nostra e istruì il celebre Maxiprocesso.
Dopo l’esplosione e lo schianto Morvillo venne trasportata prima all’ospedale Cervello e poi trasferita al Civico, reparto di neurochirurgia. Morì intorno alle 23:00 durante un’operazione: troppo gravi le lesioni interne riportate. Era nata a Palermo il 14 dicembre 1945, si era laureata in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Palermo nel 1967 con soli tre esami senza trenta e lode. Con la sua tesi di Laurea “Stato di diritto e misure di sicurezza” vinse il Premio Giuseppe Maggiore per la migliore tesi nelle discipline penalistiche.
Era figlia del sostituto procuratore Guido Morvillo. Divenne giudice del Tribunale di Agrigento e sostituto procuratore presso il Tribunale per i minorenni di Palermo, Consigliere della Corte d’Appello di Palermo e componente della Commissione per il concorso di accesso in magistratura. Insegnò presso la facoltà di Medicina e Chirurgia a Palermo. Fu tra le prime a vincere il concorso da magistrata nel 1968, cinque anni dopo l’apertura alle donne della carriera. Divenne nel 1990 l’unica donna in toga nella Corte di Appello di Palermo.
Il 22 maggio 1992 faceva parte della commissione d’esame a un concorso per l’accesso in magistratura all’Ergife Palace Hotel di Roma. Aveva conosciuto Giovanni Falcone dopo un primo matrimonio culminato in una separazione. Il giudice all’epoca era giudice istruttore al Tribunale di Palermo ed era stato sposato con Rita Bonnici, maestra elementare. La coppia cominciò a vivere insieme nel 1983 e dopo i rispettivi divorzi si sposarono nel 1986 con cerimonia officiata dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando. A fare da testimone il magistrato Antonio Caponnetto.
“Giovanni faceva di tutto per proteggerla. Anche costringendola a una vita da separati”, ha raccontato Girolamo Lo Verso, nel libro di memorie Quando Giovanni diventò Falcone descrivendo una donna “accogliente, gentile, tranquilla e piena di modestia”. I due non ebbero mai figli. Giovanni Paparcuri, autista di Rocco Chinnici, tre anni dopo la strage ritrovò in un libro un biglietto che Morvillo scrisse al marito dopo l’attentato fallito dell’Addaura: “Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me, così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore, Francesca”.
Ha scritto la ministra della Giustizia Marta Cartabia: “Tre decenni dopo quella stagione di stragi – quando in tutto il mondo è apprezzato il metodo del magistrato che rivoluzionò le indagini sulla mafia – emerge nella dimensione pubblica anche tutto il valore personale e professionale di Francesca Morvillo, che è stata sì indiscutibilmente l’amata consorte di Giovanni Falcone e la sua ascoltata consigliera, ma è stata a sua volta un’infaticabile magistrata, una fine giurista, attenta all’importanza della formazione e alla funzione costituzionale della pena”, le parole della Guardasigilli su Il Sole24Ore.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Vi racconto l’eroe Falcone: era un uomo normale che però ha scelto il coraggio. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.
La foto è una immagine a cui sono molto legato. L’ho scovata anni fa per caso. Ritrae Giovanni Falcone e Francesca Morvillo su un traghetto, credo, in un momento di abbandono, di riposo, di contentezza. In un momento di vita normale. Sono stanchi e abbronzati. Incredibile, no?
Una fotografia “privata” del giudice Giovanni Falcone e di sua moglie Francesca Morvillo in una giornata dedicata al relax: dormono, forse su un traghetto, dopo essersi abbronzati al sole. L’immagine di due persone normali, simile a tante di ciascuno di noi
L’uomo comune chiama eroe chi si sacrifica per il bene comune, ma spesso ignora la vita comune che l’eroe conduce. La foto che ho scelto questa settimana è una immagine a cui sono molto legato. L’ho scovata anni fa per caso. Ritrae Giovanni Falcone e Francesca Morvillo su un traghetto, credo, in un momento di abbandono, di riposo, di contentezza. In un momento di vita normale. I due volti, a occhi chiusi, sono stanchi da una giornata probabilmente di sole, stanchi e abbronzati. Incredibile no? Quando ho scoperto questa foto ho iniziato a riflettere su come avevo valutato Giovanni Falcone prima di vederlo così. Le immagini che conservavo di lui erano le foto che siamo tutti abituati a vedere; foto in cui lui è sempre in giacca e cravatta, in circostanze formali. Qui la prospettiva si ribalta.
Falcone è con sua moglie - l’unica magistrata uccisa dalla mafia - in una situazione privata, dove c’è solo una macchina fotografica probabilmente amica a rendere eterno il momento. Osservando questa foto ho compreso quanto l’uomo Falcone sia stato poco raccontato. Conosciamo il magistrato, il simbolo, tutti epifenomeni di un universo più complesso: Falcone era un uomo che amava la vita, che amava stare in compagnia, che amava il buon cibo. Giovanni Falcone era un uomo che amava... strano come non me ne fossi accorto prima! Strano come una foto sia arrivata così, all’improvviso, ad aprirmi gli occhi. Dopo averla vista ho dato un valore diverso ai suoi sorrisi appena accennati, al suo tono di voce sempre mite pure se sotto attacco. Alla calma che manteneva anche quando chiunque altro si sarebbe fatto prendere dalla collera. Ecco perché ho scelto di mostrarvela, perché spero che anche il vostro sguardo su di lui possa cambiare.
Sono trascorsi 30 anni dalla strage di Capaci e oggi di Falcone bisogna assolutamente tornare a parlare con uno sguardo nuovo, finanche con parole nuove. E bisogna tornare a raccontarlo per quello che è stato: un uomo comune, comune ma geniale, che per spirito di servizio, perché altri prima di lui - i suoi maestri - lo avevano fatto, ha abbracciato una missione: mostrare il vero volto delle mafie che erano, sono e saranno organizzazioni che agiscono solo per profitto. Segui il denaro, troverai sinergie che non t’aspetti. E poiché non te le aspetti, troverai duro farti ascoltare. Diranno di te che vedi mafia ovunque; che fai di tutto per avere visibilità; che piazzi bombe che poi non esplodono per avere attenzione. Diranno, diranno solo. Diranno, forse, perché non sono capaci di fare. Oggi a noi il lavoro di Falcone sembra un atto rivoluzionario, e lo è... e lo era, ma guardando la foto di Giovanni e Francesca assopiti dopo una giornata di sole, non possiamo ignorare che quell’atto rivoluzionario lo ha compiuto un uomo come noi. Questo cosa significa?
Significa che ciascuno di noi potrebbe fare lo stesso. Forse no. Ma ciascuno di noi può capire a cosa Falcone ha rinunciato. E allora la foto che vi mostro è preziosa, perché di momenti così Falcone non poteva concedersene molti. Qualcuno sono certo starà pensando: chi glielo ha fatto fare? Falcone risponderebbe «lo spirito di servizio», che io traduco così: il profondo rispetto per il lavoro di chi era al suo posto prima di lui, ed era morto, ucciso prima di lui. Spirito di servizio sembra quasi un obbligo che non lascia scelta, e invece Falcone ha scelto, scelto quotidianamente la strada del coraggio. Del coraggio e finanche della paura. Sì perché solo chi non dà valore alla vita non ha paura, sentimento nobile e soprattutto utile che ti fa presagire il pericolo. Falcone ha scelto il coraggio e oggi questa scelta va raccontata a chi nel 1992 non era ancora nato o a chi era troppo piccolo per ricordare.
E il coraggio di Falcone va raccontato non come un percorso obbligato, non come qualcosa che gli è capitato, ma come una scelta. Io che l’ho sempre considerato un simbolo di lotta e integrità, di impegno e dedizione al lavoro, oggi voglio pensare a lui come a un uomo di cuore che ci ha indicato una strada, una strada che ciascuno di noi può percorrere. Ricordare il coraggio di Falcone è un gioco di parole che ha al centro proprio la parola cuore. L’etimologia di ricordare è «riportare al cuore», perché per gli antichi era il cuore la sede del ricordo e però lo è anche del coraggio. Il cuore è un muscolo, ce lo abbiamo tutti. Ma tenerlo in costante allenamento fa la differenza.
Pif: «La lotta alla mafia va raccontata, perché non è un capitolo chiuso». Paolo Morelli su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2022.
Lo sceneggiatore e regista ospite al Salone del Libro: «Un linguaggio nuovo per superare la retorica».
«La distanza fra oggi e la strage di Capaci è pari a quella che separa la Seconda guerra mondiale dalla mia data di nascita. Non è un fatto percepito come lontano, ma di più». Parte da questo ragionamento Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, classe 1972, nell’affrontare uno dei temi principali del Salone Internazionale del Libro in partenza oggi: l’eredità dell’antimafia. «Uno che nasce ora avrà la difficoltà di capire quanto la lotta alla mafia non sia una cosa passata. La realtà non è un capitolo chiuso». In occasione dei 30 anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, la kermesse letteraria al Lingotto Fiere dedica diversi appuntamenti al tema. L’autore e sceneggiatore palermitano è uno degli autori più attesi.
Pif, al Salone in tanti parleranno di questo tema ai più giovani. Come si fa a spiegarlo a loro?
«Per i bambini e per i ragazzi serve un linguaggio diverso perché le generazioni cambiano, quindi occorre adeguarsi a un nuovo modo di parlare. È uno dei motivi per cui con altre persone (l’associazione culturale “Sulle nostre gambe”, ndr ) abbiamo creato la app NoMa, che dà vita alle lapidi per raccontare la storia delle persone uccise dalla mafia. Serve usare un linguaggio più moderno, ma serve anche raccontare questi personaggi come persone normali, perché presentarli come santi laici tante volte allontana. La loro storia è incredibile, proprio perché non avevano superpoteri. Io dico sempre nelle scuole: “leggetene come se fossero vivi”, altrimenti appassisce tutto».
Questo aspetto come influisce sul racconto?
«È un problema di comunicazione. Rinnovare il linguaggio serve per stare al passo con le generazioni. La cosa importante è che tutto non diventi una storia morta, ma sempre attuale. So che sembra una bestemmia, ma deve essere anche una cosa allegra».
In che senso?
«Ogni tanto mi scappa e dico che il 23 maggio vado a “festeggiare Falcone”. Una volta lo dissi a Maria Falcone e lei, che aveva tutti i motivi per offendersi, mi diede ragione. Andiamo a festeggiare queste persone perché le ricordiamo in maniera positiva, non attraverso una storia lagnosa, triste e retorica. Ricordiamo che Palermo, la Sicilia e l’Italia sono cambiate grazie a persone come Giovanni Falcone. Sempre nel rispetto di quanto accaduto, esiste una storia positiva»
Lei presenterà oggi Illegal, l’agenda della legalità, con Marco Lillo (Sala Oro, ore 15.30), edita da PaperFirst. Che cos’è?
«Vogliamo dimostrare quanto è rivoluzionario e alternativo rispettare le regole, cioè quello che la mafia non vuole. Questa agenda scolastica ricorda le persone che sono state uccise e ci informa, un’altra cosa che le mafie non vogliono. Informarsi è un’arma pericolosa per loro. Non è un’agenda lagnosa e triste, ma ci permette di raccontare delle storie e capire quanto le persone abbiano cambiato il Paese. È un’agenda che definisco “positiva” perché grazie a queste persone oggi stiamo meglio. Parte del ricavato, peraltro, andrà a finanziare l’app NoMa. La retorica? È giusto metterla, ma crediamo nell’allegria dell’antimafia».
Che eredità ci lascia l’antimafia?
«Spesso rischia di autodistruggersi, ma ho capito che l’unico modo per non rimanere delusi è pensare che la leadership della lotta alla mafia non venga delegata, dobbiamo darci noi stessi questa leadership, noi guidiamo la nostra lotta contro la mafia. Non mi deve interessare se un tizio, parente di un morto ammazzato, sia antipatico nella vita, mica devo fare un viaggio con lui, devo chiedermi se fa qualcosa di utile o no. Il concetto è che la mafia è il nemico, non dobbiamo implodere altrimenti facciamo un favore ai mafiosi. L’eredità è ricordare che non è una storia chiusa, ma dipende da noi».
Fiorello: «Io, il figlio dello sbirro urlai in tv: “Mafia fai schifo”». Rosario Fiorello su L'Espresso il 17 maggio 2022.
Il ricordo del giorno della strage di Capaci di Rosario, “u figghio ro sbirru”.
«Mafia fai schifo». Tre parole. Dirette. E in diretta, su Rai Uno. Parole non pensate, non ragionate: parole uscite dal cuore, d’istinto, con violenza. Sono quelle tre parole il mio ricordo immediato legato alla strage di Capaci.
Ero in tour con il Cantagiro quando arrivò la drammatica notizia, e sul palco – insieme a Mara Venier e Gino Rivieccio – rendemmo omaggio a Giovanni Falcone.
Lorenzo Jovanotti: «La strage di Capaci è stata il risveglio di piombo della mia generazione». «La mia generazione ha smesso di avere quell’idea romantica del mafioso e l’ha sostituito con la realtà fatta di gentaglia senza onore. Una montagna di merda, come li aveva chiamati Peppino Impastato». L’intervento del cantautore. Lorenzo Jovanotti su L'Espresso il 18 maggio 2022.
Il 23 maggio 1992 era di sabato, mi trovavo al matrimonio di Claudio Cecchetto e Mapi Danna, a Riccione, una bellissima giornata, era appena uscito il mio album che aveva dentro “Ragazzo Fortunato” e stava andando fortissimo.
Dopo un paio di stagioni così così ero tornato in testa alle classifiche e le radio passavano tantissimo le mie canzoni.
Ero carico, sorridevo alla vita e lei mi ricambiava. Qualcuno mi avvicinò in quella situazione di folla e sorrisi per dirmi «hanno ucciso Falcone» e non capii. Soprattutto non capii perché mi stesse dicendo questa cosa e perché proprio a me. Non erano tempi di flussi di notizie ininterrotti, era ancora il mondo di prima e per fare mente locale sulla frase che avevo appena sentito ci misi qualche minuto. Poi fu tutto chiaro. Il matrimonio andò avanti e fu una bella festa e alla notte andai anche in giro per i locali che a quel tempo erano come le sette chiese di Roma per noi pellegrini notturni.
Poi all’alba comprai un paio di giornali appena arrivati e tornai nell’appartamento che avevo affittato a Gemmano, sulle colline romagnole, per quei mesi come base per l’estate “on the road” che mi aspettava. Accesi la tv e invece di andare a dormire restai li a leggere e a sentire le notizie, a guardare quelle immagini dell’autostrada che poi abbiamo rivisto un milione di volte fino a diventare antiche, mitologiche. A metà mattina volli fare un giro per il paese, al bar, incontrare qualcuno, non volevo stare da solo davanti ai tg che ripetevano le stesse cose, quelle poche che si sapevano. C’era uno sgomento in giro, che mi rimandava a tanto tempo prima quando vivevo a Roma e qualcuno entrò in classe alle medie per dirci che avevano rapito Moro e ucciso la sua scorta, e anche allora che ero un altro bambino di un’altra età, dovetti tornare a casa per farmi spiegare chi era di preciso questo Moro (i nomi per me sono sempre la molla di un racconto).
L’atmosfera era simile, solo che Moro era ancora vivo, mentre Falcone no, perché non sarebbe servito rapirlo, andava eliminato, evidentemente, e in modo spettacolare. Le atmosfere intorno alle grandi notizie sono importanti. Per esempio i giorni successivi ad una bella notizia, che ne so, l’Italia che vince i mondiali, sono chiari e profumati di qualcosa di leggero, mentre al contrario quando viene colpito un popolo attraverso un attentato che uccide i suoi rappresentati l’aria diventa di piombo e se ne accorgono tutti. Poi le cose tornano al loro corso ma non sempre e non nello stesso modo.
L’attentato di Capaci ha svegliato una generazione, di cui faccio parte, di questo ne sono sicuro, e sebbene quando dico generazione stia generalizzando, cosa che non amo mai fare, in questo caso è così. Di sicuro qualcuno se n’è fregato, ha minimizzato, rimosso, addirittura giustificato, ma solo qualcuno, i soliti. Quasi tutti gli altri hanno smesso di avere quell’idea vagamente romantica del mafioso uomo d’onore e lo hanno sostituito con la realtà, fatta di gentaglia cattiva e senza onore, esistenze tristi, senza nessun fascino. Una montagna di merda, come anni prima li aveva chiamati Peppino Impastato, inascoltato da chi avrebbe dovuto e potuto.
Non saranno le serie tv così ben confezionate che anche io guardo divertito a cambiare l’odore di quella montagna di merda. La mafia è sempre un sistema mostruoso, che uccide l’impresa nel suo senso più umano e classico, quella degli esseri umani che si mettono in cammino per costruire la propria avventura nel mondo, piccola o grande che sia, individuale o collettiva, liberi e senza dover piegare la testa di fronte ai prepotenti di turno, in qualsiasi forma questi si manifestino. Chi per lavoro protegge questa nostra possibilità, questo diritto, va protetto difeso e ringraziato.
Falcone era come il suo nome, lo hanno ucciso, ma non hanno ucciso la possibilità che altri si alzino in volo. Sono passati 30 anni e io non ho dimenticato.
"C’è stato un attentato a Palermo”, e per noi ragazzi cambiò tutto. Stefania Auci su La Repubblica il 23 Maggio 2022.
La scrittrice ricostruisce il suo 23 maggio 1992, il giorno che segnò la strada del futuro.
C'era una sorta di malessere nell'aria a Siracusa, nel pomeriggio del 23 maggio 1992. Una sensazione indefinibile che sembrava far tremare l'aria e alterava l'atmosfera di quel pomeriggio. Ma noi alunni di una classe del liceo classico Ximenes di Trapani, venuti ad assistere alle rappresentazioni delle tragedie classiche, la percepivamo a malapena: eravamo in gita scolastica, troppo occupati a sgranocchiare patatine e a fare scherzi. Sentivamo già il profumo dell'estate dopo un anno scolastico avaro di soddisfazioni. Nulla avrebbe potuto turbare la nostra voglia di divertirci.
La memoria di quei momenti sembra strinata, come una carta esposta al fuoco che non ha però fatto a tempo a bruciarsi completamente. Tra i marmi del teatro che si coloravano di rosa nella luce del tramonto, vedemmo i nostri professori diventare nervosi; poi notammo altri spettatori che si alzavano, scuri in viso, andando via di gran carriera al termine dello spettacolo. Subito dopo, si diffuse la voce che c'era stato un gravissimo incidente in autostrada vicino Palermo: una frana, o forse un crollo in una delle gallerie fuori città, subito dopo Capaci che aveva distrutto un pezzo di autostrada. Io camminavo accanto a Salvo, il mio migliore amico. Andavamo a passo veloce, a testa bassa, chiedendoci cosa poteva essere successo davvero.
Quando arrivammo al pullman che avrebbe dovuto riportarci a Trapani, arrivò "la" parola. Quella vera. Quella giusta.
Attentato.
Fu l'autista del bus a dirci che era saltato in aria un pezzo di autostrada e che si trattava di una bomba. "Hanno ammazzato a iddo, a Falcone", disse in tono sconvolto passandosi le mani tra i capelli. "E non solo: dicono che ci sono altri morti. A quelli della scorta c'hanno fatto fare un volo come ai picciriddi di Pizzolungo".
Ci ricordammo subito di Barbara Asta e dei suoi bimbi saltati in aria a Pizzolungo, a poca distanza da Trapani: la loro auto si era frapposta a quella del giudice Carlo Palermo e l'autobomba che avrebbe dovuto uccidere il giudice, invece, aveva fatto saltare in aria la donna con i suoi figli di sei anni. Poco prima, c'era stato Gian Giacomo Ciaccio Montalto a Valderice, freddato da colpi di pistola nella sua auto; e poi ancora, Mauro Rostagno, ammazzato a Lenzi.
Per noi la mafia era il buio dietro la porta chiusa, la parola che non si dice, lo sguardo che si distoglie. Era il silenzio per il quieto vivere.
Personalmente, avevo letto le notizie sul maxi processo sui quotidiani e avevo letto "Cose di Cosa nostra", il libro che Giovanni Falcone aveva scritto insieme a Marcelle Padovani. Percepivo che esisteva un mondo opaco di cui si sapeva poco o nulla, e troppe cose erano diverse da come ci venivano raccontate. Ma erano i pensieri ingenui di un'adolescente che ascoltava i Queen e sognava di scrivere i suoi romanzi.
Ebbi modo di riflettere a lungo durante il tragitto che ci riportò a Trapani. Ascoltavo le notizie trasmesse dalla radio. I cronisti raccontavano di un disastro che noi faticavamo a immaginare. Come potevamo pensare che l'autostrada dove eravamo passati quella stessa mattina non esisteva più, e che ci fosse un cratere al suo posto? Nella luce giallastra del bus, scrutavo i volti dei miei compagni e avvertivo una estraneità inspiegabile. Non sapevo come dare alle emozioni un corpo di parole, perché terrore era ciò che sentivo, ed ero del tutto impreparata ad affrontare un sentimento così violento. Era una paura soverchiante.
Da quel pomeriggio di maggio, la mafia non aveva più l'inconsistenza di un gas tossico: era forte, potente, reale. Se era morto Falcone, il giudice che molti ragazzi della mia generazione avevano visto come un simbolo, chi ci avrebbe protetto? Chi sarebbe stato il nostro punto di riferimento? Chi ci avrebbe permesso di essere spensierati e liberi?
Compresi davvero l'enormità di ciò che era accaduto la mattina dopo quando, ancora immersa in un torpore dettato dal poco sonno e dallo choc, vidi per la prima volta le immagini del luogo dell'attentato. C'erano le vetture sommerse dai detriti e i poliziotti che vagavano tra le macerie, increduli per ciò che era accaduto. C'era una frase che si udiva chiaramente in mezzo al frastuono degli elicotteri che volteggiavano sull'autostrada. "E che ci jiccarono, nà bomba atomica?"
Nei giorni successivi all'attentato mi chiusi in un silenzio attonito. Che ne sarà di noi? Mi chiedevo. Ce lo chiedevamo tutti, in verità, senza avere il coraggio di dirlo ad alta voce. Avevo una sola, drammatica certezza: la mafia aveva dimostrato di essere la vera padrona del territorio. Il potere della Repubblica italiana era stata spazzata via da centinaia di chili di tritolo.
In quei giorni mi trovai spesso a pensare a Paolo Borsellino, che avevo incontrato durante una tavola rotonda sulla mafia, alcuni anni prima. Nelle sue parole cariche di fermezza e di calma trovavo consolazione. Mi rassicurava sapere che c'era, e trovavo forza nell'umanità generosa e concreta che dimostrava durante le interviste.
Non erano passati neanche due mesi dall'attentato sull'autostrada che fecero saltare in aria anche lui.
Pure quella domenica pomeriggio è rimasta scolpita nella memoria: l'avevo trascorsa al mare con i miei amici. La scuola era finita: mi aspettava l'ultimo anno, e poi l'università. Non sapevo ancora quale facoltà avrei scelto: nutrivo molti timori, forse avevo anche paura di fare una scelta sbagliata.
Quando tornai a casa, trovai mio padre davanti al televisore nello studio e mia madre accanto a lui che sibilava "maledetti disgraziati". Sullo schermo, le immagini di una nuova esplosione: il fumo, le auto accartocciate, e di nuovo, gli elicotteri sul cielo di Palermo e le voci concitate dei cronisti.
Rimasi fino a tarda notte a guardare le immagini di via D'Amelio. Avevo la pelle ancora sporca di sale e di sabbia ma non riuscivo a muovermi. La Sicilia sarebbe rimasta una terra disgraziata e muta, dove i morti ammazzati venivano definiti eroi in pubblico, ma chiamati pazzi o peggio, illusi in privato.
"È finito tutto". Lo disse Antonino Caponnetto, che aveva diretto il pool Antimafia e che aveva avuto con Falcone e Borsellino un rapporto di stima e di affetto. Lo pensai anche io. Lo pensammo tutti.
In quei giorni che capii che la vita di prima non c'era più e non avrebbe più potuto essere altrimenti. Dopo la rabbia e lo sgomento arrivò l'orgoglio per me e per molti, moltissimi siciliani: se non avessimo reagito dopo una simile violenza, non avremmo avuto più nessuna libertà. E no, non sarebbe solo colpa di uno Stato assente o peggio, ostile: la colpa sarebbe stata nostra, della nostra vigliacca indifferenza, dell'incapacità di assumerci le responsabilità ciascuno per la propria parte. Perché la libertà bisogna meritarsela, e bisogna tenersela stretta, e lottare per difenderla. È vero, sarebbero arrivate altre stragi, altri morti. Sarebbe morto don Pino Puglisi, ci sarebbero stati gli arresti di Riina, Brusca, Bagarella, dei fratelli Graviano. Ma saremmo stati noi a essere differenti.
Raccontare queste cose oggi può sembrare ripetitivo o peggio, retorico. Ma è così che si conserva la memoria: raccontando cosa sono stati quei giorni. La consapevolezza di sé si raggiunge procedendo per tentativi ed errori, attraverso il timore di sbagliare e il coraggio di mettersi in gioco in prima persona. Ecco: ciò che è accaduto nell'estate del 1992 ha influito in maniera determinante sulle scelte di vita della mia generazione. Ma non solo: ha cambiato il modo di parlare della mafia
Se guardo indietro, mi rendo conto di essere cambiata in maniera radicale in quel periodo. Nell'estate del 1992 ho scelto la facoltà universitaria: Giurisprudenza. Una scelta fatta con passione, che rifarei mille e mille volte. E oggi, che sono un'insegnante, mi trovo a lavorare in una scuola che per caso - o forse no - porta il nome di Paolo Borsellino. Ed è qualcosa di cui vado molto fiera e orgogliosa.
«Ci fu una prova generale della strage di Capaci». La rivelazione dell’ex ispettore vicino a Falcone. Per l'ex poliziotto della Dia Pippo Giordano, collaboratore di Giovanni Falcone «la zona non era affatto disabitata, ma nessuno sentì la necessità di allertare le forze di polizia. Una segnalazione, anche anonima, avrebbe scritto una storia diversa». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 maggio 2022.
Sono passati trent’anni dalla strage di Capaci avvenuta il 23 maggio del 1992. Morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. La detonazione provocò un’esplosione immane e una voragine enorme sulla strada. Pochi lo sanno, ma prima di compiere la strage, la mafia corleonese fece una prova generale con tanto di esplosione riempiendo una cunetta di esplosivo: la strage di Capaci in miniatura. A scoprirlo è stata la Direzione Investigativa Antimafia. A raccontare a Il Dubbio quell’episodio è Pippo Giordano, già ispettore della Dia, colui che localizzò il luogo esatto. L’ex ispettore ha lavorato con i giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, e i poliziotti Ninni Cassarà e Beppe Montana, tutti vittime della mafia. Oggi in pensione, mette a disposizione le sue memorie per contribuire a ricostruire uno Stato fondato sulla legalità. La sua iniziativa è rivolta principalmente agli studenti.
Lei che attraversò la stagione più sanguinosa di Cosa Nostra, ci racconta come e quando riuscì a scoprire il luogo dove ci fu la prova generale compiuta qualche giorno prima dell’attentato?
Conobbi il dottor Giovanni Falcone, quand’ero alla Squadra mobile di Palermo, negli orribili anni della mattanza voluta da Totò Riina. A Palermo era più facile morire che vivere, tant’è che gli organi di stampa consideravano Palermo come Beirut. Ancora oggi si compie un errore storico definendo quegli anni, guerra di mafia. La realtà è un’altra. Ci fu solo una mattanza voluta da Totò Riina. Quest’ultimo con inaudita violenza, conquistò manu militare l’intera Isola. Era padrone del territorio a tal punto, che si permise prima di compiere la strage di Capaci, di fare le prove dell’attentatuni. Infatti, giorni prima del 23 maggio 1992, alcuni uomini di Cosa nostra per testare la potenza distruttiva dell’esplosione, scelsero una pubblica strada in contrada Rebuttone, nel territorio di Altofonte e imbottirono una cunetta di esplosivo. Quindi, fecero saltare in aria quel pezzo di strada e con i macchinari di Gino La Barbera (presente sul luogo) ripristinarono il manufatto, asfaltando la strada. Io ero in forza alla Dia di Roma e fui mandato a Palermo per localizzare l’esatto luogo ove era avvenuto “l’esperimento”. Fui coadiuvato da un collega della Dia di Palermo, Giovanni Lercara. Il sopralluogo, effettuato anche con l’ausilio di un elicottero della polizia, ci consentì di identificare il tratto di strada. Conclusa l’indagine presentai un dettagliato rapporto, allegando anche un fascicolo fotografico. La zona non era affatto disabitata, ma nessuno sentì la necessità di allertare le forze di polizia. Una segnalazione, anche anonima, avrebbe scritto una storia diversa.
Lei ha conosciuto molto da vicino Falcone: cosa l’ha colpito di lui? E con la sua esperienza, esistono degli “eredi”?
Incontrai la prima volta il dottor Giovanni Falcone a Palermo all’inizio degli anni ‘80, durante gli interrogatori di Salvatore “Totuccio” Contorno, che avvenivano presso il Commissariato Ps di Mondello. Successivamente, in tempi diversi sino all’autunno del 1989, lo assistetti in alcuni interrogatori di pentiti. A proposito di Contorno va ricordato che fummo costretti a spostarlo repentinamente, nascondendolo in un appartamento nello stabile della Mobile palermitana. Fu trasferito perché dentro una cabina telefonica, vicino al Commissariato, era stata rinvenuta una sagoma di un uomo con alcuni fori di proiettili imbrattati di vernice rossa. Una decina di anni dopo Gaspare Mutolo ci raccontò che l’intento di quelle minacce era di spostare Contorno in una località più consona a un attacco in forze. Lo stesso Mutolo ci riferì – citando i componenti del commando della famiglia di San Lorenzo – che Cosa nostra aveva pianificato un attentato al dottor Falcone all’uscita della Favorita in direzione Mondello, esattamente dove ancora oggi esiste la strettoia. Ci rinunciarono perché nel frattempo a Falcone era stata intensificata la scorta. Di Falcone, mi colpì la sua grande umiltà e umanità nel trattare i mafiosi. Era una persona estremamente garbata, oserei dire un produttore a livello industriale di empatia. Non si poteva rimanere insensibile al suo carisma e al suo modo di rapportarsi. E poi con quel bel sorrisetto sornione sotto i baffetti ti ammaliava. Non vidi mai Falcone alterarsi. Era di poche parole, ma era capace di fare battute sarcastiche. Mi ricordo quella rivolta a me, durante l’interrogatorio di Stefano Calzetta, al quale era presente anche Ninni Cassarà. Lei mi chiede se esistono eredi di Falcone. No, lo escludo. Guardi che a causa del mio specifico compito alla Dia, assistetti decine di magistrati non solo palermitani. Ebbene, secondo la mia valutazione pensare che possano esistere eredi di Falcone la reputo una colossale castroneria. Falcone brillava di luce propria, mentre altri di luce riflessa. Dunque, finiamola con questa pantomima, Falcone era e rimane unico. Anche Tommaso Buscetta non può avere eredi come spesso si sente dire. Lo affermo con cognizione di causa per averlo frequentato e per l’esperienza che ebbi con 8 pentiti di Cosa nostra. U Zu Masino era un uomo speciale.
In merito all’attentato di Capaci ci sono delle sentenze definitive dove è cristallizzata la modalità dell’esecuzione e anche il movente. Eppure, ancora oggi, attraverso programmi tv in prima serata, si sentono proporre svariate ipotesi. Si è fatta qualche idea al riguardo?
Non una ma diverse idee. Veda, mi sto stancando di tutti questi produttori di teoremi assurdi e soprattutto di pseudo pentiti e di tanti produttori di serial tv riconducibili a “fantamafia”. Qualcuno ha detto che ci sono “inquinatori di pozzi”. Assolutamente no, ci sono invece inquinatori di laghi, viste le minchiate che ogni giorno ci propinano e che sono immense. Noi della Dia lavorammo a tempo pieno sulla strage di Capaci. Mentre per via D’Amelio non fummo coinvolti, tranne in un episodio riguardante il pedinamento e arresto di Profeta, tirato in ballo pur sapendolo innocente da suo cognato Scarantino. La mia idea è che nonostante sentenze passate in giudicato, taluni cercano di ammorbare la verità processuale. Il continuo riferimento a servizi deviati o a trame ordite dal Ros, pur nell’ormai acclarata verità processuale, sta assumendo contorni stomachevoli. E basta fatevene una ragione, siano in uno Stato di diritto. A me sembra di assistere a pupiate ad uso e consumo dei talk show. Purtroppo, gli ingenui e facili creduloni, ahimè, abboccano e poi diventano cassa di risonanza nei social. Di solito non do consigli, ma ritengo doveroso trasgredire, dicendo che sarebbe equo e necessario che taluni personaggi occupanti posti di rilievo nelle Istituzioni, s’attaccassero u parra picca (parlassero poco) e stessero lontano dai riflettori. Intelligenti pauca.
Un’ ultima domanda. Cosa nostra, in quei tragici anni, aveva perso oppure vinto contro lo Stato?
Sicuramente in quel periodo Cosa nostra aveva vinto. La risposta dello Stato, seppure lentamente, iniziò dopo la costituzione del Pool creato dal dottor Rocco Chinnici. E infatti, l’opera di contrasto alla mafia operato dal Pool, di cui facevano parte Di Lello, Borsellino, Falcone e Guarnotta, iniziava a sgretolare lo strapotere dei corleonesi. All’epoca si creò una sinergia di grande valore tra magistratura, polizia e carabinieri. Una collaborazione mai vista in precedenza. Io penso che occorre riconoscere al dottor Rocco Chinnici, l’intelligenza di aver compreso che i mafiosi non erano affatto “scassapagghiari”, ovvero delinquenti di piccolo cabotaggio com’erano considerati prima, ma un coacervo di poteri ramificati non solo nel territorio siciliano ma anche oltre Oceano. Fu senza ombra di dubbio un’intuizione vincente. Del resto basta pensare che il “papa” (Michele Greco) prima dell’emissione dei 161 mandati di cattura, era titolare di porto d’armi. Concludo affermando che noi abbiamo vinto, ma abbiamo pagato un esoso tributo di sangue. E mentre a Palermo scorreva copioso sangue innocente, lo Stato latitava o era affetto da ipoacusia. Eravamo soli, soli e soli.
I magistrati trasferiti per il pericolo attentati: istruivano il Maxiprocesso. Quando Falcone e Borsellino pagarono il conto all’Asinara: “Raffaele Cutolo la sera cantava canzoni napoletane”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 23 Maggio 2022.
All’Asinara, su una targa affissa alla parete della villetta rossa affacciata sul mare, si legge: “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Frase di Paolo Borsellino che con il collega Giovanni Falcone, su quell’isola nel 1985, scrisse parte fondamentale dell’ordinanza sentenza del Maxi Processo, il più grande processo alla Mafia mai celebrato. 475 imputati, in primo grado 346 condanne, 19 ergastoli, in tutto 2.665 anni di reclusione che in Appello vennero in parte ridotte mentre le condanne vennero confermate e gran parte delle assoluzioni annullata in Cassazione il 30 gennaio 1992 – pochi mesi dopo i magistrati sarebbero stati uccisi da Cosa Nostra nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio.
Prima però – molto prima di allora: prima delle stragi ma anche prima del processo – i due collaboratori del Pool antimafia Beppe Montana, a Capo della neonata sezione “Catturandi” di Palermo, e Ninnì Cassarà, Questore aggiunto presso la Questura di Palermo, erano stati eliminati dalla Mafia. E quindi Falcone e Borsellino vennero portati sull’isola dell’Asinara. “Per quel soggiorno all’Asinara Falcone e Borsellino dovettero persino pagare le spese di soggiorno per loro e le loro famiglie”, raccontò il giudice Antonino Caponnetto in un articolo pubblicato su Sudovest nel 1992, proprio nell’anno delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Che sarebbero dovuti andare all’Asinara i due magistrati lo avevano soltanto all’ultimo. Era trapelata la voce di un attentato di Cosa Nostra ai loro danni.
La figlia di Borsellino era a un compleanno, gli altri dai nonni. Furono prelevati tutti in gran fretta e trasportati sull’isola in elicottero militare. E all’Asinara, nel frattempo: “A quell’epoca non c’erano mica i cellulari, e io ero in ferie, in barca a vela, nelle acque di Budelli. Per rintracciarmi hanno dovuto fare un bel giro di chiamate ai parenti, e quello non era un buon segno”, ha raccontato in un’intervista a La Nuova Sardegna Franco Massidda, direttore del carcere di massima sicurezza dell’Asinara. “Direttore, non le posso dire nulla, ma deve rientrare immediatamente. Ordini dall’alto”, dissero al direttore che in barca portava sempre una giacca e una camicia.
Il capo gabinetto del ministero della Giustizia gli avrebbe annunciato l’arrivo di Falcone e Borsellino con le loro famiglie. “Da oggi staranno all’Asinara e saranno sotto la sua tutela”. Undici persone in tutto. Sull’isola 500 detenuti, anche siciliani però trasferiti a sud, a Fornelli, lontani due ore a piedi da dove avrebbero alloggiato i magistrati con le rispettive famiglie. “Ho chiesto: avete delle armi con voi? Dovete consegnarmele’. Falcone è perplesso, per un attimo incrocia lo sguardo di Borsellino, poi dice: ‘Non mi sono mai separato dalla pistola in vita mia. È proprio necessario?’”. La loro base fu la “casetta rossa” della foresteria – all’interno, oggi, foto dei magistrati e altri cimeli di quel periodo, in pratica un piccolo museo.
Un mese su quelle carte, a lavorare a poche centinaia di metri dal braccio di massima sicurezza del super carcere di Fornelli. “In quella stanza il fumo si tagliava a fette. Lavoravano sulle carte senza sosta, anche dopo cena, e tiravano avanti sino alle tre del mattino, e poi l’indomani alle 8, erano già in piedi”, ha raccontato nello stesso articolo di La Nuova Sardegna Gianmaria Deriu, brigadiere agente di custodia che nel 1985 aveva 27 anni. A soli 200 metri, in isolamento in un’altra cella, il “Professore” Raffaele Cutolo, il fondatore della Nuova Camorra Organizzata Napoletana (NCO) la sera cantava melodie napoletane. “Ma proprio accanto a questo dovevate sistemarci?”.
Falcone e Borsellino lavoravano in una specie di bunker, circondati da sentinelle e guardie. Le famiglie passavano le giornate al mare anche se Lucia Borsellino, figlia del magistrato, cominciò a dimagrire pericolosamente. Certo non una vacanza, nonostante un tuffo qualche volta. Se ne andarono, Falcone e Borsellino e famiglie, all’improvviso così com’erano arrivati. E alla fine del soggiorno sull’isola, a Falcone e Borsellino, lo Stato presentò loro il conto. “Pagammo, noi e i familiari diecimila lire al giorno per la foresteria, più i pasti. Avremmo dovuto chiedere il rimborso. Non lo facemmo, avevamo cose più importanti da fare. Non si trattò di somme eccessive ma non lo trovai giusto. Infatti rivelai questa circostanza nel 1988 nel corso di una mia audizione nel corso del Consiglio Superiore”, raccontò Paolo Borsellino in un’intervista a Lamberto Sposini. 415mila lire a testa.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
La strage sventata dell’Addaura fu l’inizio della fine di Giovanni Falcone: la pista bresciana. Per il fallito attentato del 1989 la mafia ha usato lo stesso esplosivo dell’autobomba contro il giudice Carlo Palermo: il Brixia prodotto a Ghedi. In quei mesi il magistrato poi ucciso a Capaci indagava su droga, armi e imprenditori del Nord che riciclavano soldi sporchi. Paolo Biondani su L'Espresso il 18 maggio 2022.
Brixia. È l'antico nome romano della città di Brescia. Ma è anche una marca particolare di esplosivo. Nel 1989 almeno due killer di Cosa Nostra hanno collocato 58 candelotti di Brixia tra gli scogli dell'Addaura, davanti alla casa al mare affittata da Giovanni Falcone, per uccidere il giudice antimafia. L'attentato è fallito solo perché la borsa piena di esplosivo fu scoperta, alle 7.30 del mattino del 21 giugno 1989, da quattro poliziotti della scorta. L'ordigno era pronto a scoppiare e poteva ammazzare chiunque nel raggio di 60 metri (come hanno accertato quattro periti, sbugiardando le voci di un finto attentato, diffuse dai mafiosi e rilanciate anche da personaggi delle istituzioni) con due detonatori già in funzione, attivabili con un radiocomando. Tre anni prima della strage di Capaci, quell'attentato sventato fu l'inizio della fine di Falcone: isolato, calunniato e delegittimato da mesi, il magistrato avvertì subito la gravità dell'attacco parlando di «menti raffinatissime». Parole rimaste enigmatiche, nonostante diversi processi e le condanne definitive dei boss mafiosi capeggiati da Totò Riina.
Le sentenze confermano l'assoluta segretezza dell'attentato dell'Addaura anche all'interno di Cosa Nostra. Tra centinaia di pentiti di mafia, pochissimi ne hanno saputo qualcosa. Il primo a parlarne, solo nel luglio 1996, fu Giovambattista Ferrante, un collaboratore di giustizia di comprovata attendibilità, che aveva custodito e preparato l'esplosivo Brixia. L'attentato fu deciso non dalla commissione, la cosiddetta cupola che riuniva tutti i capi-mandamento, ma da un vertice ristretto dei boss corleonesi. Come mandante è stato condannato l'allora capo dei capi Salvatore Riina, come organizzatori il suo braccio destro Salvatore Biondino e il boss palermitano Antonino Madonia, come autori materiali due mafiosi della famiglia assegnataria del territorio dell'Addaura, Angelo e Vincenzo Galatolo. Nei primi processi erano rimasti «avvolti nell'oscurità più profonda», come si legge nelle sentenze, perfino i nomi degli esecutori.
Dopo Ferrante, un altro pentito, Francesco Onorato, ha descritto la riunione preparatoria con Madonia e Biondino, che solo «cinque o sei giorni prima» gli diede l'ordine di spiare la casa di Falcone. Quando ha confessato i suoi delitti, Giovanni Brusca ha potuto aggiungere solo un'allusione successiva di Riina: una settimana dopo la strage di Capaci, nel famigerato brindisi tra boss per festeggiare la morte del magistrato, Biondino attaccò Madonia per aver fallito l'attentato di tre anni prima, affidandolo a giovani «picciutteddi» incapaci. E Riina, senza smentirlo, gli intimò di tacere: «Ora lo abbiamo fatto, non ne parliamo più».
Le parole di Falcone sulle «menti raffinatissime» hanno spinto diverse procure a indagare su complicità esterne alla mafia, o quantomeno convergenze di interessi, e possibili coperture istituzionali. Il pentito Francesco Di Carlo ha parlato di quattro emissari dei servizi segreti, un italiano e tre stranieri, che dopo l'Addaura, nel 1990, gli chiesero di trovare un killer di mafia per eliminare Falcone. Mentre Angelo Siino ha chiamato in causa un big della massoneria. I sospetti di depistaggio sono rafforzati dalla condanna per falso documentale e falsa testimonianza dell'artificiere dei carabinieri, Vincenzo Tumino, che arrivò solo alle 11.30 all'Addaura, dove decise di distruggere con una micro-carica il congegno d'innesco, eliminando così una prova: ai processi, di fronte ai giudici e ai periti che gli rimproveravano quel «grave errore tecnico», ha cambiato versione più volte, accusando altri ufficiali (innocenti) o inventandosi di aver visto un timer, che invece non c'era.
Le indagini degli ultimi anni ipotizzano anche legami con l'omicidio del poliziotto Antonino Agostino, ucciso con la moglie a Palermo nell'agosto 1989, e con la tragica scomparsa del suo collega Emanuele Piazza. I sospetti su apparati deviati dei servizi sono talmente diffusi che il boss Madonia ha potuto strumentalizzarli per proporre una pista alternativa a Cosa Nostra, stroncata dalla Cassazione che reso definitive le condanne dei mafiosi.
Tra tante ipotesi investigative in attesa di conferme, indagini da approfondire, testimonianze parziali, depistaggi e illazioni dietrologiche, questa inchiesta giornalistica ricostruisce, semplicemente, le cose che stavano davanti agli occhi di Falcone quando fu trovata la bomba dell'Addaura. Prima di tutto, quel tipo di esplosivo, con la X di Brixia in evidenza in tutte le foto, che permisero al pentito Ferrante di riconoscerlo con certezza. Cosa Nostra lo ha usato solo per un'altra strage: l'attentato in autostrada contro un altro giudice, Carlo Palermo, ferito dall'autobomba che il 2 aprile 1985, a Pizzolungo (Trapani), distrusse una macchina in transito e uccise una madre, Barbara Rizzo, con i suoi gemellini di 6 anni, Salvatore e Giuseppe Asta. Per quella strage sono stati condannati Riina, un boss di Trapani e altri due mafiosi dell'attentato all'Addaura.
Carlo Palermo si era trasferito da Trento a Trapani per portare avanti le indagini di un magistrato, Giangiacomo Ciaccio Montalto, il primo a indagare sulla mafia di quella provincia e sui traffici di droga e armi da guerra, che fu ucciso da tre killer nella notte del 25 gennaio 1983. A Trento il giudice Palermo aveva aperto la prima istruttoria su quei traffici internazionali, fondata su un rapporto del Viminale che segnalava l'arrivo in Siria e Turchia di navi che partivano dalla Sicilia con armi da guerra, da scambiare con carichi di droga. Attaccato dal Psi di Craxi, il giudice si vide scippare e insabbiare l'inchiesta. Prima dell’attentato di Pizzolungo, si è sentito e incontrato con Falcone, che era amico anche di Ciaccio Montalto, che negli anni '70 lo aveva salvato dall'aggressione di un detenuto.
Falcone ha difeso anche pubblicamente le indagini dei colleghi. Ha scelto di farlo a Brescia, nel febbraio 1984, a un convegno all'università dove ha lanciato l'allarme sulla «saldatura fra traffici internazionali di armi e di stupefacenti». Ha parlato di «gravi e complesse istruttorie» che hanno «accertato scambi tra eroina e forniture di armi sofisticate in Medio Oriente da parte di organizzazioni mafiose siciliane». Falcone a Brescia ha denunciato anche «l'intima connessione» di quei traffici con «le attività finanziarie di riciclaggio internazionale del denaro, effettuate da menti esperte».
Nei giorni dell'attentato dell'Addaura, Falcone stava indagando con due magistrati elvetici, Carla Del Ponte e Claudio Lehmann, proprio sul riciclaggio dei soldi accumulati dalla mafia nelle banche svizzere. A Lugano, nel febbraio 1989, avevano interrogato insieme un imprenditore di Brescia, Oliviero Tognoli, arrestato dopo cinque anni di latitanza. È l'inchiesta che ha poi portato alla condanna di Vito Roberto Palazzolo, il grande riciclatore dei tesori di Cosa Nostra, sequestrati solo in minima parte negli anni successivi. Falcone aveva accolto a Palermo i colleghi e li aveva invitati a fare il bagno all'Addaura proprio nel giorno in cui fu scoperta la bomba. Dopo la sua morte, i due magistrati svizzeri hanno testimoniato sotto giuramento che Tognoli in Svizzera aveva iniziato a parlare, confidando tra l'altro che era stato il poliziotto Bruno Contrada, nel 1984, a fare la soffiata che gli permise di scappare, ma rifiutandosi di sottoscrivere l'accusa in un verbale, per paura. In Italia Contrada è stato condannato con sentenza definitiva, che però è stata cancellata da un discusso verdetto della Corte europea, che ha dichiarato inapplicabile l'accusa di concorso esterno, senza smentire i fatti accertati. Le sentenze sull'Addaura confermano il «legame evidente» tra l'attentato e la missione a Palermo dei magistrati svizzeri, finiti con Falcone nel mirino della mafia.
Contrada ha sempre smentito ogni accusa. E il suo lunghissimo processo non è bastato a chiarire perché avesse tradito il pool antimafia per favorire proprio quell'imprenditore di Brescia. L'Espresso ora ha scoperto che, nei mesi che precedono l'attentato all'Addaura, Falcone stava lavorando a un'indagine più ampia sulla finanza bresciana. E ha rintracciato uno dei testimoni, un nobile che vive in uno splendido castello vicino a Parma: il principe Diofebo Meli Lupi di Soragna. In salotto, accanto al suo cane da caccia, il nobile aggrotta le ciglia mentre si sforza di ricordare tutti i dettagli dell'interrogatorio con Falcone: «Mi aveva convocato a Palermo come consigliere d’amministratore della Fintbrescia, la società di leasing del gruppo Finbrescia. Ho preso l'aereo e ho dormito in albergo. Falcone mi ha sentito nel suo ufficio, seduto alla sua scrivania. Voleva sapere perché una società di Brescia aveva finanziato una ditta siciliana, mi pare di trasporti, poi fallita, e chi aveva deciso quell'operazione. Ricordo la sua cordialità e gentilezza: era un vero signore, serio e correttissimo. Era molto interessato alle mie risposte e mi ha salutato calorosamente. Quando sono tornato a Brescia, mi è arrivata in ufficio una sua lettera personale di ringraziamento».
Più di trent'anni dopo, il principe non sa precisare il nome della società siciliana su cui indagava Falcone. La Fintbrescia è fallita nel 1990, proprio per aver prestato troppi soldi a imprese disastrate. A comandare nell'intero gruppo Finbrescia, ricorda il nobile, erano quattro grandi azionisti, tutti bresciani, che negli anni d'oro erano ricchissimi e controllavano decine di aziende con soci eccellenti, dalla Valtur al Banco Ambrosiano. Al nome di Tognoli, il principe risponde che ne aveva sentito parlare perché frequentava uno degli azionisti, ma non ricorda altro. Dopo l'Addaura, quando Falcone è stato esautorato, di questa indagine si è perso anche la memoria.
Scavando nel passato, oggi emerge un'impressionante catena di coincidenze che legano Brescia e Palermo. I candelotti dell'Addaura sono stati prodotti dalla Sei (Società esplosivi industriali) nella fabbrica di Ghedi, che ha chiuso nel 1985. La mafia di Trapani ne aveva a quintali. Il pentito Ferrante ricorda di averne portati «diversi sacchi a Palermo, circa 200 chili» prima dell'attentato al giudice Carlo Palermo. A consegnare il carico fu un colletto bianco della mafia di Trapani, Bruno Calcedonio: «un architetto, molto distinto, alto, con barba e capelli brizzolati, ben curati». Cinque anni dopo la strage di Pizzolungo, per colpire Falcone e i magistrati svizzeri all'Addaura, i boss Riina e Madonia decisero di usare proprio l'esplosivo bresciano, rimasto fino ad allora imboscato vicino a Palermo: una richiesta che sorprese i custodi mafiosi. Ebbene: il gruppo Finbrescia, tra le sue partecipazioni, aveva il 18 per cento della Misar, una fabbrica bresciana di mine fondata nel 1977 da ex tecnici della Valsella, che aveva come fornitore la Sei di Ghedi. Le mine della Misar, in pratica, venivano riempite con esplosivo prodotto dalla stessa fabbrica del Brixia.
Altro tragico collegamento. Riccardo Pisa, uno dei grandi azionisti del gruppo Finbrescia, è nato a Palermo, dove si era trasferito e aveva fatto fortuna il padre, Piero, che nel capoluogo siciliano ha fondato grosse società di costruzioni, come Cpc e Abc (Anonima bresciana costruzioni), che hanno edificato tra l'altro l'aeroporto di Punta Raisi. Piero Pisa è stato ucciso dalla mafia a Palermo il 4 gennaio 1982. Si è detto che si era rifiutato di pagare il pizzo. Ma l'omicidio è rimasto impunito: un caso irrisolto.
Ultima suggestiva coincidenza, tra le tante che si potrebbero citare. Antonio Spada, socio fondatore e grande azionista della Finbrescia, è stato sentito nel processo sulle stragi mafiose del 1993, come testimone, perché era il tesoriere dell'Ordine Costantiniano di San Giorgio. Un ente cavalleresco con 1500 affiliati, da principi borbonici a vertici militari e leader politici, che riuniva la sua giunta esecutiva all’interno di uno dei monumenti che furono scelti come bersagli di Cosa Nostra (non si è mai saputo da chi e perché): la chiesa di San Giorgio al Velabro. Nelle sentenze sull'Addaura si legge che sulla borsa sportiva che custodiva l'esplosivo della mafia c'era un marchio vistoso: «Veleria San Giorgio».
1992-2022. Falcone è stato prima deriso e poi ucciso, mentre le mafie si erano già prese il nord. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 16 maggio 2022
Alle sei di sera del 30 gennaio 1992 il maxi processo è finito. E, per la prima volta nella sua storia, Cosa nostra siciliana è sconfitta. Ma il magistrato Giovanni Falcone non è tranquillo: «Credo che ci sarà inevitabilmente una reazione».
Ma in quegli stessi anni la mafia sale più a nord. Milano al pari di Palermo e Reggio Calabria era una polveriera pronta a esplodere. Un vecchio pentito disse a Falcone: «Dottore, qui la chiamate mafia, a Milano la chiamano corruzione».
Nel tribunale di Palermo è solo. È solo in Sicilia, solo in Italia. Un giudice troppo diverso per piacere a una magistratura pacifica e paladuta, troppo audace il suo “riformismo rivoluzionario” in un paese che sopravvive sulle convenienze e sui ricatti. Sono trascorsi trent’anni dalla morte del giudice, c’è da scommettere che una cosa non mancherà durante le commemorazioni: l’ipocrisia del potere.
ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.
LETTERA DI PAOLO CIRINO POMICINO A DAGOSPIA il 16 maggio 2022. Riceviamo e pubblichiamo:
Dobbiamo ringraziare il nostro amato presidente della Repubblica Sergio Mattarella che con un suo scritto sull’Espresso ha ricordato quel che avevamo detto dalle colonne di Dagospia la scorsa settimana e cioè che celebrando il maxi processo Falcone e Borsellino dettero una svolta alla lotta contro la mafia e ha inoltre confermato con il solito garbo istituzionale che senza quel decreto legge Andreotti-Vassalli i boss mafiosi sarebbero usciti per decorrenza dei termini e la sentenza di condanna non li avrebbe trovati nel carcere dell’Ucciardone.
Eravamo insieme al governo, signor presidente, ma quel decreto era del settembre 1989 e non del novembre 1990 (a distanza di 30 anni i ricordi giustamente si affievoliscono) e la nostra DC lavorò non poco per farlo approvare visto e considerato che il PCI e l’intera sinistra votò contro ostacolando non poco la sua approvazione. Anche Giovanni Falcone , come lei stesso ricorda, fu duramente attaccato da quegli uomini che oggi ne cantano le lodi. Il tempo è galantuomo. Grazie signor presidente Paolo Cirino Pomicino
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 13 maggio 2022.
Ai funerali di Stato di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca e degli agenti di scorta - lunedì 25 maggio 1992 nella chiesa palermitana di San Domenico - fu notata un'assenza importante. Quella del presidente del Consiglio, in carica sia pure dimissionario, Giulio Andreotti, che invece due mesi prima aveva voluto presenziare alle esequie del suo amico Salvo Lima, l'eurodeputato assassinato dalla mafia perché - si vociferava prima, e confermeranno i pentiti poi - non aveva rispettato i patti siglati con i boss.
«A San Domenico no, non c'era. Lo sottolineai in un'intervista al "Corriere della Sera". Lui si risentì e mi scrisse. La lettera di Andreotti, che ancora conservo, mi colse di sorpresa e non mi piacque affatto», ricorda adesso Maria Falcone nel libro L'eredità di un giudice scritto a trent' anni di distanza con la giornalista Lara Sirignano.
L'allora premier rispose alla sorella del magistrato trucidato a Capaci con una lettera «formalmente ineccepibile, garbata, ma pungente e infastidita». Spiegò che era rimasto a Roma per preparare il discorso che avrebbe pronunciato in Parlamento sulla strage, aggiungendo una frase che, sottolinea oggi Maria Falcone, «trovai inaccettabile e che suonava come un rimprovero: in sostanza mi accusava di essermi fatta strumentalizzare e di aver prestato la voce a chi usava la lotta alla mafia come arma di battaglia politica».
La sorella di Falcone si risentì perché «nessuno mi aveva imbeccato», e perché per quello che ricordava delle scarne confidenze a cui si abbandonava il fratello su questioni che avevano a che fare col suo lavoro, «la stima e la dimestichezza» rivendicate da Andreotti con il magistrato «non erano state reciproche». Ma al di là dei sentimenti suscitati dalla risposta dell'ex premier, l'assenza dell'allora capo del governo al funerale di Stato resta una delle tante ferite mai rimarginate che Maria Falcone ha voluto ricordare in questo libro di memorie post strage.
Finora aveva parlato del prima, del fratello minore partito dal quartiere palermitano della Kalsa e approdato al ministero della Giustizia, braccio destro del guardasigilli Claudio Martelli, dopo essere diventato il magistrato antimafia più famoso del mondo. Il nemico numero uno di Cosa nostra ammazzato da Cosa nostra. Adesso sua sorella rivela le amarezze e i dispiaceri del dopo, che non si sono fermate con la morte né sono state sepolte con la cerimonia funebre. Anzi, la traslazione della salma proprio a San Domenico, il Pantheon di Palermo «dove riposano i siciliani illustri», provocò sette anni fa polemiche in alcuni casi comprensibili e «mosse da sentimenti autentici», ma pure «pretestuose e sgradevoli, venute da sedicenti amici o collaboratori di Giovanni».
L'intera vita di Falcone è stata segnata da difficili rapporti con la politica e con i partiti della cosiddetta Prima Repubblica; è stato accusato a fasi alterne di essere troppo legato a questa o quella fazione, anche da parte di ex sostenitori o presunti alleati. Dopo la morte è toccato a Maria affrontare i politici che per convenienze personali le chiedevano di piegarsi a logiche di appartenenza che lei non ha mai assecondato, avendo sempre come unico obiettivo la difesa del nome e dell'onore di suo fratello.
Ecco dunque i contrasti con il sindaco di Palermo Leoluca Orlando; i tentativi dell'ex capo dello Stato Francesco Cossiga di limitarne le denunce nelle sedi istituzionali; la scelta di dichiarare sgradito l'allora ministro Cesare Previti, futuro pregiudicato ma «già allora molto chiacchierato», a rappresentare il governo nella commemorazione per il terzo anniversario della strage di Capaci; le candidature accettate con i Verdi (ma non fu eletta) e con il neonato Partito democratico (annunciata e successivamente saltata senza nemmeno una telefonata per comunicare il ripensamento). Ma insieme al disappunto per i trattamenti ricevuti da Falcone finché è vissuto e da lei nella decisione di preservarne la memoria, ci sono pure le gioie e le soddisfazioni di una professoressa ormai in pensione da tempo che è tornata a girare l'Italia (e all'inizio anche il mondo) per incontrare gli studenti di oggi, giovani che vogliono sentire parlare di mafia e conoscere l'antimafia del giudice assassinato a Capaci quando loro non erano ancora nati.
Non tanto attraverso la scontata rievocazione di un eroe nazionale, quanto nei racconti di vita quotidiana di un fratello giudice che semplicemente svolgendo il proprio lavoro s' è trovato a fronteggiare un fenomeno criminale non solo agguerrito e pericoloso, ma anche con tentacolari infiltrazioni nel mondo sociale, politico ed economico, che l'hanno reso ancora più insidioso. La prima battaglia antimafia, spiega «la professoressa» col suo racconto, si fa nelle scuole, «per contrastare il mito della "mafia buona" che non tocca le donne e i bambini, che dà occupazione, che fa quello che lo Stato non riesce a fare». È la scelta che dà i frutti migliori e più genuini.
Dal 1992 tante cose sono cambiate, la mafia stragista è stata sconfitta e anche il controllo del territorio a Palermo e nelle altre zone è esercitato e contrastato in modo diverso rispetto ai tempi di Falcone. Certo, il «pizzo» si paga ancora, ma «quando Giovanni era vivo mai avrei immaginato di vedere le immagini di un piccolo imprenditore del Borgo Vecchio rifiutarsi di cedere e mostrare all'uomo del "pizzo" un album con le foto di Falcone, Borsellino, dalla Chiesa, Libero Grassi».
È uno dei segnali che è valsa la pena decidere di uscire dall'ombra e dalla riservatezza, per affrontare una nuova missione. Che quella vita pubblica (e sotto scorta) cominciata quasi all'improvviso dopo il funerale a San Domenico con le prime denunce delle umiliazioni subite da Giovanni Falcone - a cominciare da quelle infertegli dai suoi colleghi e dal procuratore in persona -, resa ancora più urgente dalla altrettanto drammatica e quasi immediata scomparsa di Paolo Borsellino, andava vissuta pienamente. Con determinazione e convinzione. E trent' anni dopo non è ancora venuto il tempo di smettere.
Paolo Cirino Pomicino per Dagospia l'11 maggio 2022.
Per la nostra Repubblica maggio è un mese di tragici ricordi, l’uccisione di Aldo Moro e la strage di Capaci che mise fine alla vita di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e di gran parte della sua scorta. Questi tragici avvenimenti vengono ogni anno ricordati ma spesso, come quest’anno, con grandi e gravi buchi della memoria. Dimenticanze che offendono la Repubblica e i tanti che hanno perso la vita per servirla.
La strage di Capaci quest’anno è stata ricordata nell’aula bunker di Palermo che vide Falcone e Borsellino portare alla sbarra decine e decine di capi mafiosi, pezzi da novanta che si sentivano intoccabili e che invece furono condannati o all’ergastolo o a decine di anni di carcere duro.
Era presente anche il Capo dello Stato Sergio Mattarella. Nessuno, però ha ricordato che quei mafiosi furono processati e condannati in stato di detenzione solo grazie ad un decreto legge, quello firmato da Andreotti e Vassalli nel settembre del 1989, che raddoppiò il tempo della carcerazione preventiva per gli imputati di mafia evitando, così, la scarcerazione, per decorrenza dei termini, di quei boss che, una volta usciti, sarebbero diventati uccel di bosco.
Quel decreto legge fu ritenuto da molti un vero e proprio mandato di cattura e sfiorò la incostituzionalità creando qualche perplessità anche in Francesco Cossiga all’epoca presidente della Repubblica. La posta in gioco era troppo alta per la sicurezza della Repubblica e ci volle l’esperienza ed il coraggio di quel governo e di quella coalizione per poterlo varare.
Sergio Mattarella lo ricorda benissimo perché era ministro della pubblica istruzione di quel governo e Andreotti, prima di approvarlo , volle sentire riservatamente il parere dei due ministri siciliani, Calogero Mannino e lo stesso Mattarella, che spinsero con determinazione a che quel decreto fosse subito varato.
Oggi Mattarella è l’amato presidente di tutti gli italiani e mai avrebbe ricordato qualcosa che all’epoca divise gli italiani perché l’intera sinistra a cominciare dal PCI votò contro quel decreto sostenendo che i mafiosi “potevano essere controllati anche fuori dalle carceri”(sic)!!
Anche il ricordo di Aldo Moro nell’aula di Montecitorio insieme a quello di tutte le vittime del terrorismo non è stato accompagnato dalla memoria del governo monocolore della DC con la quale nessuno voleva governare in quegli anni, ma tutti vollero che quel partito governasse da solo perché era per tutti la garanzia repubblicana. Ecco quel che oggi manca al paese. Un partito perno dell’intero sistema politico e con esso la memoria di ciò che è stato e che il potere di turno tenta di far dimenticare. Un grande inganno per una democrazia in affanno!
L’importanza di raccontare la mafia ai ragazzi: la lezione di Giovanni Falcone. Federico Cella su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.
Dai ricordi dei testimoni dell’epoca alla storia della mafia, dai podcast ai racconti di Roberto Saviano, lo speciale del «Corriere» dedicato alle scuole in occasione dei trent’anni della strage di Capaci.
Cari ragazzi
Oggi avete sentito — e reso voi stessi — molte e importanti testimonianze sulla vita e sull’opera di uomini di grande valore. Vorrei solo aggiungere una riflessione.
Falcone, come Borsellino, come tanti altri servitori delle istituzioni, caduti in Sicilia o altrove, erano straordinari nel loro impegno ma si sentivano — ed erano — persone normali.
Le doti di tenacia, di coraggio, di intuizione, di intelligenza, di rigore morale erano presenti in loro in grande misura. Ma i loro sono stati comportamenti che ogni persona — ciascuno di noi — può esprimere, compiendo scelte chiare e coerenti.
Quegli uomini, oggi, costituiscono punti di riferimento. Ma devono essere, soprattutto, esempi.
Falcone — che prevedeva che, prima o poi, avrebbero tentato di ucciderlo -— ebbe a dire: «Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali, e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini».
È un richiamo per tutti, soprattutto per chi assume responsabilità istituzionali.
Mi rivolgo particolarmente a voi, ragazzi. Oggi, e per il futuro, le idee, la tensione morale di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo, di Paolo Borsellino, camminano anche sulle vostre gambe: sulle vostre idee, sui vostri comportamenti.
Vi auguro di esserne, come oggi, sempre consapevoli!
(Dall’intervento del presidente Mattarella a Palermo, il 23 maggio 2017, in occasione del 25° anniversario della strage di Capaci. Sul sito del Quirinale trovate l’integrale).
Il valore della memoria
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, pronunciò queste parole all’interno dell’aula bunker di Palermo. Quel giorno di 5 anni fa era un luogo di festa: piena di ragazzi e ragazze, bambini e bambine, che sventolavano bandierine tricolore e striscioni con scritte che andavano da «le parole della legalità» a «keep calm and follow the law». Gli uomini passano, le idee restano. Ma servono nuove gambe per farle camminare. Ecco perché è importante ricordare, anzi, meglio ancora: ricordare e capire. E quale luogo migliore della scuola, della propria classe, con i compagni e i professori, per tenere vivo il ricordo della storia, per discutere e fare propri i valori che questa porta?
E l’amore per il Paese
Ecco il perché di questo speciale che abbiamo voluto creare su Corriere della Sera, in occasione dei trent’anni dalla strage di Capaci, dedicato espressamente al lavoro che la scuola può fare su Giovanni Falcone — citando sempre un altro intervento di Mattarella — come «figura di riferimento del senso delle istituzioni, della civiltà contro le barbarie». Lo racconta Roberto Saviano nel video che ha girato proprio per le scuole, per voi ragazzi e ragazze che ci state leggendo. E che parla di amore, quello del magistrato per l’Italia che l’ha portato a combattere il più grande male del Paese. Con un coraggio che Saviano racconta tramite il verso di una poesia del Nicaragua: «Credevate di seppellirci ma non sapevate che eravamo semi, e i semi gemmano». Un racconto fatto anche in presa diretta sulla cronaca di allora, scritto da Alfio Sciacca, collega del Corriere che allora era uno dei cronisti che — attoniti — si recò sul luogo della strage per provare a trovare le parole per raccontare all’Italia la ferita che le era stata inflitta.
Le parole di Giovanni Falcone
Un racconto che abbiamo sviluppato anche su podcast, perché è importante anche come si raccontano le notizie, le storie. Avvicinandole a quel pubblico che vogliamo raggiungere, come spiega Francesco Giambertone. Solo è il coraggio è dedicato al libro omonimo di Saviano, mirabilmente letto da un altro uomo di legge siciliano, pur di finzione come il Commissario Montalbano, ossia Luca Zingaretti. Da domani, 18 maggio, inizia invece un’altra serie – Mi fido di lei – ossia la narrazione degli incontri tra Giovanni Falcone e la giornalista Marcelle Padovani, dai quali nacque il libro Cose di Cosa Nostra, pubblicato nel 1991, un anno prima di Capaci. Con questo podcast, curato da Alessandra Coppola, partirà tutta un’altra serie di narrazioni da parte di altre grandi firme del Corriere ad accompagnarci fino all’anniversario del 23 maggio, lunedì prossimo. Ma, come detto, abbiamo prima voluto iniziare parlare direttamente con voi, con le scuole.
I bambini e la lotta alla mafia
In una lunga video-intervista curata da Alessia Cruciani e nell’articolo a firma di Alessio Lana, si racconta un altro libro, quello del collega Luigi Garlando che forse più di ogni altro ha viaggiato nei 18 anni dalla prima pubblicazione – insieme al proprio autore – nelle scuole d’Italia. Per questo mi chiamo Giovanni è una biografia del magistrato, introdotta dalla sorella Maria Falcone, dove si richiama a quello che era uno dei pilastri dell’uomo di legge nella lotta al crimine organizzato: parlarne, saperne, soprattutto tra le nuove generazioni, quelle che crescendo possono essere capaci di marginalizzare ed eliminare il tumore dal corpo sano della società.
Il disonore degli «uomini d’onore»
Ma come nascono le mafie in Italia? Dal mito di Osso, Mastrosso e Carcagnosso alle reali radici del crimine si occupa il reportage di Cesare Giuzzi, mirabile nella sintesi e nel distinguere ciò che di fintamente «epico» nasconde una realtà di violenza e prevaricazione di leggi e uomini.
Una guida per i professori
Abbiamo voluto con questi articoli, video e podcast anticipare la data del 23 maggio proprio per fornire in anticipo a insegnanti e studenti alcuni strumenti utili per creare una o più lezioni sul significato della figura di Falcone. In questo senso Samuele Finetti ha creato due utilissimi how-to – vere e proprio guide – su come utilizzare l’archivio storico di Corriere come risorsa didattica unica nel suo genere, da affiancare ai libri di testo per affrontare la storia recente attraverso la rigorosa cronaca dei fatti raccontata dai giornalisti del Corriere (dal 1876 a oggi).
Infine, Alessio Lana con Michela Rovelli hanno allargato il bacino di libri ma anche film e serie tv cui attingere per realizzare sul tema un percorso scolastico. Condiviso e interattivo, non soltanto «trasmissivo»: l’idea di fondo è quella dell’imparare facendo. Magari costruendo le lezioni assieme, docenti e studenti, sfruttando un software come quello di Brickslab, la piattaforma di MR Digital attraverso cui portare il Corriere della Sera a scuola. Buona lezione.
Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 18 maggio 2022.
«Un giorno, mi dissero: "Prendi la tua auto e vai in autostrada che dobbiamo fare delle prove". E iniziai a girare attorno allo svincolo di Capaci, ma non sapevo ancora chi fosse l'obiettivo». Santino Di Matteo è il primo pentito che ha svelato i segreti della strage Falcone, un anno e mezzo dopo l'attentato: «Per quelle parole ho pagato un prezzo altissimo - sussurra -. Hanno rapito mio figlio Giuseppe, l'hanno ucciso. Ma ha vinto comunque lui, i mafiosi sono stati sommersi dagli ergastoli».
Trent' anni dopo quel cratere sull'autostrada, che segnò la storia del Paese, l'ex mafioso di Altofonte avverte: «Cosa nostra si riorganizza, lo Stato non deve abbassare la guardia. Mi preoccupa che Matteo Messina Denaro sia ancora latitante».
Quando seppe che quei giri in autostrada erano le prove generali dell'attentato al giudice Falcone?
«Qualcuno me lo disse poco dopo. Si fidavano, le prime riunioni le avevano fatte a casa mia, in campagna, ad inizio di maggio. Poi, non mi cercarono più. Il pomeriggio del 23 maggio, ero in piazza ad Altofonte, venne Gioacchino La Barbera dopo l'attentato e mi disse: "Vieni a casa di Gioè". Lì trovai Giovanni Brusca, mi spiegò cos' era successo».
Da cosa nasceva la fiducia dei vertici mafiosi nei suoi confronti?
«Sono cresciuto in quel mondo. Mio padre faceva la raccolta del latte e da ragazzino andavo con lui a Corleone, alla fine degli anni Cinquanta: così ho conosciuto Luciano Liggio. E anche Salvatore Riina, all'epoca era ancora giovane e non era certo un capo, come poi diventò. Fra i mafiosi più autorevoli di Corleone, c'era invece il latitante Giuseppe Ruffino, un killer spietato. Riina diceva di lui: "Persone come queste non ne nasceranno mai più"».
Quando decise di rompere con quel mondo e di iniziare a collaborare con la giustizia?
«Sono stato l'ultimo a vedere in vita Antonino Gioè, uno dei principali autori della strage di Capaci. Quel giorno del luglio 1993, nel carcere romano di Rebibbia, mi sorpresero i suoi discorsi: diceva che faceva tanti colloqui con i familiari, che in cella mangiava tutto quello che voleva. Intanto, però, era trasandato, aveva la barba lunga. "Ma che stai combinando?", gli chiesi. Avevo il sospetto che stesse iniziando a parlare con i magistrati. Quella notte, all'improvviso, mi trasferirono all'Asinara. Seppi che Gioè si era impiccato, evidentemente schiacciato dalla sua scelta di parlare. Lasciò una lettera in cui c'era scritto: "Se volete scoprire la verità andate a chiedere a Di Matteo"».
Cosa le chiesero?
«Facevano tante domande, io avevo un grande logorio dentro. Sapevo che avevano ragione, ma resistevo. Fino a quando un giorno ho detto: "Vi do una mano". E da quel momento non ho più smesso di riempire verbali. Mi hanno portato in elicottero a Roma e ho incontrato il procuratore di Palermo Caselli. Dopo di me, tanti altri mafiosi hanno parlato. A cominciare da La Barbera, che aveva vissuto in prima persona quel 23 maggio».
La mafia delle stragi è stata smantellata, ma resta latitante Messina Denaro. Perché secondo lei?
«Bisogna fare molta attenzione, i mafiosi che vengono scarcerati provano sempre a riorganizzare Cosa nostra. E Messina Denaro, ricercato dal giugno 1993, continua a essere un punto di riferimento. Sono convinto che si nasconda in Sicilia, dove gode ancora di tante protezioni e complicità, vecchie e nuove. Probabilmente, avrà messo avanti persone sconosciute, mentre lui se ne sta riservato, magari vive all'interno di una famiglia fidata che si prende cura di lui».
Trent' anni dopo le stragi, cosa non sappiamo ancora?
«Ci sono mafiosi che hanno patrimoni immensi mai sequestrati. I Madonia, per esempio: negli anni Ottanta incassavano un miliardo di euro al mese dal racket del pizzo nel centro di Palermo. Non è stato mai trovato neanche il tesoro di Bernardo Provenzano. E, poi, c'è il tesoro dei cosiddetti scappati della guerra di mafia, gli Inzerillo: dopo la morte di Riina, sono tornati dagli Stati Uniti e hanno tanta voglia di riprendersi Palermo».
Intanto, fiumi di droga sono tornati a scorrere in città. Cosa determinerà negli equilibri interni dei clan?
«Come negli anni Settanta, le famiglie stanno conducendo insieme grandi affari. Ma il rischio è che vada a finire come allora, quando qualcuno provò a fare il furbo, rubando una partita di droga. E così cominciarono a sparare. Bisogna fare davvero molta attenzione. Ai mafiosi che ancora si ostinano a portare avanti disegni di morte, vorrei rivolgere un appello».
Cosa vorrebbe dire loro?
«Questa strada vi porterà alla rovina, non l'avete ancora capito?»
Chi è oggi Santino Di Matteo?
«Nel 1997 lo Stato mi ha espulso dal programma di protezione, avevo la colpa di essere tornato in Sicilia a cercare mio figlio. Ma quante vite ho salvato con le mie dichiarazioni?
Oggi vivo lontano dalla mia terra, aiuto un giovane sacerdote che si occupa di tossicodipendenti e immigrati. Intanto, continuo ad andare a deporre nei processi, fino alla settimana scorsa mi hanno chiamato. Non mi sono mai tirato indietro, nonostante la morte di mio figlio. Contro la mafia c'è una sola strada: andare avanti. Molto si è fatto, ma ancora tanto resta da fare: se lo Stato abbassa la guardia quelli torneranno forti».
Quando Falcone disse a Padovani: «Così ragiona l’uomo d’onore» . Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 18 maggio 2022.
La prudenza, il rigore, l’attenzione al minimo dettaglio erano le caratteristiche del lavoro giudiziario di Giovanni Falcone. Divenute proverbiali. «Una volta mandò un ispettore di polizia a San Paolo del Brasile per controllare che in una certa piazza ci fossero tre panchine di legno; solo perché il pentito Tommaso Buscetta ne aveva parlato e lui voleva riscontrare anche quel particolare», ricorda Marcelle Padovani, la giornalista francese che con Falcone scrisse Cose di Cosa Nostra, il libro-testamento del magistrato pubblicato nell’autunno del 1991. Sei mesi prima della strage di Capaci.
Trent’anni dopo la bomba, dalle carte conservate da Padovani nella sua casa romana, riemerge un documento che fornisce la prova grafica — scientifica, si direbbe in un tribunale — della prudenza, del rigore e dell’attenzione al minimo dettaglio con cui Falcone affrontò pure la stesura di quel libro. Le correzioni autografe del dattiloscritto composto dalla giornalista, vergate a mano dal giudice con la stessa calligrafia rotonda e chiara con cui compilò i primi verbali di Buscetta, dimostrano come volesse evitare enfatizzazioni e semplificazioni. Che forse avrebbero aiutato il grande pubblico nella comprensione del testo, ma non l’esatta descrizione della mafia, della sua cultura, della sua struttura e dei suoi metodi.
Lo racconta la stessa Padovani, che ha riaperto quel manoscritto assieme a Luca Lancise e Alessandra Coppola per la realizzazione del podcast Mi fido di lei. Le parole di Giovanni Falcone (da oggi su tutte le principali piattaforme podcast). La giornalista rilegge con emozione le correzioni del giudice, sottolineando come misurasse ogni parola. Scritta in francese, lingua che Falcone sapeva leggere ma non scrivere, e modificata in italiano.
Un esempio. A proposito dei poliziotti e magistrati assassinati dalla mafia, lei aveva scritto che «alcuni avevano commesso errori, sottovalutazioni, approssimazioni, analisi superficiali. Non si scherza con Cosa nostra». Falcone intervenne e precisò che erano stati uccisi «nonostante le loro indiscutibili capacità professionali, anche per minime disattenzioni o errori di valutazione e di analisi. Non è possibile distrarsi con Cosa nostra». L’ultima frase, nel testo pubblicato in Italia è uscita ancora diversa: «Purtroppo in questa difficile battaglia gli errori si pagano».
In un passaggio dedicato ai rapporti tra mafia e imprenditoria, la giornalista aveva scritto che, in certe situazioni, «la contiguità è un delitto»; affermazione che Falcone modificò in «può diventare un delitto». «È molto più blando», sottolinea Padovani, che poi si sofferma sul brano finale, all’ultima pagina: «Io avevo scritto “In Sicilia la mafia colpisce soltantoi servitori dello Stato che lo Stato non riesce a proteggere”. Lui ha cancellato quel soltanto». Chissà se mentre chiudeva il libro con quella correzione Falcone pensò a sé, protetto ma non abbastanza, saltato in aria qualche mese più tardi assieme alla moglie e tre agenti di scorta. Anche durante i ventidue pranzi con Marcelle Padovani, mentre lui mangiava e parlava e lei prendeva appunti, fino all’immancabile bicchiere di vodka, c’erano sempre gli uomini della sicurezza; all’erta ma a debita distanza.
Il racconto di Padovani si allarga alle foto che la ritraggono con Falcone, una volta a tavola e un’altra alla presentazione a Parigi, e rivela la volontà del giudice-scrittore di uscire dai luoghi comuni sulla mafia per svelarne la natura autentica, inestricabilmente legata alle radici siciliane e alla cultura dell’isola. La stessa del magistrato che per certi versi si rispecchiava negli «uomini d’onore», per comprenderne e contrastarne meglio i presunti valori, oltre che i delitti. Arrivando alla conclusione che Cosa nostra non è un Antistato, come altri sostenevano in quel periodo, altri rappresentanti delle istituzioni, bensì uno Stato parallelo e illegale che offre ai cittadini ciò che lo Stato legale non è capace di offrire.
Risalendo al primo incontro, in una sera del lontano 1983, nel palazzo di giustizia palermitano buio, blindato e deserto, da cui scaturì un articolo per il Nouvel Observateur sul «piccolo giudice» che combatteva la mafia, nelle cinque puntate del podcast, Padovani ripercorre la vita e la morte di un Falcone come pochi lo hanno conosciuto. Descrivendone, come ha fatto pure nel suo ultimo libro intitolato Giovanni Falcone trent’anni dopo (pubblicato da Sperling & Kupfer), il tratto anche ilare, scherzoso e sdrammatizzante. Ma sempre rigoroso e scevro da protagonismo: «Ha voluto essere un simbolo di magistrato. E lo è diventato».
Visione nuova, prove solide: la lezione del metodo Falcone. Sergio Mattarella su L'Espresso il 17 Maggio 2022.
“Il suo modo di svolgere l’inchiesta era moderno, più dinamico, più attivo di quanto fosse abituale ma manteneva forte e inalterato lo stile e il carattere del magistrato, attento, fino allo scrupolo, alla consistenza degli elementi raccolti”. L’intervento del presidente della Repubblica, pronunciato il 23 maggio 2017, tratto dagli archivi del Quirinale
Ho conosciuto il Giudice Falcone prima ancora che l’eco delle sue inchieste lo rendesse famoso in Italia e all’estero. Ne ho seguito l’impegno messo in opera nella sua attività giudiziaria. Con quella sua attività ha impresso una svolta all’azione della giustizia contro la mafia.
Anzitutto con il suo metodo di lavoro, con il suo modo di svolgere le inchieste. Nei primi tempi veniva talvolta criticato, dicendo che operava come un agente di polizia più che come un magistrato, una sorta di sceriffo. Non era vero: il suo era un metodo moderno, più dinamico, più attivo di quanto fosse abituale ma manteneva forte e inalterato lo stile e il carattere del magistrato, attento, fino allo scrupolo, alla consistenza degli elementi di prova raccolti. Le sue inchieste, difatti, erano contrassegnate da grande solidità; e le sue conclusioni venivano sempre condivise dai Tribunali e dalle Corti giudicanti.
Una seconda svolta l’ha impressa con la scelta, coraggiosa, del maxi processo di Palermo: un’inchiesta, e un’istruttoria, di grande impegno, e faticose; ma che hanno fornito l’indicazione della via da seguire per un’azione efficace dello Stato contro la mafia.
Quel maxi processo è stato un vero e proprio spartiacque.
Lo conoscevo, come ho detto. Non si trattava di un rapporto di frequentazione abituale, ci sentivamo, ogni tanto, e ci incontravamo: a casa mia o nella sua abitazione a Palermo e, negli ultimi tempi, a Roma, in una sua piccola abitazione protetta, vicino al Collegio Romano.
In una di queste occasioni ho potuto toccar con mano quanto fosse forte il suo sodalizio con Paolo Borsellino. Mi sembra sia stato nel novembre del 1990. Il governo aveva appena varato un decreto legge sugli strumenti di lotta alla criminalità organizzata. Il venerdì ne ritirai una della prime copie stampate alla Camera dei deputati e, rientrato a Palermo, chiamai Falcone per chiedergli se volesse leggere quel testo per valutarlo e per poter suggerire qualche modifica o integrazione.
Mi rispose che sarebbe venuto a casa mia nel pomeriggio della domenica chiedendomi di poter venire con Borsellino, cosa che a me fece, ovviamente, piacere.
In quelle ore ho visto, oltre che, ancora una volta, la grande passione professionale che li muoveva, la loro sintonia e la piena comunanza di vedute, di preoccupazioni, di esigenze; e come si integrassero le loro considerazioni.
Riflettevano e procedevano davvero in parallelo. Quel pomeriggio è un momento che mi è rimasto scolpito nel ricordo; e che non dimentico.
Rammento che mi proposero tre integrazioni, tutte raccolte, nella conversione del decreto, dall’allora ministro, Vassalli, cui le avevo trasferite.
Giovanni Falcone, come Paolo Borsellino, come altre vittime della mafia, era una persona che amava la vita e, insieme, era consapevole dei pericoli che correva. La sua dignità personale - e quella della propria funzione - lo spingevano ad affrontare questi pericoli, senza venir meno né attenuare, in alcun modo, la determinazione del suo impegno.
Per questo è ricordato da tutti - come è giusto - particolarmente da tanti giovani, come una vera e credibile figura di riferimento del senso delle istituzioni, della civiltà contro la barbarie.
Giovanni Falcone e quella strage che ha cambiato per sempre l'Italia. DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI Il Domani il 16 maggio 2022
Sono le 17,56 minuti e 48 secondi del 23 maggio 1992 e gli strumenti dell’Istituto di Geofisica e di Vulcanologia, su a monte Erice, registrano «un piccolo evento sismico con epicentro fra i comuni di Isola delle Femmine e Capaci». Ma non è un terremoto, sono cinquecento chili di tritolo che fanno saltare in aria Giovanni Falcone...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Sono le 17, 56 minuti e 48 secondi del 23 maggio 1992 e gli strumenti dell’Istituto di Geofisica e di Vulcanologia, su a monte Erice, registrano «un piccolo evento sismico con epicentro fra i comuni di Isola delle Femmine e Capaci». Ma non è un terremoto, sono cinquecento chili di tritolo che fanno saltare in aria Giovanni Falcone.
Il giudice è ancora vivo, lo spazio aereo chiuso, la prima auto blindata è scaraventata a oltre duecento metri di distanza e i tre poliziotti che lo seguono come ombre - Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo - non ci sono più.
Muore anche Francesca Morvillo, la moglie di Giovanni Falcone e anche lei magistrato.
Sono feriti i poliziotti dell'altra blindata, Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello.
E' sanguinante Giuseppe Costanza, l'autista. Sull'autostrada che corre dall'aeroporto di Punta Raisi a Palermo è l'inferno.
Dall'ospedale civico arriva la comunicazione ufficiale: Giovanni Falcone non respira più.
La notizia fa il giro del mondo. I sicari sono già lontani, ma non lo saranno per molto. Hanno lasciato tracce sulla collinetta che guarda l'autostrada. Palermo è un grande microfono, due boss parlano di un “attentantuni”, le cimici intercettano le loro voci. La caccia ai killer è appena cominciata. L'ordine della strage è partito da Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra. Sconosciuti, ancora oggi, quelli che vengono chiamati “i mandanti altri”.
Prima di quel 23 maggio che ha cambiato la storia della Sicilia e dell'Italia, già una volta avevano provato ad uccidere Giovanni Falcone. Nella borgata dell'Addaura nel giugno 1989, candelotti di dinamite e infamie, trame e isolamento. Delegittimato soprattutto dai suoi colleghi, i magistrati. Bocciato come consigliere istruttore a Palermo. Bocciato come candidato al Consiglio Superiore della Magistratura. Bocciato come Alto Commissario antimafia. Quasi bocciato anche come Procuratore Nazionale. L'hanno ucciso prima.
Dalla morte di Giovanni Falcone sono passati trentanni e questa serie del Blog Mafie la dedichiamo alla strage di Capaci pubblicando ampi stralci del libro “Uomini Soli” di Attilio Bolzoni, ripubblicato in queste settimane da Zolfo Editore.
DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Vita e morte di un siciliano che ha fatto paura alla mafia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI Il Domani il 16 maggio 2022
Da vivo perde quasi tutte le sue battaglie. Da morto è esaltato e osannato, il più delle volte dagli stessi nemici che ne hanno voluto le sconfitte. Un’indagine come tante è all’origine del grande processo che segna l’inizio della fine per i padroni della Sicilia, un giudice come tanti diventa il magistrato più amato e più odiato d’Italia.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Da vivo perde quasi tutte le sue battaglie. Da morto è esaltato e osannato, il più delle volte dagli stessi nemici che ne hanno voluto le sconfitte.
Un’indagine come tante è all’origine del grande processo che segna l’inizio della fine per i padroni della Sicilia, un giudice come tanti diventa il magistrato più amato e più odiato d’Italia.
Sepolto in una piccola stanza dietro una porta blindata, in mezzo ai codici e alla sua collezione di papere di terracotta, è il primo a mettere veramente paura alla mafia.
Prigioniero nella sua Palermo, è l’uomo che cambia Palermo.
Detestato, denigrato, guardato con sospetto dai suoi stessi colleghi in toga, temuto e adulato dalla politica, resiste fra i tormenti schivando attentati dinamitardi e tranelli governativi.
Prima tremano per la forza delle sue idee, poi si impossessano della sua eredità. È celebrato come eroe nazionale solo quando è nella tomba.
Per tredici lunghissimi anni provano ad annientarlo in ogni momento e in tutti i modi. Per quello che fa o per quello che non fa.
Ci riescono alle 17.56 minuti e 48 secondi del 23 maggio 1992 su una curva dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi corre verso la città. A quell’ora, gli strumenti dell’Istituto di Geofisica e di Vulcanologia di monte Erice registrano «un piccolo evento sismico con epicentro fra i comuni di Isola delle Femmine e Capaci». Non è un terremoto.
È una carica di cinquecento chili di tritolo che fa saltare in aria Giovanni Falcone.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
GIOVANNI FALCONE. Quell’indagine su Rosario Spatola che porta al maxi processo. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 17 maggio 2022
Nel labirinto del Tribunale di Palermo il giudice Falcone comincia la sua indagine. Il costruttore sotto inchiesta si chiama Rosario Spatola, è un ex ambulante, ha una fedina penale quasi immacolata, solo una vecchia contravvenzione per vendita di latte allungato con acqua. Rosario Spatola è un mafioso. A Palermo lo considerano un benefattore.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Palermo, inverno 1979. Il magistrato più alto in grado del distretto giudiziario è furente. Da qualche giorno riceve rimostranze da personaggi che contano, si lamentano per un’indagine bancaria. C’è un giudice che ha ordinato accertamenti su un imprenditore molto famoso, uno che apre cantieri in ogni borgata, che dà pane e lavoro a migliaia di famiglie.
Il primo presidente della Corte di Appello Giovanni Pizzillo convoca nel suo ufficio il consigliere istruttore Rocco Chinnici e, in preda alla rabbia, gli dice: «Voi state rovinando l’economia con queste verifiche della Guardia di Finanza. Carica di altri processi quel Falcone, in maniera che cerchi di scoprire nulla, perché tanto i giudici istruttori da che mondo è mondo non hanno mai scoperto nulla».
È un’inchiesta affidata a Giovanni Falcone, giudice della sesta sezione penale dell’ufficio istruzione del Tribunale, un magistrato appena trasferito dalla «Fallimentare».
Palermitano, ha quarant’anni, abita solo in una casa di via Notarbartolo, vetrine luccicanti e insegne al neon, pizzerie, cinema, «stuzzicherie», gelaterie, fiorai, parrucchieri, profumerie e colonne di auto che salgono e scendono dalla circonvallazione fino ai platani di via Libertà.
Giovanni Falcone è tornato dopo tredici anni nella sua città e nel Tribunale che produce il bene più prezioso per certi siciliani: il potere.
La giustizia è immobile. Molti delitti restano a opera di ignoti.
Le cause si discutono fra pubblici ministeri e avvocati anche nei corridoi. I processi si decidono la domenica in campagna e d’estate nel «villino a mare». Gli ergastoli sono destinati esclusivamente ai relitti umani, quelli che si trascinano ai margini di una Palermo che è un recinto, popolata da una tribù che sopravvive proteggendo se stessa.
La mafia? «Non esiste, è un’invenzione dei giornali del Nord», assicurano i principi del Foro ogni volta che c’è una «sparatina».
Un mafioso che parla? «Il mafioso non parla mai, perché altrimenti sarebbe un pazzo o un uomo morto», rispondono fra citazioni da antologia illustri magistrati.
Nel labirinto del Tribunale di Palermo il giudice Falcone comincia la sua indagine.
Il costruttore sotto inchiesta si chiama Rosario Spatola, è un ex ambulante, ha una fedina penale quasi immacolata, solo una vecchia contravvenzione per vendita di latte allungato con acqua.
Rosario Spatola è un mafioso. A Palermo lo considerano un benefattore.
Ha appena vinto un appalto per 422 appartamenti bandito dall’Istituto Autonomo Case Popolari, il presidente è Vito Ciancimino.
La scrivania del giudice è coperta di assegni. Tutti ordinati per data e per nome. Sulla prima fila ce ne sono undici firmati Gambino Tommaso. Sono tre cugini con lo stesso nome. Uno nato nel 1939, l’altro nel 1934, il terzo nel 1940. Sulla seconda fila gli assegni portano la firma Inzerillo. Per non confondersi, il giudice Falcone dispone gli assegni con cura e comincia a disegnare sull’agenda un albero genealogico.
LE “FAMIGLIE” SICILIANE E QUELLE D’AMERICA
La sua indagine è finita dentro una grande famiglia siciliana.
In un intreccio di matrimoni, i Gambino sono uniti da legami di sangue agli Spatola, agli Inzerillo, ai Di Maggio. Da vicino o da lontano sono imparentati tutti con John Gambino, il mafioso più potente d’America. Sono quattro ceppi familiari che hanno radici da una parte e dall’altra dell’Atlantico.
Giovanni Falcone scopre che Rosario Spatola conquista appalti pubblici con estremi ribassi, ha un’enorme liquidità, alle aste non ha mai concorrenti. Il giudice segue i movimenti di denaro e li incrocia con le «rimesse» che arrivano da Cherry Hill, nel New Jersey, dove dal 1964 – emigrati dalla borgata palermitana di Passo di Rigano – vivono i suoi cugini americani.
È la prima volta che, a Palermo, qualcuno si addentra negli istituti di credito. È anche la prima volta che un inquirente si concentra non sui singoli delitti ma sulle connessioni fra un delitto e l’altro, fra un mafioso e un altro mafioso.
Falcone indaga su un’organizzazione criminale. E capisce che è una e una sola. È una rivoluzione investigativa. Ancora non lo sa che l’inchiesta su Rosario Spatola stravolgerà la sua vita per sempre.
«Ma dove vuole andare a parare questo Falcone?», sibila nell’atrio del Tribunale un famoso penalista, quando il giudice richiede la copia di un versamento di 300 mila dollari alla filiale palermitana della «Cassa di Risparmio per le province siciliane».
Soldi dall’America. In cambio di eroina dalla Sicilia.
Gli Spatola e i suoi parenti sono trafficanti di droga. I più ricchi dell’isola. I più protetti dalla politica. I più favoriti dalle pubbliche amministrazioni.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
IL GIUDICE GIOVANNI FALCONE. Eroina e banche, Sicilia e America. Così nasce il “metodo Falcone”. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 18 maggio 2022 • 19:00
La sua piccola stanza, in fondo al corridoio buio del piano terra del Tribunale, si riempie di scatoloni. Tutti i movimenti di denaro dal New Jersey a Palermo sono lì dentro. È la scoperta dell’America. «Il cadavere di un uomo si può anche far sparire, lo buttano nell’acido e senza il corpo di reato non c’è più il reato, ma i soldi lasciano sempre una traccia», spiega Falcone
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Le prime lettere anonime, bare o croci disegnate su fogli bianchi, gli vengono recapitate dopo che ha ordinato l’acquisizione delle distinte di cambio in valuta estera a partire dal 1975.
La sua piccola stanza, in fondo al corridoio buio del piano terra del Tribunale, si riempie di scatoloni. Tutti i movimenti di denaro dal New Jersey a Palermo sono lì dentro. È la scoperta dell’America.
«Il cadavere di un uomo si può anche far sparire, lo buttano nell’acido e senza il corpo di reato non c’è più il reato, ma i soldi lasciano sempre una traccia», spiega Falcone al suo capo, il consigliere istruttore Rocco Chinnici, il magistrato che ha appena preso il posto di Cesare Terranova assassinato a colpi di Winchester.
Rocco Chinnici è un uomo all’antica, burbero, conosce la mafia e soprattutto non fa parte della nomenclatura del Palazzo.
Dimentica il consiglio ricevuto da Sua Eccellenza Giovanni Pizzillo e lascia tranquillo Falcone nella sua indagine.
Una tranquillità che Palermo perde per sempre.
Un magistrato così non si è mai visto in quel Tribunale avvolto in un torpore eterno.
LE ABITUDINI DI FALCONE
Si sveglia ogni mattina alle 5, lavora un’ora a mente fresca, a casa. Prima delle 7 corre alla piscina comunale, una nuotata e, quando non sono ancora le 8, è già in ufficio. S’infila nella sua stanza stringendo tra le mani due borse di pelle, dispone le sue penne stilografiche con inchiostro verde e blu fra agende e risme di carta, comincia a leggere verbali di interrogatorio, controlla verifiche fiscali, inoltra ordinanze alla procura della repubblica, chiama a raccolta colonnelli della Finanza e commissari capi della Squadra Mobile, distribuisce deleghe d’indagine, suggerisce piste, fissa colloqui con detenuti all’Ucciardone e con testimoni a Milano, Firenze, Caltanissetta, Catania, Roma, New York.
Gentile e distaccato con tutti, molto riservato, cauto. Le sue labbra sono sempre piegate in un sorrisino indecifrabile.
La barba ben curata, due mele a colazione per tentare di smaltire qualche chilo di troppo, la porta sempre aperta agli avvocati.
Cominciano a fare la fila davanti alla sua stanza.
«Dottore Giovanni», gli dice uno, calcando l’accento sul «dottore» per trasmettere il massimo del rispetto e prendersi al contempo il massimo della confidenza chiamandolo per nome.
«Per fortuna è finito a lei il processo Spatola, il suo equilibrio è la nostra garanzia, il suo senso della giustizia la nostra serenità», gli dice un altro quando si viene a sapere che l’inchiesta, in procura, sta dividendo i magistrati per gli ordini di cattura del «caso Spatola» da sottoporre all’ufficio istruzione.
Falcone è impassibile. Parla con tutti, risponde a tutti, non si nega mai. E intanto indaga.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
La mattanza di mafia che ha stravolto per sempre Cosa Nostra. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 19 maggio 2022
13 maggio del 1981, chiesetta di Passo di Rigano, il giorno dei funerali di Salvatore Inzerillo, uno dei capi della mafia palermitana uccisi dai Corleonesi. La moglie di Salvatore Inzerillo è Filippa Spatola, sorella di Rosario, l’imprenditore mafioso di via Beato Angelico. I muri delle stradine intorno a via Castellana sono coperti da corone di fiori, una folla aspetta la vedova.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Lo cerco perché un suo cugino, Vincenzo, è coinvolto nel falso sequestro del banchiere Michele Sindona.
Rosario Spatola l’ho conosciuto un giorno d’inverno del 1980 davanti agli uffici della sua impresa, in via Beato Angelico, nella borgata dell’Uditore.
Non mi fa entrare in ufficio, esce lui. Come tutti i mafiosi, all’apparenza è garbato, gentile, non alza mai la voce. È gennaio, forse febbraio.
È abbronzatissimo, ray ban, una pesante collana d’oro al collo. E un parrucchino in testa. Capelli finti color rame.
Mi dice che non parla con Vincenzo da molto. Mi dice anche che succedono troppe «cose tinte» a Palermo, cose brutte.
I resti della sua famiglia li rivedo il 13 maggio del 1981 nella chiesetta di Passo di Rigano, il giorno dei funerali di Salvatore Inzerillo, uno dei capi della mafia palermitana uccisi dai Corleonesi.
La moglie di Salvatore Inzerillo è Filippa Spatola, sorella di Rosario, l’imprenditore mafioso di via Beato Angelico.
I muri delle stradine intorno a via Castellana sono coperti da corone di fiori, una folla aspetta la vedova. Filippa scende da una limousine color panna, alcuni uomini in abito scuro – che parlano americano fra loro – l’accompagnano davanti all’altare. Sono i parenti venuti da Cherry Hill. La chiesetta è stracolma, nella piccola piazza ci sono centinaia di ragazzi. Fa caldo, molti sono in camicia, s’intravedono le pistole.
È guerra di mafia a Palermo. Sono tutti «ai materassi».
Mi sento in un film.
A Passo di Rigano c’è anche Letizia Battaglia, la fotografa.
Ci scambiamo un’occhiata per capire quando è il momento buono per scattare qualche immagine. Uno degli Inzerillo si avvicina a Letizia, indica con la mano la sua macchina fotografica e dice: «Tu te ne devi andare». Poi si rivolge a me: «Tu puoi restare ma non devi fare domande».
Scrivo così la mia prima cronaca di un funerale di mafia.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Un giudice blindato nella Palermo dove ammazzano poliziotti e procuratori. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 20 maggio 2022
La prima scorta gliela impongono alla fine di agosto del 1980. Agli inizi del mese, il 6, il procuratore capo della repubblica di Palermo Gaetano Costa passeggia da solo come ogni pomeriggio fra un fioraio e la bancarella di libri nella centralissima via Cavour. Un killer gli va incontro e l’ammazza.
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La prima scorta gliela impongono alla fine di agosto del 1980.
Agli inizi del mese, il 6, il procuratore capo della repubblica di Palermo Gaetano Costa passeggia da solo come ogni pomeriggio fra un fioraio e la bancarella di libri nella centralissima via Cavour. Un killer gli va incontro e l’ammazza.
Una settimana prima, in solitudine, Costa ha firmato una cinquantina di ordini di cattura proprio contro Rosario Spatola e i boss dell’Uditore. Alcuni dei suoi sostituti si rifiutano di sottoscrivere il provvedimento. Lui ci mette la firma e ci rimette la pelle.
Poi le auto di scorta diventano tre. Quando l’indagine su Rosario Spatola si intreccia con quella sulla fuga in Sicilia del banchiere Michele Sindona, intorno a un giudice fino a qualche mese prima sconosciuto c’è un apparato di protezione imponente, una macchina da guerra.
Due agenti lo precedono nella sua stanza, altri tre lo seguono come un’ombra. Mitragliette automatiche, giubbotti antiproiettile, sirene, lampeggianti. Un elicottero si alza in volo quando il corteo blindato si muove fino alla piazza del Tribunale.
Il giudice istruttore della sesta sezione penale del Tribunale di Palermo diventa il primo bersaglio della mafia siciliana. Di notte, in via Notarbartolo, due poliziotti stanno di guardia anche dietro la porta di casa sua. Giovanni Falcone non dorme mai a sonno pieno.
Qualcuno comincia dire che è uno «sceriffo», uno sbirro travestito da magistrato.
Il foglio cittadino, Il Giornale di Sicilia, non c’è mattina che non gli faccia trovare una sorpresa in prima pagina. Un editoriale su come si fa «veramente» il giudice, il commento di un onorevole della Regione sull’«ampollosità di certe messinscena dimostrative», l’intervento di un esimio giurista sulle «comiche figure di strani giudici che popolano il proscenio giudiziario dei nostri tempi».
È un attacco permanente a Falcone e alle sue inchieste. Lui non replica mai. Incassa. Tace. Ingoia veleno. Per tre anni vive come un recluso.
Tutto per colpa di quell’indagine sull’ex ambulante che ha allungato il latte con l’acqua.
Per Falcone, ormai è vietato anche andare dal barbiere. Al cinema non si può più, bisogna liberare tre file di poltrone davanti e tre dietro. Il ristorante nemmeno. Ci prova una volta. Una sera entra in una trattoria sul mare di Mondello, si siede in un angolo con un amico e i vicini cambiano subito tavolo.
UNA VITA “IN TRINCEA”
Anche nella sua casa di via Notarbartolo è un inferno. L’amministratore dello stabile dove abita gli scrive: «Decliniamo ogni responsabilità per i danni che potrebbero essere recati alle parti comuni dell’edificio».
Un giorno Falcone sta per infilarsi nel portone e sente dire a un passante: «Certo che per essere protetto in questo modo deve avere fatto qualcosa di veramente malvagio».
Ai palermitani disturbati dal clamore delle scorte e dalle sue indagini, dà voce un’«onesta cittadina» che invia una lettera a Il Giornale di Sicilia. Il quotidiano pubblica volentieri e con gran risalto la lettera della signora Patrizia Santoro:
Regolarmente tutti i giorni (non c’è sabato o domenica che tenga), al mattino, nel primissimo pomeriggio e alla sera (senza limiti di orario) vengo letteralmente «assillata» da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora, mi domando, è mai possibile che non si possa,
eventualmente, riposare un poco nell’intervallo del lavoro e, quanto meno, seguire un programma televisivo in pace, dato che, pure con le finestre chiuse, il rumore delle sirene è molto forte?
Non è che questi «egregi signori» potrebbero essere piazzati tutti insieme in villette alla periferia della città, in modo tale che sia tutelata la tranquillità di noi cittadini- lavoratori e l’incolumità di noi tutti, che nel caso di un attentato siamo regolarmente coinvolti senza ragione (vedi strage Chinnici)?
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
La solitudine di Giovanni Falcone in una Sicilia che lo sente nemico. DA "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 21 maggio 2022
In una Palermo che lo respinge e lo aggredisce, il giudice è ormai l’incarnazione della lotta contro il crimine più di chiunque altro in Italia. Dal 1983 al 1992 affronta in solitudine una guerra che inchioda i boss ma inchioda anche se stesso.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Il consigliere istruttore muore il 29 luglio del 1983. Un’autobomba. «Palermo come Beirut», titolano i quotidiani italiani.
Con Rocco Chinnici perdono la vita anche due carabinieri – il maresciallo Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta – e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico, Stefano Li Sacchi, dove il magistrato abita. È il cuore della Palermo nuova, in linea d’aria neanche a duecento metri dalla casa di Giovanni Falcone.
Il consigliere istruttore qualche giorno prima ha spedito due comunicazioni giudiziarie – così si chiamavano allora gli avvisi di garanzia – ai cugini Nino e Ignazio Salvo, gli «intoccabili», gli esattori mafiosi di Salemi. E soprattutto, Chinnici ha avuto il grave torto di avere lasciato campo libero a Falcone.
L’indagine su Rosario Spatola si è trasformata ormai in una grande inchiesta sulla mafia di Palermo. Quella che porterà a una monumentale sentenza ordinanza con 474 imputati e al maxi processo contro Cosa Nostra.
Rocco Chinnici viene eliminato. Come il suo predecessore Cesare Terranova. Come il procuratore capo Gaetano Costa.
TUTTI I NEMICI DI FALCONE
In una Palermo che lo respinge e lo aggredisce, il giudice è ormai l’incarnazione della lotta contro il crimine più di chiunque altro in Italia. Dal 1983 al 1992 affronta in solitudine una guerra che inchioda i boss ma inchioda anche se stesso.
In Sicilia Giovanni Falcone è considerato un nemico, uno che ha la vanità di diventare lo zar dell’Antimafia. È un magistrato mal tollerato dalla magistratura. Ha una sapienza giuridica che non piace ai tecnici del diritto. È slegato dai partiti e dalle fazioni nella corporazione. È un italiano fuori posto in Italia.
Ha talento, passione civile, tenacia, un fiuto investigativo eccezionale, una straordinaria esperienza, un’ossessione per il rispetto delle regole. È uno di quei siciliani «illuministi» che credono nello Stato e servono lo Stato. Troppo per pretendere una vita normale e un po’ di riconoscenza.
Sono pochi, nel nostro Paese, che nel breve volgere di qualche stagione hanno accumulato tante disfatte. Bocciato come consigliere istruttore a Palermo.
Bocciato come candidato al Consiglio Superiore della Magistratura.
Bocciato come Alto Commissario antimafia. Quasi bocciato anche come Procuratore Nazionale. L’uccidono prima.
Su Repubblica, Mario Pirani lo descrive come l’Aureliano Buendìa di Cent’anni di Solitudine, che ha combattuto trentadue battaglie e le ha perse tutte.
Giuseppe D’Avanzo, uno dei giornalisti che Falcone stimava di più, ricorda «l’umiliante sottrazione di cadavere» compiuta dopo la strage di Capaci.
Tutti a rievocarlo, tutti a riconoscersi nel suo pensiero, a impadronirsi del suo spirito.
Chi l’ha violentemente intralciato in vita, lo invoca in morte.
Ha cinquantatre anni e cinque giorni quando vede per l’ultima volta la sua Sicilia.
DA "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
Giovanni Falcone, alla Kalsa il primo incontro con Paolo Borsellino. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 22 maggio 2022
Sono una ventina i chilometri che separano Capaci dalla Kalsa e dai suoi vicoli arabi. Il quartiere è dall’altra parte del golfo di Palermo. Chiese sconsacrate, palazzi cadenti, tuguri abbandonati. Ma non è ancora tutta in disfacimento la Kalsa di quel 18 maggio del 1939 quando, in una famiglia della piccola borghesia siciliana, arriva Giovanni Falcone
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Sono una ventina i chilometri che separano Capaci dalla Kalsa e dai suoi vicoli arabi. Il quartiere è dall’altra parte del golfo di Palermo, via Castrofilippo è nascosta lì, dietro la piazza quadra della Magione. Chiese sconsacrate, palazzi cadenti, tuguri abbandonati. Ma non è ancora tutta in disfacimento la Kalsa di quel 18 maggio del 1939 quando, in una famiglia della piccola borghesia siciliana, arriva Giovanni Falcone.
C’è una Kalsa signorile abitata da commercianti, insegnanti, impiegati di pubblici uffici e poi c’è la Kalsa del porto, dei marinai, dei contrabbandieri, delle buttane e delle canaglie che si aggirano nei bassi. Il padre Arturo è un funzionario della Provincia, il direttore dell’Istituto di Igiene e Profilassi. La madre Luisa Bentivegna bada alla casa.
Ci sono già altri figli, due femmine: Maria che ha tre anni e Anna che ne ha nove. Arturo Falcone viene ferito nel primo conflitto mondiale, nel cranio ha un osso scheggiato. Uno zio paterno, Giuseppe, capitano d’aviazione, è abbattuto in combattimento. Uno zio materno, Salvatore, parte volontario e cade sul Carso colpito da una granata. È ancora tempo di guerra – un’altra guerra – e i Falcone sfollano per evitare i bombardamenti. Prima trovano riparo a Sferracavallo, poi nelle campagne intorno a Corleone da dove provengono i nonni materni. Tornano alla Kalsa dopo il 1945. L’educazione è rigorosissima.
«Mio padre si vantava di non avere mai bevuto al bar una tazzina di caffè», racconterà anni dopo il giudice. I genitori sono molto devoti. Giovanni cresce e serve messa a Santa Teresa, chierichetto. Il parroco è padre Giacinto, un carmelitano scalzo. A cinque anni le elementari al Convitto Nazionale, giocattoli fatti in casa, soldatini di piombo. Qualche volta una partita di pallone nello spiazzo della Magione, accanto alla bellissima basilica normanna.
IL PRIMO “INCONTRO” CON BORSELLINO
Fra i ragazzini che si rincorrono c’è anche Paolo Borsellino, il figlio del farmacista di via Vetreria, quella a due passi dall’abitazione di Giovanni Falcone. Si conoscono da bambini. Si ritrovano trentacinque anni dopo in Tribunale. Muoiono insieme, a cinquantasei giorni l’uno dall’altro. Il liceo classico nel 1954. Le letture che condizionano le sue scelte, Mazzini, Marx, i libri di storia. Giovanni Falcone porterà sempre nel cuore il ricordo di Franco Salvo, il suo professore di filosofia all’Umberto I. Medico o ingegnere? Dopo la maturità con il massimo dei voti sceglie d’istinto: entra all’Accademia Navale di Livorno. Suo padre non approva e lo iscrive, senza dirglielo, a Giurisprudenza. Giovanni Falcone non resta molto in Accademia, la vita militare non gli piace. Lo mandano allo Stato Maggiore, si congeda e torna a Palermo. Si laurea in legge. Non pensa di diventare avvocato. E troppo incerto è il percorso per la carriera notarile senza un notaio in famiglia. Decide che farà il giudice.
È ancora un ragazzo. Le gite a Mondello, i balli il sabato sera nelle case degli amici, il canottaggio e il nuoto. È in quei mesi che conosce Rita Bonnici. È bella, bruna, Giovanni Falcone se n’innamora, nel 1964 si sposano. Ha appena vinto il concorso per entrare in magistratura. Il matrimonio, una nuova casa. Ci sono tutte le premesse per un’esistenza ordinata, senza scosse.
Ma il destino ha riservato altro a Giovanni Falcone. Uditore giudiziario a Palermo nel 1964, pretore a Lentini nel 1965, nel 1966 il trasferimento a Trapani. La città è piccola, il Tribunale un avamposto della giustizia. Sono pochi e fa di tutto: penale e civile, il sostituto procuratore, il giudice istruttore, il magistrato di sorveglianza. Trapani è una città mafiosa dove non accade mai niente. Tutto è sotto controllo, tutto è velato. Mai un omicidio, mai un botto che disturba. I rapporti con i colleghi sono cordiali, le relazioni fuori dal Palazzo di Giustizia piacevoli. Giovanni Falcone frequenta anche qualche avvocato. In quegli anni, i suoi familiari ricevono poche notizie da lui, sentono però che qualcosa è cambiato. Dagli sporadici incontri, per le feste comandate, si sono fatti l’idea che si è allontanato dalla fede ed è diventato comunista. Le sue sorelle sono turbate, Giovanni Falcone le rassicura. È sempre lo stesso. Più colto, più informato, più libero.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
A Trapani, faccia a faccia con le grandi famiglie di Cosa Nostra. DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 23 maggio 2022
Il sostituto procuratore Giovanni Falcone costruisce la sua inchiesta grazie a un testimone. Ma non riesce a concludere il dibattimento, i giudici popolari vengono minacciati, il processo spostato per legittimo sospetto a Salerno: Mariano Licari è assolto. Falcone non dimenticherà mai le parole che, in aula, sente pronunciare al boss contro il testimone d’accusa...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Il primo vero incontro con la mafia è in un processo dove l’imputato è Mariano Licari, un vecchio «uomo di rispetto» di Marsala. È sospettato di avere brigato per appropriarsi di alcuni beni ecclesiastici, gode di connivenze politiche, sullo sfondo del raggiro ci sono anche due omicidi.
Il sostituto procuratore Giovanni Falcone costruisce la sua inchiesta grazie a un testimone. Ma non riesce a concludere il dibattimento, i giudici popolari vengono minacciati, il processo spostato per legittimo sospetto a Salerno: Mariano Licari è assolto.
Falcone non dimenticherà mai le parole che, in aula, sente pronunciare al boss contro il testimone d’accusa: «Sei un carabiniere a cavallo». Il carabiniere a cavallo è l’espressione più alta dello Stato, l’insulto più feroce che può arrivare da un mafioso.
Dalla procura alla «Fallimentare», le prime avvisaglie di crisi del matrimonio con Rita, le gite a Favignana che si diradano, Trapani che gli sta sempre più stretta. Se ne va alla fine del 1978. Ci torna solo una volta, negli ultimi giorni di gennaio del 1983. Quando sulle colline di Valderice uccidono Giangiacomo Ciaccio Montalto, un magistrato tradito da magistrati che da solo ha provato a far giustizia nella città più misteriosa della Sicilia.
Giovanni Falcone ora è a Palermo. Ha quasi quarant’anni. Uno dei suoi primi incontri in quel Palazzo di Giustizia è con un giovanissimo sostituto procuratore della repubblica, Pietro Grasso.
In un suo libro autobiografico, Grasso lo ricorda così: “Ci trovammo a seguire la medesima indagine sul rinvenimento di un ciclomotore rubato. Un’inchiesta insignificante, dalla quale trassi, tuttavia, una grande lezione. Infatti questa istruttoria contro ignoti, destinata come migliaia di altre all’archiviazione, fu trattata da Falcone con lo stesso scrupolo con cui si indaga su un omicidio. Lui non solo riuscì a ricostruire il numero di matricola del motorino, che era stato abraso, ma ne individuò anche il proprietario, a cui lo restituì e fece perfino arrestare i ladri. Era una persona che prendeva a cuore anche le cose minime, che non trascurava gli interessi delle vittime dei reati, che manifestava una tenacia e un impegno eccezionali. Mi ero subito reso conto che era diverso da tutti noi, un fuoriclasse”.
Giovanni Falcone manca da Palermo da troppo tempo. Dopo la pretura di Lentini e la lunga permanenza a Trapani, ha perso quasi tutti i contatti e le vecchie amicizie. Nella sua città si sente quasi un estraneo. E adesso è anche solo. La storia d’amore con Rita è finita. Giovanni Falcone è deluso, malinconico. Sta per cominciare una nuova vita.
Alla sezione Fallimentare del Tribunale resta solo alcuni mesi. Rocco Chinnici lo chiama all’ufficio istruzione. Una mattina entra nella sua stanza e gli consegna il fascicolo su Rosario Spatola. Con quell’indagine Giovanni Falcone si rivela subito uno da tenere alla larga. Dentro il suo Tribunale è malvisto, circondato da rancori e paure. Troppi magistrati sono abituati a voltarsi dall’altra parte, troppi sono anche quelli che aggiustano sentenze, pilotano processi, insabbiano inchieste.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
L’omicidio di Boris Giuliano, ucciso perché era un passo davanti a tutti. DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 24 maggio 2022
I colleghi mi spiegano chi era Boris Giuliano. Un grande poliziotto. Un uomo con la schiena dritta. I loro racconti mi fanno innamorare del personaggio. Scopro che è stato il primo «sbirro» italiano invitato a Quantico, in Virginia, al quartiere generale dell’Fbi per frequentare un corso. A Palermo, lui è morto perché era un passo avanti a tutti. In futuro capiterà a molti altri.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Negli Stati Uniti cominciano a invidiarci il giudice che a Palermo sta per diventare un «problema». Lo chiama quasi ogni giorno Richard Martin, uno dei procuratori di New York che indaga sulla Pizza Connection. Incontra agenti della Dea. Quelli dell’Fbi prima di muoversi sui Gambino d’America chiedono il suo parere. È amico di Rudy Giuliani, che è procuratore e poi sarà sindaco di New York. Ha un rapporto fraterno con Louis Freeh, il futuro capo del Federal Bureau of Investigation. «È un giudice planetario», malignano gli avvocati di mafia. Il suo primo viaggio negli Usa è nel dicembre del 1980.
Da quel momento il legame con gli americani sarà sempre più forte. Anche perché l’inchiesta su Rosario Spatola lo porta a scoprire i retroscena del falso rapimento di Michele Sindona, in fuga da New York e nascosto in Sicilia proprio dagli Spatola e dai loro parenti. Quelli che custodiscono il bancarottiere a Palermo sono anche i capi del colossale commercio mondiale dell’eroina.
Qualche mese prima anche Boris Giuliano, il capo della Squadra mobile di Palermo, intuisce il collegamento di quei trafficanti con Michele Sindona. Lo uccidono la mattina del 21 luglio 1979.
L’OMICIDIO DI BORIS GIULIANO
La sera prima, il 20 luglio, il capocronista mi manda a San Nicola L’Arena. Al «Castello», un night club, si esibiscono Loredana Bertè e Lilli Carati che non è ancora una porno star. Cantano. Sono in redazione da appena due mesi a Palermo, copro i «servizi» più diversi. Quella sera sono lì per gli «Spettacoli». Arrivo al «Castello» con un fotografo, incontro le due ragazze, intorno vedo facce brutte. Non so chi sono, ma non è definitivo: difficile intuirlo. Scoprirò un po’ di anni dopo che nel night – proprio quella sera – c’erano gli stessi mafiosi che hanno ordinato l’uccisione di Boris Giuliano.
L’intervista alla Bertè e alla Carati non uscirà mai. Non ho avuto il tempo di scriverla. Il giorno dopo, poco prima delle 8 del mattino, in redazione arriva la notizia che il capo della squadra mobile è stato ucciso all’interno di un bar, dall’altra parte della città. Vado in via Di Blasi. Uno sgarbato funzionario di polizia – tale Purpi, uno che non gode di buona fama a Palermo – fa abbassare la saracinesca, impedisce a chiunque di entrare. Raccolgo qualche informazione. Torno al giornale. I colleghi più grandi di me sono uno accanto all’altro, in silenzio. Alcuni piangono. Altri hanno gli occhi rossi. Sono tutti amici di Boris Giuliano. C’è Ciccio La Licata. C’è Daniele Billitteri. Ci sono Nino Sofia e Alberto Stabile.
Tutti insieme decidono che nessuno firmerà i propri articoli. È la prima volta. Hanno paura. Sanno troppe cose di Palermo e di una mafia che sta alzando il tiro. L’edizione del giornale L’Ora del 21 luglio 1979 esce con quattordici pagine dedicate all’uccisione di Boris Giuliano. Le firme sono «collettive», tutte racchiuse in un quadratino sotto un titolo. Al direttore non va giù questa scelta, è infuriato. Vuole che ciascuno metta il proprio nome sotto l’articolo. Ma lui sa poco e niente di Palermo. Quei giornalisti, al contrario, sanno tutto. Non cedono. La spuntano loro.
Di sera, i colleghi mi spiegano chi era Boris Giuliano. Un grande poliziotto. Un uomo con la schiena dritta. I loro racconti mi fanno innamorare del personaggio. Scopro che è stato il primo «sbirro» italiano invitato a Quantico, in Virginia, al quartiere generale dell’Fbi per frequentare un corso. A Palermo, lui è morto perché era un passo avanti a tutti. In futuro capiterà a molti altri.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
Quando le eccellenti toghe tramano e provano a fermare Giovanni Falcone. DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 25 maggio 2022
Contro Falcone è già nato un «partito» dentro il Tribunale. Ci sono quelli che lo denigrano. Come Beniamino Tessitore e Giuseppe Prinzivalli. Altri che si fingono amici. Come Vincenzo Geraci. Monta ogni giorno di più un risentimento verso quel giudice che sta dimostrando una notevolissima capacità investigativa e una profonda conoscenza del fenomeno mafioso.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Giovanni Falcone scambia le informazioni della sua indagine con Gherardo Colombo e Giuliano Turone, i giudici milanesi che stanno rinviando a giudizio Sindona per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli.
S’insospettisce per una loggia segreta, la «Camea», che è una piccola P2. Ormai si rende conto che la sua inchiesta sull’ex venditore ambulante di latte è in realtà un’inchiesta su tutta la mafia di Palermo.
Giovanni Falcone ha bisogno intorno a sé di uomini capaci per poter andare avanti, per non fermarsi alla borgata dell’Uditore e alle valigie piene di dollari che tornano da Cherry Hill. Li trova. Nella Finanza c’è il colonnello Elio Pizzuti. Nella Polizia ci sono il capo della sezione «investigativa» Ninni Cassarà e quello della «catturandi» Giuseppe Montana. Nei carabinieri c’è il capitano dell’Anticrimine Angiolo Pellegrini. Alcuni sono siciliani e altri vengono da fuori, non hanno rivalità di corpo, fanno sempre «coordinamento» – espressione burocratica che in quegli anni non è ancora in uso tra ministri e alti papaveri – e lo fanno con naturalezza: per salvarsi la pelle.
Un prodigioso apparato investigativo sta per mettersi in moto contro la mafia siciliana. Giovanni Falcone si è lasciato per sempre alle spalle la sonnolenza di Trapani, i fine settimana alle Egadi, le cene al Ciclope su a Erice, la laguna di Mozia, le saline.
Palermo è in guerra. È in quei mesi che conosce Francesca Morvillo. Un incontro a casa di amici, una simpatia che diventa amore. Anche lei è magistrato, alla procura dei minorenni. Magistrati pure il padre e il fratello Alfredo. È una relazione alla luce del sole ma, al Palazzo di Giustizia, cominciano a circolare pettegolezzi. Voci sempre più calunniose, veicolate da colleghi e dai soliti avvocati. Quel legame dà scandalo.
È l’occasione perfetta per un intervento ufficiale. Il primo presidente della Corte di Appello, Giovanni Pizzillo – lo stesso che qualche anno prima ha consigliato a Rocco Chinnici di «caricare di processi» Falcone – convoca il giudice nella sua stanza. Lo avverte che investirà del «caso» il Consiglio Superiore della Magistratura, annuncia che forse ci sono anche le condizioni per il trasferimento in un altro distretto giudiziario di uno dei due, lui o Francesca, per «incompatibilità ambientale». Falcone non fa una piega. Pizzillo non si muove. Il suo avvertimento l’ha lanciato.
Contro Falcone è già nato un «partito» dentro il Tribunale. Ci sono quelli che lo denigrano. Come Beniamino Tessitore e Giuseppe Prinzivalli. Altri che si fingono amici. Come Vincenzo Geraci. Monta ogni giorno di più un risentimento verso quel giudice che sta dimostrando una notevolissima capacità investigativa e una profonda conoscenza del fenomeno mafioso. È un magistrato unico nel panorama italiano. La città mafiosa lo teme. Aspetta solo una sua mossa falsa per colpirlo. Palermo si scopre all’improvviso «garantista». Si riempie di valorosi sostenitori delle libertà civili, che gridano instancabili «al rispetto delle regole», che puntano il dito contro «quello che vuole arrestare tutti». E poi un giudice è un giudice. E non «combatte». Neanche contro la mafia.
UN GIORNALE AMICO DEI POTENTI
Il Giornale di Sicilia dà spazio a chiunque parli male di Falcone. Gli attacchi a mezzo stampa sull’«antimafia spettacolo» si fanno sempre più sfacciati mano a mano che le sue indagini vanno avanti. Il messaggio che passa ogni giorno dalle pagine del quotidiano più letto della città è che l’opera del magistrato è tutta una «sceneggiata». C’è mezza Palermo che batte le mani.
Per anni, Il Giornale di Sicilia l’ho sfogliato per i necrologi. Le notizie vere si trovavano solo in quelle pagine. Moriva un potente e mi andavo a leggere chi piangeva l’«amico fraterno» o portava l’ultimo saluto alla «figura indimenticabile». Sotto quelle due righe dei «dolorosamente colpiti dell’improvvisa scomparsa», c’erano nomi e cognomi, uno dietro l’altro o sparsi nei diversi annunci funebri. A volte il necrologio mi confermava ciò che già sapevo sugli intrecci di un certo ambiente, a volte mi riservavano sorprese. Scoprivo personaggi insospettabili legati fra loro e avvicinati dalla comune amicizia con il morto. Per il resto, Il Giornale di Sicilia era sempre molto prevedibile. Sempre schierato con il potere di Palermo. Lo specchio della città palude.
Ma anche lì dentro non erano tutti uguali. Non ho mai conosciuto Mario Francese, il cronista giudiziario del «Sicilia» ucciso dalla mafia il 26 gennaio del 1979. Di lui mi hanno parlato i colleghi più anziani, come di un uomo generosissimo e di uno straordinario giornalista. Mario Francese è morto per alcuni articoli sugli affari dei boss. Mentre lui scriveva, il suo editore – il Cavaliere Federico Ardizzone – i boss li frequentava. Mario era un altro uomo solo di Palermo.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
Antonino Caponnetto sbarca a Palermo e nasce il “pool antimafia”. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 26 maggio 2022
L’11 novembre 1983 arriva a Palermo il nuovo consigliere istruttore, quello che deve prendere il posto di Rocco Chinnici ammazzato a luglio. Ha sessantatre anni, cereo in volto, è quasi calvo, veste dimesso, passa inosservato, è schivo, sembra gracile, parla poco e ascolta tanto. Si chiama Antonino Caponnetto, è originario di Caltanissetta e non sa nulla di mafia...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Lo «spettacolo» vero comincia nell’autunno del 1983. L’11 novembre arriva a Palermo il nuovo consigliere istruttore, quello che deve prendere il posto di Rocco Chinnici ammazzato a luglio. Ha sessantatre anni, cereo in volto, è quasi calvo, veste dimesso, passa inosservato, è schivo, sembra gracile, parla poco e ascolta tanto.
Si chiama Antonino Caponnetto, è originario di Caltanissetta e viene dalla Corte di Appello di Firenze. Ha fama di uomo virtuoso e di magistrato di vecchio stampo. Non sa nulla di mafia, di trafficanti, di Rosario Spatola e di Vito Ciancimino. Gli avvocati dei boss si scambiano strizzatine d’occhio, fanno battute su quel magistrato dall’aspetto così anonimo e ormai prossimo alla pensione. È quello che ci vuole per Palermo dopo le «intemperanze» di Rocco Chinnici, uno che la mafia la vedeva dappertutto e andava pure a raccontarla nelle scuole.
Gli avvocati di Palermo prendono un grosso abbaglio. Una settimana dopo il suo insediamento, Antonino Caponetto, che a Firenze ha lasciato moglie e tre figli, convoca i giudici istruttori nella sua stanza. Parla per pochi minuti. Dice: «Dobbiamo continuare il lavoro dal punto dove Rocco è stato costretto a interromperlo, dobbiamo andare avanti tutti insieme». È la nascita ufficiale del pool antimafia. I semi li ha gettati Chinnici, l’«invenzione» di una struttura specializzata per contrastare la mafia è di Caponnetto. Il nuovo consigliere istruttore scrive a Gian Carlo Caselli e a Ferdinando Imposimato, chiede indicazioni tecniche su come si sono organizzati in «squadre» negli anni del terrorismo. Decide di assegnare a se stesso – il capo dell’ufficio – tutti i procedimenti di criminalità organizzata e distribuire ai giudici le deleghe per i singoli atti. Poi sceglie gli «allievi» di Rocco. Sono loro il pool. Uno è Giovanni Falcone. L’altro Paolo Borsellino. Il terzo Giuseppe Di Lello, il quarto Leonardo Guarnotta.
Il consigliere venuto da Firenze è il loro scudo in una Palermo sempre più incarognita. È il fratello più grande, l’amico, il galantuomo al comando di un ufficio giudiziario che diventa il motore di tutte le indagini sulla mafia siciliana. Da quel momento cambia per sempre la vicenda di Palermo. Antonino Caponnetto, della città dove è finito, conosce solo i «percorsi» in cui s’infilano gli agenti della sua scorta, le strade che dalla caserma di via Cavour portano al Tribunale.
Vive come un monaco nella foresteria della Finanza, una branda, le Confessioni di Sant’Agostino e la Recherche di Proust sul comodino, la mensa, il giorno dopo sempre come il giorno prima. I magistrati del pool trovano posto in un mezzanino buio, dietro una porta blindata. Lì Giovanni Falcone trasferisce anche le sue papere. Oltre a quelle di terracotta, adesso ne ha diverse in vetro e alcune di legno, preziosissime, colorate a mano. È una stagione speciale per Palermo. Al ministero di Grazia e Giustizia si alternano Mino Martinazzoli e Virginio Rognoni, all’Interno c’è Oscar Luigi Scalfaro. Arrivano mezzi e uomini in Sicilia. Arrivano auto blindate, fotocopiatrici, i primi computer. Cominciano a ricevere deleghe d’indagine dal pool antimafia anche tre funzionari della Criminalpol di Roma, poliziotti moderni, molto svelti, fidatissimi. Sono Gianni De Gennaro, Antonio Manganelli e Alessandro Pansa.
L’inchiesta su Rosario Spatola si allarga ogni mese di più, adesso ha 120 imputati. Quello che riserva l’immediato futuro, però, non se lo immagina nessuno a Palermo. Neanche Giovanni Falcone. La telefonata gli arriva una mattina d’inizio d’estate del 1984 da Gianni De Gennaro: «Buscetta vuole parlare». Falcone pensa: «De Gennaro è ubriaco».
“Prima Luce”, poi Tommaso Buscetta e la mafia è nuda agli occhi del mondo. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 27 maggio 2022
Don Masino decide di vuotare il sacco con Giovanni Falcone. Racconta fatti, personaggi, affari, omicidi, ricatti, vergogne. Vent’anni di mafia. La sua confessione riempie 329 pagine. Il giudice scrive tutto con le sue stilografiche. Non fa verbalizzare a nessuno. Non si fida di nessuno. E non trapela nulla all’esterno.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Tommaso Buscetta, uno dei più influenti mafiosi di Palermo, uomo chiave del traffico internazionale di stupefacenti, una vita avanti e indietro con l’America – è soprannominato «il boss dei due mondi» – arrestato a Palermo e scarcerato, arrestato sul ponte di Brooklyn e rimesso in libertà, arrestato in Brasile e pronto per l’estradizione in Italia.
È il 15 luglio quando su un Boeing 747 che lo sta riportando a Roma, don Masino tenta il suicidio. Poi decide di vuotare il sacco con Giovanni Falcone. Parla per 45 giorni in una stanza della Criminalpol di Roma. Racconta fatti, personaggi, affari, omicidi, ricatti, vergogne. Vent’anni di mafia. La sua confessione riempie 329 pagine. Il giudice scrive tutto con le sue stilografiche. Non fa verbalizzare a nessuno. Non si fida di nessuno. E non trapela nulla all’esterno.
Tommaso Buscetta da grande mafioso si trasforma nel grande pentito di Cosa Nostra – «Dottore Falcone, noialtri la chiamiamo...Cosa Nostra e non mafia...», gli dice – e rivela migliaia di nomi di affiliati, spiega la divisione che c’è fra le «famiglie» di Palermo e i Corleonesi di Totò Riina, riferisce i retroscena di centinaia di delitti, ricostruisce quello che è accaduto nella Sicilia mafiosa dalla strage di Ciaculli del 1963 in poi. Soprattutto, a Falcone consegna la «chiave» per decifrare il suo mondo. Dopo don Masino, ne arriveranno molti altri a infrangere il muro dell’omertà.
È il primo mito mafioso che crolla. Il pentito affida la sua vita nelle mani di un giudice che è siciliano come lui, che lo capisce con uno sguardo, che sa interpretare anche i suoi silenzi, che da un gesto intuisce uno stato d’animo.
Falcone crede a Tommaso Buscetta. Sa che non ha detto tutto, ma sa che quello che ha detto è tutto vero. Buscetta non si sente un traditore. Si sente tradito dalla «sua» Cosa Nostra che non c’è più, sopraffatta da Totò Riina. Il suo pentimento fa tremare Palermo.
Prima di iniziare il suo racconto, Tommaso Buscetta avvisa il giudice al quale sta per depositare tutti i suoi segreti: «Non credo che lo Stato italiano abbia veramente intenzione di combattere la mafia. L’avverto, dottor Falcone. Dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non se lo dimentichi: il conto che ha aperto con Cosa Nostra non si chiuderà mai». Per la prima volta Cosa Nostra è nuda agli occhi del mondo. Tutti gli schemi investigativi precedenti saltano, le inchieste subiscono uno sconvolgimento, i boss sono atterriti da Buscetta e si preparano al peggio.
Falcone ordina a Gianni De Gennaro 3600 riscontri. Settantacinque giorni dopo quel 15 luglio, il consigliere Antonino Caponnetto, i giudici Falcone e Borsellino, Di Lello e Guarnotta firmano 366 mandati di cattura, contestano 300 reati, fanno luce su 121 omicidi. È il primo pilastro di una gigantesca istruttoria di 8067 pagine, il processo «all’organizzazione denominata Cosa Nostra, una pericolosissima associazione criminosa che, con la violenza e l’intimidazione, ha seminato e semina morte e terrore».
Giovanni Falcone s’inabissa negli inferi mafiosi e non ne esce più. Scopre un mondo di logica implacabile, un sistema di potere che è quasi Stato. Racconta alla giornalista Marcelle Padovani: «Prima di Tommaso Buscetta non avevamo che un’idea superficiale di questo fenomeno. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro, ci ha fornito numerose conferme sulla struttura, tecnica di reclutamento e funzioni di Cosa Nostra, ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno.
Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare con i turchi senza parlare con i gesti. Ci ha insegnato un metodo. Senza un metodo non si capisce niente. Con Buscetta ci siamo accostati all’orlo del precipizio, dove nessuno si era voluto avventurare, perché ogni scusa era buona per rifiutare di vedere, per minimizzare, per spaccare il capello e le indagini in quattro, per negare il carattere unitario di Cosa Nostra».
La vendetta di Totò Riina, l’esecuzione dei poliziotti Montana e Cassarà. DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 28 maggio 2022
L’inchiesta di Falcone si rivela un successo senza precedenti per lo Stato. È in quei giorni che, accanto all’Ucciardone, cominciano a scavare. Costruiscono una gigantesca aula bunker. Il maxi processo a Cosa Nostra si farà lì. Il maxi processo che non riusciranno mai a vedere due degli uomini che, al fianco di Falcone, hanno rivoltato e ripulito la città.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
La notte del 29 settembre del 1984, festa di San Michele, parte la retata antimafia del secolo. I boss vengono trascinati fuori dalle loro case e trasportati in carceri lontane dalla Sicilia. Il giudice Falcone ha quasi concluso quel lavoro cominciato con quel fascicolo su Rosario Spatola. Ha dimostrato a tutti che la mafia non è invincibile. Dopo Buscetta si pente anche Salvatore Contorno. Altri 127 mandati di cattura. Un’apocalisse per Cosa Nostra.
L’inchiesta di Falcone si rivela un successo senza precedenti per lo Stato. È in quei giorni che, accanto all’Ucciardone, cominciano a scavare. Costruiscono una gigantesca aula bunker, una cittadina blindata a prova di attentato. Il maxi processo a Cosa Nostra si farà lì. Il maxi processo che non riusciranno mai a vedere due degli uomini che, al fianco di Falcone, hanno rivoltato e ripulito la città. Sei mesi prima dell’inizio del dibattimento ammazzano anche loro. Il commissario Giuseppe Montana viene ucciso sul molo di Porticello il 28 luglio del 1985, il 6 agosto tocca a Ninni Cassarà. È la prima controffensiva al terremoto provocato dal pool antimafia.
L’INCONTRO CON BEPPE MONTANA
Mi cerca una settimana prima. Un pomeriggio me lo ritrovo a casa, non era mai capitato prima. Ci siamo sempre visti da lui, alla squadra mobile, nei corridoi del Tribunale, ogni tanto a colazione alla «Taverna di John», dietro piazzale Ungheria. Beppe Montana sale, gli apro la porta, cerca con gli occhi un divano e ci sprofonda sopra. Preparo un caffè, mi sembra stanco, nervoso. Non gli chiedo niente, perché è venuto a casa mia, cosa è successo, se ha qualcosa da dirmi. Parla lui, dopo qualche minuto: «Mi sembra di girare a vuoto, più scopro questa città e più trovo schifezze. Mi accenna a un’indagine sulla quale sta lavorando, riciclaggio. «Non ti posso raccontare molto. Ma in procura non mi vogliono far andare avanti, io cerco mafiosi e loro vogliono che mi occupi delle partite comprate e vendute del Palermo». Ancora non gli chiedo perché è venuto. Beve il caffè, si alza dal divano. Sulla porta mi dice: «Siamo segnati, siamo soli anche in Questura».
Sette giorni dopo Beppe Montana è morto. Il 6 agosto, è la volta di Ninni Cassarà. Sotto il palazzo dove abita, davanti agli occhi di sua moglie Laura. Sono in quindici ad aspettarlo, alcuni armati di Kalashnikov. Qualcuno probabilmente li avverte. Una talpa. Dentro la polizia ce ne sono tante. E Cassarà, più di una volta, ha sospettato dei suoi superiori. Con il capo della sezione «investigativa» muore anche Roberto Antiochia, l’agente fedele che da anni guarda le spalle a un poliziotto particolare, un investigatore raffinato, un uomo colto, coraggiosissimo. Giovanni Falcone non perde solo lo sbirro che più di altri ha creduto in lui. Piange un amico. Un paio di giorni dopo non sono più a Palermo, sono a Roma. È più tranquilla per me. Sono in redazione a Repubblica e giù, in portineria, c’è una donna che mi cerca. È una signora di una certa età, capelli bianchi, gentile, triste, due occhi lucidi di lacrime. Si presenta: «Sono Saveria Antiochia…».
È la madre di Roberto, mi consegna una sua lettera sulla vita da cani che hanno costretto a fare a suo figlio, al commissario Montana, a Ninni Cassarà. Mandati allo sbaraglio. Nei suoi appunti c’è scritto che l’auto blindata li ha spesso lasciati a piedi, durante qualche pedinamento l’hanno dovuta anche spingere a mano. Porto la lettera di Saveria a Eugenio Scalfari che la pubblica in prima pagina. Si scatena l’inferno al ministero degli Interni. Un alto funzionario del Viminale chiama il mio direttore e lo informa che io «sono portatore di interessi palermitani». Sì, è vero. Quelli di Montana e di Cassarà.
LE VENDETTE TRASVERSALI
I Corleonesi lanciano la loro sfida anche con le «vendette trasversali». Fanno fuori i parenti dei pentiti. Trentacinque sono quelli che perde Salvatore Contorno. Dieci Tommaso Buscetta. La campagna terroristica di Totò Riina – chi parla muore! – si apre con l’agguato a Leonardo Leuccio Vitale, un mafioso che tredici anni prima è entrato alla squadra mobile di Palermo in preda a una crisi mistica denunciando 42 boss. Il primo della lista è Totò Riina, allora quasi ignoto agli investigatori. I giudici lo dichiarano «pazzo», internano Leonardo Vitale in un manicomio criminale. Quando Leuccio torna in libertà tutti si dimenticano di lui. Tutti tranne Riina. I pentiti sono «indegni». Rovinano famiglie. Parlano per la «mesata» o per regolare conti con i nemici di cosca. Inventano «tragedie» e spifferano minchiate. Nel gergo dei palermitani entrano nuovi vocaboli.
La prima volta che sento pronunciare certe parole è sui moli dell’Arenella, una delle borgate di Palermo. Ci sono alcuni ragazzini che giocano, si inseguono, si sfottono. Uno grida all’altro: «Sei muffuto», sei spione. L’altro gli risponde: «E tu sei cornuto e Buscetta». Per offendere qualcuno, a Palermo non si dice più «cornuto e sbirro» ma «cornuto e Buscetta». Una sera mi siedo al tavolo di un ristorante dietro la centralissima piazza Politeama. Scelgo il vino, poi con gli amici guardiamo il menu. Arriva il cameriere, sorride, chiede: «Vi posso aiutare?». Polpettine di sarde. Linguine con i ricci. Panata alla palermitana. Prima di andarsene, il cameriere fa un sorriso e dice: «In questo ristorante abbiamo tutto ma non serviamo Contorno»
Il maxi processo, la prima grande sconfitta della mafia siciliana. DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 29 maggio 2022
Il 16 dicembre 1987, dopo 35 giorni di camera di consiglio, 349 udienze, 1314 interrogatori, 635 arringhe difensive, Cosa Nostra siciliana incassa la sconfitta più dura della sua storia: 19 ergastoli e 2665 anni di carcere. C’è solo un uomo che non si fa travolgere dalla sbornia e dall’eccitazione del successo: Giovanni Falcone
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Giovanni Falcone è un bersaglio mobile. I mafiosi seguono tutti i suoi movimenti, decodificano i segnali a favore o contro il giudice che s’incrociano al Palazzo di Giustizia, fanno attenzione alle mosse politiche di Roma sul maxi processo. È una partita a scacchi. Lui e Paolo Borsellino sono appena tornati dall’Asinara dove li hanno trasportati dopo le uccisioni di Cassarà e Montana. «Motivi di sicurezza». Un commissario informa il consigliere Caponnetto che c’è un piano per ucciderli. Il trasferimento è immediato, in elicottero.
Per due settimane sono reclusi come detenuti fra le mura del penitenziario dell’isola. Qualche mese dopo l’amministrazione penitenziaria recapita una fattura all’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, 415.800 delle vecchie lire a testa per il vitto e l’alloggio nel supercarcere. Un «regalo» dello Stato al pool antimafia. «Ni vippimu ù vinu ma ù paammu», ce lo siamo bevuti il vino ma l’abbiamo pagato caro, ripete quando è in vena di scherzare Paolo Borsellino ricordando il conto presentato dal ministero di Grazia e Giustizia.
Alla fine dell’estate 1985 Totò Riina è latitante da sedici anni, Bernardo Provenzano da ventidue. Non li cerca nessuno. Palermo è spaccata, la città ha due volti, voglia di cambiare e voglia di mafia. Il maxi processo sta per iniziare e ci sono giudici che si defilano. Nessuno vuole fare il presidente. S’inventano malattie, problemi di famiglia. Nessuno vuole guai. Si fa fatica a trovare un presidente per il processo alla mafia. È la mattina del 10 febbraio del 1986 quando si apre il dibattimento. Sono 474 gli imputati accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso. Con loro, sono finiti all’Ucciardone anche l’ex sindaco Vito Ciancimino e gli esattori Nino e Ignazio Salvo. Il presidente della Corte di Assise è Alfonso Giordano, viene dal civile, è una grande sorpresa. Il giudice a latere è Pietro Grasso, i pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino.
«Silenzio, entra la Corte», intima in prima pagina il Giornale di Sicilia. Un titolo perfetto per il processo dove per la prima volta ci sono mafiosi che vogliono parlare. Per diciotto mesi a Palermo non vola una mosca. Neanche uno scippo. Il 16 dicembre 1987, dopo 35 giorni di camera di consiglio, 349 udienze, 1314 interrogatori, 635 arringhe difensive, Cosa Nostra siciliana incassa la sconfitta più dura della sua storia: 19 ergastoli e 2665 anni di carcere.
«La mafia è in ginocchio», dichiarano trionfalmente i ministri di Roma. La notizia delle condanne al maxi processo di Palermo fa il giro del mondo. È la vittoria finale – l’unica, come vedremo – di Giovanni Falcone, quello delle «comiche figure» e delle «sceneggiate» descritte sul foglio cittadino. Tutti sono euforici. Tutti sono sicuri che ormai la mafia è alle corde, ferita mortalmente.
C’è solo un uomo che non si fa travolgere dalla sbornia e dall’eccitazione del successo: Giovanni Falcone. Sa troppe cose sulla mafia e i suoi complici. Sa che adesso sta per arrivare il momento più difficile. Per lui e per Palermo.
IL MATRIMONIO CON FRANCESCA MORVILLO
Qualche mese dopo l’inizio del maxi processo – nel maggio 1986 – si è sposato con Francesca. Una cerimonia blindata, in gran segreto con i parenti più stretti. Il matrimonio lo celebra il sindaco Leoluca Orlando, un giovane democristiano cresciuto all’ombra del presidente della Regione Piersanti Mattarella. Orlando è vicino ai gesuiti, ha alle spalle solidi studi in Germania, un’influente famiglia, è un riformatore cattolico che si scaglia contro i ras del suo partito e avvia una rivoluzione politica e morale che prende il nome di «primavera di Palermo». Gli altri sindaci non avevano mai osato pronunciare la parola mafia. Orlando, al contrario, attacca gli uomini d’onore con tutte le sue forze. A cominciare da Salvo Lima e dal suo protettore Giulio Andreotti. Fa costituire il Comune parte civile al maxi processo, scende in piazza con migliaia di ragazzi che manifestano a favore del pool.
Ma dal ventre di Palermo affiorano i fetori di un potere che non si vuole arrendere. In piazza non ci sono soltanto gli studenti. Arrivano anche gli edili senza più lavoro, i cantieri degli imprenditori mafiosi sono chiusi. Urlano contro i giudici, per le strade innalzano cartelli: «Viva la mafia, viva Ciancimino». In corteo portano a spalla la bara del sindaco Orlando, sfilano con loro sindacalisti, uomini politici, tutta la Palermo di un sottobosco che è legato a doppio filo con chi fa droga e morti. Giovanni Falcone, ancora una volta ha visto giusto. Ci sono state le condanne al maxi processo, ma tira sempre una brutta aria in città. Qualcuno cerca di far tornare indietro Palermo.
IL “PITTORE” LIGGIO
Per caso vengo a sapere che uno degli imputati del maxi pro[1]cesso è anche un pittore. E non un imputato qualunque: è Luciano Liggio. I suoi avvocati raccontano che all’Ucciardone scrive poesie, legge Dostoevskij, studia i filosofi presocratici. E dipinge. Paesaggi di campagna, i tetti delle case della sua Corleone, gli alberi del bosco della Ficuzza. A Palermo gli stanno organizzando una mostra – tutta per lui in una galleria d’arte di via Dante, a due passi dal teatro Politeama. Dopo Palermo, i suoi quadri faranno il giro d’Italia. Roma, Firenze, Milano. Luciano Liggio annuncia che donerà il ricavato della vendita delle sue opere all’ospedale di Corleone per acquistare macchinari per la dialisi. Un boss filantropo. Il vernissage è fissato per il 6 gennaio 1987. Qualcuno però mi soffia all’orecchio che il pittore non è lui, Liggio, ma un suo compagno di cella. Non riesco a scoprire chi è. Dopo qualche anno sarà lui a svelarsi. «Ero io a fare quei quadri», confessa Gaspare Mutolo, mafioso della Piana dei Colli quando si pente. Uno di quei paesaggi esposti tanto tempo fa nella galleria di via Dante, adesso è a casa mia. L’ho comprato da Mutolo. È Monte Pellegrino visto da Mondello. Sul mare scende dal cielo qualcosa che assomiglia a una corona di fiori rossi, in realtà sono i tentacoli di una piovra.
Quando la magistratura colpisce alle spalle il giudice Giovanni Falcone. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 30 maggio 2022
Il 19 gennaio 1988 in quattordici scelgono Meli e in dieci Falcone come consigliere istruttore del Tribunale di Palermo. La bocciatura è trasversale. «Se non lo fermavamo, ce lo trovavamo fra sei mesi presidente della Cassazione», dicono a Palazzo dei Marescialli dopo il voto. «Sono un uomo morto», confida Giovanni Falcone ai pochi amici che gli sono rimasti.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Dopo quattro anni e quattro mesi, il consigliere istruttore Antonino Caponnetto lascia la Sicilia. È la prima volta che qualcuno vede piangere Giovanni Falcone. Caponnetto va in pensione e, per molti, l’obiettivo è uno solo: distruggere il pool, cancellare per sempre quella «struttura di potere» nata a Palermo per rinchiudere i boss dietro le sbarre. La mafia è finita. I giudici devono rientrare nei ranghi. Basta con i dibattimenti con centinaia di imputati, basta con il protagonismo giudiziario.
Ci vogliono prove e non «teoremi». Le parole d’ordine si inseguono in Sicilia e in Italia.
Dopo la «movida» antimafia è ora di normalizzare Palermo. Ricacciarla nel suo passato oscuro. A nulla valgono le grida di allarme di Falcone sulla pericolosità di Cosa Nostra. In città c’è un convegno sulle strategie della criminalità organizzata, alla presenza dei massimi esperti internazionali in materia. Ma in platea non c’è un solo magistrato siciliano. Avverte il giudice: «Il declino di Cosa Nostra, più volte annunciato, non si è verificato e non è purtroppo neanche prevedibile. I capi dell’organizzazione sono ancora tutti latitanti».
Ormai se ne fregano dello «sceriffo». Cosa vuole ancora? Ha avuto il suo tripudio? È diventato famoso? È il momento di voltare pagina. L’opportunità per tornare indietro arriva con la nomina del nuovo consigliere istruttore del Tribunale, il magistrato che deve sostituire Antonino Caponnetto. Chi più di Giovanni Falcone ha le carte in regola per occupare quella poltrona, per competenza, per la straordinaria prova che ha dato di sé, per i suoi contatti internazionali, per la sua dedizione assoluta all’ufficio, per il suo senso dello Stato? Nessuno. Ma Falcone va fermato.
I mandanti sono in Parlamento, e a Palermo, gli esecutori al Consiglio Superiore della Magistratura. C’è da scegliere fra lui e Antonino Meli, un anziano giudice che poco sa di dinamiche mafiose e indagini bancarie. Dilaniato da faide partitiche e inconfessabili interessi, il Csm affonda vergognosamente Falcone e lo relega al ruolo di comparsa in quell’ufficio istruzione divenuto il simbolo del riscatto di Palermo. Antonino Meli, che è presidente della Corte di Assise di Caltanissetta ed è alla vigilia della pensione, inizialmente inoltra una domanda per la presidenza del Tribunale della capitale siciliana.
Dopo qualche settimana, però, convinto da alcuni vecchi colleghi che non vogliono Falcone al posto di Caponnetto, la ritira e si mette in pista per la carica – senza dubbio meno prestigiosa ai fini di carriera – di consigliere istruttore.
Ha diciassette anni di magistratura più di Giovanni Falcone, anche se non ha alcuna esperienza in materia di criminalità organizzata punta tutte le sue carte sull’anzianità di servizio. In molti gli promettono un sostegno incondizionato. In moltissimi, ufficialmente, si schierano anche con Falcone. In realtà sono pochi quelli che lo vogliono a dirigere il suo pool. È troppo «anomalo» per le pigrizie e i tornaconti della giustizia italiana. Un giorno prima della votazione finale al Csm, Antonino Caponnetto vuole rimandare il suo pensionamento, restare ancora due anni a Palermo per non «disperdere l’esperienza e il risultato del maxi processo». Sta per inviare un telegramma a Roma ma Giovanni Falcone gli dice che non ci sono problemi, è sicuro che sarà lui il nuovo consigliere istruttore. Fa male i suoi conti. L’hanno già tradito.
LA SCELTA DEL CSM
Il 19 gennaio 1988 in quattordici scelgono Meli e in dieci Falcone. La bocciatura è trasversale. A tramare fra i consiglieri togati del Csm c’è Vincenzo Geraci, un ex sostituto procuratore di Palermo. Tesse la sua ragnatela, convince una larga maggioranza a votare per Meli. A Falcone voltano le spalle anche molti consiglieri della sua stessa corrente – Unità per la Costituzione – e quasi tutti i rappresentanti di Magistratura Democratica. L’unico a difenderlo con passione è Gian Carlo Caselli. «Se non lo fermavamo, ce lo trovavamo fra sei mesi presidente della Cassazione», dicono a Palazzo dei Marescialli dopo il voto. «Sono un uomo morto», confida Giovanni Falcone ai pochi amici che gli sono rimasti. Il giudice sta diventando carne da macello.
Che cosa aveva detto il generale dalla Chiesa a Giorgio Bocca poco prima di morire? «Si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso, ma si può ucciderlo perché è isolato». La battaglia del Csm non è stata solo una bega fra magistrati, una rissa corporativa. E la prova arriva subito, appena il consigliere Antonino Meli s’insedia e comincia a demolire sistematicamente il pool antimafia. Il maxi processo concluso a dicembre è un ricordo sbiadito. Palermo torna la Palermo di sempre. Da qualche mese, in gran segreto, c’è un nuovo pentito che parla. È Antonino Calderone, un catanese che conosce gli affiliati di Cosa Nostra in tutta la Sicilia. È un’altra retata con centinaia di arresti. Calderone racconta anche i rapporti di contiguità del ministro repubblicano Aristide Gunnella con il boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, ricorda come si è dato da fare Salvo Lima per far trasferire alcuni poliziotti non «addomesticabili», descrive i misfatti dei Cavalieri del Lavoro di Catania.
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DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Falcone disse: «Separate le carriere se tenete davvero all’indipendenza della magistratura». Così il magistrato ucciso da Cosa Nostra spiegò, inascoltato, perché giudici e procure dovevano “divorziare”. Giovanni Falcone su Il Dubbio l'1 giugno 2022.
«Timidamente, dunque, e tra molte esitazioni e preoccupazioni, comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’ habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere.
Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti.
È unanimemente riconosciuto che i valori dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura non costituiscono un privilegio di casta, ma un necessario riconoscimento previsto al fine di garantire l’imparzialità del giudice e l’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge; si tratta quindi di valori che debbono essere intesi non in senso formale, ma in funzione dei fini in vista dei quali sono stati riconosciuti.
Se così è, a me sembra che continuando a disciplinare unitariamente la carriera dei magistrati con funzioni giudicanti e quella dei magistrati requirenti, non si potranno cogliere normativamente le specificità delle funzioni requirenti e, quindi, non si potranno disciplinare adeguatamente quei passaggi centrali in cui in concreto si gioca l’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero; dal momento che non si può disconoscere che un giudice penale, ormai passivo e terzo rispetto all’esercizio dell’azione penale e alla attività di acquisizione delle prove, ha esigenze di indipendenza e di autonomia, identiche nella sostanza ma ben diverse nel loro concreto atteggiarsi, rispetto a un pubblico ministero che ha la responsabilità e l’onere, non solo dell’esercizio dell’azione penale, ma anche della ricerca delle notizie di reato e degli elementi che gli consentiranno di esercitare utilmente il suo magistero. Se non si porrà mente con attenzione a questo delicato aspetto della questione, si correrà il rischio – e già si colgono alcuni segnali in questa direzione – di impantanarsi in dibattiti estenuanti e fuorvianti su problemi che, pur essendo indubbiamente importanti (come ad esempio quello sulla obbligatorietà dell’azione penale), non colgono l’essenza della questione, che è quella di dare slancio e incisività all’azione penale del pubblico ministero, garantendo, però, l’indipendenza e l’autonomia di tale organo.
I valori di autonomia e indipendenza rapportati al ruolo del pubblico ministero nell’impianto complessivo della Costituzione, non equivalgono a sostanziale irresponsabilità.
E con ciò, ovviamente, non mi riferisco soltanto alle responsabilità penale, civile e disciplinare, connesse a violazioni di doveri di condotta espressamente sanzionati. Mi riferisco, piuttosto, alla responsabilità per la funzionalità degli uffici di procura e per la politica giudiziaria complessiva, che non può essere lasciata alla mercé delle scelte, prive di adeguati controlli, dei capi degli uffici – o peggio dei singoli magistrati – senza alcuna possibilità istituzionale di intervento. Tanto non giova alla resa del servizio- giustizia in termini di reale, coordinato e generalizzato contrasto delle manifestazioni di criminalità, e non giova nemmeno in termini di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; dato che, ad esempio, un evasore fiscale di Torino sarà perseguito, a differenza di quello di Palermo, perché il procuratore della Repubblica del luogo avrà privilegiato – nell’impossibilità di attivarsi per tutti i reati di competenza – la persecuzione di siffatte attività illecite, piuttosto che, ad esempio, della microcriminalità, senza dovere per questo rendere conto delle ragioni e dei criteri che hanno orientato la sua scelta. Ma ciò non giova neanche all’immagine della giustizia, che a fronte di interventi talora tempestivi soltanto per fatti di scarsa rilevanza sociale, e talora tardivi per episodi di elevata pericolosità, appare all’opinione pubblica come una variabile impazzita del sistema.
Mi rendo perfettamente conto che l’argomento è fra i più delicati e che merita attenta riflessione. Mi piace in proposito ricordare, che in sede di Costituente, proprio uno dei maggiori sostenitori dell’indipendenza della magistratura, l’on. Calamandrei, sul rilievo che un sistema di assoluta separazione della magistratura dagli altri poteri dello Stato presentava inconvenienti di segno opposto, ma non meno gravi, rispetto a quelli di dipendenza dall’esecutivo, propose la istituzione di un «Procuratore Generale Commissario della Giustizia», scelto tra i procuratori generali di Corte d’appello o di cassazione, nominato dal presidente della Repubblica su designazione delle Camere, con diritto di prendere parte alle sedute del Consiglio dei ministri con voto consultivo e responsabilità di fronte al Parlamento per il buon funzionamento della giustizia».
Estratto dal libro ‘ La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia’ – Bur biblioteca univ. Rizzoli
Con un colpo di penna un giudice cancella per sempre il pool antimafia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 31 maggio 2022
L’altissimo giudice ha già ridotto in carta straccia molti processi. Nel frantumare l’inchiesta Calderone il consigliere Meli nega la competenza territoriale di Palermo per i reati di mafia, è una sconfessione assoluta del pool e delle indagini di Falcone. Il Consiglio Superiore della Magistratura, con la sua nomina, ha fatto il capolavoro. Giovanni Falcone è fuori gioco.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Finisco anch’io in carcere. È il 16 marzo del 1988. E con l’amico Saverio Lodato, un bravissimo giornalista de l’Unità, dopo il tramonto entriamo ai «Cavallacci» di Termini Imerese, una delle prigioni fortezza volute dal generale dalla Chiesa. Siamo colpevoli di avere pubblicato le confessioni del pentito Calderone. Prima di scrivere i nostri articoli aspettiamo che tutti i mafiosi vengano catturati, non facciamo scappare neanche un ladro di galline. Poi consegniamo i «pezzi». Sui Costanzo di Catania, sul ministro Gunnella, su Salvo Lima.
L’accusa è di «concorso in peculato con pubblico ufficiale rimasto ignoto». S’inventano questa cervellottica incriminazione (la parola peculato poi, ricorda tanto chi ruba) sostenendo che le fotocopie dei verbali di Calderone – quelle che ci hanno passato – sono «un bene dello Stato».
In carcere restiamo una settimana. Ci scrive il presidente della Camera Nilde Jotti, ci difende in un’intervista Giovanni Falcone, protestano i giudici di Magistratura Democratica, ci vengono a trovare ai Cavallacci il presidente della Commissione parlamentare antimafia Gerardo Chiaromonte e uno dei commissari, il nostro amico Nino Mannino.
Ci attacca in prima pagina Il Giornale di Sicilia. L’ordine di cattura è firmato dal procuratore capo della repubblica, Salvatore Curti Giardina, un magistrato che è a Palermo da tre anni e non ha mai messo la sua firma su un prov[1]vedimento restrittivo contro un mafioso. Di Lodato e di me scrive che siamo «socialmente pericolosi».
Il procuratore l’avevo conosciuto qualche anno prima, quando era presidente di Corte di Assise. Ho seguito tutte le udienze di un suo processo, quello per l’uccisione del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Vi racconterò di più del procuratore capo Curti Giardina nel prossimo capitolo.
L’AZIONE DI ANTONINO MELI
Il nuovo consigliere istruttore Antonino Meli avoca l’inchiesta, la sbriciola in una quindicina di tronconi, spedisce brandelli di ordinanza alle procure di competenza sparse per la Sicilia. Con una firma riporta la lotta alla mafia all’età della pietra. Prima dell’avvento di Chinnici e della «creatura», il pool, voluto da Caponnetto. Non è solo un errore di metodo.
E l’azione di Antonino Meli non è ispirata soltanto da un’altra filosofia giudiziaria. La divisione dell’inchiesta che impone – «lo spezzatino antimafia», lo chiamano i palermitani che capiscono di queste cose – è in perfetta sintonia con ciò che va teorizzando e praticando, annullando centinaia di sentenze di condanna ai boss, il presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione Corrado Carnevale. E cioè che quei mafiosi che Falcone fa arrestare non appartengono a una sola organizzazione – Cosa Nostra, che non esiste – ma «a un’accolita di bande» senza una direzione strategica. Gang di assassini e non «famiglie», cani sciolti senza una testa. Senza una Cupola.
L’altissimo giudice ha già ridotto in carta straccia molti processi. Nel frantumare l’inchiesta Calderone il consigliere Meli nega la competenza territoriale di Palermo per i reati di mafia, è una sconfessione assoluta del pool e delle indagini di Falcone.
Il Consiglio Superiore della Magistratura, con la sua nomina, ha fatto il capolavoro. Giovanni Falcone è fuori gioco. Soprattutto, è tracciata la via per l’Appello del maxi. Ci sarà – è scontato – un’altra sentenza. Il «teorema Buscetta» – o come con disprezzo dicono, il «teorema Falcone» – si sbriciolerà con il senno di giudici giusti. A Palermo è rivolta.
I magistrati del pool sono indignati, in silenzio Falcone annuncia le sue dimissioni, il Tribunale siciliano diventa il «Palazzo dei veleni». Un giorno, Meli accusa Falcone anche di collusione per non aver fatto arrestare Carmelo Costanzo, uno dei grandi costruttori di Catania. È il delirio. Un furore che serve a infangarlo sempre di più. Lui, che ha il culto del riserbo, prova a non farsi travolgere dalle polemiche, fa un passo indietro, si getta a capofitto sulle sue inchieste, finge che non sia accaduto niente. Non ha il tempo di smaltire le tossine della vicenda al Csm che, per lui, fra Roma e Palermo hanno pronta un’altra umiliazione.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Il Corvo, lettere anonime e un ”killer di stato” per isolare Falcone. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'01 giugno 2022
Sono i primi giorni di giugno del 1989. E un Corvo, che conosce tutti i segreti del Palazzo di giustizia di Palermo, accusa Giovanni Falcone di aver manovrato un sicario, «un killer di Stato».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Da alcune settimane gli chiedono di candidarsi come Alto Commissario per la lotta alla mafia. Ci pensa, ormai ha pochi margini di manovra dentro l’ufficio istruzione. Se vuole continuare a combattere i boss forse l’Alto Commissariato – che ha poteri straordinari – è il posto ideale. Falcone accetta la proposta.
Il 5 agosto del 1988 il Consiglio dei ministri nomina Alto Commissario antimafia Domenico Sica. È un magistrato di consumata esperienza che ha attraversato gli anni del terrorismo. Ha aperto centinaia di inchieste, ne ha chiuse poche. Sbarca in Sicilia e, con i suoi uomini, inizia una sotterranea guerra contro il pool antimafia. I mafiosi sono i primi a capirlo. Giovanni Falcone comincia ad avere paura. Sente che è circondato da troppi nemici.
È trascorso un anno molto tormentato dalla sciagura provocata dal Csm. E una lettera anonima viene recapitata negli uffici dell’Alto Commissariato: De Gennaro, e con lui i vertici della Criminalpol romana, erano perfettamente a conoscenza del fatto che Contorno si recava a Palermo per colpire i corleonesi e stanare Totò Riina. Tutto ciò era stato peraltro concordato anche con dei magistrati e in particolare con i giudici Falcone, Ayala e Giammanco con i quali in questi ultimi tempi De Gennaro si è incontrato a Palermo… De Gennaro quindi e i magistrati suddetti hanno inviato Contorno a Palermo ben sapendo che avrebbe commesso dei gravi reati. Si tratta di gravissime responsabilità se si considera che Contorno ha ucciso Mineo, Baiamonte, Aspetti, Messicati e Cerva. Sono fatti gravissimi. Sono veri e propri omicidi di Stato.
CONTORNO “SICARIO DI FALCONE”
Sono i primi giorni di giugno del 1989. E un Corvo, che conosce tutti i segreti del Palazzo di giustizia di Palermo, accusa Giovanni Falcone di aver manovrato un sicario, «un killer di Stato». È una calunnia, ma è la mossa vincente di un piano per screditare davanti all’opinione pubblica la figura del giudice che per molti in Sicilia rappresenta sempre il pericolo più grande.
La storia comincia il 26 maggio del 1989 quando, nelle campagne di Bagheria, viene catturato Salvatore Contorno.
Il pentito vive nascosto in un paese alla periferia di Roma, sotto protezione, ma in quelle settimane arriva a Palermo per colpire i suoi nemici di cosca. Sfugge al controllo della polizia, qualcuno insinua però il sospetto che sia stata proprio la polizia a sguinzagliarlo e a spedirlo nell’isola per stanare Totò Riina. Con l’«autorizzazione» di Falcone.
La notizia dello sbarco a Palermo di Contorno è top secret, il Corvo è al corrente di indagini molto riservate. Solo tre o quattro magistrati conoscono certi dettagli. Scoppia uno scandalo. Dopo un paio di settimane, il Corvo viene individuato nel sostituto procuratore della repubblica Alberto Di Pisa. Lui nega di essere l’autore dell’anonimo, dichiara però di condividerne il contenuto e attacca pubblicamente il giudice Falcone.
Condannato in primo grado «come responsabile delle delazioni anonime», in appello sarà assolto. Ma Giovanni Falcone è ormai sulle prime pagine dei giornali. Accusato di fare «il gioco sporco». Di aver usato un mafioso contro i mafiosi. È il disonore più grande che gli piomba addosso da quando è a Palermo. È anche il movente ideale per ucciderlo. Perché è andato fuori dalle regole. Perché non è un vero giudice ma – come alcuni insistono da tempo – «uno sbirro».
L’attentato all’Addaura, l’inizio della fine per un magistrato che fa paura. DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 02 giugno 2022
21 giugno del 1989. Il Corvo e l’attentato all’Addaura sembrano due vicende lontane. Ma chi ha pilotato la prima operazione è anche quello che organizza la seconda. È una vera e propria congiura. L’attentato fallisce. A Palermo mettono in giro una voce per insudiciare Falcone, una volta ancora: «La bomba se l’è messa lui».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Così, fra infamità e depistaggi, ci si avvicina all’Addaura, una borgata di Palermo. Ci si avvicina alla dinamite del 21 giugno del 1989. Il Corvo e l’attentato all’Addaura sembrano due vicende lontane. Ma chi ha pilotato la prima operazione è anche quello che organizza la seconda. È una vera e propria congiura. L’attentato fallisce. A Palermo mettono in giro una voce per insudiciare Falcone, una volta ancora: «La bomba se l’è messa lui». Morto o vivo, Giovanni Falcone deve essere annientato.
I candelotti di dinamite e di gelatina esplosiva sono cinquantotto. Li trovano sugli scogli dell’Addaura, davanti alla villa che il giudice prende in affitto d’estate. Quel giorno, il 21 giugno, Falcone ha invitato a pranzo due colleghi svizzeri, Carla Del Ponte e Claudio Lehman. Un poliziotto della scorta avvista il borsone dove è nascosto l’ordigno, un artificiere dei carabinieri precipitosamente distrugge l’innesco, Giovanni Falcone capisce subito che quello non è un «avvertimento». Sa che vogliono farlo fuori. E sa anche che, ad organizzare l’attentato, non sono stati solo i boss di Cosa Nostra. Dice, il giorno dopo il ritrovamento dei candelotti: «Sono state menti raffinatissime». E spiega: «Ci troviamo di fronte a gente che tende a orientare certe azioni della mafia. Esistono punti di collegamento fra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile, se si vogliono davvero capire le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi». Giovanni Falcone, in quell’inizio d’estate, intuisce quello che vent’anni dopo scopriranno i magistrati che indagano sulla sua morte. Mafia ma non solo mafia. Apparati dello Stato, servizi segreti. Il giudice convince la moglie a lasciare la villa dell’Addaura. Resta solo.
E comincia a dormire per terra, su un telo. Sotto il cuscino nasconde una pistola a tamburo, calibro 38. «Voglio dormire a terra per stare scomodo, non posso più avere un sonno pesante e d’ora in poi devo essere pronto a tutto. Ormai non mi posso fidare più di nessuno», racconta al suo amico Paolo Borsellino. Il 21 giugno del 1989 è il giorno in cui Giovanni Falcone comincia a morire.
SPROFONDARE AD OGNI PASSO
È agosto, un caldo appiccicoso, Palermo si sta svuotando. Finisco il mio «giro» al Palazzo di Giustizia e ho il taccuino vuoto. Sono circa le due del pomeriggio del 4 agosto 1989. Sto pensando di tornare a casa per fare qualche telefonata dopo pranzo. Sento qualcuno che mi chiama, mi volto, è un poliziotto. «Che fai?», mi chiede. Gli dico che sono stanco, che sto per andare via. Lui mi prende per un braccio: «Aspetta, ti stanno cercando». Siamo al bar «Sanremo» davanti al Tribunale. Poco dopo, arriva un alto funzionario del ministero degli Interni che conosco bene. Ci salutiamo. Mi invita a salire sulla sua auto, non mette in moto, tira fuori da una borsa un pacco di carte e comincia a raccontare: «Questo è un rapporto che ho appena consegnato al procuratore capo della repubblica. C’è tutto». Tutto su cosa?, domando. «Sul giudice Falcone spiato».
Sfoglia il dossier, mi fa leggere di «derivazioni» di linee, di doppi fili, di microspie, di strumenti che hanno registrato «tracce di tensione provenienti da un apparecchio elettroalimentato» sui telefoni nel bunker del giudice Falcone. Mi fa vedere anche alcune fotografie di quei fili incrociati l’uno con l’altro, centraline scoperchiate, apparecchi telefonici smontati. Falcone non è a Palermo. Torno a casa, leggo e rileggo quel rapporto che ho infilato nel mio zainetto. Un centinaio di pagine. È una bomba. Chiamo il caporedattore del giornale. Scrivo il mio articolo. L’indomani, un grosso titolo in prima pagina informa gli italiani che il giudice simbolo della lotta alla mafia è spiato nel suo Tribunale. Alle 10 del mattino arrivano le prime smentite ufficiali. Nel pomeriggio non c’è magistrato o poliziotto di Palermo che confermi una sola parola di quanto ho scritto. Non mi preoccupo. Ho il rapporto che è stato inviato al procuratore capo, sono sicuro che ce l’ha anche lui. Ho le carte. La mia notizia è «blindata». Continuano a smentire tutti. Passa un altro giorno e il mio amico Peppe D’Avanzo, che lavora alla redazione di Roma, raccoglie al Viminale conferme autorevoli sulle informazioni che ho pubblicato.
Il capo della polizia Vincenzo Parisi non parla in via ufficiale ma i suoi fanno sapere: «Le manomissioni scoperte sulle linee di servizio e un reperto sequestrato all’ufficio istruzione ci preoccupano molto: sono la conferma di interessi eterodossi nelle indagini in corso. Abbiamo riscontrato più di una preoccupante anomalia sull’utenza del giudice Falcone». Il coro delle smentite finalmente si placa. Mettono sotto sequestro l’ufficio del giudice. Aprono un’inchiesta ufficiale. Non ho scritto minchiate.
Dopo qualche anno, Peppe ed io abbiamo scoperto che quel rapporto era vero, sì, ma costruito «a tavolino». Nessuno spiava il giudice all’interno del Tribunale. Qualcuno però gli stava addosso. Gli voleva far sapere che era lì, alle sue spalle, pronto a colpirlo. O per proteggerlo. E chissà, salvargli la vita. Un gioco di specchi. Con il falso che diventa vero. E viceversa. Nella giungla di Palermo si può sprofondare a ogni passo.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Bocciato e umiliato anche quando si presenta a Palazzo dei Marescialli. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 03 giugno 2022
«Falcone è finito», dicono a Palermo. Ci sono amici che gli consigliano di candidarsi al Consiglio Superiore della Magistratura. Lui è contrario. Poi si convince che quella è l’unica soluzione per poter influenzare la politica giudiziaria e continuare la sua battaglia antimafia.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
La Sicilia è sottosopra. E anche il resto del mondo.
L’89 è l’anno del crollo del Muro di Berlino, anche a Palermo si rimescola tutto un’altra volta. La mafia aspetta fiduciosa il secondo grado del maxi processo, il Tribunale è dilaniato da faide, magistrati contro magistrati, trasferimenti d’ufficio per gli amici di Falcone come il sostituto procuratore Giuseppe Ayala, miasmi, altre lettere anonime che circolano, la squadra mobile azzerata e affidata a un poliziotto – Arnaldo La Barbera – che risponde direttamente al capo della polizia Vincenzo Parisi.
È come se fosse trascorso un secolo dalla sentenza del maxi processo nell’aula bunker.
Se Palermo è in bilico, Giovanni Falcone è sull’orlo di un precipizio. All’ufficio istruzione è rimasto prigioniero di Meli, è in feroce polemica con l’Alto Commissario Domenico Sica, alcuni giudici del pool – Giuseppe Di Lello per primo – se ne vanno sbattendo la porta, Paolo Borsellino è diventato procuratore della repubblica di Marsala. L’entusiasmo della città per gli «eroi» dell’Antimafia è passato di moda.
Totò Riina è sempre libero, Palermo è sempre nelle mani dei suoi macellai. I Madonia di Resuttana, i Ganci della Noce, i Graviano di Brancaccio, i Galatolo dell’Acquasanta, i Buscemi di Passo di Rigano. Il giudice Falcone è disperato. E va incontro ad altre delusioni. Il giorno dopo il fallito attentato all’Addaura, il Consiglio superiore della Magistratura lo nomina procuratore aggiunto.
Il capo dell’ufficio è Piero Giammanco, un frequentatore di salotti, buon amico di Mario D’Acquisto, il presidente della Regione ai tempi del generale Carlo Alberto dalla Chiesa.
Giovanni Falcone rimane incastrato anche in procura. Non può fare un passo. È controllato a vista. La porta di Giammanco è sempre chiusa per lui. Un giorno ha bisogno di parlare con il capo, aspetta su un divano, fa anticamera per trentacinque minuti come l’ultimo degli uditori. Mortificazioni, indagini ferme, altri sospetti. Il giudice si tormenta, non sa più cosa fare.
«Falcone è finito», dicono a Palermo. Ci sono amici che gli consigliano di candidarsi al Consiglio Superiore della Magistratura. Lui è contrario. Poi si convince che quella è l’unica soluzione per poter influenzare la politica giudiziaria e continuare la sua battaglia antimafia. Comincia a ipotizzare l’istituzione di una Superprocura per coordinare le indagini delle procure sul territorio, dice che ci vuole anche una polizia specializzata, come l’Fbi.
È questa la sua «campagna elettorale». Non partecipa agli incontri con i colleghi della sua corrente, non cerca voti per farsi eleggere. «Lo sanno chi sono», risponde a tutti. Viene bocciato. I magistrati italiani non lo votano per il Csm. Non lo vogliono fra i piedi nemmeno lì. Sono pochi i giudici che gli vogliono bene. Una è Ilda Boccassini, il pubblico ministero di Milano che in quei mesi – è la metà del 1989 – inizia a indagare sulla mafia al Nord. È la Duomo Connection, trafficanti siciliani in combutta con amministratori pubblici milanesi. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Morto a Milano Raffaele Ganci, boss di Cosa nostra e uomo di Totò Riina e dei Corleonesi. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 3 Giugno 2022.
Aveva 90 anni, era ricoverato in ospedale e detenuto a Opera. E’ stato tra i responsabili degli omicidi del giornalista Mario Francese, del vice questore Ninni Cassarà e del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa
Raffaele Ganci. E’ stato tra i responsabili degli omicidi del giornalista Mario Francese, del vice questore Ninni Cassarà e del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. Ma anche delle uccisioni durante la guerra di mafia che ha insanguinato Palermo dei boss «nemici» Stefano Bontate, Salvatore e Santo Inzerillo.
Chi è Raffaele Ganci
Considerato da sempre uomo di Totò Riina e dei Corleonesi, il padrino palermitano Raffaele Ganci è morto all’età di 90 anni nel reparto dedicato ai detenuti dell’ospedale San Paolo di Milano. Benché sottoposto al carcere duro era ricoverato da tempo dopo l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Successore di Salvatore Scaglione alla guida del mandamento della Noce, ucciso proprio per volere di Ganci nel 1982, il boss era attivo nell’edilizia e nel commercio di carne. Condannato a una serie di ergastoli, Ganci ha scontato il carcere previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario nel supercarcere di Opera (Milano).
La morte di Giovanni Falcone
Il nome di Ganci è legato a molti misteri che ruotano intorno alle stragi del 1992 e 93. A cominciare dalla fase preparatoria degli attentati. Dalla macelleria della sua famiglia, in via Francesco Lo Jacono, a Palermo, c’era un osservatorio privilegiato sulla vicina abitazione del giudice Giovanni Falcone: da lì, secondo lo stesso figlio pentito di Ganci, Calogero, partì l’avviso che il magistrato stava tornando a Palermo, il 23 maggio 1992, perché i mafiosi della Noce videro che la blindata guidata dall’autista giudiziario Giuseppe Costanza aveva lasciato il posteggio sotto casa Falcone. Padrino irriducibile, una volta arrestato e dopo che il figlio decise di collaborare con la giustizia (l’altro, Domenico detto Mimmo, è al 41 bis come pluriergastolano irriducibile), don Raffaele arrivò a rinnegare il nome del figlio pentito. In aula, proprio al processo per la strage di Capaci, chiedendo che Calogero andasse in aula («Sento l’odore di mio figlio»). E a Palermo, durante un processo in corte d’assise, minacciò di dire, se non li avesse detti il figlio, davanti al collegio presieduto da Innocenzo La Mantia, «i nomi dei magistrati corrotti, altrimenti li farò io».
Il vecchio macellaio
Il vecchio macellaio autore di decine di omicidi, i nomi però non li ha mai fatti. Faceva parte della commissione provinciale, Ganci decise e partecipò in prima persona alle stragi del ‘92 e al massacro del vicequestore Ninni Cassarà e dell’agente Roberto Antiochia (6 agosto 1985): per questo la Noce era «nel cuore» di Riina, secondo il pentito Salvatore Cancemi, uno dei tanti accusatori del vecchio patriarca, e da qui il suo legame con il padrino corleonese.
Quell’indagine sui “delitti politici” e le prudenze del procuratore capo. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 04 giugno 2022
Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Giù a Palermo, la procura ha chiuso intanto la sua inchiesta sui «delitti politici», le uccisioni di Pio La Torre, del segretario provinciale della Dc Michele Reina e del presidente della Regione Piersanti Mattarella. È un’indagine superficiale, manca di approfondimenti sui mandanti.
Come sempre, c’è solo Totò Riina. «La mia firma su quell’inchiesta non ce la metto neanche se mi torturano», dice Falcone a Borsellino e a qualche altro collega. Ma ancora una volta prevale il senso del dovere, la disciplina, l’ubbidienza, il rispetto della gerarchia. Giovanni Falcone firma.
È stremato dalle polemiche precedenti, non condividere ufficialmente quell’inchiesta equivarrebbe aprire un altro «caso Palermo» e ricominciare con le audizioni al Csm.
Dopo il duello Falcone-Meli, lo scontro Falcone-Giammanco. Capisce che è finito in una trappola. È stanco. Gli spiace solo di non aver indagato di più su «Gladio», l’organizzazione paramilitare nata nell’immediato dopoguerra per difendere le democrazie occidentali dal «pericolo rosso».
Falcone ha trovato alcuni indizi degli «anticomunisti» strutturati militarmente, tracce che lo portano alla morte di Pio La Torre. È il procuratore Giammanco a fermarlo. Lui annota tutto sul suo computer. Consegna qualche appunto a Liana Milella, una giornalista di cui si fida. «Non si sa mai», le confessa. È frastornato, sempre più solo. Si prende i rimproveri e gli insulti anche degli artefici della «primavera» di Palermo.
Il sindaco Orlando lo attacca «per le carte chiuse nei cassetti», il riferimento è alla sua firma in calce all’inchiesta sui cosiddetti delitti politici. È la fine di un’amicizia e la fine di un’epoca. È ancora il Consiglio Superiore della Magistratura ad intervenire, c’è ancora Falcone al centro di un affaire. Ora deve addirittura difendersi dalle accuse di non aver investigato a fondo sui mandanti. Si sfoga. Parla delle vittime eccellenti di Palermo, ma in realtà sta parlando di se stesso:
Niente è ritenuto innocente in Sicilia, né un alterco fra deputati né un contrasto ideologico all’interno di un partito. Accade quindi che alcuni uomini politici a un certo momento si trovano isolati nel loro stesso contesto. Essi allora diventano vulnerabili e si trasformano inconsapevolmente in vittime potenziali. Al di là delle specifiche cause della loro eliminazione, credo che sia incontestabile che Mattarella, Reina, La Torre erano rimasti isolati a causa delle loro battaglie in cui erano impegnati. Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici, certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che essa se ne renda nemmeno conto. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Il pranzo al “Costa Azzurra”, l’ultimo giorno siciliano di Giovanni Falcone. DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 05 giugno 2022
Giovanni Falcone è a capotavola. Alla sua destra c’è Francesco La Licata de La Stampa, alla sua sinistra ci sono io, e accanto a me Felice Cavallaro del Corriere della Sera. Ordiniamo. Mangiamo. E, intanto, Giovanni Falcone comincia a parlare del suo nuovo incarico a Roma.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Siamo a Catania, è il 28 febbraio del 1991. Giovanni Falcone è in un’aula di Corte di Assise come testimone nell’ultimo troncone del processo per l’uccisione del procuratore Gaetano Costa. È in attesa di presentarsi davanti ai giudici. Mi siedo accanto a lui. Lo invito a colazione. Risponde: «Vengo, ma a due condizioni: niente interviste e il ristorante lo scelgo io». Allargo le braccia in segno di resa. Lo chiamano i giudici. Si volta: «Alle 14.30 al Costa Azzurra». Sono stupito della scelta, lui sorride ancora e dice: «Lì siamo coperti».
Il Costa Azzurra è un ristorante sulla splendida baia di Ognina, il proprietario – il cavaliere Alioto – è stato sfiorato da un’indagine di Falcone. Alle 14.30 arriva puntuale. Il cavaliere Alioto, appena lo vede, diventa paonazzo. Poi fa salti di gioia per un ospite così importante nel suo locale. I sette uomini della scorta si siedono a qualche metro di distanza.
Il ristorante è deserto. In un angolo lontano solo un anziano signore calvo, gli occhiali che sembrano vetri di bottiglia. Chi è?, chiedo al cavaliere Alioto. «L’avvocato Cannizzaro, viene qui ogni giorno per pranzo». Giovanni Falcone è a capotavola. Alla sua destra c’è Francesco La Licata de La Stampa, alla sua sinistra ci sono io, e accanto a me Felice Cavallaro del Corriere della Sera. Ordiniamo. Mangiamo. E, intanto, Giovanni Falcone comincia a parlare del suo nuovo incarico a Roma. Verso le 15,30, al Costa Azzura arriva anche Pietro Grasso, il procuratore nazionale antimafia che all’epoca è al ministero di Grazia e Giustizia. Dopo i frutti di mare, arriva il sarago. Tempestiamo di domande Falcone. Risponde a tutto. Nessuno di noi tira fuori i taccuini. «Grappa, per favore», chiede lui al cameriere. Sono passate da poco le 17 quando ci salutiamo. Conosciamo le regole. Falcone ha parlato ben sapendo che le sue parole sarebbero finite sui giornali, ha cambiato idea, lui l’intervista la vuole. Torno in albergo, chiamo Repubblica, liberano una pagina, l’indomani esce un bellissimo racconto di Giovanni Falcone sul suo ultimo giorno siciliano.
Diciotto anni dopo, giugno 2009. Sul divano di casa mia, a tarda sera sfoglio una rivista. C’è un articolo sul procuratore Grasso. Parla di Palermo, del maxi processo dove è stato giudice a latere, delle gioie e delle delusioni di una vita. E dei pericoli, delle paure. Racconta che ha rischiato di morire più di una volta. «Anche a Catania, un giorno lontano di febbraio, ero con Falcone e tre giornalisti, l’agguato stava per scattare…».
I killer sono appostati fuori dal Costa Azzurra, sono pronti a fare fuoco per uccidere Giovanni Falcone e poi tutti gli altri. Noi. Ma aspettano il via libera da Benedetto Santapaola, il capo di Cosa Nostra a Catania. Lo cercano disperatamente, non lo trovano. E non si muovono. Io ho saputo del mancato attentato solo tanto tempo dopo e solo sfogliando quella rivista. Nessuno mi ha mai detto niente, nessuno mi ha mai avvertito che ho rischiato di morire ammazzato e che sono vivo soltanto perché al tempo solo in pochi avevano il cellulare. Finisco di leggere l’articolo su Grasso e lo chiamo. «Ma come è possibile che nessuno le abbia mai detto niente?». È possibile procuratore. Chiamo La Licata. «Ciccio, ma tu sapevi?». Lui: «Sì, verso il 1993 e il 1994 mi sono arrivati i verbali di alcuni pentiti che raccontavano tutta la storia del Costa Azzurra. Ma perché me lo chiedi?». DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
La “Superprocura”, la corporazione dei magistrati ancora contro di lui. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 06 giugno 2022
Falcone se ne vuole andare da Palermo. Ha capito che non ha più motivi per restare, che non può fare più di quello che già ha fatto. Gli è appena arrivata un’offerta dal nuovo ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Claudio Martelli.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Falcone se ne vuole andare da Palermo. Ha capito che non ha più motivi per restare, che non può fare più di quello che già ha fatto. Gli è appena arrivata un’offerta dal nuovo ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Claudio Martelli.
Gli ha proposto l’incarico di direttore generale degli Affari Penali di via Arenula. «È un altro mestiere e non è il tuo», gli dicono gli amici. «È lo stesso mestiere: a Palermo ho costruito una casa, qui posso costruire un palazzo», replica lui.
Tutti lo sconsigliano, provano a dissuaderlo, gli spiegano che il ministro «vuole usarlo come un fiore all’occhiello» nella sua battaglia contro i giudici per poi disfarsene. Si raffreddano alcuni rapporti, nascono malintesi anche con i più intimi.
Qualcuno gli ricorda che Martelli fa parte di quella «quaterna» di candidati del Psi che, alle politiche del 1987, ha preso un sacco di voti dai boss, le elezioni dell’«avvertimento» di Totò Riina ai notabili democristiani e con Cosa Nostra che fa votare i socialisti di Craxi.
Martelli, poi, è stato anche uno degli avversari più duri di quella «primavera palermitana» del sindaco Orlando, uno che non ha mai nascosto la sua ostilità per quei «mostri giuridici» che sono i maxi processi. Giovanni Falcone è inquieto, si danna l’anima per quei suoi amici che non riescono a capire cosa lui ha davvero in mente. Vuole finire il lavoro che ha cominciato in Sicilia. Vuole assedia[1]re la mafia con leggi, decreti, provvedimenti.
«Si è venduto», pensano alcuni a Palermo. «Ce lo siamo levato di torno per sempre», si rallegrano altri. Solo i mafiosi prevedono che là, al ministero, potrebbe «fare più danno» che in Sicilia. Prima di andare a Roma, rilascia un’intervista: «Io sono un uomo di questo Stato. Io credo alle Istituzioni. C’è chi crede di poter aggiustare le cose dal di fuori, io credo il contrario».
DAL MINISTRO MARTELLI
Giovanni Falcone prende servizio al ministero il 13 marzo 1991. Sembra un altro uomo quando mette piede nella capitale. All’improvviso dimentica le angosce e gli stenti di Palermo. Lontano dall’aria tetra che si respira in Sicilia, lontano anche da quel «Palazzo dei veleni» che lo ha costretto a vivere con la paura addosso. Falcone sembra sereno. Ma sa che non durerà a lungo. «Io e Francesca abbiamo deciso da tempo di non avere figli per muoverci con più tranquillità e continuare a fare il nostro lavoro. La lista degli orfani qui in Sicilia è già lunga, non credo che io debba contribuire ad allungarla ancora di più», confessa a Paolo Borsellino in uno di quei rari fine settimana in cui torna a Palermo.
A Roma, fuori dal territorio mafioso, è convinto al momento di stare al sicuro. Dopo tanti anni si sente libero. Incontra gli amici nei bar intorno di Trastevere, va a cena con i colleghi del ministero nelle trattorie di Campo dei Fiori. Una vita «quasi» normale. Come non gli accadeva dal 1980. Da quando sulla sua scrivania era arrivato il primo fascicolo su Rosario Spatola.
Con Claudio Martelli c’è intesa. Il ministro della Giustizia gli dà via libera per un «pacchetto antimafia» che ha elaborato e ascolta per settimane i suoi suggerimenti. Anche l’ultimo, quando il giudice gli fa un esempio: «Cosa Nostra ha la sua Cupola e anche noi dobbiamo averla: una Superprocura nazionale che coordini tutte le procure. Solo così riusciremo a fronteggiare il crimine organizzato, altrimenti ogni ufficio giudiziario va per conto suo e noi perdiamo la visione d’insieme del fenomeno...». Il ministro Martelli annuncia l’istituzione della Superprocura. Sembra il posto giusto per Falcone. Ma, ancora una volta, la magistratura italiana gli si rivolta contro. I soliti nemici. E, adesso, anche gli amici. «Non puoi metterti lì, ti vedono come il consigliere del Principe», gli urlano.
È solo anche fra i giudici della sua corrente, il Movimento per la Giustizia che ha contribuito a fondare. È attaccato da Magistratura Democratica e da tutta la sinistra. Troppo potere nelle mani di un solo uomo. Falcone è un accentratore. Falcone non può rappresentare la faccia pulita di Martelli. Qualcuno trova un candidato da contrapporgli. Individuano Agostino Cordova, il procuratore di Palmi che ha appena concluso due inchieste: una sulla massoneria segreta e l’altra sugli scandali dei socialisti in Calabria. È il personaggio perfetto per lanciare la sfida a Giovanni Falcone, «uomo» di Martelli. La commissione per gli incarichi direttivi del Csm si ripete, torna a recitare un copione già visto. Come due anni prima nel caso Meli-Falcone, sceglie il candidato Agostino Cordova per tre voti contro due.
Il Plenum del Consiglio Superiore non farà in tempo a bocciare Falcone per la seconda volta. Il 23 maggio del 1992 è vicino. Giovanni Falcone è furibondo, anche questa volta era sicuro di farcela. Ma va avanti, non molla, è fatto d’acciaio. Al ministro Martelli presenta il suo «piano» Confische dei beni, una legge sui collaboratori di giustizia, il carcere duro per i boss. Il ministro della Giustizia Claudio Martelli e quello dell’Interno Vincenzo Scotti costringono il presidente del Consiglio Giulio Andreotti a far passare il «pacchetto antimafia». Falcone vuole anche spedire tutti i capi di Cosa Nostra nelle prigioni speciali: sulle isole di Pianosa e dell’Asinara. Il governo sembra d’accordo anche su questo punto
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Il maxi processo è in Cassazione, Totò Riina trema e ordina l’esecuzione. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 7 giugno 2022
Nel dicembre del 1991 accade qualcos’altro. Totò Riina decide di uccidere Giovanni Falcone. La sentenza di morte è stata emessa nel 1981. Ma dieci anni dopo viene ufficialmente «deliberata» dalla Cupola. Nelle ultime settimane i boss vengono a sapere che il maxi processo, il loro processo, in Cassazione non sarà presieduto da Corrado Carnevale
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Il governo è il settimo presieduto da Giulio Andreotti, l’uomo politico italiano che garantisce da decenni gli interessi della mafia siciliana e si alimenta dei suoi voti.
Falcone sa – gliel’ha raccontato Tommaso Buscetta – che Andreotti «è il referente di Cosa Nostra». E poi un altro pentito, Francesco Marino Mannoia, gli ha rivelato «di avere visto il senatore personalmente a colloquio con alcuni capimafia».
È stato nel 1980, a Palermo, subito dopo l’omicidio del Presidente della Regione Piersanti Mattarella. Il governo Andreotti, decima legislatura, per uno strano scherzo del destino, sarà ricordato come l’esecutivo che ha approvato le più severe leggi antimafia nella storia della nostra Repubblica.
Poi, nel dicembre del 1991, all’improvviso succede qualcosa. Gaspare Mutolo, grande trafficante di stupefacenti e mafioso di rango, dal carcere di Spoleto dove è rinchiuso chiede di parlare con Falcone. Il giudice lo incontra. Mutolo gli dice: «Voglio pentirmi, ma solo con lei».
Falcone è direttore degli Affari penali del ministero, è ormai fuori dai ruoli della magistratura e non può ascoltarlo. Gaspare Mutolo si ferma, si tira indietro. «O lei o nessuno», insiste Mutolo che torna a fare il carcerato.
Nel dicembre del 1991 accade qualcos’altro.
Totò Riina decide di uccidere Giovanni Falcone.
La sentenza di morte è stata emessa nel 1981. Ma dieci anni dopo viene ufficialmente «deliberata» dalla Cupola.
Nelle ultime settimane i boss vengono a sapere che il maxi processo, il loro processo, in Cassazione non sarà presieduto da Corrado Carnevale, il magistrato che negli ultimi anni ha annullato centinaia di sentenze con imputati mafiosi. «Uno giusto come Papa Giovanni», dice di lui Pieruccio Senapa, uno dei sicari agli ordini di Totò Riina.
CHI È CORRADO CARNEVALE
È siciliano di Licata, terra agrigentina. Nasce nel 1930, a ventitré anni è già uditore giudiziario, poi giudice di Tribunale, giudice di Appello, giudice di Cassazione. Sempre per concorso, immancabilmente primo. È una carriera di glorie e fasti quella di Corrado Carnevale, il giudice che ama il cavillo. Lavora per due decenni all’Ufficio del Massimario, alla prima sezione civile e alle sezioni unite della Suprema Corte, va alla Corte di Appello di Roma, rientra in Cassazione. Alla prima sezione penale dove approdano i delitti di mafia, terrorismo, omicidio, strage.
Nel dicembre 1985 diventa il presidente della prima sezione penale («Il più giovane presidente titolare della storia della Cassazione», precisa lui), piega a livelli fisiologici l’arretrato. Quando s’insedia sono 7065 i processi che attendono l’esame, nel maggio 1989 scendono a 837.
Prima del suo arrivo la prima sezione è chiamata «la Corte dei rigetti», diventa la «Corte di San Carnevale». Esamina 6 mila processi l’anno, uno su tre è «cancellato», con o senza rinvio. Alla prima sezione ci resta per 7 anni meno quattro giorni. È dotato di una memoria prodigiosa. I suoi colleghi dicono che conosce ogni carta del processo che giudica. Come giudica è altro argomento.
E Sua Eccellenza Corrado Carnevale fa liberare più di quaranta boss. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'08 giugno 2022
Già a inizio del 1991, Carnevale ha rimesso in libertà Michele Greco e 42 boss per decorrenza dei termini di carcerazione. Giovanni Falcone studia una contromossa e il ministro Martelli ordina di riportarli all’Ucciardone dopo appena cinque giorni. «Il mandato di cattura del governo», commentano i mafiosi con rabbia.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
La Cassazione è l’ultima spiaggia per la mafia di Palermo.
Dopo le pesanti condanne in primo grado e l’«aggiustatina» che il maxi processo ha subito in Appello, tutte le attese degli uomini d’onore si sono concentrate sulla Suprema Corte e nella persona di Carnevale, il presidente della prima sezione penale. Già a inizio del 1991, Carnevale ha rimesso in libertà Michele Greco e 42 boss per decorrenza dei termini di carcerazione. Giovanni Falcone studia una contromossa e il ministro Martelli ordina di riportarli all’Ucciardone dopo appena cinque giorni.
«Il mandato di cattura del governo», commentano i mafiosi con rabbia.
Lo sanno tutti che dietro Martelli c’è Falcone.
Corrado Carnevale disprezza il giudice di Palermo e non ne fa mistero.
Dice: «La Costituzione vuole il magistrato in toga e non in divisa».
Lo sbeffeggia: «C’è chi si è messo in testa di fare l’angelo vendicatore dei mali che affliggono la società». Aspetta pazientemente il maxi processo in Cassazione per farlo a pezzi.
Ma, al ministero, da qualche mese, è partito un monitoraggio sui provvedimenti della prima sezione penale della Suprema Corte. Ne scelgono 12.500. Falcone e i suoi collaboratori li esaminano tutti, uno per uno. Si accorgono che i magistrati di quella sezione giudicano ogni singolo indizio autonomamente senza incrociarlo con gli altri. Una «tecnica valutativa» stravagante e sospetta, che finirebbe per demolire il maxi processo.
NIENTE “MAXI” PER CARNEVALE
Quante sentenze ha invalidato il presidente Carnevale fino a quel momento? Quasi 500.
Ha assolto Licio Gelli dall’accusa di sovversione e banda armata, ha annullato la condanna a Michele Greco per l’omicidio
Chinnici e il processo per la strage dell’Italicus, ha cancellato i provvedimenti di arresto del prete mafioso calabrese don Stilo e
del camorrista Giuseppe Misso, ha ordinato un nuovo processo per la strage del rapido 904 Napoli-Milano, ha azzerato 19 ergastoli a Mommo Piromalli e agli affiliati della sua cosca, ha respinto il ricorso di Enzo Tortora che vuole il suo processo lontano da Napoli e al contrario ha trasferito quello sui «fondi neri» dell’Iri da Milano a Roma.
Gli chiedono: «Ma quante sentenze ha ammazzato, presidente?» Risponde: «Per ammazzare qualcosa, bisogna che questo qualcosa sia vivo». Corrado Carnevale si muove nell’ombra per ottenere il maxi processo. Ma non ci riesce, ci va un altro magistrato a presiederlo.
Nelle carceri i boss si sentono perduti.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Serena Sartini per “il Giornale” l'8 giugno 2022.
Il pubblico ministero che deve scendere «dallo scranno»; la condanna di processi pachiderma, il nuovo ruolo che il pm dovrebbe assumere e che spesso non assume.
Ed ancora: la bravura del pm che dovrà emergere, altrimenti «se è un brocco sono guai», e la separazione delle carriere già ben chiara. La lezione inedita e straordinariamente attuale di Giovanni Falcone, il magistrato ucciso con la moglie e tre agenti di scorta nella strage di Capaci il 23 maggio del 1992, riecheggia in una vecchia soffitta, tra gli scatoloni di una casa di campagna. Una audiocassetta mai scovata che riavvolge il nastro del tempo, riportandolo al lontano marzo 1989 quando il magistrato presiedette una lezione sulla riforma del nuovo codice di procedura penale (22 settembre 1988) - e che porta alla luce le parole del magistrato - allora giudice istruttore in una Palermo intrisa di sangue.
Parole che, a pochi giorni dai referendum sulla giustizia, suonano attualissime e che pesano come un macigno. «Penso al dramma per molti miei colleghi che dovranno scendere dallo scranno del pubblico ministero seduto accanto alla corte - chiosava Falcone - e sedersi sui tavoli della difesa accanto ai difensori. Perché? Perché saranno parte così come sarà parte la difesa privata».
Falcone incontrava gli organi di polizia giudiziaria nel marzo 1989. E analizzava le sfide che il nuovo codice di procedura penale imponeva e metteva di fronte ad agenti e giudici.
Erano gli anni dei maxi-processi e delle maxi-inchieste. Da lì a pochi mesi sarebbe avvenuto il fallito attentato all'Addaura.
È un Falcone che parla a ruota libera, senza peli sulla lingua.
Che inizia chiedendo dei fiammiferi perché, dice «li ho dimenticati in ufficio». Un Falcone appassionato e a tratti emozionato nel parlare del suo lavoro, un lavoro che amava tanto da dare la vita nella sua battaglia per la giustizia e la verità.
«Siamo di fronte a una svolta storica e alcuni direbbero a un salto nel buio. Io direi meglio ad una scommessa molto impegnativa - diceva il magistrato spiegando ai suoi uomini le sfide che si trovavano a vivere ogni giorno nella lotta alla criminalità organizzata -. Il codice è molto coerente e molto ben scritto, il problema sarà se noi saremo in grado di farlo funzionare». E proprio agli agenti e ai pm si rivolgeva.
«È un codice che funzionerà se saremo tutti quanti animati da un fortissimo impegno professionale, ma soprattutto se sapremo dotarci di quel salto di qualità senza il quale è impensabile che si possano ottenere risultati positivi». «Avremo un pm molto più agile, molto più dinamico, molto più parte, molto più poliziotto di quello che è quello attuale. Quindi un pm che si dovrà creare il suo diverso - totalmente diverso - ambito mentale rispetto a quello di adesso. Avremo di fronte anche una polizia giudiziaria che da un lato sarà svincolata anch' essa da vecchi preconcetti e dall'altro sarà posta a fianco del pm». E se è un brocco? Gli domandano gli interlocutori. «Se è un brocco sono guai, se è un brocco sono guai - ripete Falcone - Per questo dico che dovrà cambiare la mentalità e dovrà cambiare per voi come per noi. Altrimenti saranno guai». Falcone aveva ben chiaro che il nuovo codice avrebbe reso controparti i giudici e i pm.
«Ogni volta che vado all'estero e cerco di spiegare ai miei colleghi stranieri che il pm è un magistrato ma non è un giudice alla fine mi dicono che hanno capito ma non hanno mai capito nulla. Perché in effetti è incompatibile l'azione con la giurisdizione: o chiedi oppure giudichi». Come chiedono i referendum, quindi, non è possibile fare il giudice e poi il magistrato. Per Falcone era giusto separare le carriere. Attacca, il magistrato simbolo della lotta alla mafia, i processi elefantiaci. Tanto da battere i pugni sul tavolo ripetutamente quando chiede di separare i processi importanti da quelli su cui «non vale la pena perdere tempo». «Accanto a un nucleo duro, importante, di fatti che vale veramente la pena di mandare avanti - diceva - ci sono una serie di reati satellite sui quali non ha nessuna importanza perderci tempo eppure li dobbiamo portare avanti. E sono queste le cause maggiori delle remore e della creazione di questi processi pachiderma».
Il magistrato aveva già intravisto le sfide che si presentavano e come si sarebbe adeguato. «In una indagine di criminalità organizzata molto ampia, io già mi sto attrezzando. Sto facendo preparare i cartelloni didascalici per far capire alla corte che non avrà nulla su che cosa è accaduto - spiegava - gli assegni non saranno più in fotocopia ma con diapositive».
Insomma, «le strategie di repressione saranno più difficili e più articolate. E tutto questo presupporrà un salto di qualità professionale che necessariamente ci dobbiamo fornire.
Non abbiamo alternative».
Falcone sa ben calare le norme tecniche del nuovo codice di procedura penale nelle vicende della Sicilia della fine degli anni Ottanta. «Noi come paese e certe volte noi come giudici, alla vigilia del secolo ventunesimo, dopo tanti anni di indagini, ancora non ci sforziamo di fare una seria analisi del fenomeno, così che spesso siamo portati ad esaminare congiuntamente nello stesso calderone, materie che sono analoghe ma non sono identiche. Piaccia o non piaccia, e nonostante tutto quello che la Suprema Corte frettolosamente ha voluto affermare - chiosa - vi è una organizzazione unica ed unitaria che è Cosa nostra e quella è l'associazione mafiosa».
«Se ancora noi ingenereremo nell'opinione pubblica la falsa, l'erronea supposizione di una organizzazione strana, o meglio di una non organizzazione, contribuiremo da un lato a non far capire nulla all'opinione pubblica o meglio agli organi centrali a sottovalutare il problema - denuncia Falcone - dall'altro consentiremo operazioni televisive come la Piovra 4 in cui è tutto un immenso magma di organizzazione veramente tentacolare e incredibile che fa terrorizzare e che è invincibile, perché questo è il messaggio che viene dato. E quando il fenomeno è invincibile, siamo tutti apposto. Ma non è così e lo sappiamo tutti».
Nella lunga lezione di Falcone c'è spazio anche per descrivere la mafia: cos' è, come agisce, come si muove. L'organizzazione di Cosa nostra è un qualcosa che investe tanto a reticolo tutto il territorio che basta che solo alcuni diano gli ordini, perché poi tutto il resto diventa un fatto automatico.
E il legame tra mafia e voti elettorali. «Le linee di tendenza le stabiliscono i capi. A Palermo, almeno fino a un certo momento, vi erano 18 mandamenti, ognuno con almeno 3 famiglie. Ogni famiglia mediamente ha o aveva una cinquantina di uomini d'onore.
Se tenete conto che ogni uomo d'onore controlla una serie di amici e parenti, vi rendete conto come certe linee di tendenza siano immediatamente operative, attraverso i canali gerarchici, per orientare fasce non indifferenti dell'elettorato in un senso anziché in un altro. Altra conferma dell'unicità di Cosa nostra».
La lezione inascoltata di Falcone sulla separazione delle carriere. Serena Sartini il 9 Giugno 2022 su Il Giornale.
In un audio inedito del 1989 ritrovato da Serena Sartini, cronista di Askanews e collaboratrice del Giornale, il giudice ucciso a Capaci nel 1992 ricorda i rischi legati al nuovo ruolo del pm e la necessità di carriere separate tra inquirenti e giudicanti.
La lezione inedita e straordinariamente attuale di Giovanni Falcone riecheggia in una vecchia soffitta, tra gli scatoloni di una casa di campagna. Una audiocassetta mai scovata che riavvolge il nastro del tempo, riportandolo al lontano marzo 1989 quando il magistrato, davanti agli organi di polizia giudiziaria, presiedette una lezione sulla riforma del nuovo codice di procedura penale.
Ascolta l'estratto dell'audio:
L’allora giudice istruttore in una Palermo intrisa di sangue avverte che i pm dovranno «scendere dallo scranno del pubblico ministero seduto accanto alla corte, e per loro sarà un dramma, per sedersi sui tavoli della difesa accanto ai difensori. Perché? Perché saranno parte così come sarà parte la difesa privata». Falcone dunque aveva ben chiaro che la terzietà del giudice rispetto sia alla difesa che all’avvocato dell’accusa (come ama definirlo): «Perché in effetti è incompatibile l’azione con la giurisdizione: o chiedi l’accusa oppure giudichi», dice il giudice ucciso a Capaci il 23 maggio del 1992.
Oggi che si discute di separazione delle carriere grazie ai referendum di Lega e Radicali sulla giustizia la sua lezione, inascoltata, torna prepotentemente d’attualità. Così come il suo monito sui rischi di un’azione giudiziaria fatta da magistrati non preparati, non adeguatamente formati: «Il pm dovrà creare il suo diverso - totalmente diverso - ambito mentale rispetto a quello di adesso. Avremo di fronte anche una polizia giudiziaria che da un lato sarà svincolata anch’essa da vecchi preconcetti e dall’altro sarà posta a fianco del pm». «E se è un brocco?», gli domandano gli interlocutori. «Se è un brocco sono guai, se è un brocco sono guai - ripete Falcone - Per questo dico che dovrà cambiare la mentalità e dovrà cambiare per voi come per noi. Altrimenti... saranno guai».
Il dossier Falcone sulla mafia. Quella denuncia inascoltata. Serena Sartini il 9 Giugno 2022 su Il Giornale.
L'analisi inedita del magistrato nei nastri riemersi dal 1989. "Cosa nostra raggiunge certi risultati con la sua organizzazione".
La voce ferma, decisa, con lunghe pause intervallate da tiri di sigaretta. E poi i nomi snocciolati uno dietro l'altro: Buscetta, Pippo Calò, il corto Riina. Giovanni Falcone traccia una fotografia di come si muoveva Cosa nostra a fine anni Ottanta, i suoi tentacoli, la sua attività in Sicilia. Ce l'ha con alcuni colleghi che pensano di conoscere la mafia meglio di lui, che cercano la Piovra fuori dalla Sicilia, uno dei tanti teoremi senza prove che hanno ostacolato la lotta a Cosa Nostra. E invece «epicentro della mafia - diceva nel 1989 in un audio esclusivo ritrovato dopo oltre 30 anni - è sempre la Sicilia e Palermo in particolare. Non si può far parte e gestire Cosa nostra se non hai il controllo del territorio nei punti cardine altrimenti duri lo spazio di un mattino», ammoniva il magistrato, ucciso nella strage di Capaci il 23 maggio 1992 insieme alla moglie e ai tre uomini della scorta.
Una lunga lezione che Falcone tenne per descrivere la mafia e come si muoveva. Lui che la criminalità organizzata la combatteva giorno dopo giorno; lui che aveva cominciato a smantellarne i cardini. Lui che ripeteva che «l'organizzazione di Cosa nostra è qualcosa che investe tanto a reticolo tutto il territorio che basta che solo alcuni diano gli ordini, che tutto il resto diventa un fatto automatico».
È un Falcone appassionato ed emozionato allo stesso tempo, in cui emerge la sua umanità e il suo amore per quel lavoro, quello della ricerca della verità e della giustizia. Nel trentennale dalle stragi di Capaci e Via d'Amelio, in cui persero la vita lo stesso Falcone e poi Paolo Borsellino, riemerge un audio di straordinaria attualità, diffuso in un podcast dell'agenzia askanews dal titolo «Falcone: le parole inascoltate».
Nel colloquio con i «suoi» uomini, emergono tutta la professionalità, la fermezza e la capacità investigativa del magistrato. «Su spostamenti di consigli di amministrazione della mafia dalla Sicilia altrove togliamocelo dalla testa - diceva il magistrato, che nel 1989 era giudice istruttore a Palermo -. Epicentro della mafia è sempre la Sicilia e Palermo in particolare».
Tracciava una «organizzazione a raggiera» che «produce certi risultati». Il linguaggio pacato ma allo stesso tempo deciso, con il suo accento marcatamente siciliano; lunghe pause quasi a scandire ogni singola parola. E poi le sue amate sigarette.
«Se non si comprende che questo tipo di organizzazione a raggiera produce certi risultati - ammoniva - questi risultati appaiono inspiegabili. Ecco perché mi sembra dissennato e folle, se in buona fede, peggio se in male fede, parlare di disorganizzazione delle famiglie». E proprio nel «momento in cui sta venendo fuori in tutta la sua pericolosità, la capacità di agire unitariamente di Cosa nostra, ancora continuiamo a parlare esattamente del contrario?».
Per il magistrato, simbolo della lotta alla mafia, lo spaccio di stupefacenti rappresentava solamente una minima attività di Cosa nostra. «C'è la necessità di rendersi conto che quando si parla ad esempio di traffico di stupefacenti come una delle più lucrose attività di Cosa nostra - denunciava - si è portati a ritenere che tutta Cosa nostra si occupi di traffico stupefacenti. Non è vero. Ci sono solo alcune fette importanti di membri di Cosa nostra che, collegati in diverso modo con personaggi non mafiosi o anche stranieri, gestiscono in tutto o in parte determinate linee del traffico di stupefacenti».
«Io mi ricordo che agli inizi, ora per fortuna non più - racconta - colleghi peraltro validissimi di altre parti d'Italia pensavano di venire qui ad insegnare a noi come si fanno le indagini e dirci cosa è la mafia. Colleghi che pensavano che dal piccolo trafficante o dallo spacciatore, risalendo a ritroso la catena dei passaggi sicuramente sarebbero risaliti al laboratorio di eroina... Obiezioni che mi sento dire spesso anche nei salotti di Roma...basta seguire e ci si arriva. E invece più si va avanti nelle indagini e più ci si rende conto dell'estrema complessità».
Racconta Falcone di alcune vicende che lo hanno riguardato in prima persona. Come quando è andato a interrogare Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi, dopo la sua deposizione al processo della pizza Connection. «Era in particolare stato di prostrazione psichica - racconta il magistrato - e io chiesi che cosa fosse successo. Rispose che dall'oggi al domani le persone che qualche mese prima del suo esame gli stavano accanto, non gli rivolsero più la parola».
Giovanni Falcone definisce poi Pippo Calò non il «cassiere di Cosa nostra» ma «il cassiere di se stesso». «Pippo Calò - racconta il magistrato - era importante a Roma per se stesso per i suoi importantissimi contatti con la delinquenza locale, la banda della Magliana in particolare». E cita anche il corto, ovvero Totò Riina. «Quando si parlava di un traffico di stupefacenti che doveva interessare la Sicilia, mi dissero che non si muove foglia senza che il corto non dia il suo benestare».
Ricorda, il magistrato, anche i suoi inizi. Le difficoltà, le sfide, gli scontri che lo avrebbero atteso. «Quando sono entrato in magistratura, il procuratore dell'epoca - il povero Scaglione - mi diceva: ma io non ho problemi se una indagine la voglio accelerare, la affido a quel magistrato. Se voglio che le indagini siano fatte in una certa maniera particolarmente incisiva la affido a quel sostituto». «Ieri ho avuto una lunga discussione, quasi uno scontro con i colleghi di Milano che si lamentavano perché a Palermo non si potevano fare pedinamenti, non si potevano scoprire cose. Dicevo: c'è una piccolissima differenza. A Milano voi fate i pedinamenti. Qui si muore per queste cose. Qui in certe zone gli ufficiali di polizia giudiziaria entrano per pedinare e poi si accorgono di essere pedinati».
Le pause, il respiro, ancora un tiro di sigaretta. E poi di nuovo: «Ho finito di parlare giorni addietro con Contorno e dice che la situazione è terribile e lui ha notizie attuali ad oggi, perché vi è soprattutto adesso una cooptazione di personaggi che nel passato mai e poi mai sarebbero stati inseriti in Cosa nostra perché ritenuti o troppo sanguinari o troppo folli o di principi non troppo ortodossi». Notizie di prima mano che, secondo il magistrato, la mafia aveva costantemente. «Non c'è un omicidio sbagliato, finora, in seno a Cosa nostra - disse quasi in tono profetico -. Quando si uccise Dalla Chiesa tutti dissero: è stato fatto un errore storico. Poi hanno ucciso Chinnici e Cassarà e di nuovo tutti hanno detto che fu un altro errore storico. E continuiamo a fare errori storici. Hanno sempre indovinato, il momento opportuno, il momento giusto. Hanno colpito al momento giusto. E questo dimostra, a parte la ferocia, una assoluta conoscenza di notizie di prima mano». Un messaggio che, riletto dopo trent'anni, suona davvero come una profezia.
Falcone disse: «Separate le carriere se tenete davvero all’indipendenza della magistratura». Così il magistrato ucciso da Cosa Nostra spiegò, inascoltato, perché giudici e procure dovevano “divorziare”. Giovanni Falcone su Il Dubbio l'1 giugno 2022.
«Timidamente, dunque, e tra molte esitazioni e preoccupazioni, comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’ habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere.
Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti.
È unanimemente riconosciuto che i valori dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura non costituiscono un privilegio di casta, ma un necessario riconoscimento previsto al fine di garantire l’imparzialità del giudice e l’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge; si tratta quindi di valori che debbono essere intesi non in senso formale, ma in funzione dei fini in vista dei quali sono stati riconosciuti.
Se così è, a me sembra che continuando a disciplinare unitariamente la carriera dei magistrati con funzioni giudicanti e quella dei magistrati requirenti, non si potranno cogliere normativamente le specificità delle funzioni requirenti e, quindi, non si potranno disciplinare adeguatamente quei passaggi centrali in cui in concreto si gioca l’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero; dal momento che non si può disconoscere che un giudice penale, ormai passivo e terzo rispetto all’esercizio dell’azione penale e alla attività di acquisizione delle prove, ha esigenze di indipendenza e di autonomia, identiche nella sostanza ma ben diverse nel loro concreto atteggiarsi, rispetto a un pubblico ministero che ha la responsabilità e l’onere, non solo dell’esercizio dell’azione penale, ma anche della ricerca delle notizie di reato e degli elementi che gli consentiranno di esercitare utilmente il suo magistero. Se non si porrà mente con attenzione a questo delicato aspetto della questione, si correrà il rischio – e già si colgono alcuni segnali in questa direzione – di impantanarsi in dibattiti estenuanti e fuorvianti su problemi che, pur essendo indubbiamente importanti (come ad esempio quello sulla obbligatorietà dell’azione penale), non colgono l’essenza della questione, che è quella di dare slancio e incisività all’azione penale del pubblico ministero, garantendo, però, l’indipendenza e l’autonomia di tale organo.
I valori di autonomia e indipendenza rapportati al ruolo del pubblico ministero nell’impianto complessivo della Costituzione, non equivalgono a sostanziale irresponsabilità.
E con ciò, ovviamente, non mi riferisco soltanto alle responsabilità penale, civile e disciplinare, connesse a violazioni di doveri di condotta espressamente sanzionati. Mi riferisco, piuttosto, alla responsabilità per la funzionalità degli uffici di procura e per la politica giudiziaria complessiva, che non può essere lasciata alla mercé delle scelte, prive di adeguati controlli, dei capi degli uffici – o peggio dei singoli magistrati – senza alcuna possibilità istituzionale di intervento. Tanto non giova alla resa del servizio- giustizia in termini di reale, coordinato e generalizzato contrasto delle manifestazioni di criminalità, e non giova nemmeno in termini di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; dato che, ad esempio, un evasore fiscale di Torino sarà perseguito, a differenza di quello di Palermo, perché il procuratore della Repubblica del luogo avrà privilegiato – nell’impossibilità di attivarsi per tutti i reati di competenza – la persecuzione di siffatte attività illecite, piuttosto che, ad esempio, della microcriminalità, senza dovere per questo rendere conto delle ragioni e dei criteri che hanno orientato la sua scelta. Ma ciò non giova neanche all’immagine della giustizia, che a fronte di interventi talora tempestivi soltanto per fatti di scarsa rilevanza sociale, e talora tardivi per episodi di elevata pericolosità, appare all’opinione pubblica come una variabile impazzita del sistema.
Mi rendo perfettamente conto che l’argomento è fra i più delicati e che merita attenta riflessione. Mi piace in proposito ricordare, che in sede di Costituente, proprio uno dei maggiori sostenitori dell’indipendenza della magistratura, l’on. Calamandrei, sul rilievo che un sistema di assoluta separazione della magistratura dagli altri poteri dello Stato presentava inconvenienti di segno opposto, ma non meno gravi, rispetto a quelli di dipendenza dall’esecutivo, propose la istituzione di un «Procuratore Generale Commissario della Giustizia», scelto tra i procuratori generali di Corte d’appello o di cassazione, nominato dal presidente della Repubblica su designazione delle Camere, con diritto di prendere parte alle sedute del Consiglio dei ministri con voto consultivo e responsabilità di fronte al Parlamento per il buon funzionamento della giustizia».
Falcone, la lotta alla mafia e i rischi dell'antimafia. Serena Sartini l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.
Nella seconda parte del suo intervento il giudice ucciso a Capaci il 23 maggio del 1992 traccia il suo identikit di Cosa Nostra e di come è riuscita a cambiare, rimanendo sé stessa.
La voce ferma, decisa, con lunghe pause intervallate da tirate di sigaretta. E poi i nomi snocciolati uno dietro l’altro: Buscetta, Pippo Calò, il «corto» Riina. Giovanni Falcone traccia una fotografia di come si muoveva Cosa Nostra a fine anni Ottanta, i suoi tentacoli, la sua attività in Sicilia. «Epicentro della mafia - diceva nel 1989 in un audio esclusivo ritrovato dopo oltre 30 anni - è sempre la Sicilia e Palermo in particolare. Non si può far parte e gestire Cosa Nostra se non hai il controllo del territorio nei punti cardine altrimenti duri lo spazio di un mattino», ammoniva il magistrato, ucciso nella strage di Capaci il 23 maggio 1992 insieme alla moglie e ai tre uomini della scorta. Ecco la seconda parte della lunga lezione che Falcone tenne per descrivere la mafia e come si muoveva. «Epicentro della mafia - diceva nel 1989 in un audio esclusivo ritrovato dopo oltre 30 anni - è sempre la Sicilia e Palermo in particolare. Non si può far parte e gestire Cosa Nostra se non hai il controllo del territorio nei punti cardine altrimenti duri lo spazio di un mattino»
Ascolta l'estratto dell'audio:
È un'organizzazione a raggiera che produce certi risultati - ammonisce - Mi sembra dissennato e folle, se in buona fede, peggio se in male fede, parlare di disorganizzazione delle famiglie nel momento in cui sta venendo fuori in tutta la sua pericolosità».
Oggi che si discute di separazione delle carriere grazie ai referendum di Lega e Radicali sulla giustizia la sua lezione, inascoltata, torna prepotentemente d’attualità. Così come il suo monito sui rischi di un’azione giudiziaria fatta da magistrati non preparati, non adeguatamente formati: «Il pm dovrà creare il suo diverso - totalmente diverso - ambito mentale rispetto a quello di adesso. Avremo di fronte anche una polizia giudiziaria che da un lato sarà svincolata anch’essa da vecchi preconcetti e dall’altro sarà posta a fianco del pm». «E se è un brocco?», gli domandano gli interlocutori. «Se è un brocco sono guai, se è un brocco sono guai - ripete Falcone - Per questo dico che dovrà cambiare la mentalità e dovrà cambiare per voi come per noi. Altrimenti... saranno guai».
Non solo il silenzio in tv: anche le fake news su Falcone per sabotare i referendum. Pur di contestare i quesiti, si cancella, come nel caso di Spataro, il Sì alla separazione delle carriere espresso dal magistrato-eroe. Giovanni Guzzetta su Il Dubbio l'11 giugno 2022.
La campagna referendaria sui temi della giustizia volge al termine. Adesso la parola passa ai cittadini, o, più precisamente ai cittadini che sono stati messi a conoscenza del fatto che il 12 giugno si voterà per un referendum. La precisazione, come si dice, è d’obbligo, perché se vi è un fatto conclamato e inoppugnabile, certificato qualche giorno fa dalla stessa Autorità per le comunicazioni, è che di questo referendum si è parlato poco o nulla sui mezzi di informazione e in particolare sui mezzi del servizio pubblico.
Si è parlato poco del fatto (meno dell’1 per cento dei tempi dedicati a informazione e approfondimento) e si parlato ancora meno del merito. Prepariamoci dunque ad aggiungere all’astensionismo strutturale (oggi in Italia almeno il 30 % degli elettori non vota per alcun tipo di elezione, compresa quella per il Parlamento della Repubblica, a prescindere dunque dal merito) l’astensionismo per disinformazione o per mancata informazione. Ciò detto, la compagna referendaria, quando c’è stata (cioè pochissimo), ha comunque consentito un confronto serrato tra le opinioni. E questo rende ancor più forte il rammarico per il fatto che si sarebbe potuto e dovuto far di più. Nell’interesse di tutti. A proposito del merito, un atteggiamento laico impone certamente di considerare con attenzione gli argomenti pro e contra. I riflettori (o, meglio, è il caso di dire, le abat-jour) quando sono stati accesi, soprattutto da alcuni giornali, tra cui questo, hanno mostrato quanto importanti siano i temi di cui si discute e quale sia il livello dello scontro tra i diversi fronti.
Purtroppo non sempre la discussione è stata intellettualmente onesta. Molte fake news sono state propalate additando scenari apocalittici e inquietanti su cosa succederebbe se i referendum fossero approvati. Sono fatti gravi, anche gravissimi, soprattutto quando provengono da funzionari pubblici nell’esercizio o a margine dell’esercizio delle proprie funzioni. C’è una vicenda particolarmente preoccupante che riguarda direttamente questo giornale, che il 1° giugno scorso ha ripubblicato gli estratti di un intervento di Giovanni Falcone, edito nel volume “La posta in gioco, interventi e proposte per la lotta alla mafia” (Rizzoli, 2010). In quell’intervento il magistrato, del cui assassinio ricorre proprio quest’anno il trentennale, formulava l’opinione dell’opportunità della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Opinione confermata il 3 ottobre 1991 in un’intervista a Mario Pirani su Repubblica e anche in interventi pubblici. Separazione (delle funzioni) che è oggetto anche di uno dei quesiti referendari.
Un’opinione argomentata nello stile di Falcone, in modo chiaro, ma senza alcuna venatura ideologica. Falcone in quell’intervista, peraltro, utilizzava argomenti simili a quelli emersi nel dibattito in Assemblea costituente, nel quale si escluse la netta separazione in considerazione del modello processuale allora vigente, in cui il Pubblico ministero era titolare anche di funzioni giudicanti (in qualità di giudice istruttore). Con altrettanta nettezza i costituenti erano consapevoli che l’eventuale superamento di quel modello verso un processo di tipo accusatorio (in cui cioè le prove non si formano prima, ma si formano nel dibattimento) avrebbe richiesto una modifica dell’impianto organizzativo della magistratura. E ciò in conseguenza del diverso ruolo (solo di parte pubblica e non più giudicante) che il Pm avrebbe svolto in quel processo. Un parte e non un giudice. Le argomentazioni di Falcone, che parlava dopo l’approvazione del nuovo codice di procedura penale che aveva introdotto il processo accusatorio (trenta anni fa), andavano sostanzialmente nella medesima direzione. In un’altra dichiarazione Falcone criticava la definizione del Pm come “parte imparziale”, cara a una certa cultura giudiziaria, aggiungendo, con logica ineccepibile: “Come si fa ad essere parte e a essere imparziale allo stesso tempo, vorrei che qualcuno me lo spiegasse”.
Si tratta ovviamente di opinioni, anche se provengono da un servitore dello Stato scomparso così tragicamente. In una visione laica, che resiste alla tentazione del culto acritico della personalità, anche quando si tratti di persone straordinarie come Falcone, queste opinioni possono ovviamente essere contestate nel merito. Con grande onestà intellettuale Giancarlo Caselli, personalmente contrario alla separazione, intervistato dal direttore de Il Dubbio, ha riconosciuto che quella, invece, fosse l’opinione di Falcone, aggiungendo che nessuno può dire se, alla luce degli sviluppi degli anni successivi, tale opinione sarebbe mutata oppure no (ma propendendo per l’idea che probabilmente non sarebbe mutata, e Falcone “oggi, scriverebbe le stesse cose”). Ciò che invece è inaccettabile, e dovrebbe far riflettere, è l’atteggiamento di chi semplicemente nega che Falcone abbia sostenuto questa posizione, temendo probabilmente che ciò possa incrinare la tesi secondo cui il referendum sarebbe una crociata contro la magistratura, compatta e granitica su tutte le questioni che la riguardano.
Quando un ex magistrato come il Dottor Spataro, sulle pagine di un importante quotidiano nazionale, sostiene semplicemente e apoditticamente che “non è vero” che Falcone sostenesse quelle opinioni, non si rende un buon servizio né alla verità, né alla propria causa. Negare semplicemente un fatto (nemmeno problematizzarlo, ma semplicemente negarlo!) senza, è il caso di dire, alcuna articolazione “probatoria” delle proprie affermazioni, di fronte a testi e dichiarazioni che si possono facilmente reperire in libreria o sulla rete, esprime un atteggiamento che non solo non aiuta il confronto, ma è lontano anni luce da quell’approccio laico ai problemi così delicati della giustizia in Italia. Nessuno può dire cosa avrebbe pensato oggi Giovanni Falcone, ma è certo che sul piano del metodo e dell’approccio non si sarebbe mai accontentato di un “non è vero”. La verità, nella vita, come nei processi, merita di più.
Parla il figlio di Alfonso Giordano. “Così Falcone convinse mio padre che è fondamentale separare le carriere”, la rivelazione di Stefano Giordano. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 9 Giugno 2022.
Manca poco all’anniversario della scomparsa di Alfonso Giordano. Accettò di presiedere il maxiprocesso di Palermo e fu garantista da sempre. Di quei magistrati garantisti che adempiono al proprio dovere senza deroghe, né paraocchi. Pronto a rimettere in discussione i sacramenti della Sacra Toga fino a farsi convincere da Giovanni Falcone delle ragioni della separazione delle funzioni, o meglio: delle carriere. Un magistrato-simbolo, coraggioso e capace di andare controcorrente. E fuori dalle correnti. Ed è forse anche per questo che oggi qualcuno prova a esercitare la damnatio memoriae: di Giordano si deve parlare poco. Anzi, meglio sarebbe non parlarne affatto.
Hanno già cominciato. Il nome dell’alto magistrato dei record, quello che ha guidato con mano salda il processo più ampio della storia europea – dopo Norimberga, va bene, ma quello fu un processo militare per crimini di guerra – già viene scavalcato e messo ai margini, quando non “dimenticato”. Sta accadendo sempre più spesso. Ed è molto interessante capire perché. Lo abbiamo chiesto a suo figlio Stefano Giordano, l’avvocato che ha permesso, tra l’altro, l’assoluzione di Bruno Contrada in Cassazione.
Vorrei partire con un fatto: di nuovo si è tenuta la Giornata della Memoria per Falcone, e di nuovo ci si è dimenticati di citare suo padre, che fu il più diretto interlocutore – in aula – di Giovanni Falcone. Dico di nuovo perché era già accaduto quando era vivo, e ora che è scomparso, rieccoci: il presidente del maxiprocesso fatica a trovare posto nella storiografia ufficiale, quando si parla di Falcone. Mi aiuta a capire come mai?
Vogliamo chiamarla rimozione? Non ci riusciranno, ma il tentativo c’è. Ci fu una prima dimenticanza incredibile, nel giugno 2017. Fecero grandi celebrazioni per Falcone e lui non venne invitato. Né lui né me, che pure da avvocato ero già stato invitato anche alle giornate precedenti. C’è chi mi dice che qualcosa o qualcuno intervenne. Ufficialmente: se ne dimenticarono. Distrazione.
Però Alfonso Giordano, che distratto non era, forse aveva una idea su questo strano ostracismo.
Era molto restio a fare polemiche ma gli dispiacque molto. Io mi indignai, ne parlammo a lungo. In privato, senza mai sbavature con i colleghi. Non si capacitava: tutti si sentivano in dovere di parlare di Falcone, mentre lui che aveva condotto il processo sui suoi arresti, sulle sue inchieste, veniva tenuto fuori. Aveva seduto sullo scranno del presidente di quell’incredibile processo assumendo su di sé una responsabilità e un rischio altissimi, davvero ingrato trattarlo così.
E lei che idea si è fatto?
Non vorrei che il motivo recondito di questi inviti mancati sia stato il fatto che io ho assistito Bruno Contrada. È un sospetto, ma è un sospetto terribile. Perché io inizio ad assistere Contrada nel 2017 e subito dopo, proprio in quell’anno, si verifica la prima “dimenticanza”. Sarebbe una ferita gravissima per tutta la giustizia, se fosse così.
La difesa continua a subire l’accusa, non c’è niente da fare. Al di là dei princìpi, è nei fatti.
Sa che proprio mio padre si incaponì per attuare quanto stabilito dalla riforma della procedura penale? Adesso la normativa prevede che i Procuratori generali siedano parallelamente agli avvocati, in corte d’Appello. In sedute allineate e di pari altezza. Un accorgimento simbolico e non solo. Lui fece applicare rigidamente la cosa, anche a Palermo. Altro sgarbo: appena lui non vestì più la toga, ripristinarono, andando contra legem, l’iniqua disposizione. Con i Procuratori che guardano dall’alto in basso i difensori, seduti in uno scranno che si avvicina a quello del presidente della Corte. Si vada a controllare – non solo a Palermo – cosa avviene nelle corti d’Appello di quasi tutta Italia.
Ho capito, era inviso a molti perché garantista. Venne messo in secondo piano a beneficio di altri?
Rivelo una cosa che può scrivere, perché tutta documentata. Mio padre prima di morire fece una causa contro Corrado Stajano. L’intellettuale, che era stato anche Senatore come indipendente nel Pds, aveva scritto su Il Sole 24Ore che formalmente il maxiprocesso era stato sì presieduto da mio padre, ma nella sostanza a celebrarlo fu Pietro Grasso. Una distorsione inaudita e una ricostruzione assolutamente falsa, come stabilito poi in giudizio. Mio padre vinse la causa, Stajano e Il Sole 24Ore vennero condannati. Purtroppo, Pietro Grasso non ha mai trovato il tempo di chiamare mio padre per fargli un cenno sulla vicenda, per prendere le distanze. Non lo ha più chiamato, pur essendo stato tirato in ballo da altri, ed è un’altra cosa della quale mio padre si dispiacque.
A chi rivolge il suo invito a non dimenticare più?
Maria Falcone si scusò per la dimenticanza del 2017. Il vicepresidente della Fondazione Falcone è Giuseppe Ayala, persona degnissima per la quale ho grande stima. Ma c’è qualcuno lì che si ricorda di dimenticare.
Forse quelli che si ricordano di dimenticare suo padre, potrebbero trovare giovamento da qualche dedica pubblica. Un’aula, ma anche fuori dai tribunali: una piazza.
Abbiamo fatto questa richiesta: dedicare proprio l’aula bunker di Palermo a mio padre. Io come famigliare e il COA di Palermo, abbiamo protocollato la domanda due mesi fa. Non ci ha ancora risposto nessuno. Il Comune di Palermo e anche il Comune di Milano hanno manifestato l’idea di una dedica pubblica. Di giardini, per iniziare. Perché servono almeno dieci anni dalla scomparsa, per l’intitolazione di strade. Giovedì verrà dedicato nel quartiere Libertà di Palermo un giardino alla sua memoria. Mentre i suoi colleghi lo hanno lasciato solo. Lo lasciarono solo durante la carriera, figuriamoci adesso che è morto. Il Presidente del tribunale di Palermo, Antonio Balsamo, fa eccezione.
Che rapporto c’era tra Giovanni Falcone e Alfonso Giordano?
Di grande stima e di una certa sintonia. Ma attenzione: non di amicizia. Quella è un’altra cosa e mio padre era molto attento ai ruoli e alle funzioni. Non frequentò mai Falcone durante il maxiprocesso, non ci furono mai riunioni fuori dall’aula, tantomeno telefonate, figurarsi le cene. Quella deriva che sono le commistioni tra magistratura inquirente e giudicante, mio padre le ha sempre tenute distanti.
Ci racconta quel che gli disse Falcone a proposito della separazione delle carriere?
In quegli anni capitò di rado di parlarsi fuori dagli atti; fecero qualche viaggio insieme andando in aereo a Roma, da quanto mi disse. E mi raccontò di quando Falcone gli ribadì la necessità di fare una riforma radicale separando le carriere in magistratura. Mio padre era inizialmente contrario, o meglio non deciso. Ma si convinse.
In questo, Falcone aveva una visione più politica di altri?
Sì, per questo riuscì così bene anche quando fu chiamato a Roma da Martelli. E per questa sua visione lungimirante e garantista si attirò tanti strali, tante polemiche. Mio padre parlando con Giovanni Falcone e poi, andato in pensione, quando poté riflettere sulla azione della magistratura, si rese conto che la commistione delle carriere stava creando un problema insanabile: c’era il timore, dal ’92 in poi, di assolvere. Anche quando non c’erano molte prove. Per la pressione mediatica, il clima generale, ma soprattutto per un motivo più specifico. Che gli venne fatto notare da Falcone.
Quale?
Assolvendo, il giudice contraddice il lavoro svolto da un altro magistrato, quello inquirente. Quando per anni si fa la carriera insieme, si sviluppano rapporti, si conoscono le rispettive famiglie, nasce un rapporto di reciproca stima e fiducia, ecco… anche involontariamente, è molto difficile preparare un’assoluzione. E da questo nacque il suo convincimento. Perché non si può davvero garantire una terzietà, una obiettività di giudizio quando Pm e magistrato giudicante si trovano a crescere insieme, costruendo un rapporto di stima.
Una considerazione forte, da parte di un Falcone inquirente a un magistrato giudicante.
Falcone era così. Faceva il suo dovere tenendo ben presenti garanzie e tutele. Mio padre ricordava quell’episodio su Andreotti: quando un pentito, Pelleriti, disse che Andreotti era un mafioso, Giovanni Falcone lo denunciò per calunnia. Le sue indagini erano rigorose, le accuse circostanziate. Ci sono, e Falcone lo dimostra, perfino dei Pm garantisti.
Alfonso Giordano non avrebbe avuto dubbi, su questo referendum…
No di certo, si prova a votare per un principio in cui credeva. Avrebbe votato 5 Sì. Il suo ultimo cruccio fu questo: la morsa del potere giudiziario su quello politico. E diceva che la separazione delle carriere avrebbe posto quell’argine che serve. Lo dico oggi mentre qualcuno prova a travisare le parole di Falcone. Vogliono allontanare gli elettori dai seggi, ma non possono rimuovere la storia.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
La sentenza del maxi processo e poi l’omicidio di Salvo Lima. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 09 giugno 2022
Il 30 gennaio del 1992 la sentenza della Cassazione sfregia per sempre il potere della mafia. Gli ergastoli vengono confermati. L’unità verticistica di Cosa Nostra «supera l’esame di legittimità». È la sconfitta più dura mai subita dalla mafia. È il prodigio di Giovanni Falcone.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
La leggenda in ermellino è seduta su una panca del Palazzo di Giustizia di Palermo. In carne ed ossa. È la mattina del 22 giugno
del 1998, il giorno della prima udienza del suo processo come imputato di associazione mafiosa. Gli vado vicino, non si sottrae all’intervista.
È pentito, presidente? «Rifarei tutto quello che ho fatto». Che opinione ha dei procuratori siciliani che l’hanno messa sotto accusa per aver «aggiustato» un bel po’ dei loro processi contro i boss? «Rifarei tutto quello che ho ho fatto».
Ha dato del cretino a Giovanni Falcone, ripeterebbe mai quella frase? «A casa propria ognuno fa quello che vuole». Ha qualcosa da dire ai magistrati che la giudicano? «Ai signori del Tribunale posso portare il mio libretto universitario».
Verbosissimo, superbo, il magistrato che considera la mafia una favola, Sua Eccellenza Corrado Carnevale mi saluta e se ne va. Assolto in primo grado. Condannato a sei anni di reclusione in Appello. Scagionato da ogni accusa in Cassazione.
IN CASSAZIONE
Il 30 gennaio del 1992 la sentenza della Cassazione sfregia per sempre il potere della mafia. Gli ergastoli vengono confermati. L’unità verticistica di Cosa Nostra «supera l’esame di legittimità».
È la sconfitta più dura mai subita dalla mafia. È il prodigio di Giovanni Falcone. Nemmeno due mesi dopo, il 12 marzo, a Palermo uccidono Salvo Lima, l’uomo politico più potente della Sicilia. Lo rincorrono lungo un vialetto di Mondello, gli sparano alle spalle come si fa con i traditori. È la prima volta dal dopoguerra che si registra una rottura fra i vertici mafiosi e la direzione della Democrazia Cristiana siciliana, una sorta di crisi diplomatica tra le due istituzioni più potenti dell’isola.
Totò Riina si sente ingannato dai vecchi amici. Il maxi processo è andato male. Lima ne aveva «garantito» il buon esito. Cosa Nostra non perdona.
L’omicidio di Salvo Lima è un segnale anche per Giulio Andreotti. Il cadavere del siciliano gli sbarra per sempre la strada del Quirinale, al quale aspira da anni. «Da questo momento può accadere di tutto», dice Giovanni Falcone ai giudici del pool rimasti a Palermo.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
I sicari ritornano a Palermo, comincia il conto alla rovescia di Capaci. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 10 giugno 2022.
A Roma arrivano i sicari di mafia. Seguono Giovanni Falcone. Controllano tutti i suoi movimenti, si preparano ad ucciderlo. È un bersaglio facile...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
A Roma arrivano i sicari di mafia. Seguono Giovanni Falcone. Controllano tutti i suoi movimenti, si preparano ad ucciderlo. È un bersaglio facile.
Falcone passeggia per le strade della capitale senza poliziotti dietro, incontra amici, niente blindate, mitragliette, scorte. Poi, i mafiosi incaricati di ammazzarlo ricevono l’ordine di tornare in Sicilia. Giovanni Falcone deve morire ma non deve succedere a Roma, in un agguato con armi corte – pistole e fucili – dentro un delitto mafioso tradizionale.
Deve morire a Palermo con l’esplosivo, in un’azione terroristica. Nella dinamica che cambia si rintraccerà la matrice della strage, che non è solo mafiosa. Qualcuno indica ai boss il «modo» per farlo fuori. È una di quelle «convergenze di interessi» di cui Falcone ha parlato per anni sui delitti politici di Palermo. Adesso tocca a lui.
In Parlamento sono iniziate le votazioni per l’elezione del Presidente della Repubblica. I primi candidati di bandiera sono già bruciati. Andreotti sembra fuori gioco. Sfiora il quorum il segretario della Dc Arnaldo Forlani. Racimola poco più di 200 voti l’ex presidente della Corte Costituzionale Giovanni Conso. L’Italia non ha ancora il suo presidente.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Un cratere ingoia il giudice che fa tremare i complici della mafia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'11 giugno 2022
È il 23 maggio, ore 16.40. Giovanni Falcone è appena decollato dall’aeroporto di Ciampino su un aereo assieme alla moglie Francesca. È una decisione dell’ultimo momento. Ma i sicari sono già appostati sull’autostrada. Una talpa li avverte che il giudice sta scendendo a Palermo.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
È il 23 maggio, ore 16.40. Giovanni Falcone è appena decollato dall’aeroporto di Ciampino su un aereo assieme alla moglie Francesca.
È una decisione dell’ultimo momento. Ma i sicari sono già appostati sull’autostrada. Una talpa li avverte che il giudice sta scendendo a Palermo.
L’aereo atterra a Punta Raisi. Gioacchino La Barbera percorre in macchina la stradina parallela all’autostrada, segue le tre blindate del giudice con il telefonino sempre acceso. È in contatto con i mafiosi che da un paio di ore sono in attesa sulla collinetta di
Capaci: Giovanni Brusca e Antonino Gioè, Santino Di Matteo, Salvatore Biondino, Mariano Troia, Giovanbattista Ferrante. Lo svincolo è quello di Capaci, il territorio è nel comune di Isola delle Femmine.
Un botto terrificante, la terra che si apre, il fumo, una colonna di fuoco alta quindici metri, un cratere profondo dove precipitano due delle tre Croma blindate. La terza viene ritrovata a una sessantina di metri, in mezzo a un campo di ulivi. Dentro ci sono i corpi di tre agenti carbonizzati: Antonio Montinaro. Vito Schifani. Rocco Di Cillo.
“L’INDIO”
C’è anche l’«indio» con loro? Chiedo subito di lui, l’«indio». Non ho mai saputo il suo nome, ha una faccia da Apache. Ho trascorso mattinate intere a parlare con quel poliziotto tutto nervi e con i capelli neri raccolti in un codino, dietro la porta del bunker in attesa di Giovanni Falcone. È simpatico, sveglio, ha la mania degli orologi. Ne porta tre al polso destro, due a quello sinistro. Ogni volta che lo vedo, gli chiedo che ora è e ridiamo sempre alla stessa stupida battuta.
Ci beviamo il caffè, passeggiamo avanti e indietro nell’ammezzato buio, chiacchieriamo di tutto e di niente. Non faccio mai domande sul giudice che lui scorta da dieci anni. L’«indio» lo rivedo ai funerali, il 25 maggio. Mi abbraccia. Ha una gamba ingessata. Una settimana prima è caduto da una scala e se l’è rotta. L’«indio» si è salvato.
LA MORTE DI FALCONE
Francesca Morvillo è ferita, se ne va un’ora dopo in ospedale. Alle 19 Giovanni Falcone non respira più. «Mi è morto fra le braccia», singhiozza Paolo Borsellino.
Il 25 maggio del 1992 saltano tutte le manovre e le camarille per l’elezione del Presidente della Repubblica. La strage di Capaci porta al Quirinale Oscar Luigi Scalfaro.
Il 25 maggio qualcuno fa sparire dal computer del giudice tutti i file che custodiscono i suoi diari. Svuota la memoria di un altro portatile rimasto sulla scrivania al ministero, cancella il disco rigido del Toshiba che è nello studio della sua casa di via Notarbartolo.
Dopo ogni delitto eccellente, passa sempre qualcuno a ripulire la scena.
Il giudice che quasi nessuno ha rispettato in Italia, un mese dopo la morte è commemorato al Congresso americano. A Washington votano all’unanimità una risoluzione per mettere tutti in guardia: la sua uccisione «è un delitto commesso anche contro gli Stati Uniti d’America».
Nel grande atrio della scuola dell’Fbi, a Quantico, in Virginia, c’è un suo busto in bronzo. L’hanno messo lì, proprio in quel punto, perché gli allievi che vogliono diventare agenti speciali devono passare davanti a Giovanni Falcone almeno due volte al giorno. Per rendere onore a un grande italiano.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
La storia truccata. Martelli, Renzi e la temperie giudiziaria che ha isolato Falcone. Benedetta Barone su L'Inkiesta il 12 Luglio 2022.
Nel libro “Vita e persecuzione di Giovanni Falcone“, presentato al Parenti insieme con il leader di Italia Viva, l‘ex Guardasigilli che aveva portato al Ministero il magistrato antimafia riflette sulla strage di Capaci e sulle lunghe conseguenze politiche di quella stagione
+Parlare di Giovanni Falcone fa sempre effetto, nonostante ricorra ormai il trentesimo anniversario dalla sua uccisione. E fa effetto anche che a parlarne sia proprio Claudio Martelli – che nel 1992, l’anno dell’attentato, era ministro della Giustizia, per dimettersi poi sotto l‘inchiesta di Mani pulite – con il libro “Vita e persecuzione di Giovanni Falcone”, uscito per La nave di Teseo il 23 maggio.
A presentarlo al Teatro Parenti di Milano è l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, per il quale Martelli in passato non ha avuto esattamente parole elogiative. Ma i tempi cambiano, soprattutto questi tempi, che il leader di Italia Viva definisce subito «difficilissimi». In una fase politica come quella attuale, dove si discute di cambiare il sistema giudiziario e la democrazia sembra in crisi a ogni latitudine del mondo, esaminare ancora la sorte toccata a Giovanni Falcone, a sua moglie Francesca Morvillo e a Paolo Borsellino, oltre che alle loro scorte, è un modo per ridefinire ancora un‘idea giusta di giustizia, e della storia.
In questo caso, il libro di Claudio Martelli, ricorda che la storia può anche essere truccata. Se così fosse, saremmo tutti vittime e complici inconsapevoli di un‘illusione collettiva, ed è la storia stessa ad insegnarci che non è insolito che capiti.
«Dopo aver letto questo libro, vi renderete conto che il racconto di questi ultimi trent‘anni in merito alla vicenda Falcone è semplicemente falso», dice Renzi.
Tutto parte dalla parola “persecuzione“. La persecuzione di Giovanni Falcone è stata spesso presentata come il tormento di un uomo lasciato solo dallo Stato, la cui morte sarebbe stata fissata e addirittura ordinata da mandanti interni alla politica, invischiata e avviluppata nei rapporti con la mafia. Martelli rovescia questa narrazione. Secondo la sua ricostruzione, Falcone è stato mandato a morire dalla magistratura, dunque dai suoi stessi compagni, dai suoi stessi colleghi.
Falcone si distingue perché per la prima volta riesce a mandare a processo i vertici di Cosa Nostra e 475 gregari – i cosiddetti “soldati” delle organizzazioni mafiose – all‘interno del maxiprocesso iniziato a Palermo nel 1986. Nessuno aveva mai assistito a una cosa simile, in Italia e nel mondo. Dimostra che la mafia è attaccabile, e non solo, persino condannabile. Sgancia un primo colpo volto a indebolire un sistema che prima pareva granitico.
I suoi colleghi magistrati reagiscono impedendo che diventi ufficialmente capo di fatto dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, mediante la nomina di un altro magistrato, Antonino Meli, apparentemente per diritto di anzianità. Ma il primo atto significativo di Meli, non appena insediato, è la demolizione del pool antimafia con il formale e sostanziale ridimensionamento di Giovanni Falcone.
La grande intuizione di Falcone è stata comprendere che la mafia negli anni Ottanta non era certo un‘accozzaglia di malviventi occasionali e banditi, ma rappresentava un gigantesco problema. Ha avuto il merito di scoprire che la Sicilia era il luogo nevralgico di questi traffici, a causa della sua posizione geografica privilegiata, a metà tra le rotte per il Medioriente da cui si importava l‘oppio, il quale poi veniva raffinato a Trapani ed esportato in un secondo momento sotto forma di eroina negli Stati Uniti e nell‘America del Sud. Ma anche a causa della presenza della consorella di Cosa Nostra sul suolo statunitense, esplosa con l‘emigrazione del secondo dopoguerra.
Estradato dall‘incarico, l‘Ufficio istruzione piomba nell‘inefficienza. La Corte di Cassazione, interpellata da Falcone, risponde appoggiando Meli. Si regredisce, si torna allo stato di cose precedente al maxiprocesso, per il quale la mafia non era affatto un sistema gerarchico, militarizzato, potente, ma un nugolo di banditi locali.
Perché questa urgenza di depotenziare Falcone, le sue illuminazioni, i suoi metodi di indagine, e non da ultimi, i suoi rapporti con l‘FBI americana, che erano valsi il sequestro di tonnellate di stupefacenti?
Si dice che dopo l‘episodio al Consiglio superiore della magistratura, Vito D‘Ambrosio, consigliere e amico di Falcone, gli telefona per comunicargli l‘esito del voto e tenta di rincuorarlo: «La prossima volta andrà meglio». Falcone gli risponde: «Non ci sarà una prossima volta». Con il nuovo codice di procedura penale, l‘Ufficio di istruzione sarebbe scomparso del tutto. A Falcone non pare dunque un caso che il suo sollevamento sia avvenuto proprio durante questa fase cruciale, così da dare modo ai magistrati di affrettarsi a chiudere, a sigillare le più importanti indagini sulla mafia e sulle sue relazioni occulte.
«Mi avete crocefisso», dice a D‘Ambrosio. «Mi avete inchiodato come bersaglio».
Secondo Martelli, questo è il primo atto della “persecuzione“.
Dopodiché, una seconda testimonianza viene rilevata dalle parole a Fernanda Contri, altro membro del Consiglio Superiore della Magistratura: «Avete capito che mi avete consegnato alla mafia? Ora possono eseguire senza problemi la sentenza di morte già decretata da tempo, perché hanno avuto la dimostrazione che non mi vogliono neanche i miei colleghi, cioè i magistrati».
«C‘è stata la saldatura», confiderà poi un anno dopo a Francesco La Licata dopo l‘attentato sventato a L‘Addaura.
Senza dubbio Falcone è stato ucciso dalla mafia. Ma le condizioni in cui la mafia lo trovò, indebolito, abbandonato in seguito a un lungo calvario, concorsero all‘omicidio. E secondo Martelli i magistrati di questo sono responsabili, del tutto o in parte, come responsabile è la corruzione di uno Stato che invece si dichiarava democratico e irreprensibile.
Non è un caso che diciannove giorni dopo il fallito attentato, Falcone, nel corso di un‘intervista al giornalista dell‘Unità Saverio Lodato, dichiarò sibillino: «Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime».
Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione Antimafia, riporta anche quanto circolava nei giorni successivi negli ambienti della DC e del PCI e nei salotti palermitani, tra i seguaci di Leoluca Orlando: secondo loro, quello dell‘Addaura lo aveva preparato Falcone stesso come un falso attentato.
Comunque siano andate veramente le cose, rimane un‘evidenza: quel che è accaduto trent‘anni fa racchiude in germe ciò che capita oggi alla politica e alla magistratura italiana.
Lo ricorda bene Matteo Renzi: «Il populismo di certi giudizi mediatici, di certe campagne, impedisce di riflettere sulle questioni veramente importanti. La giustizia è una di queste. Solo se funziona, si onora davvero la memoria dei servitori dello Stato».
Germania, giudici vietano l'uso del nome di Falcone a una pizzeria. La sorella: "Ristabilito senso del rispetto". Redazione Tgcom24 il 15 luglio 2022.
Un ristoratore di Francoforte non potrà utilizzare il nome di Giovanni Falcone per la sua pizzeria, pena un'ammenda fino a 250mila euro o una condanna a sei mesi di reclusione. L'uomo, Constantin Ulbrich, era finito nella bufera due anni fa per avere chiamato il suo locale "Falcone e Borsellino".
Il locale - Oltre al nome, sui muri della pizzeria, dove erano riprodotti fori di proiettili, capeggiava la celebre foto scattata da Tony Gentile ritraente Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Poco distante da loro, un poster di Marlon Brando nei panni di Vito Corleone dal film Il Padrino.
La denuncia - Il caso era stato sollevato da Maria Falcone, sorella di Giovanni e presidente della Fondazione intitolata al magistrato ucciso dalla mafia. In primo grado, l'istanza per inibire al commerciante l'uso del nome era stata respinta in quanto, secondo il tribunale tedesco, "Falcone ha operato principalmente in Italia e in Germania è noto solo a una cerchia ristretta di addetti ai lavori e non alla gente comune che frequenta la pizzeria". Il tribunale sosteneva inoltre che, essendo passati trent'anni anni dalla morte di Falcone, il tema della lotta alla mafia non era più così sentito tra i cittadini.
La sentenza - I giudici di appello di Francoforte hanno invece ribaltato la sentenza di primo grado, accogliendo il ricorso della sorella del magistrato antimafia. Nella sentenza, depositata nei giorni scorsi, la corte ha disposto il divieto di uso "della denominazione commerciale ‘Falcone’ da sola o come parte di una denominazione commerciale, in particolare come nome della pizzeria ‘Falcone e Borsellino’, su insegne, menù, materiale pubblicitario, su internet, su Facebook e su Instagram nell'ambito dell'attività commerciale".
La reazione - "È una sentenza che ristabilisce il senso del rispetto. Ci sono nomi e argomenti sui quali non è possibile ironizzare, scherzare e tantomeno speculare a fini commerciali", ha commentato Maria Falcone ringraziando i legali che l’hanno assistita. La corte ha inoltre riconosciuto alla sorella una legittima pretesa al diritto alla richiesta di risarcimento in base al diritto al nome e al diritto alla personalità post mortem. "La violazione del diritto alla personalità post mortem del giudice Falcone da parte di atti commerciali discutibili perché contrastano con la sua vita e il suo lavoro è fondamentalmente da approvare", conclude la sentenza.
Capaci, dove hanno ucciso il giudice Falcone e dove la mafia non esiste. ATTILIO BOLZONI Il Domani il 14 maggio 2022
Il consigliere comunale Salvatore Luna, ex maresciallo dei carabinieri, nella seduta dell’altro ieri ha detto in municipio: «Capaci è un paese di gente perbene. La mafia qualcuno dice che c'è? Che la trovasse..». Parole pronunciate a una settimana dal trentesimo anniversario dell’attentato.
Il comune di Capaci è stato sciolto per infiltrazioni mafiose venti giorni dopo il massacro del 23 maggio 1992. La reazione del sindaco Pietro Puccio alle parole del consigliere Luna è stata dura «Qui c’è sempre stata e continua ad esserci».
Di Capaci sono due boss, Antonino Troia e Giovanni Battaglia, condannati per la strage di trent’anni fa. In Sicilia tira un’aria che trasporta zaffate maleodoranti. Un ritorno al passato anche a Palermo. Dove condannati per mafia decidono il destino del comune e della regione Siciliana.
ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.
IL SILENZIO. ITALIA, 1992-2022. Il bambino della stagione delle bombe nell’Italia della breve indignazione. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 17 maggio 2022
Cosa provavamo in quegli anni è difficile da spiegare a chi per sua fortuna non era nato nel territorio che tutti conoscevano per l’Anonima sequestri. Ancora oggi guardando mio figlio mi pongo una domanda: se fossi nato in un altro luogo, lontano da quella guerra, forse Giuseppe avrebbe ancora un nonno?
L’Italia stava per entrare nell’anno che avrebbe cambiato per sempre il corso della sua storia. Il 1992 in realtà si apre con una notizia positiva per chi aveva creduto nella rivoluzione “palermitana”: il 30 gennaio la Cassazione conferma le condanne del maxiprocesso.
Ciò che non si cancellerà mai nei miei ricordi è quell’urlo che lanciai per tutta la casa: «Nonna, nonna, hanno ucciso un giudice a Palermo, siamo in guerra!»
Il brano di questa pagina è tratto da “Il silenzio. Italia 1992-2022”, l’ultimo libro di Giovanni Tizian in uscita il19 maggio per Laterza. L’autore ripercorre il ricordo drammatico della scia di sangue che ha unito la sua famiglia a quelle delle tante altre vittime. Sono trascorsi trent’anni ma quel 1992, l’anno delle stragi che doveva trasformare l’Italia, ha lasciato ogni cosa immutata. Quel dolore collettivo non ci ha cambiati, ha solo prodotto una breve indignazione
Cosa provavamo in quegli anni è difficile da spiegare a chi per sua fortuna non era nato nel territorio che tutti conoscevano per l’Anonima sequestri. Ancora oggi guardando mio figlio mi pongo una domanda: se fossi nato in un altro luogo, lontano da quella guerra, forse Giuseppe avrebbe ancora un nonno? E si chiamerebbe magari, che so, Luigi perché non ci sarebbe stato bisogno di ricordare nessuna vittima, nessun morto. Poi subentra la razionalità: non è una questione di geografia. Piuttosto si tratta di responsabilità nazionali, di istituzioni che in quegli anni hanno scelto la mediocrità rinunciando a soddisfare la domanda di giustizia dei cittadini sopraffatti dai poteri criminali.
(...)Intanto quel 1991 si stava chiudendo. L’Italia stava per entrare nell’anno che avrebbe cambiato per sempre il corso della sua storia. Il 1992 in realtà si apre con una notizia positiva per chi aveva creduto nella rivoluzione “palermitana”: il 30 gennaio la Cassazione conferma le condanne del maxiprocesso. È la fine per Totò Riina e la sua mafia sanguinaria. Ma quello che doveva essere il tramonto si trasforma subito nell’alba di una stagione di sangue.
Diciassette giorni dopo a Milano un signore di nome Mario Chiesa, esponente socialista, viene arrestato dalla Guardia di finanza su ordine della procura di Milano. L’accusa è di corruzione, ed è anche l’inizio della tempesta giudiziaria passata alla storia con il nome di Tangentopoli. Si trattava dell’inchiesta “Mani Pulite” condotta dal pool anticorruzione...Quando venne arrestato Chiesa, Amelia era a Milano, ricoverata per un intervento ai polmoni, ma non le sfuggì la dirompente notizia che anzi commentava con indignazione con il personale sanitario e con gli amici che andavano a farle visita in ospedale.
LA FINE DELL’ILLUSIONE
Il 3 marzo, martedì grasso, Bettino Craxi, segretario del Partito socialista nonché politico più potente dell’epoca, in un’intervista per smarcare il suo partito dall’arresto definì Chiesa «un mariuolo isolato» in un partito sano, con anticorpi in grado di proteggersi dal virus della corruzione. Servì a poco, la Prima Repubblica era agli sgoccioli, Tangentopoli era solo all’inizio. Il 12 marzo successivo a Palermo la mafia uccide Salvo Lima, braccio destro di Giulio Andreotti in Sicilia. È il messaggio di Cosa Nostra ai complici che non avevano fatto fino in fondo il loro dovere. Lima era il politico di riferimento del gruppo, seppure non fosse stato coinvolto nell’indagine che portò al maxiprocesso. I padrini contavano sulla sua influenza a Roma per bloccare ciò che non erano riusciti a fare nei primi due gradi di giudizio.
«Che vergogna», si faceva sentire la voce di nonna solo leggermente fiaccata dalla convalescenza, a tavola mentre scorrevano le immagini del corpo riverso a terra dell’onorevole siciliano. «Come abbiamo potuto fare finta di niente», ripeteva, come se ribadire il concetto fosse una forma di espiazione pubblica di colpe che lei non aveva, che tuttavia sentiva sulla propria carne perché nel partito di Lima aveva creduto e militato. Sentiva che quella complicità tra Dc e mafia era anche un tradimento alla nostra storia personale: in fondo la mafia, che fosse sicula o calabrese, sempre mafia era. E quella che aveva ucciso mio padre e bruciato il mobilificio non era tanto diversa da quella che aveva ammazzato in Sicilia.
Dall’omicidio politico-mafioso di Lima, annuncio di una nuova guerra imminente e questa volta diretta non contro un altro clan, ogni cosa sembrava rotolare verso il baratro. I giorni passavano e venivano riempiti dalla cronaca del baccanale di violenza organizzato dalle mafie. A noi cambiava poco, nel precipizio eravamo caduti due anni prima e cosa poteva accadere di peggio?
Fiduciosi nei successi del pool antimafia di Palermo con il maxiprocesso, avevamo messo da parte l’idea di andare via dalla Calabria. Il desiderio di fuggire lontano era forte, più grande però era la voglia di restare nel luogo dove eravamo nati. Ma la resistenza all’esilio volontario avrebbe avuto breve durata. Era terminata anche la seconda guerra di ’ndrangheta a Reggio Calabria. Seicento morti dal 1985, cento morti ammazzati ogni 365 giorni. I sequestri, l’esercito per le strade. E continuavano a non chiamarla con il nome appropriato: guerra. C’era una guerra nel sud di un paese membro della Comunità europea, fondatore dell’Unione europea. Un conflitto che a nessuno conveniva vedere.
HANNO AMMAZZATO UN GIUDICE
Il 1992 era il mio ultimo anno di elementari. Frequentavo una scuola fuori dal mio paese. Quella del centro l’avevo lasciata dopo l’omicidio di papà. Troppe pressioni, troppi ricordi, uno non lo scorderò mai: lui con la moto Guzzi che d’accordo con la bidella mi aspetta fuori dalla scuola lato bagni, e io che esco dalla finestra alla fine delle cinque ore e salgo dietro sulla moto. La quinta elementare la ricordo a tratti. Ricordo solo l’addio di una compagna, che lasciava la Calabria per trasferirsi in Australia: si chiamava Domenica, chissà che fine ha fatto, se ha trovato la sua strada. Ricordo che la salutammo come si saluta un soldato. Speravamo che riuscisse a realizzarsi fuori dall’inferno in cui noi avremmo continuato a vivere. Nella nuova scuola c’era molta più libertà. Dalla primavera fino alla fine dell’anno scolastico le lezioni le facevamo spesso fuori, in cortile oppure nella campagna circostante.
Arrivati al 23 maggio 1992, mancavano due settimane suppergiù alla fine delle elementari. Avremmo dovuto dare gli esami. Che tenerezza a guardarci con gli occhi di adulti del nostro tempo. L’Italia cadeva a pezzi, eravamo accerchiati da ’ndrangheta, esercito, morti ammazzati, eppure ci preoccupava l’esame. Un esame che non esiste più, peraltro. Per questo il mondo andrebbe affidato ai bambini, alla loro onestà e ingenuità: nessuno come loro riesce a superare il peggio della storia pensando a ciò che è davvero importante. Era sabato, il 23 maggio 1992. L’Italia era appena entrata in Tangentopoli. L’attenzione del paese era rivolta alle lunghe e controverse elezioni per il nuovo presidente della Repubblica. Cossiga si era dimesso prima che finisse il suo mandato e aveva già individuato il suo successore in Forlani, ma a rivendicare la candidatura c’era anche Andreotti.
Una partita piena di colpi di scena, quindici fumate nere e chissà come sarebbe finita se alle 17.58 un tremendo boato in Sicilia non avesse sconvolto ogni scenario richiedendo con urgenza una soluzione. Lunedì 25 maggio, a soli due giorni dalla strage di Capaci, verrà eletto presidente Oscar Luigi Scalfaro. Per me quel 23 maggio era una giornata come tante. Una giornata senza nulla da ricordare fino alle sei del pomeriggio. Fino a quel boato che aveva fatto tremare l’Italia. Saranno state le sei e mezza, forse le sei e quarantacinque. Ciò che non si cancellerà mai nei miei ricordi è quell’urlo che lanciai per tutta la casa: «Nonna, nonna, hanno ucciso un giudice a Palermo, siamo in guerra!». Mi trovavo nella stanza da letto dei nonni, lì c’era una piccola tv, moderna per l’epoca, nera, della Philips. Non saprei spiegare il motivo per cui mentre giocavo era sintonizzata sulla Rai. Ebbene, fu un attimo perché la vita reale stravolgesse il tempo del gioco. Corsi fino alla cucina, in cerca di un suo abbraccio. Le immagini erano apocalittiche: l’autostrada divelta, le auto distrutte. Attentato a Capaci, l’obiettivo era il giudice Giovanni Falcone. Un massacro nel cuore dell’Europa.
Amelia si sedette, sembrava non reggere a tanto orrore. Lei, così vigorosa, tremava. Mi prese sulle sue gambe. Nell’abbraccio prolungato, per quanto provasse a nasconderlo, sentivo il suo pianto soffocato, il battito accelerato nel petto sul quale poggiava la mia testa. Mi voltai appena e vidi i miei zii e mia madre. Occhi lucidi, testa alta, si mordevano le labbra per trattenere il pianto, ma la rabbia era evidente. Più tardi avremmo interpretato che quella strage segnava il tempo della dura consapevolezza. Falcone era stato ucciso, la guerra di Cosa Nostra allo stato era iniziata dopo la sentenza definitiva di Cassazione sul maxiprocesso. Riina, il capo dei capi, era latitante e comandava come un re. Per noi però la strage di Capaci aveva un ulteriore significato che andava oltre la lettura politico-criminale. Significava che la rivoluzione palermitana non aveva rivoluzionato alcunché, o meglio dimostrava che a stare dalla parte giusta erano ancora in pochi.
IMMUTABILITÀ
(...) Quel dolore collettivo non ci ha cambiati, ha solo prodotto una breve indignazione e reso consapevoli che esiste una mafia brutale che va combattuta. E ci mancherebbe! Il problema, però, è tutto il resto: la cultura mafiosa, la prepotenza, l’umiliazione degli ultimi, dei più deboli, di chi non ha voce, di chi è sotto ricatto. I tratti tipici della mafiosità li ritroviamo a trent’anni dalle stragi in ampi strati della società: economia, finanza, istituzioni, politica, comunità. Grazie anche a una legittimazione e normalizzazione di ciò che violento non era: tutti quei reati, dalla corruzione all’evasione al riciclaggio, che non producono cadaveri per le strade nell’immediato. Per intenderci: il clima politico oggi ha portato a una riforma della giustizia che suggerisce ai cittadini di considerare la corruzione un reato “normale”.
E così sia: la corruzione, il riciclaggio, le grandi evasioni fiscali non sono una priorità, e lo dimostra il fatto che chi ha pensato questa riforma ha voluto lasciarli fuori dal regime speciale, dunque se in secondo grado il processo non si chiude in due anni non si potrà più procedere: improcedibilità, appunto, rottamazione. È un esempio dei tanti che si potrebbero fare. Ma non è di questioni giuridiche che voglio interessarmi in queste pagine. Quello che voglio raccontare, sul filo della mia memoria personale intrecciato alla memoria collettiva del paese, è il dilagare di questa cultura della prepotenza, infiltrata un po’ ovunque. Perché ancora non sono del tutto rassegnato al fatto che questa cultura debba vincere sempre.
GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
«Lotto da trent’anni per la verità in nome di mio marito, servitore dello Stato ucciso a Capaci». «È ancora tanto quello che non conosciamo. Io non ho mai abbassato la testa». Le parole della moglie del caposcorta di Giovanni Falcone Antonio Montinaro, e madre di Gaetano e Giovanni che nel 1992 avevano 4 anni e 21 mesi. Tina Martinez Montinaro su L'Espresso il 16 Maggio 2022.
Li guardo allo specchio e mi accorgo che non solo il dolore, le amarezze, gli schiaffi presi e quelli parati hanno lasciato il segno. Non è solo questione del tempo che passa. Perché anche le tante vittorie, che pure ci sono state, anche quelle mi porto addosso. Trent’anni vissuti con determinazione e orgoglio. Sì orgoglio. Per Antonio, per l’esempio di poliziotto che è stato e, se permettete, anche per me stessa. Per come sono andata avanti, per come ho cresciuto i miei figli. Per le persone perbene che sono diventate. E per il modo in cui ho combattuto e combatto per la verità. Perché, se è vero che molto sappiamo, è ancora tanto quello che non conosciamo. Io non ho mai abbassato la testa e lungo la mia strada non sono sempre stata in compagnia.
Sono tanti i momenti in cui mi sono sentita isolata da chi avrebbe dovuto proteggermi, sola perché ostinata nel non volermi rassegnare quando altri si accontentavano di parate e commemorazioni, soggiacendo all’idea di un’antimafia finta, di facciata. Talvolta anche occasione per trame e oscuri interessi. Molte volte, lungo questi trent’anni, mi sono resa conto che non tutti provavano davvero a fare la loro parte. Perché è questo che ci è chiesto, contribuire, ciascuno nel proprio ambito, a costruire un Paese migliore di quello che era nel 1992. E questa non è una battaglia che si fa per procura.
Mio marito ha fatto la sua parte. Ha compiuto fino in fondo il proprio dovere di servitore dello Stato. Lui e i suoi colleghi non sono le vittime collaterali di un eccidio. Ed è giusto che il Paese ne ricordi i nomi uno per uno, come persone e non numeri. Con le loro storie e i loro sogni spezzati.
Perché erano lì dove il loro lavoro gli imponeva di stare, incuranti dei rischi che comportava. Mi sono chiesta spesso, nei momenti di sconforto, se ne valesse la pena. Soprattutto di fronte ai depistaggi, alle omissioni, ai passi falsi e ai passi indietro nella lotta alla mafia che hanno scandito questi anni, dandoci l’impressione che il 23 maggio fosse solo la data di una ricorrenza in cui rispolverare molta retorica e poca concreta voglia di pulizia e di verità. Non ho che una risposta: procedere con più forza di prima.
Ho speso le mie energie perché la Quarto Savona 15, quel che resta dell’auto nella quale mio marito ha trovato la morte, riprendesse idealmente a viaggiare. Che diventasse un monito itinerante capace di scuotere le coscienze e affermare che no, non li hanno fermati. Abbiamo promosso un ciclo di incontri in tutta Italia per dire la nostra sulla riforma dell’ergastolo ostativo. E non ho mai smesso di chiedere tutta la verità che ancora oggi ci è negata come familiari delle vittime e come cittadini.
Nelle scuole trovo il conforto di tanti ragazzi, incontri pieni di vera passione civile e a tratti anche di commozione. Tra gli allievi della polizia rivedo l’intensità con cui si preparano a intraprendere la professione alla quale mio marito aveva sacrificato tutto.
Non mi è bastato. Mi sono fatta coraggio e sono uscita da una sorta di comfort zone nella quale è perfino scontato che la mia esperienza susciti empatia. E allora ho anche cercato le occasioni in cui fosse possibile un confronto diretto con i detenuti.
Alcuni li ho anche coinvolti in un progetto di recupero che passa per le attività nel Giardino della Memoria che sono riuscita a realizzare a Capaci, vincendo mille resistenze ammantate da difficoltà burocratiche sempre in agguato. Ma sono andata anche di fronte ai detenuti nelle carceri di massima sicurezza, sperando di istillare il dubbio. Gli ho raccontato di come i miei figli possano procedere fieri senza mai dovere abbassare lo sguardo. E ho chiesto, se da padri, possano dire altrettanto dei loro.
Lo Voi: «Scelsi io vestito e cravatta per Falcone nella bara. Quelle stragi? Non fu solo mafia». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 21 maggio 2022.
«Mi resi conto che Giovanni Falcone era morto quando vidi che i medici e gli infermieri del Pronto soccorso si muovevano intorno a lui senza fare niente. Uno solo gli stava mettendo due punti di sutura sopra l’occhio, ma non certo per salvarlo».
Francesco Lo Voi, procuratore di Roma, oggi ha 64 anni. Il 23 maggio 1992 ne aveva trenta di meno ed era pubblico ministero a Palermo. Con lui, in quella stanza dell’ospedale Civico, c’era Paolo Borsellino: «Lui capì subito che non c’era più niente da fare. Dell’attentato l’avevo avvertito io, dopo essere stato avvisato dal mio agente di scorta che normalmente stava con Falcone. Paolo era dal barbiere, mi disse di passarlo a prendere e insieme andammo al Civico. Guidavo io, con l’agente affianco e Paolo seduto dietro, preoccupato perché andavo troppo forte. Aveva paura di un incidente, ma io volevo arrivare in fretta».
I magistrati siciliani che in quegli anni si occupavano di mafia erano abituati a vedere cadaveri, e pure amici ammazzati. Maturando la dote della freddezza. «Bisognava andare immediatamente a casa di Giovanni — racconta Lo Voi — per cercare qualsiasi elemento eventualmente utile a indirizzare le indagini, e per prendere gli abiti necessari a vestire la salma. Anzi le salme, perché nel frattempo era morta pure Francesca».
Nell’appartamento di via Notarbartolo Francesca Morvillo, la moglie di Falcone, aveva lasciato tutto perfettamente in ordine prima di partire per Roma: «Non c’era uno spillo fuori posto, e non trovammo nulla di interessante. A quel punto mi misi a cercare una giacca e una cravatta per Giovanni, ho scelto provando a immaginare quello che potesse stargli messo addosso».
Un compito che mai il magistrato avrebbe immaginato di dover assolvere quando conobbe Falcone, undici anni prima, muovendo i primi passi nel palazzo di giustizia di Palermo. Divennero amici, come con Borsellino che con Lo Voi condivideva anche la stessa corrente: Magistratura indipendente. Un legame forte, nel quale l’idea della morte era presente ma quasi esorcizzata. Fino alla strage di Capaci.
«Da quel momento fu evidente a tutti che Borsellino sarebbe stato il prossimo a cadere. Lui si preoccupava per noi, e noi molto di più per lui. Lo pregavamo di muoversi il meno possibile, non parlare troppo al telefono, ma Paolo pensava a tutt’altro. Era totalmente impegnato a cercare uno spunto d’indagine, individuare nomi, attivare fonti: un qualsiasi indizio nel nulla informativo di quel periodo».
Falcone s’era trasferito a Roma, al ministero di Grazia e Giustizia, attirandosi critiche e attacchi dalla maggioranza dei colleghi: «A me dispiacque, però gli dissi che era la scelta giusta, perché lì poteva fare molto di più di quando gli fosse consentito in Procura. Ma la magistratura italiana non era pronta nemmeno culturalmente ad accettare un visionario come lui. Che rappresentava l’emblema della ripresa e della resilienza, oggi tanto invocate; da ogni sconfitta riusciva a riprendersi per lavorare più e meglio di prima». Andato via lui tornò Borsellino, come procuratore aggiunto. «Era appena stato ucciso Salvo Lima — ricorda Lo Voi — e bisognava interpretare quel delitto. Non si potevano escludere collegamenti con un contesto nazionale complicato: le indagini di Mani Pulite in pieno svolgimento, un presidente della Repubblica da eleggere e un nuovo governo da formare. Paolo era talmente concentrato nel tentativo di capire quello che stava succedendo che non si riusciva nemmeno a seguirlo nei suoi pensieri. E quando uccisero lui, in molti pensammo ciò che disse sul momento Antonino Caponnetto: “È tutto finito”».
L’attentato di via D’Amelio, a meno di due mesi di distanza, fu quasi più deflagrante di quello di Capaci: «L’uccisione di Falcone era purtroppo nell’ordine delle cose, e l’effetto emotivo si stava riassorbendo. Fu la morte di Borsellino, con le stesse modalità terroristiche, a far saltare il tavolo e provocare la reazione dello Stato che poi si rivelerà vincente, nonostante la prosecuzione delle stragi del ’93. Al punto da rendere ancor più incalzante la domanda: qual era il disegno? Fu solo mafia?».
Dopo trent’anni, risposte convincenti non ce ne sono. «Quelle stragi si rivelarono talmente controproducenti per Cosa nostra, da far pensare che qualcos’altro ci fu», riflette Lo Voi. Qualcosa che ha anche fare anche con il mondo politico e imprenditoriale? Il procuratore soppesa ogni parola: «Premesso che non mi sono mai occupato di indagini su questo punto, se si vuole arrivare a una gestione del potere in qualunque sua forma, da un collegamento politico di qualche natura si deve passare per forza. Sennò come lo gestisco il potere? Come faccio cambiare le leggi che mi serve di cambiare? Il Consiglio comunale di Palermo non basta…».
Tornando agli esecutori materiali, proprio Lo Voi coordinò, da Palermo, l’indagine della Dia sul covo di via Ughetti dove Nino Gioè e Gino La Barbera, intercettati, confessarono la partecipazione all’ attentatuni di Capaci. Poi vennero i riscontri sui telefoni cellulari usati dai mafiosi il pomeriggio del 23 maggio: «Quando ricostruimmo il quadro delle presenze con nomi e cognomi in quella zona al momento dell’esplosione ebbi i brividi per l’emozione».
La trasmissione di quelle carte a Caltanissetta fu la base del processo che, per la morte di Giovanni Falcone, sua moglie e i poliziotti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo ha portato a 39 condanne. Una risposta giudiziaria non scontata che ha segnato un riscatto, sebbene non completo. Ma la partita antimafia non è chiusa.
«Noi celebriamo il trentesimo anniversario di Capaci — conclude Lo Voi — mentre da pochi giorni è stato ucciso, in Colombia, il procuratore paraguayano Marcelo Pecci, che combatteva i cartelli del narcotraffico e del riciclaggio internazionale probabilmente collegati a organizzazioni criminali italiane. È la conferma che, nonostante i successi ottenuti, come diceva Falcone il problema della mafia non è solo siciliano, italiano o europeo, ma mondiale. E fare memoria può aiutarci anche ad affrontare la cronaca».
Il ricordo di Falcone e le ferite di mafia ancora aperte, il pg Salvi: «Abbiamo imparato dai nostri errori». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 6 Maggio 2022.
A 30 anni dalle stragi, l’incontro nell’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo. Il procuratore generale: «Anche nella magistratura vi furono resistenze, a volte anche invidie e ostilità».
«Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono vittime di gravi attacchi da parte di chi, anche in aree della politica e persino delle istituzioni, vedeva nei nuovi metodi d’indagine, e soprattutto nella loro efficacia, una minaccia per lo status quo di connivenza, quando non di complicità, con Cosa nostra». Il ricordo che si trasforma in accusa arriva dal primo pubblico ministero d’Italia, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. E non risparmia le toghe che pure avversarono — finché furono in vita — i due giudici assassinati da Cosa nostra nelle stragi di trent’anni fa: «Anche nella magistratura vi furono resistenze, a volte anche invidie e ostilità».
La sessione di chiusura della Conferenza dei procuratori generali d’Europa apre di fatto, alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, le celebrazioni per l’anniversario degli eccidi di Capaci e via D’Amelio, 23 maggio e 19 luglio 1992. E per Maria Falcone , sorella di Giovanni, è un’iniziativa che «concorre a rimarginare la ferita inferta a mio fratello da molti esponenti della magistratura che furono protagonisti, durante tutta la sua carriera, di attacchi violenti e delegittimanti che concorsero al suo isolamento».
Come fosse un dialogo a distanza, il pg della Cassazione aggiunge: «Falcone e Borsellino furono isolati ma non soli. In questi anni abbiamo corretto i nostri errori e messo a frutto i loro insegnamenti. Grazie al lavoro collettivo di alcuni che erano con loro e altri che ne hanno preso il posto, sono stati ottenuti risultati straordinari nel contrasto alla criminalità organizzata».
Salvi parla nell’aula bunker dell’Ucciardone dove ha trasferito i lavori della Conferenza (ospitata per due giorni dall’Assemblea regionale siciliana che il pg tiene a ringraziare insieme al Comune di Palermo) per rendere plastico l’omaggio al lavoro di Falcone e Borsellino: in questo «tempio della giustizia», come lo chiama il presidente della Corte d’appello Matteo Frasca, si celebrò il maxiprocesso alla mafia da loro istruito con gli altri giudici istruttori del pool antimafia. E la procuratrice generale della città, Lia Sava, che in passato ha lavorato a Caltanissetta alle più recenti inchieste su Capaci e via D’Amelio, ricorda come le indagini non si siano mai fermate. Ideatori ed esecutori sono stati processati e condannati, ma ci sono ancora zone d’ombra da illuminare.
La prossima settimana la Procura di Caltanissetta tirerà le sue conclusioni nel processo di primo grado a tre poliziotti accusati di aver contribuito ai depistaggi sulla morte di Borsellino. Sono fatti di cronaca che s’intrecciano con la storia rievocata davanti a Mattarella, che ascolta con attenzione. Anche sull’omicidio di suo fratello Piersanti, il presidente della Regione assassinato nel 1980, restano misteri mai svelati.
«Trent’anni rappresentano un passaggio di generazione», dice il vicepresidente del Csm David Ermini, che sottolinea l’importanza del «maxi» e delle tante sentenze successive al 1992: «La mafia non è sconfitta, ma è sconfitta l’idea dell’impunità della mafia». Poi cita Falcone e il suo appello ad «accantonare la contrapposizione amici-nemici tra politici e magistrati, e fare fronte unico». Parla di ieri ma sembra guardare all’oggi. E di attualità parlano le ministre dell’Interno Luciana Lamorgese e della Giustizia Marta Cartabia.
La prima ricorda la necessità, in primo luogo da parte delle forze di polizia, di sorvegliare sul’impiego dei soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza: «Ci attende una stagione di ingenti finanziamenti che possono rappresentare una nuova opportunità per il Paese, ma i flussi finanziari relativi al Pnrr vanno schermati da ingerenze e condizionamenti criminali». La seconda rievoca la sentenza pronunciata nel bunker con la quale «lo Stato di Diritto prevalse sulla violenza e la barbarie delle mafie», prima di richiamare l’impegno affinché «nel nostro oggi la voce del Diritto possa tornare a prevalere sul clamore delle bombe, della guerra e di ogni forma di sopraffazione».
L’invasione dell’Ucraina aveva già fatto irruzione nella Conferenza quando la procuratrice generale di Kiev ha chiesto aiuto ai colleghi europei per accertare quanto sta accadendo nel suo Paese, e dalla ministra Cartabia arriva la prima risposta: «Anche l’Italia, a breve, manderà in Ucraina un gruppo di esperti interforze, compreso un contingente della polizia penitenziaria, coordinato da un magistrato, per essere di supporto nella raccolta di prove per l’accertamento delle responsabilità dei crimini di guerra».
Il giudice usato come una clava dai forcaioli. L’incompresa lezione di Falcone ai somari dell’antimafia. Otello Lupacchini su Il Riformista il 20 Maggio 2022.
Il 23 maggio di trent’anni or sono, Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, vennero uccisi dall’esplosione di una potente carica di tritolo, posizionata a opera di Cosa nostra in un tunnel scavato sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine, sull’autostrada che da Punta Raisi conduce a Palermo.
Il tragico evento, cerniera tra la Prima e la Seconda Repubblica, era stato preceduto da lugubri presagi: nei primi giorni di marzo, Elio Ciolini, uomo legato all’estrema destra, condannato per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna, detenuto nel carcere di Firenze, aveva indirizzato ai giudici felsinei una lettera per annunciare una «nuova strategia della tensione in Italia» da attuarsi nei cinque mesi successivi, fino a luglio; in quel periodo, sosteneva, «accadranno eventi intesi a destabilizzare l’ordine pubblico» e cioè esplosioni che colpiranno persone «comuni» in luoghi pubblici, il sequestro e l’eventuale «omicidio» di un esponente politico della Democrazia cristiana, il sequestro e l’eventuale «omicidio» del futuro Presidente della Repubblica; trascorsi alcuni giorni, era stato ammazzato Salvo Lima; sarebbero poi seguite la strage di Capaci, quella di via d’Amelio e, infine, quelle dell’estate 1993, le cui vittime sarebbero state «persone comuni».
Non interessa la fonte di tali premonizioni, quanto, piuttosto, segnalare il fatto che, da quel tragico 23 maggio 1992, le figure di Giovanni Falcone, prima, e di Paolo Borsellino, successivamente, hanno assunto natura mitologica, di cui, retorica aiutando e spirito critico mancando, si sarebbe alimentata l’antimafia strumento di potere. In virtù del sacrificio delle loro vite, si continua da allora ad arruolare i due Magistrati barbaramente assassinati sotto le bandiere della «pubblicità ingannevole», per tale intendendosi ogni pubblicità idonea, in qualunque modo, compresa la sua presentazione, a indurre in errore le persone alle quali è rivolta o che essa raggiunge e delle quali possa pregiudicare il discernimento. Fu Adolf Hitler, in Mein Kampf, a esporre la teoria totalitaria della menzogna: il pensiero, la ragione, il discernimento del vero e del falso, la decisione, il giudizio, sono una cosa molto rara e assai poco diffusa nel mondo; è un affare d’élite, non della massa; quest’ultima è mossa dall’istinto, dalla passione, dai sentimenti e dai risentimenti; non sa pensare; né lo vuole: non sa che obbedire e credere; crede a tutto ciò che le si dice, a condizione che lusinghi le sue passioni, i suoi odi, i suoi terrori: inutile mantenersi nei limiti della verosimiglianza: al contrario, più si mente in modo grossolano, massiccio, brutale, più si sarà creduti e seguiti; inutile, altresì, cercare di evitare le contraddizioni; inutile mirare alla coerenza: la massa non ha memoria; inutile nascondere la verità: essa è radicalmente incapace di riconoscerla; inutile persino nasconderle che la si inganna: l’animale parlante è, prima di tutto, un animale credulo, e l’animale credulo è precisamente quello che non pensa.
Da uomo pensante, appartenente magari alle «masse degenerate e imbastardite», rifiuto d’accodarmi alle pseudo aristocrazie-totalitarie, del «credere, obbedire, combattere», quale dovere del popolo, essendo il pensiero prerogativa del capo. Reputo, invece, mio dovere denunciare lo scandalo dei maldestri tentativi di rappresentare Nicola Gratteri quale redivivo Giovanni Falcone, ovvero d’abbassare Giovanni Falcone al livello di Nicola Gratteri. A quest’ultimo, il quale parrebbe esposto a gravissimi pericoli per la propria incolumità fisica, va incondizionatamente tutta la mia più sincera, umana solidarietà, ben sapendo cosa significhi, per dolorosa, personale, quarantennale esperienza, vivere sottoposti a obiettive, gravi limitazioni, sia pure a fini securitari, della propria libertà personale. Il che, tuttavia, non m’impedisce, anzi me lo impone come dovere, di evidenziare l’assurdità di affermazioni del tipo «Il dottore Gratteri […], nel distretto di Catanzaro sta affrontando una situazione che è assolutamente analoga a quella che nei primi anni Ottanta affrontò il primo pool antimafia di Palermo, ecco perché col processo “Rinascita Scott” si arriva a […] numeri così alti di ordinanze di custodia cautelare e di imputati: la situazione (odierna) della Calabria è, da un punto di vista criminale, paragonabile a quella della Sicilia dei primi anni Ottanta», specie se ascrivibili non già a un oscuro «menante», addetto alla bassa cucina in qualche redazione giornalistica, quanto piuttosto a colui che ha sostenuto l’accusa nel processo palermitano relativo alla cosiddetta «Trattativa Stato-Mafia» e che, dunque, solo per questo dovrebbe sapere cosa accadeva nella Sicilia degli anni a cavallo del 1980, e cosa abbia rappresentato il maxi-processo istruito da Giovanni Falcone, nei confronti del Gotha e dei gregari di Cosa nostra a partire dalla prima metà degli anni Ottanta.
Accusato di aver nascosto le prove sui legami tra mafia e politica, di non aver indagato su Salvo Lima dopo le dichiarazioni del pentito Francesco Marino Mannoia, di essersi fermato sulla soglia del cosiddetto «terzo livello», Giovanni Falcone rilasciò un’intervista a Giovanni Bianconi, pubblicata sul quotidiano La Stampa del 6 settembre 1991, nella quale, affermato innanzitutto come sia sempre necessario «distinguere le valutazioni politiche dalle prove giudiziarie», chiarì che «sotto il profilo penale non si poteva fare di più», là dove si fosse voluto «interrompere la solita trafila con cui si era andati avanti per decenni: omicidio eccellente, indagini che non portano a specifiche responsabilità per quel delitto, imputazioni collettive generiche, lunghe istruttorie con la carcerazione preventiva e poi proscioglimenti e assoluzioni per tutti»; ribadendo, dunque, che un’indagine antimafia, la quale aspiri ad approdare a qualche risultato utile, «dev’essere improntata a rigore, ma anche a cautela».
Alla temeraria obiezione giusta la quale «proprio questo avrebbe potuto riportare l’antimafia al solito tran tran burocratico», avanzata magari da «un sindaco che per sentimento o per calcolo» avendo cominciato «ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso», anche se avesse dedicato tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne avesse mai trovato per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministrava, si sarebbe potuto «considerare come in una botte di ferro». la replica di Giovanni Falcone fu tranchant: «Io dico che bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale. In questo modo l’Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba. In una Sicilia dove non ci sono altri esempi che l’illegalità, occorre far vedere che il diritto esiste. Buscetta, puntandomi la mano contro, una volta mi disse: “Io accuso voi magistrati con due dita, come fanno gli arabi per indicare una colpa gravissima. Avete creato dei mostri dando rilievo a personaggi di scarso peso, mentre in realtà i veri capi non li avete toccati”».
A proposito del rigore e dello scrupolo garantista di Giovanni Falcone, valga la testimonianza del prof. Sergio Mattarella nell’intervento che pronunciò, quale presidente della Repubblica, il 23 maggio 2017: «Ho conosciuto il giudice Falcone prima ancora che l’eco delle sue inchieste lo rendesse famoso in Italia e all’estero. Ne ho seguito l’impegno messo in opera nella sua attività giudiziaria. Con quella sua attività ha impresso una svolta all’azione della giustizia contro la mafia. Anzitutto con il suo metodo di lavoro, con il suo modo di svolgere le inchieste. Nei primi tempi veniva talvolta criticato, dicendo che operava come un agente di polizia più che come un magistrato, una sorta di sceriffo. Non era vero: il suo era un metodo moderno, più dinamico, più attivo di quanto fosse abituale, ma manteneva forte e inalterato lo stile e il carattere del magistrato, attento, fino allo scrupolo, alla consistenza degli elementi di prova raccolti. Le sue inchieste, difatti, erano contrassegnate da grande solidità; e le sue conclusioni venivano sempre condivise dai Tribunali e dalle Corti giudicanti». Evito, pietatis causa, ogni notazione sul modus procedendi e sui risultati troppo spesso effimeri delle roboanti indagini di Nicola Gratteri, «evanescenti» sicut umbra lunatica.
Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione
Da tpi.it il 20 maggio 2022.
A 30 anni dalla Strage di Capaci, il settimanale “The Post Internazionale - TPI” (diretto da Giulio Gambino) nel numero in edicola da oggi, venerdì 20 maggio, pubblica in esclusiva un documento inedito che rivela come apparati dello Stato abbiano sorvegliato Giovanni Falcone.
L’appunto in questione è stato inviato dall’allora capo della Criminalpol Luigi Rossi al ministro dell’Interno Antonio Gava per informarlo dei contenuti secretati dell’interrogatorio del 7 aprile 1990 di Falcone a Licio Gelli. Il documento, conservato presso l’Archivio centrale di Stato di Roma, proviene dalle carte del Ministero dell’Interno declassificate dalla Direttiva Renzi del 2014. Si tratta di un solo foglio appartenente a una serie di “corrispondenze con le questure”. In alto, allegato all’appunto, appare una nota di saluti. Oltre al già citato capo della Criminalpol, che indirizza l’appunto direttamente al ministro Gava, nel documento figura un’altra persona la cui firma è illeggibile. A chiudere la nota compare anche una raccomandazione che avvisa il ministro del carattere di segretezza delle informazioni.
«Non ricordavo di un interrogatorio di Falcone a Gelli. Certamente la comunicazione del contenuto dell’interrogatorio coperto da segreto al ministro non è attività consentita a norma di legge. È lecito supporre che Falcone fosse “tallonato” in questo filone di indagini e che si temesse che potesse scoprire qualcosa che doveva restare segreto». A essere così esplicito è l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato che - da poco smessa la toga - commenta con TPI le finalità del documento che non conosceva.
L’ex prefetto Luigi Rossi, interpellato dal settimanale sulla vicenda, non ricorda nulla di quell’interrogatorio, né ricorda - come è indicato sullo stesso appunto - di aver fatto consegnare lui stesso la nota con le notizie riservate al ministro Gava. «È passato troppo tempo e io sono ormai vecchio, non posso esserle utile, chiedete a De Gennaro».
«Io - risponde a TPI l’ex ministro dell’Interno Vincenzo Scotti - succedetti a Gava, e né Falcone (come è giusto) né Parisi me ne parlarono. Nessun documento mi fu mostrato al riguardo, né tanto meno questo che state pubblicando. È un tipo di informazione anomala. Non fui mai interrogato su questa vicenda durante il processo trattativa Stato-mafia dove testimoniai. Ribadisco che non era e non è normale informare il ministro di un'attività coperta da segreto istruttorio
Capaci, il cratere della Repubblica. Giovanni Falcone era pericoloso per la mafia e per il sistema. È la ragione per cui, 30 anni dopo, le “menti raffinatissime” sono ancora senza nome. Francesco La Licata su L'Espresso il 19 Maggio 2022.
La strage di Capaci è avvenuta trent’anni fa, ma tutto questo tempo non è servito a modificare una verità che resiste ad ogni tentativo di smentita: Giovanni Falcone non solo non è stato protetto dallo Stato che lui serviva, anzi, è stato lasciato solo nelle mani di assassini criminali che hanno agito al riparo di coperture offerte da una parte di un sistema politico-finanziario che ha sempre ritenuto quel giudice «pericoloso».
Dannoso per la stabilità di un blocco economico compromesso dalla scelta del quieto vivere adottata nei confronti di poteri mafiosi e corrotti. Ed è per questo che più di un quarto di secolo non è bastato a schiodare le indagini e i processi sulla strage (ripetuta meno di due mesi dopo in via D’Amelio) dalle catene che impediscono un salto di qualità tale da superare il livello dei macellai di Corleone per afferrare il filo che porterebbe ai piani alti, a quelle «menti raffinatissime» che lo stesso Falcone evocò di fronte al tritolo a lui destinato, ma che rimase miracolosamente inesploso sulla scogliera dell’Addaura il 21 giugno del 1989.
Oggi sono tanti quelli che “scoprono” la solitudine di Giovanni Falcone, persino qualcuno di quelli che operarono per scavargli attorno il vuoto si adopererà per celebrare il trentennale di quello che è stato definito «il nostro 11 settembre». Ma questo fa parte del gioco ormai consolidato dell’ipocrisia e del cinismo politico. Fu Falcone a dire che dopo un tentativo di omicidio la prima telefonata di solidarietà arriva dal mandante. E aveva appena parlato con Giulio Andreotti, dopo l’attentato dell’Addaura.
Bisogna conoscere la nostra storia, la storia del giudice più avversato da prima, seconda e terza Repubblica per cogliere appieno il senso della solitudine di Giovanni Falcone e la grandezza di un uomo rimasto fedele ai propri principi di etica istituzionale anche davanti all’evidenza di un sistema che non lo amava e non vedeva l’ora di liberarsene.
Falcone arrivò a Palermo alla fine del 1979: veniva da Trapani e si lasciava alle spalle le macerie di un matrimonio fallito. Il suo primo approdo, dunque, fu «u Palazzu», il palazzo di giustizia: la riproduzione esatta della società palermitana, coi suoi troppi vizi e le poche virtù. E non ci volle molto a capire quanto quel mondo fosse insofferente verso un magistrato così diverso da quella palude da essere immediatamente bollato come una «anomalia palermitana». Perciò nella classica rappresentazione della città il giudice divenne il centro dell’ironia e del sarcasmo, diretti a demolire una persona prima che riesca ad imporsi all’attenzione.
Fu chiamato Nembo Kid, sceriffo, fenomeno e guardato con l’attenzione di chi attende che da un giorno all’altro l’anomalia possa compiere un passo falso ed esserne travolto. Perché tanta avversione? Certo, c’entra la miseria umana, l’invidia, la difesa di tante carriere immeritate messe a repentaglio da un bravo magistrato. Non a caso i suoi più fieri avversari palesi sono stati alcuni colleghi. Ma non era solo miseria umana. C’era qualcosa di più importante e profondo: Falcone andava a rompere un “giocattolo” che resisteva da molti decenni. Il giudice cercava di incastrarsi, come una zeppa nel meccanismo di un carillon, dentro un’alleanza consolidata tra potere mafioso, politico ed economico. Già, i soldi, i «piccioli» che sono un terreno scivolosissimo, un santuario da non sfiorare.
Palermo brulicava di palazzi venuti su coi soldi dell’eroina, su quegli interessi Cosa nostra aveva già sparso il sangue di una guerra, ma la droga era come non esistesse e i palazzinari (insieme coi bravi imprenditori dell’indotto) si presentavano come onesti impresari che davano lavoro e contribuivano al benessere collettivo. Mafiosi di primo livello, come i cugini Ignazio e Nino Salvo grandi esattori in mezza Regione, erano omaggiati e riveriti. Politici collusi, come i Lima, i Gioia, i Ciancimino finivano sulle colonne del giornale L’Ora ma non nelle sentenze che abortivano puntualmente per insufficienza di prove.
Immaginiamo, perciò, cosa può essere accaduto in quel ginepraio quando Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruzione succeduto a Cesare Terranova ucciso da Cosa nostra, affida a Falcone l’inchiesta sul costruttore Rosario Spatola, esponente della famiglia mafiosa di New York (Charles Gambino) socio degli Inzerillo e «custode» dei segreti del bancarottiere Michele Sindona, investitore delle ricchezze della mafia italo americana. Un uomo tanto potente da aver potuto tentare il ricatto su Giulio Andreotti a cui chiedeva aiuto per non fare fallire la propria banca.
Mentre Chinnici metteva nel mirino i cugini Salvo di Salemi, Falcone apriva un mondo: il sistema con cui mafiosi e imprenditori si scambiavano i proventi dell’eroina attraverso un fitto giro di assegni circolari. Il giudice, come se fosse una cosa “normale”, chiese ai dirigenti delle banche coinvolte le distinte di tutte le operazioni. Apriti cielo. Intervenne persino la Procura generale per contestare a Chinnici e Falcone che «così non si fa perché così si rovina l’economia siciliana». Eccolo il punto di rottura, il ritornello che andrà avanti fino al 23 maggio 1992, quando risulta impossibile fermare Falcone “politicamente” e si sceglie lo scenario di guerra di Capaci.
Falcone è un pericolo per l’economia: lo dicono tutti, lo scrivono sui giornali, ne fanno dibattito politico, come quando il giudice alzerà il tiro affermando, durante un convegno a Villa Igiea, che «la mafia è entrata in Borsa» alludendo alle penetrazioni mafiose dentro la holding di Raul Gardini.
La guerra al «giudice sceriffo» viene portata avanti in tanti modi: sui giornali in primis, ma anche con strumenti inusuali come ad esempio lo sciopero degli edili di Palermo, dopo l’arresto di Rosario Spatola, che protestavano contro i giudici che «tolgono il lavoro». Stessa sceneggiatura in difesa dell’ex sindaco Dc Vito Ciancimino: un corteo funebre con tanto di bara, a rappresentare la morte economica della città.
Racconteranno alcuni collaboratori di giustizia che c’era un gran fermento attorno alle segreterie politiche e sempre con all’ordine del giorno «il problema Falcone» e l’economia da salvare. I Salvo smuovevano santi ad alto livello ma con scarso successo: Chinnici era già saltato in aria con un attentato «libanese» alla vigilia dell’emissione di due mandati di cattura nei loro confronti. Si dice che nella stessa riunione operativa in cui si pianificò l’attentato al capo dell’ufficio istruzione si decretò la morte di Giovanni Falcone. Una “sentenza” sempre rinviata probabilmente perché mancava l’input dei piani altissimi.
Provavano a neutralizzarlo senza “botti”. Francesco Di Carlo, ex boss divenuto collaboratore di giustizia, ha raccontato al giornalista Enrico Bellavia di essere stato contattato, mentre era detenuto in Inghilterra, dai servizi segreti italiani che gli chiedevano se fosse a conoscenza di qualche «notizia» su Falcone che ne avrebbe potuto compromettere la figura e la carriera. Secondo il pentito, anche quei funzionari perseguivano l’obiettivo di macchiare l’immagine di Falcone e liberare così l’economia da un pericolo costante.
Ascoltando simili racconti non si può fare a meno di pensare ai tentativi di «demolire il mito»: ed ecco le lettere del Corvo, gli anonimi che accusavano Giovanni Falcone addirittura di aver consentito al pentito Salvatore Contorno di farsi giustizia privata uccidendo qualcuno dei suoi nemici corleonesi. E tutte le «estati dei veleni» che hanno visto il giudice al centro di vere e proprie «indagini» del Csm sul suo conto. Per non parlare delle numerose stroncature inflitte alla sua carriera; dal posto negato di consigliere istruttore, alla bocciatura alle elezioni per entrare a far parte del Csm, fino alla vigilia della morte con l’avversione, anche della sinistra, alla carica di Procuratore nazionale antimafia.
Ci sono coincidenze inquietanti nel declino di Falcone e sempre legate, in qualche modo, ai soldi. All’Addaura, quando gli misero 75 candelotti di esplosivo sotto casa, era in compagnia della collega svizzera Carla Del Ponte e con lei pianificava una inchiesta con al centro il riciclaggio dei miliardi della droga. Il giudice intuì l’importanza di quella minaccia e, mentre veniva schernito e indicato come l’autore del fallito attentato contro se stesso (per far carriera!), indicava la strada del «gioco grande» (parole sue) e delle «menti raffinatissime», svelando che lo scontro non era più coi quattro boss ma si spostava ben più in alto. Tanto in alto da fargli dire ad un amico giornalista: «Non dovevo andare al colloquio con Bush». In effetti il giudice poche settimane prima era stato convocato a Roma dal presidente Bush (senior) e invitato a un colloquio privato. Inutile dire che nessun particolare volle mai aggiungere alla frase che si era lasciato scappare.
Tre anni dopo, nel 1992, Giovanni Falcone era direttore degli Affari penali al ministero della Giustizia, ma non si sentiva al sicuro, anzi percepiva una sorta di pericolo incombente. A gennaio, dopo il trionfo per la sentenza della Cassazione che gli dava ragione su tutto, la sua fedele amica, Liliana Ferraro, organizzò un brindisi. «Abbiamo vinto». Falcone sorrise malinconico, lasciandosi sfuggire: «Adesso viene il peggio». Aveva capito che quella sentenza avrebbe fatto da detonatore ad una reazione che nessuno avrebbe potuto controllare. Era bravo, il giudice, a prevedere le “coincidenze”. Intuì pure cosa si sarebbe scatenato dopo l’assassinio dell’ex sindaco di Palermo, Salvo Lima. «Adesso - spiegò all’amico magistrato Gannicola Sinisi - può accadere veramente di tutto».
Coincidenze, certo. Come la sua fine clamorosa, in un attentato cinematografico che è l’operazione più lontana dalla cultura criminale di Cosa nostra, proprio mentre l’economia italiana, i partiti, il Parlamento implodono sotto i colpi dell’altra iattura nazionale: la corruzione scoperchiata dalle indagini dei magistrati di Milano. Coincidenza pure che quella strage, la strage di Capaci, riesca a sbloccare il Parlamento impantanato nel braccio di ferro sul nome di Giulio Andreotti alla presidenza della Repubblica. Troppe coincidenze generano un dubbio.
“Quando Falcone cominciò a morire”. L’articolo di Pansa che ha raccontato la delegittimazione del giudice. L'Espresso il 19 Maggio 2022.
Questo pezzo fu pubblicato da L’Espresso del 7 giugno 1992. Nella rubrica “Bestiario” si passò in rassegna con il rigore del cronista il clima intorno al magistrato e al pool. Annotando anche l’ondivaga lettura “politica” dei vari fronti. Di Giampaolo Pansa
Giovanni Falcone lasciato solo davanti ai suoi carnefici? Falcone ucciso moralmente da quanti lo calunniavano? Se questo è vero, Falcone ha cominciato a morire molti anni fa. Il 13 aprile 1985, dieci mesi prima che a Palermo abbia inizio il maxiprocesso a Cosa Nostra, intervistato da Repubblica, Falcone descrive così l’ambiente che gli sta intorno: «Il clima è tale che spesso bisogna stare attenti anche alle persone che ti circondano».
Contro il pool di Palermo è in atto una campagna con due obiettivi. Il primo è mettere a rischio la vita dei pentiti. Dice Falcone: «C’è persino chi obbietta sull’opportunità di custodire i pentiti nelle strutture extracarcerarie. Quante ne sono state dette e scritte! Che conducono una vita da nababbi, che pasteggiano a champagne.
Quando avevamo Buscetta in Italia, subimmo pressioni affinché il boss venisse rinchiuso in un regolare istituto di pena». Il secondo obiettivo della campagna, spiega Falcone, è il maxiprocesso: «Sorprende, in particolare, un’affermazione che viene fatta ad alto livello secondo la quale i maxiprocessi costituiscono una risposta rudimentale al fenomeno della criminalità organizzata. Sono sorpreso e, debbo dirlo, amareggiato». Nell’agosto 1985, intervistato da Panorama, Falcone ritorna sul tema della campagna contro il pool antimafia. Dice: «Certe manovre sono passate addirittura dalla stampa. Quando avevano cominciato a parlare i pentiti di basso rango, si è cercato di screditarli definendoli pazzi. Poi sono arrivati i grandi pentiti come Buscetta e Contorno. E allora si è passati a invocare il garantismo. Un termine che suona perlomeno strano in una città come Palermo, che ha il record mondiale delle assoluzioni per insufficienza di prove». All’inizio del 1986, quando il maxiprocesso sta per aprirsi, sul Giornale di Sicilia avvocati e docenti universitari si scatenano: «I processoni diventano inquisizione»; «i processi mastodontici non danno alcuna grande garanzia nell’accertamento della verità»; «nel maxiprocesso il giudice istruttore confonde il suo ruolo con quello dell’accusatore»; la normativa sui pentiti determina «una situazione aberrante in cui il processo penale degrada ad arnese di polizia, ad espediente di caserma dove trovano posto spie, delatori, confidenti, criminali promossi a collaboratori di giustizia».
Due anni e mezzo dopo, a giudizio concluso, Alfonso Giordano, presidente del maxiprocesso, dice al Corriere della Sera: «Alzando la bandiera del garantismo, sono state scagliate, soprattutto a Palermo, odiose campagne di stampa contro I giudici che hanno creduto nel loro lavoro mirando al cervello di Cosa Nostra». L’intervista è del 1° agosto 1988. In quei giorni è in atto un’ennesima campagna contro Falcone e gli altri magistrati del pool che si contrappongono al nuovo capo dell’ufficio istruzione, Antonino Meli. Il 31 luglio, il Giornale di Milano descrive i giudici del pool così: «Super-magistrati, super-scortati e super-specializzati nello scardinamento delle cosche», «un ristretto e impenetrabile club di toghe», giudici «ammantati di speciali meriti antipiovra». Su tutti campeggia Falcone, ossia «Mito», «Fenomeno», «Falconcrest»: «La sua scorta è leggendaria», «la stampa l’ha intervistato a più riprese e osannato». Ma dietro Falcone chi c’è? Il Pci, naturalmente. Scrive il Giornale: «I comunisti mirano a controllare l’antimafia e appoggiano a spada tratta i magistrati-personaggio della cordata Falcone». [...] Il 2 agosto 1988, ancora il Giornale giudica così il lavoro di Falcone e del pool: «Indagini che vanno a rilento. Inchieste che mancano il bersaglio. Rinvii a giudizio che si trasformano in clamorose assoluzioni». Il 3 agosto compaiono altri due capi d’accusa: «Cultura del sospetto» e «oltranzismo antimafioso».
Quel giorno, il Csm decide di non decidere tra Meli e Falcone. [...] In attesa del secondo round davanti al Csm, continua il martellamento de il Giornale su quello che viene chiamato «il clan dei pool antimafia». La deputata democristiana Ombretta Fumagalli Carulli stampa a ripetizione atti d’accusa contro Falcone. Spiega che negli uffici giudiziari di Palermo trionfa un clima «maccartista», per fortuna contrastato da Meli, «magistrato spigoloso e tradizionale anche nella sua ostinazione d’inceppare quel meccanismo perverso». Il 14 settembre 1988, nel giorno della seconda salomonica decisione del Csm, il consigliere Vincenzo Geraci, sostenitore di Meli, dice alla Stampa: «Questi pool possono facilmente trasformarsi per la loro compartimentazione in tanti corpi separati e riservati all’interno della magistratura». Il giorno dopo, il senatore radicale Gianfranco Spadaccia dichiara: «L’impegno del giudice Meli di attenersi alla legge è l’unica affermazione rassicurante in un periodo in cui ci siamo dovuti abituare a giudici che invece teorizzavano la violazione della legge. La mafia non si può vincere con sistemi mafiosi». [...] Passano altri due mesi, e il 23 novembre 1988 il pool di Falcone è raso al suolo dalla sentenza della Cassazione che nega la struttura unitaria di Cosa nostra. Nel suo commento su il Giornale, la deputata Fumagalli si scaglia ancora una volta contro Falcone, «che riteneva d’essere il solo a poter distinguere il grano dal loglio, con evidenti pericoli di condizionamenti anche politici. Pure il Corriere della Sera è acido nei confronti di Falcone. Nell’articolo di fondo del 25 novembre si legge: «Falcone ha appannato il ricordo dei risultati conseguiti con la presunzione ostentata della sua indispensabilità». [...] Nel gennaio 1989, il pool non esiste più. Falcone è solo. Politici e giornalisti ricevono lettere anonime che lo diffamano. Dicono i “corvi”: per diventare il numero tre della procura palermitana, Falcone si sta mettendo d’accordo con chi ha distrutto il pool.
Poi, il 21 giugno 1989, l’attentato con la bomba al villino dell’Addaura. L’ordigno non esplode, ma raggiunge il risultato di far apparire Falcone un morto che cammina. Un morto-vivo senza pace. In ottobre, infatti, Falcone viene sospettato d’una scorrettezza grave: quella d’aver informato Andreotti che le rivelazioni del pentito Giuseppe Pellegriti su Salvo Lima sono soltanto calunnie. È il Giornale a picchiare con più foga su questo chiodo. Ecco una batteria di titoli: «Falcone rassicurò Andreotti: una calunnia l’accusa a Lima», «II Pci in rotta con Falcone per la sua “clemenza” con Lima», «A Ferragosto a Cortina Falcone chiamò Andreotti», «Perché Falcone chiamò Andreotti a Cortina?». Trascorrono altri mesi e Falcone si trasferisce a Roma, accanto al ministro Martelli. Cominciano le polemiche sulla superprocura e su Falcone. Ecco quel che il 29 ottobre 1991 scrive sul Giornale di Napoli, di area socialista, il direttore Lino Jannuzzi, a proposito del magistrato e del questore Gianni De Gennaro, «già anima nera di Falcone a Palermo» e candidato a dirigere la Dia, l’Fbi italiana: «È una coppia la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il pentitismo e i maxiprocessi, ha approdato al più completo fallimento: sono Falcone e De Gennaro i maggiori responsabili della débacle dello Stato di fronte alla mafia. Se i politici sono disposti ad affidare agli sconfitti di Palermo la gestione nazionale della più grave emergenza della nostra vita, è, almeno entro certi limiti, affare loro. Ma l’affare comincia a diventare pericoloso per noi tutti: da oggi, o da domani, quando si arrivasse a queste nomine, dovremo guardarci da due “Cosa nostra”, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto». Domenica 24 maggio 1992, sempre Jannuzzi scrive in morte del magistrato: «La mafia ha fatto un favore ai nemici che Falcone aveva all’antimafia». Amen, così è una certa ltalia oggi. Riposi in pace, caro dottor Falcone.
TeleJato chiude dopo 33 anni: è fuori dalla graduatoria del nuovo digitale terrestre. Il fondatore Pino Maniaci: “Non ci ha spento la mafia ma lo Stato sì”. CHIARA BALDI su La Stampa il 5 maggio 2022.
Se glielo avessero chiesto nel 1989 che fine avrebbe fatto la sua TeleJato – emittente siciliana appena nata – Pino Maniaci tutto avrebbe potuto pensare tranne che sarebbe finita così: spenta per colpa della burocrazia statale. Eppure oggi il fondatore e direttore di questo canale televisivo che tanto ha fatto parlare di sé in questi oltre 30 anni di notizie, inchieste, minacce, rischi di chiusura e quant’altro, ne deve prendere atto: TeleJato non trasmetterà più. La ragione è che la piccola emittente, che opera nel territorio tra Partinico e Corleone, non è stata ammessa nella graduatoria del nuovo digitale terrestre. Un rischio che dieci anni fa, quando ci fu la corsa al digitale terrestre, Maniaci e i suoi riuscirono a scampare: se TeleJato sopravvisse fu per le proteste e perché riuscì a inserirsi in un consorzio. Ma oggi è andata diversamente. «Non c'è riuscita la mafia coi suoi attentati a farci chiudere, non ci sono riusciti pezzi del tribunale di Palermo e ci riesce lo Stato. Le nostre frequenze sono state vendute al 5g. In Sicilia ha vinto l'appalto la Rai, in altre regioni Mediaset. Adesso per avere un canale tutto nostro è davvero tutto più difficile», dice amaro Pino Maniaci, classe 1953, che la dirige dall’inizio, quando l’ha fondata nel 1989. «Al momento – spiega Maniaci – trasmettiamo in streaming sul sito Telejato.it sui canali social e siamo riusciti ad avere su Tvm alcune finestre per i telegiornali che vanno in onda alle 14 alle 15, dalle 20.30 alle 21.30 e da mezzanotte all'una. Ho promesso alla responsabile della televisione di fare un telegiornale più soft per evitare di allungare la sfilza di oltre 380 querele che mi sono preso in questi anni». Su Facebook Maniaci ha scritto un post, aggiungendo il link di alcuni servizi fatti, per chiedere sostegno: «Oggi è una giornata dolorosa. Volevo non arrivasse mai questo 5 maggio ma purtroppo eccoci qui. Quelli che vedete in questo video sono i nostri impianti e oggi a me è toccato il compito più duro, quello di staccare tutto. Da questo momento in poi il segnale di TeleJato Notizie è spento. Stentiamo ancora a crederci ma purtroppo questa è la realtà dei fatti. Un grazie dal profondo del cuore va a tutte le persone che in questi anni hanno collaborato con noi, a chi è rimasto, a chi ogni tanto torna, a chi non c'è più, a chi continuerà ad esserci. Però non posso, non voglio pensare che sia tutto finito. Noi siamo pronti a ripartire, anzi, non vediamo l'ora ma per passare al nuovo digitale terrestre, lo sapete, servono quarantamila euro. Questo è l'ennesimo appello che rivolgo a voi, fedeli telespettatori: non lasciateci soli. Abbiamo ancora tante cose da raccontarvi». Nel post sono anche inseriti link e coordinate bancarie per chiunque voglia sostenere l’emittente. Ma la battaglia di Maniaci – che negli anni ha affrontato più di una querela e più di un processo – non è solo per la sua TeleJato, bensì anche per le altre tv nella stessa situazione. «Per avere un canale tutto mio servono 40 mila euro – aggiunge –. L'unico gruppo che ha la possibilità di affittare un canale è Trm, che chiede 3.500 euro al mese. Abbiamo iniziato una sottoscrizione che sta andando bene. Ma questa non può essere la strada. Anche perché noi non vendiamo tappetti o elettrodomestici, facciamo informazione e abbiamo grossi limiti pubblicitari. In questi giorni, in queste settimane continueremo a lottare perché non vogliamo sparire».
Dal delitto Mattei agli attentati contro Falcone e Borsellino: il libro nero delle stragi di Stato. Il Fatto Quotidiano l'1 dicembre 2021.
Pubblichiamo l'introduzione del Libro nero delle stragi di Stato di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, edito da Chiarelettere. Il volume ripropone in edizione unica quattro libri degli stessi autori: L'agenda rossa di Paolo Borsellino, Profondo nero, L'agenda nera della Seconda repubblica, DepiStato. Il risultato è un'inchiesta completa sullo stragismo italiano con radici mafiose e il suo carico di complicità istituzionali.
La parresia è un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità e rischia la propria vita, perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio. Nella parresia il parlante fa uso della sua libertà e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale.
Non c’è bisogno di scomodare la «parresia» di Michel Foucault o le sue analisi del discorso pubblico con la zona di «indistinzione tra visibile e dicibile» per confessare di avere iniziato a scrivere insieme libri nel 2006 sulla spinta di una considerazione tanto banale quanto evidente a tutti: la diffusione di informazioni parziali e fuorvianti sull’arresto, dopo quarantatré anni di latitanza, del capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano, spacciato come l’ultimo padrino al vertice di una mafia agreste, che in un casolare del corleonese tra ricotta e cicoria governava i «picciotti» con l’uso di pizzini sgrammaticati. Una visione tranquillizzante di una mafia ormai sconfitta dalla forza dello Stato di diritto, severo ed efficace nel reprimere ogni pulsione mafiosa originata dalla stagione delle stragi, trasmessa a reti unificate, pubbliche e private, e particolarmente sottolineata dal Tg2 che il giorno dopo l’arresto portò a Montagna dei Cavalli, nel covo corleonese del boss, le telecamere di Anna La Rosa, accompagnata dal senatore Beppe Lumia, per mostrare ai telespettatori italiani il materasso senza lenzuola, le caciotte appese al muro e il televisore affidato a un’antenna fatiscente, esposta ai capricci del vento, unico collegamento del superlatitante con la realtà del mondo esterno.
Una visione che non ci convinse per nulla e che in quei giorni ci spinse a scrivere un libro, Il gioco grande. Ipotesi su Provenzano, che non compare in questa raccolta perché pubblicato da un altro editore: «Quella che i media ci hanno raccontato» scrivevamo nell’introduzione «è la favola della mafia a una dimensione; la storia minimalista di Provenzano, il padrino di una mafia arcaica e pretecnologica che tra lupara e cicoria ha concluso la sua parabola lontano dagli scenari occulti e ufficiali del potere…». E poi: «Lo Stato esulta perché ha catturato Provenzano, i media celebrano la sconfitta della mafia, la borghesia mafiosa gioisce alla scoperta che la verità della mafia è quel profilo basso di “pizzo” e “pizzini” sbandierando finalmente la prova che tutto il resto (trame occulte, mandanti occulti) esiste solo nelle cervellotiche ricostruzioni fantagiudiziarie». Una riflessione che in molti si affrettarono a bollare come fantasia di complottisti, termine abusato in questi ultimi decenni per descrivere l’approccio all’analisi di dinamiche sociali attraverso la chiave di lettura di un fenomeno, il complotto, che (come ben sanno gli storici in polemica con noi) ha costantemente fatto parte della storia italiana dai tempi di Machiavelli e dei Borgia. Vista l’evoluzione degli avvenimenti negli ultimi settant’anni forse è il caso di aggiornare anche il lessico corrente, sottraendo a questo termine l’accezione di riprovazione e scandalo e restituendogli il significato originario di intrigo, macchinazione, cospirazione criminale di natura sistemica.
Il numero, le dimensioni e il livello delle protezioni politiche e delle coperture giudiziarie e investigative che hanno segnato la lotta alla mafia e la ricerca della verità sulle stragi sono, infatti, una componente strutturale della vicenda italiana, venuta a galla con il verdetto di primo grado del processo sulla trattativa Stato-mafia la cui riforma subita recentemente in appello non sembra mettere in discussione la ricostruzione storica operata dalla Procura di Palermo: per i giudici, infatti, il fatto (la trattativa o la minaccia veicolata fino al cuore di tre governi, lo si capirà dalle motivazioni) si è verificato, ma non è qualificabile come reato. La sentenza del 23 settembre 2021, promulgata dalla Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, precisamente, ha assolto gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno «perché il fatto non costituisce reato», e l’ex senatore Marcello Dell’Utri «per non aver commesso il fatto»: ha dunque tirato fuori quelle responsabilità penali individuali individuate in primo grado dal groviglio criminale della stagione delle stragi. Ma confermando contestualmente la condanna per i boss Leoluca Bagarella (ventisette anni, uno in meno rispetto al giudizio di primo grado) e Antonino Cinà (dodici anni), accusati di aver veicolato la minaccia mafiosa all’interno dello Stato, la Corte di Palermo ha convalidato, indipendentemente da ogni giudizio «a caldo» sul verdetto, il rapporto di continuità con quella prassi tradizionale di minacce e intimidazioni (sfociate nel 1992-1993 in una brutale aggressione terroristica) che aveva già indotto un magistrato consulente della commissione Antimafia, Antonio Tricoli, a sostenere in una relazione depositata il 12 luglio 2012 a palazzo San Macuto, come «per la difficile e travagliata cogestione del potere si è sempre addivenuti alla stipula di compromessi o patti informali anche ai limiti della legalità», fino a giungere al punto in cui «la trattativa con la criminalità è diventata quasi consuetudine».
Ma se questa componente strutturale è un dato consacrato in migliaia di atti parlamentari, fin dal 5 luglio 1950, giorno dell’omicidio del bandito Giuliano (la cui versione ufficiale venne smentita pochi giorni dopo da un articolo de «L’Europeo» firmato da Tommaso Besozzi), quello che in Italia non si era mai visto in diretta era il cammino verso la morte di un dead man walking. Per cinquantasei lunghissimi giorni, tra il botto di Capaci e l’orrore di via D’Amelio, Paolo Borsellino andò consapevolmente incontro al suo martirio davanti alle telecamere di giornalisti italiani e stranieri che facevano a gara per intervistarlo, alle voci squillanti di membri del governo che si affannavano a indicarlo come l’unico erede di Falcone, salvifico per tutti, ai voti compatti dei parlamentari di un partito, Alleanza nazionale, che in quarantasette lo votarono contro la sua volontà, candidandolo al Quirinale. Per l’Italia ufficiale era l’eroe antimafia che avrebbe garantito la risposta dello Stato dopo Capaci vendicando il suo amico Falcone; per l’Italia sotterranea, ovvero nella consapevolezza di boss, picciotti e uomini degli apparati, era soltanto il prossimo agnello sacrificale. Quella frase «Satò macari Paluzzu» pronunciata dal boss Mariano Agate al botto del 19 luglio, udito da una cella dell’Ucciardone, a poche centinaia di metri da via D’Amelio, fu il sigillo della fine di un’attesa, l’ovvia conclusione di un dramma greco andato in scena in quella estate del 1992 davanti a milioni di telespettatori. L’eroe muore, e improvvisamente l’informazione italiana, come schiacciata dal peso di un segreto troppo fitto e intrecciato con le turbolenze istituzionali del passaggio tra Prima e Seconda repubblica individua la via d’uscita più semplice, ma meno onorevole: trasforma la cronaca in tragedia. E come i greci inventarono la tragedia per rappresentare la volontà degli dei nella punizione dell’eroe buono, facendone affiorare la consapevolezza senza spiegarne le ragioni, così l’informazione italiana ha ritenuto per decenni di indagare sui misteri di quella strage rappresentando l’orrore della sua violenza e i tributi alla memoria delle vittime, senza occuparsi delle ragioni che l’hanno determinata, dribblando i dubbi e ignorando i punti oscuri, concentrandosi solo sui «successi» investigativi di Arnaldo La Barbera, conseguenza del primo (e più grave) dei depistaggi che hanno segnato la Seconda repubblica.
Per qualche giorno, nel 2007, discutemmo se dare al libro L’agenda rossa un titolo diverso: Zona rimozione, con il doppio riferimento al provvedimento mai adottato dallo Stato per proteggere nel modo più ovvio il giudice Paolo Borsellino in via D’Amelio, ma soprattutto per sottolineare come già a pochi anni dalle stragi era in corso quella che il procuratore Roberto Scarpinato ha definito la «sagra della rimozione» collettiva, che a oggi impedisce di raccontare lo stragismo italiano con tutte le sue implicazioni politico-istituzionali, anche sotto i profili eversivi. Il volume L’agenda rossa non fu uno scoop, ma ebbe tra i lettori un effetto ancor più dirompente, perché per la prima volta i fatti (umani, professionali, istituzionali) contenuti, già noti a tutti, erano messi in fila raccontando il «contesto» drammatico e sconcertante di un uomo delle istituzioni, Paolo Borsellino, ultimo baluardo nella lotta contro un nemico invincibile (e solo in parte visibile), che non fu soltanto lasciato solo ma che negli ultimi cinquantasei giorni della sua vita fu stretto in un abbraccio mortale, e indicato come parafulmine da una classe politica ormai in via di dissoluzione, mentre in Parlamento gli allarmi sul pericolo di una stagione eversiva lanciati dal ministro dell’Interno Vincenzo Scotti venivano ridicolizzati dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti.
Era il 2007, la Procura di Caltanissetta aveva aperto due anni prima l’inchiesta sulla sparizione dell’agenda rossa dall’auto blindata tra le fiamme di via D’Amelio, sui giornali le parole di Vincenzo Scarantino venivano spacciate per verità granitiche fino a quando, l’anno successivo, un imbianchino di Brancaccio divenuto killer di fiducia dei boss Graviano, Gaspare Spatuzza, ribaltò la narrazione giudiziaria autoaccusandosi del furto della 126 usata come autobomba. Aspettammo due anni per scrivere L’agenda nera della Seconda repubblica, e raccontare la piccola storia ignobile di Vincenzo Scarantino, prototipo del capro espiatorio da laboratorio, individuato da Arnaldo La Barbera fin dai giorni dell’omicidio dell’agente Agostino (ucciso con la moglie a Palermo il 6 agosto 1989), riproposto in un identikit anonimo già nei giorni immediatamente successivi alla strage, allevato nelle «veline» dei servizi segreti, costruito dagli investigatori nei colloqui al carcere di Pianosa, e via via preservato e difeso con azioni ai confini della legalità nella sua incredibile e sconclusionata verità, pur tuttavia creduta fino ai massimi livelli della Cassazione.
In mezzo, nel 2009, scoprimmo su uno scaffale di una libreria romana, in largo Chigi, a Roma, un libretto giallo dal titolo accattivante Il Petrolio delle stragi scritto da un poeta pesarese, Gianni D’Elia. Dentro c’era raccontato per la prima volta il legame tra i delitti Mattei e De Mauro con l’omicidio Pasolini. Era un’intuizione in forma poetica, raccolta dall’archiviazione giudiziaria del pm di Pavia, Vincenzo Calia, ma sufficiente per mettere a fuoco i collegamenti, fino a quel momento ignorati, tra l’attentato più grave alla sovranità italiana, spacciato per decenni per un incidente aereo, l’omicidio di un giornalista che aveva indagato su quel mistero a Palermo e il pestaggio mortale dell’intellettuale apocalittico, l’unico in Italia a denunciare in presa diretta la strategia della tensione, indicandone i nomi dei responsabili e chiedendo un processo per i dirigenti di allora della Democrazia cristiana. Il libro Profondo nero, che apre questo volume, è stato un viaggio dentro il segreto del potere con radici siciliane, con il suo carico di omicidi e stragi, di ricatti incrociati e depistaggi, che ancora oggi rende quella italiana una cronaca inceppata, ancora arenata nelle secche della Storia, con molte appendici nei traffici di influenze e nelle corruzioni dei colletti bianchi, versione 2.0 di cappucci, grembiuli e compassi che oggi, come sessant’anni fa, continuano a segnare la vita di un paese, ormai entrato dentro i meccanismi di una tecnocrazia diffusa in tutto il pianeta, senza riuscire a scrollarsi di dosso il suo passato più ingombrante con una definitiva operazione verità.
Scritto nel 2019, infine, a ventisette anni da via D’Amelio, il volume DepiStato cerca di comprendere perché il livello della risposta giudiziaria per la strage Borsellino è ancora giudiziariamente tarato sulle responsabilità di tre poliziotti, ultimi anelli di una catena di comando coinvolta a livello decisionale nelle scelte, investigative e giudiziarie, che hanno trasformato un artigiano analfabeta in un provetto stragista, allontanando la verità per due decenni. Un ritardo che se ovviamente non fornisce la «prova regina» di quanto hanno sostenuto il presidente dell’antimafia siciliana Claudio Fava e il fratello del giudice assassinato in via D’Amelio, Salvatore Borsellino, e cioè che «a piazzare il tritolo furono gli stessi che hanno fatto sparire l’agenda rossa», consente di affermare senza timore di querele che quella di via D’Amelio fu una «strage di stato», come ha fatto l’avvocato Fabio Repici, assolto dal gip di Catania Stefano Montoneri dall’accusa di diffamazione nei confronti dell’ex procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone: quell’indagine, sottolineò il gip citando la sentenza del Borsellino Quater, nacque con un vizio d’origine, e cioè con un’iniziativa «decisamente irrituale» (ma in realtà da qualificarsi, più correttamente in lingua italiana, come «illecita», in quanto contraria a norme di legge) del procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra che già nella serata del 20 luglio 1992 chiese al numero tre del Sisde (Bruno Contrada) di collaborare alle indagini sulle stragi, sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria, e nonostante la normativa vigente precludesse al personale dei servizi di informazione e sicurezza di intrattenere rapporti diretti con la magistratura.
Oggi, a oltre settant’anni da Portella della Ginestra, la prima strage del dopoguerra, nel mainstream mediatico (tv e testate giornalistiche), l’informazione sulla mafia e sulle sue complicità è stata sostituita, tranne qualche eccezione, dalla fiction. E di quella stagione di bombe che hanno cancellato la Prima repubblica resta una memoria funzionale agli schieramenti in campo, spesso circoscritta solo agli addetti ai lavori. E la disattenzione progressiva dei media non può che suscitare un dubbio legittimo e inquietante: il sospetto che chi ha creato in questi anni una lunga teoria di depistaggi (non soltanto a partire da via D’Amelio) abbia brigato nell’ombra anche per condizionare un’informazione di per sé poco incline a deragliare dai binari tranquillizzanti dell’agenda politica del paese, orientando, calmierando e promuovendo di volta in volta le notizie funzionali ai propri disegni di conquista di spazi politico-istituzionali o di mantenimento di equilibri faticosamente raggiunti sul sangue dei servitori dello Stato.
È certamente singolare che l’informazione oggi così attenta alla scarcerazione di Giovanni Brusca e agli scivoloni, indotti o meno, delle parole pronunciate, peraltro autosmentendosi, dal pentito Maurizio Avola, che nega ogni partecipazione dei «servizi» in via D’Amelio, ignori quelle dei procuratori Giuseppe Lombardo e Gabriele Paci che nelle rispettive requisitorie, a Reggio Calabria e a Caltanissetta, hanno sottolineato i gravissimi ritardi e gli errori investigativi che hanno consentito alla ’ndrangheta di restare fuori per due decenni dal contesto stragista, pur essendo coinvolta sin dall’inizio, e al boss Matteo Messina Denaro di evitare un mandato di cattura per la strage di Capaci arrivato solo ventidue anni dopo nonostante quattro collaboratori (Giovanni Brusca, Balduccio Di Maggio, Vincenzo Sinacori e Vincenzo Ferro) avessero indicato fin dall’inizio il superlatitante trapanese come uno dei registi dell’attacco allo Stato. Negligenze gravi, come quelle sottolineate dal pg di Palermo Giuseppe Fici nel processo d’appello per la trattativa Stato-mafia, sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso, e sulla restituzione di tre cellulari mai ufficialmente sequestrati al suo guardaspalle, Giovanni Napoli, favoreggiatore del capo corleonese, custode della fortuna miliardaria del boss nel paese.
Mentre oggi sui social in molti si spingono a ipotizzare scenari stragisti in cui i mafiosi vestono i panni dei figuranti, esecutori di volontà esterne alle finalità stesse dell’organizzazione decimata dalla reazione dello Stato, alimentando di fatto le accuse di complottismo, questo libro che raccoglie settant’anni di cronache di massacri in un paese come l’Italia, dove un presidente del Consiglio che ha retto alternativamente le sorti di governo per oltre due decenni è indagato per strage a Firenze ed è chiamato in causa come socio da uno dei principali boss stragisti, serve anche a ricordare che la verità terribile di questi anni è ancora lungi dall’essere raccontata.
Come ha sottolineato il pg Giuseppe Fici nella sua requisitoria del processo d’appello sulla trattativa, riferendosi ai segreti delle coperture del boss Bernardo Provenzano: «Chi ha agito violando le regole lo ha fatto per la salvezza di un determinato assetto di potere. Anche a costo di calunniare degli innocenti, distruggendo famiglie e seminando dolore e lo ha fatto al di fuori delle dinamiche democratiche. Noi invece vogliamo capire. Lo dobbiamo a tutti i familiari delle vittime».
Montante: inchiesta bis; 13 rinvii a giudizio anche Crocetta. ANSA il 2 aprile 2022.
Tredici persone tra esponenti politici, rappresentanti delle forze dell'ordine e imprenditori coinvolti nell'ambito della cosiddetta inchiesta "Montante bis" sono state rinviata a giudizio dal Gup del Tribunale di Caltanissetta Emanuela Carrabotta.
Tra gli indagati oltre all'ex leader di Confindustria Sicilia Antonello Montante, anche l'ex presidente della Regione Rosario Crocetta, gli ex assessori Linda Vancheri e Mariella Lo Bello, l'ex commissario Irsap, Maria Grazia Brandara, gli imprenditori Giuseppe Catanzaro, gli imprenditori Rosario Amarù e Carmelo Turco, Vincenzo Savastano ex vice questore aggiunto della Polizia presso l'ufficio di frontiera di Fiumicino, Gaetano Scillia ex capocentro Dia di Caltanissetta, Arturo De Felice ex direttore della Dia, Giuseppe D'Agata colonnello dei carabinieri e Diego Di Simone Perricone ex capo della security di Confindustria. Sono accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere, corruzione, abuso d'ufficio e finanziamento illecito ai partiti.
Secondo l'accusa avrebbero fatto parte del cosiddetto "Sistema Montante" che ruotava attorno all'ex vice presidente nazionale di Confindustria con delega alla Legalità. La procura di Caltanissetta contesta anche presunti finanziamenti illeciti per sostenere la campagna elettorale dell'ex governatore Crocetta. (ANSA).
Breve storia dell’impunità mafiosa. Quando lo Stato legittimava la criminalità organizzata. di Isaia Sales (testo) , Carlo Bonini (coordinamento editoriale) e Laura Pertici (coordinamento multimediale). Produzione Gedi Visual su La Repubblica il 21 marzo 2022.
Il 21 marzo Napoli celebra la giornata nazionale della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia. La manifestazione, indetta da Libera (l'organizzazione di don Luigi Ciotti), si tiene da più di 25 anni ed è nata proprio a seguito di un commovente incontro del prete torinese con la madre di un poliziotto della scorta di Giovanni Falcone che gli aveva fatto notare come il nome del figlio ucciso non venisse mai ricordato.
Piero Rossano per corriere.it il 23 marzo 2022.
«Sai, ti stavo pensando. Spero di vero cuore che al più presto uscirò, così ti faccio saltare in aria. Ora lo dico a tutti, che se qualcuno esce prima di me ti deve sparare 10 colpi tutti in bocca, a te e a tutta la tua razza di merda». Una lettera con minacce di morte è stata indirizzata alla giornalista Maria Bertone, direttrice dei quotidiani Cronache di Napoli e Cronache di Caserta. A spedirla sarebbe stato l’ergastolano Giovanni Cellulare, 50enne di Aversa ritenuto affiliato al clan dei casalesi e detenuto nel carcere di Palermo. È stata la stessa Bertone a dare notizia dell’accaduto sui due giornali. La vicenda è stata denunciata alle forze dell’ordine.
Colleghi e istituzioni
A Maria Bertone per tutta la giornata di oggi sono giunti centinaia messaggi di solidarietà e vicinanza. A partire dall’Ordine dei giornalisti della Campania. Il presidente Ottavio Lucarelli si è recato a Marcianise, dove hanno la redazione i due giornali: «Nessuna minaccia può limitare la libertà di stampa e Cronache continuerà a raccontare i fatti senza alcuna paura — ha affermato —. Alla magistratura e alle forze dell’ordine, sempre attente ai giornalisti minacciati, l’invito a tenere alta la guardia soprattutto nei territori più a rischio per l’informazione».
Significativo anche l’intervento del presidente della Camera, Roberto Fico: «La mia solidarietà a Maria Bertone per le pesanti intimidazioni subite. Minacce inaccettabili che condanno con forza». Quindi quello del governatore della Campania, Vincenzo De Luca: «Siamo convinti che il direttore Bertone e l’intera redazione del quotidiano andranno avanti nell’esercitare il fondamentale di diritto di cronaca con l’autonomia e la libertà di sempre». Dello stesso tenore le affermazioni del sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi: «Un inaccettabile atto intimidatorio da condannare fermamente. Sono certo che Bertone proseguirà il prezioso lavoro giornalistico con la determinazione di sempre».
Il sindacato e la politica
Anche il Sindacato unitario dei giornalisti campani (Sugc), in una nota, ha espresso preoccupazione ricordando che la provincia di Caserta «si conferma uno dei territori più pericolosi per i giornalisti in Italia» e ritenendo «necessario che lo Stato dia una segnale forte in questo territorio, così come nell’area Nord di Napoli». «Un abbraccio solidale a Maria Bertone e a tutta la redazione di Cronache di Napoli e Cronache di Caserta — ha detto invece la deputata del Movimento 5 Stelle Teresa Manzo —. Le minacce della camorra a un presidio di legalità e di democrazia come un giornale sono inaccettabili. I giornalisti che si battono contro i clan, che tengono i riflettori accesi su processi e dinamiche malavitose tutti i giorni in citta’ difficili quali le nostre, sappiano che non sono da soli a combattere la battaglia per il nostro futuro».
«Piena solidarietà alla giornalista Maria Bertone per le inaccettabili minacce di morte ricevute. Gesti intimidatori e vigliacchi che vanno condannati con decisione ed estrema fermezza. Ci batteremo sempre per la libertà di stampa», sono state invece le parole di Edmondo Cirielli, questore della Camera e deputato salernitano di Fratelli d’Italia, Edmondo Cirielli. E Camilla Sgambato, componente della direzione nazionale del Pd e presidente provinciale del partito a Caserta, ha aggiunto: «Solidarietà e vicinanza a Maria Bertone, sicura che nessuna minaccia potrà mai spegnere la voce libera sua - aggiunge - e dei giornali che dirige, né fermare la voglia di riscatto e di liberazione di Terra di Lavoro e del napoletano dalla cappa del crimine organizzato».
Vincenzo Santangelo, consigliere regionale casertano di Italia Viva, ha scritto: «La mia solidarietà umana e la mia vicinanza istituzionale dopo la lettera di minacce ricevuta. La direttrice e i suoi giornalisti sappiano che tutte le istituzioni sono al loro fianco per consentire loro di continuare a raccontare il nostro territorio con il coraggio di sempre».
Il grande patto delle quattro mafie sulle scommesse online di Stato. L'Espresso il 21 marzo 2022.
Un cartello tra Cosa nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra corona unita per controllare un mercato da 100 miliardi di euro. Con porte girevoli tra sistema legale e illegale, tra colletti bianchi e conti esteri.
Questo articolo è pubblicato senza firma come segno di protesta dei giornalisti dell’Espresso per la cessione della testata da parte del gruppo Gedi. Tutte le informazioni qui
Nel suo ufficio di piazza Mastai, seduto dietro a una scrivania di legno massiccio imponente, Marcello Minenna, direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli fa i conti: «Dunque, stimiamo mancate entrate dal gioco illegale per 15 miliardi all’anno, quindi un giro d’affari in nero di circa 80 miliardi senza considerare l’indotto».
Marcello Minenna: «Non abbiamo abbastanza poteri contro le mafie nel business delle scommesse online». L'Espresso il 22 marzo 2022.
Il direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli interviene dopo l’inchiesta dell’Espresso sul cartello tra Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e sacra corona unita nel settore dell’azzardo: «C’è un problema normativo»
Questo articolo è pubblicato senza firma come segno di protesta dei giornalisti dell’Espresso per la cessione della testata da parte del gruppo Gedi. Tutte le informazioni qui
«Stimiamo un giro nel settore del gioco illegale che muove oltre 100 miliardi di euro e provoca minori entrare erariali, nelle casse dello Stato, per circa 15 miliardi di euro l’anno. È di tutta evidenza che di fronte a questo stato dell’arte dobbiamo avere delle regole amministrative coordinate e strumenti di vigilanza ancor più incisivi».
DA MALTA A CURACAO. Da Malta a Curacao: la mappa delle scommesse sportive online che piace alle mafie. IVO ROMANO E PIPPO RUSSO su Il Domani il 24 febbraio 2022
Il susseguirsi di operazioni di polizia contro il gioco illegale dimostra quanto radicato sia il fenomeno e quanto facile muoversi fra legalità e illegalità, ciò che consente alle mafie di cumulare profitti e riciclare denaro.
I paesi privilegiati per ottenere licenze offshore sono Malta e Curacao. Che stanno dando diversi gradi di collaborazione nella repressione del fenomeno: qualche (tardiva) collaborazione da Malta, nessuna da Curacao.
A preoccupare è soprattutto l’utilizzo di siti illegali da parte degli scommettitori italiani. Secondo un sondaggio quasi il 12 per cento conosce siti illegali e la tendenza a usarli si è incrementata durante il lockdown.
IVO ROMANO E PIPPO RUSSO
L’Antimafia: qui lo Stato non c’è. Morra: ci sono delle responsabilità endemiche, storicamente vecchissime. Il Quotidiano del Sud il 24 marzo 2022.
Ad Arzano un manifesto funebre, lo scorso 10 marzo, annunciò la morte del comandante della polizia locale. A Caivano, pochi giorni dopo, fu fatto esplodere un petardo davanti alla chiesa di don Maurizio Patriciello, al Parco Verde. A Frattamaggiore qualcuno ha sparato contro le vetrine di una pizzeria. E poi ci sono le minacce ai giornalisti, l’ultima domenica scorsa, in un bar di Arzano. Benvenuti nell’area a nord di Napoli: lì dove un comune entra nell’altro, dove la densità della popolazione è altissima e dove la camorra sembra aver preso il sopravvento.
Ieri, a Caivano, proprio nella chiesa di don Patriciello, si è riunita la Commissione parlamentare antimafia. E il presidente Nicola Morra, dopo aver ascoltato storie di minacce e di paura, non usa mezzi termini: «Qui lo Stato per decenni non ha fatto lo Stato». Parla di «situazioni imbarazzanti». E ne elenca qualcuna. Al Parco Verde come nel Rione 167 «ci sono alloggi popolari occupati da 40 anni, sì avete capito bene dal 1982», dice Morra. E poi «ci sono stati episodi di chiusura di pertinenze condominiali, spazi pubblici, marciapiedi dove sono stati realizzati appartamenti lussuosi per gente che dovrebbe pagare 37, 42 euro al mese e cammina su marmi pregiati, indossa abbigliamen – to di lusso, si permette di infrangere la legge come nulla fosse ». Sbotta, Morra: «Bisognerebbe cambiare prefetti, ministri». «Stiamo cercando di capire – aggiunge – ma a me fa rabbia sapere che responsabilità di altri abbiano prodotto danni enormi senza che si possa agire di conseguenza. Ci sono delle responsabilità endemiche, storicamente vecchissime, su cui adesso c’è difficoltà ad intervenire». «La battaglia è difficile», ammette Morra. E ne sa qualcosa chi le minacce le vive ogni giorno sulla propria pelle. Biagio Chiariello, comandante della polizia locale di Arzano, è giovanissimo. Qualche giorno fa lesse che sarebbe morto su un manifesto funebre.
Oggi è scattato un arresto per le minacce ricevute: si tratta di Mariano Monfregolo, fratello di Giuseppe, considerato elemento di spicco dell’omo – nimo clan; nei confronti di un 21enne del luogo è stato disposto il divieto di dimora in Campania. «Certo che c’è un pò di preoccupazione, però andiamo avanti altrimenti sarebbe comunque una sconfitta – dice Chiariello a Caivano – Non la possiamo dare vinta a queste persone che hanno posto in essere atti ignobili per isolarci. Per me è un forte e chiaro segno di debolezza, significa che andiamo nella direzione giusta e stiamo dando fastidio». Non arretrano neanche i giornalisti minacciati, come Mimmo Rubio. L’ultima intimidazione è arrivata domenica scorsa, in un bar. Era in compagnia di un altro collega, Giuseppe Bianco, ed è stato avvicinato da Giuseppe Monfregolo, ritenuto il boss della 167, dal fratello di questi e da un guardaspalle. Rubio è già sotto tutela. «E’ in atto una vera e propria escalation, una situazione estremamente allarmante – dice – E’ un alzare la testa e segnare il proprio territorio in una fase in cui c’è una faida interna. Ci sono poche forze dell’ordine, bisogna investire sulla sicurezza».
E poi c’è don Maurizio Patriciello. La sua chiesa guarda dritto il Parco Verde di Caivano che di brutture, oltre ai clan, ne ha viste parecchie. «Se ho paura? Sì, la paura che viviamo tutti ma poi mi dico, perché dovrebbero farmi qualcosa se in fondo voglio salvare anche i loro figli?», dice. «I cittadini mi sono vicini e se a volte restano in silenzio non è per omertà ma per paura perché qui le istituzioni vengono ma poi so ne vanno e loro vivono accanto a chi usa il linguaggio delle bombe». Da qui la richiesta, l’ennesima: «Lo Stato deve essere presente, lo Stato deve farsi vedere dalla gente».
"Cadaveri che camminano". 30 anni dalle stragi di Capaci e via D'Amelio. Rosa Scognamiglio il 23 Marzo 2022 su Il Giornale.
Nel trentennale delle stragi di Capaci e via D'Amelio il sindacato di Polizia Coisp dà il via a un "percorso della memoria" per ricordare gli eroi in divisa che hanno pagato con la vita la lotta a Cosa Nostra.
Cinquemila morti. È il numero delle vittime mietute da Cosa Nostra prima, dopo e durante gli anni delle stragi di Capaci e via D'Amelio. Una guerra sanguinaria che coinvolse, tra gli altri, moltissimi uomini delle istituzioni: magistrati, poliziotti e carabinieri. Eroi in divisa che pagarono con la vita la lotta alla mafia nel corso di un vero e proprio stillicidio. A partire da Boris Giuliano, il capo della Squadra Mobile di Palermo assassinato il 21 luglio del 1979, fino a Claudio Traina, l'agente ucciso nell'attentato al magistrato Paolo Borsellino.
"Contro la mafia o complici", il ricordo della strage di Capaci
I primi attentati
"Siamo cadaveri che camminano". Furono le parole, rivelatesi poi drammaticamente profetiche, pronunciate dal vice questore della Polizia di Stato Ninni Cassarà il 30 aprile del 1982 davanti all'auto crivellata di proiettili in cui furono rinvenuti i corpi senza vita del sindacalista Pio La Torre e del suo autista, Rosario Di Salvo. Al tempo, i media non avevano ancora restituito né le immagini devastanti della strage di Capaci né quelle di via D'Amelio. Eppure la cricca dei Corleonesi, capeggiata da Totò Riina, e quella guidata da Stefano Bontade e Gaetano Baldamenti, avevano già dichiarato guerra aperta alle istituzioni.
Il primo a farne le spese fu il Capo della Squadra Mobile di Palermo Boris Giuliano, ucciso da un killer solitario il 21 luglio del 1979. La sua "colpa" fu quella di indagare i rapporti tra la mafia siciliana e quella americana: i Corleonesi non gli perdonarono l'affronto. Leoluca Bagarella, affiliato con il clan di Cosa Nostra, gli sparò a distanza ravvicinata sette colpi di pistola con una Beretta 7,65, uccidendolo. In quello stesso anno, il 25 settembre del 1979, furono assassinati anche il giudice Cesare Terranova e un uomo della sua scorta, il maresciallo di Polizia Lenin Mancuso. Alcuni malviventi aprirono ripetutamente il fuoco con una carabina Winchester verso la Fiat 131 a bordo della quale viaggiavano il magistrato e il suo braccio destro. A Terranova, già in agonia, i sicari riservano anche il "colpo di grazia" sparandogli un colpo a bruciapelo dietro la nuca.
Gli anni '80
Gli anni '80 furono contrassegnati da una sanguinaria escalation di omicidi. Il 4 maggio del 1985, il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, tra i fidati collaboratori di Borsellino, fu assassinato con un colpo di pistola alla schiena mentre teneva in braccio la figlioletta di 4 anni. Basile aveva indagato sull'agguato a Boris Giuliano riuscendo ad arrestare diversi mafiosi collusi con il clan di Totò Riina. Un mese dopo, il 6 agosto del 1980, fu ucciso con tre colpi di pistola alle spalle il procuratore capo di Palermo Gaetano Costa. Tra i suoi interventi più coraggiosi vi è stata la convalida dell'arresto di 55 "uomini d'onore": fu l'unico firmatario dell'ordinanza. Un atto di coraggio che pagò con la vita.
L'assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa
Generale dei carabinieri, e poi prefetto di Palermo dopo la lotta al banditismo e alle Bigate Rosse, Carlo Alberto Dalla Chiesa fu ucciso la sera del 3 settembre 1982. Erano le ore 21.15 quando il prefetto, che viaggiava a bordo di una A112 insieme alla consorte Emanuela Setti Carraro, fu affiancato da una BMW lungo via Carini, nel capoluogo siciliano. Dalla vettura partirono una raffica di Kalashnikov AK-47: per il generale dalla Chiesa e sua moglie non ci fu alcuna possibilità di schivare i colpi. Nei minuti successivi, l'auto con a bordo l'autista e agente di scorta Domenico Russo fu affiancata da una motocicletta: ci fu un'altra pioggia di colpi. Domenico Russo morì a Palermo dopo 12 lunghi giorni di agonia.
Gli omicidi tra il 1983 e il 1985
A metà degli anni '80 incalzarono gli agguati. Il 13 giugno del 1983 fu assassinato il capitano Mario D'Aleo insieme all'appuntato Giuseppe Bommarito e al carabiniere Pietro Morici. D'Aleo era riuscito a far condannare i tre killer che uccisero il Capitano dei Carabinieri Emanuele Basile individuando come mandante dell'omicidio Giuseppe Brusca, boss di San Giuseppe Lo Jato, noto negli ambienti malavitosi come "u scannacristiani" per la ferocia con cui uccideva le vittime.
Il 29 luglio del 1983 toccò la stessa sorte drammatica al giudice Rocco Chinnici che perse la vita in un'esplosione provocata da 75 kg di tritolo insieme ai carabinieri e agenti di scorta Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta. Il 28 luglio del 1985 fu ucciso il commissario Giuseppe "Beppe" Montana. Due killer gli sparano mentre si trovava al molo di Porticello insieme alla sua fidanzata. Il 6 agosto 1985 cadde sotto una pioggia di proiettili il magistrato Ninnì Cassarà. Nell'agguato mortale perse la vita anche un agente della scorta, Roberto Antiochia, nel vano tentativo di ripare il magistrato dai colpi.
L'importanza della memoria
Una lunga scia di sangue, quella iniziata nel 1979, che culminò con due attentati indimenticati: la strage di Capaci, in cui fu ucciso il magistrato Giovanni Falcone, e quella di via D'Amelio, in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino. A trent'anni dalle stragi che sono diventate l'emblema di una stagione drammatica, il sindacato di Polizia Coisp, guidato da Domenico Pianese, celebra il sacrificio degli eroi in divisa attraverso un vero e proprio percorso della memoria che avrà inizio oggi, 23 marzo, durante il Congresso Nazionale del Sindacato. "Perché accanto a Falcone e Borsellino i nomi sono tanti, troppi, e non vanno dimenticati. - spiegano dal Coisp - Uomini che si sono adoperati con interventi legislativi e con indagini coraggiose, e che hanno pagato con la vita, lasciando tuttavia un segno prezioso e importante. Per questo è importante un percorso della memoria: per non dimenticare chi, col suo sacrificio, ha fatto la differenza, credendoci ancora e ancora quando tutto sembrava volgere al peggio. Del resto, è stato proprio Falcone a dire ‘Gli uomini passano, le idee restano. Continuano a camminare sulle gambe di altri uomini'".
Uno strano attentato: la bomba che uccise Borsellino. Il podcast Nebbia. Francesco Giambertone su Il Corriere della Sera il 20 marzo 2022.
Nel decimo episodio della serie sulle verità nascoste nella storia della Repubblica, la storia (tra misteri e depistaggi) della strage di via D'Amelio.
La bomba che ha ucciso Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta, due mesi dopo quella di Capaci che uccise Falcone, resta una strage di mafia «anomala»: perché per la mafia ha comportato molte più conseguente negative (a cominciare dall’approvazione del decreto-legge che istituiva il 41 bis, il «carcere duro», argomento sul quale poi s’incentrerà presunta trattativa Stato-mafia con le relative stragi del 1993) che positive. Si ipotizzarono mandanti esterni (come per il generale dalla Chiesa, dieci anni prima). E ci furono clamorosi depistaggi, per i quali è in corso un processo, come accadde per le stragi neofasciste di vent’anni prima. L’ultimo episodio della serie audio «Nebbia» racconta di quel «singolare attentato».
La serie podcast «Nebbia» (qui la presentazione firmata da Roberto Saviano) racconta storie di giustizia negata, soprattutto a causa di depistaggi che hanno deviato le indagini e coperto responsabilità. Dieci episodi per dieci tappe fondamentali che si snodano tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Novanta, narrati attraverso le testimonianze dirette dei protagonisti – a partire dai familiari delle vittime –, dettagli «minori» che svelano trame più grandi, intrecci fra vicende apparentemente slegate che aiutano a ricostruire il contesto in cui tutto è accaduto.
Le correzioni. Luca Lancise e Alessandra Coppola su Il Corriere della Sera il 23 giugno 2022.
Sepolto sotto libri e ritagli, Marcelle Padovani ritrova nella sua casa romana il dattiloscritto originale di «Cose di Cosa nostra». È il libro divenuto suo malgrado il testamento di Giovanni Falcone, scritto in prima persona dal giudice anti-mafia, in realtà composto dalla giornalista francese Padovani attingendo a otto anni di assidue frequentazioni siciliane, fino ai 22 lunghi pranzi intervista nel 1991 nella capitale. Accanto al testo francese, Falcone ha annotato a penna, in corsivo, in italiano piccole osservazioni che rendono il suo rigore, la mancanza di protagonismo, il rispetto per le parole e i fatti. Comincia così una ricostruzione approfondita e intensa di uno dei grandi protagonisti della storia italiana, accompagnata dalla sua stessa voce e dai ricordi di Padovani, dagli inizi fino al suo lascito.
Piccolo giudice. Luca Lancise e Alessandra Coppola su Il Corriere della Sera il 23 giugno 2022.
Il primo incontro tra Marcelle Padovani e Giovanni Falcone avviene a Palermo, alla fine del 1983, in piena guerra di mafia. Il magistrato è poco noto in Italia, ma in Sicilia conduce già inchieste innovative e «pericolose». Padovani ne ha l’immagine di un uomo senza paura pur se consapevole dei rischi, che si affaccia alla finestra al mattino per controllare la via di casa e passa la giornata, fino a sera, solitario in un ufficio del Palazzo di Giustizia protetto da due porte blindate e da telecamere che è egli stesso a comandare. I magistrati che lo hanno preceduto sono caduti tutti in pochi anni sotto i colpi di Cosa Nostra, come i poliziotti che lo affiancavano nelle indagini: Falcone è rimasto l’unico o quasi a portare avanti un nuovo metodo di lotta alla mafia in cui a Palermo nessuno sembra credere. Da questo incontro, che getta le basi della fiducia reciproca, nasce il titolo del primo articolo consacrato da Padovani a Falcone: «Le petit juge et la mafia», un piccolo giudice che sfida un grande nemico. Del clima di accerchiamento e tensione, in una Palermo sconvolta dall’assedio dei Corleonesi, è testimone il fotografo Franco Zecchin, dalla fine degli anni Settanta fino ai primi Novanta compagno e collaboratore di Letizia Battaglia, con la quale ha documentato la mattanza palermitana scrivendo la storia del fotogiornalismo.
La mafia ci assomiglia. Alessandra Coppola e Luca Lancise su Il Corriere della Sera il 23 giugno 2022
È la più equivocata e manipolata delle intuizioni di Falcone: «I mafiosi non sono dei marziani; la mafia non è estranea al tessuto sociale che la esprime». L’unica via per combattere Cosa Nostra, rivendica il giudice, e Marcelle se ne fa interprete, è dunque svelare questa affinità. Riconoscere la razionalità e la logica rigorosa che la caratterizza, capire che funziona al suo interno in base a un sistema di regole e leggi, come se fosse uno Stato, e che si fonda, paradossalmente, su dei valori: il rispetto, la dignità, l’obbligo di dire la verità. Attinti dalle radici siciliane e portati alle estreme, feroci conseguenze. Così Falcone, senza mai perdere la prospettiva dell’uomo di legge, arriva a immedesimarsi nell’uomo d’onore, e non esita a condividere con Marcelle la sua convinzione più radicale: «Se vogliamo combattere efficacemente, la mafia dobbiamo riconoscere che ci assomiglia». Questa rivelazione arriva al magistrato dall’intensa relazione con i pentiti, in primis Tommaso Buscetta, ma anche Francesco Marino Mannoia e Antonino Calderone. Del pentimento di Calderone racconta il giudice francese Michel Debacq, già capo dell’antiterrorismo, collaboratore di Falcone da Marsiglia, che ricorda come fu agganciato dalla moglie del mafioso e svela il ruolo inaspettato di Buscetta da mediatore: «Con Falcone puoi parlare, perché di Falcone ti puoi fidare».
La fine, l’inizio. Alessandra Coppola e Luca Lancise su Il Corriere della Sera il 6 luglio 2022
I corleonesi hanno il controllo di Cosa Nostra, dunque di una buona fetta della Sicilia. Ma a Palermo, lo Stato sta preparando il suo attacco più forte e concreto: sulla base della sentenza-ordinanza del giudice istruttore Giovanni Falcone (assieme al collega Paolo Borsellino), il 16 dicembre 1987 la Corte d’Assise condanna 346 imputati per un totale di 2665 anni di reclusione. «È il primo grande processo contro la mafia!» sottolinea Marcelle Padovani. La giornalista francese è tornata sull’isola, gira un reportage, scrive di nuovo un articolo sul giudice «illuminista» che le sta diventando amico. E ancora una volta ne sottolinea «la solitudine», in particolare dopo il fallito attentato alla casa di vacanza all’Addaura. Il clima per il magistrato è pessimo, non solo per le minacce di Cosa Nostra, ma soprattutto per i veleni interni alla procura, per le allusioni e le insinuazioni che gli rendono il lavoro impossibile. Falcone accetta il trasferimento a Roma come direttore degli Affari penali al ministero di Giustizia. Ed è in questo contesto di lontananza e isolamento che la mafia mette a punto la sua vendetta: la strage di Capaci, 23 maggio 1992. L’ultima volta che Marcelle lo incontra lui le confessa che tornare in Sicilia è pericoloso: «Ma ho voglia di rivedere la pesca del tonno…». All’indomani dei funerali, Padovani scrive il suo ultimo servizio su Falcone: «La mort en face». «Mi sono detta, devo raccontarlo così come l’ho conosciuto; la morte per lui non era un argomento estraneo». E a Palermo chi ci resta? «Si è istituita una rete di solidarietà, di amicizia, di comune credo negli stessi ideali – sono parole di Falcone -, che sicuramente prescinde dalla mia persona. E che non sarà disperso…».
Luca Lancise e Alessandra Coppola con la testimonianza di Marcelle Padovani, su Il Corriere della Sera il 6 luglio 2022
Alla presentazione per la stampa estera una reporter americana lo chiede sfacciatamente: perché tra tutti i giornalisti che ci sono in Italia, il giudice Giovanni Falcone ha scelto di scrivere il suo prezioso libro «Cose di Cosa Nostra» (che diventerà il suo testamento) con la francese Marcelle Padovani? Il magistrato attira a sé il grosso microfono e risponde: «È quella di cui mi fido di più». Con l’autore e regista Luca Lancise, abbiamo ritrovato il dattiloscritto originale del volume: 190 pagine composte durante l’estate del 1991, consegnate da Padovani a Falcone in francese, e da lui annotate a penna, con una grafia piccola e pulita, in italiano corsivo. La serie podcast in 5 puntate «Mi fido di lei. Le parole di Giovanni Falcone» (di Corriere della Sera e Fondazione con il Sud) parte dalle – poche – correzioni a margine per raccontare, con la voce ricca di Marcelle Padovani, i 22 memorabili pranzi-intervista durante i quali la giornalista si è immedesimata nel magistrato e ha scritto per lui. Torneremo alle origini della loro lunga amicizia, dal 1983. Ricostruiremo, con le parole stesse di Falcone, la sua capacità di decifrare la mafia, di comprenderla a fondo come uomo e siciliano per poterla lucidamente combattere. Arriveremo alla sua eredità, per lo Stato e le nuove generazioni, le intuizioni, il rigore, il metodo, la necessità di fare rete, fino all’ultimo strumento di lotta concepito subito dopo la sua morte e sulla scorta dei suoi insegnamenti: il riutilizzo sociale dei beni confiscati ai mafiosi.
Isolamento e nostalgia, così Falcone ha guardato la morte in faccia. Il podcast «Mi fido di lei» su Il Corriere della Sera il 7 luglio 2022.
Nel quarto episodio della serie audio sul giudice ucciso trent’anni fa dalla mafia, la giornalista Marcelle Padovani ricorda il clima intorno al magistrato (tra minacce mafiose e veleni in procura) dopo la sentenza di primo grado del Maxi processo: «Una cappa di angoscia». Fino alla strage di Capaci.
Giovanni Falcone ha capito la mafia, dunque è riuscito a colpirla. Nella quarta puntata della serie podcast «Mi fido di lei», l’impostazione del suo maxi processo alle cosche viene confermata dalla sentenza di primo grado: il 16 dicembre 1987 la Corte d’Assise condanna 346 imputati per un totale di 2665 anni di reclusione.
«È il primo grande processo contro la mafia!» sottolinea Marcelle Padovani. Ritroviamo la giornalista francese, amica e confidente del magistrato, al lavoro tra Palermo e una terrificante Corleone, «una cappa di angoscia… quando avverti che l’illegalità è legge sei impressionato». La conseguenza del maxi processo per Falcone, però, nota Padovani ancora una volta è la solitudine. È evidente soprattutto dopo il ritrovamento della dinamite inesplosa nella casa di vacanza all’Addaura: «dicono che non c’è stato attentato», commenta amaro il magistrato.
Il clima che si respira è pessimo, non solo per le minacce di Cosa Nostra, ma soprattutto per i veleni interni alla procura, per le allusioni e le insinuazioni che gli rendono il lavoro impossibile. Falcone accetta il trasferimento a Roma come direttore degli Affari penali al ministero di Giustizia. Ed è in questo contesto di lontananza e isolamento che la mafia mette a punto la sua vendetta: la strage di Capaci, 23 maggio 1992.
L’ultima volta che Marcelle lo incontra lui le confessa che tornare in Sicilia è pericoloso: «Ma ho voglia di rivedere la pesca del tonno…». All’indomani dei funerali, Padovani scrive il suo ultimo servizio su Falcone: «La mort en face». «Mi sono detta, devo raccontarlo così come l’ho conosciuto; la morte per lui non era un argomento estraneo».
E a Palermo chi ci resta? «Si è istituita una rete di solidarietà, di amicizia, di comune credo negli stessi ideali – sono parole di Falcone -, che sicuramente prescinde dalla mia persona. E che non sarà disperso…».
All’eredità concreta lasciata dal magistrato - il riutilizzo dei beni confiscati - sarà dedicata la quinta e ultima puntata della serie podcast «Mi fido di lei. Le parole di Giovanni Falcone», del Corriere della Sera con il sostegno di Fondazione con il Sud.
Quel Buscetta, «Il traditore» che mise la mafia alla sbarra secondo il genio di Bellocchio. La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Maggio 2022.
Un grande film questa sera su Rai Uno alle ore 21. Una di quelle opere da inserire sicuramente nel ciclo del cinema di impegno civile più che politico: «Il traditore» è un film del 2019 diretto da Marco Bellocchio. La pellicola narra le vicende di Tommaso Buscetta, mafioso e successivamente collaboratore di giustizia, membro di Cosa nostra. Il film è stato selezionato per rappresentare l’Italia agli Oscar 2020 nella sezione del miglior film in lingua straniera, ma non è stato selezionato per la shortlist. Bellocchio fa incominciare la storia il 4 settembre 1980. È il periodo in cui la Sicilia è capitale mondiale del traffico di droga, gestito dalle famiglie di Cosa Nostra palermitane e corleonesi, che, pur mostrandosi in amicizia e collaborazione, in realtà sono in rapporti di profonda rivalità.
Durante una festa nella villa di Stefano Bontate in onore di Santa Rosalia, patrona di Palermo, a cui sono presenti esponenti di entrambi gli schieramenti, Tommaso Buscetta, detto don Masino, un boss affiliato alla mafia di Palermo, avverte il pericolo di una faida imminente e, per tutelarsi, decide di trasferirsi in Brasile, stato dove ha già vissuto e condotto affari in passato. Le tensioni non tardano a manifestarsi, scatenando una serie di omicidi a boss mafiosi e ai loro familiari, con il fratello e due dei figli di Buscetta, Benedetto e Antonio, rimasti in Sicilia, che vengono fatti sparire; lo stesso Buscetta si sente braccato anche in America Latina. La polizia brasiliana lo identifica e lo cattura, Buscetta tenta di uccidersi con della stricnina. Viene comunque condotto in Italia, dove, ormai rimasto senza potere né denaro, finirebbe inevitabilmente nel mirino dei rivali corleonesi, guidati da Totò Riina. Il giudice antimafia Giovanni Falcone gli offre un’alternativa. E il resto è storia.
Quando Buscetta convinse il pentito Calderone: con Falcone puoi parlare. Il podcast «Mi fido di lei» di Redazione Podcast su Il Corriere della Sera il 23 Giugno 2022.
Nella terza puntata della serie audio sul giudice ucciso trent’anni fa dalla mafia, il magistrato affida alla giornalista Marcelle Padovani una delle sue riflessioni più profonde e delicate: «La mafia ci assomiglia».
Alla terza puntata del podcast «Mi fido di lei», la giornalista Marcelle Padovani è entrata in confidenza con il giudice Giovanni Falcone, l’ha oramai incontrato più volte, è pronta con lui a tirare le somme di anni di lotta a Cosa Nostra. E il magistrato le affida la più delicata delle sue riflessioni, la più profonda e suscettibile di equivoci: «La mafia ci assomiglia».
È un’intuizione che arriva dal rapporto intenso con gli uomini d’onore pentiti, Tommaso Buscetta tra tutti. La scoperta di una mafia che – a sorpresa – ha dei suoi valori: l’obbligo di dire la verità, il rispetto delle regole, la dignità. Attinti alle radici siciliane e poi, certo, distorti per portare beneficio non alla collettività ma a un gruppo ristretto di affiliati.
Senza mai vacillare nel ruolo di uomo di legge, Falcone riesce a leggere, quasi ad ammirare, questa «morale» mafiosa, fino a usarla per decodificare e colpire l’organizzazione alle fondamenta.
Ne è testimone il giudice francese Michel Debacq, che sarà a Parigi capo dell’anti-terrorismo, e che a metà degli anni Ottanta collabora con Falcone da Marsiglia nel contrasto al traffico di eroina. In questo ruolo, il magistrato viene avvicinato da una donna siciliana che gli chiede di ricevere il marito, il quale a sua volta esprimerà il desiderio di incontrare Falcone. Si tratta di uno dei maggiori collaboratori di giustizia di Cosa Nostra, Antonino Calderone, catanese, che svelerà per la prima volta l’esistenza e la struttura della mafia nella Sicilia orientale.
Particolare mai prima rivelato: all’incontro con Falcone a Marsiglia, Calderone chiederà una prova che dimostri l’identità del giudice siciliano. E Falcone chiamerà al telefono Buscetta, si aggiornerà sulla salute e la famiglia citando nomi e situazioni specifiche per dimostrare che dall’altra parte della cornetta c’è davvero Don Masino, quindi passerà l’apparecchio a Calderone. Convinto dal pentito, il catanese si deciderà una volta per tutte a collaborare.
«Mi fido di lei. Le parole di Giovanni Falcone» è un podcast di Luca Lancise scritto con Alessandra Coppola per il Corriere della Sera e Fondazione con il Sud.
«Quel che resta»: l’eredità di Falcone nei beni confiscati. Redazione Podcast su Il Corriere della Sera il 13 luglio 2022.
Segui gli assegni: Giovanni Falcone ne era ossessionato, i colleghi lo deridevano senza capire. «Passava delle notti intere a casa sua con pacchi pieni - ricorda la giornalista amica Marcelle Padovani – classificati, numerati, con le date, il destinatario, la banca d’origine». Compilava schede precise su ognuno di questi pezzi di carta. Era la sua versione meticolosa e tenace del «follow the money» ereditato da investigatori come Boris Giuliano, il capo della mobile ucciso nel ’79. Andare dove conduce il flusso di denaro per colpire i mafiosi nei loro “affetti” più cari: i piccioli, la roba, i soldi.
Un assegno in particolare, nel 1984, conduce Falcone da Palermo a una Banca di Terzigno, Napoli, quindi di nuovo in Sicilia, nel mezzo dei rilievi delle Madonie. Un passaggio di lire che testimonia il legame della mafia con la camorra dei Nuvoletta; ma soprattutto concretamente dimostra come il Papa di Cosa Nostra, Michele Greco, sia entrato illecitamente in possesso di una parte dell’antico feudo di Verbumcaudo. Il «possesso della terra», nota Padovani, è la massima ambizione mafiosa dopo la fine del latifondo.
Le parole di Giovanni Falcone» ci conduce al cuore dell’isola, dove Cosa Nostra ha tentato la conquista ed è stata sconfitta.
Ci sono volute due leggi e oltre quarant’ anni, ma quei 150 ettari del Comune di Polizzi Generosa, Palermo, oggi sono confiscati e riutilizzati. Seguendo la scia di quell’assegno abbiamo scoperto «sul campo» che cosa è nato dall’esempio del giudice: dove c’era il terreno di un boss, ci sono adesso gli 11 ragazzi siciliani della Cooperativa Verbumcaudo che coltivano i pomodori senza acqua, trebbiano il grano per farne pasta, sperimentano vendemmie di Catarratto (grazie ai fondi di Fondazione con il Sud). Testimoni ideali del Paese diverso che aveva immaginato Falcone.
Falcone, Buscetta, le condanne: il maxiprocesso di Palermo nel podcast di Roberto Saviano. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 20 marzo 2022.
Trent’anni dopo Roberto Saviano racconta in una serie audio il clima, i protagonisti e le storie del Maxiprocesso di Palermo, una “corrida” ai mafiosi
Le sirene! La signora Patrizia Santoro, «onesta cittadina che paga regolarmente le tasse e lavora otto ore al giorno», non ne poteva più già prima che cominciasse, il maxi-processo di Palermo. E scrisse una lettera al Giornale di Sicilia lagnandosi delle «continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora io domando: è mai possibile che non si possa eventualmente riposare un poco nell’intervallo del lavoro o, quantomeno, seguire un programma televisivo in pace»? Insomma, «perché non si costruiscono per questi “egregi signori” delle villette alla periferia della città, in modo tale che, da una parte sia tutelata la tranquillità di noi cittadini-lavoratori, dall’altra, soprattutto, l’incolumità di noi tutti che, nel caso di un attentato, siamo regolarmente coinvolti senza ragione (vedi strage Chinnici)»? Non c’era una parola di dolore per il giudice ucciso due anni prima e altri servitori della Patria ammazzati precedentemente come Pietro Scaglione e Cesare Terranova. Men che meno una di sostegno o almeno di apprensione per il destino di quanti come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino stavano sfidando ora la morte nella guerra alla mafia... Zero. Solo il fastidio per le sirene o il rischio di venire coinvolta in «conseguenze facilmente evitabili» (testuale) spostando quella seccatura della guerra alle cosche un po’ più in là...
Curiosità e interesse
Falcone, che viveva nella stessa strada della signora, ci restò malissimo. Pochi episodi come quello raccontano l’aria che tirava («La stragrande maggioranza dei palermitani assisteva con curiosità e interesse a come sarebbe finita la corrida», ricorda amaro Giuseppe Ayala) ai tempi dello storico processo al quale Roberto Saviano dedica il suo ultimo lavoro in uscita oggi. Si intitola «Maxi - Il processo che ha sconfitto la mafia», è un podcast Audible Original , è stato scritto e curato dallo scrittore con la collaborazione di Massimiliano Coccia e racconta in dieci puntate con la voce dell’autore e le registrazioni originali dei protagonisti più luminosi, elusivi o infami, la «più ostinata battaglia che lo Stato ha portato avanti per dimostrare l’esistenza di qualcosa che prima d’allora era solo allusione, accenno, pettegolezzo...»
Ostilità
Basti ricordare l’ostilità alle prime proposte di Giuseppe Berti o Ferruccio Parri di varare una strategia contro il fenomeno mafioso, l’insofferenza nel ’49 dell’allora ministro degli Interni Mario Scelba («Si parla della mafia condita in tutte le salse ma, onorevoli senatori, mi pare che si esageri») e tutti i silenzi e le ambiguità sul tema mentre «anche nei processi la grande criminalità veniva trattata come microcriminalità» col risultato che la creazione di una commissione antimafia arrivò solo nel ‘62. Diciassette anni dopo l’appello eversivo di Salvatore Giuliano: «Popolo! Centomila lire al mese a chi vuole arruolarsi nella mia banda, del nuovo esercito che si costituirà a solo scopo di lottare contro i nemici della libertà...»
I dialoghi in ascensore
E troppi anni sarebbero passati ancora prima che, ricorda Saviano, emergesse nel ‘79 la figura di Rocco Chinnici che ideò il pool antimafia: «Un insieme di magistrati e forze di polizia, che in regime di totale condivisione di informazioni e mezzi, sono intercambiabili e un loro eventuale omicidio non minerà più le indagini in corso. Nessun giudice, nessun poliziotto si porterà nella tomba le informazioni. Se organizzi un gruppo che studia, ricerca, indaga e capisce hai creato un solco, una traccia, un modo di operare». Un gruppo «compatto, attivo e battagliero». Mica facile, a Palermo, dove lui e il procuratore Gaetano Costa (che sarebbe stato ucciso dalla mafia l’anno dopo) erano costretti «per evitare di essere ascoltati da spie e passacarte» a chiudersi in ascensore: «Immaginate questi due uomini salire e scendere di piano in piano senza mai mettere piede fuori per scambiarsi le informazioni più importanti, impellenti, che non potevano essere dette in auto, al bar, e nemmeno rinviate dandosi appuntamento in campagna. Ma lì in un ascensore».
I rischi
Sapevano cosa rischiavano. Lo ricorda Pietro Grasso che, ricevuta la proposta di fare il giudice a latere nel processo, consultò la moglie: «Già mi figuravo come sarebbe cambiata la nostra vita. Saremmo stati circondati da persone coi giubbotti antiproiettile con il mitra in mano, saremmo stati delegittimati, calunniati, oggetto di minacce e intimidazioni...». E sommersi dal lavoro: «Falcone apre le porte di un’altra stanza e, con l’aria di chi sta per tirare un tiro mancino, mi dice: “ecco, ti presento maxiprocesso”. E vidi questa stanza con quattro pareti di scaffali che arrivavano fino al tetto dove c’erano qualcosa come 120 faldoni che contenevano quattrocentomila fogli che avrei dovuto studiare». Una fatica enorme per un compito enorme, racconta lo scrittore: allestire un processo con «475 imputati, 635 avvocati, 16 giudici, 8 giudici popolari, 349 udienze, 1314 interrogatori di boss, trafficanti e pentiti, 635 arringhe difensive» per il solo primo grado. Aperto il 10 febbraio 1986 (568 giorni dopo l’assassinio di Chinnici), chiuso il 16 dicembre 1987 e presieduto dal giudice civile Alfonso Giordano che accettò «dopo sedici rifiuti da parte dei suoi colleghi». E dirà: «Non sono mai stato così tranquillo e sereno come in quel periodo. Non so per quale motivo, potrei anche sospettare un intervento divino...»
Trent’anni dopo
Rilette tre decenni dopo la sentenza in Cassazione del 30 gennaio 1992, le cronache di quel maxi processo concluso con 19 ergastoli e condanne per un totale di 2665 anni di galera ai quali Riina e altri reagirono come belve rabbiose azzannando Falcone e Borsellino e gli italiani tutti con gli attentati a Firenze, Roma e Milano, dimostrano davvero, grazie soprattutto alle registrazioni audio, quanto quello fu davvero passaggio epocale per Palermo, la Sicilia, l’Italia.
Buscetta in aula
Ed ecco nell’audiolibro la delusione indignata di un servitore dello Stato come Carlo Alberto dalla Chiesa: «Mi mandano in una realtà come Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì». La voce di Tommaso Buscetta che spiega come «il fenomeno mafioso non è comune, non è il brigatismo, non è la solita criminalità perché la solita criminalità la polizia se ne intende e la combatte bene, il fenomeno mafioso è qualcosa di più importante. È la criminalità più l’intelligenza più l’omertà». Il caos vociante nell’aula-bunker stracolma di imputati che all’arrivo inaspettato di Don Masino cessa di colpo e «se ci fosse stata una mosca la si sarebbe sentita volare».
I mafiosi
L’ipocrisia fetida di Michele Greco detto «Il Papa» che, dopo avere seminato di cadaveri i dintorni di Ciaculli (per trovarli tutti «l’elicottero ci vuole, dottore», dirà a Falcone il pentito Francesco Marino Mannoia) recita in aula: «Per natura, grazie a Dio, so aspettare. Non sono come quelli che si trovano alla fermata dell’autobus e continuamente fanno così è così. Io so aspettare. E so soffrire. E sono sempre sereno, signor presidente. Sono sempre sereno perché in me c’è un dono inestimabile, un dono inestimabile che non ce lo può regalare nessuno: la pace interiore, c’è in me. La pace interiore». E Totò Riina ‘u Curtu che vede infine il «socio» malese nel traffico internazionale di droga Koh Bak Kin e dice: «Come nei film, tengono proprio gli occhi storti». E Totuccio Contorno che parla un siciliano così stretto che devono dargli un interprete... E via via che ripercorri con «Maxi» tutta la storia, spiccano sempre più le parole di Giovanni Falcone: «La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni». E ancora oggi ti chiedi: ha dato davvero il meglio, lo Stato? Sempre?
Anticipazione da "Oggi" il 27 aprile 2022.
«Abbiamo parlato del perdono ai mafiosi, ma ci sono anche tanti politici, tanti uomini delle istituzioni che dovrebbero chiederlo. Ciò che più mi ha ferito in questi anni è che nessuno di loro lo abbia mai fatto».
In una lunga intervista a OGGI, Maria Falcone risponde alle domande di Luigi Garlando, autore di «Per questo mi chiamo Giovanni», un libro che in 18 anni ha venduto 1 milione di copie e, dice la sorella del magistrato ucciso, «mi è stato di grande aiuto in questi anni, perché è stato un mezzo prezioso per veicolare il significato della mafia con parole semplici e comprensibili».
Secondo Maria Falcone «la percezione e la memoria che hanno, non solo i giovani, ma tutta la società civile per Giovanni, per il suo lavoro, per il suo sacrificio, per il pool antimafia, sono aumentate molto». Con amara ironia dice: «Ha sempre avuto più nemici che amici. Adesso sono diventati tutti amici». Poi torna sulla discussa scarcerazione di Giovanni Brusca: «Io sono stata una delle poche a dire che era giusto che uscisse, anche se lo avrei voluto in carcere per tutta la vita.
Perché la legge sui pentiti prevede proprio questo. Nessuno di questi infami collaborerebbe con la giustizia e ci darebbe le notizie, se non avesse in cambio ciò che per loro è più importante: la diminuzione della pena». E sul tema del perdono: «Ritengo che il perdono debba essere qualcosa da dare quando la persona che te lo chiede lo ritiene importante per il suo recupero spirituale. Ci fosse questa richiesta, lo darei. Non credo che il signor Brusca abbia interesse al mio perdono».
Poi ha parole commosse verso Francesca Morvillo, morta con giudice a Capaci: «L’ho pianta e la piango come una sorella, anche se la nostra vita insieme è stata solo di 12 anni, perché Francesca era una creatura molto riservata, ma molto affettuosa. Era una persona con una schiena dritta, che è sempre stata vicino a Giovanni, senza mai opprimerlo con le sue paure, ma dandogli sempre la forza».
Roberto Saviano: «Solo è il coraggio», il mio romanzo per Giovanni Falcone. ROBERTO SAVIANO su Il Corriere della Sera il 5 marzo 2022.
A trent’anni da Capaci, il racconto della vita del magistrato in un libro in uscita per Bompiani il 27 aprile. Qui anticipiamo un capitolo dedicato al giudice Cesare Terranova
L’installazione «Il Branco» (maggio 2021) realizzata da Velasco Vitali nell’Aula bunker dell’Ucciardone, a Palermo, sede del maxi processo a Cosa nostra
Palermo, 1979.
È una strana mattina di settembre, a Palermo. Fa caldo, ma non troppo. Il cielo è grigio, ma non troppo. Potrebbe piovere da un momento all’altro, o le nuvole che velano l’azzurro di una patina umida potrebbero spalancarsi facendo posto al sole. Nulla è ancora detto.
Giovanna apre gli occhi. Vede che Cesare è già sveglio, ha aperto gli scuri e ora sta con la schiena poggiata alla testiera del letto. Gli poggia la testa sul petto. Con l’orecchio ascolta i battiti calmi e regolari del suo cuore. Si meraviglia di come possa sentirsi così tranquillo.
«Solo è il coraggio. Giovanni Falcone, il romanzo» esce per Bompiani il 27 aprile (pp. 512, euro 22)
«Sei preoccupato?» sussurra fra la veglia e il sonno.
«No,» risponde lui, e Giovanna apre gli occhi definitivamente. È infastidita.
Perché lei ha paura e lui no? La mafia ha parlato chiaro. Il pentito Giuseppe Di Cristina ha fatto mettere a verbale che il boss Luciano Leggio, detto Liggio, ha emesso una condanna a morte contro il giudice Terranova, e lui, Cesare Terranova, per tutta risposta ha continuato a fare pressioni per ottenere un posto da consigliere istruttore a Palermo. Vuole mettere insieme gli uomini e le prove necessarie per sbattere in carcere quella feccia. E non è finzione, la sua: è sincero quando dice che non ha paura. Il battito del suo cuore lo conferma. Qualche giorno fa ha detto a Giovanna di stare tranquilla: «La mafia non uccide i magistrati. I giudici fanno il loro lavoro e i mafiosi fanno il loro, così è da sempre». Solo che oggi – sarà che il sole non si decide a uscire, o la pioggia ad arrivare – Giovanna non è più certa di nulla. Il fatto che suo marito lo sia, piuttosto che tranquillizzarla la stizzisce un po’.
«Ho fatto un sogno», le dice a un tratto Cesare. Fissa il vuoto davanti a sé. Ha gli occhi di un bambino. Li ha conservati uguali, da quand’è nato cinquantotto anni fa a Petralia Sottana, un paesino arrampicato sulle Madonie, dove d’inverno nevica fino alle caviglie e d’estate, quando il sole picchia, ci si mette con la testa sotto le fontane. «Paolo Borsellino era un ragazzo. Me lo trovavo davanti, in udienza, per una rissa che avevano fatto lui e gli altri studenti di destra, una rissa con i comunisti».
«Ma questo è successo davvero».
«Sì, certo». Hanno riso più volte, lui e Borsellino, di quel vecchio episodio. Cesare prende dal comodino i suoi grossi occhiali e se li mette. Ora non sembra più un bambino. «Solo che stavolta Paolo mi allungava un biglietto». Si fa una risatina. La testa di Giovanna sobbalza sopra il suo petto. «Cioè, provava a mettere questo foglio sul mio tavolo ma i poliziotti lo bloccavano. Però lui insisteva, diceva: “Il biglietto! Il biglietto!”, e quelli se lo portavano via».
«E che biglietto era?».
«Ah, boh». Sono pochissime le volte in cui Cesare ha mentito a sua moglie. Questa è una di quelle. La seconda, nell’arco di pochi giorni.
Si alza con qualche fatica dal letto, infila le ciabatte e si avvia a piccoli passi verso il bagno. Si sente stanco. A cinquantotto anni, ne avrebbe pure diritto. Ha combattuto la guerra mondiale e si è fatto la prigione in Africa; poi, appena messo via il fucile, ne ha cominciata un’altra, di guerra, stavolta disarmato: già nel ’46 era in magistratura, pretore a Messina, poi aggiunto giudiziario a Patti e giudice istruttore a Palermo, infine procuratore a Marsala. Ne ha viste e sentite di tutti i colori. Ha istruito da solo e con certosina pazienza processi di enorme importanza nel contrasto alla mafia palermitana, e scritto fiumi di pagine contro l’Anonima assassini, sessantaquattro sciagurati che hanno colorato di rosso le strade di Corleone con in testa il loro capo Lucianeddu. È proprio Luciano Liggio che ha firmato un anno fa la sua condanna a morte. E Cesare è così spaventato che, dopo averlo saputo, ha dichiarato a un giornalista: «Dimentico spesso la rivoltella a casa, ma non ho paura. Ho visto mafiosi inginocchiarsi e piangere, anche Liggio. Io sono un giocatore di bridge. Amo le carte e gioco per vincere. Luciano Liggio… perderà anche lui. La nostra partita non è finita ma non ho paura».
È così spaventato che ha appeso nel suo studio un disegno, regalo dell’amico pittore Bruno Caruso. In primo piano c’è lui, il giudice, in cravatta e occhiali da sole. Dietro, come un’ombra, il boss. Ogni giorno che Dio manda in terra Giovanna gli chiede se non sarebbe il caso di toglierlo. Ma a Cesare non sembra di cattivo gusto. Anzi, quel ritratto del boss di Corleone con gli occhi stretti come quelli di un pesce e l’aria da tonto gli è diventato simpatico.
E sempre perché è spaventato, ha messo in una cornicetta d’argento la fotografia di Liggio che i colleghi gli hanno regalato con tanto di dedica: Con amore, il tuo amico Lucianeddu. Quando se lo vede davanti, immancabilmente gli scappa una risata. Ma sono risate che gli lasciano addosso un velo di stanchezza, un velo scuro che gli si poggia sulle spalle, così che giorno dopo giorno, velo dopo velo, inizia ad avvertirne il peso. Non parlerebbe di paura, ma di qualcosa di diverso: da quando è cominciato questo suo flirt con la morte ha l’impressione che l’inverno arrivi prima e che l’estate, invece, se ne vada in fretta, che passi giusto per un saluto sull’uscio di casa e poi via, di nuovo freddo, di nuovo buio.
C’è da capirlo quindi, se adesso camminando trascina le ciabatte sul pavimento come farebbe un uomo più anziano.
Quando esce dal bagno, Giovanna sta versando il caffè nelle tazze. La cucina è rischiarata da una luce ingannevole che pare sospesa fra l’alba e il crepuscolo.
«Oggi torni alla carica?» gli domanda. C’è del sarcasmo nella sua voce.
Cesare spalanca le braccia. Lo sa, dovrebbe accontentarsi: l’hanno nominato consigliere presso la corte d’appello, un modo per ricominciare a fare il magistrato visto che per parecchi anni è stato lontano dalla toga. All’inizio, sinceramente, non gli è mancata molto. Merito delle batoste prese con il processo all’Anonima assassini: su 64 imputati, fra cui Liggio e Riina, sono arrivate 64 assoluzioni. Totò Riina è stato condannato solo per il furto di una patente. I giudici hanno scritto che «l’equazione mafia uguale associazione per delinquere, su cui hanno così a lungo insistito gli inquirenti e sulla quale si è esercitata la capacità dialettica del magistrato istruttore, è priva di apprezzabili conseguenze sul piano processuale». Mancava solo che gli facessero le pernacchie. Lui, però, si ostina a ripetere che non è stata una sconfitta. «Li ho fotografati», ha detto a Giovanna appena tornato a casa, con la testa bassa e le spalle flosce. «Non vanno in galera ma li ho fotografati. Prima non avevano una faccia, ora c’è una foto di gruppo. Qualcun altro potrà usarla».
Poi ha tolto il disturbo e si è messo a fare il deputato del Pci. È stato membro della commissione antimafia e si è tolto la soddisfazione di scrivere insieme a Pio La Torre una relazione in cui diversi democristiani, fra cui l’onorevole Giovanni Gioia, l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino e il deputato Salvo Lima vengono accusati di avere rapporti stabili con la mafia.
La toga, però, ora gli manca. La sua ostinazione si aggrappa a qualcosa che nessuno comprende. Forse neanche lui. Vuole tornare a istruire i processi, in prima linea.
Finisce di bere il caffè. Mentre si allaccia le scarpe, gli torna in mente l’immagine del giovane Borsellino con il biglietto nella mano tesa.
S’infila la giacca e tende l’orecchio verso la cucina. Giovanna ha aperto il rubinetto per lavare le tazzine. Cesare si toglie le scarpe e cammina silenziosamente fino allo stipetto del salotto. Prende la chiave e lo apre. Sbircia fra le cartelle dei suoi documenti. Eccolo lì, il biglietto. L’oggetto della sua menzogna. Richiude. In camera da letto ora c’è Giovanna, tornata per l’ultimo quarto d’ora di riposo.
«Che c’è, non trovi le scarpe?»
«Sì, no, ma… Eccole». Sorride, le dà un bacio sulla fronte ed esce dalla stanza. Apre la grande porta e percorre le scale che dal terzo piano lo portano in strada.
Il maresciallo della polizia Lenin Mancuso lo aspetta sotto casa fumando. Si chiama proprio così: Lenin. Questo poliziotto dai tratti marcati, che ricorda certi attori western, figlio di un padre che non doveva avere molti dubbi al momento di recarsi alle urne, è la sua guardia del corpo. Dovrebbe fargli anche da autista, se non fosse che il giudice Terranova preferisce guidare lui.
Cesare lo saluta con due colpetti sulla spalla.
Fanno un po’ di strada fino alla Fiat 131 Supermirafiori azzurra del giudice, salgono, Cesare ingrana la retromarcia.
«Allora?». Mancuso si strofina le mani. «Quanto manca ancora, signor giudice?». Si conoscono da più di vent’anni ma Mancuso continua a chiamarlo «signor giudice» e a dargli del lei. «Gli diamo una raddrizzata a questo Ufficio istruzione o no?».
«Eh… A Dio piacendo».
«Io sono pronto».
«Lo so». Lenin Mancuso non è soltanto il suo guardaspalle. Il maresciallo è anche un ottimo investigatore, il suo fiuto è stato decisivo nell’autunno del ’71, quando lui e Terranova davano la caccia a un uomo che aveva rapito e assassinato tre bambine. Quando Cesare ha presentato Lenin a Giovanna le ha detto che è il suo angelo custode. Ed è così che adesso li immagina lei, stesa sul letto con il sapore del primo caffè sulle labbra e gli occhi socchiusi negli ultimi scampoli di sonno: un giudice e il suo angelo custode in una 131.
«Ma che stanno aspettando? La nomina non c’era già?».
«Sì, certo che c’è», dice Terranova, che nel frattempo è quasi arrivato in retromarcia all’angolo con via De Amicis.
«E allora?».
«Eh, e allora…». Cesare inchioda il piede sul freno, il maresciallo stringe con la mano il sedile. Due auto, sbucate all’improvviso, sbarrano la strada alla Fiat 131. Scendono tre uomini con delle pistole, uno di loro ha una carabina. Non c’è molto su cui ragionare, non c’è tempo neanche per alzare un dito. Mancuso riesce a sfilare la Beretta di ordinanza dalla cintola e si lancia sopra il giudice per coprirlo. Prova a fargli scudo col suo corpo. Ma le pallottole arrivano dappertutto. Cesare sente sul volto il fiato caldo del suo angelo custode, mentre i proiettili lo scuotono come un tappeto. Sente, ancora, che il maresciallo apre lo sportello e spara qualche colpo, ma è tutto inutile. Non puoi difenderti con una pistola contro un fucile automatico, soprattutto se ti hanno teso un agguato.
E allora eccola, la morte. Cesare la vede arrivare. Aveva ragione a prenderla in giro: non è spaventosa. È solo dannatamente stupida. Ha lo sguardo vacuo dello scemo del villaggio. Come nel quadro del suo amico pittore. Se qualcuno non le avesse messo un fucile in mano, la vedresti seduta giorno e notte davanti al bar del paese, la morte, a lamentarsi del caldo e degli acciacchi dell’età. Eppure qualcuno le ha consegnato questo fucile che adesso spara, e continua a sparare, senza neanche sapere bene perché, finché le pallottole non sono finite.
Cesare pensa alla prima delle bugie che ha raccontato a Giovanna, che la mafia non uccide i giudici e ognuno pensa a fare il suo mestiere: perché da qualche anno, invece, il mestiere del mafioso è diventato anche questo, ammazzare i giudici e i poliziotti. La seconda riguarda il biglietto che ha sognato stanotte. Lui sa benissimo di cosa si tratta. È chiuso a chiave nello stipetto della libreria. Sopra c’è scritto:
Non possiedo beni immobili.
Quanto ai beni mobili, desidero che restino tutti in assoluta proprietà di Giovanna. Raccomando a Giovanna di prendersi cura della nostra piccola biblioteca e di far sì che non vengano mai disperse le numerose opere letterarie e storiche, di un certo pregio, che insieme abbiamo raccolto.
Vorrei pure che Giovanna dedicasse qualcosa, come meglio lei crede, alle organizzazioni per la protezione e la difesa degli animali e per la conservazione della natura.
Infine desidero che Giovanna, prima di tutto e di tutti, provveda a dare a mia madre — alla quale auguro lunga e lunga vita — un mio ricordo, a mia madre alla quale va costante il mio pensiero pieno di affetto e di nostalgia degli anni sereni della giovinezza.
Sta pensando a questo, Cesare, alla sua bella madre che gli sopravvivrà, agli anni sereni della giovinezza e a quel paesino arrampicato sulle Madonie dove d’inverno nevica fino alle caviglie e d’estate, quando il sole picchia, ci si mette con la testa sotto le fontane. I suoi occhi, ora che il volto gli è cascato in avanti e gli occhiali sono scivolati sulla punta del naso, sono di nuovo quelli di un bambino. Un bambino addormentato nell’abbraccio del suo angelo custode.
La morte, stupida e meticolosa, gli fa ciao dal finestrino dell’auto per sparargli l’ultimo colpo, mentre il sole scompare una volta per tutte dietro le nuvole. Basta questo perché la pioggia cominci a scrosciare.
Il libro e l’anniversario
Il 23 maggio 1992, il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. perdono la vita in un agguato mafioso: è la strage di Capaci. A trent’anni da quei fatti, Roberto Saviano rende omaggio a Falcone con Solo è il coraggio, in uscita il 27 aprile per Bompiani. Nel romanzo (qui ne anticipiamo il capitolo dedicato al giudice Cesare Terranova, ucciso nel 1979 con il maresciallo Lenin Mancuso), Saviano ricostruisce passo passo la vita di Falcone e la sua lotta contro Cosa nostra grazie a un lavoro di scavo nei documenti, negli atti dei processi e attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto. Il ritratto di un uomo, terribilmente isolato pur se nel pieno della carriera, del suo coraggio e di una stagione che ha segnato il Paese.
Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 21 marzo 2022.
Le sirene! La signora Patrizia Santoro, «onesta cittadina che paga regolarmente le tasse e lavora otto ore al giorno», non ne poteva più già prima che cominciasse, il maxi-processo di Palermo. E scrisse una lettera al Giornale di Sicilia lagnandosi delle «continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora io domando: è mai possibile che non si possa eventualmente riposare un poco nell'intervallo del lavoro o, quantomeno, seguire un programma televisivo in pace»?
Insomma, «perché non si costruiscono per questi "egregi signori" delle villette alla periferia della città, in modo tale che, da una parte sia tutelata la tranquillità di noi cittadini-lavoratori, dall'altra, soprattutto, l'incolumità di noi tutti che, nel caso di un attentato, siamo regolarmente coinvolti senza ragione (vedi strage Chinnici)»? Non c'era una parola di dolore per il giudice ucciso due anni prima e altri servitori della Patria ammazzati precedentemente come Pietro Scaglione e Cesare Terranova. Men che meno una di sostegno o almeno di apprensione per il destino di quanti come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino stavano sfidando ora la morte nella guerra alla mafia... Zero.
Solo il fastidio per le sirene o il rischio di venire coinvolta in «conseguenze facilmente evitabili» (testuale) spostando quella seccatura della guerra alle cosche un po' più in là... Curiosità e interesse Falcone, che viveva nella stessa strada della signora, ci restò malissimo. Pochi episodi come quello raccontano l'aria che tirava («La stragrande maggioranza dei palermitani assisteva con curiosità e interesse a come sarebbe finita la corrida», ricorda amaro Giuseppe Ayala) ai tempi dello storico processo al quale Roberto Saviano dedica il suo ultimo lavoro in uscita oggi.
Si intitola «Maxi - Il processo che ha sconfitto la mafia», è un podcast Audible Original , è stato scritto e curato dallo scrittore con la collaborazione di Massimiliano Coccia e racconta in dieci puntate con la voce dell'autore e le registrazioni originali dei protagonisti più luminosi, elusivi o infami, la «più ostinata battaglia che lo Stato ha portato avanti per dimostrare l'esistenza di qualcosa che prima d'allora era solo allusione, accenno, pettegolezzo...»
Basti ricordare l'ostilità alle prime proposte di Giuseppe Berti o Ferruccio Parri di varare una strategia contro il fenomeno mafioso, l'insofferenza nel '49 dell'allora ministro degli Interni Mario Scelba («Si parla della mafia condita in tutte le salse ma, onorevoli senatori, mi pare che si esageri») e tutti i silenzi e le ambiguità sul tema mentre «anche nei processi la grande criminalità veniva trattata come microcriminalità» col risultato che la creazione di una commissione antimafia arrivò solo nel '62. Diciassette anni dopo l'appello eversivo di Salvatore Giuliano: «Popolo! Centomila lire al mese a chi vuole arruolarsi nella mia banda, del nuovo esercito che si costituirà a solo scopo di lottare contro i nemici della libertà...»
I dialoghi in ascensore E troppi anni sarebbero passati ancora prima che, ricorda Saviano, emergesse nel '79 la figura di Rocco Chinnici che ideò il pool antimafia: «Un insieme di magistrati e forze di polizia, che in regime di totale condivisione di informazioni e mezzi, sono intercambiabili e un loro eventuale omicidio non minerà più le indagini in corso. Nessun giudice, nessun poliziotto si porterà nella tomba le informazioni. Se organizzi un gruppo che studia, ricerca, indaga e capisce hai creato un solco, una traccia, un modo di operare».
Un gruppo «compatto, attivo e battagliero». Mica facile, a Palermo, dove lui e il procuratore Gaetano Costa ( che sarebbe stato ucciso dalla mafia l'anno dopo) erano costretti «per evitare di essere ascoltati da spie e passacarte» a chiudersi in ascensore: «Immaginate questi due uomini salire e scendere di piano in piano senza mai mettere piede fuori per scambiarsi le informazioni più importanti, impellenti, che non potevano essere dette in auto, al bar, e nemmeno rinviate dandosi appuntamento in campagna. Ma lì in un ascensore». Sapevano cosa rischiavano. Lo ricorda Pietro Grasso che, ricevuta la proposta di fare il giudice a latere nel processo, consultò la moglie: «Già mi figuravo come sarebbe cambiata la nostra vita. Saremmo stati circondati da persone coi giubbotti antiproiettile con il mitra in mano, saremmo stati delegittimati, calunniati, oggetto di minacce e intimidazioni...».
E sommersi dal lavoro: «Falcone apre le porte di un'altra stanza e, con l'aria di chi sta per tirare un tiro mancino, mi dice: "ecco, ti presento maxiprocesso". E vidi questa stanza con quattro pareti di scaffali che arrivavano fino al tetto dove c'erano qualcosa come 120 faldoni che contenevano quattrocentomila fogli che avrei dovuto studiare». Una fatica enorme per un compito enorme, racconta lo scrittore: allestire un processo con «475 imputati, 635 avvocati, 16 giudici, 8 giudici popolari, 349 udienze, 1314 interrogatori di boss, trafficanti e pentiti, 635 arringhe difensive» per il solo primo grado. Aperto il 10 febbraio 1986 (568 giorni dopo l'assassinio di Chinnici), chiuso il 16 dicembre 1987 e presieduto dal giudice civile Alfonso Giordano che accettò «dopo sedici rifiuti da parte dei suoi colleghi».
E dirà: «Non sono mai stato così tranquillo e sereno come in quel periodo. Non so per quale motivo, potrei anche sospettare un intervento divino...» Rilette tre decenni dopo la sentenza in Cassazione del 30 gennaio 1992, le cronache di quel maxi processo concluso con 19 ergastoli e condanne per un totale di 2665 anni di galera ai quali Riina e altri reagirono come belve rabbiose azzannando Falcone e Borsellino e gli italiani tutti con gli attentati a Firenze, Roma e Milano, dimostrano davvero, grazie soprattutto alle registrazioni audio, quanto quello fu davvero passaggio epocale per Palermo, la Sicilia, l'Italia.
Buscetta in aula Ed ecco nell'audiolibro la delusione indignata di un servitore dello Stato come Carlo Alberto dalla Chiesa: «Mi mandano in una realtà come Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì». La voce di Tommaso Buscetta che spiega come «il fenomeno mafioso non è comune, non è il brigatismo, non è la solita criminalità perché la solita criminalità la polizia se ne intende e la combatte bene, il fenomeno mafioso è qualcosa di più importante. È la criminalità più l'intelligenza più l'omertà». Il caos vociante nell'aula-bunker stracolma di imputati che all'arrivo inaspettato di Don Masino cessa di colpo e «se ci fosse stata una mosca la si sarebbe sentita volare».
L'ipocrisia fetida di Michele Greco detto «Il Papa» che, dopo avere seminato di cadaveri i dintorni di Ciaculli (per trovarli tutti «l'elicottero ci vuole, dottore», dirà a Falcone il pentito Francesco Marino Mannoia) recita in aula: «Per natura, grazie a Dio, so aspettare. Non sono come quelli che si trovano alla fermata dell'autobus e continuamente fanno così è così. Io so aspettare. E so soffrire. E sono sempre sereno, signor presidente. Sono sempre sereno perché in me c'è un dono inestimabile, un dono inestimabile che non ce lo può regalare nessuno: la pace interiore, c'è in me. La pace interiore». E Totò Riina 'u Curtu che vede infine il «socio» malese nel traffico internazionale di droga Koh Bak Kin e dice: « come nei film, tengono proprio gli occhi storti».
E Totuccio Contorno che parla un siciliano così stretto che devono dargli un interprete... E via via che ripercorri con «Maxi» tutta la storia, spiccano sempre più le parole di Giovanni Falcone: «La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni». E ancora oggi ti chiedi: ha dato davvero il meglio, lo Stato? Sempre?
«Falcone fu chiamato Batman, lo sceriffo, il giustiziere... Anche così cominciò la sua fine». Teresa Ciabatti su Il Corriere della Sera il 23 Aprile 2022.
Nell’ultimo romanzo Roberto Saviano ha rimesso in fila la storia di Cosa Nostra, da quando ancora non si sapeva che si chiamava così: «Il film ‘Il Padrino’ svelò per primo quel sistema di potere, i mafiosi lo odiavano».
Il nuovo romanzo di Roberto Saviano Solo è il coraggio (Bompiani) riesce di nuovo — come Gomorra , come La paranza dei bambini — a spostare l’immaginario collettivo. Restituisce una realtà complessa, molto più complessa di come l’abbiamo creduta fin qui. Nel caso specifico: Falcone, il pool antimafia, e il Maxiprocesso. Saviano lo fa mettendo in fila fatti (che a oggi nessuno aveva allineato con tanta precisione, eliminando gli intervalli di tempo che hanno sfumato sentimenti e colpe). Attraverso il montaggio dunque, e attraverso la letteratura lo scrittore racconta una storia nuova. Indaga il privato, ovvero «lo spazio intimo dove ci si muove al riparo dai pubblici sguardi». Lì «dove maturano le scelte cruciali, si prova il dolore più profondo, si gioisce dell’ebbrezza più piena». E ancora: «Ciò che la letteratura può fare per testimoniare la solitudine e il coraggio».
Quanti anni aveva lei il 23 maggio 1992?
«Tredici».
Cosa ricorda di quel giorno?
«Il silenzio. Davanti alla televisione che dava la notizia della strage, ricordo che nessuno parlava: mio padre, mia madre, le zie. Fuori la stessa cosa, uscendo dal portone si sentivano solo le tv, nessuna voce».
Insolito?
«Qualcosa del genere, il palazzo che produce un unico suono, era successo per il Mondiale di calcio. In seguito, per la faida di Secondigliano, quando la persone — sintonizzate sulle radio locali che davano Napul’è di Pino Daniele — aprirono le finestre. Il modo per dire alla faida di fermarsi».
Perché un romanzo su Falcone?
«La sua figura mi ha insegnato a leggere il potere, la semantica del potere, quanto Max Weber».
Corleone 1942.
«Il libro inizia e finisce con una bomba. Lungo la storia ci sono tante esplosioni, l’idea è quella di una guerra civile costante. La bomba iniziale riguarda Totò Riina che vede morire il padre e un fratello nell’esplosione di un residuo bellico che stanno disinnescando per rivenderne i pezzi. Un altro fratello rimane gravemente ferito. Totò ha dodici anni: fra quelli presenti è l’unico rimasto illeso, insieme alle donne della famiglia Riina che sono in giro per il paese».
Lei fa dire a Buscetta: «Che gli vuoi insegnare la diplomazia, a uno che gli è saltata in aria la famiglia davanti agli occhi». È davvero Riina il più feroce?
«Riina non risparmia nessuno. Casomai ammazza uno in più, mai uno in meno. Con Bontate, Badalamenti e Liggio al vertice della cupola ancora era possibile qualche forma di mediazione. Le guerre andavano evitate, ai mafiosi come allo Stato. La mafia doveva esistere all’interno dello Stato, aiutarlo, se c’era una reciproca convenienza. Viceversa con Riina e Provenzano il mondo intero è in pericolo: mafiosi, magistrati, poliziotti, testimoni, politici».
Il passaggio dai palermitani ai corleonesi?
«Riina si estende con la violenza, non rispetta le regole degli omicidi, uccide chiunque».
Un esempio?
«Totuccio Contorno, guardaspalle del boss Stefano Bontate, sapendo che è sotto tiro dei corleonesi, decide di portarsi in macchina un amichetto di suo figlio».
Motivo?
«La legge della vecchia mafia voleva che con un bambino al seguito nessuno potesse essere ucciso».
Invece?
«I corleonesi se ne fregano. Ma Contorno capisce l’agguato in anticipo, vedendo un uomo affacciato al bancone, come in attesa di qualcosa, e poi un altro ancora. Allora spinge il bambino fuori dalla macchina, esce, spara e fugge. A quel punto la guerra è di tutti contro tutti».
Dall’altro lato, a cercare di fermarli?
«Un gruppo di magistrati, prima sotto Rocco Chinnici, poi sotto Nino Caponnetto - la nascita del pool vero e proprio».
Il metodo d’inchiesta di Giovanni Falcone?
«Falcone lo impara da Rocco Chinnici e lo migliora. La regola di seguire i soldi, follow the money , è un esempio del metodo Falcone. Chinnici desume le verità, Falcone trova le prove».
Nel libro è ribadita l’importanza del lavoro di gruppo, quel «più persone sanno meglio è».
«Prima di Falcone indagini e processi erano separati per territori. La teoria che andava per la maggiore era che la mafia non esistesse, che non ci fosse un’organizzazione vera e propria e che si trattasse piuttosto di quattro contadini impegnati a farsi giustizia tra loro».
Altro principio di Falcone: il senso della staffetta.
«Più che un principio era una maledizione. Non si faceva in tempo a finire un’indagine, che si veniva ammazzati: questo mi ha suggerito l’immagine di un uomo che corre e che riesce a consegnare il testimone a quello che sta davanti a lui appena prima di cadere. All’altro, purtroppo, toccherà la stessa sorte, e così via. Quella di Chinnici, Falcone, Borsellino è una scelta individuale che nasce anche dal dovere nei confronti dei colleghi e amici che li hanno preceduti. Nessuno voleva essere un eroe. Falcone parlava di compito. Considerava la sua una consegna».
La vera svolta è l’arresto di Buscetta?
«Senza Buscetta non si sarebbe saputo neanche che la mafia si chiamava Cosa Nostra».
Il significato di Cosa Nostra?
«”Occupati di ciò che è tuo”, concetto che implica un giudizio sugli altri considerati in base a come si sono comportati con te. Non valgono le voci, la giustizia. L’unica domanda di fronte a una persona è: cosa ha fatto per noi? È stato cosa nostra?».
10 febbraio 1986: Maxiprocesso.
«Subito i boss negano l’esistenza di un’organizzazione. Sostengono che sia colpa dei film se la gente pensa che esiste la mafia, la mafia non esiste. Il boss Michele Greco dice: “Sono i film di violenza e di pornografia”, citando Il Padrino , colpa de Il Padrino» .
Il Padrino ?
«Per loro è un punto di non ritorno, non per un problema d’inchiesta, ma per un problema di immagine: la mafia non era mai stata raccontata così, come una famiglia, come l’insieme di regole di famiglia. C’erano stati film sui gangster, sì, che tuttavia non svelavano niente. Difatti il giorno in cui Coppola va a fare i sopralluoghi a Little Italy gli bruciano le camere, provano in ogni modo a fermare il film».
Tornando al Maxiprocesso.
«Riina si presenta così: “Io sono un terza elementare”. Contorno parla in siciliano stretto tanto che sono costretti a chiamare un traduttore. Eppure dialetto non significa ignoranza, cosa che Falcone sa bene. Nelle case di ogni mafioso, a cominciare da Riina, c’è il romanzo I Beati Paoli (di William Galt, pseudonimo del palermitano Luigi Natoli, ndr ) che ciascuno di loro ha letto e riletto. Gli uomini d’onore chiamano Contorno col nome del protagonista: Coriolano della Floresta. Lui stesso, storpiandone il nome in “Curiano della Foresta” e dimostrando così di non aver letto il libro, ammette di essere chiamato in quel modo».
Durante il Maxiprocesso gli imputati negano ogni accusa?
«Dagli avvocati difensori agli imputati, chiunque cerca di mettersi di traverso. Turi Ercolano, cugino del boss Nitto Santapaola, si presenta con la bocca cucita a colpi di spillatrice. Vincenzo Sinagra fa scattare il metal detector dichiarando di aver ingoiato due chiodi».
Vincenzo Sinagra, colui che fa il racconto più cruento.
«Parla della “camera della morte”, un deposito in apparenza abbandonato nella zona sud est di Palermo dove venivano torturate le persone, e poi gettate nell’acido, nella vasca piena d’acido, “diventavano liquidi” racconta».
Intanto sui giornali prende avvio la delegittimazione di Falcone?
«Dicono che è un carrierista, che dà spettacolo. Scrivono che il Maxiprocesso è utile ai fini spettacolari, ma dannoso ai fini giudiziari. Sul Corriere della Sera Leonardo Sciascia scrive: “Nulla vale più in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Parlano di “un gruppo di giudici presenzialisti che vogliono vedere la propria foto sul giornale”».
Falcone resiste?
«Da anni, da quando ha iniziato l’indagine, in tribunale viene deriso: “Batman”, “il giustiziere della notte”, “lo sceriffo”. Se va in un ristorante, se esce di casa, il pensiero comune è che sia osceno che uno come lui si diverta. Non è per questo che i cittadini pagano la sua scorta, ma perché patisca e incarni la sofferenza».
Il momento peggiore?
«Dopo l’attentato all’Addaura definito poco credibile. Fanno girare la voce che la bomba se la sia fabbricata lui stesso con l’aiuto della scorta. In un’intervista a Corrado Augias, Falcone dice: “Questa è l’Italia: se ti mettono una bomba sotto casa e non muori, sei responsabile”».
Al suo fianco, in ogni momento, Francesca Morvillo?
«Magistrato a sua volta, e dei migliori, Francesca sapeva bene cosa rischiava Giovanni. Decide di condividerne il destino».
Nel libro emerge la figura di Giulio Andreotti, il suo ruolo apparentemente ambiguo.
«Io riporto i fatti, come la telefonata a Falcone dopo l’Addaura. Non si conoscevano, non si erano mai parlati. Andreotti lo chiama per congratularsi dello scampato pericolo».
Andreotti perciò?
«Nella ricostruzione tengo aperta la complessità. Di sicuro era in stretti rapporti con Salvo Lima e i cugini Salvo. È pur vero però che fosse contro i corleonesi. Ayala fa notare che Capaci avviene nel momento in cui Andreotti sta per essere rieletto. L’attentato ha il valore di un avvertimento».
Quando decidono di uccidere Falcone?
«Ci provano nuovamente nel periodo romano. Un giorno in un bar vedono Renzo Arbore e pensano: peccato che non sia nella lista delle celebrities da ammazzare. Avevano preso di mira anche Pippo Baudo, Maurizio Costanzo, Enzo Biagi, Andrea Barbato, Michele Santoro...».
Il senso?
«Ammazzare uno famoso per farsi notare. Per fare rumore e far capire che tutti sono esposti. Poi capiscono che un attentato in Sicilia è maggiormente tutelato».
I mafiosi costruiscono narrazioni parallele ai loro omicidi?
«Per l’omicidio di Don Puglisi fanno sapere che raccoglieva droga, sottintendendo che molta se la teneva per sé. Quindi inventano la storia del tossico bruciato in una macchina, facendo credere che sia stato lui a uccidere il sacerdote. Su Ninni Cassarà c’è l’invenzione dei debiti di gioco. In generale la risposta consueta agli omicidi di mafia è che “era un femminaro”».
Perché?
«L’ossessione dei mafiosi per la monogamia. Riina ha avuto un’unica donna nella vita, la moglie. Così il padre, così il nonno. L’adulterio è una prova: se tradisci tua moglie, puoi tradire anche gli altri. Fino agli anni Settanta c’erano condizioni precise per poter diventare affiliato: non essere iscritto al partito comunista, non essere iscritto al partito socialista, non essere gay, non avere i genitori divorziati, non tradire, non andare a prostitute».
Buscetta è diverso?
«”Amavo troppo la vita per stare a queste regole” si giustifica. Ha avuto tre mogli, nove figli di cui due uccisi su ordine di Riina. Durante una festa in Brasile, l’ultima moglie lo vede flirtare con un’altra donna, e gli spacca una bottiglia in testa».
Esiste un’estetica criminale?
«Anche questa ha le sue leggi. Prendiamo l’unghia del mignolo lunghissima, a triangolo: quella comunica che in carcere non rassetti, non cucini, non ti fai la barba, ma qualcuno lo fa per te».
Altro?
«I pantaloncini sono malvisti. Nel momento in cui Liggio prova ad attaccare Buscetta dice: “Io non vorrei scoprire il culetto a nessuno, ma Buscetta venne in pantaloncini corti a dirmi...” e lo accusa di avergli detto del famoso Golpe Borghese di cui racconto nel libro. Il dettaglio dei pantaloncini è fondamentale per screditarlo».
Ulteriori oggetti o comportamenti giudicati male?
«Niente ombrello, niente trolley, il trolley ti rovina la reputazione. Devi bagnarti, e avere il borsone a tracolla. Il capitano dei carabinieri settentrionale che a Casal di Principe va in caserma in bicicletta, viene richiamato. Gli chiedono di non usare la bicicletta, lui pensa per una questione di sicurezza, invece: “La gente vi vede che siete venuto a prendere Sandokan in bici” spiegano. Costituiva un segno di debolezza, qualcosa da femmina».
I film su camorra e mafia possono sviare qualcuno (come sosteneva Michele Greco per Il Padrino )?
«Nessuno, che non fosse già in un mondo criminale, ha preso le armi e sparato per aver visto un film. Diverso è il discorso mediatico. Se sui giornali trovi titoli come “rapina alla Gomorra”, significa che prima non la vedevi, e ora, dopo aver visto la rappresentazione, la vedi».
Gomorra , al pari de Il Padrino , ha dato fastidio?
«Sui muri di Scampia non troverai scritte contro i boss e le famiglie mafiose, ma sempre: “Saviano merda”».
La corrispondenza tra Falcone e Saviano nella dimensione intima?
«Con i miei anni di scorta so che significa la gestione del proprio corpo quando tutto è vietato».
Cos’è la solitudine?
«Falcone sente che la sua è una vita mancata, ha scelto di non avere figli: “Non si mettono al mondo orfani”, dice. Sono poche le persone di cui può fidarsi, molti amici si trasformano in nemici. Un’esistenza di rinuncia, che comunque attira dubbio, sospetto».
Il peso della delegittimazione continua?
«Lo capisce Falcone, lo capisce Pasolini: dalla maldicenza, dal fango, solo la morte dà pace».
Nient’altro?
«Nient’altro».
Mafia, qui visse il pentito Tommaso Buscetta. Dopo 25 anni aperta la sua cella nell'aula bunker di Palermo. Alessia Candito su La Repubblica il 6 Maggio 2022.
L'iniziativa è stata organizzata a margine della conferenza europea dei procuratori generali e poche ore prima della commemorazione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che proprio in quell'aula bunker si celebrerà alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Un letto stretto, un armadietto in ferro con le chiavi ancora attaccate, lavabo, bagno, una rudimentale cucina e a vigilare su tutto un'antiquata telecamera oggi cieca. C'è un pezzo dell'aula bunker di Palermo in cui il tempo si è fermato. Per più di vent'anni nessuno aveva aperto quelle porte. Eppure, lì dietro per anni sono stati detenuti prima Tommaso Buscetta, il pentito che con le sue rivelazioni ha demolito Cosa Nostra, e dopo di lui, quello che è stato il capo assoluto dell'organizzazione, Totò Riina.
Piero Rossano per corriere.it il 6 maggio 2022.
Un letto singolo, un angolo cottura assai spartano ed un bagno con vaso alla turca assai più basico. È l’«arredamento» della cella fatta realizzare nel carcere Ucciardone di Palermo per ospitare il pentito di mafia Tommaso Buscetta all’epoca delle sue deposizioni nell’ambito del maxi processo alle cosche palermitane istruito dai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Le immagini sono state mostrate per la prima volta a margine della conferenza dei procuratori generali del Consiglio d'Europa, organizzata dalla Procura Generale della Cassazione e dai Ministeri degli Esteri e della Giustizia.
I finti trasferimenti inscenati
La permanenza di Buscetta nell’area, gestita in quei giorni dall'ex capo della polizia Antonio Manganelli, venne tenuta riservata per motivi di sicurezza. La cella si trova nell'area dell'aula bunker dell’Ucciardone che venne costruita appositamente per la celebrazione del processo che vide imputati insieme, per la prima volta, i vertici, i «colonnelli» e gli uomini d’onore palermitani.
Nella stessa ala pernottavano gli agenti della polizia che dovevano vigilare sulla sicurezza di Buscetta, il collaboratore di giustizia che con le sue dichiarazioni fu il teste principale dell'accusa e permise a Falcone di ricostruire gli organigrammi di Cosa Nostra e far luce su decine di omicidi e traffici illeciti. Per nascondere la presenza di Buscetta, le mattine in cui questi avrebbe dovuto deporre, si inscenavano finti trasferimenti del pentito all'Ucciardone da altri luoghi della città.
Ha ospitato anche il “capo dei capi”
Nel 1993 la cella venne usata dal boss Totò Riina che, dopo la cattura, venne trasferito nell'ala riservata per assistere ai processi a suo carico. Il detenuto era controllato dagli uomini della Polizia Penitenziaria 24 ore al giorno grazie a un sistema di videosorveglianza. I pasti, prelevati dalla cucina del carcere ed ermeticamente chiusi alla presenza del direttore dell'Ucciardone, venivano aperti solo per la consegna a Riina.
Fatti e Misfatti di Mafia, Antimafia e di ‘Ndrangheta di Stato: le “vacche sacre” ancora sui terreni della Locride. Redazione La-Notizia.net il 08/02/2022.
Le azioni delittuose continuano a colpire la famiglia e l’azienda Bonfà gravemente, anche in questi giorni, col grave rischio della distruzione totale delle colture esistenti a causa della presenza persistente delle “vacche sacre”, la cui presenza, spesse volte, è stata anche negata ed altre volte gravemente sottovalutata dalla forza investigativa intervenuta, nel tempo. Si contano già, nell’arco di due giorni, circa mille nuove piante variamente danneggiate e distrutte, mentre unitamente e sommate alle precedenti oltre diecimila. A questa azienda non solo viene negato il diritto al sostegno ex L.44/99, ma non sono assicurate neanche le condizioni fondamentali di sicurezza indispensabili alla propria attività. Tali azioni hanno inizio con l’omicidio di Stefano Bonfà, consumato il 3 ottobre 1991, all’interno della propria azienda, all’epoca dei sequestri di persona, in un agguato di chiaro stampo mafioso, ancora oggi privo delle assicurazioni delle responsabilità.
Si tratta di diverse vittime innocenti trucidate nel corso delle vicende dei sequestri di persona dell’epoca, gestite da elementi di ‘ndrangheta, dice Bonfà “con la complicità di parte dei Servizi e di Carabinieri deviati, così come affermano alcuni Pentiti”, mentre il sequestrato veniva trasportato sull’allora “camionetta” in dotazione ai carabinieri, per sfuggire ai posti di blocco opportunamente predisposti, cosi come una Fonte testimoniale ha riferito alla Direzione Nazionale Antimafia.
In tale contesto chiunque si trovasse ad essere anche solo fortuito testimone di quei passaggi inconfessabili veniva trucidato quale testimone scomodo, mentre era intento nel lavoro onesto delle proprie aziende e dei propri campi: si contano diversi morti trucidati quali testimoni fortuiti e scomodi di quei passaggi inconfessabili, neanche riconosciuti quali vittime di mafia e di ‘ndrangheta di Stato.
La Commissione Parlamentare Antimafia, sollecitata ad intervenire, tace, anzi la Presidente del X Comitato interno alla medesima Commissione, l’On.le Aiello, a cui il caso era stato assegnato, ritiene di non dover più continuare la relativa audizione, momentaneamente sospesa per emergenze parlamentari: eppure la vicenda è caratterizzata da rilevanti aspetti d’interesse nazionale e non personali.
Nel contempo l’imprenditore Bruno Bonfà sfugge fortuitamente proprio a Roma all’organizzazione di un attentato messo in atto contro di lui e dell’indagine avviata non si ha più notizia: la dinamica di tale organizzazione è frutto di ambienti deviati dei Servizi.
Della questione é investito per il tramite del suo Ufficio anche il Presidente Draghi, che continua a non rispondere, similmente viene interessato il Sig. Presidente della Repubblica al cui Ufficio è chiesto di dare certezza che il Presidente sia informato sulle vicende oggetto di denuncia, si chiede pertanto un riscontro sottoscritto da parte del Presidente, ma il Suo Ufficio continua a non assicurare nulla.
Al fenomeno dei sequestri di persona segue quello delle “vacche sacre” ed anche quest’ultimo interessa tutto il territorio e la medesima azienda di Bruno Bonfà, ricadenti nella vallata del La Verde che riguarda la giurisdizione dei Comuni di Africo, Caraffa del Bianco, Sant’Agata del Bianco e Samo.
Nessuna indagine sembra sia stata svolta al fine di accertare le correlazioni esistenti tra il fenomeno dei sequestri di persona e quello di queste “vacche sacre” ed all’istanza volta all’approvazione della costituzione di una Commissione Parlamentare d’Indagine con poteri giudiziari sulle vicende dei sequestri di persona dell’epoca gli Uffici della Camera e del Senato non hanno ancora dato alcun riscontro.
Due precedenti Sig.ri Procuratori della Repubblica presso il Tribunale di Locri riconoscono, nel tempo, per ben due volte la natura mafiosa degli eventi denunciati, pertanto anche quella riguardante la presenza di queste “vacche sacre”, nella medesima linea generazionale di esse.
Non solo: successivamente, il Comandante dell’epoca del CFdS convocò una riunione con elementi di ‘ndrangheta, presente il rappresentante della cosca a cui appartenevano: l’appartenenza di esse è quindi nota come anche il suo rilevante spessore mafioso.
Al contrario, tutti i Reparti dei Carabinieri, chiamati ad intervenire ed a riferire al loro Comandante dell’epoca del CC Legione “Calabria”-Gruppo di Locri- ed alla Procura di Locri, scrivono che il fenomeno è inesistente sia sul territorio, sia nell’azienda Bonfà, ma tali militari vengono smentiti sia dagli Agenti di scorta che ne documentano fotograficamente la presenza e sia dal Nucleo Interforze inviato da SE di Reggio Calabria che ne accerta la presenza, ne sequestra un vitello ed abbatte una di queste “vacche sacre”: nonostante tutto ciò l’imprenditore Bruno Bonfà viene denunciato per procurato allarme.
Ma l’azienda Bonfà continua a subire distruzioni e danneggiamenti alle colture ed alle stesse strutture anche edilizie, particolarmente a causa della presenza di queste “vacche sacre”. Le relazioni di stima del danno redatte da parte del CFdS risultano gravemente inadeguate, esse vengono impugnate e per ben due volte sono rigettate da parte del Consiglio di Stato in accoglimento delle domande dell’imprenditore Bruno Bonfà: il sostegno, però, ex L44/99 è gravemente rallentato dal giudizio civile in corso.
Le sentenze emesse da parte del Consiglio di Stato smentiscono le squallide accuse e le gravi insinuazioni mosse da alcuni apparati dello Stato di presunti tentativi di speculazione ai danni dello Stato da parte dell’imprenditore.
Mentre nelle altre aree territoriali della Provincia di Reggio Calabria il fenomeno delle “vacche sacre” sembra quasi scomparso a seguito della nota battaglia fatta dalla Prefettura di Reggio Calabria, in questa azienda continua, “stranamente”, a persistere, pertanto l’imprenditore Bruno Bonfà chiede l’intervento di forze investigative provenienti dalle Sedi centrali di Reggio Calabria e non dalla Locride, attende il relativo riscontro.
Nel contempo, sulla vicenda è chiamata a pronunciarsi la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, ma due Sostituti Procuratori della stessa non riconoscono la natura mafiosa degli eventi denunciati, eppure si tratta della medesima dinamica mafiosa ancora oggi persistente, riconosciuta da due dei precedenti Sig.ri Procuratori della Repubblica presso il Tribunale di Locri.
Emerge una gravissima contrapposizione di giudizio all’interno dell’ambiente giudiziario, per il quale si chiede l’intervento del Procuratore Nazionale Antimafia, del Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Reggio Calabria, presso la Corte di Cassazione, del Ministro della Giustizia e del Presidente della Repubblica: si registra solo la risposta dell’Ufficio di Gabinetto del Ministro della Giustizia dell’epoca, On.le Bonafede, che riferisce trattarsi di fatti irrilevanti.
Ci si chiede se un omicidio, le vicende dei sequestri di persona gestiti “con la complicità di forze deviate dello Stato”, i diversi omicidi di persone innocenti trucidate nel corso di quelle vicende, le “vacche sacre” e la distruzione aziendale, possano essere considerate irrilevanti, mentre l’attuale Ministro della Giustizia continua a tacere e la DDA non esprime i pareri favorevoli alla ricostruzione del danno mafioso subito ed il Ministro dell’Interno non risponde alla richiesta dell’invio in questa Vallata di forze investigative adeguate alle problematiche che il territorio presenta e non provvede a disporre le adeguate misure di sicurezza, come anche di sostegno ex L44/99 che l’insieme della vicenda richiede, da oltre un ventennio, mentre l’insieme della vicenda ha inizio da un trentennio.
Mentre tutto ciò continua ad avvenire, la presenza di queste “vacche sacre” usate quale strumento di pressione per evidente finalità estorsiva continua ad arrecare gravi danni in questa azienda, che rischia la distruzione completa, come in questi giorni, col grave rischio che la gente si possa sentire sempre più legittimata a seguire le disposizioni personali per ottenere un atto di giustizia.
Ma vi è di più: alle due interrogazioni parlamentari presentate sulla vicenda il precedente Vice Ministro dell’Interno, per conto dello stesso attuale Ministro dell’Interno, chiamato, in presenza di prove incontestabili e chiare, a rivedere le risposte date, sulla base di informazioni, gravemente inadeguate, se non false, provenienti da parte degli Organi Provinciali di Reggio Calabria, non risponde, negando così all’intero Parlamento e a qualsiasi altro cittadino la possibilità di conoscere la verità dei fatti accaduti e l’assicurazione delle relative responsabilità di Stato, di mafia e di ‘ndrangheta di Stato.
Dopo quasi trent’anni di battaglia, l’imprenditore si prende sei mesi di silenzio in attesa dei relativi riscontri da parte dello Stato, ma non avviene nulla, lo Stato continua a non rispondere ed oggi l’imprenditore ritorna a parlare, rivolgendosi a tutti i Gruppi Parlamentari per le relative iniziative di legge.
La Notizia.net è un quotidiano di informazione libera, imparziale ed indipendente che la nostra Redazione realizza senza condizionamenti di alcun tipo perché editore della testata è l’Associazione culturale “La Nuova Italia”, che opera senza fini di lucro con l’unico obiettivo della promozione della nostra Nazione, sostenuta dall’attenzione con cui ci seguono i nostri affezionati lettori, che ringraziamo di cuore per la loro vicinanza. La Notizia.net è il giornale online con notizie di attualità, cronaca, politica, bellezza, salute, cultura e sport. Il direttore della testata giornalistica è Lucia Mosca. La-Notizia.net
Fatti e misfatti di Mafia, Antimafia e ”Ndrangheta di Stato – parte seconda. Redazione La-Notizia.net il 25/02/2022.
Le azioni delittuose continuano a colpire nella Locride la famiglia e l’azienda Bonfà, gravemente, anche in questi giorni, con il rischio della distruzione totale delle colture esistenti a causa della presenza persistente delle “vacche sacre”. Tale presenza, spesse volte, è stata anche negata ed altre volte gravemente sottovalutata dalla forza investigativa intervenuta nel tempo. Si contano già, nell’arco di due giorni, circa mille nuove piante variamente danneggiate e distrutte, mentre unitamente e sommate alle precedenti oltre diecimila. A questa azienda non solo viene negato il diritto al sostegno ex L.44/99, ma non sono assicurate neanche le condizioni fondamentali di sicurezza indispensabili alla propria attività: qui ne va del diritto e della libertà. Tali azioni delittuose hanno inizio con l’omicidio di Stefano Bonfà, consumato il 3.X.’91, all’interno della propria azienda, all’epoca dei sequestri di persona, in un agguato di chiaro stampo mafioso, ancora oggi privo delle assicurazioni delle responsabilità.
Si tratta di diverse vittime innocenti trucidate nel corso delle vicende dei sequestri di persona dell’epoca, gestite da elementi di ‘ndrangheta con la complicità di parte dei Servizi e di Carabinieri deviati, così come affermano alcuni Pentiti, mentre il sequestrato veniva trasportato sull’allora “camionetta” in dotazione ai carabinieri, per sfuggire ai posti di blocco opportunamente predisposti, cosi come una Fonte testimoniale ha riferito alla Direzione Nazionale Antimafia.
In tale contesto chiunque si trovava ad essere anche solo fortuito testimone di quei passaggi inconfessabili veniva trucidato quale testimone scomodo, mentre era intento nel lavoro onesto della propria azienda e del proprio campi: si contano diversi morti trucidati quali testimoni fortuiti e scomodi di quei passaggi inconfessabili, neanche riconosciuti quali vittime di mafia e di ‘ndrangheta di Stato.
La Commissione Parlamentare Antimafia, sollecitata ad intervenire, tace e anzi la Presidente del X Comitato interno alla medesima Commissione, l’On.le Aiello, a cui il caso era stato assegnato, ritiene di non dover più continuare la relativa audizione, momentaneamente sospesa per emergenze parlamentari: eppure la vicenda è caratterizzata da rilevanti aspetti d’interesse nazionale e non personali.
Nel contempo l’imprenditore Bruno Bonfà sfugge fortuitamente proprio a Roma all’organizzazione di un attentato messo in atto contro di lui e dell’indagine avviata non si ha più notizia: la dinamica di tale organizzazione è frutto di ambienti deviati dei Servizi.
Della questione é investito per il tramite del suo Ufficio anche il Presidente Draghi, che continua a non rispondere, similmente viene interessato il Sig. Presidente della Repubblica al cui Ufficio è chiesto di dare certezza che il Presidente sia informato sulle vicende oggetto di denuncia, si chiede, pertanto, un riscontro sottoscritto direttamente da parte del Presidente e non dal funzionario, ma il Suo Ufficio continua a non assicurare nulla.
Al fenomeno dei sequestri di persona segue quello delle “vacche sacre” ed anche quest’ultimo interessa tutto il territorio e la medesima azienda di Bruno Bonfà, ricadenti nella vallata del La Verde che riguarda la giurisdizione dei Comuni di Africo, Caraffa del Bianco, Sant’Agata del Bianco e Samo.
Nessuna indagine sembra sia stata svolta al fine di accertare le correlazioni esistenti tra il fenomeno dei sequestri di persona e quello di queste “vacche sacre” ed all’istanza volta all’approvazione della costituzione di una Commissione d’Indagine Parlamentare, ma con poteri giudiziari, sulle vicende dei sequestri di persona dell’epoca gli Uffici della Camera e del Senato non hanno ancora dato alcun riscontro.
Due precedenti Sig.ri Procuratori della Repubblica presso il Tribunale di Locri riconoscono, nel tempo, per ben due volte la natura mafiosa degli eventi denunciati, pertanto anche quella riguardante la presenza di queste “vacche sacre”, nella medesima linea generazionale di esse.
Non solo, successivamente, il Comandante dell’epoca del CFdS convoca una riunione con elementi di ‘ndrangheta, presente il rappresentante della cosca a cui appartengono: l’appartenenza di esse è quindi nota come anche il suo rilevante spessore mafioso.
Al contrario, tutti i Reparti dei Carabinieri, chiamati ad intervenire ed a riferire al loro Comandante dell’epoca del CC Legione “Calabria”-Gruppo di Locri- ed alla Procura di Locri, scrivono che il fenomeno è inesistente sia sul territorio, sia nell’azienda Bonfà, ma tali militari vengono smentiti sia dagli Agenti di scorta che ne documentano fotograficamente la presenza e sia dal Nucleo Interforze inviato da SE di Reggio Calabria che ne accerta la presenza, ne sequestra un vitello ed abbatte una di queste “vacche sacre”: nonostante tutto ciò l’imprenditore Bruno Bonfà viene denunciato per procurato allarme.
Ma l’azienda Bonfà continua a subire distruzioni e danneggiamenti alle colture ed alle stesse strutture anche edilizie, particolarmente a causa della presenza di queste “vacche sacre”, le relazioni di stima del danno redatte da parte del CFdS risultano gravemente inadeguate, esse vengono impugnate e per ben due volte sono rigettate da parte del Consiglio di Stato in accoglimento delle domande dell’imprenditore Bruno Bonfà: il sostegno, però, ex L44/99 è gravemente rallentato dal giudizio civile in corso.
Le sentenze emesse da parte del Consiglio di Stato smentiscono le squallide accuse e le gravi insinuazioni mosse da alcuni apparati dello Stato di presunti tentativi di speculazione ai danni dello Stato da parte dell’imprenditore.
Mentre nelle altre aree territoriali della Provincia di Reggio Calabria il fenomeno delle “vacche sacre” sembra quasi scomparso a seguito della nota battaglia fatta dalla Prefettura di Reggio Calabria, in questa azienda continua, “stranamente”, a persistere, pertanto l’imprenditore Bruno Bonfà chiede l’intervento di forze investigative provenienti dalle Sedi centrali di Reggio Calabria e non dalla Locride, attende il relativo riscontro.
Nel contempo, sulla vicenda è chiamata a pronunciarsi la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, ma due Sostituti Procuratori della stessa non riconoscono la natura mafiosa degli eventi denunciati, eppure si tratta della medesima dinamica mafiosa ancora oggi persistente, riconosciuta da due dei precedenti Sig.ri Procuratori della Repubblica presso il Tribunale di Locri.
Emerge una gravissima contrapposizione di giudizio all’interno dell’ambiente giudiziario, per il quale si chiede l’intervento del Procuratore Nazionale Antimafia, del Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Reggio Calabria, presso la Corte di Cassazione, del Ministro della Giustizia e del Presidente della Repubblica: si registra solo la risposta dell’Ufficio di Gabinetto del Ministro della Giustizia dell’epoca, On.le Bonafede, che riferisce trattarsi di fatti irrilevanti.
Ci si chiede se le vicende dei sequestri di persona, i diversi omicidi di persone innocenti trucidate nel corso di quelle vicende, le “vacche sacre” e la distruzione aziendale, possono essere considerate irrilevanti, mentre l’attuale Ministro della Giustizia continua a tacere e la DDA non esprime i pareri favorevoli alla ricostruzione del danno mafioso subito ed il Ministro dell’Interno non risponde alla richiesta dell’invio in questa Vallata di forze investigative adeguate alle problematiche che il territorio presenta e non provvede a disporre le adeguate misure di sicurezza, come anche di sostegno ex L44/99 che l’insieme della vicenda richiede, da oltre un ventennio, mentre l’insieme della vicenda ha inizio da un trentennio.
Mentre tutto ciò continua ad avvenire, la presenza di queste “vacche sacre”, usate quale strumento di pressione per evidente finalità estorsiva continua ad arrecare gravi danni in questa azienda, che rischia la distruzione completa, come in questi giorni, col grave rischio che la gente si possa sentire sempre più legittimata a seguire le disposizioni personali per ottenere un atto di giustizia.
Ma vi è di più: alle due interrogazioni parlamentari presentate sulla vicenda il precedente Vice Ministro dell’Interno, per conto dello stesso attuale Ministro dell’Interno, chiamato, in presenza di prove incontestabili e chiare, a rivedere le risposte date, sulla base di informazioni, gravemente inadeguate, se non false, provenienti da parte degli Organi Provinciali di Reggio Calabria, non risponde, ingannando così l’intero Parlamento e qualsiasi altro cittadino che voglia conoscere la verità dei fatti accaduti e l’assicurazione delle relative responsabilità di Stato, di mafia e di ‘ndrangheta di Stato.
Qui ne va del Diritto e della Libertà.
Dopo quasi trent’anni di battaglia, l’imprenditore si prende sei mesi di silenzio in attesa dei relativi riscontri da parte dello Stato, ma non avviene nulla, lo Stato continua a non rispondere ed oggi l’imprenditore ritorna a parlare, rivolgendosi a tutti i Gruppi Parlamentari per le relative iniziative di legge.
La Notizia.net è un quotidiano di informazione libera, imparziale ed indipendente che la nostra Redazione realizza senza condizionamenti di alcun tipo perché editore della testata è l’Associazione culturale “La Nuova Italia”, che opera senza fini di lucro con l’unico obiettivo della promozione della nostra Nazione, sostenuta dall’attenzione con cui ci seguono i nostri affezionati lettori, che ringraziamo di cuore per la loro vicinanza. La Notizia.net è il giornale online con notizie di attualità, cronaca, politica, bellezza, salute, cultura e sport. Il direttore della testata giornalistica è Lucia Mosca. La-Notizia.net
Le rivelazioni nel nuovo libro di Palamara e Sallusti. Omicidio di Paolo Borsellino, un complotto lungo trenta anni. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.
Il più grande complotto di Stato mai avvenuto nella storia d’Italia e che si è svolto nell’arco di trent’anni porta il nome glorioso di Paolo Borsellino, e insieme quello del “pentito” costruito in vitro di Enzo Scarantino. Quanti magistrati, pubblici ministeri, giudici togati e popolari, membri del Csm e procuratori generali, e poi questori, prefetti e poliziotti sono i colpevoli per aver preso parte al complotto? E quanti di loro –a parte tre agenti che rischiano di finire allo spiedo come unici capri espiatori- risponderanno, oltre che per la violazione della memoria di un grande magistrato, per aver truccato le carte, nascosto carte, nastri registrati e testimonianze, mandato in galera gli innocenti?
Dobbiamo ancora una volta dire grazie a Luca Palamara, ben sollecitato da Sandro Sallusti nella seconda puntata sulla vera e unica Casta, quella delle toghe, per averci dato sul fattaccio qualche illuminazione in più, pure a noi che su questo scandalo di Stato credevamo di sapere tutto. Ci fa anche sentire un po’ come quelli che hanno continuato a guardare il dito senza vedere la luna, questa parte del libro, diciamo la verità. Perché, partendo dai primi passi con cui il picciotto Enzino fu preso per mano e accompagnato a suon di botte, sputi, vermi e vetro nella minestra, ricatti, suggerimenti e promesse a dire il falso per depistare dalle ragioni vere per cui Borsellino fu assassinato, si arriva fino al coinvolgimento del Csm e del procuratore generale Fuzio, invano coinvolto dalle figlie del magistrato ucciso. Dal 1994 al 2018, e poi 2019, l’anno del pensionamento del vertice della magistratura. Ecco il trentennio del complotto, se prendiamo come punto di riferimento il 1992 come anno della strage di via D’Amelio e il 2022 con le ultime rivelazioni del magistrato Luca Palamara, che non è innocente in questa storia, come lui stesso racconta.
Sono numerosi i passaggi attraverso i quali il bluff Scarantino avrebbe potuto essere disvelato. Si sarebbe potuto fare giustizia. Non solo individuando gli autori del delitto, ma anche il movente. Si è voluto perdere tempo e sviare l’attenzione. Il che significa depistare. Facciamo finta per un attimo di essere noi i pubblici ministeri e mettiamo insieme i capi d’accusa. Primo: le torture nel carcere di Pianosa (e Asinara), che non hanno riguardato solo Scarantino, ma una serie di detenuti trasferiti d’improvviso di notte da tutte le prigioni del sud. Segnale forte di governi deboli nella lotta alla mafia, con i boss che ordinavano le stragi dalla latitanza. Le denunce di quel che avveniva in quelle prigioni speciali riaperte per l’occasione erano state oggetto di interrogazioni parlamentari, di proteste degli avvocati e dei parenti dei detenuti, diventati il bersaglio di una vendetta dello Stato che non riusciva a trovare e punire i colpevoli. La moglie di Scarantino aveva reso pubblica una lettera con accuse precise nei confronti del questore di Palermo Arnaldo La Barbera, denunciando la costruzione del “pentitificio” attraverso le torture. E il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli si era presentato in conferenza stampa, con al fianco il procuratore generale e il questore, per scagionare La Barbera e confermare l’attendibilità di Scarantino.
Punto secondo: fin dal 1994 era agli atti una relazione dei pubblici ministeri Ilda Boccassini e Roberto Saieva al procuratore capo di Caltanissetta Tinebra in cui documentavano l’inattendibilità del collaboratore di giustizia. Lo avevano messo alle strette sulle sue deposizioni e avevano capito che, nel riferire di fatti e persone, straparlava di soggetti che neanche conosceva. Boccassini, che era stata applicata da Milano nella città nissena nel 1992 in seguito all’uccisione di Giovanni Falcone e nel 1994 era in partenza per tornare nella sua città, ma si era detta disponibile a rinunciare alle ferie per poter continuare a interrogare Scarantino. Niente da fare. Così, con il collega, aveva lasciato la sua relazione. Che però è sparita. E ovviamente non è stata mai messa a disposizione dei giudici degli undici processi che si sono occupati della morte di Paolo Borsellino. La sua testimonianza verrà utilizzata solo una quindicina di anni dopo, al Borsellino-quater, quando l’imbroglio verrà svelato. Ma l’anno scorso quando è stata chiamata anche al processo contro i tre agenti accusati del depistaggio, non solo ha raccontato che il procuratore Tinebra si chiudeva per ore in una stanza con Scarantino prima di ogni sua deposizione, ma si è riscontrata violentemente con il pm di udienza che non voleva fosse lasciata parlare.
A proposito di atti spariti, arriviamo al punto terzo, sulla base del quale il castello delle dichiarazioni di Enzino sarebbe crollato, se qualcuno avesse voluto indagare secondo le regole. Il 13 gennaio del 1995 c’era stato il confronto tra il finto pentito e tre collaboratori doc, Gioacchino La Barbera, Totò Cancemi e Santino Di Matteo. Le deposizioni erano state registrate in 19 bobine. Un confronto importante, nella fase precedente al primo processo Borsellino, la cui sentenza è datata a un anno dopo, nel gennaio del 1996. Da quei verbali, come già dalla relazione dei pm Boccassini e Saieva, emergeva il fatto che, messo davanti a tre boss di un certo rilievo, Scarantino era in seria difficoltà, perché neppure lo conoscevano. Era caduto continuamente in contraddizione, non sapeva neppure dove fosse quella via D’Amelio in cui diceva di aver portato l’auto imbottita di tritolo. Bene, anche quei verbali erano spariti, e all’avvocato Rosalba Di Gregorio, che difendeva alcuni imputati accusati ingiustamente, che ne chiedeva copia, i procuratori di Palermo e Caltanissetta rispondevano con un assurdo ping-pong rimbalzandone la custodia e la responsabilità l’un l’altro. Solo al Borsellino-ter le carte sono ricomparse, quando forse era tardi.
Quindi: le torture che hanno creato il “pentito”, la relazione sparita dei pm come Boccassini e Saieva che avevano denunciato l’imbroglio, il confronto con tre boss che l’avevano smascherato. Tutto questo dimostra che fin dal 1994-95 le indagini avrebbero potuto prendere un’altra strada. E avremmo potuto mettere insieme già un bel numero di nomi di magistrati, Tinebra, Lo Forte, Petralia, Palma, Di Matteo, Caselli, quelli che hanno voluto credere al fatto che per uccidere Borsellino fosse sufficiente assoldare un piccolo spacciatore del quartiere della Guadagna di Palermo. E che questa testimonianza, ottenuta con le torture, bastasse a costruire processi, a mostrare all’opinione pubblica la verità sulla strage di via D’Amelio. Del resto hanno avuto ragione. E ai loro nomi occorre aggiungere tutti quelli di pm e pg e giudici togati e popolari che hanno seguito lo stesso percorso. Fino al Borsellino-quater e la deposizione di Gaspare Spatuzza.
Possiamo tralasciare il fatto che lo stesso Scarantino, da un certo momento in avanti, cominciò a ritrattare e a raccontare chi gli dava i suggerimenti alla vigilia di ogni interrogatorio. Perché nel frattempo dei pm che gestirono le deposizioni di Scarantino e che sono stati indagati per i depistaggi, Petralia e Palma hanno avuto la soddisfazione di veder archiviata la propria posizione, mentre Di Matteo è rimasto sempre solo testimone. Era giovane, si sa. Ma l’assassinio di mio padre era così poco importante da esser affidato a un pm ragazzino, si è domandata Fiammetta, l’indomita figlia del magistrato assassinato. È grazie alle iniziative sue e di sua sorella Lucia, che apprendiamo l’ultimo passaggio del Complotto di Stato, che coinvolge quello che fu un vertice della magistratura, il procuratore generale Riccardo Fuzio, poi costretto alle dimissioni in seguito alla vicenda Palamara e la riunione all’hotel Champagne.
Nel 2018 le due sorelle avevano inviato all’alto magistrato tutta la documentazione (quel che abbiamo finora raccontato e magari molto altro), nella speranza che esercitasse il suo potere di iniziativa disciplinare. Che cosa ha fatto l’impavido magistrato? Prima il nulla, per un intero anno, e poi il peggio, con una lettera ipocrita, mentre aveva già un piede fuori dal palazzo. Avrei voluto (ma ahimé ora non posso più) parlarne all’inaugurazione dell’anno giudiziario, scrive. E loro gli rispondono no grazie, non di celebrazioni ha bisogno la memoria di nostro padre, ma di assunzioni di responsabilità.
E del resto, che cosa ha fatto il Csm nel 2017, quando lo imponeva la vergogna di quel che era emerso nel processo Borsellino-quater con la sua verità? Ammuina, racconta con un po’ di vergogna Luca Palamara nel libro. Perché? Perché aleggiava il nome di Di Matteo. Che era ed è molto potente. Ecco come vanno le cose, da trent’anni a questa parte. Ecco perché, tutto sommato, temiamo che non cambierà mai niente anche se, oltre al dito, ora noi, ma anche l’attuale Csm o il Pg in carica, abbiamo guardato anche la luna. Cioè il Complotto di Stato.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il venerabile ricatto. Report Rai PUNTATA DEL 24/01/2022 di Paolo Mondani. Collaborazione di Roberto Persia.
Bologna, 2 agosto 1980: la più grande strage della storia repubblicana. Report ha intervistato testimoni storici, esponenti dell’eversione nera, collaboratori di giustizia, dirigenti dei servizi segreti dell’epoca, magistrati.
Il 24 gennaio iniziano le votazioni per il nuovo Presidente della Repubblica: il supremo garante della Costituzione. Quel giorno andrà in onda una puntata di Report sul nostro passato più oscuro per ricordare chi siamo stati. E quanta verità manca per realizzare un articolo della Costituzione, dove la verità è definita il diritto fondamentale di una società democratica. A Bologna si sta concludendo il processo sui mandanti della strage. Quarant’anni fa. 2 agosto 1980. 85 morti e 200 feriti. Il processo ancora in corso ricerca l'identità del criminale che ha realizzato la più grande strage della storia repubblicana. Già condannati con sentenza definitiva come esecutori i terroristi neri Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini, e Gilberto Cavallini in primo grado. Oggi alla sbarra, imputato per concorso nella strage con l’accusa di aver procurato l’esplosivo, è l’estremista di destra e killer di ‘ndrangheta Paolo Bellini. Ma la Procura Generale ha individuato quattro nomi, quattro presunti mandanti e finanziatori della strage: al vertice sarebbe stato il capo della loggia P2 Licio Gelli, che attraverso il suo banchiere di fiducia Umberto Ortolani avrebbe veicolato finanziamenti agli esecutori materiali e a una rete incaricata del depistaggio delle indagini, che faceva capo all’ex direttore del «Borghese» Mario Tedeschi, e a Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale. Report ha intervistato testimoni storici, esponenti dell’eversione nera, collaboratori di giustizia, dirigenti dei servizi segreti dell’epoca, magistrati. Il punto di partenza è la morte di Piersanti Mattarella, l’esponente democristiano siciliano legatissimo ad Aldo Moro che verrà ucciso il 6 gennaio del 1980. Giovanni Falcone indagò sulla morte di Mattarella, e oggi Report è in grado di rivelare particolari importanti su quelle indagini e sull’esistenza di un verbale fino a oggi sconosciuto che riguarda Paolo Borsellino. Il generale Pasquale Notarnicola, capo dell’antiterrorismo del Sismi nel 1980, ha voluto rilasciare all’inviato Paolo Mondani una importante intervista pochi giorni prima di morire. Ha raccontato dall’interno i depistaggi effettuati da uomini del Sismi per allontanare la verità sui responsabili della strage di Bologna, descrivendo i mandanti e da chi ricevevano gli ordini da fuori Italia.
IL VENERABILE RICATTO Di Paolo Mondani Collaborazione Roberto Persia Ricerca Immagini Alessia Pelagaggi Immagini Dario D’India, Andrea Lilli e Alessandro Spinnato Montaggio e grafica Giorgio Vallati
PAOLO BELLINI C'è chi per un bacio ha preso 500 milioni. Se io avessi fatto o avessi parte e arte nella strage di Bologna come collaboratore avrei chiesto miliardi
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Mio padre? In una parola? Il diavolo
ROBERTO SCARPINATO - PROCURA GENERALE PALERMO Le indagini di Falcone su Mattarella segnano una svolta nella sua vita e lo perdono.
IRMA CHIAZZESE - MOGLIE DI PIERSANTI MATTARELLA Il killer di Piersanti Mattarella è Giusva Fioravanti.
FILIPPO BARRECA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sono omicidi politici voluti dalla Dc.
MOMMO GIULIANA - EX DIRIGENTE DC PALERMO La mafia a mio giudizio ha dato il consenso.
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Il Movimento Sociale Italiano, Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Europa e Civiltà hanno marciato divisi e hanno colpito uniti. Non sono stati loro a decidere la strage di Bologna, questi l’hanno eseguita la strage.
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO D’Amato non era un personaggio da farsi usare, semmai usava.
PASQUALE NOTARNICOLA - GENERALE ESERCITO - EX DIRIGENTE DEL SISMI Gelli che viene tanto magnificato io lo ritengo un prestanome.
PAOLO BOLOGNESI - PRESIDENTE DELL’ASSOCIAZIONE DEI FAMILIARI DELLE VITTIME DELLA STRAGE ALLA STAZIONE DI BOLOGNA Ringraziamo anche tutti quei giornalisti coraggiosi e impegnati, che come i redattori della trasmissione televisiva Report, oppongono le risultanze delle indagini giudiziarie e della ricerca storica al potente fronte di innocentisti.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Un applauso che condividiamo con tutti coloro che hanno contribuito e contribuiranno alla verità. Era il 2 agosto del 2021, 41° anniversario della strage di Bologna. Quella che il Presidente Pertini ha definito “l’impresa più criminale della storia della repubblica”. Ora, alla verità si può arrivare anche 41 anni dopo e dopo cinque processi, due sono ancora in piedi. Questo grazie alla digitalizzazione di milioni di atti giudiziari, sono quelli che sono stati raccolti dai processi per terrorismo e quelli sulle stragi che si sono consumate in Italia dal 1974 ad oggi. Li hanno raccolti, riletti e confrontati i legali dell’associazione dei parenti delle vittime della strage e i magistrati della Procura Genrale di Bologna. E dalla rilettura è emerso, sono emersi quattro nuovi presunti mandanti, organizzatori delle stragi. La P2 con Licio Gelli avrebbe pagato, attraverso il banchiere Ortolani, il senatore dell’Msi Mario Tedeschi, direttore anche del “Borghese” e il capo dell’ufficio degli affari riservati del Viminale, Federico Umberto d’Amato, la più nota spia dal dopoguerra ad oggi. E tutto questo l’avrebbe fatto Gelli per organizzare e depistare sulla strage di Bologna. Ora, quei quattro sono morti e non saranno mai processati mentre gli esecutori materiale della strage sono stati condannati con sentenza definitiva e sono Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, entrambi dei NAR (Nuclei armati rivoluzionari). E anche ai NAR, apparteneva, appartiene Gilberto Cavallini che è il quarto esecutore della strage condannato però in I° grado. Ora però da un filmato girato da un turista svizzero emerge dal passato un volto che si aggira su un binario, proprio quello coinvolto dalla bomba, dieci minuti prima che esplodesse, quel volto apparterrebbe a Paolo Bellini che secondo gli inquirenti è il quinto esecutore della strage. Paolo Bellini è un ladro di opere d’arte, è stato killer per Avanguardia Nazionale, ha ucciso anche per conto della ‘ndrangheta. Il padre Aldo, convinto fascista, appartenente alla folgore lo aveva indirizzato a collaborare con i servizi di sicurezza. Lui si è sempre detto estraneo alla strage di Bologna, tuttavia era stato coinvolto inizialmente e poi prosciolto nel 1992. Ha goduto di coperture istituzionali e familiari incredibili e ora c’è il colpo di scena e il velo, l’alibi che l’ha coperto per oltre quaranta anni è caduto. E se ti sei perso qualcosa, cerchi qualcosa di importante, il luogo migliore per cercarlo è il labirinto. Il nostro Paolo Mondani.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La strage di Bologna sembra un film di fantascienza perché parla di un tempo pietrificato. I muri di un labirinto. Tutto accadde 41 anni fa. La memoria è smembrata in un intrico di vie. Smarrita dentro un enigma apparentemente insolubile. Eppure oggi la foschia si dirada e siamo vicini alla verità sui mandanti della strage. Giunti al centro del mistero, nel punto più oscuro e profondo del nostro passato inizia la via del ritorno. E un passo alla volta risaliamo il grande labirinto. Bologna Corte di Assise, sta andando a testimoniare Maurizia Bonini la moglie di Paolo Bellini sotto processo per strage. Le viene mostrato un filmato realizzato alla stazione di Bologna nei minuti a cavallo dell’esplosione.
UDIENZA CORTE D’ASSISE BOLOGNA 21/07/2021 UMBERTO PALMA - SOSTITUTO PROCURATORE GENERALE BOLOGNA Fermi! Questo è un primo fotogramma. Senta signora Bonini vede quel signore con i baffi e con la catena a destra nell’immagine?
MAURIZIA BONINI - EX MOGLIE PAOLO BELLINI Sì. UMBERTO PALMA - SOSTITUTO PROCURATORE GENERALE BOLOGNA Si può esprimere su questa persona?
MAURIZIA BONINI - EX MOGLIE PAOLO BELLINI Mi sembra mio marito. È Paolo. È Paolo perché ha qua, la, qua questa fossetta qua, comunque si vede, avrà i capelli più indietro ma comunque è lui. Anche nella foto immagine che è stata passata nel telegiornale lo riconosco ancora meglio che nel movimento.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Questa l'immagine del filmato confrontata con la foto di Bellini dell'epoca.
PAOLO MONDANI La sua mamma si viene a scoprire che aveva permesso a Paolo Bellini di avere un alibi, diciamo così, per Bologna quel mattino e l’ha tenuto fermo diciamo, ha tenuto botta per quest’alibi più di trentacinque anni. Voglio dire…..
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Io le posso garantire una cosa, che mia madre aveva un grande timore. Questo è poco ma sicuro
PAOLO MONDANI Un grande?
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI …timore e paura di lui e della sua persona. Gli chiese se aveva avuto a che fare qualcosa con Bologna, se lui c’entrava, e credo proprio che lui le abbia detto “assolutamente io con Bologna non c’entro niente”. E poi se lo rivede nella foto e lo riconosce e dice: "Cavolo questo è lui"."…..
PAOLO MONDANI Nel video addirittura.
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Nel video anche e dice cavolo questo è lui, evidentemente.
PAOLO MONDANI Le è cascato il mondo addosso.
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Beh probabilmente sì.
PAOLO MONDANI È proprio lei che all'Archivio di Stato di Bologna trova il filmato girato in Super8 dal turista svizzero Harold Polzer il 2 agosto '80 proprio alla stazione.
ANDREA SPERANZONI - AVVOCATO PARTE CIVILE PARENTI VITTIME DELLA STRAGE La cosa che mi aveva colpito era nell'indice degli atti l'orario di quel Super8 girato al primo binario della stazione cioè quello investito dallo scoppio, ore 10 e 13. Quindi qualcuno aveva filmato dodici minuti prima della strage il binario. E lì ci siamo imbattuti in un volto, nel volto che poi è stato, comparativamente con la foto segnaletica di Paolo Bellini indicato come compatibile con quello del principale imputato della strage.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Secondo la Procura Generale di Bologna Paolo Bellini è il quinto uomo della strage del 2 agosto 1980 dopo le condanne definitive di Francesca Mambro, Giusva Fioravanti, Luigi Ciavardini e il primo grado di Gilberto Cavallini. Tutti della formazione terroristica dei Nar. Bellini, militante di Avanguardia Nazionale, fu ladro d'arte e killer per una cosca della 'Ndrangheta. Per alcuni anni sfruttando protezioni istituzionali mantenne la finta identità di Roberto Da Silva. In carcere nell'81 conobbe il boss di Cosa Nostra Nino Gioè. E dopo la strage di Capaci del 1992, con la copertura dei carabinieri, imbastì con Cosa Nostra una strana trattativa.
UDIENZA CORTE D’ASSISE BOLOGNA 01/10/2021 PAOLO BELLINI - UDIENZA CORTE DI ASSISE BOLOGNA 1 OTTOBRE 2021 Pensi un po', c'è chi per un bacio ha preso 500 milioni. Il famoso bacio di Totò Riina, il famoso bacio di Andreotti. Se io avessi fatto o avessi parte e arte nella strage di Bologna come collaboratore avrei chiesto miliardi, non 500 milioni. Avrei chiesto di andare sulla luna e mi ci avrebbero portato sulla luna. Però non ho niente a che spartire con questa situazione.
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Se mio padre ha fatto una determinata carriera è chiaro che aveva delle spiccate doti naturali. Non gliene è mai fregato niente di nessuno perché è una persona incapace di amare.
PAOLO MONDANI Me lo dica in una parola, che figura era suo padre?
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Mio padre? In una parola? Così mi svela il libro, mi svela il titolo del libro: il diavolo. Se vuole che le dica che cosa era mio padre: era il diavolo. Io l’ho conosciuto, ma davvero!
PAOLO MONDANI Quando esce il suo libro?
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Non esce perché nessuno lo vuole fare.
SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO È il diavolo dice il figlio, mentre l’ex moglie dopo 40 anni toglie il velo sull’alibi. Ecco, lo aveva coperto fino ad oggi per paura, perché non c’è da scherzare con Paolo Bellini. Era stato infiltrato dall’allora colonnello del Ros, Mario Mori, all’interno di Cosa Nostra. Lui aveva riallacciato i rapporti con Antonino Gioè, uomo di cosa nostra lo aveva conosciuto in carcere. Quel Gioè che aveva rapporti diretti con Totò Riina e che aveva partecipato alla strage di Capaci nel 1992, solo che Bellini lo incontra nel ’91 ad Enna. Proprio nel luogo, nel periodo in cui Cosa Nostra sta pianificando la stagione stragista. Bellini con Gioè inizia anche una timida trattativa: un occhio di riguardo per quei boss vecchi e malati che sono in carcere in cambio si recuperavano le opere d’arte rubate. Solo che alla fine dell’infiltrazione Bellini non ha recuperato alcuna opera d’arte ne ha fermato le stragi, ne ha contribuito ad arrestare dei mafiosi. Quindi è diventata una sorta di figura misteriosa, forse la più misteriosa del periodo stragista. Ha fatto realmente l’infiltrato o ha inoculato magistralmente l’idea in Cosa Nostra che fare gli attentati al patrimonio artistico del paese avrebbe pagato? Perché da lì a poco ci sarebbe l’attentato a Georgofili, San Giovanni e a San Giorgio al Velabro. Mentre invece Gioè che aveva dialogato con lui si uccide misteriosamente in carcere. Secondo il pentito Di Carlo l’uccisione di Gioè invece sarebbe stata opera dei servizi segreti avrebbero impedico così che parlasse e raccontasse la sua verità. Ogni tanto emerge quel filo nero perché Bellini riemerge dal passato in un filmato girato da un turista svizzero che lo immortala mentre passeggia sui binari 10 minuti prima dell’esplosione della bomba. Quel volto apparterrebbe secondo gli inquirenti a Paolo Bellini. Ogni tanto rispunta questo filo nero che congiunge uomini dell’estrema destra, servizi segreti, P2 e anche uomini di Cosa Nostra. Era stato proprio Licio Gelli negli anni ’70 a volere l’infiltrazione degli uomini più rappresentativi di Cosa Nostra all’interno delle logge diramazioni della P2. Questo per controllare il territorio. Nel luglio del 1980 proprio due degli autori materiale della strage, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti si recano in Sicilia presso un loro amico Francesco Mangiameli. Quel Mangiameli neofascista palermitano che poi dichiarerà, racconterà ad un altro neofascista Alberto Volo che l’autore della strage di Bologna era stato proprio Valerio Fioravanti. E gli racconterà anche altro, che Valerio Fioravanti era stato il killer di Piersanti Mattarella, il fratello di Sergio, ucciso sette mesi prima della strage di Bologna.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Facciamo un salto nel passato. Località Tre Fontane, provincia di Trapani, siamo a fine luglio del 1980, pochi giorni prima della bomba di Bologna. Francesca Mambro e Valerio Fioravanti esecutori della strage, sono qui in vacanza, a casa di Ciccio Mangiameli, noto estremista di destra siciliano. Lo uccideranno nel settembre successivo perché secondo i giudici bolognesi Mangiameli si era dissociato dal progetto della strage. E volevano ammazzargli anche moglie e figlia.
PAOLO MONDANI Perché pensavano che Mangiameli ed altri avessero i rapporti coi servizi segreti, la polizia…
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Ma che c'entra uccidere mia figlia, che c'entra?
PAOLO MONDANI Perché poteva sua figlia o lei aver partecipato a delle riunioni.
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Ma quali riunioni?
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Io, diciamo, lo contrastavo, dicevo ma tu perché fai questa politica? che cosa vuoi…
PAOLO MONDANI Ah, lei contrastava Fioravanti?
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Sì. Una volta gli ho detto: ma tu da bambino eri maltrattato? Perché visto che maltratti…"Io sono stato trattato benissimo". Ma, ci dissi, non mi sembra. PAOLO MONDANI Lei non ha mai dubitato che quel signore che si chiamava Fioravanti, che aveva ucciso persino suo marito si fosse occupato anche dell'omicidio di Piersanti Mattarella?
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI No.
PAOLO MONDANI E allora perché lo hanno ucciso suo marito?
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Fiore dice che ce l'aveva con loro, che voleva eliminarli tutti.
PAOLO MONDANI Che Fioravanti voleva eliminarli tutti?
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Sì. PAOLO MONDANI E perché secondo lei signora?
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Ma Fiore dice che non approvavano quello che facevano, che fomentavano i ragazzini…
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La signora Rosaria Amico cita Roberto Fiore che scappò a Londra poco dopo la strage di Bologna e fu condannato per l'appartenenza ai NAR nel 1985. Sospettato di essere agente del servizio segreto britannico, Fiore tornò in Italia a fine anni '90 perché i suoi reati erano caduti in prescrizione. Fondatore di Forza Nuova, è stato arrestato in seguito all'assalto della sede della CGIL del 9 ottobre scorso durante la manifestazione dei No Green Pass. Ma torniamo a Piersanti Mattarella, presidente democristiano della Regione Sicilia ucciso il 6 gennaio 1980, omicidio del quale inizialmente verranno accusati Fioravanti e Cavallini. Del caso si occupò intensamente Giovanni Falcone che nel 1989 interrogò l'estremista di destra Alberto Volo.
ROBERTO TARTAGLIA - VICE CAPO DAP - EX PM INDAGINI OMICIDIO MATTARELLA Stefano Alberto Volo è il miglior amico di Francesco Mangiameli. Quello che Volo alla fine verbalizza con Giovanni Falcone in estrema sintesi è questo: che lui ha saputo da Mangiameli che l’omicidio di Piersanti Mattarella è stato realizzato da Fioravanti e da Cavallini. Che questa decisione nasce da una volontà politica e massonica, che lui ascrive direttamente in quei verbali alla volontà di Licio Gelli, di arginare definitivamente l’apertura a sinistra della democrazia cristiana e di interrompere con il nuovo tentativo di riprendere il vecchio discorso lasciato tragicamente in sospeso con il sequestro Moro. Dice anche Alberto Volo a Giovanni Falcone, e siamo nell’89, quando viene sentito da Giovanni Falcone che tutte queste cose lui le sa non solo perché è amico di Mangiameli, ma perché appartiene a una organizzazione paramilitare di servizi italiani e americani che lui definisce Universal Legion, non parla di Gladio…
PAOLO MONDANI Però ci assomiglia molto.
ROBERTO TARTAGLIA - VICE CAPO DAP - EX PM INDAGINI OMICIDIO MATTARELLA Però ci assomiglia molto e c’è un dato, lo stesso Volo la definisce in un verbale, era una specie di Rosa dei Venti, ma più articolata e complessa.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Gladio e l'omicidio Mattarella furono l'assillo di Giovanni Falcone prima di essere ucciso il 23 maggio del '92. Nell' '88 e nel '90 Falcone ribadirà alla Commissione Parlamentare Antimafia che credeva nella pista nera. E non solo. Scopriamo un verbale straordinario. Alberto Volo poco prima di morire, il 14 luglio 2016, viene interrogato da Roberto Tartaglia e Nino di Matteo. E rivela un fatto assolutamente inedito. Afferma di essere stato sentito da Paolo Borsellino dopo la morte di Falcone. A giugno del '92. I due parlarono della fase esecutiva della bomba di Capaci. "Scoprii che Borsellino non credeva alla teoria del bottoncino" dice Volo. E cioè alla tesi del telecomando della strage premuto dai mafiosi. Borsellino insomma era certo che la mafia non aveva fatto la strage da sola. E forse per questo era così importante far sparire la sua agenda rossa.
ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Le indagini di Falcone su Mattarella segnano una svolta nella sua vita e lo perdono. Sino ad allora lui si era guadagnato l’inimicizia della mafia, dei riciclatori della mafia, ma con le indagini sull’omicidio Mattarella aggiunge anche un altro nemico, e cioè quel sistema criminale che era stato protagonista della strategia della tensione.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Perché Falcone rimane folgorato dall’inchiesta sulla morte di Piersanti Mattarella? Perché nell’89 aveva incontrato il neofascista Alberto Volo il quale gli aveva aperto un mondo. Volo rivela quello che aveva raccolto a sua volta da Mangiameli e cioè il fatto che il mandante dell’omicidio di Piersanti Mattarella era stato Licio Gelli e gli esecutori Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini. Poi Volo racconta anche a Falcone chi sono i killer di Mangiameli, i fratelli Fioravanti e Francesco Mambro perché temevano che rivelasse la verità sul loro ruolo nell’omicidio di Mattarella ma anche sulla strage di Bologna, perché dice Volo a Falcone è opera sua, è opera di Valerio Fioravanti. Falcone intuisce di essere davanti agli stessi mandanti ed esecutori della strage di Bologna. Comincia a incontrare Volo in modalità segreta fuori dalla Procura. A luglio dell’anno scorso la Commissione Antimafia ha desegretato un documento rimasto a lungo coperto risalente a una audizione di Falcone risalente al giugno del 1990 nella quale il magistrato ha risposto alle domande a raffica dei parlamentari che chiedevano spiegazioni sugli omicidi dei politici in particolare quello di Piersanti Mattarella. Falcone mostrò di credere già da allora nella pista dell’eversione di destra. Disse di credere alla versione di Irma Chiazzese, moglie di Piersanti Mattarella che aveva identificato in Valerio Fioravanti il killer del marito. Crede soprattutto alla versione di Cristiano Fioravanti fratello minore di Giusva, Valerio, e dice: guardate che l’omicida di Piersanti Mattarella è lui perché me lo ha confidato mio fratello stesso. Ora Falcone in quella sede non poteva certo dire che aveva incontrato qualche mese prima Alberto Volo. Poi c’è il verbale rimasto inedito del luglio del 2016 quando Volo incontra i magistrati Tartaglia e Di Matteo e dice le stesse cose che aveva detto a Falcone: il ruolo di Fioravanti nell’omicidio di Piersanti Mattarella, il ruolo di Licio Gelli e anche raccontò dell’omicidio di Mangiameli. Poi Volo disse anche altro a quei magistrati. Disse che apparteneva alla struttura Gladio, disse di esser pagato dai servizi segreti, disse di aver incontrato i boss di Cosa Nostra e anche Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore. Poi colpo di scena disse anche di aver incontrato il giudice Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci e prima della strage di via D’Amelio mentre stava indagando sulla morte dell’amico Giovanni. Borsellino, disse Volo ai magistrati, dimostrava di conoscere le mie dichiarazioni a Falcone e soprattutto capì in quel momento che Borsellino non credeva che a premere il telecomando della strage di Capaci fosse stata solo la mafia. Ecco noi ci chiediamo, ma Borsellino quell’incontro con Volo lo ha segnato, lo ha appuntato sulla agenda rossa? Quello che si evince da questi verbali inediti è intanto che Falcone e Borsellino avevano preso sul serio la pista dell’eversione di destra, quella dei servizi segreti, quella della P2 dietro quegli attentati e gli omicidi ai politici che venivano invece solitamente attribuiti solo a Cosa Nostra. Nel 1991 Falcone firma la requisitoria sugli omicidi politici nella quale c’è scritto, vengono identificati come gli autori dell’omicidio di Piersanti Mattarella, Fioravanti e Cavallini i due che avevano anche chiesto una mano a Cosa Nostra per liberare dal carcere dell’Ucciardone Pierluigi Concutelli il leader di Ordine Nuove che aveva ucciso il giudice romano Occorsio, il primo che aveva intuito che dietro le stragi c’era l’eversione di destra, i servizi segreti la P2. Lo aveva anche scritto al giudice Imposimato, pochi mesi dopo venne ucciso da Pierluigi Concutelli.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini nel 1999 verranno definitivamente assolti dall'accusa di aver ucciso Piersanti Mattarella nonostante la signora Irma Chiazzese, moglie di Piersanti, presente nel momento cruciale dell'omicidio avesse riconosciuto proprio Fioravanti.
CORTE DI ASSISE PALERMO (23 GIUGNO 1992) IRMA CHIAZZESE - MOGLIE DI PIERSANTI MATTARELLA Io ho presente molto spesso il volto dell'uomo che sparò a mio marito la mattina del 6 gennaio. Ho presente gli elementi che caratterizzavano quel volto: la carnagione chiara, i capelli castani e soprattutto gli occhi, quegli occhi che mi hanno subito colpita e che ricordo ancora. Posso dire con quasi certezza che il killer di Piersanti Mattarella è Giusva Fioravanti.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ma c'è di più. Cristiano Fioravanti, fratello minore di Giusva, anch'egli militante dei NAR, aveva iniziato a collaborare già nel 1981, immediatamente dopo il suo arresto.
ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Cristiano Fioravanti vuole chiarire a sé stesso chi veramente era il fratello, e lui dice io so perché me lo ha confidato lui stesso, che Valerio Fioravanti ha ucciso un politico siciliano, che quindi identifica in Piersanti Mattarella, insieme a Gilberto Cavallini e racconta alcuni particolari di questo omicidio.
PAOLO MONDANI Perché neppure Cristiano viene creduto ad un certo punto?
ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Come lui stesso dichiara su di lui si sviluppa una pressione fortissima da parte del padre, degli altri famigliari perché non accusi il fratello. E allora ad un certo punto ammette: io mi avvalgo della facoltà che il codice di procedura penale dà ai famigliari di non testimoniare e non rendere dichiarazioni nei confronti dei propri parenti.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel gennaio del 2021, la sentenza di primo grado che ha condannato Gilberto Cavallini come il quarto uomo della strage riscrive la storia dell'omicidio Mattarella. Ritiene credibili le dichiarazioni di Cristiano Fioravanti e dice che "non è stato solo un omicidio di mafia, ma anche un omicidio politico che comprendeva convergenze operative fra mafia e "antistato". Resta da capire: perché la mafia avrebbe dovuto incaricare due estremisti di destra di commettere l'omicidio dell'esponente democristiano?
ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Guardi che i rapporti fra la mafia e la destra eversiva sono risalenti nel tempo. È stato accertato processualmente il coinvolgimento della mafia nel golpe Borghese. E parliamo di un progetto di golpe del 1974, e poi ancora nel progetto di golpe del 1979 quando Sindona viene in Sicilia e con l’appoggio di alcune componenti dell’amministrazione statunitense pensa di fare un golpe separatista in Sicilia, anticomunista, da poi estendere in Italia.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Fu proprio Cristiano Fioravanti a rivelare lo scambio fra i NAR e la mafia: dopo l'omicidio Mattarella Cosa Nostra avrebbe dovuto collaborare all'evasione del leader ordinovista Pierluigi Concutelli, all'epoca detenuto nel carcere dell'Ucciardone per aver ucciso il giudice romano Vittorio Occorsio che aveva scoperto i legami fra la P2 e la destra eversiva.
ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Non soltanto, ma Pierluigi Concutelli risultò iscritto alla loggia Camea di Palermo dove era iscritto il cognato di Stefano Bontate, importante capomafia, e dove era iscritto anche un funzionario della regione siciliana, che secondo le dichiarazioni di Alberto Volo fu uno dei basisti dell’omicidio Mattarella.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO E chi meglio di Totò Riina poteva sapere dei rapporti tra massoneria piduista, mafia e terrorismo di destra.
INTERCETTAZIONE TRA ALBERTO LORUSSO E TOTO' RIINA 25 OTTOBRE 2013. CARCERE DI OPERA MILANO TOTO' RIINA E mai mi sarei immaginato che sarebbe diventato il capo della massoneria…quello con altri due, altri due… ALBERTO LORUSSO L'ho conosciuto quello, Pierluigi Concutelli. TOTO' RIINA Tre sono: quello ricco, il barone paesano mio… Concutelli, Stefano Bontate e questo ricco siciliano.
ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Stefano Bontate, secondo le dichiarazioni di vari collaboratori faceva parte di una loggia segretissima che si chiamava Loggia dei 300 di Palermo, che era un’articolazione regionale della loggia P2 di Gelli. Non soltanto, ma Stefano Bontate, che era un mafioso colto estremamente ricco e potente stava costituendo una super loggia di respiro nazionale e internazionale, ma i Corleonesi, Riina e Provenzano, non furono d’accordo perché temevano che se Stefano Bontate fosse diventato il capo di questa super loggia il suo potere si sarebbe troppo accresciuto e li avrebbe emarginati. Ma dopo l’omicidio di Stefano Bontate, Provenzano riprende il progetto di Stefano Bontate, entra a far parte di una super loggia che si chiama Terzo Oriente, di cui entrano a far parte lui, alcuni capi mafia e Giuseppe Graviano.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Alla fine degli anni '70 si formano nuovi poteri criminali. Proprio mentre Piersanti Mattarella decide di continuare sulla strada aperta da Aldo Moro tanto che da Presidente della Regione Sicilia apre ai comunisti già nel 1978 iniziando una vasta opera di risanamento del bilancio regionale. Ma viene ucciso il 6 gennaio del 1980, un mese prima del congresso Dc che l'avrebbe nominato al vertice del partito.
MOMMO GIULIANA - EX DIRIGENTE DC PALERMO Piersanti quando viene ucciso ha 44 anni. La convinzione era che avrebbe dovuto fare il vicesegretario nazionale, nel senso che allora il vicesegretario di allora non sono i vicesegretari di oggi. Il vicesegretario era qualcuno che diventava, cominciava a crescere per poi diventare segretario nazionale.
ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Era un Congresso decisivo perché come hanno dichiarato vari testimoni, tra cui il fratello di Piersanti Mattarella, Sergio Mattarella, si confrontavano due diverse linee politiche una linea politica che faceva capo al segretario del partito Zaccagnini e anche a Piersanti Mattarella, ed era uno schieramento che i pronostici davano per vincente perché comprendeva non soltanto la sinistra Dc, ma anche la corrente andreottiana e altri spezzoni della Dc. E un altro schieramento, diciamo della destra Dc, che invece voleva assolutamente chiudere la possibilità di qualsiasi apertura al partito Comunista e quindi chiudere definitivamente la linea Moro.
PAOLO MONDANI Ma voi morotei, voi mattarelliani avevate pensato che ci fosse qualcosa oltre la mafia tra coloro che avevano organizzato un omicidio così importante? A un mese dal congresso dove Piersanti Mattarella sarebbe presumibilmente diventato il vicesegretario nazionale della Dc?
MOMMO GIULIANA - EX DIRIGENTE DC PALERMO A mio giudizio non poteva essere soltanto la mafia. La mafia a mio giudizio ha dato il consenso.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Piersanti Mattarella è stato il 6 gennaio del 1980, a circa un mese dal XIV congresso della DC. In quel momento è in carica il governo, primo governo Cossiga che è infarcito di uomini della P2. Il segretario della DC di allora Zaccagnini aveva in mente di portare al congresso, di riproporre l’idea di un governo di solidarietà nazionale. Di far partecipare anche il Partito Comunista in maniera attiva. Per questo aveva in mente di portare alla vicesegreteria del partito l’uomo più rappresentativo di Aldo Moro, di colui che incarnava il compromesso storico, l’uomo più giovane era Piersanti Mattarella. In questo zaccagnini aveva come alleati, almeno sulla carta, Andreotti ei dorotei Piccoli e Bisaglia. Era opinione diffusa che Zaccagnini avrebbe vinto a mani basse e invece accade l’incredibile. Zaccagnini esce sconfitto vince la linea di Donati e Donat Cattin. Ora nel giro di due anni la Dc aveva ripudiato la linea politica del suo presidente ucciso dalle BR. Anche perché parte della dirigenza democristiana era stata falcidiata a colpi di mitra. A febbraio del 1980 era stato anche ucciso il professore Vittorio Bachelet vicepresidente del CSM, al suo posto era stato insediato, si è insediato Ugo Zilletti, toscano, piduista. Il governo di Forlani, messo in piedi, andato in carica nel 1980 nell’ottobre dura poco meno di un anno, perché nel maggio del 1981 viene spazzato via dallo scandalo della P2. È convinzione che se non si capisce, se non si trova la verità sull’omicidio di Piersanti Mattarella non si arriva alle verità neppure sulla strage di Bologna. I magistrati della corte d’Assise di Bologna nella sentenza che ha portato alla condanna in primo grado di Gilberto Cavallini, un altro degli esecutori della strage hanno scritto ben 100 pagine sulla sentenza, sui vari gradi di giudizio dell’omicidio Mattarella. I magistrati bolognesi scrivono che le motivazioni che hanno portato al proscioglimento di Fioravanti e di Cavallini ormai non reggono più, vedremo se c’è qualcuno che avrà ancora desiderio di aprire questa pagina dolorosa. Mentre sull’altro filone del processo quello sui mandanti si sta facendo sempre più strada una convinzione che i fuoriusciti dai movimenti di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo a partire dalla metà degli anni ’70 dopo che sono stati sciolti i loro rispettivi movimenti si sono uniti con i NAR per effettuare rapine e attentati. E qui la domanda è la solita, quella storica, per ordine di chi? Forse la verità è scritta in un bigliettino che viene ritrovato 40 anni dopo nel portafoglio di Licio Gelli, un bigliettino che ci consente di fare qualche ulteriore passo all’interno del labirinto.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Quarant'anni dopo la strage la procura generale di Bologna fa il passo decisivo. E quell'orologio fermo alle 10,25 del 2 agosto riprende a marciare. Licio Gelli, già condannato per aver depistato le indagini, insieme ad Umberto Ortolani, suo braccio destro, viene accusato di aver finanziato i terroristi neri che piazzarono la bomba e aver pagato Federico Umberto D'Amato, potentissimo capo dell'Ufficio Affari Riservati del ministero dell'Interno, indicato come l'organizzatore della strage insieme all'ex senatore del Msi Mario Tedeschi. Il 13 settembre 1982, Licio Gelli venne arrestato in Svizzera con in tasca un appunto di movimenti bancari. Ai giudici milanesi che lo interrogarono sul crack del Banco Ambrosiano fu trasmesso solo il prospetto con le cifre, senza il frontespizio dove era scritto “Bologna” e il numero di conto aperto da Gelli presso la UBS di Ginevra. Quella intestazione è sparita per 40 anni.
ANDREA SPERANZONI – AVVOCATO PARTE CIVILE PARENTI VITTIME DELLA STRAGE Verrà trovato due anni fa all’archivio di stato di Milano dentro il portafoglio di Licio Gelli, ancora li inserito l’originale del documento Bologna.
PAOLO MONDANI Mi spieghi il giro dei soldi che da Gelli arriva ai mandanti della strage
ANDREA SPERANZONI - PARTE CIVILE PARENTI VITTIME DELLA STRAGE In questo appunto “per MC” si fa riferimento a un milione di dollari consegnato brevi manu da Gelli a Marco Ceruti, che era un suo uomo di fiducia. Con questo milione di dollari che esce dal 20 al 30 luglio 1980 quindi nei dieci giorni che precedono l’attentato. Marco Ceruti ha un conto corrente in Svizzera che gestisce per conto di Licio Gelli e questo milione di dollari è indicato come il 20% di una cifra. La cifra complessiva quindi è di 5 milioni di dollari, che sono effettivamente la contabile del documento Bologna. Di queste somme quindi 850.000 dollari va verso Federico Umberto D’Amato e 20.000 dollari va verso il Tedeschi. La movimentazione di questi denari avveniva tramite un cambia valute romano che è stato dimostrato essere in contatto proprio con l’ambiente, cioè o meglio con Federico Umberto D’Amato e con gli uomini protagonisti di questa vicenda.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il cambia valute romano era Giorgio Di Nunzio, cointestatario assieme al nipote Giancarlo di un conto a Ginevra sul quale sarebbero confluiti i soldi del capo della P2 Licio Gelli. Denari che, secondo l’accusa, sarebbero serviti a finanziare gli esecutori della strage alla stazione di Bologna. Giorgio Di Nunzio era un faccendiere romano collegato a Federico Umberto D'Amato, Mario Tedeschi e Francesco Pazienza.
PAOLO MONDANI C'è questo conto alla Trade Development Bank di Ginevra
GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO Si.
PAOLO MONDANI cointestatari lei
GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO …e mio zio
PAOLO MONDANI eE suo zio Giorgio Di Nunzio. Su quel conto un mese dopo la strage di Bologna, intorno al 3 settembre, vengono depositati da Ceruti, Marco Ceruti, uomo di Gelli, 240 mila240mila dollari, che fanno parte di una partita di soldi che arrivano dall’Ambrosiano a Gelli, da Gelli a Ceruti e poi arrivano a voi.
GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO Si.
PAOLO MONDANI I pubblici ministeri ritengono che quella sia una, come posso dire, una parte dei soldi serviti ai mandanti della strage per fare la strage. Mi interessava di sapere da lei questo rapporto fra….
GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO L’ho spiegato.
PAOLO MONDANI fra Di Nunzio Giorgio con Ceruti
GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO L’ho spiegato.
PAOLO MONDANI Se lei ha conosciuto Ceruti, che soldi erano quelli insomma
GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO Ho conosciuto Ceruti in occasione di un interrogatorio fatto a Roma dai magistrati di Bologna.
PAOLO MONDANI Non l’aveva conosciuto prima
GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO No, non lo avevo conosciuto prima. Lui ha spiegato ai magistrati di Bologna la ragione di questo versamento di soldi a mio zio e la cosa finisce lì
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Secondo Giancarlo Di Nunzio i soldi arrivati da Gelli a Ceruti e poi a suo zio erano banalmente il pagamento di una consulenza. Anche la Odal Prima, una vecchia società romana vicina ad Avanguardia Nazionale, secondo l’accusa è sospettata di aver fatto parte del finanziamento della strage.
ANDREA SPERANZONI – AVVOCATO PARTE CIVILE PARENTI VITTIME DELLA STRAGE La Odal Prima nasce pochi giorni dopo, esattamente 12 giorni dopo il primo pagamento verso Zafferano, Federico Umberto D’Amato, che è del 16 febbraio 1979, data che viene indicata dalla Procura Generale come inizio del finanziamento della strage. Vennero visti entrare e uscire da quella sede sia uomini di Avanguardia Nazionale, sia uomini dei Nar, in particolare Giorgio Vale, Francesca Mambro e Gilberto Cavallini. Che ci fanno parlare oggi, io ritengo, di una saldatura tra gruppi cioè fra Avanguardia Nazionale, Nar e anche uomini di Terza Posizione.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Osserviamo questa sequenza di avvenimenti. Il 27 novembre 1979 Massimo Carminati e Valerio Fioravanti dei NAR, Peppe Dimitri e Mimmo Magnetta di Avanguardia Nazionale, rapinano centinaia di milioni di lire alla Chase Manhattan Bank di Roma. Il 14 dicembre il giudice Mario Amato fa sequestrare a via Alessandria 129 a Roma un deposito di armi e di esplosivi gestito da Fioravanti e da Dimitri. In quello stesso edificio viene trovata la sede del giornale Confidentiel diretto dal Presidente di Avanguardia Nazionale Adriano Tilgher. Il giudice Mario Amato che fa fare quel sequestro viene ucciso il 23 giugno del 1980 dai Nar e il 2 agosto Mambro e Fioravanti, cioè i detentori insieme a Dimitri di quel deposito di armi, fanno la strage di Bologna.
PAOLO MONDANI Questa sequenza di avvenimenti è abbastanza impressionante e spinge a pensare che alcuni uomini di Avanguardia Nazionale, la sua organizzazione, l’organizzazione della quale lei è stato presidente e della quale va fiero sia stata coinvolta in quella strategia.
ADRIANO TILGHER - EX PRESIDENTE AVANGUARDIA NA ZIONALE Si rende conto di quanto è faziosa questa interpretazione? Uno: Avanguardia Nazionale non esiste più viene sciolta da me il 7 giugno del 1976 e tutti gli uomini che lei definisce di Avanguardia Nazionale fanno ognuno cose per conto suo. Ci può essere il legame umano, il legame personale come ancora c’è e per sempre ci sarà finché non moriremo, perché questo era. Ma non il legame politico.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Vincenzo Vinciguerra è stato prima in Ordine Nuovo e poi in Avanguardia Nazionale. Responsabile della strage di Peteano dove morirono tre carabinieri, da 42 anni è in carcere e rifiuta ogni beneficio di legge. Vinciguerra risponde a distanza a Tilgher: nonostante lo scioglimento decretato dalla legge Scelba negli anni '70, Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale insieme alla destra istituzionale hanno continuato a cavalcare la strategia della tensione.
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Il Movimento Sociale Italiano, Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Europa e Civiltà hanno marciato divisi e hanno colpito uniti.
PAOLO MONDANI A parte Mambro, Fioravanti e Ciavardini la cui presenza è stata dimostrata, ma lei crede che a Bologna ci fossero altri presenti per realizzare operativamente una strage come quella?
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Ma se c’era diciamo: chi poteva portare ordini a Fioravanti e compagni quello era proprio Massimiliano Fachini. Questi non sono stati loro a decidere la strage di Bologna, questi l’hanno eseguita la strage.
PAOLO MONDANI Fachini anche lui legato…
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Fachini era un uomo dei servizi. È sempre stato un uomo dei servizi.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Massimiliano Fachini è stato un esponente di Ordine Nuovo. Inizialmente accusato di aver fornito l'esplosivo per la strage di Bologna è stato poi prosciolto. Anche Paolo Signorelli, leader di Ordine Nuovo insieme a Pino Rauti fu accusato della strage di Bologna e successivamente assolto.
PAOLO MONDANI Valerio Fioravanti secondo lei ha avuto rapporti con i servizi segreti per quello che si è saputo?
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Valerio Fioravanti può averli avuti in maniera indiretta. Quando si frequenta Paolo Signorelli i rapporti con i servizi segreti si possono avere, indirettamente. Quando si frequenta Massimiliano Fachini altrettanto.
PAOLO MONDANI Frequentavano sia Fachini che Signorelli Mambro e Fioravanti…
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Erano quelli che li guidavano.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Li guidavano, ma per conto di chi? Proveremo a ricostruire la stori attraverso un documento straordinario in base al quale si evincerebbe che Licio Gelli avrebbe pagato 5 milioni di dollari gli organizzatori e i depistatori della strage di Bologna, avrebbe pagato il capo dei servizi segreti di allora Federico Umberto d’Amato, avrebbe pagato il senatore Tedeschi e avrebbe anche pagato gli autori della strage i terroristi neri. Un po’ di soldi sarebbero anche transitati attraverso lo zio e il nipote Di Nunzio, uomini legati al faccendiere Pazienza, piduista anche lui, uomo legato alla Cia e consulente esterno del SiSMI. La storia di questo documento ha dell’incredibile, viene sequestrato in Svizzera a Licio Gelli il 13 settembre del 1982, viene trasmesso all’autorità giudiziaria che sta indagando sul crack del Banco Ambrosiano, la guardia di finanza scriverà in una relazione che non vi è da attribuire nessun significato particolare alla scritta e al nome della città Bologna. Però neppure lo chiederanno a Licio Gelli quando sarà interrogato nel 1988. Anzi emergono due anomalie, intanto al verbale non viene allegato il frontespizio con la scritta Bologna, l’altra è che non viene neppure trasmessa all’autorità giudiziaria bolognese che sta indagando sulle stragi. Su quel documento cade l’oblio per 40 anni fino a quando un legale dell’associazione dei parenti delle vittime lo ritrova nell’archivio di stato all’interno del portafoglio di Gelli. Perché tutto questo silenzio? Secondo i magistrati della procura bolognese sarebbe scattato un ricatto pesantissimo da parte di Gelli e questo ricatto, la prova di questo presunto ricatto, viene trovata all’interno di un documento nel tribunale di Roma. Si tratta del documento “artigli”, è il verbale di un funzionario del ministero dell’Interno sull’incontro che aveva avuto con il legale di Licio Gelli, Fabio Dean, dove sostanzialmente c’è scritto, l’avvocato dice “se continuate ad accusare Licio Gelli della strage di Bologna lui tirerà fuori tutti gli artigli che ha”. Il solerte funzionario porterà il documento a Vincenzo Parisi capo della polizia di allora, che risulterà anche lui iscritto alla massoneria e su quel documento cala il silenzio per 40 anni. Secondo i magistrati bolognesi è la prova invece del ricatto di Licio Gelli allo Stato. Dice sostanzialmente se continuate ad attribuirmi le stragi io farò vedere, mostrerò le prove di quanto lo Stato abbia le mani in pasta nella strategia della tensione. Ora per capire quale è questa strategia della tensione bisognerebbe mettere insieme alcuni fatti importanti che accadono in quei mesi a partire dal novembre del 1979 quando Carminati e Valerio Fioravanti dei NAR, insieme a Peppe Dimitri e Mimmo Magnetta di Avanguardia Nazionale rapinano centinaio di milioni di lire presso la Chase Manhattan Bank di Roma. Avanguardia Nazionale considerava in danno l’azione armata dei Nar, perché compiono delle rapine armate insieme? Altra data impostante 14 dicembre del 79 il giudice Mario Amato sequestra in una palazzina in via Alessandria un deposito di esplosivi e di armi che fa riferimento a Valerio Fioravanti dei Nar e Dimitri, Avanguardia Nazionale. Nella stessa palazzina poi c’è la sede di Confidentiel la rivista che fa capo al presidente di Avanguardia Nazionale Adriano Tilgher. Il giudice Mario Amato che invece aveva ordinato il sequestro del deposito di armi in via Alessandri verrà ucciso mesi dopo, il 23 giugno del 1980 da Gilberto Cavallini e Luigi Ciavardini dei Nar e il 2 agosto Valerio Fioravanti, cioè i detentori di quel deposito di armi fanno la strage di bologna, ma per ordine di chi? E chi è che li guidava? Secondo l’ex Vincenzo Vinciguerra in una intervista esclusiva al nostro Paolo Mondani dice che i vertici di Ordine Nuovo e Vanguardia Nazionale erano legati ai servizi segreti quelli che ispiravano la strategia della tensione. E sempre legato ai servizi segreti sarebbe l’uomo che appare nel filmato di un turista svizzero, che secondo la procura sarebbe Paolo Bellini un altro esecutore della strage di bologna immortalato dieci minuti prima che esplodesse la bomba sul binario 1 della stazione di Bologna. Paolo Bellini killer di Avanguardia Nazionale, killer per la ‘ndrangheta si muoveva con la sua agilità anche da latitante godendo di coperture incredibili, istituzionali sotto il nome di Roberto Da Silva
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Un giorno del 1977, Paolo Bellini arriva a Foligno dal cielo. Con il passaporto brasiliano, il nome falso di Roberto Da Silva e un brevetto di pilota preso negli Stati Uniti atterra su questo aeroporto, a qualche chilometro da Foligno. Al suo fianco, a bordo di veicoli leggeri, c'era spesso Ugo Sisti, il procuratore capo di Bologna, il primo a indagare sulla strage. Bellini-Da Silva rimarrà a Foligno sotto falso nome per 4 anni. Alloggiava in albergo, aveva un conto al Banco di Roma e disponeva di importanti risorse finanziarie. Poi si scopre che aveva parecchi protettori.
STEFANO MENICACCI AVVOCATO - EX DEPUTATO MSI Ho motivo di ritenere che il Da Silva si era rivolto al senatore Cremisini quando aveva degli interessi in Brasile; il senatore Cremisini, già parlamentare del Movimento Sociale Italiano si è rivolto a Franco…
PAOLO MONDANI Mariani.
STEFANO MENICACCI AVVOCATO - EX DEPUTATO MSI Mariani il quale era l’avvocato di Giorgio Almirante e Franco Mariani…
PAOLO MONDANI A lei STEFANO MENICACCI AVVOCATO - EX DEPUTATO MSI Si è rivolto a me. Questa è la trafila. PAOLO MONDANI Ma scusi avvocato, me lo spiega com’è possibile per un giovane che viene dal Brasile che si chiama Roberto Da Silva che tre parlamentari dell’MSI si muovano per in qualche modo aiutarlo?
STEFANO MENICACCI AVVOCATO - EX DEPUTATO MSI Ma in effetti si è giovato di molte compiacenze ed ebbe persino il permesso di porto di fucile, porto d’arma previo consenso elogiativo del commissario di pubblica sicurezza di Foligno.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Paolo Bellini dichiara di essere stato infiltrato in Avanguardia Nazionale dal senatore Mariani e da Giorgio Almirante. Lo stesso senatore lo voleva nei servizi segreti ma Bellini nega di averne fatto parte. Mentre Vinciguerra dice che tutta l'estrema destra era legata ai servizi.
PAOLO MONDANI Lei racconta che Stefano Menicacci l’avvocato e Pierluigi Concutelli, Pino Rauti, Carlo Maria Maggi che è mandante della strage di Brescia, Delfo Zorzi, capisce che sono legatissimi ai servizi segreti.
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Guardi, mentre da un lato facevano gli oppositori politici dall’altro lavoravano per i nostri servizi e anche per quelli esteri. Senza gli apparati dello stato queste strutture, queste organizzazioni non sarebbero sopravvissute.
PAOLO MONDANI Come la mafia.
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Esatto.
PAOLO MONDANI Lei entra in Avanguardia Nazionale perché le appariva meno immischiata con i servizi segreti rispetto alla sua precedente, al suo precedente gruppo di appartenenza che era Ordine Nuovo. Quando è che finisce la sua fiducia su Stefano delle Chiaie di cui era amico e che era il capo di Avanguardia Nazionale?
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE L’amicizia con Stefano finisce quando io mi rendo conto che fa il doppio gioco con me.
PAOLO MONDANI Ad un certo punto Stefano Delle Chiaie capisce l’esistenza della P2, la vede ne viene a conoscenza?
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Ma io purtroppo credo che la conoscesse bene l’esistenza della P2. E me l’hanno sempre taciuta.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La P2, la camera blindata del potere atlantico, osservava e manovrava. Walter Sordi ha militato e ucciso con i Nuclei Armati Rivoluzionari di Mambro, Fioravanti, Cavallini e Pasquale Belsito. Da pentito, Sordi ha raccontato dei rapporti fra Licio Gelli e Valerio Fioravanti.
CORTE DI ASSISE BOLOGNA - UDIENZA DEL 18 GIUGNO 2021 ALESSIA MERLUZZI - PARTE CIVILE ASSOCIAZIONE PARENTI VITTIME DELLA STRAGE Nell'interrogatorio del 15 ottobre del 1’82 a pagina 5 lei dichiarò: “erano invece noti almeno a un certo livello i rapporti tra Gelli e Fioravanti Valerio. Il Belsito mi disse in particolare che Valerio Fioravanti non era quel personaggio pulito che tutti credevamo. Il Fioravanti aveva contatti con Gelli con il quale si era visto in Francia”. Lei conferma questa dichiarazione?
WALTER SORDI - EX NAR E TERZA POSIZIONE - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì sì confermo tutto.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Quarant'anni fa, il generale Mario Grillandini del Sismi fu uno dei pochissimi a occuparsi di Licio Gelli.
PAOLO MONDANI Siamo nel 1981, a marzo i giudici di Milano sequestrano la lista della P2 a casa di Licio Gelli. Un paio di mesi dopo, a maggio, emerge la notizia che a Montevideo, la capitale dell’Uruguay, Licio Gelli teneva in una sua villa lussuosissima un secondo archivio importantissimo e il servizio decide di mandare lei a capire che cosa ci fosse in quell’archivio.
MARIO GRILLANDINI - GENERALE ESERCITO - EX DIRIGENTE SISMI Partii per Montevideo e mi collocai in un albergo del centro di Montevideo. Il giorno successivo mi sono incontrato con Castiglione nell’albergo.
PAOLO MONDANI Castiglione era il capo dei Servizi in Uruguay, dell’Uruguay.
MARIO GRILLANDINI - GENERALE ESERCITO - EX DIRIGENTE SISMI Così si è presentato. E lui mi informò che una buona parte se li era presi il servizio americano. La CIA. Quelli che interessavano la sicurezza interna dell’Uruguay se li era presi l’Uruguay, i rimanenti erano a disposizione del ministro degli Interni uruguagio, generale Trinidad.
PAOLO MONDANI In tutto i fascicoli che erano stati trovati nella villa di Gelli ha saputo quanti erano?
MARIO GRILLANDINI - GENERALE ESERCITO - EX DIRIGENTE SISMI In tutto credo sui 300. Qui sono arrivati un centinaio.
PAOLO MONDANI Secondo lei perché la CIA era così interessata ai fascicoli di Gelli?
MARIO GRILLANDINI - GENERALE ESERCITO - EX DIRIGENTE SISMI Quelli che interessavano il servizio americano probabilmente c’era qualcosa che coinvolgeva loro. Vede, io ho ricevuto in regalo una targa dal capo del servizio inglese. In questa targa in inglese, glielo traduco in italiano: questo è uno sporco mestiere che solo i gentiluomini possono fare.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A proposito dello sporco mestiere. Nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 una bomba esplode sul treno Italicus, all'altezza di San Benedetto Val di Sambro in provincia di Bologna. 12 vittime. Ad oggi nessun colpevole. Dieci anni dopo, il 23 dicembre 1984, un'altra bomba su un treno all'altezza di San Benedetto Val di Sambro uccide 16 persone. Mandanti ed esecutori: P2, terroristi di destra e mafia corleonese. Solo i mafiosi verranno condannati. In dieci anni, compresa la strage alla stazione del 1980, sono 113 i morti solo nell'area di Bologna. Il processo sui mandanti della strage del 2 agosto ipotizza che alla fine degli anni ’70 si sia aggregata una formazione terroristica formata da uomini provenienti dai disciolti Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale insieme ai NAR per compiere la strage. E pone una antica domanda: chi dava loro ordini?
CORTE DI ASSISE BOLOGNA UDIENZA DEL 9 GIUGNO 2021 MASSIMO GIRAUDO - COLONNELLO DEI CARABINIERI C'è una testimonianza eccezionale e che dice tutto e chiude la partita. È la testimonianza del Capo di Stato Maggiore, defunto da tempo, della Terza Armata. Il Dottor Mastelloni o nel ’95 o nel ’96 interroga il Generale Emanuele Borsi di Parma, e... Borsi di Parma fa un’affermazione straordinaria, e cioè spiega: “Noi sapevamo che c’era una struttura di estrema destra supportata dalla NATO, e questa struttura probabilmente si chiamava Ordine Nuovo e Ordine Nuovo rispondeva alla base FTASE a Verona”.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il Comando FTASE delle forze terrestri alleate per il Sud Europa è stato un Comando della Nato con sede a Verona, attivo dal 1951 al 2004 con il compito di difendere il confine Est dell'Italia da un'ipotetica invasione sovietica. Giampaolo Stimamiglio è un ex esponente di Ordine Nuovo risultato determinante nella ricostruzione della strage di Piazza Fontana a Milano e di Piazza della Loggia a Brescia dove Ordine Nuovo ebbe un ruolo decisivo. Lui può dire chi erano i loro burattinai.
PAOLO MONDANI Ad un certo punto all’interno di Ordine Nuovo si forma una struttura a parte, lei può dire che questa doppia struttura interna a Ordine Nuovo si fosse occupata, diciamo così, della strategia della tensione?
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Sicuramente.
PAOLO MONDANI Insomma quelli che han messo le bombe per essere chiari…
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Si, era una struttura, praticamente l’ho definita una scuola di terrorismo vera e propria.
PAOLO MONDANI Chi la finanziava?
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Secondo me P2 e Umberto Federico d’Amato e operativamente Rauti con i vari Besutti, Massagrande, Maggi anche. La mente era Besutti sicuramente.
PAOLO MONDANI E Besutti prendeva ordini da qualcuno?
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Da Rauti.
PAOLO MONDANI E Rauti da chi prendeva ordini?
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Da Umberto Federico D’Amato.
PAOLO MONDANI E Umberto Federico D’Amato da chi prendeva ordini?
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Da Guerin Serac che era il responsabile europeo della strategia, sotto copertura di tipo, chiamiamola atlantista
PAOLO MONDANI Guerin Serac il capo della cosiddetta
AGINTER PRESS, GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Esatto
PAOLO MONDANI agenzia di stampa dietro la quale in realtà…
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO …c’era la NATO.
PAOLO MONDANI Chi erano i più importanti esponenti di Ordine Nuovo?
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Besutti e Massagrande.
PAOLO MONDANI C’era Marcello Soffiati no?
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Il Soffiati è l’unica persona che conosco io, che ne ho conosciuti tanti, che poteva accedere a Camp Darby.
PAOLO MONDANI ...è la base americana di Livorno.
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO E li accedono soltanto pochissimi.
PAOLO MONDANI Lei ha detto che Marcello Soffiati era l’anima nera di Carlo Maria Maggi…
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Esatto.
PAOLO MONDANI …il mandante della strage di Brescia. “Attenzione - lei dice - che noi stiamo parlando di un gruppo quello del veneto che è stato sempre al servizio delle basi americane. Degli Stati Uniti e della Nato lì
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Carlo Maria Maggi era un Rauti dipendente. Carlo Maria Maggi non avrebbe mai fatto nulla senza gli ordini di Pino Rauti, o almeno con il consenso di Pino Rauti. Hanno stabilito rapporti che soltanto Rauti poteva favorire come referente della CIA in Italia, non Maggi. Con i servizi segreti americani, militari e civili, con i servizi segreti israeliani, con il Mossad avevano pure rapporti.
PAOLO MONDANI Lei ha scritto di Maggi e Soffiati che erano della Cia. Ma ha aggiunto Stefano Delle Chiaie.
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Stefano necessariamente non poteva non essere a contatto con le persone della Cia dirette da, diciamo così, da James Angleton qui in Italia. Angleton è il personaggio che ha portato l’estrema destra alla CIA.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Già nel dopoguerra James Jesus Angleton divenne capo del controspionaggio americano a Roma e fu amico di Junio Valerio Borghese, ispiratore e maestro di Stefano Delle Chiaie. Angleton era legato a Federico Umberto D'Amato, il gran gourmet dello spionaggio italiano dal dopoguerra fino agli anni '90. Piduista e fondatore del Club di Berna che raccoglieva i capi dei servizi segreti occidentali, per 13 anni D'Amato ebbe accanto Antonella Gallo, che ereditò tutto il suo patrimonio, e il fratello Claudio. Suoi segretari particolari.
PAOLO MONDANI Federico Umberto D’Amato aveva rapporti con importantissimi generali americani: il generale Donovan, con Allen Dulles della CIA e soprattutto aveva stretto una amicizia particolare con James Angleton, che era il plenipotenziario della CIA in Italia per tutto il dopoguerra. Ha mai parlato di questi nomi?
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO No. Lui aveva però, era rimasto in contatto con un esponente appunto della CIA e addirittura una volta lo ospitò nella casa di Parigi insieme alla sua famiglia.
PAOLO MONDANI Il signor Claude.
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Sì.
PAOLO MONDANI D’Amato fu insignito di una medaglia della CIA, la Bronze Star, una del Congresso degli Stati Uniti, la Medal of Freedom, e della Legion D’Onore francese. C
LAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Sì e lui ne andava, di quello ne andava fiero. E da come le aveva esposte aveva piacere che fossero notate quando aveva ospiti nel suo ufficio
PAOLO MONDANI D’Amato aveva ovviamente rapporti anche con il Mossad, ma aveva un amico del Mossad che lo frequentava a casa…
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Si, mister Zimmerman perché gli faceva…
PAOLO MONDANI La manutenzione.
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO La manutenzione degli Otomat, sono queste bambole a ricarica e veniva addirittura da Israele per fare solo questo.
TIMEWATCH BBC- 24 giugno 1992 - GLADIO THE FOOT SOLDIERS FEDERICO UMBERTO D’AMATO EX CAPO UFFICIO AFFARI RISERVATI MINISTERO DELL'INTERNO Direi che questo è l’automa della politica. Questo è il giocoliere, le jongleur.
PAOLO MONDANI Siamo all’inizio di agosto del 1996, improvvisamente muore Federico Umberto D’Amato e c’è il funerale. Chi viene al funerale?
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Allora, venne sicuramente il presidente Cossiga, il senatore Taviani.
PAOLO MONDANI L’amicizia con Mario Tedeschi il direttore de “Il Borghese”?
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Mario Tedeschi, sì, telefonava spesso.
PAOLO MONDANI Perché Mario Tedeschi che è stato direttore de “il Borghese” per trentasei anni preparava tutti i giorni una rassegna stampa che inviava a D’Amato il quale poi la inviava a Parisi, tutti i giorni?
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Questo giro di fax avveniva molto presto la mattina per avere la situazione istantanea di quello che veniva scritto nei vari giornali.
PAOLO MONDANI Lei sapeva dell’appartenenza di D’Amato alla P2?
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Sì
PAOLO MONDANI Gli ha mai chiesto di Licio Gelli? Chi fosse?
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Una volta io feci una domanda riferita a lui, che ne pensava, e lui mi disse che era un cretino.
PAOLO MONDANI Lei dice che nel suo ambiente in quegli anni, l'Ufficio Affari riservati di Federico Umberto D'Amato veniva definito l'Ufficio bombe. Mi spiega perché?
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Eh sì. l'Ufficio bombe perché ormai si sapeva che questo ufficio aveva diciamo il compito anche tramite elementi di estrema destra, va bene, non rifuggiva dal far compiere attentati, noi pensavamo dimostrativi, ma sempre bombe erano.
PAOLO MONDANI In una vecchia intervista D’Amato disse che: “Uno spione degno di questo nome deve tenere sempre un piede nella legalità e tre fuori, ma non deve mai farsi beccare” come invece era accaduto praticamente a tutti i vertici dei servizi segreti italiani.
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO E beh è la sua sintesi. D’Amato non era un personaggio da farsi usare, semmai usava. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il capo dei servizi segreti Federico Umberto D’amato non si faceva certo usare semmai usava. È una persona che coincide con quanto ci ha detto Stimamiglio e Vinciguerra. La catena di comando da cui dipendevano le azioni dei terroristi neri era la seguente. A capi c’era Pino Rauti, ex Movimento Sociale italiano, sopra ancora c’era appunto Federico Umberto d’Amato, sopra ancora Gaurin Serac, che era il responsabile dell’agenzia che sfornava fake news, Aginter Presse, era soprattutto il responsabile sotto copertura della strategia atlantista. Guarin Serac che era sparito del 1975, si sono perse le tracce non si sa che fine abbia fatto. A trascinare invece la destra eversiva verso la CIA ci ha pensato James Angleton responsabile dei servizi di sicurezza americani nel nostro paese nel dopoguerra. Forse era questo il contesto che minacciava di sventolare il ricatto di Licio Gelli che minacciava di sventolare ogni volta che finisce nei guai con qualche processo. Nel 1981 nell’aeroporto di fiumicino viene sequestrato un plico nel doppiofondo di una valigia che veniva trasportata da Maria Grazia Gelli, figlia del venerabile. Dentro c’era il piano di rinascita democratica della P2. C’era tutta la politica dal golpe anticomunista a quella filo atlantista e pii anche quella più fine dell’occupazione silenziosa dello stato. Nella lista della P2 erano finito politici magistrati, uomini delle forze dell’ordine, uomini dei servizi segreti. Dentro quel plico c’era anche la direttiva westmorland, un generale dell’esercito statunitense una direttiva nella quale si legittimava l’uso della forza per contrastare lo sviluppo l’avanzata del comunismo nei paesi del patto atlantico. Si legittimavano anche se necessario gli attentati e le stragi. Secondo i magistrati quelle carte furono fatte ritrovare apposta da Licio Gelli era il ricatto che sventolava sotto gli occhi dello Stato certo che l’alleato americano non sarebbe mai stato coinvolto nei fatti giudiziari. Forse per questo che solo a distanza di 40 anni dai fatti il nome di Angleton e Federico Umberto d’Amato, legati alla strategia della tensione sono potuti emergere così chiaramente. Come è potuto emergere anche il fatto che nella palazzina di via Gradoli dove c’era la base dei terroristi rossi che hanno concepito il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro fosse anche un appartamento dei terroristi neri e anche più in la quello dei servizi di sicurezza che li osservavano. Insomma una palazzina del terrore che aveva anche un suo amministratore Domenico Catracchia che è entrato come imputato nel processo sulla strage di Bologna.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Roma, Via Gradoli. Nel 1978, al numero civico 96 si trovava la base romana delle Brigate Rosse. Qui progettarono il rapimento di Aldo Moro. Tre anni dopo, nel 1981, in questa stessa palazzina, i terroristi di destra dei Nar stabilirono il loro covo. Qualche tempo dopo si scoprì che Domenico Catracchia si era occupato della locazione di questi immobili gestiti anche da una società di fiducia del Sisde. Il servizio segreto civile. Catracchia era poi diventato il fiduciario personale di Vincenzo Parisi, allora vice direttore del Sisde, che a via Gradoli aveva acquistato alcuni appartamenti. Via Gradoli ha una sola via di fuga, eppure Br e Nar decisero di nascondersi qui, sotto gli occhi dello Stato. Domenico Catracchia è sotto processo per aver detto il falso sull'appartamento affittato ai Nar.
CORTE DI ASSISE DI BOLOGNA 19 NOVEMBRE 2021 ALBERTO CANDI - AVVOCATO GENERALE TRIBUNALE BOLOGNA Veniamo all’altro aspetto che non abbiamo ancora trattato e che invece riguarda la sua conoscenza con il Prefetto Parisi e i rapporti che lei ebbe con Parisi. Ce li può descrivere?
DOMENICO CATRACCHIA - IMMOBILIARISTA Sì. Io per vendere e affittare mettevo delle inserzioni, e il Dottor Parisi si vede che l’ha letta, voleva fare degli investimenti, perché non l’ha fatti solo con me, se n’è comprati parecchi per Roma.
ALBERTO CANDI - AVVOCATO GENERALE TRIBUNALE BOLOGNA Le ricordo che lei disse: “Posso affermare che con il Dottor Parisi si stabilì un rapporto molto fiduciario, e che diventammo amici. Un paio di volte andammo a cena insieme”.
DOMENICO CATRACCHIA - IMMOBILIARISTA Sì, sì, le confermo, però non mi ricordo adesso il ristorante.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Erano gli anni in cui si parlava di servizi deviati ma che in realtà rispondevano a precise direttive interne e internazionali. Il generale Pasquale Notarnicola (morto poco dopo la nostra intervista) è stato al Sismi tra il '78 e l'83, comandante della prima divisione, quella che si occupava di controspionaggio e antiterrorismo. Testimone dei 4 depistaggi effettuati dai capi del servizio diretto da Giuseppe Santovito, dal generale Pietro Musumeci e da Francesco Pazienza, agente Sismi a contratto. Tutti affiliati alla P2 di Licio Gelli.
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 La mattina del 2 agosto alle ore 10 e 31, cioè sei minuti dopo che era avvenuta la strage io ricevetti una telefonata dal mio capocentro che mi informava che a Bologna era avvenuto un attentato, che c'erano crolli e probabilmente molti morti. Per me il primo segno di depistaggio è questo. Gli do la notizia e il direttore con … PAOLO MONDANI Santovito…
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Santovito con molta serenità mi rispose: "Ma che dici, lì è una caldaia a gas che è scoppiata".
PAOLO MONDANI Tanto che la sera del 2 agosto si parlava di una caldaia a gas...come dire…
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Lui me l'ha detto mezz'ora…
PAOLO MONDANI Non è difficile pensare che sia stata in qualche modo…
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Precostituita.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il secondo depistaggio…
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Il mio capocentro la prima cosa che fa mette sotto controllo gli estremisti bolognesi. Tra i quali gli estremisti di destra. E notano i miei uomini che uno di questi estremisti molto importanti è assente da Bologna. E gli danno un appuntamento in Sardegna.
PAOLO MONDANI Chi era questo…?
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Si chiamava Naldi. E fa questa dichiarazione: "No, noi estremisti fascisti bolognesi non ne sappiamo assolutamente nulla della strage, pensiamo che la strage sia stata fatta da fascisti romani". La mattina dopo il Naldi si presentò alla stazione di Bologna ma alla stazione di Bologna gli andarono incontro due avvocati che lo sconsigliarono di presentarsi spontaneamente dal Procuratore della Repubblica ma di aspettare una convocazione. E chi poteva averli chiamati? Solo il mio capo.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Terzo depistaggio. A questo punto il generale Santovito ordina al generale Notarnicola e altri due ufficiali di scrivere un libro sul terrorismo internazionale. I contenuti del libro non ancora pubblico finiscono però sul settimanale Panorama e Santovito mostra grande irritazione per questa fuga di notizie.
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Ma il segretario di Santovito che era un ufficiale di cavalleria, chissà per quale gesto benefico, mi disse: "Ma non ti preoccupare, non è vero che è arrabbiato perché il giornalista che ha scritto l'articolo è venuto qui a leggere il libro nella stanza a fianco di quella del direttore", e mi disse anche mi fece il nome del giornalista, dice: "E gli ha dato un compenso di tre milioni".
PAOLO MONDANI Però questa idea del terrorismo internazionale poco dopo la strage di Bologna e poco dopo il suo libro lei capisce che aveva…
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Aveva un altro scopo. Aveva lo scopo di depistaggio.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Infine, il quarto depistaggio. Il 13 gennaio 1981 sul treno Taranto Milano viene trovata una valigia piena di esplosivo simile a quello della bomba di Bologna con alcuni biglietti aerei riconducibili a persone straniere.
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Io la notizia l'ho avuta almeno due giorni prima, due pomeriggi prima. Dunque, ero come al solito nel mio ufficio e ricevo una telefonata dal capo dell'ufficio del direttore il quale mi dice vai all'aeroporto di Ciampino dove arriverà il direttore dall'America. E dall'aereo scesero, dal nostro aereo scesero il generale Santovito, Francesco Pazienza e Michael Ledeen…
PAOLO MONDANI Michael Ledeen della Cia.
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Però era un agente della Cia che non agiva insieme agli altri. Entrò il generale Santovito, venne subito verso di me mi dette una busta e mi disse: "Provvedi perché è urgente". Aprii la busta, quando guardo una informativa assurda, era una informativa che prevedeva un trasporto di esplosivi su treni italiani ma era così completa che non poteva averla scritta un informatore qualsiasi, soltanto lo stragista poteva dare tutti quei dettagli.
PAOLO MONDANI …avere quei particolari. Come lei sa il colonnello Belmonte, il generale Musumeci, Licio Gelli e Francesco Pazienza verranno condannati per il depistaggio….
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 E per calunnia…
PAOLO MONDANI Ma perché fu messa in atto l'operazione Terrore sui treni ai fini del depistaggio?
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Sempre per dare l'impressione al governo e all'opinione pubblica che la strage di Bologna fosse stata compiuta da stranieri.
PAOLO MONDANI Lei può dire che chi ha pianificato i depistaggi era anche tra coloro che ha pianificato la strage?
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Penso di sì, penso di sì, perché non c'è altra spiegazione.
PAOLO MONDANI Il generale Santovito?
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Beh certamente il generale Santovito ma io non so se sia stato il solo. Per me le menti raffinatissime stavano fuori dalla nazione.
PAOLO MONDANI Lei generale, in una commissione parlamentare di inchiesta afferma: "Nessuno mi aveva detto, durante la mia permanenza al servizio, dell'esistenza della Stay Behind, di Gladio".
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Ho sempre l'impressione che la Gladio legittima servisse anche a nascondere una Gladio illegittima, che era la Gladio delle stragi. Gelli che viene tanto magnificato io lo ritengo un prestanome. Io penso che fin da allora Gelli avesse a che fare con gli Stati Uniti.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il Kintsugi è il nome di un’antica arte giapponese usata per riparare gli oggetti in ceramica. E consiste nel saldare insieme i frammenti usando l'oro. Alla fine, l'oggetto riparato è più prezioso. Questa tecnica rimanda a una scelta di vita: le nostre cicatrici interiori, soprattutto le più dolorose, possono diventare trame preziose. Iwao Sekiguchi era uno studente giapponese di vent’anni quando fu ucciso dalla bomba alla stazione. Il papà di Iwao, che venne da Tokyo per seguire le udienze del processo per la strage disse che i familiari delle vittime potevano superare il trauma della perdita: lo spirito combattivo della città di Bologna è l'oro che avrebbe riparato le ferite. Resta una domanda: l'attuale processo di Bologna sui mandanti della strage a 40 anni dai fatti ci restituisce giustizia?
LEONARDO GRASSI - EX PUBBLICO MINISTERO STRAGE ITALICUS E BOLOGNA Secondo me tutte le forze che avevano partecipato alla lotta contro il comunismo con modalità non ortodosse: la mafia, i fascisti, i piduisti e questo e quello, una volta caduto il Muro di Berlino dovevano essere fatte salve. Queste persone che avevano goduto di potere, impunità e denaro non potevano essere abbandonate così e messe ai giardinetti. Un mio amico ha fatto l'accostamento fra questo processo di Bologna e il processo di Norimberga, però il processo di Norimberga è venuto nell'immediatezza dei fatti, questo processo qui viene quaranta anni dopo, e il processo di Norimberga è quello che i vincitori fanno sui vinti cambiando addirittura le regole del diritto internazionale. Ma qui chi sono i vincitori e chi sono i vinti.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il generale Notarnicola sapeva di avere i giorni contati e ci ha telefonato e ha detto: “prima di morire sento la necessità di rilasciare una intervista a Report per raccontare i fatti”. Il generale Notarnicola è stato responsabile della prima divisione del SISMI, quella del controspionaggio e dell’antiterrorismo. Dagli anni che vanno dal 1978 all’ 83. È stato testimone dei tentativi di depistaggio dei suoi responsabili: il generale Santovito, Musumeci, Francesco Pazienza legato alla CIA e consulente esterno del SISMI, tutti e tre legati alla P2 di Licio Gelli. Notarnicola ha anche detto che secondo lui il mandante, chi ha fatto il depistaggio è anche il mandante di queste stragi, e Licio Gelli non è null’altro che il prestanome di menti raffinatissime che sono dall’altra parte dell’oceano. Diciamo che forse questa è una verità percepita da decenni solo, dai tempi dell’“Io so” di Pier Paolo Pasolini solo che sentirsela però dire da un responsabile del SISMI, dell’antiterrorismo fa un certo effetto. Ora la domanda è perché è stata realizzata la strage di Bologna? Qual è il movente? Secondo l’ex ordinovista Vinciguerra è stata fatta per distrarre l’opinione pubblica dalla strage di Ustica commessa un mese prima. Poi dal processo di Bologna sta emergendo anche la causale eversiva. Licio Gelli era braccato dalle indagini sul Banco Ambrosiano, quelle anche sull’omicidio del giudice Occorsio, che aveva indagato per primo sulla P2, poi anche sulle indagini dell’omicidio del giudice Amato avvenuto un mese prima della strage di Bologna. Poi c’era anche la necessità di riaccreditarsi verso i suoi referenti oltreoceano e anche di tutelare la sua posizione di capo della P2 e ogni tanto bisognava anche fronteggiare l’idea che spuntava qua e là del compromesso storico di un governo con i comunisti. Ecco perché la strage di Bologna sembra avere una sua continuità in quelle che saranno le stragi di mafia del 92-93 quando gli orfani della guerra fredda hanno reagito perché i poteri occulti, i poteri criminali, vedevano messo a rischio quello status quo dove avevano piantato le loro radici, i loro affari la loro impunità e hanno reagito nella maniera che abbiamo visto per evitare anche di essere spazzati via. A questo punto è legittima la domanda del magistrato Leonardo Grassi: “a che serve la verità dopo 40 anni? Chi sono i vincitori e chi sono i vinti? La ricetta è forse nella risposta che da Iwao Sekiguchi, il ragazzo giapponese che da Tokyo era venuto a Bologna per studiare, morto nella strage di Bologna. Il papà veniva alle prime udienze del processo è ha detto ai familiari che il dolore della morte si può superare solo applicando la metafora del Kintsughi, cioè di quell’arte giapponese di riparare gli oggetti di ceramica frantumati con l’oro, L’oro rimane dentro le crepe, dentro le ferite e le impreziosisce. In questo caso l’oro della strage di Bologna viene rappresentato da chi non ha mai smesso di cercare la verità.
La denuncia del coordinatore dell’associazione “familiari vittime della mafia”. Così la Rai insulta la memoria di Falcone e Borsellino. Giuseppe Ciminnisi su Il Riformista il 30 Gennaio 2022
Il servizio pubblico dovrebbe meglio valutare la qualità dell’informazione che viene data all’opinione pubblica, evitando che diventi il discredito di Uomini illustri che hanno pagato con la vita la lotta alla mafia. Mi riferisco alla trasmissione di Rai3 “Report” e al verbale d’interrogatorio di Alberto Volo, reso ai pm nel 2016. Leggendo la trascrizione delle sommarie informazioni testimoniali rese dal sig. Volo a magistrati della Procura di Palermo, in data 14 luglio 2016, si evince come il dott. Paolo Borsellino, a suo dire, lo avesse portato a conoscenza di sue personali opinioni in merito alla strage di Capaci.
Una ricostruzione – a mio modesto avviso – assolutamente inverosimile, visto lo spessore del magistrato, la sua riservatezza e la professionalità che da tutti gli è sempre stata riconosciuta. Ciò che forse ancor più stupisce, è la maniera in cui viene descritto il rapporto tra il Volo e il dott. Giovanni Falcone, quest’ultimo quasi indicato come subalterno al primo dal quale attendeva suggerimenti in merito alle indagini che stava conducendo, così come si evince dal verbale di Sit: “VOLO: è chiaro che Giovanni Falcone qualcuno… a qualcuno l’incarico deve averlo dato, perché quando parlavamo poi di determinati a di di… Il faceva anche perché glieli suggerivo io: ‘vai a vedere ‘sta cosa, vedi di sapere questo, questo e quest’altro, insomma”.
A prescindere dall’attendibilità delle dichiarazioni del signor Volo che – seppur non spetta a me giudicare – mi appaiono come un compendio di assolute castronerie, prescindendo dalla valutazione della sua attendibilità (a tal proposito giova ricordare che il dott. Giovanni Falcone lo aveva definito un ‘mitomane’) trovo riprovevole che si possa consentire a chicchessia di ridicolizzare la figura dei due giudici che per questo Paese hanno dato la propria vita.
Nell’auspicare una maggiore attenzione da parte del mondo dell’informazione che non dovrebbe accettare in maniera acritica quanto proposto, non posso fare a meno di restare basito dal fatto che così poco spazio viene dato ai familiari dei due giudici e a chi, come nel caso dell’avvocato Trizzino, ha seguito tutte le vicissitudini giudiziarie relative alle stragi – in particolare quella di via D’Amelio – che maggiori spunti di riflessione potrebbero dare. A questi ultimi esprimo la mia personale vicinanza e quella dei familiari delle vittime di mafia che rappresento all’interno dell’associazione di cui mi onoro di far parte”. Giuseppe Ciminnisi