Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
LA MAFIOSITA’
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA MAFIOSITA’
PRIMA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Storia della mafia.
L'alfabeto delle mafie.
La Gogna.
Art. 416 bis c.p.. 40 anni fa non era mafia.
Mafia: non è altro che una Tangentopoli.
In cerca di “Iddu”.
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
E’ Stato la Mafia.
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la trattativa Stato-mafia.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Carlo Alberto dalla Chiesa.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pio La Torre.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Attilio Manca.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pippo Fava.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giuseppe Insalaco.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Ilaria Alpi.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giorgio Ambrosoli.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.
QUARTA PARTE
SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Cosa Nostra - Altare Maggiore.
La Stidda.
La ‘Ndrangheta.
La Mafia Lucana.
La Sacra Corona Unita.
La Mafia Foggiana.
Il Polpo: Salvatore Annacondia.
La Mafia Lucana.
La Camorra.
La Mafia Romana.
La Mafia abruzzese.
La Mafia Emiliano-Romagnola.
La Mafia Veneta.
La Mafia Milanese.
La Mafia Albanese.
La Mafia Russa-Ucraina.
La Mafia Nigeriana.
La Mafia Colombiana.
La Mafia Messicana.
La Mafia Cinese.
QUINTA PARTE
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Antimafiosi.
Non era Mafia.
Il Caso Cavallari.
Il Caso Contrada.
Il Caso Lombardo.
Il Caso Cuffaro.
Il Caso Matacena.
Il Caso Roberto Rosso.
I Collaboratori ed i Testimoni di Giustizia.
Il Business dello scioglimento dei Comuni.
Il Business delle interdittive, delle Misure di Prevenzione e delle confische: Esproprio Proletario.
Il Business del Proibizionismo.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Gogna Parentale e Territoriale.
I tifosi.
Femmine ribelli.
Il Tesoro di Riina.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Caporalato.
Il Caporalato Agricolo.
Gli schiavi dei Parlamentari.
Gli schiavi del tessile.
Dagli ai Magistrati Onorari!
Il Caporalato dei giornalisti.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Usuropoli.
Aste Truccate.
SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Nimby lobbisti.
La Lobby dei papaveri Parlamentari e Ministeriali.
La Lobby dei Sindacati.
La Lobby dei Giornalisti.
La Lobby dell’Editoria.
Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati.
Fuga dall’avvocatura.
La Lobby dei Tassisti.
La Lobby dei Farmacisti.
La lobby dei cacciatori.
La Lobby dei balneari.
Le furbate delle Assicurazioni.
SETTIMA PARTE
LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.
CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Onoranze funebri: Il "racket delle salme.
Spettacolo mafioso.
La Mafia Green.
Le Curve degli Stadi.
L’Occupazione delle case.
Il Contrabbando.
La Cupola.
LA MAFIOSITA’
PRIMA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Tommaso Buscetta: “Cosa Nostra ha costituzione piramidale. La famiglia mafiosa prendeva il nome dal paese di origine. Tre famiglie contigue formavano il mandamento. I mandamenti formavano la Commissione provinciale o Cupola, i cui rappresentanti formavano la Commissione interprovinciale o Cupola. Di fatto i mafiosi non votavano la DC in quanto tale, ma votavano e facevano votare ogni partito che non fosse il Partito Comunista”. Per questo i comunisti, astiosi e vendicativi, ritengono mafiosi tutti coloro che non sono comunisti o che non votano i comunisti. Tenuto conto che al Sud i moderati hanno maggiore presa, in tutte le loro declinazioni, anche sinistri, ecco la gogna territoriale o familiare o come scrive Paolo Guzzanti: Il teorema della mafiosità ambientale.
L’accanimento prende forma in varie forme:
Il caso del delitto fantastico di “concorso esterno”.
Il Business “sinistro” dei beni sequestrati preventivamente e dei beni confiscati dopo la condanna.
La Mafia delle interdittive prefettizie che alterano la concorrenza.
Lo scioglimento dei Consigli Comunali eletti democraticamente.
Storia della mafia: il riassunto, dal brigantaggio alle multinazionali del crimine. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.
Non è solo una questione criminale. La mafia è un sistema da 11 miliardi di euro (l’1% del Pil italiano) che coinvolge imprese, istituzioni e comuni cittadini.
«Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia». Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone veniva assassinato da una carica di tritolo piazzata da Cosa Nostra nei pressi di Capaci. Erano le ore 17:57 e con il magistrato morivano la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Quella strage alzò definitivamente il velo sul fenomeno mafioso costringendo istituzioni e pubblici cittadini, in Sicilia come in Italia, a fare i conti con quella “Cosa” che ormai era davvero nostra, di tutto il Paese. A trent’anni di distanza da quella strage nasce questo speciale sulle mafie e chi le combatte per i ragazzi e le ragazze, i loro insegnanti, le famiglie. Abbiamo provato a fornirvi notizie, approfondimenti e strumenti da utilizzare per creare una o più lezioni a scuola su un tema che ognuno deve sentire proprio. Perché «gli uomini passano, le idee restano», e servono nuove gambe per farle camminare.
Non è solo un insieme di criminali. La mafia è qualcosa che soffoca, che toglie il respiro. Che controlla le vite, che elimina la libertà. Che decide la morte. La mafia è obbedienza, omertà, fedeltà. È violenza, ma non necessariamente. La mafia è spesso subdola complicità, convenienza, scorciatoia. No, la mafia non è del Sud né del Nord. La mafia, nella sua essenza, è un diritto che diventa un favore.
Le origini «mitiche» della mafia...
L’hanno chiamata in molti modi: maffia, con due effe, onorata società, picciotteria, camorra, cosa nostra, società dei malfattori, ‘ndrangheta. L’Italia fa i conti con la mafia dal 1860, dai tempi della sua unità. La sua nascita è circondata da miti e leggende. Una, la principale, è quella dei tre cavalieri arrivati dalla Spagna, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che hanno fondato poi le tre organizzazioni in Sicilia, Calabria e Campania. Il mito dei cavalieri s’è trasmesso nel tempo attraverso formule, riti, giuramenti. In altri scritti si parla di Mazzini, Garibaldi e perfino di santi e arcangeli.
... e quelle reali
Ma è probabilmente nelle carceri della bellissima isola di Favignana, al largo di Trapani, che avviene in quegli anni l’incontro tra briganti e membri della massoneria, delle sette segrete, da cui le mafie hanno ricavato i loro codici di affiliazione. Perché tra le caratteristiche fondamentali di Cosa nostra, che si sviluppa in Sicilia, ‘Ndrangheta, che prolifera in Calabria, e Camorra, che conquista invece la Campania, non ci sono solo la segretezza e l’obbligo di non pronunciarne neppure il nome (ve la ricordate la «prima regola del fight club»? «Non si parla del fight club»), ma l’appartenenza: si entra giurando fedeltà, pungendosi il dito con uno spillo o incidendosi la mano con un coltello davanti a un santino che poi viene bruciato. Si accede alla mafia con il «battesimo», come chiamano il rito di affiliazione, e per tutta la vita. Si esce solo con la morte o con il «pentimento», la collaborazione con la giustizia, quindi infrangendo il vincolo della segretezza e dell’omertà. Diventare «infami» come li chiamano i mafiosi.
I collaboratori di giustizia: da «pazzi» a fondamentali
Se oggi conosciamo come queste organizzazioni sono strutturate, come si dividono il territorio, come si entra a farne parte e quali siano i nomi dei boss, lo dobbiamo soprattutto ai collaboratori di giustizia. C’è stato un tempo in cui i pentiti di mafia venivano definiti pazzi. Non dai mafiosi, ma dalla giustizia. Avremmo potuto scoprire moltissime cose, e molti decenni prima, se avessimo creduto ad esempio ai racconti di Leonardo Vitale, mafioso palermitano che nei primi anni Settanta fece i nomi di Totò Riina e del politico Vito Ciancimino, svelando anche la struttura della Commissione provinciale di Cosa nostra. Avremmo, se solo i giudici gli avessero creduto anziché sbatterlo in manicomio. Ospedale psichiatrico dal quale uscì solo dopo sette anni, prima di essere ammazzato all’uscita da messa. Ci sarebbe voluto poi un «pentito» come Tommaso Buscetta e lo straordinario lavoro del pool antimafia di Palermo, ideato dal magistrato Rocco Chinnici (ucciso nel 1983 facendo esplodere un’autobomba) con i giudici istruttori Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, per recuperare quelle straordinarie conoscenze sul fenomeno mafioso a lungo ignorate.
Il ruolo delle istituzioni
Nei quasi due secoli di storia le mafie hanno ucciso un’infinità di magistrati, poliziotti, carabinieri, fatto sparire testimoni e oppositori, giornalisti, chiunque si mettesse sulla loro strada. E il loro sacrificio è stato enorme. Ma è solo grazie alle complicità di cui le mafie hanno goduto e godono nelle istituzioni, nello Stato, nelle aziende pubbliche e private, nelle banche e in tutti i settori produttivi, se oggi si stima che l’1% del prodotto interno lordo nazionale, qualcosa come 11 miliari di euro sia direttamente nelle loro mani (fonte: Università Cattolica di Milano).
Le aziende e le persone «comuni»
Poi c’è l’indotto, quell’insieme di imprese e affari che «godono» della presenza, dell’aiuto e della complicità delle mafie: pensiamo al settore dell’ortofrutta, del facchinaggio, delle pulizie, dell’edilizia. Le mafie, insomma, non sarebbero nulla senza l’aiuto delle persone che, fuori dalle mafie, contribuiscono alla loro crescita. Immaginate un imprenditore che costruisce case grazie a concessioni edilizie ottenute attraverso politici corrotti, comprando cemento dalle aziende mafiose, facendo lavorare i «picciotti», il gradino più basso dell’appartenenza mafiosa (ma anche quello più numeroso). O pensiamo oggi a un commercialista, a un amministratore delegato di un’azienda, a un manager che mettono a disposizione il loro sapere – frutto di anni di studi nelle più importanti università – per riciclare soldi, per aprire società fiduciarie (senza nomi dei soci) nei paradisi fiscali, per gestire locali e ristoranti.
La ‘ndrangheta, un’impresa multinazionale
La mafia è soprattutto impresa. Al Nord la ‘ndrangheta ha riprodotto alla perfezione la sua struttura in «cellule» chiamate locali, una sorta di franchising criminale la cui testa però rimane sulle pendici d’Aspromonte. Paesi minuscoli come San Luca, Platì, Africo, in provincia di Reggio Calabria, in continuo collegamento con Milano, Torino, Reggio Emilia, Como, Varese. Ma anche con Stati Uniti, Germania, Canada, Australia. Ogni affiliato ha doti specifiche: contrasto onorato, picciotto, trequartino, camorrista, padrino, sgarrista. Un modello che è diventato intercontinentale unendo regole arcaiche e modernità. E che in questi ultimi anni è diventato un brand, un marchio di qualità e affidabilità criminale che consente alle cosche calabresi di acquistare cocaina direttamente in Sudamerica «a credito», pagando la merce solamente dopo la consegna. La ‘ndrangheta negli ultimi trent’anni ha superato, per affari e livello di penetrazione sul territorio, Cosa nostra.
Cosa nostra dopo Falcone
Mafia siciliana che però non è morta, anzi. Dopo gli attentati a Falcone e Borsellino che innescarono una «reazione» non solo da parte dello Stato ma anche dai cittadini che non si era mai vista prima, l’organizzazione siciliana s’è fatta più silente: spara meno e soprattutto non cerca più di «sovvertire» lo Stato. Scende a patti con le istituzioni raggiungendo lo stesso scopo ma attirando molte meno «attenzioni». La stessa strategia adottata dalla ‘ndrangheta che invece mai si mise in contrapposizione allo Stato ma cercò, fin dagli anni Sessanta, di penetrare le istituzioni, di agganciare le pedine chiave della politica e dell’imprenditoria.
La Sicilia, gli americani e il «sacco di Palermo»
In questi anni sono stati arrestati e condannati poliziotti, carabinieri e finanzieri infedeli, ma anche politici e magistrati. Lo studioso Rocco Sciarrone ha definito queste figure che si mettono a disposizione dei clan come il «capitale sociale» delle mafie. Senza il quale, come abbiamo visto, avremmo a che fare solo con un fenomeno criminale. Era così anche in Sicilia, prima dell’avvento negli anni Settanta e Ottanta dei corleonesi di Totò Riina, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, i boss che invece attaccarono frontalmente lo Stato con attentati e bombe.
Negli anni della Seconda guerra mondiale, quando gli angloamericani sbarcarono in Sicilia, i generali alleati presero accordi direttamente con i capi mafia per non avere «ostilità» nella risalita lungo la penisola. In cambio diedero poi il riconoscimento ai boss nominandoli sindaci e amministratori. Negli anni Sessanta la mafia palermitana era già così forte da riuscire in una sola notte a far emettere all’assessore ai lavori pubblici Vito Ciancimino oltre quattromila licenze edilizie, 1.600 intestate a prestanome o nullatenenti, per costruire migliaia di metri cubi di palazzine dove c’erano le ville liberty. Lo hanno chiamato il «sacco di Palermo». Segno che già 80 anni fa la mafia non era solo estorsioni, droga, omicidi ma aveva penetrato il tessuto imprenditoriale puntando al potere e alla ricchezza di pochi tenendo il resto della popolazioni in condizioni di indigenza e povertà.
Calabria, dai pastori a imprenditori
Lo stesso è successo in Calabria dove inizialmente la ‘ndrangheta, considerata solo una mafia di pastori, ha goduto di una forte sottovalutazione. Ma già nella metà degli anni Settanta, con la «prima guerra di ‘ndrangheta», quando ci fu lo scontro tra i vecchi e i nuovi boss, alla base del contendere c’erano i soldi per la costruzione del porto di Gioia Tauro, del Quinto centro siderurgico, dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. I boss «vincenti» aprirono imprese edili e centri di produzione del calcestruzzo per accaparrarsi poi gli appalti. In quegli anni nasce la «Santa», un livello segreto della ‘ndrangheta a cui avevano accesso anche imprenditori e uomini dello Stato. Con la «Seconda guerra», negli anni Novanta, ci fu poi la scalata delle attuali famiglie ai vertici, costata più di 600 morti. Erano gli anni del grande traffico di cocaina che segnò la fine dei sequestri di persona.
La Camorra e la sua struttura «fluida»
La Camorra ha invece avuto sempre una struttura più fluida, più legata al controllo del territorio, ma attraverso boss come Raffaele Cutolo o la famiglia Nuvoletta e i Casalesi ha ripercorso lo stesso processo da criminale a imprenditoriale. Mentre la sacra corona unita, mafia pugliese, è nata molti anni dopo da una «gemma» di ‘ndrangheta e camorra.
Nessun codice d’onore
L’immagine stereotipata del cinema e delle serie tv sulla mafia racconta da anni molte bugie sulle organizzazioni. Proprio le menzogne e le sottovalutazioni hanno permesso alle mafie di crescere e proliferare. Non è vero che i mafiosi hanno un «codice etico», che non uccidono donne e bambini. Il caso del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito nel ‘93, ucciso due anni dopo e sciolto nell’acido per punire il padre Santino diventato pentito ne è un esempio. La ‘ndrangheta rapì diversi bambini, alcuni dei quali non tornarono mai a casa, e uccise moltissime vittime «collaterali». È incredibile quante cose in questi anni abbiamo fatto finta di non sapere sulle mafie. Negli anni Settanta, Ottanta e nella prima metà dei Novanta, ad esempio, a Milano ci sono stati più di 100 omicidi all’anno. Molti furono commessi in scontri tra clan mafiosi. Oggi la media non supera i 20-23 e quasi nessuno rientra in dinamiche di crimine organizzato. In quegli anni la città era molto meno sicura di oggi. Eppure è dal 1999 che la politica grida all’allarme sicurezza, ma contro le mafie continuiamo a non impiegare il massimo sforzo dello Stato.
La gestione del denaro
Oggi i boss hanno ricchezze sconfinate grazie al traffico di droga. Un chilo di cocaina si compra in Colombia a meno di 1.500 euro e si rivende a Milano a 35 mila euro. Poi da ogni chilo se ne possono ricavare altri sei grazie alle sostanze da taglio. Questi soldi però sono «sporchi» devono essere «ripuliti» per giustificare ricchezze, ville e un alto tenore di vita. Così si comprano bar, imprese, ristoranti, discoteche. I boss hanno la necessità di giustificare guadagni che già possiedono, sono ben felici di pagare fatture e battere gli scontrini anche se nei loro locali non entra nessuno. Un giovane boss della potentissima famiglia De Stefano di Reggio Calabria, Giorgetto, 41 anni, è stato arrestato due anni fa a Milano. Aveva interessi in un ristorante molto noto tra subrette e movida. Era anche finito sulle riviste di gossip con il soprannome di «Malefix» per il suo fidanzamento con una influencer.
Sono come noi
I mafiosi non hanno coppola e lupara, ma sono del tutto identici a noi. Per vivere hanno bisogno di confondersi, di trovare consenso sociale nascondendo (anche se non del tutto) l’anima più violenta. Non è vero che i mafiosi studiano nelle migliori università del mondo o che spostano milioni di euro solo con un click. Per farlo utilizzano professionisti a loro disposizione. Ma è vero che i giovani mafiosi sono sui social, cercano lavori «normali» per celare la loro immagine, frequentano i nostri stessi locali. Lo fanno per confonderci, per ingannarci, riuscendo così ancora una volta a «distrarci», a farci gridare ad altri nemici. Internet, i media, il lavoro dei giornalisti ci consentono di conoscere molto sulle organizzazioni mafiose. Sappiamo i nomi di chi «comanda» e in quale «zona». Molte famiglie hanno addirittura pagine dedicate su Wikipedia. Abbiamo un patrimonio incredibile di informazioni, come mai avvenuto in passato. Sarebbe inaudito oggi disperdere questa enorme possibilità di sconfiggere, finalmente, le mafie attraverso la conoscenza. Mettendo così fine al loro grande inganno.
Matteo Persivale per il “Corriere della Sera” il 7 giugno 2022.
Eliot Ness, il vero Eliot Ness, non quello dei telefilm e del cinema e dei romanzi gialli, morì solo, nella cucina di casa, davanti all'acquaio, mentre si versava un bicchiere d'acqua. Lo trovò la moglie - il bicchiere in frantumi, la camicia bianca bagnata - stroncato da un infarto a soli 54 anni.
Ne erano passati solo venticinque dall'arresto clamoroso di Al Capone a Chicago, dalla gloria degli «intoccabili» che lo rese famoso e lo spinse a Cleveland che allora era la città più corrotta d'America, ancor più di Chicago, e della quale per molti anni fu «direttore della pubblica sicurezza», cacciando i poliziotti che prendevano mazzette o semplicemente fannulloni, riportando in auge quella che era sempre stata la sua ossessione: la legge.
Adesso che siamo alla vigilia del primo festival a lui dedicato (Eliot Ness Fest, 15-17 luglio) dalla cittadina di Coudersport, Pennsylvania, dove morì, tornano inevitabili le precisazioni degli storici, e dei media americani: sì, Ness fu un uomo di straordinaria integrità morale. La sua squadra rimane ancora oggi un modello organizzativo, e dalle ceneri dell'organo preposto a far rispettare il proibizionismo sull'alcol nacque un'importante agenzia federale tuttora attiva, la C, che ha giurisdizione su alcol, tabacco e (almeno sulla carta, i lobbisti l'hanno azzoppata) le armi da fuoco (e l'atrio della sede di Washington è stato a lui intitolato).
Però la statua di Eliot Ness, l'eroe che fa arrestare Capone è l'ultima, in ordine di tempo, abbattuta dall'America che ripensa profondamente la sua storia. Ci ha appena pensato il magazine del Washington Post, che ha interpellato Jonathan Eig, l'autore dell'eccellente saggio Get Capone , «Arrestate Capone», che ridimensionò il suo ruolo nel caso del gangster più temuto d'America.
«Eliot Ness fu coinvolto nel tentativo di interrompere il flusso d'alcol che viaggiava verso Chicago e venne incaricato di cercare prove in materia di contrabbando, ma non trovò mai prove sufficienti per costruire un solido caso contro Capone. Ebbe un piccolo ruolo». Come è noto, Capone finì in carcere per evasione fiscale: e la questione centrale è che, per motivi ovvii, sarebbe stato complicato scrivere libri, creare telefilm e film dedicati a una squadra di contabili che lavorano certosinamente sui libri delle varie attività di Capone.
In Pennsylvania, al festival diretto da Stephen Green, presidente dell'Eliot Ness Museum, ci sarà «un'opportunità per rivivere uno dei periodi più interessanti e violenti della storia americana». Con film, una parata e rievocazioni storiche. Il 2022 è l'anno del 50esimo anniversario della fondazione della Atf: il vicedirettore associato e direttore operativo dell'agenzia, Thomas Chittum, terrà il discorso iniziale dedicato al padre nobile della sua agenzia.
Certo, quando Ness si candidò come sindaco di Cleveland nel 1947 fu sconfitto, finì sul lastrico a causa di investimenti sbagliati e - la Storia ha un crudele senso dello humour - il simbolo del Proibizionismo cominciò a bere troppo, segnando la sua condanna a morte. Quando morì, dimenticato, il New York Times non scrisse neanche una riga, i giornali di Chicago - la sua città - un colonnino.
Sei mesi dopo però uscì la sua prima biografia, indubbiamente romanzata, che ispirò il telefilm con Robert Stack amatissimo da due generazioni (Stack con l'abito grigio sempre impeccabile e la camicia bianca come il vero Ness, ma il mitra Thompson era un'invenzione degli sceneggiatori) e il film di Brian De Palma con Kevin Costner contro Robert DeNiro e soprattutto la sceneggiatura cult di David Mamet al culmine della bravura («Sei solo chiacchiere e distintivo», «Lei non è di Chicago», e così via una battuta memorabile dopo l'altra).
E ci sono anche i libri, il serial scritto da Max Allan Collins dedicato a lui, uno dei quali ispirerà il film ora in lavorazione, diretto da Uwe Boll, sulla vera storia del caso del serial killer di Cleveland che sfuggì a Ness. Fu vera gloria?
Gli «Untouchables» davvero non potevano essere corrotti, una rarità a Chicago, e i biografi di Ness segnalano la modernità del suo approccio al crimine (tecnologia, lavoro capillare sulle strade cittadine con lotta senza quartiere alla brutalità dei poliziotti). Il resto? Una storia che tuttora fa riflettere e ispira - Hollywood ci ha insegnato che a volte i film più belli sono quelli che raccontando bugie ci dicono la verità.
L'alfabeto delle mafie. A come Antimafia. Non solo norme, commissioni e magistrati specializzati. In nessun'altra parte del mondo alle prese con gli stessi problemi si combattono le mafie con il sostegno attivo di una parte della popolazione. In particolare quella giovanile. Isaia Sales su La Repubblica il 16 settembre 2021. Con il termine antimafia ci si riferisce a quell'insieme di norme, apparati e istituzioni predisposto in Italia per la lotta alle mafie: una legislazione speciale (416 bis, reato di associazione mafiosa; 41 bis, carcere speciale per i mafiosi; sconti di pena per i collaboratori di giustizia; introduzione del sequestro e della confisca dei beni; possibilità dello scioglimento degli enti locali per infiltrazione mafiosa) e inoltre magistrati specializzati in materia; forze dell'ordine coordinate; uffici investigativi appositamente costituiti (Dna, direzione nazionale antimafia; DDA, direzione distrettuale antimafia; DIA, direzione investigativa antimafia); uffici giudiziari specializzati nel sequestro e nella confisca; un'agenzia nazionale per il riuso (ANBSC); una commissione parlamentare specifica; relazioni semestrali e annuali dedicate, ecc.
L'alfabeto delle mafie. B come Borghesia mafiosa. La modernità delle mafie consiste nel fatto che esse si svincolano dalle condizioni storiche che le hanno prodotte e diventano un metodo: l'uso della violenza come arricchimento e potere attraverso le relazioni politiche e sociali. Isaia Sales su La Repubblica il 30 settembre 2021. Con l'espressione "borghesia mafiosa" non si intende, certo, che la borghesia italiana sia criminale, ma si fa riferimento a due distinte caratteristiche storiche delle mafie italiane. Innanzitutto ci si riferisce all'origine sociale dei mafiosi, in gran parte provenienti - secondo gli studiosi che fanno ricorso a questa terminologia - dalle file della borghesia siciliana, mentre diversa sarebbe la provenienza di classe dei camorristi e degli 'ndranghetisti.
L'alfabeto delle mafie. C come Chiesa cattolica. Negli ultimi anni la comunità cattolica italiana ha sempre più consapevolmente assunto la gravità del fenomeno mafioso. Ecco le tappe che hanno portato a questa mutazione. Isaia Sales su La Repubblica il 22 ottobre 2021. Per chi si occupa del rapporto storico tra mafie italiane e Chiesa cattolica i cambiamenti degli ultimissimi anni sono davvero impressionanti. La comunità cattolica italiana (nel suo insieme) ha sempre più consapevolmente assunto la gravità del fenomeno mafioso rispetto ad un lungo passato di connivenza, silenzio o indifferenza. E in questa radicale revisione si sono impegnati i vertici delle gerarchie vaticane. Vediamo nell'ordine le principali novità intervenute. Nel 2010 la Conferenza episcopale italiana (CEI) ha scritto parole nette sull'argomento: "Le mafie sono la configurazione più drammatica del male e del peccato. In questa prospettiva non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione: le mafie sono strutture di peccato". È la prima volta che viene argomentata l'avversione alla mafia utilizzando il termine "struttura di peccato" che la "teologia della liberazione" (elaborata da alcuni teologi della chiesa latino-americana) applicava all'analisi del capitalismo in quella parte del mondo esprimendosi a favore di una Chiesa dalla parte dei poveri e delle loro lotte per emanciparsi da inaccettabili condizioni di sfruttamento. La teologia della liberazione aveva contestato il silenzio e, in diversi casi, la complicità delle gerarchie cattoliche sudamericane verso le dittature militari, così come i cattolici più avvertiti in Italia avevano contestato il lungo silenzio storico (e a volte l'aperta connivenza) delle gerarchie verso la "dittatura" mafiosa. A maggio del 2021 è stato beatificato il giudice Rosario Livatino, un magistrato dal profondo sentire cristiano vittima della mafia. Già nel 2013 Padre Giuseppe Puglisi era stato proclamato beato. Un fatto straordinario: era la prima volta in assoluto che un uomo di Chiesa veniva beatificato per aver avversato la mafia e per esserne stato vittima. Per il passato, infatti, i sacerdoti che si erano opposti alle prepotenze mafiose, isolati dai credenti e dalle gerarchie ecclesiastiche, erano stati dimenticati dalla Chiesa. E la richiesta di beatificazione per don Peppe Diana, ammazzato da un clan camorristico a Casal di Principe, si è fatta sempre più pressante. Nel 2014, poi, Papa Francesco in Calabria ha pronunciato la parola "scomunica" nei confronti dei mafiosi ("I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati") dopo che per decenni e decenni questa parola era stata bandita dal linguaggio dei vertici della Chiesa nei confronti degli appartenenti alle mafie. E proprio sul tema della scomunica è stato promosso in Vaticano un gruppo di lavoro con la presenza di diversi esponenti del mondo cattolico che si sono segnalati per il loro impegno contro le mafie. Prima di Bergoglio anche Giovanni Paolo II nel 1993 aveva preso posizioni pubbliche contro le mafie nel celebre discorso nella Valle dei templi ad Agrigento, ma nessun Papa prima di allora (cioè a più di due secoli dalla nascita delle mafie in Italia) aveva parlato di mafie in un suo discorso, in una sua omelia, in un suo libro. Nel 2015 si è registrata anche la ferma presa di posizione dell'arcivescovo di Monreale, Michele Pennisi, di non ammettere come padrini di battesimo e di cresima coloro che si sono resi colpevoli di reati disonorevoli o coloro che appartengono ad associazioni mafiose. La mamma di don Peppe Diana commossa al passaggio di una manifestazione in ricordo del figlio ucciso dalla camorra Si può parlare, dunque, a ragione di un cambio epocale dell'atteggiamento delle gerarchie cattoliche verso i fenomeni mafiosi. Una novità di assoluto valore umano, culturale, civile, storico prima che religioso. E proprio per valorizzare al meglio questi radicali cambiamenti degli ultimissimi anni, che vanno ripercorse storicamente tutte le ampie zone d'ombra del rapporto con le mafie del mondo cattolico italiano. Perché la domanda assillante che ci si pone sul piano storico è questa: come mai i fenomeni mafiosi si sono sviluppati in società e ambienti cattolicissimi pur rappresentando una violazione sistematica dei comandamenti e dei precetti dell'etica cristiana? E, in particolare, come spiegarsi il fatto che in quattro cattolicissime regioni italiane si siano prodotte alcune delle organizzazioni criminali più spietate e potenti al mondo, senza che - fino a pochissimi anni fa - ci fosse contrasto tra esse e le gerarchie cattoliche? Queste domande, naturalmente, valgono anche nei confronti della corruzione, tema su cui si registra un altro ritardo storico del Vaticano: solo nel 2017, infatti, si è ventilata la possibilità di una scomunica anche verso i condannati per corruzione. È del tutto evidente che la religione cattolica, così come si è originata e sviluppata nell'Italia meridionale (e negli altri paesi latino-americani alle prese con analoghi problemi) non è stata un ostacolo al dispiegarsi del potere mafioso, anzi. Ancora oggi manca dall'interno della Chiesa una spiegazione storica e dottrinale del proprio comportamento, che purtroppo non è estraneo al duraturo successo delle mafie. Certo l'uso della devozione e della ritualità nei sistemi mafiosi non è una peculiarità solo del cattolicesimo. Anche la Yakuza giapponese e le Triadi cinesi praticano riti di iniziazione vicini alle tradizioni religiose di quei paesi, così come all'interno del cristianesimo vanno considerate le pratiche di bande criminali mafiose russe e di altri paesi slavi che si richiamano a quelle della religione ortodossa. Nella criminalità mafiosa nigeriana cospicui sono i riferimenti a pratiche religiose che hanno a che fare con l'occultismo, con la stregoneria e con i riti "vudu". Così come meritano grande attenzione sia il rapporto tra terrorismo jihadista e religione musulmana sia alcuni comportamenti di stampo mafioso in territori arabi. Se si esclude Matteo Messina Denaro, non si conoscono mafiosi atei o apertamente anticlericali nei paesi cattolici, non ci sono appartenenti alle mafie che non abbiano ostentato o ostentino apertamente la loro fede. Sono cattolici osservanti i peggiori assassini che l'Italia abbia mai avuto nell'ultimo secolo e mezzo. Credono in Dio, nella Chiesa di Roma, vanno a messa, si comunicano, fanno battezzare i loro figli, fanno fare loro la comunione, si sposano con rito religioso (anche quando sono latitanti), fanno da padrini di cresima ai tanti che glielo chiedono, ricevono l'estrema unzione se muoiono nel loro letto e pretendono il funerale religioso, sono tra i massimi benefattori di molte parrocchie, organizzano le feste dedicate ai santi patroni e li si vede in prima fila nelle processioni. Nel frattempo sciolgono ragazzini nell'acido, scannano "cristiani" come pecore, ordinano omicidi a ripetizione, opprimono con il racket migliaia di persone, avvelenano con le droghe intere generazioni. E mentre scrivono in codice ordini di morte, si servono normalmente di espressioni di pietà cattolica quali "con l'aiuto di Dio", o "ringraziando Gesù Cristo", come faceva nei suoi pizzini Bernardo Provenzano. Alcuni fra loro esprimono una religiosità superstiziosa (il segno della croce prima di ammazzare o la benedizione delle pallottole con l'acqua santa), altri una religiosità tenue (andare a messa, osservare i precetti), altri sono dediti allo studio e alla lettura quotidiana della Bibbia e del Vangelo, altri usano libri di preghiera o si dedicano a letture religiose più sofisticate, altri ancora hanno eretto cappelle per la messa nel loro rifugio di latitanti, i più istruiti si sono cimentati anche con la teologia. Forse questo è uno degli aspetti più contraddittori della storia italiana: nel Paese cattolico per antonomasia, sede del cuore mondiale della cristianità, dove più forte e determinante è stata l'influenza della Chiesa cattolica nel plasmare la storia e il carattere stesso della popolazione, si sono sviluppate le criminalità organizzate di tipo mafioso che più di altre hanno condizionato e influenzato il crimine nel mondo. Nelle regioni italiane considerate più legate alla Chiesa, nel cuore della cristianità sono nati e cresciuti gli assassini più spietati. Questi criminali non hanno abiurato la loro fede religiosa, anzi spesso se ne sono serviti per giustificare le loro azioni criminali. E la cosa non riguarda solo il passato, quando più forte era l'influenza della Chiesa sulla società nel suo complesso, ma anche il periodo in cui l'Italia si è secolarizzata e addirittura gli ultimi decenni, quando è sembrato che la Chiesa avesse meno influenza sulla vita quotidiana della nazione. Altri tipi di delinquenti, altri cattolici di dubbia moralità (politici, imprenditori, capi di Stato, dittatori) hanno posto la religione a guida della loro azione pubblica e privata; e la storia ci ricorda quanti crimini e misfatti sono stati compiuti in nome della fede, quante atrocità al grido "Dio è con noi". Ma qui siamo di fronte a qualcosa di più grave e inedito: una dimestichezza, una familiarità, una quotidianità plurisecolare tra fede e crimine che non si può camuffare neanche dietro una presunta funzione pubblica o imprescindibili esigenze nazionali o statuali. La loro natura di assassini e gli scopi malavitosi della loro organizzazione sono sempre stati chiari e lampanti. Nei loro covi si sono rinvenute numerose bibbie, immagini sacre, statue di santi, e altre forme di acculturazione religiosa e di forte e sentita credenza. In alcuni casi sono stati scoperti dei veri e propri altari su cui preti e frati andavano a dire messa e a porgere la comunione a dei ricercati per efferati delitti. Dunque, non c'è alcun dubbio: i capi e gli aderenti alle quattro criminalità italiane di tipo mafioso sono devoti e ferventi cristiani che non avvertono minimamente alcuna contraddizione tra l'essere degli assassini e credere in Dio e nella sua Chiesa. Essi pensano di avere un rapporto del tutto particolare con la divinità e non li sfiora neanche lontanamente la sensazione di inconciliabilità tra il macchiarsi di efferati delitti ed essere parte della grande famiglia cattolica. I mafiosi non hanno mai avvertito la Chiesa nelle sue varie articolazioni come una nemica o una oppositrice del loro disegni e comportamenti. Un paradosso così eclatante poche volte si è riscontrato nella storia moderna della Chiesa. Questa è una constatazione storica incontestabile. Certo, ci sono preti che in diversi quartieri dominati dalle mafie svolgono una straordinaria opera sociale, culturale e perfino economica per contendere bambini, ragazzi e giovanissimi al reclutamento mafioso. E a volte questa vera e propria azione missionaria si svolge nella totale assenza delle istituzioni statali e comunali e del volontariato non religioso. Ma i preti missionari nei quartieri mafiosi non annullano il danno sociale e civile degli altri preti che nel tempo sono stati proni alle mafie. È del tutto ovvio che le mafie non avrebbero potuto radicarsi così profondamente nella storia meridionale senza un'acquiescenza degli esponenti della Chiesa cattolica, che spesso hanno piegato la dottrina cristiana alle esigenze di dare buona coscienza a degli assassini. La domanda che molti studiosi della criminalità si pongono è questa: le mafie avrebbero potuto ricoprire un ruolo plurisecolare nella storia meridionale e dell'intera nazione se, oltre alla connivenza di settori dello Stato e di parte consistente delle classi dirigenti locali, non avessero beneficiato del silenzio, dell'indifferenza, della sottovalutazione della Chiesa cattolica e della sua dottrina? La risposta è no. Senza di ciò le mafie non sarebbero arrivate a tenere in pugno il futuro di intere popolazioni. Insomma, il successo delle mafie italiane deve essere considerato sul piano storico anche come un insuccesso della Chiesa cattolica. Fino alla seconda metà del Novecento la Chiesa italiana non ha mai prodotto un documento ufficiale, una presa di posizione "contro" le mafie, non le ha mai combattute apertamente, non c'è stato mai un aperto contrasto fino ai tempi recenti. Un lunghissimo silenzio dei cattolici, del clero, delle gerarchie locali e nazionali, ha dominato incontrastato accompagnando l'evolversi di quei fenomeni criminali anche quando avevano assunto fama internazionale e la parola mafia era diventato il termine per antonomasia in tutto il globo per indicare la criminalità organizzata. Un lunghissimo silenzio durato per più di un secolo, un tempo enorme, incredibile, insopportabile. Se degli assassini hanno creduto in Dio, se si sono sentiti dei buoni cristiani pur ammazzando, se non li ha sfiorati minimamente la inconciliabilità tra il macchiarsi le mani di sangue e sentirsi parte della grande famiglia cattolica, ciò di per sé dovrebbe essere motivo di preoccupata riflessione. Nel passato ci si è limitati a bollare la religiosità dei mafiosi come una forma evidente di superstizione, quando non si poteva fare a meno di commentare episodi palesi della loro religiosità. Ma se queste testimonianze di fede dei mafiosi andavano etichettate come superstizione, allora si sarebbe dovuta dichiarare superstiziosa gran parte della popolazione cattolica. I mafiosi, infatti, non fanno altro che manifestare la loro religiosità nelle forme in cui normalmente si è manifestata nei secoli la fede cattolica nel Sud d'Italia. Il messaggio della Chiesa si è dimostrato capace di coesistere senza conflitti con l'appartenenza mafiosa. Se i mafiosi si sono sentiti dei buoni cristiani, è perché hanno respirato e introiettato "una religione che non infonde virtù". Ciò vuol dire che nel Mezzogiorno d'Italia, nelle regioni infestate dal fenomeno mafioso, il cattolicesimo non è stato del tutto "religione della virtù", come voleva Lorenzo Valla. Don Pino Puglisi fu assassinato dalla mafia il 15 settembre 1993 Le cose sono cambiate, appunto, nella seconda metà degli anni settanta del Novecento, ma lentamente e senza coinvolgere pienamente gli esponenti delle chiese locali. Il silenzio fu squarciato dalle omelie del cardinale Pappalardo nel 1982 in occasione di alcuni delitti eccellenti. Prima in Campania lo aveva fatto don Riboldi vescovo di Acerra contro la camorra, poi Papa Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993. In seguito, gli omicidi di don Pino Puglisi a Palermo e di don Peppe Diana a Casal di Principe, gli attentati alle basiliche di S. Giovanni in Laterano e del Velabro a Roma, hanno spinto la Chiesa a più coraggiose prese di distanza dalle mafie, fino al richiamato documento citato della Conferenza episcopale italiana nel 2010. E questo atteggiamento nuovo (anche se minoritario) si è manifestato solo dopo la caduta del muro di Berlino e dopo la fine della Dc, cioè dell'unità politica dei cattolici. Si può dire che è stata la fine della contrapposizione tra comunismo sovietico e mondo occidentale a consentire alla Chiesa di lottare le mafie senza sembrare filocomunista (visto che i comunisti all'epoca erano gli unici a farlo), ed è stata la fine della Dc a consentire alla chiesa di lottare le mafie senza l'imbarazzo di dover ammettere che a coprirle erano gli esponenti di un partito che si professava cristiano. Il nesso tra partito cattolico e mafie è stato fattore di imbarazzo per la Chiesa, e spesso ha stimolato una posizione negazionista del fenomeno mafioso, di giustificazionismo e spesso di aperto sostegno per timore che i comunisti potessero prendere il potere in Italia. In un suo libro, l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga ha ricordato in un suo libro di memorie che fu il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo dal 1945 al 1967, a mettere in guardia la Dc: "Se volete i voti dovete andare a cercare quelli lì, disse. E con quelli lì intendeva i mafiosi". Per una gran parte della Chiesa dell'epoca i mafiosi erano considerati un "male minore" rispetto al pericolo comunista. Ci sono sicuramente spiegazioni "funzionali" sulla religiosità dei mafiosi. Per un criminale il problema principale è il controllo dei sensi di colpa. Ammazzare non è una cosa così semplice, non è una "normale" attività umana. Il senso di colpa per le azioni delittuose può mettere in crisi anche il più spietato degli assassini. Se si riesce a dominarlo, si è poi in grado di poter continuare a delinquere e a ottenere consenso, ricchezza e potere. I killer seriali sono tali proprio perché non sentono nessun senso di colpa. Stessa cosa per i mafiosi. Convincersi che Dio è dalla propria parte, che comprende la "ratio" delle azioni mafiose e criminali e che è pronto al perdono per tutto quello che di delittuoso si compie, è una incredibile comodità. Anche chi non crede riconosce alle religioni (a tutte le religioni) un presidio morale contro il male. Tutte le religioni tentano, ciascuna a proprio modo, di contenere il male che si sprigiona dall'uomo. Ancora di più ciò viene riconosciuto alla religione di Cristo. Ma se degli assassini non provano neanche rimorso per quello che commettono, e di norma si fanno il segno della croce prima di ammazzare, vuol dire che la credenza religiosa si è trasformata in un auto-assolvimento di assassini. È chiaro che i mafiosi non vogliono essere avvertiti come delinquenti dalla società che li circonda, dalle comunità in cui operano. Perciò si appoggiano alla Chiesa: come si fa a ritenerli delinquenti se la loro presenza è accettata dalle gerarchie cattoliche, se ad essi sono riservate le cerimonie più fastose, se li si sceglie come organizzatori delle feste religiose, se si consente loro di portare sulle spalle i santi, se sono tra i principali benefattori nelle attività caritative? È dunque sul concetto di pentimento e di perdono che deve soffermarsi l'analisi a proposito del rapporto mafie-Chiesa. Nella dottrina cattolica, la violazione di alcuni comandamenti che hanno a che fare con la violenza sugli uomini e sulle cose (non rubare, non ammazzare) non rende necessario riparare con atti concreti l'ingiustizia commessa e il dolore procurato, così da annullare o attenuare (laddove possibile) gli effetti negativi dei propri misfatti. L'ingiustizia compiuta e il danno arrecato non implicano obblighi nei confronti delle vittime. È solo l'autorità religiosa che ha il potere di liberarci dal peso degli errori commessi. Lo strumento di questa traslazione di colpa è il sacramento della confessione e il sacerdote ne è il tramite. La colpa, dunque, non è mai verso gli altri, verso la società, la collettività, lo Stato e le sue leggi, ma è innanzitutto colpa verso Dio, peccato contro il Signore. La confessione serve a ripristinare il rapporto di fiducia con Dio che il peccato aveva compromesso. Deve essere riparato il peccato verso il Signore, non verso le persone in carne e ossa oggetto del male. Colui che ha subìto le conseguenze del peccato resta un estraneo, un non partecipe al rito della confessione e della espiazione. Così concepita la confessione si trasforma in una "deresponsabilizzazione etica" che salta in blocco la dimensione pubblica e sociale del peccatore. Alla Chiesa è sufficiente il pentimento interiore, non quello rivolto all'oggetto del proprio atto peccaminoso o verso la collettività offesa. Insomma tutto si regge sul principio che bisogna riparare nei confronti della Chiesa (rappresentante in terra di Dio) ma non nei confronti della vittima. Questa si chiama "etica dell'intenzione" che si basa su questo assunto: se tu, peccatore, modifichi la tua interiorità che ti ha portato al peccato mediante il pentimento, ciò è sufficiente a farti rientrare tra coloro che possono riavere l'amore di Dio. Il tragitto che si interpone nel mondo cattolico tra pentimento e perdono, tra colpa ed espiazione, è il più breve rispetto a qualsiasi altra religione. Sembra che la dottrina cattolica consideri più appagante il recupero di ogni singolo peccatore piuttosto che mettere in moto la reciprocità tra offeso e offendente. In questa ottica si considera secondario il giudizio terreno sulle colpe commesse e il sottoporsi all'autorità dello Stato. Non si fa nessuna distinzione tra peccati con conseguenze sociali e peccati senza conseguenze per gli altri. La Chiesa ha lasciato intendere con il suo messaggio che c'è un Dio con il quale si può negoziare in via privata la salvezza della propria anima senza dover passare per il recupero del danno arrecato socialmente e collettivamente sopportato. Padre Nino Fasullo l'ha definita "privatizzazione della salvezza". È a questa concezione che si rifanno i mafiosi, a questa idea del rapporto con Dio che si rapportano, e hanno trovato nei preti e nella Chiesa un autorevole avallo. E che il problema riguardi anche lo strumento della confessione ne era consapevole il cardinale Carlo Maria Martini. In un confronto con Eugenio Scalfari, il porporato propose un concilio specifico sul tema della confessione, o come lui si esprime "sul percorso penitenziale della propria vita". "Vede", risponde a Scalfari: "la confessione è un sacramento estremamente importante ma ormai esangue. Sono sempre meno le persone che lo praticano ma soprattutto il suo esercizio è diventato quasi meccanico: si confessa qualche peccato, si ottiene il perdono, si recita qualche preghiera e tutto finisce così. Bisogna ridare alla confessione una sostanza che sia veramente sacramentale, un percorso di pentimento e un programma di vita, un confronto costante con il proprio confessore, insomma una direzione spirituale". La teologia morale cattolica, alle prese con l'impatto che le mafie hanno avuto con la società, ha mostrato tutti i suoi ritardi e tutte le sue incongruenze; o meglio, la lotta alle mafie fa venire allo scoperto lo scarto esistente tra teologia morale e spirito civico. La facilità del perdono è un punto irrinunciabile dell'identità della Chiesa cattolica, anche quando tale facilità ha confermato nei propri convincimenti assassini seriali come i mafiosi facendoli sentire non estranei al messaggio cristiano. Se questa analisi ha qualche fondamento, forse il passo successivo, dopo la scomunica, è mettere mano un adeguamento dottrinale. Partendo da questa semplice constatazione: i mafiosi che non si intendono di teologia morale, hanno avvertito i precetti della Chiesa come una forma di involontaria accondiscendenza verso il loro modello valoriale. Manca il peccato civico, inteso come mancanza contro lo Stato, contro la comunità, contro i beni comuni, così come aveva suggerito di introdurre qualche anno fa Alberto Monticone, l'ex presidente dell'Azione cattolica. Insomma, è ancora lunga la strada per la elaborazione e l'attuazione di una vera e propria teologia della liberazione delle mafie da parte del mondo cattolico nel suo insieme, ma la via è intrapresa, anche se a livello locale si continuano a manifestarsi atteggiamenti sconcertanti. Per esempio il funerale religioso del boss Vittorio Casamonica a Roma nel 2015, proprio nella città sede del Vaticano, durante il quale il prete celebrante ha sostenuto di non essersi accorto di nulla; non si era accorto, cioè, che stava celebrando i funerali di un notissimo mafioso. Eppure erano stati affissi enormi manifesti davanti alla Chiesa inneggianti al boss (ritratto con un enorme crocefisso al petto, che sormonta la basilica di S. Pietro e il Colosseo e la scritta: "Hai conquistato Roma ora conquisterai il Paradiso"), un elicottero sorvolava la zona e gettava fiori sui presenti, una banda intonava la musica de Il Padrino, e la bara era stata collocata dentro un enorme cocchio trainato da un numero cospicuo di cavalli. E il parroco di una chiesa intitolata a S. Giovanni Bosco (che ha impegnato tutta la sua esistenza per l'educazione) non solo non ha avuto la forza di dire di no, ma anzi ha affermato che lo avrebbe rifatto. Eppure nella stessa chiesa fu vietata la cerimonia religiosa per Piergiorgio Welby, afflitto da sclerosi multipla e militante del Partito Radicale, deceduto grazie all'assistenza di sanitari che diedero seguito alla sua volontà di porre fine alla lunga agonia. Ad un giornalista che ha chiesto al cardinale Camillo Ruini, all'epoca vicario del pontefice per la diocesi di Roma, se era pentito di aver negato il funerale a Welby, il porporato ha risposto: "Negare a Piergiorgio Welby il funerale religioso è stata una decisione sofferta, che ho preso perché ritenevo contraddittoria una scelta diversa. Su questo non ho cambiato parere. Ho comunque pregato parecchio perché il Signore lo accolga nella pienezza della vita". Ciò vuol dire che il caso era stato affrontato direttamente dalla curia romana e non affidata al prete della chiesa di don Bosco. Perché non si è fatto lo stesso per Vittorio Casamonica? Al boss Casamonica il funerale religioso, al mite Welby no. La Chiesa italiana, in conclusione, non può tirarsi fuori dalle proprie responsabilità storiche per il successo dei fenomeni mafiosi. Padre Bartolomeo Sorge aveva scritto: "Mi sono sempre chiesto perché questo sia potuto accadere: il silenzio della Chiesa sulla mafia. Non si potrà mai capire come mai i promulgatori del Vangelo delle beatitudini non si siano accorti che la cultura mafiosa ne era la negazione. Il silenzio, se ha spiegazioni, non ha giustificazioni." E mentre questo giudizio va riaffermato senza sconti, è altresì vero che senza un generale impegno della Chiesa cattolica non vedremo mai la fine delle mafie.
L'alfabeto delle mafie. D come Donne di mafie. La detenzione dell'uomo è stato il presupposto affinché la donna esercitasse un ruolo pregnante nella criminalità organizzata. Anche i sequestri dei beni hanno spinto verso l'intestazione di proprietà a membri femminili delle famiglie, e il coinvolgimento delle donne in strumenti finanziari per sfuggire all'individuazione dei beni accumulati con i delitti. Isaia Sales su La Repubblica il 26 Novembre 2021. È ampiamente noto che le donne delinquono molto meno degli uomini, in tutti i tempi, in tutte le circostanze, in tutte le società, all'interno di tutti i contesti criminali. Questa macroscopica differenza la si può notare nelle statistiche dei reati, a partire dall'assoluta predominanza dei maschi tra i condannati e tra i detenuti nelle carceri italiane.
L'alfabeto delle mafie: "E" come Estorsione. Il passaggio dalla rapina e dal furto all'estorsione rappresenta il passaggio dalle criminalità precedenti a quella di tipo mafioso. Depredare è un conto, riscuotere una "tassa" è un altro: è nella riscossione della tassa che le mafie si "statualizzano" e si legittimano come potere territoriale. Isaia Sales su La Repubblica il 15 gennaio 2022.
Nella storia del crimine, i mafiosi sono i primi violenti del popolo che si organizzano per le loro attività illegali all'interno della società di cui fanno parte, non fuori come erano costretti a fare i briganti. Rispetto ai banditi e ai briganti i mafiosi non prendono i soldi altrui con i furti e le rapine, o almeno non lo fanno in prima persona.
L'alfabeto delle mafie: "F" come Famiglia. La violenza non è una attività che si passa di padre in figlio né l'attitudine al comando si eredita. Isaia Sales su La Repubblica il 27 febbraio 2022.
La parola "famiglia" in uso nelle mafie può prestarsi a molteplici equivoci se non attentamente spiegata. La confusione è dovuta al fatto che i mafiosi chiamano così la loro unità di base, cioè il nucleo dei loro aderenti di un territorio ben preciso e sottoposti a una gerarchia, mentre il termine fuori dal linguaggio mafioso fa riferimento a specifici legami di sangue.
L'alfabeto delle mafie. F come Fiction. Da "Il padrino" ai "Cento passi": quando il cinema svela il mondo della criminalità. Pellicole cult e altre meno note. Una guida ai 15 film per capire come sono cambiate nel tempo le modalità con cui l'industria cinematografica ha raccontato la criminalità organizzata. Lucio Luca su La Repubblica il 22 ottobre 2021. Nel 1963, dopo aver visto un film "di mafia", Leonardo Sciascia scrisse un articolo passato alla storia: "Quando capita di assistere a un'opera del genere - fu la riflessione dello scrittore di Racalmuto - lo spettatore è portato a chiedersi non più che cosa è la mafia, ma che cosa la mafia non è. E poiché la Sicilia è terribilmente di moda nel cinema, crediamo che questa domanda dello spettatore sia destinata, nei prossimi mesi, a investire tutta la realtà siciliana: che cosa la Sicilia non è?".
«In nome della legge», Pietro Germi racconta la mafia. Il film che gode della critica positiva del boss scomparso Buscetta: «Mi è piaciuto molto e per questo i mafiosi mi hanno criticato». Redazione spettacoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Luglio 2022.
Rai Storia propone stasera alle 21.10 un grande classico del cinema italiano: In nome della legge, film del 1949 diretto da Pietro Germi. La pellicola, tratta dal romanzo autobiografico Piccola pretura del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo, è interpretata da Massimo Girotti, Jone Salinas e Camillo Mastrocinque. Il film è stato girato a Sciacca, in provincia di Agrigento
La trama. Siamo in Sicilia. Il giovane magistrato di Palermo, Guido Schiavi, viene inviato come pretore a Capodarso (che in realtà è Barrafranca, in provincia di Enna). Schiavi, devoto alla giustizia e della legalità, si vede costretto a lottare duramente contro numerose ingiustizie sociali. Ma il suo zelo con condurrà a scontrarsi con un notabile, il barone Lo Vasto e contro la mafia, rappresentata dal massaro Turi Passalacqua e dai suoi uomini.
Nel mezzo, ad aggravare ogni indagine, una realtà omertosa e terribilmente diffidente che ostacola continuamente il suo lavoro. Combatte solo contro tutti, sostenuto unicamente da Grifò, il maresciallo della stazione dei carabinieri, e dal giovane amico Paolino, poi ucciso barbaramente, un delitto che convincerà il magistrato a rinunciare alle dimissioni appena presentate. Schiavi condurrà sino alla fine la sua strenua battaglia che consiste non solo nell’applicare la legge ma anche nell’insegnarne il valore. E, nonostante tutto, la gente locale si schiererà al suo fianco.
L’ex mafioso Tommaso Buscetta disse a proposito del film: «La storia mi era piaciuta molto ed ero stato per questo molto criticato dai miei amici mafiosi, i quali disapprovavano il finale della pellicola. Secondo loro, il comportamento di Passalacqua era indegno di un uomo d’onore» (nel libro Addio Cosa Nostra, di Pino Arlacchi, 1993). L’opera di Germi vinse di tre Nastri d’argento, fra cui uno speciale al regista.
Alfabeto delle mafie: "G" come Giuramenti. I riti di iniziazione e alcune regole di comportamento sono un tratto distintivo delle varie criminalità di tipo mafioso presenti nel mondo. Un modo di pensare che corrisponde a una costruzione ideologica, nel senso di trasformare i propri interessi in valori. Isaia Sales su La Repubblica l'8 Luglio 2022.
Alla fine del 1930 Joe Valachi, dopo aver compiuto due omicidi su ordine dei suoi capi, viene portato in un luogo a novanta miglia da New York. Entra in una casa di stile coloniale e si ritrova in una grande sala con al centro un tavolo enorme apparecchiato con piatti, posate e bicchieri. Al tavolo è seduta una quarantina di persone che al suo ingresso si alzano in piedi.
Alfabeto delle mafie: "H" come Hotel. Nelle sale liberty dell'Hotel Des Palmes di Palermo si svolse dal 10 al 14 ottobre del 1957 un summit che ha assunto un'importanza storica nell'evoluzione della mafia siciliana. Un evento che ha dispiegato i suoi effetti fino ad oggi. Isaia Sales su La Repubblica il 18 Luglio 2022.
Il Grand Hotel et Des Palmes è l'albergo più noto di Palermo assieme a Villa Igiea. Nelle sue sale liberty si svolse dal 10 al 14 ottobre del 1957 un summit che ha assunto un'importanza storica nell'evoluzione della mafia siciliana. In quell'occasione si gettarono le basi per determinare la forza e l'influenza dei mafiosi siciliani nel traffico internazionale dell'eroina trasformando una criminalità regionale in criminalità internazionale, una criminalità in gran parte rurale nella più importante criminalità mondiale tra gli anni sessanta e novanta del Novecento.
Alfabeto delle mafie: "I" come imprenditori. L’economia reale è molto più aperta della rigida regolazione delle leggi degli Stati e della morale. La violenza e le attività economiche illegali sono sì contro il codice penale ma non sempre contro le leggi del mercato, che sono basate sulla domanda e sull’offerta di un prodotto a prescindere da chi lo produce, da chi lo commercializza e da chi lo consuma. Isaia Sales su La Repubblica il 15 Ottobre 2022.
Tra le vittime dei mafiosi il numero di operatori economici è superiore a quello dei rappresentanti delle forze di sicurezza e della magistratura. Infatti, secondo i calcoli di WikiMafia, tra le categorie più colpite ci sono quelle dei lavoratori (192) e degli imprenditori (ben 88), seguiti dai commercianti (66), sindacalisti (43) e liberi professionisti (26), che insieme formano più del 40% delle 1006 vittime innocenti delle quattro organizzazioni mafiose italiane.
L'alfabeto delle mafie. R come Ragioniere. James Hansen per italiaoggi.it il 22 marzo 2022.
«Se parla il ragiunàt…». A Milano è una frase che non si completa mai. Se parla il ragioniere… Il resto è, aziendalmente, troppo terribile da contemplare. Come il medico di famiglia in un altro contesto, il contabile incaricato conosce tutti i segreti più intimi e allarmanti.
Eppure, non se ne può fare a meno. Qualcuno, qualcuno che «capisce», deve pur far funzionare i bilanci perché, come spiega il ragiunàt, «un'azienda può fare qualsiasi cosa, ma non fallire. Perché, se fallisci, ti massacrano anche solo per esserti fatto la riga ai capelli dal lato sbagliato».
Tutto ciò per un'impresa «onesta», figuriamoci per un'azienda controllata dal crimine organizzato. Ma quanto sono bravi i contabili della mala? Uno studio recente - Does the Mafia Hire Good Accountants?, di Pietro A. Bianchi, della Florida International University, Jere Francis, della Maastricht University, Antonio Marra e Nicola Pecchiari, entrambi della Bocconi - prova a rispondere al quesito analizzando gli archivi penali per identificare i contabili che hanno rapporti equivoci con il crimine organizzato.
Viene misurata la qualità del loro lavoro sulla base dei bilanci depositati durante l'esercizio della professione. I «voti» espressi dai revisori sull'esecuzione sono stati poi paragonati a quelli ottenuti da altri professionisti dalla fedina pulita. Oltre all'originalità della ricerca e alla fatica evidente nel compierla, il lavoro è «monumentale» anche per quanto riguarda la stesura della relazione necessaria per descrivere lo studio - ben 54 cartelle.
Non è dunque il caso di riassumerlo tutto qui. La conclusione è comunque nitida e semplice: sì, i malavitosi riescono ad assicurarsi l'assistenza di abilissimi contabili professionisti, e ciò malgrado i rischi associati alle frequentazioni criminali… Ciò è per certi versi una sorpresa. È noto che gli esponenti del crimine organizzato riescano anche a ottenere l'assistenza di ottimi avvocati difensori, ma il caso è diverso.
Nella giurisprudenza esiste il concetto che tutti hanno diritto alla rappresentanza legale - anche i colpevoli. Difendere un criminale, e magari ottenere per lui un verdetto di «non colpevolezza» che forse non merita, non è un illecito, anzi. Il contabile professionista che invece assiste il suo cliente nel commettere un reato diventa pure lui complice del misfatto, con tutto ciò che implica.
Per dire, il «profilo di rischio» del contabile è completamente diverso da quello di un avvocato difensore, che alla peggio può perdere la causa, non la propria libertà. Da dove viene allora la disponibilità di rischiare la galera per un cliente? Dipenderà forse dalla prima regola di ogni professionista, che il cliente buono è quello che paga...
· La Gogna.
Stragi, sia la Consulta sia la (contro)riforma non sono ostative alla verità. L’ex magistrato Roberto Scarpinato, in due articoli su “Il Fatto”, sostiene che con l’eliminazione della preclusione dei benefici per chi non collabora, c’è il rischio di favorire l’omertà e non si potrà mai far luce sui misteri. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 maggio 2022.
Sul Fatto Quotidiano sono stati pubblicati, nel giro di pochi giorni, due articoli a firma dell’ex magistrato Roberto Scarpinato. Uno dal titolo “Dall’ergastolo al libera tutti. Una riforma ostativa”; l’altro “Stragi: le risposte che non avremo”. Solo il primo titolo, ma come si sa sono scelte redazionali e non è opera sicuramente dell’autore, risulta fuorviante. No, non c’è nessuna tana libera tutti. Anzi, il testo approvato alla Camera, è esattamente una controriforma: non solo non recepisce i rilievi della Consulta, ma ha riscritto la legge in termini ancora più restrittivi. Per quanto riguarda il secondo articolo, merita un approfondimento di talune domande che potrebbero generare equivoci.
Il divieto assoluto dei benefici per chi non collabora è incostituzionale
Ricordiamo che la Corte costituzionale aveva rilevato incompatibile con la nostra carta – nata, per dirla come Piero Calamandrei, nelle carceri dove furono imprigionati i nostri partigiani -, quella parte dell’articolo 4 bis che pone un divieto assoluto dei benefici penitenziari a chi non collabora con la giustizia. La riforma che il Parlamento si appresta a varare eleva vertiginosamente gli attuali limiti di pena per accedere alla liberazione condizionale nel caso di condanne per delitti “ostativi”: due terzi della pena temporanea e 30 anni per gli ergastolani. Non solo.
La (contro)riforma, elimina le ipotesi di collaborazione “impossibile” e “inesigibile”. Quest’ultimo punto rende di fatto nuovamente incostituzionale la legge. In sostanza, finora c’è la possibilità per rarissimi casi di ergastolani ostativi, di poter accedere ai benefici perché, solo per fare un esempio, l’organizzazione di appartenenza non esiste più e qualsiasi collaborazione con la giustizia non servirebbe. Oppure, altro esempio, l’ergastolano ha avuto una posizione talmente marginale nell’associazione mafiosa, che pur volendo collaborare non può visto la non conoscenza completa dei fatti. Eliminando tutto questo, va contro le indicazioni della sentenza costituzionale stessa che sancisce la differenza tra la mancata collaborazione per scelta con quella per impossibilità.
A Filippo Graviano, dopo 27 anni di 41 bis è stato negato il permesso premio
In entrambi gli articoli de Il Fatto, l’ex magistrato Scarpinato mette nuovamente in risalto i boss “irriducibili”, coloro che non collaborano e che – a detta sua – conoscono i misteri sulle stragi di mafia, in particolare quella di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. In sostanza afferma che, con l’eliminazione della preclusione dei benefici per chi non collabora, c’è il rischio di favorire l’omertà e quindi non si potrà mai conoscere i misteri irrisolti sulle stragi. No, non è così. Innanzitutto non si mette sullo stesso piano chi collabora e chi no. Chi sceglie di collaborare con la giustizia, ha chiaramente dei benefici che un non collaborante se li scorderà. Abbiamo l’esempio di Giovanni Brusca che, come è giusto che sia, da quando ha scelto di pentirsi, ha avuto accesso fin da subito a numerosi benefici penitenziari. Uno che sceglie di non collaborare, dovrà attendere decenni e non è detto che avrà risposte positive alle richieste dei benefici.
C’è il recente esempio dello stragista Filippo Graviano. Dopo ben 27 anni di 41 bis, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, ha richiesto il permesso premio: rigettato. Quindi non è assolutamente vero che per gli “irriducibili” basti magari una semplice dissociazione per usufruire i benefici. I paletti, tuttora, sono ben rigidi e se passa la riforma, lo saranno ancor di più. Talmente marcati che a rimetterci saranno la stragrande maggioranza degli ergastolani ostativi che non hanno nulla a che vedere con lo stragismo. Non è propriamente corretto legare la necessità dell’ergastolo ostativo con l’accertamento delle verità sulle stragi.
Ricordiamo che c’è il trentennale del maxiprocesso. Falcone e Borsellino sono riusciti ad imbastirlo con ben altri strumenti, e l’articolo 4 bis ancora era nel mondo dei sogni. Grazie al pentimento di Tommaso Buscetta e la grande intelligenza di Falcone sono riusciti a decapitare la cupola mafiosa.
Sono passati trent’anni e nessun magistrato ha eguagliato quel risultato, nonostante l’ergastolo ostativo che, tra l’altro, fu istituito non rispettando il volere di Falcone stesso. Sì, il giudice trucidato a Capaci non ha assolutamente escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, ma ha semplicemente allungato i termini per ottenerla. Dopo la strage, il Parlamento ha deciso di inasprirlo.
Cosa c’entra il collaboratore Santo Di Matteo con l’ergastolo ostativo?
Per quanto riguarda le domande sulla strage di Via D’Amelio, salta all’occhio questa che pone Scarpinato: «Chi erano gli infiltrati della polizia in via D’Amelio che Francesca Castellese scongiurò il marito Santo Di Matteo di non nominare ai Pm con cui questi aveva iniziato a collaborare, dopo che era stato rapito il figlio undicenne Giuseppe, ricordandogli tra le lacrime che avevano un altro figlio da salvare?».
Punto primo. Non si comprende cosa c’entri l’ergastolo ostativo visto che Santo Di Matteo, l’unica persona deputata a rispondere, è appunto un importante collaboratore della giustizia, tanto che è costata la vita a suo figlio dodicenne, barbaramente sciolto nell’acido.
Punto secondo. Il Dubbio ha potuto rileggere quell’intercettazione – tra l’altro pieno di punti interrogativi, perché alcune parole risultavano incomprensibili – che risale al 14 dicembre del ’93, ed era un colloquio tra Di Matteo e sua moglie presso il locale della Dia. Lei non gli dice di non nominare ai Pm gli infiltrati della polizia. Dalle sue parole si evince che è preoccupata, ha paura visto che in quel momento avevano rapito il figlio e sono recapitate nuove minacce. Dice al marito di evitare di parlare anche di via D’Amelio e si chiede se ci siano poliziotti infiltrati. Prima lei dice: «Oh, senti a mia, qualcuno è infiltrato (?) per conto della mafia». Più avanti dice: «Tu questo stai facendo, pirchi’ tu ha pinsari alla strage di Borsellino, a Borsellino c’è stato qualcuno infiltrato che ha preso (?)». Dopo altri scambi tragici di battute, lei dice «(?) capire se c’è qualcuno della Polizia infiltrato pure nella mafia e ti (?)». Santo Di Matteo risponde: «Cosa?», e lei: «(?)Mi devi aiutare su tutti i punti di vista (?) pirchi’ io mi scantu, mi scantu».
In sostanza appare chiaro che lei pone domande e dimostra preoccupazione. D’altronde è storia nota che Santo Di Matteo ha partecipato alla strage di Capaci e grazie anche a lui si è potuto accertare la verità sull’esecuzione. Così come, su via D’Amelio, ha sempre detto di non aver mai partecipato all’azione, ma che era a conoscenza solo dei telecomandi che Nino Gioè avrebbe consegnato ai fratelli Graviano. Punto. Lo ha ripetuto lo stesso Di Matteo anche durante il Borsellino quater, sentito come testimone il 28 maggio 2014.
Sarebbe utile togliere gli omissis dalle intercettazioni di Riina
Nell’articolo Scarpinato pone anche altre domande. Tutte volte a presunti servizi segreti che sarebbero accorsi, in giacca e cravatta, sul luogo della strage per prelevare l’agenda rossa di Borsellino. Anche se non accertato, poniamo fosse vero: non si capisce perché lo dovrebbero sapere i boss “irriducibili” che sono al 41 bis. Nemmeno Totò Riina sapeva che fine ha fatto l’agenda rossa di Borsellino, e questo lo si evince dalle intercettazioni del 2013. Perché lo dovrebbero sapere i suoi sottoposti che tra l’altro non conoscono nemmeno tutta la preparazione della strage visto che tutto era scientemente compartimentato? Comunque la si pensi, tutto questo non ha nulla a che vedere con l’ergastolo ostativo. Sia la sentenza della Consulta che la (contro) riforma, non è un “tana libera tutti” e non è ostativa alla verità sulle stragi. Se vogliamo conoscere la verità, per cominciare sarebbe utile togliere gli omissis che ci sono nelle intercettazioni di Riina, soprattutto nella parte in cui parla di via D’Amelio.
Alla ricerca delle prove...L’ossessione dei Pm per i mandanti: Berlusconi e Dell’Utri dietro le bombe della mafia…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Maggio 2022.
Giovanni Mucci, giornalista toscano settantenne, è l’ultimo testimone interrogato dai pm fiorentini Luca Tescaroli e Luca Turco, che si affannano a cercare le prove con cui costruire addosso a Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri il vestitino di “mandanti” delle bombe del 1993 e 1994. Ne dà notizia il Tirreno di Firenze, e la giornalista Ilenia Reali intervista il nuovo teste, che nei giorni della nascita di Forza Italia era a stretto contatto con il braccio destro di Berlusconi.
Su quello che i tartufoni di procura vogliono sapere, lui cade dalle nuvole, ricorda irridente che già dai magistrati di mezza Italia è stato inseguito e sentito (“Anche da Ingroia a Palermo, che non mi è proprio piaciuto”), ma lui non sa proprio niente di “trattative Stato-mafia”, né di strani incontri a Roma di Marcello Dell’Utri, “una delle persone più colte che io abbia mai incontrato”. Certo che l’ossessione per i “mandanti”, interrogativo costante ai tempi del terrorismo (chi c’era dietro le Brigate rosse?), si ripete e si moltiplica nella mente di investigatori e di giudici chiamati a far luce sulla stagione delle stragi mafiose. Che sono comunque terminate quasi trent’anni fa, è bene sempre ricordarlo. E di cui ormai si saprebbe tutto, se non ci fosse, appunto l’ossessione dei “mandanti”. Che devono essere per forza esponenti politici, cioè la categoria in cui si annidano i brutti sporchi e cattivi, peggiori degli stessi assassini.
Dovrebbe essere un capitolo chiuso per lo meno in Sicilia, dopo il fallimento del processo dei processi e una sentenza che sancisce l’inesistenza di un accordo degli anni novanta tra uomini dello Stato, politici come Calogero Mannino e investigatori come il generale Mori, e i corleonesi di Totò Riina. Ma si è risvegliata all’improvviso la Calabria, dove si è concluso un anno fa un processo molto particolare, chiamato “’Ndrangheta stragista”, che avrebbe visto complici in un attentato ai carabinieri, un boss mafioso di Brancaccio come Giuseppe Graviano e un referente della cosca Piromalli come Rocco Santo Filippone, entrambi condannati all’ergastolo. In quella sentenza di oltre mille pagine la giudice Ornella Pastore, prima di esser trasferita alla presidenza della prima sezione del tribunale di Messina, aveva lasciato come testamento le sue considerazioni politiche, che puntavano esplicitamente il dito contro Forza Italia, la cui nascita nel 1994 avrebbe coinciso con la scelta di referente delle mafie per porre argine alla sinistra. Con le bombe, dunque? Leggiamo quel che scriveva la presidente della Corte d’assise.
Dopo aver esplicitato che le condanne “costituiscono soltanto un primo approdo”, perché ci sarebbero “ulteriori soggetti coinvolti”, la sentenza precisa che si tratta di “soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato”. Ed ecco il colpo finale. ‘Ndrangheta e Cosa Nostra si sarebbero unite “alla ricerca di nuovi e più affidabili referenti politici, disposti a scendere a patti con la mafia, che furono individuati nel neo partito Forza Italia di Silvio Berlusconi”. Fin qui potrebbero sembrare solo fantasie o speranze di ambienti criminali, anche se quest’unione improvvisa (e isolata nella storia del sud) tra la mafia siciliana e quella calabrese induce più di una perplessità. Ma poi il giudizio politico è tutto nella mente dei giudici. Che scrivono: “Non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile che dietro a tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali”.
Perché è rilevante questa sentenza, oltre che per l’ardita tesi politico-giudiziaria? Perché da lì è partito un fascicolo, che è planato sulla scrivania del procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e da lì nelle mani dei pm fiorentini cui spetta la competenza su tutte le bombe del 1993 a 1994. In quell’aula calabrese si era affacciato anche il “pentito” doc Gaspare Spatuzza, che aveva ipotizzato un incontro a Roma in via Veneto al bar Doney tra Marcello Dell’Utri e Giuseppe Graviano. Quando? Ma mentre nasceva Forza Italia, naturalmente, cioè il 21 gennaio del 1994. E “guarda caso” proprio nei giorni delle bombe ai carabinieri e all’attentato fallito all’Olimpico. Insomma, l’ex braccio destro di Berlusconi, che all’epoca soggiornava al Majestic, cioè proprio di fronte al bar Doney, dove forse avrà preso qualche caffè, si è incontrato o no quel giorno con il boss del Brancaccio? Graviano, che pure spesso lancia messaggi ambigui, lo ha escluso. E non parliamo di Dell’Utri.
Ma potrebbero sapere qualcosa coloro che all’epoca, mentre si svolgevano le selezioni per le candidature del nuovo partito, erano al fianco del presidente di Publitalia. Ecco che prima viene sentito Ezio Cartotto, che, nonostante avesse il dente avvelenato per la mancata candidatura al Senato, ha sempre negato di aver mai visto Dell’Utri “al bar con due persone”, e in ogni caso non può essere più sentito perché è morto nel marzo 2021 di Covid. E poi Giovanni Mucci, “rincorso da accuse infondate perché Marcello mi stimava”. Ma ha senso tutto ciò? La débacle del “processo trattativa” e di tutte le indagini archiviate su “Berlusconi mafioso” non hanno ancora insegnato niente?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Le verità nascoste su Capaci e l'ultimo oltraggio di Travaglio. Felice Manti il 23 Maggio 2022 su Il Giornale.
Molti i misteri irrisolti sul massacro di 30 anni fa. Così il "Fatto" manipola il giudice in chiave anti Cavaliere.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono morti invano. Sono passati 30 anni dalle stragi e la mafia in Sicilia detta ancora legge, la camorra quasi santificata da Gomorra è ostaggio delle giovani paranze mentre la 'ndrangheta a colpi di clic traffica in cryptovalute e investe sul metaverso i soldi del riciclaggio, che sfuggono velocissimi grazie a rogue trader senza scrupoli. Seguire le cyber mollichine, come Falcone predicava, è difficile. Le indagini antimafia sono più complesse se anziché le prove si inseguono suggestioni, imbeccate dai falsi pentiti che Falcone riconosceva subito, quelli che dicono solo ciò che certi pm vogliono sentirsi dire.
Di inascoltabile e illeggibile ci sono pure gli stanchi epitaffi di chi ne ha annacquato le intuizioni - vedi la Dia, snobbata da molti pm - e le lacrime di coccodrillo di giornali come Repubblica, i cui articoli a Falcone sono costati la carriera. Ieri sul Fatto Marco Travaglio, ossessionato dall'idea che Forza Italia e Silvio Berlusconi fossero manipolati da Cosa nostra, si è esibito in una bizzarra macchinazione cui Falcone non avrebbe dato alcun peso, vagheggiando una bizzarra strategia per la lotta alle cosche: «Occorrerebbero magistrati specializzati e coraggiosi, ma i pochi che abbiamo sono quasi tutti in pensione». Dimenticandosi del pm Giuseppe Lombardo, che a Reggio Calabria da anni ravana silenziosamente nei rapporti tra 'ndrangheta, mafia e servizi segreti.
I suoi dubbi dal sapore antiberlusconiano investono referendum sulla giustizia e riforma Cartabia, considerati un bavaglio dei pm. Ma la giustizia in Italia funziona? No. Secondo la Corte di Strasburgo siamo il Paese più sanzionato per lentezze processuali e intrusione illecita nella proprietà privata e nella vita famigliare. Il numero di persone ingiustamente in carcere è altissimo ma paga Pantalone.
Al quesito referendario sulla separazione delle carriere e delle funzioni, già prevista dalla riforma Castelli e andata in fumo il 31 luglio 2007 (il perché lo sanno bene l'ideologo di Md Nello Rossi e l'ex Guardasigilli Clemente Mastella) Falcone voterebbe sì: «Chi come me richiede che pm e giudici siano due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera - disse a Mario Pirani nel 1991 il giudice, inviso alle correnti che allora come oggi paralizzano il Csm - viene bollato come nemico dell'indipendenza del magistrato e nostalgico della discrezionalità dell'azione penale. Gli esiti dei processi di mafia celebrati col nuovo rito, senza una riforma dell'ordinamento, sono sotto gli occhi di tutti». Pure quelli su Capaci e Via d'Amelio si sono conclusi in modo claudicante, a proposito di pentiti imbeccati. Perché, come scrive Edoardo Montolli nel libro I diari di Falcone, i telefoni di due componenti del commando Nino Gioè e Gioacchino La Barbera erano clonati su numeri «mai assegnati»? Perché un altro 0337 in mano agli stragisti, tecnicamente cessato il mese prima dopo una denuncia per furto, funzionava talmente bene da aver fatto tre chiamate in Minnesota poco prima della strage? Perché le verità scritte nelle agende Casio e Sharp di Falcone, esaminate da Gioacchino Genchi e Luciano Petrini non sono mai state esplorate fino in fondo nei processi? Chissà. Borsellino andò in via D'Amelio il 19 luglio 1992 soltanto perché alla madre era saltata una visita specialistica il giorno prima. Come scrive Montolli i boss avrebbero avuto la possibilità di uccidere insieme i due magistrati. Perché non lo fecero? Come è possibile che la mafia conoscesse il giorno e la data del viaggio di Falcone a Palermo? Tutti i pentiti dicono che scendeva sempre di sabato, Montolli scopre che non era mai successo: «Anche se si ipotizzasse un improbabile abbaglio collettivo di tutti i pentiti (che a processo lo confermarono, ndr) ad aprile il giudice annotò sulla Sharp due soli rientri a Palermo: il 10 e il 24». Due venerdì. Di sabato, mai.
I pm che si sono bevuti le panzane di Vincenzo Scarantino, ben addestrato da poliziotti corrotti e infedeli servitori dello Stato, straparlano del metodo Falcone ma non hanno mai chiarito se è vero che a fine maggio 1992 il ministero inviò da Borsellino Liliana Ferraro, vice di Falcone agli Affari penali, per affidare a lui l'inchiesta su Capaci sulla quale, secondo un documento Usa, Borsellino già indagava. Non sapremo mai la verità sul viaggio a Washington di Falcone a fine aprile '92, non sappiamo se indagò sul piano ordito all'estero di destabilizzazione dell'Italia a suon di attentati, di cui parla anche Travaglio. Ilda Boccassini, da titolare delle indagini su Capaci, vietò che venissero controllate le carte di credito di Falcone per non invadere la sfera privata di un uomo con cui oggi sappiamo aveva una relazione. Falcone è morto, di emuli se ne vedono pochini, come Lombardo. E quando a Genchi, che nella sua quasi quarantennale attività ha conosciuto e ha lavorato con tanti magistrati, chiediamo chi fra questi può ritenersi erede di Falcone lui risponde: «Ne ho conosciuti tanti, molti dei quali anche preparati e intelligenti». E di Falcone? «Di Falcone ho solo conosciuto delle pessime imitazioni».
Il vecchio cronista torna alla carica. A fare le stragi fu la mafia, ma Bolzoni non ci sta e ci riprova con Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 26 Aprile 2022.
«Nessuno dei grandi delitti di mafia di Palermo è un delitto di mafia». È la frase che tormenta, al culmine di una serata milanese, verso le quattro del mattino, con la complicità di una bottiglia di pregiato rum cubano, Attilio Bolzoni, giornalista “antimafia” militante. Uno di quelli che sono vissuti e hanno costruito la propria carriera al fianco di pubblici ministeri e “pentiti”. Oggi lui e i suoi amici di bevuta sembrano non crederci più. E nel trentennale delle stragi del 1992, mentre sotto i riflettori del circo mediatico-giudiziario c’è solo uno che con quella storia non c’entra niente, anche e non solo per motivi anagrafici, e si chiama Roberto Saviano, l’antico cronista giudiziario, il coraggioso che fu, al fianco dei pm coraggiosi, pare non crederci più, dopo tanta militanza.
Dice di non aver neanche voglia di andare alle tante commemorazioni cui forse sarà invitato (ma forse no, che crudeltà), tranne un paio di appuntamenti nelle scuole con gli studenti. Che tristezza, e non è certo per l’età (che cosa sono oggi sessantasei anni?) o la mancanza di lavoro, visto che Domani come testata non è seconda a Repubblica né al Fatto come distributrice di gogne e manette. Il punto è un altro. È che i magistrati coraggiosi al cui cospetto si inchinavano ogni giorno i cronisti coraggiosi sempre pronti allo scambio di merce –scoop contro notorietà-, dopo la conclusione infausta del processo “Trattativa”, sono usciti dai radar delle vittorie facili e della storia dell’antimafia militante. Dopo aver portato a casa una serie di batoste che non è ancora finita, se pensiamo all’inseguimento affannoso ma dal fiato corto nei confronti di Silvio Berlusconi. Perché la verità è che queste bande di coraggiosi avevano l’ambizione di volare ben più alto di Falcone e Borsellino. I quali, poveri ingenui, si erano accontentati di far processare e poi arrestare gli assassini sanguinari, gli stessi corleonesi che poi avrebbero giustiziato anche loro. I coraggiosi sono un’altra stirpe, sono quelli che “nessuno dei grandi delitti di mafia di Palermo è un delitto di mafia”.
È una piccola incultura, una storia fatta di intercettazioni più o meno legali, di deposizioni di “pentiti” spesso ricavate da colloqui investigativi senza il magistrato né il difensore, e poi il mercimonio di carte coperte dal segreto, violato costantemente da chi avrebbe il dovere istituzionale di proteggerlo e custodirlo. Colpire il nemico, la parola d’ordine. Costi quel che costi. Anche con un uso politico degli uomini d’apparato, in particolare della Dia, la direzione investigativa antimafia voluta da Giovanni Falcone. Sono i primi anni novanta, mentre a Milano si svolge la sarabanda di Tangentopoli, a Palermo arriva il procuratore Giancarlo Caselli, mentre le inchieste dell’”antimafia” militante hanno come obiettivo la Dc di Giulio Andreotti e la sua stessa persona, con un’operazione di politica giudiziaria di nome “Galassia”. Che terminerà con una sconfitta dei magistrati coraggiosi e dei cronisti coraggiosi al loro seguito. Costretti provvisoriamente, nell’attesa del successivo colpo grosso con l’entrata in politica di Berlusconi, a ripiegare su un magistrato.
Corrado Carnevale, presidente della prima sezione penale della corte di Cassazione, è sempre stato un primo della classe, uno di quegli antipatici che ti fanno notare gli errori. E aveva scoperto con trent’anni di anticipo quanta ignoranza, incompetenza e approssimazione si trova spesso negli atti giudiziari. E massacrava ogni deviazione formale dalle procedure. Era sicuramente un “ammazzasentenze”, ma non nel senso che gli veniva attribuito dagli articoli dei cronisti coraggiosi come Bolzoni. Giornalisti che non si sono mai domandati come mai uno come Adriano Sofri, che non era certo un mafioso né un amico di Carnevale, avesse attuato addirittura uno sciopero della fame alla notizia che quel presidente non sarebbe più stato chiamato a giudicare i tanti svarioni formali del processo in cui lui era imputato. Ma il capolavoro di quegli anni, dopo le clamorose assoluzioni di Andreotti e Carnevale, è l’operazione “Oceano”, quella che riguarderà Silvio Berlusconi. E che sarà solo la prima, perché la storia non è ancora finita. Anche se si sa già che sarà accantonata come tutte le altre. I cronisti coraggiosi, quelli che sono già pronti con articoli-lenzuolo e libri e talk a commemorare il trentennale delle stragi di mafia, non parlano mai di “Oceano”. Perché dovrebbero spiegare quando meno qualche coincidenza temporale.
Era il 25 gennaio del 1994. Una data che non dovrebbe dire niente, se non fosse il giorno precedente a quello in cui il presidente di Fininvest e del Milan si affacciò nei nostri televisori e disse “L’Italia è il Paese che amo…”e annunciò la propria candidatura alla Presidenza del Consiglio contro il leader del Pds Achille Occhetto. Nelle stesse ore in cui Berlusconi si preparava a vincere le elezioni politiche del 28 e 29 marzo, la Dda di Caltanissetta, impegnata nelle indagini sull’uccisione di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, affidava “ampia delega” agli uomini della Dia per l’ ”eventuale individuazione di mandanti della strage di Capaci legati al mondo politico-imprenditoriale-finanziario”, disponendo anche intercettazioni telefoniche nei confronti dei fratelli Alberto e Marcello Dell’Utri, Vittorio Mangano, Rosario Cattafi e Pietro Rampulla. La rete era stata lanciata, mentre già trapelava il nome del “pentito” Salvatore Cancemi, da subito ben addomesticato.
Il senso politico dell’operazione, che naturalmente finirà in niente come tutte le successive nel corso di trent’anni, è molto chiaro. E molto allarmante, tranne per coloro che continuano a pensare che le stragi di mafia non le abbiano pensate e portate a termine i corleonesi. Perché negli stessi giorni in cui Berlusconi stava annunciando il suo ingresso in politica, la famosa discesa in campo, i magistrati coraggiosi, con l’uso di quella parte della Dia legata al mondo della sinistra (ci furono scontri furibondi tra gli stessi investigatori) e la complicità dei cronisti coraggiosi, stava già indagando su di lui. Come mandante della strage di Capaci. Come assassino di Falcone, di questo stiamo parlando. Ci aiuta nella memoria su quei giorni lo stesso Attilio Bolzoni, che nello stesso lungo articolo su Domani, che pare il testamento di uno sconfitto, racconta un episodio di qualche mese fa. Sono stato improvvisamente chiamato in questura con una convocazione “urgente”, racconta. «Ho trovato tre magistrati che conoscevo (ovvio, ndr), uno della procura nazionale antimafia, uno della Procura della Repubblica di Caltanissetta che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino, il terzo della Procura della Repubblica di Firenze, quella dell’inchiesta sulle bombe ai Georgofili del 1993». I tre volevano chiarimenti su un articolo firmato da Bolzoni e D’Avanzo del 20 marzo 1994 intitolato “Quell’affare di mafia e mattoni”.
Riguardava Berlusconi, ovvio, un tentativo di stroncarlo a una settimana dalle elezioni. La deposizione dura un’oretta. Ma il cronista coraggioso è un ragazzo sveglio e pensa subito: accidenti, ma il presidente di Forza Italia in questo momento si sta candidando alla Presidenza della Repubblica! Previsione che lui del resto ha già festeggiato con lo spargimento del solito fango, con due belle pagine su Domani firmate con il collega Nello Trocchia proprio sui fantasiosi collegamenti con le stragi del 1992. Ma guarda tu le coincidenze! A ogni candidatura di Berlusconi scattano all’unisono magistrati coraggiosi e cronisti ancor più coraggiosi a imputargli le stragi. La notizia che ci dà Bolzoni (spontaneamente? È di particolare gravità: si muove anche la Procura nazionale antimafia? Ma resta il fatto che, dopo il flop del processo “Trattativa” e dopo tutte le assoluzioni e le archiviazioni, da “Oceano” in avanti, sarà meglio che tutti questi capitani coraggiosi comincino a rassegnarsi: le stragi di mafia le ha fatte la mafia, come dicevano Falcone e Borsellino. Questo riconoscimento è la migliore commemorazione per il trentennale.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Contestata la famigerata pesca a strascico. Caso Berlusconi-Graviano, schiaffo della Cassazione a Creazzo: “Non si fanno così le indagini”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Aprile 2022.
Brutto colpo della quinta sezione della Cassazione nei confronti dei magistrati fiorentini, il procuratore Creazzo e i pm Tescaroli e Turco. E insieme a loro anche ai giudici del riesame, nelle indagini su Berlusconi e Dell’Utri per le stragi del 1993. Nella motivazione che spiega come non sia corretto fare a casaccio perquisizioni e sequestri alla vaga ricerca di un documento inesistente, i giudici fanno una bella lezioncina di procedura penale. Non fate i furbini, dicono. Perché occorre “evitare che il sequestro probatorio assuma una valenza meramente esplorativa di notizie di reato diverse ed ulteriori rispetto a quella per cui si procede”.
Basterebbe questa sonora tirata d’orecchie della cassazione per giustificare l’urgenza del fascicolo del magistrato. Dove registrare i continui abusi di potere fuori dalle regole esercitati da talune toghe nei confronti degli imputati, ma anche, come in questo caso, di persone totalmente estranee a qualunque indagine. Il succo della tirata d’orecchie è questo: non fate la pesca a strascico, sequestrando una serie di apparati elettronici per vedere se ci sono tracce di un documento di cui non si sa neppure se esista, ma in realtà per andare a cercare, indebitamente, reati che riguardano un’altra causa. Quella sulle stragi. Complicato? No, se si segue la storia dal principio. In principio c’è un signore che si chiama Giuseppe Graviano, condannato all’ergastolo come mandante, insieme a Totò Riina e Leoluca Bagarella, cioè il vertice di Cosa Nostra, per tutte le stragi di mafia del 1993. Graviano è anche imputato in Calabria in un processo che si chiama “’ndrangheta stragista” ed è in questa sede che comincia a lanciare messaggi obliqui su Silvio Berlusconi. E’ il 2020 e il boss, dall’aula dove si svolgono le udienze, lancia sospetti sull’origine dei capitali con cui l’imprenditore di Arcore avrebbe iniziato la sua fortuna.
Sarebbero capitali mafiosi, cioè un investimento del nonno di Graviano, Filippo Quartrararo che, con altri suoi compari, avrebbe versato a Berlusconi venti miliardi di lire a titolo di investimento per affari comuni. Di questo contributo esisterebbe un documento, che in realtà non c’è. Il nonno è defunto e così il cugino Salvatore che avrebbe visto il foglio che comprovava il versamento. Graviano addirittura sospetta che Berlusconi sarebbe all’ origine del suo arresto, per non pagargli il debito, per non riconoscergli la comproprietà nei suoi beni. Ora, nessuna persona normale potrebbe credere a tutto ciò, ma la fantasiosa ipotesi di una comproprietà di Giuseppe Graviano con l’impero economico di Berlusconi diventa attraente per certi pubblici ministeri se quell’investimento del nonno viene descritto come la fase preparatoria delle bombe, “l’antefatto rispetto alla strategia che ha condotto alle stragi del biennio 1993-94”. In realtà Graviano di questa vicenda aveva già parlato in carcere e le sue intercettazioni, finite al processo per la trattativa Stato-mafia, avevano già portato a un’archiviazione nei confronti di Berlusconi. Una delle tante, a Palermo come a Caltanissetta. Ma non (ancora) a Firenze, dove il procuratore Giuseppe Creazzo con i due pm Luca Tescaroli e Luca Turco stanno ancora indagando sul leader di Forza Italia e Marcello Dell’Utri come mandanti esterni delle stragi.
Senza timore del ridicolo, gli uomini della Procura hanno girato l’Italia all’inseguimento di Graviano ( che li prende in giro) e inviato gli investigatori della Dia dalle parti del quartiere residenziale di Milano 3 alla ricerca di un appartamento e di un residence in cui il boss di Cosa Nostra dice di aver incontrato Berlusconi. Ricerca vana, come quella del documento del nonno. È a questo punto che l’accanita ricerca dei pm fiorentini (i quali sono ben consci del fatto che la loro inchiesta finirà come le precedenti, con un’archiviazione) si scaglia su due persone totalmente estranee, se non per un vincolo di parentela, il fratello Benedetto e la sorella Nunzia di Giuseppe Graviano. I quali non sono mafiosi e nulla hanno a che fare con le vicende del parente. Che cosa fanno dunque i pubblici ministeri di Firenze? Dispongono perquisizioni nelle loro case e poi il sequestro di quattro cellulari, due computer e una pen drive, alla ricerca di quel fantomatico documento che attesterebbe il finanziamento del nonno a Berlusconi una cinquantina di anni fa.
Ma il problema è che quella scrittura privata ai pubblici ministeri interessa solo per poter dimostrare il coinvolgimento di Berlusconi nelle stragi. Una specie di gioco delle tre carte, insomma. Dispongo un sequestro dicendo che mi serve acquisire notizie in un’inchiesta sul finanziamento, ma in realtà vado cercando notizie sulle stragi. E questo non si fa, dice la Cassazione. Sposando in toto la tesi dell’avvocato Mario Murano, che assiste i due fratelli perquisiti, di “fantasmagorica ipotesi investigativa”. Pericolosa, stabiliscono le motivazioni della sentenza di annullamento con rinvio, perché manca il nesso tra i reati per cui si procede. In termini giornalistici quel che hanno fatto i pm fiorentini, avallati dal tribunale del riesame, si chiama pesca a strascico: getto la rete a casaccio e vedo quel che mi arriva. Bocciati e costretti a rifare il compito. E io pago, direbbe Totò. Ma c’è poco da ridere. Ben venga il fascicolo del magistrato, cari pm fiorentini.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Da Ansa il 3 marzo 2022.
Dice il maestro: "Oggi coniughiamo i verbi. Io mangio, tu mangi, egli mangia, noi mangiamo, voi mangiate, essi mangiano. Pierino, ripeti ciò che ho detto". "Mangiano tutti". Un'altra. "Due amici in auto: "Attento, c'è scritto curva pericolosa". "Appunto, per questo sto andando dritto"». Dal carcere, il boss Giuseppe Graviano mandava pagine intere di strane barzellette al cugino Salvo, barzellette piene di numeri.
Erano messaggi in codice, per fare investimenti o recuperare soldi, svela oggi un libro inchiesta scritto dal giornalista di Repubblica Salvo Palazzolo, che ha potuto accedere a documenti giudiziari riservati e inediti. Il libro, edito da Laterza, si intitola: "I fratelli Graviano - stragi di mafia, segreti, complicità". La storia di una famiglia che racchiude i misteri più profondi di Cosa nostra: dagli investimenti al Nord nei primi anni Settanta alle bombe del 1992-1993, alle relazioni con esponenti della nascente Forza Italia.
Una storia attualissima, perché di recente Giuseppe Graviano ha iniziato a fare dichiarazioni al processo 'Ndrangheta stragista, citando proprio il cugino a cui inviava le barzellette: Graviano non è un collaboratore di giustizia, resta un irriducibile. Il libro svela tutte le sue bugie: non fu il nonno materno a investire capitali al Nord, ma il padre. Nelle lettere dal carcere dei boss Giuseppe e Filippo Graviano, che risalgono al 1996, c'è anche un altro dei segreti più grandi di famiglia: la nascita dei loro figli, concepiti durante la detenzione.
«Avete regalato a mia moglie il vaso con i bulbi?», scriveva Giuseppe alla madre e alla sorella Nunzia. E loro rispondevano: «Ci stiamo pensando perché i fiorai li sconoscono e ci devono dare una risposta, ma non preoccuparti che al più presto il vaso con i bulbi lo avrà tua moglie». Forse, i boss erano riusciti a fare uscire una provetta dal carcere. Attraverso un insospettabile complice, che potrebbe essere un prete. Sono i misteri dei Graviano, che ricalcano quelli di Matteo Messina Denaro, il boss di Castelvetrano ricercato dal giugno 1993: insieme costituivano la "Super Cosa" voluta da Riina per lanciare la stagione delle stragi.
Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 3 marzo 2022.
«Avete regalato a mia moglie il vaso con i bulbi?», scrivevano con insistenza alla madre e alla sorella Nunzia. Nelle lettere dal carcere, ci sono molti segreti di Giuseppe e Filippo Graviano, i fratelli condannati per le stragi del '92-'93. Innanzitutto, quelli legati alla nascita dei loro figli. Forse, concepiti grazie ad alcune provette uscite di nascosto dal carcere dell'Ucciardone.
La questione è diventata materia d'indagine, per cercare di aprire una breccia fra i misteri dei padrini. Nei mesi scorsi, gli investigatori della Dia hanno esaminato alcune vecchie lettere del 1996. Madre e sorella dei Graviano rassicuravano sul regalo: «Ci stiamo pensando perché i fiorai li sconoscono e ci devono dare una risposta, ma non preoccuparti che al più presto il vaso con i bulbi lo avrà tua moglie».
Ma chi era il misterioso complice dentro al carcere? Forse, un prete. Madre e sorella chiedevano infatti con insistenza se il «sacerdote è venuto a celebrare messa». Giuseppe rispondeva: «Domenica scorsa, ho fatto la comunione e ho ascoltato la santa messa». Sono i misteri dei Graviano, che ricalcano quelli di Matteo Messina Denaro, il boss di Castelvetrano ricercato dal giugno 1993: insieme costituivano la "Super Cosa" voluta da Salvatore Riina per lanciare la stagione delle stragi. Giuseppe Graviano scriveva anche pagine intere di strane barzellette al cugino Salvo, barzellette piene di numeri. Hanno tutto il sapore di messaggi in codice.
«Dice il maestro: "Oggi coniughiamo i verbi. Io mangio, tu mangi, egli mangia, noi mangiamo, voi mangiate, essi mangiano. Pierino, ripeti ciò che ho detto". "Mangiano tutti". Un'altra. "Due amici in auto: "Attento, c'è scritto curva pericolosa". "Appunto, per questo sto andando dritto"». Le strane barzellette erano tutte per il cugino Salvo Graviano.
È la stessa persona che di recente il boss palermitano ha chiamato in causa al processo drangheta stragista per essere stato il "tramite con Silvio Berlusconi" perché « bisognava recuperare soldi investiti negli anni Settanta». L'ex premier ha sempre respinto con forza le parole di Graviano, ma adesso, sugli ultimi misteri di Palermo stanno indagando i procuratori aggiunti di Firenze Tescaroli e Turco, che proprio dopo alcune intercettazioni in carcere di Giuseppe Graviano sono tornati a indagare Berlusconi e Dell'Utri per concorso nelle stragi di Roma, Milano e Firenze.
Di sicuro, quelle barzellette sono piene di numeri: erano investimenti da fare o da recuperare? Ecco un altro passaggio scritto da Graviano: «"Mia moglie è andata dal dietologo". "È riuscita a perdere qualcosa?". "Dopo dieci giorni ha già perso 300 mila lire". Te ne racconto un'altra.
Al ristorante un uomo dopo aver visto il conto: "Cameriere, ma si rende conto. Un piatto di spaghetti e un'insalata: 120 mila lire. Mi faccia almeno uno sconto". "No, noi non facciamo sconti". "Ma come a un collega?". "Perché lei fa il ristoratore?". "No, il ladro"». Giuseppe Graviano è il capomafia di Brancaccio che ha procurato parte dell'esplosivo per la stage Falcone e ha azionato il telecomando della bomba per Borsellino, nel 1993 ha poi coordinato gli attentati di Roma, Milano e Firenze.
Il 21 gennaio 1994, diceva al fidato Gaspare Spatuzza, oggi collaboratore di giustizia: «Grazie alla serietà di alcune persone, ci hanno messo il Paese nelle mani». E citava Berlusconi e Dell'Utri. Sei giorni dopo, venne arrestato con Filippo a Milano. Sono ancora tanti i misteri dei fratelli Graviano. L'unica foto che li ritrae insieme riemerge dagli atti del maxiprocesso, risale al 1980: da sinistra, Benedetto, Giuseppe e Filippo. Diceva Riina di loro, intercettato in carcere poco prima di morire: «Il fratello più grande è mezzo scimunito - un complimento detto dal capo dei capi, Benedetto è oggi libero dopo avere scontato una condanna per mafia - invece gli altri due sono importanti, sono belli picciotti ».
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 21 aprile 2022.
Dopo venticinque anni di reclusione, il killer pentito che ha riscritto la storia delle stragi di mafia e smascherato i depistaggi sull'omicidio di Paolo Borsellino, chiede di tornare in libertà. Per adesso i giudici gli hanno detto di no, nonostante tutti i suoi «colleghi» - da Giovanni Brusca in giù, responsabili di crimini efferati quanto i suoi - abbiano chiuso da tempo i conti con la giustizia. Gaspare Spatuzza invece resta detenuto.
Lui che nel 2008 decise di collaborare con i magistrati (a 11 anni dall'arresto avvenuto nel 1997), secondo il Tribunale di sorveglianza di Roma non ha ancora terminato il «percorso di rieducazione», che anzi deve «consolidarsi», nonostante le Procure e le corti che l'hanno ascoltato in decine di indagini e processi abbiano garantito sulla sua attendibilità e sull'importanza del suo contributo.
L'ex mafioso però insiste, e oggi in Corte di cassazione è fissata l'udienza sul ricorso contro l'ultimo diniego. Che potrà essere confermato o annullato.
Ravvedimento Dal punto di vista giuridico il problema è che Spatuzza, a differenza di Brusca e di molti altri pentiti famosi, ha cominciato a collaborare dopo che le prime condanne all'ergastolo erano già definitive.
Quando ha confessato le stragi di Capaci e di via D'Amelio del 1992, senza che prima ne fosse accusato, era stato dichiarato colpevole per le bombe esplose in continente nel 1993 e per l'omicidio di padre Puglisi. Gli sconti di pena per l'uccisione di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti di scorta sono arrivate quando sulla sua testa pendeva il «fine pena mai».
L'unica strada per uscire dalla detenzione domiciliare che sta scontando in una località segreta, è la liberazione condizionale, che gli ergastolani possono avere dopo ventisei anni di reclusione. E Spatuzza, calcolando la liberazione anticipata che si applica a tutti i detenuti, è già a trenta.
La legge richiede «un comportamento tale da far ritenere sicuro il ravvedimento», e i giudici di sorveglianza hanno stabilito che per un assassino macchiatosi di così gravi delitti ci voglia «un esame particolarmente approfondito e attento», che certifichi «un effettivo e irreversibile cambiamento». Da dimostrarsi attraverso la «condanna totale del proprio passato criminoso» e «comportamenti coerenti» per «lenire le conseguenze materiali e morali delle condotte delittuose». Spatuzza è sulla buona strada, ha concluso il Tribunale, ma deve «completare e consolidare il positivo percorso intrapreso».
Solidarietà sociale Un verdetto «contraddittorio» e frutto di «preconcetti», ribatte l'avvocata Valeria Maffei nel suo ricorso: il suo assistito pratica «riparazione e solidarietà sociale da ancor prima di collaborare con la giustizia, chiede scusa alle vittime, svolge attività di volontariato, proclama la necessità di collaborare e invita a farlo tutti i soggetti mafiosi con cui è stato posto a confronto».
Certo, è responsabile di delitti feroci (tra cui il sequestro e l'omicidio del bambino Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, confessato dopo il pentimento con relativo sconto di pena) ma - sostiene l'avvocata - «è proprio dalla gravità dei reati che deriva la eccezionalità e notorietà (mondiale) della collaborazione, anche perché inizialmente ostacolata da varie fasce politiche; e nonostante le polemiche, la bagarre politica, le minacce velate, Spatuzza non ha mai revocato la decisione di collaborare a tutto campo, rivelando notizie, ribaltando sentenze, inimicandosi buona parte degli esponenti politici di allora».
Indagini riaperte Con le sue dichiarazioni l'ex boss di Brancaccio ha (tra l'altro) scagionato i sette ergastolani innocenti per la strage di via D'Amelio, scarcerati dopo lunghissime detenzioni, e riaperto le indagini sui nuovi accordi tra mafia e politica siglati dai suoi capi, i fratelli Graviano, alla fine del 1993. Ha chiamato in causa il neonato (all'epoca) partito di Berlusconi, con dichiarazioni considerate a volte non sufficientemente riscontrate; tuttavia le indagini sulle stragi del '93 sono ancora in corso anche sulla base della sua collaborazione.
E a Caltanissetta sono sotto processo i poliziotti accusati di aver estorto le bugie ai falsi pentiti sconfessati da Spatuzza. Tutto questo, secondo l'avvocata, non sarebbe stato valutato in maniera adeguata dai giudici di sorveglianza, come il «percorso religioso e di studi intrapreso» in carcere. E anche alla luce della riforma dell'ergastolo ostativo richiesto dalla Corte costituzionale, per Spatuzza «è evidente il raggiungimento della prova del completamento del percorso trattamentale di rieducazione e di recupero».
Proprio per il contributo offerto dal pentito, la Procura di Caltanissetta e la Direzione nazionale antimafia si sono dette favorevoli alla concessione della liberazione condizionale, ed è possibile che in Cassazione la Procura generale faccia altrettanto.
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 22 aprile 2022.
Gaspare Spatuzza ha fatto un altro passo verso la libertà. La Corte di cassazione ha annullato l'ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza gli aveva negato, nel settembre scorso, la liberazione condizionale, e ora la posizione del pentito che ha riscritto la storia delle stragi di mafia e smascherato i depistaggi sulla morte di Paolo Borsellino dovrà essere nuovamente valutata dai giudici che si occupano dei detenuti. Ma dopo la pronuncia della Cassazione la strada, se non obbligata, appare segnata.
Oltre all'avvocata Valeria Maffei, che assiste l'ex mafioso, è stata la Procura generale della Cassazione a sollecitare l'accoglimento del ricorso, sostenendo che la collaborazione con la giustizia resta lo strumento principale per valutare il percorso di allontanamento degli affiliati dalle organizzazioni criminali, e ottenere i benefici penitenziari.
Nel caso specifico di Spatuzza, quella collaborazione è stata particolarmente rilevante, giudicata più volte attendibile e proficua da Procure e Corti d'assise, fino a determinare la scarcerazione di sette ergastolani innocenti arrivata dopo lunghi anni di detenzione. Inoltre, nel suo caso, il pentimento avvenuto nel 2008, dopo 11 anni di reclusione, s' è aggiunto a una resipiscenza da considerarsi reale e credibile. Due elementi - collaborazione e «esternazioni di pentimento» accompagnate da «avvicinamento ai valori religiosi» - che il tribunale di sorveglianza aveva giudicato insufficienti per la liberazione; sia pure dopo 25 anni di reclusione effettiva (gli ultimi in detenzione domiciliare), che per la contabilità carceraria equivalgono a 30 scontati.
Le motivazioni con cui la Cassazione ha bocciato questo giudizio non sono ancora note, ma evidentemente è stata giudicata inadeguata e troppo generica la richiesta di «consolidamento del percorso attraverso un impegno concreto» attraverso manifestazioni «di riparazione e solidarietà sociale che consentano di valutare il cambiamento irreversibile della personalità, e di verificarne la completa rieducazione».
Tra gli elementi portati dalla difesa a dimostrazione della «condanna totale del proprio passato criminale» c'è pure l'incontro con il fratello di padre Pino Puglisi, il prete (oggi Beato) assassinato nel 1993 da un commando di cui faceva parte anche Spatuzza.
Un fatto ignorato dai giudici di sorveglianza, lamentava l'avvocata nel suo ricorso: «Sembra che il tribunale abbia valutato in maniera preponderante un preconcetto negativo, ossia la storia criminale dello Spatuzza (ormai risalente a poco meno di trent' anni fa), a discapito di tutti gli elementi (attuali) favorevoli». Una sorta di «prova diabolica, laddove tutti gli elementi favorevoli alla concessione del beneficio sarebbero gli stessi anche fra anni e anni». Così non può essere, ha stabilito la Cassazione, e il killer pentito può sperare di tornare libero.
La nuova campagna del Fatto. Travaglio ossessionato dalle bufale dei Graviano, falsi scoop del Fatto contro Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Dicembre 2021. Leggiamo dal Fatto: «La sentenza di cassazione contro Dell’Utri colloca Berlusconi come una vittima e non come un imputato. Ciononostante non è una medaglia per un candidato al Quirinale». Anche se vittima, sei pur sempre colpevole, se sei “lui”. Povero Marcolino! Continua a credersi Davide contro Golia-Berlusconi e non gliene va bene una. Ha tentato con il titolone “No al garante della prostituzione”, ma i vari processi “Ruby”, iniziati con una piena assoluzione nel filone principale, si stanno sbriciolando uno a uno anche nei rivoli secondari. Mostrando una volta di più il leader di Forza Italia, più che come reo, come vittima. Si sta giocando quindi, settimana dopo settimana, la “carta Graviano”. Ma non funziona neppure questa, e lo dimostreranno le archiviazioni. Ma nel frattempo la disperazione sta allagando di lacrime la redazione del Fatto, tanto che sono ridotti a lamentarsi pubblicamente perché sull’argomento «i quotidiani non scrivono una riga». Lo schema è sempre lo stesso. Il venerdì, il piccolo settimanale L’Espresso fa il suo scoop, che in realtà è sempre la stessa notizia ripetuta più volte, sulle dichiarazioni di Graviano e le stragi del 1993 di cui Berlusconi sarebbe il mandante. In realtà non lo dice Graviano, ma Travaglio, ma fa lo stesso. Il sabato esce sul Fatto l’articolo, in genere di Marco Lillo, che più che giornalista è assemblatore di verbali, che riprende il finto scoop e aggiunge altri verbali per far vedere che lui ne ha di più di Marco Damilano. Un piccolo manicomio, insomma, che ormai non solo non guadagna più le prime né le ultime pagine dei quotidiani, ma non riesce neanche a far incazzare i difensori di Berlusconi, che evidentemente si sono stancati di ripetere quel che disse Niccolò Ghedini nel febbraio 2020: «Dichiarazioni totalmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà e palesemente diffamatorie». Che cosa era successo? Semplicemente che nel corso di un processo per ‘ndrangheta Giuseppe Graviano aveva cominciato a farneticare su Berlusconi. Ma nella sentenza le sue dichiarazioni erano state bocciate come inattendibili e prive di alcun riscontro. Come ormai si ripete da tempo. Ma Graviano insiste con le sue allusioni, perché spera di guadagnarci qualcosa, chissà, magari qualche permesso premio.
Stiamo parlando di un mafioso ergastolano ostativo che con le sue dichiarazioni astute e ricche di buchi quanto una rete da pesca, sta da un po’ prendendo in giro i magistrati di Firenze, a partire dal capo della procura Creazzo (quello definito come “Il Porco” da una collega siciliana), fino agli aggiunti Luca Tescaroli (antimafia doc) e Turco (il preferito di Matteo Renzi, viste le attenzioni che gli dedica). I quali cercano disperatamente di credere a questo zuzzurellone che, partendo dalla storia di suo nonno (che è un po’come dire dalle guerre puniche), che sarebbe stato imbrogliato da Berlusconi dopo aver versato, insieme ad altri, qualche milione di lire per imprecisati investimenti mai andati in porto, lascia intendere di aver qualcosa da dire sui “mandanti esterni” degli attentati del 1993 e 1994. Perché lui di quelle bombe a Roma, Milano e Firenze qualcosa deve sapere, visto che per quegli attentati è stato condannato.
La cosa più sorprendente è però non solo il fatto che a Firenze esista un filone di indagine su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, ma che gli uomini della Dia stiano perdendo tempo a ispezionare la zona di Basiglio-Milano 3, il quartiere residenziale costruito dalla Edilnord di Paolo Berlusconi, alla ricerca di un residence e anche di un appartamento dove Graviano avrebbe incontrato il presidente di Forza Italia, allora semplice imprenditore, insieme al cugino Salvatore, che aveva nelle mani una “carta” in cui Berlusconi ribadiva l’accordo stipulato con il nonno. Chiariamo subito che sia il nonno che Salvatore sono morti. E che la “carta” non c’è. Inoltre, che cosa c’entra tutto ciò con le stragi? Niente di niente.
Pure gli “scoop” continuano. E i viaggi dei pm fiorentini su e giù per l’Italia. E anche il traffico dei verbali. C’è l’interrogatorio di Graviano del 20 novembre 2020. Quello in cui i pm fiorentini gli chiedono: «Riferisca in ordine a eventuali rapporti economici con Berlusconi e Dell’Utri». E lui racconta la storia del nonno, «Quartararo Filippo, che lavorava nel settore ortofrutticolo». Poi fa confusione, perché dice di aver incontrato Berlusconi insieme al nonno, poi dice invece che il nonno non ha mai avuto rapporti diretti con l’imprenditore milanese. Poi lancia la sua bombetta, anche questa non nuova: mi hanno fatto arrestare per non dare corso a quell’accordo economico assunto con il nonno. Quindi sarebbe stato Berlusconi a farlo arrestare? Ma all’unica domanda importante per l’inchiesta: «Ci dica se Berlusconi è stato il mandante delle stragi», Graviano risponde: «Non lo so se è stato lui». E stranamente, nel successivo interrogatorio del primo aprile di quest’anno non si parla più di bombe, ma solo della “carta” dei defunti nonno Filippo e cugino Salvatore. E noi paghiamo, avrebbe detto Totò.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
I MISTERI DELLE STRAGI. Un milione di dollari per insabbiare lo scoop di Borsellino su Berlusconi, Dell’Utri e la mafia. Un emissario Fininvest offrì soldi per censurare l’intervista a Canal Plus del magistrato, che accusava apertamente il boss Vittorio Mangano e confermava i suoi rapporti con il braccio destro del Cavaliere: filmata poco prima della morte del giudice eroe, fu tenuta segreta per due anni, fino a dopo le elezioni del 1994. A riaprire il caso sono le rivelazioni in punto di morte del giornalista francese Fabrizio Calvi: «So chi è stato il traditore». Paolo Biondani e Leo Sisti su L'Espresso il 27 dicembre 2021. Un milione di dollari. In cambio dei nastri integrali di un video-documentario su Silvio Berlusconi e Cosa nostra: cinquanta ore di filmati, con un’intervista clamorosa a Paolo Borsellino. Uno dei tanti misteri legati all’assassinio del magistrato simbolo della lotta alla mafia riguarda uno scoop televisivo che fu tenuto segreto per due anni. Nell’intervista concessa a due giornalisti francesi nel 1992, poco prima di esser ucciso, Borsellino accusava apertamente Vittorio Mangano, il boss di Palermo che fu assunto da Berlusconi ad Arcore, e confermava i suoi rapporti con Marcello Dell’Utri, l’ex senatore e top manager del gruppo Fininvest poi condannato per mafia.
Mafia, Giuseppe Graviano: «Io e Silvio Berlusconi legati da un contratto da 20 miliardi». Il boss delle stragi dice ai pm: «Dovevamo siglare un nuovo accordo a garanzia dei soldi che avevamo dato al futuro premier ma alla vigilia della firma mi arrestarono». Lirio Abbate su L'Espresso il 16 Dicembre 2021. Dicembre 1993. La fine dell’anno più drammatico della storia repubblicana, un mese prima del video con cui Silvio Berlusconi annuncia in tv agli italiani la sua discesa nel campo politico, il boss Giuseppe Graviano sostiene di averlo incontrato in un appartamento a Milano 3. Il mafioso palermitano era latitante e solo ora, dopo quasi ventinove anni, ne parla ai pm in un verbale di interrogatorio che risale allo scorso aprile.
Il falso scoop. Espresso e Fatto provano a impallinare Berlusconi: rispunta l’intervista a Borsellino di Canal Plus e il tentativo di estorsione al Cav. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 31 Dicembre 2021. «Come magistrato ho una certa ritrosia a parlare di cose che non conosco», disse nell’intervista tv Paolo Borsellino, quando gli chiesero di Silvio Berlusconi. Lo si può riascoltare su youtube. Eppure… Eppure, la situazione è questa: Silvio Berlusconi ha organizzato le stragi del 1993 e ha tentato di far uccidere il suo amico Maurizio Costanzo, prima ancora però aveva anche fatto assassinare Paolo Borsellino. Proprio per quell’intervista al giudice palermitano che lo avrebbe spaventato perché sarebbe stata “pericolosa” per il leader di Forza Italia. Cui viene attribuito un bel curriculum criminale, indubbiamente.
Il grottesco è che esiste una partita di giro giornalistica tra il comico e il delinquenziale che non solo è convinta di questa favola, ma perde anche tempo a scriverne, e soprattutto a sollecitare i magistrati ad aprire inchieste. Come se non fossero bastati gli innumerevoli tentativi abortiti in terra di Sicilia. Come se non fosse ancora all’ordine del giorno la follia dell’inchiesta aperta a Firenze da un procuratore definito “Il Porco” da una collega che lo accusa di molestie, insieme a uno già svezzato dall’“antimafia” in Trinacria e un terzo innamorato delle gesta di Matteo Renzi. La partita di giro giornalistico-giudiziaria procede, naturalmente, in simbiosi con quella più politica, il battaglione dei virtuosi che spiegano ogni giorno a Berlusconi di lasciar perdere con la candidatura al Quirinale, chi evocando il conflitto d’interessi, chi qualificandolo come “divisivo”. Come se la gran parte dei predecessori non provenisse da qualche partito e non fosse di conseguenza “divisivo”. Ma c’è divisivo e divisivo, dipende solo dal colore politico.
La storia giudiziaria serve a rafforzare quella politica e a riempire molte pagine. Accantonata la questione della frode fiscale, perché per l’unica condanna Berlusconi è stato riabilitato e qualche sorpresa potrebbe arrivare dalla commissione europea e lasciare i suoi persecutori a bocca asciutta. Fallita l’operazione di Travaglio “No al garante della prostituzione” (forse perché molti uomini italiani vanno a prostitute e non amano che li si faccia sentire in colpa per questo), non restava che la mafia. Dare del mafioso a un politico è sempre un bel colpo. Quindi si spara con queste cartucce. C’è la carta Giuseppe Graviano – parliamo di un mafioso condannato all’ergastolo per le principali stragi di Cosa Nostra -, che almeno una volta la settimana porta a spasso qualche pubblico ministero. Prima parlando del proprio nonno che sarebbe stato truffato dopo un investimento in società con l’imprenditore di Arcore. Poi dilettandosi di toponomastica sul sud milanese, dove si sarebbe recato in anni passati in motel piuttosto che in un appartamentino per appuntamenti di cui non si capisce la finalità.
Fantasie che però hanno tenuti impegnati i magistrati e gli uomini della Dia in diversi viaggetti, e i giornalisti del Fatto con le loro affannose cronache a riempire pagine su pagine. Che Giuseppe Graviano si stia accreditando per avere qualche alleggerimento al proprio 41 bis è lampante. Non può fare il “pentito” perché sulle stragi ormai c’è un affollamento di collaboratori di giustizia da non lasciare spazio a nuove rivelazioni. Così ha cercato la gallina dalle uova d’oro, ormai introvabile a Palermo, ma ancora vivente a Firenze. Ma anche il filone Graviano è ormai asciutto. Un po’ perché lui vuol fare lo scambio con qualche vantaggio personale e la cosa non sta andando in porto, ma soprattutto perché in realtà su Berlusconi non ha proprio niente da dire. Ecco dunque che spunta fuori – ancora e ancora – la storia di un’intervista al giudice Paolo Borsellino, fatta poco prima della sua uccisione, da due giornalisti dell’emittente francese Canal Plus, Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo. La chiacchierata aveva come tema generale la mafia e andava inserita in un documentario. I due però, lo si capisce bene riguardando il filmato, insistevano molto con le domande su Vittorio Mangano, lo stalliere che per un periodo fu impiegato ad Arcore, la sicilianità di Marcello Dell’Utri (la sua vera colpa) e i rapporti con Silvio Berlusconi.
Borsellino si difendeva come poteva dall’insidia dell’incalzare delle domande, dicendo che non ne sapeva niente e che se Mangano parlava di cavalli era perché ne era appassionato. Ma anche che, quando parlava con un esponente della famiglia mafiosa degli Inzerillo, forse usava quel termine, così come quello delle “magliette”, per parlare di droga. Lui diceva Inzerillo, e quelli traducevano in Dell’Utri, però. Una vera “incomprensione”. Come quando gli dicono che tutti e due, il dirigente di Publitalia e lo stalliere erano di Palermo e il magistrato sorridendo: ma non vuol dire che si conoscessero, anche se erano della stessa città! I due tendevano continuamente il loro tranello al giudice, con un uso particolare e ingannevole della telecamera. Lo spiega in modo esplicito Michel Thoulouze, ex manager di Canal Plus e di Telepiù, intervistato ieri dal Fatto quotidiano. E dice anche qualcosa di più. Che i due giornalisti avevano in seguito tentato di vendere l’intervista e tutte quante le 50 ore di girato a un collaboratore di Silvio Berlusconi, il quale si era detto non interessato e aveva rifiutato.
Peccato però che il piccolo settimanale L’Espresso, allegato di Repubblica, abbia titolato nel suo ultimo numero “Soldi per insabbiare lo scoop. Un emissario di Berlusconi offrì un milione di dollari per l’intervista di Canal Plus a Borsellino”. Chi lo dice? L’avrebbe detto in confidenza Fabrizio Calvi a uno dei due colleghi dell’Espresso (Paolo Biondani e Leo Sisti) prima di morire. Eh si, perché l’autore della famosa intervista a Borsellino, che era malato di Sla, ha deciso di chiudere con la vita in una clinica svizzera lo scorso ottobre. E lui, scrivono con cinismo i suoi due “amici” del settimanale italiano, «non ha fatto in tempo a spiegarci tutto quello che aveva scoperto». Bel modo di trattare gli amici! Aspetti che uno non ci sia più per accreditargli uno scoop inesistente e poi ti lamenti perché lui non ha fatto in tempo a dirti tutto, come se fosse morto all’improvviso e non, come è stato, in modo programmato. Cinismo ributtante, veramente.
Naturalmente, e “opportunamente”, anche l’altro giornalista del finto scoop non c’è più, morto da dieci anni. Ma spiega bene in che cosa consistesse quell’inchiesta sulla mafia che non andò mai in onda, l’intervista dell’ex manager di Canal Plus, Michel Thoulouze, come riportata dal Fatto: «La verità è che non l’hanno trasmesso perché quel documentario era una m…». E sui due: «Ho detto a Moscardo: non fate il ricatto». Quindi tutta l’insistenza nelle domande a Borsellino su Berlusconi aveva lo scopo di estorcergli denaro? Il che ci riporta a un episodio del 2019 (come riportato da un articolo di quei giorni da Damiano Aliprandi sul Dubbio), quando Paolo Guzzanti aveva messo in discussione la veridicità di una trasmissione della Rai sulla famosa intervista a Borsellino e su una presunta inchiesta su Marcello Dell’Utri della procura di Caltanissetta. Sigfrido Ranucci, autore della trasmissione, l’aveva querelato, ma Guzzanti era stato assolto e i magistrati, confermando che la trasmissione era stata “manipolata”, avevano anche ironizzato sugli imputati fantasma, presenti solo nella fantasia di qualcuno.
Ma un altro episodio va segnalato. Ne parla l’Espresso, per notare che nel 2019 il giornalista francese Fabrizio Calvi era stato sentito dal procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, vicino a Losanna, e che il verbale di quell’interrogatorio era stato secretato. Il settimanale aggiunge che era presente anche “uno strano” avvocato. Ora, strano o no che fosse, quando a un interrogatorio è presente un legale significa una cosa sola, che la persona ascoltata non è un testimone ma un indagato. E, alla luce di quel che ha detto nell’intervista di ieri sul Fatto l’ex manager di Canal Plus Pierre Thoulouze sull’intenzione dei due giornalisti di estorcere denaro a Berlusconi con la patacca dell’intervista di Borsellino che neanche lo nominava, che cosa pensare dell’inchiesta di Caltanissetta? E se gli indagati non fossero stati Mangano, Dell’Utri e magari lo stesso imprenditore di Arcore ma proprio i due cronisti, sospettati di tentata estorsione?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Come superare il populismo. Chi è senza reato scagli la prima pietra. Massimo Donini su Il Riformista il 30 Dicembre 2021. Col processo di secolarizzazione del diritto e della morale le etiche di partito, di chiesa e di schieramento, laici e cattolici, liberali e socialisti, credenti e atei, onnivori e vegani, sono tutte quante divenute sempre più, se non categorie storiche, quanto meno visioni private del mondo: visioni che tuttavia è vietato assumere come quelle pubbliche della legge in chiave monopolistica e totalizzante. Sono concezioni del mondo accolte da gruppi che restano stranieri morali tra loro, come emerge a tutto campo nelle questioni paradigmatiche della bioetica.
In un contesto di pluralismo dei valori, infatti, solo il diritto può adottare punti di vista rispettosi delle differenze e non contrassegnati da una specifica identità ideologica che sarebbe ad esso vietata da principi superiori. È vero dunque, oggi, che solo il diritto può rappresentare ormai l’etica pubblica. Ma poiché le leggi non obbligano in coscienza, e dunque formalmente non sono un parametro di moralità, se un’etica pubblica va individuata, dovrà essere ritagliata dal perimetro di ciò che è giuridicamente consentito o regolato, ma possa venire avvertito anche come doveroso moralmente. L’etica pubblica è dunque ciò che, della forma-ius, ci obbliga in coscienza. Più singolare e distorcente è la declinazione penalistica del fenomeno, che muove dalla convinzione che il diritto penale è quel ramo del diritto che ha più capacità censoria, è il più intollerante dei diritti, pur restando (in ipotesi) laico e non confessionale, non di partito o di parte.
In una situazione di assenza di parametri pubblici di valutazione morale, per disapprovare una condotta la via più sicura è di qualificarla come reato, mancando altrimenti un sistema di valori davvero eloquente o condiviso: una censura in termini non penalistici o perfino non giuridici, ha un impatto assai modesto in un sistema privo di un codice di comportamento autonomo. È diffusa la percezione che “se non è penale, si può fare”, se un certo comportamento non configura un reato, la norma-precetto che lo vieta non si avverte come un obbligo veramente vincolante. Quando una condotta integra un illecito civile o amministrativo, la relativa sanzione può essere vista come una sorta di onere: la si può metter in conto, in cassa, quale tributo da pagare se vi vuole commettere il fatto. Se la sanzione è penale, invece, la regola ha un impatto censorio assai più forte, esprimendo un divieto assoluto, il cui castigo non è riducibile a tassa. Questo dato è poi accentuato da una peculiare debolezza della politica, incapace di esprimere una propria scala di valori, un proprio codice etico. Fenomeno che in Italia ha accentuazioni specifiche.
La popolarità della giustizia penale è dovuta molto anche all’illusione forse più grande della coscienza collettiva: l’idea che il reato riguardi gli altri, che si possa normalmente non commettere.
L’esperienza del penalista dimostra invece il contrario: è inevitabile che ognuno di noi commetta (e subisca) qualche reato. Si tratta di una dimensione umana, sociale, politica di carattere universale. Occorre infatti una nuova cultura per rappresentarla e promuoverne una acquisizione pubblica. I reati più comuni, di cui a seconda delle inclinazioni tutti siamo stati autori o vittime, sono gli oltraggi, le percosse, le diffamazioni, le violenze private, le appropriazioni o i piccoli furti, alcune forme di stalking, di disturbo alle persone, di minaccia, di ricatto, di frode e di falso, di comportamento pericoloso alla guida, o di guida in condizioni alcooliche vietate, di porto senza giustificato motivo di cose o strumenti atti ad offendere la persona, di consumo con cessione di droghe, di abuso di ufficio, di reticenza in giudizio, di omissione di soccorso, di abuso edilizio, o di discriminazione per motivi razziali, religiosi, sessuali, di violazione di corrispondenza, di ricevimento di cose provenienti da reati altrui, o di complicità in reati altrui etc. L’ingiuria, gli atti osceni e il danneggiamento doloso semplice sono stati da qualche tempo depenalizzati, altrimenti vi rientrerebbero.
Nella vita privata, dalla scuola materna alla casa di riposo, nella circolazione stradale, nei luoghi di lavoro, in famiglia, nella vita pubblica, nei pubblici uffici, nelle imprese, tutti abbiamo rischiato di fare male ad altre persone violando anche involontariamente regole di prudenza, o di correttezza, e solo perché fortunati non ci è accaduto di commettere lesioni od omicidio colposi, qualche abuso o violazione di obblighi occorsi invece ad altri meno fortunati di noi. L’informazione giuridica dovrebbe dare conto che i reati, nel nostro sistema, non sono inferiori a 6000 fattispecie (una ricerca finanziata dal Ministero della ricerca scientifica di una ventina di anni fa conteggiava 5431 norme-precetto solo fuori dai codici), e dunque nessuno li conosce tutti, mentre tutti possono commetterne qualcuno senza saperlo. È dunque importante che si riconosca che nessuno è immune, nessuno è immacolato, nessuno può pensare che il penale riguardi solo gli «altri». E non sarebbe neppure necessario ricordarlo se non fosse diffusa la dimenticanza che anche i dieci comandamenti riguardano tutti come capaci di colpa, e tra questi il più universale, il “non uccidere”, che anche inteso in senso stretto è toccato alla maggior parte di noi di non violarlo perché non c’è stata l’occasione per farlo, non perché ci manca la fossetta occipitale mediana di Lombroso.
La tendenza del diritto a rappresentare l’etica pubblica ha dunque sviluppato la patologia di identificare il diritto penale con tale etica, ma a sua volta questo eccesso si è accompagnato all’illusione collettiva di riservare l’infamia penalistica agli altri, ora per interesse a usare questo etichettamento contro avversari politici (ciò che esprime l’aspetto più inquietante del giustizialismo), ora invece per una mancata percezione dell’oggettività del dato che il rischio penale è un fenomeno di massa. Questa situazione paradossale rende oggi necessario il passaggio da una democrazia penale populista, come quella che si lascia alle spalle l’anno ora trascorso, a una democrazia penale informata. La democrazia penale qui intesa non è solo quella (in un’accezione un po’ negativa) della maggioranza disinformata e telecomandata a odiare a turno i pedofili, i corrotti, gli immigrati clandestini, i riciclatori di denaro, gli automobilisti ubriachi, gli stupratori soprattutto se stranieri, gli imprenditori che risparmiano sulla sicurezza, i violenti allo stadio, gli evasori dell’Iva europea, i bancarottieri, gli hackers, i negazionisti, i giovani bulli e violenti, e ovviamente tutti gli associati per delinquere (un’imputazione alla portata di tutti, i benpensanti non lo sanno e devono apprenderlo): quella maggioranza occhiuta che ha sostenuto a lungo populisticamente i programmi legislativi e la macchina da guerra giudiziaria contro il crimine e che l’attuale scontro sui “doveri informativi” delle Procure della Repubblica vuole rimettere in gioco.
La democrazia penale informata è quella che garantisce più conoscenze e più controllo critico, che si basa su dati controllabili di altro tipo. Non è il sapere di una parte del processo che informa unilateralmente i cittadini prima delle decisioni di un organo terzo, ma la democrazia dove la scienza condivide le conoscenze che il Parlamento utilizza nel costruire le leggi (non solo l’Air, l’analisi di impatto della regolamentazione, ma controlli di legittimità, predittività degli effetti, impiego di culture ed esperienze non giudiziarie, attenzione al conflitto sociale e alle cause che favoriscono il delitto) e le trasmette anche ai giudici e ai media, dove la divisione dei poteri si attua attraverso una condivisione dei saperi che la limita: affinché non accada come nell’antica Cina quando l’imperatore, dalle segrete stanze della Città Proibita, esercitava almeno simbolicamente un potere assoluto sul tempo e sul peso, di cui poteva stabilire l’unità di misura. La Città Proibita quale monumento dell’inaccessibilità del Potere e del suo Sapere. Questa misura potrebbe oggi riguardare il peso della colpa e la durata della pena, due dati scarsamente accessibili allo stesso sapere scientifico.
Se si conoscesse meglio il male intrinseco della macchina della giustizia, o si conoscessero le sue inevitabili sconfitte, anche se non si manifestano in violazioni terrificanti o disumane dell’integrità dei corpi, o nell’indifferenza alle anime, la popolarità di quella macchina da guerra sarebbe minore, e ciò le farebbe solo bene, rendendola più controllata e attenta, più umana, e anche la retorica della giustizia, e la celebrità di alcuni suoi attori, si dimostrerebbero spesso patetiche e ingannevoli. Un sano ridimensionamento di quelle illusorie aspettative potrebbe solo giovare a ridurre l’uso populistico dell’informazione, che costituisce uno dei mali della società contemporanea. Massimo Donini
· Art. 416 bis c.p.. 40 anni fa non era mafia.
Non è più quella del 416 bis. Relazione della Dia: la mafia non c’è più e l’antimafia indaga sugli anni ’90. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Ottobre 2022
La Direzione Investigativa Antimafia (Dia) conduce indagini su Silvio Berlusconi, come mandante di stragi, da oltre trent’anni con grande impiego di forze e di denaro, e nonostante i fallimenti siano già stati tre. Lo si legge a pagina 6 della Relazione del secondo semestre del 2021 depositata due giorni fa al Parlamento. E’ scritto nelle stesse pagine in cui si spiega che la mafia non esiste più, per lo meno quella che l’articolo 416 bis del codice penale descrive come un’associazione di persone che “si avvalgono della forza di intimidazione”, dell’assoggettamento e del controllo del territorio. E che usavano anche la violenza come forma di intimidazione.
Oggi esistono sostanzialmente comitati d’affari che preferiscono fare accordi piuttosto che estorsioni e minacce. E gli uomini della Dia corrono il rischio di restare disoccupati. Ma hanno trovato un nuovo lavoro, che altro non è se non il rafforzamento di quello iniziato da oltre trent’anni, cioè da un periodo di poco successivo ai giorni della nascita, nel 1991, dell’Agenzia investigativa. Non c’è più la mafia. “Tuttavia-si legge nella relazione- malgrado la più attuale linea d’azione di Cosa nostra sia quella di ridimensionare il ricorso alla violenza…la Dia, attraverso le sue articolazioni centrali e territoriali, già da tempo, sta eseguendo mirate attività investigative sulle ‘stragi siciliane’ del 1992 e sulle cd. ‘stragi continentali’ del 1993-1994, su input di specifiche deleghe ricevute dalle competenti Autorità giudiziarie del territorio nazionale”. “Complessivamente –si conclude- da oltre 30 anni, sono impegnate in tali indagini le risorse di ben cinque Centri Operativi e del II Reparto”.
Un intero reparto dunque, quello talmente importante da essere segnalato come fondamentale per “l’evasione delle numerosissime deleghe assegnate dalle Procure distrettuali”. E “ben”, come dicono gli autori della relazione, cinque Centri Operativi. Tutti impegnati con grande dispendio di mezzi, uomini e denaro contro un unico obiettivo. Naturalmente non c’è il nome di Berlusconi, e neppure quello di Dell’Utri, nella relazione ufficiale. Tanto ci pensano i giornalisti amici, ad allungare il brodo, nel corso degli anni. Con decine di articoli, che spaziano dal Fatto a Domani. Ma nel documento della Dia non sono neppure menzionati i fallimenti precedenti. C’è da chiedersi se in Parlamento qualcuno le legge, queste relazioni, e se a qualcuno verrà mai in mente di interrogare il Ministro dell’Interno per visionare quanto meno i bilanci della Dia. Per non parlare del Csm, sempre pronto a “perdonare” i numerosi flop delle fallimentari inchieste di mafia.
Qualcuno ricorda ancora le indagini condotte dalla procura di Palermo su “M” e “MM”? E quelle di Caltanissetta su “Alfa” e “Beta”? E poi a Firenze l’inchiesta su “Autore 1” e “Autore 2”? Le sigle coprivano maldestramente sempre i nomi di Berlusconi e Dell’Utri. Tutte archiviate, spesso su richiesta dello stesso pm. Carta straccia. E io pago! Dobbiamo ripeterlo più spesso, che questi magistrati e questi investigatori con le loro fantasie fanno pagare ai cittadini, anche in senso materiale, il prezzo dei loro errori, delle loro incapacità, dei loro furori politici.
Giusto per non ripetere la solita tiritera dei fratelli Graviano, sentite che cosa è successo ieri mattina a Reggio Calabria. Il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha illustrato in un’aula di giustizia un’informativa della Dia (si, la solita Dia) su dichiarazioni di “pentiti” che chiamavano in causa esponenti politici e i loro presunti rapporti con uomini della ‘ndrangheta.
Barzellette, cui un importante uomo dello Stato in toga, pare dare credito: Craxi e Berlusconi a un summit in un agrumeto con la ‘ndrangheta. L’episodio risalirebbe ai giorni successivi all’assassinio di Aldo Moro, quindi nel 1978. I due sarebbero andati a questo vertice di mafia nella piana di Gioia Tauro, “presso l’agrumeto di tale Peppe Piccolo”. Lo racconta il “pentito” Girolamo Bruzzese, che sostiene di aver riconosciuto il personaggio politico e l’imprenditore brianzolo “per averli già visti in televisione”. Un po’ strano, non risulta che Berlusconi, impegnato solo nelle sue attività imprenditoriali, fosse spesso in televisione in quei giorni. Comunque il ragazzo fu subito, all’arrivo dei due, fatto allontanare dal padre su suggerimento nientemeno che di Peppe Piromalli, il boss dei boss.
Il racconto prosegue nel ricordo che, anni dopo, il padre di Bruzzese gli avrebbe spiegato che “Craxi e Berlusconi si sarebbero recati al summit perché Craxi voleva lanciare politicamente Berlusconi e quindi per concordare un appoggio anche da parte delle cosche interessate alla spartizione dei soldi che lo Stato avrebbe riversato nel mezzogiorno”. I due avrebbero alloggiato nel miglior albergo di Vibo Valentia, “penso in incognito”. Ricapitolando: il segretario di uno dei principali partiti italiani, che durante il rapimento Moro si era posto in particolare evidenza contro il “partito della fermezza” costituito da democristiani e comunisti, avrebbe avuto la bella pensata di andare a raccomandare a Piromalli un imprenditore brianzolo per farlo entrare in politica e garantirgli un po’ di voti mafiosi con l’impegno di investimenti per il sud. E avrebbe alloggiato nel miglior albergo di Vibo in incognito. Ma dottor Lombardo, lei crede davvero a queste scemenze?
Poi lo statista “pentito” Bruzzese spiega al colto e all’inclito che i corleonesi Riina e Provenzano si erano contrapposti alle famiglie mafiose palermitane dei Badalamenti-Inzerillo Bontate, perché “non accettavano più la politica di Craxi e Andreotti di contrapposizione agli Stati Uniti; questa politica era avversata dagli americani, ma soprattutto non andava bene a Licio Gelli, molto amico di Peppe Piromalli”. Ecco il cerchio che si chiude, mancavano solo Gelli e la P2. Se non c’è il fantasma di Aldo Moro, in quell’aula di Reggio Calabria però c’è quello di un ulteriore “pentito”, morto nel 2014, ma che aveva reso dichiarazioni spontanee alla polizia penitenziaria del carcere di Alessandria nel 2009.
Ci racconta il procuratore aggiunto, che questo Gerardo D’Urzo aveva parlato di un certo Valensise, che a quanto pare non è stato identificato, che con un altro esponente della ‘ndrangheta della jonica era andato a Roma e aveva avuto “un colloquio a Palazzo Grazioli con l’onorevole Silvio Berlusconi e questi gli disse al Valensise che quello che aveva promesso lo manteneva e dovevano stare tranquilli”. Eccetera. Così sono fatte le inchieste di mafia. Interverrà mai qualcuno in Parlamento o al governo o al Csm per mettere fine a queste vergogne? Intanto gli armamenti pesanti della Dia continuano a indagare con questi metodi, nell’attesa che la procura di Firenze, quella che indaga per strage Berlusconi e Dell’Utri, decida, entro dicembre, se chiedere un processo o procedere all’archiviazione. Sarebbe il quarto flop, dopo trent’anni.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il 6 settembre 1982. Reato di associazione mafiosa, fa 40 anni fa la legge che ha prodotto indagini zoppicanti. Roberta Caiano su Il Riformista il 6 Settembre 2022
Sono trascorsi 40 anni da quando, il 6 settembre 1982, il reato di associazione mafiosa ha trovato ingresso nel codice penale italiano e, con esso, si è prevista la possibilità della confisca per i patrimoni dei sospettati di far parte delle organizzazioni mafiose. Erano trascorsi solo tre giorni dall’uccisione del prefetto Dalla Chiesa a Palermo e la reazione della pubblica opinione rendeva indifferibile dar corso alla proposta di legge Rognoni – La Torre in gestazione da qualche tempo in Parlamento; il governo adottò un decreto legge in fretta e furia. L’Italia è stata, e resta, l’unico paese al mondo che ha previsto uno specifico reato associativo per una determinata tipologia di realtà criminali (la mafia, la camorra e dal 2010 la ndrangheta).
Nel tempo il 416-bis ha manifestato una eccezionale capacità espansiva nelle maglie dell’ordinamento italiano. Si sono modificate altre norme del codice, si sono inserite specifiche aggravanti, si sono modellate norme processuali ad hoc (il cosiddetto doppio binario), si sono previsti regimi penitenziari speciali, si sono costruite apposite agenzie investigative, si sono modificate le competenze delle procure della Repubblica e finanche dei giudici con l’accentramento in sede distrettuale dell’intera fase delle indagini e la costituzione dell’unica procura nazionale. Protocolli e congegni che hanno mostrato una straordinaria capacità performante e sono stati talmente efficaci da attrarre in questo perimetro d’eccezione altri reati (per tutti il terrorismo). Oggi l’Italia può dirsi, con ogni probabilità, l’unico paese al mondo che dispone di uno statuto speciale per la mafia che spazia in ogni settore dal processo alle pene, dalle intercettazioni al regime carcerario, dalle carriere dei magistrati ai rapporti con la stampa, dalla prescrizione alla carcerazione preventiva, dagli appalti alle candidature ivi incluso lo scioglimento dei consigli elettivi locali.
Una gigantesca macchina intorno alla quale si sono agglutinati interessi politici, ambizioni carrieristiche, operazioni mediatiche di successo, esasperate polemiche, processi di grande importanza, ma anche indagini zoppicanti quando non naufragate. Dozzine di libri e migliaia di pubblicazioni hanno scandagliato in tutti i versanti questo composito e variegato mondo. Talvolta esaltandone l’efficacia, talaltra rimproverando errori ed eccessi. Basti pensare che si attende ancora un nuovo assetto che modifichi il cosiddetto ergastolo ostativo e che il governo Draghi ha dovuto rapidamente, a fine del 2021, mitigare le norme sulle interdittive antimafia per non paralizzare i cantieri del Pnrr. In 40 anni il paese è profondamente modificato e sarebbe insensato immaginare che le mafie siano rimaste quelle dei tempi dell’eccidio del generale Dalla Chiesa. Dire cosa siano oggi è, in realtà, un’operazione non agevole. Circolano stereotipi, si propagandano ipotesi fumose e suggestive, si lanciano moniti, si denunciano “cali di tensione”, si giustificano candidature con l’esigenza di dar voce al mondo composito e complesso che si è compattato – non senza un tornaconto personale – intorno alla lotta alle mafie in questi decenni.
Certo sorprende che dopo 40 anni di applicazione della norma nessuno sia disponibile a rendere un bilancio realistico sulla effettiva condizione di quelle realtà criminali; quanto meno per dire al paese se l’enorme sacrificio delle libertà personali che quella legislazione quotidianamente comporta, se gli enormi costi che vi sono associati (si pensi solo alle intercettazioni) e i gravi danni collaterali che ha prodotto abbiano comunque dato un risultato apprezzabile. Alla ricorrenza del 3 settembre solo Nando Dalla Chiesa ha, con grande onestà intellettuale, riconosciuto la distanza abissale che separa il 1982 dal 2022. Eppure è sotto gli occhi di tutti l’incommensurabile deserto che lo Stato e la società italiana nel suo insieme hanno attraversato da quel 1982 e, soprattutto, dopo il 1992 e le stragi di Falcone e Borsellino. E’ vero le organizzazioni mafiose sembrano ancora possenti; difficile dire quanto effettivamente capaci di condizionare la vita pubblica della nazione, ma certo ancora radicate nei territori. Può darsi che siano diventate la Spectre, ma insomma le analisi e le denunce sul punto hanno lo stesso gradiente di conferme che si può trovare in un libro di Ian Fleming. Il nemico appare sconosciuto, se ne sono persi i contorni e l’identità.
Da tempo ormai non sembra più “agganciato” investigativamente; alle prove si sono sostituite le denunce e gli allarmi. Soprattutto chi avrebbe il dovere di individuarne le nuove morfologie e le nuove strutture, si abbandona a cogitazioni probabilistiche e a mere deduzioni sui massimi sistemi senza mai addurre una conferma obiettiva. Borse, industrie, apparati finanziari, mercati, istituzioni vengono additati come infiltrati e condizionati, ma mancano prove certe di tutto ciò. Al massimo si invoca qualche raro e marginale episodio, qualche brandello di intercettazione rimasto privo di conferme nei processi, per giunta. E’ una questione grave. La scelta del 1982 era stata lungimirante, profetica, micidiale per i clan.
Dopo 40 anni ci sono in questo paese più commemorazioni che processi, più libri e convegni che indagini. La nazione dopo tanti morti e tanti sacrifici ha diritto di pretendere report attendibili, stime realistiche, valutazioni ponderate. Anche perché il paese è devastato da reati ben più evidenti e parimenti gravi – corruzione ed evasione fiscale per primi – che rischiano di metterlo in ginocchio in questi tempi oscuri. Leggi speciali e connessi apparati speciali, come quelli italiani, non hanno quartiere in nessuna democrazia. Sono un costo cui ci siamo rassegnati 40 anni or sono per colpa della ferocia mafiosa, ma non sono una cambiale in bianco rilasciata in favore di qualcuno. Roberta Caiano
Così le mafie hanno fatto apprendistato andando a vedere “Il padrino”. L’opera dello storico Nicaso e del suo allievo Scalia propone una chiave di lettura affascinante e scala le classifiche dei libri più venduti. ANTONIO ANASTASI su Il Quotidiano del Sud il 10 Settembre 2022.
Il 14 marzo 1972, a New York, viene proiettata la prima mondiale del film “Il Padrino”, che di lì a poco diverrà un successo planetario contribuendo ad alimentare nell’immaginario collettivo il mito di “Cosa nostra”, condizionando perfino i comportamenti degli uomini delle mafie fino a divenire oggi, tra mescolamenti e ibridazioni, un’icona pop evocata perfino negli spot pubblicitari e nei videogame.
Cinquant’anni dopo, lo storico delle organizzazioni criminali Antonio Nicaso e uno dei suoi più brillanti allievi di dottorato, Rosario Giovanni Scalia, visiting professor alla Rutgers University, ricostruiscono e decostruiscono meravigliosamente quel mito. È già in testa alle classifiche dei libri più venduti “Il mito di Cosa Nostra. La vera storia del padrino e di come ha cambiato noi e la mafia”, edito da Solferino. Ma sono tre libri in uno, tante quante le parti del film – anche se la seconda e soprattutto la terza, ribattezzata il “Fredo” della Trilogia con riferimento a uno dei figli di don Vito Corleone, quello perdente, non replicheranno il successo della prima.
Tre libri in uno che si possono leggere distintamente ma che dialogano intensamente tra loro, offrendo una chiave di interpretazione affascinante e fondamentale per comprendere cosa sono le mafie oggi ma anche l’appeal che il film ha esercitato e continua ad esercitare, anche sulle mafie, a discapito del politicamente corretto.
La prima parte – “The making of” – ricostruisce le peripezie del regista Francis Ford Coppola e dello scrittore Mario Puzo, coinvolto nella sceneggiatura anche se il dominus resterà il filmaker, tra boicottaggi di Cosa Nostra che compie incursioni sul set, campagne negazioniste come quella di Joe Colombo, mafioso e fondatore della Lega per i diritti civili degli italo-americani, e capricci del pluripremiato cast di stelle, a cominciare da quelli di Marlon Brando; ma anche l’ira funesta di Frank Sinatra il quale si riconosceva nel crooner Jonny Fontane il cui successo è legato all’appoggio del boss.
Ma, soprattutto, in questa sezione il libro traccia i profili di due italoamericani profondamente diversi, anche fisicamente, come Puzo e Coppola, strana e asimmetrica coppia voluta da Paramount. Proletaria la famiglia di Puzo, uno che scrive per sbarcare il lunario, di estrazione borghese quella dell’intellettuale Coppola che un film su quel libro, che secondo una certa critica inneggiava alla mafia, inizialmente non voleva manco girarlo ma poi si convince che con una valida riscrittura del copione, ricalibrando la saga della famiglia Corleone, sarebbe venuta fuori un’efficace metafora del potere.
La seconda sezione del libro analizza ogni fotogramma del film e ne esplora segni e simboli, a cominciare dalla prima scena in cui il passaggio dal buio del non essere all’essere viene scandito dal suono di una tromba – un discorso ad hoc meriterebbe la colonna di sonora di Nino Rota, escluso dalle nomination per le musiche della Parte I ma vincitore dell’Oscar per la II – e da quella frase, “I believe in America”, pronunciata dal becchino Amerigo Bonasera che si era rivolto al don, inquadrato di spalle prima e poi con espressione ieratica mentre accarezza un gattino e rifiuta i soldi per la punizione da impartire a coloro che hanno quasi stuprato la figlia di quell’uomo implorante.
Un boss che non va in escandescenze e reclama soltanto rispetto e baciamano per rendere quella giustizia che i giudici non hanno saputo somministrare, e pertanto suscita immedesimazione nel pubblico sovvertendo gli stereotipi violenti con cui la mafia era prima rappresentata al cinema. Una scena che introduce la dicotomia tra mafia buona e mafia cattiva, un tema centrale del libro, che tanto contribuirà ad alimentare un falso mito che nobilita il mondo del crimine perché, per esempio, i boss all’antica non si occupano di narcotraffico e non uccidono donne e bambini.
Un falso storico, perché non si contano le stragi di innocenti se si compie un excursus approfondito e anche là dove non tratteranno direttamente la droga i capimafia pretenderanno comunque la cresta sulla zona in cui daranno l’ok per i traffici.
La terza sezione ripercorre l’enorme successo del Padrino che alla fine ha inghiottito perfino gli iniziali sospetti della mafia che tentava di condizionare le riprese e temeva il clamore mediatico, perché il quadro che ne viene fuori si rivela addirittura funzionale ai disegni di Cosa Nostra.
Perché – merito anche di formidabili attori, e ci limitiamo a ricordare, dopo il già citato Brando, gli italoamericani Al Pacino e Robert De Niro – oltre all’apparato cerimoniale che attinge al mito dei Vespri siciliani e alla saga secentesca dei cavalieri Osso, Mastrosso e Carcagnosso, il film offre un’ulteriore nobilitazione retrodatata nei millenni. Il riferimento è alla scena in cui Diane Keaton, la Kay moglie di Michael Corleone, parla di quella “cosa siciliana che va avanti da duemila anni”, un concetto valorizzato nella Parte III quando, durante il viaggio in Sicilia del nuovo capo dell’organizzazione, quello che opera la “legalizzazione” della famiglia fortemente voluta da suo padre, viene inquadrato il tempio di Segesta.
Non a caso gli autori parlano di «corto circuito tra realtà e rappresentazione» venutosi a creare sin dagli anni Settanta. «Puzo e Coppola, che hanno studiato la vera mafia per rappresentarla, sono diventati a loro volta oggetto di studio e di rappresentazione per i riti, i comportamenti, gli atti di violenza di quegli stessi mafiosi. Il mito di una mafia buona, che i mafiosi hanno “venduto” agli autori del Padrino, viene restituito loro arricchito di una nobiltà di rappresentazione e di un pathos tragico di cui mai i mafiosi sarebbero stati capaci».
Il Godfather effect travolgerà perfino il pentito Giovanni Brusca quando definirà Totò Riina “padrino d’iniziazione”, un’esigenza che non avrebbe avvertito senza aver visto il film, spiegano Nicaso e Scalia, perché quella formula la usa non in relazione alla fama del capo dei capi se specifica che il termine padrino è riferito al contesto dell’affiliazione. È la mafia, dunque, che va a fare da apprendista al cinema, grazie a quella ritualizzazione della violenza a cui si assiste, in maniera lenta e graduale, scena dopo scena.
· Mafia: non è altro che una Tangentopoli.
Vito Lipari, il sindaco Dc accerchiato e ucciso nel feudo del super latitante Matteo Messina Denaro. Marco Bova su La Repubblica 26 Agosto 2022.
Quarantadue anni fa a Castelvetrano l’assassinio dell’amministratore scudocrociato. Il figlio: «Ucciso per il no ai boss nella gestione di appalti e banca locale. Eliminato con il piombo e infangato da morto»
«La morte di mio padre è l'omicidio “eccellente” dei Messina Denaro. Lo hanno massacrato come un vitello, “mascariato” come tutte le vittime della Dc e dimenticato nell'indifferenza. Ma chi ha vissuto quella stagione come il presidente Sergio Mattarella sa bene da che parte stava mio padre». È lo sfogo di Francesco Lipari, figlio di Vito Lipari, sette volte sindaco di Castelvetrano (Trapani) ucciso il 13 agosto 1980, rimasto nel limbo delle vittime di mafia.
Il suo nome con fatica ha trovato spazio nel ricordo della triste scia di sangue, che negli stessi anni a Palermo, portava agli omicidi “eccellenti” dei democristiani Michele Reina e Piersanti Mattarella e del comunista Pio La Torre.
E questo anche a causa dell'indifferenza delle istituzioni. Almeno fino a quando una lettera spedita alla famiglia dal capo dello Stato ha restituito alla memoria di Lipari lo spessore dovuto.
L'assassinio del sindaco fu un agguato in pieno stile mafioso. La vittima era a bordo della sua auto, lungo la strada che collega Castelvetrano a Selinunte, quando i sicari gli spararono con un fucile e due revolver.
Le indagini sull’omicidio franarono presto insieme all’instabile castello giudiziario, reso fragile anche dalle false dichiarazioni di un collaboratore di giustizia.
In quegli anni, Lipari era uno dei dirigenti rampanti dell'area di riferimento dell’ex ministro degli Affari esteri Attilio Ruffini, primo dei non eletti, con 46 mila voti, alle elezioni parlamentari del 1976 e in ultimo anche direttore del consorzio Asi, l’area di sviluppo industriale, che si occupava dell'assegnazione di alcuni appalti delicati.
«Mio padre – racconta Francesco – non ha mai intascato alcuna tangente, di questo ne sono certo, anche se ricordo il via vai che c'era a casa e la fila davanti al portone di ingresso. Gli venivano rivolte preghiere per assunzioni e favori, perfino da me, per conto dei miei compagni di scuola. Un giorno l'arciprete mi chiese se potevo parlare con mio padre per un suo nipote». Quella di Lipari fu un'ascesa gestita «con decisa spregiudicatezza», scrivono i giudici, anche in relazione ai rapporti con i cugini Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori di Salemi arrestati dal giudice Giovanni Falcone nel 1984 per associazione mafiosa. Il primo morì durante il processo, il secondo fu condannato a tre anni in Appello e ucciso nel 1992, poco dopo le Stragi di Capaci e via d'Amelio.
«Ma non si scrive mai che mio padre era amico intimo del maresciallo Giuliano Guazzelli, che frequentava spesso casa nostra», aggiunge Francesco, riferendosi al carabiniere, ucciso, anche lui, nel 1992 siciliano. «Chiaramente con i Salvo c'erano dei collegamenti, degli incontri, ma di certo mio padre non andò mai sulle loro barche a parlare degli affari pubblici», dice ancora Francesco Lipari: «Nel ’79 fecero circolare nel mondo politico l’avvertenza di stare attenti perché i Corleonesi stavano per alzare il tiro». Tuttavia, Francesco Lipari rimane convinto che il padre «non sia stato ucciso dai nemici dei Salvo», ma che la morte del padre «sia maturata nell’ambito degli interessi mafiosi ed economici di Castelvetrano».
È quanto in effetti è emerso, alla fine di un tortuoso percorso giudiziario su un omicidio che sembrava già risolto dopo poche ore. A 30 chilometri di distanza dal luogo del delitto i carabinieri, durante un servizio di controllo straordinario avevano fermato due auto. Una con il boss di Mazara del Vallo, Mariano Agate ed un suo uomo; nell'altra Nitto Santapaola, capomafia di Catania e altri due mafiosi: tutti arrestati e scarcerati pochi giorni dopo, anche con la complicità di un ufficiale dei carabinieri, e infine nuovamente arrestati.
I boss furono collegati al delitto autorizzando una pista suggestiva, sulla rotta Catania-Trapani, smontata nel 1992 dalla corte d’Appello di Palermo, che la definì «assolutamente contro ogni logica». Bocciando anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, oggi sconfessato dai tribunali, che dopo una prima ritrattazione, continuò a testimoniare, nonostante fosse saltata fuori una lettera, scritta durante una precedente detenzione, in cui preannunciava al suo legale di voler utilizzare il caso Lipari per accreditarsi con la giustizia.
Il ruolo della mafia di Castelvetrano è emerso soltanto dopo l’inizio della collaborazione con i magistrati di Vincenzo Sinacori, reggente di Mazara del Vallo, detto “ancidda” (anguilla), arrestato nel 1996, che si è autoaccusato dell’omicidio Lipari. Sinacori dice di avervi partecipato con i mazaresi Andrea Gancitano e Giovanni Leone e con Antonino Nastasi di Castelvetrano. Il pentito però sarà l'unico condannato, gli altri assolti per insufficienza di prove. «Andando oltre le sentenze, è chiaro il ruolo di Nastasi e della mafia di Castelvetrano, anche alla luce degli sviluppi successivi», dice il figlio del sindaco ucciso. Il riferimento è proprio a Nastasi che, secondo il racconto di alcuni pentiti, è stato il custode dell’esplosivo deflagrato il 27 luglio 1993, davanti al Pac di via Palestro a Milano, quasi in contemporanea con gli attentati alle chiese di Roma.
Quale il movente dell’omicidio? Il figlio di Lipari ne indica uno con determinazione. E argomenta: «Fino alla morte di mio padre, la raccolta dei rifiuti era pubblica, nel 1983 ha inizio invece l’era della Ecolsicula, da cui mio padre era stato avvicinato in precedenza, rifiutando ogni contatto. E dopo l’omicidio ha gestito i rifiuti praticamente fino a dieci anni fa». A porre fine all’appalto un blitz antimafia del 2012. Dalle indagini venne fuori proprio il ruolo di Nastasi nell’azienda dei rifiuti intestata al cugino Gaspare Spallino. «E sempre dopo la morte di mio padre, casualmente la Cassa Rurale e Artigiana di Castelvetrano va in mano ai socialisti e nel consiglio d'amministrazione entra proprio Spallino, dietro al quale c'era sempre Nastasi. Per questo dico che è loro la firma sull’agguato: dei Nastasi, dei Messina Denaro, della mafia di Castelvetrano.
Così come sono sicuro che è loro la volontà di uccidere il giornalista Mauro Rostagno, perché parlando del processo per l'omicidio di mio padre, rischiava di avvicinarsi alla verità. E anche nel caso Rostagno al delitto è seguito un depistaggio». Un’ipotesi, quest’ultima, rilanciata durante il processo per l’omicidio del giornalista assassinato il 26 settembre 1988. Rostagno era autore di alcuni speciali sull’omicidio Lipari, con tanto di riprese del boss Agate, recluso dietro le sbarre. In un’occasione il boss chiamò un cameraman di Rtc, la televisione in cui lavorava Rostagno: «Dicci a chiddu ca vaivva chi la finisce (Dì a quello con la barba di finirla)», fu l’avvertimento.
Racconta ancora Lipari: «Ad un anno dalla morte di mio padre, dei suoi amici avevano sistemato un busto in bronzo davanti alla lapide e nottetempo, nonostante ci fosse il custode, qualcuno entrò nel cimitero, aprì la porta della cappella e buttò il busto in mezzo al parco. Si disse che era opera di un pazzo, ma alcuni anni fa è successa una cosa analoga, nella tomba di Lorenzo Cimarosa, il metodo è lo stesso». Accadde nel 2017 e la tomba presa di mira allora fu quella del cugino acquisito di Matteo Messina Denaro, Lorenzo Cimarosa. Dopo l’arresto aveva iniziato collaborare alle indagini sul latitante e il suo cerchio magico. Lo sfregio alla memoria fu un’ulteriore ritorsione di Cosa nostra.
Il figlio di Lipari racconta di un percorso, che lo ha portato a «non avercela più con i presunti esecutori del delitto ma piuttosto con «quelli che dopo hanno cercato di “mascariare” mio padre. E molti lo hanno fatto a Castelvetrano, per paura di accreditare la pista mafiosa, anche per questo ho apprezzato tanto il messaggio del Presidente».
Nella lettera, Mattarella, nel quarantesimo anniversario dell’omicidio, esprime «la sua vicinanza nel ricordo di un uomo di grande spessore umano e politico che ha perso la vita per essersi opposto alla violenza mafiosa». Eppure, tutt'oggi, il 13 agosto è una data poco ricordata a Castelvetrano e commemorata soltanto dai familiari. Anche quest'anno. All'interno del parco archeologico di Selinunte c'è stato un importante festival di musica elettronica, dal nome “Musica &Legalità”, con un dj di fama internazionale e la presenza del capitano Ultimo, al secolo Sergio de Caprio, l’ufficiale che rivendica la cattura del superboss Salvatore Riina. Eppure, nessuno si è ricordato di Lipari. «C'è un'indifferenza violenta nei confronti della figura di mio padre, l'antimafia si è limitata a pensare che tutti i morti della Dc, in fondo, erano dei collusi uccisi per regolamento di conti, ignorando l'altra faccia della storia. Mi piacerebbe poter celebrare la sua figura con il Comune di Castelvetrano e confutare con i fatti l'assenza delle Istituzioni».
Totò Riina, i fratelli Buscemi e la Calcestruzzi di Raul Gardini. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 05 novembre 2022
Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore. Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa Nostra ai suoi massimi livelli.
Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
È in questo periodo che si costituisce ed opera un comitato d’affari in cui siedono Filippo Salamone, che si colloca sotto Pala protettrice dei corleonesi, stringendo legami con Buscemi Antonino e Bini Giovanni, il quale funge da interfaccia per i rapporti con i grandi gruppi imprenditoriali del Nord.
In particolare, Salamone curerà i rapporti con i referenti politici e gli amministratori e funzionari da coinvolgere nelle manipolazioni di lavori e collaudi e nell’approvazione di varianti. E questo comitato d’affari deciderà la spartizione degli appalti di maggior valore, in modo che una quota rilevante fosse assicurata alle grandi imprese sponsorizzate dai vertici mafiosi, le quali poi ricambiavano con l’assegnazione di lavori in subappalto e imprese mafiose o vicine alle famiglie mafiose, oltre al pagamento delle tangenti ai politici.
La citata relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini su mafia e appalti richiama un documento che sintetizza le conoscenze acquisite da magistrati inquirenti e investigatori, già nella prima metà del 1993, e quindi a pochi mesi dalle stragi siciliane e alla vigilia della nuova ondata di violenza stragista che avrebbe investito questa volte le città di Firenze, Roma e Milano, portando la guerra di Cosa nostra - e delle organizzazioni mafiose - allo Stato sul continente, sull’evoluzione del fenomeno delle collusioni politico-mafiose e affaristiche.
La richiesta di o.c.c. (poi accolta dal gip) avanzata il 17 maggio 1993 dalla Dda. Di Palermo nell’ambito del proc. n. 6280/92 N.C.- Dda. a carico di Riina Salvatore+24 per associazione mafiosa e altri reati connessi all’illecita gestione degli appalti vedeva coindagati, insieme a esponenti di spicco dei corleonesi (come Michelangelo La Barbera e i fratelli Brusca, Giovanni ed Emanuele, unitamente al padre Bernardo), imprenditori mafiosi o collusi locali e faccendieri vari (Buscemi Antonino, Martello Francesco, Salamone Filippo, Modesto Giuseppe, Zito Giuseppe, Lipari Giuseppe), ma anche esponenti della grande impresa italiana (come Claudio De Eccher e Vincenzo Lodigiani). E a proposito dell’atteggiamento omertoso e delle reticenze di tanti imprenditori che invece in analoghi e paralleli procedimenti istruiti dalle procure di altre regioni (e in particolare da quella di Milano) erano disponibili a collaborare con gli inquirenti, ivi si sottolinea che la peculiarità del fenomeno corruttivo in Sicilia era legato non solo alla presenza, ma anche al progressivo protagonismo di Cosa nostra.
L’organizzazione mafiosa, infatti, non si limitava più ad un’intermediazione parassitaria o ad un’attività di sistematica predazione, ma s’inseriva nel sistema, per dettare le proprie regole e condizioni ai vari comitati d’affari già operanti.
Sul versante delle indagini però la conseguenza era che “a differenza che in altre regioni d‘Italia, gli imprenditori attinti a vario titolo dalla presente richiesta hanno generalmente assunto un atteggiamento di ostinata omertà, chiudendosi a qualsiasi collaborazione con l’A.g. I pochi disponibili a fornire utili informazioni all‘A.g. hanno limitato il proprio contributo conoscitivo al versante della corruzione politico-anininistrativa”, tentando in pratica di oscurare la peculiarità con cui il fenomeno si atteggiava in Sicilia: esattamente ciò che Paolo Borsellino un anno prima preconizzava in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992 (v. infra).
LE DICHIARAZIONI DI BRUSCA E SIINO
Nel processo Borsellino Ter (e anche nel Borsellino Quater se ne richiamano e risultanze) viene tratteggiato un lucido affresco ricavato dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca e Angelo Siino - sostanzialmente confermate nel presente processo - dei contrasti generati inizialmente dalla inedita pretesa di Cosa nostra di inserirsi con un ruolo attivo nelle collaudate pratiche di spartizione degli appalti basato su accordi di cartello con la partecipazione di amministratori e politici; e poi degli assestamenti interni al sistema c.d. del tavolino, che aveva ormai inglobato la terza gamba, rappresentata dalle imprese mafiose; nonché del tentativo di Riina di imporre l’impresa Reale che avrebbe dovuto scalzare I’Impresem di Filippo Salamone anche per subentrargli nei rapporti con i referenti politici, non avendo affatto l’organizzazione mafiosa rinunciato a ad aprire nuovi e più fruttuosi canali con la politica, neppure nel pieno della guerra dichiarata allo stato; ed essendo la cogestione del sistema illecito degli appalti un terreno fertili per la ricerca di nuovi legami e alleanze:
«Il Brusca, pertanto, da prospettive diverse da quelle del Siino e quindi in modo autonomo, ha fornito un quadro sostanzialmente conforme dell’evoluzione dei rapporti creati da Cosa nostra con ambienti politici ed imprenditoriali per la gestione dei pubblici appalti.
Dopo una fase in cui l’organizzazione mafiosa si era occupata solo della riscossione delle tangenti pagate dagli imprenditori che si aggiudicavano gli appalti alle “famiglie” che controllavano il territorio in cui venivano realizzati i lavori, lasciando salvo qualche eccezione che fossero i politici ad individuare le imprese da favorire nella fase dell’assegnazione dell’appalto, il Siino era stato incaricato da lui di gestire per conto di Cosa nostra gli appalti indetti dall’Amministrazione provinciale di Palermo, di cui uno dei primi e più cospicui era stato quello riguardante la realizzazione del tratto stradale per San Mauro Castelverde.
Da allora il Siino si era occupato della gestione di tali appalti anche nell’ambito delle altre province, prendendo contatti con gli esponenti di vertice di Cosa nostra interessati in quei territori. Un momento cruciale era stato costituito dalla gestione degli appalti indetti dalla Sirap, di importo ben più consistente di quelli della Provincia e rispetto ai quali Cosa nostra era sino ad allora rimasta estranea alla fase dell’aggiudicazione. Allorché il Brusca aveva iniziato ad interessarsi ditali lavori tramite il Siino, si erano registrate delle resistenze da parte di alcuni politici, come il Presidente pro tempore della Regione Sicilia Rino Nicolosi. che sino ad allora aveva controllato tale gestione con l’intervento dell’imprenditore agrigentino Salamone Filippo, titolare dell’Impresem.
Per superare gli intralci burocratici con i quali si voleva impedire a Cosa nostra di gestire tali appalti, il Brusca era dovuto ricorrere al messaggio intimidatorio che era stato recepito, sicché si era raggiunto un accordo sulla base del quale il Salamone avrebbe continuato a gestire formalmente i rapporti con gli altri imprenditori mentre le decisioni sull’aggiudicazione dci lavori sarebbero state prese dal Siino per conto di Cosa nostra.
Da quel momento quell’associazione aveva anche esteso il proprio controllo sulla gestione degli appalti da quelli indetti dalla Provincia a tutti gli altri di ben maggiore importo indetti dalla Regione e da altri enti pubblici, lasciando al Salamone la cura dei rapporti con gli imprenditori ed i politici a livello regionale e nazionale ma riservando a sé il momento decisionale. In quello stesso tempo, intorno al 1988-89 era stata introdotta a carico degli imprenditori una quota tangentizia dello 0.80 per cento sull'importo dei lavori, che veniva prelevata dalla quota spettante ai politici e che veniva versata in una cassa centrale dell’organizzazione controllata dal Riina. Era però presto subentrata la volontà di creare dei rapporti diretti tra i gruppi imprenditoriali di livello nazionale ed alcuni esponenti politici nazionali, approfittando de controllo del sistema degli appalti per creare un’occasione di contatti in cui Cosa nostra avrebbe potuto dialogare da una posizione di forza.
Tale progetto prevedeva, quindi, l’accantonamento del Siino che con il consenso del Brusca venne relegato ad occuparsi degli appalti banditi dalla Provincia, solitamente di importo limitato e per i quali, quindi, non vi era interesse né degli imprenditori nè dei politici nazionali. Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a. del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore, dal quale aveva rilevato come prestanome l’impresa di calcestruzzi per sottrarla ai procedimenti di sequestro e confisca in corso a carico dei fratelli Buscemi nell’ambito delle misure di prevenzione a carattere patrimoniale.
Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa nostra ai suoi massimi livelli. Intorno al 1991, infine, il Riina aveva detto al Brusca di considerare l’impresa di costruzioni Reale come una sua impresa, cosa che all’inizio lo aveva sorpreso perché il Riina non aveva mai voluto interessarsi direttamente di imprese ed anzi era ironico nei confronti di quegli “uomini d’onore” che lo facevano, ma aveva poi compreso che tramite la Reale il Riina voleva creare un “tavolo rotondo” di trattativa con i politici. La predetta impresa, che era stata in precedenza sull’orlo del fallimento, era stata salvata ed era adesso controllata da Catalano Agostino e Agostino “Benni” persone formalmente incensurate ma contigue alla loro organizzazione.
Tale impresa avrebbe dovuto sostituire I’Impresem di Salamone nel ruolo di cerniera con i gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi anche in associazione con loro gli appalti di maggiore importo e tale progetto era stato coltivato sino a quando nel 1997, a seguito della sua collaborazione, erano stati tratti in arresto il D’Agostino ed il Catalano nell’ambito di una nuova inchiesta su mafia ed appalti.
Il Brusca ha anche spiegato che da parte di Cosa nostra si era seguita con attenzione l’inchiesta del Ros che aveva dato luogo all’informativa del 1991 e che essi erano riusciti a venire in possesso di una copia della medesima, constatando che non vi erano coinvolti i personaggi di maggiore rilievo e che non si era approdati alla conoscenza degli effettivi livelli di interessi messi in gioco sicché, mancando un pericolo immediato, si era deciso di rinviare un intervento di Cosa nostra alla fase del dibattimento per aggiustare il processo.
Anche il Siino oltre a riferire sull’impresa Reale quanto già ricordato nella parte prima della motivazione allorché si è trattato della sua collaborazione, ha chiarito che la quota di quell’impresa intestata a D’Agostino ‘Benni” era in realtà di Buscemi Antonino e che vi erano altre quote del Catalano e dell’ingegnere Bini controllate da Cosa nostra. Ha inoltre confermato di aver avuto alcune pagine dell’informativa del Ros già nel febbraio del 1991, consegnategli dal maresciallo Lombardo, e che dopo una ventina di giorni l’Onorevole Lima gli aveva messo a disposizione l’intero rapporto, consentendogli di constatare che a lui era stato attribuito anche il ruolo del Salamone.
Già allora, parlandone con Lima, Brusca Giovanni e Lipari aveva saputo che il Buscemi non aveva nulla da temere dall’inchiesta, e, infatti, era poi stato arrestato insieme al Siino un geometra Buscemi che nulla aveva a che vedere con loro. Dalle dichiarazioni del Brusca e del Siino risulta, quindi, confermato l’interesse strategico che rivestiva per Cosa nostra la gestione degli appalti pubblici e la particolare attenzione con cui essa seguiva le inchieste giudiziarie condotte in tale settore, inchieste di cui essa veniva a conoscenza prima del tempo debito, sicché poteva modulare i suoi interventi, a seconda delle necessità, ancor prima che fossero emessi i provvedimenti giudiziari.
Occorre poi ricordare che l’organizzazione mafiosa in esame era a conoscenza del fatto che Falcone si interessava a tale settore e che aveva compreso il fondamentale passaggio del sodalizio criminale da un ruolo meramente parassitario, di riscossione delle tangenti, ad un ruolo attivo di compartecipazione nelle imprese che si aggiudicavano gli appalti anche in associazione con l’imprenditoria nazionale». SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La strategia di Riina: guerra allo stato e nuove protezioni politiche. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 06 novembre 2022
La strategia stragista non era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi.
Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Il ruolo “storico” di Buscemi Antonino, quale imprenditore mafioso protagonista della penetrazione di Cosa nostra nei salotti buoni della finanza e dell’imprenditoria nazionale sarà messo a frioco nel procedimento - anche questo richiamato nella Relazione cit. su mafia e appalti — a carico dello stesso Buscemi Antonino+5 in relazione all’esistenza di un comitato d’affari sovraordinato a quello
facente capo ad Angelo Siino, e che sovrintendeva alla spartizione degli appalti di maggiore importo.
Ne facevano parte, insieme al Buscemi, anche Bini Giovanni, che curava gli interessi del Gruppo Ferruzzi e si interfacciava con gli ambienti dell’imprenditoria nazionale; Salamone Filippo, che curava invece i rapporti con gli imprenditori locali e i referenti politici ai quali veicolare le relative tangenti.
Il nome di Buscemi Antonino peraltro era stato segnalato come possibile socio del Gruppo Ferruzzi già nel primo rapporto del Ros su mafia e appalti. Ivi, il Buscemi veniva segnalato come imprenditore ramante, inserito nella Calcestruzzi Palermo, nella LA.SER.s.r.l. e nella FINSAVI s.r.l., società quest’ultima compartecipata al 50 per cento dalla Calcestruzzi di Ravenna, holding del Gruppo Ferruzzi.
Lo stesso nominativo era segnalato per una vicenda di partecipazioni incrociate e sospette compravendite di pacchetti azionari in un’informativa trasmessa per competenza dal sost. Proc. di Massa Carrara, dott. Lama, alla procura di Palermo nell’agosto del ‘91, in relazione a indagini sulla società I.M.E.G., riconducibile ai fratelli BUSCEMI. Ma il procedimento incardinato per 416 bis si concluderà con decreto di archiviazione, non essendo emersi indizi di reità per il reato di associazione mafiosa, al di là della certezza di cointeressenze societarie tra la Calcestruzzi del
Gruppo Ferruzzi, e quindi tra Raul Gardini e un imprenditore all’epoca “in odor di mafia”, come Buscemi Antonino, fatto salvo il sospetto di reati fiscali finalizzati alla creazione di provviste occulte da destinare al pagamento di tangenti.
La Calcestruzzi di Ravenna sarà peraltro indicata dal pentito Messina Leonardo, in uno dei primi interrogatori resi al dott. Borsellino, come società in qualche modo entrata in rapporti con Riina.
Quanto alla Reale costruzioni, sarebbe stato il passepartout voluto da Riina per entrare nel Gotha dell’imprenditoria nazionale, ne erano soci Reale Antonino, Benedetto D’Agostino e Agostino Catalano, quest’ultimo consuocero di Vito Ciancimino. Ma socio occulto era proprio Buscemi Antonino.
A dire di Brusca, uno dei personaggi più importanti era però proprio Agostino Catalano. Nelle intenzioni di Riina, in sostanza, la Reale costruzioni avrebbe dovuto scalzare la Impresem di Filippo Salamone nel ruolo di cerniera con i grandi gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi, anche mediante A.T.I., gli appalti di maggiore importo. Questo progetto in effetti non si arenò con la cattura di Riina, ma proseguì, evidentemente con altri registi, almeno fino al 1997, quando le rivelazioni di Brusca e poi la collaborazione formalizzata da Siino consentirono di squarciare il velo sul ruolo di imprenditori insospettabili come Benny D’Agostino e Benedetto Catalano.
Di un sorprendente esito delle indagini patrimoniali espletate in procedimenti apparentemente non collegati tra loro (come quelli aventi ad oggetto, rispettivamente, vicende di corruzione/concussione e traffico di droga) v’è traccia nella richiesta di archiviazione del procedimento mandanti bis e nella testimonianza del senatore Di Pietro e nelle sentenze di merito del processo sull’attentato all’Addaura.
LA PISTA ELVETICA
Si accertò infatti che erano stati accesi presso istituti di credito e banche elvetiche dei conti “di servizio” nella disponibilità di finanzieri e faccendieri su cui confluivano i flussi di denaro provenienti dal traffico di droga. Ad occuparsene, secondo il pentito Vito Lo Forte erano Gaetano Scotto e Vincenzo Galatolo, della famiglia mafiosa dell’Acquasanta. Gli inquirenti ipotizzarono che qui potesse risiedere il movente dell’attentato all’Addaura: colpire i magistrati svizzeri che cooperavano con Falcone nell’inchiesta su quel riciclaggio. Ma si adombrò pure l’ipotesi (v. pag. 236 della sentenza emessa il 27.03.2000 nel processo di primo grado per l’attentato all’Addaura e fg. 35-36 della richiesta 9 giugno 2003 e successivo decreto di archiviazione in data 19 settembre 2003 del procedimento istruito dalla procura distrettuale di Caltanissetta a carico dei presunti mandanti occulti delle stragi, c.d. “mandanti occulti bis”) che quei conti svizzeri non fossero soltanto terminali del riciclaggio di capitali mafiosi, ma servissero altresì a costituire fondi neri da destinare come provvista delle imprese interessate al pagamento delle tangenti ai politici.
È plausibile allora anche sotto questo aspetto che l’interesse manifestato da Paolo Borsellino per le indagini sull’intreccio mafia/appalti si saldasse alla sua determinazione a fare luce sulla vera causale della strage di Capaci, avendo egli ripreso l’intuizione che già era stata di Giovanni Falcone circa un possibile link tra i due movimenti di denaro illecito: riciclaggio di capitali sporchi e pagamento delle tangenti. In sostanza, chi gestiva quei conti, era al centro di un crocevia di traffici illeciti e quindi partecipava di entrambi. Ma ciò voleva dire che i capitali mafiosi, almeno in parte, servivano anche ad ungere i rapporti con la politica, anche se tale compito era affidato ad appositi faccendieri.
E il senatore Di Pietro ha confermato che Borsellino era convinto che esistesse un sistema nazionale di spartizione degli appalti, cui si uniformavano le cordate di imprenditori operanti nei vari territori e li si trovava anche la chiave della formazione delle tangenti (che era l’aspetto che più premeva all’allora sost. proc. Di Pietro approfondire: scoprire il luogo e il meccanismo di formazione delle provviste da destinare).
Peraltro, l’acquisita compartecipazione di Cosa nostra al sistema di spartizione degli appalti, ovvero un sistema di potere radicato in Sicilia ma con propaggini sul territorio nazionale (come sarebbe dimostrato dall’inchiesta della procura di Massa Carrara sulle cointeressenze societarie di un imprenditore che solo successivamente si accerterà essere organico a Cosa nostra come Buscemi Antonino e società del Gruppo Ferruzzi) capace di intercettare e redistribuire ingentissime somme di denaro pubblico, come i mille miliardi di lire per la realizzazione di insediamenti produttivi prevista dai finanziamenti in favore della Sirap, farebbe pensare alla ricucitura di un patto occulto di scellerata alleanza o di proficua coabitazione tra organizzazione mafiosa e mondo politico.
Ma ciò non è affatto in contraddizione con la guerra allo Stato, cioè con l’offensiva scatenata dai corleonesi contro le Istituzioni.
È chiaro infatti che la guerra dichiarata da Riina era diretta contro lo Stato e le sue leggi, mentre il sistema di potere incentrato sulla cogestione illecita degli appalti si fondava su una sotterranea intesa con pezzi infedeli dello Stato e delle istituzioni politiche ed economiche, e cioè politici corrotti, amministratori e funzionari infedeli, imprenditori collusi. Né la strategia stragista era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi. Da un lato, infatti, essa ne creava le premesse indispensabili, quali l’annientamento dei nemici giurati di Cosa nostra, che avrebbero impedito l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica; e l’eliminazione dei vecchi referenti che avevano voltato le spalle all’organizzazione mafiosa, che servisse anche da monito per quanti fossero stato risparmiati o per quanti si fossero prestati a ricucire rapporti con Cosa nostra.
Ma dall’altro - ed è questa l’indicazione che proviene, sia pure con accenti diversi, dalla maggior parte dei collaboratori di giustizia che hanno saputo riferirne: Brusca, Cancemi, Giuffé, Sinacori, Malvagna, Messina, Pulvirenti, Avola: cui si sono aggiunti in questo processo Palmeri Armando e alcuni collaboratori di giustizia provenienti dalle fila della ‘ndrangheta calabrese — essa doveva costituire, nelle intenzioni dei suoi artefici, lo strumento più efficace per propiziare l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Falcone, Borsellino e le indagini sui grandi appalti in odor di mafia. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 07 novembre 2022
Secondo i giudici d’appello: «Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dottoressa Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata...»
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Questo era dunque la reale dimensione e natura degli interessi in gioco, sullo sfondo delle due stragi siciliane, e di quella di via D’Amelio in particolare.
Ma l’obiezione più calzante e meritevole di attenzione che la sentenza qui impugnata muove alla tesi difensiva (secondo cui sarebbe stato il timore di un approfondimento dell’indagine mafia appalti a causare un’accelerazione dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio: ammesso che tale accelerazione vi sia mai stata) è che non vi sarebbe prova che Cosa nostra sapesse dell’interesse nutrito dal dott. Borsellino per quel tema d’indagine; e del suo proposito di riprendere e approfondire l’indagine a suo tempo curata dal Ros, mettendo a frutto le conoscenze acquisite e sviluppando le intuizioni e le indicazioni che gli erano state trasmesse dal collega e grande amico Falcone.
Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dott. Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata con la quale Falcone rammentava all’amico Paolo che adesso toccava a lui seguire gli sviluppi dell’indagine compendiata nel rapporto “mafia e appalti” del Ros
È anche vero che Borsellino ne aveva parlato ripetutamente, e non solo come tema di dibattito conviviale (come in occasione della cena romana, tre giorni prima che il magistrato venisse ucciso, di cui hanno parlato il dott. Natoli e l’on Vizzini), ma come programma di lavoro (con Antonio Di Pietro, con il quale, in occasione dei funerali di Falcone, si incontrarono ed ebbero uno scambio di idee sul tema, ripromettendosi di vedersi proprio per mettere a punto un piano di coordinamento delle rispettive indagini), e come oggetto di una futura delega d’indagine riservata della quale i carabinieri del Ros avrebbero dovuto riferire soltanto a lui. E decine e decine di volte, come ricorda l’allora procuratore Aggiunto Aliquò, avevano discusso in procura della rilevanza di questo tema d’indagine, ossia l’intreccio tra le attività delle cosche mafiose e il sistema di gestione illecita degli appalti, e dell’ipotesi che vi potesse essere un nesso con la causale della strage di Capaci (e poco importa che, a dire dello stesso Aliquò, non si fossero trovati elementi concreti che la suffragassero, poiché ciò che si ricava dalla sua testimonianza è che il dott. Borsellino fosse seriamente interessato a quell’ipotesi investigativa e a verificarne l’attendibilità tale ipotesi).
E come si vedrà in prosieguo, in occasione di una tesa riunione tra tutti i magistrati della procura della Repubblica di Palermo, tenutasi — per volere del procuratore Giammanco — il 14 luglio ‘92 per fare il punto sulle indagini più delicate (e per tentare di sopire le polemiche esplose a seguito di velenose campagne di stampa su presunti insabbiamenti: v. infra), il dott. Borsellino non è chiaro se già al corrente o ancora ignaro che il giorno prima il procuratore Giammanco aveva apposto il proprio visto alla richiesta di archiviazione per le posizioni che restavano da definire nell’ambito dell’originario procedimento n. 2789/90 N.C. a carico di “Siino Angelo+43” (quello oggetto del rapporto “mafia e appalti” esitato dal Ros Nel febbraio 1991) chiese chiarimenti e ottenne di aggiornare la discussione sulle determinazioni che l’Ufficio avrebbe dovuto adottare in merito, a riprova del suo concreto interesse per tale indagine.
Ma che il dott. Borsellino fosse in procinto di dedicarsi a questo tema d’indagine, partendo dal dossier mafia e appalti, e che vi annettesse una rilevanza strategica, nella convinzione che avrebbe potuto condurre fino ai santuari del potere mafioso e forse anche a fare luce sulla strage di Capaci, non erano certo notizie di pubblico dominio, né trapelavano in modo esplicito dalle pur frequenti esternazioni pubbliche alle quali lo stesso Borsellino si lasciò andare nei giorni e nelle settimane successive al 23 maggio ‘92.
E sarebbe un rimestare nel torbido se si indugiasse sui sospetti di collusione dell’allora maresciallo Canale— che certamente era a conoscenza dell’interesse di Borsellino per quel terna d’indagine così come del fatto che avesse voluto un incontro riservato con Mori e De Donno per ragioni inerenti a quell’indagine — dopo che lo stesso Canale è uscito assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, nonostante le infamanti propalazioni di Siino (che da lui, o anche da lui sarebbe stato informato delle indagini a suo carico e avrebbe avuto poi una copia dell’informativa del febbraio 1991, secondo quanto Brusca dice di avere saputo appreso dallo stesso Siino).
LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI
Dal versante interno a Cosa nostra, ovvero dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia più addentro agli arcana imperii dell’organizzazione mafiosa, sono venute indicazioni non sempre chiare e univoche.
Antonino Giuffrè, interrogato sulle ragioni dell’uccisione di Borsellino, dopo avere ribadito il discorso stragistico della resa dei conti contro i nemici giurati di Cosa nostra, sia nel dottore Falcone, che il dottore Borsellino, che risaliva sempre all’ormai nota riunione di Commissione del dicembre ‘91, ha aggiunto che nella decisione di uccidere Borsellino ha pesato moltissimo, assieme al discorso della sentenza del Maxi, anche questo discorso su mafia e appalti: «se il discorso del Maxi processo è un discorso dove troviamo principalmente dei mafiosi, nel contesto mafia e appalti troviamo altri discorsi di una cera gravità, cioè che vengono fuori quei legami appositamente extra dal inondo mafioso, con alti-e entità, quali imprenditori... Quindi è un discorso abbastanza destabilizzante perché se è vero come è vero che ho detto è una delle attività più importanti di Cosa nostra da un punto di vista economico, ma non solo, non solo, perché permette di creare degli agganci con personaggi che io ho sempre sottolineato questo discorso, importanti della vita italiana anche da un punto di vista politico, cioè, si sfruttano anche il contesto imprenditoriale per creare degli agganci in altri settori dello Stato».
Ed a specifica domanda (le risulta che in Cosa nostra si ebbe notizia che il dottore Borsellino forse stava diventando più pericoloso pure del dottore Falcone, specificamente in questo campo degli appalti?) ha confermato che in effetti «l‘unica persona che era in grado, o una delle poche, per meglio dire, che era in grado di leggere il capitolo sull‘uccisione del dottore Falcone, era il dottore Borsellino. Quindi (....) sono stati messi tutti e due candidati ad essere uccisi, appositamente già si sapeva che erano, come ho detto in precedenza, dei nemici giurati di Cosa nostra, e non vado oltre».
In altri termini, prima di Borsellino già Falcone era stato ucciso non soltanto perché nemico giurato di Cosa nostra ma anche per una ragione più recondita, legata al suo impegno nei portare avanti le indagini in materia di mafia e appalti. E di riflesso, anche Borsellino doveva essere ucciso non solo per vendetta, ma perché nessuno meglio di lui avrebbe saputo individuare la giusta chiave di lettura della strage di Capaci, che andava oltre le finalità dichiarata di vendicarsi.
Alla domanda se risultasse, all’interno di Cosa nostra, che il dott. Borsellino volesse fare indagini in terna di appalti, dopo la morte di Falcone, Giovanni Brusca, all’udienza del 12.12.2013, ha dato una risposta evasiva, limitandosi a dire che «era uno dei temi che più si dibatteva, però notizie così, generiche, dettagliatamente non ne conosco». Gli è stato contestato quanto aveva risposto alla stessa domanda fattagli all’udienza del 23.01.1999, nel proc. Borsellino ter; ma il collaborante, implicitamente confermando le pregresse dichiarazioni, non ha ritenuto di aggiungere nulla a chiarimento. Resta quindi confermato che, a suo dire, si seppe all’interno di Cosa nostra che il dott. Borsellino «dopo la morte del dott. Falcone voleva vedere sia perché era stato ucciso e voleva continuare quello che il dottore Falcone stava facendo (...) Tra Capaci e via D'Amelio credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottore Borsellino vuole sapere, vuole scoprire clv ha ucciso, perché ha ucciso il dottore Falcone e riuscire a capirlo attraverso indagini che stava facendo, su cosa stava lavorando».
[…] Da queste tormentate acrobazie verbali sembrerebbe evincersi che solo attraverso conoscenze acquisite nei vari processi successivi si comprese che le ragioni per cui furono uccisi Falcone e Borsellino, a parte il fine di vendetta, avevano a che vedere anche con gli appalti o comunque con le attività giudiziarie che i due magistrati uccisi stavano portando avanti. Ma sollecitato a chiarire le sue affermazioni, Brusca, in quella sede, puntualizzava che chi lo aveva interrogava nel precedente processo (il Borsellino ter) cercava una conferma all’ipotesi che Falcone e Borsellino fossero stati uccisi per l’attività d’indagine su mafia e appalti, «cosa che per me non esiste, può darsi magari per altri si».
In realtà, ciò che vuole dire Brusca non è dissimile da quanto ha dichiarato Giuffré: c’era una verità ufficiale, all’interno di Cosa nostra, secondo la quale Borsellino doveva morire, così come Falcone, perché entrambi nemici giurati dell’organizzazione mafiosa e artefici del mai processo che tanto danno aveva provocato per gli interessi mafiosi, a cominciare dalla demolizione del mito dell’impunità. Ma c’era anche una ragione non dichiarata e più profonda, che rimandava proprio al rilievo strategico che il settore degli appalti aveva per gli interessi mafiosi.
E posto che la strage di Capaci aveva come finalità recondita anche quella di bloccare le indagini sul sistema di spartizione degli appalti, o sviarle, il fatto stesso che Borsellino fosse assolutamente determinato a venire a capo non solo dell’identità dei responsabili della strage di Capaci, ma anche della sua vera causale (segno che riteneva che la finalità ritorsiva non fosse l’unica ragione), come andava dicendo pubblicamente, sicché Cosa nostra ne era a conoscenza senza bisogno di ricorrere a talpe o infiltrati, ne faceva un obbiettivo primario da colpire, non meno di Falcone.
E in tal senso al “Borsellino Ter lo stesso Brusca era stato molto chiaro: «tra Capaci e via d’Amelio, credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottor Borsellino vuole sapere... vuole sapere, vuole scoprire chi ha ucciso, perché ha ucciso il dottor... il dottor Giovanni Falcone e riuscire a capirlo attraverso le indagini che stava facendo, su che cosa stava lavorando (...) io con Salvatore Riina di questo qua non ne ho più parlato, io lo apprendo dal.. come un normale cittadino, come tutti gli altri, che lui vuole andare avanti, lo dice pubblicamente, lo grida, cioè lo esterna... dottor Di Matteo, non è che c’è bisogno che te lo devono venire a dire a confida... in confidenza».
E sempre in questo senso si può convenire che l’interesse che il dott. Borsellino nutriva per l’intreccio mafia e appalti come tema d’indagine da approfondire era motivo di allarme per Cosa nostra non perché ne fosse venuta direttamente a conoscenza, ma già per il fatto che egli intendesse scoprire la vera causale della strage di Capaci (non solo chi ha ucciso, ma perché ha ucciso),e intendeva comunque ripartire dalle ultime indagini che l’amico Giovanni aveva curato prima di trasferirsi al Ministero (tra cui proprio quella su mafia e appalti): e questo proposito era ormai notorio. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La riunione sul dossier “Mafia e Appalti” e i (presunti) contrasti fra i pm. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 27 novembre 2022
A memoria del dott. Gozzo, fu subito evidente un certo dissenso da parte del dott. Borsellino (“Ho visto questo contrasto più che latente, visibile”), che formulò dei rilievi specifici e in particolare lamentò che non fossero stati acquisiti alcuni atti che erano stati trasmessi o dovevano essere trasmessi dalla Procura di Marsala, e che non si rinvenivano all’interno del fascicolo
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
In ordine poi ai presunti contrasti che sarebbero insorti sulle risultanze dell’indagine mafia e appalti e sulle determinazioni da adottare, e che avrebbero opposto i magistrati titolari di quell’indagine — orientati ed anzi ormai determinati a chiedere l’archiviazione del proc. nr. 2789/90 N.R., o più esattamente di ciò che ne restava dopo i vari stralci effettuati — a Paolo Borsellino, che invece guardava con interesse e convinzione alla proficuità di ulteriori sviluppi di quell’indagine, va osservato quanto segue.
Agli elementi, in verità piuttosto scarni, desumibili dalle audizioni del dott. Luigi Patronaggio e della dott.ssa Antonella Consiglio dinanzi al Csm, rispettivamente, il 30 luglio (verbale n.° 45) e il 31luglio 1992, si sono aggiunte le ulteriori informazioni e delucidazioni fornite dagli altri magistrati che ne riferirono nel corso delle medesime audizioni (cfr. La Neve e Gozzo, verbale n.° 43, del 29 luglio; Pignatone, verbale n.° 44 del 30 luglio; Lo Forte e Sabbatino, verbale n.° 45 del 30 luglio).
Si è accertato dunque che con lettera datata 11 luglio 1992, il procuratore Giammanco aveva convocato per il 14 luglio una riunione aperta alla partecipazione di tutti i sostituti, e non solo quelli della Dda, con un preciso ordine del giorno che faceva ex se comprendere come non fosse un mero pretesto per scambiarsi i saluti in vista delle ormai prossime ferie estive.
Al contrario, la riunione era stata indetta per fare il punto sullo stato delle indagini e dei processi più delicati, mettendone al corrente anche i magistrati che non se ne erano occupati, ed anzi soprattutto i sostituti che non facevano parte della Dda (cfr. Gozzo). Si rompeva cosi una tradizione e una prassi più che consolidata, qual era quella di tenere sì riunioni periodiche per aggiornarsi reciprocamente sullo stato delle indagini e scambiarsi informazioni o discutere questioni controverse per giungere a soluzioni condivise, ma ristrette ai sostituti che facessero parte della Dda (Cfr. La Neve e Sabbatino). Nelle intenzioni del procuratore quell’inedita riunione plenaria del suo Ufficio doveva servire proprio a far ritrovare un clima di armonia e di fiducia insidiate, a partire dalla pubblicazione dei diari di Falcone (24 giugno ‘92) dall’ennesima campagna di stampa — e relativa scia di velenose polemiche — che rinnovava il sospetto o l’accusa che alla procura di Palermo si manipolassero o si insabbiassero le indagini più delicate, come quelle che potevano coinvolgere esponenti politici e loro presunte collusioni con ambienti della c.o., o non si andasse a fondo in quelle mirate alla cattura dei più pericolosi latitanti mafiosi.
E infatti, sullo stato di tali indagini e le relative risultanze erano stati incaricati di svolgere apposite relazioni “informative” i sostituti che se ne erano occupati e figuravano ancora come assegnatari dei relativi procedimenti:
I) i sostituti Teresi, Morvillo e De Francisci dovevano relazionare sulle indagini scaturite dal rinvenimento del c.d. libro mastro dei Madonia e sul racket delle estorsioni, indagini per le quali era stato avanzato il sospetto, tra l’altro, di una colpevole inerzia che avrebbe propiziato l’omicidio di Libero Grassi;
2) il sostituto Pignatone era chiamato a relazionare sulle indagini per la cattura di grossi latitanti (avuto riguardo alle notizie di stampa che parlavano di occasioni sfumate per la cattura di Riina;
3) i sostituti Lo Forte e Scarpinato avrebbero invece dovuto relazionare sull’indagine mafia e appalti.
Quest’ultima era giunta in effetti ad uno stadio conclusivo, poiché da un lato era alle viste l’inizio del dibattimento, fissato per ottobre, nell’ambito del procedimento stralcio a carico di Siino Angelo e altri; dall’altro era già pronta, ma non ancora depositata, la richiesta di archiviazione per le posizioni residue dell’originario procedimento nr. 2789/90 N.R. (Il dott. Pignatone ricorda che i colleghi Lo Forte e Scarpinato l’avessero già completata e depositata, e in effetti è così, poiché la richiesta è datata 13 luglio; ma prima della trasmissione al GIP doveva essere vistata dal procuratore Capo che appose la sua firma solo in data 22 luglio 1992). Nel corso della riunione effettivamente tenutasi alla data prefissata, sull’indagine mafia e appalti relazionò solo il dott. Lo Forte, essendo il dott. Scarpinato assente per sopravvenuti impedimenti familiari.
I RICORDI DEL PM GOZZO
A memoria del dott. Gozzo, fu subito evidente un certo dissenso da parte del dott. Borsellino (“Ho visto questo contrasto più che latente, visibile”), che formulò dei rilievi specifici e in particolare lamentò che non fossero stati acquisiti alcuni atti che erano stati trasmessi o dovevano essere trasmessi dalla procura di Marsala, e che non si rinvenivano all’interno del fascicolo (“Fece questa affermazione: come mai non fossero contenute questa carte all‘interno del processo si trattava di carte che erano state inviate.. alla procura di Marsala — e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla procura di Palermo — che era lo stesso processo però a Marsala. C‘erano degli sviluppi e quindi erano stati mandati a Palermo e lui si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea”).
Sosteneva poi che si profilavano nuovi sviluppi, in relazione alle dichiarazioni di un nuovo pentito, e chiese quindi di rinviare la discussione (in sostanza, per quanto sembra di capire, chiese di differire ogni determinazione finale in ordine a quel procedimento, nelle more di possibili nuove risultanze: e in effetti, la richiesta di archiviazione, già alla firma del procuratore Giammanco, rimase in stand by fino al 22 luglio).
Non è chiaro se il nuovo pentito di cui fece cenno il dott. Borsellino fosse proprio Gaspare Mutolo, oppure Leonardo Messina, al cui primo interrogatorio Borsellino aveva proceduto lo stesso giorno dell’interrogatorio di Mutolo, e cioè l’1 luglio 1992, e che in effetti avrebbe fatto ulteriori rivelazioni sul sistema degli appalti e relative ingerenze mafiose, ma anche sul coinvolgimento di politici e le connivenze che facevano prosperare quel sistema.
Ma anche la dott.ssa Sabbatino ricorda che, durante quella riunione, alla domanda che gli fece se fosse in procinto di andare in ferie, Paolo rispose che doveva prima risolvere il problema di un nuovo pentito. Non sapeva se avrebbe potuto andare a interrogarlo, e se sentirlo da solo o insieme ad altri colleghi: una situazione che richiama le incertezze e le ambasce che affliggevano il dott. Borsellino in relazione al caso Mutolo, posto che non era cambiata la formale assegnazione (ad altri) del relativo fascicolo, e che si manifestarono nel corso dell’interrogatorio di Mutolo effettivamente assunto due giorni dopo quella riunione dal dott. Borsellino, insieme ai colleghi Lo Forte e Natoli, come confermato da entrambi.
Ed entrambi confermano di avere sostenuto un’interpretazione della disposizione impartita da Giammanco di coordinarsi con Borsellino per le attività relative agli interrogatori di Mutolo assolutamente rassicurante quanto alla sua piena legittimazione a coordinare altresì le indagini che ne fossero scaturite.
La dott.ssa Consiglio, presente pure lei alla riunione del 14 luglio, ha dichiarato che a svolgere la relazione sull’indagine mafia e appalti furono i colleghi che se ne erano occupati (e fa i nomi del dott. Lo Forte e del dott. Pignatone), i quali illustrarono le ragioni che li avevano condotti a richiedere i provvedimenti cautelari che erano stati accolti.
Ha confermato altresì che il dott. Borsellino si era lamentato del fatto che non fossero state inserite talune carte nel fascicolo del procedimento a carico di Siino Angelo e altri. Ma non può essere più precisa perché non conosceva i fatti cui Paolo si riferiva; tuttavia, notò che l’unico a prendere parte attiva a quella discussione a cui noi eravamo solo dei meri spettatori era Paolo Borsellino.
Né poteva essere altrimenti perché si parlava di un’informativa di 800 pagine sconosciuta a quasi tutti loro (non a lei, però, avendo studiato quel rapporto per la sua connessione con i fatti oggetto di un grosso procedimento per associazione mafiosa, istruito al Tribunale di Termini Imerese, e avente ad oggetto varie vicende e reati di c.o. tra cui anche illeciti relativi ad appalti nei territori di Termini Imerese e Madonie: territori che rientravano appunto nella zona d’influenza di Angelo Siino e nella sua giurisdizione quale ministro dei LL.PP. di Cosa nostra).
Sulle osservazioni formulate dal dott. Borsellino in relazione alla mancata acquisizione al fascicolo del procedimento a carico di Siino e altri di alcuni atti, una spiegazione dettagliata è stata fornita dal dott. Pignatone nel corso della sua audizione.
Era accaduto che i carabinieri, prima ancora che venissero emessi i provvedimenti restrittivi a carico di Siino e altri, avevano informato i magistrati di Palermo titolari dell’indagine (all’epoca, se ne occupava anche il dott. Pignatone) che il dott. Borsellino, n.q. di procuratore a Marsala, aveva indagini in corso su presunti illeciti commessi nella gare di aggiudicazione di alcuni appalti di opere pubbliche da realizzare in Pantelleria, che rientrava nella giurisdizione del Tribunale e quindi della procura di Marsala.
Borsellino disse loro di rivolgersi al dott. Ingroia, che era stata assegnatario di quel fascicolo, per avere le carte che chiedevano. Ma il dott. Ingroia replicò che in quel momento quelle carte non potevano essere rese pubbliche perché - in quel di Marsala - stavano per emettere ordinanze di custodia cautelare in carcere nei riguardi tra gli altri anche del Sindaco di Pantelleria.
Alla fine, non ravvisando elementi specifici di connessione con l’ipotesi di reato di associazione mafiosa per cui si stava procedendo a carico del Siino, fu la procura di Palermo, ovvero i sostituti Lo Forte e Scarpinato, rimasti titolari del procedimento, a trasmettere gli atti in proprio possesso in ordine a quelle gare d’appalto (che erano costituiti essenzialmente da intercettazioni telefoniche tra soggetti cointeressati all’aggiudicazione di quelle gare) all’omologo Ufficio di Marsala, dove si procede(va) per il reato di associazione a delinquere semplice.
Di tale vicenda v’è traccia anche nell’audizione del dott. Borsellino dinanzi alla Commissione Antimafia (in visita agli uffici giudiziari di Trapani), nella seduta del 24 settembre 1991. È lo stesso Borsellino a richiamare l’inchiesta sfociata nell’arresto del Sindaco di Pantelleria e nello scioglimento del consiglio comunale, annoverandola come una delle indagini di maggiore successo condotte dal suo ufficio — e lo dice senza vanagloria personale, ascrivendone il merito ad un mio giovanissimo sostituto — in materia di reati amministrativi di notevole spessore che riguardano gli appalti o l’attribuzione di incarichi professionali; e sottolinea che al riguardo che «tutte queste non sono attività di mafia a sono attività attraverso le quali la mafia usufruisce di facili veicoli di profitto». Il dott. Pignatone ha precisato invero che Borsellino non formulò rilievi specifici, ma si limitò a chiedere chiarimenti; e poi prese atto della spiegazione fornita da Lo Forte.
UN “DIVERSO” METRO DI VALUTAZIONE
Tuttavia, avuto riguardo a quanto dichiarato dal dott. Gozzo sulla perplessità espressa dal dott. Borsellino per il fatto che non si fosse seguita la stessa linea, è lecito ipotizzare che persistesse il dissenso del procuratore Aggiunto per avere – i colleghi che si erano occupati dell’inchiesta – adottato un diverso metro di valutazione, ovvero una linea interpretativa e di qualificazione dei fatti ascrivibili ai vari soggetti indagati per le medesime vicende che rimandavano al contesto criminoso in cui era emerso il ruolo di Siino quale artefice degli accordi collusivi tra cordate di imprenditori, esponenti politici e cosche mafiose per la spartizione degli appalti.
E da qui la richiesta di aggiornare la discussione, ovvero di differire le determinazioni finali da adottare, prospettandosi la possibilità di ulteriori sviluppi in relazione alle rivelazioni di un nuovo pentito.
In effetti, tale lettura sembra trovare conforto nelle dichiarazioni del dott. Patronaggio.
Questi, infatti, rammenta che il dott. Borsellino, facendosi portavoce di lamentele da parte dei carabinieri che avevano condotto l’indagine mafia e appalti per l’esiguità dei risultati raggiunti sul piano giudiziario rispetto alle loro aspettative (in assemblea lo disse espressamente che i carabinieri si aspettavano da questa informativa dei risultati di maggiore respiro”), chiese spiegazioni in ordine al procedimento a carico di Siino e altri: «perché lui aveva percepito che vi erano delle lamentele da parte dei carabinieri: verosimilmente, e chiese delle spiegazioni che non erano tanto di carattere tecnico, cioè e era stata fatto o non era stata fatta una cosa, ma più che altro era il contesto generale del procedimento, chi c‘era e chi non c‘era, perché poi in buona sostanza la relazione sul processo Siino fu fatta, sinceramente, esclusivamente per dire che non vi erano nomi di politici rilevanti all‘interno del processo, o se vi erano nomi di politici di un certo peso, vi entravano solo per mero accidente».
In altri termini, le spiegazioni chieste da Borsellino non riguardavano singoli fatti o singoli atti istruttori ma l’impostazione generale dell’indagine e le sue direttrici. Il dott. Lo Forte, però, sempre a dire del dott. Patronaggio, si sforzò di spiegare che il vero nodo dell’indagine, semmai, concerneva il ruolo specifico degli imprenditori.
E anche le doglianze dei carabinieri traevano origine dall’aspettativa, andata delusa, di esiti più cospicui, non si riferivano tanto alle posizioni di uomini politici che entravano nell’indagine solo incidentalmente, bensì alle posizioni degli imprenditori coinvolti (o di taluno di loro): «In realtà no, non è solo nei confronti dei (politici), anche nei confronti degli imprenditori, perché lì il nodo era, il nodo era valutare a fondo la posizione degli imprenditori, e su questo punto peraltro il collega Lo Forte si dilungò spiegando il delicato meccanismo e la delicata posizione dell‘imprenditore in questo contesto, queste furono le spiegazioni date, chieste e date ecc.» (cfr. verbale n. 46, pag. 81).
Ciò posto, non v’è chi non veda che il “dissenso” del dott. Borsellino rispecchiava e denotava il convincimento da tempo maturato che l’indagine su mafia e appalti costituisse un filone investigativo “aureo” nel quadro dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata perché puntava - e poteva condurre - ai più inaccessibili santuari del potere mafioso che aveva il suo cuore pulsante nella creazione e nel consolidamento di legami sinergici con pezzi dell’imprenditoria e della politica, oltre a ricavare dalla partecipazione attiva al sistema di spartizione degli appalti un formidabile strumento di controllo dei flussi di ricchezza.
Tale intuizione è il connotato saliente, ed anche il principale merito ascrivibile all’ipotesi investigativa alla base del dossier mafia e appalti, che, come si legge testualmente nella “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia e appalti negli anni 1989 e seguenti”, «segnava un salto di qualità nelle conoscenze sino ad allora acquisite sui rapporti tra Cosa nostra e il mondo imprenditoriale. Ed infatti emergeva che l’associazione mafiosa non si limitava più a svolgere un ruolo di sfruttamento meramente parassitario delle attività economico-imprenditoriali, concretantesi nell’imposizione di tangenti, di subappalti, di assunzione di manodopera, ma mirava a realizzare un controllo integrale e un pesante condizionamento interno del modo imprenditoriale e del settore dei lavori pubblici in Sicilia, mediante complesse ed articolate metodologie che nel loro insieme costituivano l’espressione più sofisticata e moderna di una strategia di assoggettamento degli operatori economici al prepotere delle organizzazioni facenti capo a Cosa nostra».
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Le parole profetiche di Falcone sulla spartizione dei grandi lavori. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO Il Domani il 28 novembre 2022
«Io credo che, almeno per quanto riguarda l’organizzazione mafiosa, ci sia ormai un condizionamento dei pubblici appalti, che potrei definire a ciclo continuo; esso esiste sia all‘origine, ossia nel momento della scelta delle imprese e sia nella fase di esecuzione degli appalti medesimi. Quindi abbiamo un condizionamento a monte e un condizionamento a valle».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Questa intuizione era già stata fatta propria da Giovanni Falcone, che, nella relazione (oggetto di infinite citazioni, anche in questo processo e non sempre a proposito) svolta ad un convegno tenutosi al Castello Utvegio a Palermo nel marzo del 1991 — e quindi quando egli si era appena trasferito al ministero — richiamava le risultanze di recenti indagini per trarne la conferma che la portata dell’infiltrazione mafiosa nel tessuto economico ed in particolare nel settore dei pubblici appalti fosse «più grave molto più grave di quelle che appare all‘esterno. Perché siamo di fronte ad un meccanismo di condizionamento generico dei pubblici amministratori e dei pubblici poteri da parte delle imprese che, a ben guardare, appare identico sia nel mezzogiorno sia nel centro e sia nel settentrione d’Italia».
Ma «accanto ad un coinvolgimento generico delle imprese in attività illecite e ad un certo tipo di corruttela generica dei pubblici amministratori, abbiamo un condizionamento mafioso che si innesta e sfrutta questa attività criminale che, in quanto generica, potremmo chiamare ambientale (...) Io credo che, almeno per quanto riguarda l’organizzazione mafiosa, ci sia ormai un condizionamento dei pubblici appalti, che potrei definire a ciclo continuo; esso esiste sia all‘origine, ossia nel momento della scelta delle imprese (e questo a prescindere da qualsiasi sistema più meno sofisticato sul tipo e sui criteri di assegnazione degli appalti), e sia nella fase di esecuzione degli appalti medesimi.
Quindi abbiamo un condizionamento a monte e un condizionamento a valle. Un condizionamento mafioso nella fase dell‘individuazione dei concorrenti che vinceranno le gare, ed un condizionamento in tutta la complessa attività che concreta la realizzazione degli appalti in questione. Ed abbiamo soprattutto, e questo nel futuro verrà fuori chiaramente, una indistinzione fra imprese meridionali e imprese in altre zone d’Italia, per quanto attiene il loro condizionamento e il loro inserimento in certe tematiche di schietta matrice mafiosa»; poiché, aggiungeva «è illusorio pensare che le imprese appartenenti ad altre realtà socio-economiche, nel momento in cui partecipano a gare che dovranno essere realizzate in determinate zone del Mezzogiorno d‘Italia, rimangano immuni da un certo tipo di collegamenti. Sia che lo vogliano, sia che non lo vogliano. Sono state acquisite, tramite intercettazioni telefoniche, chiarissime indicazioni di ben precise scelte operative dell‘organizzazione mafiosa, a cui tutti devono sottostare e non vogliono subire conseguenze gravissime, a meno che non si vogliano autoescludere dal mercato».
L’INTUIZIONE DI FALCONE
Nella relazione si addita ancora la vicenda dell’ex sindaco di Baucina Giaccone — le cui rivelazioni avrebbero impresso un impulso significativo al primo troncone dell’indagine mafia e appalti — come emblematica di un modus operandi incentrato su collusioni politico-mafiose affaristiche, se era vero quanto lo stesso Giaccone affermava, e cioè «che le opere vengono finanziate soltanto dopo che si è trovata l‘impresa che è gradita a questo o quel partito, e soltanto dopo che in sede locale il capo mafia abbia dato l’assenso».
E in alcuni passaggi della relazione, si adombra un aspetto particolarmente inquietante disvelato dalle ultime indagini su episodi di infiltrazione mafiosa che denotavano come le imprese si prestassero anche volontariamente ad un sistema di manipolazione delle gare sotto il controllo dell’organizzazione mafiosa, ricavandone cospicui vantaggi, di tal che «molto spesso non è necessaria un‘azione di rappresaglia, forte e violenta; questo avviene soltanto all’ultimo e nei confronti di coloro che veramente non vogliono capire», ma «Ci sono tali e tanti di quei passaggi intermedi, per cui qualsiasi impresa finisce per comprendere che, volente o nolente, è questo il sistema cui deve sottostare e non ci sono possibilità di uscirne fuori».
Starebbe proprio qui — e il giudice Falcone ne era ben consapevole, come può evincersi dai passaggi richiamati della nota relazione svolta al Castello Utvegio — il carattere addirittura eversivo che l’informativa del R.O.S su mafia e appalti depositata alla procura di Palermo il 20 febbraio 1991 avrebbe rivestito, secondo l’interpretazione autentica che ne ha dato il colonnello De Donno, che ne era stato estensore, deponendo al processo a carico del generale Mori e del colonnello Obinu: «le imprese che partecipavano a questo meccanismo noti erano, e qui era un po' il carattere, tra virgolette, eversivo della nostra indagine, non erano soltanto vittime, erano attori volontari di questo meccanismo, cioè l‘impresa che veniva dal nord non soggiaceva al potere intimidatorio di Cosa nostra o perlomeno, iniziava così, con questo vincolo di soggezione il rapporto con Cosa nostra, ma poi il vincolo si trasformava in una vera e propria collaborazione perché attraverso l‘intermediazione di Cosa nostra, di Siino e di altri personaggi, ne ottenevano poi una serie di vantaggi, in termini di riconoscimento di opere, cioè di aumenti di valore dell'opera stessa, per cui, alla fine, a conti fatti, una parte consistente di questi guadagni andavano all’impresa nazionale».
L’AUDIZIONE IN COMMISSIONE ANTIMAFIA
Del resto, già diversi mesi prima, e precisamente nel giugno 1990 — e la data è significativa perché coincide con quella di alcune delle informative che davano conto delle risultanze dell’attività di intercettazione telefonica in corso nell’ambito dell’indagine mafia e appalti e dei suoi possibili sviluppi – il giudice Falcone, sentito dalla commissione antimafia (XI Legislatura) presieduta dal senatore Chiaromonte, nell’additare il problema degli appalti pubblici come un punto cruciale nella strategia antimafia, sosteneva che le indagini — e le prove — che, una dopo l’altra, stavano venendo a compimento e a maturazione confermavano l’ipotesi di un sistema mafioso che, per quanto concerne i grandi appalti, e, nei piccoli centri, per tutti gli appalti, ne gestisce in pieno l’esecuzione.
E in particolare, proprio sulla base dei risultati cui erano approdate le indagini svolte da almeno un biennio dai carabinieri con encomiabile professionalità, si era consolidata l’ipotesi dell’esistenza di ima centrale unica di natura mafiosa che dirige e l’assegnazione degli appalti e soprattutto l’esecuzione degli appalti medesimi, con inevitabili coinvolgimenti delle amministrazioni locali sia a livello di strutture burocratiche sia a livello di alcuni amministratori.
Ebbene, l’interesse di Paolo Borsellino ad approfondire questo filone d’indagine — individuato, dopo l’indagine su Gladio, come uno di quelli cui in precedenza Giovanni Falcone, nel suo ultimo periodo di servizio alla procura di Palermo aveva prestato maggiore attenzione — è stato pienamente confermato dalle testimonianze di Liliana Ferraro e del senatore Di Pietro, oltre a trovare un inedito riscontro nei verbali delle audizioni dei magistrati della procura della repubblica di Palermo dinanzi al Csm che sono state acquisite nel presente giudizio d’appello (senza dimenticare la conferma che è venuta dalle dichiarazioni del Tenente Canale, con tutte le cautele del caso quanto ad affidabilità della fonte e limiti di utilizzabilità ditali dichiarazioni, giacché nel corso del giudizio di primo grado si è avvalso della facoltà di non rispondere).
La Ferraro, in particolare, fu testimone della raccomandazione rivolta da Falcone a Borsellino di seguire con attenzione gli sviluppi dell’indagine compendiata nel voluminoso dossier mafia e appalti (quasi un passaggio dei testimone tra lo stesso Falcone, che non poteva occuparsene direttamente perché ormai al ministero, e il dott. Borsellino, che invece si era deciso a chiedere il trasferimento alla procura di Palermo) avendo assistito personalmente alla telefonata, databile ad agosto 1991, con la quale Falcone informava l’amico Paolo che aveva già pronta la Nota — che sarebbe stata poi firmata dal ministro Martelli — di restituzione al mittente dell’informativa mafia e appalti, che era stata inopinatamente trasmessa dal procuratore Giammanco al ministro della Giustizia.
E anche in occasione dell’incontro riservato all’aeroporto di Fiumicino del 28 giugno 1992, previamente concordato per telefono avendo necessità di parlarle di una serie di questioni della massima urgenza e delicatezza, il dott. Borsellino le chiese ulteriori notizie e spiegazioni sulle circostanze di quell’insolita trasmissione, e sul percorso seguito prima di giungere al tavolo del ministro (o meglio, alla segreteria della Direzione Generale Affari Penali): segno comunque dell’interesse per quell’indagine e per il primo rapporto giudiziario che ne compendiava le risultanze emerse a carico di numerosi soggetti indiziati di associazione mafiosa finalizzata al controllo degli appalti e connessi reati. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Gli annunci clamorosi e un dossier di “scarsa consistenza probatoria”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 29 novembre 2022
il dott. Borsellino non disponeva di informazioni più aggiornate ed elementi che lo mettessero in condizione di controbattere alle argomentazioni dei colleghi che invece si erano occupati specificamente di quell’indagine e ne avevano seguito gli ulteriori sviluppi. Mentre le conoscenze del dott. Borsellino erano sostanzialmente datate e limitate alla lettura dell’informativa originaria, quando era ancora procuratore a Marsala.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Tornando all’interesse di Paolo Borsellino per l’esigenza di riprendere e approfondire l’indagine mafia e appalti, ben si comprendono le sue perplessità a fronte dell’opzione di chiudere con una richiesta di archiviazione, a parte le posizioni degli imputati già rinviati a giudizio, le indagini del più importante procedimento istruito in quel momento storico dalla procura di Palermo nell’ambito di quello specifico filone investigativo.
Ora, non v’è dubbio che la richiesta di opportuni chiarimenti e persino quella di aggiornare la discussione e il confronto sulle determinazioni da adottare per il proc. nr. 2769/90 RN.R. — quando già la richiesta di archiviazione era alla firma del procuratore — risente delle suggestioni derivanti sia dal menzionato passaggio di consegne circa l’attenzione con cui seguire i successivi sviluppi di quell’indagine, giusta raccomandazione di Falcone; sia dalle doglianze che Borsellino aveva personalmente raccolto nei suoi contatti con i carabinieri del Ros E che questi ultimi, per un impegno investigativo che durava da circa tre anni (al biennio ricordato da Falcone dovevano aggiungersi gli ulteriori mesi d’indagine trascorsi fino al deposito dell’informativa del 16 febbraio 1991, nonché le attività pRoseguite su delega della procura ed ancora in corso a luglio ‘92), si aspettassero esiti giudiziari più cospicui di quelli conseguiti (come ribadito da De Donno al processo Mori/Obinu), il dott. Borsellino lo disse espressamente nell’assemblea plenaria tenutasi presso gli Uffici della procura della Repubblica di Palermo il 14 luglio 1992, come ben rammenta il dott. Patronaggio.
Lo ha confermato anche il dott. Lo Forte nel corso della sua audizione al Csm (v. verbale n.°45, pagg. 44-45) quando rammenta che all’atto e all’epoca del deposito dell’informativa dei Carabinieri su mafia e appalti «vi era una certa aspettativa basata su colloqui informali con gli ufficiali dei carabinieri che procedevano nelle indagini che forse era un po' superiore a quello che poi è apparso l'effettivo contenuto probatorio del rapporto».
SCARSA CONSISTENZA PROBATORIA DEL DOSSIER
Ma proprio sulla scarsa consistenza probatoria del dossier mafia e appalti convergono, sia pure con accenti diversi, le valutazioni di tutti i magistrati della procura di Palermo che all’epoca ne ebbero diretta cognizione, almeno per quanto può evincersi dalle testimonianze rese nel corso delle audizioni dinanzi al Csm alla fine di luglio ‘92.
Non mancò chi si lasciò andare ad apprezzamenti fortemente critici e quasi sprezzanti, parlando di minestra risciacquata (De Francisci). Altri, con maggiore garbo e misura hanno dichiarato in sostanza che l’informativa originaria in sé aveva una consistenza modesta sul piano probatorio, ma era certamente fonte di preziosi spunti investigativi, da sviluppare (Consiglio).
Su questa lunghezza d’onda si collocano anche le valutazioni che furono espresse dal dott. Lo Forte e dal dott. Pignatone.
Il primo rammenta che, sebbene il rapporto mafia e appalti avesse rivelato una consistenza probatoria inferiore alle attese (anche perché era costituito per il 90 per cento da intercettazioni telefoniche), tuttavia, «grazie alla combinazione di queste intercettazioni telefoniche con alcuni dati processuali, che noi abbiamo ricavato da altri processi che avevamo in corso, si è potuti arrivare ad una motivata richiesta di ordinanza di custodia cautelare che è stata accolta». Per i successivi sviluppi dell’indagine, e il loro esito giudiziario, la più efficace replica - e comunque l’unica che il dott. Lo Forte riteneva di poter opporre – alle polemiche di quei giorni era contenuta nella ponderosa richiesta di archiviazione datata 13 luglio ‘92, cui lo stesso Lo Forte si riportava.
Il dott. Pignatone (cfr. verbale n.° 44 del 30.07.1992) pone altresì l’accento sulla complessità delle questioni legate all’utilizzabilità processuale del materiale raccolto, in quanto costituito da una mole cospicua di intercettazioni telefoniche — ciò che già rendeva piuttosto complicato ricavarne un’efficace e coerente trama probatoria nell’ambito di un procedimento a carico di più di 50 soggetti e per una congerie di episodi avvenuti in varie zone del territorio siciliano — da cui emergevano sovente profili di rilevanza penale, ma per fatti riconducibili a ipotesi di reato (corruzione/concussione, abuso d’ufficio, turbativa d’asta o associazione a delinquere semplice) diverse da quella di associazione mafiosa per cui si procedeva a carico sia degli originari indagati (Siino Angelo e altri) che degli indagati le cui posizioni dovevano essere ancora vagliate nell’ambito dell’originario procedimento 2769/90 (ora denominato De Eccher+20).
E per quei titoli di reato non sarebbe stato possibile disporre intercettazioni, per cui occorreva verificare l’eventuale connessione di ogni singolo episodio con l’ipotesi di associazione mafiosa (anzi, questo non sarebbe bastato ancora, poiché le intercettazioni potevano essere disposte solo per i reati per cui era previsto l’arresto obbligatorio in fragranza e, per la disciplina allora vigente, non vi rientrava il reato di semplice partecipazione ad associazione mafiosa, ma occorreva individuare un ruolo apicale).
Ma il vero problema che si poneva all’ordine del giorno dell’assemblea plenaria del 14 luglio non era quello di credere o no alle potenzialità strategiche di un filone investigativo come quello inaugurato con l’indagine mafia e appalti che era stata svolta dai carabinieri del Ros, e che prometteva di risalire fino ai santuari del potere mafioso.
Più semplicemente, occorreva stabilire, con riferimento alle posizioni specifiche che residuavano nell’ambito dell’originario procedimento n. 2769/90 R.G.N.R., dopo la serie nutrita di stralci effettuati, se vi fossero elementi sufficienti e idonei a supportare richieste conclusive diverse dall’archiviazione; o, quanto meno, se vi fossero presupposti e materia per ulteriori approfondimenti istruttori.
Fermo restando che era con le posizioni ancora da definire, e con il materiale probatorio raccolto a carico di ciascun indagato che occorreva confrontarsi, e non già con la prospettiva teorica della proficuità di ulteriori indagini sul tema delle connessioni tra mafia e appalti. E senza dimenticare che un filone d’indagine, quella relativo agli appalti Sirap, era ancora in corso di svolgimento, e proprio a cura degli stessi carabinieri del Ros che dovevano ancora evadere la corposa delega d’indagine loro conferita nel luglio del ‘91: ciò che sarebbe poi avvenuto con la nuova informativa depositata il 5 settembre 1992.
BORSELLINO NON INFORMATO DELLE “NOVITÀ”
Ed allora è chiaro che, al netto delle suggestioni e dei convincimenti di cui s’è detto, il dott. Borsellino, nel merito di vicende e fatti di cui poteva avere avuto sommaria cognizione attraverso la lettura dell’informativa originaria quando ancora era procuratore a Marsala, non disponeva di informazioni più aggiornate ed elementi che lo mettessero in condizione di controbattere alle argomentazioni dei colleghi che invece si erano occupati specificamente di quell’indagine e ne avevano seguito gli ulteriori sviluppi.
Mentre le conoscenze del dott. Borsellino erano sostanzialmente datate e limitate alla lettura dell’informativa originaria, di cui aveva avuto cognizioni per ragioni del suo Ufficio poco più di un anno prima, quando era ancora procuratore a Marsala.
Lo si evince, del resto, dal fatto stesso che egli chiese — e ottenne, stando al ricordo del dott. Patronaggio — un rinvio o un aggiornamento della discussione sul tema, ovvero sulla decisione da prendere, per quanto di competenza dell’organo requirente, circa la sorte del procedimento pendente, e con riferimento alle posizione residue, motivato dall’auspicata eventualità che dalle rivelazioni di un nuovo pentito, che doveva ancora essere sentito in quei giorni, emergessero elementi tali da giustificare ulteriori approfondimenti investigativi.
Piuttosto, merita di essere segnalato un dato che deve essere sfuggito al gip di Caltanissetta che nella cit. ordinanza del 15 marzo 2000. Ivi, si ipotizza che ad indurre il dott. Borsellino a chiedere a Mori e De Donno un incontro riservato alla caserma Carini, per sondarne la disponibilità ad approfondire l‘indagine mafia e appalti (proprio nello stesso periodo in cui i titolari del procedimento stavano attendendo alla stesura della richiesta di archiviazione completata il 13 luglio 1992 e depositata il 22 luglio) sia stata una non condivisione delle scelte operate dal sito Ufficio.
Ma se così fu, «perché non rappresentare le sue riserve e perplessità nell’ambito del normale rapporto dialettico tra collegi, e considerata la sua qualità di procuratore Aggiunto, nel corso di quella discussione svoltasi all‘interno del suo ufficio tra l‘8 e il 10 luglio (...)? Perché non rappresentare in quella sede l’opportunità di un approfondimento delle indagini e preferire invece una personale iniziativa nei termini sopra riferiti che lasciavano trasparire una sorta di diffidenza nei confronti dell’operato dei suoi colleghi, proprio quando, successivamente alla strage di Capaci, erano insorti, all’interno di quella procura, contrasti e frizioni particolarmente gravi in ordine alla gestione dell’ufficio, e dei procedimenti più delicati da rendere necessaria quella riunione, alla quale si è fatto prima cenno, dagli intenti chiarificatori? » (cfr. pag. 200-201).
Ebbene, le audizioni dei magistrati della procura di Palermo dinanzi al Csm alla fine di luglio ‘92, hanno consentito di chiarire quale fosse il clima di quei giorni e le vere ragioni degli assenti contrasti e frizioni interne alla procura di Palermo.
La riunione convocata con intenti chiarificatori, in particolare, era stata indetta dal capo dell’ufficio per fugare i dubbi il disorientamento e il disagio che potevano avere colto la gran parte dei sostituti, del tutto ignari di contrasti e frizioni, a seguito delle polemiche di stampa seguite alla pubblicazione dei c.d. “diari di Falcone”, e dei sospetti rilanciati (sulla stampa) circa presunte colpevoli inerzie o peggio intenti di insabbiamento delle inchieste più delicate.
LA CONTROVERSA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE
Ma soprattutto, la posizione critica di Borsellino in ordine all’impostazione oltre che agli esiti dell’indagine mafia e appalti emerse con chiarezza nel corso di quell’assemblea (peraltro tenutasi il 14 luglio, e non il 10: ossia dopo che era stata completata e posta all’attenzione del procuratore Giammanco la controversa richiesta di archiviazione).
Egli non fece mistero di avere raccolto e fatto proprie le doglianze dei carabinieri sulla modestia dei risultati conseguiti, che invece, all’inizio dell’indagine, e per il materiale raccolto e allegato o trasfuso nella coi-posa informativa depositata il 20 febbraio 1991 promettevano di essere assai più cospicui.
Ed ancora, il dott. Borsellino non mancò di esprimere perplessità sull’impostazione generale e sull’indirizzo impresso dalla procura di Palermo (cfr. Patronaggio e Gozzo), e platealmente formulò l’auspicio che dalle rivelazioni di un nuovo pentito potessero venire elementi utili per ulteriori e più fecondi sviluppi (cfr. ancora Gozzo e Sabbatino).
Insomma, tenne un atteggiamento che non tradiva affatto sfiducia e diffidenza nei confronti dell’operato dei colleghi titolari del procedimento, ma, al contrario denotava la volontà di aprire un confronto sincero sul tema in discussione, come aperte e trasparenti furono le critiche e le perplessità e le richieste di chiarimenti esternate in quella sede.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
I ricordi di Di Pietro sull’intreccio tra Tangentopoli e Cosa Nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 04 novembre 2022
Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Il senatore Di Pietro, sulla cui deposizione si tornerà in prosieguo per gli spunti che ha offerto alla riflessione sui temi di questo processo, ha confermato che le indagini della procura di Milano su vicende di corruttela politico-affaristica che investivano alcuni dei più grossi gruppi imprenditoriali nazionali portavano (anche) in Sicilia. Così come la ricostruzione di flussi di denaro provento di tangenti a politici, conduceva a conti di comodo (prevalentemente in banche svizzere) da cui poi partivano ulteriori flussi verso altri conti nella disponibilità di faccendieri e personaggi legati ad ambienti mafiosi.
Ma non appena imprenditori e funzionari d’impresa che facevano la fila davanti alla sua stanza in procura, mostrandosi disponibili a collaborare alle inchieste, venivano invitati a parlare degli appalti in Sicilia, ecco che si trinceravano dietro un assoluto silenzio. E questo muro di omertosa reticenza s’implementò sensibilmente dopo Capaci e ancor più dopo via D’Amelio.
Alla fine, il pool di Mani Pulite riuscì, grazie alla mediazione del procuratore di Milano Borrelli e del nuovo procuratore di Palermo Caselli (ma siamo già nella prima metà del 1993), a coordinare le proprie indagini con quelle istruite dall’omologo ufficio palermitano sulla base di un riparto di competenze che valse a sciogliere il grumo di reticenze degli imprenditori del nord che avevano fatto affari in Sicilia, spartendosi gli appalti con cordate di imprese locali più o meno vicine o contigue a Cosa nostra e con la mediazione di faccendieri o imprenditori collusi (e che ottennero in pratica di continuare ad essere processati a Milano, per connessione con i reati di ordinaria corruzione/concussione ivi commessi; mentre i loro correi per gli affari in Sicilia venivano processati per il reato di cui all’an. 416 bis).
Insomma, nel sistema verticistico e unitario di gestione illecita degli appalti in Sicilia era risultato a vario titolo coinvolto il Gotha dell’imprenditoria nazionale; e Cosa nostra era proiettata a giocare un ruolo preminente in questo sistema: cosa che in effetti avvenne negli anni successivi, come i processi del filone mafia e appalti avrebbero poi dimostrato.
Ebbene, di queste problematiche Antonio Di Pietro aveva parlato con il dott. Borsellino — che si onorava della sua amicizia, come lo stesso magistrato ucciso aveva dichiarato in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992: v. infra - e insieme avevano deciso di rivedersi per definire un programma di lavoro comune che assicurasse un proficuo coordinamento di indagini che apparivano sempre più strettamente collegate, come accertato già nel proc. Nr. 29/97 R.G.C.Ass. “Agate Mariano+26”: «Il senatore Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione. Ha altresì riferito il teste che mentre a Milano e nella maggior parte del territorio nazionale si stava registrando in misura massiccia il fenomeno della collaborazione con la giustizia di molti degli imprenditori che erano rimasti coinvolti nel circuito tangentizio, ciò non si era verificato in Sicilia e Borsellino spiegava tale diversità con la peculiarità del circuito siciliano, in cui l’accordo non si basava solo due poli, quello politico e quello imprenditoriale, ma era tripolare, in quanto Cosa nostra interveniva direttamente per gestire ed assicurare il funzionamento del meccanismo e con la sua forza di intimidazione determinava così l’omertà di quegli stessi imprenditori che non avevano, invece, remore a denunciare l’esistenza di quel sistema in relazione agli appalti loro assegnati nel resto d’Italia. Intenzione di Borsellino e Di Pietro era quella di sviluppare di comune intesa delle modalità investigative fondate anche sulle conoscenze già acquisite, per ottenere anche in Sicilia i risultati conseguiti altrove. E Borsellino stava già traducendo in atto questo progetto, come dimostrano le dichiarazioni rese dai predetti testi Mori e De Donno, che hanno riferito di un incontro da loro avuto con Borsellino il 25 giugno 1992 presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo».
IL SISTEMA DEGLI APPALTI E LA MAFIA
In effetti, il peculiare ruolo di Cosa nostra nella gestione illecita degli appalti in Sicilia sarà messo a fuoco quando le risultanze dell’originario proc. nr. 2789/90 N.C. a carico di Siino Angelo e altri saranno integrate con le rivelazioni di quei collaboratori di giustizia che avevano acquisito — sul campo — una vera e propria specializzazione nel settore degli appalti pubblici.
Si accerterà così che Panzavolta, Bini, Visentin e Canepa, ossia il management delle varie società del Gruppo Ferruzzi consociate della Calcestruzzi Spa di Ravenna per anni si erano prestati a fare affari con imprenditori siciliani che erano l’interfaccia del gruppo mafioso egemone.
In particolare, i Buscemi di Boccadifalco (Salvatore e Antonino) erano tra gli esponenti mafiosi più vicini a Riina, e da soli non avrebbero avuto, per quanto influenti, la forza di imporsi all’attenzione di uno dei gruppi imprenditoriali più importanti dell’economia nazionale, fino a costituire una sorta di monopolio nel settore degli appalti di grandi opere e nella produzione e fornitura di calcestruzzi. La loro ascesa fu sponsorizzata dai vertici di Cosa nostra, nell’ambito di un sistema che finì per ridimensionare e poi emarginare lo stesso Siino Angelo, confinato nei limiti della “gestione” di appalti di dimensioni medio-piccole, ossia per importi inferiori a 5 mld. di lire (e su base provinciale: gli appalti banditi dall’amministrazione provinciale di Palermo: cfr. Brusca e Siino).
Ma è la grande impresa italiana a fare affari in Sicilia con Cosa nostra, attraverso cordate di imprenditori collusi o compiacenti verso le imprese mafiose.
E tale sistema, i cui prodromi s’intravedono sullo sfondo delle prime inchieste del filone mafia e appalti come quella compendiata nel rapporto del Ros depositato il 20 febbraio 1991 era già giunto a piena maturazione quando si apre la stagione delle stragi, ma era proseguito anche oltre: come accertato, tra gli altri, nel proc. nr. 1120/97 n.c.- Dda, istruito dalla Dda di Palermo a carico di Buscemi Antonino, Bini Giovanni, Salamone Filippo, Micciché Giovanni, Vita Antonio,
Panzavolta Lorenzo, Canea Franco, Visentin Giuliano, Bondì Giuseppe, Crivello Sebastiano per i reati di associazione mafiosa, turbativa d’asta e illecita concorrenza con violenza e minaccia (e per fatti commessi fino a tutto il 1991, e anche negli anni successivi. Procedimento che, avvalendosi delle propalazioni di Angelo Siino, che nel frattempo si era determinato a collaborare con la giustizia, si profilava quale naturale prosecuzione e sviluppo di quanto emerso già in altri procedimenti nell'ambito delle indagini relative all'illecita aggiudicazione di appalti pubblici ed allo strutturato sistema di controllo degli stessi da parte dell'associazione per delinquere di tipo denominata Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
LE OMBRE INTORNO ALLA MORTE DI BORSELLINO. Quel dossier su mafia e appalti che torna sempre ma non dà nessuna risposta. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 17 agosto 2022
Quell’indagine, dopo le assoluzioni per la trattativa stato-mafia, è ridiventata “popolare”. Da più parti ritenuta fondamentale per decifrare i massacri dell'estate del 1992.
Se la pista dei soldi, più di altre, è quella da seguire per capire chi ha voluto i massacri del 1992 non ci si può certo fermare al dossier del Ros dei carabinieri. Innanzitutto perché Falcone e Borsellino non erano tanto concentrati sulla spartizione dei lavori pubblici in Sicilia, quanto all'infiltrazione dei capitali di Cosa Nostra nell'economia italiana.
La procura di Caltanissetta ha riesumato il dossier dopo tre decenni. Aperta ufficialmente un'inchiesta e interrogati i primi testimoni.
Si fa un gran parlare del dossier “Mafia e appalti”, un’inchiesta che per qualcuno sarebbe la vera causa dell’uccisione di Paolo Borsellino. Ipotesi molto azzardata e, negli ultimi tempi, anche molto di moda. Ma ormai sulle stragi si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto oltre la mafia non si scopre mai niente. Ci si muove al buio, a volte si abbocca al primo amo che viene calato. O, come nel caso del dossier “Mafia e appalti“, ricalato nel grande magma investigativo intorno alle bombe del 1992. È vecchio di trenta e passa anni, quasi mille pagine dove gli interessi dei boss si confondevano con quelli dei colossi italiani dell’edilizia, nomi sapientemente divulgati e nomi accuratamente occultati. «Un rapporto indiziario intorno al quale si può cominciare a lavorare», confidò a noi giornalisti il giudice Giovanni Falcone che lo considerava «un buon punto di partenza». Di partenza, non di arrivo.
UN DOCUMENTO CONTROVERSO
Documento controverso, al centro di polemiche, di scontri feroci fra magistrati palermitani e apparati sfociati in indagini finite nel nulla. Tutti senza un torto e senza una ragione, vicenda sopita in una camera di decompressione giudiziaria di altro distretto.
Per i pubblici ministeri della procura di Palermo non c’erano elementi sufficienti per procedere penalmente contro alcuni personaggi dell’imprenditoria nazionale, per i carabinieri dei reparti speciali, il Ros – che quell’inchiesta l’avevano condotta – il rapporto è stato scientificamente insabbiato per salvare un sistema di corruzione che altrimenti avrebbe anticipato la stagione giudiziaria milanese di Tangentopoli.
Di sicuro il dossier “Mafia e appalti” non è mai morto. Torna, torna sempre. È come un fantasma che riappare, quando sfumano o si aggrovigliano altre piste alla ricerca di un movente sulla strage di via D’Amelio. È un feticcio agitato permanentemente dal Ros dell’allora colonnello Mario Mori, poi diventato direttore dei servizi segreti interni nel secondo governo Berlusconi, lo stesso ufficiale assolto nel processo sulla trattativa stato-mafia e regista della mancata perquisizione della villa di Totò Riina dopo la sua misteriosa cattura. Ora, questo dossier, è ridiventato “popolare”, da più parti ritenuto fondamentale per decifrare i massacri dell'estate del 1992.
Come lo era stata la famigerata trattativa fino al verdetto della corte di appello di Palermo che ha restituito l'innocenza a Mori & compagni, che pur avevano barattato qualcosa con la controparte per evitare altri spargimenti di sangue. Il dossier “Mafia e appalti” rilanciato come fattore che ha “accelerato” la decisione di far saltare in aria il procuratore, appena cinquantasei giorni dal cratere di Capaci.
MOVENTE DELLA STRAGE
Ne è convinta Fiammetta Borsellino, una delle figlie del magistrato, insieme a Fabio Trizzino, il legale che ha rappresentato la famiglia nei processi sul grande depistaggio. Ne sono rimasti in qualche modo condizionati i giudici di Palermo che hanno assolto Mori, quando nelle loro motivazioni si spingono un po’ avventurosamente – perché la genesi di quel dossier non è mai stato oggetto del processo – a scrivere che «si ritiene che quell’input dato da Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il dottor Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni, mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione, possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto mafia e appalti».
Alla fine sono stati costretti a rioccuparsene anche i procuratori di Caltanissetta, quelli che indagano sulle stragi, che un paio di settimane fa hanno deciso di riesumarlo dopo tre decenni. Hanno ufficialmente aperto un’inchiesta e interrogato i primi testimoni. Tutto top secret o quasi.
Trattativa e mafia e appalti, sono stati a lungo i totem delle fazioni avverse dell’antimafia per “spiegare” le stragi. Schiere di fan di qua e di là, la maggior parte dei quali che non ha mai letto una sola pagina di una o dell'altra inchiesta, solo raffiche di like sui profili Facebook e qualche sproloquio.
Ridimensionata (o, se vogliamo, anche definitivamente cancellata) la vicenda della trattativa il campo investigativo adesso è occupato da “mafia e appalti”. E proprio come possibile movente dell'autobomba del 19 luglio. Movente – almeno questa è la mia opinione – riduttivo e anche fuorviante.
LA PISTA DEI SOLDI
Se la pista dei soldi, più di altre, è quella da seguire per capire chi voleva i massacri del 1992 non ci si può certo fermare al dossier del Ros. Innanzitutto perché Falcone e Borsellino non erano tanto concentrati sulla spartizione dei lavori pubblici in Sicilia (con il patto fra le cosche e le grandi aziende del Nord, comprese le coop rosse emiliano romagnole), quanto all'infiltrazione dei capitali di Cosa nostra nell’economia italiana.
Il dossier “Mafia e appalti” era solo uno dei passaggi, i due giudici guardavano oltre: avevano capito che Totò Riina – attraverso i fratelli Buscemi della famiglia mafiosa palermitana di Boccadifalco – era socio nella Calcestruzzi spa con Raul Gardini, uno dei più famosi capitani d'industria italiani.
Ci sono sentenze passate in giudicato che, al di là delle confessioni di pentiti come Angelo Siino, Leonardo Messina e Giovanni Brusca, certificano l'accordo fra i Corleonesi e il gruppo Ferruzzi rappresentato dal “Contadino”. Quel Raul Gardini che, la mattina del 23 luglio 1993, si sparò un colpo di Walther Ppk alla testa nella sua casa milanese di piazza Belgioioso alla vigilia di un suo possibile arresto per la maxi tangente Enimont. Dopo quasi trent'anni resta sempre il dubbio: un suicidio per l'inchiesta di Milano o per le spericolate relazioni di Palermo?
IL SUICIDIO DI RAUL GARDINI
È questo il quadro che avevano presente Falcone e Borsellino nei mesi a cavallo fra il 1991 e il 1992, quando uno era stato appena nominato direttore degli Affari Penali al ministero della Giustizia e l'altro procuratore aggiunto a Palermo. E non gli appalti e i sub appalti delle dighe e delle strade, dei viadotti e delle opere “chiavi in mano” che mafiosi e ditte del nord si dividevano in Sicilia.
Quel rapporto si fermava lì. Nessuno è mai andato avanti alla ricerca di un possibile legame fra le intuizioni di Falcone e Borsellino e il suicidio di Gardini, nessuno ha mai più approfondito dove portavano – e proprio su quel fronte – gli investimenti di Cosa nostra.
Il rapporto “Mafia e appalti” bisognerebbe valutarlo per quello che realmente è e non per come è stato propagandato, in qualche modo spacciato all'opinione pubblica.
Per di più, assai contorta è la sua storia fin dalla nascita. Consegnato “a puntate“ in procura a Palermo, prima nomi fatti circolare sulla stampa, prove presentate solo per imprenditori locali di modesto spessore, poi ancora il rapporto trasmesso ad altra procura (Catania) per trovare migliore accoglienza.
Un gioco degli specchi che ha acceso un corto circuito istituzionale, scatenato una faida fra i magistrati palermitani e i carabinieri di Mario Mori. Due le “versioni” del dossier: una mediatica e l'altra ufficiale, la prima con la presenza di tanti uomini politici e la seconda priva di quell'elenco.
Un’intercettazione che riguardava Salvo Lima, il potente console siciliano di Giulio Andreotti, è stata nascosta ai magistrati e ricomparsa miracolosamente solo molti mesi dopo l'omicidio dello stesso Lima avvenuta nel marzo del 1992. Non è tutto oro quello che luccica fra le pieghe del dossier.
I RICORDI DEI MAGISTRATI DI PALERMO
Negli anni a seguire il Consiglio Superiore della Magistratura ha raccolto testimonianze di una mezza dozzina di procuratori palermitani, ricordi a volte vaghi, discordanti anche su una riunione tenuta in procura – il 14 luglio del 1992, cinque giorni prima della strage di via D’Amelio – dove Paolo Borsellino non fu informato dai suoi colleghi della richiesta di archiviazione per alcuni indiziati di quel rapporto.
In sostanza qualcuno gli aveva nascosto “sviluppi” sull'inchiesta, Borsellino (che giustamente non si fidava del suo procuratore capo Pietro Giammanco) se ne lamentò. Ma tutto questo è davvero sufficiente per legarlo all'attentato del 19 luglio o è, piuttosto, una diversione che è anche servita – legittimamente – agli imputati della trattativa stato-mafia per difendersi in aula?
A Caltanissetta hanno ripescato tutto. I carabinieri del Ros, ormai non più “traditori“ in quanto assolti nel processo d’appello, andranno a riproporre le loro argomentazioni. Sempre le stesse dal 1991. Vedremo cosa faranno i magistrati delle stragi. Quelli che hanno già avuto fra i piedi il falso pentito Vincenzo Scarantino, quelli che sono stati costretti a indagare per mesi e mesi su quel pagliaccio di testimone che era Massimo Ciancimino. Dopo trent’anni, speriamo che non si perda altro tempo. ATTILIO BOLZONI
Il dossier mafia-appalti va di moda? Magari fosse così…La replica | Il quotidiano Il Domani minimizza “Mafia e appalti”, che rivelò persino il “link” Riina-Gardini. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 18 agosto 2022.
Su Il Domani, Attilio Bolzoni, firma tra le più autorevoli nel campo della giustizia, spiega ai propri lettori che ora va di moda collegare la questione del dossier “Mafia appalti” alle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Sfugge, a dire il vero, che sia diventato davvero di moda, visto che la maggior parte dei grandi giornali, e le inchieste tv in prima serata, non hanno mai neppure citato il dossier, e continuano a sposare le tesi più disparate, tanto da rispolverare improbabili pentiti.
Di fatto, Bolzoni minimizza il dossier “Mafia appalti” e sposa la solita teoria della doppia informativa. Ed è quest’ultima, in realtà, che va di moda, ogni volta ad esempio che l’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, – in completa solitudine – indica di guardare al dossier. Si cita questa teoria (ovvero che i Ros avrebbero nascosto i nomi dei politici) totalmente sfatata dall’ordinanza del Tribunale di Caltanissetta a firma della compianta Gilda Loforti.
Da un passaggio dell’articolo si ha però l’impressione che Bolzoni potrebbe non conoscere a fondo il contenuto esplosivo del dossier dei Ros redatto sotto la supervisione di Giovanni Falcone. Ecco cosa scrive: «Il dossier Mafia e appalti era solo uno dei passaggi, i due giudici guardavano oltre: avevano capito che Totò Riina – attraverso i fratelli Buscemi della famiglia mafiosa palermitana di Boccadifalco – era socio nella Calcestruzzi spa con Raul Gardini, uno dei più famosi capitani d’industria italiani».
Ma Falcone e Borsellino indubbiamente guardavano in quella direzione, perché questo connubio tra Riina e il grande colosso guidato da Gardini è stato citato per la prima volta proprio dal dossier stesso. Altro che informativa inutile e poco incisiva. Ma è solo una delle tante, consuete sottovalutazioni di quel dossier.
La procura di Palermo. Il giudice chiude un occhio sul suo avvocato? Roberto Greco su Il Riformista il 14 Agosto 2022
“La fiducia è una cosa seria e si dà alle cose serie”. Queste parole arrivano dalla pubblicità, per la precisione da un Carosello del lontano 1973, di un’azienda produttrice di latte e suoi derivati. Questa frase, non la fiducia, andrebbe prescritta come sistema di prevenzione o vaccino e distribuita generosamente a tutti, con una posologia particolare: da leggere, memorizzare e applicare ogniqualvolta la si dimentica. La fiducia, invece, non c’è dubbio che sia una cosa seria e che non tutti la meritino.
Ovviamente in qualsiasi ambiente di lavoro i rapporti tra colleghi sono soggetti a dinamiche, a volte, molto esasperate o, per contro, si basano su consolidati rapporti di stima e fiducia. Il primo che non divide i suoi colleghi di lavoro nel terrificante elenco “buoni-cattivi” alzi la mano. È quindi normale che anche all’interno di una Procura, ma anche di un’azienda commerciale o manifatturiera, si instaurino rapporti di fiducia, competizioni, invidie, passioni, atteggiamenti camerateschi e, forse, sudditanze. Tutto ciò, però, non deve e non può influire sul lavoro dei singoli e, soprattutto, condizionarlo.
Mi è capitato di leggere, nei giorni scorsi, alcuni commenti relativi alla sentenza del processo “Bagarella e altri”, il c.d. “processo trattativa”. Diverse persone lamentano che una sorta di guanto di velluto abbia vestito le mani del dottor Angelo Pellino (il magistrato che ha presieduto la Corte nel processo), tutte le volte che, in sentenza, tratta dell’operato dei magistrati. Qualcun altro, invece, sostiene che abbia sposato le tesi dei suoi colleghi, titolari dell’indagine “mafia-appalti” cui fu assegnata, che la definirono in diverse occasioni “robetta”, “cosa da quattro colletti bianchi siciliani” o ancora una “minestra risciacquata”.
Altri ancora, invece, sostengono che non abbia ben sviscerato le problematiche relative al “nido di vipere”. Durante il procedimento di primo grado del processo “Bagarella e altri”, Massimo Russo, che negli anni novanta era un giovane magistrato, dichiarò che, un mese prima di morire, Paolo Borsellino «appariva come trasfigurato, senza più sorrisi. Era provato, appesantito, piegato». Da poche settimane la mafia aveva ucciso il suo amico Giovanni Falcone e lui continuava a lavorare nel suo ufficio di procuratore aggiunto a Palermo, che però considerava – riporta sempre Russo – «un nido di vipere».
Questa dichiarazione si lega a quella di Alessandra Camassa alla quale Borsellino confidò di essere stato “tradito” da un amico: «Paolo si distese sul divano che c’era nella stanza e cominciò a lacrimare in modo evidente dicendo “Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire”». Chi fosse quell’amico i due giovani magistrati non lo chiesero. Peraltro non è possibile dimenticare i sospetti che lo stesso Paolo Borsellino il giorno prima dell’attentato aveva confidato alla moglie Agnese, quando le disse «che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse».
E di tutto ciò, in realtà, non si legge nella sentenza ma si legge invece: «il dott. BORSELLINO non mancò di esprimere perplessità sull’impostazione generale e sull’indirizzo impresso dalla Procura di Palermo (cfr. PATRONAGGIO e GOZZO), e platealmente formulò l’auspicio che dalle rivelazioni di un nuovo pentito potessero venire elementi utili per ulteriori e più fecondi sviluppi (cfr. ancora GOZZO e SABBATINO). Insomma, tenne un atteggiamento che non tradiva affatto sfiducia e diffidenza nei confronti dell’operato dei colleghi titolari del procedimento, ma, al contrario denotava la volontà di aprire un confronto sincero sul tema in discussione, come aperte e trasparenti furono le critiche e le perplessità e le richieste di chiarimenti esternate in quella sede».
Inoltre, per tornare alla fiducia, dalla lettura delle audizioni effettuate dal Csm nei giorni 28, 29, 30 e 31 luglio 1992 ai magistrati allora applicati alla procura di Palermo che in parte la stessa sentenza cita, appare in effetti un non edificante panorama della Procura palermitana sia in termini di rapporti interpersonali sia di secreti. Ma, come dicevamo poc’anzi, all’interno di qualsiasi ambiente di lavoro queste cose succedono e, proprio per questo, le persone su cui si ripone fiducia ci accompagnano nel nostro lungo cammino e, alla fine, si consolidano rapporti di amicizia. C’è da dire che, al di là delle critiche che gli vengono rivolte, il dottor Angelo Pellino è un magistrato di grande esperienza. Non possiamo dimenticare la sua sentenza di primo grado relativa al processo per l’omicidio di Mauro Rostagno, le cui motivazioni contavano oltre 3000 pagine, e a ciò si aggiunge la profonda conoscenza della Procura di Palermo e dei magistrati che ci hanno lavorato.
E qui torna in ballo la fiducia che si accompagna alla stima. Che sia chiaro: chi siamo noi per capire realmente il rapporto che c’era all’interno di quella Procura, i rapporti di fiducia, l’affiatamento e l’intesa che, negli anni, si sono creati tra colleghi in un ambiente di lavoro che non è il nostro? A dimostrazione che la fiducia è una cosa seria e che la si da alle persone serie, quando, il 22 settembre 2000, il dottor Angelo Pellino fu oggetto del procedi-mento disciplinare N. 44/2000 del Consiglio Superiore della Magistratura – che riguardava oltre a lui anche i dottori Ajello, Cavarretta, Provenzano, Scaduto, Serio e Tardìo – non ebbe dubbio alcuno nel nominare come difensore un suo pari del quale si fidava, tant’è che la scelta si indirizzò nei confronti del dottor Guido Lo Forte.
Si trattò di una banalità, di un fascicolo che non era al suo posto, banalità che però creò alcuni problemi nella decorrenza dei termini cautelari mettendo un Gip in difficoltà. Nulla di grave, ripetiamo, perché durante il dibattimento emerse che il dottor Pellino non aveva un assistente fisso e che, spesso, era costretto a chiederlo in prestito a qualche collega sia per gli interrogatori sia per le udienze, vista l’eccessiva mole del carico di lavoro che gli era affidato: quindi, un fascicolo fuori posto, rappresentava un’inezia che non lede minimamente né la sua persona tantomeno le sue qualità professionali.
Ma, al netto di quanto scritto fino a questo punto, una domanda sorge spontanea. Ma il giudizio sull’operato dei magistrati, ancorché positivo, può essere competenza del giudice naturale di un procedimento anche quando, per competenza, questo deve essere demandato a altra Procura? Nel caso specifico, si sarebbe dovuto trattare della Procura di Caltanissetta che, a trent’anni anni esatti all’archiviazione del dossier “Mafia-appalti” a Palermo, su cui aveva indagato il giudice Giovanni Falcone e su cui stava indagando il giudice Paolo Borsellino subito prima della sua morte, ha riaperto, per competenza, l’inchiesta. Si tratta di quel dossier che il dottor Giovanni Falcone chiese al Ros per concretizzare la sua linea investigativa denominata “follow the money” e determinare gli scellerati, questi sì, intrecci che sin dalla fine degli anni ’60 erano in essere tra mafie e imprenditoria, quindi capitale.
Il dossier fu presentato il 20 febbraio 1991 quando i Carabinieri del ROS depositarono presso la Procura della Repubblica di Palermo l’informativa denominata “mafia-appalti” e il 13 luglio 1992, sei giorni prima della strage di via d’Amelio, fu presentata, nonostante il forte e acclarato interesse di Paolo Borsellino per lo sviluppo delle indagini, dai sostituti procuratori della Repubblica Guido Lo Forte (che è quello che difese Pellino davanti al Csm ) e Roberto Scarpinato, titolari del fascicolo, con il visto dell’allora Procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, un’argomentata richiesta di archiviazione, richiesta di archiviazione che verrà depositata il 22 luglio 1992 e accolta dal Gip il 14 agosto, ( poi si parla di lentezza della giustizia…!).
L’importanza del dossier “mafia-appalti” è tale che ben due sentenze di appello lo indicano come una delle cause della morte di Paolo Borsellino, quella del “Borsellino quater” e quella emessa dal giudice Pellino “Bagarella e altri” di cui abbiamo parlato in precedenza. È evidente che, come dicevamo in premessa, «la fiducia è una cosa seria e si da alle cose serie». Roberto Greco
Le assoluzioni di Mafiopoli (più di quelle di Tangentopoli) hanno fatto giustizia dei teoremi delle procure. In questi anni le indagini giudiziarie hanno condizionato la vita politica e ispirato alcuni movimenti. I programmi elettorali per le prossime elezioni potrebbero essere l’occasione per cambiare registro. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il 04 agosto 2022.
Giovanni Brusca, noto al grande pubblico per i tanti processi di mafia è stato sottoposto a misure di prevenzione dal tribunale di Palermo, e la notizia è apparsa su pochi organi di stampa perché probabilmente ritenuta di nessun rilievo. Invece il fatto è assolutamente rilevante e indicativo perché Brusca, che come “pentito“ ha recitato tutte le parti a beneficio di diversi magistrati, e quindi ha ottenuto benefici premiali è stato considerato “pericoloso“ e sarà sorvegliato speciale con obbligo di firma e con le relative misure. Brusca aveva “meritato“ la scarcerazione nel maggio 2021 per i tanti “punti” messi insieme nella lunga carcerazione, ma evidentemente a una successiva e tardiva valutazione è stato considerato appunto “pericoloso”. Il magistrato Grasso anche se ex presidente del Senato dovrebbe essere contento e d’accordo con i suoi colleghi?!
A nostro giudizio la notizia è importante perché ci riporta alle tante vicende contrastate e contraddittorie che hanno caratterizzato le indicazioni giudiziarie palermitane che sono state utilizzate e strumentalizzate per individuare presunti responsabili politici o per scagionare altri magari effettivamente responsabili. Insomma il “pentito Brusca” è servito per scrivere una storia di questi anni che non corrisponde alla verità.
Mi sono proposto di far luce sui tanti episodi giudiziari che riguardano Tangentopoli e Mafiopoli che hanno appunto disegnato una storia non vera di questi anni. È per questo che svolgo alcune considerazioni.
Abbiamo ripetuto varie volte che i magistrati con le loro “indagini” più ancora che con le sentenze, come vedremo, hanno preteso di scrivere la storia dell’Italia attribuendo alla politica e ai partiti la responsabilità della dilagante corruzione e agli stessi e alle istituzioni una collusione con la mafia e la camorra.
Tante sentenze di giudici coraggiosi e indipendenti hanno contraddetto questo risultato delle indagini a volte con un giudizio severo e negativo che ha provocato querele da parte del pubblico ministero interessato sempre soccombente. Il procuratore della Repubblica di Milano dell’epoca Saverio Borrelli, il “capo” di Tangentopoli, riteneva che «era farisaico fingere che per prendere atto della realtà emersa bisognava attendere le sentenze». «Bastavano le indagini», egli aggiungeva «che erano rivolte più che ai singoli indagati al sistema per cui si chiedeva la dissociazione del sistema corruttivo che costituiva la regola generale».
I processi e le sentenze hanno fatto giustizia di questo teorema e hanno distinto l’illecito finanziamento dalla corruzione, confusione che ha consentito di ritenere la classe politica corrotta. Questo per quanto riguarda i processi di Tangentopoli; le indagini di Mafiopoli, che hanno ipotizzato gravi responsabilità di politici di primo livello, sono state sonoramente sconfessate dalle sentenze, da Giulio Andreotti a Calogero Mannino e a tanti altri, e più recentemente la sentenza della Corte D’Appello di Palermo ha stabilito che i rappresentanti dello Stato e i politici non hanno fatto la “trattativa” con i mafiosi, non hanno attentato ai poteri dello Stato e non sono venuti a patti con la mafia.
Queste decisioni, dunque lo ripeto, cancellano la pretesa dei magistrati inquirenti di voler accreditare una storia non vera dell’Italia finalizzata a screditare i partiti politici e l’apparato dello Stato. L’equivoco di questa ultimi anni è stato il magistrato come protagonista assoluto della verità e garante della questione morale che ha fatto prevalere una giustizia etica, quella che pretende di far vincere il bene sul male?!.
Natalino Irti, con la sua sapienza storica e giuridica, ha detto che al magistrato e al giudice “non si chiede di ricostruire un tratto di storia generale politica ma di accreditare i fatti e quei fatti che esigono l’applicazione della legge”. Tanti si interrogano sul significato di Tangentopoli nella ricorrenza dei trent’anni sulle connivenze della politica e degli apparati dello Stato con la mafia che le indagini giudiziarie sulla trattativa ha alimentato per oltre venti anni, ma tanti notisti e alcuni organi di informazione in particolare continuano a distorcere la verità con faziosità inaccettabile.
Le sentenze di assoluzione di Mafiopoli ancora più di quelle di Tangentopoli hanno fatto giustizia dei teoremi distorti che hanno alimentato negli anni, tutti sconfessati sia pure con una giustizia tardiva. In particolare quelli per Calogero Mannino sono stati più volte e duramente sconfessati, Mannino che era il vero nemico della mafia e che con la sua azione legislativa nel Parlamento ha contribuito a proporre leggi che, quando applicate bene, hanno colpito seriamente la mafia. Questo è un esempio lampante della grave falsificazione della storia: la tragica vicenda del ministro Mannino.
Ecco perché la vicenda di Brusca insieme ai tanti pentiti che come diceva Falcone, con le loro dichiarazioni erano a beneficio di questo o di quel magistrato, debbono essere chiarite per far luce vera su quegli anni e per restituire alla storia non a quella delle indagini giudiziarie ma a quella vera, il compito della verità.
Ricostruire le vicende vere per raccontare la storia così come descrivere i costumi i costumi di una società, in particolare di quella italiana, è un’opera difficile e ambiziosa in questo periodo perché il populismo che le indagini giudiziarie hanno alimentato ispirando addirittura alcuni movimenti politici, è fortemente radicato nella società e negli individui.
Soltanto una presa di posizione generale e corale di tutta la classe dirigente per servire la causa, può essere valida; e quindi la campagna elettorale ormai in corso per le elezioni politiche deve essere l’occasione per qualificare i programmi delle liste che si presenteranno al corpo elettorale e le coalizione che si determineranno per ricostruire la storia della nostra Repubblica fuori da rancori da pregiudizi falsamente ideologici.
Il problema della giustizia, del ruolo che il giudiziario deve avere per l’assetto democratico in una Repubblica parlamentare è il problema fondamentale dell’Italia insieme alla sua collocazione europea e internazionale dell’Italia in presenza della spietata guerra in Ucraina e con una economia italiana ed europea che in questo contesto deve segnare la nostra qualità della vita e il nostro futuro.
Insomma i gruppi parlamentari che hanno votato il governo Draghi garante della stabilità e della sicurezza del paese e dell’equilibrio europeo debbono impegnarsi su questi problemi per far emergere la verità su tutte le questioni che abbiamo indicato se vogliono essere davvero alternativi.
Qualche settimana fa Walter Verini, dirigente importante del Pd, su questo giornale ha dichiarato che «il movimento CinqueStelle è il partito che ha riformato con il Pd la giustizia“, dimenticando che quel movimento e quei parlamentari hanno distrutto l’ordinamento giudiziario e il codice penale all’insegna di una pretesa onestà sollecitando una riscossa rancorosa della società per una moralità che ora abbiamo ben conosciuto.
La riforma penale proposta dal ministro Bonafede è una pagina oscura del Parlamento italiano che il Pd non ha ostacolato. Ricordo a Verini che è stato necessario il nuovo intervento del governo Draghi e l’ostinazione illuminata del ministro Cartabia per modificare un po’ le cose e creare i presupposti per una riforma radicale della giustizia.
Gli elettori del referendum con il loro voto, ancorché non valido per il risultato, hanno dato una indicazione di marcia per una reale inversione di tendenza riconoscendo il problema giustizia come fondamentale per la democrazia. Il movimento 5Stelle sembra abbandonato ai suoi equivoci e la coalizione repubblicana alternativa deve prospettare agli elettori le riforme appena indicate che servono a qualificare “i movimenti” e liste che vogliono privilegiare una loro identità culturale.
La procura di Caltanissetta e il depistaggio. Inchiesta mafia-appalti riaperta, ora si indaga davvero sul perché fu ucciso Borsellino. Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Agosto 2022.
La procura di Caltanissetta ha aperto una inchiesta sul famoso dossier Mafia-Appalti, e cioè su un voluminoso e vecchio documento preparato dai Ros dei carabinieri che descriveva i rapporti tra la mafia corleonese e gli imprenditori del Nord. Lo ha deciso il procuratore De Luca, con un atto coraggioso che rompe una lunghissima assenza della magistratura siciliana. Perché? Perché questo dossier non è vecchio: è vecchissimo. Risale al 1992 e se nel ‘92 fosse stato messo a frutto, e se all’epoca la magistratura di Palermo che lo aveva in mano avesse aperto delle indagini, probabilmente la mafia, e soprattutto quel pezzo di economia nera del Nord che alla mafia era collegata, avrebbero subito un colpo devastante.
Non a caso era stato Falcone a dare l’incarico ai Ros di indagare. E aveva seguito il loro lavoro, che aveva portato a scoperte clamorose. E non a caso, dopo la morte di Falcone era stato Paolo Borsellino a chiedere ripetutamente che quel dossier gli fosse assegnato. In realtà gli fu assegnato, dal procuratore di Palermo Giammanco, con una telefonata che Borsellino ricevette alle sette di mattina del 19 luglio 1992 al telefono di casa. Probabilmente era contento. Però non ebbe il tempo di commentare la notizia perché nel primo pomeriggio fu ucciso assieme alla sua scorta. I sostituti procuratori che avevano il dossier in mano, in realtà, ne avevano chiesto l’archiviazione prima ancora di quel giorno. E la ottennero – l’archiviazione – pochi giorni dopo la strage di via D’Amelio. Da quel momento il dossier scomparve e scomparve tutto il lavoro dei Ros guidati dal colonnello Mori e dal capitano Di Donno.
Le indagini sull’uccisione di Borsellino non seguirono mai la pista del dossier. Ci fu molto folclore, in quelle indagini, ma poca sostanza. Anzi, furono davvero dilettantesche e sciagurate. Finirono su una falsa pista, aperta da un falso pentito, un certo Vincenzo Scarantino, probabilmente guidato da uomini dello Stato. Il depistaggio servì a tenere per anni la magistratura lontana dalla traccia giusta. E poi, con grande sostegno mediatico – Santoro, La 7, Il Fatto Quotidiano e molti altri – arrivò la grande indagine sulle trattative Stato Mafia che – seppure in modo oggettivo ed evidentemente non volontario- furono un nuovo depistaggio. Si disse e si gridò ai quattro venti che Borsellino era stato ucciso perché aveva avuto sentore della trattativa. E ci vollero più di dieci anni per capire, con una sentenza devastante della Corte d’Appello di Palermo, che era una bufala, e che si era perso altro tempo. E per di più erano stati imputati proprio i Ros di Mori, cioè gli unici che la mafia l’avevano combattuto davvero.
Perché tanto interesse per l’ipotesi della trattativa? Perché tra gli imputati c’era Marcello dell’Utri, e quindi la possibilità di coinvolgere Berlusconi, il quale ha tanti difetti e tante colpe ma, ad occhio e croce, tra tutti i leader della prima e della seconda Repubblica è l’unico che la mafia non l’ha mai conosciuta.
Ora sarà difficile, ripartendo da quel dossier, ricostruire i rapporti tra corleonesi e Nord Italia. Quasi tutti i protagonisti di quegli affari non ci sono più, o sono molto vecchi, o sono all’ergastolo. L’ex Pm Di Pietro sostiene che le sue inchieste del ‘92 puntavano proprio alla Sicilia e a mafia-appalti e che l’archiviazione del dossier fu un colpo mortale.
Naturalmente c’è da chiedersi: perché fu archiviato quel dossier, su richiesta dei Pm Scarpinato e Lo Forte? Io questa domanda l’ho sollevata diverse volte, insieme a pochi altri giornalisti. Ma mi è costato caro farlo. Ogni volta mi sono beccato una querela, e ora sono sotto processo – insieme al mio collega e amico Damiano Aliprandi – e tutti sanno che vincere un processo con un magistrato è cosa difficilissima. Adesso a fare la domanda è il procuratore di Caltanissetta. Finirà sotto processo anche lui per “lesa maestà della procura di Palermo”? Beh, se Scarpinato è un ex magistrato coerente dovrebbe effettivamente querelarlo…
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
«Dietro via D’Amelio il dossier mafia-appalti», riaperta l’inchiesta. La procura di Caltanissetta indaga sull’interessamento di Borsellino al dossier mafia-appalti come causa della sua eliminazione. Sentiti già dei testi, tra cui l’ex Ros De Donno Dal 2018 “ Il Dubbio” ha condotto una inchiesta giornalistica sulla vicenda. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 luglio 2022.
Da qualche settimana la procura di Caltanissetta guidata dal Procuratore capo Salvatore De Luca ha riaperto l’inchiesta sul filone “mafia appalti” come causa scatenante che portò all’accelerazione della strage di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. A rivelarlo è l’agenzia Adnkronos a firma di Elvira Terranova. Le bocche in procura sono cucite, l’indagine è top secret, ma come apprende l’Adnkronos, il pool stragi da qualche settimana sta scandagliando le vicende legate al procedimento del dossier mafia-appalti redatti dai Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sotto il coordinamento di Giovanni Falcone.
Tutte le sentenze hanno accertato l’interessamento di Falcone e Borsellino a mafia-appalti
I magistrati che coordinano l’inchiesta, tra cui la pm Claudia Pasciuti, guidati dal Procuratore capo Salvatore De Luca, di recente – come rivela l’Adnkronos – hanno anche fatto i primi interrogatori. Compresi quelli top secret. Tra le persone sentite, spicca in particolare il nome del colonnello Giuseppe De Donno. Cioè, colui che allora giovane capitano, condusse l’inchiesta su mafia-appalti con il suo diretto superiore al Ros, l’allora colonnello Mario Mori. Che l’interessamento dei giudici Falcone e Borsellino riguardante il dossier mafia-appalti sia stata una concausa delle stragi, questo è accertato da tutte le sentenze. Quest’ultime hanno individuato un movente ben preciso. Sono diversi i passaggi cristallizzati nelle motivazioni. C’è quello di Giovanni Brusca che, nelle udienze degli anni passati, disse che, in seno a Cosa nostra, sussisteva la preoccupazione che Falcone, divenendo Procuratore Nazionale Antimafia, potesse imprimere un impulso alle investigazioni nel settore inerente la gestione illecita degli appalti.
Falcone aveva compreso la rilevanza strategica del settore appalti
C’è quello del pentito Angelo Siino, che sosteneva che le cause della sua eliminazione andavano cercate nelle indagini promosse dal magistrato nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interessi”. Difatti – si legge nelle sentenze – in Cosa nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare» (pag. 74, ud. del 17 novembre 1999).Ed è proprio quell’Antonino Buscemi, il colletto bianco mafioso, che era entrato in società con la calcestruzzi della Ferruzzi Gardini a lanciare l’allarme anche per quanto riguarda le esternazioni di Falcone durante un convegno pubblico proprio su criminalità e appalti. Un convegno, marzo 1991, dove evocò chiaramente l’inchiesta mafia-appalti che era ancora in corso. Il dossier fu depositato in procura su volere di Falcone stesso il 20 febbraio 1991. Peraltro, anche Giuseppe Madonia aveva manifestato il convincimento che Falcone aveva compreso i legami tra mafia, politica e settori imprenditoriali. Siino, con riferimento all’eliminazione di Borsellino, ha inoltre aggiunto che Salvatore Montalto, durante la comune detenzione nel carcere di Termini Imerese, facendo riferimento agli appalti, gli aveva detto: «ma a chistu cu cìu purtava a parlare di determinate cose».
Borsellino aveva detto a varie persone che quella degli appalti era una pista da seguire
Borsellino, infatti, nel periodo immediatamente successivo alla strage di Capaci, aveva esternato a diverse persone, oltre all’intervista del giornalista Luca Rossi, che una pista da seguire era quella degli appalti. A distanza di 30 anni, però non si è mai fatto chiarezza su un punto. Diversi pentiti hanno affermato che sia Pino Lipari che Antonino Buscemi avevano un canale aperto con un magistrato della procura di Palermo. Alla sentenza d’appello del 2000 sulla strage di Capaci, tra gli altri, vengono riportate le testimonianze di due pentiti. Una è quella di Siino: «Sul punto, Angelo Siino, il quale, pur non rivestendo il ruolo di uomo d’onore, ha impostato la propria esistenza criminale, all’interno dell’ambiente imprenditoriale-politico-mafioso, ha evidenziato di avere appreso che Pino Lipari aveva contattato l’onorevole Mario D’Acquisto affinché intervenisse nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo, al fine di neutralizzare le indagini trasfuse nel rapporto c.d. “mafia-appalti” e in quelle che si potevano stimolare in esito a tali risultanze».
I Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese al gruppo Ferruzzi
Le motivazioni riportano anche la versione di Brusca: «Quanto ai rapporti tra i fratelli Buscemi, il gruppo Ferruzzi-Gardini e l’ing. Bini, Brusca ha evidenziato di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese (la cava Bigliemi e una Soc. Calcestruzzi) al gruppo Ferruzzi; che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato; che l’ing. Bini rappresentava il gruppo in Sicilia e la Calcestruzzi S.p.A.; che i fratelli Buscemi si “tenevano in mano…… questo gruppo imprenditoriale in maniera molto forte” e potevano contare sulla disponibilità di un magistrato appartenente alla Procura di Palermo, di cui non ha voluto rivelare il nome; che Salvatore Riina, in epoca precedente all’interesse per l’impresa Reale, si era lamentato del fatto che i Buscemi non mettevano a disposizione dell’intera organizzazione i loro referenti».
Dal 2018 Il Dubbio si interessa alla vicenda del dossier mafia-appalti
Il Dubbio, fin dal 2018, ha condotto una inchiesta giornalistica sulla questione del dossier mafia-appalti. “Mandanti occulti bis” dei primi anni 2000 a parte, in questi lunghissimi anni non sono mai state riaperte le indagini nonostante siano venuti fuori nuovi elementi come le audizioni al Csm di fine luglio 1992 dove emerge con chiarezza che cinque giorni prima della strage, il giudice Borsellino partecipò a una assemblea straordinaria indetta dall’allora capo procuratore capo Pietro Giammanco. Una assemblea, come dirà il magistrato Vincenza Sabatino, inusuale e mai accaduta prima. Dalle audizioni di alcuni magistrati emerge che Borsellino avrebbe fatto dei rilievi su come i suoi colleghi, titolari dell’indagine, avrebbero condotto il procedimento. Addirittura, come dirà il magistrato Nico Gozzo, si sarebbe respirata aria di tensione.
Gli omicidi di Salvo Lima e del maresciallo Guazzelli per Borsellino sono legati a mafia-appalti
Ed è lo stesso Borsellino, come si evince dalle parole dell’allora pm Vittorio Teresi nel verbale di sommarie informazioni del 7 dicembre 1992, a dire che a suo parere sia l’omicidio su ordine di Totò Riina dell’europarlamentare Salvo Lima che quello del maresciallo Guazzelli sono legati alla questione del dossier mafia-appalti perché si sarebbero rifiutati di intervenire per cauterizzare il procedimento mafia appalti. Da tempo sia Fiammetta Borsellino che il legale della famiglia Fabio Trizzino, chiedono di sviscerare cosa sia accaduto nel biennio del 91-92 all’interno del “nido di vipere”(definizione di Borsellino riferendosi alla procura di Palermo) e soprattutto quando fu depositata la richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti mentre – come ha detto l’avvocato Trizzino al processo depistaggi – «stavano ancora chiudendo la bara di Paolo Borsellino e dei suoi angeli custodi».
Stragi Capaci e via d’Amelio, desecretazione di nuovi atti: via libera dal Csm. Il Comitato di Presidenza aveva proposto la delibera, votata all'unanimità dal Plenum. Gli audio saranno disponibili sul sito internet di Palazzo dei Marescialli. Il Dubbio il 20 luglio 2022.
Desecretazione dei verbali delle audizioni condotte il 31 luglio 1992, e pubblicazione sul portale web di Palazzo dei Marescialli – in occasione del trentesimo anniversario delle stragi di Capaci e di via d’Amelio – di quelli delle audizioni dei magistrati della procura di Palermo, del procuratore generale e dell’avvocato generale disposte tra il 28 e il 31 luglio del ’92 dal gruppo di lavoro per gli interventi del Csm «relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata». È quanto disposto oggi dal plenum del Csm, che ha approvato all’unanimità una delibera presentata dal Comitato di presidenza.
«Il Comitato ritiene opportuno disporsi la desecretazione anche delle audizioni svolte nel giorno 31 luglio 1992, e la pubblicazione di tutti i verbali – ha detto, presentando la delibera al plenum il vicepresidente del Csm David Ermini – considerando che la pubblicazione di tali atti sia utile ed opportuna per completare il quadro dell’informazione di tutti i cittadini in ordine a vicende che hanno segnato in maniera significativa la storia del Paese culminando con l’estremo sacrificio di magistrati che hanno strenuamente perseguito la difesa della legalità democratica».
I verbali post Via D’Amelio al Csm ora sono pubblici, ma erano disponibili da anni. Fin dagli anni 90 i verbali non erano secretati, ma disponibili nel faldone della procura nissena. Lo stesso Palamara testimonia che il Csm non li ha mai resi pubblici per evitare problemi. L’avvocato Trizzino denuncia: “Sarebbero dovuti entrare nei primi processi Borsellino!”. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 22 luglio 2022.
Si parla di desecretazione dei verbali del Consiglio superiore della magistratura contenenti le audizioni dei magistrati della Procura di Palermo disposte all’indomani della strage di via D’Amelio e tenute nei giorni 28, 29, 30 e 31 luglio 1992. Ma non è corretto. Infatti sul sito istituzionale, il Csm parla di pubblicazione che è ben diverso. Non a caso, i verbali si trovano anche nella Procura di Caltanissetta fin dalla fine degli anni 90 nel faldone dell’allora Gip Gilda Loforti per quanto riguarda l’indagine, in seguito archiviata dalla Gip stessa, nei confronti di alcuni magistrati della procura di Palermo, tra i quali l’allora procuratore capo Pietro Giammanco, in merito alla fuga di notizie (accertata, ma senza colpevoli) del dossier mafia-appalti e corruzione annessa: posizione archiviata perché non sono stati acquisiti elementi certi e univoci sulla presunta indebita percezione di denaro. Nello stesso procedimento è stata archiviata anche la posizione dell’allora Ros Giuseppe De Donno e dell’ex pentito Angelo Siino accusati di calunnia.
Si tratta di atti già conosciuti dalla procura di Caltanissetta
D’altronde, lo stesso avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Borsellino, precisa che «in realtà si tratta di atti forse inizialmente secretati, ma successivamente resi ostensibili, tanto ciò è vero che sono stati rinvenuti nei fascicoli del procedimento della dottoressa Gilda Loforti degli anni 90. Procedimento a carico di Pietro Giammanco e altri magistrati in relazione alla ipotesi di corruzione per la rivelazione all’esterno del dossier mafia-appalti, che ovviamente avrebbe dovuto rimanere segretissimo. Atti dunque già conosciuti dalla procura di Caltanissetta competente ex ar.11 c.p.p. per reati eventualmente commessi da magistrati del distretto di Palermo». E amaramente aggiunge: «A mio giudizio dovevano entrare nei fascicoli del pubblico ministero dei primi processi su Borsellino, per consentire a tutte le parti di prenderne conoscenza. E in particolare alla famiglia Borsellino costituita parte civile in quei processi. Questo non è avvenuto. Ed è quello che conta!».
Luca Palamara in Antimafia rivelò che il Csm non li ha mai resi pubblici per evitare problemi
Ma a chiarire meglio la questione della mancata pubblicazione dei verbali è stesso Luca Palamara quando è stato audito lo scorso anno alla commissione Antimafia presieduta da Nicola Morra. La pubblicazione dei verbali, ha ricordato Palamara, si era fermata fino a una certa data, evitando di pubblicare quelli tenutasi dopo l’eccidio di Via D’Amelio, «per evitare che potessero in qualche modo essere messi in discussione gli equilibri politico istituzionali che in quel momento governavano il mondo interno della magistratura». Questi sono i fatti.
Borsellino partecipò alla riunione del 14 luglio 1992 in procura a Palermo
Così come è un fatto che dalle testimonianze dei magistrati di Palermo al Csm, emerge che Borsellino partecipò alla riunione del 14 luglio 1992, quindi a cinque giorni dell’attentato, e fece importanti rilievi sull’indagine relativa al dossier mafia-appalti. Non solo. Come si evince dai verbali, in particolar modo dall’audizione del magistrato Nico Gozzo, il giudice Borsellino chiese di rinviare la riunione per poter affrontare meglio la questione del procedimento. Ma non fece in tempo. La riunione del 14 luglio – tranne l’agenzia stampa Adnkronos – non viene riportata da nessun’altra agenzia giornalistica. Di conseguenza anche i maggiori giornali così come alcuni magistrati, perennemente presente in tv o sulla stampa, non hanno fatto riferimento all’unica cosa che conta: ovvero su cosa stava puntando Borsellino e che problematiche lui stesso ha riscontrato a cinque giorni del suo omicidio. Ma non importa, il discorso è stato dirottato sulla presunta mancata carriera di chi – dopo la morte di Borsellino e quindi dopo le forti proteste pubbliche da parte dei cittadini palermitani – ha votato una risoluzione per chiedere la sostituzione dell’allora capo Pietro Giammanco. Ma forse bisogna concentrarsi su quello che accadde quando Borsellino era ancora in vita.
Nella riunione del 14 luglio Borsellino chiese delucidazioni del dossier “mafia-appalti”
Ritorniamo alla riunione del 14 luglio 1992. Non fu una riunione ordinaria. A dirlo innanzi al Csm è stata il magistrato Vincenza Sabatino. «Mai era stata convocata un’assemblea di questo genere per i saluti in occasione delle ferie estive», ha sottolineato. Spiega che Giammanco scrisse «vi prego di intervenire all’assemblea d’ufficio che avrà luogo martedì 14 alle ore 17 nel corso del quale verranno altresì trattate problematiche di interesse generale attinenti alle seguenti rilevanti indagini che hanno avuto anche larga eco nell’opinione pubblica». E infatti, come si apprende leggendo il comunicato, tra i primi posti dell’ordine del giorno compare proprio “mafia-appalti”. Prosegue la dottoressa Sabatino: «È il procuratore che scrive, e lui già si rende conto alla data dell’11 luglio, quando la convoca, che c’è da tempo una situazione di questo tipo, non è soltanto il lancio delle monetine e sputi che avverrà il 19 sera, ma è una situazione che esiste da tempo».
Quindi cosa significa? Che la tensione nel palazzo giustizia di Palermo era palpabile già da tempo, tanto da convocare un’assemblea straordinaria. Borsellino vi partecipò ed è anche il magistrato Luigi Patronaggio a raccontare che il giudice chiese delucidazioni sul dossier mafia-appalti, sottolineando il presunto mancato respiro dell’indagine. Patronaggio, innanzi al Csm, ha precisato che Borsellino «disse espressamente che i carabinieri (i Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, ndr.) si aspettavano da questa informativa (il dossier mafia-appalti, ndr.) dei risultati giudiziari di maggiore respiro». Alla domanda se si riferisse alla posizione dei politici, Patronaggio ha precisato: «In realtà no, non è solo nei confronti dei politici, ma anche nei confronti degli imprenditori, perché il nodo era valutare a fondo la loro posizione e su questo punto il collega Lo Forte si dilungò spiegando il delicato meccanismo e la delicata posizione degli imprenditori».
A cinque giorni dalla sua morte Borsellino si fidava dei Ros
Bisogna fare attenzione a tre elementi che emergono durante quella riunione ancora oggi poco considerata nonostante la pubblicazione dei verbali: l’argomento è il dossier mafia-appalti, Borsellino si fa portavoce delle lamentele dei Ros, il giorno prima i pm titolari di quell’indagine avanzarono già richiesta di archiviazione proprio sulle posizioni degli imprenditori. Quindi si evince che, a cinque giorni dalla sua morte, Borsellino si fidava dei Ros e dalle domande che pone si capisce che – almeno fino a quel giorno – i suoi colleghi non avrebbero condiviso con lui l’andamento dell’indagine. Però, i titolari di quell’indagine, sentiti come testimoni al recente processo Borsellino tenutosi presso il tribunale di Caltanissetta, hanno affermato che mai Borsellino fece quei rilievi durante la riunione e che hanno, fin da subito, condiviso con lui l’indagine mafia-appalti. Anche il magistrato Nico Gozzo, sentito dal Csm, parlò dei rilievi che Borsellino fece su mafia-appalti, aggiungendo altri elementi importanti.
La sorella di Falcone: «Borsellino mi disse che era molto vicino a scoprire delle cose tremende»
Interessante anche l’audizione della sorella di Giovanni Falcone. Racconta che lei avrebbe voluto andare dalle autorità competenti per parlare delle difficoltà che il fratello aveva avuto nella procura di Palermo guidata da Pietro Giammanco. Ma Borsellino le disse di avere pazienza e di aspettare: ci avrebbe pensato lui, perché stava acquisendo delle prove, dei documenti. E ha aggiunto: «Borsellino sapeva che doveva competere come un leone, e quindi doveva portare delle prove, delle cose inconfutabili. Verso la fine mi ha anche detto, nel trigesimo della morte di Giovanni, durante la messa, che era molto vicino a scoprire delle cose tremende». Interessa a qualcuno? Tranne ai figli di Borsellino e all’avvocato Trizzino, sembra che sia più importante sottolineare la presunta mancata carriera di chi, dopo l’eccidio, firmò il documento contro Giammanco. Meglio dirottare il discorso verso il complotto internazionale, le entità, i servizi e la strategia della tensione (tra l’altro anacronistico visto che parliamo degli anni 90). Ma quello che ha fatto e detto Borsellino fino agli ultimi suoi giorni di vita, passa in sordina per l’ennesima volta.
Mafia e appalti, 5 giorni prima di essere ucciso Borsellino chiese chiarimenti sull’inchiesta e sui nomi dei politici. Paolo Lami mercoledì 20 Luglio 2022 su Il Secolo d'Italia.
Cinque giorni prima di essere ucciso nella strage di via D’Amelio, nel corso di una infuocata riunione della Procura diretta da Pietro Giammanco, il 14 luglio del 1992, prima delle vacanze estive, il giudice Paolo Borsellino “chiese spiegazioni” sul dossier mafia e appalti, una inchiesta coordinata dai pm Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte.
“Borsellino chiese spiegazioni su un procedimento riguardante Angelo Siino e altri” e “capisco che qualcosa non va evidentemente perché mi sembra insolito che si discuta così coralmente con dei colleghi assegnatari dei processi”, racconta il 31 luglio di 30 anni, il giudice Luigi Patronaggio, nel corso di una audizione del Csm, i cui verbali sono stati resi pubblici solo oggi.
Patronaggio era presente in quella riunione. Ma perché Borsellino era così arrabbiato?
Patronaggio prova a spiegarlo così, trent’anni fa, ai colleghi del Csm: “Paolo Borsellino chiese spiegazioni su questo processo contro Siino”, l’ex-“assessore dei Lavori pubblici” di Cosa nostra, “perché lui aveva percepito che vi erano delle lamentele da parte dei carabinieri verosimilmente e chiese delle spiegazioni che non erano tanto di carattere tecnico, cioè se era stata fatta o meno una cosa, ma più che altro era il contorno generale del procedimento. Chi c’era o chi non c’era, perché poi, in buona sostanza, la relazione sul processo Siino fu fatta unicamente, esclusivamente per dire che non vi erano nomi di politici rilevanti all’interno del processo o che se vi erano nomi di politici rilevanti all’interno del processo di un certo peso entravano soltanto per un mero accidente che comunque, insomma, ecco, allora la spiegazione di Borsellino fu che chiese spiegazione, fu di carattere estremamente generale, chi erano i politici, ma perché. Insomma, cose di questo genere, non erano singoli fatti, atti istruttori”.
Ma cosa è il dossier mafia e appalti? Tutto nasce da una delega conferita nel 1989 dalla Procura di Palermo ai Ros che aveva, quale principale obiettivo, quello di accertare “la sussistenza, l’entità e le modalità di condizionamenti mafiosi nel settore degli appalti pubblici nel territorio della provincia di Palermo”. Il risultato di questa attività è il rapporto dei Ros del febbraio ’91.
Giovanni Falcone è ormai in procinto di trasferirsi a Roma, al Ministero della Giustizia.
Il fascicolo finisce così sulla scrivania del procuratore Pietro Giammanco. Che, a maggio, ne affida l’esame ai sostituti Sciacchitano, Morvillo, Carrara, De Francisci e Natoli.
Il 25 giugno 1991 viene presentata una richiesta di custodia cautelare nei confronti di Angelo Siino, Giuseppe Li Pera, Cataldo Farinella, Alfredo Falletta e Serafino Morici, accolta dal gip il 9 luglio.
Più o meno nello stesso periodo, il 26 luglio 1991, viene contestualmente delegata ai Ros un’ulteriore attività investigativa riguardante la società regionale Sirap Spa.
Un rapporto che creerà una frattura tra la Procura e i Carabinieri del Ros, sul mercato degli appalti in Sicilia.
Subito dopo la morte di Borsellino, la Procura chiese l’archiviazione dell’inchiesta su mafia e appalti. Che fu accolta poco dopo.
Ma in quell’incontro del 14 luglio 1992 il pm Guido Lo Forte nascose al giudice di avere firmato, appena il giorno prima, l’archiviazione dell’inchiesta”, ha detto, di recente, nel corso dell’arringa del processo depistaggio Borsellino, l‘avvocato Fabio Trizzino.
Le minacce di morte a Lo Voi nel ’92, il Csm desecreta gli atti: arrivò una telefonata…Paolo Lami mercoledì 20 Luglio 2022 su Il Secolo d'Italia.
In occasione del trentennale delle stragi mafiose, il Csm desecreta gli atti da cui emerge che, nel ‘92, pochi giorni dopo la strage di Capaci, arrivò una telefonata in Questura in cui si diceva che sarebbe accaduto qualcosa a un giudice che abita in una determinata via di Palermo e quel giudice era Francesco Lo Voi, l’attuale Procuratore capo di Roma.
Il Csm ha autorizzato la pubblicazione dei verbali secretati delle audizioni dei magistrati della Procura di Palermo condotte tra il 28 e il 31 luglio 1992 dal Gruppo di Lavoro per gli interventi del Csm relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata.
La decisione di rendere note le minacce subite da Lo Voi è stata deliberata dal Plenum all’unanimità, su proposta del comitato di presidenza il quale, ha detto il vicepresidente David Ermini, ritiene che “la pubblicazione di tali atti sia utile ed opportuna per completare il quadro dell’informazione di tutti i cittadini in ordine a vicende che hanno segnato in maniera significativa la storia del Paese culminando con l’estremo sacrificio di magistrati che hanno strenuamente perseguito la difesa della legalità democratica”.
A raccontare delle minacce ricevute era stato lo stesso Lo Voi nell’audizione del 29 luglio 1992 davanti al Csm.
“Verso i primi di giugno – racconta Lo Voi – non ricordo se il 6, il 7 o l’8 giugno, alle nove meno cinque del mattino, io stavo per scendere da casa quando arriva una telefonata dalla Questura. Mia moglie prende la telefonata e quel funzionario le dice: ‘Dica a suo marito di non muoversi da casa perché abbiamo appena ricevuto una telefonata dicendo che dovrebbero fare qualcosa a un giudice che abita in via …, che è la strada dove sto io. Non si allarmi, non si preoccupi”.
“Allora io telefono al Procuratore per avvertirlo che intanto ritardavo – dice – e lui si è interessato dicendomi ‘Non ti preoccupare, telefono subito al Questore e mi faccio dire cosa stanno facendo e ti richiamo”.
Poi racconta che nella telefonata successiva il Procuratore capo gli confermò della minaccia. E gli dice di “stare tranquillo”. Ma pochi giorni prima c’era stata la strage di Capaci. In quei giorni, come ha raccontato Lo Voi al Csm, era preoccupato per le figlie che gli chiedevano di Falcone e Borsellino.
30 anni dalla strage. Dossier mafia appalti, l’inchiesta di Falcone e Borsellino affossata dopo la strage di via D’Amelio. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Luglio 2022.
Come viene ricordato Paolo Borsellino, a trent’anni dal suo sacrificio? Con il depistaggio continuo. Il 19 luglio del 1992 la mafia l’ha assassinato e da quello stesso giorno sono iniziati i complotti e le trame, in modo che non si sapesse perché il magistrato è stato ucciso, perché con tanta fretta subito dopo la strage di Capaci e la morte di Giovanni Falcone, né chi esattamente e in che modo gli ha tolto la vita. Il depistaggio è stato immediato, ha avuto percorsi che hanno attraversato caserme e procure e poi aule di ingiustizia. Con tante complicità, volute e non, di uomini in divisa e in toga, e persino di incolpevoli giudici popolari. Finché si è arrivati alla farsa del processo sugli anelli ultimi della catena, finito con le prescrizioni.
Ma intanto erano stati opportunamente tenuti fuori da ogni responsabilità, tutti i pubblici ministeri che parteciparono alle giornate in cui fu costruito il pentito fantoccio. Ma anche tutti i gip. E poi tutti i giudici dei processi Borsellino uno-due e tre. Finché non è arrivato quel bel personaggio di nome Gaspare Spatuzza, l’assassino del magistrato che, in cambio di notevoli vantaggi, ha detto “sono stato io”. Ma il depistaggio continua. Si parte da Scarantino e si arriva a Berlusconi. Il depistaggio perpetuo. Possiamo metterle in fila, tutte le trame di questi trent’anni, non sono poche. Si parte dall’inchiesta su “Mafia e appalti”, su cui Borsellino stava lavorando e che fu frettolosamente archiviata mentre lui stava chiudendo gli occhi. Chi è abituato a chiedersi i perché di quel che accade, potrebbe ragionare su quell’accelerazione improvvisa che fece esplodere la bomba di via D’Amelio a soli due mesi da quella di Capaci. Una tempistica fuori dall’ordinario e apparentemente senza senso, su cui è calato un “opportuno” silenzio.
Perché alcune toghe e divise erano troppo impegnate a costruire il burattino del falso pentito da una parre, e a inventare un’inesistente “trattativa” tra la mafia a una parte dello Stato dall’altra. Negli intervalli c’era sempre di che trastullarsi con il nome di Silvio Berlusconi. Qualche pentito da strapazzo, pronto a fare il ventriloquo del pm in cambio di qualche favore, lo si trova sempre. Né Falcone né Borsellino avrebbero mai costruito il burattino Scarantino, né, qualora lo avesse loro proposto su un piatto d’argento qualcun altro, lo avrebbero accettato. Forse si sarebbero messi a ridere, davanti a tanta incompetenza, quasi si fossero trovati di fronte a una burla. E possiamo immaginare per esempio la faccia di Falcone se gli si fosse presentato davanti un Ingroia, o un Di Matteo o uno Scarpinato a raccontargli la favola della “trattativa”? Vogliamo provare a fare il conto di quanti decenni, quanti processi-farsa, quanto denaro pubblico sprecato, quanti inquirenti fallimentari vanno messi insieme per proclamare il Grande Fallimento giudiziario del più grande depistaggio della Storia, quello che non è ancora finito e di cui non si sa se e quanto finirà?
Il depistaggio “trattativa” è partito da subito, negli stessi anni in cui iniziava quello sull’uccisione di Borsellino. Tutti e due sono durati trent’anni e nessuno dei due si è ancora concluso. Se pure il 23 settembre del 2021 la corte d’assise d’ appello di Palermo ha mandato assolti Marcello Dell’Utri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni (ma precedentemente anche Calogero Mannino e Nicola Mancino) dal sospetto infame di essere collusi con la mafia, il depistaggio non è ancora finito. E ha le sembianze di Silvio Berlusconi. Perché la rilettura della storia d’Italia come storia criminale e mafiosa della politica ha radici lontane. Ed echeggia ogni giorno negli scritti di pubblici ministeri del presente e del passato che ci ricordano che non è finita lì. Che i giudici non contano niente, soprattutto quando assolvono. Che cosa ha scritto uno che la sa lunga per esperienza personale come Luca Palamara? Se sei un pm sveglio e hai dalla tua un bravo poliziotto e uno o due cronisti di riferimento, puoi distruggere chiunque.
Ma distruggere Silvio Berlusconi non è facile. Ci provano dal 1994, da quando è entrato in politica. Prima non contava niente, agli occhi dei pubblici ministeri dell’antimafia militante. Ma in quell’anno partì l’operazione Oceano e immediatamente un’indagine sull’origine dei finanziamenti alla Fininvest. Un buco nell’acqua che costringerà i pm di allora a chiedere l’archiviazione. Sono gli anni in cui l’antimafia militante sbriglierà la fantasia a tutto campo. Possiamo ricordare “Sistemi criminali”, un polpettone del 1998 che metteva insieme tutte le stragi, da Bologna a via D’Amelio, ipotizzando l’esistenza di una sorta di spectre composta di imprenditori, massoni, piduisti, politici e terroristi. Un flop che sarà secondo solo a quello clamoroso iniziato con il famoso papello di Totò Riina, che sfocerà nel grande depistaggio del processo “trattativa”. Il fantasma di Berlusconi abita quotidianamente nella mente di due pm di Firenze e due cronisti del Fatto. Non si lamenti troppo Matteo Renzi, per l’attenzione del procuratore aggiunto Luca Turco, perché almeno non gli dà del mafioso. Perché lo stesso magistrato, insieme al collega Luca Tescaroli, indaga Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti di stragi mafiose. Il che è un po’ più grave dell’inchiesta su Open.
Soprattutto se si fa attenzione alla provenienza geografica del dottor Tescaroli: Palermo, procura della repubblica. Evidentemente non gli bastano i numerosi fallimenti di quegli uffici nelle inchieste su Berlusconi. Ora succede che periodicamente dal palazzo di giustizia di Firenze escano fogli e foglietti, con la veste di atti giudiziari, che planano sulle scrivanie di due cronisti del Fatto, Marco Lillo e Valeria Pacelli, che disciplinatamente pubblicano. Domenica scorsa siamo stati allietati dalla lettura integrale di una memoria depositata dai due pm al tribunale del riesame che deve decidere se, nonostante il “no” sonoro della cassazione, siano valide perquisizioni e sequestri a persone non indagate che hanno il solo torto di essere parenti del boss mafioso e assassino Giuseppe Graviano. Uno che sta facendo i conti con la propria vita di ergastolano e ogni tanto ripete che suo nonno aveva raccolto negli anni settanta un bel gruzzoletto e l’aveva dato a Berlusconi per finanziare la Fininvest. La prova sarebbe in una scrittura privata affidata ai parenti. Che naturalmente non è stata trovata nelle perquisizioni.
L’ipotesi dei due pm è che, se il nonno di Graviano ha dato cinquant’anni fa soldi alla Fininvest, per forza di cose e di rapporti consolidati nel tempo, Berlusconi vent’anni dopo ha organizzato le stragi del 1993 e del 1994. Perché non anche quelle del 1992, allora? Ma qualcuno ci crede. Così i giornalisti Lillo e Pacelli, pubblicano sul Fatto in due intere pagine la memoria dei pm. Poi scrivono, usando la vecchia astuzia di Lillo, che queste accuse sono state “già più volte archiviate in passato e tutte da dimostrare” . Ma intanto pubblicano. Aggiungono che sono “accuse che vanno però raccontate all’opinione pubblica, perché riguardano personaggi di primo piano e un momento di svolta della storia recente del Paese”. La svolta, cioè la vittoria elettorale di Berlusconi nel 1994, si chiama democrazia, caro Lillo. Chiaro? Che ne diresti, se domani una ragazza ti accusasse di averla stuprata e un magistrato le desse retta, e qualcuno decidesse di pubblicare tutto? Ma per fortuna noi, e forse la maggior parte dei giornalisti italiani, siamo diversi e non lo faremmo mai. Infatti non facciamo parte dello squadrone di divise toghe e penne per i quali il depistaggio non finisce mai.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
FILIPPO FACCI per Libero Quotidiano il 19 luglio 2022.
Paolo Borsellino fu ucciso perché sapeva: sapeva dell'accordo siglato presso la sede della Calcestruzzi di via Mariano Stabile (Palermo) tra lo stesso Siino, per conto di Cosa Nostra, e gli industriali del Nord accorsi in Sicilia, tra questi l'ingegner Giovanni Bini della Calcestruzzi-Ferruzzi di Ravenna, l'ingegner Lorenzo Panzavolta, il presidente di Confindustria Sicilia Filippo Salamone (fratello del magistrato) il quale rappresentava anche il gruppo Salamone-Micciché-Vita di Agrigento, poi Sergio Di Paolo e Giuseppe Crini della Impregilo, Romano Tronci della De Bartolomeis che rappresentava gli interessi delle cooperative del Pci, Giuseppe Li Pera per la Rizzani-De Eccher di Udine, e ancora la Cogefar Impresit del gruppo Fiat.
Borsellino sapeva di quella spartizione da 25mila miliardi di lire che prevedeva un 2,5 per cento a Cosa Nostra, un altro 2,5 per cento per «proteggere» le imprese (con annessa fornitura di subappalti a impresine legate alla mafia) e infine uno 0,90 per cento addizionale per Totò Riina e Bernardo Provenzano, che avrebbero garantito la pace sociale.
Paolo Borsellino fu ucciso perché questo accordo fu messo nero su bianco in un dossier circolato come un fantasma, curato dal Ros dei carabinieri (Raggruppamento operativo speciale, capitanato dal Generale Mario Mori e fondato il 3 dicembre 1990 su sollecitazione dello stesso Falcone) e che impressionò i due magistrati;
Falcone dovette per forza condividerne la scoperta col suo procuratore capo Pietro Giammanco, il quale lo imboscò per mesi (in termini istruttori) e non delegò neppure Falcone a occuparsene. Sinché, un bel giorno del 1992, il dossier venne illecitamente divulgato, cioè uscì dalla Procura, tanto che ne vennero al corrente il senatore andreottiano mafioso Salvo Lima, il citato Angelo Siino e quindi Cosa Nostra.
E quando Angelo Siino e un suo compare chiesero all'amico Salvo Lima e un maresciallo dei Ros di aggiustare le cose, questi si rifiutarono, sicché, tra marzo e aprile, Cosa Nostra li ammazzò entrambi.
E GIULIO TREMAVA Intanto l'inchiesta Mani pulite non era praticamente ancora nata. Il padre di Lima - si scoprirà - era un affiliato della Famiglia di Palermo Centro, guidata dal boss Angelo La Barbera. Claudio Martelli, ai tempi ministro della giustizia, dirà che «dopo l'uccisione di Lima Andreotti era spaventato... Falcone disse a me e ad altri che il prossimo ucciso sarebbe stato lui: "Lo capite o no che sono un morto che cammina?" sbottò una sera, alla fine di una cena tristissima».
Il dossier parlava in particolare del ruolo di Siino come ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra. Scriverà in un memoriale il generale Mori: «Cosa Nostra temeva gli attacchi alle sue attività economiche... la gestione degli appalti pubblici che erano il canale di finanziamento più importante dell'organizzazione».
Il Ros dei carabinieri e Giovanni Falcone indagarono su questo, sulle turbative mafiose realizzate nelle gare d'appalto: ed emerse che dei tre protagonisti cointeressati, ossia mafia, imprenditoria e politica, le ultime due non erano vittime, ma partecipi dell'attività criminosa: questo, ripetiamo, prima che l'inchiesta Mani pulite prendesse corpo, come ha sostenuto lo stesso Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali.
«Il dottor Falcone, all'inizio del febbraio 1991», ha scritto ancora Mori, «chiese il dossier «Mafia-appalti» e lo portò al procuratore capo Pietro Giammanco... Da allora, malgrado le insistenze del capitano De Donno e le mie, non se ne seppe più nulla».
Il procuratore Guido Lo Forte, braccio destro di Giammanco, ha confermato che il dossier venne consegnato il 20 febbraio 1991 da Falcone al Procuratore Capo Giammanco, «il quale la ripose in cassaforte». Meno di un mese dopo, come detto, Falcone ne parlò al convegno al castello Utveggio di Palermo e disse quella frase sulla mafia che era entrata in Borsa.
Dirà il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso: «Falcone e Borsellino erano dei nemici da bloccare per quello che potevano continuare a fare... la strategia stragista iniziò con l'omicidio Lima. E fu lì che scattò un segnale per cui lo stesso Falcone mi disse "Adesso può succedere di tutto"». Infatti succederà.
Anche la sentenza di Cassazione del processo cosiddetto «Borsellino quater» confermerà che Borsellino, dopo Falcone, fu ucciso «per vendetta e cautela preventiva»: vendetta per il maxiprocesso alla Mafia che era andato in giudicato proprio all'inizio del 1992, cautela per le indagini sul dossier «mafia-appalti» che ancora Borsellino conduceva.
SOLO UNO CAPIVA Quando a Falcone rimaneva un minuto di vita, all'ospedale di Palermo, a Borsellino rimanevano 57 giorni. Nessuno capiva: tranne lui. La sera del 23 maggio, dopo la strage di Capaci, lo show televisivo del sabato andò in onda puntualmente. Non accadde nulla.
Neppure il cosiddetto «decreto Falcone» n. 396 (che comprendeva il carcere duro) era ancora stato convertito in legge. Sarà approvato solo il 20 luglio, il giorno dopo la morte di Borsellino.
Il quale, da vivo, in quei 57 giorni residui, si mise a indagare freneticamente: sveglia alle cinque del mattino, spostamenti furtivi e tre pacchetti di Dunhill Special Light al giorno, lasciò Marsala e torno a Palermo per riprendere il posto che era stato di Falcone, mandò a quel Paese il ministro dell'Interno che gli propose la stessa procura antimafia che tutti avevano rifiutato a Falcone, intervenne a incontri, fece interventi, rilasciò più interviste di quante ne avesse rilasciate in vita sua.
I PENTITI Raccolse le dichiarazioni del pentito Gaspare Mutolo sulla gestione mafiosa degli appalti, cercò le «ragioni che avevano indotto Cosa Nostra all'eliminazione di Giovanni Falcone» (sentenza Borsellino Quater) e sarà ammazzato, Borsellino, proprio per «la pericolosità delle indagini in materia di mafia e appalti.
L'ha confermato in aula il pentito Antonino Giuffrè: «C'era quel rapporto dei Ros che mise a nudo il legame strettissimo tra Cosa Nostra, il mondo imprenditoriale e quello politico per la spartizione delle commesse pubbliche. Falcone e Borsellino capirono subito l'importanza di questo legame che, di fatto, diede un'accelerazione nell'ideazione delle stragi...».
I primi di luglio Borsellino interrogò il pentito Leonardo Messina che spiegò tutto il funzionamento del sistema e diede conferma: «Riina i soldi li tiene nella Calcestruzzi». Ese davvero nulla è più inedito dell'edito, andrebbe riletto un articolo che il giornalista Luca Rossi pubblicò sul Corriere della Sera due giorni dopo la morte di Borsellino, ma basato su quanto il magistrato gli aveva detto quindici giorni prima: «Borsellino pensava che potesse esistere una connessione tra l'omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d'union fosse una questione di appalti... e comunque non poteva darmi dettagli».
C'era un solo luogo al mondo in cui il dossier «Mafia -appalti» non sembrava interessare granché: la Procura di Palermo. Il 16 luglio Borsellino andò a cena col senatore socialdemocratico Carlo Vizzini, che racconterà: «La sua attenzione fu tutta sul rapporto mafia e appalti, in altre parole mafia, politica ed economia... le industrie, soprattutto quelle grandi, si erano sedute al tavolo della spartizione insieme alla mafia».
Il 18 luglio, il giorno prima di morire, Borsellino rivelò alla moglie «che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi a permettere che potesse accadere». Il 19 luglio saltò in aria. E, anche qui, dopo 30 anni, serve il coraggio di non omettere nessun dettaglio. Ma ce ne occuperemo domani.
Mafia, lo studio della Bocconi: dalle stragi ai mercati, così è cambiata la strategia dei padrini. Gianmarco Daniele, Paolo Pinotti su La Repubblica il 9 luglio 2022.
Le organizzazioni criminali hanno in parte cambiato pelle negli ultimi trenta anni. Riducendo drasticamente il numero di omicidi e usando la violenza in maniera più strategica e meno visibile, hanno potuto infiltrare nuove aree del Paese e nuovi settori economici, senza abbandonare i traffici illegali che rimangono parte del loro “core business”.
La stagione delle stragi
Il periodo delle stragi di mafia come quella di Via D’Amelio in cui persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta (di cui il 19 luglio ricorre il trentesimo anniversario) rappresentò il culmine dello scontro tra la mafia siciliana e lo Stato italiano. Solo nel 1991, si contarono 1.916 omicidi, di cui 718 di stampo mafioso. In quel periodo, furono emanate nuove leggi, tra cui il carcere duro (41-bis), lo scioglimento dei Comuni per mafia e fu creata la Direzione nazionale antimafia. In Sicilia, si diffusero i primi movimenti anti-mafia legati alla società civile. Negli anni successivi si osservò un ridimensionamento della mafia siciliana, sebbene non si trattò di una sconfitta definitiva tant’è che oggi i principali gruppi criminali italiani, legati a Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta, sono tutt’altro che sconfitti.
Il calo degli omicidi
Eppure, i dati rilevano la radicale diminuzione nel numero di omicidi. Dai 718 omicidi mafiosi del '91siamo passati a 28 nel 2019. Nel 2020, ci sono stati 271 omicidi in Italia, rispetto ai quasi 2.000 del '91. Un crollo impressionante in soli trent'anni. Con 0,5 omicidi per 100mila abitanti, l’Italia è il Paese con meno omicidi in Europa dopo Islanda e Slovenia. In Italia, oggi, ci sono meno omicidi per capita che in Norvegia, Svizzera o Lussemburgo.
... e la riduzione dei servizi televisivi
Gli alti livelli di violenza degli anni Ottanta e Novanta hanno portato a una forte repressione da parte delle forze dell’ordine e una grande attenzione mediatica e politica. Analizzando l’archivio della Rai degli ultimi quarant’anni, e studiando il contenuto dei telegiornali nazionali e regionali, si osserva un trend interessante. Negli anni con più omicidi mafiosi, aumenta la copertura mediatica legata alla mafia, misurata dalla percentuale di news sul tema mafia. Al contrario, quando calano gli omicidi mafiosi, si parla meno del tema. Non si tratta di un risultato che riguarda solo il giornalismo. Lo stesso trend crescente si registra anche negli interventi in Parlamento legati alla criminalità organizzata. Per esempio, nel biennio 1992-1994 si cita la criminalità organizzata nel 15% dei discorsi dei parlamentari, vent’anni dopo solo nel 4,3%.
Le minacce agli amministratori pubblici
Tutto ciò suggerisce che la diminuzione nel numero di omicidi è, almeno in parte, una scelta strategica. Questo non implica che non si usi più la violenza. Come riportato ogni anno dai report di "Avviso Pubblico" gli amministratori locali sono i target privilegiati delle mafie: minacce, lettere minatorie, incendi, aggressioni. Con una media di circa un attacco al giorno, questo fenomeno passa quasi inosservato sui media, raggiungendo l’obiettivo prefissato: influenzare la politica locale senza attirare troppa attenzione mediatica e politica. Il periodo elettorale è particolarmente delicato: a ricevere più attacchi sono soprattutto i nuovi sindaci, subito dopo l’elezione, nelle aree con maggiore presenza di organizzazioni criminali.
La crescita esponenziale dei sequestri
Questa nuova strategia di fatto ha facilitato l’espansione nel tessuto economico del Paese. A partire dagli anni '90 si è assistito a una grande crescita nel numero di imprese e immobili sequestrati ai mafiosi. Nel 1991, lo Stato sequestrò alle mafie due imprese e quattro immobili. Nel 2019, i sequestri ammontano a 351 imprese e 651 immobili. Ogni operazione di polizia legata alla criminalità organizzata oggi porta a sequestri di circa 1 milione di euro. Alla fine degli anni '90 il valore medio era di circa 50mila euro.
La conquista del Nord Italia
Da un lato, questi numeri testimoniano in maniera indiretta la crescita del potere economico dei gruppi mafiosi, e in particolare della 'ndrangheta. Dall’altro, questi trend riflettono anche una maggiore capacità delle forze dell’ordine di combattere i gruppi mafiosi dove fa più male, nelle risorse economiche. Tuttavia, la lettura pessimistica è incoraggiata da altri dati: solo nel 2019, è stata sequestrata per la prima volta un’impresa legata alla mafia in 11 nuove province italiane (quasi tutte nelle regioni settentrionali): un altro segnale dell’espansione di questi gruppi in nuove aree del Paese.
Dopo il sangue e le stragi, la mafia che è tornata invisibile. GIUSEPPE GOVERNALE su Il Domani il 14 giugno 2022.
Le mafie semplicemente oggi non appaiano, risultando quasi “invisibili” considerato che hanno deciso di non esprimere violenza salvo casi eccezionali, per non attirare l’attenzione. Con la conseguenza per i boss di privilegiare chi fa “click” con il mouse rispetto a chi spara e crea allarme nella collettività
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene dal 22 al 26 giugno a Lamezia Terme.
Ho deciso di scrivere questo libro su input del professor Nando dalla Chiesa. Da una parte, mi disse, era rimasto colpito dalle mie lezioni agli studenti del suo corso di sociologia criminale, i cui commenti secondo lui erano ogni volta vivaci, effervescenti; dall’altra per gli approfondimenti che da direttore della Dia avevo svolto su due antichi rapporti giudiziari, uno di fine ‘800 del questore di Palermo Sangiorgi e l’altro del 1971 di un pool di ufficiali dell’Arma e funzionari della Polizia coordinati dal colonnello dalla Chiesa all’epoca comandante dei Carabinieri della Sicilia occidentale.
Due rapporti, ovviamente diversi ma anche simili. Entrambi delineavano una mafia intesa non tanto come “sentimento di bellezza” (slogan che ha come postulato “la mafia non esiste”) ma come organizzazione il cui scopo principale era già da allora gestire potere e fare affari. Ma non solo. Finivano quasi per smentire la narrazione più accreditata secondo cui dobbiamo tutto a Tommaso Buscetta, che nel 1984, rivelò per primo la struttura organizzativa di Cosa nostra. Senza affatto sminuire le rivelazioni di Don Masino fu semmai Giovanni Falcone ad avere il grande merito di mettersi in frequenza, di essere affidabile e credibile per il pentito, inducendolo così a rivelare, dal di dentro la struttura della mafia siciliana.
Quindi, in verità, “sapevamo già tutto” (il titolo del libro) o quasi.
Sangiorgi, infatti, parlava di 8 gruppi (a Palermo ci sono oggi 8 mandamenti) divisi in sezioni (le attuali famiglie), di un tribunale della mafia (la commissione), di un capo supremo (il capo di cosa nostra). Il colonnello dalla Chiesa evidenziava come le organizzazioni mafiose palermitane avessero in quegli anni orientato le loro scelte operative sull’edilizia e sul traffico degli stupefacenti e come fosse assai pericolosa la loro presenza al nord per via di tanti, troppi, soggiorni obbligati. Scorrendo la rubrica dei 114 denunciati, emerge che già allora, più di cinquanta anni fa, ben 28 erano residenti in Lombardia; inoltre spiegava come fosse irrinunciabile l’attacco ai loro patrimoni: che modernità!
Anche il sottotitolo del libro penso sia eloquente: “perché la mafia resiste”. A questa domanda ho cercato di rispondere illustrando taluni aspetti fondamentali che non possiamo continuare a sottovalutare. A cominciare dall’attuale convinzione tra la popolazione meridionale che la minaccia della mafia sia quasi immanente.
In secondo luogo, il tentativo di spiegare come le organizzazioni criminali non siano solo un fenomeno di povertà: esse, infatti, vanno ovunque, soprattutto dove il Pil cresce e dove c’è minore sensibilità. Non certo per caso oggi si contano 26 strutture di ndrangheta in Lombardia, 16 in Piemonte, 4 in Liguria senza contare l’Emilia Romagna e il nord est.
In terzo luogo cercando di mettere in luce come le mafie semplicemente oggi non appaiano, risultando quasi “invisibili” considerato che hanno deciso di non esprimere violenza salvo casi eccezionali, per non attirare l’attenzione. Con la conseguenza per i boss di privilegiare chi fa “click” con il mouse rispetto a chi spara e crea allarme nella collettività. Non ultimo, certamente, l’aspetto culturale e sociale. A partire dal ruolo delle carceri non poche volte rivelatesi “vere e proprie accademie di mafia” mentre sulla strada possibili futuri boss frequentano le scuole primarie! Una questione della massima importanza tenuto conto che proprio i giovani finiscono per divenire un inesauribile “vivaio”, una cantera che si rivela una vera e propria “linfa vitale”, l’insieme magmatico di coloro e sono tanti purtroppo che si pongono come traguardo nella vita i soldi e il potere. C’è poi, per un’efficace azione di contrasto, la necessità di formare una classe dirigente che, oltre alle conoscenze tecnico professionali venga orientata all’etica della responsabilità, alla capacità di decidere, alla volontà di abbandonare la “mentalità dello zero a zero”, quella asettica e perciò comoda convinzione per cui si possa vincere anche non segnando.
Nella lotta alle mafie per la prima volta siamo passati in vantaggio, ma lo scontro è tutt’altro che vinto definitivamente. Manca l’ultima fase che è propria di ogni conflitto: lo sfruttamento del successo. Occorre l’impegno di tutti, anche di altre “legioni” come il terzo settore, la Chiesa con preti sempre più impegnati nel sociale (il patto educativo firmato il mese scorso a Napoli tra il ministro dell’interno, quello dell’istruzione e l’arcidiocesi per far scendere gli indici di dispersione scolastica va in quel senso) e poi i media e la Scuola, il vero centro di gravitazione di ogni sforzo da realizzare a partire dalle scuole “basse”, così care a Sciascia. Uno step fondamentale.
«Apri il cervello e fai entrare il sole che ti asciuga l’umidità dell’ignoranza» come diceva Ignazio Buttitta, non è solo un detto destinato a rimanere tale, ma deve divenire una sorta di mantra da porre al centro di ogni efficace strategia antimafia. Mai, infatti, una frase è stata più vera: «La mafia teme di più la cultura che la giustizia» (A. Caponnetto). GIUSEPPE GOVERNALE.
Dagotraduzione da Le Monde il 23 maggio 2022.
Dall'Italia al Giappone, dal Brasile alla Nigeria, la criminalità organizzata si sta affermando nei cinque continenti e tende a riprodurre il funzionamento giuridico di una multinazionale: modello economico, management, marketing, gerarchia. Pur mantenendo la sua impronta di manifattura: violenza e regolamento dei conti.
«La nostra caratteristica, sono i soldi». L'uomo che pronuncia queste parole non è il presidente di un hedge fund, ma un funzionario del Primeiro Comando da Capital (PCC), la più grande mafia del Brasile. Organizzazione, finanza, gestione delle risorse umane, pubbliche relazioni, logistica, marketing: seduto in fondo a un bar nel centro di San Paolo, questo boss fa bene a descrivere una multinazionale. Il parallelismo tra il funzionamento della sua organizzazione e quello di una grande azienda si rivela chiaramente man mano che la discussione avanza, finché non mostra sul suo iPhone le immagini degli orrori commessi dai suoi dipendenti contro un concorrente del PCC: amputazioni, teste mozzate e cuori strappati con il machete.
Violenza selvaggia e organizzazione sofisticata, codici di condotta medievali e costante adattamento alle ultime tecnologie: decifrare la realtà di una mafia può sembrare complesso. Se non per osservarne la natura profonda, per capire che una mafia è, prima di tutto, un'impresa criminale che importa negli affari illeciti le pratiche messe in atto dalle società legali per creare ricchezza.
Il dittico traffico-predazione
«Si tratta di domanda e offerta: se qualcuno sulla luna mi chiede della cocaina, compro un razzo per arrivarci!» ride l'uomo che si occupa delle vendite in Europa per il cartello di Sinaloa [uno stato messicano], nel soggiorno di una casa a Culiacan, la capitale di una delle mafie più potenti del mondo.
Come ogni impresa, una mafia ha un modello economico: una strategia e risorse volte a farli guadagnare più soldi possibile. Come molti conglomerati legali, ad esempio Bouygues, che guadagna attraverso varie attività di costruzione, telefonia e televisione, una mafia è un'azienda diversificata. Il suo modello di business è semplice: monetizzare il crimine attraverso un dittico traffico-predazione.
La prima attività che sviluppa una mafia è vendere il proibito a quanti più clienti possibile, attraverso più traffici. Quando Amazon o Carrefour vendono l'accesso immediato a milioni di prodotti alimentari o tecnologici ai consumatori di tutto il mondo, la camorra, gli yakuza o i cartelli messicani vendono loro la soddisfazione di vari vizi: consumo di droga, sesso con prostitute di ogni genere ed età, giochi clandestini, detenzione di prodotti contraffatti...
Ma, oltre a vendere, una mafia ruba. Su scala industriale. L'altra grande attività mafiosa è la predazione dell'economia legale, attuata attraverso una moltitudine di tecniche di caccia. Le organizzazioni italiane o la yakuza estorcono qualsiasi società legale operante sul loro territorio, imponendo loro fornitori, o estraendo il loro fatturato da appalti pubblici aggiudicati da leader politici acquistati. Dallo shampoo alla medicina, le triadi cinesi sono esperte nella contraffazione di miliardi di prodotti di società legali. In Nigeria, la criminalità organizzata locale rende tutto più semplice: ruba a Shell, Chevron e Agip il 20% della produzione di petrolio del sesto esportatore dell'OPEC, raffinato e rivenduto in Africa, Asia ed Europa...
Una gamma di strutture
il commercio illecito genera profitti inimmaginabili nell'economia legale: quasi il 4.000% dalla cocaina venduta in Europa dai cartelli messicani, più del 100.000% dai riscatti pagati dai loro bersagli a gruppi di hacker specializzati in cyberextortion di multinazionali…
«Qui tutto è strutturato tra clan specifici, con due persone al vertice di tutti», spiega il capostipite di una potente famiglia della Sacra Corona Unita, sulla terrazza di un ristorante di Brindisi, epicentro della quarta mafia italiana (Puglia). L'applicazione di un modello economico così redditizio si basa sempre su una struttura precisa. Come nell'economia legale, nell'organizzazione economica delle mafie convivono due modelli principali.
Molte organizzazioni criminali sono strutturate in modo piramidale, come L'Oréal o Microsoft, con un consiglio di amministrazione alla testa, come la kupola delle mafie albanesi o il "comitato degli ufficiali" delle triadi cinesi. Poi vengono le unità di business e i mercati: le 'carriere' del PCC con a capo un 'finale', un vero e proprio direttore delle operazioni, o i locali (piazze) della 'Ndrangheta, con a capo un capo locale. Diverse direzioni funzionali completano questa organizzazione a matrice, come i consiglieri, braccio destro dei capi delle famiglie americane di Cosa-Nostra, il Libro negro (libro nero) dei clan PCC, responsabili dell'arbitrato dei mercati e dei conflitti finanziari, o il "fan del white paper", il vero direttore amministrativo e finanziario di una triade cinese.
Buona gestione delle risorse umane
Alcune organizzazioni criminali hanno una struttura ancora più flessibile, come i gruppi di criminali informatici, ma anche alcune mafie più antiche, come la camorra. Una federazione di più famiglie mafiose operanti su tutto il territorio napoletano, ma anche in Bulgaria, Romania, Germania, Polonia, Albania, Spagna, Brasile e Colombia, questa mafia non ha un'unica direzione centrale. Tutti i suoi clan, tuttavia, sono uniti dal loro territorio e dagli accordi commerciali che fanno tra loro per importare e distribuire le tonnellate di cocaina, eroina, metanfetamine e marijuana che vendono nei rispettivi mercati.
«L'anno scorso ho perso cinque uomini. Ma ci sono sempre nuovi arrivati che vogliono far parte del cartello». Kalashnikov alla mano, circondato da una dozzina dei suoi uomini armati, questo leader di settore del cartello di Sinaloa sa che per portare avanti un'impresa, servono prima di tutto gli uomini. Attratti da redditi spesso fuori portata per loro nell'economia legale, i candidati mafiosi non mancano.
Resta da selezionarli: «Passiamo i giovani al “pettine dei pidocchi”, una selezione serrata, effettuata dagli anziani negli anni, nelle carceri e per strada. E manteniamo quelli buoni. Quelli che sono violenti, ma anche calmi e intelligenti. Altrimenti, il PCC sarebbe pieno di milioni di idioti», spiega il quadro di questa organizzazione a San Paolo. Una volta reclutato, il membro di una mafia obbedisce a una gerarchia più o meno elaborata, ma sempre rigida, e i suoi progressi possono essere lunghi.
Occorrono quindi diversi anni prima che uno yakuza si sottragga allo status di jun-kosei-in (apprendista) e salga i sei strati gerarchici di un clan, con una minima possibilità di diventare kumicho (capofamiglia). Ma un'azienda mafiosa sa premiare e trattenere la propria forza lavoro: in una piazza di Napoli (luogo dove si vende la droga) gli stipendi di un camorrista variano da 2.000 euro al mese per un giovane spacciatore di cannabis a 5.000 euro per un spacciatore di cocaina, e fino a 200.000 euro per chi riesce a diventare market manager: una scala salariale paragonabile a quella dei trader che operano nelle trading room delle grandi banche di investimento a Londra, Singapore o New York…
Il marketing è un'abilità chiave per chiunque voglia entrare in un'organizzazione criminale. Aprendo WhatsApp, il venditore del cartello di Sinaloa riproduce un messaggio inviato da uno dei suoi grandi acquirenti di cocaina europei sui suoi distributori locali: «Sai il cristallo (una metanfetamina molto forte), conosco molte persone che vorrebbero testarlo. Hanno un punto vendita. Sono anche pronti a offrirlo ai tossicodipendenti per due, tre giorni o una settimana in modo che diventino dipendenti».
Se può vendere prodotti pericolosi nei propri territori, una mafia si preoccupa soprattutto di essere accettata il più possibile dalla popolazione ivi presente, dispiegandovi quanto prima una forma di responsabilità sociale e ambientale, alla maniera delle mafie Brasiliane che distribuirono mascherine e cestini alimentari alle popolazioni delle favelas durante la prima ondata di Covid-19.
Qualsiasi mafia padroneggia un altro tipo di gestione essenziale per il successo di un'azienda: la gestione della filiera (supply chain). «Bisogna acquistare direttamente dai produttori colombiani, e vendere in Europa con il minor numero di intermediari possibile, altrimenti si perdono soldi», spiega il "narco" del cartello.
Produzione – trasformazione – esportazione – vendita: per spostarsi dal sud della Colombia ai porti di Rotterdam o Genova, le centinaia di tonnellate di cocaina vendute nel mondo dai cartelli messicani seguono lo stesso tipo di catena economica e logistica di una cassa di banane o di un contenitore di componenti elettronici.
Infine, una mafia non può sopravvivere senza implementare costantemente tecniche finanziarie e legali avanzate. E questo perché ha la necessità essenziale di trasformare le tonnellate di denaro da criminalità che il suo traffico genera in denaro pronto per essere investito nell'economia legale: nelle aziende o sui mercati finanziari.
Il riciclaggio di denaro consente a una mafia di trarre profitto dal denaro dei suoi crimini. Iniettato nelle casse delle imprese legali, depositato in migliaia di conti correnti bancari, trasferito da centinaia di agenzie di trasferimento di denaro o convertito in criptovalute, il contante di una rete criminale si trasforma progressivamente in file di scritture sui conti bancari di società iscritte in territori mafiosi, ma anche in galassie di trust e dozzine di paradisi bancari. Una volta fuori dalla portata del radar giudiziario, il denaro della criminalità colonizza massicciamente l'economia legale dei territori mafiosi.
Società di costruzione o trattamento rifiuti, catene alberghiere, terreni agricoli, società di trasporto, parchi eolici, società di calcio, società di investimento finanziario, pesca, società immobiliari: una mafia possiede una moltitudine di società legali, che può utilizzare per i suoi rapporti, ma che gestisce soprattutto da buon padre. Ogni anno la giustizia italiana sequestra diversi miliardi di euro di beni legali detenuti dalle quattro mafie del Paese...
Corruzione e violenza
In questa fase finale, la mafia non copia il business legale: è un business legale. È quindi fondamentale non dimenticare l'origine criminale del suo capitale, che due strumenti essenziali gli hanno inizialmente consentito di accumulare.
Prima la corruzione sistematica. «È fondamentale pagare i militari dell'intera regione in cui lavoriamo, altrimenti non saremmo in grado di estrarre un litro di greggio e non ci sarebbero affari possibili!», spiega questo boss del traffico petrolifero nel Golfo di Guinea. Dalla Nigeria alla Cina, dalla Francia al Messico, una mafia deve sempre cercare di anestetizzare le autorità pubbliche che la combattono.
Violenza, spesso estrema: questa è l'altra leva che una mafia attiva sempre per guadagnare i soldi che poi investe nelle sue imprese. Alla domanda sul numero di persone da lui stesso giustiziate, il Capo Settore del Cartello di Sinaloa risponde con voce pacata: «Non ho mai contato, ma più di cento». È qui che finisce il parallelo tra mafia e affari legali.
Ventinove anni fa la strage di via dei Georgofili a Firenze. Cosa c’è oltre Cosa nostra. La strategia delle bombe al Nord, le connessioni con il quadro politico in evoluzione, l’ondata di attentati, le trattative sotterranee tra boss e istituzioni, nel racconto del pm che da Caltanissetta alla Toscana ha scandagliato i misteri di quella stagione. Luca Tescaroli, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, su L'Espresso il 26 Maggio 2022.
L’input investigativo che ha consentito di ricostruire la fase preparatoria ed esecutiva degli attentati del biennio 93-94 è stato fornito dall’analisi dei tabulati delle utenze telefoniche. La verifica dei contatti intercorsi nella fascia oraria caratterizzata dall’attentato di via dei Georgofili faceva emergere, infatti, che un cellulare - dopo un lungo periodo di inattività dello stesso (dal 30 marzo 1993 al 25 maggio 1993) - si era acceso ventiquattro ore prima dell’esplosione, alle ore 1,04 del 26 maggio 1993, effettuando una chiamata in uscita. Era quello in uso a Gaspare Spatuzza. Il suo cellulare risultava costantemente presente sotto determinati ponti radio in coincidenza del periodo interessato dalle stragi di Firenze, di Roma e di Milano. Il monitoraggio del traffico telefonico consentiva, altresì, di individuare la persona che aveva trasportato l’esplosivo servito per le stragi nelle tre città: Pietro Carra, nonché di ipotizzare il coinvolgimento nell’esecuzione delle stesse di Luigi Giacalone e di Cosimo Lo Nigro.
Le indagini condotte dalla Procura di Roma consentivano di identificare Antonio Scarano quale custode dell’esplosivo utilizzato per gli attentati nella capitale.
Fin dall’inizio emergeva un collegamento fra gli attentati di Roma, Firenze e Milano, successivamente ricondotti a una matrice unitaria e, nell’autunno del 1994, le indagini venivano riunite presso la Procura Distrettuale di Firenze, essendo la strage di via dei Georgofili il reato più grave, commesso per primo in ordine di tempo.
La svolta nelle investigazioni arrivava, nell’agosto 1995, con la decisione di collaborare con la giustizia dell’autotrasportatore Pietro Carra e, nel gennaio 1996, del basista romano Antonio Scarano, il quale forniva indicazioni utili sulla scelta degli obiettivi da colpire nelle tre città, riferendo di aver effettuato vari sopralluoghi insieme a Spatuzza e di essersi recato con lui nei luoghi delle città di Firenze e Roma dove le stragi si sono verificate.
Nei confronti dei responsabili condannati in via definitiva per gli episodi stragisti del biennio 1993-1994 sono state acquisite prove pesanti come macigni - in parte significativa costituite dalle confessioni e dalle accuse severamente verificate di undici esecutori dei delitti e, comunque, di partecipi agli stessi: Pietro Carra, Antonio Scarano, Vincenzo e Giuseppe Ferro, Salvatore Grigoli, Pietro Romeo, Emanuele Di Natale, Umberto Maniscalco, Giuseppe Monticciolo, Giovanni Brusca e, da ultimo, Gaspare Spatuzza. Quando, nel 2008, quest’ultimo iniziava a collaborare, il primo processo nei confronti di Leoluca Bagarella e di altri 22 imputati era già stato definito e il suo contributo consentiva di riaprire le indagini su Francesco Tagliavia, capo della famiglia mafiosa di Corso dei Mille, e nei confronti dei fratelli Formoso.
Inoltre, va annoverato l'apporto di Vincenzo Sinacori, che fu coinvolto nella prima fase della strategia stragista, agli inizi del 1992, allorché, unitamente a un commando operativo, si era trasferito a Roma con l'obiettivo di individuare e colpire Giovanni Falcone e Maurizio Costanzo.
Le loro dichiarazioni, unitamente all’apporto di altri collaboratori di giustizia, e i significativi riscontri acquisiti hanno consentito di ricostruire, sia pur con un grado diverso di completezza, la fase preparatoria ed esecutiva, nonché di individuare alcuni mandanti intranei a cosa nostra e di giungere alla condanna con sentenza definitiva - a seguito di un triplice verdetto della Corte di Cassazione del 6 maggio 2002, del 18 gennaio 2016 e del 20 febbraio 2017) - di trentaquattro imputati, fra i quali, mafiosi di rango, per aver ideato, deliberato e partecipato alle stragi - e di due imputati per favoreggiamento , una verità che ha resistito ai tentativi di depistaggio.
La fase esecutiva dei sette episodi stragisti ha visto il ruolo centrale dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano e, in particolare, di Giuseppe Graviano. Questi, infatti, oltre ad aver contribuito a ideare e a deliberare la strategia stragista è stato il più determinato, dopo l'arresto di Salvatore Riina del 15 gennaio 1993, nel voler proseguire la campagna stragista, insieme a Matteo Messina Denaro, con il quale ha vissuto in clandestinità durante il 1993, e a Leoluca Bagarella. Da latitante, ha diretto e organizzato le fasi preparatorie ed esecutive degli episodi stragisti, con l'impiego di numerosi uomini d'onore del proprio mandamento (e, segnatamente, delle famiglie di Brancaccio, di Corso dei Mille e di Roccella, che ne fanno parte, dunque legati da obblighi di fedeltà e di subordinazione) e, comunque, di soggetti allo stesso strettamente legati. Si tratta dei seguenti diciotto imputati condannati in via definitiva (vale a dire oltre la metà dei responsabili individuati), per tutti gli episodi stragisti, con le limitazioni e precisazioni specificate con riferimento a ciascuno:
1. Francesco Tagliavia, capo famiglia di Corso dei Mille (riconosciuto mandante della strage di Firenze), Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano e Cosimo Lo Nigro, inseriti nella medesima famiglia;
2. Antonino Mangano (capo della famiglia di Roccella), Salvatore Grigoli (uomo d'onore della famiglia di Roccella);
3. Cristofaro Cannella (riconosciuto esecutore delle stragi di via Fauro e di Firenze), Luigi Giacalone (esecutore di tutte le stragi, esclusa quella di Firenze), Salvatore Benigno, Giorgio Pizzo (riconosciuto esecutore delle sole stragi di Firenze e Formello) e Vittorio Tutino (riconosciuto esecutore della strage di Formello), tutti uomini d'onore della famiglia di Brancaccio);
4. Cosimo D'Amato (cugino di Lo Nigro), Pietro Carra (autotrasportatore che curava il trasporto degli esplosivi a Prato, a Roma e ad Arluno - paese poco a Nord di Milano - gravitava negli ambienti mafiosi di Brancaccio), Pietro Romeo (riconosciuto responsabile della strage di Formello), Gaspare Spatuzza (non uomo d'onore al momento dell'esecuzione delle stragi, che in seguito all'arresto dei Graviano, avvenuto il 27 gennaio 1994, ha ricoperto anche un ruolo di comando in seno al mandamento di Brancaccio);
5. Giovanni e Tommaso Formoso “uomini d’onore” di Misilmeri, rientrante nel mandamento di Belmonte Mezzagno, riconosciuti esecutori della strage di Milano;
6. Antonio Scarano , il quale, dopo aver lavorato in Germania per circa 12 anni ed essere tornato in Italia nel 1973, stabilendosi a Roma, prima a Centocelle, poi a Torremaura, tra l'altro, accompagnava Gaspare Spatuzza in via Veneto a Roma, al bar Doney, il 18 gennaio 1994, ove quest'ultimo incontrava Giuseppe Graviano, che gli dava l'input per eseguire l'attentato allo stadio Olimpico in via dei Gladiatori e, nella circostanza, gli riferiva: grazie a soggetti detentori di potere si erano presi il paese nelle mani.
Giuseppe Graviano, nell'interesse di Cosa nostra, ha rappresentato il cuore pulsante dello stragismo, contribuendo a elaborare le finalità e dosandone correlativamente le tempistiche di esecuzione (in particolare, quella dell'attentato allo stadio Olimpico eseguito il 23 gennaio 1994), e lo stesso ha trascorso parte della sua latitanza al Nord e, segnatamente, a Milano, ove veniva arrestato il 27 gennaio 1994.
Con riguardo alla strage di via dei Georgofili, che commemoriamo, sono state ricostruite le attività pianificate e attuate afferenti: alle modalità di acquisizione dell’esplosivo (in larga misura tritolo proveniente da ordigni bellici); al confezionamento della carica e alle modalità di collocazione della stessa nel Fiorino e a come è stato armato l’ordigno (si è praticato un foro nei fianchi dove veniva inserito il detonatore); al collocamento del furgone sull’obiettivo prescelto da parte di Francesco Giuliano e di Cosimo Lo Nigro; il peso (250 Kg con un margine di oscillazione del 15-20%) e l’innescamento della carica e la composizione della stessa.
La strage di via dei Georgofili si colloca nel più ampio progetto terroristico eversivo, ideato nell’autunno del 1991, sintetizzato dalle parole di Salvatore Riina: “bisogna prima fare la guerra prima di fare la pace”, riportate da Filippo Malvagna, che rappresentano un ragionamento politico. A seguito del nefasto esito del maxiprocesso, derivante dalla sentenza della Corte di Cassazione del 30 gennaio 1992 e del conseguente insuccesso dei tentativi di condizionarne l’esito, cosa nostra ha colpito gli acerrimi nemici e i tradizionali referenti politico istituzionali. Con il ricatto a suon di bombe, attuato con otto stragi (due in Sicilia e sei nel continente) e plurimi omicidi , i vertici del sodalizio hanno voluto fare una guerra allo Stato per piegarlo e indurlo a trattare, in un periodo di sfaldamento dei partiti di governo, falcidiati dalle indagini su Tangentopoli. E ciò al fine di creare un assetto di potere ritenuto funzionale alle proprie aspettative riannodando il rapporto politico mafioso sfaldato con altri referenti, condizionando la politica legislativa del governo e del parlamento (ottenere vantaggi sul terreno carcerario - l’abolizione del carcere duro di cui all’art. 41 bis O. P. e dell’ergastolo - su quello del pentitismo e del sequestro dei beni) e riannodando il rapporto politico mafioso sfaldato con altri referenti nel quadro di più trattative avviate da esponenti delle istituzioni o da loro emissari con appartenenti a cosa nostra.
L’ondata stragista tesa a colpire il patrimonio storico, artistico e monumentale della Nazione prese le mosse da un’azione minatoria: la collocazione di una bomba da mortaio nei giardini di Boboli, annessi a palazzo Pitti, a Firenze, in epoca prossima al 5 ottobre 1992.
Il via libera alla nuova stagione delle stragi veniva deciso in una calda giornata di aprile del 1993, il 1 aprile, nel villino di Giuseppe Vasile a Santa Flavia, ove si teneva una riunione operativa, nel corso della quale tre boss di vertice di cosa nostra (Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano) ragionavano di bombe. Obiettivi insoliti venivano colpiti rispetto al tradizionale modo di operare di cosa nostra.
Sette stragi, che indussero il premier Carlo Azeglio Ciampi a dire di “aver temuto un colpo di Stato”, eseguite nel territorio italiano nell’arco di quattordici mesi, dal 23 maggio 1992 al 28 luglio ’93 (il riferimento è alle stragi di Capaci e di via Mariano d’Amelio; all’attentato a Maurizio Costanzo del 14 maggio 1993, due giorni dopo l’insediamento del governo Ciampi, in cui erano inseriti per la prima volta in Italia, esponenti del PDS, l’ex partito comunista; alla strage di via dei Georgofili del 27 maggio 1993; alle stragi eseguite nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993, allorché esplosero, quasi simultaneamente, tre autobombe: la prima a Milano, in via Palestro, che provocò cinque morti e una decina di feriti e distrusse il padiglione di arte contemporanea; la seconda, a Roma, danneggiò la basilica di San Giovanni in Laterano e il palazzo lateranense e provocò 14 feriti; la terza, ancora a Roma, procurò il ferimento di tre persone e gravi danni alla basilica di San Giorgio al Velabro. Una strage ulteriore allo stadio Olimpico di Roma, programmata per il gennaio 23 gennaio 94, con lo scopo di eliminare, con un’autobomba, decine di carabinieri, in servizio di ordine pubblico, non verificatasi per un malfunzionamento del telecomando.
Rimangono, invero, spunti investigativi e interrogativi che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell’ideazione e nell’esecuzione della strage. Vanno ricordati i seguenti a titolo esemplificativo.
Come mai Paolo Bellini s’incontrò con Antonino Gioè, mentre era in corso la fase preparatoria della strage di Capaci (alla quale contribuì attivamente) e perché istillò il proposito di colpire la Torre di Pisa?
Le ragioni e le modalità della morte di Antonino Gioè il 29 luglio 1993, all’indomani degli attentati del 27-28 luglio 1993 sono rimaste non chiarite.
Cosa è accaduto in via Palestro dopo il 23 luglio 1993, allorché Spatuzza lasciava Milano e si recava a Roma? Da chi e come è stata trasportata la Fiat Uno in via Palestro?
Perché tutti gli episodi stragisti menzionati (tranne quello di via Palestro) sono stati rivendicati con la sigla Falange Armata?
E, più in generale, non sono state individuate compiutamente le ragioni dell’accelerazione dell’eliminazione di Paolo Borsellino, eseguita a distanza di 57 giorni nella medesima città, a Palermo o, comunque, nelle immediate vicinanze, nella quale fu eseguita quella di Falcone, della moglie e dei tre agenti di scorta (Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani) e non si conosce il perché sia cessata il 23 gennaio 1994 la campagna stragista, dopo il fallito attentato allo stadio Olimpico. Vi è poi il dato, suscettibile di approfondimento, per cui i vertici di cosa nostra ricevettero, nel corso del 1992, un segnale istituzionale, consistito nell’avvio di una trattativa, che, nella loro prospettiva suonava come una conferma che la loro attività stragista fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico istituzionali . Il che induce a chiedersi come sia possibile che lo stragista Matteo Messina Denaro continui a essere latitante dopo un trentennio, nonostante le investigazioni volte a catturarlo? Una permanenza in libertà che non consente di ritenere finita l’era dei corleonesi, tanto più che sono stati pianificati attentati nei confronti di rappresentanti delle istituzioni in anni recenti.
Se il nostro sistema normativo si è rivelato estremamente efficace e sofisticato, come riconosciuto in ogni sede internazionale, consentendo un’azione di contrasto funzionale a raffreddare l’agire d’impronta stragista e a contrastare l’evoluzione dell’agire delle varie strutture mafiose radicate nel nostro Paese, è un dato di fatto che, dal 2008, le collaborazioni qualitativamente significative in seno a cosa nostra si sono inaridite e nessuno dei condannati per le stragi del triennio 92-94 ha trovato conveniente la collaborazione, preferendo morire in carcere o sperare nell'ottenimento dei benefici carcerari (permessi premio, liberazione condizionale, lavoro esterno al carcere, semilibertà), divenuti di recente possibili a seguito degli interventi della Corte Costituzionale, tant’è che alcuni di loro hanno concretamente ottenuto permessi da fruire fuori dal carcere. Ciò che oggi è importante è evitare che gli uomini d'onore percepiscano che la spinta investigativa proiettata a ricercare la verità non si è arenata e che lo Stato nel suo insieme considera di fondamentale importanza la collaborazione con la giustizia, che non si intenda smantellare gli strumenti esistenti, ma potenziarli e che il contrasto alla criminalità organizzata è in vetta alle priorità politico-legislative-giudiziarie, non solo in occasione delle commemorazioni pervase da retorica celebrativa. In questa prospettiva diventa importante rendere più vantaggiosa la defezione dai sodalizi rispetto alla militanza degli uomini di vertice dell’organizzazione e di chi è a conoscenza di quanto è accaduto in quegli anni, potenziando l'efficienza assistenziale del servizio di protezione, rendendo concreto il reinserimento sociale con la possibilità per il collaboratore di intraprendere un lavoro onesto o di percepire gli assegni pensionistici come per tutti gli altri cittadini senza ingiustificati ritardi, rimodulando la normativa esistente in modo che preveda tangibili ulteriori vantaggi per chi si affida con serietà allo Stato, colmando il vuoto normativo che deriverà dall’ordinanza n. 97 del 15 aprile 2021 della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo se il Parlamento non interverrà nel termine stabilito, tenendo presente che vi mafiosi stragisti, anche detenuti, che continuano a coltivare propositi di vendetta verso chi li ha accusati o li ha fatti arrestare e che attendono di ritornare in libertà per attuare le loro ritorsioni.
A distanza di 29 anni dalla strage di via dei Georgofili se possiamo ritenere di avere accertato, con il pieno rispetto delle garanzie degli imputati condannati, una parte davvero significativa della verità attorno a quel delitto, non possiamo trascurare l’impegno a continuare nella ricerca della stessa, nel rigido rispetto del segreto investigativo, evitando cedimenti e cercando di impedire l’erosione degli strumenti di contrasto che i vertici di cosa nostra volevano far eliminare ricattando lo Stato con il tritolo. Un tributo che si deve al vivere democratico, alla memoria delle vittime, al dolore dei loro cari e dei sopravvissuti. È importante non dimenticare mai ciò che è accaduto e mantenere un impegno costante nel contrasto, fino a quando continueranno a esistere cosa nostra e le altre strutture mafiose, per non essere costretti a rivivere quel tragico passato. L’autore è procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze
Roberto Saviano: il sacrificio di Falcone e la sua lezione, la mafia è finanziaria più che sanguinaria. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 23 Maggio 2022.
Fu lui a mostrare una criminalità finanziaria prima che sanguinaria. Perché gran parte della politica europea ignora il problema?
Nelle comunicazioni via radio lo chiamano «il magistrato con la foxtrot iniziale», dando soltanto la prima lettera del cognome per non rivelare a eventuali orecchie indiscrete che è lui, Giovanni Falcone, l’uomo che giace in fin di vita all’interno della Croma bianca sull’autostrada A29 all’altezza di Capaci. Di fianco, sul sedile del passeggero, c’è Francesca Morvillo. Anche lei è in fin di vita. E anche lei, per prudenza, viene descritta alla radio come «la moglie della nota personalità». Il suo orologio è fermo alle 17 e 58 minuti, il momento esatto in cui il tritolo nascosto sotto l’autostrada è esploso e tutto si è trasformato in un inferno di lamiera, terra e corpi martoriati. I tre agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro sono morti sul colpo. Gli altri sono malconci, ma vivi e in piedi. Oggi, 23 maggio 1992, tutti le edizioni speciali dei tg parlano dell’assassinio di Falcone e della sua lotta contro la mafia. Anche oggi, 23 maggio 2022, trent’anni dopo, parliamo di questo. Parliamo di Falcone, di Francesca Morvillo, degli agenti Dicillo, Schifani e Montinaro. E parliamo di mafia. È questa la drammatica sponda che ci viene offerta: questo sciagurato ricordo di sangue. Lo facciamo noi e lo fanno molti altri. Ed è un bene, perché altrimenti, se non si trattasse di commemorare una fra le più alte personalità che questo Paese abbia mai espresso in fatto d’impegno contro la criminalità organizzata — se non si trattasse di affogare ancora una volta il nostro ricordo nel sangue, di rievocare la sciagura perché serva da monito e da sprone — allora non lo farebbe nessuno. Certamente non lo farebbe la politica.
Il tema scomparso
Il tema della mafia sembra scomparso dall’agenda di governo, dai dibattiti dell’opposizione. Sembra che la mafia, le mafie, siano scomparse. Ma è esattamente il contrario. E tristemente ironico che il primo a mostrarci una mafia finanziaria, prima ancora che sanguinaria, fu proprio Falcone. Fu lui il primo a parlare di una mafia che ancora più delle pistole fa parlare i consulenti finanziari. In larga parte dematerializzata, ma non per questo meno forte. Tutt’altro. Oggi mafia non vuol dire soltanto estorsioni, minacce, omicidi, droga. Oggi mafia vuol dire aziende svuotate e ripopolate per riciclare denaro, imprenditori sconfitti da una concorrenza invincibile perché basata sui profitti illeciti, grandi opere realizzate al risparmio sulla pelle dei cittadini. Se ieri, parlando di mafia, potevamo pensare a un coltello affondato dentro la carne della società, oggi dobbiamo pensare a un virus, a una pestilenza silenziosa che sfugge all’occhio ma ammorba la società, abbassando drasticamente la qualità della vita di ognuno. Questo mi ha insegnato Falcone, questo ha insegnato a tutti noi. Anche ai nostri politici. E allora perché gran parte della politica europea — non tutta, per fortuna — ignora il problema? Forse l’ha dimenticato? Forse crede davvero, ingenuamente, che la mafia sia stata debellata o che sia stata messa all’angolo? Ho il timore che l’intervista rilasciata nel luglio dell’88 da Paolo Borsellino ad Attilio Bolzoni e Saverio Lodato in cui parlava di smobilitazione dell’antimafia sia ancora attualissima.
La delegittimazione
Altro argomento ancora oggi attualissimo è quello della delegittimazione. E anche questo, per sua disgrazia, ce lo mostrò Falcone. Se i mafiosi affrontano i giudici con le pistole, i politici, i giornalisti a loro vicini, talvolta perfino i colleghi magistrati, li affrontano con lo strumento della delegittimazione creando le condizioni di cui parlava il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, da neo-prefetto di Palermo, poco prima di essere ammazzato: il personaggio pubblico viene eliminato «quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma lo si può uccidere perché è isolato». Si attacca un magistrato nel personale, si scava nella sua vita familiare, gli si nega un incarico che potrebbe ufficializzarne il prestigio, lo si rende un emarginato. Tutto questo spalanca cancelli alle mafie, disegna un bersaglio sulla schiena di un uomo. Che poi a sparare siano altri, è quasi superfluo. Quando il 21 giugno del 1989, sulla scogliera dell’Addaura davanti alla casa di villeggiatura di Falcone, venne ritrovato un borsone pieno di esplosivo, alcuni insinuarono che ce l’avesse messo lui. Che fosse un tentativo per attirare l’attenzione su di sé con l’obiettivo di essere nominato procuratore aggiunto. Falcone si era già candidato, dopo la partenza di Antonino Caponnetto, come capo dell’ufficio istruzione di Palermo, cioè come guida del pool antimafia costruito da Rocco Chinnici e istituzionalizzato da Caponnetto di cui era stato indiscusso protagonista fino a quel momento e di cui, secondo lo stesso Caponnetto, avrebbe dovuto custodire l’eredità. Ma fu bocciato. Il Csm gli preferì il collega Antonino Meli, più anziano di lui ma con un’esperienza nei processi alla mafia imparagonabile a quella di Falcone. Quando la Cassazione ha emesso la propria sentenza sul fallito attentato dell’Addaura, ha detto che «Giovanni Falcone fu sottoposto a un infame linciaggio (…) diretto a stroncare per sempre, con vili e spregevoli accuse, la reputazione e il decoro personale del valoroso magistrato». Scrivono i giudici: «Non vi è, invero, alcun dubbio che Giovanni Falcone — certamente il più capace magistrato italiano — fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazione ad opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e di gelosia (anche all’interno delle stesse istituzioni), tendenti ad impedirgli che egli assumesse quei prestigiosi incarichi i quali dovevano, invece, a lui essere conferiti sia per essere egli il più meritevole sia perché il superiore interesse generale imponeva che il crimine organizzato fosse contrastato da chi si era indiscutibilmente dimostrato il più bravo e il più preparato e che offriva le maggiori garanzie — anche di assoluta indipendenza e di coraggio — nel contrastare, con efficienza e in profondità, l’associazione criminale». Anche la sentenza di primo grado diceva chiaramente: «Sono emersi con drammatica evidenza i perversi giochi di potere realizzati contro le legittime aspettative di Giovanni Falcone». Infame linciaggio, spregevoli accuse, torbidi giochi di potere. Potevano, coloro che firmavano articoli contro Falcone, non sapere che lo stavano esponendo?
Il «Corvo»
Le drammaticamente celebri lettere firmate «il Corvo», che provenivano dall’interno del tribunale e che, fingendo di svelare da dietro le quinte i piani di Falcone lo infangavano, avevano la volontà di agevolare l’attentato di Cosa Nostra? Probabilmente no, volevano solo annullarne la reputazione per sabotarne la carriera, assassinarlo civilmente — quello che spesso fa il giornalismo-fango — ma lasciarlo in vita fisicamente. Però, proprio come rileva la Cassazione, è indubbio che le «vili e spregevoli accuse» o l’«infame linciaggio» — o, semplicemente, la negazione di un riconoscimento ufficiale — abbiano mandato alla cosca un messaggio molto chiaro: «Quest’uomo per noi è poco importante». È possibile che all’epoca i responsabili di questi attacchi non ne fossero consapevoli? Be’… Teoricamente è possibile anche se difficile da credere. È possibile che ancora oggi, chi veste quegli stessi panni — fra politici, giornalisti, colleghi di opposte correnti — ignori le conseguenze delle proprie azioni? No. Oggi non è più possibile. Come non è scusabile che le mafie sembrino una questione ormai risolta. Che sembrino svanite. A svanire invece è stato solo l’argomento mafie dal dibattito politico, dal dibattito pubblico.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 22 maggio 2022.
Giovanni Falcone spiegò per la prima volta che cos' era la Mafia - anzi: Cosa Nostra - e ne portò i vertici a un "Maxiprocesso" che le assestò un primo colpo durissimo, dopodiché il magistrato, pur ostracizzato, creò tutti gli strumenti per sconfiggerla, come accadde entro la fine degli Anni Novanta: una dissoluzione con terribili colpi di coda a cui Falcone non potè assistere, perché fu ammazzato il 23 maggio 1993, che fan trent' anni domani.
Era arrivato a Palermo nel 1978 e Cosa Nostra ai tempi era chiamata genericamente «mafia», concetto inafferrabile anche se intanto giudici, segretari politici, generali e poliziotti cadevano assassinati.
Falcone divenne quel che era: aveva individuato i filoni economici e di riciclaggio come strumento per risalire ai vertici di Cosa Nostra, e la sua testarda convinzione (che oggi pare ovvia) era che il denaro finisce sempre per lasciare qualche segno del suo passaggio.
Aveva focalizzato una nuova mafia imprenditrice capace di inserirsi in ogni anfratto offerto dallo sviluppo economico e aveva insegnato a fare le indagini secondo il motto «follow the money». Aveva capito che la vecchia mafia aveva archiviato la lupara e si era confusa con la società civile. I figli dei capi-cosca non ereditavano il prestigio mafioso, ma soldi da continuare a investire. Alla fine degli anni Ottanta oltre il 10 per cento del prodotto interno lordo era frutto di attività criminose, e la mafia, i suoi nemici, li uccideva.
Ma c'era chi sosteneva ancora che la mafia non esistesse: che poi era la verità, visto che il nome dell'organizzazione - lo spiegò Tommaso Buscetta- era solo «Cosa Nostra», mentre «mafia» era un'invenzione giornalistica.
Non si conosceva neppure l'esistenza dei Corleonesi (o Greco-Corleonesi) che ormai rappresentavano il cuore dell'organizzazione; gli apparati dello Stato erano fermi all'esistenza delle cinque grandi famiglie occidentali (Gambino-Bontade-Spatola-Inzerillo-Badalamenti) che dominavano i mercati illeciti e i rapporti col mondo politico: si riteneva pure che queste famiglie fossero le sole responsabili degli omicidi di autorità pubbliche e che il loro declino fosse legato a un semplice cambio generazionale. Ma era tutto sbagliato.
La battaglia di Falcone era cominciata nel 1983 con l'arresto in Brasile del mafioso Tommaso Buscetta. Il giudice volò oltreoceano e mise le basi per farlo collaborare: cominciò a farlo il 15 luglio 1984, nello scetticismo generale, quando Buscetta fu estradato in Italia e iniziò a raccontare al giudice quello che sapeva- moltissimo- sulle regole di Cosa nostra e sui mandanti ed esecutori di vari omicidi. Buscetta non era un boss: era un «soldato» carismatico e rispettato che aveva in rigetto i metodi crudeli dei corleonesi.
Da quasi dieci anni - spiegò Buscetta- i Corleonesi deviavano le indagini sulle altre famiglie e sovvertivano ogni vecchia regola senza rispettare le sovranità territoriali: i loro contatti altolocati intanto permettevano loro di vivere da cittadini rispettabili mentre le forze di polizia davano la caccia ai loro avversari perdenti. Falcone fece oltre 2600 riscontri delle dichiarazioni di Buscetta e fece luce su 120 omicidi: fu allora che gli balenò la folle idea di processare l'intero gotha di Cosa Nostra, come neppure i suoi amici e collaboratori ritenevano possibile.
Cominciò a raccogliere anche le dichiarazioni del mafioso Salvatore Contorno che si incrociarono perfettamente con quelle di Buscetta.
Nacque un pool antimafia composto da Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta a Giuseppe Di Lello, coadiuvati da Giuseppe Ayala, intenti a incanalare tutte le indagini nel rapporto «Michele Greco + 161» e poi nel gigantesco Maxiprocesso.
I corleonesi non restarono a guardare: ammazzarono il commissario Giuseppe Montana e il vicequestore Ninnì Cassarà. Poi, con preavviso di due giorni, Falcone e Borsellino furono trasferiti con le famiglie nella foresteria del carcere dell'Asinara in compagnia delle 499mila pagine di atti che dovevano trasformare nel rinvio a giudizio contro i 476 indagati del Maxiprocesso; un periodo, quello all'Asinara, che passerà alla cronaca anche perché si ebbe il fegato di chiedere ai due magistrati un rimborso per il soggiorno blindato nell'isola: diecimila lire al giorno più i pasti, conto finale 415mila lire.
Il Maxiprocesso era pronto. Giudice a latere: Pietro Grasso, futuro presidente del Senato. In pochi mesi era stata costruita la gigantesca aula bunker che a tutt' oggi affianca il carcere dell'Ucciardone. I reati ipotizzati contemplavano omicidi, stragi, traffici di droga, estorsioni e associazioni mafiose.
Giudici e funzionari tra i più coraggiosi e capaci condussero quel Maxiprocesso lungo binari formalmente più che accettabili proprio perché un precario rispetto delle garanzie poteva rappresentare un tallone d'Achille: ma a fare la differenza sarà proprio l'accuratezza dei magistrati nel dribblare le trappole dilatorie disseminate nel dibattimento, questo, peraltro, adottando un Codice di procedura assai più farraginoso e garantista rispetto a quello che la giurisprudenza «rivoluzionaria» (da Mani pulite in poi) avrebbe progressivamente stravolto. Si era distanti da quella disinvoltura legislativa che le corti europee ci contesteranno regolarmente: non esisteva ancora l'articolo 41bis (il detto carcere duro) e il «concorso esterno in associazione mafiosa».
Il processo fu vinto grazie a migliaia di testimonianze e di riscontri concessi dal vecchio Codice Rocco: senza leggi speciali e solo grazie al coraggio e all'intelligenza e all'olio di gomito di magistrati eccezionali. Non c'erano neanche computer: altro che droni e software trojan.
Un processo così incredibile non si sarebbe visto mai più: 349 udienze, 1314 interrogatori, 4 giudici togati, 16 giudici popolari, 2 pubblici ministeri, 500 giornalisti da tutto il mondo, 475 imputati di cui 208 detenuti in trenta gabbie, 44 agli arresti domiciliari, 102 a piede libero, 121 latitanti, circa 200 avvocati che pronunceranno 635 arringhe difensive, centinaia agenti di polizia e carabinieri, le tribune stipate di pubblico. A ciò si aggiunse l'inaspettato ingresso, il 20 febbraio, del capo della Cupola Michele Greco, appena catturato.
Cosa Nostra - fu l'assioma -era una società segreta costituita da una «Commissione» di vertice che decideva secondo regole non scritte ma note a tutti. La Commissione decideva gli omicidi: farne parte comportava una responsabilità penale. La sentenza di primo grado del 16 dicembre 1987 comminò 19 ergastoli, 2665 anni di carcere, 346 condannati, 114 assolti e 11 miliardi di lire di pene pecuniarie. Una mazzata.
Sembrò impossibile. Il giudice Grasso, da solo, in nove mesi scrisse le 7000 pagine delle motivazioni della sentenza.
La mafia non la prese bene. Il giudice designato per il processo d'Appello fu crivellato da 47 colpi di pistola assieme al figlio disabile, e a sostituirlo fu Alfonso Palmegiano. Le accuse furono rafforzate dalle testimonianze di due nuovi pentiti e c'era da ben sperare, ma nella sentenza d'Appello del 10 dicembre 1990 gli ergastoli passarono da 19 a 12 e le pene detentive furono ridotte di più di un terzo. Fu anche indebolita la funzione verticistica e unitaria della Cupola. Ora restava la Cassazione.
Il primo presidente della Corte, Antonio Brancaccio, era stato sollecitato dal pidiessino Luciano Violante e da guardasigilli Claudio Martelli affinché introducesse un criterio di rotazione tra le sezioni che giudicavano i processi di mafia: era l'unico modo per evitare che anche il Maxiprocesso finisse nelle mani del giudice Corrado Carnevale, andreottiano e dominus assoluto della prima sezione, un primo della classe, il presidente più giovane nella storia della Suprema corte, primo a ogni concorso, instancabile cultore di codici e codicilli, un siciliano che non aveva fatto mistero di non credere alla «Cupola» come centro unificato criminale e di non credere a Buscetta e ai maxiprocessi.
Con gran fatica si riuscì a designare il giudice Antonio Scopelliti, sostituto procuratore generale della Cassazione. In attesa della prima udienza, il magistrato trascorse le vacanze nella natìa Campo Calabro, in provincia di Reggio Calabria: ma mentre tornava dal mare la sua Bmw sbandò e finì in un terrapieno: morto sul colpo. Più tardi si accorsero che gli avevano sparato con dei fucili a pallettoni. Alla fine il prescelto fu Arnaldo Valente detto «Papillon», 64 anni, avellinese con fama di magistrato autonomo ma imprevedibile, ritenuto pure lui rispettoso delle procedure fino al cavillo.
Lui non lo ammazzarono, e non solo: il 30 gennaio 1992 confermò le condanne di primo grado e rivalutò appieno il «teorema Buscetta» sulla Cupola: ergastoli come se piovesse. Nessun adepto o capo di Cosa Nostra era mai stato condannato con «fine pena mai».
Anni dopo, diversi pentiti diranno che Totò Riina alla notizia della sentenza praticamente impazzì. Il passaggio alla strategia dello sterminio stava per cominciare. Falcone aveva le ore contate, e non era il solo.
Ilda Boccassini, gaffe agghiacciante: "Non ha mai ammazzato giudici". Libero Quotidiano il 05 luglio 2022
Uno scivolone difficilmente perdonabile quello commesso da Ilda Boccassini. Ospite del festival antimafia in Calabria, l'ex magistrato oggi in pensione si è lasciata andare a un'ammissione a dir poco spiazzante: "La ndrangheta una cosa buona l'ha fatta (sic!) non ha mai ammazzato un magistrato". Una frase seguita da un lungo silenzio, visto che nessuno ha osato contraddirla. Peccato però che l'affermazione sia completamente falsa. Basta ricordare Francesco Ferlaino, zio dell'ex presidente del Napoli. Sicari mai identificati - come ricorda Il Giornale - gli spararono con la lupara nel 1975 quando da Presidente della Corte d'assise d'appello di Catanzaro presiedeva un processo alla mafia siciliana.
Poi ci fu Bruno Caccia, anche lui ucciso dai boss calabresi nel 1983. Caccia scoprì le trame delle Brigate rosse in Piemonte e i narcotrafficanti Rocco Schirripa e Domenico Belfiore, che lo crivellarono con 17 colpi. E ancora, si ricorda la morte del giudice di Cassazione, tra i protagonisti del maxiprocesso, Antonino Scopelliti.
"Sono stanca della storia riscritta da professionisti del ricordo pro domo propria, stanca di essere trattata come figlia di una vittima di serie B - ha tuonato la figlia di Scopelliti, Rosanna, su Facebook -. Mi sono chiesta se Boccassini pensa mai a chi resta. Temo di no: d'altra parte non si è fatta scrupoli afferma a sbattere in faccia ai sopravvissuti a Giovanni Falcone e Francesca Morvillo una presunta relazione extraconiugale che nessuno oggi può più confermare o smentire. Nessuno pensa mai al dolore di chi resta". Da qui la stoccata finale: "Quanta ignoranza verrà coltivata grazie alle sue parole? Anche per questo ho deciso di risponderle. Questo è solo un post su Facebook conclude ma se anche solo un ragazzino scoprirà leggendolo che quanto lei ha detto è falso, sarà servito a qualcosa".
Giovanni Falcone, Ilda Boccassini, Totò Riina: come andò veramente la strage di Capaci. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 24 maggio 2022
Ha scritto Ilda Boccassini, collega molto legata a Giovanni Falcone: «Quel 23 maggio mi trovavo in una stanza del San Raffaele al capezzale di mio padre... Terminato l'orario di visita, mi ero diretta verso le auto di servizio che mi aspettavano. L'espressione cupa, immobile, sui volti degli uomini scorta, non lasciava dubbi: era successo qualcosa di grave... Nessuno di loro proferì parola e dentro di me cominciò a salire un'ansia difficile da descrivere... riuscii a pronunciare solo una frase che non avrei mai voluto sentirmi pronunciare: «È successo qualcosa a Falcone?». Dallo sguardo che si scambiarono i due poliziotti capii di non essermi sbagliata».
Ha scritto Pietro Grasso, amico di Falcone e giudice del Maxiprocesso in primo grado: «Il suono dei passi degli agenti della scorta mi rimbomba ancora nelle tempie... Dalla radio della polizia arrivavano notizie confuse... Ma era evidente chi fosse stato colpito. Mi precipitai all'ospedale... Fu l'espressione del volto di Paolo Borsellino a dirmi che non c'era più niente da fare».
La morte del magistrato non era ancora stata ufficializzata quando squillò il cellulare di Claudio Petruccioli, pidiessino, braccio destro di Achille Occhetto: a chiamarlo era il sottosegretario Dc Nino Cristofori che voleva parlargli con urgenza. Ha raccontato Petruccioli: «Trovai Cristofori pallidissimo, prostrato. Quel che mi disse non lo dimenticherò mai. Lui - e il suo capo, Andreotti - interpretavano la strage di Capaci come un attacco per sbarrargli la strada del Quirinale. Mi impressionò che la terribile analisi fosse svolta a caldo, con certezza assoluta e una sorta di rassegnazione».
Per uccidere Falcone usarono qualcosa come 500 chili di tritolo. Il giudice aveva voluto guidare l'auto di persona e l'autista perciò era sul sedile posteriore. Giunti vicini allo svincolo per Capaci, a 600 metri da Palermo, l'autista ricordò a Falcone che poi avrebbe dovuto ridargli le chiavi, e il giudice, sovrappensiero, le estrasse dal cruscotto e fece rallentare l'auto, traendo in inganno gli attentatori che azionarono il telecomando in anticipo. La Fiat Croma bianca perciò si schiantò a circa 90 all'ora contro il muro d'asfalto che si era alzato davanti per l'esplosione. Si era creata una voragine di quindici metri per quattro coi guardail piegati che sembravano artigli. L'auto della scorta che si trovava sotto la carica esplosiva fu scaraventata a 62 metri dal cratere, e a bordo c'erano Rocco Di Cillo, Antonino Montinaro e Vito Schifani, tutti morti. Accanto a Falcone c'era la moglie Francesca Morvillo.
L'autista, unico incredibilmente sopravvissuto, si chiama Giuseppe Costanza. A bordo doveva esserci anche l'amico giudice Pietro Grasso, che spesso approfittava del volo di sicurezza di Falcone per tornare a Palermo: ma la sera prima aveva trovato un ultimo posto sul volo Alitalia, e aveva preso quello».
I SEGNALI IGNORATI - Secondo un collaboratore di Giustizia, la decisione di uccidere Falcone fu presa nel corso di un summit mafioso tenutosi nel novembre 1991 a Castelvetrano (Trapani) dove si programmò anche la morte di Claudio Martelli, Maurizio Costanzo e altri giornalisti. Presenti all'incontro sarebbero stati Totò Riina, Matteo Messina Denaro e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano.
Un primo programma prevedeva di ammazzare Falcone già alla fine di febbraio, a Roma, ma il piano andò a monte per ragioni quasi risibili: l'esecuzione era prevista in un ristorante che il giudice frequentava spesso, ma i killer sbagliarono piatto: confusero il locale «il Matriciano» nel quartiere Prati con «la Carbonara» a Campo de' Fiori, dove Falcone pure andava. L'agguato sfumò.
Dirà il pentito Giovanni Brusca, l'uomo che azionò il telecomando che fece saltare lo svincolo di Capaci: «Riina disse che dovevano morire tutti, che i politicanti lo stavano tradendo. Fece i nomi di Falcone, di Borsellino, di Lima, di Mannino, di Martelli... Disse «gli dobbiamo rompere le corna». Tutti ascoltavano in silenzio...
Siamo a ottobre-novembre 1991» Dirà ancora Brusca: «Andreotti per ripulire la sua immagine ci provocò danni immensi... si doveva fare il nuovo presidente della Repubblica e si parlava di lui come uno dei candidati più forti. Noi volevamo che l'attentato avvenisse prima della nomina... Riina disse: «Glielo faccio fare io il presidente della Repubblica...».
Nel pomeriggio di quel giorno, il Guardasigilli Claudio Martelli stava parlando delle candidature per il Quirinale proprio con Andreotti. Martelli lo definirà «il giorno più brutto della mia vita». Cosa Nostra, invece, avrebbe dovuto definirlo il suo peggior affare: perché Falcone, col Maxiprocesso ai boss condotto miracolosamente sino in fondo da magistratura e istituzioni, aveva anche disvelato l'identità unitaria e criminale di Cosa Nostra, l'aveva umiliata, rinchiusa in gabbie inquadrate dalle tv, fatta impazzire di rabbia e infine condannata al suicidio: perché le violentissime reazioni che ne erano seguite e che ancora ne seguiranno - la morte di Falcone tra queste terrorizzeranno dapprima un Paese smarrito, certo, ma nel tempo si riveleranno gli spasmi nervosi seguiti alla decapitazione della testa mafiosa, sradicheranno Cosa Nostra dalla mentalità fatalistica di chi per decenni ci aveva convissuto, e di chi ora, finalmente, assieme alle nuove generazioni, giungerà a odiarla per quel suo volto rivelato e repellente, inguardabile, crudele e spaventato nella sua agonia.
Tutto ormai appariva chiaro nelle sue corrette proporzioni, deprivato delle urla indignate e spagnolesche di certa cialtroneria antimafia: c'era stato un collegamento tra cosa Nostra e un potere politico soprattutto andreottiano, c'era stata una conclamata mafiosità dell'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, nessuno metteva più in dubbio che l'omicidio del democristiano Salvo Lima fosse stato un messaggio preciso, benché dapprima rimosso o non ben decifrato. Giovanni Falcone, banalmente, aveva sempre avuto ragione e questo in Italia non è ritenuto perdonabile: «Per essere credibili», si chiese durante una trasmissione televisiva, «bisogna essere ammazzati in questo Paese?».
QUELLE MALDICENZE Era ormai isolato, snobbato dalla sinistra togata e da una parte dei moderati, da una sfilza di giornalisti infami, da una società civile immatura o indifferente e purtroppo anche da qualche amico vero. C'era stato il sottovalutato attentato dell'Addaura del 21 giugno 1989, con l'esplosivo ritrovato sotto la sua casa al mare mentre il magistrato stava aspettando due colleghi svizzeri impegnati in un'inchiesta sul narcotraffico. La vicenda, snobbata per decenni, sarà oggetto un regolare processo giunto in Cassazione il 19 ottobre 2004: ottantanove pagine che confermeranno pesanti condanne per Totò Riina, Salvatore Biondino e Antonino Madonia, e che pure sanciranno che i servizi segreti di Stato - sempre tirati in ballo, in Italia - non c'entravano un accidente, perché la responsabilità fu di Cosa nostra e basta. Altre pagine della sentenza metteranno nero su bianco «l'infame linciaggio» subito da Falcone, che in buona sostanza in quel 1989 fu accusato di essersi piazzato la bomba da solo. Si citano con nomi e cognomi esponenti della Rete di Orlando oltre a magistrati e alti esponenti dei carabinieri. Fu il Gerardo Chiaromonte, apprezzato parlamentare comunista e defunto presidente dell'Antimafia, a scrivere che «i seguaci di Leoluca Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità».
Era veramente difficile essere Giovanni Falcone prima che lo trasformassero in un santino da parabrezza. La sua presenza non piaceva neppure ai vicini di casa: alcuni condòmini avevano scritto al Giornale di Sicilia nel timore che un attentato potesse tirarli in mezzo. Magistratura democratica decise che il nuovo consigliere istruttore di Palermo doveva essere Antonino Meli anziché lui, e le indagini di mafia presero ad addormentarsi. Falcone scrisse al Csm: «Quello che paventavo è purtroppo avvenuto... il gruppo antimafia è ormai in stato di stallo. Paolo Borsellino ha dimostrato il suo senso dello Stato e il suo coraggio denunciando pubblicamente omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso... L'unica via praticabile è quella di cambiare immediatamente ufficio». Al giudice più competente in tema di mafia non passavano più inchieste in tema di mafia. Ecco perché il 13 marzo 1991 accettò di trasferirsi a Roma per dirigere l'ufficio degli Affari penali del ministero della Giustizia, portandosi dietro Pietro Grasso come vicecapo di gabinetto, uomo che il guardasigilli Claudio Martelli avrebbe anche voluto per comandare quella procura palermitana che invece fu occupata da Gian Carlo Caselli. Fu in quell'ufficio che Falcone concepì una struttura investigativa sovraordinata alle singole Procure, così da assicurare, attraverso un Procuratore Nazionale, un coordinamento delle indagini. La Superprocura antimafia nascerà grazie ad un decreto del 20 novembre 1991 che tuttavia non consentirà a lui, Falcone, di raccogliere il frutto delle sue intuizioni: il fuoco di sbarramento che gli organizzarono contro fu inspiegabile e al limite del demenziale. Tutti contro, a partire dall'Associazione nazionale magistrati. La colpa di Falcone era di flirtare con la politica. Il gruppo del Pds votò un emendamento ad hoc per escludere Falcone dalla carica di superprocuratore. Magistratura democratica definì la nuova Direzione nazionale antimafia «una grave lesione alle prerogative del Parlamento e all'indipendenza della Magistratura. Il bollettino della corrente, a pagina 155, parlava di «ristrutturazione neoautoritaria». I mesi che precedettero la strage di Capaci, per Falcone, furono orribili per lui quanto vergognosi per altri.
Giovanni Falcone, ecco da chi fu tradito: Filippo Facci e la più scomoda delle verità (30 anni dopo). Filippo Facci Libero Quotidiano il 24 maggio 2022
Il perché uccisero Giovanni Falcone è scritto nero su bianco, ma tutti guardano altrove. Il 2 dicembre 1991 l’intero corpo dei magistrati scioperò «contro Cossiga, Falcone e la sua superprocura». Giacomo Conte, ex del pool antimafia di Palermo, il 6 giugno aveva definito il progetto della superprocura «quanto di più deleterio sia stato pensato in tempi recenti». La vera coltellata però era stata la pubblica lettera che annoverava, tra i primi firmatari, colleghi e amici come Antonino Caponnetto e Giancarlo Caselli e persino Paolo Borsellino: «Ci accomuna la convinzione che lo strumento proposto sia inadeguato, pericoloso e controproducente... fonte di inevitabili conflitti e incertezze». Seguivano 60 firme, data 23 ottobre 1991.
Falcone fu accusato di essersi venduto a Martelli, al potere politico. Per il resto, tutte le accuse di Leoluca Orlando risulteranno lanciate a casaccio. Il il 26 settembre 1991, al Maurizio Costanzo Show, ad attaccare Falcone toccò il sodale di Orlando, Alfredo Galasso: «L'aria di Roma ti fa male», gli disse. Si scagliò contro Falcone anche il direttore de il Giornale di Napoli, Lino Jannuzzi: «Falcone e Gianni De Gennaro... dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma».
De Gennaro, ex capo della Polizia, collaborò con Falcone e nel 1984 si era occupato dell'estradizione dal Brasile di Tommaso Buscetta. Tra gli articoli più vergognosi ce ne fu uno di Sandro Viola su Repubblica: «Falcone è stato preso da una febbre di presenzialismo... fumose, insopportabili logorree... Articoli, interviste, sortite radiofoniche, comparse televisive. E come se non bastasse, libri: è uscito da poco, infatti, un suo libro intervista dal titolo accattivante, un titolo metà Sciascia e metà serial televisivo, "Cose di Cosa Nostra"... non si capisce come mai il dr. Falcone... non ne faccia la sua professione definitiva, abbandonando la magistratura. Scorrendo il libro s' avverte (anche per il concorso d'una intervistatrice adorante) proprio questo: l'eruzione d'una vanità, d'una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste dei guitti televisivi». Nota: il libro Cose di Cosa Nostra (Rizzoli 1991) è il longseller sulla mafia più venduto della storia, eternamente ristampato; «l'intervistatrice adorante» è invece la francese Marcelle Padovani, già corrispondente del Nouvel Observateur e al tempo moglie del segretario nazionale della Cgil, Bruno Trentin. Il volume scritto con Falcone spiegava per la prima volta la vera struttura di Cosa Nostra. Nell'ultimo capitolo, il sesto, Falcone dice: «In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere».
IL RUOLO DI ORLANDO
Due mesi prima che Falcone saltasse in aria, il 12 marzo 1992, L'Unità fece scrivere da un membro del Csm un intervento così titolato: «Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché». Lucio Tamburini sul Resto del Carlino: «Inaffidabile e Martelli-dipendente». Contro di lui non mancava proprio nessuno. Il 3 febbraio 1992, persino i componenti della sezione Lombarda del Movimento «Proposta '88» scrissero a Falcone (loro collega di corrente) per dirgli che «non apprezziamo la politica del ministro Martelli ma tu gli sei pubblicamente a fianco e ne rendi credibili parole e prese di posizione, e anche perché alla gran parte di noi non piace la superprocura nazionale». Quella che, in pochi anni, permetterà di sconfiggere la mafia stragista per sempre. Oggi riesce difficile immaginare quanto la figura di Falcone distasse da quella a cui oggi si intitolano scuole, vie e monumenti. Chi lo avversava, nel 1992, sembrava che letteralmente non sapesse chi era. Chi oggi l'ha trasformato in un'icona, probabilmente, ne sa ancor meno.
Gli aveva voltato le spalle, come detto, anche il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, questo dopo che un pentito, Giuseppe Pellegriti, aveva accusato l'andreottiano Salvo Lima di essere il mandante di una serie di delitti; però Falcone aveva fiutato la calunnia e non abboccò. Tanto bastò a Orlando per decidere che il giudice volesse proteggere Andreotti e Lima. «Orlando era un amico», racconterà Maria Falcone, sorella di Giovanni. «Erano stati amici, avevano pure fatto un viaggio insieme in Russia». «Orlando ce l'aveva con Falcone», ha ricordato l'ex ministro Claudio Martelli ad Annozero di Michele Santoro, nel 2009, «perché aveva riarrestato l'ex sindaco Vito Ciancimino con l'accusa di essere tornato a fare affari a Palermo con sindaco Orlando: questo l'ha raccontato Falcone al Csm per filo e per segno». Il fatto è vero: fu lo stesso Falcone, in conferenza stampa, a spiegare che Ciancimino era accusato di essere il manovratore di alcuni appalti col Comune sino al 1988.
Durante una puntata di Samarcanda condotta da Michele Santoro, il 24 maggio 1990, Orlando scagliò l'accusa: Falcone- disse- ha dei documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti. Una menzogna che verrà ripetuta a ritornello. Falcone dovrà difendersi al Csm dopo un esposto presentato da Orlando. Intanto Saverio Lodato, corrispondente dell'Unità e classico «mafiologo» di alterne militanze, intervistava ripetutamente Orlando. Poi, Falcone dovette pure difendersi al Csm anche dalle accuse della Dc andreottiana che lo volevano complice dei fratelli Costanzo: il 15 ottobre 1991 raccontò che i due fratelli - primo gruppo di costruttori in Sicilia - non erano organici alla mafia: ne conoscevano i meccanismi, ma il loro contributo era molto più importante sul fronte delle tangenti. Uno dei due fratelli gli stava raccontando tutto il sistema dell'isola, ma poi il procuratore capo Antonino Meli l'aveva fatto arrestare per mafia. E si fermò tutto.
SALDARE IL CONTO
Forse la storia di Tangentopoli poteva essere scritta molto tempo prima delle confessioni di Mario Chiesa: «All'imprenditore più forte della Sicilia è stato impedito di poter denunciare che in Sicilia tutti gli altri pagano tangenti... eravamo appena agli inizi... È tutto documentato». «Quel giorno», racconterà Francesco Cossiga al Corsera, «uscì dal Csm e venne da me piangendo». Cosa nostra in ogni caso aveva già deciso di saldare il conto. Mentre a Roma si discuteva su come impedire a Falcone qualsiasi nomina, Giovanni Brusca stava già facendo dei sopralluoghi sull'autostrada Palermo-Trapani. Risulta anche un'interrogazione presentata al Senato dal radicale Piero Milio che chiedeva lumi su quale «somma urgenza» aveva spinto l'impresa «Di Matteo Andrea» a eseguire dei lavori proprio nel tratto autostradale di Capaci dal 27 settembre 1991 al 31 marzo 1992, dove il mafioso Antonino Gioè (poi suicidatosi in carcere) risultava nel ruolo di magazziniere. Non ebbe risposta.
Poi, il 23 maggio 1992, sappiamo com' è andata. Eppure anche i quotidiani di questi giorni, nelle loro commemorazioni vecchie di vent' anni, ignorano la ragione principale ormai assodata (anche da successive sentenze) per cui fu ucciso urgentemente Falcone e per cui lo era stato Salvo Lima e per cui lo sarà Paolo Borsellino: l'informativa «mafia appalti» che sarà concausa anche di tutta la successiva stagione stragista. Il responsabile dell'informativa, il generale Mario Mori, già fondatore dei Ros dei Carabinieri (Raggruppamento operativo speciale) e protagonista della cattura di Totò Riina, l'aveva consegnata aun Falcone «entusiasta» anche perché si parlava nel dettaglio di Angelo Siino, definito «il ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra», la quale, scrisse Mori, «temeva gli attacchi alle sue attività economiche che gli consentivano di sostenersi e di ampliare il proprio potere. Individuai nella gestione e nel condizionamento degli appalti pubblici il canale di finanziamento più importante dell'organizzazione. Angelo Siino era l'uomo di Cosa Nostra incaricato di gestire i rapporti con gli altri protagonisti dell'affare appalti». Insieme a Falcone, Mori aveva sviluppato un'indagine sulle gare degli appalti pubblici e venne fuori che tra mafia e imprenditoria e politica le ultime due non erano vittime, ma partecipi. Si arrivò a risultati concreti addirittura prima che l'inchiesta Mani Pulite prendesse corpo, come confermato dallo stesso Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali.
GLI APPALTI
Falcone portò l'informativa al procuratore capo Pietro Giammanco il 20 febbraio 1991, ma non se ne seppe più nulla. Si sa che l'informativa lasciò misteriosamente l'ufficio di Giammanco. Falcone ne riparlò il 15 marzo durante un convegno pubblico al castello Utveggio di Palermo: «La materia dei pubblici appalti è la più importante... consente di far emergere l'intreccio tra mafia e imprenditoria e politica... La mafia è entrata in Borsa». Fu questo, come affermerà il citato «ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra» Angelo Siino, a mandare in bestia vari imprenditori legati alla mafia: «Falcone aveva compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi c'era effettivamente Cosa Nostra». Sta di fatto che il dossier nell'agosto «Mafia -appalti» 1991 passò nelle mani del democristiano andreottiano Salvo Lima che lo mostrò subito al mafioso Angelo Siino: accadde nella sede della Dc di via Emerico Amari. Il successivo omicidio di Lima partì da lì. Lo pensavano Falcone e anche Paolo Borsellino. Lo ha confermato la recente sentenza del processo «Borsellino Quater» a proposito della decisione di Cosa Nostra di eliminare i due giudici. Lo ha fatto, circa l'inizio della strategia stragista, anche il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso nel 2012. È ciò che fece disperare Paolo Borsellino, che dopo la strage di Capaci sapeva di avere le ore contate. Eppure, anche in questi giorni, i quotidiani commemorano la strage di Capaci incaricando imbucati come Saviano o intervistando parenti rinco***iti, o azzardando complicatissimi depistaggi e piste nere che portino a «mascariare» i nemici del presente. Peggio di non conoscere il passato c'è il non volerlo conoscere.
Una scia di morti che passa per l'Addaura. Gianluca Zanella il 24 Maggio 2022 su Il Giornale.
Mentre a Livorno si preme per l'archiviazione sul caso della morte di Marco Mandolini, documenti riservatissimi del centro Skorpione di Trapani tracciano una nuova pista che passa anche attraverso il fallito attentato a Falcone e la missione "Ibis".
Il 13 giugno 1995 Marco Mandolini - sottufficiale della Folgore in forza al Sismi, il servizio segreto militare - veniva brutalmente ucciso a Livorno, non molto distante dalla caserma Vannucci dove si trovava in temporaneo appoggio. Un delitto efferato, conclusosi con un gesto (l’apposizione di una pietra sopra la testa) la cui brutalità lascia pensare a un conto in sospeso tra la vittima e il suo (o i suoi) carnefice. Un omicidio ancora oggi senza responsabili e senza un movente chiaro, anche se le tracce ci sono e hanno permesso – nel settembre 2021 – la riapertura del caso da parte del Gip di Livorno che, a meno di un anno di distanza, preme per una nuova archiviazione, cui la famiglia, attraverso i suoi rappresentati – l’avvocato Dino Latini e il criminologo Federico Carbone – ha recentemente presentato opposizione.
E in effetti archiviare adesso avrebbe il sapore non solo della sconfitta, ma di un lavoro lasciato a metà. Il 2022 ha portato alla ribalta storie di un’Italia in balìa di forze grigie, fantasmi provenienti da quella prima metà degli anni ’90 che – a distanza di tanto tempo – non hanno nulla da invidiare ai più tristemente blasonati Anni di piombo. A marzo è stata indagata per le stragi di Firenze e Milano un’imprenditrice bergamasca, accusata di aver piazzato le autobombe in prossimità degli obiettivi; sul fronte Falange armata sono usciti diversi libri, come quello di Giovanni Spinosa e Michele Mengoli; e poi il 2022 è l’anno del trentennale delle stragi che hanno insanguinato la Sicilia, proiettando nell’olimpo degli eroi (loro malgrado) i giudici Falcone e Borsellino con le relative scorte di fedeli servitori dello Stato spazzati via dal tritolo. Ecco, la vicenda di Marco Mandolini s’inserisce in questo contesto.
Tra febbraio e marzo, tanto per aggiungere carne al fuoco, a Livorno è stato sentito il milanese Paolo Belligi, ex carabiniere, che tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994 ha preso parte all’Operazione “Ibis” in Somalia, inquadrato nel regimento carabinieri paracadutisti “Tuscania”. Un’operazione controversa sotto molteplici punti di vista, dove il 12 novembre 1993 trovò la morte in circostanze mai veramente chiare il militare e agente segreto Vincenzo Li Causi. Belligi, che oggi non è più in servizio, arrivò in Somalia poco dopo e il 26 agosto del 1997, e presso la Procura di Roma - nell'ambito del processo per l'uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin - rilasciò queste dichiarazioni: "Per quanto attiene la morte dell'ex agente Sismi Li Causi Vincenzo ricordo che, secondo voci circolanti nel nostro Reggimento in Italia, si diceva che la versione ufficiale dei fatti, secondo la quale il Li Causi sarebbe stato ucciso accidentalmente nel corso di una sparatoria tra fazioni somale, era poco verosimile in quanto più attendibile quella, di corridoio, secondo la quale il "Maresciallo Li Causi" sarebbe stato ucciso dagli altri due "militari" che quel giorno erano usciti a caccia servizio con lui. Si vociferava, infatti, che, in passato, il Li Causi avesse effettuato delle indagini delicate".
Su sollecitazione del dott. Carbone, la procura di Livorno ha nuovamente convocato il teste che ha confermato pienamente quanto affermato 25 anni fa. Cosa c’entrano il maresciallo Li Causi e la sua morte con la vicenda di Marco Mandolini? Presto detto: Mandolini e Li Causi erano amici ancor prima che colleghi e, stando a diverse testimonianze, sembra che Mandolini si fosse messo in testa di indagare riservatamente sulle reali circostanze della morte di Li Causi. È qui, secondo Federico Carbone, che va ricercato il movente della sua uccisione.
Li Causi e Mandolini avevano lavorato insieme anche all’ombra delle alture che si affacciano su San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani, in quell’ormai noto (e famigerato) centro Skorpione, base “segreta” di Gladio che, sulla carta, doveva servire da avamposto in caso di un’invasione sovietica dell’Italia. Non serve un esperto per notare la stranezza del posizionare un avamposto contro un’eventuale attacco russo in Sicilia, ma tant’è. Lì in quella base Li Causi era stato capo-centro e, come testimoniano diversi documenti (sui quali, dobbiamo specificarlo, una patente di completa attendibilità non c’è mai stata, ma che se fossero stati creati ad arte sarebbero davvero fatti bene), Marco Mandolini aveva trasportato in diverse occasioni – e nell’ambito di missioni particolarmente riservate – dell’arsenale non meglio specificato.
Se dunque gli argomenti richiamati fino ad ora non fossero sufficienti per continuare a cercare la verità sul brutale assassinio di Mandolini, c’è una circostanza tanto curiosa quanto inquietante che emerge da due documenti prodotti dal centro Skorpione e classificati “riservatissimo”. Già prodotti nel corso del processo per la morte del giornalista Mauro Rostagno, non hanno mai avuto un’eco mediatica proporzionale alla loro importanza, ma soprattutto non sono mai stati inseriti in un contesto più ampio come quello delineato dal criminologo Carbone e condiviso in esclusiva con Ilgiornale.it.
Il primo documento è datato 18 giugno 1989. Il secondo, 24 giugno 1989. Nel primo (a distruzione immediata) si autorizza l’inizio di un’esercitazione denominata “Domus Aurea”. Tra i vari luoghi in cui si sarebbe dovuta tenere questa esercitazione spicca la località Torre del Rotolo, un luogo vicino all’Addaura e vicino alla villa di Giovanni Falcone dove appena tre giorni dopo, il 21 giugno, ci sarà il fallito attentato con una carica esplosiva nascosta tra gli scogli dove il giudice soleva scendere per arrivare al mare. Il secondo documento, che si colloca tre giorni dopo il fallito attentato, indica nella stessa area il recupero del materiale utilizzato nell’esercitazione (che stavolta cambia il suo nome in “Demage Prince”), nello specifico si parla di tute da sub e “relativo materiale esplodente eventualmente in avanzo da esercitazione”.
Considerando le tempistiche (tre giorni prima e tre giorni dopo il fallito attentato a Giovanni Falcone, il quale subito dopo parlerà delle famose “menti raffinatissime”) e considerando che a quel tempo Vincenzo Li Causi era operativo proprio nel centro Skorpione, lo scenario si fa immediatamente più vasto. La scia di sangue che lega Li Causi a Mandolini potrebbe affondare le proprie radici non solo in quanto avvenuto in Somalia, nel corso dell’operazione “Ibis”. È probabile che i due militari condividessero un background comune di informazioni sensibili apprese negli anni precedenti. Informazioni che, forse, ne potrebbero aver determinato la fine.
La panoramica potrebbe continuare e altri personaggi entrerebbero nella vicenda (pensiamo ad esempio al poliziotto e agente segreto Emanuele Piazza, ma sul punto torneremo in altra sede), ma a questo punto abbiamo fatto alcune domande al criminologo Federico Carbone. Nello specifico, gli abbiamo chiesto chi gli abbia sottoposto questi documenti suggerendo una chiave di lettura tale da intersecarsi con le sue indagini sulla morte di Marco Mandolini. "Una fonte confidenziale", ha risposto Carbone, "Quello che posso dire è che si tratta di un ex appartenente al Comsubin [il reparto d’elite della Marina Militare, ndr] residente nei dintorni de La Spezia, già appartenente alla struttura riservata Gladio".
Naturale, a questo punto, cercare di fare ordine nella matassa di informazioni, personaggi e circostanze. Per questo abbiamo chiesto al criminologo se, dal suo punto di vista, ci sia un collegamento tra il fallito attentato a Giovanni Falcone e le tragiche vicende di Li Causi e Mandolini. "Quello che posso dire", ha risposto Federico Carbone, "è che questa produzione documentale sta assumendo un’importanza che forse nel passato non ha avuto. Se andiamo poi a contestualizzarla rispetto al fallito attentato all’Addaura, diventa particolarmente importante perché ci ritroviamo a collocare all’interno del centro Skorpione Mandolini e Li Causi. E questo è innegabile. Sappiamo grazie ai documenti che Mandolini operava in qualche modo presso il centro Skorpione e che lo stesso Li Causi era subentrato come direttore dopo il colonnello Paolo Fornaro. Ora, la domanda che si pone è: quali operazioni svolgeva, supervisionava, coordinava il centro Skorpione? Di quale natura? Al di là della consegna di casse che leggiamo dai documenti [documenti in cui si richiede espressamente la presenza di Marco Mandolini, ndr], sappiamo che nell’area di competenza del centro Skorpione si sono svolte delle esercitazioni nei giorni immediatamente precedenti e immediatamente successivi al fallito attentato a Giovanni Falcone".
Una fonte coperta di altissimo livello, che a suo tempo fornì interessanti materiali al giornalista Luciano Scalettari e che adesso ha fornito altrettanti spunti interessanti al criminologo Carbone. Elementi al vaglio di diverse Procure e oggetto d’interesse anche nel processo d’appello ‘ndrangheta stragista. E quelle tute da sub che fanno tornare alla mente il misterioso sub di cui ha parlato il pentito di mafia Franco Di Carlo relativamente al recupero di ordigni bellici della seconda guerra mondiale per fabbricare la bomba che avrebbe disintegrato il giudice Paolo Borsellino. Sembrano gli ingredienti di un romanzo noir. Ma è la nostra storia recente.
Sempre riguardo ai documenti una curiosità. Tra il primo e il secondo, cambia il nome dell'esercitazione: prima è "Domus Aurea", poi "Demage [sic] Prince". Anche in questo caso, viene in nostro soccorso il dott. Carbone con una spiegazione che appare verosimile: "È una cosa piuttosto comune nelle comunicazioni militari riservate o – come in questo caso – riservatissime. Era un modo per evitare che, a posteriori, si potessero fare collegamenti certi".
In conclusione, quello che emerge da questi documenti (dando per buona la loro autenticità, perché se così non fosse sarebbe ancora più interessante sapere chi li abbia prodotti e con quale fine) è il coinvolgimento – non sappiamo quanto diretto o quanto marginale – del centro Skorpione nella vicenda del fallito attentato all’Addaura. Se il centro abbia operato in veste criminale o se, al contrario, abbia svolto una funzione d’intelligence scongiurando il peggio, non lo sappiamo. Certo è difficile credere in una coincidenza, così come è difficile immaginare che Marco Mandolini e Vincenzo Li Causi non condividessero qualche segreto. Purtroppo, sarà difficile scoprirlo, ma la nebbia che avvolge le loro morti si sta lentamente diradando. E il profilo che si sta delineando fa ancora oggi paura.
'Ndrangheta stragista, tre nuovi verbali sugli attentati degli anni Novanta. Il Quotidiano del Sud il 12 Settembre 2022
I verbali di tre collaboratori di giustizia che hanno riferito delle riunioni avvenute tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta prima delle stragi continentali che hanno insanguinato il Paese all’inizio degli anni novanta andranno agli atti del processo «’Ndrangheta stragista» che vede imputati il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, ritenuto espressione della cosca Piromalli, condannati in primo grado all’ergastolo per l’agguato in cui morirono, il 18 gennaio 1994, i carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo.
Dopo che la Corte d’Assise di Reggio Calabria ha ammesso nel fascicolo del processo il verbale riassuntivo dell’interrogatorio reso dal pentito Annunziato Romeo nel 1996, la notizia dei verbali degli altri tre collaboratori è stata annunciata in aula dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. In particolare si tratterebbe di tre verbali trasmessi dalla Dda di Catanzaro su richiesta della Dda di Reggio e relativi alle dichiarazioni dei pentiti Gerardo D’Urzo, deceduto nel 2014, Marcello Fondacaro e Girolamo Bruzzese.
I tre – ha spiegato Lombardo in aula – «hanno riferito circostanze direttamente attinenti ai temi di questo processo spiegando nel dettaglio di avere appreso da appartenenti alla cosca Mancuso e di altre famiglie una serie di circostanze riferibili agli incontri effettuati tra Cosa nostra e ‘ndrangheta nel periodo immediatamente antecedente alle stragi continentali».
Nei verbali, che ancora non sono stati depositati, vengono anche citati «i protagonisti politici di quella stagione indicando nomi e circostanze che – ha concluso il procuratore aggiunto Lombardo – a mio modo di vedere meritano la massima attenzione».
Nella prossima udienza, fissata per il 3 ottobre, il magistrato illustrerà il contenuto dei verbali e di un’informativa della Dia di Reggio Calabria. Non lo ha fatto oggi perché proprio sulle dichiarazioni dei tre collaboratori di giustizia la Direzione nazionale antimafia ha convocato una riunione a Roma per il prossimo 15 settembre quando il gruppo “stragi”, composto dai pm di Reggio Calabria, Firenze, Caltanissetta e Palermo, deciderà cosa potrà essere depositato nel fascicolo del processo a Graviano e Filippone.
La donna delle stragi del 1993, la commissione antimafia ritrova due identikit dopo 29 anni. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 14 Settembre 2022.
Approvata la relazione finale del gruppo di lavoro che si è occupato dei misteri delle bombe e della trattativa. Il senatore Giarrusso: "Abbiamo elementi di prova per dire che quella sera, in via dei Georgofili, c’erano soggetti esterni a Cosa nostra"
Ventinove anni dopo, sono riemersi un testimone mai ascoltato e l'identikit di una misteriosa donna. Sono riemersi soprattutto tanti misteri attorno alla strage che la notte fra il 26 e il 27 maggio 1993 devastò un'ala degli Uffizi, a Firenze, e uccise cinque persone. "Adesso, abbiamo elementi di prova per dire che quella sera c'erano soggetti esterni a Cosa nostra", dice il senatore Mario Giarrusso, che presiede il comitato sulle stragi mafiose e la trattativa della commissione parlamentare antimafia.
Stragisti, quando Cosa Nostra dichiarò guerra allo Stato. Dai Graviano a Messina Denaro. Dagli eccidi del 1992 e del 1993 al ricatto che i protagonisti sopravvissuti esercitano sulle istituzioni. Il nuovo libro di Lirio Abbate sulla stagione al tritolo decretata dai boss corleonesi. Francesco La Licata su La Repubblica il 26 Aprile 2022.
La storia che racconta Lirio Abbate parte da lontano, da una piccola, insignificante strada di un’ex borgata palermitana devastata dal cemento. Ma non si ferma lì, lascia lo spazio angusto di ciò che rimane della Conca d’Oro svenduta ai palazzinari per risalire piano piano al centro di Palermo e all’Isola tutta e, infine, al cuore del potere politico-finanziario del Paese.
Si comincia dall’anonima via Giuseppe Tranchina per raccontare la più brutale aggressione che uno Stato moderno abbia mai subito da un’organizzazione criminale in uno spazio di tempo relativamente (dal punto di vista storico) lungo ma breve per ciò che ha lasciato nella memoria e nella coscienza collettiva degli italiani.
Sono passati trent’anni da quando la mafia stragista ha tentato di colpire il cuore dello Stato, prima con la violenza delle bombe, poi tentando di corrompere la tenuta democratica delle istituzioni preposte all’azione di contrasto al crimine mafioso. Trent’anni di alti e bassi in questa battaglia dei buoni contro i cattivi, una guerra che sembra tutt’altro che conclusa ed ha visto protagoniste assolute alcune menti criminali in parte vinte dal peso della storia, in parte ancora in grado di nuocere.
Totò Riina, il padrino di Corleone, non c’è più. È morto nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma senza aver mai aperto bocca, se non per spargere gli ultimi veleni attraverso le «rivelazioni», la maggior parte false e manipolatrici, affidate al suo «compagno di socialità» durante lunghe passeggiate nel cortile del penitenziario. Resta in piedi il cognato, Leoluca Bagarella, che non ha mai rinnegato il giuramento fatto quando la mafia scoprì il «tradimento» delle forze politiche, secondo lui inadempienti per non essere riuscite a salvare Cosa Nostra dal colpo mortale inferto da Giovanni Falcone col suo maxiprocesso. «Non ci fermeremo - giurò - fino a quando ci sarà un solo corleonese vivo», e in effetti di danno sono riusciti a farne parecchio.
Ma ci sono altri coprotagonisti di questa storia nera, personaggi che del basso profilo mediatico hanno fatto una religione, riuscendo ad esercitare un ruolo primario nella strategia politico-criminale di Cosa Nostra, rimanendo spesso nell’ombra ed emergendo appena solo quando le contingenze lo hanno richiesto e specialmente dopo la cattura di Totò Riina, quando il capo cadde nella trappola dei carabinieri e gioco forza dovettero «assumersi le proprie responsabilità» i giovani leoni: Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro, due menti diaboliche che non si sono arrese alla sconfitta e continuano a tramare, il primo dal carcere che non gli impedisce di dispiegare forza e intelligenza «politica», l’altro dalla sua non irresistibile latitanza forse frutto di compiacenti amicizie, che, ad una cattura che provocherebbe un pericoloso vuoto di potere mafioso sul territorio, preferiscono un quieto vivere controllato, secondo le vecchie e mai sopite regole della convivenza tra guardie e ladri.
Tutto questo, partendo da via Tranchina, racconta come in un thriller, Lirio Abbate nel suo “romanzo nero”: Stragisti. Da Giuseppe Graviano a Matteo Messina Denaro: uomini e donne delle bombe di mafia (300 pagine, Rizzoli), in uscita il 26 aprile.
Ma perché via Giuseppe Tranchina 22, quartiere San Lorenzo, Palermo? Quella era l’abitazione di un semisconosciuto mafioso, Salvatore Biondino, che guidava l’auto sulla quale viaggiava Totò Riina quando venne arrestato, il 15 gennaio 1993. I carabinieri del Ros, forse storditi dall’eccesso di adrenalina per avere messo le mani sul padrino, non diedero grande importanza all’anonimo autista del capo e non eseguirono neppure un’immediata perquisizione della sua abitazione. Errore grave, perché Biondino non era un signor nessuno, era il capo di uno dei mandamenti più «titolati» di Cosa Nostra, quello di San Lorenzo, appunto. E in casa, quella mattina, aveva riunito il gotha dei padrini di Cosa nostra, appunto gli Stragisti. E non solo, teneva soldi a palate e documenti che avrebbero potuto raccontare molto della Cosa Nostra dell’epoca.
Ma così non andò e non andò bene neppure col covo-villa di Riina che non fu perquisito per tempo, tanto da concedere ad alcuni «pulitori» il tempo di svuotare persino una cassaforte e affidare una corposa documentazione a Matteo Messina Denaro che, dunque, oggi deterrebbe la chiave dei segreti dello zio Totò e dei suoi soldi. Ecco, Abbate si chiede se di inadempienza colposa si trattò oppure di omissione colpevole. Fatto sta che le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa, ben più favorevole allo Stato, se la via Tranchina avesse acceso un faro nelle indagini e soprattutto se gli investigatori avessero seguito Totò Riina diretto proprio a casa Bondino per una riunione della cupola convocata per pianificare omicidi e stragi. Pensate che colpo, catturare la cupola al completo, con Bagarella, Messina Denaro, i Graviano e tutto l’altare maggiore. Ma oltre ai boss, cosa c’era nell’abitazione di Biondino? Abbate lo fa dire ad un testimone oculare, oggi pentito importante che, ironia della sorte, si chiama come la stradina di San Lorenzo: Fabio Tranchina, un giovane cresciuto in un ambiente a rischio e ingoiato nel gorgo mafioso anche a causa di un matrimonio sbagliato ma mai sconfessato.
Fabio Tranchina ha fornito alla magistratura un ritratto completo degli stragisti, in particolare della famiglia mafiosa di Palermo che ha raccolto l’eredità lasciata da don Totò: i Graviano di Brancaccio, che rappresentano la mafia col pedigree. Mafia antica, mafia dei giardini e poi mafia moderna che però non dimentica le proprie origini, le regole, il senso dell’onore, la mai sazia sete di vendetta. Capostipite fu Michele, sposato con una donna appartenente ad una famiglia che Cosa nostra la esportò a Milano. Poi i tre figli maschi: Benedetto, Filippo e Giuseppe e la piccola, «a picciridda» Nunzia che comunque la pagnotta se l’è guadagnata pure lei imparando a gestire una montagna di soldi dopo la cattura dei fratelli maschi.
Il ruolo di erede di don Michele, ucciso all’insorgere della seconda guerra di mafia sarebbe dovuto andare a Benedetto, ma, dice Riina in carcere parlando con il «compagno di socialità», era considerato «scimunito». E tra Filippo e Giuseppe, quello più sveglio per Totò era proprio il secondo, capace di conquistarsi il rispetto della truppa con metodi «cristiani», capace di «farsi ubbidire» dando l’impressione di lasciare libertà di scelta. Una mente lucida e sempre in movimento, come si evince dal racconto di come sia riuscito a organizzare la strage di via D’Amelio (il giudice Borsellino e 5 agenti della scorta) e come Cosa Nostra abbia potuto ribattere colpo su colpo all’azione di contrasto dello Stato sempre in ossequio alla linea dura di Riina, idolatrato come un padre («semu tutti figghi di stu cristianu»), che «appariva con le spalle coperte», specialmente dopo l’assassinio dell’ex sindaco Dc di Palermo, Salvo Lima, ritenuto un traditore per non essere riuscito a «sabotare politicamente» il maxiprocesso di Falcone. Ecco, la vendetta: il motore che fa decollare la svolta stragista della mafia ma che, nel privato, muove anche le paranoie personali, come l’ossessione per la mancata punizione di Totuccio Contorno, ritenuto l’assassino di Graviano padre ma sfuggito ad un agguato e poi artefice (in società con Buscetta) della disfatta giudiziaria di Cosa nostra.
Il romanzo fila veloce, anche perché non cerca conferme giudiziarie. Abbate fa un racconto, sostenuto da episodi inediti e documenti nuovi, che non è destinato alle aule di giustizia, scrive una cronaca mettendo insieme spezzoni di verità disseminate tra migliaia di carte e verbali poco conosciuti al pubblico. Il risultato è impressionante perché spesso sono gli stessi protagonisti a rivelare brandelli di storia, uomini votati all’omertà che invece offrono chiavi di lettura. Il contributo di Tranchina è notevole, ma è lo stesso Graviano che, vinto dal suo delirio manipolatorio, racconta in presa diretta anche quando nega per confermare, come nella migliore tradizione dei mafiosi che inquinano i pozzi. Graviano lancia il sospetto che la cattura (furono presi lui, Filippo, e le rispettive compagne) al ristorante di Milano “Gigi il cacciatore” non fu casuale, insinua che l’episodio possa essere inserito nella ingarbugliatissima storia delle frequentazioni berlusconiane dei Graviano.
E come insinua? Semplicemente definendo la cattura un «arresto singolare e inaspettato», lasciando intendere, così, di aver avuto in passato coperture poi revocate. E Abbate qui svela come e da chi i Graviano sono stati traditi e venduti ai carabinieri nel gennaio 1994. Parla liberamente, Giuseppe. Ma con qualche piccola censura. Per esempio, non parla mai di Marcello Dell’Utri, il suo «paesano», il politico che Gaspare Spatuzza dice di aver avuto citato da Graviano quando lo ha incontrato alcune settimane prima dell’arresto al bar Doney di via Veneto a Roma e che avrebbe consentito al boss di poter dire, dopo quell’incontro, «ci siamo messi il Paese nelle mani». E accredita una verità di comodo, più consona all’etica mafiosa, quando parla della gravidanza della moglie avvenuta mentre era detenuto.
Molti pensavano all’inseminazione artificiale, ma lui dice di avere avuto un contatto fisico con la moglie, fatta entrare clandestinamente in carcere. Stessa operazione sarebbe stata fatta da Filippo, anch’egli divenuto padre da detenuto. I documenti citati nel libro e le fonti raccolte raccontano invece un’altra storia che ha alla base accordi mafiosi. La censura si fa totale quando l’argomento è l’assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito ucciso per fare ritrattare il padre. L’immaginario ha già attribuito ogni colpa ai Brusca e quindi Graviano cerca di tenersene alla larga. Una lettura istruttiva, il libro di Lirio Abbate, che mette a nudo uomini, meccanismi e regole di una comunità (Cosa Nostra) che non pare arrendersi alla sconfitta. Trent’anni di ricatti mafiosi e strategie criminali, sotto la guida di Graviano e Messina Denaro. L’ultima spiaggia dei Graviano sembra essere quella del tentativo di poter uscire dal carcere a dispetto delle condanne all’ergastolo. Per questo risulta molto seguita, in carcere, la vicenda politica legata alla riforma dell’ergastolo ostativo. E della dissociazione. E per questo Graviano ha già fatto conoscere il proprio pensiero scrivendo al ministro della Giustizia, Marta Cartabia, la cui lettera è stata acquisita dai magistrati. Il manipolatore non demorde e ciò che racconta questo libro non è una fiction.
Montagna Longa: il contabile di Cosa nostra che si salvò dalla strage del Dc8. Il boss Vito Roberto Palazzolo doveva essere sul volo schiantatosi nel ’72 forse per un attentato. All’improvviso cambiò idea e chiese a un dipendente di prendere il suo posto. È l’ennesima ombra sulla tragedia irrisolta di cui si occupa la commissione antimafia. Enrico Bellavia su L'Espresso il 12 settembre 2022
La telefonata arrivò il venerdì mattina molto presto. Era il 5 maggio del 1972, il giorno della strage di Montagna Longa, la strage dimenticata.
Armando era a letto nella sua casa di Terrasini. Aveva tirato tardi la sera prima. Erano giornate convulse di campagna elettorale per le Politiche della domenica e lui, come da tradizione familiare, si dava da fare per sostenere quella galassia che fuori dal Pci ingaggiava battaglie a sinistra e provava a erodere il granitico consenso dei democristiani, gonfi dei voti portati in dote dai mammasantissima.
Ofelia, non aveva cuore di svegliare il figlio. E l’uomo al telefono dovette insistere, era urgente, c’era da pianificare un viaggio imprevisto e Armando avrebbe dovuto darsi una mossa per riuscire a partire in tempo. Di malavoglia, la donna andò in camera del figlio che, frastornato, trascinò i piedi in corridoio e prese la cornetta. La madre lo sentì solo annuire. Quando mise giù, annunciò che doveva andare a Roma con il primo volo utile, consegnare dei documenti importanti e riprendere un aereo per tornare la sera stessa: «Lui non se la sente, ha paura dell’aereo, devo andare io». Ofelia avrebbe ripassato per il resto dei suoi giorni la sequenza di quella mattina. Nessun dubbio, nessun sospetto, allora. Mai e poi mai, lei che era nipote del giornalista e scrittore Girolamo Ragusa Moleti, «ribelle dei ribelli», secondo la definizione di Benedetto Croce, vissuta in una famiglia nutrita a intransigenza e rigore, se ne starebbe stata in silenzio a subire. Per questo il suo cruccio era semmai quello di non aver capito. E il rovello acuiva il dolore della perdita.
L’uomo al telefono era Vito Roberto Palazzolo, da Terrasini, allora venticinquenne imprenditore e datore di lavoro di Armando. Nello spazio di due lustri si sarebbe guadagnato la fama mondiale di broker del riciclaggio del cartello siciliano della mafia. La vera mente finanziaria della scalata corleonese al vertice dell’organizzazione, il custode dei segreti di un’ascesa che i killer pianificavano versando fiumi di sangue sulle strade e lui plasmava con la forza dei numeri: miliardi e conti cifrati, tutto passava dalle sue mani di contabile tanto scrupoloso quanto interessato a ritagliarsi una fetta cospicua di quelle fortune.
In un mondo di pastori e contadini arricchiti, il cui orizzonte estero coincideva con le rotte d’approdo degli emigranti, Vito Roberto Palazzolo giocava con la geografia del denaro. Pronto a spostarsi lì dove era possibile appostarlo senza troppe complicazioni. Dall’Europa all’Africa all’Estremo Oriente, proprio come un vero uomo d’affari. Brillante spigliato e ricchissimo. Inseguito dalla nomea di imprendibile, abile a giocare a scacchi con i giudici a qualsiasi latitudine, prontissimo alla fuga e disinvolto nell’aprirsi vie d’uscita dove altri avrebbero visto solo strade sbarrate.
Poco dopo l’alba del 5 maggio 1972, quella sua telefonata spalancò una di quelle porte girevoli che per qualcuno sono la salvezza e per altri la condanna. E Armando che prese il posto di Vito Roberto Palazzolo in quel viaggio da Roma fu consegnato nel suo ultimo giorno a un destino forse non proprio casuale. Quella stessa sera a pochi minuti dall’atterraggio, l’aereo che avrebbe dovuto riportarlo a casa tagliò in fiamme l’abitato di fronte al golfo e finì su Montagna Longa, depositando su quel crinale, tra Carini e Cinisi, il suo carico di morte: 115 vittime, il primo e più grave disastro dell’aviazione civile italiana, superato in numero di morti solo dalla sciagura di Linate. Il più rimosso tra i capitoli oscuri della nostra storia recente. Concentrato di interrogativi che si inseguono da allora in una danza macabra contro la verità.
Incidente, secondo la sbrigativa versione ufficiale consacrata in una sentenza da liberi tutti nel 1984. Casualità: forse guasto, forse errore umano, soluzione pilatesca e indimostrata, comunque funzionale a smontare gli argomenti dei detrattori di uno scalo fortemente voluto in un sito inadeguato e a fugare altre ombre sinistre in un Paese che preferisce spedire i fatti nel confino delle supposizioni.
Strage deliberata nel quadro della strategia della tensione, sostengono in molti, di fronte a una magistratura riottosa a fare piena luce e a una mole di elementi che concludono verso la tesi dell’attentato. Ci riprova la commissione antimafia sul finire di questa legislatura, come raccontato da L’Espresso (numero 33 del 21 agosto). E lo fa riprendendo in mano la ricostruzione del vicequestore Giuseppe Peri che già cinque anni dopo, nel 1977, accreditò la pista dell’attentato dimostrativo di matrice mafiosa e neofascista: una bomba a bordo che doveva scoppiare ad aereo già atterrato e vuoto e che un ritardo trasformò in una carneficina, a quel punto impopolare da rivendicare.
Un rapporto insabbiato all’epoca e l’autore emarginato fino alla pensione.
Eppure alla tesi dell’attentato è giunta anche una perizia commissionata dai familiari delle vittime di Montagna Longa. L’ingegnere Rosario Ardito Marretta, a distanza di anni, nel 2017, ha confermato l’intuizione di Peri e collocato in una bocchetta dell’ala destra l’ordigno, concludendo per la bomba a bordo forse attivata da un radiocomando. La relazione di Marretta, snobbata dalla magistratura catanese che ha «cestinato» l’ennesima richiesta di riapertura delle indagini e ora pubblicata in lingua inglese, è già stata acquisita dalla commissione che si avvale della consulenza del magistrato di Milano Guido Salvini, tra i massimi esperti di terrorismo nero. L’audizione di Marretta dovrebbe essere il passo successivo.
Anche secondo Alberto Stefano Volo, neofascista e controverso testimone della stagione in cui esponenti di primo piano dell’eversione nera, a partire da Pierluigi Concutelli fecero base in Sicilia a ridosso dell’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), Montagna Longa fu una strage. Raccontò di averne avuto un vago sentore quando era in preparazione e di aver consigliato a una sua amica hostess destinata a quel volo di cambiare turno. Non fu prodigo di elementi ma quelli che offriva ascrivevano la strage agli stessi ambienti indicati da Peri.
Probabile che la voce dell’attentato in preparazione fosse arrivata anche ad altre orecchie, in quell’area di interessi convergenti frequentata da neofascisti e mafiosi, lì dove bombe e delitti erano strumenti per far politica, mezzi per dosare attraverso l’arma della paura, una certa idea di Paese funzionale agli affari in corso.
Armando Pappalardo aveva 26 anni. Anche lui era cresciuto a Terrasini, a due passi dall’aeroporto, ed era il secondo di quattro fratelli. Il padre lo aveva perso 12 anni prima, morto in un incidente stradale. Aveva continuato gli studi di geometra, poi si era iscritto a Matematica. La laurea era ormai alle porte ma intanto gli era toccato pure togliersi dai piedi l’impiccio della naia, nonostante commi e leggine gli riservassero una parziale esenzione. Aveva una fidanzatina con la quale flirtava da qualche mese. E un impiego, ottenuto mettendo a frutto il diploma.
Kartibubbo, a Campobello di Mazara, era a quel tempo poco più di un progetto avanzato, un cantiere per la costruzione di uno di quei cubi scagliati a sfregiare la costa in nome della pretesa vocazione turistica della Sicilia e per placare le smanie imprenditrici di una mafia gonfia di soldi che aveva fame di cemento e brama di aree edificabili.
Armando lavorava per la società costruttrice, una nebulosa di sigle, anche straniere, dietro le quali, ma sarebbe stato scoperto parecchio tempo dopo, c’era Cosa nostra.
E proprio con uno dei suoi pezzi più pregiati: Vito Roberto Palazzolo, basi in mezzo mondo e collegamenti al massimo livello, uomo di fiducia per gli investimenti personali di boss come Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Custode della cassaforte quando Mafia spa aveva il monopolio della droga sulla rotta Europa-America.
Quarant’anni e una montagna di fascicoli processuali dopo, Vito Roberto Palazzolo, scarcerato nel 2019, ha praticamente finito di scontare una condanna a 9 anni per mafia. In primo grado a infliggergliela era stato il tribunale di cui faceva parte Vittorio Alcamo, figlio di Ignazio, il magistrato che aveva spedito al soggiorno obbligato la moglie di Riina, Ninetta Bagarella, morto su quello stesso volo di Montagna Longa.
La sentenza per mafia è la ragione che ha riportato in Italia Palazzolo dalla Thailandia dopo una precipitosa fuga da Città del Capo in direzione Hong Kong. Il Sudafrica lo ha protetto e coccolato garantendogli libertà e opportunità ma su tutte una sfacciata impunità, costruita mettendo a libro paga anche i più blasonati investigatori che dovevano perseguirlo, ma poi anche lì la rete di protezione si è sfaldata e il mafiomanager aveva preferito eclissarsi.
In passato ha schivato un’accusa di droga e il coinvolgimento in due omicidi di mafia. Ha dosato mezze ammissioni inevitabili, provando sempre a scrollarsi di dosso l’accusa di essere la longa manus economica della mafia, l’ha buttata in politica, provando ad allontanare i sospetti dall’imprenditore che gli avrebbe fatto da prestanome per Kartibubbo, tirando in ballo semmai amministratori corrotti per le autorizzazioni. Il villaggio, acquisito definitivamente dallo Stato, è oggi un esempio di gestione fruttuosa dei beni confiscati, soprattutto di fronte allo scandalo della lobby delle amministrazioni giudiziarie che hanno mandato in rovina aziende sventolando la bandiera di una legalità posticcia.
La storia di Vito Roberto Palazzolo che in Sudafrica ha costruito un impero, in gran parte ora in mano ai figli, ha molte zone d’ombra che ne hanno accresciuto la fama e la reputazione di potente. La paura di volare che il 5 maggio del 1972 lo spinse a chiedere ad Armando Pappalardo di sostituirlo deve averla superata. E di quel miracoloso scambio che gli ha risparmiato la vita non ha mai parlato. Chissà se tra le molte informazioni che costituiscono il suo capitale c’è qualcosa su quella telefonata. La commissione antimafia, se davvero ha intenzione di andare a fondo su quella strage dimenticata, potrebbe intanto chiedergli di rinfrescarsi la memoria.
MISTERI ITALIANI. Montagna Longa: l’Antimafia apre il dossier sulla strage aerea di 50 anni fa. Acquisita la relazione dell’esperto che per Montagna Longa accredita la tesi dell’attentato. Il sospetto di una bomba neofascista alla vigilia delle politiche del maggio 1972. Al caso lavora anche il giudice Guido Salvini. Le connessioni tra i “neri” e Cosa nostra ignorate dai magistrati. Enrico Bellavia su L'Espresso il 22 agosto 2022
Cinquant’anni e un unico rovello. Che la verità ufficiale fosse solo un frettoloso colpo di spugna per cancellare la memoria di una strage. Come spesso accade nel Paese che lascia infiniti conti aperti con la memoria, sono i dettagli a fare la differenza. Crepe nel muro che si vorrebbe granitico a difesa del non detto. E che con la caparbia tenacia di pochi e isolati resistenti, al contrario, si sbreccia, si incrina e potrebbe anche crollare, se solo si avesse la forza di fare i conti con il passato.
Montagna Longa, la strage senza nome in attesa di giustizia. Furono centoquindici le vittime nel disastro aereo di quel 5 maggio 1972. “Fu una bomba”, giura un esperto. E un libro rilancia la tesi del dossier Peri rimasto nei cassetti per 50 anni. Enrico Bellavia su L'Espresso il 7 febbraio 2022
Rimane lì, nel fondo buio dei misteri italiani. Nascosta nell’anfratto più oscuro della caverna nella quale volteggiano i fantasmi della Repubblica. La resa della giustizia che nelle tenebre l’ha ricacciata ha un termine inaccettabile per chi la verità l’aspetta da mezzo secolo: «Cestinare». Così, due anni fa la magistratura di Catania, la stessa che all’inizio di questa storia aveva celebrato un inutile processo senza colpevoli, ha dato l’ultimo colpo di spugna su una piaga che rimane aperta per 98 orfani e 50 vedove di quella tragedia.
Montagna Longa, il primo e più grave disastro aereo dell’aviazione civile italiana, prima di Linate. Centoquindici vittime, 108 passeggeri e 7 donne e uomini di equipaggio, sulla cresta di una montagna di 935 metri a cinque miglia dall’aeroporto di Punta Raisi, Cinisi, Palermo.
Tra poco saranno cinquant’anni da quel 5 maggio 1972. Venerdì, ore 22,24, il Dc 8 Antonio Pigafetta dell’Alitalia, anno di costruzione 1961, sigla I Diwb, volo AZ 112, in avvicinamento dopo un’ora e più di viaggio da Roma, manca l’atterraggio e rovescia un carico di vite innocenti sul crinale delle rocce che guardano l’abitato di Carini. Come nel più abusato dei copioni italiani, convenne a tutti attribuire la responsabilità ai piloti. L’errore umano, nient’affatto certo ma solo «verosimile», recita la sentenza del 1984, era il comodo tappeto sotto al quale nascondere, dubbi, interrogativi, sospetti. E così, anche dopo cinquant’anni, Montagna Longa rimane una strage, innominabile però come tale. Contro ogni evidenza logica e le tante, troppe, incongruenze, confinate da indagini carenti o inesistenti, nell’indistinto delle congetture.
Eppure, non sono ipotesi quelle dell’ingegnere Rosario Ardito Marretta, docente di Aerodinamica e dinamica dei fluidi dell’università di Palermo che nel 2017 dimostrò, elementi scientifici alla mano, che l’aereo era caduto per una bomba. «A bordo del velivolo durante il volo AZ 112 si è attuata una detonazione, esplodente prima e deflagrante dopo, che ha causato un’avaria irreversibile all’impiantistica di governo del velivolo causandone il collasso operativo e il conseguente disastro», scrisse.
Neanche allora, quando la corposa relazione di Marretta, ingaggiato dall’associazione dei familiari delle vittime, arrivò sulla scrivania della procura di Catania insieme con un’istanza che sollecitava nuove indagini, il pm si mise al lavoro. Anzi, giudicando che sarebbe stato difficile capire chi avesse messo la bomba a distanza di così tanti anni, non formulò neppure un’ipotesi di reato e rinunciò ad accertare se davvero di un ordigno si era trattato. Strano modo di procedere. Come dire: se non puoi trovare tutta la verità, evita di cercare ciò che puoi. Di illuminare con un fascio di luce anche solo un angolo di quell’antro.
Se a Pavia avessero fatto così, adesso penseremmo ancora che Enrico Mattei, il patron dell’Eni, non morì in un attentato ma fu vittima di incidente.
Nonostante tutto, sottotraccia, il rovello di quel che è stato cammina nella coscienza, spesso sorda, di un Paese per il resto indifferente. Così, proprio sulla strage dimenticata si è riaccesa l’attenzione. Merito di due pubblicazioni. Una è la relazione di Marretta, ora comparsa sotto forma del dossier scientifico sotto il titolo “Unconventional aeronautical investigatory methods. The Case of Alitalia Flight AZ 112” per Cambridge Scholars Publishing. L’altra è un libro che ripercorre la storia del decennio in grado di ipotecare ancora il futuro italiano. “Settanta” è il romanzo verità, «un lavoro di restauro della memoria», che Fabrizio Berruti, giornalista e autore televisivo, ha appena pubblicato per Round Robin. I Settanta sono gli anni del fango e dell’intreccio. Delle trame mafiose e del terrorismo nero. Dell’impasto che teneva attaccati i due poteri criminali al cemento delle mefitiche misture dell’Ufficio affari riservati del Viminale, quello di Federico Umberto D’Amato, il manovratore della tensione, l’architetto del terrore, utile a stabilizzare il Paese, consolidarne il baricentro centrista e scongiurare pericolose derive a sinistra.
E in quegli intrighi, Berruti si addentra, ricostruendo la vita, il lavoro e il destino di Giuseppe Peri, il vicequestore che consumò carriera e esistenza con un rapporto, anche questo dimenticato come il suo autore, ultimato nel 1977 e ripubblicato in fondo al volume.
La prima edizione la si doveva all’Istituto Gramsci con il volume “Anni difficili”, curato nel 2001 da Leone Zingales e Renato Azzinnari, mentre intorno alla strage, accanto alle ricostruzioni giornalistiche, poche, ci sono anche il romanzo “Sogni d’acqua” di Eduardo Rebulla, (Sellerio, 2009) e “L’ultimo volo per Punta Raisi”, di Francesco Terracina (Stampa Alternativa, 2012).
Come già aveva scritto l’agenzia internazionale di stampa Reuters all’indomani dello schianto, Peri, che aveva cominciato a indagare sul sequestro di Luigi Corleo, suocero dell’esattore siciliano Nino Salvo, accreditò l’ipotesi della bomba a bordo dell’aereo, piazzata dai terroristi neri in combutta con Cia e servizi: Stefano Delle Chiaie, er Caccola, che nel romanzo di Berruti diventa lo Scrondo e Pierluigi Concutelli, l’assassino del giudice Vittorio Occorsio, che in “Settanta” è il Comandante. Poi c’è Alberto. Che è Alberto Stefano Volo, controverso neofascista, che rivelò di essere stato preventivamente avvertito dai camerati della bomba e di aver salvato un’hostess con la quale aveva una relazione. Il nome di Volo, il preside nero, era ben noto al giudice Giovanni Falcone che da lui ricevette alcuni degli elementi che lo convinsero ad accreditare la pista nera per l’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella, (6 gennaio 1980), il fratello del capo dello Stato. Il giudice Falcone coltivava Volo come fonte, senza mai assegnargli il bollo di attendibilità, e, prima di essere ucciso nel 1992, lavorava all’articolazione siciliana di Gladio, la struttura paramilitare anticomunista, eterodiretta dagli americani che fa capolino insieme alla mafia dietro la lunga stagione di sangue in Sicilia.
Se questo è il contesto in cui la strage di Montagna Longa si colloca, sul filo degli anni sono mille gli indizi trascurati. La magistratura portò a giudizio soltanto il direttore dell’aeroporto e alcuni tecnici dell’aviazione civile, accusati di non aver sostituito con un faro elettrico a terra il radiofaro di riferimento che giorni prima era stato trasferito. Una premessa funzionale alla teoria dell’errore umano, risolta con l’assoluzione di tutti in Cassazione. E così la sentenza liquidò anche le legittime invettive sulla sicurezza di un aeroporto collocato in un posto sconsigliabile, Cinisi, eppure utilissimo per i traffici delle famiglie criminali con addentellati nei palazzi del potere romano che regnavano incontrastate nel golfo di Castellammare. Punta Raisi era già l’hub della droga a fiumi che dalle raffinerie tra Palermo e Trapani prendeva il volo per gli States facendo ricchi i vaccari alla Tano Badalamenti che da un giorno all’altro si ritrovarono imprenditori.
Che Montagna Longa non fosse stato un incidente lo avevano ben chiaro i testimoni che avevano visto volare quell’aereo avvolto da bagliori che erano fiamme, prima di sparire dietro la montagna. Lo suggerivano i corpi dei passeggeri senza scarpe. Lo palesavano i reperti, come quella borsa che sembrava divelta da una forza che l’aveva squadernata dall’interno. Lo avrebbe potuto dire quel che restava dei corpi, se si avesse avuto voglia di interrogarli per rintracciare tracce di esplosivo. Lo avrebbe raccontato una investigazione attenta sul perché il nastro della scatola nera fosse strappato nel punto in cui avrebbe dovuto raccontare quel che era accaduto. E invece non fu fatto nulla. La commissione ministeriale, voluta dall’allora ministro dei Trasporti Oscar Luigi Scalfaro, fu nominata con decreto il 12 giugno ’72 e il 27 dello stesso mese aveva già concluso i propri lavori. Il generale Francesco Lino che la presiedeva, tuttavia, si lasciò uno spiraglio scrivendo di «una situazione particolare determinatasi all’interno della cabina di pilotaggio per l’intervento di persone estranee oppure di una avaria che possa avere distolto per quasi due primi l’equipaggio». Anche le perplessità dell’Anpac, l’associazione dei piloti civili, furono liquidate. Il curriculum esemplare del comandante Roberto Bartoli e quelli del vice Bruno Dini e del tecnico motorista, anche lui brevettato, Gioacchino Di Fiore, insozzati dall’infittirsi di calunnie sulla loro inadeguatezza.
L’ingegnere Marretta, al contrario, ha una spiegazione per ciascuno di quegli elementi.
L’ultima comunicazione di Bartoli riporta indietro l’orologio di 273 secondi prima delle 22,24, quando l’aereo lascia i 5mila piedi e annuncia la virata, che lo porterà di fronte alla testa della pista 25.
«Palermo AZ 112 è sulla vostra verticale e lascia 5.000 e riporterà sottovento, virando a destra, per la 25 sinistra». Queste le sue parole alla radio. Poi il buio.
La bomba, a bassa intensità, «grande quanto un pacchetto di sigarette», era collocata verosimilmente vicino al bocchettone di rifornimento dell’ala destra. Lo scoppio destabilizzò l’aereo, costrinse il comandante a una disperata «manovra a semicardiode tridimensionale in discesa», scaricando il carburante che già fuoriusciva per lo scoppio, e tentare comunque l’atterraggio. Da qui le fiamme, i passeggeri scalzi e il perché solo metà del moncone più integro, quello di coda, è bruciato.
La manovra non riuscì. Ma, d’altra parte, sostiene Marretta, se l’aereo si fosse schiantato con tutto il proprio carico di cherosene sul crinale della montagna, avrebbe ridotto in cenere ogni cosa, lasciando tracce persistenti, di «vetrificazione silicea», del nulla che il calore impone alla terra. «Un effetto Napalm».
E la scatola nera? Non racconta nulla perché era stata manomessa ad arte. Sembrava funzionare e invece era inceppata. E le spie non segnalavano anomalie. Perché se si fosse rotta accidentalmente, allora il guasto sarebbe stato rilevato e avrebbe imposto il fermo dell’aereo.
La bomba, secondo il vicequestore Peri, era un attentato dimostrativo. Doveva scoppiare ad aereo fermo. Il ritardo con cui viaggiava, sosteneva il poliziotto, causò invece l’esplosione in volo.
Ma perché una bomba? Il 5 maggio del 1972 era l’ultimo giorno di campagna elettorale per le elezioni politiche. Abbastanza perché i mestatori che avrebbero punteggiato ogni snodo democratico con il tritolo, si mettessero all’opera. Siamo a un anno esatto dalla morte del procuratore di Palermo Pietro Scaglione (5 maggio 1971) e a un anno e mezzo dal golpe Borghese (notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970).
Su quell’aereo tornavano per votare molti siciliani che vivevano fuori per lavoro.
C’era il medico del bandito Giuliano, Letterio Maggiore, il regista Franco Indovina che con Francesco Rosi lavorava sulla fine di Mattei, Lidia Mondì Gagliardi, prima passeggera del volo inaugurale dell’aeroporto di Punta Raisi, nel 1960, il figlio dell’allenatore della Juventus Cestmir Vicpaleck che morirà proprio il 5 maggio di trent’anni dopo. E c’era Ignazio Alcamo, consigliere di corte d’Appello e presidente della sezione misure di prevenzione che pochi giorni prima aveva inflitto il soggiorno obbligato a Ninetta Bagarella, sorella di Leoluca e moglie di Totò Riina. Proprio per la presenza di Alcamo, le indagini finirono a Catania. C’era anche Angela Fais, la giornalista de L’Ora e Paese Sera che sulle trame nere aveva a lungo lavorato raccogliendo gli sforzi di un collega, Giovanni Spampinato, corrispondente de L’Ora da Ragusa, poi ucciso proprio da un camerata il 27 ottobre dello stesso anno.
Se Montagna Longa agita ancora le coscienze di qualcuno nel sonno dei pm che da Palermo, a Caltanissetta e fino a Catania, hanno alzato bandiera bianca, lo si deve alla tenacia di Maria Eleonora Fais, la sorella di Angela. Fu lei a incaponirsi per rintracciare il rapporto Peri, incredibilmente mai preso in considerazione dai giudici di Montagna Longa. Lo chiese a Paolo Borsellino, allora procuratore di Marsala che rintracciò il numero di protocollo nel 1991. L’originale lo tirò fuori nel 1997 Antonio Silvio Sciuto, che sedeva nella stessa poltrona del magistrato ucciso in via D’Amelio nel 1992. Con il rapporto in mano e il racconto aggiornato di Volo, Maria Eleonora Fais, combattente orgogliosamente comunista, amica del segretario regionale del Pci Pio La Torre, chiese l’apertura di nuove indagini. A distanza di anni, con l’associazione che continua il suo impegno dopo la sua morte avvenuta nel 2016, rintracciò anche un video originale con le immagini della tragedia, un filmato che racconta molto delle conclusioni cui è poi giunto Marretta. E a Catania arrivò anche l’istanza del fratello di una delle vittime, Antonio Borzì, la cui figlia Erminia insieme allo storico Giuseppe Casarrubea e all’avvocato Ernesto Pino, in una foto rintracciò segni che sembravano di proiettile di grosso calibro in un’ala dell’aereo. Ipotizzavano che fossero partiti durante un’esercitazione aerea avvenuta quella notte: uno scenario simile a quello della strage di Ustica.
L’associazione dei familiari di Montagna Longa, con Ilde Scaglione e Ninni Valvo, orfani della strage, ha insistito ancora, forte della consulenza di Marretta e, prima ancora, della perizia medico legale di Livio Milone, dicendosi disposta alla riesumazione dei corpi. Ha tentato anche la carta della richiesta di avocazione dell’inchiesta alla procura generale sostenuta dall’avvocato Giovanni Di Benedetto, ma è stata rimbalzata ancora. Perché Montagna Longa da quella caverna dei misteri non deve uscire.
Delitto Mattarella, il giallo del killer. Si riapre la pista mafiosa, sospetti sul boss Nino Madonia. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 23 Luglio 2022.
Era il sicario utilizzato da Totò Riina per i delitti eccellenti. Già i giudici della corte d'assise d'appello avevano rilevato la sua somiglianza con Giusva Fioravanti. La pista nera sembra ormai tramontata
La pista del killer nero è ormai caduta, impossibile dopo tanti anni trovare analogie fra le armi dei Nar e i proiettili sparati quel 6 gennaio 1980. Il delitto del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, il fratello dell’attuale capo dello Stato, resta un mistero. Ma i magistrati della procura di Palermo non rinunciano a cercare la verità.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 14 marzo 2022.
Trent' anni fa, il 12 marzo 1992, Cosa Nostra ammazzò l'europarlamentare andreottiano Salvo Lima. La ricorrenza è importante perché fu il primo conto presentato dalla mafia dopo il maxiprocesso di Palermo che aveva decapitato Cosa Nostra, ma anche perché fu il primo indizio che la cosiddetta Mani pulite o Tangentopoli avrebbe potuto scoppiare al Sud ma fu fermata con proiettili e bombe.
Oppure, più ingenerale, fu un primo segno che i piccoli o grandi collanti che avevano tenuto insieme il Paese stavano cedendo: quello tra il popolo e i propri rappresentanti, tra le politica e l'imprenditoria, e, più in piccolo, tra partiti e Cosa Nostra. 15 marzo 1991. Un già isolato Giovanni Falcone pronunciò una frase emblematica durante un convegno al castello Utveggio di Palermo: parlò di «connubio, ibrido intreccio tra mafia e imprenditoria e politica» e disse che «la mafia è entrata in borsa».
Fu questo, come affermerà il «ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra» Angelo Siino, a mandare in bestia vari imprenditori legati alla mafia: «Falcone aveva compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi c'era effettivamente Cosa Nostra». 1° luglio 1991. Fu il punto più alto prima della caduta più rovinosa: la nomina di Giulio Andreotti a senatore a vita in due festeggiamenti organizzati nella stupenda Villa Attolico di Porta Latina e poi a Palazzo Farnese. Bisogna immaginare una sfilata di banchieri come Cesare Geronzi e Giampiero Cantoni, boiardi di Stato come Biagio Agnes e Franco Nobili, direttori e giornalisti come Bruno Vespa e Sandro Curzi ed Enzo Biagi e naturalmente l'onnipresente Gianni Letta, più molte centinaia di personalità e mogli ingioiellate: su tutti, un Andreotti 73enne attavolato affianco a Rita Levi Montalcini.
C'era anche il giudice Corrado Carnevale, presidente della prima sezione della Corte di Cassazione, già nota, come scriverà la procura di Palermo due anni dopo, per il «susseguirsi di una straordinaria messe di annullamenti di condanne di esponenti mafiosi». Andreotti, in quel periodo, poteva vantare anche il merito di aver legiferato contro la mafia come nessun altro: era stato ufficialmente lui, capo del governo, ad affrettare ogni procedura affinché fosse varato per tempo il famigerato decreto n.317 che dalla sera alla mattina raddoppiava i tempi della carcerazione preventiva per i boss. I governi di Andreotti, dal settembre 1989, avevano convertito in legge la bellezza di quindici decreti contro la criminalità organizzata, e a questo si affiancava al miracoloso Maxiprocesso che aveva già stangato Cosa Nostra anche in Appello: 1576 anni di galera per decine di boss e centinaia di affiliati. Questo un po' lo preoccupava. Al giudizio definitivo mancava solo la Cassazione.
Andreotti da un lato poteva continuare a ergersi come severo legislatore antimafioso, dall'altra c'era il problema che a credere al neo Andreotti nemico della mafia potesse essere anche la mafia. Vari collaboratori di giustizia diranno che i boss facevano affidamento sull'onorevole Lima e proprio sull'onorevole Andreotti affinchè mettessero ogni cosa a posto, anche grazie al dottor Carnevale. Tutte cose, pure queste, che Andreotti non poteva sapere, ma solo temere. Una sola cosa forse non poteva neppure immaginare: che Giovanni Falcone potesse d'un tratto trasferirsi a Roma, a lavorare per il ministero della giustizia come capo degli Affari penali, proprio nello stesso governo presieduto da lui, Andreotti.
Troppi pensieri per un uomo solennizzato sulla terrazza di Villa Attolico o tra i fregi di Villa Borghese. 30 gennaio 1992. La Cassazione confermò tutte le condanne di primo grado e rivalutò appieno il «teorema Buscetta» sulla cupola: ergastoli come se piovesse. Per dirla semplice, Cosa Nostra non aveva mai visto nessuno dei suoi adepti e dei suoi vertici condannati con «fine pena mai». Anni dopo, diversi pentiti diranno che Totò Riina alla notizia della sentenza praticamente impazzì. Il passaggio alla strategia dello sterminio stava per cominciare. 12 marzo 1992. L'europarlamentare siciliano Salvo Lima lasciò la sua villa di Mondello verso le 9.20.
A guidare l'Opel Vectra era il docente universitario Alfredo Li Vecchi, che affianco aveva l'assessore provinciale Nando Liggio. Furono avvicinati da un'Honda rossa con a bordo due uomini che spararono qualche colpo e colpirono il parabrezza e il finestrino laterale e una ruota. La vettura si bloccò. L'obiettivo era Salvo Lima, solo lui: «Tornano, Madonna santa, tornano» furono le ultime parole di Lima prima che la moto facesse inversione di marcia e puntasse ancora sull'auto. Scapparono fuori tutti, anche se il loden che Lima aveva appoggiato sulle spalle s' impigliò nella portiera. Corse via per una ventina di metri, verso il mare, si appoggiò a un albero, riprese a correre per un'altra decina di metri, poi si ritrovò bloccato davanti a una cancellata. Si girò: la moto l'aveva seguito. Fu freddato malamente con tre colpi, di cui l'ultimo alla testa. Gli altri due testimoni rimasero nascosti dietro dei cassonetti dell'immondizia. Furono risparmiati.
La moto verrà ritrovata a tre chilometri da lì. Testimoni, parenti e figli erano rimasti illesi anche negli attentati mortali contro il segretario democristiano Michele Reina e contro il presidente regionale Piersanti Mattarella, fratello di Sergio, futuro Capo dello Stato. Uno stile, una firma: quella di Totò Riina e dei corleonesi. I due killer - si appurerà - si chiamavano Giovanbattista Ferrante e Francesco Onorato. 15 luglio 1998. La sentenza del processo per l'omicidio di Salvo Lima, nel 1998, stabilirà che quest' ultimo si era attivato per cambiare la sentenza del maxiprocesso in Cassazione ma senza ottenere risultati. Lima sarebbe stato ucciso anche per questo. Tommaso Buscetta dichiarerà che il padre di Lima era un affiliato della Famiglia di Palermo Centro, guidata dal boss Angelo La Barbera e impegnata a sostenere elettoralmente Salvo Lima.
Dirà Claudio Martelli, ai tempi ministro della Giustizia: «Dopo l'uccisione di Lima Andreotti era spaventato, o perché non capiva, o forse perché aveva capito... Falcone disse a me e ad altri che il prossimo ucciso sarebbe stato lui: "Lo capite o no che sono un morto che cammina?" sbottò una sera, alla fine di una cena tristissima». Gli esiti processuali, come detto, stabiliranno che Lima fu ucciso perché non era riuscito a fermare il Maxiprocesso alla mafia. Ma esiste un'altra versione che prende sempre più corpo col passare degli anni, e, se non sostituisce la precedente, quantomeno visi sovrappone: è la pista del celebre dossier «mafia-appalti» come causa di tutta la successiva stagione stragista.
Una delle testimonianze più autorevoli è del sostanziale responsabile del dossier, il generale Mario Mori, ex comandante e fondatore dei Ros dei Carabinieri: nel dossier si parlava in particolare di Angelo Siino, «il ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra» che in passato era stato assessore a San Giuseppe Jato nella corrente di Salvo Lima. Ha scritto Mori: «Per la prima volta, con il sostegno di Falcone... Emerse il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) le ultime due, imprenditoria e politica, non erano vittime, ma partecipi... Si arrivò a risultati concreti addirittura prima che l'inchiesta Mani pulite prendesse corpo, come ha sostenuto lo stesso Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali. Il dottor Falcone, all'inizio del febbraio 1991, chiese l'informativa riassuntiva sull'indagine «Mafia-appalti»...
Appena ricevuta l'informativa, il dottor Falcone la portò al procuratore capo Pietro Giammanco... non se ne seppe più nulla». Il dossier «Mafia-appalti» lasciò la cassaforte del procuratore Giammanco e fu «illecitamente divulgato», passando nelle mani di Salvo Lima che lo mostrò subito al mafioso Angelo Siino nella sede della Dc palermitana di via Emerico Amari. L'omicidio di Lima - e non solo il suo - partì da lì. Questo pensavano Falcone e Borsellino. 5 ottobre 2021. La sentenza del processo cosiddetto «Borsellino quater» scrive che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso «per vendetta e cautela preventiva» (vendetta per il maxiprocesso, cautela per le indagini su «mafia-appalti») come riferito anche dal collaboratore Antonino Giuffrè a proposito della decisione di Cosa Nostra di eliminare i due giudici.
Del resto un'altra autorevole conferma l'aveva data anche il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso nel 2012: «Falcone e Borsellino erano dei nemici da bloccare per quello che potevano continuare a fare. Ma l'attentato di Capaci, per le modalità non usuali per Cosa Nostra, fu anche un messaggio di tipo terroristico non tanto eversivo, quanto conservativo per frenare le spinte che venivano da Tangentopoli contro una politica che era in crisi... Per noi è lacerante intuire ma non poter ancora dimostrare che la strategia stragista sia iniziata prima di Capaci, e cioè con l'omicidio Lima. È lì che scattò un segnale per cui lo stesso Falcone mi disse "Adesso può succedere di tutto"». Infatti succederà. Infatti è successo.
L'inquisizione antimafia. Mafia, la contraddizione di un’emergenza lunga trent’anni. Alessandro Morelli su Il Riformista il 4 Marzo 2022.
Lo “stato di emergenza” iniziato con la “dichiarazione di guerra” dell’Italia alla Mafia, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, quest’anno compie trent’anni, ricorda Sergio D’Elia nella sua intensa prefazione al volume curato da Pietro Cavallotti, Lorenzo Ceva Valla e Miriam Romeo, dal titolo Quando prevenire è peggio che punire. Torti e tormenti dell’inquisizione antimafia, edito da Reality Book e il Riformista (2022). Un’emergenza che dura da trent’anni è una contraddizione in termini. In una sentenza del 1982, riguardante la carcerazione preventiva, i cui tempi erano stati dilatati in ragione di un’altra situazione straordinaria (quella determinata dal brigatismo), la Corte costituzionale dichiarò che “l’emergenza, nella sua accezione più propria, è una condizione certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea.
Ne consegue che essa legittima, sì, misure insolite, ma che queste perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo”. Il giudizio a conclusione del quale fu emessa tale pronuncia (che fece salva la disciplina allora vigente) era stato originato, tra gli altri, dal caso di Giuliano Naria, sottoposto a carcerazione preventiva per più di nove anni e poi assolto con formula piena. La temporaneità è, peraltro, una condizione necessaria ma non sufficiente a rendere compatibile uno stato di emergenza con i principi della nostra Costituzione e del diritto internazionale. L’emergenza, infatti, non è la dimensione dell’irrazionalità e dell’arbitrio: essa altera il contesto entro il quale sono condotti i bilanciamenti tra i valori in campo ma non legittima l’adozione di misure palesemente sproporzionate e irragionevoli. Che sia così lo si evince, per esempio, dalla disposizione riguardante la più drammatica condizione di emergenza espressamente prevista dai Costituenti: la guerra. L’articolo 78 della Costituzione stabilisce che quando le Camere deliberano lo stato di guerra, esse conferiscono al Governo i “poteri necessari”, non i “pieni poteri”. E la necessarietà esprime un criterio di proporzionalità che deve essere tenuto presente anche quando è in discussione la stessa sopravvivenza dello Stato.
Il diritto emergenziale antimafia, che trova alcune delle sue articolazioni più importanti nelle norme sulle misure di prevenzione, sulle informazioni interdittive e sullo scioglimento dei comuni per infiltrazioni, finisce con l’identificare nella prevenzione l’azione più efficace (e, quindi, sufficiente) della lotta alla criminalità organizzata. La prevenzione, tuttavia, non consente un accertamento adeguato dei fatti, si accontenta di un’osservazione sommaria, alimentando così una sempre più diffusa cultura del sospetto, espressione di un dilagante populismo penale e giudiziario. Si tratta di un diritto emergenziale che, come si evince dalle riflessioni sviluppate e dalle tante storie di tragici errori raccontate nel libro, appare ispirato da un principio di presunzione di colpevolezza che non si pone soltanto in contrasto con l’opposta indicazione contenuta nell’articolo 27 della Carta costituzionale e con i dettami del “giusto processo”.
In discussione è innanzitutto il principio di solidarietà, che nel disegno dei Costituenti funzionalizza l’adempimento dei doveri inderogabili di cui parla l’articolo 2 e pone le basi etiche e giuridiche della coesione sociale e politica: quale spazio residua a tale istanza in una società dominata dalla cultura del sospetto? E in crisi sono anche il principio democratico e gli altri che con esso fanno sistema (come quelli di autonomia e di sussidiarietà): “dove la mafia notoriamente esiste – scrive D’Elia – e, perciò, per una sorta di incompatibilità ambientale, vengono annullati per decreto il confronto politico, le procedure democratiche, la partecipazione popolare, le elezioni. […] Il messaggio è devastante: le istituzioni più vicine ai cittadini – consigli comunali, giunte e Sindaci – sono forme anacronistiche della vita politica. La democrazia stessa è considerata un sistema superato”.
Non si discute la necessità di una legislazione e di azioni repressive adeguate a fronteggiare efficacemente il fenomeno mafioso. Si ritiene però che la lotta alla Mafia possa e debba svolgersi entro il perimetro della legalità costituzionale e nel rispetto dei diritti fondamentali. Che sono innanzitutto quelli dei più deboli. Se la guerra contro la Mafia è innanzitutto difesa dei deboli contro poteri criminali forti, sua premessa indefettibile è il riconoscimento dei soggetti deboli. Come ha scritto Luigi Ferrajoli, nella dimensione del diritto penale il debole, nel momento del reato, è la vittima; nel processo è l’imputato; nella fase dell’esecuzione penale è il condannato. Marcare con decisione la differenza tra i fini perseguiti e i mezzi impiegati dallo Stato e quelli della Mafia è il primo passo per vincere la guerra. Alessandro Morelli
Da Tangentopoli a mafiopoli: la lunga egemonia dei pm. Cicchitto, Gargani, il pg Marino e Sansonetti ricordano gli anni di Tangentopoli: fu un blitz contro i partiti ordito dai poteri forti con giornali e toghe. Valentina Stella su Il Dubbio il 25 febbraio 2022.
«Il dibattito finora svolto per il trentennio di Mani pulite è caratterizzato da un livello elevato di mistificazione. È stato cancellato il fatto che il finanziamento irregolare dei partiti ha visto come originari protagonisti i padri della patria, da De Gasperi a Togliatti, a Nenni, a Saragat, a Fanfani. Era un finanziamento che proveniva dalla Cia e dal Kgb e da una serie di fonti interne, dalla Fiat alle cooperative rosse, alle industrie a partecipazione statale. Il partito diverso dalle mani pulite di cui parlò Enrico Berlinguer era un’assoluta mistificazione». Partiamo dalle conclusioni di Fabrizio Cicchitto per darvi conto del convegno “A Trenta anni da Tangentopoli e da Mafiopoli – Ruolo politico anomalo della magistratura non in linea con la Costituzione per configurare una fantomatica Repubblica giudiziaria”, organizzato dal Centro Studi Leonardo Da Vinci e dall’Associazione Riformismo e Libertà, e moderato dal nostro direttore Davide Varì.
Secondo Cicchitto «molto prima di Forza Italia, e ovviamente in termini del tutto rovesciati, il primo partito- azienda è stato il Pci. Tutti sapevano tutto, compresi i magistrati e i giornalisti. Don Sturzo ed Ernesto Rossi fecero denunce assai precise: rimasero del tutto inascoltati. Poi con il 1989 c’è stato il crollo del comunismo e, con il trattato di Maastricht, il sistema di Tangentopoli è diventato antieconomico. In uno Stato normale, quel sistema avrebbe dovuto essere smontato con un’intesa fra tutte le forze politiche e la stessa magistratura, invece è avvenuto il contrario. I poteri forti hanno deciso di smontare il potere dei partiti, in primo luogo quello della Dc e del Psi».
Ad aprire i lavori della conferenza Giuseppe Gargani, avvocato ed ex parlamentare europeo, che ha iniziato soffermandosi proprio sulla stagione di Mani Pulite: «Oggi riteniamo di poter pretendere una risposta sul perché vi furono iniziative giudiziarie che non si svolgevano nelle sedi riservate, sacrali della giustizia, ma richiedevano il consenso di interi settori dell’ opinione pubblica. Tanti cittadini si riunivano davanti ai tribunali per osannare gli eroi che mettevano alla gogna i politici, praticando un metodo che non ha precedenti nella storia repubblicana. Noi non chiediamo inchieste parlamentari: chiediamo, come ho fatto per tanti anni, un confronto con i principali protagonisti di quel periodo, per un esame di coscienza critica e per riconoscere responsabilità colpose o dolose di ciascuno, la politica, la giustizia, i magistrati, l’informazione, per riconoscere le degenerazioni derivanti dal potere di supplenza che la magistratura accentuò in maniera vistosa in quel periodo».
Allora vi fu «un disegno strategico, ebbe a dire un senatore di grande spessore come Giovanni Pellegrino, che aveva come obiettivo una posizione di primato istituzionale della procura della Repubblica e quindi della magistratura inquirente. Il pubblico ministero aveva solo funzioni di giudice etico, di far vincere il bene sul male, che riscatta la società, punisce in maniera emblematica il male ed esaurisce nell’indagine la fase giurisdizionale che ha bisogno del processo».
A Gargani è seguito Raffaele Marino, sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, a cui è stato chiesto se ai tempi di Tangentopoli vi sia stata una torsione del diritto: «Davigo non rappresenta la magistratura, nel senso che le sue idee sono le sue idee, non sono le idee della magistratura, dico io per fortuna. Io ho vissuto Tangentopoli come gip: ricordo che c’era l’avvocato Taormina, che girava per le carceri a chiedere ai giudici che cosa dovesse dire il suo assistito perché potesse essere liberato. Questo era, diciamo, il clima dell’epoca».
Il direttore del Riformista, Piero Sansonetti, si è soffermato sul ruolo della stampa: «Allora i giornali lavorarono in maniera unificata: Stampa, Repubblica, Unità, Corriere della Sera, in parte anche il Messaggero. Non cercavano le notizie ma unificavano le veline. Vi posso raccontare il giorno in cui arrivò il decreto Conso che depenalizzava il finanziamento dei partiti. Io ero all’Unità. Arrivò un editoriale di Cesare Salvi, molto favorevole al decreto. Poi la sera ci fu come al solito la consultazione fra i direttori verso le sette e si decise di buttare a mare il decreto. Fu cambiato l’ editoriale dell’Unità, fu fatto un editoriale contro il decreto. Il giorno dopo tutti i giornali uscirono contro il decreto e a mezzogiorno Scalfaro annunciò che non avrebbe firmato il decreto. Esso non cadde per l’opposizione politica, cadde per l’opposizione dei giornali. Non erano liberissimi giornali allora, non raccontiamoci balle». Tutto il dibattito e gli interventi degli altri numerosi ospiti si possono riascoltare su Radio Radicale.
Il post di Antonio Di Pietro: "Mani Pulite? Tutto è nato dalle indagini di Giovanni Falcone..." Sandra Figliuolo, Giornalista, il 19 febbraio 2022 su palermotoday.it.
L'ex pm del pool milanese spiega l'origine del terremoto giudiziario di 30 anni fa: "Non ho scoperto nulla, furono le rivelazioni di Buscetta al giudice sul patto tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia a far partire il nostro lavoro". Per la famiglia Borsellino è proprio questo legame tra le due inchieste che andrebbe approfondito per trovare la verità su via D'Amelio
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"Mani pulite non l'ho scoperta io: nasce all'esito dell’inchiesta del Maxiprocesso di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l'accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia. Là nasce. E Falcone dà l'incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui venne trasferito". A scriverlo è l'ex pm componente del pool milanese che coordinò le indagini su Tangentopoli, Antonio Di Pietro.
Ed è uno spunto interessante, quello che Di Pietro, perché è proprio su questo nesso tra "Mani Pulite" (che partì in questi giorni, 30 anni fa) e gli appronfondimenti svolti invece dai magistrati palermitani che la famiglia di Paolo Borsellino ha cercato di puntare i riflettori per tentare di arrivare ad una verità a 30 anni dall'eccidio di via D'Amelio e dopo enormi despistaggi.
Lo stesso Di Pietro, qualche mese fa, in un confronto televisivo in cui era presente una delle figlie di Borsellino, Fiammetta, aveva dato sostegno a questa pista, esattamente come aveva fatto deponendo nel primo grado del processo sulla così detta trattativa tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra.
Secondo le motivazioni di quella sentenza, però, Borsellino sarebbe stato invece eliminato perché avrebbe appunto scoperto, a meno di due mesi dall'uccisione di Falcone, l'esistenza di questo presunto patto. Una sentenza che è stata in buona parte rivista in appello. Si attende nelle prossime settimane il deposito delle motivazioni, dopo una proroga richiesta dai giudici.
Mafia e corruzione, la lezione dimenticata a 30 anni da Mani Pulite. Ilvo Diamanti su L'Espresso il 12 febbraio 2022.
Sondaggio Demos-Libera: gli italiani considerano l’illegalità diffusa una patologia inevitabile. La corruzione e l’infiltrazione mafiosa, tra le pieghe dell’economia e della finanza, continuano ad allargarsi. In particolare, attraverso il mondo dei professionisti e dei colletti bianchi. “So-spinte” dalle risorse “generate” dal Pnrr. Più in generale, dagli interventi e dei fondi trasferiti dall’Unione Europea. Tuttavia, questi problemi preoccupano di meno, rispetto al passato. Lontano e recente. Si tratta di tendenze rilevate da un recente sondaggio curato da Demos-Libera, che, domani verrà presentato sull’Espresso.
Noi, campioni di autoassoluzione. Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2022.
Trent’anni dopo, come è cambiato il giudizio sulla stagione di Mani Pulite.
Nel 1992 eravamo giovani e ottimisti. «Adesso l’Italia cambierà», dicevamo e scrivevamo, sballottati dall’uragano giudiziario in corso. Il bilancio, trent’anni dopo?
In questi giorni abbiamo letto e ascoltato molte opinioni, non tutte oneste, molte smemorate, alcune disinformate. Su una cosa sembrano tutti d’accordo, per motivi diversi: la stagione di Mani Pulite — la risposta giudiziaria a Tangentopoli — non ha mantenuto le promesse. Per due anni gli inquirenti si sono mossi con la nazione alle spalle. Poi è successo qualcosa.
La definizione di questo qualcosa spacca il Paese da allora. C’è chi dà la colpa al protagonismo della magistratura e ad alcune forzature, come l’uso della carcerazione preventiva per ottenere confessioni. E chi accusa una classe dirigente complice e spaventata, ansiosa di rimuovere tutto. C’è qualcosa di vero in entrambe le spiegazioni. Ma tutto questo sarebbe stato ininfluente, se la nazione avesse ritenuto di poter cambiare. A un certo punto, invece, ha smesso di crederci.
Dovessi spiegare in una frase a mio figlio Antonio — classe 1992, coetaneo di Mani Pulite — cos’è successo, sceglierei questa risposta di Gherardo Colombo in una recente intervista: «Boiardi di Stato? Ministri? Quelle erano persone con le quali non ci si poteva identificare. Ma quando le prove portano all’ispettore del lavoro che per pochi soldi chiude un occhio sulle misure di sicurezza, all’infermiere che per duecentomila lire segnala un decesso all’agenzia di pompe funebri, al vigile urbano che fa la spesa gratis e non controlla la bilancia del salumiere, allora la reazione è: ma cosa vogliono questi, venire a vedere quello che faccio io?».
Ecco il punto: finché si trattava di condannare gli altri, tutti d’accordo; quando abbiamo capito che la faccenda riguardava anche noi, ci siamo allarmati. Cambiare, infatti, fa paura. Ed è faticoso. Certo, diverse abitudini sono cambiate, alcune pratiche oscene si sono ridotte. Ma siamo tornati ad assolverci: una cosa che ci riesce benissimo.
Ricordo lo sguardo e le parole di Indro Montanelli, in quella primavera del ’92: «Illudetevi pure, alla vostra età è giusto. Ma sarà un’illusione: quindi, preparatevi». Dargli ragione, trent’anni dopo, mi secca un po’.
Green e Pnrr, per gli italiani è scontata l’infiltrazione mafiosa e la corruzione in questi settori. Dalla ricerca Demos-Libera che pubblichiamo in anteprima emerge che per sei italiani su dieci la criminalità organizzata trova dei vantaggi negli aiuti economici del governo destinati alle imprese e all’economia in crisi a causa del Covid-19. Luigi Ceccarini su La Repubblica l'11 febbraio 2022.
L’indagine Demos-Libera sulla legalità offre un quadro aggiornato sulle opinioni degli italiani in relazione a mafia, corruzione al tempo del Covid-19 e alle ricadute del malaffare sul flusso delle risorse finanziarie previste dal Pnrr.
La violenza mafiosa, secondo una considerevole parte di cittadini, appare oggi limitata rispetto al passato (42%). L’adozione di una strategia meno sanguinaria rende la mafia meno notiziabile, quindi mimetizzata agli occhi del pubblico.
La relazione Antimafia firmata da Pio La Torre e Cesare Terranova. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 07 febbraio 2022.
Tutti la citano ma pochi l’hanno letta. È il primo documento completo sulla mafia siciliana, una bussola per capire cosa è stata e cosa ancora è Cosa Nostra. È anche il primo rapporto che svela le trame fra mafia e politica, ha quasi cinquant'anni e ha comunque sempre una sua attualità
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Tutti la citano ma pochi l’hanno letta. È il primo documento completo sulla mafia siciliana, una bussola per capire cosa è stata e cosa ancora è Cosa Nostra.
È anche il primo rapporto che svela le trame fra mafia e politica, ha quasi cinquant'anni e ha comunque sempre una sua attualità. Certi nomi tornano, generazione criminale dopo generazione criminale. È la relazione di minoranza del 1976 della Commissione parlamentare Antimafia, quella di Pio La Torre e del giudice Cesare Terranova, firmatari oltre a loro i deputati Gianfilippo Benedetti e Alberto Malagugini e i senatori Giulio Adamoli, Gerardo Chiaromonte, Francesco Lugnano e Roberto Maffioletti.
Si apre con una valutazione critica della relazione di maggioranza della Commissione, molto superficiale e attenta a non disturbare i padroni della Sicilia del tempo che poi erano anche gli amici più cari dei mafiosi. Si parte dalla mafia agraria e dal quel pupo nelle mani dei boss che era il bandito Salvatore Giuliano per raccontare il "sacco edilizio” di Palermo, le bombe che di notte facevano saltare in aria le ville liberty di via Libertà o le dimore settecentesche della Piana dei Colli per poi costruire palazzi, palazzi e ancora palazzi.
Il sindaco Salvo Lima e l’assessore ai Lavori Pubblici Vito Ciancimino, i pensionati nullatenenti e prestanome dei costruttori mafiosi, la razzia del territorio, i grandi appalti, la prima guerra del 1963 fra i Greco dei Ciaculli e i La Barbera.
I primi omicidi politici alla periferia dell'impero mafioso, il potere del ministro Giovanni Gioia, i grandi giochi alla Regione Sicilia con i ricchissimi enti controllati dai califfi ammanigliati con la crema di Cosa Nostra. Un documento di straordinario sapere e profondità che è alla radice, elaborazione di Pio La Torre e di Cesare Terranova, del reato di associazione mafiosa e della legge sul sequestro dei beni approvata nel settembre del 1982.
Tre anni dopo l’uccisione del giudice Terranova e centoventi giorni dopo l’uccisione di Pio La Torre. Per una trentina di giorni pubblicheremo ampi stralci di questa relazione sul nostro Blog, atti che nel 2016 la presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Rosy Bindi ha voluto pubblicare in un volume per rendere omaggio alla memoria e al coraggio di chi, in solitudine, mezzo secolo prima, aveva già capito tutto.
ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA
LA RELAZIONE DI PIO LA TORRE E CESARE TERRANOVA.
La mafia non è solo crimine, ma è “un fenomeno di classi dirigenti”. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 07 febbraio 2022.
La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti. Come tale, pertanto, la mafia non è costituita solo da «soprastanti», «campieri» e «gabellotti», ma anche da altri componenti delle classi che esercitano il dominio economico e politico nell'Isola, la grande proprietà terriera e la vecchia nobiltà
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
La relazione di maggioranza (o del Presidente) della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno dalla mafia in Sicilia — che chiude più di undici anni di attività — non può ritenersi in alcun modo soddisfacente, delude le attese dell'opinione pubblica, non rafforza il prestigio delle istituzioni democratiche. Ciò accade perché, sin dall'inizio, non si è voluta fare una scelta politica netta a proposito della genesi e delle caratteristiche del fenomeno mafioso.
Pur affermando che «la Commissione si è proposta di ripensare in una prospettiva politica le conclusioni a cui è pervenuta la storiografia sulla mafia» e che il dato caratteristico peculiare che distingue la mafia dalle altre forme di delinquenza organizzata è «la ricerca del collegamento con il potere politico», si oscilla, nel seguito, fra la tesi sociologica della mafia come «potere informale» che occupa il «vuoto di potere» lasciato dallo Stato, e la realtà storica della compenetrazione fra il sistema di potere mafioso e l’apparato dello Stato.
Si sfugge cioè al nodo centrale della questione: che tale compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico).
È d’altronde un giudizio storicamente acquisito che la formazione dello Stato unitario nazionale ha significato l'avvio della trasformazione della economia e della società italiana in senso capitalistico, sotto la guida della borghesia. Per assolvere questo suo ruolo dirigente, la borghesia italiana ha dovuto scegliere, di volta in volta, quelle intese e quei compromessi con le vecchie classi dirigenti dell'Italia preunitaria, pervenendo alla formazione di un blocco fra gli industriali del Nord e gli agrari del Sud.
Cioè la borghesia non ha governato, come tuttora del resto non governa, da sola, ma ha dovuto dividere il potere con le altre classi e, per un lungo periodo, soprattutto con i grandi proprietari terrieri, specie con quelli meridionali e siciliani. Il fenomeno mafioso, come è storicamente accertato, si colloca all'origine di questo processo di trasformazione della società italiana e, con riferimento ad una regione come la Sicilia, ne diviene un elemento costitutivo.
La mafia sorge e ricerca subito i suoi collegamenti con i pubblici poteri della nuova società nazionale, e a pubblici poteri accettano, a loro volta, di avere collegamenti con la mafia, per scambiarsi reciproci servizi. Un accordo di potere in Sicilia non può prescindere dalla classe dominante locale costituita dal grande baronaggio. È ragionevole, quindi, supporre che il collegamento fra mafia e pubblici poteri non avvenga senza la partecipazione diretta del baronaggio. Questa circostanza sembra comprovata dalla geografia del fenomeno mafioso, e non in termini sociologici, ma politici.
La Sicilia occidentale, con la capitale Palermo, è stata la base materiale della potenza economica, sociale e politica del baronaggio prima della Unità. Ed è qui, e non nell'altra parte dall'Isola, che si avviano le nuove forme di collegamento mafioso con i pubblici poteri.
I MAFIOSI? NON SOLO GABELLOTTI E CAMPIERI
La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti. Come tale, pertanto, la mafia non è costituita solo da «soprastanti», «campieri» e «gabellotti», ma anche da altri componenti delle classi che esercitano il dominio economico e politico nell'Isola, cioè da appartenenti alla grande proprietà terriera e alla vecchia nobiltà. Finora si è cercato di presentare il proprietario terriero più come vittima che come beneficiario della mafia; tutt'al più si è riconosciuto che il vantaggio da lui ricevuto sia stato quello di avere nella mafia una guardia armata del feudo.
Il prefetto Mori è arrivato perfino ad affermare che il proprietario terriero, in quanto fornito di beni (patrimoniali estesissimi, non può essere considerato mafioso anche se, per ipotesi, ha colluso con la mafia. Ma se questo fosse vero, bisognerebbe dimostrare che i gruppi sociali più forti in Sicilia in questi cento anni di unità nazionale sono stati i «campieri», i «soprastanti» e i «gabellotti», e non i baroni e i grandi proprietari terrieri, ciò che urta perfino contro il senso comune.
Se una circostanza è lecito riproporre in sede di giudizio storico sullo sviluppo della società siciliana e meridionale, questa è che l'affittuario o «gabellotto», che dir si vaglia, non ha avuto possibilità di «viluppo autonomo, cioè come borghesia nascente, come nella valle padana, ma è stato costretto ad accontentarsi di un semplice ruolo subalterno nell'ambito del modo di produzione latifondistico.
Protagonista e beneficiario di questo modo di produzione è stato fondamentalmente il grande proprietario terriero, e non il «gabellotto» tant'è che il «gabellotto» quando la fortuna e la capacità gli hanno arriso, si è trasformato anche lui in proprietario (terriero, avendo al suo servizio nuovi «gabellotti» (e così gli è stata offerta, attraverso anche il fenomeno della mafia, la possibilità di essere cooptato o assimilato nella vecchia classe dominante).
Interpretare la mafia come fenomeno della classe dirigente isolana, con la partecipazione decisiva del grande baronaggio della Sicilia occidentale, non significa che tutti i membri delle classi dirigenti siano stati o siano, come tali, membri attivi della mafia, ma solo che i membri della mafia rappresentano una sezione nient'affatto marginale delle classi dominanti, i cui interessi, appunto, possono anche entrare, poi, in contraddizione, nello svolgimento dei fatti, con aspetti dell'attività della mafia stessa.
Il popolo siciliano nel 1860 non si riconosce nel nuovo stato perché dopo le promesse garibaldine: 1) viene soffocata nel sangue la sete di terra dei contadini siciliani: Bixio a Bronte e tutte le repressioni successive, sino a quella dei fasci del 1893-94; 2) viene immediatamente tradita l'aspirazione all'autogoverno del popolo siciliano. A tutto ciò si aggiunga il servizio militare obbligatorio, le tasse ingiuste, la corruzione e le angherie delle classi dominanti. Ma il punto centrale è l'ostacolo allo sviluppo di una borghesia moderna e il rifiuto dell'autogoverno.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
Il patto tra politica, nobiltà feudale e mafiosi quando si fa l’Italia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani l'8 Febbraio 2022.
Dopo aver riconfermato il suo dominio, l'aristocrazia terriera ha bisogno di un forte potere repressivo per tenere a bada i contadini. Il potere legale che è in grado di esercitare lo Stato sabaudo è insufficiente, nonostante il ricorso ripetuto allo stato d'assedio. La classe dominante siciliana sente, allora, il bisogno di integrarlo con quello extra-legale della mafia
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Il patto scellerato fra il partito moderato di Cavour e la nobiltà feudale siciliana è all'origine di quel mancato sviluppo dell'autogoverno e di una borghesia moderna in Sicilia. Ma, dopo aver riconfermato il suo dominio, l'aristocrazia (terriera ha bisogno di un forte potere repressivo per tenere a bada i contadini. Il potere legale che è in grado di esercitare lo Stato sabaudo è insufficiente, nonostante il ricorso ripetuto allo stato d'assedio.
La classe dominante siciliana sente, allora, il bisogno di integrarlo con quello extra-legale della mafia, che si realizza sul feudo con i «gabellotti», i «soprastanti» e i «campieri». Si gettano così le basi del sistema di potere mafioso che si intreccia, come potere informale, con gli organi del potere statale; si realizza una vera e propria compenetrazione fra mafia e potere politico, con l'obiettivo di tenere a bada le classi sociali subalterne.
Ad una parte dei ceti medi, a cui si impedisce di diventare borghesia moderna, si apre la prospettiva della cooptazione nella classe dominante con l'accesso alla proprietà terriera, passando attraverso la trafila della «gabella» che consente di sfruttare e taglieggiare i contadini. Via via, d’altra parte, che l'aristocratico si allontana sempre più dalla terra, si apre la via al ricatto contro di esso e si offre spazio al «gabellotto» di essere lui l'erede del feudo, e cioè di essere affiliato alla classe dominante, e magari, poi, di conquistarsi il titolo di barone.
LA RICERCA DEL CONSENSO POPOLARE
La mafia, d’altro canto, ricerca un consenso di massa per meglio raggiungere i suoi obiettivi. La mafia fa leva sull'odio popolare contro lo «stato carabiniere», contro un potere statale estraneo, antidemocratico ed ingiusto, che nulla offre al popolo e sa solo opprimerlo.
La mafia compie così una grande mistificazione, utilizzando il malcontento popolare, per fini contrari agli interessi reali del popolo siciliano: essa ha bisogno dell’omertà, per assicurarsi l'impunità nei suoi delitti, e cerca, anzi, ila solidarietà dei siciliani.
Viene così qualificato «sbirro» chi riconosce l'autorità dello Stato, che è per sua natura nemico della Sicilia: il siciliano non deve riconoscere lo stato di polizia, anzi si sostiene che da questo Stato, che l’opprime, si deve difendere. In tal modo la mafia riesce a dominare il popolo siciliano ed a giustificare il suo potere extralegale.
Ecco la radice dell’omertà, a cui certo si aggiunge, poi, la paura, il terrore della rappresaglia, che la mafia organizza contro chi si ribella alla legge della omertà.
Ma questo gioco della mafia ha successo perché lo Stato non sa offrire al popolo siciliano null'altro che la repressione e egli stati d’assedio: nel 1860 con Bixio, nel 1863 col generale Covone, nel 1871 col prefetto Malusardi, che menò vanto di aver debellato la mafia, ricevendone onori e precedendo in ciò il prefetto Mori; e, infine, con la repressione del movimento dei fasci, nel 1893-94, sino al fascismo.
Ecco la ragione del fallimento storico della lotta alla mafia. Un particolare interesse ha l'analisi del fenomeno mafioso, di fronte al fascismo. Con l’avvento del fascismo gli agrari si sentono più tranquilli. Il potere fascista garantisce, in prima persona, la repressione del movimento contadino.
Ecco perché si affievolisce il bisogno di far ricorso al potere extra-legale della mafia: la pace sociale è garantita dallo Stato legale, che offre agli agrari grossi vantaggi nella immediata modifica dei patti agrari a danno dei mezzadri e dei coloni siciliani e nel prolungamento della giornata lavorativa del bracciante.
LA “LEGGENDA” DEL PREFETTO MORI
La miseria nelle campagne siciliane, nel periodo fascista, è spaventosa: vi è una disoccupazione di massa. Si conoscono, poi, le conseguenze nefaste della battaglia del grano, di quella politica economica che portò alla riduzione delle aree trasformate a vigneto, ad agrumeto, ad ortofrutticoli.
Ai braccianti venne offerto il miraggio delle terre di Abissinia. Aumentò la superficie delle terre incolte e mal coltivate. C'è poi una leggenda da smentire: che nel periodo fascista esistesse l'ordine assoluto. La verità è che la stampa non libera non raccontava tutto e quindi non si sapeva quante rapine, quante estorsioni, quanti sequestri di persona in quel periodo avvenissero.
Lo stesso prefetto Mori, nella sua autobiografia, mentre afferma di aver dato un colpo alle bande organizzate nelle Madonie, e quindi al banditismo vero e proprio, sulla questione della mafia non riesce a dire niente di serio: anzi, a un certo punto, mena vanto di avere integrato nel sistema fascista i «campieri» dei feudi.
Ecco perché la mafia non è scomparsa, perché nel periodo fascista ha potuto vegetare all'ombra del potere senza bisogno di compiere gesti particolarmente clamorosi. L’alta mafia uscì indenne dalla repressione fascista.
La repressione indiscriminata, con le retate di massa, le perquisizioni su larga scala nelle case della povera gente all'epoca di Mori, ed in quelle successive, i metodi vergognosi della polizia fascista, il sistema delle torture per far confessare imputati spesso innocenti, sottoposti a sevizie ine[1]narrabili, ebbero il triste risultato di alimentare l'odio di massa contro lo Stato.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Il crollo del Fascismo e le manovre oscure per il potere in Sicilia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 09 febbraio 2022.
Giungiamo così al nodo del 1943. Un rinnovato alimento la mafia lo ricevette dal modo in cui avvenne la liberazione della Sicilia nell'estate del 1943. C’è ad esempio l’utilizzo da parte dei servizi segreti americani, del gangsterismo siculo-americano nella preparazione dello sbarco in Sicilia e l'insediamento di sindaci mafiosi in numerosi centri dell'Isola.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Bisogna avere presente che sempre, nei momenti di crisi, il popolo siciliano ha riproposto la sua aspirazione all'autogoverno; nel 1860 come nel 1893 ed ora, nel 1943, al crollo del fascismo.
In realtà, il popolo siciliano vide nella caduta del fascismo il crollo dello Stato accentratore, poliziesco, protettore delle ingiustizie sociali; lo Stato che aveva detto sempre «no» alle sue aspirazioni all'autogoverno ed alla giustizia sociale. Ed è questa la componente sana, più genuina, dell'indipendentismo siciliano.
Certo, gli agrari, ancora una volta, fanno leva su questo sentimento per distorcerlo ai loro fini: essi temono, infatti, che dal crollo del fascismo sorga uno Stato nazionale diverso, in cui la classe operaia e le masse contadine (possano avere — come poi, in effetti, hanno avuto — un ruolo diverso; temono «il vento del Nord».
Giungiamo così al nodo del 1943: al punto fondamentale, cioè, della nostra inchiesta. Un rinnovato alimento la mafia lo ricevette dal modo in cui avvenne la liberazione della Sicilia nell'estate del 1943.
Nella loro manovra, gli agrari, all'inizio, si incontrano con le forze di occupazione angloamericane che, anche in Sicilia, si appoggiavano a gruppi sociali conservatori. C'è infine l'utilizzazione, da parte dei servizi segreti americani, del gangsterismo siculo-americano nella preparazione dello sbarco in Sicilia e l'insediamento di sindaci mafiosi in numerosi centri dell'Isola.
Tutto ciò venne favorito dalla debolezza dei partiti antifascisti in Sicilia e dalla mancanza di una lotta di massa per la liberazione. Ma la convergenza della mafia sulle posizioni separatiste durò poco: proprio perché la mafia deve appoggiarsi al potere politico, appena si rese conto che il Movimento per la indipendenza della Sicilia non aveva alcuna prospettiva di conquistare il potere, cambiò bandiera.
Una parte della mafia e del mondo agrario, quando si accorsero che il Movimento per l'indipendenza della Sicilia non aveva alcuna prospettiva di conquistare il potere nell'Isola, tornò ai vecchi amori col vecchio personale politico dello Stato pre-fascista, con i vecchi notabili che si erano schierati sulle posizioni del partito liberale e dei gruppi monarchici e qualunquisti che pullulavano in quel periodo.
L’ESEMPIO DEL BOSS NAVARRA
Di particolare interesse, a questo proposito, appare quanto si legge a pagina 74 della «Relazione sull’indagine riguardante casi di singoli mafiosi» pubblicata nella scorsa Legislatura (Documento XXIII, n. 2-quater, Camera dei deputati,V Legislatura): «II dottor Navarra, che era rimasto estraneo al fascismo, si schiera, secondo l'orientamento comune dei maggiorenti mafiosi dell'epoca, con il Movimento di indipendenza siciliana sin dal suo nascere».
Il movimento era, come è noto, appoggiato da tutta la mafia isolana e così il Navarra ne approfittò per consolidare i vincoli di amicizia e “rispetto” con gli altri capimafia dell'entroterra (Calogero Vizzini, Genco Russo, Vanni Sacco ed altri), incrementando, conseguentemente, il suo già alto potenziale mafioso e venendo tacitamente riconosciuto, per “intelligenza” e per essere uno dei più vicini alla capitale dell'Isola, quale influente esponente di tutta la mafia siciliana, ottenendo così non solo la stima ma anche la “deferenza” degli altri mafiosi di grosso calibro.
«Venuto meno il Movimento, il Navarra ed altri si orienteranno poi verso il Pli, partito al quale avevano dato le loro preferenze anche taluni grossi proprietari terrieri della zona. «Solo allorquando, dopo il 1948, la Dc apparve come di partito più forte, si assistette — sempre a titolo speculativo ed opportunistico — al passaggio in massa nelle file della Dc di grandi mafiosi, con tutto il loro imponente apparato di forza elettorale».
«Anche il Navarra non fu da meno degli altri capimafia e in Corleone e comuni viciniori (Marineo, Godrano, Bisacquino, Villafrati e Frizzi) attivò campagne elettorali e sensibilizzò le amicizie mafiose, onde dirigere ed orientare votazioni su personaggi ai quali, in seguito, si riprometteva di chiedere favori, così come ormai era nel suo costume mentale».
In questo quadro, non bisogna trascurare le grandi manovre che l'aristocrazia terriera siciliana compì alla vigilia del referendum del 2 giugno 1946: l’accordo sull’ipotesi di staccare la Sicilia dall'Italia, nel caso di vittoria della Repubblica, e di insediare in Sicilia la monarchia sabauda, come punto di riferimento per un ritorno vandeano verso il Continente. Da qui i collegamenti realizzati dai monarchici con il bandito Giuliano, fino alla strage di Portella della Ginestra.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. La strage di Portella, il bandito Giuliano e le colpe dello stato. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 10 febbraio 2022
Si verificò, in questa circostanza, un fatto enorme. Il Governo si servì della mafia per eliminare il bandito. Giuliano doveva essere preso morto perché non potesse parlare. Si creò, così, la messinscena della sparatoria a Castelvetrano
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
La Commissione parlamentare antimafia non può rifiutarsi — come fa la relazione di maggioranza — di trarre conclusioni politiche dalla drammatica vicenda della strage di Portella della Ginestra e dalla morte di Giuliano. È fuori dubbio che Giuliano, sparando a Portella della Ginestra il 1° maggio 1947 intendeva compiere una strage in occasione della Festa del Lavoro in una zona nevralgica della provincia di Palermo dove la Cgil e i partiti di sinistra si erano notevolmente sviluppati.
Tale strage si colloca in un momento decisivo della vita politica siciliana: all'indomani delle elezioni della la Assemblea regionale siciliana che aveva visto i partiti di sinistra, uniti nel Blocco del popolo, conquistare la maggioranza relativa dei voti e quindi il diritto ad assolvere ad un ruolo decisivo nel governo regionale, e mentre c'è la crisi dello schieramento antifascista sul piano nazionale e internazionale, e a Roma si apre la crisi di governo con l'obiettivo di escludere il Pci e il Psi dal governo per bloccare le riforme delle strutture economiche e sociali del Paese.
Risulta evidente che ad armare la mano di Giuliano furono forze collegate al blocco agrario siciliano (e anche a centrali straniere) che intendevano sviluppare un aperto ricatto verso la Dc per indurla a rompere con i partiti di sinistra in Sicilia contribuendo così ad accelerare anche la rottura sul piano nazionale. D'altro canto, la banda Giuliano diede un seguito alla sua azione terroristica, e dopo la strage di Portella, nelle settimane successive, si ebbero attacchi alle sedi del Pci e del Psi e delle Camere del lavoro in numerosi comuni del palermitano (S. Giuseppe Iato, Partinico, Monreale, S. Cipirello, eccetera) nel corso dei quali furono assassinati e feriti numerosi lavoratori. Più in generale, nella gran parte della provincia di Palermo si creò un clima di terrore che rendeva impossibile l'esercizio delle libertà democratiche da parte dei partiti di sinistra e della Cgil.
UNA STRAGE EVERSIVA
Tale clima di terrore venne alimentato sino alle elezioni politiche del 18 aprile 1948 che segnarono una profonda modifica dei rapporti di forza fra i partiti in tutti i comuni di influenza della banda Giuliano.
Prendiamo ad esempio i dati elettorali di Montelepre. Il 20 aprile 1947 (elezioni regionali), il Msi democratico repubblicano, la lista di Varvaro, prese 1.951 voti, la DC 719 voti, il Partito monarchico 114, il Blocco del popolo 70. Nel 1948 la DC passa da 719 a 1.593, i monarchici da 114 a 1.034, il Fronte democratico popolare, in cui è candidato Varvaro, prende soltanto 27 voti.
Occorre vedere, poi, le preferenze personali di Mattarella e degli altri che non erano della zona di Partinico ed esaminare come si impedì (ci sono i documenti in possesso dell'Antimafia) al Fronte democratico popolare di tenere una qualunque forma di propaganda elettorale in tutta la zona.
A trarre benefici dall'«intervento» elettorale della banda Giuliano, furono il Pnm da un lato e la DC dall'altro. Ciò spiega la difficoltà in cui poi si trovò il Governo nel dare conto al Parlamento e al Paese della morte di Giuliano.
Si verificò, in questa circostanza, un fatto enorme. Il Governo si servì della mafia per eliminare il bandito. Giuliano doveva essere preso morto perché non potesse parlare. Si creò, così, la messinscena della sparatoria nel cortile De Maria a Castelvetrano. Il Ministro dell'interno dell'epoca emanò un bollettino con cui si accreditava la falsa versione della morte di Giuliano e si promuovevano sul campo tutti i protagonisti dell'impresa. Il colonnello dei Carabinieri Ugo Luca venne promosso generale. Il prefetto Vicari fu promosso prefetto di prima classe e da li spiccò il volo sino a diventare Capo della polizia.
Ma bisognava anche impedire che la Magistratura aprisse una qualche inchiesta sui fatti e allora si pensò di « tacitare » il Procuratore generale di Palermo, Pili, che era alla vigilia di andare in pensione. Il presidente della Regione (che era allora l'onorevole Franco Restavo) si incaricò di offrire a Pili un importante incarico: al momento di entrare in quiescenza lo nominò consulente giuridico della Regione siciliana. E così il cerchio si chiuse.
Tutti gli organi dello Stato furono in verità coinvolti in una operazione che doveva servire ad impedire che si accertasse la verità sulle collusioni fra alcuni uomini politici e la banda Giuliano. Ma per raggiungere questo risultato si fece ricorso alle cosche mafiose che ne uscirono rafforzate e accresciute nel loro peso politico. Tale peso politico la mafia lo utilizza nel contrastare le lotte contadine per ila riforma agraria e il rinnovamento sociale della Sicilia.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Il movimento contadino siciliano, la prima antimafia organizzata. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani l'11 febbraio 2022
Si sviluppò dal 1944 in poi il più vasto e organizzato movimento contadino della storia della Sicilia. Non vi è dubbio che questo movimento con la sua parola d'ordine «fuori il gabellotto dai feudi» abbia dato il via ad uno scontro frontale con la mafia. Da qui la lunga catena degli eccidi di dirigenti contadini commessi in quegli anni. Il fatto grave è che l'apparato dello Stato si comportò sempre in modo da garantire l'impunità degli assassini e dei mandanti.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Al momento dal crollo dal fascismo, il latifondo siciliano si presentava intatto nelle sue caratteristiche fondamentali. Gran parte delle terre erano incolte o mal coltivate. La maggior parte delle grosse aziende (gli ex feudi) erano in mano ai «gabellotti».
Il movimento contadino siciliano si andava organizzando sotto le bandiere della Cgil. Gli agrari si rifiutavano di riconoscere le leggi agrarie dei governi antifascisti dei Cln, boicottavano i decreti Gullo e Segni che modificavano i riparti dei prodotti agricoli a favore dei mezzadri e quelli per l'assegnazione delle terre incolte.
Ma il primo scontro avvenne attorno ai «granai del popolo». Quando il Governo, per rifornire le città affamate, organizzò l'ammasso, gli agrari mobilitarono la mafia. E furono uccisi Andrea Raia, segretario della sezione comunista di Casteldaccia; D'Alessandro a Ficarazzi; Maniaci a Cinisi.
I decreti Gullo traevano origine dalla necessità di aumentare la produttività agricola. Si spingevano i contadini a seminare le terre incolte offrendo anche l'incentivo di una ripartizione più favorevole del prodotto. Si sviluppò così, dal 1944 in poi, e con un ritmo crescente, il più vasto e organizzato movimento contadino della storia della Sicilia. Sorsero centinaia di cooperative che chiesero in affitto le terre incolte o mal coltivate e avviarono un rilevante processo di trasformazione di vaste aree. Le lotte per l'assegnazione delle terre incolte e mal coltivate e quelle per un più equo riparto dei prodotti agricoli assunsero aspetti davvero drammatici.
Non vi è dubbio che il movimento contadino siciliano con la sua parola d'ordine «fuori il gabellotto dai feudi» abbia dato il via ad uno scontro frontale con la mafia.
Potrebbe, infatti, sorgere l'interrogativo se il gabellotto, come espressione di una borghesia «impedita nel suo sviluppo», non avesse diritto, anch'egli, ad uno spazio nel “processo di trasformazione del latifondo siciliano”. Era, infatti, inevitabile che il gabellotto, messo con le spalle al muro dai contadini, reagisse con tutta la violenza di cui erano capaci le cosche mafiose delle quali egli era espressione. Da qui la lunga catena degli eccidi di dirigenti contadini commessi in quegli anni.
LO STATO COPRE ASSASSINI E MANDANTI
Il fatto grave è che l'apparato dello Stato si comportò sempre in modo da garantire l'impunità degli assassini e dei mandanti. La questione è decisiva e merita una spiegazione politica. Occorre, a questo fine, rispondere all'interrogativo: verso quali forze politiche si orientarono le cosche mafiose dopo il tramonto del Movimento separatista? Una parte si orientò verso i vecchi esponenti del trasformismo politico siciliano (liberali, monarchici, e qualunquisti). Una parte, invece, si orientò verso la Democrazia cristiana.
L'operazione venne iniziata già nel periodo in cui l'onorevole Salvatore Aldisio era Alto commissario per la Sicilia. Uomini come Aldisio, Milazzo, Alessi, Scelba e Mattarella, all'inizio, furono protagonisti di una battaglia di recupero su posizioni autonomistiche degli strati di piccola e media borghesia siciliana che avevano fatto la scelta separatista.
Aldisio diventò Alto commissario della Sicilia per conto del Governo nazionale dei Comitati di liberazione e impostò una spregiudicata azione per dare una base di massa al suo partito. Si manifestò subito, nell'azione dall'Alto commissario Aldisio, la doppia anima della politica che poi la Democrazia cristiana seguirà negli anni successivi: da un lato, un programma di riforme e di sviluppo democratico e dall'altro la ricerca di un compromesso con i ceti parassitari isolani.
Questa contraddizione trovò un nodo risolutore nella rottura dell'unità antifascista nella primavera del 1947. Quando mettiamo in evidenza questo aspetto nel rapporto fra Dc e cosche mafiose sappiamo che si è trattato di un rapporto che sii è modificato nel corso degli anni, avendo ampiezza e influenza variabili.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Sindacalisti assassinati, mafiosi impuniti, mandanti occulti. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA u Il Domani il 12 febbraio 2022
Sicilia, elezioni del 18 aprile 1948. Nel corso di quella campagna elettorale furono compiuti alcuni dei più efferati delitti di mafia contro-esponenti del movimento contadino siciliano. Vogliamo ricordare in modo particolare tre episodi: Placido Rizzotto a Corleone, Epifanio Li Puma a Petralia, Cangelosi a Camporeale. L'assassinio dei tre fu un fatto simbolico
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Abbiamo accennato già, a proposito della strage di Portella della Ginestra, al ricatto e alla pressione che le forze del blocco agrario siciliano intesero esercitare, in quell'occasione, nei confronti della Democrazia cristiana perché all'indomani delle elezioni siciliane del 20 aprile 1947 andasse ad una rottura aperta con i partiti della sinistra.
Mentre lo Statuto preparato dalla Consulta regionale era stato il frutto di una intesa fra i grandi partiti antifascisti che erano allora nel Governo nazionale, dopo la Strage di Portella si formò un governo regionale minoritario democristiano con l'appoggio delle forze della destra monarchico-liberal-qualunquista.
La Democrazia cristiana, dopo Portella, cedette al ricatto del blocco agrario e anticipò in Sicilia la rottura dell'alleanza fra i grandi partiti di massa, che qualche settimana dopo si ripeté anche al livello nazionale. L'impianto della Regione siciliana venne attuato in quel clima e con quello schieramento che preparò in Sicilia le elezioni del 18 aprile 1948.
Nel corso di quella campagna elettorale furono compiuti alcuni dei più efferati delitti di mafia contro-esponenti del movimento contadino siciliano. Vogliamo ricordare in modo particolare tre episodi: Placido Rizzotto a Corleone, Epifanio Li Puma a Petralia, Cangelosi a Camporeale, dirigenti contadini di queste tre zone fondamentali nella provincia di Palermo e Socialisti.
Perché tre socialisti? Gli assassinai si susseguirono a distanza di pochi giorni. Vi era stata la scissione Socialdemocratica e il movimento contadino in Sicilia restava, invece, unito; occorreva, dunque, dare un colpo al movimento e da parte della mafia si sviluppò una campagna di intimidazioni verso i dirigenti socialisti. L'assassinio dei tre fu un fatto simbolico; non a caso a difendere Leggio nel processo per l'assassinio di Rizzotto fu l'avvocato Rocco Gullo, allora massimo esponente della socialdemocrazia palermitana. Ecco perché il voto del 18 aprile, in Sicilia, vide tutte le forze conservatrici e parassitarne fare quadrato intorno alla Democrazia cristiana.
LA REPRESSIONE CONTRO SINDACALISTI E CONTADINI
Si creò un clima di terrore per ricacciare indietro il movimento contadino che aveva osato mettere in discussione il dominio del blocco agrario.
Il voto per la DC da parte di queste forze fu una ipoteca consapevole che si volle mettere sulla politica di quel partito (e quelle stesse forze erano pronte a ritirare la fiducia data, come faranno nelle elezioni successive, perché, se andiamo a vedere le oscillazioni dei voti per la Democrazia cristiana in certe zone della Sicilia, vediamo che il rapporto fiduciario fra queste forze e la DC non è un rapporto organico e le cosche decidono a seconda delle circostanze).
La situazione, però, in quel momento politico ha preso una china ineluttabile; dopo le elezioni del 18 aprile, infatti, si procedette in Sicilia al consolidamento dello schieramento di centro-destra al governo della Regione. Cadde il governo monocolore di Alessi, che era stato una sorta di governo di transizione (monocolore DC con appoggio liberal-qualunquista di destra) e si costituì il governo organico di centro-destra presieduto dall'onorevole Restivo, del quale entrarono a far parte come assessori gli esponenti più qualificati del blocco agrario e del sistema di potere mafioso.
Tale schieramento governò la Regione ininterrottamente per sette anni: dal 1948 al 1955; fu il famoso settennio « restiviano » dei governi del blocco agrario. Ecco, allora, la risposta all'interrogativo angoscioso del perché dell'inquinamento mafioso della Regione.
La Regione siciliana fu impiantata da uno schieramento politico che era l'espressione organica del blocco agrario e del sistema di potere mafioso.
Il decollo della Regione, la fondazione dell'autonomia richiedeva il contributo di tutte le componenti popolari che l'avevano voluta e che avevano preparato lo Statuto. La discriminazione che si aprì nel maggio 1947 verso la parte più avanzata e combattiva del popolo siciliano, che aveva dato un terzo dei voti (maggioranza relativa) al Blocco dei popolo, offriva lo spazio ad un sistema di potere fondato sul clientelismo, sulla corruzione e sulla mafia.
L'autunno del 1949 e la primavera del 1950 furono caratterizzati in Sicilia da una ondata di lotta per la terra di eccezionale portata. Decine di migliaia di ettari di terra vennero occupati dai contadini che in molti casi procedettero anche alla quotizzazione e alla semina dei fondi occupati.
GLI AGRARI CONTRO LA RIFORMA
È nota la violenza della repressione organizzata in quel periodo dal ministro dell'interno Scelba. In Sicilia centinaia di dirigenti e migliaia di contadini furono arrestati e condannati, in molti casi, a numerosi anni di carcere. Ma nonostante la repressione il movimento continuò a dilagare per molti mesi provocando, anche in Sicilia, all'interno della Democrazia cristiana il prevalere delle tendenze favorevoli all'attuazione di una riforma agraria.
Dopo un ampio dibattito, l'Assemblea regionale siciliana, il 27 dicembre 1950, approvò un'importante legge di riforma agraria che oltre a fissare il limite delle proprietà terriere a 200 Ha, imponeva agli agrari alcuni vincoli per la trasformazione delle terre che restavano di loro proprietà. Ma quella legge, varata in un clima drammatico, doveva essere apertamente sabotata e restare per cinque anni senza attuazione.
Fu scatenata dagli agrari siciliani un'«offensiva della carta bollata» per bloccare l'attuazione della legge. Ma quell'offensiva poté avere successo perché il governo regionale, presieduto dall'onorevole Restivo, fu ben lieto di assecondare la manovra degli agrari e dei loro avvocati. Intanto gli avvocati degli agrari erano noti esponenti della Democrazia cristiana siciliana come il professor Gioacchino Scaduto (allora sindaco di Palermo); il professor Pietro Virga (allora assessore ai lavori pubblici del Comune di Palermo); il professor Lauro Chiazzese, Rettore dell'Università, presidente della Cassa di Risparmio V.E. per le province siciliane, e segretario regionale amministrativo della DC; il professor Orlando Cascio, uomo di fiducia del ministro Mattarella.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Così la Democrazia Cristiana e vecchi padrini si dividevano il potere. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 13 febbraio 2022
Risulta evidente che i casi di Genco Russo a Mussomeli, di Navarra a Corleone e di Di Carlo a Raffadali sono emblematici di una situazione molto diffusa in decine di comuni della Sicilia occidentale. Nel periodo della «mafia agricola» le più importanti cosche mafiose della Sicilia occidentale confluirono nel sistema di potere della DC.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Queste personalità, presentando i ricorsi degli agrari, erano in grado di influenzare fortemente l'attività dell'Assessorato regionale all'agricoltura e dell'Ente di riforma agraria. Il personale dell'Assessorato della agricoltura e quello dell'Ente di riforma agraria, d'altro canto, era stato assunto con i peggiori metodi del clientelismo privilegiando alcuni rampolli delle più note famiglie mafiose. Le connivenze, pertanto, diventarono un fatto normale. Solo così si spiega il fatto che per ben 5 anni gli agrari riuscirono a bloccare l'attuazione della riforma.
Nello stesso tempo venne attuata una colossale truffa nei confronti dei contadini siciliani con l'operazione vendita delle terre in violazione della legge di riforma agraria. Protagonista di questa operazione doveva essere la mafia. Le relaziona presentate dalle Federazioni comuniste di Caltanissetta, Agrigento e Trapani nel 1963 alla nostra Commissione documentano gli episodi più significativi di questa grande truffa. La relazione della Federazione comunista di Caltanissetta documenta come in quella provincia, negli anni successivi all'approvazione, della legge, siano stati venduti circa 20.000 Ha di terra.
A pag. 22 della relazione si legge infatti: «Per avere una esatta dimensione dell'enorme truffa consumata ai danni dei contadini e della economia di interi paesi basta citare i seguenti dati: le terre vendute ammontano complessivamente a circa 20.000 ettari; esse sono state pagate a lire 300.000 – 400.000 per ettaro cioè sono costate ai contadini 6-8 miliardi più gli interessi, le taglie (vedi vendite Riggiulfo-Cotugno) e le enormi spese che sui contadini sono gravate (nei feudi Deri, Montecamino, Mostunuxaro, Mustogiunto, acquistate dai contadini di Santa Caterina, tramite una cosiddetta cooperativa di combattenti, dopo aver regolarmente pagato cambiali per ben dieci anni, i contadini hanno constatato che ancora non avevano decurtato di una sola lira il debito derivante dall'acquisto delle terre!).
«Per le stesse terre che hanno formato oggetto di queste vendite in tutta la provincia (ripetiamo circa 20.000 ettari) se espropriate dall’Eras in attuazione della legge di riforma agraria sarebbero state pagate ai pròprietari 80-100 mila lire per ettaro, cioè complessivamente da lire 1 miliardo e 600 milioni a lire 2 miliardi. È chiaro che le enormi taglie imposte dagli agrari, dai mafiosi e da determinate forze politiche ai contadini non hanno avuto la loro tragica incidenza sulla situazione ormai rovinosa esistente nelle campagne. Quei contadini che, a suo tempo, comprarono le terre sono stati i primi a fuggire dalle campagne oppressi dalle cambiali e impossibilitati, dato il grave indebitamento, a realizzare una qualsiasi opera di trasformazione nelle campagne».
GENCO RUSSO, NAVARRA E DI CARLO
Analogamente accadde ad Agrigento a Trapani e a Palermo, come documenta la Commissione di inchiesta nominata nel 1959 dal governo Milazzo e presieduta dal dottor Merra (la cui relazione è agli atti della nostra Commissione).
Ecco allora che il caso del fondo Polizzello di Mussomeli, su cui giustamente si sofferma la relazione in esame, non è un episodio isolato e nemmeno eccezionale. Episodi analoghi si verificarono in decine di comuni della Sicilia occidentale. Essi furono possibili perché le cosche mafiose di quei paesi erano ormai entrate nel sistema di potere della Democrazia cristiana di quei comuni.
Nel caso di Polizzello, infatti, Genco Russo era ormai dirigente della Democrazia cristiana di Mussomeli dove arrivò ad essere consigliere comunale oltreché vice presidente del Consiglio di amministrazione del Consorzio di bonifica dal Platani e Tumarrano.
Ma Genco Russo e i suoi complici, quando andarono a Roma per trattare con l'Opera nazionale combattenti, erano accompagnati dai parlamentari democristiani con alla testa l'onorevole Calogero Volpe che può essere definito il cervello politico del sistema di potere mafioso in provincia di Caltanissetta. Lo stesso si può dire per la vicenda del dottor Michele Navarra, il capomafia della zona di Corleone. II dottor Navarra fu anche lui il capo elettore dell'onorevole Calogero Volpe o di altri parlamentari regionali e dirigenti della Dc.
Analogamente si può dire del capomafia di Raffadali professor Di Carlo che fu capo elettore dell'onorevole Di Leo. Risulta evidente che i casi di Genco Russo a Mussomeli, di Navarra a Corleone e di Di Carlo a Raffadali sono emblematici di una situazione molto diffusa in decine di comuni della Sicilia occidentale. Risulta evidente come nel periodo della «mafia agricola» le più importanti cosche mafiose della Sicilia occidentale confluirono nel sistema di potere della Dc.
Ciò spiega la loro potenza e come riusciranno prima a bloccare la riforma agraria e poi a svuotarla largamente con l'operazione vendita delle terre. Ciò spiega anche l'inquinamento dalla Pubblica amministrazione.
L’Ente di riforma agraria, i consorzi di bonifica, i consorzi di irrigazione eccetera erano in mano alla mafia. La rottura del latifondo in Sicilia avvenne attraverso un processo contraddittorio. Da un lato venne ritardata e distorta l'attuazione della legge di riforma agraria, dall'altro lato si realizzò l'operazione vendita delle terre che offrì un nuovo campo di attività alla mafia.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. L’omicidio del sindaco Almerico e i silenzi del ministro Giovanni Gioia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 14 febbraio 2022
In numerosi comuni l'immissione delle cosche mafiose nelle sezioni della DC avvenne pacificamente pur tra resistenze, contraddizioni, espulsioni e ritiri di chi non accettava questo. A Camporeale la resistenza ferma e tenace del professor Almerico provocò la reazione violenta del boss Vanni Sacco. E l'onorevole Gioia non batté ciglio, proseguendo l'opera di assorbimento delle cosche mafiose nella Dc
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
È necessario rispondere agli interrogativi relativi al perché e al come avviene l'incontro fra la nuova leva mafiosa e di tipo urbano e la nuova leva di uomini politici dei partiti governativi che avanza sulla scena pubblica dopo la crisi del blocco agrario e che provoca la cadute del governo Restivo nel 1956.
Quando, ad esempio, sa fa la biografia di Ciancimino come caso emblematico, bisogna rispondere a questo interrogativo: da dove è venuto e come è potuto accadere? Bisogna qui fare l'analisi del processo di sviluppo economico, e, parallelamente, di quello politico.
Per quanto riguarda la Democrazia cristiana, dopo il congresso di Napoli del 1954, che vede la vittoria della linea Fanfani, prevale la concezione integralistica, per cui in provincia di Palermo l'onorevole Gioia passa dalla linea restiviana di alleanza soltanto elettorale e governativa con forze di destra che erano espressione organica di cosche mafiose, ma che restavano distinte e separate dal partito democristiano, ad una concezione che mirava ad assorbire all'interno della DC quelle stesse forze.
Non che Restivo disdegnasse il passaggio nelle file della DC di noti esponenti del blocco conservatore: vogliamo ricordare il caso del professor Lauro Chiazzese (ex dirigente del Pli, diventato segretario regionale amministrativo della DC).
Ma Restivo come suo metodo fondamentale tendeva a mantenere una distinzione del blocco di forze più parassitario (la Cespa, il gruppo parlamentare degli ex fascisti e qualunquisti, è uno dei capolavori dell'onorevole Restivo, quando era Presidente della Regione: 7 deputati regionali che costituivano un gruppo parlamentare al servizio del Presidente della Regione).
Con l'avvento di Gioia prevale invece l'orientamento di costringere le forze ex liberali e monarchico-qualunquiste ad entrare nella DC. La relazione che la Federazione comunista di Palermo ha mandato alla Commissione antimafia elenca le persone che fino al 1956 erano state esponenti, consiglieri comunali, deputati regionali e parlamentari nazionali del Partito monarchico e del Partito liberale e che, via via, passano con tutto il loro codazzo alla DC: da Di Fresco, attuale presidente della Provincia di Palermo, ad Arcudi e Cerami, che sono tuttora senatori della Repubblica, ai fratelli Giganti, uno assessore al Comune e l'altro alla Provincia, ai Guttadauro padre e figlio, uno assessore al Comune e l'altro alla Provincia, a Pergolizzi, e così via.
Le cosche mafiose, che erano portatrici della forza elettorale di questi personaggi erano confluite nella Dc con alla testa i boss mafiosi delle varie zone di Palermo: Paolino Bontà, Vincenzo Nicoletti, Pietro Torretta, La Barbera, Greco, Gambino, Vitale eccetera. Lo stesso accadde in decine di comuni della provincia: cosche mafiose ex-liberali, ex-separatiste (le cosche, in provincia, erano ex-liberali ed ex-separatiste) confluirono nella Dc.
L’OMICIDIO DI ALMERICO
L'episodio di Camporeale possiamo definirlo un infortunio sul lavoro, nel senso che a Camporeale la morte di Almerico è un incidente. In numerosi altri comuni l'immissione delle cosche mafiose nelle sezioni della DC avvenne pacificamente pur tra resistenze, contraddizioni, espulsioni, ritiri sotto la tenda di esponenti democristiani, cattolici e democratici, che non accettavano questa immissione nel loro partito delle forze legate alla mafia.
A Camporeale la resistenza ferma e tenace del professor Almerico provocò la reazione violenta del boss Vanni Sacco nei termini che sappiamo.
E l'onorevole Giovanni Gioia, segretario della DC a Palermo, non batté ciglio e proseguì imperterrito nell'opera di assorbimento delle cosche mafiose nella DC.
C'è da rilevare che dopo il primo dibattito svoltosi nella Commissione veniva presentato dal Presidente un nuovo testo della relazione. Constatammo, con sorpresa, che erano state aggiunte delle pagine biografiche riguardanti alcune persone del mondo politico ed economico siciliano che non figuravano nella prima stesura e che non avevano nessun rapporto col fenomeno mafioso.
Si tratta dal deputato socialista Salvatore Fagone, dell'avvocato Vito Guarrasi e dell'ingegnere Domenico La Cavera. Tali nomi erano stati indicati a fini diversivi dai commissari della destra fascista.
Si trattava quindi e si tratta di un evidente cedimento a forze di destra e a gruppi interessati a intorbidire le acque. Successivamente il Presidente accettava di depennare dalla rosa dei nuovi nomi quello del deputato socialista Fagone mentre, pur negando che avessero alcun legame con la mafia e pur ridimensionando i rilievi precedentemente fatti, ha voluto lasciare nella sua relazione gli altri due nomi.
Intanto, come dimostreremo più avanti, La Cavera rappresenta la borghesia imprenditoriale siciliana che tenta di opporsi alla politica dei grandi gruppi monopolistici e rimane schiacciata. Diverso il caso Guarrasi che è il tipico professionista abituato a rendere i suoi servizi ad alto livello tecnico e professionale. Ma come lui ci sono decine di uomini in Sicilia.
La differenza fra Guarrasi e gli altri consiste nel fatto che Guarrasi ha reso servizi anche alle sinistre. Ecco perché si infierisce contro di lui e non contro gli altri che più organicamente e stabilmente hanno espresso il sistema di potere mafioso: il notaio Angilella, il notaio Margiotta, l'avvocato Orlando Cascio, il professor Chiazzese, il professor Scaduto, l’avvocato Noto Sardegna, l'avvocato Cacopardo, eccetera. Ma qui l'obiettivo è più ambizioso.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. “Operazione Milazzo”, la rivolta contro la classe dirigente democristiana. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 15 febbraio 2022
Dalla relazione della maggioranza risulterebbe che il punto di massima espansione della potenza della mafia in Sicilia sarebbe quello del governo regionale presieduto dall'onorevole Silvio Milazzo. Si tratta di un falso storico. La rivolta siciliana del 1958 è contro il sistema di potere del gruppo dirigente fanfaniano in Sicilia
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Dalla relazione della maggioranza risulterebbe che il punto di massima espansione della potenza della mafia in Sicilia sarebbe quello del governo regionale presieduto dall'onorevole Silvio Milazzo (14 mesi che vanno dall'ottobre 1958 al dicembre 1959). Si tratta di un falso storico.
La rivolta siciliana del 1958 è contro il sistema di potere arrogante, integralista, antidemocratico, clientelare e mafioso del gruppo dirigente fanfaniano in Sicilia.
In conseguenza della rottura del blocco agrario in Sicilia, a metà degli anni ‘50, si crearono nuove possibilità di inserire le forze della piccola e media borghesia siciliana in un rinnovato processo di sviluppo economico dell'Isola.
In quel clima si costituì in Sicilia il governo dell'onorevole Alessi (allora vicino a Gronchi), che ripropose, anche se con timidezza e contraddizioni, i temi dello sviluppo dell'autonomia, e per la prima volta, quelli di un piano di sviluppo economico regionale. Ma un tale disegno entrava in contraddizione con la strategia di espansione monopolistica nelle regioni meridionali.
Lo scontro si fece aspro e ravvicinato. Sulla base di tale scontro si determinò una profonda crisi e una differenziazione nelle forze sociali e negli schieramenti politici. Una crisi si aprì tra la Confindusttria e la direzione della Sicilindustria, quale organizzazione delle forze della borghesia imprenditoriale isolana che pretendevano di avere un ruolo determinante nel processo di industrializzazione della Sicilia.
Anche nelle forze del capitalismo agrario si manifestarono analoghi segni di crisi a causa delle scelte politiche del Mercato Comune Europeo e della fine del protezionismo granario (prezzo politico del grano duro, eccetera).
Più in generale, la strategia di espansione monopolistica riproponeva in quel periodo il problema della omogeneizzazione dell'apparato amministrativo e statale. Si imponeva anche un ricambio di tutto il personale politico incapace di adeguarsi ai «nuovi tempi».
L'ideologia per tale ricambio, dal 1955 al 1958, la fornì, anche in Sicilia, l'integralismo fanfaniano, che conquistò le leve di comando all'interno della Democrazia cristiana, con la velleità dì essere portatore di una politica di sviluppo e di rinnovamento.
IN SICILIA, UN MANCATO SVILUPPO DEMOCRATICO
Ma la contraddizione fondamentale era rappresentata dall'accettazione di un disegno esterno che si scontrava con l'esigenza di un reale sviluppo democratico. In particolare in Sicilia questi gruppi si mostrarono subito incapaci di intendere il valore dell'autonomia. Donde un più rapido loro scadimento a gruppi di potere, col risultato che, sull'onda del «fanfanismo», si fece avanti un nuovo personale politico specialista nell'arte del sottogoverno, spregiudicato e senza scrupoli, assetato di comando e ricchezza.
Tale personale si mostrò disponibile per un rinnovato tentativo di colonizzazione per una vera e propria subordinazione della Regione alla politica di rapina dei monopoli, secondo un disegno che era stato apertamente prospettato sin dalla fine del 1955 al convegno del Cepes di Palermo. (In quell'occasione si riunirono a Villa Igea, sotto la presidenza del professor Valletta, i più bei nomi della finanza italiana per dire no ad ogni ipotesi di programmazione economica regionale in Sicilia).
Venne rapidamente liquidato, pertanto, il governo Alessi. Al suo posto si insediò, nel 1956, il governo La Loggia, che si presentò immediatamente come il coerente interprete della strategia monopolistica e dell'integralismo fanfanismo.
Risulta evidente che in una realtà come quella siciliana, e in presenza del regime di autonomia, il disegno monopolistico doveva non solo scontrarsi con le forze avanzate della classe operaia e del movimento democratico ed autonomista isolano, ma scatenare una rivolta in settori importanti della borghesia isolana e nelle stesse file della DC. L’occasione venne dal tentativo di colpo di mano di La Loggia che nell'estate del 1958, battuto nel voto sul bilancio, rifiutava di dimettersi.
Nella lunga battaglia parlamentare caratterizzata dall'ostruzionismo delle sinistre, si aprì una profonda differenziazione nel gruppo parlamentare DC sino alla spaccatura aperta. Si arrivò, dopo una lunga crisi, alla elezione dell'onorevole Silvio Milazzo alla Presidenza della Regione e alla rivolta autonomistica del 1958-59.
La formazione dei governi Milazzo era sin dall'inizio limitata da condizioni negative (quali la convergenza sul piano parlamentare della destra missina, quasi subito peraltro riassorbita all'alleanza con la DC, e il carattere contraddittorio della linea politica e della formazione milazziana). Errori successivi — e deplorevoli elementi trasformistici e di provocazione — contribuirono ad offuscare il reale valore democratico e autonomistico di quella battaglia, favorendone sia incomprensioni, sia interessate falsificazioni.
Fu merito dell'onorevole Milazzo respingere il ricatto anticomunista in nome della causa autonomistica; fu suo limite ed errore il restare in parte impigliato nell'anticomunismo e nell'illusione che il collegamento con forze di destra potesse servire alla Sicilia. È naturale che in quel clima di profondo sommovimento della vita sociale e politica dell'Isola alcune frange mafiose abbiano cercato di trovare addentellati con esponenti del nuovo governo. Ma è un diversivo l'affermazione della relazione che quello fu il periodo di massima espansione del potere mafioso.
Lo schieramento di forze che si costituì attorno a Milazzo si dimostrò incapace per la sua insufficienza parlamentare e per la sua eterogeneità di governare la Sicilia. Si manifestarono ritardi nel capire i limiti di quello schieramento e si alimentarono illusioni su quello che era possibile fare in quelle condizioni.
Ma in quel breve periodo, sotto la spinta dei partiti di sinistra, furono attuate alcune esemplari iniziative antimafia: 1) la cacciata di Genco Russo e Vanni Sacco dai consorzi di bonifica; 2) l'inchiesta sull'Eras della Commissione presieduta dal giudice Merra (agli atti della Commissione).
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE DEL 1976. Così il governo di centro-sinistra salvò l’onorevole Lima e soci. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 16 febbraio 2022
I limiti e le contraddizioni del governo regionale guidato da Giuseppe D’Angelo. Quando il prefetto Bevivino depositò la sua clamorosa relazione sul Comune di Palermo e il gruppo parlamentare comunista all'Ars presentò la mozione per lo scioglimento del Consiglio comunale, la mozione comunista venne respinta
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Il sistema di potere mafioso ricevette, invece, nuovo alimento dal modo in cui, da parte di alcuni settori della grande industria, dell'agraria siciliana e della DC, si operò per rovesciare il governo Milazzo. Si sviluppò una campagna allarmistica, affermando che tutti i mezzi erano buoni per raggiungere lo scopo di far cadere quel governo.
E i mezzi usati furono quelli del ricatto e della corruzione verso alcuni esponenti di quel governo utilizzando, ancora una volta, la mafia. Contemporaneamente, per riconquistare la direzione della Regione la DC non esitò a dar vita allo «schieramento anti-marxista» a consegnare la Presidenza della Regione al monarchico Majorana (oggi senatore del MSI) e a imbarcare nel governo esponenti del MSI. Si faceva compiere alla Sicilia un passo indietro di almeno dieci anni, dando nuovo spazio alle forze peggiori del clientelismo e dell'ascarismo mafioso.
La sconfitta della «rivolta milazziana», costituì un'altra delusione del popolo siciliano e aprì un periodo di difficoltà nelle lotte per l'autonomia e il rinnovamento democratico della Sicilia. A tanti anni di distanza, quella breve, contraddittoria e complessa esperienza va ricondotta al suo vero significato legato ai termini dello scontro politico, aspro e violento, che in quel periodo vi fu fra Dc e partiti di sinistra.
Emersero da quell'esperienza i guasti profondi che la rottura e la prolungata contrapposizione frontale fra la Dc e i partiti di sinistra avevano prodotto nella vita e nel funzionamento delle istituzioni autonomistiche in Sicilia.
IL MANCATO SCIOGLIMENTO DEL COMUNE DI PALERMO
L'apertura di una nuova fase nella vita politica italiana con la formazione dei governi di centro-sinistra offrì alcune possibilità nuove di iniziativa per lo sviluppo della democrazia anche in Sicilia.
Non è casuale che la costituzione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia avvenne proprio nel 1962, all'inizio della esperienza dei governi di centro-sinistra. E al tempo stesso si manifestarono i limiti e le contraddizioni del nuovo schieramento di governo anche per quanto riguarda la lotta contro il sistema di potere mafioso.
L'esempio più significativo di queste contraddizioni è costituito dal comportamento del governo regionale verso il Comune di Palermo. Fu il Presidente della Regione del primo governo di centro-sinistra in Sicilia, l'onorevole Giuseppe D'Angelo, ad accogliere la proposta comunista di un'inchiesta sul rapporto mafia-Enti locali nella Sicilia occidentale e, in primo luogo, a Palermo.
Ma quando il prefetto Bevivino depositò la sua clamorosa relazione sul Comune di Palermo e il gruppo parlamentare comunista all'Ars presentò la mozione per lo scioglimento del Consiglio comunale, il presidente D'Angelo e la maggioranza di centro-sinistra non furono capaci di compiere, sino in fondo, il proprio dovere e la mozione comunista venne respinta con 43 voti contro 43.
In conseguenza di quel voto, Lima e soci rimasero in sella e, utilizzando l'incoerenza di D'Angelo, poterono organizzare la loro vendetta sino a estrometterlo, con l'aiuto dei gestori delle esattorie, dalla scena politica siciliana
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. La cattura di Luciano Leggio e l’esplosione della mafia nel Nord Italia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 17 febbraio 2022
Il modo assurdo con cui si sono scelte le località di soggiorno obbligato per i mafiosi ha favorito il loro inserimento al Nord ed una certa facilità di reclutamento di nuove leve fra gli strati più emarginati e disperati di emigrati siciliani, una facilità di presa su attività quali il racket della manodopera, la speculazione edilizia, certe attività commerciali, oltre al contrabbando di droga e i sequestri di persona.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
La gravità della compenetrazione della mafia col sistema di potere democratico in Sicilia agli inizi degli anni '60 è efficacemente documentata nelle relazioni che le Federazioni comuniste della Sicilia occidentale consegnarono alla Commissione parlamentare alla fine del 1963.
Il Pci è stato l'unico partito che ha offerto alla Commissione antimafia simile collaborazione. Vogliamo sottolinearlo a testimonianza della coerenza e della continuità dell'impegno del nostro partito su questo fronte di lotta per il progresso democratico della Sicilia.
Pubblicheremo, pertanto, quelle relazioni in allegato. Nessuno, oggi, a distanza di 12 anni mette in discussione le cose che allora noi scrivevamo. Si sostiene, invece, che la situazione sarebbe profondamente cambiata e che uno dei risultati più rilevanti sarebbe costituito dall'affievolirsi del rapporto tra mafia e potere politico fino quasi ad annullarsi. Non vi è dubbio che molti cambiamenti sono avvenuti e noi comunisti siamo i primi a sottolinearlo.
Nel documento che il Comitato regionale siciliano del Pci ebbe a consegnare alla nostra Commissione in occasione dell'ultimo sopralluogo a Palermo si da un quadro chiaro e sintetico di tali cambiamenti: « Non vi è dubbio che la costituzione dell'Antimafia, la sua semplice presenza nella vita politica, la stessa azione repressiva — che tanto spesso però è stata usata in direzione sbagliata — iniziata dopo la strage di Ciaculli, hanno indebolito il prestigio della mafia.
LEGGIO? UN PERSEGUITATO!
Le inchieste condotte dalla Commissione nei più diversi campi di attività hanno intimorito molti uomini politici, amministratori e pubblici funzionari e li hanno resi più cauti nei loro rapporti con la mafia.
Prima del 1963 molti mafiosi ostentavano i loro rapporti con gli uomini politici e gli amministratori locali e viceversa. La presenza dei mafiosi nei seggi elettorali era sfacciata e aggressiva. Oggi questi fatti vistosi di rapporti tra mafiosi e uomini politici si sono rarefatti».
L’ultimo episodio clamoroso di ostentazione di rapporti ebbe a fornirlo il deputato regionale democristiano Dino Canzoneri proprio pochi giorni dopo la strage di Ciaculli.
Nella seduta del 23 agosto 1963 dell'Assemblea regionale siciliana il deputato comunista Rossitto denunziò l'appoggio che le cosche mafiose avevano dato ad alcuni candidati democristiani e in particolare fece riferimento ai legami fra Luciano Leggio e l’onorevole Canzoneri.
Il Canzoneri in quell'occasione ebbe l'impudenza di disegnare la figura di Leggio come quella di un perseguitato giudiziario a causa delle calunniose accuse ... dei comunisti!
In realtà il Leggio era latitante da anni e grazie alle complicità politiche poteva circolare impunemente. e organizzare la sua rete delinquenziale. Dopo la strage di Ciaculli e l’arresto di Leggio e di altri noti boss mafiosi, l’onorevole Canzoneri si ritirava definitivamente dalla scena politica regionale.
Questo indebolimento del prestigio della mafia è dovuto pure ad un processo di maturazione sociale, civile e culturale del popolo siciliano, alla scolarizzazione di massa e allo sviluppo dell'informazione.
Ma tutto ciò non può far dire che la mafia non esiste più, che i suoi rapporti con il potere politico e pubblico sono stati definitivamente tagliati, né che la mafia si è trasformata in puro e semplice gangsterismo.
ESPORTARE LA MAFIA
In realtà sono avvenuti mutamenti nella dimensione territoriale del fenomeno mafioso — la sua esportazione al Nord — nell'allargamento dei settori e dei campi di azione della mafia, nel suo modo d'essere e nel suo comportamento. La via della semplice repressione — che colpisce la escrescenza, ma che non modifica l'humus economico, sociale e politico nel quale la mafia affonda le sue radici — non ha portato e non poteva portare a risultati definitivi.
Seguendo la via della pura repressione non ci si è spiegati o si è spiegato male il significato della rinnovata virulenza della mafia dalla strage di via Lazio fino ai più recenti fatti della zona Partanna-Pallavicino-San Lorenzo a Palermo. Si è così caduti nella confusione da parte delle forze dell'ordine; si sono fatte delle teorizzazioni su seconde, terze e perfino quarte mafie e si è arrivati alla equazione mafia-delinquenza urbana.
L’esplodere della mafia a Milano e in altri centri del Nord, il moltiplicarsi dei sequestri di persona a scopo di riscatto (nuovo terreno di attività della mafia ma non solo di essa) hanno portato argomenti a queste tesi. Ora è indubbio che nell'esplodere della criminalità al Nord vi è un elemento tipico di tutte le realtà urbane, delle grandi metropoli capitalistiche; ma non v'è dubbio che in questo quadro un posto specifico ed autonomo appartiene alla mafia, il che non esclude che possano aversi intrecci dei fenomeni mafiosi con fenomeni puramente delinquenziali, particolarmente sul terreno del reclutamento della «manovalanza».
Il modo assurdo con cui si sono scelte le località di soggiorno obbligato per i mafiosi ha favorito il loro inserimento al Nord ed una certa facilità di reclutamento di nuove leve fra gli strati più emarginati e disperati di emigrati siciliani, una facilità di presa su attività quali il racket della manodopera, la speculazione edilizia, certe attività commerciali, oltre al contrabbando di droga e i sequestri di persona. In questo quadro che ha elementi di intreccio complesso la specificità mafiosa specie dei «gruppi dirigenti» rimane intatta.
La mafia si presenta oggi come una grande trama che dalla Sicilia si estende al Continente; le sue radici, il suo humus, il suo terreno di accumulazione finanziaria, di reclutamento e di selezione dei migliori quadri ed infine il rapporto con certo mondo politico continuano però a rimanere la Sicilia. Come la mafia si trasferì negli Stati Uniti con l'ondata emigratoria, così è avvenuto con il suo trasferimento al Nord, favorito anche dai soggiorni obbligati.
Ma la «centrale», non solo in termini «ideali» o di tradizioni, ma di terreno di continua riproduzione, rimane la Sicilia. Ciò non esclude che lo strato superiore, lo «stato maggiore» si distribuisca fra la Sicilia, il Nord e perfino Paesi stranieri, e sia ricco di enormi mezzi finanziari, incrementato, particolarmente negli ultimi anni, col traffico di droga e con i sequestri, e quindi di grandi possibilità di spostamenti e di collegamenti. L'arresto di Leggio e la scoperta delle connessioni tra i sequestri in Sicilia e alcuni grossi sequestri al Nord, la personalità e l'attività di alcuni dei mafiosi arrestati, confermano questa valutazione.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Le confessioni di Leonardo Vitale, dichiarato “pazzo” dalla giustizia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 18 Febbraio 2022.
Lo sviluppo di una rete mafiosa a carattere nazionale non significa che ci troviamo di fronte a un pugno di gangsters sradicati dalla realtà locale che li ha espressi. La denunzia-confessione del giovane Leonardo Vitale ha offerto un vero e proprio spaccato di che cosa è, ancora oggi, una cosca mafiosa in un rione o in una borgata di Palermo.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
A fianco della mafia siciliana un peso crescente assume oggi la mafia calabrese come dimostrano i recenti arresti collegati ai sequestri di persona a Roma e al Nord. Lo sviluppo impetuoso della mafia calabrese (pur nella diversità dei connotati storici rispetto a quella siciliana), mentre testimonia un preoccupante processo di disgregazione economica e sociale della Calabria, dimostra, in pari tempo, una insufficiente vigilanza e mobilitazione della opinione pubblica e di tutti gli organi dello Stato. La presenza della Commissione parlamentare d'inchiesta ha, invece, stimolato tale mobilitazione in Sicilia.
I mafiosi costituiscono oggi una grande potenza finanziaria. L'enoteca Borroni, scoperta a Milano, aveva un deposito di vini pregiati per un valore di oltre un miliardo di lire. Il Guzzardi, implicato nei sequesti, è anche un grosso appaltatore edile (ha avuto anche un appalto nella costruzione della metropolitana di Milano).
Il commercialista palermitano Pino Mandalari (candidato del MSI alle elezioni politiche del 1972) ospita nel suo studio le società finanziarie di alcuni fra i più noti gangsters tra cui Salvatore Riìna, braccio destro di Leggio, e il Badalamenti di Cinisi, nonché quelle di padre Coppola.
Tali società intestate a dei prestanome si occupano delle attività più varie (dall'acquisto dei terreni ed immobili come beni di rifugio alla speculazione edilizia, alla sofisticazione dei vini).
Ma lo sviluppo di una rete mafiosa a carattere nazionale per controllare alcuni traffici e per organizzare i sequestri non significa che ci troviamo di fronte a un pugno di gangsters sradicati dalla realtà locale che li ha espressi.
IL “PENTITO” LEONARDO VITALE
La denunzia-confessione del giovane Leonardo Vitale (il cosiddetto Valachi siciliano) ha offerto un vero e proprio spaccato di che cosa è, ancora oggi, una cosca mafiosa in un rione o in una borgata di Palermo. La cosca mafiosa di Altarello di Baida-Boccadifalco, a cui era affiliato il Vitale, era dedita ad attività tradizionali come quella dell'estorsione (il Vitale ha comunicato alla Polizia un elenco di estorsioni sino ad allora del tutto ignorate e successivamente confermate dai costruttori edili che le avevano subite) e di tipo nuovo come la speculazione sulle aree.
Non solo, ma permane la divisione delle zone di influenza tra le varie cosche. (Il Badalamenti è intervenuto recentemente da arbitro tra la mafia di Altarello e quella della Noce per una questione di competenza territoriale).
Il recente attentato al vecchio boss Vincenzo Nicoletti, subito dopo il suo rientro dal soggiorno obbligato, e la sequenza di delitti che ne è susseguita nella zona (il quadrilatero Pallavicino-Partanna-Mondello-Tommaso Natale) mette in evidenza l'esistenza di una realtà analoga in quel gruppo di borgate rispetto a quanto denunziato per la zona di Altarello-Boccadifalco.
La recrudescenza di attività criminali nella zona Cinisi-Carini-Partinico-Roccamena in relazione all'attività del gruppo mafioso legato alla famiglia di padre Coppola indica che anche in zona della provincia permane e si sviluppa l'attività delle cosche mafiose locali.
Tutto ciò indica la ricostituzione (nonostante la repressione degli ultimi anni) di un potere mafioso su base territoriale con l'aggiornamento delle strutture tradizionali nonché dei campi di attività. Uno dei campi nuovi di attività è costituito, nella zona del vigneto, dalla sofisticazione su larga scala. Ma continua l'attività tradizionale tipo abigeato, controllo della guardiania, dell'acqua di irrigazione, dei consorzi di bonifica e degli appalti.
Questi fatti dimostrano il permanere di connivenze fra potere mafioso, amministrazioni locali, funzionari pubblici, uomini politici. La denunzia del Vitale lumeggiava anche questi aspetti, confermando come il potere Dc nelle borgate di Palermo sia, ancora oggi, fondato largamente sulla compenetrazione con la mafia.
Lo «stato maggiore nazionale» della mafia stabilisce un suo rapporto di influenza e di intervento diretto, di volta in volta, sulle singole cosche locali che, pur conservando (come è nella tradizione della mafia) una loro autonomia, si comportano ancora come cellule di una organizzazione articolata pronte a rendere servizi allo «stato maggiore nazionale», nella attuazione delle varie imprese. Un esempio di questo rapporto è fornito dal sequestro Cassina.
È ormai dimostrato che il sequestro dell'ingegner Luciano Cassina fu organizzato dallo «stato maggiore nazionale» con un ruolo importante assegnato a padre Coppola. I killers per l'attuazione del rapimento furono, poi, forniti dalla cosca mafiosa di Altarello di Baida (zona in cui le abitudini del Cassina erano particolarmente conosciute).
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Mafia, eversione nera e la “strategia della tensione” in Italia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 19 febbraio 2022
Uno spostamento delle simpatie politiche della mafia e di una sua utilizzazione nella «strategia della tensione» e in collegamento con le trame nere. I giudici Turone, Caizzi ed Arcai considerano il rapporto tra mafia e trame nere «qualcosa di più di una semplice ipotesi di lavoro».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
In questo quadro un elemento nuovo si viene a delineare: quello di un certo spostamento delle simpatie politiche della mafia e di una sua utilizzazione nella «strategia della tensione» e in collegamento con le trame nere. I giudici Turone, Caizzi ed Arcai considerano il rapporto tra mafia e trame nere «qualcosa di più di una semplice ipotesi di lavoro».
È noto che durante le elezioni regionali del 1971, che videro una forte avanzata del Msi, gruppi notevoli di mafiosi di borgate palermitane e di certi quartieri popolari spostarono la loro attività elettorale dalla Dc al Msi.
I corrieri del tritolo scoperti a La Spezia confermano gli interrogativi sui collegamenti tra contrabbando e traffico di armi e di esplosivi e attuazione di alcuni sequestri di persona. È casuale la fuga di Leggio nel novembre del 1969 — alla vigilia della strage di Piazza Fontana — e il suo scegliere Milano come base operativa?
E la scelta, da parte di grossi mafiosi, di Pino Mandatari, già candidato del Msi, come consulente finanziario è pure casuale?
E le voci su una utilizzazione di killers mafiosi per l'assassinio di dirigenti politici nazionali in caso di golpe da parte del gruppo Pomar-Micalizio, non sono forse indicative?
Questi elementi e gli interrogativi ancora aperti assumono rilievo e diventano oltremodo preoccupanti se si tiene presente che la mafia, in passato, ha sempre avuto un ruolo di punta nella battaglia delle forze reazionarie contro il movimento popolare.
LA MAFIA COME “STRUMENTO” ANTIDEMOCRATICO
Le cosche mafiose sono state utilizzate in maniera spregiudicata contro il movimento operaio e contadino siciliano dalle forze del blocco agrario per impedire la riforma agraria; la lotta del popolo siciliano per la sua emancipazione è punteggiata da decine di martiri trucidati dalla mafia al servizio della conservazione.
Questa rapida messa a punto sull'evoluzione del fenomeno mafioso e sulle caratteristiche che è venuto assumendo negli anni più recenti ci conduce ad alcune conclusioni.
I cambiamenti anche profondi che sono intervenuti nel modo di essere della mafia non consentono, comunque, di affermare che essa abbia perduto la sua caratteristica originaria della incessante ricerca del collegamento con il potere politico. Tale collegamento continua ad esistere e trova alimento in un potere oligarchico e clientelare che rifiuta sistematicamente una vera dialettica democratica, mortifica le istituzioni rappresentative, impedisce lo sviluppo di forme nuove di partecipazione e controllo democratico dei cittadini.
L'inchiesta condotta sulla vicenda Mangano-Coppola-Spagnuolo, sul caso Rimi alla Regione Lazio, sulla fuga di Luciano Leggio dalla clinica romana, eccetera ha consentito alla Commissione di raccogliere una documentazione imponente sul come, anche fuori dalla Sicilia, la mafia possa utilizzare il sistema di potere clientelare per svolgere la sua attività. La requisitoria del Pubblico ministero dottor Caizzi nel processo contro Leggio e le cosche mafiose operanti in Lombardia, che la Commissione ha acquisito ai suoi atti, sottolinea ancora il collegamento dei mafiosi con alcuni uomini politici.
Ecco perché sarebbe un grave errore l'accoglimento da parte della Commissione della tesi secondo la quale si sarebbe esaurito il rapporto mafia-potere politico. Nella città di Palermo, per esempio, tutta la documentazione raccolta nel corso dell'inchiesta negli anni '60 conserva la sua validità. Il comportamento, ancora oggi, del gruppo dirigente della DC nella gestione del Comune e della Provincia di Palermo offre il terreno più favorevole al perpetuarsi del sistema di potere mafioso. Ciò non significa che non vi siano dei cambiamenti.
Si cerca di dare veste di apparente modernità alla gestione dei vari enti. Ma, nella sostanza, il sistema di potere resta clientelare e mafioso. Di questa triste realtà hanno preso coscienza in vari momenti esponenti qualificati della DC. Ma tutte le iniziative adottate, sino ad oggi, non hanno avuto successo. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. In Sicilia comanda Giovanni Gioia, l’atto di accusa di Dalla Chiesa. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 20 febbraio 2022
Prendiamo il caso Vassallo. Il documento della Legione dei Carabinieri a firma del generale Dalla Chiesa offre uno spaccato di come si è potuto edificare un impero economico che è diventato un pilastro decisivo del sistema di potere mafioso a Palermo. Ma da quella relazione emerge la funzione decisiva dell'onorevole Gioia con i suoi uomini di fiducia dislocati in posti chiave
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Attualmente la parte più moderna e avveduta del gruppo dirigente regionale della Dc sta tentando di avviare un processo di risanamento della vita politica siciliana.
Ma tale tentativo rischia di arenarsi, ancora una volta, se non si colpisce alla radice il sistema di potere che nelle città e nelle province della Sicilia occidentale da alimento alle cosche mafiose.
Al vertice di questo sistema di potere a Palermo, da venti anni, si è insediato l'attuale ministro della marina mercantile onorevole Giovanni Gioia. Abbiamo già descritto il modo in cui nella seconda metà degli anni '50 l'onorevole Gioia, diventato segretario provinciale della Dc, organizzò la confluenza nel suo partito delle cosche mafiose ex monarchiche, liberali e qualunquiste. Quell'impianto non è stato ancora debellato.
Che il sistema di potere mafioso a Palermo conduca all'onorevole Gioia è dimostrato da tutta la documentazione in possesso della Commissione. I sistemi attraverso i quali si impedisce ogni dialettica e controllo democratico nella vita della Dc palermitana sono documentati nel famoso «Libro Bianco» delle minoranze Dc inviato in data 17 novembre 1970 alla direzione di quel partito e reso noto sul giornale L'Ora, nel testo che qui di seguito pubblichiamo […]. È nell'ambito di quel sistema di potere che si sviluppa la compenetrazione con la mafia.
IL CASO DEL COSTRUTTORE VASSALLO
Prendiamo il caso Vassallo. Il documento n. 737 della Legione dei Carabinieri a firma del generale dalla Chiesa offre uno spaccato di come si è potuto edificare un impero economico che è diventato un pilastro decisivo del sistema di potere mafioso a Palermo. Ma da quella relazione emerge la funzione decisiva dell'onorevole Gioia con i suoi uomini di fiducia dislocati in posti chiave (assessorati, uffici, banche, enti economici, aziende municipali, ospedali, eccetera). La fantasia dei giornalisti è stata attratta dall'interrogativo se esistesse o meno una società (la VA-LI-GIO) formata da Vassallo Lima-Gioia. Ma il problema non è di provare l'esistenza del contratto giuridico fra i tre. Il rapporto del prefetto Bevivino e la relazione dell'onorevole Vestri hanno documentato a sufficienza la compenetrazione tra le cosche mafiose e il gruppo di potere dominante a Palermo e, in questo ambito, il ruolo del costruttore Vassallo.
I rapporti circostanziati della Polizia e dei Carabinieri dimostrano che Vassallo: 1) ha avuto la licenza di appaltatore edile grazie ad una dichiarazione molto discutibile dell'ingegner Enrico Ferruzza (la S.A.I.A. « Società per azioni industria autobus » di proprietà dei Ferruzza è stato uno dei pilastri del sistema del potere mafioso a Palermo. Il dottor Giuseppe Ferruzza, figlio di Enrico, poi diventerà socio di Vassallo nella vergognosa speculazione edilizia della « S. Francesco Piraineto» ai margini dell'autostrada Palermo-Punta Raisi); 2) ha conquistato il primo appalto (quello della fognatura di Tommaso Natale-Sferracavallo) costringendo, con un tipico atto di mafia, i concorrenti ad abbandonare il campo e con il favore della Giunta comunale capeggiata ora dal professor Cusenza; 3) ha potuto « decollare » come grande costruttore edile grazie alla benevolenza del senatore Cusenza diventato intanto presidente della Cassa di Risparmio per le province siciliane, che gli aprì credili non garantiti sino a 700.000.000 di lire; 4) ha potuto violare impunemente il piano regolatore e il regolamento edilizio in numerose costruzioni; 5) in alcuni casi i progetti Vassallo venivano approvati dalla Commissione e dal Consiglio comunale prima di essere protocollati; 6) gran parte degli edifici che il Vassallo ha costruito erano in anticipo acquistati o presi in affitto dagli enti pubblici e prenotati dal Comune e della Provincia per essere adibiti ad edifici scolastici mentre non si utilizzavano le somme messe a disposizione dalle leggi sull'edilizia scolastica.
LE INCRIMINAZIONI A CARICO DI LIMA
L'onorevole Salvo Lima è stato incriminato dalla Magistratura per avere ripetutamente violato la legge per favorire il costruttore Francesco Vassallo (come risulta dal doc. 1119 agli atti della Commissione).
Nel procedimento penale n. 10047/68 P.M l’onorevole Lima è imputato di interesse privato in atti di ufficio per avere consentito a Vassallo di costruire un edificio fra via Sardegna e via E. Restivo in violazione al piano regolatore che prevedeva in quell'area un pubblico mercato, e, inoltre, per avere approvato un altro progetto Vassallo per costruire un edificio fra via Notarbartolo e via Libertà in violazione al piano regolatore.
Nel procedimento n. 13772/68 P.M. l’onorevole Lima è imputato di avere determinalo i funzionari dell'Ufficio tecnico dei lavori pubblici di Palermo ad attestare, contrariamente al vero, nel rapporto di abitabilità e nel certificato di fine lavori relativi al fabbricato di via Quarto dei Mille costruito da Francesco Vassallo, la conformità alle norme del piano regolatore, e successivamente a concedere il certificato di abitabilità con la sola eccezione della parte dell'edificio cadente fuori del piano regolatore.
Evidentemente i funzionari venivano determinati a compiere atti illegali perché il sindaco Lima li ricompensava. Infatti, nel procedimento penale n. 965/71 P.M. e 966/71 P.M. l'onorevole Lima è imputato di avere erogato la somma di 6 milioni all'ingegner Drago dell'Ufficio tecnico dei lavori pubblici per lavori che invece erano di competenza dell'ufficio. Analogamente si procedeva nei confronti dei funzionari della Commissione provinciale di controllo (l'organo di tutela verso le delibere del comune!).
Nel procedimento penale 7578 P.M. l'onorevole Lima è imputato per avere assunto in servizio al Comune di Palermo Frisina Gaetano figlio di Frisina Giacomo funzionario della Commissione di controllo; Bisagna Salvatore figlio di Bisagna Giorgio funzionario della Commissione di controllo; Bevilacqua Maria figlia di Bevilacqua Giovanni funzionario della Commissione di controllo.
Tutto ciò dimostra un legame organico fra il Vassallo e il gruppo di potere dominante a Palermo che fa capo a Gioia. D'altro canto le famiglie Cusenza e Gioia hanno realizzato diverse operazioni di acquisto o vendita col Vassallo. Sono note le vicende del rapporto del colonnello Lapis della Guardia di finanza che documenta tali operazioni e accusa il professor Cusenza di legami con la mafia.
È noto come alcuni anni dopo, allorquando l'onorevole Gioia divenne Sottosegretario alle finanze, il colonnello Lapis ebbe a ritrattare in parte quelle accuse. Quella triste vicenda è stata oggetto di severe censure in drammatiche sedute della Commissione.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
Arturo Cassina, Francesco Vassallo e gli altri impresari padroni di Palermo. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 21 febbraio 2022
Un altro pilastro del sistema di potere mafioso a Palermo è rappresentato dall'impresario Arturo Cassina che ha gestito, ininterrottamente, per ben 36 anni, il servizio di manutenzione delle strade e delle fogne del comune di Palermo. Si è verificato, alla scadenza del contratto, che il Consiglio comunale sia stato messo di fronte al fatto compiuto del rinnovo automatico dell'appalto alla ditta Cassina.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
L’onorevole Gioia ha ritenuto di potersi difendere con l'argomento che gli affari tra Vassallo e Cusenza per l'edificio in via Duca della Verdura sono precedenti alla nomina del Cusenza a presidente della Cassa di Risparmio (ma i due si erano già conosciuti bene per la fognatura di Tommaso Natale... quando Cusenza era sindaco di Palermo).
Sempre secondo Gioia le vendite di appartamenti Vassallo alla famiglia di Cusenza (compresa la moglie dell'onorevole Gioia) per un prezzo di quasi 200.000.000 (in lire 1963!), sarebbe avvenuto dopo la morte del Cusenza e quindi ad iniziativa autonoma delle figlie.
Resta il fatto che, negli stessi giorni, quattro giovani signore, sposate e residenti in zone diverse della città, ebbero la felice idea di investire cospicue somme nell'acquisto di appartamenti del costruttore Vassallo. Non è lecito il sospetto che il Vassallo avesse concordato, mentre il Cusenza era in vita, di cedergli degli appartamenti e, essendo sopravvenuta la morte di costui, si siano stipulati gli atti con gli eredi?
D'altro canto tutti gli uomini di Gioia si trovano ad acquistare appartamenti di Vassallo. Il che lascia intravvedere che si è trattato di vendite di favore. Va sottolineato, infine, come la personalità di Vassallo è di chiara estrazione mafiosa come si può ricavare dagli elementi a suo carico forniti dalla Polizia e dai Carabinieri. D’altra parte la vicenda del sequestro del figlio di Vassallo ha messo in evidenza, ancora una volta, il comportamento di tipo mafioso del Francesco Vassallo.
IL CONTE CASSINA
Un altro pilastro del sistema di potere mafioso a Palermo è rappresentato dall'impresario Arturo Cassina che ha gestito, ininterrottamente, per ben 36 anni, il servizio di manutenzione delle strade e delle fogne del comune di Palermo.
Si è verificato, ininterrottamente, alla scadenza del contratto, che il Consiglio comunale sia stato messo di fronte al fatto compiuto del rinnovo automatico dell'appalto alla ditta Cassina. E ciò nonostante le vivaci proteste dell'opposizione di sinistra. Il Cassina, infatti, ha legami ben saldi a destra (basti ricordare la vicenda del giornale filofascista Telestar di cui il Cassina era l'editore...). Il servizio di manutenzione delle strade a Palermo è stato gestito dall'impresa Cassina in maniera indecente.
Il Cassina ha sempre dato in subappalto, a piccoli mafiosi dei vari rioni, i lavori da eseguire. Lo stesso metodo egli ha seguito per la gestione della cava di pietre in località Boccadifalco. Il Cassina si è accaparrato, avvalendosi di metodi mafiosi, vaste aree attorno alla città e particolarmente nella zona di monte Caputo dove i piccoli proprietari sono stati minacciati dai mafiosi per cedere il terreno a Cassina.
Il sequestro del figlio di Cassina, ingegner Luciano, come quello del figlio di Vassallo, si spiega proprio nell'ambito dello scontro fra cosche mafiose. Sistemi analoghi vengono adottati per la gestione della manutenzione stradale alla provincia. (Basti ricordare la denunzia documentata fatta all'Assemblea Regionale siciliana a proposito degli appalti alla ditta Patti della manutenzione delle strade provinciali che ha visto implicati alcuni degli uomini di fiducia di Gioia, quali l'ex presidente dalla Provincia Antonino Raggio). Tutti i servizi del Comune e della Provincia vengono appaltati con criteri mafiosi e con risultati rovinosi per l'interesse pubblico.
In questo ambito si collocano l'appalto dell'illuminazione pubblica (di cui ci occuperemo più avanti quando parleremo dell'onorevole Giovanni Matta) e l'appalto della numerazione civica e toponomastica cittadina, con la truffa operata con l'appalto alla società Contacta.
Abbiamo già sottolineato come il caso Ciancimino non possa essere isolato dal contesto del sistema di potere mafioso a Palermo. Occorre pertanto soffermarsi su altre figure di protagonisti. Vogliamo trascurare i personaggi che sono scomparsi dalla scena politica e amministrativa e soffermarci invece su quelli che mantengono posizioni di spicco per suffragare così la nostra tesi del permanere, ancora oggi, di un rapporto fra mafia e potere a Palermo.
IL CASO DI FRESCO
Dopo le elezioni del 15 giugno scorso è stato eletto Presidente dell'Amministrazione provinciale di Palermo il dottor Ernesto Di Fresco del gruppo Gioia. Il Di Fresco è un personaggio emblematico di tutto il sistema di potere mafioso a Palermo, così come è stato edificato sotto la guida dell'onorevole Giovanni Gioia.
Egli è uno degli ex monarchici che confluì nella Democrazia cristiana sulla base dell'operazione politica pilotata da Gioia nella seconda metà degli anni cinquanta. Il Di Fresco era molto legato al noto don Paolino Bontà, capo della mafia di Palermo est. Quando il Di Fresco fu eletto consigliere comunale alle amministrative del maggio 1956 nella lista del Partito nazionale monarchico, il capomafia don Paolino Bontà lo accompagnava alle sedute del Consiglio comunale e gli dava precise indicazioni (fra cui quella di passare alla Democrazia cristiana.)
Per la verità il Di Fresco non era un'eccezione in quanto don Paolino Bontà a quell'epoca dava direttive anche a parlamentari nazionali democristiani, come l'onorevole Francesco Barbaccia. Don Paolino Bontà ostentava questi suoi rapporti passeggiando ogni mattina davanti all'albergo Centrale in corso Vittorio Emanuele a Palermo tenendo a braccetto l'onorevole Barbaccia. Anche il Di Fresco e la sua consorte Maidani Peppina hanno acquistato appartamenti dal costruttore Vassallo.
Allorché il Di Fresco era assessore al patrimonio stipulò gran parte dei contratti di affitto degli appartamenti Vassallo per adibirli a scuole o altri servizi comunali. La grande stampa, d'altro canto, ha scritto che quando il Vassallo venne giudicato davanti alla Sezione misure e prevenzione, perché proposto per il soggiorno obbligato, nella piccola folla che lo accompagnava c’era l’assessore comunale Ernesto Di Fresco. Ma l'episodio più clamoroso è quello dell'affitto dell'edificio per la caserma dei Vigili urbani.
Venne affittato un intero palazzo di otto piani e di 114 vani (in via Dogali nella borgata Passo di Rigamo) per adibirlo a caserma dei Vigili urbani con la spesa di oltre 50 milioni all'anno (vedere allegati 6 e 7). Il costruttore dell'edificio preso in affitto è tale Piazza Giacomo legato alla cosca mafiosa di Uditore-Passo di Rigano come risulta dalla documentazione in possesso della Commissione. Ebbene l'appartamento in cui abita la famiglia del Di Fresco in via del Quarnaro, composto di 7 stanze, 2 stanzette e accessori è stato venduto alla moglie del Di Fresco proprio dal costruttore Piazza.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Giovanni Matta, da “gregario” di Lima a onorevole in Commissione Antimafia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 22 febbraio 2022.
L'onorevole Matta ha iniziato la sua attività come segretario dell'onorevole Salvo Lima. Nel momento in cui Lima diventava assessore ai lavori pubblici del Comune di Palermo nel 1956, Matta veniva assunto come impiegato straordinario. Nel 1960 Matta si dimette, viene eletto e diviene assessore, prima al patrimonio e poi ai lavori pubblici. Infine parlamentare, viene eletto anche in Commissione antimafia
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Come è noto, all'inizio di questa Legislatura l'onorevole Giovanni Matta era stato nominato membro della nostra Commissione. Fu necessario ricorrere alle dimissioni della maggioranza della Commissione per arrivare alla sostituzione del Matta.
Ma perché il gruppo di potere dell'onorevole Gioia, di cui il Matta è un esponente, arrivò a simile sfida? Forse perché si pensava di arrivare al discredito definitivo della Commissione. In una drammatica seduta della Commissione, che precedette le dimissioni di protesta dei Commissari comunisti, l'onorevole La Torre documentò le ragioni della incompatibilità nei confronti dell'onorevole Matta.
Giovanni Matta è un prodotto tipico del sistema di potere mafioso al comune di Palermo. Egli ha fatto carriera da gregario del gruppo di potere che fa capo all'onorevole Gioia. Egli è stato per qualche tempo sindaco della società Boa che certamente è stata una fonte di finanziamento del gruppo. Infatti oltre a Matta figuravano come amministratori della Boa altri «giovani» di fiducia del Gioia.
La Boa gestisce numerosi rifornimenti di benzina ed ha un deposito a Trapani. L'onorevole Matta ha iniziato la sua attività pubblica come segretario dell'onorevole Salvo Lima. Nel momento in cui Lima diventava assessore ai lavori pubblici del comune di Palermo nel 1956, Matta veniva assunto come impiegato straordinario assolvendo alla funzione di tecnico legale dell'assessore Lima. Nel 1960 Matta si dimette da impiegato comunale per potersi presentare candidato alle elezioni amministrative.
TESTIMONIANZA RETICENTE
Viene eletto e diviene assessore, prima al patrimonio e poi ai lavori pubblici. Vi sono numerosi documenti su tutto questo periodo che vanno dal rapporto Bevivino a quelli dei Carabinieri, Edilizia e Finanza. Dopo questo quindicennio di partecipazione, in vario modo, alla gestione del settore dei lavori pubblici di Palermo, l'onorevole Matta, interrogato dalla Commissione nel 1970, ha fatto le seguenti affermazioni (pagina 62 della deposizione ohe verrà successivamente pubblicata, alla Stregua dei criteri stabiliti dalla Commissione): «Ritengo si debba parlare non specificamente di mafia, ma di delinquenza organizzata in genere. Una volta eliminate dalla circolazione determinate persone, abbiamo vissuto in tranquillità».
Asseriva quindi: «II caos urbanistico non esiste». E poi ancora, a pagina 74: «Non esistono legami tra delinquenza organizzata e amministrazione».
Questo è il succo dell'interrogatorio, del tutto reticente, anche se durato ore, dello onorevole Matta. Questo interrogatorio veniva immediatamente preceduto da quello del dottor Guarraci, che era stato, per breve periodo, assessore di parte socialista. Il Guarraci assumeva un atteggiamento del tutto diverso, aperto alle risposte a tutti i quesiti posti e dava elementi che avrebbero dovuto essere approfonditi.
Perché, invece, l'onorevole Matta tacque? Perché questo atteggiamento omertoso in sede di Commissione? La cosa si capisce dalla lettura dei dossier in possesso della Commissione, perché da essi si ricavano una serie di elementi che riguardano aspetti vari dell'attività dell'onorevole Matta come assessore e dei funzionari dell'assessorato che da lui dipendevano.
Egli non ha detto niente di questo apparato corrotto, mentre si tratta di gente che nei documenti della polizia e dei carabinieri viene descritta in maniera molto efficace. Ci limitiamo ad alcune cose essenziali.
UN ASSESSORATO PER ARRICCHIRSI
La prima riguarda il modo in cui Matta utilizzava l'attività di assessore anche ai fini di arricchimento personale. C'è un rapporto del colonnello dalla Chiesa in data 27 aprile 1972, nel quale si legge: « Nel corso di recenti accertamenti svolti dai dipendenti del Nucleo di polizia giudiziaria di Palermo circa il rilascio della licenza edilizia a favore di Mercurio Giovanna, moglie dell’avvocato Matta, assessore all'urbanistica del Comune di Palermo, per la costruzione già avvenuta del villino sito in fondo Catalano nella contrada... di Palermo, sono emerse inosservanze all'articolo 50 delle norme di attuazione del piano regolatore, approvato dal Presidente della Regione siciliana il 28 giugno 1962, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 27 febbraio 1963...».
E conclude: «I fatti, con rapporto giudiziario n. 158 del 20 marzo 1972, del predetto Nucleo di polizia giudiziaria, sono stati deferiti alla Procura della Repubblica di Palermo, che vi ha ravvisato gli estremi del reato di interesse privato in atti d'ufficio a carico del Matta».
Questo è agli atti della Commissione! C’è poi tutta la vicenda che riguarda l'appalto della manutenzione della illuminazione a Palermo. Erano corse voci che l’onorevole Matta sarebbe stato socio della società Icem, nel momento in cui si decideva di indire la gara di appalto per questo servizio, che coinvolge una spesa di qualche miliardo all’anno.
Ebbene, dalla relazione conclusiva di coloro che hanno fatto l'inchiesta (funzionari dalla Questura, Carabinieri, Guardia di finanza), Si ricavano le seguenti conclusioni: «che l'onorevole Matta, pur essendo assessore all'urbanistica, voleva fare di presidente della Commissione, che spettava invece all'assessore ai lavori pubblici.
Non risulta sia socio dell’Icem, ma il titolare ufficiale della suddetta società è stato magna pars del comitato elettorale dell'onorevole Giovanni Matta, in occasione delle elezioni, immediatamente successive al conferimento del suddetto appalto». ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Il Comune di Palermo, le imprese edilizie e gli “amici degli amici”. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 23 febbraio 2022
I documenti dei Carabinieri offrono un quadro impressionante del rapporto fra alcune imprese (Vassallo, Piazza, Moncada, ecc.) e alcuni capimafia (Torretta, Nicola Di Trapani, Buscemi) e amministratori comunali di Palermo, come Ciancimino, Di Fresco, Pergolizzi e Matta.
Esiste un'ampia documentazione sull'Assessorato ai lavori pubblici durante la gestione Matta. Purtroppo certe indagini non sono state mai completate per le note difficoltà in cui si è trovata l Commissione. Risultano, però, provate le responsabilità anche penali di numerosi funzionari dell'Assessorato:
1 Ingegner Biondo Salvatore direttore presso la ripartizione urbanistica dal Comune di Palermo. Assunto nel 1959 al Comune senza concorso dall'assessore Lima e favorito successivamente dagli assessori Ciancimino e Matta fino a diventare direttore della ripartizione urbanistica. (Biondo è coimputato con Ciancimino nel procedimento penale n. 2109/69 P.M. e n. 623/69 G.I.);
2 Ingegner Salvatore Corvo — vice direttore della ripartizione urbanistica;
3 Avvocato Filippo Vicari — direttore del servizio amministrativo della ripartizione urbanistica;
4 Ingegner Melchiorre Agnello — direttore dalla sezione edile della ripartizione urbanistica. (Imputato di interesse privato in atti di ufficio « per avere abusato della sua qualità di ingegnere presso l'Ufficio tecnico e di componente della Commissione edilizia approvando progetti a sua firma o alla realizzazione dei quali aveva collaborato »).
5 avvocato Niccolo Maggio — capo ufficio affari legali del comune di Palermo. (È imputato di truffa aggravata nel procedimento penale n. 5209/P.M.).
I suddetti funzionari hanno compiuto tutta la loro carriera nel periodo in cui assessori ai lavori pubblici sono stati rispettivamente Lima (diventato sindaco), Ciancimino (poi diventato sindaco) e Matta. Ad essi è stato consentito di trafficare nelle forme più ignobili e di arricchirsi.
Nei rapporti citati si mette in evidenza anche la losca attività svolta dall'architetto Barraco Antonio — membro della Commissione edilizia comunale dal 1956 al 1964 e della Commissione urbanistica comunale dal 1965. Dalle indagini della Questura a seguito di una denuncia pervenuta alla Commissione è emerso che il Barraco è sindaco supplente della s.p.a. «S. Francesco Residenziale Piraineto» di proprietà di Vassallo e Ferruzza. Egli è imputato insieme a Ciancimino, Pergolizzi e Nicoletti nei procedimenti penali n. 10047/68 P.M. e n. 2083/68 G.I. per interesse privato in atti di ufficio per l'approvazione di tre progetti del costruttore Vassallo.
I DOCUMENTI DEI CARABINIERI
I documenti dei Carabinieri offrono un quadro impressionante del rapporto fra alcune imprese (Vassallo, Piazza, Moncada, eccetera) e alcuni capimafia (Torretta, Nicola Di Trapani, Buscemi) e amministratori comunali di Palermo, come Ciancimino, Di Fresco, Pergolizzi e Matta.
Sull'argomento, esiste agli atti della Commissione, una vasta documentazione che verrà successivamente pubblicata, alla stregua dei criteri che la Commissione ha fissato all'atto della conclusione dei suoi lavori. Per quanto riguarda specificamente il Piazza, agli atti della Commissione, si legge che egli: «...da avvio all'attività edile che lo pone in contatto diretto con il noto capomafia Torretta Pietro e con Bonura Salvatore, che in primis approntano i loro capitali.
Nacque così, come è notorio nella borgata Uditore, il connubio Piazza-Torretta-Bonura, che diede l'avvio alla realizzazione di svariati edifica, anche se sotto le mentite spoglie di ditta individuale intestata al solo Piazza Vincenzo. Infatti l'impresa Piazza Vincenzo risulta iscritta alla locale Camera del commercio in data 6 novembre 1961, al n. 40335 n/ 35394 n., con attività dichiarata: «Costruzioni edili e stradali», con sede in Via Lo Monaco Giaccio, n. 6, Uditore, attuale domicilio di Pietro Torretta». ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
I legami della crema di Cosa Nostra con i capi della Democrazia Cristiana. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 24 febbraio 2022
L’onorevole Gioia è chiamato in causa in numerosi documenti ufficiali agli atti della Commissione a proposito dei legami personali e diretti con singoli boss mafiosi. E’ certo anche che Angelo e Salvatore La Barbera, nonostante il primo lo abbia negato, conoscevano l'ex sindaco Salvatore Lima ed erano con lui in rapporti tali da chiedergli favori.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
D'altro canto l'onorevole Gioia è chiamato in causa in numerosi documenti ufficiali agli atti della Commissione a proposito dei legami personali e diretti con singoli boss mafiosi. Vogliamo richiamare alcuni di questi rapporti con mafiosi intrattenuti da Gioia e suoi collaboratori come risultano dai documenti ufficiali.
Nella sentenza del G.I. Tribunale di Palermo del 23 giugno 1964 contro La Barbera + 42 (Doc. 236) si legge: «Restando nell'argomento delle relazioni è certo che Angelo e Salvatore La Barbera, nonostante il primo lo abbia negato, conoscevano l'ex sindaco Salvatore Lima ed erano con lui in rapporti tali da chiedergli favori.
«Basti considerare che Vincenzo D'Accardi, il mafioso del capo ucciso nell'aprile 1963, non si sarebbe certo rivolto ad Angelo La Barbera per una raccomandazione al sindaco Lima, se non fosse stato sicuro che Angelo e Salvatore La Barbera potevano in qualche modo influire su Salvatore Lima. «Del resto quest'ultimo ha ammesso di avere conosciuto Salvatore La Barbera, pur attribuendo a tale conoscenza carattere puramente superficiale e casuale.
«Gli innegabili contatti dei mafiosi La Barbera con colui che era il primo cittadino da Palermo, come pure con persone socialmente qualificate, o che almeno pretendono di esserlo, costituiscono una conferma di quanto si è già brevemente detto sulle infiltrazioni della mafia nei vari settori della vita pubblica ».
E ancora: «...Data la sua latitanza, non è stato possibile chiarire la reale natura dei suoi rapporti con l'ex sindaco Lima e con gli onorevoli Gioia e Barbacela, a cui ha fatto allusione Giuseppe Annaloro. Certo è che con l'asserito "autorevole" intervento di Tommaso Buscetta, Giuseppe Annaloro ottenne la integrale approvazione di un progetto di costruzione e compensò il Buscetta per il suo interessamento, con la somma di lire 5.000.000 destinata, a dire sempre del Buscetta, agli "amici" del Comune di Palermo».
LE AMICIZIE CON I BOSS DELLA PRIMA GUERRA DI MAFIA
Nel processo contro Pietro Torretta + 120 (Doc. 509) sono documentate le irregolari assegnazioni di case popolari fatte a mafiosi come Nicola Gentile, Gaetano Filippone e Marsala Giuseppe (capomafia di Vicari) e congiunti, da Salvatore Lima ed Ernesto Di Fresco, con l'interessamento di Vito Ciancimino, Giuseppe Brandaleone ed Ernesto Pivetti. Il figlio di Marsala era autista di Ciancimino e di Di Fresco.
Imperiale Cioè Filippo (ucciso recentemente) interrogato nel processo penale contro Caratalo + 20 (Doc. 400) dichiara che Salvatore La Barbera si interessò per fargli ottenere la licenza di una pompa di benzina, dicendogli: « il sindaco (Lima) è una cosa mia, lei avrà quello che desidera e poi avrà a vedere con me ». Dopo un giorno Salvatore La Barbera ottenne la licenza per Imperiale e gli dice: «Lei sa tutte queste cose come sono! Mangia e fai mangiare! » Poi pretese di entrare in società nella gestione della pompa. La pompa fu gestita in piazza Giacchery (benzina API) per sei mesi, perché la società API, allorché si diffuse la notizia che Salvatore La Barbera era ricercato, disdisse il contratto ed affidò ad altri la gestione.
I fratelli Taormina, implicati nel sequestro di persona dell'industriale Rossi di Montelera, esponenti del gruppo di mafia dominante un tempo (e oggi?) a Cardillo, risultarono, all'epoca delle indagini per rapine ed estorsioni svolte verso il 1966 (processo contro Grado + 32), legati o molto vicini al consigliere comunale locolano, in particolare Taormina Giacomo.
Una relazione della Legione dei Carabinieri di Palermo (a firma del generale Dalla Chiesa del 30 luglio 1971) nel descrivere la personalità del dottor Giuseppe Lisotta, cugino di Vito Ciancimino, mette in evidenza come questo personaggio, esponente delle cosche mafiose di Corleone, abbia avuto incarichi in numerosi enti: 1) Istituto provinciale antirabbico; 2) Cassa soccorso dipendenti AMAT; 3) Inadel. Se ne può dedurre che le assunzioni del dottor Lisotta presso i suddetti enti siano state caldeggiate da Ciancimino quanto da Gioia. Quest'ultimo, in particolare, attraverso il cognato dottor Sturzo, all'epoca Presidente della Provincia di Palermo.
Nella « Scheda informativa sul conto di Nicoletti Vincenzo fu Vincenzo» capomafia riconosciuto dalla zona di Pallavicino, redatta il 30 settembre 1963 dal locale Comandante della Stazione dei Carabinieri, Cesare Franchina, si legge:
Al punto 10: «nel passato ha svolto attività politica in favore della Democrazia cristiana».
Al punto 11: «nel passato mantenne relazioni con l'ex sindaco di Palermo, dottor Lima, e con l'onorevole Gioia».
Al punto 16: «per il suo ascendente talvolta ha provveduto a collocare giovani in impieghi aiutando anche economicamente i bisognosi» ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA 1976. Grandi Appalti, fogne e strade di Palermo erano “cosa loro”. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 25 febbraio 2022
L’impresa dei Cassina ha gestito ininterrottamente, per decenni, il servizio di manutenzione stradale del comune di Palermo. Ogni volta alla scadenza novennale, la Giurata comunale era riuscita ad imporre il rinnovo del contratto alla ditta Cassina senza regolare gara di appalto.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
I fatti più recenti mettono in evidenza un processo di «razionalizzazione» del sistema di potere mafioso nella città e nella provincia di Palermo che certamente richiede la guida di personalità politiche in grado di controllare gli atti e le decisioni di enti pubblici diversi.
Vogliamo riferirci, in particolare, alla conquista dell'appalto della manutenzione stradale da parte dell'impresa Lesca e alla entrata in scena della Consedil.
Abbiamo già illustrato la funzione assolta dall'impresa Arturo Cassina che ha gestito ininterrottamente, per oltre 36 anni, il servizio di manutenzione stradale del comune di Palermo. Ogni volta alla scadenza novennale, la Giurata comunale era riuscita ad imporre al Consiglio il rinnovo del contratto alla ditta Cassina senza regolare gara di appalto.
L’ultima volta in cui si adottò quella scandalosa procedura fu nel 1962, quando il contratto alla Cassina venne rinnovato ancora per 9 anni. L'approvazione di tale irregolare deliberazione provocò il ricorso del gruppo consiliare comunista di fronte alla Commissione provinciale di controllo. Anche in quella sede si verificò un colpo di mano per ratificare la delibera.
Su quella vicenda esiste un'ampia documentazione presso la nostra Commissione. (In particolare la deposizione resa allora dal Presidente della Commissione provinciale di controllo di Palermo, il magistrato Di Blasi, che sa dimise per protesta dall'incarico definendo quanto era accaduto «un atto di mafia»).
L’ESCAMOTAGE PER FAVORIRE I CASSINA
Il clamore suscitato da quell'episodio convinse il gruppo di potere che domina la città di Palermo che nel 1971 (alla scadenza dell'appalto!) non sarebbe stato possibile ripresentare l'operazione di rinnovo puro e semplice alla ditta Cassina e che occorresse escogitare qualcosa di nuovo. È stata così inventata la Lesca che si è aggiudicata l'appalto concorso della manutenzione stradale a Palermo, subentrando all'impresa Cassina.
Ma la cittadinanza palermitana ha potuto constatare: 1) che la Lescaconservava tutte le strutture e le attrezzature e gli uomini dell'impresa Cassina; 2) che a dirigere l'attività della nuova impresa era l'ingegner Pasquale Mistico, genero di Arturo Cassina, assistito dall'ingegner Luciano Cassina, figlio del titolare della vecchia ditta; 3) che nelle quattro zone in cui è divisa la città operano ancora i vecchi subappaltatori mafiosi con funzione ufficiale di capi zona. Ci si è domandato, allora, quale era il rapporto fra la Lesca e Cassina. Si è scoperto così che la famiglia Cassina ha in realtà il controllo della società Arborea che possiede il 95 per cento delle azioni della Lesca.
Ebbene il gruppo di potere che domina Palermo ha compiuto la beffa di indire un appalto-concorso dove alla fine sono rimaste in gara solo 3 ditte: la Cassina, la Lesca e la Ices di Roma. Quest'ultima non viene ammessa perché la Commissione aggiudicatrice (nominata dalla Giunta comunale!) non giudica sufficiente la fideiussione bancaria. Restano in lizza Cassina e Lesca: Cassina contro Cassina.
Su questa grottesca vicenda il gruppo comunista ha presentato un ampio e documentato ricorso alla Regione, chiedendo un'in[1]chiesta parlamentare dopo che l'assessore regionale agli Enti locali Giacomo Muratore (uomo di fiducia dell'onorevole Gioia!) aveva approvato l'operato della Giunta comunale di Palermo. Copia dì tale ricorso viene pubblicala tra gli allegati.
Per capire la «posta in gioco» occorre tenere presente che l'appalto della manutenzione stradale e delle fognature costa al Comune di Palermo oltre 100 miliardi per i 9 anni di durata del contratto. (150 se si tiene conto della inevitabile revisione dei prezzi in aumento!).
Esiste un divario scandaloso tra i costi previsti dall'appalto e quelli accertati in altre città. (Per la manutenzione di strade e piazze è prevista a Palermo una spesa annua di 4 miliardi e 400 milioni, mentre a Bologna il costo complessivo è di 498 milioni. Per la manutenzione delle fogne a Palermo è prevista una spesa annua di 5 miliardi e 900 milioni, mentre a Bologna il costo complessivo è di 200 milioni circa).
LA “STRATEGIA” DELL’ONOREVOLE GIOIA
Altro grande settore di dominio incontrastato del gruppo di potere diretto dall'onorevole Gioia è l'Ente porto di Palermo. L’impresa che opera in esclusiva nel porto di Palermo è la Sailem di cui è titolare l'ingegner D'Agostino che, grazie alla protezione del ministro Gioia, è diventata una delle più grandi imprese portuali del Mediterraneo.
Presidente dell'Ente porto è l'avvocato Santi Cacopardo che fu protagonista di primo piano dello scempio di Palermo negli «anni ruggenti» della speculazione edilizia in qualità, allora, di Presidente dell'Istituto autonomo case popolari di Palermo.
La Commissione possiede una documentazione enorme sulle gesta di tale personaggio che ha fatto assolvere all’Iacp la funzione di battistrada della speculazione edilizia, particolarmente attraverso la costruzione dei cosiddetti villaggi satelliti dove il Comune era costretto a fare le opere di urbanizzazione, valorizzando le aree limitrofe che venivano occupate dai mafiosi in combutta con gli uomini politici del gruppo di potere dominante.
Invece di provvedere al risanamento dei vecchi quartieri fatiscenti si è favorito per venti anni l'espansione della città in una direttrice preordinata (l'asse via Libertà, viale Lazio, circonvallazione verso Tommaso Natale e l'aeroporto di Punta Raisi su cui si è concentrato lo scontro sanguinoso fra le cosche mafiose!).
Negli ultimi anni, incalzato dall'opinione pubblica e dall'opposizione di sinistra, il ministro Gioia ha assunto in prima persona l'iniziativa del «risanamento» dei quartieri popolari promuovendo la stipula di una convenzione tra Comune di Palermo, Cassa per il Mezzogiorno e Italstat.
Tale convenzione era chiaramente finalizzata a scopi speculativi verso il versante di Palermo Est (oltre Greto) dove, fra l'altro, esistono cospicui interessi immobiliari delle famiglie Gioia e Cusenza. Sta di fatto che, avendo l'opposizione di sinistra in Consiglio comunale imposto profonde modifiche alla convenzione, che limitano fortemente i margini di manovre della speculazione, il «risanamento» di Palermo non si realizza. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Così la mafia decideva a Palermo dove costruire palazzi e aprire cantieri. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 26 febbraio 2022
Negli anni Settanta si sta manovrando per realizzare i progetti di speculazione fuori dalle aree da risanare. Le opere di contenimento del fiume Oreto e il risanamento idrico-fognante lungo il fiume; alcuni tronchi della circonvallazione. Ecco la storia del consorizio Consedil
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Si sta, invece, manovrando per realizzare i progetti della speculazione fuori dalle aree da risanare. Le opere di contenimento del fiume Oreto sono già in convenzione alla Italstat con uno stanziamento di 5 miliardi circa (progetto avviato già da 4-5 anni). Inoltre, sono già stati stanziati 10 miliardi circa per un tronco della circonvallazione di Palermo che si riferisce a questa zona.
Sono previste ulteriori opere per quello che dovrebbe diventare il «Progetto speciale Palermo» che attualmente è fermo al Cipe:
un asse di aggancio «Circonvallazione-Porto» che dovrebbe correre lungo il fiume Oreto (previsti 12 miliardi circa);
risanamento idrico-fognante lungo il fiume Oreto (20 miliardi circa);
altro tronco circonvallazione (10 miliardi circa).
COME AVVIENE LA SPECULAZIONE?
Attraverso la scelta delle priorità delle opere da eseguire. Il risanamento idrico-fognante verrà fatto fra le ultime cose. Risulta che inquilini del quartiere interessato vengono già mandati via. Il giorno che verrà fatto il risanamento il quartiere sarà già pronto per essere trasformato da popolare in quartiere «bene».
L'ultimo capolavoro del gruppo di potere dominante di Palermo è la costituzione del consorzio di imprese Consedil. La legge n. 166 consente alle imprese o loro consorzi di realizzane interventi edilizi a tasso agevolato (5 per cento) con la concessione di contributi sugli interessi per mutui fino al 75 per cento della spesa ai sensi dell'articolo 72 della legge m. 865 e della legge n. 1179, prevedendo ad hoc stanziamenti per gli anni 1975-1976.
Il 7 giugno 1975 (giorno della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale odia legge n. 166), si costituisce in Palermo un consorzio di imprese Consedil con la sola ed esclusiva finalità di operare interventi ai sensi dell'articolo 72 della legge n. 865.
Le imprese sono le seguenti: Sailem (D'Agostino), Gaissima, Tosi, ABC (Pisa), Reale, Ranieri. Direttore tecnico del cansorzio è l'ingegner Giuseppe Mannino che, vedi caso, è anche direttone tecnico della Lesca, la ditta che si è aggiudicata il servizio di manutenzione stradale a Palermo. Sino ad oggi la maggior parte di queste imprese hanno operato in settori diversi dall'edilizia quali opere marittime (Sailbm), strade (Cassina, Reale, Abc); solo Tosi e Ranieri vi hanno operato e quest'ultima in misura molto ridotta.
Il Consedil è l'unico ad avanzare richiesta alla Regione per l'ottenimento dei contribuiti ad sensi dell'articolo 72 della legge n. 865 per un intervento di grosse dimensioni nel Comune di Palermo. Contemporaneamente, come prescritto dalla legge, chiede rassegnazione di aree ali Comune e indica quale istituto finanziatore la sezione di credito fondiario del Banco di Sicilia.
L'assessore regionale ai lavora pubblici concede ali Consedil l'intera franche di contributi agli interessi destinata ai privati; il che consente un intervento di circa 25 miliardi, per la cui realizzazione non resta che l'assegnazione dell'area da parte del Comune. Il disegno di legge n. 376 del 13 agosto 1975 con l'articolo 6 stanzia altri fondi per gli anni 1975-1976, raddoppiando il finanziamento.
Da quanto sopra emergono le seguenti considerazioni: 1) i nominativi dei componenti il Consedil non lasciano dubbi che esiste un'ampia copertura politica che potrà permettere la massima agevolazione a tutti i livelli, ma soprattutto a quello comunale (approvazione progetti, convenzioni, eccetera); 2) la maggior parte delle imprese del Consedil e soprattutto le più consistenti (Sailem e Cassina) non si sarebbero mai sognate di entrare nell'attività edilizia, in quanto i "settori in cui esse agiscono, opere marittime e strade, consentono ad esse consistenti profitti.
Pertanto la loro presenza denota che sono sicuri di condurre un vero e proprio «affare»; 3) il Consedil, per le precedenti considerazioni, non sarà in grado di affrontare con le proprie strutture tecniche ed industriali l'intero intervento e quindi si porterà al di sopra della piccola e media imprenditoria in posizione di pura e semplice finanziaria, spostando così il rischio di impresa dal momento manageriale industriale al momento politico e finanziario.
Tale monopolio assumerà una pesantezza insopportabile per la media e piccola imprenditoria, in quanto si instaurerà inevitabilmente una intermediazione oltre che politica e clientelare, anche mafiosa. Alla mafia delle aree si aggiunge così la mafia dei subappalti. Si fa notare che per il Consedil non esistono problemi finanziari, non esistono esitazioni nella fase decisionale, esiste un rapporto politico per cui gli uffici comunali e delle banche saranno a completa disposizione per rendere agevole la strada alla realizzazione, mentre potranno renderla piena di ostacoli alle altre componenti in gioco. Si ricordi in proposito in quali enormi difficoltà si è sempre dibattuto l'iacp di Palermo, che dopo anni non riesce ad ottenere dal Comune le opere di urbanizzazione.
TUTTE LE STRADE PORTANO... AI CASSINA
Vedremo, invece, con quale celerità verranno fatte per il Consedil dove Cassina è un membro dei più importanti. Conseguentemente si verificherà che le prime case ad essere pronte saranno proprio quelle del Consedil. Da qualche parte si è avanzata l'ipotesi che in seguito, di fronte a pressioni popolari per l'ottenimento della casa o per la oggettiva situazione di carenza di alloggi in Palermo, si potrebbe arrivare alla vendita diretta all'iacp o alle cooperative svuotandone così le funzioni istitutive. Si ripeterebbe così l'esperienza degli edifici costruiti dalla famosa impresa Vassallo o affittati al Comune e alla Provincia per scuole e agli altri enti pubblici per uffici.
Abbiamo voluto soffermarci su alcuni fatti più recenti per mettere in evidenza come si evolve il sistema di potere mafioso a Palermo. Vogliamo ricordare ancora la grande influenza che il gruppo di potere palermitano ha sul sistema bancario grazie al controllo del Banco di Sicilia. L'attuale presidente del Banco, Ciro Di Martino, fu sostenuto da Gioia che, inoltre, ha imposto come vice presidente il suo uomo di fiducia Ferdinando Alicò.
Nella «lottizzazione» del potere fra le varie correnti della Democrazia cristiana l'onorevole Gioia ha preteso ancora il Banco di Sicilia. Ma, avendo sino ad oggi il Ministero del tesoro e la Banca d'Italia respinto tutti i suoi candidati, il Banco di Sicilia è da molti anni con il consiglio di amministrazione non rinnovato, con conseguenze catastrofiche per la vita di questo importante istituto e per l'intera economia siciliana. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Gli intoccabili Nino e Ignazio Salvo, amici della Dc e di Cosa Nostra. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 27 febbraio 2022
La legislazione tributaria regionale e lo strapotere dell'apparato esattoriale siciliano, condizionato e praticamente nelle mani di poche famiglie, come i Salvo, appunto, i Cambria, i Corleo, che ne detengono il monopolio.
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Il sistema di potere mafioso continua a dominare la vita di altre zone della Sicilia occidentale. Dopo Palermo possiamo dire che la situazione più preoccupante esiste in provincia di Trapani.
La Democrazia cristiana trapanese, infatti, è oggi in mano ad un gruppo di potere che è dominato dalla famiglia dei Salvo di Salemi, che, come è noto, controlla le famose esattorie comunali di cui si è tanto occupata la nostra Commissione.
La materia delle esattorie ha formato oggetto nella V legislatura di un'ampia indagine da parte di un Sottocomitato del Comitato per l'indagine sugli Enti locali, la cui relazione di massima non è stata, peraltro, mai sottoposta alla discussione ed all'approvazione formale della Commissione.
I dati emersi da quell'indagine consentono, però, di delineare un impressionante quadro di carenze, di anomalie e di irregolarità nel servizio esattoriale. L'aggio concesso a favore degli esattori per le somme riscosse in Sicilia, notevolmente e ingiustificatamente superiore a quello vigente nel restante territorio nazionale (a fronte di un aggio aggirantesi, sul territorio nazionale, intorno ad una aliquota media del 3,30 per cento, l'aggio siciliano giunge a toccare sino al 10 per cento circa); le ulteriori cospicue agevolazioni quali le cosiddette «tolleranze» sui tempi di versamento dei capitali riscossi, che vengono concesse fino alla misura del 20 per cento ed oltre del carico dei ruoli (e che si traducono sostanzialmente nella messa a disposizione degli esattori di ingenti somme di denaro senza interesse, che possono essere reinvestite in altre più lucrose attività); i non trascurabili profitti assicurati agli esattori attraverso i particolari istituti dei diritti di mora e delle partite inesigibili; i rimborsi spese eccedenti l'aggio che sono in taluni casi previsti a favore degli esattori, inducono al legittimo convincimento che l'apparato esattoriale possa configurarsi come una colossale organizzazione di intermediazione parassitarla che danneggia gravemente i contribuenti siciliani, l'economia siciliana e lo stesso sviluppo economico-sociale dell'Isola.
L’APPARATO ESATTORIALE SICILIANO
Causa fondamentale dello strapotere dell'apparato esattoriale siciliano è stato l'esercizio distorto della legislazione tributaria da parte della Regione, a sua volta indubbiamente condizionata dalla spinta potente del formidabile gruppo di pressione di quell'apparato, praticamente nelle mani di poche famiglie (i Salvo, appunto, di cui si parla nel testo, i Cambria, i Corleo) che ne detengono il monopolio.
Il concreto esercizio da parte della Regione della potestà tributaria, che l'articolo 37 dello Statuto attribuisce alla sua autonoma competenza come fondamentale strumento per la realizzazione di un programma regionale di sviluppo democratico, anziché realizzare semplici ed economici meccanismi impositivi tali da tradursi in congrui strumenti di perequazione fiscale, ha modificato in peggio il macchinoso sistema di riscossione già vigente nel resto del Paese ed ha reso obiettivamente più facile nell'Isola l'incrostarsi nelle maglie di esso di privilegi, favoritismi ed abusi.
Non appare difficile qualificare tali incrostazioni come un classico terreno di coltura di degenerazione del fenomeno mafioso inteso come smodato ed ostentato abuso di potere. Ciò spiega il rilevante contributo che il gruppo comunista ha dato all'elaborazione delle proposte per il riordinamento del settore, impegnandosi vigorosamente perché alla recente legge 2 dicembre 1975, n. 576, contenente disposizioni in materia di imposte sui redditi e sulle successioni, che riduce notevolmente l'area di intervento delle esattorie permettendo al contribuente, con un sistema di autotassazione, di versare direttamente i tributi, senza il tramite degli esattori, sia affiancata, per la Sicilia, una misura che affidi le funzioni esattoriali solo alle banche pubbliche o a consorzi di banche, in cui quelle pubbliche abbiano la maggioranza del capitale sociale.
II congresso provinciale della Democrazia cristiana trapanese, tenutosi nel 1972, è consideralo il punto di arrivo della scalata data dal gruppo Salvo alla direzione della Democrazia cristiana di quella provincia. In quel congresso avvenne la saldatura, attorno al gruppo doroteo dell'onorevole Grillo, di una vasta maggioranza alla cui formazione concorrevano non solo i tradizionali gruppi salernitani e marsalesi, ma anche forze di Trapani e di Alcamo.
In quell’occasione il moroteo Culicchia, segretario provinciale uscente e sindaco di Partanna, accusò pubblicamente i Salvo di aver «acquistato» i voti dei delegati ininterrottamente per tutta la durata del congresso e fino al seggio elettorale dove si votava per il rinnovo delle cariche. La chiave interpretativa fondamentale del rapporto tra gruppi mafiosi e potere politico negli ultimi dieci anni in provincia di Trapani va ricercata, infatti, nella scalata del gruppo Salvo e nella crisi conseguente a questo processo che pare averli colpiti negli ultimi mesi (si veda il sequestro Corleo).
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Trapani, gli esattori diventano la grande forza mafiosa della Sicilia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 28 febbraio 2022
Con i Salvo debuttava un nuovo impegno imprenditoriale in prima persona, dinamico, dei gruppi mafiosi. In parte è un processo analogo a quello legato all'emergere, in quegli anni, di nuovi gruppi dirigenti mafiosi legati alla speculazione edilizia nei grandi centri urbani dell'Isola
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Con i Salvo debuttava un nuovo impegno imprenditoriale in prima persona, dinamico, dei gruppi mafiosi. In parte è un processo analogo a quello legato all'emergere, in quegli anni, di nuovi gruppi dirigenti mafiosi legati alla speculazione edilizia nei grandi centri urbani dell'Isola.
Le scelte prioritarie del gruppo trapanese si rivolgono, però, non solo all'edilizia ma anche all'agricoltura e alla speculazione finanziaria.
L'accordo raggiunto per alcuni anni dai Buccellato e dai Navarra di Castellammare, dai Rimi nell'alcamese, dai Minore a Trapani, dai Salvo e Zizzo a Salemi, dai Taormina a Castelvetrano, eccetera si consolida di fronte alle nuove possibilità finanziarie che l'espansione nel campo delle esattorie di Salvo e Corleo ha messo a disposizione di questi gruppi.
Si creano nuove condizioni e si costruisce un nuovo gruppo dirigente che, chiusa la parentesi cristiano-sociale, rientra pienamente nella Democrazia cristiana e ne assume il controllo senza, tuttavia, alcuna guerra a fondo contro il tradizionale gruppo moroteo di Mattarella (l'unico trauma è forse il sequestro Caruso cui da più parti si attribuisce un emblematico valore politico).
In quegli anni si espande la presenza in provincia di Trapani di Lima e di Gioia e Attilio Ruffini diviene il punto di riferimento di vasti gruppi non solo dorotei, ma anche della corrente fanfaniana di Trapani. In sostanza il rapporto privilegiato delle nuove forze dirigenti della Democrazia cristiana trapanese è verso Gioia-Lima-Ruffini.
ACCORDI E SCONTRI ATTORNO ALLA DC
Il gruppo Salvo, contemporaneamente, tende ad assicurarsi una serie di contatti e di rapporti con altri partiti individuando uomini da appoggiare al momento elettorale o da usare come tramiti per costruire accordi politici su determinate operazioni economiche.
Alla fine degli anni '60 si aprono una serie di scontri tra i Salvo ed altri gruppi che pure avevano avuto un ruolo importante nella costruzione del gruppo dirigente postmattarelliano.
Questi scontri attorno al controllo dei consorzi agrari e delle zone di sviluppo turistico sono accompagnati da una vera e propria «presa di potere» all'interno delta Democrazia cristiana del nuovo gruppo di maggioranza, la cui ottica diviene sempre più esclusiva fino al tentativo di un anno fa di modificare in proprio favore il rapporto territoriale tra le sezioni di partito della Democrazia cristiana e le sezioni elettorali al fine di tagliare fuori nelle elezioni amministrative del giugno scorso l'intera componente morotea.
Il tentativo fallì per l'intervento diretto della Direzione democristiana e con la sospensione del già convocato congresso provinciale. Gli altri partiti di centro-sinistra erano oggetto di una penetrazione di questi gruppi impegnati nel quadro politico provinciale anche per la rilevanza economica della ricostruzione del Belice, e della costruzione dell'autostrada.
Negli ultimi anni, si è avuta una prevalenza netta del gruppo Salvo sugli altri e il delinearsi di una loro volontà di controllo della provincia. Questo, indipendentemente dia tutte 'le analisi, evidentemente non comprovate, sul traffico della droga che li avrebbe visti finanziatori di una rete distributiva nella quale sarebbe stato rilevantissimo il ruolo di Zizzo e di gruppi alcamesi (oltre ai Rimi anche Guarrasi e Melodia).
A questo proposito pare rilevante la supposizione che fa la Polizia, dopo l'accertamento patrimoniale su Guarrasi (l'assessore ali Comune di Alcamo, assassinato alla vigilia delle elezioni del 15 giugno il cui patrimonio si è rivelato insospettatamente cospicuo e sicuramente superiore al miliardo), che egli sia stato ucciso in un tentativo di sequestro che rimanda logicamente al caso Corleo.
Il Guarrasi, ex sindaco di Alcamo ed esponente di rilievo provinciale della corrente dorotea, non poteva certamente aver costruito una fortuna di queste proporzioni solo attraverso la speculazione edilizia ad Alcamo.
Alla morte del vecchio Rimi fu reso più evidente l'indebolimento del vecchio gruppo dirigente mafioso; con ciò si spiega il fiorire di una serie incontrollata di attentati ai cantieri edili promossi da una mafia alcamese di secondo grado, come i fratelli Minore, che oggi rivendica spazi propri. Questi fatti hanno preoccupato forze e gruppi mafiosi.
Si è determinata così una situazione di tensione nella provincia che sta, probabilmente, alla base dei numerosi assassini degli ultimi mesi tra i quali alcuni rilevanti (Russo a Castelvetrano, Guarrasi e Piscitelli ad Alcamo, i due scomparsi di Paceco e Trapani legati ai rami minori del gruppo mafioso di Paceco) e del clamoroso sequestro di Corleo.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. La mafia a Caltanissetta garantisce silenzio e “ordine pubblico”. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani l'01 marzo 2022
La mafia in provincia di Caltanissetta ha avuto sempre «un ruolo politico di primo piano. Basti ricordare i nomi di don Calogero Vizzini e di Giuseppe Genco Russo. La mafia nissena si è sempre caratterizzata per la sua capacità di garantire «l'ordine» in quella provincia, come dimostra l’assenza di gravi fatti di sangue e di altri clamorosi reati.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Le cosche mafiose della provincia di Caltanissetta hanno avuto sempre «un ruolo politico di primo piano. Basti ricordare i nomi di don Calogero Vizzini e di Giuseppe Genco Russo.
La mafia nissena si è sempre caratterizzata per la sua capacità di garantire « l'ordine » in quella provincia. L'assenza di gravi fatti di sangue e di altri clamorosi reati ha consentito a determinati uomini politici e funzionaci «responsabili» di affermare che la mafia a Caltanissetta sarebbe ormai scomparsa. Improvvisamente, invece, nella seduta del 12 settembre 1972 del Consiglio comunale di Caltanissetta il sindaco, professar Raimondo Collodoro, denuncia di aver subito intimidazioni mafiose. Quell'episodio ripropone il problema dello scontro fra diversi gruppi di potere nei Settori dell'urbanistica, dell'attività edilizia e del mercato ortofrutticolo.
Il Comune di Caltanissetta in qual momento doveva predisporre i programmi per l'approvazione della legge per la casa con la cessione delle aree dei piani zonali alle cooperative già finanziate. L'intimidazione mafiosa nasceva dalla volontà di gruppi di speculatori privati di impedire la creazione di un mercato competitivo di aree.
Contemporaneamente, manovrando gli organi di controllo, si cercava di vanificare una delibera del Consiglio comunale che poneva un vincolo a vende nel Parco Testasecca che un gruppo di speculatori mafiosi intendeva, invece, accaparrarsi.
Si sono poi avute le conferme clamorose della presenza maliosa in provincia di Caltanissetta con il caso Di Cristina, i suoi rapporti con l'Ente minerario e i suoi legami elettorali con l'onorevole Gunnella.
GLI INTERESSI VERSO IL POLO INDUSTRIALE
Ma le cosche mafiose hanno manifestato la loro presenza anche nel polo di sviluppo industriale di Gela. Ecco, a questo proposito, quanto è stato denunciato nell'interrogazione che gli onorevoli La Marca, Mancuso e Vitali hanno rivolto in data 26 marzo 1975 ai Ministri delle partecipazioni statali, interno e lavoro: « I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri delle partecipazioni statali, dell'interno e del lavoro e della previdenza sociale per sapere:
se sono a conoscenza del pesante clima di tensione esistente attornio al complesso petrolchimico di Gela e, più specificatamente, nell'ambito delle imprese appaltatrici di lavori e servizi dell'Anic, dove episodi di brutale sfruttamento di lavoratori (spesso culminati in infortuni anche mortali), di corruzione, di connivenza tra imprese appaltatrici ed alcuni tecnici dell'azienda di Stato, nonché di intimidazioni maliose contro le organizzazioni sindacali Cgil-Cisl-Uil si vanno verificando con un crescendo impressionante, fimo al punto, non soltanto di turbare la tranquillità necessaria all'ambiente di lavoro, ma amene di mettere in serio pericolo la stessa incolumità dei lavoratori e dei dirigenti sindacali.
Significativi di tale grave situazione sono gli episodi verificatisi negli ultimi mesi e precisamente: a) la costruzione di due villini in contrada Desusino, di proprietà di due tecnici dell'Anic addetti all'ufficio manutenzione edile dello stabilimento, eseguita dall'impresa Mecos, appaltatrice di lavori dell'Anic, a mezzo di operai dipendenti da detta impresa, costruzione denunziata dalla Camera del lavoro di Gela l'8 febbraio 1975 e confermata dalla ispezione effettuata dall'Ispettorato provinciale del lavoro il 12 febbraio 1975; b) l'intimidazione di pretta marca mafiosa contro il segretario della Camera del lavoro di Gela al quale, la sera dell'11 febbraio 1975, veniva incendiata l'auto; c) la sparatoria (8 colpi di pistola) ad opera di un pregiudicato non nuovo ad aggressioni del genere contro il direttore dell'impresa Smim (anche questa appaltatrice di lavori dell'Anic), per fortuna rimasto illeso insieme con altri operai che si trovavano dietro la macchina del citato direttore, presa di mira dallo sparatore all'interno del petrolchimico il 7 marzo 1975;
se risulta a verità che noti delinquenti comuni, assunti come operai dalle imprese Mecos e Smim e da queste regolarmente retribuiti, svolgono la duplice mansione di prese e di informatori del locale Commissariato di Pubblica sicurezza;
se, dopo la scoperta della costruzione di due villini da parte dell'impresa Mecos per conto di due tecnici dall'Anic, abbia trovato conferma la voce, secondo la quale la stessa impresa sta costruendo a Caltanissetta un villino per conto di un funzionario di quell'Ispettorato provinciale del lavoro;
se, alla luce dei fatti sopra riportati, i Ministri non ritengono di dover intervenire, con un'azione concertata, per rompere l'intreccio sviluppatosi, all'ombra del rigoglioso bosco degli appalti-Anic, tra alcuni tecnici dello stabilimento petrolchimico, le imprese appaltatrici, il Commissariato di Pubblica sicurezza e lo stesso Ispettorato provinciale del lavoro.
In particolare si chiede al Ministro delle partecipazioni statali se non sia giunto armai il momento di affrontare il grave problema della pratica degli appalti ancora recentemente, e non soltanto a seguito dei gravi fatti sopra denunziati, sollevato dalle organizzazioni sindacali Cgil-Cisl-Uil, con la precisa richiesta di abolire la concessione in appalto di servizi e lavori all'interno dello stabilimento che potrebbero essere condotti direttamente dall'azienda di Stato».
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Lo strapotere di Giuseppe Genco Russo, padrone di banche e di preture. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 02 marzo 2022
A completare il quadro ecco scoppiare lo scandalo della Cassa rurale «S. Giuseppe» di Mussameli. Trattasi della Cassa rurale che ha favorito le operazioni bancarie intese a sostenere l'attività del gruppo di mafiosi guidato da Genco Russo per impadronirsi del feudo Polizzello
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
E a completare il quadro ecco scoppiare lo scandalo della Cassa rurale «S. Giuseppe » di Mussameli. Trattasi della Cassa rurale che ha favorito le operazioni bancarie intese a sostenere l'attività del gruppo di mafiosi guidato da Genco Russo per impadronirsi del feudo Polizzello.
A Genco Russo la Commissione ha dedicato un ampio profilo, nella « Relazione sull'indagine riguardante casi di singoli mafiosi ». Presidente di tale Banca è l'avvocato Vincenzo Noto, ex sindaco di Mussameli, noto capo elettore di Calogero Volpe. Il suo nome ricorre negli atti relativi al profilo di Genco Russo. In atto i soci della Cassa sono 237. Nel 1940 erano 1.500, nel 1945 erano 1.050, nel 1954 erano scesi a 500 per raggiungere il numero attuale di 237.
La raccolta di fondi è valutata a circa sei miliardi di lire e riguarda piccoli depositi di circa un migliaio di piccoli risparmiatori.
Il presidente avvocato Noto ha utilizzato la Cassa ad esclusivo vantaggio di un ristretto gruppo familiare comprendente: 1) Noto Angelo, nipote di Vincenzo; 2) dottoressa Scozzari, moglie dell'avvocato Vincenzo Noto.
Le operazioni di investimento (almeno quelle che si conoscono) portate a termine da tale clan familiare riguardano le seguenti iniziative:
«Pastifici riuniti Valle dei Platani», di cui l'avvocato Vincenzo Noto è stato amministratore delegato;
«Laterplatani», industria di manufatti per l'edilizia, di proprietà di Angelo Noto, nipote dell'avvocato Vincenzo;
acquisto di abitazioni in Mussomeli, Palermo, Enna, Cinisello Balsamo;
acquisto di aree fabbricabili nel territorio urbano di Mussomeli. Tali aree costituiscono una notevole percentuale delle aree disponibili nel piano regolatore di Mussomeli.
La elencazione di tali beni è ricavata da un atto in notaio Ielo di Caltanissetta in data 25 maggio 1975, con il quale i proprietari di tali beni chiedono ed ottengono l'accensione di ipoteca su di essi a garanzia di un debito con il Banco di Sicilia per circa un miliardo e settecento milioni. Non si conosce se, oltre a quelli elencati in tali atti, siano presenti altri beni intestati al suddetto clan familiare capeggiato dal Noto.
La sofferenza dell'Istituto pare che ascenda a ed rea sei miliardi, di cui è documentabile in beni solo la suddetta quota di 1.700 milioni circa, peraltro coperta da ipoteca del Banco di Sicilia. Non si conosce la destinazione degli altri quattro miliardi.
Qualche settimana prima dello scoppio dello scandalo il reverendo Giuseppe Mule, vice presidente della Cassa, ha ritirato un suo deposito personale di 1 milione e 700 mila lire per depositarlo in altro Istituto. Analoga operazione è stata condotta dall'arciprete di Mussomeli per circa 37 milioni.
Hanno intrapreso azione legale dinanzi al Tribunale di Calttarassetta soltanto sei dei piccoli risparmiatoti depositanti, che hanno avanzato istanza di liquidazione giudiziaria.
Il Tribunale di Calitanissetta ha già richiesto la informativa alla Banca d'Italia, che non l'ha ancora inviata. Nelle settimane antecedenti al crac pare che sia stata tentata una operazione di camuffamento della situazione economica, costruendo crediti vantati dalla Banca e nient'affatto esistenti. Infatti qualche ex cliente della Banca che aveva estinto da diverso tempo ogni pendenza debitoria e chiuso ogni conto si è visto arrivare una lettera raccomandata con la quale la Banca lo invita a sanare un debito finanziario effettivamente non esistente.
LO SCANDALO DELLE PRETURE
Da diversi anni risulta non coperto il posto di Pretore. Le funzioni della Pretura sono affidate ad un vice pretore onorario: l'avvocato Giuseppe Sorce. il quale è contemporaneamente vice presidente della Banca popolare di Mussomeli.
L'avvocato Giuseppe Sorce è suocero di un figliuolo dell'avvocato Vincenzo Noto, presidente della « S. Giuseppe » di Mussomeli. L'avvocato Sorce è lo stesso che coprì la carica di sindaco di Mussomeli dal 1946 al 1956. Esiste una dichiarazione apologetica in favore di Giuseppe Genco Russo, sottoscritta dal Sorce nella sua qualità di sindaco.
Oltre a quella di Mussomeli le Preture dalla provincia di Caltanissetta che da anni sono rette da vice pretori reggenti sono: 1) Villalba: da tempo immemorabile non c'è un Pretore (titolare. Il mandamento della Pretura di Villalba comprende anche il comune di Vallelunga, anche quest'ultimo centro di mafia (i Madonia, i Sinatra sono di Vallelunga).
Detta Pretura è sempre retta da un avvocato del luogo il quale, come reggente, è regolarmente stipendiato, e naturalmente si mette al servizio di chi lo fa nominare (chi si muove per le nomine è l'onorevole Volpe!) ; 2) Butera: anche qui il titolare della Pretura manca da tempo immemorabile. Il vice pretore reggente è sempre stato un avvocato del gruppo di potere che fa capo al commendatore Guido Scichilone, capo della Dc più volte sindaco del Comune, e consigliere della Cassa di Risparmio, impresario di trasporti extraurbani; 3) Riesi: attualmente è senza titolare e il reggente è un avvocato del luogo, nonostante sia centro di mafia (patria dei Di Cristina); 4) Sommatino: da circa 10 anni è retta da un avvocato del luogo, Giuseppe Pappalardo (uomo di Volpe), benché ci sia un titolare che, però, non appena nominato nel 1973, è stato applicato alla Pretura di Caltanissetta per sette giorni la settimana! Si dice che l'operazione sia stata fatta per favorire il Pappalardo « ben protetto ».
Tutte queste Preture sono in generate anche senza cancelliere titolare e si rimedia con qualche cancelliere a scavalco o col segretario comunale che per legge deve fare il cancelliere in assenza di questi.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Agrigento, una mafia silenziosa e interessata ai palazzi. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 3 marzo 2022
L'organizzazione mafiosa è particolarmente presente, inoltre, nel settore delle costruzioni edilizie e opere di interesse pubblico e stradali. A Canicattì, Licata, Sciacca, Palma, Ribera, buona parte della speculazione edilizia porta il marchio di gruppi mafiosi che hanno operato in stretta collaborazione con le amministrazioni comunali dirette dalla DC e dal centrosinistra
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
In provincia di Agrigento gli atti e le manifestazioni tipiche del fenomeno mafioso hanno subito una graduale, ma costante attenuazione, rispetto al periodo (1943 – inizio aveva visto le cosche mafiose protagoniste di una lunga catena di delitti culminati nell'assassinio del commissario di Pubblica sicurezza Cataldo Tandoj.
La Federazione agrigentina del Pci ha già espresso il proprio giudizio sul fenomeno mafioso, con una puntuale e documentata analisi contenuta nel «memoriale» consegnato alla Commissione antimafia, che ancora oggi conserva la sua validità e attualità, confermata da episodi e rivelazioni successivamente verificatisi.
Pertanto ci limitiamo ad alcune sintetiche considerazioni aggiornate delle caratteristiche e delle dimensioni che allo stato attuale assume il fenomeno mafioso. Le cause della sua attenuazione scino dovute alla crisi delle tradizionali attività produttive: miniere di zolfo oggi in fase di completa smobilitazione, la crisi grave che investe la pesca e, per altri versi, il settore delle costruzioni edilizie.
Nella città di Agrigento, dopo la frana del luglio 1966 a causa del caos urbanistico, si è determinata la paralisi quasi completa delle attività di costruzione. Nel rimboschimento le lotte bracciantili hanno costretto l'azienda forestale a gestire direttamente i lavori di forestazione, lasciando uno spazio marginale agli appalti di cui solitamente sono stati e sono titolari elementi notoriamente legati alla organizzazione mafiosa.
Nel settore del vigneto la costituzione di un forte movimento cooperativo di cantine sociali (di orientamento cattolico, socialiste e comunista) ha sottratto molto terreno all'opera mafiosa di intimidazione e di ricatto a scopo di lucro, specie nella fase di commercializzazione dell'uva e poi del mosto, ed ha impedito il diffondersi su vasta scala della sofisticazione (che invece dilaga nel trapanese e nel palermitano).
Si è avuta contemporaneamente la crescita del livello di istruzione e della coscienza civile e democratica delle popolazioni. I grandi movimenti di lotta, guidati dai partiti di sinistra, dai sindacati e da alcuni settori importanti del mondo cattolico e della stessa Democrazia cristiana, in tutti questi anni hanno contribuito notevolmente a fare maturare una nuova coscienza nelle nuove generazioni, riducendo l'area di omertà e di paura che, laddove ancora esiste, rappresenta uno degli elementi su cui poggia e si sviluppa l'organizzazione mafiosa.
UNA MAFIA “RIDIMENSIONATA”?
Anche se il fenomeno mafioso ha subito in provincia tale ridimensionamento, si esclude che debba essere considerato estinto o comunque non in grado, a seconda della contingenza politica ed economica, di riprendersi ed estendersi.
Sono, infatti, presenti i presupposti economici e sociali determinati storicamente dallo sviluppo del capitalismo in Sicilia e regolati dal sistema di potere di stampo burocratico-clientelare che spengono tanti giovani, anche a causa della disoccupazione dilagante, a porsi fuori dalla legge, ricercando il legame con ile organizzazioni mafiose.
Esistono, infatti, in tutti i comuni dell'agrigentino nuclei mafiosi di tipo classico che agiscono ed operano con metodi che vanno dalla intimidazione al ricatto, dal paternalismo alla solidarietà di clan.
Alcuni di essi sono riusciti a collegarsi organicamente con i centri fondamentali della mafia siciliana che risiedono a Palermo da dove si dipartono le fila delle organizzazioni che regolano il contrabbando di tabacco, di droghe e di altri generi, il mercato della prostituzione e delle produzioni ortofrutticole, i campi cioè dove gli interessi economici e le possibilità di lucro sono consistenti per cui è possibile che avvengano delitti grava e spietati fatti di sangue. Sono esemplari, a questo proposito, le vicende della mafia operante nel triangolo Riesi-Ravanusa-Campobello di Licata.
L’esecuzione in una stanza dell'Ospedale civico di Palermo di Candido Ciuni è il momento più clamoroso di una lunga catena di omicidi perpetrati in quella zona, che ha visto implicati personaggi come il Di Cristina di Riesi, funzionario della Sochimisi e capo elettore del Pri.
Un altro settore in cui è presente largamente la mafia è costituito dall'allevamento e dal commercio di bestiame: zona di Canicattì tradizionalmente rinomata per il commercio e l'importazione dall'estero dii capi bovini e di carne macellata; zona montana (Alessandria della Rocca, Burgio, Lucca Sicula, Bivona, Santo Stefano, Cammarata, ecc.). Qui si passa dai frequenti reati di abigeato ad azioni di intimidazione (sgozzamento del bestiame, incendio di ovili), dalla macellazione clandestina di carni all'assassinio di pastoni e mercanti.
Le cosche più influenti di questa attività risiedono nei comuni di Alessandria e Burgio che oltre ad esercitare un peso notevole nella zona sopra citata riescano a collegarsi con la mafia dei vicini centri del palermitano (Prizzi-Corleone).
L’organizzazione mafiosa è particolarmente presente, inoltre, nel settore delle costruzioni edilizie e opere di interesse pubblico e stradali.
In centri come Canicattì, Licata, Sciacca, Palma, Ribera, buona parte della speculazione edilizia porta il marchio della iniziativa di gruppi mafiosi i quali hanno operato, come nel caso di Licata, Canicattì, Palma, in stretta collaborazione con le amministrazioni comunali dirette dalla Dc e dal centrosinistra ritardando ed in alcuni casi impedendo l'elaborazione e l’approvazione da parte dei Consigli comunali degli strumenti urbanistici, accaparrandosi le aree a basso costo o addirittura le aree di proprietà comunale (come nel caso del costruttore Pace di Palma Montechiaro, eletto consigliere comunale nella lista della DC nelle ultime elezioni amministrative, più volte denunciato dalla nostra sezione alla Magistratura con esiti purtroppo sempre negativi). ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Dalla Valle dei Templi a Milano, i ricchi affari con gli amici di Sindona.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 04 marzo 2022
La mafia agrigentina ha tentato recentemente un rilancio di tipo moderno con una operazione speculativa di carattere finanziario collegata con il sottobosco della finanza milanese del clan di Sindona e realizzata quasi interamente in provincia di Agrigento.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Lo sviluppo della costruzione di opere pubbliche ha consentito a certi gruppi mafiosi di mettere le mani sugli appalti ed i subappalti, mediante legami precisi con il potere politico dominante, più specificamente con i partiti al governo.
Qui si va dalle guardianie dei cantieri (comprese le industrie Italcementi) alle assunzioni di mano d'opera che vengono operate, specie per ciò che riguarda la mano d'opera cosiddetta «specializzata», tramite il solito sistema delle raccomandazioni e dalle protezioni di stampo mafioso.
Permane il sistema delle tangenti ricattatorie, il cosiddetto «pizzo» ancora largamente praticato oltre che in questo settore anche nelle attività commerciarli e la partecipazione diretta di elementi notoriamente legati alla mafia alla gestione e conduzione dei lavori.
Al tradizionale e compatto gruppo dei costruttori di Favara, si va gradualmente sostituendo in questo settore la schiera degli speculatori di Agrigento che, bloccati nella città capoluogo a causa della vicenda della frana, hanno trovato sbocco in provincia.
La mafia agrigentina ha tentato recentemente un rilancio di tipo moderno con una operazione speculativa di carattere finanziario collegata con il sottobosco della finanza milanese del clan di Sindona e realizzata quasi interamente in provincia di Agrigento.
GLI INTERESSI FINANZIARI A MILANO
Si tratta dell'«Interfinanziaria S.p.A.» con sede centrale a Milano, che riusciva ad aprire oltre 20 sportelli in provincia di Agrigento in piccoli comuni spoliati dall'emigrazione ed economicamente molto depressi.
All'improvviso la vecchia e nuova mafia si attivizzò e cominciò il reclutamento dei depositi: una vera e propria caccia ai risparmi di emigrati, ex possidenti, piccoli e medi proprietari di terre che, spinti dall'elevato tasso di interesse concesso (più del doppio del tasso praticato dalle altre banche!) e a volte da promesse di impiego nelle agenzie dell'Istituto, riversarono nelle sue casse più di 4 miliardi e mezzo di depositi nel volgere di poco tempo.
Un primo dato per dimostrare il collegamento diretto tra mafia e l'«Interfinanziaria»: gli impiegarti assunti, spesso senza i necessari titoli ed un adeguato grado di istruzione, erano quasi tutti figli o parenti stretti di esponenti mafiosi locali, i quali non avendo mansioni burocratiche da svolgere venivano utilizzati come ricercatori di clienti, data, appunto, la loro «influenza».
Per oltre un anno l'«Interfinanziaria» agì indisturbata allargando la propria attività nel campo turistico-alberghiero, dando inizio alla costruzione di un grande complesso nell'isola di Lampedusa, superando apertamente i limiti dell'autorizzazione concessale dal Ministero del tesoro e praticando operazioni bancarie non autorizzate.
Questi fatti hanno interessato il meccanismo di controllo della Banca d'Italia determinando la procedura di fallimento e di liquidazione della società e la incriminazione dal Consiglio di amministrazione per bancarotta fraudolenta. È da notare che quasi tutti i componenti del Consiglio di amministrazione erano siciliani e la maggior parte originari o residenti in provincia di Agrigento.
Discreti agganci mantengono tuttora alcuni personaggi legati alla cosca mafiosa dell'agrigentino con tutto il complesso sistema di potere burocratico-clientelare costituito dalla Dc ed estesosi con il centro-sinistra.
Sono frequenti i casi di immissione nei ruoli dei comuni e degli enti regionali, parastatali, eccetera, di personale raccomandato o protetto dalla mafia che sfrutta molto bene i legami che essa ancora mantiene con alcuni notabili Dc a livello provinciale e locale.
Particolari collegamenti con questi ambienti realizza, travalicando «talvolta i confini della provincia, l'onorevole Gaetano Di Leo di Ribera che, assieme all'onorevole Calogero Volpe di Caltanissetta, «amministra» i rapporti che il partito di maggioranza intrattiene con le cosche mafiose.
Sono frequenti, infatti, i loro interventi in situazioni locali allorquando si tratta di appianare contrasti o sistemare qualche affare interno all'organizzazione mafiosa relativi a controversie elettorali o a vicende amministrative di spartizione del potere e del sottogoverno.
Esistono situazioni dove il sistema di potere Dc fa tutt’uno con il sistema ed il metodo mafioso. E il caso di Cattolica Eraclea, medio centro dell'agrigentino, dissanguato dalla crisi, dalla disoccupazione e dall'emigrazione, dove tuttora opera una consistente organizzazione di mafiosi, collegata con Ribera, Montallegro, Siculiana. Qui il connubio tra sistema di potere Dc e mafia, seppure in una dimensione molto circoscritta, assume le caratteristiche di vera e propria simbiosi.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA 1976. La denuncia di Pio La Torre e Cesare Terranova sul legame mafia-politica. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 05 marzo 2022.
Il sistema di potere mafioso è entrato ormai irrimediabilmente in crisi anche a Palermo. Ne sono una testimonianza gli ultimi sviluppi della lotta politica all'interno della DC palermitana e la ricerca travagliata di un confronto democratico e costruttivo per dare una nuova direzione alle amministrazioni della città e della provincia di Palermo.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Abbiamo voluto mettere in evidenza i limiti, le contraddizioni e talune reticenze della relazione generale presentata dal Presidente della nostra Commissione. Ci siamo assunti, contemporaneamente, le responsabilità di denunziare la realtà del sistema di potere mafioso nelle sue manifestazioni attuali, a Palermo e nelle altre province della Sicilia occidentale.
In questa denunzia non c'è alcuna intenzione scandalistica. Non siamo stati noi a promettere all'opinione pubblica l'esplosione della «Santa Barbara» e ad alimentare false prospettive sugli scopi della nastra Commissione parlamentare. La nostra denuncia tende a mettere in evidenza il permanere di rapporti fra cosche mafiose e pubblici poteri. Tale documentazione è importante ai fini degli indirizzi da dare alla lotta per debellare il dominio della mafia. Ecco perché noi mettiamo al primo posto il problema di una profonda trasformazione dei rapporti fra lo Stato e i cittadini.
Se si vuole assestare un colpo decisivo alla potenza della mafia occorre debellare il sistema di potere clientelare attraverso lo sviluppo della democrazia, promuovendo la smobilitazione unitaria dei lavoratori, l'autogoverno popolare e la partecipazione dei cittadini al funzionamento delle istituzioni democratiche.
Il triste spettacolo che, dopo le elezioni amministrative del 15 giugno, sta offrendo il gruppo di podere che domina Palermo, impedendo il funzionamento del Consiglio comunale e di quello provinciale, dimostra tutto il valore della nostra tesi.
La paralisi delle assemblee elettive ha permesso tradizionalmente al gruppo di potere palermitano di ottenere centinaia di delibere con i poteri del Consiglio da fare ratificare, poi, in pochi minuti, con un colpo di mano, al Consiglio comunale o provinciale convocato soltanto un paio di volte all'anno, fatti che furono duramente censurati in una mozione comunista discussa il 23 marzo 1973 dall'Assemblea regionale siciliana. Ecco perché occorre promuovere tutte le forme di controllo democratico, garantendo il pieno funzionamento delle assemblee elettive.
LA SIMBIOSI TRA MAFIA E CERTA POLITICA
Il sistema di potere mafioso è entrato ormai irrimediabilmente in crisi anche a Palermo. Ne sono una testimonianza gli ultimi sviluppi della lotta politica all'interno della DC palermitana e la ricerca travagliata di un confronto democratico e costruttivo per dare una nuova direzione alle amministrazioni della città e della provincia di Palermo.
A questi sviluppi positivi un contributo non secondario è venuto dall'attività della nostra Commissione, particolarmente dal momento in cui si ottenne il successo delle dimissioni di Vito Ciancimino da sindaco di Palermo. Tali processi positivi vanno assecondati con l'impegno costruttivo di tutte le forze democratiche. Più in generale occorre impastare su nuove basi il rapporto Stato-Regione facendo dispiegare tutto il potenziale democratico e rinnovatore dell'autonomia siciliana, per affrontare i problemi dello sviluppo economico e sociale dell'Isola.
Operando per questi obiettivi di sviluppo economico e di rinnovamento democratico sarà possibile portare avanti un'azione di profondo risanamento della vita pubblica dando prestigio ed efficienza a tutti gli origami dello Stato e, in primo luogo, a quelli chiamati a svolgere l'attività di prevenzione e repressione della criminalità organizzata. Con questa ispirazione ideale e politica noi abbiamo contribuito alla elaborazione ed approvazione delle proposte conclusive per combattere il fenomeno della mafia che la nostra Commissione si appresta a presentare in parlamento.
Vogliamo sottolineare che questo contributo positivo corrisponde all'impostazione costruttiva che noi imprimiamo alla nostra azione politica come principale partito di opposizione. Ci siamo preoccupati, in questo caso, di contribuire a dare una conclusione positiva ai lavori della nostra Commissione animati dal proposito di salvaguardare il valore e la funzione del nostro parlamento.
Siamo rammaricati, invece, di non essere riusciti a trovare un'intesa sulla relazione generale perché ci divide dal partito della Democrazia cristiana il giudizio sulle responsabilità politiche nel sistema di potere mafioso in Sicilia. Abbiamo così voluto sottolineare la necessità urgente di voltare pagina nel modo di governare la Sicilia.
Sappiamo che tale esigenza è ormai avvertita da un vasto schieramento di forze ed essa si fa strada anche all'interno del partito della Democrazia cristiana. Le ultime vicende politiche siciliane sono una conferma dell'affermarsi di questa volontà di cambiamento. Il nostro proposito è di accelerare questi processi positivi, di fare in modo che essi agiscano in profondità per liberare la Sicilia dal cancro del sistema di potere mafioso.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Villalba, il regno di don Calò, mafioso e sindaco per volere degli Alleati. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 06 marzo 2022
Calogero Vizzini, detto Don Calò, primo sindaco di Villalba per decisione degli americani, fu anche nel contempo il capo riconosciuto della mafia di Sicilia. A lui ed ai suoi accoliti di Villalba si deve il primo clamoroso episodio di violenza mafiosa nel dopoguerra: l'attentato commesso durante un comizio dell'On. Li Causi
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
II presente memoriale è stato redatto col proposito di apportare un contributo di ricerca e di documentazione ai lavori della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla mafia. La provincia di Caltanissetta è particolarmente interessata a tale inchiesta in quanto - come la pubblicisti[1]ca più recente (Pantaleone, Navacco, Gajo, Romano) ha rilevato — la mafia operante in questa provincia ha assunto un ruolo di direzione a livello regionale, non senza collegamenti con la mafia americana.
Anche il dottore Umberto Guido, procuratore generale della Repubblica, nel discorso per l'inaugurazione dello anno giudiziario 1963 ha denunciato la gravita del fenomeno mafioso nella provincia di Caltanissetta. Ciò nonostante l'azione della polizia e dei pubblici poteri è stata sinora assai tiepida se non, addirittura, tale da incoraggiare le forze della mafia.
La funzione direzionale assunta dall'organizzazione mafiosa della provincia di Caltanissetta si è espressa in modo evidente in occasione dell'aggressione contro l'On. Girolamo Li Causi, compiuta a Villalba nell'ormai lontano 1944 dallo stesso capo mafia della Sicilia, Calogero Vizzini, che con quel gesto intese ribadire il compito principale costantemente svolto dalla mafia di difesa del latifondo e della gabella parassitarla e, più in generale, di Conservazione delle vecchie strutture economico-sociali.
D’altra parte l'azione violenta della mafia ha trovato una vivace opposizione nella lotta organizzata dei contadini, dei braccianti, dei minatori e di tutta la classe lavoratrice con la guida dei sindacati e dei partiti di sinistra per la conquista della terra, per le riforme di strutture e per il conseguimento di migliori condizioni di vita nelle libertà democratiche.
Gli episodi di violenza e di sopraffazione mafiosa riferita nel presente memoriale offrono l'immagine di una mafia che, in talune zone ad economia prevalentemente agricola della nostra provincia ha conservato, in parte, i suoi caratteri tradizionali mentre in altre si è venuta adeguando ai pur modesti mutamenti determinatesi nelle strutture economiche e sociali ed ha esteso la sua attività e la sua influenza nel campo imprenditoriale, nel settore dell'industria e del commercio all'ingrosso.
Ne risulta una configurazione abbastanza complessa e variamente articolata. Si può tuttavia affermare ohe gli attuali esponenti più auto[1]revoli dell'organizzazione mafiosa appartengono alla borghesia agraria, al ceto imprenditoriale, alla categoria dei grossisti del commercio del bestiame e dei prodotti agricoli. Tutti comunque sono possessori di beni rilevanti per la conquista o l'incremento dei quali non hanno mai esitato a sovrapporre la loro legge a quella dello Stato, pur riuscendo spesso a celare le loro delittuose attività sotto una ingannevole apparenza di civile decoro.
In collegamento con costoro - talvolta in stretta dipendenza - opera una serie di personaggi minori molti dei quali sono riusciti in breve tempo ad accumulare cospicui patrimoni.
Lo scopo preminente dell'attività mafiosa è dunque quello dell'illecito arricchimento. A tal fine la mafia ha sempre adoperato come fondamentale strumento l'efficienza della propria organizzazione fondata sulla paura o l'ignoranza delle vittime, sulla debolezza e, talora sulla complicità dell'autorità pubblica e l'alleanza, o più direttamente, l'esercizio del potere politico usato ai fini di conservazione e reazione.
Ciò spiega perché la mafia ha sempre considerato come suoi irriducibili nemici i partiti e le organizzazioni sindacali che si sono battuti e continuano a lottare per la emancipazione dei lavoratori e per l'ammodernamento delle strutture economiche e sociali dell'Isola.
L’AGGUATO A LI CAUSI
La figura nella quale convergono e si fondono tutte le caratteristiche tipiche del mafioso e che si è posta in Sicilia al vertice dell'organizzazione in questo dopoguerra è quella del fittavolo e proprietario terriero Calogero Vizzini, detto Don Calò, deceduto nel 1954. E' noto che il suddetto personaggio fu il primo sindaco di Villalba per decisione degli americani e fu anche nel contempo il capo riconosciuto della mafia di Sicilia.
A lui ed ai suoi accoliti di Villalba si deve, come abbiamo riferito nella premessa, il primo clamoroso episodio di violenza mafiosa nel dopoguerra: l'attentato cruento commesso durante un comizio dell'On. Li Causi allora segretario regionale del P.C.I. in Sicilia. L'avvenimento è ormai troppo noto perché ci si debba indugiare, in questa sede, a narrarne i particolari» A noi preme qui tuttavia, rilevare alcuni elementi di questa vicenda delittuosa per ricavarne le caratteristiche essenziali che ritroveremo pressoché costanti in tutto lo svolgimento successivo dell'azione mafiosa nel centro della Sicilia.
Esse possono identificarsi come segue:
1°) azione violenta della mafia in difesa delle strutture agrarie esistenti, e aperta intimidazione rivolta ai partiti politici, alle organizzazioni sindacali ed ai lavoratori della terra che ponevano l'esigenza della concessione della terra ai contadini;
2°) debolezza - in qualche caso connivenza - dei pubblici poteri di fronte alla mafia (si consideri che la polizia non procedette ad alcun arresto degli autori dell'attentato che pure erano chiaramente individuati e che il processo, finalmente istruito, si è trascinato per ben quattordici anni di Corte in Corte tra remore ed ostacoli di ogni genere, compreso lo smarrimento degli atti processuali;
3°) notevole capacità di intrigo e forza di pressione della mafia al punto di consentire ai responsabili della strage di non scontare nemmeno un solo anno di carcere e di riuscire ad ottenere persino la grazia del Presidente della Repubblica, per intercessione di forze politiche democristiane.
Questa vittoria della mafia sulla giustizia incoraggiò, ovviamente, tutta l'organizzazione a proseguire nella sua opera delittuosa con la certezza dell'impunità favorì il proselitismo delle nuove leve e intimorì tutti coloro che confidavano ancora nella forza del diritto e dei poteri dello Stato. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Miniere, gli affari degli Arnone di Serradifalco e dei Di Cristina di Riesi. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 07 marzo 2022
L'attività della mafia nella provincia di Caltanissetta non si è limitata al settore agricolo ma ha investito praticamente tutti i settori dell'economia della provincia. A Serradifalco, ad esempio la società Montecatini per i trasporti del minerale ha dato l’appalto dei trasporti stessi all'ex manovale muratore Vincenzo Arnone, mafioso, compare di Giuseppe Genco Russo
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
L'attività della mafia nella provincia di Caltanissetta non si è limitata al settore agricolo ma ha investito praticamente tutti i settori dell'economia della provincia. Vediamo alcuni aspetti indicativi.
Nel settore minerario giusta è risultata la lotta dei lavoratori che per lunghi anni si erano battuti per l'istituzione dell'azienda zolfi, per le nuove ricerche minerarie, che poi dovevano portare alla scoperta dei sali potassici, del petrolio e del metano, come grave è risultata la responsabilità di quei governi regionali, i quali, sistematicamente si opposero, spalleggiati dai monopoli privati, a tutte le iniziative prese dalle forze democratiche.
Scartata la via precedentemente prescelta per risolvere il problema minerario siciliano, la classe dirigente ripiegò, sotto la spinta del movimento popolare, su una politica di sostegno del settore zolfifero.
Tuttavia, la sua azione fu tale da lasciare intatta la posizione degli industriali parassitari, favorendo al tempo stesso le mire della Montecatini e di altri gruppi italiani e stranieri che già si apprestano alla realizzazione dei loro programmi di sfruttamento delle risorse minerarie siciliane e che erano stati nemici dichiarati delle stesse misure di sostegno.
Con la legge di riordinamento del 1959 si ha il primo serio tentativo di risanamento dell'industria zolfifera. Tale legge affidava agli industriali compiti importanti, decisivi per la salvezza e la prospettiva stessa dell'industria.
Ma gli industriali zolfiferi dimostrarono ancora una volta la loro vera vocazione ed invece di utilizzare quella legge per portare avanti le opere di ammodernamento delle miniere, si diedero alla ricerca di tutti i mezzi leciti e illeciti per prelevare fondi dalla Regione pur continuando la politica parassitarla di sempre.
[…] Le denunce presentate dai lavoratori contro le inadempienze ai piani di riorganizzazione, la lotta operaia nelle miniere e la presentazione del disegno di legge del gruppo comunista all'Assemblea regionale per la nomina dei commissari, hanno sottolineato la presa di posizione del movimento dei lavoratori contro gli industriali e contro il governo.
[…] La vivace e forte azione dei sindacati operai, la presenza di notevoli nuclei di lavoratori politicamente avanzati hanno attenuato di molto il fenomeno mafioso (prima massiccio) nelle miniere. Ciò non vuoi dire che esso sia scomparso del tutto.
A SERRADIFALCO GLI ARNONE
Miniera Bosco-Stincone – Serradifalco S. Cataldo. È gestita dalla società Montecatini anche uno dei più gran di complessi monopolistici italiani è stato costretto a soggiacere alle imposizioni della mafia. La società Montecatini per i trasporti del minerale (sali potassici) dalla miniera allo stabilimento chimico di Campofranco, di proprietà della stessa Montecatini, ha effettuato una gara di appalto dei trasporti stessi.
Concorrenti allo appalto sono stati: l'ex manovale muratore Arnone Vincenzo, mafioso, compare di Giuseppe Genco Russo e il sig. Poidomani Vincenzo di Mazzarino, II mafioso Arnone ha chiesto come compenso per il trasporto lire una e venti al chilogrammo, il sig. Poidomani chiedeva lire zero e ottanta. Ebbene, la Montecatini, contrariamente ai suoi interessi, ha concesso l'appalto del servizio all'Arnone.
Nel periodo in cui tale appalto è stato concesso, impiegato responsabile di questo settore nella miniera era Angelo Vinciguerra (fratello di Pietro) ora presidente della Associazioni Industriali di Caitanissetta. L'Arnone tuttora gestisce i trasporti per conto del la Montecatini anche se tale attività si è ridotta in seguito all'impianto di una teleferica che dalla miniera porta il minerale direttamente agli stabilimenti di Campofranco. Nella stessa miniera operano, sempre nel campo dei trasporti, altri mafiosi quali Corbino Salvatore e i fratelli Anzalone di S. Cataldo.
Miniera Trabonella (Caltanissetta). I trasporti dello zolfo sono gestiti dai noti mafiosi Racalmuto Francesco di Bolognetta che opera insieme a Pietro Anzalone e a Felice Angilello di Caltanissetta, e Mazzarisi Salvatore di Villalba che, a suo tempo, era al servizio di Calogero Vizzini.
II Mazzarisi si era trasferito a Caltanissetta per assumere l'affitto del feudo Trabonella (oggi gestito da Felice Angilello) ma ha spostato poi la sua attività dalla campagna al trasporto merci associandosi a certo Ardoselli Domenico di Misilmeri il quale funge da prestanome a tale Di Peri, nipote del noto capo mafia di Misilmeri Bolognetta. È da precisare che la maggior parte dei trasporti è effettuata per conto dell’E.Z.I. in quanto detto ente compra i concentrati di zolfo posto miniera.
A RIESI I DI CRISTINA
Miniera Trabia Tallarita (Sommatine, Riesi, soc. Valsalso). Nel periodo 1956-57 un gruppo di piccoli mafiosi notoriamente legato alla famiglia Di Cristina di Riesi, con la complicità di elementi della direzione della miniera, ha detenuto il monopolio delle assunzioni in miniera degli operai di Riesi e Sommatino.
Sulle assunzioni veniva imposta una taglia di lire 150 mila. L'ufficio di collocamento, non aveva come non ha tuttora, alcuna voce in capitolo in ordine alle assunzioni e non solo in miniera. Le autorità di polizia locale pur essendo certamente a conoscenza del modo come avvenivano le assunzioni non intervenivano.
Sono stati necessari alcuni comizi e parecchie pubbliche denuncie per fare decidere le au torità di polizia ad intervenirec Furono arrestate sette persone: Di Cristina Salvatore, parente dell'attuale sindaco di Riesi; Capostagno Filippo, segretario della lega minatori della Cisl; Laurina Giuseppe, membro della commissione interna iscritto alla Cisl, pregiudicato, più volte arrestato per delitti comuni; Rindone Gino, capo ufficio della miniera. Dopo la scarcerazione il Capostagno è stato riassunto in miniera ed è divenuto segretario provinciale dei minatori aderenti alla Cisl; il Lauria è stato riassunto; il Rindone è stato assunto da Pietro Vinciguerra nella miniera Lucia. Sempre nella miniera Trabia Tallarita i trasporti operai sono gestiti dai mafiosi Di Cristina, mentre i trasporti del materiale sono effettuati da una società diretta da tale Antonino Lo Grasso, detto "Scaluneddu" legato agli ambienti mafiosi. I Di Cristina, in contrasto con le leggi e i regolamenti, hanno attuato i trasporti operai su camion malsicuri anzicchè su autobus. Le autorità competenti non sono mai intervenuti. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Agrumi e terreni, affari per pochi e una riforma agraria da non fare. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani l'08 marzo 2022
L'Eras (Ente per la Riforma Agraria in Sicilia) doveva procedere alla costruzione di un borgo rurale su un terreno valutato un milione e ottocento mila lire. Alcuni mafiosi di Mazzarino intervennero ed ecco i risultati: si sceglie un terreno di gran lunga peggiore e di minore estensione che viene pagato cinque volte in più di quanto sarebbe stato pagato quello scelto in precedenza.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Per l'esercizio della sua attività la mafia come abbiamo dimostrato ha bisogno di ampi poteri negli enti e negli uffici pubblici. Perciò ha sempre cercato e spesso ottenuto protezioni politiche e, a volte, è riuscita ad inserirsi nella gestione diretta del potere politico e della pubblica amministrazione.
Citiamo alcuni significativi episodi che dimostrano il legame che la mafia ha stabilito all'interno dell’Eras. I fratelli Caramazza di Canicattì erano proprietari del fondo Graziani nel territorio ricadente tra Canicattì e Montedoro. Centosettantotto ettari di tale feudo cadevano sotto la legge di riforma agraria ed erano soggetti ad esproprio se non venivano trasformati.
Si trattava del cosiddetto sesto residuo rimasto ai proprietari espropriati con l'obbligo di attuarvi le trasformazioni di legge. I proprietari non erano riusciti ad attuare le trasformazioni. Non è un mistero per nessuno a Canicattì che i Caramazza non avevano potuto operare tale trasformazione agraria perché impediti dalla mafia.
L’Eras intervenne minacciando l'esproprio. Non va taciuto che questo, se non l'unico, è certamente uno dei pochissimi casi in cui l’Eras è intervenuto per imporre la osservanza delle leggi. I proprietari, anche se ora ovviamente negato tutto ciò, si vennero a trovare nella alternativa di essere espropriati dall’Eras o di vendere subito la terra a Giuseppe Genco Russo ed a Diego Gioia, noti mafiosi, che, nel frattempo, si erano fatti avanti per lo acquisto delle terre stesse. Non si sa se sono intervenuti altri personaggi influenti; comunque l'affare venne concluso con la vendita ai predetti mafiosi dei 178 ettari di terra. Pare che i prezzi stabiliti siano stati quelli che avrebbe pagato l’Eras con l'esproprio maggiorati del sei per cento.
Realizzato l'affare, Giuseppe Genco Russo si premura a ripartire le terre con gli altri soci; poi vende una parte dell'appezzamento rimasto di sua proprietà realizzando quindici milioni - cioè più di quanto aveva pagato per l'intera quota a lui spettante - quindi, presenta domanda al Banco di Sicilia per ottenere un mutuo che naturalmente gli viene concesso nella misura di trentacinque milioni di lire con l'interesse del tre per cento pagabili in trenta anni.
Non basta. Il Genco Russo chiede ed ottiene dall’Eras l’assegnazione di alcuni capi bovini che gli vennero concessi con la particolare facilitazione del contributo a fondo perduto dell'ottanta per cento. Negli anni 1958 e 59 l’Eras aveva in suo possesso - perché espropriato e non ancora assegnato ai contadini — l'ex feudo Riggiulfo esteso 335 ettari nel territorio di Mazzarino.
L'Ente dopo avere provveduto ad effettuare i lavori di motoaratura il cui costo si aggirava sulle venticinque mila lire per ogni lotto di tre ettari, affittò l'intero feudo al solito Giuseppe Genco Russo per due anni consecutivi per lire trentacinque mila annue complessive.
I relativi contratti furono firmati dall'allora presidente dell'Eras professor Zanini e dal direttore generale avv. Arcangelo Cammarata entrambi esponenti della Dc. È da aggiungere che le imposte e le tasse gravanti sul terreno rimasero a carico dell'Eras.
GLI INTERESSI MAFIOSI A MAZZARINO
Operazioni analoghe sono state compiute dall'Eras a favore di altri mafiosi: ai fratelli Cinardo di Mazzarino sono stati concessi in affitto 18 ettari dell'ex feudo Patumeni per lire 28 mila annue, rimanendo sempre a carico dell'Eras le spese di motoaratura e il pagamento delle tasse e delle imposte. Invece per alcuni appezzamenti residui concessi nella stessa zona ai coltivatori diretti l'Eras ha fatto pagare 35 mila lire per ogni lotto di tre ettari; a Mussomeli, l'Eras anzichè gestire in proprio i trattori di sua proprietà, ivi dipponibili, li ha affidati al noto mafioso Castiglione Calogero inteso “farfareddu”. Con questa operazione l'Ente non ha ricavato nulla dalla gestione- suoi mezzi ma, in compenso, ha pagato l'affitto dell'autorimessa ove i trattori quando erano inattivi sostavano per l'importo di 300 mila annue. Detta autorimessa è di proprietà di un cugino del Castiglione, certo Valenza; nel 1959 per l'acquisto degli animali da rivendere agli assegnatari di Mazzarino l'Eras si è servito di un gruppo di mafiosi di Canicattì col risultato che muli scadentissimi venivano fatti pagare agli assegnatari da 130 a 150 mila lire ciascuno.
La protesta degli assegnatari provocò una perizia del veterinario di Mazzarino, il quale stimò il valore dei muli in lire 70 - 80 mila ciascuno. Il procedimento legale che ne è seguito tra assegnatari e Eras si è concluso presso la pretura di Mazzarino con un verdetto favorevole per i contadini. Infatti è stato riconosciuto che il valore dei muli acquistati dall’Eras era notevolmente inferiore a quello corrisposto ai mafiosi di Canicattì.
L’Eras doveva procedere nel feudo Patumeni alla costruzione di un borgo rurale. Il tecnico dell'Eras propose un terreno esteso sette ettari valutandolo un milione e ottocento mila lire. Alcuni mafiosi di Mazzarino intervennero ed ecco i risultati: si reca sul posto il direttore generale dell'Eras, Cammarata; si sceglie per la costruzione del borgo una zona limitrofa di gran lunga peggiore e di minore estensione che viene pagata ben cinque milioni e cinquecentomila lire, esattamente cinque volte in più di quanto sarebbe stato pagato il terreno precedentemente periziato. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Usura, banche e uffici di collocamento per gli “amici degli amici”. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 09 marzo 2022
Le banche sono divenute anche lo strumento attraverso il quale i mafiosi hanno potuto allargare considerevolmente una delle loro losche attività: l'usura. A Caltanissetta, per citare un esempio, uno dei più noti ed esosi usurai è il mafioso Vincenzo Daniele. Costui ottiene notevoli prestiti dalle banche che investe a sua volta in prestiti usurai.
Abbiamo visto come il mafioso Giuseppe Genco Russo sia riuscito ad ottenere con estrema facilità un mutuo di trentacinque milioni dal Banco di Sicilia. Ma il fenomeno non si arresta qui.
Il Genco Russo, insieme ad altri mafiosi, controlla la Cassa per il credito agrario di Mussomeli. Sono facilmente intuibili i sistemi usati nell'esercizio del le operazioni bancarie.
Per eliminare (così si diceva) il dispotismo della cassa per il credito agrario l'on. Alessi favoriva la costituzione in Mussomeli di un'altra banca. Il Genco Russo cercò di ostacolare in tutti i modi questa iniziativa inviando persino un telegramma di protesta alle allora Presidente della Regione on. Majorana della Nicchiara. A favore del Genco Russo furono impegnati alcuni parlamentari democristiani. La pubblicazione del numero della Gazzetta Ufficiale della Regione che riportava l'autorizzazione ad aprire gli sportelli della nuova banca venne bloccata.
Si arrivò addirittura ad una minaccia di una crisi del governo regionale. La nuova banca però non si differenzia molto dalla consorella più anziana. Intanto anch'essa annovera tra i suoi fondatori alcuni mafiosi tra i quali il già ripetutamente citato Beniamino Farina, nipote di Calogero Vizzini.
Le banche sono divenute anche lo strumento attraverso il quale i mafiosi hanno potuto allargare considerevolmente una delle loro losche attività: l'usura. A Caltanissetta, per citare un esempio, uno dei più noti ed esosi usurai è il mafioso Vincenzo Daniele. Costui ottiene notevoli prestiti dalle banche che investe a sua volta in prestiti usurai.
Il Daniele pare che abbia attualmente uno scoperto bancario di oltre venticinque milioni che corrispondono alla somma che lo stesso ha in giro per prestiti ad usura. Altri mafiosi tra i quali gli Anzalone, Ilardo, ecc. favoriti dalle banche sono dediti a questa lucrosa attività. A Vallelunga la cassa di risparmio facilita le grosse operazioni compiute dai mafiosi per la compravendita del bestiame concedendo ampi prestiti ai Malta, ai Madonia, ai Sinatra, ecc.
LE COSCHE E GLI UFFICI DI COLLOCAMENTO
Pochi uffici di collocamento si sottraggono alla pressione della mafia. L'ufficio di collocamento di Riesi è praticamente inesistente. Abbiamo visto come nella miniera Trabia Tallarita le assunzioni diventarono ad un certo momento oggetto della speculazione di un gruppo di mafiosi. Sempre a Riesi il collocamento è deciso dai mafiosi e particolarmente dai Di Cristina.
Le ditte che non vogliono sottostare a certe imposizioni vengono ridotte alla ragione con mezzi adeguati. Vediamo alcuni esempi.
Nel 1959 l'impresa Filippo Giardina di Gela si è aggiudicati i lavori della strada Riesi-Cipolla. Aperto il cantiere si presentò un certo Malaspina con una lettera del Di Cristina che raccomandava l'assunzione del Malaspina come guardiano. L'impresa fece presente che aveva già un suo guardiano. Dopo alcuni giorni quest'ultimo viene bastonato da alcuni sconosciuti.
Successivamente, di fronte all'ostinato rifiuto dell'impresa di assumere il Malaspina, alcuni sconosiuti distruggono nottetempo i lavori di fondamenta iniziati ed alcune opere murarie. L'impresa cede: assume il Malaspina ed altri raccomandati dal Di Cristina, Montana Salvatore, Anzaldi Salvatore, Riccobene, Ministeri Vincenzo (quest'ultimo attualmente in carcere per sfruttamento di donne) ecc.
Costoro venivano pagati regolarmente anche se non sempre presenti al lavoro. In seguito, nel corso di una agitazione dei dipendenti dell'impresa, i mafiosi hanno assolto al loro compito di protezione dell'impresa invitando i lavoratori ed i loro dirigenti sindacali a desistere dall'azione. Non ottenendo l'effetto desiderato arrivarono ad una sparatoria in piazza nel corso della quale rimase ferito l’operaio Pennisi Lorenzo. Gli scioperanti furono licenziati e sostituiti con altri lavoratori.
Per il secondo lotto dei lavori la ditta si è rifiutata di partecipare all'appalto. L'impresa Icori si sostituisce alla ditta Giardina: assume come guardiano il "raccomandato" del Di Cristina Giuliana Gaetano che proprio in quel periodo (otto gennaio 1961) anziché guardare gli impianti e le attrezzature della ditta Icori preferisce recarsi a Vallelunga in funzione di killer per uccidere il mafioso Cammarata Giovarmi e farsi uccidere dallo stesso già mortalmente ferito.
Dopo la morte del Giuliana "gli amici", dopo avere organizzato allo stesso imponenti funerali si preoccuparono di fare assumere dalla Icori un fratello del Giuliana.
La fornitura del materiale e il servizio trasporti sono stati affidati alla Icori, per intercessione dei Di Cristina, ad Anzaldi Salvatore (uno dei guardiani imposti alla ditta Giardina); l'impresa Morello di Catania assume l'appalto per la costruzione di case popolari. È costretta ad assumere come guardiano il mafioso Altovino Salvatore inteso "Passalacqua" (attualmente irreperibile); l'impresa Romano per il rifiuto di assumere il solito guardiano raccomandato subisce atti di vandalismo alle opere ed alle attrezzature ed è costretta a cedere.
A Vallelunga il collocatore è strettamente legato al gruppo mafioso Malta - Madonia - Sinatra e nell'interesse e per conto di essi esercita il collocamento nella più assoluta inosservanza della legge. E' attraverso il collocamento che la mafia a Vallelunga esercita le più dure pressioni nei confronti degli operai e dei braccianti agricoli. La mafia che decide chi deve andare a lavorare, chi deve ottenere il cambio di qualificai chi deve essere iscritto negli elenchi anagrafici.
Uno sgarbo ad un mafioso significa non andare a lavorare, non essere iscritto negli elenchi anagrafici, beninteso quando la mafia non decida punizioni più radicali. A Villalba il collocatore è Ferrera Alfredo, cognato del mafioso Majda Salvatore, II Ferrerà è strettamente legato alla mafia ed ha potuto arricchirsi in pochi anni. È ritenuto il mandante dell'aggressione compiuta dai mafiosi Selvaggio e Favata contro un certo Giglia. Gli uffici di collocamento di Mussomeli, Acquaviva Platani, Sutera sono controllati dalla mafia.
NON SOLO RACCOMANDAZIONI
Su un piano più qualificato la mafia ha operato nel collocamento in enti ed uffici pubblici: all'ente zolfi italiani specialmente nel centro di Terrapelata (Caltanissetta) c'è stata in un certo periodo un'ondata vera e propria di assunzioni di raccomandati dalla mafia, come è stato provato durante il processo intentato dall'on. Volpe, contro l'on. Pompeo Colajanni, processo tendente a provare la qualifica di mafioso data all'on.Volpe. Sono stati assunti anche taluni mafiosi tra i quali Angelo Ilardo già autista di Calogero Vizzini.
Lo Ilardo è attualmente impiegato all’Ezi ed esercita l'usura in società del mafioso Vincenzo Daniele; all'Eras è stato assunto Angelo Annaloro (già imputato dei fatti di Villalba), dopo avere scontato due anni e due mesi di reclusione per un simulato attentato (il noto caso Lespa); all'Assessorato enti locali è stato assunto Giuseppe Farina, nipote di Calogero Vizzini; alla Cassa di Risparmio sono stati assunti due fratelli di Di Cristina notoriamente mafiosi; all'Amministrazione provinciale di Caltanissetta è stato assunto il noto mafioso di Barrafranca Salamone Luigi; ben cinque parenti del mafioso Vincenzo Daniele sono stati assunti al Comune di Caltanissetta; Calogero Castiglione cognato di Giuseppe Genco Russo è stato assunto nel corpo forestale con la mansione di ispettore generale. Anche il Castiglione è un noto mafioso.
Gli esempi potrebbero continuare ed occuperebbero certamente numerose pagine di questo memoriale. Una indagine sulle assunzioni di raccomandati della mafia ed anche di mafiosi stessi negli enti e uffici pubblici metterebbe ancor più in chiaro i collegamenti tra la mafia ed alcuni pubblici poteri.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Prima mafiosi, poi sindaci e poi con onore Cavalieri della Repubblica. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 10 marzo 2022
Alcuni dei personaggi che abbiamo visto dediti alle attività mafiose o di tipo mafioso sono stati insigniti di onorificenza. Calogero Vizzini era cavaliere, Giuseppe Genco Russo è cavaliere della Repubblica.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
In alcuni casi la mafia oltre ad avere il controllo sul collocamento ed elementi di sua fiducia in enti ed uffici pubblici ha assunto direttamente la gestione della cosa pubblica. A Riesi, il mafioso Antonio Di Cristina, componente del comitato provinciale della Dc, è divenuto sindaco del comune.
Il fatto che il partito nel quale militava era in posizione di minoranza nel consiglio comunale non lo ha scoraggiato. La corruzione di alcuni consiglieri eletti nelle liste del Pci e del Psi, una spregiudicata alleanza politica (dal Msi al Psdi) hanno consentito alla mafia di impossessarsi dell'amministrazione del comune di Riesi.
A Villalba primo sindaco del comune è stato, come già abbiamo visto, Calogero Vizzini. Da allora la gestione del pubblico potere in quel comune è stata sempre nelle mani di amministratori politici per lo meno ossequienti alla mafia. Attualmente ben quattro mafiosi, già imputati per lo attentato contro l’on. Li Causi, sono consiglieri comunali della maggioranza DC e precisamente Leone Salvatore, Fratarrico Luigi, Landolina Giuseppe e Scarlata Giuseppe. Il Leone è anche assessore ai lavori pubblici.
A Vallelunga, nell'immediato dopo guerra è stato sindaco il noto mafioso Lillo Malta, figlio del bandito Salvatore. In quel periodo lo stesso bandito, pur risultante detenuto nel carcere di Palermo, assolveva alle funzioni di amministratore dell’Eca. Un esposto inoltrato al prefetto, a suo tempo, da alcuni cittadini contro i criteri faziosi dell'uso dei fondi dell’Eca da parte del bandito-amministratore non si sa quale fine abbia fatto.
Successivamente, l'amministrazione comunale di Vallelunga è stata, salvo qualche intervallo, nelle mani di uomini espressi o sostenuti dalla mafia locale. L'attuale amministrazione è sostenuta dal gruppo mafioso Malta - Madonia - Sinatra. Presidente della Commissione per i tributi locali è il già citato mafioso Lillo Malta.
Tra i consiglieri comunali troviamo Sinatra Calogero, mafioso, componente del consiglio provinciale della Dc. Anche Mussomeli ha avuto sempre amministratori legati in vario modo alla mafia. Lo stesso Genco Russo è stato consigliere comunale insieme a Sorce Salvatore detto "Facciranni" e il già citato Castiglione Calogero detto "Farfareddu", entrambi mafiosi.
UOMINI D’ONORE, MA ANCHE POLITICI
Attualmente presidente del l’Eca è Sorce Giuseppe, ex consigliere comunale, mafioso. A proposito della candidatura del capo mafia Genco Russo nella lista democristiana di Mussomeli dopo che la questione, la sera dell'11 ottobre 1960, fu sollevata alla televisione nella trasmissione di Tribuna elettorale, l'allora segretario provinciale della DC. on. Benedetto del Castillo, si affrettò a rilasciare una dichiarazione alla stampa nella quale affermava: «Si vuole fare assurgere a grande importanza un fatto che non ha suscitato in provincia nessuna impressione e reazione, il sig. Genco Russo era un cittadino come gli altri pertanto aveva il diritto di far parte della lista DC di Mussomeli».
Anche. Campofranco, prima dell'attuale amministrazione popolare, era amministrato da uomini collegati alla mafia.
L'amministrazione provinciale attuale è diretta dal cav. Raffaele Palletta, (fratello di Alfredo Falletta, (noto mafioso), che abbiamo visto implicato nel losco traffico delle false vendite di terre.
II consorzio di bonifica del Tumarrano che opera in un comprensorio di circa 100 mila ettari con un piano di bonifica di oltre 40 miliardi, ha avuto come vice presidente Giuseppe Genco Russo ed ha attualmente come vice commissario Natale Cicero, persona strettamente legata a Genco Russo.
Le casse mutue coltivatori sono state oggetto anch'esse di strategie di conquista da parte di mafioso Per conquistare o mantenere la direzione delle mutue sono state compiute in ogni elezione le più gravi violazioni delle leggi e delle norme di democrazia. Recentemente prima della scadenza dei termini, senza alcun preavviso, sono state effettuate le elezioni in diciannove mutue della provincia (in nessun altro comune d'Italia ancora sono state fatte le elezioni).
Le denunce anche in sede parlamentare contro queste prepotenze mafiose non hanno avuto, purtroppo, nessun esito. Conseguenza di tutto ciò è che la mafia ha nelle mutue coltivatori un altro centro di potere e di pressione politica. Parecchie mutue infatti sono dirette da mafiosi o da elementi legati alla mafia (Mazzarino, Vallelunga, Villalba, ecc.).
Alcuni dei personaggi che abbiamo visto dediti alle attività mafiose o di tipo mafioso sono stati insigniti di onorificenza.
Rileviamo per gli opportuni accertamenti il fatto che Calogero Vizzini era cavaliere, Giuseppe Genco Russo è cavaliere della Repubblica, Faletta Raffaele (quello delle vendite fittizie delle terre) è cavaliere della Repubblica, mentre tale Esposito, mafioso che opera a Caltanissetta, apparentemente addetto alle pubbliche relazioni, pare si faccia chiamare commendatore. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
Quando i mafiosi si iscrivono in massa alla Democrazia Cristiana. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani l'11 marzo 2022.
La DC e il grande apporto di Calogero Vizzini e della mafia. In questo senso che vanno visti l'articolo pubblicato dall'on. Mattarella il 24 settembre 1944 e il discorso pronunciato a Villalba dall'on. Alessi in cui si affermava che «dietro l'illustre e onesto casato della famiglia Vizzini vi era tutta la Democrazia Cristiana».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
L’estensione del fenomeno mafioso nella provincia di Caltanissetta, il dominio che l'organizzazione ha assunto in alcuni gangli vitali dell'economia, il potere che essa ha in enti pubblici, l'immunità da essa praticamente goduta in tanti anni, hanno potuto versificarsi per la forza politica determinante che la mafia ha nella provincia di Caltanissetta. E non si tratta solo di forza derivante da appoggi elettorali, dati e poi compensati, ma anche di una compenetrazione tra classe dirigente Dc e mafia con la direzione di sezioni Dc e al livello provinciale.
Dalle prime incertezze circa l'orientamento politico da assumere, nell'immediato dopo guerra la mafia uscì quasi subito per iniziativa di Calogero Vizzini. Già verso la fine del 1944 Calogero Vizzini orientò decisamente le sue preferenze politiche verso la Dc.
Questo partito, nelle sue sfere provinciali e regionali, ben comprese il grande apporto che alle fortune politiche dei dirigenti e del partito stesso poteva arrecare l'orientamento di Calogevo Vizzini e perciò della mafia in generale, e non esitò ad accogliere i mafiosi nelle sue fila.
E in questo quadro che vanno visti l'articolo pubblicato dall'on. Mattarella il 24 settembre 1944 in cui si prendono le difese dei mafiosi aggressori di Villalba e il discorso pronunciato a Villalba nel 1947 dall'on. Alessi in cui l'oratore affermava che «dietro l'illustre e onesto casato della famiglia Vizzini vi era tutta la democrazia cristiana».
Dopo l'aperta presa di posizione politica di Calogero Vizzini per la Dc, tutti gli altri esponenti della mafia si affrettarono ad entrare in quel partito raggiungendo rapidamente posti di direzione in sede locale e provinciale. A Villalba, praticamente, l'intera mafia entrò nella Dc.
A Vallelunga Lillo Malta passò alla Dc con tutto il suo seguito: i Madonia, i Sinatra, ecc., anche il gruppo Cammarata passò alla Dc. A Mussomeli Genco Russo e tutto il suo seguito si iscrissero nella Dc assumendo la direzione della sezione.
Il processo continuò e si sviluppò con ritmo impressionante: i Di Cristina assumono la direzione della sezione di Riesi; i Cinardo quella di Mazzarino; i Samperi quella di Niscemi; i Valletta quella di Campofranco; i Vario quella di Acquaviva Platani e così via in quasi tutta la provincia.
Di conseguenza la direzione provinciale Dc, ha finito col subire le influenze decisive della massiccia presenza della mafia nelle sezioni locali.
I MAFIOSI NELLA DC DI CALTANISSETTA
Sono stati e sono dirigenti provinciali della Dc di Caltanissetta mafiosi di grande rilievo come: Calogero Vizzini, Genco Russo (è stato segretario amministrativo), Beniamino Farina, Calogero Sinatra, Antonio Di Cristina, Ludovico Cinardo, Angelo Annaloro e numerosi altri.
Un esame dei componenti il consiglio provinciale della Dc succedutisi in tutti questi anni nel dopo guerra darebbe materiale di seria riflessione sulla ipoteca che la mafia ha mantenuto, e tuttora conserva in questo partito nella provincia di Caltanissetta.
Né si può dire che si tratti di elementi sconosciuti come mafiosi che di soppiatto si sono infiltrati nel le file della Dc e nei suoi organi dirigenti locali e provinciali. Infatti si tratta di persone che sono note a tutta l'opinione pubblica come mafiose.
D'altra parte non sono mancate denunce esplicite della presenza di mafiosi in detto partito. Ripetutamente in comizi e manifesti la Dc è stata invitata a disfarsi di così triste convivenza. Nell'ultima campagna elettorale l'on. Volpe venne invitato in tutti i comizi a dichiarare se: a) rigettava i voti ed ogni appoggio della mafia; b) condannava la mafia come fenomeno delittuoso che andava estirpato; e) avrebbe appoggiato in tutti i modi la Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia. L’on. Volpe non rispose a questi inviti, anzi a Mazzarino osò addirittura fare l'apologia della mafia (distinguendola dalla delinquenza) e considerando il mafioso "uomo rispettabile e d'onore".
[…] I comunisti e con essi i socialisti hanno sempre posto l'accento sulla necessità per le forze democratiche cristiane di liberarsi dai collegamenti con la mafia. La collusione del quotidiano Sicilia del Popolo, almeno fino al 1950, trasuda di attacchi alla diffamazione social-comunista contro la Dc, ma nello stesso organo di stampa è possibile notare l'elezione alle cariche provinciali di ben note figure della mafia. Occorre dire che oggi si fa strada anche nei giovani democristiani della provincia la esigenza di una rottura almeno con gli elementi maggiormente compromessi con la mafia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. L’omicidio di Accursio Miraglia, impunità per assassini e mandanti. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 12 marzo 2022
Nel 1946 si registrarono in provincia di Agrigento tre gravissimi delitti: il tentato omicidio del segretario della Camera del Lavoro di Burgio, Antonino Guarisco, l'omicidio del sindaco socialista di Naro, Pino Camilleri; l'omicidio del vicesindaco socialista di Favara, Gaetano Guarino. Nell'attentato di Burgio rimase uccisa una donna incinta. Ma la mafia agrigentina stava organizzando un delitto destinato ad assumere un rilievo e un significato politico più ampio.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Nel 1946, l'anno in cui la vita democratica riprese nel pieno delle sue forme con le prime elezioni politiche e amministrativo, si registrarono in provincia di Agrigento tre gravissimi delitti di indubbia natura politica e di altrettanto indubbia impronta mafiosa: il tentato omicidio del segretario della Camera del Lavoro di Burgio, Antonino Guarisco (3 febbraio '46) l'omicidio del sindaco socialista di Naro, Pino Camilleri (28 giugno 1946); l'omicidio del vicesindaco socialista di Favara, Gaetano Guarino (14 luglio 1946).
Nell'attentato di Burgio rimase uccisa una donna incinta. Di nessuno dei tre delitti sono stati scoperti gli autori. Ma la mafia agrigentina stava organizzando un delitto destinato ad assumere un rilievo e un significato politico più ampio. Nei primi dell'anno successivo il 4 gennaio '47 viene ucciso a Sciacca il Segretario di quella Camera circondariale del Lavoro: Accursio Miraglia.
Il delitto destò enorme indignazione. La vittima era una personalità conosciuta e popolare anche al di fuori del Comune, nella provincia e nella regione.
Egli aveva diretto l'azione dei contadini che reclamavano in base alle leggi Gullo, la concessione di estesi possedimenti latifondistici mal coltivati gestiti da gabelloti mafiosi in tutto il circondario del Tribunale di Sciacca (presso ogni tribunale esisteva allora, come è noto, una commissione per 1'assegnazione delle terre). Bisognava infliggere un colpo al movimento dei contadini di Sciacca, Ribera, Menfi, S.Stefano, Bivona, S.Margherita, Sambuca ecc., come dire una delle zone più avanzate di tutto il movimento contadino siciliano dove Miraglia rappresentava l'animatore, l'uomo di punta.
Dopo l'attentato di Villalba a Li Causi, era questa la più grave sfida al movimento contadino e democratico di sinistra. I contadini dell'agrigentino erano decisi a passare a rappresaglia di massa contro gli agrari e contro i gruppi mafiosi della provincia responsabili materiali e morali dell'assassinio di Miraglia e dei precedenti delitti; e fu con grande senso di responsabilità e dando prova di grande capacità politica e organizzativa che i sindacati e i partiti dei lavoratori riuscirono ad incanalare la protesta entro i termini di una possente e democratica pressione popolare rivolta ad ottenere dal nuovo Stato repubblicano che aveva dato ai contadini nuove leggi per la terra, giustizia nei confronti di quelle forze del feudo e della mafia che per ostacolarne l'applicazione non esitarono a ricorrere all'assassinio.
Un'esemplare condanna avrebbe significato una completa saldatura nell'azione del nuovo stato, l'impunita degli assassini sarebbe stata invece la prova che nulla era mutato, ma che anzi nei momenti decisivi, lo Stato assumeva lo stesso volto che sempre nella nostra provincia i contadini e il popolo avevano conosciuto.
LE INDAGINI DEL COMMISSARIO TANDOJ
Come sempre avviene nei delitti di mafia, i nomi dei mandanti e degli esecutori materiali erano facilmente individuabili (se non lo fossero del resto, il delitto di mafia perderebbe gran patte della sua efficacia intimidatoria). Poco dopo il delitto per la prima volta in un caso del genere, la polizia riuscì a condurre in porto le indagini identificando e arrestando non solo i presunti autori ma anche i mandanti del crimine (fu una delle prime esperienze del Commissario Tandoj all'inizio della sua carriera).
Questi però furono successivamente assolti essendosi ritenute le confessioni rese all'autorità inquirente estorte con la violenta e pertanto a loro volta gli inquirenti furono sottoposti a procedimento penale. Senonché anche questo procedimento penale si concluse con una assoluzione. Il caso è dunque ancora aperto dato che ci si trova dinnanzi a due sentenze tra loro in aperta contraddizione.
Ma nonostante le ripetute e autorevoli sollecitazioni, la competente autorità giudiziaria non ha mai provveduto a rinnovare il procedimento a carico delle persone accusate dell'omicidio. Chi sono costoro? Quale organizzatore del delitto la polizia indicò tale Carmelo Di Stefano nativo di Favara. Costui viene oggi considerato dalla voce pubblica come il capo della mafia di Sciacca e dintorni.
Un suo fratello a nome Giovanni è considerato come uno dei capi mafia di Favara. Un terzo fratello fu tempo fa ucciso, sempre a Favara. Il suo assassino fu a sua volta ucciso e il Carmelo Di Stefano fu sospettato di quest'ultimo delitto. Giunto a Sciacca senza personali basi di fortuna egli è diventato nel giro di pochi anni una delle persone più facoltose della città. All'epoca dell'assassinio del sindacalista Accursio Miraglia era amministratore dei possedimmnti agricoli del latifondista Enrico Rossi.
Arrestato sotto l'accusa di correità nel delitto fu scagionato, una prima volta dopo aver presentato un alibi basato su un certificato medico rilasciato dal dott. Raimondo Borsellino dell'Ospedale di Sciacca (successivamente eletto deputato nella lista della DC). Fu poi di nuovo arrestato e ancora rilasciato questa volta a quanto si dice per intervento dell'ispettore di PS, Messana.
Da allora le fortune personali di Carmelo Di Stefano sono salite alle stelle: appaltatore di lavori pubblici, proprietario di macchine per costruzioni stradali (è fra l'altro l'appaltatore consuetudinario della manutenzione del tratto Ribera-Sciacca-Menfi), costruttore di palazzi a Sciacca, titolare di crediti bancari. Gode di altolocate amicizie politiche fra cui l'on. Gaetane Di Leo che egli appoggia calorosamente nelle campagne elettorali.
LA MAFIA A SCIACCA
La pubblica opinione fra gli attuali capi di mafia di Sciacca indica anche Francesco Segreto che fu arrestato (e poi scagionato) assieme a Carmelo Di Stefano sotto l'accusa di concorso nell'omicidio di Accursio Miraglia. Anche il Segreto ha ora raggiunto una considerevole posizione economica personale pur partendo dalla modesta condizione di autista di piazza.
Proveniente da una famiglia di noti mafiosi (il padre fu condannato all'ergastolo e poi graziato) il Francesco Segreto, dopo l'episodio Miraglia, si occupò attivamente di compravendita di terre per le più soggette alla riforma agraria lucrando nella intermediazione e accumulò così notevole patrimonio. Da circa tre anni si è trasferito a Palermo dove ufficialmente si occupa di compravendita di automobili usate.
[...] Le prime indagini della polizia sul delitto Miraglia indicarono come uno degli esecutori materiali tale Marciante Pellegrino da Caltabellotta, anche egli successivamente scagionato. Uomo senza professione ormai in precarie condizioni di salute, continua a vivere ozioso e tranquillo grazie a redditi economici di ignota provenienza. Un altro degli imputati, infine, tale Gurreti, proprio nel periodo successivo all'approvazione della legge istitutiva dalla On.le Commissione Parlamentare, cui il presente memoriale è indirizzato, è pacificamente emigrato la America.
A molti anni di distanza un altro delitto che presenta molte analogie con l'assassinio di Miraglia, anche se ebbe minore ripercussione politica, ebbe luogo a Lucca Sicula dove il 27 settembre del 1960 fu ucciso con due fucilate a lupara il Segretario di quella Camera del Lavoro Paolo Bongiorno. La vittima di questo delitto era un onesto lavoratore, da tutti stimato, e un valoroso dirigente sindacale. Proprio in quei giorni era stato incluso quale candidato nella lista del PCI per le imminenti elezioni amministrative. La lista contrapposta era formata dalla unione della DC con il MSI. Gli assassini non sono stati mal scoperti. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Quattro delitti “politici” e le faide dentro la mafia di Agrigento. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 13 marzo 2022
In conseguenza e parallelamente allo spostamento verso il partito della DC a partire dal 1948 e per oltre un decennio si verifica una progressiva infiltrazione della mafia in quasi tutte le attività economiche della provincia e nei gangli amministrativi e politici. Ma il fenomeno non si sviluppa pacificamente: insorgono contrasti a volte violentissimi fra gruppi concorrenti alla scala tanto locale che provinciale.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
In conseguenza e parallelamente allo spostamento verso il partito della DC a partire dal 1948 e per oltre un decennio si verifica una progressiva infiltrazione della mafia in quasi tutte le attività economiche della provincia e nei gangli amministrativi e politici. Ma il fenomeno non si sviluppa pacificamente: insorgono contrasti a volte violentissimi fra gruppi concorrenti alla scala tanto locale che provinciale.
Accanto ai delitti di ogni genere (furti, danneggiamenti, estorsioni, rapine, sequestri di persona, omicidi e ferimenti) a danno di pacifici cittadini si moltiplicano così i delitti causati da interne rivalità. In queste quadro si collocano un gruppo di gravissimi delitti che per le loro modalità e per la personalità delle vittime non hanno riscontro in nessun'altra provincia siciliana.
Ci riferiamo ai quattro ragguardevoli esponenti della Democrazia Cristiana uccisi in circostante ancora misteriose nella provincia di Agrigento: l'avv. Vincenzo Campo, segretario regionale della DC e candidato alle elezioni per la Camera, fulminato a colpi di mitra al confine della provincia il 22 febbraio 1948 mentre percorreva la strada Alcamo-Sciacca su un furgoncino pilotato dal figlio che rimase anch'egli ferito; Eraclide Giglio di 74 anni, sindaco di Alessandria della Rocca, candidato alle elezioni regionali, ucciso l'8 maggio 1951 sulla soglia della sua casa; Vito Montaperto di 27 anni, segretario provinciale della DC, ucciso nei pressi di Palma Montechiaro mentre viaggiava su una macchina in compagnia degli onn.li Di Leo e Giglia; Giovanni Guzzo, vicesindaco di Licata freddato con tre colpi di pistola il 18.1.1955 dentro i locali del Consorzio Agrario di quella città.
Anche per questi gravissimi delitti le indagini della polizia non hanno approdato ad alcun risultato. Tutto lascia pensare che un meditato riesame dei relativi fascicoli possa suggerire una serie di illuminanti filoni da seguire in vista di una più approfondita conoscenza del fenomeno mafioso quale si manifesta nella provincia di Agrigento. E ciò, sia considerando le possibili causali della loro soppressione che la personalità delle vittime.
TRE POLITICI “COLLUSI”
A parte l'avv. Campo, che era originario di altra provincia e veniva alla politica dopo essere stato organizzatore e dirigente dell'Associazione Cattolica, gli altri tre esponenti della DC uccisi erano tutti e tre di indubbia appartenenza al mondo mafioso. 1) Eraclide Giglio, sindaco di Alessandria della Rocca, era un vecchio autorevolissimo capo mafia della zona. Nei primi anni del dopoguerra sosteneva la Democrazia del Lavoro, finché questo movimento politico non arrivò a disgregarsi. Passò allora alla Dc, ma mai fino al 1951 si era esposto in una campagna politica al di fuori dell'ambito assolutamente sicuro del suo Comune.
A quanto pare la sua candidatura, quale diretto esponente della mafia, fu decisa e imposta dalla Dc nel corso di una riunione di capi mafiosi svoltasi in una chiesa di Aragona nella primavera del '51. La sua elezione veniva data per certa e solo la sua eliminazione lasciò libero ad altri il posto che gli era predestinato all'Assemblea Regionale. È interessante notare che le indagini sul delitto furono svolte dal Commissario Tandoj il quale era riuscito ad identificare i materiali esecutori, ma non fece in tempo ad arrestarli perché i due sicari ingaggiati in un altro comune - sospettati furono trovati a loro volta uccisi.
C’è da chiedersi a questo punto se le indagini della polizia si arrestarono di fonte a quei due nuovi cadaveri o se proseguirono, e con quale esito, in direzione dei mandanti e del movente. 2) Vito Montaperto, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, apparteneva ad una famiglia di Campobello di Licata notoriamente mafiosa. Suo padre, che era considerato il capo mafia della zona, fu ucciso per mano di tale Gaetano Velia finito poi in manicomio.
Al momento della inumazione della salma del Montaperto padre, si verificò un episodio che tinge di grottesco il tragico susseguirsi delle vicende che stiano esponendo: il loculo destinato al Montaperto nel cimitero di Campobello di Licata fu trovato occupato da una salma estranea che si scoprì essere quella del noto latifondista Saeli sottratta tempo prima dalla tomba di famiglia a scopo di ricatto e di intimidazione.
Anche della singolare vicenda della salma trafugata si era a suo tempo occupato il commissario di P.S. Tandoj. Un fratello del Vito Montaperto, a nome Calogero, per avere ucciso a sangue freddo un bracciante per una questione di precedenza in un locale pubblico, ha fatto alcuni anni di carcere. Tornato in libertà è attualmente considerato un elemento fra i più autorevoli nell'ambito della mafia, Nonostante i suoi precedenti penali gestisce appalti ferroviari di una certa mole.
Vito Montaperto, divenne segretario provinciale della Dc in sostituzione del suo predecessore e compaesano, l'avv. Luigi Giglia, che era riuscito a farsi eleggere deputato al posto dell'on.Gaspare Ambrosini, attuale Presidente della Corte Costituzionale, cui nulla era valsa l'altissima dottrina e la personale probità di fronte alle altre attitudini del suo giovane competitore.
LE INDAGINI DEL COMMISSARIO TANDOJ
Anche a proposito dell'uccisione di Vito Montaperto è interessante notare che delle relative indagini si occupò il Commissario di P.S. Cataldo Tandoj, senza però approdare a nessun concreto risultato.
Egli a quanto pare riuscì ad identificare i misteriosi banditi che la sera del 14 settembre fermarono nei pressi di Palma Montechiaro la macchina sulla quale il giovane segretario della Dc agrigentina rientrava assieme agli onn.li Di Leo e Giglia da Gela dove i tre avevano reso visita all'on.le Aldisio. Com'è noto costretti i tre viaggiatori a faccia a terra un solo colpo partì dalla pistola di uno dei banditi che trapassò il collo della vittima fulminandolo.
Sull'episodio il Commissario Tandoj ebbe occasione di interrogare i compagni di viaggio dell'assassinato, ma non si è mai saputo quali concreti elementi utili al fini delle indagini egli abbia raccolto. 3) Anche la terza vittima della serie Vincenzo Guzzo, era considerata fra le personalità più in vista della mafia di Licata nel cui seno, negli anni seguenti si scatenarono sanguinose lotte nel corso delle quali furono trucidati molti altri esponenti di primo piano (Lauria, Antona, La Rocca).
Vincenzo Guzzo era Vice-Sindaco di Licata, agente del locale Consorzio agrario, Presidente del l'Unione Provinciale delle Cooperative. Il suo passato era burrascoso. Era anche emigrato clandestinamente in America. L'esecutore materiale fu visto da parecchi testimoni però le indagini della polizia non andarono a fondo, affidate come furono al solito commissario Tandoj.
Guzzo fu assassinato alla vigilia delle elezioni del '55, egli era uno dei possibili candidati della DC con probabilità di riuscire data l'antica aspirazione municipalistica del grosso centro di Licata, e i legami che aveva con organizzazioni di carattere provinciale.
Fu ucciso mentre esplodeva la crisi tra due frazioni democristiane al comune di Licata. Era collegato alle vicende della forte pressione mafiosa sui mercati del pesce e soprattutto sui mercati ortofrutticoli (Licata è un centro di larga produzione di piselli primaticci per un valore annuo di alcuni miliardi). Fra le carte rimaste nella scrivania di casa sua fu trovato l'inizio di una lettera cosi concepita: "Caro Presidente gli amici dell'altra sponda mi minacciano, non so come comportarmi". Quando fu ucciso era armato di pistola con il proiettile pronto per sparare.
[…] Le caratteristiche di questi delitti, per la personalità delle vittime, per le modalità di esecuzione, per il tipo di indagini cui diedero luogo, per l'omertoso riserbo dal quale furono accolti nelle sfere ufficiali del partito a cui le vittime appartenevano e che è il partito che ininterrottamente ha governato il paese, hanno suscitato e suscitano molti interrogativi. […]. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Il caso Tandoj, l’omicidio senza colpevoli di un commissario di polizia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 14 marzo 2022
II caso Tandoj rappresenta il simbolo e l'emblema di una situazione intollerabile. Il dottor Querci, Prefetto di Agrigento, all'epoca del delitto afferma: «Tandoj era un bravo funzionario rispettato da tutti. La mafia non ha mai dato fastidio alle autorità e meno che mai ai poliziotti. [...] E poi, mi dite dov'è questa mafia? Dove sono questi delitti mafiosi?»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
II caso Tandoj rappresenta il simbolo e l'emblema di una situazione intollerabile. Abbiamo visto in precedenza, come il nome del commissario Tandoj venga continuamente chiamato in causa a proposito di tutti i gravi delitti politici avvenuti nella provincia e persino figuri – come nel caso Gioia Genco Russo – come consigliere di affari dal tipico carattere mafioso.
Tandoj, giunse in provincia di Agrigento all'inizio della sua carriera e si trovò quasi subito di fronte al delitto Miraglia. Forse egli cercò di fare il suo dovere ma l'esito del suo zelo è noto.
Fu sottoposto assieme ad altri funzionari ed agenti di polizia ad un procedimento penale per le presunte violenze esercitate a carico dei mafiosi arrestati quali sospetti assassini. Il fatto amaro e deludente peserà, senza dubbio, in termini decisivi sull'orientamento futuro e sulla condotta di questo funzionario che per circa 14 anni ancora opererà e sarà presente con la sua attività investigativa in tutti i casi delittuosi della provincia di Agrigento.
[…] Da allora in poi il commissario Tandoj agisce come se volesse solo esercitare la sua bravura e il suo intuito, scoprirà ogni segreto delittuoso e ogni crimine. Ma con lui la giustizia non farà più il suo corso. Dopo la prima delusione ed esperienza di una società corrotta, si apre per lui uno dei capitoli più incredibili delle connivenze tra i poteri dello Stato e il mondo criminale della provincia di Agrigento.
La figura di Tandoj e la sua “funzione” nel campo dei poteri tra mafia e apparato statale era nota a tutti. Ma il dr. Querci, Prefetto di Agrigento, all'epoca del delitto si affretta a rilasciare al quotidiano catanese “La Sicilia” del 17 aprile 1960 la seguente dichiarazione: «Secondo me è un fatto di alta malavita, ma non di mafia. Tandoj era un bravo funzionario rispettato da tutti. La mafia non ha mai dato fastidio alle autorità e meno che mai ai poliziotti. Essa d'altra parte non ha bisogno di ricorrere al delitto per farsi rispettare. E poi, mi dite dov'è questa mafia? Dove sono questi delitti mafiosi? Ad Agrigento e nella provincia abbiano delle rapine e ogni tanto un omicidio che avviene per motivi di interesse o per motivi d'onore. Dunque lasciamo perdere i romanzi e le storie d'altri tempi. La polizia, secondo me, è sulla strada giusta. Datele tempo e vedrete che non fallirà il colpo». Questa dichiarazione si commenta da sé e getta una vivida luce sull'orientamento del più elevato funzionario dello Stato della Provincia.
LA PISTA PASSIONALE
[…] Ritornando al caso Tandoj ed ai suoi sviluppi complessi e sconcertanti, vediamo posti in luce alcuni aspetti tra i più gravi e preoccupanti dei rapporti creatisi tra mafia e apparato statale nella provincia di Agrigento.
Si consideri, quale fu il comportamento della Questura di Agrigento subito dopo l'uccisione del commissario Tandoj, che per 14 anni era stato uno dei suoi funzionari più in vista e solo da poco tempo trasferito a Roma.
Nelle prime ore vi fu sbandamento e confusione e in quei giorni di fronte alle prime indiscrezioni propalate da una parte della stampa sulla vita privata del dr. Tandoj, la Questura di Agrigento nulla fece per difendere la memoria del commissario ucciso da una parte, né dall'altra parte confermò o smentì la gravissima notizia secondo cui il Tandoj aveva condotto delle indagine personali per identificare l'autore di un furto di 6 milioni verificatosi alquanto tempo prima della sua uccisione nei locali del Comando delle guardie di Ps di Agrigento.
Poco dopo però i funzionari della Questura di Agrigento, mentre i carabinieri restavano apparentemente inattivi, indirizzarono decisamente le loro ricerche su una sola pista ben definita, quella del delitto “passionale” che - seguiti in ciò dal magistrato inquirente - doveva portare alla incriminazione del noto esponente democristiano prof. Mario La Loggia quale mandante dell'omicidio, incriminazione successivamente sfumata nel nulla con una sentenza istruttoria di non luogo a procedere.
È stato più volte affermato sulla stampa ed è opinione quasi generale che ad indirizzare le indagini verso la falsa pista del delitto passionale sia stato non già un errore degli inquirenti, ma il malizioso disegno, ispirato persino da alte sfere, tendente assieme a fuorviare le indagini dalle reali causali del delitto.
Ora, a parte tutte le possibili considerazioni sulle deficienze logiche e tecniche di quelle indagini, quel che qui preme rilevare è come in quell'errata impostazione delle indagini l'unico punto solido perché fondato su una, purtroppo, indubbia veridicità fosse costituito dagli effettivi rapporti esistenti fra un alto esponente politico, quale il prof. La Loggia (consigliere comunale Dc, direttore all'ospedale psichiatrico, fratello di un ex presidente della Regione) e gli elementi mafiosi indicati quali esecutori materiali e pratici organizzatori del crimine.
Fu lo stesso prof. La Loggia che al tempo del suo arresto dichiarò per difendersi dall'accusa che col presunto sicario, il pregiudicato Calacione di Favara, non aveva avuto contatti “dal tempo dello ultime elezioni”, fornendo con ciò una sconcertante testimonianza diretta dei sistemi usati anche dalla sua clientela politica nelle battaglie elettorali.
Del resto non è senza significato che un altro dei sospettati quale complice del delitto, fermato e poi rilasciato, un tale Alfano, fosse membro del comitato direttivo di una sezione democristiana di Agrigento e attivo capo elettorale della famiglia La Loggia.
D’altra parte sul diretto intervento dello forze mafiose nelle competizioni elettorali, proprio recentemente è stato gettato un fascio di luce con la pubblicazione delle memorie del noto gangster Nik Gentile il quale descrive come organizzò il suo appoggio alla candidatura dell'on. La Loggia in una campagna elettorale ragionale.
UN OMICIDIO MAI CHIARITO
A proposito delle indagini per il delitto Tandoj è da notarsi che, imbroccata la falsa pista del delitto passionale si trascurò tanto da parte della polizia che della magistratura di riconsiderare tutti gli episodi di criminalità mafiosa di cui il Tandoj si era occupato nel corso della sua attività al servizio della questura di Agrigento, tra cui i delitti politici sopra ricordati, da quello di Miraglia a quelli dei dirigenti democristiani Giglio, Montaperto, Guzzo, fino alla catena dei delitti di Raffadali e al sequestro Agnello.
Questi ultimi in particolare erano stati rievocati subito dopo il delitto Tandoj e in connessione con esso da alcuni organi di stampa della sinistra. Concluso con un nulla di fatto il procedimento contro il prof La Loggia e i suoi presunti complici, dopo un lungo periodo di silenzio, le indagini furono riprese e condotte ad uno stadio molto avanzato dal dr. Fici, sostituto procuratore di Palermo. Frattanto un certo rinnovamento di quadri era stato effettuato nella Questura di Agrigento.
Ma questo non ha migliorato la situazione, ancora una volta uno scuro succedersi di gravi interferenze hanno ostacolato la ricerca della verità il che ha confermato nell'opinione pubblica la dolorosa convinzione dell'impossibilità di portare a fondo l'opera della giustizia quando si tratti di colpire delitti o interessi mafiosi. I fatti, ancora recenti sono noti.
Quel che è sintomatico è il ricomparire in essi due tipici elementi già presenti nella prima fase delle indagini: i rapporti tra ambiente mafiosi, ambienti politici e organi dello Stato (impersonati ora dalla singolare figura del cosiddetto prof. Di Carlo di Raffadali, esponente mafioso e nello stesso tempo segretario della locale sezione Dc, ex giudice conciliatore, confidente patentato dei Carabinieri) ricevono una nuova conferma.
II conflitto di indirizzo tra Questura e Comando dei Carabinieri esplode ancora una volta davanti all'opinione pubblica. Ma l'elemento più grave è costituito in questa ultima fase dall'aperto contrasto tra la Questura di Agrigento e il magistrato incaricato dal procuratore generale della Corte d'Appello di Palermo di contro le nuove indagini, il dr. Fici.
[…] Questo contrasto si conclude inaspettatamente con l'esonero del dr. Fici dall'incarico avuto e la restituzione della “pratica” Tandoj al magistrato locale.
[…] Se la questura di Agrigento ha assunto nei confronti del magistrato inquirente le posizioni che ha assunto è segno che si sente le spalle coperte da forze ben più potenti. E qui il discorso cade sull'aspetto più inquietante e grave della situazione, l’anello mafia -politica -apparato statale non si salda ad Agrigento, ma a Palermo e soprattutto a Roma dove risiedono gli organi che per 14 anni hanno lasciato che il commissario Tandoj sviluppasse la sua oscura azione, che inviano nella provincia i vari prefetti guerci dove hanno le loro radici i conflitti di competenza tra i vari organi dello Stato con i risultati che abbiamo visto. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. La guerra dei “giovani leoni” per prendersi la capitale della Sicilia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 16 marzo 2022.
I gruppi mafiosi si trovano ad agire su un terreno nuovo, dove le vecchie spartizioni d'influenza non sono più cristallizzate e dove è ancora da decidere la fetta di bottino, il quartiere, il rione, il settore d'attività, l'ampiezza e l'importanza che le varie cosche riusciranno ad assicurarsi. I "giovani leoni" della mafia si scatenano per la conquista delle posizioni di potere all'interno della malavita. È una lotta che si svolge a colpi di lupara, di mitra e di cariche di tritolo.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Se la Commissione antimafia e l'operazione antimafia sapranno fare questo, ed allora la piaga sarà eliminata in Sicilia; ma se i mafiosi di alto rango verranno disturbati solo per fornire notizie utili a mandare in galera i mafiosi di basso rango - restando essi impuniti - allora tutto resterà come prima anche se molti ignobili individui, colpevoli di avere praticato la mafia “esplosiva” sconteranno qualche anno di detenzione. E anche la commissione antimafia avrà fatto la mafia.
In altri termini, il “Giornale di Sicilia” pone il problema del rapporto tra cosche mafiose e mondo politico ed economico palermitano, del rapporto tra la mafia e la struttura della società palermitana
Ed è da qui che, secondo noi comunisti, si deve partire per delimitare ed identificare la mafia palermitana.
In questo rapporto va cercato il nesso, il filo di collegamento tra le attività mafiose e le esplosioni delinquenziali, tra i centri di potere delle cosche rivali e la spartizione delle sfere d'influenza, tra la “urbanizzazione” della mafia e la proliferazione mafiosa a tutti i livelli.
Nel corso degli ultimi dieci anni, Palermo ha conosciuto un profondo processo di trasformazione che essenzialmente ha investito:
a) il rapporto città-campagna
b) l'espansione edilizia e commerciale della città.
UNA “NUOVA MAFIA”
Parallelamente a tale processo, il centro dell'attività mafiosa si è spostato dalla provincia alla città, investendo globalmente il settore terziario, cioè i servizi.
Si veda - scrive “Mondo Economico”, la più autorevole rivista italiana di economia - quale ampia proliferazione la mafia abbia ora irretito e stia irretendo nella vita palermitana; taglie sulle aree fabbricabili, commercio degli elettrodomestici, garage, fornitura di materiale e derrate per gli ospedali, gli enti pubblici e le ditte private, cantieri di Palermo, pompe di benzina, licenze commerciali, collocamento della mano d’opera specialmente come guardianaggio, portieri di nuovi stabili, posteggiatori, custodi nei cimiteri, frequentemente anche mediazione e taglie nel collocamento degli impiegati, e non è stato trascurato il controllo del carcere, il famoso Ucciardone, e neppure la industrializzazione del prossenetismo a carico delle prostitute; ma questa è una fascia d'azione a basso rango, più in su sembra si tocchi anche l'erogazione dei crediti di favore, la concessione dei contributi statali e regionali, la scelta delle aree industriali, la fornitura di mano d'opera di imprese extra siciliane, la concessione di linee di trasporto. Ed è evidente l'impronta della mafia nelle gare per gli appalti e nel dominio di alcuni consorzi di bonifica e delle derivazioni di acqua.
Lo spostarsi dei centri economici dall'attività mafiosa, precedentemente alle grandi lotte contadine contro il feudo individuabili nelle posizioni di controllo sui mezzi di produzione dell'economia rurale (proprietà terriera), dalle campagne verso attività parassitarie collegate al processo di urbanizzazione, e cioè il taglieggiamento sui servizi, sul ruolo urbano, sui mezzi di produzione industriale della collettività e di privati, sul commercio, non poteva non accompagnasi ad un progressivo radicalizzarsi del carattere delinquenziale delle cosche mafiose.
I gruppi mafiosi si trovano infatti ad agire su un terreno nuovo, dove le vecchie spartizioni d'influenza non sono più cristallizzate e dove è ancora da decidere - anzi si decide appunto in questi anni - la fetta di bottino, il quartiere, il rione, il settore d'attività, l'ampiezza e l'importanza che le varie cosche riusciranno ad assicurarsi.
E' una occasione accanto ai vecchi “pezzi da 90”, i “giovani leoni” della mafia si scatenano per la conquista delle posizioni di potere all'interno della malavita. È una lotta per il potere che si svolge a colpi di lupara, di mitra e di cariche di tritolo. È una lotta il cui salto dipende però anche dalle connivenze, dagli appoggi e dalle complicità che alle varie cosche vengono assicurati nei centri vitali della società palermitana, politici ed economici.
Ed ecco che la radicalizzazione del carattere delinquenziale delle attività mafiose si accompagna alla proliferazione dei collegamenti mafiosi nei centri di direzione dei servizi urbani, dell'utilizzazione del suolo urtano, del commercio e dell'industria: enti pubblici, istituti di credito, camera di commercio, e, prima di tutti, Municipio.
ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Salvo Lima e il “suo” partito che cambiò per sempre Palermo. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 17 marzo 2022.
Si passa dagli affari mafiosi della miserabile Palermo monarchica, all'industrializzazione dell'attività mafiosa. Questo processo va avanti parallelamente ad un processo politico quanto mai sintomatico: la formazione della "legione straniera" di Lima. Un gruppo consigliare composto da uomini di qualsiasi provenienza, transfughi da qualsiasi partito, unito e tenuto insieme da un'unica prospettiva: il potere e poter mantenere il potere.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Palermo non è certamente il solo caso di caotica espansione urbana avvenuto in Italia nell'ultimo decennio. Però questo processo avvenuto anche a Roma, a Milano, in molti grandi comuni italiani, qui è stato caratterizzato da un elemento originale, cosi che una organizzazione preesistente ha trovato tutte le condizioni per insinuarsi in questo sviluppo della città ed acquistare caratteristiche di compenetrazione organica.
Quando affermiamo che la mafia ha colto l'occasione del caos che si è verificato nell'incremento edilizio e demografico di Palermo per inserirsi in tutte le attività economiche della città, non vogliamo dire che la mafia a Palermo l'ha portata l'ex sindaco democristiano della nostra città dr. Lima, che della politica comunale di questi anni è stato e rimane il più alto esponente e ispiratore.
È un fatto però che il Comune di Palermo, ha seguito, nel corso del processo di trasformazione urbana cui accennavamo più sopra, una linea politica secondo scelte precise rispondenti a una determinata concezione dello sviluppo di questa città.
Questa linea politica, oggettivamente non è stata di oggettivamente non è stato di ostacolo alla proliferazione mafiosa, ma anzi ha favorito il crearsi di condizioni obiettive favorevoli alla compenetrazione organica, al passaggio dalla fase della mafia rurale alla fase della mafia urbana “industrializzata”, che è la fase dei nostri giorni.
Non vi ha dubbio che un diverso indirizzo politico, un rigoroso intervento pianificatore nello sviluppo urbanistico, una rigorosa direzione di interesse pubblico nella rete distributiva servizi-consumi, una gestione programmata nei servizi municipalizzati avrebbe invece obiettivamente ostacolato questo processo.
Ma vi è di più. Alla caotica espansione urbana, alla compenetrazione organica della mafia nella vita cittadina si accompagna, di pari passo, il processo di trasformazione del gruppo politico della democrazia cristiana a Palermo.
LA “NUOVA” DEMOCRAZIA CRISTIANA CHE CAMBIÒ PALERMO
Nel 1956, la democrazia cristiana arrivò alle elezioni attraverso una battaglia politica che vide scalzare le posizioni di potere dei vecchi gruppi di notabilato, rappresentati dai Virga e dagli Scaduto. Assume la leadership del partito il gruppo Lima-Gioia, che parla, di “rinnovamento” e di “moralizzazione”, vengono buttati fuori dalle liste elettorali di questo partito i personaggi più compromessi, si più discussa moralità.
Ed ecco che, primo eletto di questa lista di "rinnovatori" risulta l'on. Barbaccia medico di Godrano, piccolo paese della provincia e noto centro mafioso: strano uomo politico che non ha mai fatto un comizio, non ha mai scritto un articolo, non è mai intervenuto al Consiglio Comunale o al Parlamento nazionale.
Quali interessi e quali forze hanno portato l'on. Barbaccia a capolista di questi "rinnovatori"? Quali interessi e quali forze si sono coalizzati dietro la scalata al potere del gruppo Lima-Gioia nel 1956? Quanto avviene con l'accesso alla direzione del Comune di queste "nuove" forze è illuminante.
Si avvia e si porta a compimento un intricato e complesso processo di assorbimento delle vecchie forze delle destre monarchico-qualunquiste, processo che si concretizza associando alla direzione della cosa pubblica al Comune di Palermo tutta la catena di clientele, di rapporti, di situazioni elettorali, di connivenze che queste forze di destra tradizionalmente rappresentavano a Palermo.
E con il personale politico si assorbe - raccogliendo i frutti della pressione esercitata amministrando i provvedimenti del confino di polizia, regista il prefetto Vicari - la vecchia mafia e la piccola mafia, quella dei capi elettorali popolari di tutti questi consiglieri monarchici che poi diventano consiglieri democristiani.
Parallelamente, si passa dagli affari mafiosi della miserabile Palermo monarchica, dal controllo del commercio dei luppini e degli stracci, all'industrializzazione dell'attività mafiosa. Questo processo va avanti parallelamente ad un processo politico quanto mai sintomatico: la formazione della "legione straniera" di Lima.
IL GRUPPO POLITICO LIMA-GIOIA
La formazione cioè di un gruppo consigliare composto da uomini di qualsiasi provenienza, transfughi da qualsiasi partito, unito e tenuto insieme da un'unica prospettiva: il potere e poter mantenere il potere.
[…] Tra i 18 legionari, Cerami, Di Fresco, Ardizzone, Pergolizzi, Maggiore, Amoroso, Di Liberto sono "arruolati" di prima categoria, nel senso che, provenienti da altri raggruppamenti, nel 1960 sono stati eletti nella lista della democrazia cristiana. Clamoroso il caso del Di Fresco; eletto nel 1956 nella lista monarchica, cinque giorni dopo l'insediamento del consiglio comunale passa al gruppo democristiano!
Gli altri legionari sono arruolati di seconda categoria ,assorbiti cioè nel corso di questa legislatura da altri raggruppamenti politici, dalla destra alla sinistra, come per il Consigliere Volpe, "arruolato" dal gruppo consigliare comunista in occasione del voto per il rinnovo del contratto d'appalto per la manutenzione stradale al barone Cassina, come Arcoleo, proveniente dal partito socialista, e Seminara, ex cristiano sociale, e Guttadauro, Giganti, Arcudi, Sorgi, Spagnuolo, Adamo, Di Lorenzo, Bellomare reclutati dalle destre.
Ognuno di questi “legionari” ha, naturalmente” una piccola ricompensa. Ad Ardizzone la presidenza dell'Ospedale, Cerami alla zona industriale; a Pergolizzi la commissione edilizia, ancora non rinnovata in aperta violazione della legge. A questo fa seguito il collegamento delle parentele: e così troviamo Brandaleone Giuseppe assessore al Comune, e il fratello Ferdinando assessore alla Provincia; Vito Ciancimino assessore al Comune, e Filippo Rubino, cognato di Vito Ciancimino, assessore alla Provincia.
Molto ben “collocata” la famiglia Gioia: i due cognati Gioia e Sturzo, sposati a due figli del defunto senatore Cusenza, ex presidente della Cassa di Risparmio, uno deputato, uno assessore alla Provincia. Barbaccia, fratello dell'onorevole, assessore al Turismo. "Pieno impiego" per la famiglia Guttadauro: un fratello consigliere comunale, un altro fratello, Egidio, rappresentante della provincia all'Ente provinciale del turismo; il figlio dello stesso Guttadauro consigliere provinciale, anche lui democristiano "aggregato" al gruppo Reina.
E ancora, Vito Giganti, "legione straniera" al Comune: il fratello Gaspare delegato della provincia alle scuole professionali. Per chi non è assessore, poi, ci sono le deleghe, le rappresentanze, i comitati. E cosi si amministra la città. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Il grande “sacco” edilizio firmato da un sindaco e da un assessore. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 18 marzo 2022.
Da un punto di vista politico, resta un fatto che va al di là delle singole complicità. È un fatto che l'Amministrazione comunale di Palermo, l'Amministrazione di Lima ha aperto l'accesso alla speculazione sulle aree alla mafia organizzata.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
In questo clima, ci sarebbe da meravigliarsi se non proliferasse la mafia in un settore decisivo dello sviluppo urbanistico della città: quello delle aree fabbricabili. Che retroscena troviamo dietro la scelta fatta dal gruppo dirigente della democrazia cristiana al Comune in quel che concerne un momento cruciale dello sviluppo urbanistico, il rione delle Rose e via Empedocle Restivo?
Per prima cosa troviamo la figura dell'appaltatore che ha dominato in questa zona, la figura di Vassallo.
[…] la Cassa di Risparmio finanzia l'imprenditore Vassallo per 715 milioni, e soltanto ora parzialmente coprendosi con garanzie ipotecarie, perché prima le garanzie non c'erano.
Come è accaduto che la Cassa di Risparmio, e proprio nel periodo in cui si trovava sotto l'influenza di influenze politiche dirette, abbia concesso un finanziamento di questa portata a uno sconosciuto? E che cosa è accaduto nella zona dove Vassallo ha svolto la propria attività edilizia?
È evidente che 715 milioni non significano la costruzione di uno o due palazzi: significano il finanziamento di un'intera attività economica, significano il finanziamento di più di 100 appartamenti.
Chi ha controllato il finanziamento di tutta l'attività di espansione edilizia della zona delle Rose, ha potuto controllare un intero ciclo di attività economica, attività che investe il controllo dei terreni da acquistare, le cave di pietra cui gli appaltatori devono attingere, i guardiani delle imprese e le tagliole vengono imposte alle costruzioni, la ubicazione dei negozi.
La ubicazione dei negozi: appunto intorno a questo vi sono stati gli scontri a fuoco, prima di viale Lazio, poi dell'Ucciardone tra le cosche mafiose tese ad assicurarsi il controllo dei punti più favorevoli di vendita.
Le taglie che vengono imposte alle costruzioni: molti costruttori dovrebbero essere interrogati su certi atti di vendita fatti ai La Barbera, o a presta nome dei La Barbera, che sono puramente e semplicemente atti di estorsione e non atti di vendita.
La revisione dell'Albo degli appaltatori permetterà di stabilire quali attività si siano svolte dietro certi personaggi che vi figurano, come ad esempio il Moncada Salvatore, socio di La Barbera, regolarmente iscritto nell'albo degli appaltatori di Palermo con possibilità di concorrere sino a 500 milioni. Tutto fa ritenere che l'imprenditore Vassallo altro non sia che una copertura di interessi particolari e definiti, su cui occorre far luce, risalendo alla commissione comunale per l'edilizia per trovare una risposta chiara al perché il Vassallo abbia potuto fare e disfare per quanto riguarda il piano regolatore.
II piano regolatore di Palermo - e l'opposizione comunista l'ha provato in Consiglio - è stato falsificato per consentire le convenzioni con Terrasi: la legge urbanistica e il regolamento edilizio è stato violato per favorire la costruzione del palazzo di Vassallo.
LE “VARIANTI” AL PIANO REGOLATORE
[…] È un fatto comunque che le vicende del piano regolatore di Palermo, le convocazioni abusive fatte dal Comune, la distruzione della Conigliera e l'incendio di Villa Sperlinga, provocato per consentire la trasformazione di Villa Sperlinga in terreno edificabile, le varianti di Via Empedocle Restivo, nella zona della cosca mafiosa dei Leonforte nella zona dei la Barbera, nella zona dei Di Pisa, nella zona del Caviglia e le vicende dei conflitti a fuoco per il controllo delle aree hanno tempi e luoghi che coincidono.
[…] Dove le coincidenze obiettive coinvolgono senza tema di smentita responsabilità dirette dell'amministrazione, è sul terreno più minuto delle varianti al piano regolatore. Queste varianti favoriscono sistematicamente una serie di interessi mafiosi.
Ecco qualche esempio. Osservazioni 343 e 459 - accolte dal Comune - per spostamento raccordo in Via Duca degli Abruzzi in favore di Vincenzo Nicoletti, capomafia di Pallavicino, attualmente in galera. Osservazione 493 - accolta dal Comune nono[1]stante parere negativo dell'ufficio tecnico - per trasformazione in area edificatile degli agrumeti di Petrazzi in favore di Antonino Matranga, mafioso dalla banda Torretta, latitante.
Osservazione 1379 - accolta dal Comune - per l'aumento di densità edilizia nella zona della Seccheria, in favore di Barbaccia Luigi e Francesco. Osservazione 1380 - accolta dal Comune - per l'aumento di densità edilizia a S. Maria di Gesù, in favore di Dragotta, suocero dell'on. Barbaccia. Osservazione 1340 - accolta dal Comune - spostamento di una scuola e aumento di densità edilizia sulla circonvallazione, in favore di Citarda Matteo e Di Trapani Nicolo, ambedue attualmente in galera per associazione a delinquere. Osservazione 1341 – accolta dal Comune - per l'aumento della densità edilizia in Via Principe Palagonia, in favore dello stesso mafioso Di Trapani Nicolò. Osservazione 1384 - accolta dal Comune - aumento di densità edilizia per edifici costruiti all'angolo di Via Tasca Lanza con Via Altarello, in favore di Calafiore, socio del mafioso Vitale, attualmente in galera. Variante 838 - accolta dal Comune - per il passaggio da verde pubblico ad area edificabile in zona falde di Montepellegrino, a favore dei Majorana, mafiosi dell'Acquasanta, ancora a piede libero.
Complesso di osservazioni - accolte dal Comune - per la revoca del vincolo a verde pubblico sull'intero parco dell'Oreto e trasformazione in verde agricolo, con successiva possibilità edificabile che parte dallo 0,50; in tutta la zona cioè in cui spadroneggia Don Paolo Bontà, attualmente in galera, ed indicato nel rapporto dei "54" come uno dei massimi “boss” mafiosi. L'elenco potrebbe continuare. Una domanda balza evidente: come è stato possibile che la mafia sia riuscita ad assicurarsi modifiche e varianti al piano regolatore a proprio vantaggio? Che cosa è stato dato in cambio?
[…] Il filone dell'edilizia è fondamentale per risalire a collusione e connivenze precise. Sarà compito della Commissione parlamentare d'inchiesta farlo. Da un punto di vista politico più generale, resta un fatto che va al di là delle singole complicità. È un fatto che l'Amministrazione comunale di Palermo, l'Amministrazione di Lima ha aperto l'accesso alla speculazione sulle aree alla mafia organizzata. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Bontate e Buscetta, La Barbera e Cavataio, ecco la mafia prima di Riina. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 19 marzo 2022
Gettiamo uno sguardo su Don Paolo Bontà, padre di Stefano Bontate, capace di dettare legge ad aziende a capitale americano, indicata dai carabinieri alla magistratura come uno dei "54" cervelli della criminalità organizzata. Grande elettore per il partito monarchico e per il partito democristiano, Bontà è l'uomo che tiene le relazioni pubbliche della banda di coloro che controllano la vita economica di Palermo.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
Dalle aree edificatili, alle aree industriali il passo è breve. E di li passa la strada per il controllo sull'assunzione di mano d'opera, il collocamento dei guardiani, la fornitura dell'acqua.
Prendiamo un caso, che, per la figura dei protagonisti, è illuminante. Nel 1959 si fanno le elezioni per la commissione interna alla Elettronica Sicula, la più moderna e progredita fabbrica di Palermo.
La Confederazione Generale Italiana del Lavoro è impedita a presentare una propria lista. Una delegazione di parlamentari, di sindacalisti e di avvocati - delegazione di cui faceva parte l'on. Pio La Torre, del gruppo parlamentare comunista all'A.R.S. - ai reca a conferire con 1'amministratore delegato della fabbrica, ing. Profumo.
La direzione della fabbrica si giustifica: il divieto alla presentazione della lista della Cgil è venuto da Don Paolo Bontà, un personaggio centrale del mondo mafioso palermitano. Con la delegazione, l'ing. Profumo è esplicito. La decisione di Don Paolo Bontà è inappellabile. «A me – dice l'ing. Profumo - Paolo Bontà serve, perché è lui che mi da l'acqua, è lui che mi da il terreno per ampliare la fabbrica, da lui dipendo per trovare gli operai».
Questo accadeva nel 1959. Gettiamo uno sguardo su questa figura, capace di dettare legge ad aziende a capitale americano, indicata dai carabinieri alla magistratura come uno dei "54" cervelli della malavita organizzata, attualmente in galera. Grande elettore - in un'abile alchimia delle preferenze - per il partito monarchico e per il partito democristiano, Don Paolo Bontà è l'uomo che tiene le relazioni pubbliche della banda di coloro che controllano la vita economica di Palermo.
DON PAOLINO BONTÀ
In un'ideale distribuzione delle cariche della malavita a lui toccherebbe senz'altro quella di vice presidente addetto alle "public relations". E così, troviamo Don Paolo Bontà che si reca a trattare con Covelli [Alfredo, ndr. Fondatore del partito nazionale monarchico] in un momento cruciale della vita politica siciliana: il riavvicinamento tra i monarchici e la democrazia cristiana, riavvicinamento destinato all'assorbimento degli uomini, delle clientele e degli interessi del vecchio partito monarchico nella Dc di Lima e di Gioia.
Queste trattative, l'incontro di Don Paolo "Bontà con Covelli sono provate da una documentazione fotografica che è stata pubblicata sulla stampa. Questo vice-presidente addetto alle relazioni pubbliche ha a sua disposizione un deputato democristiano tra i primi eletti, l'on. Margherita Bontade, che non teme di deporre al Procuratore della Repubblica: - citiamo testualmente - "II Bontà è un uomo generoso che è stato dedito tutta la vita al lavoro e alla famiglia e cui nessuno si è mai rivolto invano".
Questo stesso è l'uomo che oggi ritroviamo nel rapporto dei "54": denunciato dai carabinieri alla Procura della Repubblica per "associazione a delinquere", aggravata da correità in omicidi, attentati, estorsioni. È appunto negli anni in cui avvenne l'episodio dell'Elettronica Sicula, che alla periferia di Palermo le cosche mafiose, la cosiddetta "mafia dei giardini" rivolgono la loro attenzione e concentrano la loro attività intorno alle aree industriali.
Guardiamo, ad esempio, quanto avviene a Partanna, bordata industriale di Palermo. Due cosche mafiose si contendono il potere, cioè il controllo delle industrie della zona: i Riccobono, facenti capo a Mancuso e Porcelli, attualmente in galera, e i Giacalone, facenti capo ai La Barbera. È una lotta costellata di omicidi e attentati, nei quali i nomi dei Riccobono e dei Giacalone si incalzano con alterna impressionante regolarità.
Ai posti di guardiano, nelle fabbriche di Partanna, ritroviamo questi nomi, collocati per assicurare l'esercizio delle posizioni di potere raggiunte dalle cosche. Così alla Permaflex di Partanna, troviamo guardiano Matteo Giacalone, mafioso della cosca La Barbera, mentre alla Frigorsicula troviamo Rosario Riccobono - attualmente in galera - mafioso della cosca Mancuso-Porcelli, e alla Bianchi troviamo Domenico Troia, cognato del Rosario Riccobono, e ancora all'Asilo dei Vecchi cardinal Ruffini troviamo Guttuso Domenico, uomo di La Barbera. Alla Tessi-Tessile Siciliana, la più importante fabbrica della zona, fino al 30 novembre 1961 era guardiano Giuseppe Giacalone, della cosca La Barbera, ucciso appunto al mattino del 30 novembre in Via Carbone, cioè nel pieno centro di Partanna, da una scarica di mitra.
Chi era questo Giacalone? Nel 1939 lo troviamo denunciato per associazione a delinquere, abigeati bovini ed ovini e altri furti. Nel 1944 viene colpito da mandato di cattura per orni oidio premeditato e tentato omicidio. Nel luglio 1949 viene denunciato per duplice omicidio premeditato e per associazione a delinquere; nell'ottobre dello stesso anno denunciato per minacce a mano armata e porto abusivo d'armi, ai rende latitante.
Ogni volta assolto per insufficienza di prove, nel marzo del 1961 subisce un attentato; nell'agosto 1961 viene proposto per il confino. ' Come è possibile che un delinquente di questo coprisse il posto di guardiano in uno stabilimento come la Tessi-Tessile Siciliana? Chi lo aveva assunto? Chi ne aveva sollecitato l'assunzione?
LA FAMIGLIA LA BARBERA E IL CANTIERE NAVALE
Presidente locale dell'Azione Cattolica e grande elettore della Democrazia cristiana troviamo a Partanna Salvatore la Barbera, zio di Angelo la Barbera, protagonista dei più clamorosi scontri mafiosi dell'ultimo triennio. Salvatore la Barbera è particolarmente legato a padre Azzara, parroco di Partanna, ed è in questo quadro che ruotano i piccoli e medi mafiosi della zona.
La Barbera Salvatore è una riproduzione a formato ridotto di Don Paolo Bontà: è lui che tiene le "relazioni pubbliche" con le industrie di Partanna, è lui, che, benevolmente assistito da padre Azzara controlla i "servizi" collegati all'attività industriali. Interrogando Salvatore La Barbera, interrogando i dirigenti di queste fabbriche, procedendo ai confronti, esaminando le schede del personale si ricostruirebbe l'intera teoria di crimini di cui Partanna è stata protagonista negli ultimi anni.
La principale industria di Palermo è il Cantiere Navale. La direzione del Cantiere Navale ha un contratto d'appalto per lavori all'interno del Cantiere con Accomando Alessio. Chi è costui? Costui è socio di Tommaso Buscetta e di Michele Cavatajo, ambedue capi mafia dell'Acquasanta, (cosca Torretta-La Barbera) ambedue latitanti e accusati di associazione a delinquere.
Tre anni fa il mafioso Passarello, appaltatore della mensa del Cantiere Navale, morì va ammazzato in uno scontro con una cosca rivale. Perché la mafia ottiene appalti al Cantiere Navale?
La Direzione del Cantiere Navale può rispondere a questa domanda, poiché la presenza della mafia al Cantiere ha radici precise e lontane, sin dal 1947, […]. E anche qui, sorge una domanda. Come è possibile che queste industrie subiscano senza reagire l'imposizione mafiosa, anzi l'imposizione della cosca che, volta a volta, ha la meglio? […].
Abbiamo parlato del controllo sulla distribuzione dell'acqua alle aziende industriali. E qui entra in campo un altro aspetto della politica comunale: quella delle Aziende municipalizzati, in particolare quella dell'Azienda Municipalizzata dell'Acquedotto. […].
I servizi, il settore delle attività "terziarie": ecco dove la mafia palermitana detiene posizioni che possiamo definire di "monopolio". Queste posizioni vengono esercitate, attraverso un unico collegamento mafioso, sui mercati e sull'approvvigionamento dei prodotti delle campagne. […] È risalendo questi filoni, sciogliendo l'intreccio di rapporti tra mediatori, commissionari, grossisti, industria conserviera e trasportatori che è possibile individuare le posizioni di “monopolio” economico che la mafia detiene sul mercato agricolo. Queste posizioni si collegano, naturalmente, ai mercati cittadini. È qui, che l'Amministrazione comunale ha fatto di più che lasciare via libera alla attività mafiosa: essa ha compiuto atti precisi che hanno assicurato alla mafia precise posizioni di potere.
DAL MERCATO DEL PESCE A QUELLO DELLA CARNE
[…] Incredibile addirittura la situazione al mercato del pesce. Qui gli appaltatori sono tre: tutti e tre appartengono alla stessa famiglia, la famiglia D'Angelo. E di questi, due, e precisamente Rosario D'Angelo e Bartolomeo D'Angelo, sono contemporaneamente astatori e mandatari, possono cioè bandire le aste ed acquistare! Mercato della carne.
Ci sono a Palermo 13 grossisti di carne. Di questi, cinque appartengono alla famiglia Randazzo, e sono Randazzo Vincenzo, Randazzo Vincenzo Biagio, Randazzo Gaetano Biagio, Randazzo Giuseppe Biagio, Randazzo Giacomo. Altri cinque, appartengono alla famiglia Giarrusso, e sono il Giarrusso padre, Giarrusso Pietro fu Biagio, Giarrusso Roberto, Giarrusso Mario. Due famiglie hanno così il monopolio del commercio della carne a Palermo. Che la mafia operi sui mercati, non è un mistero per nessuno.
Chi rilancia a questi mafiosi il certificato di buona condotta per ottenere le licenze? Quali criteri vendono adoperati per il rilascio dei certificati di buona condotta?
[…] L'anagrafe dei mafiosi, a Palermo, la conoscono tutti. Basterebbe esaminare i certificati di buona condotta rilasciati ai mafiosi uccisi nei conflitti a fuoco degli ultimi tre anni, ai mafiosi arrestati dopo la strage di Ciaculli, a quelli ancora latitanti, a quelli semplicemente diffidati, andare a vedere chi ha firmato questi certificati per risalire a responsabilità precise e dirette.
Più in generale, resta il fatto che l’Amministrazione Comunale non ha provveduto ad assicurare l'applicazione delle leggi sui mercati, revocando le licenze e cacciando via chi, per violazione alle leggi stesse, doveva essere cacciato. Resta il fatto che il Comune avrebbe potuto svolgere una politica di intervento attivo sui mercati, per permettere ai produttori singoli ed associati di vendere direttamente, e non l'ha fatto.
Morta Liliana Ferraro: era tra le più strette collaboratrici di Falcone. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 24 Febbraio 2022.
Conobbe il giudice antimafia nell’82 ad un convegno e fu lì che nacque l’amicizia scaturita nella collaborazione tra i due. Una vita dedicata alla lotta alla criminalità organizzata.
Ci sono persone importanti e famose per quello che hanno fatto, e ce ne sono di ugualmente importanti – sebbene meno famose – per quello che hanno fatto fare agli altri. A questa seconda categoria apparteneva Liliana Ferraro, magistrato salita alla ribalta delle cronache solo all’indomani della strage di Capaci, trent’anni fa. Era la principale collaboratrice di Giovanni Falcone, assassinato quand’era direttore generale dell’Ufficio affari penali del ministero della Giustizia, e Ferraro la sua vice. Dopo il 23 maggio del 1992 l’allora ministro Claudio Martelli la nominò direttore al posto del giudice ucciso dalla mafia. Ma di Falcone, Liliana Ferraro era diventata il braccio destro molti anni prima che lui approdasse a Roma.
Si incontrarono nel 1983, quando lei lavorava già al ministero e c’era il problema di supportare il pool antimafia messo in piedi dal consigliere istruttore Rocco Chinnici, fatto saltare in aria con un’autobomba, che arrancava tra mille rischi, difficoltà e scarsezza di mezzi. Ferraro cominciò a occuparsi di computer e auto blindate, e di ogni esigenza emersa dalle indagini sfociate nel maxiprocesso alle cosche. Nell’estate di sangue del 1985, dopo l’omicidio del vice-capo della Squadra mobile palermitana Ninni Cassarà, fu lei a organizzare il trasferimento di Falcone e Borsellino (con rispettive famiglie) nel carcere in disuso sull’isola dell’Asinara, deciso dalla sera alla mattina quando il prefetto le telefonò dicendole di non essere in grado di garantire la sicurezza dei due magistrati impegnati nella stesura dell’ordinanza di rinvio a giudizio di centinaia di mafiosi.
Finito il lavoro dei giudici istruttori, cominciò quello di Liliana Ferraro: stampare in gran segreto quel monumentale provvedimento (migliaia di pagine da riprodurre in centinaia di copie) presso il centro meccanografico del ministero del Tesoro, utilizzato per i cedolini degli stipendi statali. A Palermo era impossibile perché di punto in bianco non si trovava più la carta in città; in ogni negozio e centro di distribuzione le scorte di risme risultavano esaurite. Nel frattempo, sotto la sua regia, fu completata a tempo di record la costruzione dell’aula-bunker nel carcere palermitano dell’Ucciardone, la futuristica “astronave” blindata in grado di contenere in sicurezza migliaia di persone tra imputati, avvocati, giornalisti arrivati da tutto il mondo, pubblico.
Di fronte alle difficoltà di celebrare in città di un dibattimento di dimensioni mai viste prima, si era ipotizzato di spostarne la sede a Roma o altrove, con una deroga alle disposizioni dei codici. Ma Falcone si era impuntato: lo Stato doveva processare la mafia laddove la mafia aveva sfidato e attaccato lo Stato, cioè a Palermo. Principio sacrosanto, che si è riusciti a tradurre in realtà grazie all’impegno quotidiano e pressante di Liliana Ferraro, che anche per quell’impresa dovette superare mille difficoltà. La collaborazione con Falcone divenne un’amicizia che l’ha vista sempre vicino al giudice, un passo indietro o di lato, nelle vittorie e nelle sconfitte, nei successi e nelle delusioni, fino all’ultimo anno vissuto a Roma, dove Ferraro lo aiutò in tutto: dalle questioni tecnico-giuridiche da risolvere all’acquisto di scope e detersivi per tenere pulito l’appartamento arredato messogli a disposizione dalla polizia, passando per la presentazione di nuove amicizie romane; piccoli spazi di normalità e spensieratezza in una vita tesa e complicata. Dopo la bomba di Capaci, Liliana Ferraro è uscita dall’ombra.
A parte la successione a Falcone al ministero, è diventata segretario della Conferenza mondiale delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata, componente del Consiglio di Stato, assessore alle Politiche per la sicurezza del Comune di Roma chiamata dal sindaco Walter Veltroni. In seguito sono arrivati altri incarichi pubblici, ma il suo nome è sempre rimasto inevitabilmente legato al lavoro svolto al fianco di Giovanni Falcone. Nelle celebrazioni per il trentesimo anniversario della strage che ha ucciso lui, sua moglie e gli agenti di scorta (e cambiato la storia d’Italia), sarà bene ricordare anche questa donna magistrato che, dietro le quinte, ha contribuito a farlo diventare il giudice antimafia più famoso al mondo.
Addio a Lilliana Ferraro, la collaboratrice più fidata di Giovanni Falcone. Il Dubbio il 25 febbraio 2022.
Il magistrato dedicò molti anni della sua esistenza professionale alla collaborazione con gli uffici giudiziari, prima per la lotta contro il terrorismo, poi contro la mafia.
È morta ieri Liliana Ferraro, magistrato di lungo corso che poi prestò servizio presso il ministero della Giustizia nel periodo delle stragi mafiose. È stata una delle più strette collaboratrici di Giovanni Falcone che conobbe nell’82 durante un convegno, e fu lì che nacque l’amicizia scaturita nella collaborazione tra i due. Liliana Ferraro dedicò molti anni della sua esistenza professionale alla collaborazione con gli uffici giudiziari, prima per la lotta contro il terrorismo, poi contro la mafia.
Fu lei che contribuì alla ristrutturazione del carcere dell’Asinara per far rinchiudere le Brigate rosse, così come dopo, assieme all’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli. Fu sempre lei a far riaprire le carceri speciali per rinchiudere i mafiosi dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. Una vita dedicata alla lotta alla criminalità organizzata. Anni fa, durante una presentazione di un libro, parlando di Giovanni Falcione disse: «Aveva una buona dose di scetticismo sciasciano, io avevo una buona dose di fatalismo edoardiano. Fummo però, subito d’accordo su alcune convinzioni: Giovanni Falcone, come peraltro ha scritto in Cose di cosa Nostra, era un servitore dello Stato: «Io credo nello Stato». «Sono un servitore dello Stato che lavora in un territorio ostile».
Addio a Liliana Ferraro, il cordoglio di Maria Falcone
«Apprendo con grandissimo dispiacere della scomparsa di Liliana Ferraro, amica e preziosa collaboratrice di Giovanni al Ministero della Giustizia. Donna di grande intelligenza e capacità ha contribuito alla nascita della Fondazione intitolata a mio fratello. Grazie al suo impegno venne costruita in soli sei mesi l’aula bunker in cui fu celebrato il maxiprocesso alla mafia. Fu così possibile realizzare quel che Giovanni riteneva essenziale: e cioè che proprio a Palermo, dove la mafia mostrava il suo volto più feroce, si tenesse il dibattimento che per la prima volta aveva portato alla sbarra centinaia di boss, gregari e uomini d’onore di Cosa nostra». Così Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso dalla mafia il 23 maggio del 1992 e presidente della Fondazione Falcone, commentando la notizia della morte di Liliana Ferraro. «Voglio esprimere il mio cordoglio e la mia vicinanza alla famiglia – ha aggiunto – A Liliana voglio dire “grazie”».
Palermo, morto l'ex procuratore Di Pisa. Indagato e assolto per le lettere del "Corvo", accusava: "Mi vollero fermare". Salvo Palazzolo La Repubblica il 4 febbraio 2022.
Era malato da tempo. Da capo dei pm di Marsala si era occupato delle indagini sulla scomparsa di Denise Pipitone
Lottava da tempo contro una grave malattia, l'ex magistrato Alberto Di Pisa è morto a 78 anni. Nel 1982, come sostituto procuratore, aveva fatto parte del pool antimafia di Palermo; poi, suo malgrado, era stato protagonista di una vicenda che ha segnato l'antimafia: finito sotto inchiesta con l'imputazione di essere l'autore delle lettere anonime che accusavano il giudice Falcone di aver gestito in modo spregiudicato il pentito Contorno, era stato poi definitivamente assolto.
Giustizia, morto ex magistrato Alberto Di Pisa. AdnKronos il 04 febbraio 2022.
Membro del pool antimafia voluto da Rocco Chinnici e giudice nel maxi processo di Palermo
E' morto stanotte l'ex procuratore Alberto Di Pisa, membro del pool antimafia voluto da Rocco Chinnici e giudice nel maxi processo di Palermo. Di Pisa, 78 anni, era ricoverato all'ospedale Cervello di Palermo per una grave malattia. Dimesso ieri pomeriggio in fin di vita dall'ospedale in cui era ricoverato, l'ex magistrato è stato portato a casa in ambulanza dove i familiari lo hanno vegliato fino a tarda notte.
Di Pisa, che è stato procuratore anche a Marsala dove ha seguito il caso della piccola Denise Pipitone, nell'estate del 1989 venne additato come il 'corvo di Palermo', l'anonimo che aveva inviato lettere ad alte cariche istituzionali accusando altri magistrati, tra cui Giovanni Falcone. Di Pisa, condannato in primo grado, fu poi assolto. Aveva lasciato la magistratura nel 2015 per limiti d'età.
Morto Alberto Di Pisa, il pm accusato di essere il “corvo” di Giovanni Falcone. Alberto Di Pisa sarà seppellito in Calabria, a Rizzuti, nella cappella di famiglia della moglie. Aveva 79 anni. La sua storia legata a quella di Giovanni Falcone. Il Dubbio il 4 febbraio 2022.
Il nome di Alberto Di Pisa, il magistrato morto nella notte a Palermo all’età di 79 anni, sarà sempre legato ad una vicenda che interessò il palazzo di Giustizia del capoluogo siciliano pochi anni prima delle stragi del 1992. Nell’estate del 1989, infatti, inizia quella che i cronisti chiamarono la vicenda «del Corvo di Palermo». Vicenda che prende il nome da un vecchio film di Cluzot che aveva per protagonista un signore che scriveva lettere anonime.
Il palazzo di giustizia di Palermo era «infestato» da una dozzina di lettere che contenevano attacchi contro il magistrato Giovanni Falcone e il dirigente del nucleo anticrimine della Criminalpol, Gianni de Gennaro. E in quella estate palermitana, subito dopo l’attentato fallito a Giovanni Falcone all’Addaura, il sospettato numero uno di essere il Corvo fu proprio lui: Alberto Di Pisa. Finito nel mirino dei giornalisti ancora prima di potere avere un giudizio da parte del Csm. Una vicenda nella quale finì sotto processo e fu poi assolto dalle accuse dopo una condanna in primo grado e una assoluzione in secondo grado con sentenza definitiva perché la procura non presentò appello.
Nella sua difesa, racconta Saverio Lodato nel libro “Quaranta anni di Mafia”: «adottò una linea infelice: disse ai commissari “non sono stato io a scrivere quelle lettere ma ne sottoscrivo il contenuto dalla a alla z”». A causa della vicenda del Corvo (nella quale fu assolto nel 1933 perché «il fatto non sussiste») fu prima allontanato da Palermo (nel 1989) e poi sospeso (nel 1992). Di Pisa iniziò la sua carriera in magistratura nel 1971 come pretore a Castelvetrano, poi il trasferimento a Palermo.
Sostituto procuratore della Repubblica al tribunale del capoluogo siciliano, dal 1982 fece parte del Pool antimafia, ideato da Rocco Chinnici per tutti gli anni ’80, ed è stato tra i giudici che istruirono il maxiprocesso di Palermo. È stato anche procuratore generale aggiunto a Palermo. Nel 2003 venne nominato dal CSM procuratore della Repubblica di Termini Imerese e nel 2008 del tribunale di Marsala dove si è occupato del caso della sparizione di Denise Pipitone. Alberto Di Pisa sarà seppellito in Calabria, a Rizzuti, nella cappella di famiglia della moglie.
Chi era Alberto Di Pisa, il giudice delegittimato dalla mafia (e non solo). Addio all'ex magistrato accusato di essere l’autore del Corvo. Borsellino lo cercava con urgenza il giorno della strage di via D’Amelio, ma non si incrociarono. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 5 Febbraio 2022.
Il giudice Alberto Di Pisa è morto dopo una lunga malattia. Uomo perbene, schietto e integerrimo, inevitabilmente lo si ricorda come l’uomo accusato (e poi prosciolto definitivamente) di essere stato l’autore del Corvo 1. Ma fu opera di delegittimazione, utile per togliergli di mano le indagini che stava svolgendo. Utile per farlo sospendere dal servizio, soprattutto durante quell’oscuro e tormentato biennio 91- 92 che culminò con le stragi di Capaci e Via D’Amelio.
Come ha ricordato Roberto Saviano a Sanremo, riferendosi ai giudici Falcone e Borsellino, quando erano in vita furono vittima di delegittimazione per creare diffidenza in chi era dalla loro parte, ma ha aggiunto che, tuttavia «la mafia non è riuscita a sporcare l’esempio delle loro scelte coraggiose». Ma c’è molto di più. Rileggendo le motivazioni di Capaci bis a firma del giudice Antonio Balsamo, si parla di una vera e propria «una sinergia che si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Falcone». Come mai questa campagna di delegittimazione? La sentenza spiega che c’era la consapevolezza che l’attività fosse un pericolo non solo per Cosa Nostra, ma anche con chi stabiliva rapporti con loro, utili per un tornaconto economico a partire da settore degli appalti.
Ed è stato proprio quest’ultimo settore che riguardava indagini, poi interrotte, svolte da Di Pisa. Il giudice venne accusato di essere l’autore delle lettere velenose del Corvo, proprio mentre stava svolgendo le indagini sugli appalti di Pizzo Sella, sperone di granito che è diventata “la collina del disonore”. Aveva intuito il coinvolgimento del gruppo nazionale Ferruzzi – Gardini. Anni dopo, esattamente nel 1997, ma gli elementi già c’erano tutti dapprima, si scoprì che la mente dell’operazione fu il boss Antonino Buscemi, uno che dava del tu a Totò Riina e considerato uno dei suoi consiglieri. Nel 91, la questione è stata già chiara con il deposito del dossier mafia appalti redatto dai Ros Giuseppe De Donno e Mario Mori sotto la supervisione di Falcone. Metteranno nero su bianco dei legami insospettabili, un reticolato di imprese siciliane che portano ai big dell’imprenditoria italiana.
Di Pisa ha svolto altre importanti inchieste come l’omicidio del sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco (non a caso voleva rivedere il sistema dell’aggiudicazione degli appalti), iniziò il processo Ciancimino che gli fu affidato come singolo e non come componente del pool. Com’è detto, gliele tolsero tutte di mano per via dell’accusa – poi conclusasi con una piena assoluzione – di essere stato l’autore della lettera del “Corvo”. L’accusa nasce dalla costruzione di una pseudo prova. L’allora alto commissario Domenico Sica gli prese le impronte sul tavolo di vetro sul quale tamburellava con le dita. In realtà, come ben spiegato nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, non c’è mai stata una sua impronta sulla lettera anonima, ma solo la foto di un’impronta costruita a tavolino. Nella lettera c’è solo una macchia, probabilmente un pasticcio da chi ha cercato invano di trasferirle la sua impronta. Tra l’altro il giudice Di Pisa denunciò Sica per abuso di potere, perché – a detta sua – quell’indagine doveva essere eseguita dalla Polizia giudiziaria e non da un organo amministrativo.
Ultimamente è stato sentito dalla commissione antimafia siciliana e ha spiegato il perché, secondo lui (ma lo dicono numerose sentenze), sia Falcone che Borsellino furono uccisi per la questione relativa al dossier mafia appalti. Ha rivelato anche un altro dettaglio non da poco. «In occasione della camera ardente allestita al Palazzo di Giustizia – ha raccontato Di Pisa in commissione – ebbi con Borsellino un breve colloquio dinanzi alle bare di Falcone, della moglie e degli agenti della scorta. Mi disse: “Io intendo riaprire le indagini su mafia e appalti”, quasi a volere stabilire un collegamento tra la strage e l’indagine sugli appalti».
Ultimamente, durante il processo Agostino, è andato in scena l’ultimo atto di fango. Il pentito Brusca – sollecitato dall’avvocato di parte civile ricordandogli il nome di Di Pisa – ha detto, che sì, ora ricorda che Riina avrebbe detto «Se dovesse parlare Di Pisa». Purtroppo, ora che è morto, sarà più facile portare a termine la delegittimazione mafiosa. Se fosse rimasto nella Procura di Palermo durante quel terribile e oscuro biennio, forse oggi avremmo avuto una storia diversa. Magari con qualche testimonianza scomoda in più. Quella maledetta domenica mattina del 19 luglio 1992, come ha ricordato Di Pisa durante l’intervista a Il Dubbio, Paolo Borsellino lo stava cercando con urgenza. Non si sono incrociati.
I sospetti e il calvario. Morto Alberto Di Pisa, il procuratore indagato e assolto per le lettere del ‘Corvo’ contro Falcone. Carmine Di Niro su Il Riformista il 4 Febbraio 2022.
Da tempo stava affrontando una malattia, che lo ha stroncato la scorsa notte nella sua abitazione di Palermo. È morto all’età di 78 anni Alberto Di Pisa, ex procuratore a Marsala e in precedenza anche a Termini Imerese, ma soprattutto parte del Pool antimafia ideato da Rocco Chinnici per tutti gli anni ‘80, tra i giudici che istruirono il maxiprocesso di Palermo.
Di Pisa era ricoverato all’ospedale Cervello di Palermo per una grave malattia ed era stato dimesso ieri pomeriggio in fin di vita, con l’ex magistrato portato a casa in ambulanza dove i familiari lo hanno vegliato fino al decesso avvenuto in tarda notte.
Ma il nome di Di Pisa sarà drammaticamente legato a quello del ‘Corvo’, il misterioso autore delle lettere anonime contro i magistrati Giovanni Falcone, Giuseppe Ayala e Pietro Giammanco, oltre che al capo della polizia Vincenzo Parisi e al questore Gianni De Gennaro.
Oggetto di quelle lettere datate 1989 erano le accuse riguardo la gestione “spregiudicata” del pentito Totuccio Contorno. Anno in cui vi sarà anche il fallito attentato all’Addaura contro lo stesso Falcone e la moglie Francesca Morvillo, con gli oltre 50 candelotti di dinamite che avrebbero dovuto far saltare il magistrato antimafia.
Di Pisa verrà condannato nel 1992 a due anni e sei mesi in primo grado in quanto ritenuto autore di quelle lettere, venendo assolto in Appello e Cassazione: una condanna e un allontanamento da Palermo (destinazione Messina) anche a causa dell’acquisizione dell’impronta da parte dell’alto commissario per la lotta alla mafia, Domenico Sica, e dell’uso di quella pseudo prova nel processo.
Andato in pensione nel 2015, Di Pisa ha sempre ritenuto che dietro la vicenda del ‘Corvo’ ci fosse un complotto ai suoi danni. In una delle sue ultime interviste il magistrato disse: “Ci fu una convergenza di interessi, politica, servizi, poteri forti, che avevano l’obiettivo di togliermi le inchieste scottanti che avevo in mano, quella su mafia e appalti, sulla morte dell’ex sindaco Insalaco, sulla massoneria, sugli omicidi di Montana e Cassarà. Il procuratore Giammanco me le tolse tutte ancor prima che arrivasse l’avviso di garanzia”.
La vicenda del ‘Corvo’ provocherà anche uno scontro per via giudiziaria contro Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, che lo accusò di essere l’autore delle lettere quando di Pisa divenne procuratore a Marsala, sulla stessa poltrona di Borsellino. Una vicenda che finirà con la condanna per diffamazione di Borsellino: “Basta con questa storia del Corvo. Io sono una vittima. Perché non lo si capisce?“, disse Di Pia dopo la sentenza del tribunale di Caltanissetta del 2014.
Il cruccio per il magistrato restava quello delle indagini sulla stagione del 1989, l’attentato all’Addaura contro Falcone delle “menti raffinatissime”, come le definì al tempo il magistrato del pool antimafia. “Indagini senza verità. Mai fatta chiarezza. Ancora oggi non sappiamo chi piazzò l’esplosivo sulla scogliera dell’Addaura”, era il tormento di Di Pisa.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
21 maggio 1992. L'ultima intervista a Falcone: "La mafia non è una piovra, ma una pantera agile, feroce. E non dimentica". La Repubblica il 17 gennaio 2022.
Questa è l'ultima testimonianza ufficiale del giudice antimafia. Uscì nell'inserto di Repubblica Napoli "La galleria del giovedì" nel quale si parlava delle mafie. Due giorni dopo, il 23 maggio 1992, Falcone sarà ucciso. Il colloquio, pubblicato il giorno seguente alla strage sull'edizione nazionale di Repubblica, è stato poi ripreso dal Wall Street Journal, da altre testate e in seguito in alcuni volumi come Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi (Paul Ginsborg, Einaudi). Giovanni Marino su La Repubblica il 15 gennaio 2022.
"Cosa nostra non dimentica. Non l'ho mai concretamente vista come una piovra. La mafia è una pantera. Agile, feroce, dalla memoria di elefante. Per questo bisogna fare in fretta e mettersi d'accordo sulla Superprocura, uno strumento essenziale per arginare l'espansione dei boss. Il nemico è sempre lì, in attesa, pronto a colpire. Ma noi non riusciamo neppure a metterci d'accordo sull'elezione del presidente della Repubblica...".
Il Quirinale, lo stallo, l'esplosione. 1992: la strage di Capaci e l'elezione di Scalfaro. Concetto Vecchio su La Repubblica il 15 gennaio 2022.
Oscar Luigi Scalfaro percorre i Fori imperiali sulla Flaminia presidenziale al termine di un'elezione tra le più drammatiche della Repubblica. Era il 25 maggio 1992, due giorni dopo la strage di Capaci. Il Paese viveva giorni sconvolgenti e i partiti di massa sentivano vicina la loro fine. A febbraio, con l'arresto del socialista Mario Chiesa, era scoppiata Tangentopoli. Il 5 aprile le elezioni politiche avevano rivelato una protesta profonda. La Dc arretrava e irrompeva la Lega di Umberto Bossi a incrinare i tradizionali equilibri parlamentari. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga si era dimesso anzitempo, il 23 aprile, con qualche settimana d'anticipo rispetto alla scadenza naturale del mandato, aggiungendo un ulteriore elemento di incertezza. Quindi si andò alla conta per il Quirinale senza una bussola. La Dc e il Psi erano la somma di due debolezze. La Dc, divisa al suo interno in tre fazioni, era indecisa se suggerire Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani, poi ai blocchi di partenza ogni partito scelse un candidato di bandiera: la Dc Giorgio De Giuseppe, Pds e Rifondazione Nilde Iotti, i Verdi Norberto Bobbio, il Psi Giuliano Vassalli, la Lega Gianfranco Miglio, i radicali Oscar Luigi Scalfaro, La Rete di Leoluca Orlando votò Tina Anselmi. Al quarto scrutinio la Dc puntò su Forlani, che si ritirò però al sesto dopo aver ottenuto soltanto 479 preferenze. Lo stallo proseguì così per altri dieci giorni. La svolta sotto l'urgenza per l'uccisione di Giovanni Falcone e della sua scorta, il 23 maggio. "Non un giorno in più può durare la ricerca del nuovo Capo dello Stato" scrisse Eugenio Scalfari su Repubblica. Vennero fatti i nomi di Scalfaro, che il mese prima era stato eletto presidente della Camera, e di Giovanni Spadolini. La spuntò Scalfaro, un galantuomo dal profilo morale specchiato, ciò che serviva in quell'Italia corrosa dagli scandali. Alla fine, sostenuto dalla maggioranza (Dc, Psi, Psdi, Pli) e dall'opposizione, dal Pds alla Rete, dai Verdi a Pannella, venne eletto al sedicesimo scrutinio.
Borsellino, 5 giorni prima della strage, ai colleghi: «Approfondite mafia-appalti!» Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 agosto 2020. Nell’audizione al Csm, del 29 luglio 1992, del magistrato Domenico Gozzo alcuni particolari inediti delle richieste di Borsellino su mafia-appalti. Cinque giorni prima di finire stritolato a Via D’Amelio, in riunione Paolo Borsellino ha chiesto davanti a tutti i magistrati della Procura di Palermo che si approfondisse l’indagine sul dossier mafia appalti. Non solo. Oltre a fare degli appunti ben circoscritti, ha anche chiesto il rinvio della riunione per approfondire ulteriormente il tema. Purtroppo non fece in tempo. In esclusiva Il Dubbio mette in luce nuovi particolari che potrebbero essere utili per i magistrati nisseni. Sì, perché la procura di Caltanissetta è l’unica titolata per competenza territoriale a fare luce sul movente della strage di Via D’Amelio. Lo stesso avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia di Borsellino, durante il processo contro Matteo Messina Denaro – accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio – ha ribadito che bisogna cercare le risposte nei 57 giorni tra le due stragi. «Dobbiamo capire quali informazioni possano essere finite a Borsellino, potremmo iniziare a vedere la finalità preventiva di bloccarlo sul fronte del dossier mafia e appalti», ha osservato Trizzino.A questo punto vale la pena aggiungere l’ennesimo tassello. Siamo nel 14 luglio 1992. Data dell’ultima riunione in Procura a cui ha partecipato Paolo Borsellino. Il vertice a Palermo voluto dall’allora capo procuratore Pietro Giammanco è attestato nelle testimonianze rese al Csm, a fine luglio ’92, da altri magistrati all’epoca in servizio nel capoluogo. Tra di loro c’è Domenico Gozzo, all’epoca sostituto procuratore presso la procura di Palermo da un mese e mezzo. Tra i vari magistrati, Gozzo è stato uno dei pochi a spiegare con dovizia di particolari tutto ciò che è accaduto nell’ultima riunione alla quale partecipò Borsellino.
Tensione durante la riunione del 14 luglio. Dal verbale del Csm datato 29 luglio 1992 si apprende che alla domanda sulla situazione generale dell’ufficio di Palermo, il dottor Gozzo specifica che era arrivato il 2 giugno del ’92 trovando una atmosfera abbastanza tesa e ha assistito a delle assemblee perché «alla Procura di Palermo c’è questa consuetudine di fare delle assemblee in cui si discutono di vari temi». A quel punto un membro del Csm gli pone una domanda più specifica, ovvero se questa atmosfera di tensione l’avesse colta anche prima della strage di Via D’Amelio. Risponde affermativamente e dopo aver spiegato i problemi che si sono verificati nelle riunioni precedenti e dei problemi organizzativi nella procura, Gozzo va al dunque e parla della riunione del 14 luglio. «È stata l’ultima a cui ha partecipato Paolo Borsellino, era seduto due sedie dopo di me – spiega l’allora sostituto procuratore -, era una riunione che era stata convocata per i saluti prefestivi e per parlare anche di tutta una serie di problemi che dopo la morte di Falcone erano apparsi sui giornali (in questo momento non mi ricordo la scaletta, mi ricordo, tra gli altri, i processi mafia e appalti), cioè i vari colleghi erano chiamati a riferire sui processi che avevano gestito». Gozzo sottolinea che «su mafia e appalti, quindi, c’era il collega Pignatone (se non ricordo male) e doveva esserci anche il collega Scarpinato che però non poté venire per problemi di famiglia». Il magistrato Gozzo prosegue: «Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata – perché al momento aveva dei problemi -, la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate…». Gozzo specifica che il processo è quello relativo a mafia-appalti e, alla domanda di che carte si trattassero, risponde: «Si trattava di carte che erano state inviate (quello che ho sentito là, chiaramente, posso riferire) alla procura di Marsala – e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla Procura di Palermo – che era lo stesso processo però a Marsala. C’erano degli sviluppi e, quindi, erano stati mandati a Palermo e lui (Borsellino, ndr.) si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea». Gozzo prosegue nel racconto indicando un particolare non da poco: «E, poi, diceva che c’erano dei nuovi sviluppi (in particolare un pentito di questi che ultimamente aveva parlato), e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: “ma vedremo”». Gozzo sottolinea questo passaggio del racconto mostrando le sue perplessità in merito alla risposta data a Borsellino: «Cioè, di fronte ad una offerta così importante (io riferisco i fatti): “Ma vedremo se è possibile, ma è il caso di acquisirlo”».
Aveva studiato il dossier dei Ros. Dopo il racconto sulle altre problematiche relative alla procura di Palermo, più avanti un membro del Csm ritorna sulla questione mafia-appalti e chiede a Gozzo di dire qualcosa di più specifico sulla richiesta di chiarimenti da parte di Borsellino. «Probabilmente potete chiedere anche qualcosa di più interessante su questo famoso rapporto dei Ros su mafia- appalti anche a mia moglie Antonella Consiglio – risponde Gozzo – , perché mia moglie ha avuto modo di consultare queste carte proprio per il processo che ha fatto a Termini Imerese che si riferiva a Angelo Siino (l’ex ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ndr) che orbita in quell’area di Termini Imerese e della Madone». E aggiunge: «Lei mi riferiva che probabilmente in un primo momento questo rapporto poteva non sembrare significativo, ma che in effetti offriva notevoli spunti di attività investigativa». Quello che sappiamo è che dopo la strage di Capaci, Borsellino (all’epoca procuratore capo a Marsala e dal marzo 1992 di nuovo alla procura di Palermo come procuratore aggiunto) decise – pur non essendo titolare dell’indagine – di approfondire l’inchiesta riguardante gli appalti, ovvero il coinvolgimento della politica e delle imprese nazionali con la mafia, perché – come disse al giornalista Mario Rossi – la ritenne la causa della morte del suo amico Giovanni Falcone. Ciò è confermato sia da un incontro che Borsellino volle tenere il 25 giugno 1992, presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, con gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini riferendo esclusivamente a lui, sia dalle conversazioni avute dallo stesso Borsellino con Antonio Di Pietro, che all’epoca stava conducendo le indagini sugli appalti al centro di Mani pulite. A questo si aggiunge il fatto che Borsellino sentii anche il pentito Leonardo Messina, il quale gli riferì che la Calcestruzzi Spa (all’epoca del gruppo Ferruzzi – Gardini) sarebbe stata in mano a Totò Riina. Ora, grazie alle audizioni rese al Csm tra il 28 e il 31 luglio 1992, sappiamo che Borsellino aveva una conoscenza approfondita del dossier mafia-appalti tanto da avanzare rilievi importanti e ottenere una nuova riunione in Procura per approfondire il tema. Non fece in tempo. Dopo pochi giorni il tritolo esplose sotto la casa della mamma e che massacrò, oltre a lui, i ragazzi della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il 14 agosto del 1992, in pieno periodo ferragostano, il gip Sergio La Commare archivia il dossier mafia-appalti. La richiesta di archiviazione viene stilata il 13 luglio e depositata il 22 luglio, solamente tre giorni dopo l’assassinio di Borsellino.
Perché fu ucciso Paolo Borsellino, ora lo sappiamo ma non perché non si indagò. Piero Sansonetti de Il Riformista il 22 Agosto 2020. Molti tasselli adesso si incastrano e comincia a diventare abbastanza chiaro il motivo per il quale fu ucciso Paolo Borsellino. Fu ucciso perché voleva indagare sul dossier mafia-appalti, probabilmente l’atto di accusa più documentato e clamoroso di sempre sui rapporti tra economia mafiosa (e potere mafioso) ed economia legale. Forse è lo stesso motivo per il quale è stato ucciso Giovanni Falcone, ma questo non è sicuro. Occorrerebbero delle indagini. Fin qui la Procura di Palermo (diciamo in questi quasi trent’anni), non ha ritenuto di doverle svolgere. Si è limitata a cadere nella trappola tesagli da un falso pentito (Vincenzo Scarantino) che – come si dice – l’ha mandata pe’ campi per parecchi anni, con l’aiuto (o il mandato) di diversi uomini delle istituzioni; e poi a mettere in piedi quel processo un po’ farsa, quello sulla presunta trattativa Stato-mafia, dove l’imputato principale, paradossalmente, è il generale Mori, cioè l’uomo che ha raccolto il dossier mafia-appalti, cioè l’amico di Falcone e Borsellino, cioè l’uomo che, dopo Borsellino e Falcone, ha dato di più nella lotta a Cosa Nostra. Per ora noi giornalisti non possiamo fare altro che raccogliere gli elementi di assoluta evidenza. Quelli che risultano dai documenti, dalle dichiarazioni, dalle testimonianze, comprese quelle che sono state ignorate dalla magistratura. Un giornalista che fa questo con molto impegno da diversi anni è Damiano Aliprandi, del Dubbio, che ieri ha pubblicato stralci della testimonianza pronunciata nel 1992 davanti al Csm da uno dei magistrati palermitani, Domenico Gozzo, che in quei giorni era sulla piazza. Gozzo parla di una riunione di tutti i Pm della Procura di Palermo, convocati dal procuratore Giammanco, il 14 luglio del 1992, una cinquantina di giorni dopo l’assassinio di Falcone. Era presente Paolo Borsellino in qualità di Procuratore aggiunto. Da sola questa testimonianza dimostra che Paolo Borsellino, dopo l’uccisione di Falcone, voleva che si lavorasse sul dossier mafia- appalti e mostrava di conoscere bene quel dossier, e rimproverava i suoi colleghi di averlo sottovalutato. Non poteva sapere che, proprio il giorno prima, i sostituti procuratori Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte avevano firmato la richiesta di archiviazione del dossier. Nessuno glielo disse. Alla riunione, secondo il ricordo di Gozzo, del dossier parlò Pignatone, che era uno dei sostituti procuratore che erano incaricati di seguirlo. Pignatone però non era tra quelli che il giorno prima aveva firmato la richiesta di archiviazione. Possibile che non sapesse niente? E poi, alla riunione pare ci fosse anche Lo Forte (Scarpinato aveva problemi a casa): perché quando Borsellino chiese del dossier e pretese anche che fosse fissata una riunione ad hoc per discuterne, Lo Forte non avvertì che era stata già chiesta l’archiviazione? Timidezza, paura dell’ira di Borsellino? O un modo per evitare una seccatura, o strategia? La riunione chiesta da Borsellino non si tenne mai. Perché nel frattempo Borsellino fu ucciso. Forse si potrebbe anche scrivere: Borsellino fu ucciso perché quella riunione non si tenesse mai. E chi lo uccise raggiunse lo scopo. Perché a nessun magistrato che ne aveva il potere e la competenza venne in mente di convocare la riunione, dopo la morte di Borsellino. Preferirono ascoltare Scarantino… Per capire bene che non mi sto inventando niente, ricopio le frasi più importanti della deposizione del magistrato Domenico Gozzo, riportate ieri da Aliprandi sul Dubbio (il verbale della deposizione al Csm è del 29 luglio del 1992, appena 10 giorni dopo l’uccisione di Borsellino). Alla fine della descrizione mi limiterò a ricordarvi alcune date, la cui successione fa impressione. Ecco le parole di Gozzo: «Alla Procura di Palermo c’è questa consuetudine di fare delle assemblee in cui si discute di vari temi… La riunione del 14 luglio è stata l’ultima a cui ha partecipato Paolo Borsellino, era seduto due sedie dopo di me, era una riunione… in cui i vari colleghi erano chiamati a riferire sui processi che avevano gestito… su mafia e appalti, quindi, c’era il collega Pignatone (se non ricordo male) e doveva esserci anche il collega Scarpinato che però non poté venire per problemi di famiglia. Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata – perché al momento aveva dei problemi – la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate…». Gozzo specifica che il processo è quello relativo a mafia- appalti e, alla domanda di quali carte si trattasse, risponde: «Si trattava di carte che erano state inviate (quello che ho sentito là, chiaramente, posso riferire) alla procura di Marsala – e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla Procura di Palermo – che era lo stesso processo, però a Marsala. C’erano degli sviluppi e, quindi, erano stati mandati a Palermo e lui (Borsellino, ndr.) si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea. E, poi, diceva che c’erano dei nuovi sviluppi (in particolare un pentito di questi che ultimamente aveva parlato), e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: “ma… vedremo”… Cioè, di fronte ad una offerta così importante (io riferisco i fatti): “Ma, vedremo se è possibile… ma, è il caso di acquisirlo?”». Benissimo. Ora un occhio alle date, perché qualcosa dicono.
13 luglio. Scarpinato e Lo Forte firmano la richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti.
14 luglio. Si tiene l’assemblea dei Pm nella quale Borsellino parla di mafia-appalti senza evidentemente sapere che è stata già avanzata la richiesta di archiviazione.
19 luglio. Borsellino viene ucciso insieme alla scorta.
22 luglio. La richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti viene depositata formalmente.
14 agosto. Mafia-appalti è archiviata e non se ne parlerà più. Nel dossier erano indicate tutte le aziende dell’Italia continentale che trattavano con la mafia.
P.S. 1 – La domanda è questa: il processo sull’ipotesi di trattativa tra stato e mafia è stato messo in piedi per dare una spiegazione all’uccisione di Borsellino diversa dalla ragione che ora appare in tutta la sua evidenza e sulla quale non si è voluto indagare?
P.S. 2 – Un ricordo: nei verbali di interrogatorio della moglie di Borsellino, dopo la sua uccisione, si legge questa frase: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo».
Dopo aver letto queste parole, c’è qualcuno che può restar tranquillo?
Mafia & appalti, una verità scomoda. Luciano Tirinnanzi su Panorama 12 Luglio 2013. Cosa c'è dietro e cosa c'è stato dopo l'inchiesta condotta dai Ros. Quando, negli anni a venire, si guarderà con lo sguardo freddo e distante della storia agli eventi che contraddistinsero i fatti avvenuti tra la seconda metà del 1992 e l’estate del 1993, si accetterà probabilmente la vera ragione per cui sono morti Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino poi: l’indagine su Mafia e Appalti condotta dai carabinieri del ROS. Una delle vicende più cupe e al contempo rivelatrici dell’animus italico - stretto tra segreti di Stato e condizionamenti della mafia, tra soldi e potere - si fa improvvisamente chiara, quando leggiamo quell’indagine da cui tutto ha avuto origine e che ha portato i suoi destinatari, i giudici Falcone e Borsellino, alla morte e i suoi autori, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, a un ventennio di processi a loro carico. In quest’Italia, infatti, spesso si vogliono ammantare di misteriosi enigmi e ridde di complotti, anche le verità più palesi. Una di queste verità è scritta nella sentenza della Corte d’Assise di Catania del 22 aprile 2006, dove si afferma, a proposito del movente della strage di via D’Amelio: “la possibilità che il dottor Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti“. Ma andiamo con ordine. Ben prima che la Procura di Milano avviasse l’inchiesta che passerà alla storia come “Mani Pulite” nei primi mesi del 1992, già il 20 febbraio 1991 il ROS depositò l’informativa Mafia e Appalti, relativa alla prima parte delle indagini sulle connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi, dove si rivelava l’esistenza di un comitato d’affari illegale e si facevano i nomi di società e persone coinvolte.
Falcone e l’importanza di depositare “Mafia e Appalti”. Il deposito di Mafia e Appalti fu voluto espressamente da Giovanni Falcone, il quale all’epoca stava passando dalla Procura di Palermo alla Direzione degli Affari Penali del Dipartimento di Giustizia capitolino: Falcone si raccomandò con i carabinieri del ROS di depositare subito quelle carte, poiché ritenute cruciali per spiegare le connessioni tra mafia e politica. Lo ricordò lo stesso giudice al convegno palermitano del 14 e 15 marzo 1992, a Castello Utveggio: “la mafia è entrata in borsa” disse due mesi prima di saltare in aria. Quelle carte “scottavano” al punto che divennero da subito motivo d’imbarazzo e indecisione da parte della Procura di Palermo. Che inizialmente, sulla base di Mafia e Appalti emise solo 5 provvedimenti di custodia cautelare per associazione a delinquere di stampo mafioso (7 luglio 1991), diversamente dai 44 che suggeriva l’informativa. Giovanni Falcone, nei suoi diari, dirà in proposito: “Sono scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”. Non solo. Agli avvocati difensori dei 5 arrestati fu indebitamente e insolitamente consegnata l’intera informativa del ROS (890 pagine più 67 di appendice, dunque comprensiva di tutte le 44 persone oggetto d’indagine), anziché stralci dei soli passaggi relativi alle loro posizioni. Con ciò fu svelata l’architettura investigativa complessiva, emersero i nomi di tutti i soggetti nel mirino del ROS e si vanicò sostanzialmente l’intera indagine. Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire fu il deputato andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992, l’uomo “delle cosche” che non poteva più garantire per esse. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché - su esplicita richiesta - rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, uno dei 5 arrestati di Mafia e Appalti e ritenuto dal ROS “l’anello di congiunzione tra mafia e imprenditoria”. Quindi, come noto, il 23 maggio morì lo stesso Falcone e il 19 luglio 1992 la stessa sorte toccò anche a Paolo Borsellino.
Borsellino e le confidenze a Ingroia. Borsellino, il 25 giugno del ‘92, volle incontrare segretamente negli uffici del ROS gli autori dell’informativa, il colonnello Mori e il capitano De Donno, riferendo loro che l’inchiesta Mafia e Appalti era “il salto di qualità” investigativo che avrebbe permesso di individuare sia i responsabili della corruttela siciliana sia gli autori della morte di Falcone. Borsellino indicò proprio in Mafia e Appalti la causa della morte dell’amico giudice e chiese il massimo riserbo sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo, per timore di fughe di notizie. Il giudice Antonio Ingroia, intimo di Borsellino, confermò alla Corte d’Assise di Caltanissetta che Borsellino gli aveva confidato di essere convinto che, attraverso gli appunti di Falcone relativi all’inchiesta Mafia e Appalti, si sarebbero potuti individuare i moventi della strage di Capaci. Fatto confermato anche da Giovanni Brusca, autore materiale della strage, il quale nel 1999 dichiarò alla DDA di Palermo che i vertici di Cosa Nostra erano “preoccupati delle indagini sugli appalti”.
L’archiviazione di “Mafia e Appalti”. Il fatto più inquietante avvenne però il 20 luglio, il giorno dopo la morte di Borsellino quando, non ancora allestita la camera ardente per le vittime di via d’Amelio, la Procura di Palermo depositò inspiegabilmente la richiesta di archiviazione dell’inchiesta Mafia e Appalti, nella parte in cui ci si riferiva a imprenditori e politici. Il decreto di archiviazione arrivò il 14 agosto. Anche in seguito a quell’atto, la frattura all’interno della Procura di Palermo e tra questa e il ROS, sembra non essersi mai più sanata. Così come non si rimarginano le ferite aperte dalle stragi mafiose del 1992, che hanno originato sospetti e liti di cui ancor oggi vediamo gli effetti, non solo nelle aule di tribunale.
Vito Ciancimino e la trattativa. Vale la pena ricordare anche la cosiddetta “Trattativa Stato Mafia” che gira intorno alla persona dell’ex sindaco di Palermo nonché “uomo delle cosche” , Vito Ciancimino. Tutto ebbe inizio il 5 agosto 1992, dopo le stragi di mafia. Ciancimino fu avvicinato dal ROS perché collaborasse alle indagini Mafia e Appalti, visto che rivestiva il ruolo di cerniera tra il mondo politicoimprenditoriale e quello mafioso. Ed, effettivamente, il sindaco consegnò qualcosa ai militari. Ma non il famigerato “papello” , bensì il libro “Le Mafie” redatto dallo stesso Vito, dal quale si evinceva la sostanziale convergenza tra la tesi dell’inchiesta Mafia e Appalti e la realtà di Palermo. Su sua espressa richiesta, Ciancimino chiese ripetutamente - ma senza esito - di essere ascoltato dalla Commissione Parlamentare Antimafia, dove all’epoca sedeva Luciano Violante. Violante fu informato dei contatti con Ciancimino dal colonnello Mori il 20 ottobre 1992, nel giorno della sua audizione all’Antimafia. Una settimana dopo, Mori consegnò al presidente Violante una copia del libro “Le Mafie” che, per la verità, a detta di entrambi non conteneva fatti poi così rilevanti. Un mese prima, Mori discusse dell’importanza dell’attività investigativa relativa agli appalti anche con Piero Grasso, all’epoca consulente della Commissione Parlamentare Antimafia. E poi con Giancarlo Caselli, poco prima che divenisse Procuratore della Repubblica, fatto che avvenne il 15 gennaio, stesso giorno in cui fu arrestato Salvatore Riina, il capo di Cosa Nostra.
Conclusioni. I passaggi di cui sopra sono tutti certificati e agli atti dei tribunali. Ma, in ultima istanza, essi saranno giudicati dal solo tribunale che conta davvero, quello della storia. Detto questo, è quantomeno bizzarro credere che vi sia stata una “trattativa segreta” ad opera del ROS finalizzata a favorire la mafia, quando erano stati proprio i carabinieri a svelare la connessione mafiapolitica attraverso l’indagine Mafia e Appalti e quando di tali circostanze erano a conoscenza quantomeno i più alti rappresentanti delle istituzioni. Davvero, nel 2013, pensiamo ancora che uomini dello Stato, carabinieri, abbiano ordito contro il nostro Paese per favorire Cosa Nostra? E a quale scopo, esattamente? Favorire Salvatore Riina? Ma Riina è o non è in carcere da vent’anni grazie alle indagini del ROS? E, da ultimo, è o non è vero che oggi la mafia fa affari miliardari con gli appalti, come scoprirono proprio i carabinieri e come pensava anche Giovanni Falcone?
Le parole di Paolo Borsellino, 28 anni dopo: «Sto arrivando a trovare cose, altro che Tangentopoli». Enzo Boldi il 19/07/2020 giornalettismo.com. I verbali delle audizioni sono stati desecretati. Paolo Borsellino aveva raccontato alla sorella di Falcone di aver trovato cose più gravi di Tangentopoli. Ventotto anni dopo sono state desecretate le audizioni. Il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 sono due date incise nella storia delle tragedie italiane. La prima fu quella della strage di Capaci, l’attentato in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta (Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro); la seconda, 57 giorni dopo, fu quella della strage di via D’Amelio (a Palermo) in cui persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e cinque componenti della sua scorta: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Fabio Li Muli. Ora, 28 anni dopo, sono stati desecretati i verbali delle audizioni di quel periodo marchiato con il sangue nella storia dell’Italia. In questi anni si sono rincorse varie ipotesi sull’omicidio di Paolo Borsellino. Aveva trovato i mandanti e gli autori di quell’attentato che costò la vita al suo amico e collega Giovanni Falcone? O era riuscito a individuare quei collegamenti tra Stato e Cosa Nostra di cui si è continuato a parlare per diversi anni. Ora La Repubblica riporta uno stralcio di quei verbali di audizione, in cui Maria Falcone – sorella maggiore del magistrato ucciso il 23 maggio ’92 – racconta cosa gli aveva confessato Borsellino.
Paolo Borsellino, le audizioni dopo la strage di via D’Amelio. «Dopo la messa per Giovanni, Paolo mi aveva portato a vedere il campetto di calcio dove giocavano da bambini. Gli confidai che ero scoraggiata – raccontò Maria Falcone agli inquirenti pochi giorni dopo l’attentato che costò la vita a Paolo Borsellino e a cinque componenti della sua scorta – . Mi disse: "Sto lavorando tanto, state tranquilli. Sto arrivando a trovare delle cose, altro che Tangentopoli e Tangentopoli"».
28 anni dopo. Oggi, 28 anni dopo, Matteo Messina Denaro – il superlatitante boss di Cosa Nostra – è indicato come uno dei mandanti di delle stragi del 1992. I pm hanno chiesto l’ergastolo, ma di lui non v’è traccia da anni, proprio da quegli anni di tragedie. Una storia che non si limita ai 57 giorni intercorsi tra le due stragi, ma che sembra avere radici molto più profonde.
Alberto Di Pisa: «Borsellino ucciso per mafia-appalti». Damiano Aliprandi Il Dubbio il 18 luglio 2020. Alberto Di Pisa ha lavorato con Falcone e Borsellino. Dopo l’accusa di essere il “corvo” gli fu tolta e archiviata l’inchiesta su mafia-appalti palermitana. «Proprio il giorno dell’attentato di Via D’Amelio Paolo Borsellino aveva urgenza di parlarmi, ma purtroppo non c’ero quando era passato a cercarmi». A raccontarlo a Il Dubbio è il dottor Alberto Di Pisa, magistrato di lungo corso che aveva fatto parte del pool antimafia fin dagli albori. Ha lavorato a stretto contatto con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ed è stato tra i giudici che istruirono il maxiprocesso. Ha svolto importanti inchieste come l’omicidio del sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, iniziò il processo Ciancimino, che gli fu affidato come singolo e non come componente del pool. Avviò anche una inchiesta sui grandi appalti di Palermo gestiti dall’allora ben noto “comitato d’affari”. Gliele tolsero tutte di mano per via dell’accusa – poi conclusasi con una piena assoluzione – di essere stato l’autore della lettera del “corvo”. In particolar modo l’inchiesta su mafia e appalti palermitani, passata di mano per volere dell’allora capo della procura di Palermo Pietro Giammanco, finì per essere archiviata. Nel 2016, dopo 45 anni di attività giudiziaria, ha riposto la sua toga per limiti di età. A 72 anni ha lasciato l’ufficio di procuratore di Marsala, un posto che prima ancora fu occupato da Borsellino. Recentemente ha pubblicato un nuovo libro dal titolo “Morti opportune” dove analizza alcuni decessi sospetti come i suicidi, infarti, incidenti stradali, ma che riguardano persone che appartengono alle forze dell’ordine e ai servizi segreti. Morti che sarebbero state archiviate troppo frettolosamente.
Dottor Di Pisa, lei conosceva molto bene Paolo Borsellino?
«Sì, eravamo in ottimi rapporti. Sia al livello professionale visto che abbiamo lavorato assieme nel pool antimafia, sia al livello umano. Inoltre abbiamo anche una parentela in comune. Purtroppo hanno scritto di tutto, anche che i miei rapporti con Falcone e Borsellino non erano idilliaci. Eppure, per quanto riguarda Giovanni Falcone basterebbe leggere i verbali di quando fu sentito al Csm. Alla domanda quali fossero i rapporti con me, lui rispose che erano ottimi e professionali. Non solo, quando io fui nominato procuratore aggiunto a Palermo, Falcone venne a trovarmi per congratularsi e dirmi che avremo lavorato insieme. Ritornando a Borsellino, sa cosa mi disse quando uscì l’articolo di Repubblica dove si scrisse che io sarei stato l’autore della lettera del “corvo”?»
No, mi dica.
«Mi disse che non ci avrebbe creduto nemmeno se lo avesse visto con i propri occhi che quell’anonimo l’ho scritto io. Quella vicenda, mi creda, la vorrei cancellare dalla mia mente. Tutto iniziò quando Totuccio Contorno venne arrestato a San Nicola l’Arena. Arrivò segretamente a Palermo quando era già collaboratore di giustizia negli Stati Uniti. Era sotto protezione, ma giunse in Sicilia nel periodo in cui si stava verificando un regolamento di conti all’interno della mafia. Io stesso, in una riunione dove erano presenti tutti i miei colleghi del pool, dissi apertamente che bisognava fare delle indagini per capire come fosse possibile che un collaboratore di giustizia fosse impunemente tornato in Sicilia. Ricordo che proprio in quel periodo Tommaso Buscetta disse che Contorno è stato pregato di tornare a Palermo, ma poi ha ritrattato questa sua affermazione».
Poi arrivò la lettera del “corvo” che in sostanza puntò gravissime accuse nei confronti anche di Falcone e Giovanni De Gennaro, l’allora dirigente superiore della Polizia. A quel punto è stato lei a farne le spese.
«Dovrò aspettare quattro anni prima di essere definitivamente scagionato dall’accusa di essere il “corvo” di Palermo. L’accusa nasce dalla costruzione di una pseudo prova. L’allora alto commissario Domenico Sica mi prese le impronte sul tavolo di vetro sul quale tamburellavo con le dita. In realtà, come ben spiegato nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, non c’è mai stata una mia impronta sulla lettera anonima, ma solo la foto di un’impronta costruita a tavolino. Nella lettera c’è solo una macchia, probabilmente un pasticcio da chi ha cercato invano di trasferirle la mia impronta. Tra l’altro denunciai Sica per abuso di potere, perché quell’indagine doveva essere eseguita dalla Polizia giudiziaria e non da un organo amministrativo».
Ma secondo lei chi è stato l’autore del “corvo”?
«Basta leggere la sentenza di assoluzione. Dice chiaro e tondo che queste lettere nascono da una faida interna alla Criminalpol. E infatti in quel periodo c’era uno scontro tra la squadra di De Gennaro e quella di Bruno Contrada. Il “corvo” bisognava cercarlo lì, ma nessuno lo fece».
Ma come mai c’è stata la volontà di incastrarla?
«In quel periodo avevo inchieste scottanti, tra le quali quella su mafia e appalti del comune di Palermo. Era il periodo della famosa primavera, con Leoluca Orlando sindaco. Ma in realtà appurai che i grandi appalti erano ancora in mano a referenti mafiosi. In realtà non era cambiato nulla e Vito Ciancimino ancora contava. Inchieste che l’allora capo della procura di Palermo Pietro Giammanco me le tolse. Ancora non ero stato raggiunto da un avviso di garanzia per il Corvo, ma era bastato un articolo de La Repubblica contro di me – che giorni prima aveva invece avanzato sospetti per il ritorno di Contorno – per sospendermi. Quella sugli appalti fu affidato ad un collega della procura di Palermo che poi fece richiesta di archiviazione. In quel periodo, ad esempio, mi occupai anche della vicenda di Pizzo Sella, sperone di granito che è diventata “la collina del disonore”. Scoprii che furono rilasciate dalla giunta comunale guidata da Salvatore Mantione centinaia di concessioni edilizie a Rosa Greco, sorella del boss Michele Greco. Fu una lottizzazione abusiva avvenuta in cambio di favori. Dopo anni uscì fuori che in questa operazione edilizia ci fu l’interessamento della Calcestruzzi di Ravenna del gruppo Gardini-Ferruzzi. In quel periodo chi toccava gli appalti veniva delegittimato oppure moriva».
Perché, chi è morto per gli appalti?
«Sicuramente Paolo Borsellino. Non c’entra nulla la trattativa, perché ne avrebbe parlato e soprattutto denunciato in Procura se avesse appurato una cosa del genere. In realtà è morto per la questione appalti, erano lì tutti gli interessi della mafia. Lui stesso si era incontrato con i Ros per discutere delle indagini relative al dossier».
A lei ne ha mai parlato?
«No, ma ricordo che in una occasione – se non erro ai funerali di Falcone – gli chiesi se l’attentato fosse una strategia di “destabilizzazione”. Lui mi rispose di no, ma che è “stabilizzante”. Le racconto un’altra circostanza. Quella domenica del 19 luglio Borsellino era passato da mio cognato che vive nella zona di Marina Longa, la località estiva dove Paolo ogni tanto, il fine settimana, andava. Lui sapeva che ci andavo pure io. Purtroppo non ho fatto in tempo a incrociarlo. Quando arrivai, mio cognato mi disse che Borsellino mi aveva cercato, anche con insistenza. Rimango con questa amarezza nel non averlo incrociato, chissà cosa mi avrebbe voluto dire con una certa urgenza».
A proposito di magistratura, il caso Palamara le ha sorpresa?
«Io che provengo dall’esperienza della Procura dei veleni assolutamente no. Ho scritto recentemente nella mailing list dell’Associazione nazionale magistrati che questo sistema uscito ora, in realtà esiste da 30 anni. Ad esempio, tutti gli incarichi direttivi venivano sempre dati agli esponenti di Magistratura Democratica. Non dimentichiamoci di Falcone. Con la sola eccezione di Gian Carlo Caselli, tutta MD votò contro di lui come successore di Antonino Caponnetto alla guida dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo».
Ma lei pensa che ora ci sia un cambiamento?
«No. Non c’è la volontà politica di fare un cambiamento radicale del sistema. Ho letto il progetto di riforma e mi pare acqua fresca. D’altronde potrebbe esserci il rischio che Luca Palamara diventi l’unico colpevole, una sorta di capro espiatorio della magistratura e, infatti, la sua linea difensiva mi pare chiara. Ovvero che non è solo lui, ma un sistema generalizzato».
Di Pietro racconta “Tangentopoli”. “Quando Borsellino mi disse: Tonì facciamo presto, ci resta poco”. Carmen Sepede il 17 dicembre 2018 su isnews.it. Il racconto di una delle pagine più importanti della storia italiana, in una lezione-intervista che l’ex magistrato del Pool di “Mani pulite” ha fatto nel “Caffè letterario” dell’Istituto “Pilla” di Campobasso. Il terrorismo e gli attentati di mafia, la delegittimazione e l’ingresso in politica, l’Italia oggi e il rapporto con il suo Molise, in una ricostruzione che ha lasciato gli studenti a bocca aperta. Antonio Di Pietro doveva morire. Lo aveva deciso la mafia, che lo aveva messo al terzo posto della lista dei nemici da abbattere. Dopo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo ha raccontato l’ex magistrato del Pool “Mani pulite”, oggi a Campobasso, nel “Caffè letterario” dell’Istituto “Pilla” di Campobasso, intervistato dal giornalista Giovanni Minicozzi davanti agli studenti della scuola, rimasti a bocca aperta nel sentire, dal vivo, il racconto di una delle pagine più importanti della storia del nostro Paese.
“Tangentopoli” e i rapporti tra Stato e Mafia. “Ero ai funerali di Giovanni Falcione – ha ricordato Di Pietro – Borsellino mi si avvicinò e mi disse. “Tonì, facciamo presto, abbiamo poco tempo”. Il tempo che gli era rimasto lo conoscete tutti. A me è andata meglio, a Milano ero più protetto, abitavo in una casetta di campagna, sorvegliato notte e giorno con quattro telecamere collegate alla questura. Dopo gli attentati mandai però la mia famiglia in America, in Costa Rica e in Ohio, con un falso passaporto e protetti dallo Stato. Io invece decisi di restare. Quando morì anche Borsellino – ha aggiunto – tornai a casa a Montenero di Bisaccia. Non avevo più i genitori e mi rivolsi a mia sorella. “Concettì, che devo fare?” le chiesi. E lei, “fai il tuo dovere e pagane le conseguenze”.
Al suo anco c’erano gli altri magistrati del Pool di Milano, Gerardo D’Ambrosio, Francesco Saverio Borrelli, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Tra il 1992 e il 1993, nel cuore di ‘Tangentopoli’, Antonio Di Pietro era diventato uno degli uomini più potenti d’Italia, sulle copertine di tutti i quotidiani del mondo. Dal lanciare il suo nome come possibile Presidente della Repubblica, com’è pure avvenuto, alla macchina del fango e “allo sputo in faccia”, come ha ricordato, ne è passato poco. “Dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino – le sue parole – lo Stato ha rialzato la testa nei confronti della mafia, come aveva fatto con il terrorismo dopo l’omicidio Moro. Allora, visto che non si è potuto più uccidere, è stata utilizzare un’altra strategia. Quando vuoi fermare una persona puoi utilizzare due metodi: o ammazzarlo, o delegittimarlo, che è la morte civile. Ed è quello che hanno tentato di fare con me. Perciò “Mani pulite” è riuscita solo per metà”.
Dopo la caduta della Prima Repubblica, “che in tanti hanno attribuito a me”, Di Pietro ricevette una telefonata. "Arrivava dall’ufcio della Presidenza della Repubblica. Proposero a me di fare il ministro dell’Interno e a Davigo il Ministro della Giustizia. Io ho riutato, perché se avessi accettato sarei stato un 'padreterno', ma corrotto”. Patentino Muletto da 120€ Corsi in tutta Italia. Trova il Corso più vicino a Te. Azienda Sicura APRI ANN. L’impegno in politica, con la fondazione dell’Italia dei Valori e la nomina a ministro dei Lavori pubblici del Governo Prodi, arriva dopo le sue dimissioni da magistrato. “Non mi sono certo dimesso per fare politica – ha voluto precisare – ma per difendermi, sono stato processato 267 volte e sempre assolto. A un certo punto hanno anche detto che ero un agente della Cia. Ma che ci azzecco io con la Cia – ha detto utilizzando il “dipietrese doc” - che non so una parola di inglese”.
Se "Mani pulite" è finita, “è stato un periodo irripetibile”, la corruzione esiste ancora. “Non è però la stessa cosa – Di Pietro ha voluto precisare – oggi se ne parla così tanto perché c’è più lotta alla corruzione. C’è però stata una sbiancatura del reato. Io all’epoca di Tangentopoli ho trovato un pouf pieno d’oro, valanghe di soldi nascosti in uno scarico del bagno. Oggi ci si vende per il viaggio, il regalo, un vantaggio per sé e i propri familiari. Ora come allora la corruzione è però una continua lotta tra guardia e ladri. Quando le guardie scoprono il metodo per incastrare i ladri questi lo cambiano”. Una lezione di cultura della legalità, voluta dalla dirigente del 'Pilla' Rossella Gianfagna, con un monito rivolto agli studenti, “non aspettate che siano gli altri a denunciare, fatelo voi stessi, quando ci sono le circostanze”, come ha detto l'ex ministro. Che ha espresso preoccupazione per il suo Paese, “perché come negli anni Trenta e Quaranta qualcuno parla alla pancia degli italiani”.
Non è mancata una riflessione sulla sua terra d’origine. “Io sono innamorato del mio Molise – ha precisato Di Pietro - e nel corso degli anni credo anche di averlo fatto conoscere. Ma sono convinto che anche in Italia sia necessaria una revisione del sistema delle autonomie. Non credo ci debbano essere più le regioni a statuto speciale e tante regioni piccole, ma servono strutture più ampie con più autonomie, che abbiano più voce in capitolo. Il mio Molise – ha concluso – è troppo piccolo e porta pochi voti. Quindi è poco ascoltato”.
Di Pietro: "Salvo Lima incassò tangente Enimont attraverso Cirino Pomicino". Pubblicato il 03/10/2019 su adnkronos.com. "Anche Salvo Lima incassò una tangente Enimont da Raul Gardini, attraverso i Cct che gli girò Cirino Pomicino". A rivelarlo in aula, al processo d'appello sulla trattativa tra Stato e mafia è l'ex pm Antonio Di Pietro, sentito come teste dalla difesa del generale Mario Mori. Di Pietro parlando dell'inchiesta Tangentopoli nel 1992 ha riferito dei "collegamenti tra affari e politica" e ha ribadito che "i soldi di Gardini finirono anche a Salvo Lima". All'epoca Di Pietro aveva avuto anche dei rapporti di collaborazione con i giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. "Il primo che mi disse 'dobbiamo fare presto, dobbiamo chiudere il cerchio' fu Paolo Borsellino", racconta Di Pietro. "L'elemento predominante del collegamento Nord-Sud o affari e mafia, l'ho avuto quando ho avuto il riscontro della destinazione della tangente Enimont da 150 miliardi di lire - dice Di Pietro - e il mio impegno allora era di trovare chi erano i destinatari, perché avevamo trovato la gallina dalle uova d'oro, la cosa che avevamo davanti era la necessitò di trovare i destinatari". E spiega: "L'ultimo destinatario fu proprio Salvo Lima che però incassò attraverso Cct. Non potemmo sapere molto perché nel marzo 1992 Lima venne ucciso a Palermo e Gardini si uccise". "Ma si trattava di vedere chi quella parte di tangente di provvista di 150 miliardi di lire li aveva incassati e abbiamo trovato che 5,2 miliardi li aveva incassati Cirino Pomicino, e fu Cirino Pomicino che diede i cct a Salvo Lima".
La replica di Cirino Pomicino: "Di Pietro non sa l'italiano, non tangente ma finanziamento".
"Nel 1992, da febbraio a maggio e fino all'omicidio Di Falcone, l'inchiesta "Mani pulite" si allargò e assunse una rilevanza nazionale - dice ancora Antonio Di Pietro nel corso della deposizione rispondendo alle domande dell'avvocato Basilio Milio -. Io mi confrontai con Giovanni Falcone che mi disse che le rogatorie erano l'unico strumento per individuare le provviste e mi accennò che da lì si arrivava anche in Sicilia. Ecco perché bisognava controllare gli appalti anche in Sicilia". Di Pietro parlò anche con Paolo Borsellino "degli stessi argomenti". "Man mano che si sviluppava l'indagine era più opportuno andare a cercare dove si formava la provvista". Il suicidio di Raul Gardini, rivela ancora Di Pietro "è il dramma che mi porto dentro...". Nel luglio del 1993 "l'avvocato di Raul Gardini, che all'epoca era latitante, mi assicurò che il suo cliente si sarebbe consegnato. Io volevo sapere che fine avessero fatto i soldi della maxi tangente Enimont. Ma la notte prima dell'interrogatorio l'imprenditore Gardini tornò nella sua abitazione, che tenevamo sotto controllo. La polizia giudiziaria mi chiese se doveva scattare l'arresto. E io dissi di aspettare", racconta Di Pietro. Ma la mattina dopo l'imprenditore si uccise con un colpo di pistola. "E' il dramma che mi porto dentro...", dice Di Pietro con un filo di voce. Per poi aggiungere: "Ma questo che c'azzecca con la trattativa?...". Poi la denuncia dell'ex pm: "L'inchiesta "Mani pulite" è stata fermata quando è arrivata allo stesso punto del rapporto tra mafia e appalti. Sono stato fermato da una delegittimazione gravissima portata avanti in modo abnorme". "Nei miei confronti sono stati svolti una serie di dossieraggi portati avanti da personaggi su ordine di alcuni politici che hanno portato alle mie dimissioni - dice Di Pietro rispondendo alle domande dell'avvocato Basilio Milio - Da lì a poco sarebbe arrivata non solo una grossa indagine nei miei confronti ma anche una richiesta di arresti e io mi dimisi per potermi difendere. Sono stato prosciolto e ho detto che chi ha indagato su di me non poteva indagare, cioè Fabio Salamone che io denunciai al Csm". "Sono convinto che Paolo Borsellino - ha continuato quindi Di Pietro - fu ucciso perché indagava sulle commistioni tra la mafia e la gestione degli appalti. L'indagine mafia-appalti fu fermata. Come accadde con Mani pulite".
Di Pietro: “Volevo arrestare Andreotti, Mani pulite fu fermata da giudici”. Dante Bigi su Il Riformista il 19 Gennaio 2020. In una recente intervista apparsa sull’Espresso di Susanna Turco ad Antonio Di Pietro, l’ex pm ha dichiarato che Mani Pulite è nata in realtà da Falcone dentro il maxi processo di Palermo, aggiungendo che Craxi fosse solo uno dei suoi obiettivi. Al contrario, nelle sue intenzioni, avrebbe arrestato Andreotti. E poi aggiunge: «Mani pulite non è stata fermata dalla politica: è stata fermata dai giudici». Dichiarazioni forti che riscrivono la storia degli ultimi trent’anni, visto che come ricorda Di Pietro, «Mani pulite ha generato un’onda antipolitica e la nascita non solo del Movimento 5 stelle, ma anche dell’Italia dei valori». L’ex pm non si risparmia neanche sull’abuso d’ufficio, considerandolo ormai di moda, e su Davigo, dal quale prende le distanze, impugnando il Codice penale e ripercorrendo tutta la sua carriera. Da quando era poliziotto a indagato, da testimone a imputato, Di Pietro dice: «Ho visto così tante giustizie, che le certezze granitiche di Davigo non ce le ho più». Ma è sicuramente su Mani pulite che rivela elementi inediti, specie a proposito dell’esito dell’inchiesta del maxi-processo di Palermo, quando «Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia» e poi, continua, «Falcone dà l’incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine che doveva andare a Falcone, prima di essere trasferito». Un’inchiesta che la politica non avrebbe potuto fermare, se i giudici avessero fatto il loro dovere. E d è proprio sull’interruzione di Mani pulite, quando arriva alla connessione appalti-mafia che Di Pietro si fa più reticente. Ha intenzione di parlarne, ma non ora, ha carte e documenti, ma ha pensato addirittura di farli bruciare, nonostante l’opposizione di sua moglie e sua figlia, e attende il momento in cui questa storia venga rivista. Per Di Pietro, quindi «Mani pulite nasce come figlia di Mafia pulita» e spiega che Raul Gardini, che si suicida il 23 luglio 1993, lo fa perché sa che quella mattina, recandosi proprio da Di Pietro, «avrebbe dovuto fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire». È proprio questo ad aprire un nuovo scenario nel caso. Se Gardini avesse parlato e se Salvo Lima non fosse morto, Di Pietro avrebbe quindi avuto «elementi sufficienti per chiedere al Parlamento di arrestare Andreotti». E invece, cosa succede? Succede che con una serie di esposti alla procura di Brescia, Di Pietro è costretto a dimettersi, altrimenti sarebbe stato arrestato, perché sul suo capo gravava il reale pericolo di inquinamento delle prove, finché era magistrato.
Mani Pulite, Di Pietro rivela: “Avrei arrestato Andreotti, se Gardini non si fosse ammazzato”. In una lunga intervista l’ex pm ed ex politico Antonio Di Pietro ripercorre le tappe principali dell’inchiesta Mani pulite: “Mani pulite non è stata fermata dalla politica: è stata fermata dai giudici. Sembra di vedere la storia del mondo capovolto, ma ci sarà un momento per rivalutare questa storia”. Annalisa Cangemi su fanpage.it il 19 gennaio 2020. In una lunga intervista su l'Espresso, Antonio Di Pietro, ex pm ed ex politico racconta alla giornalista Susanna Turco la stagione di Mani Pulite. Il ‘pretesto' è offerto dai vent'anni dalla morte di Bettino Craxi. "Nell'immaginario collettivo", spiega Di Pietro, tutta la parabola di Mani pulite ruota attorno all'incontro tra lui e Craxi, ma non per lui: "Nella realtà io non ho mai avuto un rapporto con Craxi. Io miravo all'ambiente malavitoso che girava intorno ad Andreotti". Perché "Craxi era l'emergente, quello che faceva parte della Milano da bere". "Lo sanno anche le pietre: Andreotti è stato prescritto, fino al 1980, non è che è stato assolto. E dall'altra parte ci stava il sindaco, Vito Ciancimino, e Salvo Lima. Quindi, voglio dire: quello era il potere vero". "Mani pulite non è stata fermata dalla politica: è stata fermata dai giudici. È una storia che va riscritta prima o poi", dice l'avvocato 69enne. "Mani Pulite si ferma oggettivamente quando si rompe l'unicità dell'inchiesta. La sua forza era infatti nel cosiddetto fascicolo virtuale, nell'idea cioè di creare una connessione probatoria tra tutti i fatti – spiega – per cui procedeva una sola autorità giudiziaria. Ma nel momento in cui nascono i conflitti di competenza territoriale il fascicolo si smembra: e allora non ha più tutti gli elementi, non si può più utilizzare, e soprattutto il pm che sta qua, non conosce l'insieme degli elementi del pm che sta là". Di Pietro parla della nascita dell'inchiesta, che si interromperebbe quando arriva alla connessione appalti-mafia; e racconta delle carte e di documenti di cui è in possesso, e che vorrebbe divulgare: "Sembra di vedere la storia del mondo capovolto, ma ci sarà un momento per rivalutare questa storia. Ci sarà. Mani pulite non l'ho scoperta io: nasce dall'esito dell'inchiesta del maxi-processo di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l'accordo tra il gruppo Ferruzzi e la mafia. E Falcone dà l'incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui viene trasferito", Poi il rapporto rimane sotto chiave, in mano al magistrato ed ex Capo della procura di Palermo Pietro Giammanco. Dopo la morte di Falcone, Borsellino, il quale, come Di Pietro, era a conoscenza di quel fascicolo, inizia a indagare. E secondo Di Pietro, Paolo Borsellino fu ucciso proprio per questo: "Non per il maxiprocesso insieme a Falcone, ma perché insieme a Falcone doveva far nascere Mafia pulita". Mani pulite fu la conseguenza di Mafia pulita. "Il mio obiettivo non era scoprire quello che ho scoperto: era arrivare al collegamento al quale già erano arrivati anche loro a Palermo. Raul Gardini non si suicida così, per disperazione, il 23 luglio 1993: si suicida perché sa che quella mattina, venendo da me, doveva fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire". Di questo Di Pietro ha parlato tante volte, con le procure di Palermo, Caltanissetta, Brescia, Milano e con il Copasir. Ma non ha sortito alcun effetto. Salvo Lima, in quanto rappresentante di Andreotti e della mafia aveva intascato insomma una parte della tangente Enimont: "Se quel fatto veniva detto, se Gardini parlava, se Salvo Lima non moriva, io avrei potuto avere elementi sufficienti per chiedere al Parlamento di arrestare Andreotti". La rivazione shock di Di Pietro racconta una verità rimasta sepolta per anni, perché qualcuno gli ha impedito di agire: "All'improvviso le solite manine della delegittimazione mandano una marea di esposti contro di me alla procura di Brescia, che mi costringono alle dimissioni. Ma quando a me rimproverano ‘ti sei dimesso', possibile che nessuno si chieda perché l'ho fatto?". Per 25 anni Di Pietro ha cercato di rispondere a questa domanda, ripetendo che la sua è stata una "scelta di campo": "Se non mi fossi dimesso sarei stato arrestato, perché le accuse fatte mei miei confronti lo prevedevano obbligatoriamente". Sarebbe potuto finire in manette, proprio mentre stava per arrivare alla cupola mafiosa, "grazie alle dichiarazioni che mi aveva fatto il pentito Li Pera su un certo Filippo Salamone, imprenditore agrigentino intermediario tra il sistema mafioso e il sistema imprese-appalti, il nord che veniva gestito soprattutto da Gardini e dalla Calcestruzzi spa di Panzavolta".
Tangentopoli, Falcone e Borsellino. 1992, l'anno che cambiò l'Italia. Il Racconto di Enrico De Aglio il 09 febbraio 2012. Tutto accade vent'anni fa, quando una serie di eventi cambiarono il volto del nostro Paese. Prima la sentenza del maxiprocesso contro la Mafia. Poi l'uccisione di Salvo Lima e la stagione delle grandi stragi di Cosa Nostra. Negli stessi giorni, a Milano, Mario Chiesa intascava tangenti, Di Pietro lo convinse a confessare e il “mariuolo fu arrestato. Poi ci fu il boom della Lega e, due anni dopo, Berlusconi scese in campo. Così finì un epoca e si affermò l'idea che fosse una rivoluzione.
Il 1992 - giusto vent'anni fa - fu l'anno che cambiò l'Italia. Davvero. Ma non fu una rivoluzione, gli italiani non fanno rivoluzioni. Tutti coloro che all'epoca avevano l'età della ragione ricordano quell'anno, se lo vedono balzare di fronte alla memoria. Le serate passate alla tv per sapere in diretta chi era stato arrestato a Milano: un mondo politico che sembrava immortale che crollava sotto i nostri occhi. E poi le bombe: tutti ci ricordiamo dove eravamo quando qualcuno ci disse che era stato ucciso Falcone. E Borsellino? Eravamo già in vacanza, mi sembra... Comunque, faceva molto caldo. Subito dopo vennero le immagini dell'esercito italiano in Sicilia: ufficiali con le mimetiche e i Ray-Ban a specchio, a mezzo busto fuori dalle torrette dei blindati, in mezzo a sacchi di sabbia, palazzi di tufo, bambini curiosi: andavamo a mettere mano su una colonia irrequieta. Alla fine dell'anno il governo operò un improvviso e non indifferente prelievo dalle tasche di tutti, per evitare all'Italia di fare la fine dell'Argentina (vent'anni fa la Grecia si chiamava così). Eppure quando cominciò, il 1992 sembrava tranquillo, ancorché "bisestile". Il solito rissoso governo pentapartito guidato dal solito Giulio Andreotti; un ex Pci sempre più diviso in due dopo la caduta del Muro, grande successo per la canzone di Battiato, Povera patria, schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame... La normalità di un Paese ricco, insomma. E invece, la cronaca prese il sopravvento. A dare inizio alla valanga fu la pubblicazione, il 30 gennaio, della Sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione nel maxiprocesso contro Cosa Nostra. Era la più grande mazzata che la mafia avesse mai avuto nella sua storia: 360 condanne, 19 ergastoli da scontare in carceri di massima sicurezza, sequestro delle ricchezze accumulate con il delitto. Poteva essere la fine della nostra vergogna nazionale, ed invece la storia ricominciò proprio da lì. Guidata da Salvatore Riina e da Bernardo Provenzano - due contadini semianalfabeti del paese di Corleone, latitanti da decenni - Cosa Nostra passò all'attacco.
Il primo a cadere (a Palermo, il 12 marzo) fu l'eurodeputato Salvo Lima, braccio destro di Giulio Andreotti in Sicilia, il suo granaio elettorale. Freddato sul lungomare di Mondello da due killer in motocicletta: inaudito. E successe un fatto strano: nonostante fosse un uomo potente, solo il suo capo, Andreotti, scese a Palermo per i funerali: tutto il restante mondo politico disertò, annusando l'aria che tirava. Giovanni Falcone, il magistrato che aveva sconfitto Cosa Nostra nel maxiprocesso, capì immediatamente quello che stava succedendo: Cosa Nostra aveva avuto assicurazioni politiche su una sentenza favorevole; non l'aveva ottenuta e si stava vendicando. Non solo, andava alla ricerca di un altro referente politico. Si preparavano tempi di guerra. Negli stessi giorni, qualcosa di grosso stava maturando nella capitale morale, Milano. Una signora divorziata, tale Laura Sala, si era rivolta al giudice perché l'ex marito, l'ingegner Mario Chiesa, personaggio in ascesa della nomenclatura socialista meneghina, presidente del benemerito Pio Albergo Trivulzio (vanto dell'assistenza sociale), le passava poco di alimenti. E dire che era ricchissimo. Guarda, guarda, pensarono i carabinieri. Che furono molto zelanti e arrestarono Mario Chiesa, il 17 febbraio, mentre intascava una tangente di sette milioni e altrettanti li stava eliminando nel water. La pratica era seguita da un pubblico ministero sconosciuto, un ex poliziotto molisano, tale Antonio Di Pietro, 42 anni, sanguigno e dal linguaggio colorito, di simpatie democristiane, e che indossava improponibili cravatte di pelle. Di Pietro convinse Mario Chiesa a confessare. E così si scoperchia la più grossa storia di corruzione della Repubblica italiana, passata alla storia come "Tangentopoli " (una specie di Paperopoli di Walt Disney); o "Mani pulite". Ogni giorno qualche pezzo grosso finisce nel carcere di San Vittore; ogni giorno qualcuno denuncia qualcun altro; gli industriali raccontano che non possono lavorare se non danno il 5-10 per cento ai partiti. Il procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, affianca altri due magistrati a Di Pietro; Gherardo Colombo (che dieci anni prima aveva scoperto l'esistenza della P2) e Piercamillo Davigo, un forte conoscitore del codice. Il neonato Tg4, diretto dal giornalista ex Rai Emilio Fede, ha l'idea di piazzare un telegiornale in diretta dal Palazzo di giustizia, per dar conto di arresti e confessioni. E le notizie non mancano: crollano dirigenti politici cittadini, regionali, nazionali di quasi tutti i partiti; affondano la Dc e il Psi, vengono ridotte a zero antiche e storiche formazioni come il Pli e il Pri, e più recenti come il Psdi; rimane un po' contuso, ma sostanzialmente salvo il Pds, erede del Pci; estraneo solo il Msi, perché piccolo ed escluso dalla torta degli appalti. Gli italiani fanno un corso accelerato di procedura penale: imparano che cos'è un avviso di garanzia, le differenze tra pm e gip, quella strana cosa che si chiama concussione. La satira di ispirazione comunista raggiunge il suo apice quando può pugnalare i compagni alleati. Settimanale Cuore, titolo a tutta pagina: "È scattata l'ora legale, panico tra i socialisti".
Il 7 aprile si va alle urne: la Dc perde due milioni di voti, il Psi se la cavicchia, il Pds di Achille Occhetto è ridotto al sedici per cento dei consensi. Il bottino è della Lega lombarda di Umberto Bossi, che conquista tre milioni di voti (nel giro di cinque anni questo partitino ha moltiplicato per trenta il suo elettorato in Lombardia e Veneto). L'ideologo della Lega è un vecchio professore universitario, Gianfranco Miglio, che ama vestirsi come un borghese sudtirolese nei giorni di festa, tutto loden e cappellini. La sua proposta è netta: l'Italia va divisa in tre regioni, Padania, Etruria e Mediterranea, e aggiunge che quest'ultima andrebbe governata direttamente dalla mafia, dato che esprime la migliore classe dirigente.
Il 25 aprile, con un interminabile messaggio televisivo (45 minuti), si dimette, con sei mesi di anticipo, Francesco Cossiga, ottavo presidente della Repubblica. Negli ultimi anni del suo mandato si era reso famoso per le sue esternazioni; proclami populistici, attacchi, spesso oscuri, a magistrati, minacce di rivelazioni di segreti di Stato si accompagnavano alla difesa di massoni e carabinieri, dei quali ultimi il presidente invocava una maggiore presenza nella vita pubblica. Di lui si diceva che era pazzo; il bello era che lui confermava.
E così arriviamo alla primavera del 1992. Le elezioni per il nuovo presidente (in genere più lunghe di un conclave vaticano) sono fissate per il 13 maggio. Il favorito dai bookmaker è la vecchia volpe Giulio Andreotti, anche se segnata dal delitto siciliano. Il 23 maggio è un giorno come gli altri. I milioni di appassionati di ciclismo aspettano l'inizio del Giro d'Italia scommettendo su Chiappucci contro il favorito Indurain; gli appassionati di politica seguono le elezioni presidenziali che si trascinano da dieci giorni (Forlani, l'ex pallido segretario della Dc era sembrato farcela, ma Andreotti è pronto al balzo finale). Quasi nessuno presta attenzione a un dispaccio dell'agenzia Agir datata 22 maggio (Agir è una delle decine di foglietti del sottobosco politico romano), diretta da Vittorio Sbardella, potente ex andreottiano. Questi prevede uno stato di improvvisa emergenza per un "bel botto esterno, qualcosa di drammaticamente straordinario". Alle 17.55 questo avviene.
L'autostrada Palermo Punta Raisi, in località Capaci, si solleva come un muro di fuoco al passaggio del convoglio che trasporta il giudice Giovanni Falcone. Nel più grande attentato mai visto in Europa dalla fine della guerra - 800 chili di esplosivo in un canale di scolo, un telecomando azionato a 400 metri di distanza - muoiono Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, gli agenti Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo. Si salva l'autista Giuseppe Costanza e la sua vicenda chiama in causa l'esistenza del Fato. Falcone aveva chiesto di guidare "per rilassarsi" Costanza si era seduto sul sedile posteriore, nel posto che sarebbe stato del giudice (se fosse rimasto alla guida, la Storia sarebbe cambiata). Nella notte, il centro di Palermo si riempie di lenzuola bianche appese ai balconi, "No alla mafia". Il 25 maggio Oscar Luigi Scalfaro, novarese, tradizionalista, democristiano "senza correnti", presidente della Camera, viene eletto nono presidente della Repubblica con 672 voti. La sua prima presenza pubblica sarà a Palermo ai funerali delle vittime di Capaci, in una tremenda tensione emotiva.
Quando tutto sembrava essere finito, quando il paese era in vacanza, ecco il 19 luglio, di nuovo a Palermo. Un'autobomba in una caldissima domenica pomeriggio distrugge la vita del giudice Paolo Borsellino (il magistrato che avrebbe dovuto prendere il posto di Falcone alla guida della Procura nazionale antimafia) e della sua scorta. È a questo punto - quando veramente sembra che l'Italia non esista più - che arriva l'esercito in Sicilia e un ponte aereo trasporta centinaia di mafiosi incarcerati nell'isola di Pianosa, una specie di Guantanamo ante litteram. Ma, davvero, il 1992 non era ancora finito.
Il livello di corruzione che l'Italia politica aveva espresso (tale che nemmeno la magistratura di Milano sembrava comprenderlo appieno); il livello di violenza terroristica che la mafia aveva scatenato; le pulsioni secessioniste di un Nord economicamente annichilito e senza rappresentanza politica; tutto questo ebbe il suo esito nella più grave crisi finanziaria italiana dal dopoguerra, prima dell'attuale. I Bot non venivano sottoscritti, la Banca d'Italia riusciva, ma solo con l'esborso di 40.000 miliardi, ad impedire il crollo della nostra moneta. Toccò al governo di Giuliano Amato (il socialista che era succeduto a Giulio Andreotti) imporre, in una notte, un prelievo forzoso da tutti i conti correnti; toccò ai sindacati firmare un accordo in cui rinunciavano per due anni ad aumenti salariali e alla indicizzazione della scala mobile. La lira, svalutata del 7 cento, ridiede così un po' di competitività alle esportazioni e ci salvò dal baratro. Ad ottobre, il grande pentito di mafia Tommaso Buscetta - ormai una specie di oracolo - tornò dagli Stati Uniti per annunciare anche agli italiani quello che aveva già detto dieci anni prima all'Fbi; e cioè che Giulio Andreotti era il capo politico di Cosa Nostra.
Il 3 dicembre il magistrato Domenico Signorino, uno dei giudici che aveva retto l'accusa contro Cosa Nostra al maxiprocesso di Palermo, si suicidò, dopo essere stato accusato di essere al soldo della mafia. Il 15 dicembre il segretario del Psi, Bettino Craxi ricevette l'avviso di garanzia che determinò la sua fine politica e personale (pochi mesi dopo, partendo per la Tunisia, dichiarò: "Non starò qui a prendermi le bombe"). La Democrazia cristiana, da sempre il partito di riferimento degli italiani, nello stesso periodo cessò, anche formalmente, di esistere. Alla vigilia di Natale, Bruno Contrada, il capo dei nostri servizi segreti con competenza sulla Sicilia, fu arrestato con l'accusa di avere protetto, per anni, la mafia. E, finalmente, l'anno finì.
Il 1993 sarebbe stato ancora più drammatico e violento. Si aprì con l'arresto spettacolare di Salvatore Riina (il latitante imprendibile viveva da sempre e tranquillamente a casa sua a Palermo, con moglie e quattro figli; e la sua cattura - oggi si sa - fu una colossale farsa); continuò con l'incriminazione di Andreotti per mafia; i suicidi eccellenti (il potentissimo presidente dell'Eni Gabriele Cagliari e il più ricco industriale italiano, Raul Gardini); fu costellato dalle tremende bombe mafiose di Firenze, Roma e Milano e terminò con la più inattesa delle novità: la discesa in campo in politica di Silvio Berlusconi, uno dei pochissimi industriali milanesi che era passato indenne dalle inchieste di Mani pulite, e che godeva di solidi appoggi finanziari nella Sicilia di Cosa Nostra. Il suo (imprevisto) dominio sull'Italia è durato diciassette anni. Un altro beneficiato dagli eventi fu il magistrato Antonio Di Pietro, che divenne prima un "eroe italiano", poi un uomo politico di una certa importanza che dura tuttora. La cronaca è il racconto degli avvenimenti così come si susseguono nel tempo. La storia è il senso di quegli avvenimenti. Ma purtroppo, il "senso di quel 1992" ancora non lo conosciamo.
La magistratura di Milano salvò il Pci-Pds? Bettino Craxi (il cattivo numero uno dell'epoca) fu affossato perché si era opposto agli americani ai tempi di Sigonella? Cosa Nostra determinò l'eliminazione di Andreotti dalla competizione per il Quirinale? Paolo Borsellino fu ucciso perché si era opposto ad una trattativa tra lo Stato e la mafia? Marcello Dell'Utri, il fondatore del nuovo partito di Forza Italia, agiva come emissario di Cosa Nostra? La Lega e Cosa Nostra perseguivano l'obiettivo comune della divisione dell'Italia? O gli avvenimenti si susseguirono senza alcuna regia? Ognuno metta in una busta la sua spiegazione. La verità - ma solo almeno tra cinquant'anni - sarà premiata dalle autorità competenti. Nel frattempo, in occasione del ventennale, ricordiamo commossi il 1992, gli eroi uccisi, l'indignazione popolare, la società civile, l'anelito risorgimentale. E pazienza se la corruzione e la mafia sono più forti di venti anni fa.
Intervista all'ex pm: "I grillini sono incompetenti". Di Pietro: “Mani pulite fu una primavera. Rifarei tutto tale e quale”. Angela Nocioni su Il Riformista il 6 Novembre 2019. Antonio Di Pietro sta raccogliendo le olive a casa sua in Molise. Dice di sentirsi ormai parte dell’associazione combattenti e reduci. D’essersi pentito d’aver fatto politica. Mani Pulite, invece, la rifarebbe tale e quale. «Quell’inchiesta andava fatta in quel modo. La rifarei non una, ma mille volte così come l’ho fatta», dice l’ex pm del pool dello scandalo Tangentopoli. «Allora mi ritrovai tra le mani un malato grave con un tumore gravissimo, la corruzione ambientale, che aveva infettato lo Stato, corrotto la politica e rovinato la libera concorrenza. L’intervento chirurgico era urgente, altrimenti sarebbe morta la democrazia. Poi però è successo che l’Italia si è ritrovata nel vuoto. Era necessario che le redini del governo fossero prese in mano da qualcuno in grado di farlo. Invece il sistema italiano questo qualcuno non è stato in grado di produrlo. Ci siamo affidati al personaggio di turno. Dopo Mani pulite, i partiti hanno cominciato ad addensarsi attorno a una persona. Ora una, ora un’altra. Vista come quella che potesse risolvere tutti i guai del mondo. Così è nato Berlusconi, così è nato Bossi. E anche Di Pietro. Il cittadino dopo Mani pulite ha cominciato a votare più la faccia che la sostanza. Tutto di pancia. Non va bene».
E questo bel guaio l’avrà mica fatto lei?
«No. L’intervento chirurgico spettava alla magistratura. Il progetto politico invece no. Non spettava alla magistratura. E invece… La classe politica venuta fuori ora è incapace di risolvere i problemi. Non rifarei politica, se tornassi indietro».
Quelli che per fare politica hanno usato il suo nome, la sua popolarità, lanciati anche da lei, hanno seguito la sua eredità o l’hanno tradita? Parlo di Ingroia, per esempio.
«Il primo a salire sul carro del partito personale che è spuntato fuori tra gli effetti di Mani pulite è stato Berlusconi. E pure io. Ma mica siamo stati i soli. Poi è arrivato Grillo. In un momento di grande confusione Grillo è riuscito a portare la rabbia, la voglia di rivalsa e la delusione dei cittadini nelle urne. Meglio nelle urne che a sfasciare le vetrine. È stato bravo. L’errore di Di Pietro e anche di Grillo quale è stato? Lo dico perché i grillini li considero miei figli putativi, sono figli legittimi di Grillo, ma pure figli putativi miei. Io ho fatto un errore: mi sono ritrovato dalla sera alla mattina con un grande consenso popolare, una classe politica da costruire e ho pensato di poterla costruire con chi aveva già fatto politica in precedenza. E mi sono portato appresso nel mio partito parte del tumore della Prima repubblica, purtroppo. Grillo ha fatto un errore diverso. Ha escluso chi aveva fatto politica in precedenza. Come chiedeva Casaleggio padre, che l’aveva capito guardando l’errore che avevo fatto io. E così Grillo ha portato al governo del paese degli incompetenti che a mala pena saprebbero fare un drink al bar».
Visto il clima politico del momento, crede ci sia il rischio di un nuovo ’92, ’93 in Italia? Di un terremoto politico con protagonisti dei magistrati?
«Non c’è stato nessun rischio allora, c’è stata una primavera. Il rischio per la democrazia c’era prima, c’è stato fino al ’92 perché il malato di tumore stava per morire. L’intervento chirurgico era obbligato dalla legge. Non l’ho fatto per motivi ideologici, io non ho mai chiesto a nessuno di che partito era. Chiedevo: quanti soldi hai preso?»
Prima c’erano Andreotti, Craxi, Forlani. Personaggi discutibili che lasciavano supporre d’aver fatto bene le elementari. Ora c’è Di Maio.
«Ha fatto bene a citarmeli. Andreotti, prescritto per mafia. Forlani condannato perché responsabile di finanziamenti illeciti. Craxi per corruzione. Questi c’erano. Padreterni?»
No. Ma se Craxi discuteva qualcosa a nome dell’Italia, il cittadino medio poteva avere mille riserve e supporre che chi lo rappresentava avesse chiaro che Pinochet non è stato il dittatore del Venezuela.
«Sono preoccupato che un Di Maio qualsiasi rappresenti il mio paese con una conoscenza che è quella che è. Sono amareggiato nel vedere Di Maio che parla delle cose del mondo. Però questo non mi dà la possibilità di giustificare un Craxi che sapeva tutto su come gestire la crisi di Sigonella, tanto di cappello, ma sapeva anche di conti, aveva anche il know how per molto altro. Altro non lecito».
Quindi passati anni dalla morte di Craxi, col senno del poi, lei non ha cambiato idea?
«Io non ce l’avevo né con lui né con altri. Io ho trovato un signore con la marmellata in mano. Di quello mi sono occupato».
Quando lei dice d’aver fatto l’errore di importare nel suo partito un modo di fare della Prima repubblica si riferisce a Razzi e Scilipoti o anche ad altri?
«Non mi riferisco tanto alle persone, ma a una cultura. Razzi poi è il meno peggio di tutti. In questa legislatura ce ne sono centinaia che hanno cambiato casacca. Stanno zitti o fanno finta di averlo fatto per una ragion di Stato che non esiste. Solo interessi personali. Razzi nella sua ingenuità ha detto perché l’ha fatto. E Razzi, di tutti quelli che hanno cambiato casacca, è l‘unico a essere stato eletto con le preferenze».
Lei litigò con il pool di Milano? Com’erano i rapporti tra lei e Borrelli?
«Con il dottor Borrelli ho sempre avuto un rapporto formale, gli ho sempre dato del lei. Un rapporto corretto. Veniva citato da me quotidianamente. L’unica lamentela sua nei miei confronti, un complimento che mi fece in realtà, è che producevo talmente tanti atti da non dargli il tempo di leggere tutto. È una persona per la quale avevo stima perché nei momenti delicati di Mani Pulite ci ha sempre messo la faccia. Lui all’inizio, quando feci arrestare Mario Chiesa, disse: è stato arrestato in flagranza di reato, va in direttissima, tra 15 giorni si chiude tutto. Dopodiché ha avuto modo di prendere atto della realtà dell’inchiesta, ha visto come si allargava. Ebbe modo di capire come il fascicolo cresceva e si comportò in modo corretto. Io lo rispetto. Con gli altri del pool ancora oggi capita che ci troviamo a qualche convegno insieme. A parte Piercamillo Davigo che è al Csm, facciamo parte dell’associazione combattenti e reduci oramai. Il pool di Palermo era diverso. Falcone e Borsellino hanno avuto un pezzo di vita privata insieme. Io con i miei colleghi no, avevamo solo rapporti professionali».
Nessuna lite?
«No».
Cosa pensa del generale Mori?
«Per rispetto di chi deve scrivere la sentenza di quel processo, parlerò dopo. Sono stato testimone, non posso inficiare la mia testimonianza».
Qual è la verità sulle undici case che sembrava fossero sue? Erano sue?
«Sto ancora facendo atti di esecuzione per persone che devono risarcirmi di danni che mi hanno fatto per diffamazione. Alcuni con undici sentenze passate in giudicato. Mai ho portato a giudizio un giornalista che ha messo il microfono sotto il naso di qualcuno che mi ha diffamato, solo le persone che hanno mentito diffamandomi».
Gianroberto Casaleggio come l’ha conosciuto?
«Casaleggio l’ho conosciuto per motivi professionali, nel modo più semplice del mondo. Quando ho iniziato a fare politica e lui si occupava già di rete e di comunicazione, m’è arrivata una email che diceva: noi offriamo questo servizio. L’ho incontrato, ne abbiamo discusso. Lui ha gestito per una certa parte la mia comunicazione e io ho pagato il corrispettivo. Poi io ho preferito continuare a gestirla da solo. Lui ha continuato a occuparsi della comunicazione di Beppe Grillo, cosa che già faceva. Siamo rimasti amici, nel senso di rispetto reciproco, ci confrontavamo, l’ho anche difeso in alcune sue cause per diffamazione. Ma non eravamo intimi, non andavamo a mangiare un piatto di spaghetti».
Con Davide Casaleggio ha rapporti?
«Non lo conosco bene. Non ho avuto con lui il rapporto che ho avuto con il padre».
Si ricorda di quell’agosto romano di quando lei studiava a Roma, era senza casa e le affidarono un cane?
«Ah sì. Non è un segreto. Sa, quando vedo i migranti che vengono in Italia io ho rispetto per il loro dolore, io sono stato parecchie volte in una situazione delicata, io mi ricordo di quando sono stato immigrato in Germania e lavoravo tantissime ore, giorno e notte, e dormivo in baracca. Noi ci facevamo un mazzo così. La classe operaia emigrata si è sempre fatta un mazzo così».
Sì, ma il cane?
«Andavo a scuola ancora. Lavoravo in una casa editrice a Roma che faceva degli albi. In questa casa editrice c’era una coppia di anziani con un cagnolino bellissimo. Se lo coccolavano tanto. Ad agosto la casa editrice non lavorava. I due signori m’hanno lasciato il cane. Questo cagnolino tutti i giorni a mezzogiorno mangiava una tagliata di vitello. Una al giorno. Io latte e pane. Insomma, per farla breve, gli ho insegnato a bere un po’ di latte e gli ho dato un po’ del mio pane. E ogni tanto mangiavo un pezzettino della sua tagliata. Era più la carne di vitello che il cane buttava che quella che mangiava. Gli ho insegnato a vivere un po’ da cane. Siamo stati benissimo insieme eh! Mi voleva bene. S’era affezionato il cagnolino».
Quando Di Pietro riceveva i giornalisti in ciabatte. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Luglio 2020. E poi venne Di Pietro e cambiò tutto. Nacquero i pool dei giornalisti, omologhi a quelli dei magistrati. Le fonti delle notizie uniche e unificate si sposarono con la stampa unica e unificata. E per ventotto anni sarà così. È ancora così. Nella sala stampa del Palazzo di giustizia di Milano il pubblico ministero Antonio Di Pietro non ancora Tonino, e neanche La Madonna. Prima del 1992 era considerato uno “inattendibile”. Chi ce l’ha quell’inchiesta? ci si chiedeva. Se la risposta era “Di Pietro”, un’alzatina di spalle liquidava subito la faccenda, tanto sappiamo che finirà in niente. L’avvocato Giuliano Pisapia, che pure in quegli anni non fu ostile alla procura di Milano, raccontò un giorno con sgomento le modalità e l’esito di un’inchiesta condotta dal pm nel 1991, proprio alla vigilia dei giorni che poi lo renderanno il più famoso d’Italia. Vale la pena riportare per esteso il racconto di Pisapia, anche per ricordare con precisione il tipo di professionalità e di rispetto delle regole che portarono alla distruzione di una classe politica che aveva governato per cinquant’anni e aveva garantito la democrazia al Paese. «Di Pietro fece scattare un grosso blitz – dice l’avvocato Pisapia – . Senza osservare le regole, alcune persone, anziché essere invitate a comparire come previsto dal nuovo codice, furono prelevate alle sei di mattina e portate non in Procura ma nella sede della Criminalpol, e interrogate con modalità non conformi al codice, nella convinzione che questo modo choccante di interrogare favorisse la raccolta di dichiarazioni utili. Di Pietro contestò l’associazione per delinquere e la truffa». Inutile dire che l’inchiesta finirà in nulla, con l’archiviazione dell’associazione per delinquere e la derubricazione della truffa. Pure il blitz era stato annunciato come il famoso “scandalo delle patenti false”. I tempi non erano ancora del tutto maturi. Ma colpiscono i metodi usati: annuncio roboante, reato associativo, persone svegliate e prelevate alle sei del mattino, stile di interrogatori da caserma vecchio stampo, violazione di ogni regola del nuovo codice di procedura. Uno stile che si ripeterà, pur con gli osanna generalizzati della stampa, negli anni successivi e nelle più fortunate inchieste che andranno sotto il nome di Mani Pulite. Più o meno nello steso periodo aveva cominciato a farsi notare una giovane pm grintosa e disinvolta, che fu subito battezzata dagli avvocati “la pm in blue-jeans” per il suo abbigliamento poco formale. Era Ilda Boccassini, cui era stato affidato il coté milanese di un’inchiesta di narcotraffico condotta a Palermo da Giovanni Falcone con l’aiuto del capitano Di Caprio. Fu quell’inchiesta il primo tentativo di forzatura politica, con ampio uso di intercettazioni, anche ambientali. Così, da quella che si dimostrerà in seguito solo una vanteria («ho già dato 200 milioni di lire all’assessore», dirà il narcotrafficante), la procura milanese si gettò a corpo morto sulla giunta Pillitteri, che in quegli anni governava Milano. I cronisti giudiziari erano ancora in parte quelli del vecchio conio. Io ero stata nel frattempo eletta al consiglio comunale con la lista dei Radicali antiproibizionisti. Ero all’opposizione, pure qualcosa non mi tornava di quell’inchiesta che coinvolgeva il sindaco Pillitteri e un assessore del suo stesso partito. I socialisti erano sempre stati proibizionisti sulla droga, possibile che fossero in combutta proprio con un gruppo di narcotrafficanti? Ancora si poteva discutere e litigare, in sala stampa al Palazzo di Giustizia in quei giorni, ma fu il quotidiano La Repubblica quello che si buttò a pesce più di tutti, titolando “Le mani della mafia su Palazzo Marino”. Si costituì addirittura una inutile e nullafacente commissione “antimafia” in Comune. Il clima stava davvero cambiando. Se qualcuno ha la curiosità di sapere come andò a finire quella vicenda, cerchi in internet la voce “Duomo connection” e la sentenza della corte di Cassazione del 1995, che condannò, come era prevedibile, solo i narcotrafficanti. Gli altri, politici e “colletti bianchi” che nel frattempo erano stati coinvolti, sono passati da modesti abusi d’ufficio alla sparizione totale dal processo. Ma il 1992 era alle porte. Si racconta che il giudice per le indagini preliminari Italo Ghitti un certa sera del 1991 abbia detto alla moglie: forse oggi ho messo la firma sotto la mia richiesta di trasferimento. Aveva autorizzato le intercettazioni dei telefoni di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e potente esponente socialista milanese. Il Gip Ghitti non sarà mai trasferito e diventerà il giudice unico che firmerà in seguito tutta intera la valanga delle perquisizioni e degli arresti che si susseguiranno senza soluzione di continuità per oltre due anni. Se nessuno aveva potuto dimostrare che Milano era diventata la città della mafia, fu facile mostrare al mondo che quella che era stata la “capitale morale” d’Italia era diventata la città delle mazzette. Era nata Tangentopoli. Il rapporto tra la stampa e i pubblici ministeri diventò un matrimonio indissolubile, a Milano come a Roma e in tutta Italia. Al pool dei pm faceva eco quello dei cronisti giudiziari. Il metodo che Di Pietro aveva inaugurato con l’infruttuosa inchiesta sulle patenti false portò i suoi risultati, fin dall’arresto dei primi nove imprenditori. Ogni parola, ogni confessione divenne moltiplicatore di altre, fino alla valanga che indusse alcuni avvocati a trasformarsi in “accompagnatori” dei propri assistiti che imploravano un interrogatorio che evitasse le manette. Di Pietro sedeva nel suo ufficio come su un trono. Riceveva i cronisti in ciabatte quasi a dimostrare che non andava mai a dormire. Il flusso delle notizie e dei verbali era costante. Le fotocopiatrici eruttavano carte a getto continuato. Se l’imputato era un pesce piccolo, ci pensavano gli uomini in divisa a saziare la fame della stampa, mentre i grossi erano riservati alle toghe. I direttori dei grandi quotidiani di proprietà imprenditoriale furono schieratissimi a salvarsi la pelle, fino a concordare la sera i titoli del giorno dopo, in spregio della concorrenza e anche alla libertà di stampa. Quando ci fu la palese Grande Ingiustizia, l’accordo del procuratore Borrelli con la Fiat e l’invito di Romiti dalle colonne del Corriere della sera a tutti gli imprenditori perché collaborassero, andò Di Pietro a interrogare in questura il mancato imputato come persona informata dei fatti. E pensare che Romiti, dei 15 episodi che avrebbero potuto essergli contestati, ne raccontò solo un paio. Ma i magistrati si accontentarono. E anche i giornalisti. In sala stampa le mosche bianche come Frank Cimini, che si ribellarono al pensiero unico della Grande Ingiustizia venivano guardate male. Ormai si battevano le mani e si brindava, si faceva la ola e si scodinzolava, obbedienti soldatini prigionieri di un meccanismo e di un palazzo pronto a divorare tutti, da Craxi fino a Berlusconi, senza pietà. Ma soprattutto senza che nessun (o quasi) giornalista mettesse in dubbio i contenuti e i metodi usati dai pubblici ministeri per raggiungere i loro scopi. Che furono troppo spesso politici. Lo scorso gennaio Goffredo Buccini, che fu cronista giudiziario al Corriere in quegli anni, ha ricordato in modo critico un episodio di allora. «Il 15 dicembre del 1992 – ha scritto – grida di giubilo si levarono dalla sala stampa del palazzo di giustizia di Milano: Bettino Craxi aveva ricevuto il primo avviso di garanzia nell’inchiesta Mani Pulite». E ha poi continuato ricordando come tutta l’inchiesta fosse stata una sorta di inseguimento al vero bersaglio, Craxi. Denunciando infine quel che era successo, e cioè che «cronisti e magistrati erano stati troppo vicini, in una prossimità anche emotiva che è perfettamente umana, ma può finire per confondere pericolosamente gli spartiti». Ecco, questa è la lezione di quegli anni. Quel che sta succedendo oggi mostra che non è ancora finita, che il pensiero unico dell’informazione complice del partito dei pm è ancora lì. E non sappiamo neanche più se si tratti di Magistratopoli o di Giornalistopoli. O di tutte e due.
Il libro nero della Repubblica italiana. “Mario Mori finì nella gogna complottista perché indagò su mafia e appalti”, parla Giovanni Fasanella. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 11 Dicembre 2021. Incontriamo Giovanni Fasanella, tra i più noti speleologi delle cavità nascoste della storia italiana, all’indomani dell’uscita del suo Libro nero della Repubblica italiana, edito da Chiarelettere. Lo storico e giornalista lo firma insieme con Mario José Cereghino e ne anticipa per noi gli argomenti chiave.
Come nasce il “Libro nero della Repubblica italiana”?
È un unico contenitore per i quattro libri pubblicati da Chiarelettere nell’arco di un decennio, dal 2010 al 2020: Intrigo internazionale, Il golpe inglese, Il puzzle Moro e Le menti del Doppio Stato. Un lavoro basato su un metodo investigativo che interfaccia fonti diverse ma che, alla fine, sottopone le informazioni alla prova documentale attraverso la ricerca d’archivio e fa emergere i contesti in cui maturarono la strategia della tensione, il terrorismo di matrice politica e mafiosa. C’è un filo rosso che lega le varie fasi del “ventennio” di sangue che va dalla strage di Piazza Fontana del 1969 alle stragi del 1992-’93.
La desecretazione del 2014 ha permesso di scoprire carte significative per le sue inchieste?
In realtà, a mio avviso, la desecretazione del 2014 ha dato ben poche novità. Le poche cose interessanti emerse dai documenti declassificati sono quelle che confermano l’influenza del contesto mediterraneo, cioè la guerra segreta per il petrolio, sulle nostre vicende interne, anche quelle più sanguinose. Il resto è paccottiglia.
E gli archivi inglesi appena svelati?
Molto più interessanti. Dagli archivi inglesi e americani emergono prove inconfutabili sul nesso, quasi sempre negato, tra contesti politico-sociali interni e contesti geopolitici internazionali. Sin dalla nascita come Stato unitario, l’Italia non è mai stata un’entità staccata da tutto quello che c’era ai suoi confini.
Andreotti diceva: «Ogni paese ha i suoi vicini. A noi sono capitati i peggiori».
E aveva ragione. Voleva dire che, per trovare risposte ai cosiddetti “misteri”, bisognava approfondire i conflitti lungo i confini più caldi del Novecento: Est-Ovest (comunismo-anticomunismo) e Nord-Sud (guerra petrolifera). E l’Italia, per la sua posizione geografica, era proprio lungo quei confini, e al centro di quei conflitti.
Cosa scopriremo dai fondi britannici, in particolare?
C’è più storia italiana negli archivi britannici, americani e francesi di quanta ce ne sia nel nostro Paese. Per la semplice ragione che Gran Bretagna, Francia e Usa hanno avuto un ruolo enorme, con poteri di condizionamento, nelle varie fasi della nostra vicenda unitaria. Gli interrogativi riguardano piuttosto la nostra capacità di elaborazione delle esperienze traumatiche temporalmente più vicine a noi.
Non siamo disposti ad accettare il nesso profondo, inscindibile tra l’Italia e il quadro internazionale?
Ci sono molte sacche di resistenza di varia natura. Ma sono ottimista: qualcosa finalmente si muove. Le cosiddette “primavere arabe”, per esempio, hanno cambiato nella nostra opinione pubblica la percezione dell’importanza del contesto mediterraneo. E certe verità che emergono dagli archivi stranieri cominciano ad essere viste con meno diffidenza.
“Il Riformista” ha rivelato come il Sisde, nel 1982, avesse riferito dei preparativi dell’attentato alla Sinagoga di Roma, con una informativa rimasta lettera morta. Se ne è occupato?
Non ho elementi per esprimere un giudizio fondato. A occhio mi sembra poco credibile che il governo, non gli apparati, pur sapendo dei preparativi in corso, non avesse avvertito gli interessati e non impedito l’attentato. C’è stato un filtro, secondo i documenti pubblicati dal Riformista, è evidente: possiamo pensare che una filiera dei servizi italiani fosse interessata a creare un casus belli. Mi risulta, quanto al lodo Moro, che esisteva un accordo anche sul fronte israeliano.
C’è un segreto intangibile, tra i tanti?
C’è un “indicibile” dell’esperienza italiana. Indicibile, non invisibile. Ma per rispondere alla sua domanda, sa qual è il nostro “segreto” tuttora intangibile? È l’articolo 16 del Trattato di pace del 1946-’47, imposto dalle nazioni vincitrici della seconda guerra alla nazione sconfitta: quello che impone alle autorità italiane la garanzia dell’impunità per molti nostri cittadini che collaborarono con la causa alleata tra il 1940 e il 1947, cioè il periodo che va dall’anno dell’entrata in guerra dell’Italia a quello dell’entrata in vigore del Trattato. Tra gli altri, c’erano anche molti boss mafiosi ed ex republichini passati sotto altre bandiere e utilizzati nel dopoguerra in altre operazioni. Il testo del Trattato si può trovare negli archivi parlamentari e persino su internet. Ma provi a domandare in giro quanti lo conoscono. Eppure, se studiassimo la genesi e gli effetti di quel Trattato, capiremmo le ragioni di tanti depistaggi e deviazioni.
Su Enrico Mattei ha scritto che l’aereo venne manomesso, si è trattato di un omicidio. Perché nessuna Procura riapre il caso?
L’ultima indagine del magistrato Vincenzo Calia ha stabilito che si trattò di un sabotaggio, quindi di un attentato. Un gran risultato. Ma Calia ha dovuto ammettere, con grande onestà intellettuale, di non essere riuscito a trovare le prove per inchiodare esecutori e mandanti. In un recente dibattito con lui all’Università della Calabria mi sono permesso di integrare la sua ammissione aggiungendo che la ragione di quei buchi è che si è trovato contro un articolo di un Trattato di pace. Calia ha annuito. Veda, negli archivi internazionali, e in particolare in quelli britannici, c’è una documentazione sterminata sull’ostilità, per usare una parola leggera, di interessi stranieri nei confronti di Mattei. Ma la magistratura avrebbe potuto scrivere nel registro degli indagati, per esempio, premier e ministri dell’energia dei vari governi inglesi o francesi?
L’Italia ha vissuto ingerenze internazionali anche derivanti dalla condizione di paese sconfitto dalla guerra: come hanno inciso?
In modo profondo sul nostro sistema politico interno e sulla nostra politica estera, in particolare nell’area mediterranea. Avevamo vincoli internazionali molto rigidi e alcuni anche umilianti. Le nostre classi dirigenti del dopoguerra ne erano consapevoli. E tutte le volte che hanno tentato di aggirarli “furbescamente” o di superarli attraverso processi politici, sono sorti problemi molto seri, diciamo così. Forse Mussolini non avrebbe dovuto dichiarare guerra a mezzo mondo, sarebbe stato più saggio. Le classi dirigenti antifasciste hanno pagato per colpe di altri.
In quel ‘difetto di sovranità’ si può leggere in nuce la necessità adottiva, il confronto tra un fronte filo Usa e uno filo Urss che ha tenuto bloccata la democrazia italiana?
Senza alcun dubbio. Se l’Italia non avesse avuto un partito comunista con una forte componente filosovietica al proprio interno e una forte influenza sull’opinione pubblica italiana, se avessimo avuto una sinistra socialista, socialdemocratica o laburista egemone, gli Usa avrebbero favorito la nascita di un sistema democratico basato sull’alternanza alla guida del Paese tra uno schieramento conservatore e uno progressista. Ma questo vale per gli americani. Per francesi e inglesi, il “problema italiano” non era tanto il Pci, ma l’Italia: la sua posizione geografica nel cuore del Mediterraneo, e quindi la sua potenziale minaccia agli interessi petroliferi di Londra e Parigi.
Chi ha permesso alle Br di sequestrare e uccidere Aldo Moro?
A molti, in Italia e all’estero, faceva comodo che le Br esistessero, crescessero ed entro certi limiti potessero fare quello che avevano in mente di fare. Volevano sequestrare Moro, cioè lo stratega, per un lungo periodo, della politica interna ed estera dell’Italia, il “levantino” democristiano che voleva aggirare i vincoli internazionali? Prego, fate pure, ci aiutate a risolvere un problema.
Nelle sue ricostruzioni emerge qualche distrazione di troppo…
Settori degli apparati di sicurezza, della politica, dell’economia e dell’alta burocrazia dello Stato collegati con interessi stranieri “lasciarono fare”. Benché intercettato con largo anticipo dagli apparati di sicurezza italiana e da almeno sette intelligence di rango internazionale, come ha riferito il giudice Rosario Priore, non solo il sequestro non venne sventato, ma non si riuscì a trovare la prigione e a impedire che il leader democristiano fosse assassinato.
Mani Pulite è il momento in cui i magistrati, rottamando la politica, provarono a sostituirla. Si è indagato poco su quel periodo.
Penso che la storia di quel periodo debba essere ancora scritta. Ci sto lavorando con Mario Josè Cereghino e quello che sta emergendo dalle nostre ricerche conferma l’’idea di un attacco in grande stile alle classi dirigenti della Prima Repubblica e alle culture politiche popolari del Novecento. Sia chiaro, quel ceto politico offrì la testa al cappio perché fu incapace di autoriformare il sistema modellato durante la guerra fredda. Ma sul fatto che l’obiettivo della “rivoluzione” fosse la grande industria pubblica che nel secondo dopoguerra aveva contribuito a fare dell’Italia una delle potenze economiche mondiali, non c’è alcun dubbio. E non mi riferisco ai magistrati, che nella maggior parte dei casi facevano il loro mestiere, ma agli interessi interni e internazionali che misero il vento nelle vele di “Mani pulite”.
Otto anni fa aveva dichiarato, a proposito dell’insussistenza della Trattativa Stato-Mafia, che “Il generale Mori è stato neutralizzato perché indagava su Mafia-Appalti”. I fatti si sono incaricati di darle ragione. Perché certe teorie del complotto hanno così ampio successo?
Un ex direttore del Corriere della Sera propose alla Mondadori di pubblicare un libro sul punto di vista del generale Mori, criminalizzato dalla stampa per via delle inchieste in corso a Palermo, mentre il figlio di Vito Ciancimino furoreggiava con un suo volume in tutti i programmi di “approfondimento” televisivo. Chiesero a me e accettai subito: non solo perché ritenevo che fosse giusto concedere anche a Mori la possibilità di dire la sua, ma soprattutto perché ero curioso di conoscere la sua storia: la storia di un servitore dello Stato che per qualche misteriosa ragione era finito in un vero e proprio tritacarne. Avevo già delle idee che mi ero fatto all’inizio dei Novanta, quando ero cronista parlamentare e quirinalista di Panorama, negli anni delle stragi mafiose, della rivoluzione di Mani pulite e del crollo della Prima Repubblica. Poi avevo avuto modo di approfondirle attraverso le conversazioni con Giovanni Pellegrino, il giudice Rosario Priore e molti altri depositari di conoscenze sul “doppiofondo melmoso” della Prima Repubblica, come lo definì Luciano Violante. Cioè, l’apparato del potere occulto costruito in Italia nell’immediato dopoguerra dai servizi americani, inglesi e francesi, di cui la mafia e la Sicilia erano dei pilastri.
Fino a un certo tornante della storia…
Dopo la caduta del Muro, finita la guerra fredda, quell’apparato non si sentiva più protetto. E quando conobbi il generale Mori, leggendo le carte, ormai di dominio pubblico su “mafia e appalti”, raccolte dai suoi uomini per Giovanni Falcone, mi convinsi che quella zona grigia del potere doveva sentirsi minacciata dalle indagini dei Carabinieri. Non so dire se Mori e i suoi uomini ne fossero consapevoli sino in fondo, ma confrontando il loro lavoro con le informazioni che avevo pubblicato in libri precedenti o su Panorama, mi resi conto che con “mafia e appalti” probabilmente erano stati toccati fili sensibilissimi.
E perché le teorie complottiste trovano così largo successo?
Nascono e si affermano per i motivi più svariati. Per una scarsa conoscenza della storia, per esempio. Ma anche, il più delle volte, come reazione all’incapacità (impossibilità) della magistratura e della storiografia di fornire ricostruzioni attendibili e, per quanto è possibile, complete dei fatti, con la loro contestualizzazione e la loro interpretazione.
La magistratura potrebbe aiutare la ricerca storica nella ricostruzione delle verità nascoste, ad esempio rendendo consultabili tutti gli atti di inchiesta dopo la conclusione dell’ultimo grado di giudizio?
Certamente, le inchieste giunte all’ultimo grado del giudizio possono aiutare la ricostruzione storica. Ma sono solo una fonte, non la storia, che deve avvalersi invece di tutte le fonti disponibili. In Italia, purtroppo, spesso si tende a trasformare in storia definitiva addirittura un’indagine preliminare.
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
A chi serve il mito della mafia invincibile? La lotta alla mafia è una cosa seria e immiserendola con l'allarmismo e la propaganda non si rende onore e servigio a quanti hanno sempre ritenuto che fosse un nemico da poter sconfiggere; descrivendola come invincibile, in fondo, ci si iscrive al partito dei conniventi, ossia di quanti la vogliono in esistenza per motivi che troppo hanno a che fare con le proprie fortune. Alberto Cisterna su Il Dubbio il 26 novembre 2021. Esiste oggi un’emergenza mafia? La risposta tra quanti conoscono a fondo la reale condizione delle organizzazioni malavitose del paese è tutt’altro che scontata. Diradato il fumo della propaganda, messi da parte gli interessi carrieristici ed economici di quanti hanno fatto della “lotta alla mafia” un mestiere senza il quale non saprebbero come sbarcare il lunario, andare in tv, rilasciare interviste, percepire sovvenzioni pubbliche e prebende varie; messo da parte tutto questo, a dire il vero ci sarebbe da discutere a lungo del tema.
Non è controversa la buona fede di coloro i quali – pochini sia chiaro – sono davvero convinti che le piovre abbiano conquistato il paese e che, come nel Benito Cereno di Melville, i poteri legali siano solo il simulacro, l’ombra ingannevole di un centro occulto che muove pedine e burattini e conduce da sempre la nave Italia per rotte illegali. Molti di costoro non possono dimostrare le proprie tesi se non per suggestioni, accostamenti, giustapposizioni e tante supposizioni in cui manca, spesso, ogni prova di un legame certo o anche solo probabile tra i fatti. Decine di libri, di reportage, di dichiarazioni supportano questo credo cui occorre portare rispetto, mi pare evidente. Ci si muove nell’ambito appunto di un credo che – tornando all’illuminante articolo di Aldo Varano di un paio di giorni or sono – tiene insieme, in un fatidico 1969, un summit in Aspromonte dell’Onorata società, il golpe Borghese e, visto che ci siamo, anche lo sbarco sulla luna che, già da solo, costituisce uno dei luoghi privilegiati in cui si esercitano le teorie complottiste. A chi potrebbe replicare, infastidito o irritato, che lo sbarco sulla luna non c’entra nulla con la ndrangheta e con il colpo di stato ideato del 1969, si potrebbe comodamente rispondere che non sarebbe del tutto impossibile trovare qualche accattone di pentito disponibile a dichiarare che la Cia abbia simulato il primo passo di Neil Armstrong sulle sabbie lunari per consentire alle coppole calabresi e ai generali di valersi della possente copertura americana, potenza capace di conquistare lo spazio. Provocazioni, certo, solo provocazioni. Ma senza prove lo sono anche tutte le altre tesi, compresa quella di un mondo governato dalla Spectre mafiosa italiana. I fatti dicono altro. Sequestri e confische antimafia portano a galla marginalità finanziarie e patrimoniali rispetto all’immaginifico mondo dorato descritto da alcuni centri studi e trasferito in report che confezionano stime plurimiliardarie delle ricchezze mafiose tratte da fonti imprecisate, approssimative, suggestive, mai verificate o verificabili. Due dati: basterebbe leggere l’elenco dei beni gestiti dall’Agenzia nazionale per rendersi conto di come non esista alcuna corrispondenza tra quelle stime allarmistiche e ciò che la pur brillante e incessante attività investigativa porta in evidenza ogni anno; secondariamente occorrerebbe banalmente chiarire perché decine di mafiosi, camorristi e ndranghetisti si siano affannati per percepire il reddito di cittadinanza se – suddividendo le stime astronomiche per il numero presunto degli affiliati – ciascun malavitoso dovrebbe avere a disposizione alcuni milioni di euro di profitti illeciti e ogni anno, si badi bene. Da ultimo l’allerta antimafia segnala il tentativo di aggredire il sistema delle misure antimafia e di mettere mano all’ergastolo ostativo, sostenendo che così verrebbero meno due pilastri insostituibili dell’azione di contrasto alla piovra. Bene, chi scrive condivide l’idea che la prevenzione antimafia abbia una propria ragione d’esistere e che, gestita con prudenza e capacità, sia un connotato indefettibile dell’azione di contenimento alle cosche. E’ proprio chi sposa la tesi dei miliardi di euro occultati ogni anno e mai scoperti, chi sostiene che l’economia mondiale sia inquinata in profondità dai patrimoni mafiosi, chi denuncia che le criptovalute siano il campo libero del riciclaggio dei clan, chi lancia allarmi persino sui contatti tra ndrangheta e Isis che dovrebbe invocare a viva voce che un sistema del genere, così incapace di far fronte a questa asserita devastazione economica, sia messo da parte. Invece si lanciano allarmi contro il rischio di una dismissione o di una riduzione del sistema di prevenzione, non rendendosi conto – facendo finta di non rendersi conto – che coerenza pretenderebbe che non si difenda l’inefficienza e non si conservi lo status quo. Ma quello della coerenza è un altro discorso. In modo simmetrico, si dice che l’ergastolo ostativo – quello che non consente ai mafiosi di accedere ai benefici carcerari senza una collaborazione di giustizia – sia uno strumento indispensabile e irrinunciabile per la lotta alle mafie. Bisogna intendersi. La Corte costituzionale ha detto altro, ma passi; toccherà (forse) al legislatore mettere mano alla questione. Se si intende dire che occorre far morire i mafiosi in carcere, la tesi ha, come dire, una propria ragionevolezza punitiva. Se ergastolo è che ergastolo sia. Peccato che la Costituzione dica altro e che dozzine di sentenze della Consulta ricordino che l’ergastolo è compatibile con la funzione rieducativa della pena alla sola condizione che preveda un’emenda in corso di esecuzione e, quindi, un’attenuazione. C’è, però, chi abbraccia la tesi di una mera funzione distributiva della pena e, quindi, repressiva. Secondo questa traiettoria, insomma, che muoiano in carcere; punto e basta. Il pendolo del diritto è molto chiaro e corre in direzione opposta, ma ogni opinione è lecita. Se solo si avesse il coraggio di esprimerla in questi termini. Ma, si sa, non è politicamente corretto spingersi in avanti con chiarezza su questo punto e allora si aggira il problema dicendo che, con l’abolizione dell’ergastolo ostativo, si prosciugherebbe il fiume delle collaborazioni di giustizia, strumento parimenti prezioso dell’arsenale antimafia. Anche questa volta, però, i fatti dicono altro. Messa da parte la collaborazione di Gaspare Spatuzza, iniziata da oltre un decennio, il fiume è un rigagnolo, se non un acquitrino, e nessun rilevante pentimento di mafia si è avuto da moltissimo tempo a questa parte. I boss non cedono, non intendono collaborare e le aule di giustizia sono affollate di seconde e terze linee che o non hanno nulla di particolarmente rilevante da dichiarare oppure si inseriscono a mano libera nelle varie main stream più o meno complottiste (golpe, raduni, logge, miliardi e via seguitando) per accreditarsi presso qualche inquirente compiacente o sprovveduto. Insomma la lotta alla mafia è una cosa seria e immiserendola con l’allarmismo e la propaganda non si rende onore e servigio a quanti hanno sempre ritenuto che fosse un nemico da poter sconfiggere ; descrivendola come invincibile, in fondo, ci si iscrive al partito dei conniventi, ossia di quanti la vogliono in esistenza per motivi che troppo hanno a che fare con le proprie fortune.
Il memoriale di Mario Mori. Mario Mori ci racconta come solo il Ros rimase a combattere la mafia, il memoriale del generale in quattro puntate. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Ottobre 2021. Iniziamo oggi a pubblicare il memoriale inedito scritto dal generale Mario Mori nel quale si raccontano le vicende della lotta alla mafia all’inizio degli anni novanta. Mori, insieme al nucleo dei Ros (carabinieri) dei quali faceva parte, ebbe un ruolo decisivo in quella battaglia. L’aveva iniziata al fianco di Giovanni Falcone alla fine degli anni ottanta, la proseguì fino al clamoroso successo della cattura del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. In quegli anni realizzò indagini di straordinaria importanza, alcune delle quali, purtroppo, andarono poi disperse per via delle decisioni della Procura di Palermo. La più nota è quella che va sotto il nome di “mafia-appalti”, che Borsellino cercò di avere assegnata senza successo, e che poi fu archiviata dopo l’uccisione di Borsellino. Mori, come sapete, è stato negli ultimi anni trascinato più volte in tribunale (i tribunali della Repubblica e quelli della Tv, compresa la Rai) e ne è sempre uscito clamorosamente assolto (non dalla Rai che ancora non ha chiesto scusa). Noi crediamo che sia stato vittima di una vera e seria congiura della quale, purtroppo, molto probabilmente nessuno mai renderà conto. Era il nemico numero 1 della mafia e poi – chissà perché, ma forse non è difficile immaginarlo – diventò il nemico della cosiddetta “antimafia professionale”. Questa testimonianza che ha messo per iscritto a noi sembra di grandissima importanza per cercare di intravvedere almeno alcune verità. La pubblichiamo da oggi, tutti i giorni, in quattro puntate.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Tutti fanno finta di non sapere. La vera storia del covo di Totò Riina e il falso mito della perquisizione mancata – Il memoriale di Mario Mori. Mario Mori su Il Riformista il 26 Ottobre 2021. Nelle interminabili discussioni originate dall’attività operativa del Ros dei Carabinieri nel contrasto alla mafia, il punto di partenza è sempre costituito dalla mancata perquisizione del “covo” di Salvatore Riina. Quale protagonista di quei fatti espongo in merito la mia versione. Subito dopo la cattura del capo di “cosa nostra”, nella riunione tra magistrati e investigatori che ne seguì, fu naturalmente considerata l’ipotesi dell’immediata perquisizione della sua abitazione, ubicata a Palermo in via Bernini 54, ma al momento non individuata precisamente, perché inserita in un comprensorio – delimitato da un alto muro di recinzione – costituito da una serie di villette indipendenti. Prospettata dal cap. Sergio De Caprio, e da me sostenuta, prevalse la decisione di non effettuare la perquisizione. La proposta derivava della considerazione che il Riina era stato appositamente arrestato lontano dal luogo di residenza della famiglia – un suo “covo” non è mai stato trovato – e teneva conto della prassi mafiosa di non custodire, nelle proprie abitazioni, elementi che potessero compromettere i parenti stretti. Questa soluzione avrebbe dovuto permetterci lo sviluppo di indagini coperte sui soggetti che gli assicuravano protezione, senza che fosse nota la nostra conoscenza della sua abitazione. L’improvvida indicazione dell’indirizzo ad opera di un ufficiale dell’Arma territoriale di Palermo, che consentì alla stampa, dopo circa ventiquattro ore dalla cattura, di presentarsi con le telecamere davanti all’ingresso di via Bernini, “bruciò” l’obiettivo, e i conseguenti servizi di osservazione del cancello di accesso al comprensorio furono sospesi per il serio pericolo di lasciare dei militari dentro un furgone isolato, esposto a qualsiasi tipo di offesa. A questo punto anche le indagini che ci eravamo prefissi di svolgere in copertura divennero molto più difficili, stante l’eco addirittura internazionale della vicenda. Malgrado queste difficoltà, la cattura del Riina non rimase un fatto episodico, perché attraverso alcuni “pizzini” trovatigli addosso, fu possibile risalire alla cerchia stretta dei suoi favoreggiatori, procedendo in successione di tempo al loro arresto. La perquisizione della villetta abitata dai Riina venne eseguita solo dopo alcuni giorni su iniziativa della Procura della Repubblica di Palermo, in un quadro di scollamento tra le attività della magistratura e della polizia giudiziaria. Noi eravamo convinti di potere sempre agire nell’ambito delle iniziative preliminarmente concordate, mentre la Procura era sicura del mantenimento del controllo sull’obiettivo. L’equivoco diede luogo all’apertura di un procedimento giudiziario che i sostituti procuratori incaricati, Antonio Ingroia e Michele Prestipino, proposero per due volte di archiviare, ma il Gip, attraverso un’ordinanza di imputazione coatta, decise per l’apertura del processo, con l’ipotesi, a carico mio e del cap. Sergio De Caprio, di favoreggiamento di elementi di “cosa nostra”. La vicenda penale si concluse con la nostra piena assoluzione, perché “il fatto non costituisce reato”. Nella motivazione, la 3° Sezione penale del Tribunale di Palermo, sulla decisione volta a dilazionare la perquisizione, sosteneva testualmente: «… Questa opzione investigativa comportava evidentemente un rischio che l’Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di Polizia Giudiziaria direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione. Nella decisione di rinviarla appare, difatti logicamente, insita l’accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell’abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell’ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella (moglie del Riina, ndr) che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere o occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina – cosa che avrebbero potuto fare nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell’arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo – od anche terzi che, se sconosciuti alle forze dell’ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti. L’osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al cancello di ingresso dell’intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l’allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata e le frequentazioni del sito». Sull’ipotesi, emersa già anche in quel processo, di una trattativa condotta dal Ros con uomini di “cosa nostra”, il Tribunale la escludeva con queste considerazioni: «… La consegna del boss corleonese nella quale avrebbe dovuto consistere la prestazione della mafia è circostanza rimasta smentita dagli elementi fattuali acquisiti nel presente giudizio». A conferma dell’approccio sempre manifestato, fondato cioè sulla convinzione della nostra non colpevolezza, la Procura di Palermo non interpose appello. Malgrado l’esito processuale, che non avrebbe dovuto concedere ulteriori margini di discussione, “la mancata perquisizione del covo di Riina” rimane tuttora un postulato per coloro che sostengono il teorema delle mie responsabilità penali nell’azione di contrasto a “cosa nostra”. In particolare viene sempre citata l’esistenza di una cassaforte – contenente chissà quali segreti – che sarebbe stata smurata ed asportata dall’abitazione del boss e a nulla vale presentare la fotografia, scattata anni dopo e agli atti dei procedimenti giudiziari, che ritrae il mio avvocato, il senatore Pietro Milio, a fianco della cassaforte ancora ben infissa nel muro. Nell’ipotesi peggiore, l’attività investigativa mia e dei militari che comandavo è considerata sostanzialmente criminale. Bene che vada, la tecnica operativa attuata dal Ros, mutuata dal Nucleo Speciale Antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, è definita come autoreferenziale, quindi non perfettamente in linea con i canoni stabiliti dalle norme procedurali. Di fronte a queste accuse che considero ingiuste, ritengo di dovere fare alcune considerazioni. Le critiche che mi vengono rivolte, relative alle indagini svolte dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, sono sostenute per lo più da persone che, all’epoca, in quella primavera/estate del 1992, se non erano minorenni, certamente non hanno avuto nessuna partecipazione e conoscenza vissuta degli eventi, per cui esprimono giudizi senza avere presente la realtà di quei drammatici mesi. La società nazionale ed in particolare i siciliani, già profondamente colpiti dal tragico attentato di Capaci, accolsero attoniti la nuova strage di via D’Amelio. Chi si trovava allora a Palermo poteva constatare l’angoscia e la paura diffuse, non solo tra i cittadini comuni, ma anche in coloro che per gli incarichi ricoperti avevano il dovere di contrastare con ogni mezzo “cosa nostra”. Ricordo in particolare come alcuni magistrati sostenessero che era finita la lotta alla mafia e parlassero di resa; ho ancora ben presenti tutti quei politici, giornalisti ed esperti che esprimevano il loro sconfortato pessimismo, valutando senza possibilità di successo il futuro del contrasto al fenomeno. Anche molti colleghi, tra le forze di polizia, avevano iniziato a privilegiare il più prudente e coperto lavoro d’ufficio rispetto alle attività su strada. Nessuno, comunque, a livello di magistratura ma anche da parte degli organi politici competenti, ovvero delle scale gerarchiche delle forze di polizia, ritenne, in quei giorni, d’impartire direttive o delineare linee d’azione investigative aggiornate per contrastare più efficacemente l’azione criminale di “cosa nostra”. Le istituzioni sembravano dichiararsi impotenti contro l’attacco mafioso. In particolare erano scomparsi dalla scena i protagonisti dell’antimafia militante. In questo sfacelo generale alcuni, e tra questi i Carabinieri del Ros, ritennero invece un dovere, prima morale e poi professionale, incrementare l’attività investigativa, nel rispetto della propria funzione e per onorare la memoria dei morti nelle due stragi. Decisi così d’iniziativa, ma nella mia competenza di responsabile di un reparto operativo dell’Arma, di attualizzare e rendere più incisiva l’attività d’indagine, costituendo un nucleo, comandato dal cap. Sergio De Caprio, destinato esclusivamente alla cattura di Riina ed autorizzai il cap. Giuseppe De Donno a perseguire la sua idea di contattare Vito Ciancimino, personalità politica notoriamente prossima alla “famiglia” corleonese, nel tentativo di ottenere una collaborazione che consentisse di acquisire notizie concrete sugli ambienti mafiosi, così da giungere alla cattura di latitanti di spicco. Si tenga conto che il cap. De Donno, negli anni precedenti, aveva arrestato Vito Ciancimino per vicende connesse ad appalti indetti dal Comune di Palermo, ma se si voleva ottenere qualche risultato concreto, non si poteva ricercare notizie valide tra i soliti informatori più o meno attendibili, ma avvicinare chi con la mafia aveva sicure relazioni. A proposito del contatto con Vito Ciancimino non posso essere criticato per un’attività riservata nella ricerca di notizie e di latitanti; infatti le norme procedurali consentono all’ufficiale di polizia di ricercare e tenere rapporti con quelli che ritiene in grado di fornirgli informazioni. Ciancimino quindi, libero cittadino in attesa di giudizio, era una potenziale fonte informativa e per questo avvicinabile in tutta riservatezza dalla polizia giudiziaria, così come previsto dall’art. 203 del nostro codice di procedura penale. Mario Mori
Seconda puntata degli scritti del Generale del Ros. La verità sul dossier mafia-appalti – Il memoriale di Mario Mori. Mario Mori su Il Riformista il 27 Ottobre 2021. Molti mi imputano il fatto di non avere avvertito l’autorità giudiziaria competente del tentativo di convincere l’ex sindaco di Palermo alla collaborazione. Del tentativo ritenni di dovere rendere edotte alcune cariche istituzionali. La dott. Liliana Ferraro, stretta collaboratrice di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia, ne fu informata nel corso del mese di giugno 1992, sino dai primi approcci tentati dal cap. De Donno col figlio del Ciancimino; il magistrato ne parlò a sua volta col ministro Claudio Martelli e con il dott. Borsellino. Nel luglio 1992 avvisai personalmente il segretario generale di palazzo Chigi, l’avv. Fernanda Contri, che comunicò la notizia al presidente del Consiglio dei Ministri, Giuliano Amato. Nell’ottobre successivo ne parlai ripetutamente all’on. Luciano Violante, nella sua qualità di presidente della Commissione Parlamentare Antimafia. Tutti questi contatti hanno avuto conferme da parte degli interessati nei dibattimenti processuali che mi hanno riguardato. Le personalità qui citate rivestivano cariche istituzionali e avevano funzioni che mi consentivano di riferire loro notizie riservate sulle indagini che stavo svolgendo. Se qualcuno di costoro, peraltro, avesse ravvisato qualche comportamento illecito nel mio comportamento, avrebbe avuto l’autorità, anzi l’obbligo, di denunciarlo immediatamente ai miei superiori, ovvero alle autorità politiche da cui dipendeva la mia scala gerarchica, ma questo non avvenne. La mia scala gerarchica, per suo conto, sulle indagini svolte, così come previsto, eseguì successivamente un’indagine amministrativa che si concluse senza rilevare elementi censurabili nella mia condotta. Rimane però il fatto di non avere informato la Procura della Repubblica di Palermo per un tentativo certamente non di routine che prevedeva, per me e De Donno, e questo deve essere chiaro, anche significativi rischi personali, visto che ci eravamo presentati con i nostri nomi e le nostre funzioni ad una persona legata strettamente ai “corleonesi”, avendogli precisato, dopo i primi approcci, che il nostro intento finale era quello di ottenere la cattura dei latitanti mafiosi di spicco. Sarò esplicito sul punto: decisi di non avvisare la Procura di Palermo, in attesa della sostituzione prevista di lì a qualche mese del suo responsabile, dott. Pietro Giammanco, perché non mi fidavo della sua linearità di comportamento e ne spiego qui di seguito i motivi. Quando fui nominato, nel settembre 1986, comandante del Gruppo CC. di Palermo, provenivo dall’esperienza della lotta al terrorismo condotta dal Nucleo Speciale di PG del gen. Dalla Chiesa, dove si era capito che nelle indagini contro le maggiori espressioni di criminalità – terrorismo ma anche delinquenza organizzata di tipo mafioso – si doveva agire considerando il fenomeno nel suo complesso e non per singoli aspetti. Mi resi conto che a Palermo le Forze di Polizia operavano di norma per eventi specifici – solo con Giovanni Falcone ed il pool antimafia si era cominciato ad affrontare analiticamente il fenomeno mafioso – ottenendo risultati complessivamente inadeguati. Mancava la cultura dell’indagine di lungo respiro, preferendo il più facile risultato immediato ma senza prospettive, a un’azione che, portata in profondità, consentisse alla fine di raggiungere risultati realmente consistenti. Questo concetto d’azione, cioè il differimento della perquisizione dell’abitazione, sarà alla base dell’indirizzo d’indagine prospettato ai magistrati subito dopo la cattura di Salvatore Riina. Per tornare al mio arrivo a Palermo, mi parve presto chiaro che “cosa nostra” non si preoccupava tanto della cattura di qualche suo elemento, perché sempre sostituibile, ma temeva gli attacchi alle sue attività in campo economico, quelle cioè che le consentivano di sostenersi ed ampliare il proprio potere. Individuai non nelle estorsioni, il così detto pizzo, ma nella gestione e nel condizionamento degli appalti pubblici, il canale di finanziamento più importante dell’organizzazione. Dalle prime indagini, da me assegnate al cap. Giuseppe De Donno, si evidenziò la figura di Angelo Siino quale uomo di “cosa nostra” incaricato di gestire i rapporti con gli altri protagonisti dell’affare appalti. Per la prima volta, con il sostegno convinto e fattivo di Giovanni Falcone, si sviluppò un’indagine specifica relativa alle turbative realizzate nelle gare degli appalti pubblici, partendo dagli interessi mafiosi. Emerse allora il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) imprenditoria e politica, come sino ad allora ritenuto, non erano affatto vittime, ma partecipi dell’attività criminosa, concorrendo alla spartizione dei proventi illeciti. Si arrivò così a risultati concreti addirittura prima, come sostenuto dallo stesso dott. Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali, che l’inchiesta milanese “Mani pulite” prendesse corpo e producesse i suoi effetti pratici. Infatti, all’inizio di febbraio 1991, il dottor Falcone, nel lasciare il Tribunale di Palermo per il ministero della Giustizia, chiese di depositare l’informativa riassuntiva sull’indagine che era già stata preceduta da una serie di notazioni preliminari, redatte dal cap. De Donno su aspetti particolari dell’inchiesta, tra cui quelli relativi alle attività di politici apparsi nel corso degli accertamenti. Giovanni Falcone spiegò che la consegna formale fatta nelle sue mani ci avrebbe in parte protetti dalle polemiche che l’indagine avrebbe sicuramente creato. Appena ricevuta l’informativa, il dottor Falcone la portò al procuratore capo Pietro Giammanco. Da quel 17 febbraio 1991, per mesi, malgrado le insistenze del cap. De Donno e mie, non si seppe più nulla dell’inchiesta, e questo anche se, il 15 marzo 1991, in un convegno tenutosi al castello Utveggio di Palermo, a proposito della nostra indagine, Giovanni Falcone avesse affermato: « … Si potrebbe dire che abbiamo fatto dei tipi di indagine a campione, da cui si può dedurre con attendibilità un certo tipo di condizionamento, ma l’indagine di cui mi sono occupato a Palermo, mi induce a ritenere che la situazione sia molto più grave di quello che appare all’esterno …»; e proseguendo: «Io credo che la materia dei pubblici appalti è la più importante perché è quella che consente di fare emergere come una vera e propria cartina di tornasole quel connubio, quell’ibrido intreccio tra mafia, imprenditoria e politica …». Il 2 luglio 1991, infine, furono emesse cinque ordinanze di custodia cautelare per quattro imprenditori siciliani più Angelo Siino. Dopo pochi giorni tutti, a cominciare da “cosa nostra”, seppero i risultati raggiunti dall’inchiesta e soprattutto dove questa poteva portare, perché alla scontata richiesta degli avvocati difensori di conoscere gli elementi di accusa relativi ai propri patrocinati, invece di stralciare e consegnare esclusivamente gli aspetti documentali relativi ai singoli inquisiti, così come previsto dalla norma, venne consegnata l’intera informativa: 878 pagine più gli allegati. Il procuratore Giammanco, addirittura, ritenne d’inviare l’informativa al ministro della Giustizia Claudio Martelli, iniziativa presa nell’agosto del 1991, provocando la reazione del ministro che, consigliato da Giovanni Falcone, la rispedì al mittente, rilevando e sottolineando l’irritualità della trasmissione di un atto di indagine che, in quanto tale, non poteva essere di competenza dell’autorità politica. Iniziò in quel periodo la crisi nei rapporti tra la Procura Palermo e il Ros. Nel marzo 1992 rientrò a Palermo, proveniente dalla Procura della Repubblica di Marsala, Paolo Borsellino, assumendo le funzioni di procuratore aggiunto. Tra lo stupore generale, il procuratore Giammanco, non gli delegò la competenza delle indagini antimafia su Palermo e provincia. A riguardo appare oltremodo significativa l’affermazione, riportata nella recente sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta (Borsellino quater), attribuita a Giuseppe “Pino” Lipari che, alla notizia del rientro del magistrato a Palermo, aveva sostenuto come il fatto avrebbe portato problemi a “quel santo cristiano di Giammanco ”. Il Lipari era un geometra palermitano che curava gli affari della “famiglia” corleonese. In quei primi mesi Paolo Borsellino divenne rapidamente il punto di riferimento di magistrati e investigatori impiegati nel contrasto alla mafia e continuò a mantenere costanti rapporti personali e professionali con Giovanni Falcone che il 23 maggio 1992, a Capaci, venne ucciso da una bomba che provocò anche la morte della moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e di tre addetti alla sua scorta. Da quel momento l’attività di Paolo Borsellino assunse un ritmo quasi frenetico e continuò sino alla sua fine, avvenuta il successivo 19 luglio 1992. Mario Mori
L'informativa dei Ros chiave segreta, ma fu cestinata...La rivelazione di Borsellino: “Ecco perché Falcone è stato ammazzato” – Il memoriale di Mario Mori. Mario Mori su Il Riformista il 28 Ottobre 2021. Nel periodo compreso tra l’uccisione di Falcone e quella di Borsellino (e lo sterminio delle loro scorte) si sviluppò una significativa serie di vicende riguardanti le indagini del Ros, e precisamente:
19 giugno 1992, due ufficiali del Ros, i capitani Umberto Sinico e Giovanni Baudo, informano direttamente il dott. Borsellino di avere ricevuto notizie confidenziali circa la preparazione di un attentato nei suoi confronti, precisando e che in merito erano stati formalmente allertati gli organi istituzionali competenti per la sua sicurezza;
25 giugno 1992, Paolo Borsellino mi chiede un incontro riservato che si svolge a Palermo nella caserma Carini, presente anche il cap. De Donno. Il magistrato, che già aveva ottenuto dal Ros il rapporto “mafia e appalti” quando era a Marsala – in merito ci sono le dichiarazioni processuali a conferma da parte dei magistrati Alessandra Camassa, Massimo Russo e Antonio Ingroia, oltre a quelle dell’allora maresciallo Carmelo Canale – sostiene di volere proseguire le indagini già coordinate da Giovanni Falcone che gliene aveva parlato ripetutamente e sollecita, ottenendola, la disponibilità operativa del Cap. De Donno e degli altri militari che avevano condotto l’inchiesta;
Mario Mori ci racconta come solo il Ros rimase a combattere la mafia, il memoriale del generale in quattro puntate
12 luglio 1992, la Procura di Palermo, con lettera di trasmissione a firma Giammanco, invia quasi per intero l’informativa Ros sugli appalti ad altri uffici giudiziari siciliani “per conoscenza e per le opportune determinazioni di competenza”. Per un’indagine basata sull’ipotesi di associazione per delinquere di tipo mafioso (416 bis c.p.) la procedura adottata implica, da parte della Procura mandante, il sostanziale cessato interesse per gran parte dell’indagine, infliggendole un colpo praticamente mortale;
13 luglio 1992, i sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiedono l’archiviazione dell’inchiesta mafia e appalti;
14 luglio 1992, in una riunione dei magistrati della Procura di Palermo, Paolo Borsellino chiede notizie sull’inchiesta e afferma che i Carabinieri sono delusi della sua gestione. Dalle successive dichiarazioni al Csm da parte dei presenti a quella riunione, emerge che nessuno gli dice che ne è già stata proposta l’archiviazione (Guido Lo Forte era tra i presenti);
16 luglio 1992, si tiene a Roma una cena tra Paolo Borsellino, l’on. Carlo Vizzini, e i magistrati palermitani Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Nel corso dell’incontro, a riguardo c’è la testimonianza processuale di Carlo Vizzini, il dott. Borsellino parla diffusamente dell’indagine mafia e appalti individuandola come una delle possibili cause della morte di Giovanni Falcone. Il dott. Lo Forte non informa il collega che due giorni prima, insieme al dott. Roberto Scarpinato, ne aveva chiesto l’archiviazione. Anche il giornalista Luca Rossi testimonierà in dibattimento di avere avuto, in quei giorni, un incontro con Palo Borsellino che gli parlò dell’inchiesta mafia e appalti. Vale la pena altresì ricordare, come risulta dalle plurime testimonianze dei suoi colleghi, tra cui Vittorio Aliquò, Leonardo Guarnotta, e Alberto Di Pisa, che il dott. Borsellino ritenesse come l’interesse mostrato dall’amico Giovanni Falcone per l’indagine fosse una delle possibili cause della morte di quest’ultimo;
19 luglio 1992, al primo mattino, il dott. Borsellino riceve la telefonata del procuratore Giammanco che gli conferisce la delega ad occuparsi delle indagini relative alla città di Palermo e alla sua provincia. Nel pomeriggio il magistrato viene ucciso da un’autobomba unitamente ai cinque agenti della sua scorta;
22 luglio 1992, tra giorni dopo la morte di Paolo Borsellino, il procuratore Giammanco inoltra al Gip del Tribunale di Palermo la richiesta di archiviazione per mafie e appalti;
14 agosto 1992, il Gip del Tribunale di Palermo, dott. Sergio La Commare, firma l’archiviazione dell’inchiesta. La decisione passa inosservata nella completa distrazione propria del periodo ferragostano.
Sulla base di questa sequenza di fatti e alla luce dei successivi sviluppi investigativi, si dovrebbe chiedere ai magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo perché, il 14 luglio 1992, nella loro riunione, non fu detto a Paolo Borsellino che c’era già una richiesta di archiviazione per mafia e appalti e per quali motivi si voleva chiudere l’indagine, e inoltre perché il procuratore Giammanco non sia stato mai formalmente sentito su queste vicende. In particolare, poi, al dott. Giammanco, vissuto sino al 2 dicembre 2018, viste le polemiche nel frattempo insorte e protratte nel tempo, si sarebbe dovuto chiedere di:
… spiegare il motivo per cui solo il 19 luglio (giorno dell’attentato di via D’Amelio), previa una telefonata di primo mattino, concesse a Paolo Borsellino la delega ad investigare anche sui fatti palermitani;
… commentare l’affermazione fatta da Giovanni Falcone alla giornalista Liana Milella, quando, riferendosi alle determinazioni assunte dalla Procura della Repubblica di Palermo sull’inchiesta mafie e appalti le definì: “Una decisione riduttiva per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”;
… chiarire i termini dell’appunto rinvenuto nell’agenda elettronica di Giovanni Falcone nella quale si evidenziavano le pressioni del dott. Giammanco sul cap. De Donno al fine di chiudere l’inchiesta mafia e appalti, giustificate dal procuratore come richieste pervenute dal mondo politico siciliano che altrimenti non avrebbe più ottenuto i fondi statali per gli appalti;
… smentire eventualmente le dichiarazioni di Angelo Siino che, nel corso della sua collaborazione, sempre ritenuta fondamentale dalla Procura della Repubblica di Palermo, affermò di avere avuto l’informativa mafia e appalti pochi giorni dopo il suo deposito e che il documento gli era pervenuto, attraverso l’on. Salvo Lima, dal dott. Giammanco.
Infine mi piacerebbe conoscere perché le dichiarazioni di alcuni magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo che il 29 luglio 1992 e nei giorni a seguire, sentiti dal Consiglio Superiore della Magistratura, avevano riferito della riunione della Dda di Palermo, tenutasi il 14 luglio 1992, e nella quale Paolo Borsellino aveva chiesto notizie sull’indagine mafia e appalti, non sono state oggetto di nessun accertamento.
Si tenga poi conto che queste dichiarazioni si sono conosciute solo a distanza di molti anni ed esclusivamente per l’iniziativa dell’avv. Basilio Milio, mio difensore, che, dopo avere collezionato negli anni vari dinieghi, qualche mese orsono ha finalmente avuto accesso a un fascicolo processuale che ha trovato presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta e qui le ha rintracciate. Così le ha potute presentare nel corso del recente dibattimento davanti alla Corte di Assise di Appello di Palermo relativo alla presunta trattativa Stato/mafia, rendendole finalmente pubbliche. Per concludere questo argomento sottolineo che le perplessità nei confronti di alcuni indirizzi assunti dal dott. Giammanco nella gestione della Procura di Palermo, non costituivano solo una convinzione mia e di qualche altro ufficiale del Ros, ma erano radicate anche in una parte dei magistrati appartenenti al suo ufficio, che diedero anche vita a significative e pubbliche azioni di contestazione, senza che però in prospettiva, anche dopo l’arrivo del nuovo procuratore capo, il dott. Giancarlo Caselli, qualcuno ritenesse di svolgere accertamenti su quanto in quell’estate del 1992 era successo.
Dopo pochi mesi, uno dei cinque arrestati nell’inchiesta mafia e appalti, il geometra Giuseppe Li Pera, dal carcere e tramite i suoi avvocati, manifestò la volontà di collaborare, ma visti respinti i suoi tentativi di essere ascoltato dalla Procura della Repubblica di Palermo, riferì i fatti da lui conosciuti al cap. Giuseppe De Donno e al sostituto procuratore Felice Lima della Procura della Repubblica di Catania. Quest’ultimo, al termine degli accertamenti conseguenti alle dichiarazioni del collaborante, inoltrò al Gip del Tribunale di Catania la richiesta di ventitré ordinanze di custodia cautelare in carcere per associazione per delinquere di tipo mafioso ed altro, ma venne fermato dal proprio procuratore capo, il dott. Gabriele Alicata, che si rifiutò di firmare il provvedimento e decise, anche qui, di frazionare l’inchiesta in tre distinti segmenti:
-a Catania, rimase la parte riguardante un ospedale cittadino che portò all’arresto di Carmelo Costanzo, il Cavaliere del lavoro che, insieme ai colleghi Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci e Mario Rendo, costituiva il gruppo dei cosiddetti “quattro cavalieri dell’apocalisse” e delle cui attività si era a suo tempo interessato anche il generale Dalla Chiesa. Oltre al Costanzo furono arrestati un ex presidente della Provincia e alcuni membri di una Usl locale;
-a Caltanissetta, venne avviata la parte che riguardava le accuse di Li Pera a quattro magistrati della Procura della Repubblica di Palermo, i sostituti procuratori Giuseppe Pignatone, Guido Lo Forte, Ignazio De Francisci e il procuratore capo Pietro Giammanco. L’inchiesta si concluse con l’esclusione di ogni responsabilità a carico degli indagati. Anche l’addebito, rivolto al Giammanco, di avere ricevuto denaro per ammorbidire gli esiti di mafia e appalti fu archiviato;
-a Palermo, toccò specificatamente la parte relativa a “cosa nostra”, che portò alla successiva emissione di un’ordinanza di custodia cautelare intestata a Salvatore Riina più ventiquattro, in pratica il gotha mafioso palermitano, escludendo quindi ogni responsabilità della componente politica.
In nessuno di questi tre filoni operativi fu richiesta la partecipazione dei militari del Ros che pure avevano svolto, in esclusiva, tutte le precedenti indagini. Il conflitto interno alla Procura di Catania si concluse con la richiesta da parte del dott. Lima del trasferimento al Tribunale Civile. Il comportamento del cap. De Donno, ritenuto scorretto dalla Procura della Repubblica di Palermo, fu segnalato alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione che definì la pratica senza riscontrare alcun comportamento irregolare da parte dell’ufficiale. Sulla propaggine catanese di mafia e appalti, meglio su tutta la vicenda, mi sembra appropriato concludere citando le parole dette dal dott. Felice Lima, il 4 maggio 2021, davanti alla Commissione d’inchiesta dell’Assemblea Regionale Siciliana: «… Io avevo le stesse carte dei colleghi palermitani, ma mentre sul mio tavolo queste carte portarono i frutti contenuti in quelle duecentotrenta, non mi ricordo, pagine di richiesta, a Palermo non era praticamente successo niente, anzi c’era stata una dolorosa, dal mio punto di vista, richiesta di archiviazione». Mario Mori
Ultima puntata degli scritti del generale del Ros. Tangentopoli era in Sicilia, ma fu fatta sparire – Il memoriale di Mario Mori. Mario Mori su Il Riformista il 29 Ottobre 2021. Per completare la narrazione sulle indagini da me coordinate nel settore degli appalti pubblici, c’è da aggiungere che, vista l’impossibilità di proseguire questa tipologia di inchieste in Sicilia, sempre nel corso del 1992, spostai il reparto del cap. De Donno a Napoli, dove fu riproposta la stessa ipotesi investigativa, questa volta applicata alla camorra. Lo spunto ci proveniva dalla segnalazione di minacce e intimidazioni con danneggiamenti, di chiara origine camorristica, rivolte a tecnici e cantieri della Impregilo, società impegnata nella costruzione della linea ad alta velocità Roma-Napoli (Tav). Da una serie di riscontri ottenuti, si constatò che, anche qui, l’interesse verso gli appalti pubblici da parte di appartenenti alla camorra era prioritario. Concordammo con due magistrati illuminati, il procuratore della Repubblica di Napoli, Agostino Cordova e il responsabile di quella Direzione Distrettuale Antimafia, Paolo Mancuso, una linea di lavoro che prevedeva l’inserimento fittizio di un nostro uomo nel contesto operativo dei lavori della Tav, con la funzione di eventuale catalizzatore degli interessi illeciti, presentandolo come rappresentante dell’Associazione Temporanea d’Imprese (Ati) aggiudicataria del complesso dei lavori. In breve, il nostro uomo, il sedicente ing. Varricchio, in realtà il tenente colonnello Vincenzo Paticchio del Ros, fu contattato da elementi del clan camorristico degli Zagaria, egemone nella zona di Casal di Principe, e si dichiarò disposto ad accettare un confronto che consentisse un “sereno” svolgimento delle attività. La richiesta dei criminali prevedeva la dazione del tre per cento dell’importo dei lavori. Vi erano inoltre altre percentuali da prevedere per la componente politica e per il mondo imprenditoriale. Varricchio accettò, ma pretese che tutte le richieste fossero in qualche modo formalizzate. Alcune di queste vennero ufficializzate nel corso di riunioni, tenutesi presso l’hotel Vesuvio di Napoli e coordinate dal geometra Del Vecchio, che prese fedelmente nota dei nominativi delle imprese segnalate, delle loro richieste e da chi venivano sponsorizzate. Il geometra Del Vecchio era in effetti un abilissimo maresciallo del Ros. Tutte le operazioni furono registrate in audio e video e l’indagine si concluse con il rinvio a giudizio di camorristi, imprenditori e politici, tra cui anche il vice presidente della Regione Campania. Nel processo vennero condannati gli imprenditori e i camorristi, mentre i politici risultarono assolti in quanto “vittime di un’attività di provocazione”. Ancora mi domando che differenza effettiva ci fosse tra politici, camorristi e imprenditori, visto che analogo era stato il loro comportamento. Lo svolgimento dell’indagine condotta d’intesa con la Procura della Repubblica di Napoli dimostrò comunque che un’inchiesta nel settore degli appalti, anche con la normativa degli anni Novanta, poteva essere portata avanti se c’era coordinamento e unità d’intenti tra magistrati requirenti e investigatori. All’Università Federico II di Napoli, nella facoltà di Economia e Commercio, si tennero per anni lezioni su quella nostra indagine.
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Nel lungo tempo trascorso da quell’anno 1992, ho avuto più volte la possibilità di parlare con gli ufficiali che svilupparono con me quelle indagini sugli appalti. Il confronto ci ha portati a una serie di conclusioni:
– Il business nazionale della criminalità organizzata mafiosa era costituito dal condizionamento degli appalti che si affiancava, a livello internazionale, con quello costituito dal traffico delle sostanze stupefacenti;
-Il condizionamento degli appalti pubblici non costituiva solo l’obiettivo principale dei gruppi mafiosi, ma era fonte di guadagno illecito anche per molti imprenditori e politici, da considerare quindi non vittime ma partecipi dell’attività criminale;
– Stroncare l’inchiesta mafia e appalti, sorta ancora prima di “mani pulite”, evitava di collegare i due procedimenti giudiziari che in effetti sono stati condotti in maniera separata. Solo anni dopo, Antonio Di Pietro ha riferito dell’intenzione di Paolo Borsellino di unificare gli sforzi per gestire le rispettive inchieste, ravvisandovi una strategia unica. Lo stesso dott. Di Pietro ha ricordato di avere ricevuto dal cap. De Donno la sollecitazione ad interessarsi dell’inchiesta siciliana a fronte dell’inerzia di quella magistratura;
– L’inchiesta sviluppata dal Ros a partire dal 1990, coordinata e sostenuta da Giovanni Falcone, si è integrata senza soluzione di continuità con quella di Catania diretta dal dott. Felice Lima, e seppure stroncata con la stessa tecnica usata a Palermo, ha consentito di evidenziare anche nella parte orientale dell’isola la presenza al tavolo degli appalti pubblici degli stessi attori: mafiosi, imprenditori e politici;
– Le inchieste sugli appalti, demolite in Sicilia, hanno invece avuto più ampi sviluppi in altre zone del paese;
– Alcuni esponenti della magistratura siciliana hanno consentito, con le loro decisioni, che le inchieste sul condizionamento degli appalti pubblici abortissero nella loro fase iniziale. Prima che tutti i protagonisti di queste vicende siano scomparsi, saremmo ancora in tempo per analizzare e valutare le ragioni delle loro decisioni;
– Io e Giuseppe De Donno siamo vivi perché la morte di Paolo Borsellino ha praticamente reso inutile la nostra soppressione. Eliminato il magistrato, è stato facile neutralizzare tecnicamente l’indagine che stavamo sviluppando, senza provocare altri omicidi che avrebbero potuto indirizzare in maniera più precisa le indagini sui fatti di sangue di quell’anno: omicidio di Salvo Lima, strage di Capaci, strage di via D’Amelio e omicidio di Ignazio Salvo. Tutto ciò premesso, appare assolutamente necessario che su quanto esposto vi sia un chiarimento, insistentemente richiesto anche da altre parti coinvolte. Il lungo tempo trascorso potrà contribuire a più distaccate e serene valutazioni che, però, appaiono tuttora necessarie, perché troppe morti le hanno segnate indelebilmente.
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A conclusione di queste brevi note voglio esprimere una considerazione di carattere personale. Il Ros, costituito il 3 dicembre 1990, è un reparto investigativo a competenza nazionale che si interessa dei fenomeni di grande criminalità. Negli anni in cui era da me diretto, come peraltro avviene tuttora, conduceva indagini rapportandosi con le Procure della Repubblica più importanti del paese, tutte coordinate da magistrati di grande qualificazione professionale. Ebbene, nelle numerose attività sviluppate, solo in Sicilia, si sono verificati fatti che hanno dato origine a polemiche e inchieste di rilevanza penale, protrattesi addirittura per oltre un ventennio. Ora se è nella forza delle cose che per attività così delicate si possano verificare singoli episodi di contrasto frutto di incomprensioni e anche di errori umani tra i responsabili delle operazioni, l’ampiezza temporale delle tre inchieste, svolte in successione nei confronti miei e di alcuni ufficiali da me dipendenti, appare oltremodo indicativa, e tale da presentarsi non come il riflesso di convincimenti supportati da documenti e riscontri maturati nel tempo, ma piuttosto come l’attuazione, da parte di alcuni magistrati, di un predeterminato disegno di politica giudiziaria.
I tre procedimenti, sempre derivati dallo stesso contesto investigativo, per cui più di un giurista di fama ha parlato di “bis in idem”, volendo così indicare la riproposizione, esclusa dal nostro codice, degli stessi fatti in procedimenti diversi, sono sfociati in processi che si sono sin qui conclusi con l’identico risultato: assoluzione perché il fatto non costituisce reato. All’esito di questi ripetuti e conformi esiti processuali o siamo di fronte a un caso di clamorosa insufficienza professionale da parte di chi li ha aperti e sviluppati, ovvero le inchieste sono state condotte interpretando illogicamente o sovradimensionando gli esiti investigativi acquisiti che, infatti, non sono stati condivisi dalla magistratura giudicante. Ritengo che non si possa assolutamente parlare di mancanza di professionalità, ma invece la spiegazione vada ricercata in un approccio dei magistrati requirenti basato sulla volontà di intervenire processualmente in un campo, quello politico, che non compete al loro ordine, ma è esclusivo ambito del potere legislativo ed esecutivo.
Il magistrato, nel nostro ordinamento, deve valutare e giudicare i fatti accertati, così come afferma specificatamente l’art. 1 del nostro Codice Penale. A lui non compete in alcun modo tentare ricostruzioni più o meno avventurose in base a proprie convinzioni ideologiche che, in definitiva, portano solo a sovvertire l’equilibrata ripartizione dei poteri su cui si regge ogni democrazia compiuta. Mario Mori
Gli scritti del Generale del Ros. Il dossier di Mario Mori svela complicità tra mafia e Procura, qualcuno indagherà? Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Ottobre 2021. Nel corso della settimana che si conclude abbiamo pubblicato, in quattro puntate, il memoriale scritto dal generale Mario Mori. Si tratta di un documento eccezionale perché racconta come, nel corso del 1992, prima la mafia e poi lo Stato posero fine a quella stagione eroica – stavolta l’uso di questo aggettivo non è rito – durante la quale pochi uomini e donne coraggiosi fecero guerra a Cosa Nostra mettendola con le spalle al muro. Parecchi di loro ci rimisero la vita. Terranova, Costa, Chinnici, Falcone, Morvillo, Borsellino, Giuliano, Dalla Chiesa, Cassarà, Montana… Ho scritto solo i nomi di alcuni tra i magistrati e i poliziotti che si impegnarono e lottarono al fronte. Il memoriale del generale Mori è molto circostanziato. Nessuna delle sue affermazioni, mi pare, è priva di riscontri. Questo documento suona come un atto di accusa feroce verso una parte della magistratura italiana e – seppure non esplicitamente – verso la politica e il giornalismo che non sono riusciti a capire niente della mafia e hanno inseguito senza ragionare, e senza sapere, tesi infondate, dilettantistiche, politicamente orientate dalle ideologie o dal tifo, non dai fatti. In estrema sintesi, Mori descrive questa vicenda di inizio anni 90. Il gruppo di investigatori che sta intorno a Giovanni Falcone si rende conto che l’interesse grosso di Cosa Nostra è sugli appalti. E si inizia a indagare. Si raccolgono indizi, prove, si scoprono nuove piste, si ipotizzano collaborazioni. Borsellino è pronto a proseguire l’inchiesta, raccogliendo il testimone da Falcone. Ma a questo punto irrompono, seppure in modo evidentemente non collegato, da una parte la mafia, che uccide Borsellino, dall’altra parte un pezzo di magistratura, che seppellisce le inchieste e chiude, di colpo, le indagini sugli appalti, le connivenze, i rapporti tra Cosa Nostra, politica e imprese del Nord. Scrive, testualmente, il generale Mori: «Alcuni esponenti della magistratura siciliana hanno consentito, con le loro decisioni, che le inchieste sul condizionamento degli appalti pubblici abortissero nella loro fase iniziale. Prima che tutti i protagonisti di queste vicende siano scomparsi saremmo ancora in tempo per analizzare e valutare le ragioni delle loro decisioni». Mi sembra che sia una sfida aperta. Qualcuno vorrà raccoglierla? Pensate che ci sono Procure che oggi indagano sulla base di vaghissime e inconcludenti frasi di Graviano (ex boss della mafia non corleonese) su Berlusconi e Dell’Utri, accogliendo tesi strampalatissime e che non si reggono in piedi (come ha spiegato bene ieri Damiano Aliprandi sul Dubbio) a proposito delle stragi del 1993. Hanno addirittura ordinato delle perquisizioni a casa di parenti di Graviano. Benissimo, proviamo a prendere sul serio queste indagini (per la verità un po’ comiche): perché allora non si indaga sui fatti denunciati in maniera non vaga, ma molto precisa, non da un ex boss ma da un generale dei carabinieri, e più precisamente dall’uomo che arrestando Totò Riina inflisse alla mafia il colpo più duro dopo il maxiprocesso? Mori, nel suo memoriale, ha descritto svariate possibili ipotesi di reato. State tranquilli: saranno ignorate. Perché, per non ignorarle, bisognerebbe mettere in discussione troppi equilibri che ancora oggi governano il vertice della magistratura italiana. L’altro ieri sera il mio amico Giuliano Cazzola, collaboratore di questo giornale, ex sindacalista di vaglia, ex dirigente socialista, mi ha chiesto: ma come mai nessuno parla di questo clamoroso memoriale di Mori? Gli ho risposto nel modo più semplice. Perché il memoriale di Mori è un nuovo attacco al potere mafioso, e in Italia – escluso quel decennio degli eroi del quale ho appena parlato – non è mai esistito uno schieramento antimafia. Prima di Terranova e Chinnici, la tesi prevalente era che la mafia non esistesse. Gli intellettuali, salvo pochissimi, i giornali, salvo pochissimi, si adeguavano. Non volevano sapere, non cercavano, non capivano. Dal 1992 in poi si è ricreata esattamente la situazione precedente. Con la morte di Paolo Borsellino è iniziata la restaurazione. per qualche anno, credo, Mario Mori e il capitano De Donno e pochi altri avventurosi combattenti, hanno provato a proseguire la battaglia. Poi sono stati messi all’angolo, e successivamente ripetutamente processati con la precisa accusa di essersi impegnati nello scontro con la mafia senza rispettare le gerarchie della magistratura. L’unica vera accusa a Mori è stata questa: hai agito contro la mafia senza avvertire il procuratore Giammanco. Mori ha risposto senza giri di parole: non mi fidavo di Giammanco e avevo perfettamente ragione. Dopo tutto questo sono tornati gli anni Cinquanta. Nessuno più combatte la mafia. Nessuno, neppure la conosce. Nessuno la considera un problema. È nata però, dopo il 1992, una nuova forma di antimafia. È una organizzazione fatta di retorica spinta all’ennesima potenza, di frasi fatte, che non ha mai neppure scalfito con un temperino la potenza mafiosa, ma ha prodotto infinite attività collaterali, spesso folcloristiche, spesso lucrose, spesso produttrici di nuove professioni, di successi, di prebende, di onori, e comunque di moltissimo potere ( e di parecchie scorte). Ho risposto così a Cazzola: se nessuno si interessa del memoriale Mori è perché in Italia esiste la mafia e l’antimafia professionale, ma non esistono i nemici della mafia. Quelli che la combattono. Restano pochissimi individui, pochissimi intellettuali, pochissimi giornali, come era negli anni Cinquanta, che denunciano, raccontano, indicano le malefatte non solo della malavita ma anche dello Stato, dell’establishment, dell’editoria. Pensate al processo “trattativa”, coccolato da quasi tutta la stampa italiana. È stato dichiarato formalmente dalla Corte d’appello che era una bufala. Ma è una bufala che ha sviato, che ha rovesciato la realtà, che ha processato gli innocenti e taciuto sui colpevoli. Capisco che è un’espressione molto forte, ma oggettivamente – al di là della sicuramente ottima fede di alcuni magistrati che hanno preso un abbaglio – è stato un clamoroso depistaggio. La mafia ha brindato. Dieci anni di idee farlocche, di inchieste bloccate, di indizi che svanivano. E su questo depistaggio è stata costruita una letteratura che resterà lì, negli archivi, indelebile. Soprattutto la letteratura televisiva. Pensate che mentre era in corso il processo di appello la Rai ha messo in onda una trasmissione colpevolista da fare accapponare la pelle. Nessuno ha chiesto scusa dopo la sentenza, nessuno ha pensato a riparare, neppure Fuortes, mi pare. Come mai? Te lo dico un’altra volta, caro Cazzola: della mafia, in Italia, non frega niente a nessuno.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Depistaggio Borsellino, la procura chiede la condanna dei poliziotti: "Undici anni e 10 mesi per Bò, 9 e mezzo per Mattei e Ribaudo". Salvo Palazzolo su La Repubblica l'11 Maggio 2022.
A Caltanissetta, il processo per la costruzione del falso pentito Scarantino, viene contestata l'accusa di calunnia aggravata. "Un'azione voluta coprire delle alleanze, delle cointeressenze di alto livello di Cosa nostra".
Parla di un “gigantesco depistaggio” sulla strage di via D’Amelio il nuovo procuratore di Caltanissetta, Salvatore De Luca. «Io oggi sono qui per testimoniare che le conclusioni di questa requisitoria non rappresentano il convincimento isolato di uno o due pubblici ministeri di udienza. Tutta la Procura di Caltanissetta le condivide». Richieste di condanna pesanti: 11 anni e 10 mesi per il dirigente Mario Bò, 9 anni e mezzo per gli ispettori in pensione Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, imputati per calunnia. Il procuratore capo De Luca e il sostituto Stefano Luciani, che ha condotto la requisitoria, chiedono al tribunale che venga riconosciuta anche l’aggravante di mafia.
«I plurimi e gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze, delle cointeressenze di alto livello di Cosa nostra», ricostruisce De Luca. Del falso pentito Scarantino, il procuratore dice: «Tutti sapevano alla Guadagna che era un delinquente di serie C». Luciani ricorda che invece i servizi segreti lo dipinsero in un'informativa come un grosso pregiudicato dalle parentele criminali illustri: «O non hanno saputo fare il proprio mestiere oppure c’era dell’altro», dice il magistrato, che aggiunge: «È impensabile che i servizi di informazione, facendo il loro mestiere, cioè acquisendo informazioni sul territorio, non avessero capito che Scarantino era, per citare l’ex pm Fausto Cardella, uno scassapagliaro di modestissimo spessore criminale».
L’atto d’accusa contro i poliziotti entra dentro i misteri più profondi della strage Borsellino: «C’è stata un'anomala accelerazione per la bomba di via D’amelio, che non era funzionale agli interessi di Cosa nostra - dice Luciani - I tempi erano invece funzionali ad ambienti esterni ai boss mafiosi». Per il magistrato, «la strage di via D’Amelio presenta degli elementi che ci inducono a ritenere cointeressenze di queste collusioni». Presenze esterne che erano interessate all’agenda rossa di Paolo Borsellino: «Quando Lucia Borsellino si accorse, nel novembre del 1992, che nella borsa del padre non c’era l’agenda rossa, uscì dalla stanza in cui c'era l’allora dirigente della squadra mobile Arnaldo La Barbera sbattendo la porta. E La Barbera disse alla madre, la signora Agnese Piraino, che la figlia aveva bisogno di un supporto psicologico, perché delirava. Ma l’agenda rossa era scomparsa davvero», ricorda il pubblico ministero, che lega i misteri del depistaggio a quelli delle parole scomparse di Paolo Borsellino.
Luciani chiama in causa non solo La Barbera, ma anche il capitano Giovanni Arcangioli, che prese la borsa del magistrato dalla Croma ancora in fiamme: «Arcangioli non ha mai chiarito la circostanza sulla borsa, tutto questo è inaccettabile e incredibile sotto ogni punto di vista, lo si dica una volta per tutte». L’ufficiale era stato accusato di furto, ma poi il gip di Caltanissetta archiviò l’accusa sostenendo che non c’era prova che l’agenda fosse nella borsa, come invece detto dalla moglie del giudice. Arcangioli ha invece dichiarato di avere guardato dentro la borsa e di averla rimessa nell’auto del magistrato perché non c’era «niente di importante».
Poi, fu un ispettore di polizia a prendere nuovamente la borsa e a portarla alla squadra mobile. Lì dove restò per mesi, nella stanza di La Barbera: «In bella mostra sul divano di colore beige - ricostruisce il pubblico ministero Luciani - non è mai apparsa ufficialmente negli atti, perché manca un verbale di sequestro. Una vicenda incredibile».
Per la Procura di Caltanissetta “su Borsellino c’è stato un gigantesco depistaggio”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 12 Maggio 2022.
Parlando dell'agenda rossa del giudice Borsellino scomparsa, il magistrato Luciani ha detto: "La sparizione dell'agenda rossa, se sparizione c'è stata, non fu di interesse di Cosa Nostra ma da collegare a interessi estranei".
In mattinata è stato il Procuratore capo di Caltanissetta, Salvatore De Luca, a prendere la parola per primo, per spiegare la sua presenza in aula. “Io oggi sono qui quasi come testimone diretto – ha detto De Luca – perché l’eccellente lavoro fatto dai colleghi, in particolare dal pm Stefano Luciani, non ha bisogno di alcuna integrazione. Sono qui per testimoniare che, pur tenendo conto dell’autonomia di udienza che accompagna ciascun magistrato della pubblica accusa, le conclusioni che saranno formulate non rappresentano il convincimento isolato di uno o due pm di udienza. Sono qui per testimoniare che tutta la Procura di Caltanissetta condivide, senza riserve, le conclusioni che saranno formulate e le valutazioni che saranno svolte dal collega Luciani in relazione all’aggravante di mafia”. E aggiunge: “Non si tratta di una frattura rispetto al passato ma di una lenta evoluzione che ci porta ad affermare la sussistenza dell’aggravante di mafia, i plurimi e gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze, delle cointeressenze, di alto livello, di Cosa nostra che in quel momento riteneva di vitale importanza“.
Parlando dell’ex pentito Vincenzo Scarantino, che con le sue false dichiarazioni, ha fatto condannare all’ergastolo degli innocenti accusati di avere fatto parte della strage di Via D’Amelio, De Luca ha detto: “Tutti sapevano che Vincenzo Scarantino alla Guadagna era un personaggio delinquenziale di serie C. Parlare di questo gigantesco, inaudito, depistaggio solo per motivi di carriera del dottor La Barbera (ex dirigente della Mobile di Palermo ndr) è la giustificazione aggiornata e rimodulata classica di Cosa Nostra“.
La Procura al termine della requisitoria fiume, dal Procuratore capo di Caltanissetta Salvatore De Luca con accanto i pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso, subentrato da pochi mesi nel pool, ha chiesto pene alte per i tre poliziotti imputati nel processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio, con la condanna a 11 anni e 10 mesi per Mario Bo, dirigente della Polizia di Stato attualmente in pensione, 9 anni e mezzo per Michele Ribaudo e 9 anni e mezzo per l’ispettore Fabrizio Mattei. I tre appartenenti alla Polizia di Stato, rispondono delle accuse di concorso in calunnia aggravata dall’avere favorito Cosa nostra, facevano parte del “Gruppo Falcone e Borsellino” guidato dall’allora dirigente della Squadra mobile, Arnaldo La Barbera.
Secondo la Procura di Caltanissetta i tre poliziotti avrebbero “istruito” e pilotato il falso pentito Vincenzo Scarantino a testimoniare il falso sulla strage di via D’Amelio in cui persero la vita Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, ed a causa delle dichiarazioni di Scarantino vennero ingiustamente condannati all’ergastolo anche diversi innocenti.
«Voglio solo sottolineare che vi sono tre fatti che non possono in alcun modo se non negandone l’esistenza ascriversi ai motivi di carriera del dottor La Barbera o in un incredibile eccesso di zelo per dare una risposta immediata dello stato alle stragi», ha detto il Procuratore capo prima di fare le richieste. Parlando del ruolo degli imputati, il pm ha detto: «Si tratta di condotte di diversa natura che si sono protratte per diverso tempo. Non possiamo non evidenziare quello che pacificamente emerge sul ruolo che ha rivestito il dottor Mario Bo. Un ruolo apicale rivestito nel coordinamento delle indagini gestite dal ‘Gruppo Falcone e Borsellino. L’aver rivestito il ruolo di funzionario unico, a partire dal settembre 1994 rende evidente l’accesso a tutte le informazioni. Bo è l’unico funzionario del gruppo, l’uomo di riferimento di Arnaldo La Barbera, che segue le sue direttive. Situazione che diventa ancora più netta quando La Barbera diventa questore nel settembre del 1994». «Come emerge dalle intercettazioni, Bo continua ad agire sotto la supervisione di La Barbera nonostante quest’ultimo fosse stato nominato Questore», ha aggiunto il pm Luciani.
Parlando dei tre poliziotti-imputati il pubblico ministero ha poi aggiunto: «C’era una fiduciarietà del rapporto tra i tre imputati e Arnaldo La Barbere, che rende concreta l’ipotesi che abbiano avuto la reale rappresentazione degli scopi sottesi delle condotte poste in essere». «Avete agli atti numerose dichiarazioni – dice – come quella del dottor Sanfilippo che descrive i rapporti tra i due “ottimi” e come Bo fosse ritenuta una persona “affidabile” da parte del dottor La Barbera». «Si tratta di molteplici condotte e tutte estremamente gravi che rendono tangibile il grado di compenetrazione nelle vicende – ha continuato il pm Stefano Luciani rivolgendosi al Tribunale – avete ulteriori elementi che provano la sussistenza di questo elemento, la condotta che caratterizza l’illecito».
«Non è una condotta illecita di passaggio ma che dal primo momento fino all’ultimo si ripete e si reitera», ha aggiunto il pm Luciani. «È la pietra tombale al discorso che stiamo facendo». «È dimostrato in maniera assoluta il protagonismo del dottor Bo sulle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e nella illecita gestione di Scarantino nella località protetta», ha continuato il magistrato. «I tre imputati hanno consentito che per anni calasse l’oblio su tutta questa vicenda» e parlando dell’agenda rossa del giudice Borsellino scomparsa, il magistrato ha detto: “La sparizione dell’agenda rossa, se sparizione c’e’ stata, non fu di interesse di Cosa Nostra ma da collegare a interessi estranei”.
La strage di Via D’Amelio (1992)
“La familiarità di Arnaldo La Barbera con i Servizi segreti emerge in maniera chiara attraverso i suoi rapporti con il Prefetto Luigi De Sena”, dice il pm Stefano Luciani. “Rapporti particolarmente stretti tra De Sena e La Barbera – aggiunge il magistrato – ma come dice l’avvocato Gioacchino Genchi in aula, De Sena era una sorta di mentore di la Barbera“. E ricorda che “il Sisde era solito erogare somme di denaro verso i funzionari che si occupavano di eversione o criminalità organizzata“. E poi spiega ancora che La Barbera, morto diversi anni fa, avrebbe ricevuto i soldi dal Sisde “in nero”. “Che un ufficiale di Polizia giudiziaria prenda fondi riservati in nero per soddisfare sue esigenze di vita privata, prende quel soggetto più o meno compromesso rispetto a quegli apparati che lo foraggiano?“.
Il pm Luciani ha chiamato in causa non solo La Barbera, ma anche il capitano Giovanni Arcangioli, che prese la borsa del magistrato dalla Croma ancora in fiamme: «Arcangioli non ha mai chiarito la circostanza sulla borsa, tutto questo è inaccettabile e incredibile sotto ogni punto di vista, lo si dica una volta per tutte». L’ufficiale era stato accusato di furto, ma poi il gip di Caltanissetta archiviò l’accusa sostenendo che non c’era prova che l’agenda fosse nella borsa, come invece detto dalla moglie del giudice. Arcangioli ha invece dichiarato di avere guardato dentro la borsa e di averla rimessa nell’auto del magistrato perché non c’era «niente di importante».
Poi, fu un ispettore di polizia a prendere nuovamente la borsa ed a portarla alla squadra mobile. Lì dove restò per mesi, nella stanza di La Barbera: «In bella mostra sul divano di colore beige – ricostruisce il pubblico ministero Luciani – non è mai apparsa ufficialmente negli atti, perché manca un verbale di sequestro. Una vicenda incredibile».
Concludendo: «È stato un lavoro duro e faticoso ma pensiamo di avervi dato quantomeno una traccia che vi possa aiutare di fare finalmente luce. Questa è una delle ultime spiagge rispetto alle quali potere continuare a fare luce su fatti cosi gravi che hanno segnato la storia di questo paese». Il processo è stato rinviato a martedì prossimo per dare la parola alle arringhe difensive delle parti civili.
Adesso è chiaro: Borsellino è morto per “mafia-appalti”. Con la clamorosa sconfessione del teorema Stato-mafia, cade anche la tesi del nesso fra presunta Trattativa e via D'Amelio. Sarebbe ora di scavare in un'altra direzione. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 23 settembre 2021. «Alla luce della sentenza della Corte di assise di appello riteniamo avvalorata la nostra tesi di una causale dell’accelerazione legata alla particolare attenzione mostrata da Paolo Borsellino verso il dossier “mafia e appalti”. Dovremo leggere le motivazioni, ma troppe anomalie sono state scoperte in questi anni circa il clima terribile creato in Procura attorno al procuratore Borsellino. Non sappiamo se sarà possibile visto il tempo trascorso, ma noi non smetteremo mai di cercare di capire le ragioni del perché il procuratore Borsellino ebbe a definire il suo ufficio un nido di vipere». Sono le parole che l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, raggiunto dal Dubbio, ha voluto gentilmente rilasciare subito dopo la notizia della sentenza di secondo grado sulla “trattativa”. Parole che in realtà trovano riscontro nella pronuncia d’appello del Borsellino quater.
Borsellino quater, le motivazioni della sentenza d’appello
Quelle motivazioni lo dicevano chiaro e tondo: Paolo Borsellino non fu ucciso per la presunta trattativa Stato-mafia, che ora viene sconfessata dalla sentenza d’appello, ma dalla mafia «per vendetta e cautela preventiva». La vendetta è relativa all’esito del maxiprocesso, mentre la “cautela preventiva” è relativa alle sue indagini, in particolare quelle su “mafia e appalti”. Quest’ultima ipotesi, come ha scritto la Corte d’assise di appello di Caltanissetta nelle motivazioni del “Borsellino quater”, «doveva, peraltro, essere anche collegata alla circostanza riferita dal collaboratore Antonino Giuffrè sui “sondaggi” con “personaggi importanti” effettuati da Cosa Nostra prima di decidere sull’eliminazione dei giudici Falcone e Borsellino oltre che sui sospetti per i quali lo stesso Borsellino, il giorno prima dell’attentato, aveva confidato alla moglie “che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo , ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse”». Sempre nella sentenza nissena viene citato il fatto che l’arrivo di Borsellino nel nuovo ufficio della Procura di Palermo «era stato percepito con preoccupazione da Cosa Nostra, al punto che Pino Lipari (vicino ai vertici dell’organizzazione mafiosa) aveva commentato il fatto dicendo che avrebbe creato delle difficoltà a “quel santo cristiano di Giammanco”».
Mafia-appalti e il legame con la strage di via D’Amelio
La Corte d’assise di appello di Caltanissetta si è molto soffermata sull’indagine “mafia e appalti” come concausa della strage di via D’Amelio. Lo rimarca osservando che Borsellino aveva mostrato particolare attenzione alle «inchieste riguardanti il coinvolgimento di “Cosa Nostra” nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale». Viene riportato ciò che il collaboratore Giuffrè aveva riferito, in sede di incidente probatorio, all’udienza del 5 giugno 2012. Ovvero che le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino erano «anche da ricondurre al timore di Cosa Nostra che quest’ultimo potesse divenire il nuovo capo della Direzione Nazionale Antimafia nonché al timore delle indagini che il medesimo magistrato avrebbe potuto compiere in materia di mafia e appalti, con specifico riferimento al rapporto presentato dal Ros dei Carabinieri alla Procura di Palermo, su input del giudice Giovanni Falcone, nel quale erano stati evidenziati appunto i rapporti fra Cosa nostra, politica e imprese aggiudicatarie.
Con particolare riferimento alle interferenze dei boss in un rapporto triangolare fondato sulla condivisione di illecite cointeressenze economiche che coinvolgeva, mettendoli ad un medesimo tavolo, il mondo imprenditoriale, politico e quello mafioso». Troppi anni si sono persi alla ricerca di entità e terzi livelli, mentre la verità è sotto gli occhi di tutti. Il Dubbio è riuscito a trovare nuovi documenti.
I verbali del Csm
Dai verbali del Csm in cui sono riportate le testimonianze dei magistrati nel 1992, al documento da cui si evince come Falcone e Borsellino ritenessero che l’omicidio di Salvo Lima e del carabiniere Guazzelli fosse legato al fatto che si erano rifiutati di intervenire per insabbiare il procedimento “mafia-appalti”. Ciò significherebbe che la stagione stragista si sarebbe avviata proprio per la questione dell’indagine sugli appalti. Sarebbe ora che la Procura di Caltanissetta prenda spunto dalla sentenza del Borsellino quater stesso. Magari acquisendo i documenti nuovi portati avanti dalla difesa degli ex Ros. Paolo Borsellino cosa avrebbe voluto denunciare alla Procura nissena? Gli indizi li la lasciati lui stesso, dai convegni pubblici alle chiacchierate con persone ancora viventi. Magari si potrebbe iniziare da quella Procura che Borsellino definì «di vipere».
Inchieste. TRATTATIVA STATO-MAFIA. OTTIMA E ABBONDANTE PER INSABBIARE LA “PISTA APPALTI”. Andrea Cinquegrani La Voce delle Voci il 24 Settembre 2021. Nella bolgia di colossali stupidaggini dette e scritte dopo la sentenza d’appello che assesta un colpo mortale al teorema della Trattativa Stato-Mafia, ribaltando il verdetto di primo grado, le uniche parole lucide e assennate sono quelle di Fiammetta Borsellino, la figlia di Paolo, trucidato con la sua scorta nella strage di via D’Amelio. Sono concetti che Fiammetta ha già più volte espresso, voce letteralmente solitaria. E per questo ancor più validi oggi. Ecco i passaggi salienti dell’intervista rilasciata all’ADN Kronos.
IL FUOCO DI FIAMMETTA
“Io non li ho mai assolti gli ufficiali dei Carabinieri (Mario Mori e Giuseppe De Donno, ndr), ma ho sempre avuto molti dubbi, dubbi che oggi sono stati confermati dalla giustizia con la sentenza di appello. E poi ho ritenuto scorretto pompare mediaticamente un processo da parte di chi è titolare, prima ancora che questo processo avesse concluso le fasi di giudizio, un comportamento scorretto che mio padre non avrebbe mai approvato. Si è assistito a un lancio mediatico del processo sulla trattativa fin dal suo inizio, quando veniva addirittura pubblicizzato con i libri. Quando non era concluso neppure il primo grado. Altro punto di critica enorme, insieme agli altri”. “Ripeto, purtroppo io i miei dubbi su questa operazione li avevo espressi fin dall’inizio. La grande amarezza è che queste energie investigative dedicate al processo trattativa potevano essere indirizzate verso delle piste che, secondo me, volutamente non si sono percorse. Ancora una volta, siamo di fronte al fatto che si sono seguite piste inesistenti, quando da sempre abbiamo ribadito che bisognava approfondire quel clima che mio padre viveva dentro la procura di Palermo”. E sottolinea, Fiammetta: “Si doveva approfondire il filone dei dubbi e del senso di tradimento che mio padre manifestò parlando a mia madre dei colleghi, il perché non si è voluto indagare sul Procuratore Pietro Giammanco. Secondo noi erano queste le piste su cui si doveva indagare, non altre…”. Eccoci al punto centrale del suo j’accuse: “Per noi l’accelerazione della morte di nostro padre è stata data dal dossier Mafia-Appalti, ma non lo dice la mia famiglia, lo dice il processo Borsellino ter che l’elemento acceleratore è stato il dossier mafia e appalti che è stato archiviato il 15 luglio, cioè pochi giorni prima della strage. Nonostante mio padre il 14 luglio avesse chiesto conto e ragione del perché a quel dossier non venisse dato ampio respiro. Un dossier dei generali Mori e De Donno. Per questo non mi ha mai convinto questa tesi. E i dubbi li ho sempre espressi. Bisogna farsele delle domande. Ho sempre avuto tanti dubbi”. Parole chiare. Che pesano come macigni.
QUELL’ESPLOSIVO DOSSIER MAFIA-APPALTI
Parole molto simili sono state scritte, oltre vent’anni fa, da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, in un forte e documentato j’accuse che la Voce ha tante volte ricordato. Si tratta del libro ‘Corruzione ad Alta Velocità’, uscito nel 1998, che non solo ripercorre le tappe di uno dei più colossali scandali della nostra storia, ma apre uno squarcio sui veri motivi alla base della strage di via D’Amelio: proprio quel dossier Mafia-Appalti elaborato dal ROS dei carabinieri e finito sulla scrivania di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a febbraio 1991, quindi un anno e mezzo prima delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Un dossier-bomba, perché conteneva già all’epoca tutti gli elementi di una super Tangentopoli ante litteram, anzi la vera Tangentopoli e non quella partorita in seguito dalla procura di Milano, orchestrata da un Antonio Di Pietro eterodiretto dalla CIA, come dimostrano i frequenti incontri tra il pm e il console americano a Milano prima dello scoppio di Mani Pulite (incontri rammentati in un’inchiesta di Molinari, allora redattore de la Stampa, e ora direttore di Repubblica). Ma cosa conteneva di tanto esplosivo quel dossier? Veniva ricostruita, in modo minuzioso, la fitta ragnatela di rapporti e connection tra le grandi imprese del nord e quello mafiose del Sud, in particolare siciliane ma non solo. Venivano fatti dei nomi precisi, indicate delle società di grosso calibro, ricostruiti i rapporti d’affari, indicati i prestanome. Ecco subito due esempi, tanto per scendere in qualche dettaglio. Si parlava della "Calcestruzzi", uno dei gioielli di casa Ferruzzi: e venivano fatti i nomi degli uomini di riferimento in Sicilia, ovviamente appartenenti ai clan più in vista. Quando Falcone lesse il nome della Calcestruzzi nel dossier del Ros, ebbe la conferma di sospetti che già nutriva da tempo. Fin dal 1989, quando, riferendosi proprio al gruppo Ferruzzi, disse: “La Mafia è entrata in Borsa!”. Eccoci ad un altro caso. La napoletana ‘Icla-Fondedile’, uno dei pezzi da novanta non solo nel ricco dopo terremoto e nelle opere per la ricostruzione, ma su tutto il vasto fronte dei lavori pubblici, a cominciare dall’Alta Velocità. Nella relazione di minoranza alla Commissione Antimafia del 1996, firmata proprio da Ferdinando Imposimato, vengono dettagliati i rapporti di Icla-Fondedile con i clan della camorra. Il dossier del Ros corroborava quindi quelle piste investigative già aperte e però battute con scarsa convinzione dagli inquirenti. I quali, ad esempio, erano già stati allertati dalla corposa documentazione raccolta dalla ‘Commissione Scalfaro’ sugli affari del post sisma, dove l’Icla, impresa molto cara a ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino, la faceva da padrona.
A TUTTA ALTA VELOCITA’
Il maxi business Alta Velocità, del resto, è uno dei punti focali del dossier coordinato da Mario Mori e finito sulla scrivania di Falcone e Borsellino. I quali, di tutta evidenza, proprio sul filone TAV si sono rimboccati le maniche nell’ultimo infuocato anno e mezzo di indagini portate avanti prima di essere trucidati. Motivo ottimo e abbondante, avrebbe detto un pm, per il tritolo di quelle due stragi: leggere e decodificare ‘in tempo reale’ il maxi business dell’ Alta velocità che ha ingrassato intere classi politiche, cosche mafiose, imprese di riferimento, faccendieri e lacchè d’ogni risma, infatti, avrebbe rappresentato il colpo investigativo del secolo. Altro che Trattativa! Ma quell’inchiesta non si doveva fare. E i due magistrati coraggio dovevano morire. Ovvio lo sdegno di Fiammetta Borsellino, che ricorda tutto l’impegno del padre perché la pista Mafia-Appalti venisse battuta, mai persa di vista. Quando invece i ‘colleghi’ di Paolo tramavano nell’ombra, ma non poi tanto. E tanto da avere la sfrontatezza di archiviare il tutto in fretta e furia, appena sepolto il cadavere di Borsellino. Vergogna! Sorge spontanea la domanda: perché nessuno ha mai aperto un’inchiesta sui motivi che condussero a quella rapida e immotivata archiviazione? C’è solo da augurarsi che adesso, anche alla luce dell’archiviazione della falsa pista-trattativa, possa essere ripreso quel filo interrotto, quella pista investigativa basilare fondata, appunto, sul rapporto del Ros. E ora, a questo punto, perché non mettere sotto inchiesta quei magistrati che hanno archiviato quella pista, calpestando la memoria e il corpo, ancora caldo, di Paolo?
LE NON INCHIESTE GRIFFATE DI PIETRO
Ma sapete quale inquirente avrebbe potuto, già in quegli anni bollenti, tirare il bandolo della matassa e individuare i pupari del maxi affare dell’Alta Velocità, il cuore, come detto, del rapporto Mafia-Appalti? Il pm senza macchia e senza paura, al secolo Antonio Di Pietro, il protagonista della Mani pulite meneghina, solito frequentare all’epoca, come abbiamo visto, il consolato americano all’ombra della Madunina. Don Tonino, infatti, prima di abbandonare la toga è stato protagonista di due fondamentali inchieste. Partiamo dalla prima, di cui scrivono a lungo Imposimato e Provvisionato nel loro libro bomba. E siamo al filone investigativo sulla TAV avviato proprio alla procura di Milano e condotto in prima battuta dal procuratore capo, Francesco Saverio Borrelli, il quale pensa bene di affidare il delicato fascicolo al fidatissimo Di Pietro. Il quale mette subito a segno un colpo da maestro: riesce infatti ad ottenere rapidamente l’avocazione del filone d’inchiesta partito alla procura di Roma e riguardante soprattutto i profili amministrativi dell’affaire, mentre Milano doveva vedersela con gli imprenditori coinvolti. Detto fatto, quindi, Tonino il prestigiatore ha in mano la ponderosa inchiesta nella sua globalità. E – magia della sorte – può contare su un inquisito eccellente che tutto sa su tutto: non solo sulla madre di tutte le tangenti, Enimont, ma anche sui misteri dell’Alta Velocità. E’ ‘l’Uomo a un passo da Dio’, come subito lo etichetta, in modo efficacissimo, il suo inquirente, ossia Di Pietro. Si tratta di Pierfrancesco Pacini Battaglia, soprannominato Chicchi, simpatie per il garofano martellian-craxiano, interessi soprattutto in Svizzera, dove possiede addirittura una banca privata. Nella sua lunga carriera, il toscanaccio Chicchi ha anche avuto modo di occuparsi dei fondali di Ustica dopo la tragedia dell’Itavia, dando vita ad una società di rilevamenti marittimi in compagnia dell’allora re dei trasporti (acquisì dal crac la mitica ‘Flotta Lauro’) il mattonaro partenopeo Eugenio Buontempo, a lungo imprenditore di riferimento della ‘sinistra ferroviaria’ capitanata da Claudio Signorile. Ma torniamo a bomba, ovvero all’inchiesta milanese sull’Alta Velocità. Sapete mai a chi si affida, come legale, il potentissimo Pacini Battaglia, che avrebbe potuto tranquillamente scegliere un principe del foro meneghino? Ad un signor nessuno, un avvocaticchio di provincia, appena arrivato dal Sud con la valigia legata con lo spago, o quasi. Si tratta di Giuseppe Lucibello: il quale, però, sulla piazza meneghina può contare su un’amicizia da novanta, quella – nientemeno – che con don Tonino Di Pietro. Il cerchio è presto chiuso. Il rituale pugno di ferro mostrato dal pm con tutti i suoi inquisiti, improvvisamente, si scioglie come neve al sole: tanto che l’imputato numero uno, l’Uomo a un passo da Dio, non trascorre neanche una notte in gattabuia, ma torna libero come un fringuello, pur senza raccontare neanche un centesimo di quel che sa! Ai confini della realtà. Si confiderà poi per telefono: “Sono stato sbancato”, con evidente riferimento al salasso economico che il poveretto avrà dovuto fronteggiare. Ma il tutto si scolorirà presto in un “sono stato sbiancato”, assai poco comprensibile, ma ‘ottimo e abbondante’ per don Tonino, il quale viene assolto dal tribunale di Brescia per i suoi comportamenti ritenuti non deontologici, non professionali, non morali, quindi ampiamente censurabili sotto tutti i profili nel corso delle sue inchieste: ma non penalmente rilevanti!
DA GARDINI A LI PERA
Eccoci al secondo episodio clou. La gestione dipietresca di un altro inquisito eccellente, Raul Gardini, il gran capo di casa Ferruzzi. Siamo ad un altro pezzo da novanta che sa tutto su Mafia-Appalti, perché la sua Calcestruzzi è pesantemente coinvolta nella connection, come già raccontato. Ma cosa succede? L’indagato Gardini ha un appuntamento in procura con il suo grande accusatore, al quale avrebbe promesso di raccontare tutto, di ‘vuotare il sacco’. Di Pietro lo aspetta in procura, si sono dati appuntamento. Non ci arriverà mai, Gardini, a palazzo di giustizia, perché si spara un colpo alla testa. La fa finita. Come era successo, in carcere, per l’allora numero uno dell’Eni, Gabriele Cagliari, finito con un sacchetto di plastica intorno alla testa. E c’è un terzo buco nero nella story. L’interrogatorio che si svolge nel carcere di Rebibbia, a Roma, tra l’intemerato pm e una super gola profonda sempre sul fronte Mafia-Appalti. Ossia l’uomo che ha fornito agli inquirenti siciliani una mole di elementi molto utili per ricostruire quelle esplosive connection: si chiama Giuseppe Li Pera, professione geometra, per anni al servizio della ‘Rizzani De Eccher’, un’impresa trentina di costruzioni il cui nome – guarda caso – fa capolino nel dossier del Ros. Come mai Di Pietro corre a Roma per interrogarlo? E come mai cava poco o niente da quella verbalizzazione? Eppure, Li Pera è un altro uomo che ‘sa tutto’ sui rapporti Politica-Mafia-Imprese. E sa molto sulle stragi, in particolare quella di Capaci. Altri interrogativi d’obbligo. Come mai nessuno ha voluto capirci qualcosa in quel clamoroso insabbiamento della pista Tav-Pacini Battaglia? Perché, soprattutto, non è mai nata una vera inchiesta sulle ‘non inchieste’ firmate Di Pietro?
Mafia: Mori, "scoprimmo per primi rapporti boss e appalti, ma a Borsellino fu vietato occuparsene". 27 Settembre 2021. News Adnkronos il 27 settembre 2021. “La mafia viene colpita non tanto con la cattura dei latitanti, ma soprattutto nel sostentamento economico e che non si otteneva tanto con il pizzo quanto con il condizionamento degli appalti. Io presi un ufficiale brillante, il capitano Giuseppe De Donno e lo misi a fare ricerche solo sugli appalti. Ne parlai con Giovanni Falcone che rimase un po’ perplesso, non riusciva a capire come. Per Falcone De Donno era come un figlio, lo chiamava ‘Peppe’ e progressivamente si individuò il rappresentante di Cosa nostra delegato a trattare gli appalti, questa fu la prima scoperta”. Sono le parole del generale Mario Mori intervistato da ‘Quarta Repubblica’. “La seconda scoperta fu devastante – aggiunge Mori – nelle indagini sugli appalti si pensava che le vittime fossero i politici e gli imprenditori, invece concorrevano nel reato con i mafiosi. Questa era la verità che noi scoprimmo”. Poi Falcone fu trasferito a Roma, nel 1991, e mi disse: “consegnami il rapporto su mafia e appalti, io feci resistenza e gli dissi che non era completo. E lui lo volle entro l’indomani e mi disse ‘E’ meglio che lo riceva io, perché sai quanti guai avrete con questo rapporto…”. “E poi lo portò a Giammanco che era il capo della Procura di Palermo”, aggiunge. “Io mi resi conto in pochi giorni che non se ne parlava più di questo rapporto, mi arrabbiai molto e rappresentai la situazione, ma senza risultati, finché a luglio del 1991 la Procura emise degli arresti tra cui Angelo Siino e degli imprenditori. I legali chiesero gli atti relativi. Invece fu preso tutto il malloppo e fu dato a tutti e cinque gli avvocati, dopo mezz’ora la mafia sapeva tutto, fin dove potevamo arrivare. Lì ci fu un po’ di tensione”. “All’epoca pensai che sbagliarono tecnicamente – aggiunge Mori – invece dopo sono successi altri fatti. All’inizio del 1992 Paolo Borsellino lascia Marsala e torna a Palermo. Giammanco non gli delega le inchieste su Palermo ma di altre province, quindi non può interessarsi formalmente a mafia e appalti. Mentre era a Marsala chiese a noi copia del dossier mafia e appalti”, dice ancora Mario Mori. “Il 25 giugno del 1992 Borsellino mi telefona per chiederci di vederci riservatamente dai carabinieri, non in Procura, Intanto non voleva farlo sapere e formalmente non poteva interessarsene”, dice. “Subito dopo la morte di Falcone, la procura spezzetta l’indagine e divide l’inchiesta in vari tribunali sparsi per la Sicilia – prosegue Mori – Se la spezzetti la distruggi”. “Il 4 luglio ci fu una riunione e Borsellino disse che i carabinieri erano delusi, ma nessuno gli disse che questa indagine era stata spezzettata”.
Mafia: Mori, 'dossier appalti concausa uccisione Borsellino'. Adnkronos il 27 settembre 2021. "Io ritengo che il dossier mafia e appalti fu una concausa dell'uccisione di Paolo Borsellino". Ne è convinto il generale Mario Mori che lo ha detto intervistato da 'Quarta Repubblica' in onda stasera. "Ma non è finita qui", aggiunge Mori. "Quella era l'inizio dell'indagine - aggiunge - c'era un gruppo di potere fatto da imprenditori, politici e mafiosi che decidevano gli appalti e si spartivano i proventi". "Quando andammo a Napoli - dice- facemmo la stesa cosa di Palermo con il procuratore Cordova, con una variante: ci abbiamo messo un uomo che doveva prendere contatti con i camorristi. Abbiamo preso un ufficiale del Ros che come rappresentante delle imprese che realizzava l'alta velocità Roma-Napoli si inserì in questo mondo e dopo un po' venne contattato da imprenditori vicini alla Camorra, dal clan dei Casalesi che voleva il 3 per cento degli importi totali". E poi dice: "Il Nucleo investigativo dei Carabinieri fu una mia creazione".
Fu la mafia degli appalti a volere l’omicidio di Borsellino. Le parole del giudice Alberto Di Pisa. Nicola Salvetti su destra.it il 27 Settembre 2021. La sentenza del processo sulla trattativa tra Stato e mafia continua ad alimentare dibattiti e interpretazioni. In un’intervista rilasciata alla giornalista dell’agenzia di stampa AdnKronos, Elvira Terranova, l’ex procuratore capo di Marsala Alberto Di Pisa ricostruisce alcuni importanti passaggi storici. “Ricordo che il giorno in cui fu esposta la bara di Giovanni Falcone nell’atrio del Palazzo di giustizia di Palermo, chiesi a Paolo Borsellino se secondo lui la strage di Capaci avesse una finalità destabilizzante. E lui mi guardò negli occhi e mi rispose: ‘No, non è così. Anzi. Direi che l’intento è quello di avere un effetto ‘stabilizzante’. E aggiunse: ‘Ora intendo riprendere al più presto in mano l’indagine su mafia e appalti”. Di Pisa è stato per molti anni al fianco di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Fu anche uno dei giudici che istruirono il primo maxiprocesso a Cosa nostra. In passato si è occupato di inchieste come l’omicidio del sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, ma anche del processo a Vito Ciancimino. Un effetto “stabilizzante” perché? “Perché mirava a mantenere il sistema di potere di quel momento”, dice il magistrato. “Io ho sempre pensato che la trattativa Stato-mafia non c’entri niente con la strage di Via D’Amelio – afferma -. Come tutti i delitti eccellenti. Dietro un omicidio ci sono quasi sempre gli appalti, quello è l’interesse economico di Cosa nostra”. E ricorda: “Poco prima di essere ucciso, Paolo Borsellino, ebbe una riunione con i carabinieri del Ros, con Mori e Subranni, proprio sul problema degli appalti, un tema che intendeva riprendere e che riteneva fondamentale per la lotta alla mafia, mentre la Procura lo aveva trascurato”. L’indagine su mafia e appalti fu archiviato il giorno prima di ferragosto del 1992, cioè nemmeno un mese dopo la strage di via D’Amelio, dopo la richiesta avanzata, pochi giorni dopo la morte di Borsellino, il 22 luglio 1992, dall’allora pm Guido Lo Forte, con l’avallo dell’allora procuratore Pietro Giammanco. “Certo, un’archiviazione che arrivò poco dopo la strage – dice oggi Di Pisa -. Il fatto temporale dà da pensare…”. E poi ricorda anche la telefonata arrivata la mattina, quasi all’alba, del 19 luglio 1992, il giorno della strage di via D’Amelio al giudice Borsellino da parte del Procuratore Giammanco: “Gli disse che gli avrebbe affidato le indagini su Palermo, sulla mafia di Palermo e quindi, probabilmente, anche il dossier mafia e appalti. Certo, una telefonata arrivata alle sette di mattino, nel giorno della strage fa riflettere. Come se non potesse più aspettare fino all’indomani…”. Quello stesso giorno Paolo Borsellino aveva cercato Alberto Di Pisa, in una casa al mare da parenti, a Marina Longa. “Voleva parlarmi con urgenza, ma purtroppo non c’ero”. Di Pisa ha sempre criticato il processo sulla trattativa Stato-Mafia, e sulla sentenza di appello, che ha ribaltato il verdetto di primo grado, assolvendo tutti gli ufficiali dei carabinieri e Marcello Dell’Utri, dice: “Ho sempre detto che era un fatto mediatico, un teorema politico e mediatico. Dal punto di vista giuridico, questo processo non stava in piedi. Ora bisogna aspettare le motivazioni. Perché ‘il fatto non costituisce reato’ può voler dire due cose: o che l trattativa c’è stata ma non costituisce reato, oppure che c’è stata ma manca l’elemento psicologico del reato, il dolo. Bisogna vedere cosa intendono fare i giudici”. E aggiunge: “D’altra parte anche il caso Moro, il governo trattò con le Brigate rosse ma nessuno aprì un procedimento. Un fatto che è sempre avvenuto, cioè che lo Stato tratta con i criminali per salvare delle vite umane”. (Fonte AdnKronos)
Il generale Mori: “Borsellino voleva occuparsi del dossier mafia appalti. Fu ucciso anche per questo”. Giovanni Pasero lunedì 27 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. «Rifarei tutto, la soddisfazione e la gioia di avere incontrato personaggi unici come Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, Cossiga, non ha eguali». Così il generale Mario Mori, intervistato da Quarta Repubblica, assolto nel processo Stato-Mafia, dopo un calvario giudiziario durato 14 anni. Intervistato da Nicola Porro, il generale Mori si è detto convinto che la morte di Borsellino ha avuto una origine precisa. «Io ritengo che il dossier mafia e appalti fu una concausa dell’uccisione di Paolo Borsellino». «Ma non è finita qu»”, aggiunge Mori. «Quella era l’inizio dell’indagine – aggiunge – c’era un gruppo di potere fatto da imprenditori, politici e mafiosi che decidevano gli appalti e si spartivano i proventi». «La mafia viene colpita non tanto con la cattura dei latitanti. Ma soprattutto nel sostentamento economico e che non si otteneva tanto con il pizzo quanto con il condizionamento degli appalti. Io presi un ufficiale brillante, il capitano Giuseppe De Donno e lo misi a fare ricerche solo sugli appalti. Ne parlai con Giovanni Falcone che rimase un po’ perplesso, non riusciva a capire come. Per Falcone De Donno era come un figlio, lo chiamava ‘Peppe‘ e progressivamente si individuò il rappresentante di Cosa nostra delegato a trattare gli appalti, questa fu la prima scoperta». “La seconda scoperta fu devastante – aggiunge Mori – nelle indagini sugli appalti si pensava che le vittime fossero i politici e gli imprenditori, invece concorrevano nel reato con i mafiosi. Questa era la verità che noi scoprimmo”. Poi Falcone fu trasferito a Roma, nel 1991, e mi disse: “Consegnami il rapporto su mafia e appalti, io feci resistenza e gli dissi che non era completo. E lui lo volle entro l’indomani e mi disse: “È meglio che lo riceva io, perché sai quanti guai avrete con questo rapporto…”. “E poi lo portò a Giammanco che era il capo della Procura di Palermo”, aggiunge. “Io mi resi conto in pochi giorni che non se ne parlava più di questo rapporto, mi arrabbiai molto e rappresentai la situazione, ma senza risultati, finché a luglio del 1991 la Procura emise degli arresti tra cui Angelo Siino e degli imprenditori. I legali chiesero gli atti relativi. Invece fu preso tutto il malloppo e fu dato a tutti e cinque gli avvocati. Dopo mezz’ora la mafia sapeva tutto, fin dove potevamo arrivare. Lì ci fu un po’ di tensione”. «All’epoca pensai che sbagliarono tecnicamente – aggiunge Mori – invece dopo sono successi altri fatti. All’inizio del 1992 Paolo Borsellino lascia Marsala e torna a Palermo. Giammanco non gli delega le inchieste su Palermo ma di altre province, quindi non può interessarsi formalmente a mafia e appalti. Mentre era a Marsala chiese a noi copia del dossier mafia e appalti, dice ancora Mario Mori. «Il 25 giugno del 1992 Borsellino mi telefona per chiederci di vederci riservatamente dai carabinieri, non in Procura. Intanto non voleva farlo sapere e formalmente non poteva interessarsene», dice. «Subito dopo la morte di Falcone, la procura spezzetta l’indagine e divide l’inchiesta in vari tribunali sparsi per la Sicilia – prosegue Mori – Se la spezzetti la distruggi». «Il 4 luglio ci fu una riunione e Borsellino disse che i carabinieri erano delusi, ma nessuno gli disse che questa indagine era stata spezzettata».
“Sciascia, nient’altro che la verità”. Il forum de l’Arsenale delle idee. Manuela Lamberti il 10 Febbraio 2021 su destra.it. Il forum de l’Arsenale delle idee di venerdì 12 febbraio alle ore 18,30 presenta un libro che affronta con sguardo acuto e disincantato uno scrittore e personaggio del Novecento che, come pochi, ha descritto le caratteristiche di un mondo fatto di uomini che “non contraddicevano e non si contraddicevano” e che ha raccontato la sua Sicilia e l’ Italia, contraddicendo. Andando contro. Il libro di Pierfranco Bruni e Mauro Mazza, non è solo un tributo alla grandezza dello scrittore, ma anche un’ indagine disincantata sulle luci e le ombre del percorso di un intellettuale che ha difeso Sofri, che si pose contro le posizioni sulla mafia di Falcone e Borsellino, ma che comunque denunciò in modo coraggioso e lucido i mali della giustizia italiana. Una ricognizione a tutto tondo che affronta i modi in cui si sono concretizzati nell’ autore cultura e impegno civile. Sciascia ha avuto il merito di sollevare il velo che copriva tante ipocrisie, affrontando il mostro della guerra ideologica degli anni di piombo. Un’icona ” Todo modo”, un film ispirato all’ omonimo romanzo, nascosto per anni anche alla visione privata , di cui sono girate solo poche copie pirata, oggi fruibile in un’ edizione restaurata, che rappresenta il paradigma di un’ epoca pesante, in cui la verità del Gattopardo è stata amministrata da maschere pirandelliane. Merito agli autori di restituirci Sciascia, di farci venire voglia di tornare a leggerlo, per riscoprire dove trovano radice i mali che non hanno mai lasciato la nostra Italia.
La mafia, Falcone, Sciascia. L'Italia di Marcelle Padovani: "Siete un grande laboratorio e non lo sapete". Concetto Vecchio su La Repubblica il 14 agosto 2021. Marcelle Padovani, 75 anni, ha scritto "Cose di cosa nostra" con Giovanni Falcone e "La Sicilia come metafora" con Leonardo Sciascia. Trastevere e Trentin, il Pci e l'amore per la Sicilia. La giornalista francese racconta il rapporto lungo quasi 50 anni con il nostro Paese: "Draghi deve restare a palazzo Chigi".
Marcelle Padovani, cosa ricorda del suo impatto con Roma?
“Erano i primi anni Settanta ma il modo di vivere era, per molti versi, ancora simile a quello di fine Ottocento: nelle sere d’estate gli abitanti di Trastevere piazzavano i tavolini davanti agli usci per cenare al fresco”.
E l'Italia, che impressione le fece?
“Presi il treno per raggiungere la sede del mio primo servizio e mi ritrovai a viaggiare con un gruppo di operai che andavano a Taranto a non so più quale manifestazione. Discutevano della loro condizione con coscienza di classe: sapevano tutto di salari, produzione, sistemi industriali. "Uao, che Paese!", pensai”.
Quale fu il primo servizio?
“Intervistare il leader sindacale Bruno Trentin”.
L’uomo che sarebbe diventato suo marito?
“E’ la vita”
Quanti anni aveva?
“Ventotto”.
E lui?
“Quarantaquattro. Andammo a cena e rimasi ipnotizzata dal suo sguardo”
Era sposato?
“Separato. Lasciò la sua compagna di allora. Ci sposammo nel 1975”.
Perché scelse di fare la corrispondente di Nouvel Observateur proprio in Italia?
“Sono corsa e l’italiano ce lo insegnavano sin dalle elementari. Quando mi sono iscritta alla Sorbona per studiare scienze politiche ho continuato a studiare la vostra lingua. Mi sono laureata con una tesi sulle sinistre francesi e italiane negli anni 1944-47. Poi per il giornale ho cominciato a seguire Mitterrand. Il Pci rappresentava un mondo che interessava i lettori francesi. Fu naturale occuparsene”.
Quando iniziò come corrispondente?
“Nel 1974. Volevo vivere con Bruno e chiesi di essere trasferita a Roma. Il giornale non era interessato. Solo dopo le mie insistenze mi accontentò riducendomi però lo stipendio a 50mila lire al mese: era un ventesimo della mia retribuzione di allora. Accettai. Lavorai instancabilmente e soltanto l'anno dopo tornai al mio stipendio originario”.
Dove andaste a vivere?
"A Trastevere. E qui accadde un episodio incredibile. Un giorno, dopo pranzo, Bruno uscì per andare in ufficio e subito rientrò: "Mi hanno rubato il borsello dalla macchina!". Mentre stavamo cercando di capire cosa esattamente gli avevano portato via squillò il telefono: era il segretario della sezione del Pci di vicolo del Cinque. "Compagno Trentin, i ladri si scusano per averti sottratto il portafogli. Le pipe però le hanno già vendute".
Cosa rivela questo episodio?
"Che il Pci era un partito votato da più di un terzo degli italiani, vicino al popolo, finanche al popolino dei furtarelli".
Cosa l'affascinava dell’Italia degli anni Settanta?
“Il fatto che fosse un laboratorio. Nel senso che qui le cose avvenivano prima che nel resto d’Europa, dal terrorismo alla mafia. Lo Stato era alle prese con fenomeni senza eguali e doveva capire come venirne a capo. Tutto questo era terribile, ma anche affascinante per un giornalista. Gli italiani dimenticano troppo in fretta questa loro natura di laboratorio: un luogo cioè dove si mescolano elementi raffinati e complessi che esigono risposte altrettanto raffinate e complesse. Nella lotta contro la mafia e il terrorismo lo Stato alla fine ha vinto nella sorpresa generale. Lo stesso sta avvenendo col populismo”.
Il populismo è sconfitto?
“Lo sarà. Per populismo mi riferisco a quello dei Cinquestelle, perché Matteo Salvini è un soltanto demagogo opportunista che ricorre al populismo quando gli serve".
Che populismo è quello del M5S?
"Originale e creativo, che una volta al governo è stato capace di evolversi, di affrancarsi dalla demagogia, perché al potere la demagogia rende impotenti. In Francia è accaduto esattamente il contrario: il populismo ha finito per pervadere i partiti al governo, con istinti diversissimi tra loro, che arrivano fino ai no vax e all'antisemitismo".
I no vax sono rumorosi pure in Italia.
"Sì, ma nel complesso gli italiani si sono vaccinati con più disciplina. In Francia ai vaccinati hanno dato un braccialetto rosso per renderli subito riconoscibili nei locali pubblici. Può essere una buona idea, ma è anche la riprova che lo Stato deve controllare di più".
Come nacque "La Sicilia come metafora", il libro intervista di Leonardo Sciascia?
"In Francia i suoi libri suscitavano sempre un grande interesse e lo intervistai lungamente per il giornale. Un editore mi propose di farne un libro. Fino a quel momento Sciascia aveva detto di no a tutti".
Che tipo era Sciascia?
"Piccolo di statura, aveva un'espressione scettica e ironica che affascinava. Andai a trovarlo Racalmuto e sua moglie Maria ci preparò la pasta con le sarde. Sciascia parlava della Sicilia, di Parigi, della mafia e di Racalmuto. Non parlava mai dell'Italia. Una cosa che mi colpì moltissimo".
Come lo spiega?
"Non gli interessava. Lo avvertiva come un mondo ostile. Alla fine di ogni estate andava a Parigi in treno, alloggiando sempre nello stesso albergo, l'Hotel du Pont Royal in rue de Montalembert: faceva tappa a Roma, scendeva dal treno, dormiva una notte in albergo e ripartiva subito".
Cosa l'affascina della Sicilia?
"L'essere un'isola. Ha una sua aspirazione all'illuminismo, come metodo e meta per rispondere al disordine. E' un mondo complesso. Sciascia mi spiegò subito che il vero siciliano non ama il mare, perché dal mare, da sempre, sono giunti gli invasori. E infatti, in molti paesi siciliani, le case danno le spalle al mare. In Corsica è lo stesso".
Quando ha conosciuto Giovanni Falcone?
"Nell'autunno del 1983 si cominciò a parlare di un capomafia, che detenuto in Brasile aveva deciso di collaborare con Falcone. Il suo numero me lo diede Luciano Violante. Era novembre e volai a Palermo. Le sette di sera. Buio pesto, poca gente per le strade. La Procura deserta. Salii al secondo piano, e superai due porte blindate, davanti alla seconda Falcone aveva fatto piazzare una telecamera. Entrai e mi gelò: "Il nostro incontro salta, devo correre con urgenza all'Ucciardone". "Possiamo cenare insieme?", obiettai. "Non mi sembra molto igienico", rispose".
E lei?
"Bel cafone", pensai. Disse: "Domani mattina alle sette vado a Roma, si faccia trovare a Punta Raisi, così viaggiamo insieme e facciamo l'intervista in volo". Trovai in fretta e furia un biglietto e mi presentai in aeroporto. Sull'aereo ci misero accanto, ma sfortuna volle che vicino a noi era seduto anche Marco Pannella, che, mi disse Falcone, era venuto a consegnare la tessera radicale al boss Michele Greco. "Non mi sembra il caso di farla qui", taglio cortò Falcone".
Rido.
"Arrivati a Roma Falcone mi disse: "Vada a casa, che all'ora di pranzo la mando a prendere". Ero definitivamente furibonda. Intorno alle tredici arrivò davvero un ufficiale della Guardia di Finanza, che mi condusse in una caserma di periferia. Entrai e trovai la tavola imbandita e il fuoco del camino acceso. Parlammo per due ore. L'intervista uscì il 30 dicembre col titolo: "Il piccolo giudice e la mafia".
Che uomo era Falcone?
"Parlava solo di mafia. Non mostrò mai il minimo interesse per la mia vita. Non mi chiese mai da dove venissi, che studi avessi fatto, niente di niente. Era monotematico, da cui è derivata la sua proverbiale efficienza, il suo professionismo. Come tutti i siciliani colti aveva il gusto per il racconto, era pieno di dettagli, ma inseriti dentro concetti più vasti. Per scrivere Cose di cosa nostra ci vedevamo in un ristorante a Roma, lui mangiava con gusto e io prendevo appunti, perché mi chiese di non registrare. Alla fine ero distrutta, e Falcone ordinava, anche col caldo, una vodka".
Che anno era?
"La primavera del 1991. Quando terminai di scriverlo, a luglio, gli telefonai da San Candido dove mi trovavo in ferie con Bruno, per chiedergli come procedere. "Vengo io", disse. Arrivò all'indomani a Sesto di Pusteria, ritirò il dattiloscritto in francese, lingua che Falcone padroneggiava perfettamente, e me lo restituì con pochissime correzioni".
E ripartì subito?
"Bruno mi disse: "Invitiamo Giovanni a cena, dobbiamo festeggiare". Accettò. Parlammo dell'attualità politica, dell'irredentismo altoatesino, di Mahler che aveva avuto lì una casa, e la figura di Giovanni si rimpiccioliva nella sedia: si annoiava. A un certo punto feci riferimento a una notizia di cronaca che riguardava il figlio di Stefano Bontate e in quel momento si ridestò di colpo, raddrizzandosi sulla sedia".
Era già al ministero, e la sinistra lo criticava per la sua collaborazione con il ministro Martelli. E' stato un grave errore contestarlo?
"L'errore è doppio. Nel non avere capito l'importanza decisiva del suo codice antimafia e nel non avere mai fatto autocritica. Falcone viene incensato, senza essere studiato. Chiunque parli di mafia lo cita, spesso a sproposito. Da vivo fu molto solo, si contavano sulle dite di una mano i magistrati che lo sostenevano, i più lo criticavano per il suo presunto protagonismo mediatico".
Non era vero?
"Per niente. Falcone non amava i giornalisti. In vita sua rilasciò pochissime interviste".
Cosa pensa del sottosegretario Durigon che ha chiesto di intitolare al fratello di Mussolini invece che a Falcone e Borsellino il parco di Latina?
"E' la conferma che i cattivi a volte riposano, gli imbecilli no".
Perché sostiene che la mafia è stata sconfitta?
"L'Europa dovrebbe prendere esempio dall'Italia per come ha saputo reprimere Cosa nostra, che ormai da vent'anni non riesce a eleggere un nuovo capo, e che si è tramutata in una mafia economica che ha deciso di partecipare al capitalismo. E' la conferma che la criminalità organizzata non è retrograda, ma un'avanguardia, purtroppo".
E non è una minaccia altrettanto grave per una società?
“Oggi l’impresa mafiosa, come la non mafiosa, finiscono col praticare gli stessi metodi di sviluppo, che vanno dall’evasione fiscale all’offerta di servizi illegali, dalla proposta di costi di produzione astutamente ridotti alle scorciatoie amministrative a colpi di tangenti. Bisognerebbe rivedere tutti i meccanismi di finanziamento dell’impresa così come gli articoli del codice penale destinati a combattere i metodi illegali”.
La destra vincerà le prossime elezioni?
"La trovo grottesca e pericolosa allo stesso tempo. Cosa vogliono veramente? Quali sono i programmi? Il populismo l'ha svuotata e intrisa di demagogia. Infatti la più popolare è Giorgia Meloni, anche perché serba un minimo ricordo di ideologia".
Il suo libro, La lunga marcia del Pci, uscito nel 1979, si apre con un capitolo sulla scuola delle Frattocchie, frequentata da giovani operai. Oggi cos'è diventata la sinistra italiana?
"La sinistra come bisogno, e come scelta di campo, esiste ancora. Ma i partiti esistenti non sono all'altezza né delle tradizioni né del bisogno di eguaglianza e giustizia sociale. Però sono ottimista, a lungo andare, il laboratorio italiano riuscirà ad esprimere una forza che sappia parlare di nuovo alle masse".
Draghi l'ha convinta?
"In Italia lo considerate un grande tecnico. Invece è un grande politico. E' riuscito a tenere tutti buoni facendo passare provvedimenti anche drastici. E' il prossimo leader dell'Europa, e come tale è visto dalle cancellerie".
Deve restare a palazzo Chigi o farsi eleggere al Quirinale?
“Non ho dubbi: rimanere a Palazzo Chigi. Perché essendo il più competente in materia economico-finanziaria deve gestire lui i soldi del Recovery Fund. Ne va della credibilità dell’Italia a livello europeo. Sarebbe auspicabile che Mattarella accettasse un secondo mandato.”
Cosa ha capito di noi italiani?
"Siete un popolo che si sottovaluta, al contrario di noi francesi che ci sopravvalutiamo. L'Italia è un Paese di enorme interesse e vitalità. Anche se a volte sorrido della vostra capacità di autoesaltazione. Alle Olimpiadi avete conquistato dieci medaglie d'oro, come Germania, Francia, Olanda, arrivando decimi nel medagliere, ma avete esultato come se foste arrivati primi".
Lavora ancora?
“Continuo a scrivere per Nouvel Observateur, purtroppo più per il web che per il magazine. E cerco anche di mettere in piedi un libro: il mio decimo dedicato all’Italia”.
Si sente ormai italiana?
"Né italiana, né francese. Sono una corso-trasteverina".
Borsellino, Sciascia e i professionisti dell'Antimafia. Storia di una polemica ancora aperta. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 19 luglio 2021. “I professionisti dell’antimafia” è termine ancora molto attuale nella pubblicistica nazionale. Nasce da un indovinato e fortunato titolo, dato da Riccardo Chiaberge, ad un articolo in Terza pagina del Corriere della Sera, che Sciascia firma partendo da una recensione di un saggio di Rubbettino sulla mafia ai tempi del fascismo collegandola a coeve vicende siciliane che riguardavano Leoluca Orlando e Paolo Borsellino (che Sciascia non conosceva). Quest’ultimo era stato promosso dal Csm Procuratore a Marsala per i suoi meriti di magistrato antimafia senza considerare il principio (conservatore) dell’anzianità. Ne nasce una polemica furibonda che giunge ai giorni nostri. Cosa era accaduto? Sciascia, molto malato, aveva raccolto una soffiata in ambienti socialisti e radicali all’epoca impegnati nella campagna sulla Giustizia giusta. Sciascia garantista autentico e disinteressato si era lasciato coinvolgere da suggeritori interessati. Infatti lo scrittore fa autocritica sul punto e in un’intervista al “Segno” corregge la rotta per poi incontrare Borsellino e chiedere scusa. Sciascia aveva avuto come bersaglio la direttiva del Csm e la retorica dell’antimafia. Lo scrittore, che anche per Borsellino era stato un punto di riferimento, inconsapevolmente, con quell’articolo ha procurato un vestito nobile a politici collusi e giornalisti di parte che da anni si fanno scudo del celebre titolo. Gianni Barbacetto sostiene che “A un congresso della Dc siciliana, accusata di connivenze con la mafia, il pubblico grida all’oratore: «Cita Sciascia, cita Sciascia!»”. Bella la difesa di Ostellino, direttore del Corriere, che decise di pubblicare l’articolo “perché in modo intelligente e su un delicato argomento come la lotta alla mafia, metteva in risalto i pericoli del pensiero unico”. Spieghiamo meglio i fatti di quell’epoca lontana per comprendere il presente. Per meglio dispiegare in tutta l’isola la strategia nata con il pool guidato da Caponnetto, Borsellino chiede il trasferimento alla procura della Repubblica presso il tribunale di Marsala per ricoprire l’incarico di procuratore capo. Il Csm con una decisione storica accoglie l’istanza riconoscendo i meriti professionali e l’esperienza acquisita negando per la prima volta validità assoluta al criterio dell’anzianità. Borsellino il 19 dicembre 1986 prende servizio a Marsala. Il successivo 10 gennaio, sulla terza pagina del Corriere della Sera, Leonardo Sciascia commenta con la solita verve letteraria l’uscita di un saggio di un ricercatore inglese sulla mafia ai tempi del fascismo mettendolo in relazione alle vicende siciliane del periodo. Pur senza citarlo Sciascia mette alla berlina Leoluca Orlando (“sindaco che per sentimento o per calcolo comincia ad esibirsi- in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei- come antimafioso”). Lo scrittore lancia una previsione: chi si opporrà a lui in consiglio comunale o nel partito sarà giudicato un mafioso. Se sul sindaco l’esempio è considerato ipotetico, sulla magistratura Sciascia si poggia su un dato che considera “attuale ed effettuale”. La parte finale del lungo articolo si conclude con la pubblicazione di uno stralcio del Notiziario straordinario del Csm che in burocratese stretto comunica l’esito dell’assegnazione del posto di procuratore capo a Paolo Borsellino alla luce “della particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare”. L’illuminista Sciascia fa a pezzi la prosa ministeriale giudiziaria dell’intero passo e non si accorge di essere finito tra i conservatori difendendo il concetto di anzianità per la nomina. Scrive Sciascia: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Un indovinato e fortunato titolo “I professionisti dell’Antimafia” dato allo scritto da Riccardo Chiaberge apre una polemica furibonda e strutturale che giunge ai giorni nostri e assegna una notorietà negativa ad un serio magistrato come Paolo Borsellino che certamente non meritava una gogna mediatica di questo tipo. Per giunta firmata dall’intellettuale che con i suoi romanzi fino a quel momento aveva meglio svelato storia e natura psicologica della mafia. Un opinion leader che spesso al Paese aveva dato quella morale che la politica non aveva saputo dare. Borsellino si sentì molto ferito da quell’articolo che aprì una serrata discussione. Anche per il magistrato il maestro di Racalmuto era stato un padre intellettuale. Sciascia, garantista autentico e disinteressato, evidentemente si era lasciato coinvolgere da suggeritori interessati. Lo comprenderà lo scrittore e in un’intervista alla rivista “Segno” correggerà la rotta nei confronti del magistrato. I due s’incontreranno per un chiarimento. Sciascia dirà personalmente a Borsellino, nel corso di un colloquio molto cordiale, che era stato ingiusto personalizzare sulla sua nomina e chiede scusa dell’accaduto. Borsellino in quei giorni dirà alla sorella Rita: “Non posso prendermela con Sciascia, è troppo grande. Sono cresciuto con i suoi libri. È stato malconsigliato e manovrato”. Ayala ancora oggi sostiene che quell’articolo era giusto nei contenuti ma l’esempio su Borsellino profondamente sbagliato. Una tesi su cui concorda il giornalista e scrittore Alexander Stille: ”Non era giusto mettere sullo stesso piano due figure diverse come Orlando e Borsellino”. Un conto era la retorica della politica, un altro l’impegno giudiziario nella trincea infuocata della procura di Palermo. Tra l’altro Borsellino abbandonava la sua città per andare a lavorare in un difficile posto di provincia. Aumentava le sue spese personali visto che era costretto a prendere in fitto un piccolo appartamento vicino il commissariato di Marsala recandosi a Palermo dalla famiglia solo nel fine settimana. Quindi il successo alla fine comportava per lui anche sacrifici economici e personali. Il vero successo è determinato dalla polemica che si apre sui giornali anche con grandi confusioni. Borsellino assunse un tono nobile ma fermo nei toni. In un’intervista rilasciata a Felice Cavallaro del Corriere della Sera, il neoprocuratore di Marsala che conquista in maniera non voluta la scena nazionale, afferma: “Nutro preoccupazione per i segni di cedimento che avvertiamo in Sicilia. E’ pernicioso che si allenti, adesso, la tensione, in qualsiasi modo e da qualsiasi parte. Non si è ancora capito che questo è un momento delicatissimo della lotta alla mafia”. In molti infatti cominciavano a cambiare atteggiamento. Anche a Palermo il cardinale Pappalardo, il prelato delle omelie segnanti ai grandi funerali di Stato, aveva messo in guardia sulla spettacolarizzazione del maxiprocesso e aveva fatto riflessione sul fatto che l’aborto ammazza più innocenti della mafia. Nella stessa intervista Borsellino approfittava per informare gli italiani del suo curriculum di magistrato: “Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno”. In quei giorni la polemica dimentica infatti che Terranova, Costa, Chinnici, Ciaccio Montalto erano stati magistrati che avevano dato la loro vita nella lotta senza mediazioni contro la mafia. Il direttore del Corriere della Sera, il liberale Piero Ostellino, scrisse e sostenne: “L’antimafia rischia di trasformarsi in una sorta di mafia, sia pure di segno contrario”. Poco prima di morire la moglie del giudice ucciso, Agnese, sempre poco prodiga di parole e sempre misurate ad Attilio Bolzoni ha dichiarato: “Leonardo Sciascia vent’anni fa aveva capito tutto prima di altri”. La figlia di Sciascia, Anna Maria, riflette nello stesso articolo di Bolzoni: “Il suo era solo un richiamo alle regole, ce l’aveva con quella direttiva del Csm e con una certa retorica dell’antimafia […] Fu isolato solo perché aveva lanciato una riflessione sull’arbitrio, sul rischio che si creassero centri di potere, sull’intoccabilità dell’antimafia.” Borsellino andrà con la memoria a quella lontana polemica durante i 57 giorni che separano il botto di Capaci da quello di via D’Amelio. Ventitre giorni prima di morire in un dibattito pubblico, Borsellino ragiona sul fatto che Falcone aveva cominciato a morire quando “Sciascia sul Corriere bollò me e l’amico Leoluca Orlando come professionisti dell’antimafia”. Nello stesso intervento Borsellino rifletteva che poi a Falcone gli fu negata la guida dell’ufficio istruzione. Di questo ridimensionamento tornava a dare la responsabilità alla stessa magistratura. Anche quella volta Borsellino era sceso in campo con la sua determinata volontà e netta coscienza morale. I professionisti dell’antimafia sono invece ancora tra noi.
Strage di Via D’Amelio, Borsellino voleva denunciare i fatti interni alla Procura di Palermo: ecco le prove. Le conferme in due verbali “nascosti” per decenni, nelle intercettazioni di Totò Riina sul contenuto dell’agenda rossa e in un discorso pubblico del magistrato. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 19 luglio 2021. Ci sono un discorso pubblico, due verbali “nascosti” per decenni e un passaggio delle intercettazioni di Totò Riina sul contenuto dell’”agenda rossa”, che svelano cosa avrebbe voluto denunciare Paolo Borsellino alla procura di Caltanissetta in merito alla morte di Giovanni Falcone, senza averne avuto la possibilità: fu fatto saltare in aria prima, insieme alla sua scorta, con il tritolo in Via D’Amelio, 29 anni fa.
Le questioni “terribili” della Procura di Palermo. Un dato è sotto gli occhi di tutti. Paolo Borsellino ha pubblicamente evidenziato un dettaglio, collegandolo all’attentato di Capaci. Un dettaglio passato del tutto inosservato fin da subito e completamente svaporato tra le tesi della trattativa e altre piste inconcludenti. Tutte piste che omettono le questioni “terribili”, una definizione coniata da Borsellino durante una confidenza fatta alla sorella di Falcone, che riguardano la Procura diretta all’epoca da Pietro Giammanco. Tutto nero su bianco nel verbale tenuto nei cassetti per quasi 30 anni. «Falcone approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, di non poter più continuare ad operare al meglio». Questo è il passaggio del famoso intervento pubblico di Borsellino fatto alla biblioteca comunale di Casa Professa. Non c’è altra interpretazione.
Per Borsellino i diari di Falcone sono veri. Borsellino ha esordito con una premessa: deluderà i presenti, ma le motivazioni dell’omicidio del suo collega e fraterno amico Falcone le riserverà alla procura di Caltanissetta. Ma man mano che parla, qualcosa lascia intravvedere. Prima premette che i diari di Falcone (tutte annotazioni critiche nei confronti di alcuni suoi colleghi e della gestione delle indagini) pubblicato dalla giornalista Liana Milella sono veri. Sottolinea la loro genuinità, perché li «aveva letti in vita». Borsellino, più avanti, dice chiaramente che avrebbe rivelato il motivo per cui Falcone ha abbandonato la Procura di Palermo, quella dei “veleni”. Definizione, quest’ultima, di Borsellino stesso come hanno testimoniato alcuni suoi colleghi di Marsala, ovvero Massimo Russo e Alessandra Camassa. Lo avrebbe prima detto alla procura competente e poi, nel caso, pubblicamente.
Voleva denunciare ai giudici di Caltanissetta i malesseri della procura palermitana. Dal verbale dell’audizione al Csm del magistrato Antonella Consiglio si evince una testimonianza che svela il fatto che Borsellino avrebbe denunciato innanzi ai giudici nisseni tutti i malesseri interni alla Procura. Riportiamo il passaggio del verbale al Csm del 30 luglio 1992. È la dottoressa Consiglio che parla. Il riferimento sono i diari di Falcone: «Lo stesso Antonio (Ingroia, ndr), parlando mi disse che era tutto vero, ma sul punto non c’erano dubbi e che proprio Paolo cercava di studiare insomma il modo, come dire, o comunque il momento per poter introdurre il problema nelle sedi istituzionalmente competenti, perché dopo la morte di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino ha subito un grosso trauma emotivo ed era determinato nel far luce sui fatti anche della procura, e comunque, diciamo, era una cosa che lui stava sicuramente preparando, a cui pensava».
Ingroia disse alla Consiglio che Borsellino era determinato a tirar fuori i malesseri della procura. La dottoressa Consiglio, aggiunge che Ingroia le disse che Borsellino era «determinato in questa sua intenzione di tirar fuori, in qualche modo non so come, i malesseri di quella procura ed ero completamente allo scuro di tutti i fatti che poi ho sentito e tutto sommato cercava, appunto, il momento opportuno, poi.. è finita». Ma poi, appunto, è finita quel maledetto 19 luglio 1992. Borsellino che quasi ogni domenica mattina andava a trovare la madre, quel giorno ci andò di pomeriggio perché doveva accompagnarla dal cardiologo. Una visita programmata per sabato, ma poi spostata a domenica dal medico stesso.
Il giorno prima della strage alla madre avrebbe detto: «…poi potrò smettere di fare il magistrato». Il giorno prima della strage, e questo lo sappiamo dalla testimonianza del fratello Salvatore resa il 5 aprile 1995 al processo Borsellino, il giudice ucciso dal tritolo era euforico e avrebbe detto alla madre testuali parole: «Sono contento di questo che sto facendo perché sono riuscito ad andare in fondo e poi potrò smettere di fare il magistrato». Ebbene sì. Borsellino avrebbe lasciato la magistratura una volta denunciato la verità sulla strage di Capaci. La sorella di Falcone, come si legge nel verbale tenuto nascosto per quasi 30 anni, dirà al Csm: «Io per due mesi sono stata zitta, perché Paolo Borsellino così mi aveva consigliato, o ci aveva consigliato, perché Paolo era un caro amico di Giovanni».
Consigliò alla sorella di Falcone di stare ferma, perché stava scoprendo «delle cose terribili». Che cosa le aveva consigliato? Lei voleva parlare subito dei motivi per cui Falcone ha lasciato la Procura. Borsellino però le disse di stare ferma, perché stava scoprendo «delle cose terribili, che avrebbero fatto saltare parecchie cose». Veniamo all’agenda rossa scomparsa. Si sono fatte diverse ipotesi sul contenuto. Nessuno ne è testimone, ma addirittura c’è chi specula dando per certo che avrebbe scritto cose riguardanti entità o spectre come se annotasse un romanzo alla Dan Brown.
Annotava pensieri sull’agenda rossa come faceva Falcone su un diario. Sappiamo, grazie alla testimonianza di Ingroia resa alla commissione antimafia siciliana, che Borsellino ha cominciato ad annotare pensieri sull’agenda rossa una volta che ha scoperto che anche Falcone annotava tutto su un diario. Il contenuto delle annotazioni pubblicate è tutto volto alla questione interna alla Procura di Palermo. Sappiamo che Falcone cominciò ad annotare sul diario su consiglio del giudice Rocco Chinnici. Anche quest’ultimo, ricordiamo, teneva un diario personale. Dopo la morte di Chinnici, in audizione avanti al Csm del 6 settembre 1983 sul punto Falcone commenterà: «Il collega Chinnici prendeva appunti su tutti gli episodi che gli apparivano inconsueti e questo perché temeva che le persone che potessero volere la sua morte avrebbero potuto annidarsi anche all’interno del palazzo di giustizia. Egli mi sollecitava a fare altrettanto, dicendomi che in caso di una mia morte violenta gli appunti avrebbero potuto costituire una traccia per risalire agli assassini». È stato di parola. Falcone ha annotato tutti i problemi interni al palazzo di giustizia. A questo punto è logico supporre che Borsellino abbia voluto seguire lo stesso esempio. Pubblicamente o tramite confidenze ora svelate dai verbali, Borsellino ha detto di non fidarsi di alcuni suoi colleghi e che avrebbe denunciato tutto a Caltanissetta.
Riina parlava dei contenuti dell’agenda rossa. Lo sapeva anche Totò Riina? Nelle trascrizioni delle intercettazioni del 29 agosto 2013, parla dell’agenda rossa e dei documenti che qualcuno fece sparire anche al generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Si chiede come mai accadono queste sparizioni. Ad un certo punto, subito dopo aver nominato il fatto di dalla Chiesa, dice: «Perché, anche questa agenda rossa, cioè, le rilevazioni che aveva fatto questo… questo per quello… gli faccio io… perché c’è… c’è… non può essere perché sono presenti i Magistrati?». Finché non si farà chiarezza su questo punto, la verità è sempre più lontana. Siamo un Paese particolare, la Sicilia lo è ancor di più. Ci vorrebbero magistrati che abbiano il coraggio di calpestare i piedi anche ai loro colleghi potenti. Un potere abnorme che invade i mass media e gli organismi politici. Cosa aveva scoperto di così terribile Paolo Borsellino tanto da annotarlo sull’agenda e pronto a rivelarlo alla procura Nissena? «Borsellino – si legge nell’articolo del Corriere della Sera a firma di Luca Rossi apparso il giorno dopo l’attentato – pensava che potesse esistere una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione d’appalti, in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando». E poi sempre Borsellino dice: «Se me ne vado da qui, da Palermo, non ho più nessuno che mi faccia da sponda. Qui non è rimasto nessuno. Non ci sono più inchieste, non c’è un lavoro organico: che cosa posso coordinare da Roma se nessuno fa indagini in Sicilia?».
Il dossier dimenticato nei cassetti di quattro procure. "Dietro le stragi del 1992 massoni e alta finanza". Salvo Palazzolo su La Repubblica il 18 luglio 2021. La commissione regionale antimafia scopre le 70 pagine che nel marzo 1994 erano state inviate dalla Dia alla magistratura. C’erano riferimenti precisi a personaggi poi effettivamente coinvolti nei misteri delle bombe: l’artificiere Rampulla e il “mediatore” Bellini. Ma resta il giallo: quali fonti avevano fatto queste rivelazioni agli investigatori? Ventinove anni dopo, spuntano ancora tracce rimaste nei cassetti. Le stragi Falcone e Borsellino, e poi quelle di Roma, Milano e Firenze, restano il grande buco nero della giustizia italiana. Per tutte le indagini che non furono fatte. Nel marzo 1994, la Dia spedì a quattro procure - Palermo, Roma, Milano e Firenze - un rapporto "strettamente riservato" in cui si rappresentavano alcune "certezze": le stragi Falcone e Borsellino sono state "richieste" a Salvatore Riina da "personaggi importanti", in cambio della promessa di una revisione del maxiprocesso.
Il procuratore Lo Voi: "Borsellino, non solo mafia. La lotta è ancora lunga, alti rischi di infiltrazione". Carmelo Lopapa su La Repubblica il 18 luglio 2021. L'intervista. "Sentii Paolo pochi giorni prima della strage, era turbato. Mi disse: Comprati una pistola". L'eccidio era annunciato: "Lo Stato non fece abbastanza per difenderlo". I mafiosi preferiscono avvicinare i funzionari pubblici più che i politici per ottenere appalti. Indispensabile la legislazione sui pentiti. La cattura di Messina Denaro? "Non ne parlo". La strage Borsellino fu eccidio di mafia. Ma non solo di mafia. Di certo, la più annunciata delle stragi. E lo Stato non fece tutto ciò che avrebbe potuto per proteggere il giudice e la sua scorta, trucidati il 19 luglio di 29 anni fa. Di tempo ne è passato, ma ancora tutto o quasi viene delegato alle capacità repressive della magistratura e delle forze dell'ordine.
Falcone e Borsellino, le stragi si sarebbero potute evitare con il Bomb Jammer? Le Iene News l'11 maggio 2021. Se il Bomb Jammer fosse stato messo sulle auto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si sarebbero potute evitare le stragi del 1992? Alessandro Politi ci parla di questa apparecchiatura di sicurezza che blocca l’azione dei telecomandi a distanza per gli esplosivi e che sarebbe stato già in uso in Italia in quegli anni e installata anche sulla macchina di Antonio Di Pietro? I magistrati antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli uomini delle loro scorte, uccisi nel 1992 in due attentati, si sarebbero potuti salvare? In particolare, entrambe le bombe sono state innescate con dei comandi a distanza: c’era uno strumento per evitare le stragi di Capaci e di via D’Amelio? Se lo chiede Alessandro Politi. Ci concentriamo su un’apparecchiatura, il Bomb Jammer, che può disturbare le frequenze radio bloccando così anche i comandi a distanza degli ordigni. Ce ne parla un uomo che ha collaborato come consulente per le più importanti procure, proprio usando il Jammer per proteggere i magistrati. In Italia questa apparecchiatura è arrivata negli anni ’80: lui l’avrebbe avuta per protezione l’auto del pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro. Per quelle di Falcone e Borsellino il consulente sarebbe stato bloccato dalla burocrazia. Ne parliamo anche con Alfonso Sabella, che è stato sostituto procuratore a Palermo con Giancarlo Caselli e assessore alla legalità a Roma ai tempi di “Mafia Capitale”. Ai tempi di Falcone e Borsellino sapeva, dice, che c’era questa tecnologia, non che fosse disponibile: “Mi fa inc… moltissimo che non sia stata usata per Falcone e Borsellino, se c’era una macchina su cui quell’apparecchio andava montata era quella di Falcone e Borsellino”. “Nel 1992 feci un intervento chiedendo, urlando, perché non era stato fatto”, senza sapere ancora che quella tecnologia non solo esisteva, ma era disponibile. “È gravissimo, è sconvolgente”. Gli diciamo chi è il consulente che ci ha parlato del Jammer: secondo Sabella, che ci ha lavorato, è assolutamente affidabile. Antonio Di Pietro invece preferisce non parlare dell’argomento al telefono. Riproviamo di persona, non la prende benissimo.
Via D’Amelio: una partita truccata contro la verità tra bugie e depistaggi. Il 19 luglio del 1992 l’eccidio di Paolo Borsellino e dei cinque agenti di scorta. Ventinove anni di omissioni, indagini parziali e reticenze di Stato. L’inchiesta della commissione antimafia siciliana. Enrico Bellavia su L'Espresso il 15 luglio 2021. Coppole e toghe. Tritolo e divise. Barbe finte e boia. Una lunga partita a scacchi contro la verità. A ventinove anni dall’inferno di via D’Amelio molti degli interrogativi del 1992 rimangono intatti, nonostante 14 processi e la condanna del gotha di Cosa nostra. Perché in questo lungo lasso di tempo si è consumato, dentro e fuori le aule di giustizia, quel “furto di verità”, come lo chiama il presidente della commissione regionale antimafia siciliana, Claudio Fava, reso possibile dal depistaggio permanente che precede e segue la strage in cui morirono Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Un depistaggio ancora “attuale”, avverte il sostituto procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato. La menzogna delle menzogne ruota intorno al falso pentito Vincenzo Scarantino, imbeccato dal gruppo stragi guidato dall’ex capo della Mobile e questore di Palermo, Arnaldo La Barbera che ne fece il “pupo vestito” per chiudere in fretta, già nel 1994, il capitolo sulla morte del procuratore aggiunto di Palermo, avvenuta 57 giorni dopo l’eccidio di Capaci e la fine riservata a Giovanni Falcone, alla moglie e ai tre agenti della scorta. Ma l’impostura ha dei protagonisti, non tutti noti, e dei comprimari, silenti e acquiescenti nel perpetuare l’inganno: il procuratore di Caltanissetta dell’epoca, Giovanni Tinebra, morto come La Barbera, ma anche il nugolo di aggiunti e sostituti che hanno sorvolato su quel raggiro alla giustizia che non si è arrestato con il disvelamento dell’inganno. Incarnato nel malavitoso analfabeta della Guadagna, dato in pasto ai giudici come l’autore del furto della 126 utilizzata per la strage. E poi smentito nel merito del furto e delle fantasiose ricostruzioni sull’organizzazione dell’attentato da Gaspare Spatuzza, ma solo nel 2008. La più aggiornata fotografia di cosa sia stata questa partita truccata l’ha fornita nei giorni scorsi proprio la commissione regionale antimafia siciliana con una relazione, la seconda dopo quella del 19 dicembre 2018, che già conteneva una significativa sintesi delle occasioni mancate sia per evitare la strage sia per scoprirne poi i veri responsabili. Partiamo dalla fine provvisoria. Proprio mentre ci si affanna a capire chi, insieme con Cosa nostra abbia impresso al disegno stragista deliberato nel 1991 da Riina e soci l’impellenza di uccidere Borsellino proprio in quel 19 luglio del 1992, l’ex collaboratore di giustizia catanese Maurizio Avola si piazza al centro della scena dell’agguato e con una tardiva rivelazione si dice sicuro che dietro la mafia non ci fosse nessun altro. Comodo, rassicurante e utile. Ma anche incredibile. Al punto che, come ha ipotizzato Scarpinato, il movente delle parole di Avola possa essere duplice: depistare ancora e annullare l’effetto delle proprie precedenti dichiarazioni sugli artificieri dell’attentato di Capaci che sembravano poter dare un input per interessanti approfondimenti su quel versante. Resta la domanda su chi lo abbia imbeccato. L’ennesima ombra che va ad ingrossare le fila dei fantasmi che affollano questa storia senza indagini. Non ce ne sono mai state del resto sulla mancata predisposizione di un apparato di sicurezza adeguato in via D’Amelio che avrebbe evitato la strage. Niente personale esperto sui movimenti di Borsellino, niente bonifica preventiva alla ricerca di auto sospette nel perimetro della strage, niente impiego di dispositivi elettronici di rilevamento degli esplosivi. E questo nonostante il magistrato fosse accreditato come il prossimo bersaglio perfino nelle chiacchiere da bar, oltre che in una nota dei servizi segreti e ci fossero delle precise minacce giunte in procura di cui fu tenuto all’oscuro. Nessuna indagine neppure su Pietro Giammanco, il procuratore capo di Palermo che solo la mattina del 19 luglio con una strana telefonata domenicale all’alba concesse a un Borsellino attonito l’agognata delega ad occuparsi delle indagini antimafia su Palermo. Giammanco non fu mai sentito a Caltanissetta. Nè fu mai chiesto conto a Tinebra sul perché avesse delegato al Sisde indagini sulle stragi, affidandole proprio a Bruno Contrada, pur sapendolo chiamato in causa dal pentito Gaspare Mutolo come colluso con la mafia. Un’accusa che proprio Borsellino aveva raccolto dopo essere riuscito a strappare a Giammanco il via libera all’interrogatorio. Gli eredi del vecchio Sisde, oggi Aisi, non alcuna voglia di rispondere per allora. Sta di fatto che uomini del Sisde si sono ritrovati a occuparsi della strage Borsellino insieme con La Barbera che dal Sisde era a sua volta stipendiato e che dava la caccia a una 126 ben prima che se ne ritrovasse il blocco motore con i numeri di matricola. Nulla si sa dell’agenda rossa di Borsellino, scomparsa dal luogo dell’eccidio mentre la macchina della vittima fumava ancora. Sparì nelle mani di quegli uomini in giacca e cravatta piombati tra le lamiere roventi chissà da dove e avvistati con certezza da almeno due dei poliziotti intervenuti. Uno di questi mostrò un tesserino: era un uomo dei servizi. Ma il Sisde, ufficialmente, intervenne in via D’Amelio almeno cinque ore dopo l’attentato. Il resto della borsa di Borsellino finì sul divano della stanza di La Barbera alla Mobile per essere repertato e controllato molti mesi dopo. Atto inutile, dal momento che ciò che conteneva di prezioso era già sparito. La Barbera, del resto, aveva già pronto Scarantino, pentito costruito in laboratorio, già provato per depistare il delitto del poliziotto Nino Agostino e sottoposto in foto al padre nel tentativo di farglielo riconoscere come esecutore del delitto già nel 1989. Il picciotto della Guadagna rispunta come strumento nelle mani di La Barbera dopo via D’Amelio. Gli affiancano un detenuto provocatore, poi lo portano nel lager di Pianosa e lì dopo una valanga di incontri investigativi, tutti autorizzati tra mille non ricordo dai magistrati del tempo si pente salvo poi ritrattare. A nulla valgono i confronti che lo smentiscono con collaboratori di ben altro peso che non verranno mai prodotti in dibattimento fino a quando la difesa di alcuni degli imputati costringerà l’accusa a esibirli. A nulla valgono neppure le dichiarazioni di Giovanni Brusca che bolla come inattendibile Scarantino ben prima di Spatuzza. E neppure l’avviso non verbalizzato dello stesso Spatuzza che già nel 1998 alla Dna dice che quell’altro mente spudoratamente. Bisognerà aspettare i verbali ufficiali di Spatuzza per avviare l’iter che porterà alla liberazione, dopo 18 anni degli 11 accusati ingiustamente da Scarantino. Buio ancora anche sul movente. Sposando la comoda tesi che accompagna sempre i delitti di mafia si evoca la vendetta. Con una torsione del capo all’indietro si guarda a quel che la vittima aveva fatto e non a quello che poteva fare. E Borsellino prometteva due cose: scoprire tutto sulla fine di Falcone, ma Caltanissetta non lo ascoltò mai, e riprendersi in mano il dossier mafia e appalti, un’indagine dei Ros, depotenziata da Giammanco. Lì c’erano spunti investigativi che portavano al Nord, ai colossi imprenditoriali sporcatisi e tanto con la mafia siciliana. Attingendo a piene mani alla liquidità enorme dei picciotti, consentendole quella finanziarizzazione da mafia in borsa evocata da Falcone prima di essere ucciso. E su tutto ci sono loro: i Graviano, Giuseppe e Filippo, i fratelli che dosano con strategie diverse dal 41 bis, parole e messaggi in codice sperando un giorno di tornare liberi. Rimasti nell’ombra, anche loro sono stati condannati per le stragi in quanto capi del mandamento di Brancaccio. Ma all’epoca delle prime indagini su via D’Amelio, tutto sembrava volerli relegare sullo sfondo, riparati da ogni coinvolgimento. La Guadagna di Scarantino portava lontano da loro e dai loro interessi economici. Che riconducono ancora al Nord, a partire da una colletta tra mafiosi avviata dal padre per finanziare l’ascesa imprenditoriale di quel che sarebbe stato l’impero di Silvio Berlusconi. Abbastanza per dirsi che quello che ancora non sappiamo è una ipoteca sufficiente a tenere sotto scacco i sopravvissuti di quella stagione.
La mega rapina degli uomini di Totò Riina: dopo 30 anni il bottino ricompare a Trastevere. La pista seguita dai Ros dopo un sequestro di beni a una famiglia vicina ai componenti del commando che nel ‘91 eseguì il colpo sensazionale al Monte dei Pegni di Palermo. Una perizia conferma: i gioielli sequestrati sono tutti antecedenti agli anni Novanta. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 22 giugno 2021. Un filo che lega trent’anni di storia della mafia. Un filo saltato fuori in un magazzino di Roma qualche mese fa e che, seguendolo, porta indietro nel tempo, agli anni della Palermo insanguinata dai mafiosi. Una pista suggestiva e per certi versi incredibile, quella che i carabinieri del Ros della Capitale stanno seguendo e che troverebbe conferma in una perizia appena acquisita. Una pista che da alcuni investimenti della mafia in bar ed esercizi commerciali oggi a Roma porta dritta al tesoro della Cosa Nostra di Salvatore Riina e a un colpo che fece scalpore: la grande rapina al Monte dei Pegni della Sicilcassa avvenuta nel 1991 a Palermo. Un colpo che allora fruttò a Cosa Nostra oltre 40 miliardi di lire tra contanti, quadri, gioielli e pietre preziose. Un bottino che serviva ai corleonesi anche per pagare le parcelle degli avvocati che avevano seguito per i boss il maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone. Un tesoro che Riina volle in parte trasformare in lingotti d’oro poi distribuiti ai capi mandamento e che trent’anni dopo è stato trovato in un magazzino della Capitale: anzi, molto probabilmente una parte era stata appena venduta per riciclare soldi in un bar a Trastevere. Il resto invece era lì: quadri di fine Ottocento, collane di perle, bracciali Bulgari, orecchini di alto valore. Una perizia, chiesta dai carabinieri del Ros di Roma, conferma la pista suggestiva: questo tesoro è tutto datato prima del 1990 e l’uomo per il quale è stato conservato fu uno degli autori di quella storica rapina a Palermo. L’uomo del ritorno al futuro, il volto che collega passato e presente della Cosa Nostra potente dei corleonesi, si chiama Francesco Paolo Maniscalco: figlio di Totuccio Maniscalco e nipote di Cesare Giuseppe Zaccheroni, uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova e pupillo di Salvatore Cangemi, l’ex boss che ha fatto parte del gruppo di fuoco che uccise Salvo Lima e che ha partecipato alle stragi di Capaci e via D’Amelio. Cangemi si pente nel 1993 ed è il primo collaboratore di giustizia a fare il nome di Silvio Berlusconi e dell’arrivo a Milano del suo stalliere, Stefano Mangano. Morto Zaccheroni, in un incidente in moto nel 1982 mentre stava correndo verso Altavilla Milicia per comunicare ad alcuni mafiosi una imminente retata delle forze dell’ordine, Cangemi mette sotto la sua ala protettiva il giovane Maniscalco, allora poco più che ventenne. Il ragazzo è sveglio ed è lui che coordina sul campo la grande rapina del 13 agosto 1991 al Monte dei Pegni della Sicilcassa in via Calvi: in sette quel giorno entrarono nella banca e rubarono preziosi e quadri per un valore di 25,9 miliardi di lire e contanti per altri 17,5 miliardi. Il bottino venne messo in sacchi della spazzatura e borsoni e tenuto per tutta la giornata da Maniscalco, che solo la sera di quel giorno consegnerà in un capannone a Brancaccio i soldi e i preziosi a Cangemi. Trent’anni dopo siamo a Roma, quartiere Trastevere. I carabinieri del Ros stanno intercettando alcuni componenti della famiglia Rubino, sospettati di essere prestanome di Maniscalco e delle famiglie di Porta Nuova e Corso dei Mille. I Rubino, palermitani trapiantati a Roma da molti anni e imparentati sia con Maniscalco sia con Zaccheroni, stanno investendo in nuove attività commerciali. I carabinieri in particolare accendono i riflettori sul bar di viale Trastevere “Sicilia è Duci” e su un’altra società appena creata dai Rubino per aprire un secondo locale sempre nello stesso quartiere, dopo che la Dia di Palermo aveva sequestrato delle quote della vecchia società appartenenti proprio a Maniscalco. Per fare dei lavori urgenti di ristrutturazione del nuovo bar la famiglia Rubino ha bisogno di soldi. E parlano quindi di alcuni beni da vendere. In una intercettazione si fa riferimento a un noto esperto d’arte romano, Gianluca Berardi. Intercettati, Benedetto Rubino e la moglie Antonina Puleo parlano dell’imminente arrivo del gallerista per valutare dei quadri, ma emerge il timore che proprio Berardi potesse scoprire che quei quadri erano stati rubati: «Guarda che questo lo scopre che sono stati rubati 28 anni fa», dice la moglie. Poco dopo scatta un blitz dei carabinieri, che in un magazzino non molto distante dall’abitazione dei Rubino trovano ventiquattro tele e trenta pietre preziose. Tra questi un “Ritratto di bimba” di Luigi Di Giovanni, datato 1909, una “Donna nel bosco” del pittore Giuseppe Puricelli Guerra del 1869 e una “Donna con fanciullo” di Giovan Battista Cambon datato fine Ottocento. Dalla vendita di questi beni e di una pietra preziosa i Rubino ricaveranno 70 mila euro. I carabinieri del Ros hanno esaminato nel dettaglio questi beni per verificare se davvero potessero risalire alla rapina al Monte dei Pegni del 1991, come sembra dalle intercettazioni e da quella frase («rubati 28 anni fa») detta in un colloquio del maggio 2019. E una perizia, appena arrivata sul tavolo dei Ros e dei pm romani che indagano confermerebbe questa tesi suggestiva perché tutti i beni sequestrati, compresi bracciali Bulgari e anelli di valore, sono tutti antecedenti al 1991. Di certo c’è che al Monte dei Pegni non c’era un catalogo dettagliato dei beni rubati in quella rapina e del bottino si erano perse le tracce subito. Soltanto un gioielliere di Castelvetrano, dopo molti anni, parlerà di un incontro con Riina e Messina Denaro e della consegna di alcuni preziosi che dovevano essere valutati e che provenivano da quella rapina. Adesso, dopo trent’anni, una parte di quel tesoro sarebbe saltata fuori in un magazzino di Roma per riciclare soldi della vecchia mafia. Almeno questa è la pista seguita dagli investigatori.
Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 4 giugno 2021. «Giovanni se ne è andato da Palermo perché non poteva più lavorare, perché il procuratore Giammanco non gli permetteva più di svolgere il suo lavoro come avrebbe voluto farlo». A dirlo, il 30 luglio del 1992 al Csm, è la sorella Maria Falcone. Il Csm, dopo la strage di via d'Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e dopo la diffusione di un documento firmato da otto pm contro Giammanco, decise di procedere a delle audizioni per capire cosa stava succedendo alla Procura di Palermo. «Non è compito mio indagare sul perché Giammanco ha operato questa strategia di non farlo lavorare. Io vi posso dire soltanto cosa Giovanni diceva in famiglia», aveva sottolineato la sorella in una deposizione rimasta per un quarto secolo secretata. Il perché Pietro Giammanco ostacolasse Falcone non lo sapremo mai. Il magistrato è morto nel 2018 senza che nessuno glielo abbia mai chiesto. Falcone si era sempre lamentato di subire umiliazioni e di non essere messo in condizioni di lavorare. La testimonianza della sorella di Falcone stride con le dichiarazioni dei colleghi del magistrato ucciso a Capaci e che in questi giorni lo ricordano come un grande investigatore e un precursore dei tempi per aver voluto la legge sui pentiti che permise di sferrare un colpo micidiale a Cosa nostra. Fra gli ex colleghi intervenuti nel dibattito c'è Giuseppe Pignatone che ha scritto un articolo per Repubblica dal titolo "La legge e il valore dei pentiti", commentando la liberazione di Giovanni Brusca, il killer che premette il pulsante che innescò l'esplosivo. Nel pezzo l'ex procuratore della Repubblica di Roma esprime parole di apprezzamento per la legislazione premiale in materia di collaboratori di giustizia «ispirata e fortemente voluta» da Falcone «sulla base delle esperienze palermitane».
Ecco, però, che cosa scriveva di Pignatone Falcone nei suoi diari.
18 dicembre 1990: «Dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina (Michele, segretario della Dc, ndr), Mattarella (Piersanti, presidente della Regione) e La Torre (Pio, segretario del Pci, ndr), stamattina gli (a Giammanco, ndr) ho ricordato che vi è l'istanza della parte civile nel processo La Torre di svolgere indagini sulla Gladio (organizzazione promossa dalla Cia, ndr). Ho suggerito, quindi, di richiedere al giudice istruttore di compiere noi le indagini in questione. Invece sia egli sia Pignatone insistono per richiedere al giudice soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo».
10 gennaio 1991: «I quotidiani riportano la notizia del proscioglimento da parte del giudice Grillo dei giornalisti Bolzoni e Lodato, arrestati per ordine di Curti Giardina (Salvatore, procuratore di Palermo prima di Giammanco, ndr) tre anni addietro con imputazione di peculato (per la pubblicazione dei verbali del pentito Antonio Calderone, ndr). Il giudice ha rivelato che poteva trattarsi soltanto di rivelazione di segreti di ufficio e che l'imputazione di peculato era cervellotica. Pignatone aveva sostenuto invece che l'accusa in origine era fondata ma che le modificazioni del codice penale rendevano il reato di peculato non più configurabile. Trattasi di altra manifestazione di "furbizia" di certuni che, senza averne informato il pool, hanno creduto, con una "ardita" ricostruzione giuridica, di sottrarsi a censura per un'iniziativa assurda e faziosa di cui non può non esser ritenuto responsabile certamente il solo Curti Giardina».
26 gennaio 1991: «Apprendo oggi da Pignatone, alla presenza del capo, che egli e Lo Forte (Guido, ndr) si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito, nel processo Mattarella, da Lazzarini Nara (segretaria di Licio Gelli, ndr). Protesto per non essere stato previamente informato sia con Pignatone sia con il capo (...)». A conferma della "effettiva" posizione di Pignatone all'interno della Procura di Palermo, prima, in contemporanea e dopo l'uccisione di Falcone, ci sono le sue dichiarazioni, secretate per anni, al Csm. «Per quanto riguarda quella parte del documento che sembra contenere una critica nei confronti del procuratore sono totalmente dissenziente (...) io esprimo un giudizio positivo sull'operato del procuratore», disse Pignatone. Ignazio De Francisci, altro pm palermitano ascoltato all'epoca dal Csm, raccontò che Giammanco si fidava solo di tre magistrati in Procura, uno era Pignatone. A trent' anni dalla morte di Falcone e Borsellino sarebbe l'ora, almeno, di una verità "storica" sulle stragi di mafia. La verità processuale, nel caso di Borsellino siamo al "quater", è lontana.
IN RICORDO DI GIOVANNI FALCONE DI FRANCESCA MORVILLO E DELLA LORO SCORTA. Antonello De Gennaro il Il Corriere del Giorno il 23 Maggio 2021. Quel 23 maggio e 19 luglio sono le pagine più buie e dolorose della storia di Palermo, che però allo stesso tempo hanno generato finalmente la reazione ed il risveglio della società civile che davanti a tanta barbarie inizia ad alzare la testa. Il 23 maggio è ormai da anni diventata la data simbolo della lotta alla mafia, del “NO” al malaffare. Il sacrificio di Falcone e Borsellino e delle loro scorte con il passare diventa sempre più solido ed indimenticato nelle anime e memorie degli italiani onesti, ed il loro ricordo sarà indelebile. Perchè loro vivono ancora e sempre dentro di noi. Oggi è il 29mo anniversario della strage di Capaci del 23 maggio 1992, nella quale morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli uomini della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani. Fu l’inizio della stagione stragista di “Cosa nostra”. Falcone assieme al collega ed amico fraterno Paolo Borsellino, aveva individuato e fatto condannare con lo storico “maxiprocesso” i vertici della mafia siciliana. Quello che sembrava un normalissimo pomeriggio palermitano di quasi estate, ha cambiato la storia di Palermo, della Sicilia, dell’ Italia intera. La potente carica di esplosivo sventrava l’autostrada Palermo-Mazara all’altezza di Capaci: con un inferno di fiamme e fumo, lamiere e asfalto la mafia aveva compiuto la propria vendetta contro il giudice Giovanni Falcone. Appena due mesi dopo, il 19 luglio di quello stesso anno arrivò una nuova sentenza di morte da “Cosa Nostra” , questa volta per Paolo Borsellino. In via D’Amelio, assieme a lui c’erano i suoi angeli custodi della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi la prima donna a far parte di una scorta e purtroppo anche la prima donna della Polizia a cadere in servizio, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Quel 23 maggio e 19 luglio sono le pagine più buie e dolorose della storia di Palermo, che però allo stesso tempo hanno generato finalmente la reazione ed il risveglio della società civile che davanti a tanta barbarie inizia ad alzare la testa. Il 23 maggio è ormai da anni diventata la data simbolo della lotta alla mafia, del “NO” al malaffare. E ogni anno, grazie anche all’impegno della Fondazione Falcone creata da Maria la sorella del giudice, il Paese intero si mobilita con l’iniziativa “Palermo chiama Italia” per ricordare e rinnovare l’impegno per la legalità. “Di cosa siamo Capaci” è una frase semplice, immediata che punta a valorizzare storie positive, esempi di coraggio e altruismo in momenti bui del Paese, testimonianze di resilienza non necessariamente collegate alle mafie – sottolinea Maria Falcone – Vogliamo insomma narrare di cosa siamo Capaci come cittadini, come singoli individui, come comunità. Abbiamo pensato a modi diversi per coinvolgere i ragazzi e i cittadini – spiega la sorella di Giovanni Falcone – È nato così ‘Spazi Capaci’, un progetto di memoria 4.0 che ci consente di riappropriarci attraverso l’arte dei luoghi che la pandemia ci ha sottratto e che potrebbero essere di nuovo ‘occupati’ dalla criminalità organizzata. Abbiamo chiesto ad alcuni tra i maggiori artisti italiani di contribuire alla realizzazione di un programma speciale di interventi urbani, nei luoghi simbolo del riscatto civile contro le cosche. La bellezza e la cultura sono armi importanti contro la paura e l’omertà”. Giovanni Falcone era un magistrato preparatissimo, che aveva ben capito la complessità e la vastità di “cosa nostra”. Ed aveva intuito come per contrastarla fosse necessario un lavoro di squadra svolto in modo molto accurato e minuzioso. Dove ogni piccolo dettaglio era un piccola tessera di quel puzzle maledetto che è la mafia. Lo conferma un episodio inedito, relativo all’omicidio del giudice Rosario Livatino il 21 settembre 1990, giovane magistrato che conosceva bene Falcone e Borsellino, con i quali avevano più volte collaborato, scambiandosi documenti e analisi. Così quel 21 settembre di 31 anni fa, entrambi corsero ad Agrigento e Falcone addirittura collaborò, con indicazioni e consigli preziosissimi , all’interrogatorio di Pietro Nava, il coraggioso e fondamentale testimone dell’agguato a Livatino. Lo ricorda Sebastiano Mignemi, a quel tempo appena trentenne pubblico ministero della Procura di Caltanissetta che insieme al collega Ottavio Sferlazza fu titolare della prima inchiesta sull’omicidio di Livatino. Oggi Mignemi è presidente del Tribunale del riesame di Catania, ed ha raccontato per la prima volta quell’importante episodio riportato nel libro “Rosario Livatino. Il giudice giusto” (Edizioni San Paolo) scritto da Antonio Maria Mira, appena uscito in libreria. “Un’altra cosa che mi colpì moltissimo fu la discrezione con la quale intervennero da Palermo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In particolare ricordo bene come Falcone, che nel 1990 era già molto noto, si approcciò a me giovanissimo magistrato per capire“. Mignemi racconta anche i preziosi consigli ricevuti da Falcone. “Aveva un grande fiuto investigativo e capì che quella testimonianza sarebbe stata il perno di tutti i processi che sarebbero svolti. E mi disse una cosa fondamentale. Di stare attento a ogni minimo particolare del racconto. Quando il testimone diceva la parola “pistola” non mi doveva bastare, ma dovevo chiedere come fosse, argentata o nera, un revolver. E vedendomi perplesso mi spiegò: “Può darsi che domani un giornale scriva pistola, ma se lui ha detto pistola nera, o era un fucile a canne mozzate, non potranno averlo letto da nessuna parte. Hai capito? Più si è meticolosi in alcuni aspetti nell’immediatezza e si ricevono informazioni e più avremo risultati processuali”. Quel giovane magistrato di Caltanissetta capì che i consigli di Falcone erano “una lezione a livello investigativo fondamentale. Entrava molto nel dettaglio. Capiva benissimo che un’indicazione generica che poi può essere ripresa dopo qualche giorno da qualche articolo, se viene poi raccontata in dibattimento da una fonte probatoria, ha la valenza 131 che ha, se invece quell’indicazione è talmente specifica che non può essere stata letta da nessuna parte, avrà molta più forza. Questa lezione mi rimase impressa moltissimo”. Ma perché Falcone era interessato all’omicidio ? “Perché evidentemente nell’immediatezza si poteva anche pensare che era un gesto di mafia più legato a vicende palermitane, un segno di potenza militare in tutto il territorio della Sicilia occidentale. Inoltre lo conosceva bene, avevano collaborato. Giovanni Falcone capiva che se si era potuto commettere un omicidio di un magistrato in quel modo, in quel territorio, evidentemente ci doveva essere stato perlomeno il benestare del gotha mafioso della zona che lui già allora sapeva essere molto vicino ai vertici di “Cosa Nostra”. Ancora prima che inizino le manifestazioni ufficiali per ricordare le vittime della strage di Capaci, è Manfredi Borsellino, il figlio del giudice Paolo, a esprimere tutto il dolore per una ferita che resta aperta. “Le istituzioni non fecero tutto quello che c’era da fare per salvare uno dei suoi figli migliori”, ha detto in diretta tv a Uno Mattina. E’ la prima volta che Manfredi Borsellino parla in Tv di suo padre e di quei giorni. Indossa la divisa di commissario di Polizia, e dice: “Mi onoro di portare questa divisa, sono grato a tutti gli agenti che in quelle settimane drammatiche accettarono, volontari, di scortare mio padre. Sapevano a cosa andava incontro dopo l’attentato di Capaci”. Manfredi Borsellino fa una pausa e prosegue, pesando le parole, che tornano ad essere pietre: “Questa uniforme che indosso non l’hanno invece onorata alcuni vertici della polizia in quegli anni, prima e dopo la morte di mio padre”. Oggi in tutt’ Italia si svolgono le commemorazioni organizzate dalla Polizia di Stato a partire da Palermo alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del capo della Polizia, il prefetto Lamberto Giannini, con la deposizione di una corona d’alloro nell’Ufficio scorte della caserma Lungaro, presso la lapide che ricorda i Caduti degli attentati di Capaci e via D’Amelio. Subito dopo avrà luogo la cerimonia di disvelamento della teca contenente i resti della Fiat Croma, ormai conosciuta come “Quarto Savona 15”, dal nome della sigla radio attribuita agli uomini della scorta di Giovanni Falcone. Ma il sacrificio di Falcone e Borsellino e delle loro scorte con il passare diventa sempre più solido ed indimenticato nelle anime e memorie degli italiani onesti, ed il loro ricordo sarà indelebile. Perchè Giovanni e Paolo vivono ancora, e sono sempre dentro i nostri pensieri. Non li dimenticheremo mai.
Ora capire a chi giovò la morte di Falcone. Evitando il rischio di inciampare nel complottismo e nell’illazione dobbiamo volgere lo sguardo anche dentro la cittadella delle toghe. Alberto Cisterna su Il Dubbio il 24 maggio 2021. Siamo entrati nel trentesimo anno, un tempo oggettivamente enorme. Benché la memoria non si rassegni all’ingiustizia di quel 23 maggio, in un paese normale, sarebbe giunta l’ora di cedere il passo alla storia e, soprattutto, alla politica che ne dovrebbe precedere e, quando può, orientare il corso. In Italia storici e politici restano, invece, in silenzio; avvolti nella retorica dei luoghi comuni e prigionieri di un’enfasi a tratti stucchevole; paralizzati dall’attesa che qualche magistrato, qualche pentito, qualcuno insomma dischiuda una verità processuale da poter analizzare e – come successo troppe volte – accettare supinamente, magari confezionando un libro o cimentandosi in qualche convegno. Nessuno può stabilire se, a distanza di tre decenni da Capaci, ci sia davvero la possibilità di giungere a una verità che superi il vaglio dei tre gradi di giudizio e porti a una nuova, non importa se in tutto o solo in parte diversa, narrazione di quell’evento. Sia chiaro è del tutto legittimo che si sia ipotizzato per decenni che alcuni sanguinari “viddani”, scesi da Corleone con le scarpe imbrattate di terra, non avrebbero potuto concepire un attentato di quelle proporzioni e, successivamente, attuare una stagione di stragi senza un’ispirazione altrui, senza che una mente superiore ne abbia ispirato le gesta. E’ legittimo, ma a oggi non ha trovato alcuna dimostrazione né alcun riscontro attendibile e convincente. E’ un’ipotesi, suggestiva, doverosa, ma resta una mera ipotesi, più volte sperimentata e più volte messa da parte; utile solo per alimentare teorie complottistiche e dietrologiche avvincenti, ma indimostrate. E’ vero che Riina fosse un sorta di campagnolo perfido e di profonda malvagità e questo dovrebbe dirlo soprattutto chi ha avuto la possibilità di confrontarsi con lui faccia e faccia in aula e non al riparo di fredde e asettiche videoconferenze. Ma, a ben guardare, si devono pur porre alcune domande: c’è qualcosa che distingueva in modo apprezzabile il Capo dei capi da quel Bin Laden che, con il suo Ak-47 tra le montagne afgane, è stato capace di mettere in ginocchio gli Stati Uniti con un attacco terroristico che, tuttora, impressiona gli analisti e resta un modello di irraggiungibile preparazione tecnica. O cosa segnava la differenza tra zio Totò e al-Baghdādī che, con il suo pastrano nero, ha messo in piedi una nazione autoproclamandosi a suon di massacri il califfo dello Stato islamico? E se i capi delle Br vantavano qualche studio scolastico in più e qualche lettura meno arrangiata dei corleonesi, resta lecito chiedersi cosa distingueva profondamente Riina dal Moretti dell’attacco al cuore dello Stato di via Fani con la sua “geometrica potenza”? Certo anche per Aldo Moro e per decenni si è cercato un “grande vecchio” un ispiratore, un suggeritore, un pianificatore, fino a che tutto si è estinto in un oblio, a questo punto, tanto inevitabile quanto imbarazzato. In tutti questi casi è la perfetta esecuzione del male che lascia sbigottiti e increduli. La convinzione – molto italica, ma non solo – che dietro ogni atto di violenza inaspettato ed eclatante ci debba essere altro, qualcosa di superiore che spieghi la nostra incredulità e ci assolva dalla nostra incapacità di prevedere, di anticipare, di prevenire. Ci deve per forza essere uno stratega lucido che muove esecutori e burattini, altrimenti perché ci ha colti di sorpresa. Senza scomodare per l’ennesima volta “la banalità del male”, tuttavia ci si dovrebbe rendere conto – con un certo realismo – che ogni cosa si rende possibile nella mente e nelle mani di chi abbia strumenti idonei per realizzarla, persino un genocidio affidato a modesti contabili di morte. Tutto indicava che Cosa nostra avrebbe messo mano alla vita dei magistrati, rei di averne smascherato la fragilità, anche umana. Ci sono mille ragioni per cui quelle morti erano prevedibili e le precauzioni non erano mancate, ma erano forse anche inevitabili alla luce delle enormi disponibilità militari dei corleonesi a quel tempo. Attentati come quello di Capaci sono avvenuti, a centinaia, nel mondo, eseguiti da gruppi paramilitari, fanatici islamisti, separatisti di ogni genere, trafficanti di droga, mafiosi di ogni risma semplicemente perché è stato possibile eseguirli e perché si è ritenuto fosse utile portarli a compimento con modalità così eclatanti, terroristiche appunto. Il 20 dicembre 1973 il presidente del governo franchista, Carrero Blanco, e la sua scorta vennero uccisi con una carica di esplosivo posta sotto il piano stradale che lanciò la sua macchina in aria a un’altezza di oltre 30 metri facendola atterrare sulla terrazza di un palazzo. Venti anni prima di Capaci, i separatisti baschi dell’Eta avevano consumato un attentato che tanto somiglia, per la sua eclatante violenza, alla strage di Giovanni Falcone. Un attentato tra le dozzine che potrebbero contarsi in una lunga scia di morte. Occorre ammettere le proprie fragilità e la propria impotenza di fronte a un male incontenibile e senza farsi scudo di livelli di potere inesplorati e, al momento, risultati inesistenti. La storia e la politica, si diceva. Entrambe chiamate al compito più importante, dopo tanto tempo, ossia quello di accertare quale sia stato il contesto politico e istituzionale che ha reso possibile l’azione stragista di Cosa nostra. Stabilire con precisione quali siano state le fratture che – soprattutto all’interno della magistratura – hanno segnato l’irreversibile isolamento di Falcone. Verificare quale sia stato l’effettivo contenuto e l’effettiva matrice delle prese di posizione che furono alla base della sua bocciatura come consigliere istruttore a Palermo, della sua mancata elezione al Csm, della sua certa soccombenza nella corsa alla Superprocura antimafia, destinata a vedere vincitore, in quel 1992, un uomo di assoluto valore come Agostino Cordova, un magistrato che aveva fatto dell’attacco alla massoneria deviata e ai connessi gangli illegali la cifra del proprio impegno investigativo. Spiegare se sia vero che proprio l’omicidio di Giovanni Falcone sbarrò la strada – per un inevitabile contrappasso politico – al procuratore Cordova verso i vertici dell’antimafia italiana, capovolgendone le sorti. Se sia possibile che, con una sola azione, interessi diversi, operanti per ragioni diverse e mossi da intenti diversi abbiano saputo profittare di un contesto per liberarsi di toghe scomode, massimamente invise ai propri stessi colleghi. Ci sono questioni, com’é evidente, che vanno oltre la pur indefettibile individuazione in sede giudiziaria dei responsabili della strage; c’è la necessità di mappare il clima politico e istituzionale dentro e intorno la magistratura italiana in quel periodo (e che ha ben descritto Maria Antonietta Calabrò sull’ Huffington Post del 23 scorso).Un contesto che, tra la Tangentopoli milanese e lo stragismo palermitano, ha profondamente modificato il ruolo della magistratura italiana nel rapporto con gli altri poteri dello Stato e all’interno della collettività nazionale. Una società, in cui lo sdegno e la rabbia per le stragi del 1992, hanno alimentato e sorretto in modo decisivo l’azione di contrasto alla corruzione. Senza Capaci, probabilmente, l’azione della magistratura milanese nel 1992 non avrebbe avuto il sostegno, in certi casi la tolleranza e comunque la condivisione di strati maggioritari della società italiana e dei mass media nazionali e un ceto politico, probabilmente, sarebbe sopravvissuto al crollo. Non sembrano in grado oggi le aule di giustizia di dare una risposta a questi interrogativi perché è sempre in agguato il rischio di mettere da parte le prove e di inciampare nelle illazioni e nelle supposizioni. E’ indispensabile un approccio laico, freddo, oggettivo che possa volgere lo sguardo anche entro le mura della cittadella delle toghe italiane di quel tempo e degli anni a venire e scrutarne le liaison politiche rese manifeste poi da incarichi e nomine di ogni tipo. Per stabilire quali gruppi e quali ceti abbiano tratto veramente vantaggio dalla decapitazione per mano mafiosa, posto che i Corleonesi hanno perso, sono morti e moriranno ancora in cella
Le rivelazioni dell'ex pm. L’accusa di Ingroia: “Per Borsellino "Pignatone o Lo Forte non dicevano verità" e temeva per il dossier mafia-appalti”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Maggio 2021. «Borsellino aveva l’impressione che alla Procura di Palermo stessero insabbiando il dossier mafia-appalti». È una accusa molto grave, evidentemente. Anche se su questo giornale abbiamo in varie occasioni prospettato proprio questa ipotesi. E tra qualche riga proveremo a spiegarvi perché si tratta di un’ipotesi che ha molte conseguenze e può essere utilissima per capire che cosa successe davvero nel biennio del sangue ‘92-’93 in Sicilia e in Italia, e su come si mosse la mafia, e su quali fossero le sue relazioni esterne. Ma la cosa più importante è l’identità di chi ieri ha lanciato questa accusa. È stato Antonio Ingroia, l’ex Pm che avviò il processo Stato-mafia e che, da giovane, fu vicinissimo a Paolo Borsellino. Certamente, tra tutti i magistrati e gli avvocati palermitani, Antonio Ingroia è stato quello più vicino a Paolo Borsellino e quello che aveva maggiore confidenza con lui. Borsellino lo considerava il suo figlioccio. Si frequentarono in particolare nel 1991, quando Borsellino stava a Marsala e Ingroia anche. Avevano i loro appartamenti sullo stesso pianerottolo. Borsellino era molto famoso, perché era stato insieme a Falcone protagonista del maxiprocesso alla mafia. Ingroia era poco più che un ragazzetto, aveva 31 anni e stava imparando il mestiere. Quando l’anno dopo Borsellino tornò a Palermo, Ingroia lo seguì. Ieri Ingroia è stato ascoltato dalla commissione regionale Antimafia, presieduta da Claudio Fava. Ha fatto tre affermazioni nette che assomigliano a tre bombe atomiche. La prima è quella che abbiamo scritto all’inizio di questo pezzo, e cioè la paura di Borsellino che “Palermo volesse insabbiare il dossier”. La seconda, forse ancora più inquietante, è che Borsellino, quando a Palermo si discusse di lotta alla mafia in un vertice convocato dal procuratore Giammanco nel luglio del 1992, e quando – nel corso della discussione – sollevò la questione del dossier mafia-appalti, non era stato informato che i Pm Scarpinato e Lo Forte avevano già firmato la richiesta informale di archiviazione del dossier. La terza affermazione inaspettata riguarda la palese sfiducia di Borsellino verso la Procura di Palermo (altre testimonianze sostengono che la definì “nido di vipere”) tanto che confidò a Ingroia che “i Pm di Palermo, non ricordo se Lo Forte o Pignatone, non gli raccontavano la verità”. Ingroia è stato interrogato dall’antimafia a proposito del depistaggio delle indagini sull’omicidio Borsellino. E ha sostenuto che il depistaggio – realizzato con la falsa testimonianza e la falsa autoaccusa del presunto pentito Vincenzo Scarantino, forse “imbeccato” da uomini dello Stato – avvenne per una ragione molto semplice: far risultare che l’uccisione di Borsellino e lo sterminio della sua scorta era dovuto solo alla volontà di vendetta della mafia per il maxiprocesso vinto da Borsellino e Falcone. E invece… Invece non era così, secondo Ingroia. Da qui il discorso si è spostato sul dossier mafia-appalti. E quindi è balenata l’ipotesi che la vera ragione dell’uccisione di Borsellino fosse quella: fermare la sua indagine sul dossier. Cosa c’era in questo dossier, raccolto dai Ros guidati dal colonnello Mario Mori, su input di Giovanni Falcone? C’erano tutti i rapporti tra i corleonesi e alcune imprese del Nord. Falcone teneva molto a questo dossier. E l’aveva anche scritto nel suo diario che questo dossier era importante. Ingroia ha raccontato che Borsellino restò stupefatto quando seppe dei diari di Falcone, perché – disse – Falcone aveva sempre detto che lui non avrebbe mai tenuto un diario. E dunque – disse ancora Borsellino a Ingroia – “se Giovanni ha iniziato a tenere un’agenda vuol dire che doveva scriverci cose gravi”. Da questa osservazione, secondo Ingroia, iniziò l’interesse di Borsellino per l’indagine sviluppata dal colonnello Mori e dal capitano De Donno. E infatti Borsellino volle incontrare Mori, e lo incontrò il 25 giugno del 1992 ma gli chiese di non vedersi in Procura bensì alla caserma dei carabinieri. E così fu. Borsellino spiegò a Mori che non si fidava della Procura di Palermo. Capite bene quale fosse il clima in quegli anni e in quei mesi terribili. Subito dopo ci fu la riunione col Procuratore Giammanco e con tutti i sostituti, che si tenne il 14 luglio, e durante la quale nessuno informò Borsellino che il dossier stava per essere archiviato. Borsellino, ignorando questo “dettaglio”, chiese che sul dossier si tenesse una riunione ad hoc. Gli dissero di sì. Così, pro forma. E ingannandolo. La riunione, ovviamente, non si tenne mai, anche perché cinque giorni dopo, il 19 luglio, Borsellino fu ucciso. E la settimana successiva fu firmata formalmente la richiesta di archiviazione. Che fu accolta in fretta e furia il 14 agosto, cioè il giorno prima di Ferragosto che, per la prima volta in tutta la storia della Procura di Palermo, fu giorno lavorativo. Proprio perché – sembra – c’era l’urgenza di porre la parola fine alla indagine di Mori. Naturalmente questa testimonianza di Ingroia, che viene poche settimane dopo l’audizione di Antonio Di Pietro, cambia un po’ tutto lo scenario. Anche Di Pietro, a quel che si sa, nel corso dell’audizione in antimafia ha raccontato una storia molto simile a quella raccontata da Ingroia. Ha spiegato che lui era molto interessato a quel dossier, perché anche lui, dal versante Nord, stava indagando su mafia e appalti e aveva avuto uno scambio di idee (una convergenza di idee) con Borsellino. Capite bene che a questo punto prende piede l’ipotesi che Borsellino fu ucciso per il dossier Mori. E forse la sua insistenza per potersene occupare personalmente (ribadita alla riunione dei Pm del 14 luglio) affrettò l’esecuzione. Ipotesi che potrebbe essere in contrasto con quella che invece è alla base del processo in corso a Palermo (alla Corte d’appello) sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, dove si sostiene che Borsellino sia stato ucciso perché ostacolava l’ipotetica trattativa. Le due tesi sono in rotta di collisione soprattutto per un dettaglio: Borsellino voleva lavorare sugli elementi raccolti dal colonnello Mori. Il processo di Palermo, invece, vede sul banco degli accusati proprio il colonnello (oggi generale) Mori. Cioè l’uomo che ha arrestato Salvatore Riina.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Falcone e Borsellino hanno detto: «Salvo Lima è stato ucciso per il dossier mafia-appalti». In un verbale inedito di sommarie informazioni del 7 dicembre 1992, l’allora sostituto procuratore Vittorio Teresi, fino a poco tempo fa pm della cosiddetta Trattativa, ha rivelato il pensiero di Falcone e Borsellino: Lima e il maresciallo Guazzelli sono stati uccisi per aver rifiutato di far attenuare le posizioni degli indagati su mafia-appalti. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 27 maggio 2021. È il 12 marzo del 1992, l’europarlamentare democristiano Salvo Lima, leader della corrente capitanata da Giulio Andreotti, viene ucciso dalla mafia a Mondello, località balneare in prossimità di Palermo. Al momento dell’agguato si trovava in compagnia di altre due persone, il professor Alfredo Li Vecchi e il dottor Leonardo Liggio, a bordo di una Opel Vectra. Subito dopo essere partiti ed aver percorso un breve tragitto, l’autovettura viene affiancata da una moto di grossa cilindrata con due persone a bordo, una delle quali esplode diversi colpi d’arma da fuoco, inducendo Li Vecchi, che si trova alla guida, a bloccare la vettura. Nel contempo Lima gridava “Stanno ritornando “e tutti e tre gli occupanti si precipitavano fuori dall’abitacolo in cerca di scampo, dirigendosi in senso opposto a quello di marcia dell’autovettura, cioè verso l’Addaura. Li Vecchi e Liggio avevano trovato riparo dietro il cassonetto della spazzatura e si erano accorti che Lima era disteso a terra, bocconi e privo di vita.
Un omicidio ordinato da Totò Riina. Parliamo di un omicidio commesso, per ordine di Totò Riina e di altri componenti della Cupola, dai mafiosi poi diventati pentiti, Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante. Un omicidio che, di fatto, ha aperto la stagione stragista. Si è sempre detto, come si legge in sentenza, che la casuale del delitto sarebbe consistita nella delusa aspettativa di un esito favorevole del maxiprocesso da parte della Corte di Cassazione con la sentenza del 30 gennaio ‘92, nonostante l’impegno che avrebbe assunto Salvo Lima per una più favorevole definizione. In realtà c’era chi intravvedeva qualcos’altro. In una vecchia intervista rilasciata al Corriere della sera, l’allora procuratore nazionale antimafia Piero Grasso disse qualcosa di più e che assieme al verbale inedito, che Il Dubbio ha potuto visionare, potrebbe cambiare la versione dei fatti e rafforzare ancora una volta la pista del dossier mafia-appalti: causale di tutta la stagione stragista.
Pietro Grasso: Falcone e Borsellino erano nemici da bloccare. «Certamente Falcone, come Borsellino, erano dei nemici da bloccare per quello che potevano continuare a fare. Ma l’attentato di Capaci, per le modalità non usuali per Cosa Nostra, fu anche un messaggio di tipo terroristico non tanto eversivo quanto conservativo per frenare le spinte che venivano fuori da Tangentopoli contro una politica che era in crisi». Queste sono state le valutazioni dell’allora procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. «Per noi è lacerante intuire ma non potere ancora dimostrare – ha affermato Grasso – che la strategia stragista sia iniziata prima di Capaci e cioè con l’omicidio Lima. È lì che scattò un segnale, per cui lo stesso Falcone mi disse “Adesso può succedere di tutto”».
Falcone e Borsellino avevano capito che l’omicidio di Lima era legato a mafia-appalti. Ma Falcone cosa pensava? Ora sappiamo che sia lui che Borsellino avevano capito che quell’omicidio – e non solo quello – era scaturito dal rifiuto di Lima di intervenire presso la Procura di Palermo, in merito al procedimento nato dal dossier mafia- appalti, che era stato elaborato su impulso di Falcone stesso dai Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno. A rivelarlo è stato l’allora sostituto procuratore Vittorio Teresi, molti anni dopo conosciuto come uno dei pm del processo sulla presunta Trattativa Stato-mafia. Parliamo di un verbale di assunzione di informazione del 7 dicembre 1992, in cui viene sentito dal pubblico ministero Fausto Cardella della procura di Caltanissetta. Il verbale è stato di recente acquisito dalla Corte d’Appello di Palermo per il processo Trattativa oramai alle battute finali.
Anche al maresciallo Guazzelli era stato chiesto di attenuare le indagini. «Insieme a Paolo Borsellino, seguivo le indagini relative all’omicidio del Maresciallo Guazzelli – racconta Teresi innanzi al Pm di Caltanissetta-; a questo proposito riferisco di quanto ho appreso da Paolo Borsellino: il maresciallo Guazzelli sarebbe stato il referente dei Ros e in particolare del generale Subranni nella provincia di Agrigento. Per questa sua qualità il maresciallo sarebbe stato un giorno avvicinato da Siino Angelo e da Cascio Rosario, nei confronti dei quali il Ros stava sviluppando un’indagine, al fine di indurlo ad attenuare la loro posizione nell’inchiesta». Teresi prosegue: «Il maresciallo Guazzelli non solo avrebbe rifiutato di interporre suoi buoni uffici presso il Ros, ma addirittura avrebbe trattato in così malo modo il Siino e il Cascio, che il primo, uscito dalla casa del Guazzelli, si sarebbe sentito male». Ed ecco che Teresi spiega cosa gli raccontò Borsellino, ovvero che «andato a vuoto questo primo tentativo, il Siino si sarebbe rivolto all’onorevole Lima affinché questi intervenisse sul Procuratore Giammanco tramite l’onorevole D’Acquisto al medesimo fine». Non solo. «Borsellino – continua Teresi – però aggiunse di aver commentato queste notizie con Giovanni Falcone e che anche lui riteneva possibile che potessero avere una rilevanza, non solo ai fini della spiegazione dell’omicidio Guazzelli ma anche di quello dell’onorevole Lima». Sintetizza Teresi innanzi al Pm di Caltanissetta il 7 dicembre 1992: «In sostanza secondo l’opinione concorde di Paolo e Giovanni, l’onorevole Lima non sarebbe stato in grado o, peggio, non avrebbe voluto influire sulla Procura di Palermo per alleggerire la posizione di Siino (tant’è che questi fu arrestato)».
L’informativa mafia-appalti fu illecitamente divulgata. Come ha scritto l’allora gip Gilda Loforti nella sua ordinanza di archiviazione del 2000, «risulta assolutamente certo che l’informativa del febbraio del 1991, denominata “mafia-appalti”, fu illecitamente divulgata prima della emissione dei provvedimenti restrittivi». Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire – e ora sappiamo che secondo Falcone e Borsellino sarebbe stato ucciso da Cosa Nostra per la questione del procedimento mafia-appalti – fu l’andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché – su esplicita richiesta – rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, ritenuto dai Ros uno degli anelli di congiunzione tra mafia e imprenditoria. Quindi, come noto, seguirono le stragi di Capaci e di Via D’Amelio.
Riina intercettato al 41 bis: «Ho ucciso Falcone anche per questo». Come sappiamo, Falcone esplicitò l’importanza del dossier mafia-appalti sul coinvolgimento delle imprese dell’Italia del Nord. Anticipò tangentopoli, ma con la terza gamba mafiosa, durante il convegno del 15 marzo 1991, provocando la reazione dei fratelli Buscemi che dissero «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare»: parliamo degli imprenditori mafiosi, prestanomi di Totò Riina che volevano impossessarsi delle imprese nazionali. Totò Riina lo dice chiaramente nelle famose intercettazioni del 2013 di quando era al 41 bis. Ne parla con il suo compagno d’ora d’aria Lorusso. Si riferisce a Falcone e del perché aveva ordinato l’attentato. È un passaggio della trascrizione “colloquio area passeggio” del 28 settembre 2013. «Fu un colpo veramente che … Minchia Salvatore te l’ha combinata …. Salvatore …», e poi aggiunge: «Salvatore … il piccolo cosi…si è messo a fare… ride … Minchia si è messo a fare … se sapevo fare il costruttore (imprenditore, ndr). Ti chiudo là dentro … anche per questo è successo, è successo … è successo». Totò Riina, per dire che è accaduto perché Falcone lo ha definito un imprenditore, l’ha ripetuto per ben tre volte. Per quello è successo, è successo, è successo.
Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 23 maggio 2021. In un armadio blindato del palazzo di giustizia ci sono 164 Dvd che custodiscono una voce cavernosa, ottusa, minacciosa. Una voce che racconta di omicidi e stragi che hanno insanguinato la Sicilia negli anni Ottanta e Novanta. Ma questa non è solo una storia siciliana. La voce registrata in quei file parla dei segreti e delle complicità della mafia nel cuore dello Stato. E di talpe che avrebbero favorito le stragi Falcone e Borsellino. Parla anche dei rapporti di alcuni mafiosi con uomini dei Servizi. Quella voce sussurra soprattutto un movente segreto per la strage Falcone. Ventinove anni dopo l'attentato di Capaci, abbiamo ripercorso i 164 file. Non contengono le parole di un pentito, ma quelle di un irriducibile: Salvatore Riina, il contadino semianalfabeta di Corleone che negli anni Ottanta divenne il capo di una delle più potenti organizzazioni criminali del mondo, Cosa nostra. È morto la notte del 17 novembre 2017, nel reparto detenuti dell'ospedale di Parma: aveva 87 anni, era in carcere dal 15 gennaio 1993, ma non aveva mai smesso di essere il capo dei capi. Anche se non aveva più eserciti di killer a disposizione. Il potere di Salvatore Riina detto u curtu è rimasto nei segreti inconfessabili che custodiva: negli ultimi anni lanciava messaggi sibillini. In ogni occasione che poteva. Cercava di ricattare ancora. Un giorno, mentre lo stavano portando al processo "Trattativa" disse a due agenti: «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me». "Loro", gli uomini dello Stato. Eppure, in aula non aveva mai voluto dire una sola parola. Quella strana voglia di esternazioni incuriosì i pm Di Matteo, Tartaglia, Del Bene e Teresi, che decisero di intercettarlo durante gli incontri con il compagno dell'ora d'aria, Alberto Lorusso, boss della Sacra Corona Unita. Parlavano tanto nel carcere milanese di Opera. Così sono nati i Riina file: sono le intercettazioni, anche video, fatte dalla Dia di Palermo fra il 4 agosto e il 18 novembre 2013. Le trascrizioni di quei dialoghi sono in 1350 pagine. Le abbiamo ripercorse una per una. E sono riemersi alcuni spunti interessanti. Il 6 agosto, Riina parla dell'attentato a Falcone. Si vanta: «Abbiamo incominciato a sorvegliare, andare e venire da lì, aeroporto, cose abbiamo provato a tinghitè (in abbondanza - ndr ), siamo andati a Roma, non ci andava nessuno. Non è a Palermo fammi sapere quando arriva in questi giorni qua». L'intercettazione è disturbata, alcune parole non si riescono a comprendere. «Andammo a tentoni - prosegue il padrino - fammi sapere quando prende l'aereo». Chi fece sapere al commando di Riina quando Falcone avrebbe preso all'aeroporto romano di Ciampino il volo di Stato per Palermo? Nessun pentito ha saputo dirlo. A sentire il capo dei capi all'ora d'aria, i mafiosi avrebbero potuto contare anche su un'altra talpa eccellente, per l'attentato a Borsellino. «Poi subito pronti, all'erta per la seconda 57 giorni dopo, la notizia l'hanno trovata là dentro, domenica deve andare da sua madre». Dove l'avevano "trovata" la notizia? Riina ribadisce di non essere stato il pupo di nessuno. «Io ho fatto sempre l'uomo d'onore, la persona seria» (4 settembre). Lo sottolinea soprattutto per l'esecuzione della strage Borsellino. Rivendica l'attentato, ma prende le distanze da quello che accadde poco dopo. «I servizi segreti gliel'hanno presa l'agenda rossa» (4 ottobre). L'agenda dove Borsellino avrebbe forse annotato le sue scoperte sulla trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia. Riina prende le distanze, ma poi getta un'ombra sui suoi più stretti collaboratori, i Madonia: «Erano confidenti dei servizi segreti Non è che erano spioni, erano in contatto con uno dei servizi». Il 6 agosto dice: «C'è stata guerra e pace Salvatore Riina l'autore». Poi, all'improvviso, cita una frase di Salvatore Cancemi, un tempo componente della Cupola: «Dice: "Che dobbiamo inventare che la morte di Falcone." Gli ho detto: "Che ci devi inventare?". Lui ha detto: "Se lo sanno, la cosa è finita, non dobbiamo discutere, non c'è niente da discutere" ». Quale segreto sul movente della strage Falcone doveva essere nascosto? Cancemi è stato un collaboratore di giustizia, ma non ne ha mai parlato. A cosa si riferiva Riina? Quelle intercettazioni vanno riascoltate ancora.
"Contro Falcone si saldarono magistratura e Cosa nostra". Felice Manti il 5 Giugno 2022 su Il Giornale.
L'ex Guardasigilli Martelli: "Per le toghe Giovanni era un nemico, mi dimisi perché ormai ero rimasto solo".
«Contro Giovanni Falcone c'è stata un'azione parallela di Cosa nostra e della magistratura. La mafia aveva occhi e orecchie al Palazzo di Giustizia di Palermo. Parlando con il giornalista Francesco La Licata una volta il giudice gli disse, a proposito dell'attentato fallito all'Addaura: C'è stata la saldatura». Claudio Martelli ha scritto un bellissimo libro per ricostruire la vita del giudice antimafia morto a Capaci 30 anni fa. Si intitola Vita e persecuzione di Giovanni Falcone, e dalle prime pagine è chiaro dove l'allora Guardasigilli andrà a parare: il ruolo della Dc e del Pci-Pds, le toghe di sinistra e di destra infine la «tacita trattativa» che coinvolge Oscar Luigi Scalfaro ma anche il ruolo di Giulio Andreotti, di cui è stato vice presidente, i possibili mandanti esterni («Anche Bettino Craxi si chiedeva: è stata solo la mafia?») e il ruolo della 'ndrangheta che Falcone «pensava fosse affiliata a Cosa Nostra».
Nel libro lei rivendica le azioni del governo Andreotti contro la mafia: il 41 bis, i premi ai pentiti e i programmi di protezione...
«Io ero vicepresidente e ministro della Giustizia, Enzo Scotti era ministro dell'Interno. Certamente Andreotti non ha mai ostacolato le nostre scelte, ma attribuirle a lui mi sembra un salto logico. E questo collima con la sentenza della Cassazione, quando dice che fino al 1980 Andreotti aveva rapporti più che amichevoli con Cosa nostra, mediati dai cugini Salvo».
Il suo ruolo di Guardasigilli restò in ballo fino alla fine, poi lei si dimise qualche mese dopo.
«Enzo Scotti viene estromesso dal Viminale e va agli Esteri (al suo posto verrà scelto Nicola Mancino), il presidente del Consiglio incaricato Giuliano Amato mi dice Craxi non ti vuole alla Giustizia, vai alla Difesa. Io gli dico Hanno ucciso Falcone, con lui ho cominciato una battaglia, o la continuo o me ne vado. Amato mi richiama e mi dice Craxi ha detto che i tuoi sono buoni argomenti».
E viene confermato. Poi si dimetterà qualche mese dopo...
«Sul fronte antimafia, massacrato Falcone, estromesso Scotti mi ritrovai solo. Mancino mi chiede tempo per difendere il decreto Falcone su 41 bis, una misura preventiva, non punitiva per impedire che i boss mafiosi spadroneggiassero in carcere».
Erano contrari tanti partiti
«Non c'era voglia di fare la guerra alla mafia. Dc e Pds definirono il decreto incostituzionale. Ma dopo la strage di via d'Amelio non hanno più argomenti. Io ottengo l'approvazione, ma se non ricordo male il Pds si astenne».
Per le toghe Falcone era un nemico. Perché?
«È una domanda che mi tormenta da 30 anni. Solite beghe? Invidie? Gelosie? Dicevano che era affetto da smanie di protagonismo eppure aveva appena vinto il processo contro Cosa Nostra, Antonino Caponnetto lo considerava il suo erede naturale, aveva ricevuto encomi da Bush, dal ministero della Giustizia Usa e dall'Fbi che poi gli dedicò una statua. Una volta un giudice canadese lo invitò a presiedere un processo, dicendo se in un'aula giudiziaria c'è Falcone, il suo posto è alla presidenza. Era il giudice antimafia più famoso al mondo».
Eppure il Csm per il dopo Caponnetto sceglie Antonino Meli...
«Meli fu scelto proprio per distruggere l'opera di Falcone. Con lui degradato, il pool sciolto e il maxi processo contestato, il Pci-Pds si mise di traverso contro di lui, ben prima che venisse a lavorare per me. Gerardo Chiaromonte, allora presidente della commissione Antimafia, ricorda che dopo il fallito attentato all'Addaura esponenti della Dc e del Pci vicini al sindaco Leoluca Orlando lo deridevano dicendo che se l'era organizzato da solo».
E la risposta che si è dato qual è?
«I magistrati coraggiosi venivano trucidati, il resto della magistratura siciliana non aveva alcuna voglia di muovere guerra alla mafia. Paura, connivenza, quieto vivere?».
Ci fu una tacita trattativa, come scrisse la Dia dopo il black out a Palazzo Chigi e le bombe a Roma nel luglio 1993? E chi la guidò?
«Credo che Scalfaro di fronte alla tacita trattativa proposta dalla mafia a suon di bombe - sono parole di Gianni de Gennaro e il governo con Conso alla Giustizia si siano illusi di placare i boss di Cosa Nostra, nell'intento lodevole di evitare nuove stragi. Invece la successione storica dei fatti dice che i cedimenti sul 41 bis non hanno evitato le stragi del 1993: gli attentati a Maurizio Costanzo, via Palestro a Milano, via dei Georgofili a Firenze, i due attentati di Roma e l'ultimo, quello fallito allo stadio Olimpico».
E il processo sulla Trattativa?
«La trattativa di governo c'è stata ma non è reato, piuttosto un colossale errore politico che ha prodotto nuove stragi. Anche i vertici del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno con il loro colloquiare con Vito Ciancimino (lo dichiarò lo stesso Mori a Firenze) volevano fermare le stragi. Ma anche questo non è reato. La Corte d'Appello ha giustamente annullato le condanne».
A Capaci cosa provò?
«L'ho detto, è stato il giorno più brutto della mia vita. Falcone era il miglior magistrato che avessimo ed era mio amico. Il mio stato d'animo? Un dolore e un ira indicibili, il mio dovere quello di reagire per trasformarlo nel giorno più brutto della mafia».
C'è un particolare curioso. Lei scrive: «È stato Sergio Restelli, capo della mia segreteria, con me sul luogo dell'attentato a scorgere i mozziconi, ad avere l'intuizione e a prenderli».
«Sì, Sergio ha avuto l'intuizione, come un cane da fiuto. Abbiamo chiamato i poliziotti che ci accompagnavano, li hanno raccolti e li abbiamo dati all'Fbi che era già sul posto, perché loro sapevano fare le indagini sul Dna. Hanno individuato loro gli assassini».
Il 16 dicembre 1991 Falcone incontrò segretamente in carcere a Spoleto, su disposizione del suo capo di gabinetto Livia Pomodoro, Gaspare Mutolo. Cosa le disse Falcone di quell'incontro?
«Dubito che Falcone stando al governo compisse indagini, era troppo corretto per farlo. Mutolo aveva detto che parlava solo con Falcone, forse lui l'avrà indirizzato a Borsellino».
Perché non avvisare la magistratura? Falcone non si fidava di qualcuno al ministero della Giustizia?
«Non credo, ma non lo so».
Al processo della strage di Capaci lei disse che Falcone voleva incontrare Buscetta dopo l'omicidio di Salvo Lima. Il viaggio negli Usa smentito dal ministero, ci fu?
«Bisogna stare molto attenti agli scatti di immaginazione».
Il suo telefono era irraggiungibile
«Ma chi lo dice? Su quali basi verificate? È molto strano che nessuno di noi lo sapesse. Se fosse andato a interrogare qualcuno credo che non me l'avrebbe tenuto nascosto, per i rapporti che avevamo».
Nel libro L'Italia vista dalla Cia si parla di un dispaccio confidenziale dell'ambasciata Usa di Roma su un incontro con lei in cui si dice che lei stesso avrebbe inviato Liliana Ferraro a Palermo per gestire il passaggio dell'intera indagine nelle mani di Paolo Borsellino, incontro confermato dalla famosa agenda grigia.
«Mi sembra una colossale bufala. Io non ho mai incaricato la Ferraro di qualcosa di assurdo: andare a Palermo per incaricare Borsellino di indagini di competenza della procura di Caltanisetta».
Lo dice il dispaccio Usa
«Vorrei proprio vederlo... Sui rapporti tra Falcone e gli Usa la invito a leggere il libro di uno stretto collaboratore di Falcone, Gian Nicola Sinisi, A sicilian patriot. Di questa notizia non c'è traccia. Borsellino poteva collaborare con Caltanissetta, cosa che sicuramente avrà fatto».
Che ne pensa della fantomatica pista su Stefano Delle Chiaie?
«Sulla strage di Capaci c'è una verità giudiziaria che non è stata mai smentita, né sui mandanti né sugli esecutori, alcuni dei quali rei confessi. Mi fido di quello che dice il procuratore di Caltanissetta. Bisogna spazzare via i polveroni, gli strilloni e le invenzioni».
I CORVI CON LE TOGHE PROTETTE DALL’ANONIMATO. Claudio Martelli, ex ministro di Giustizia, su Il Corriere del Giorno il 23 Maggio 2021. “I corvi con le toghe gli rovesciarono addosso calunnie infamanti protetti dall’anonimato. L’ANM lo aveva bocciato quando si candidò per il CSM. Il suo capo, Gianmanco, gli sottraeva le inchieste più importanti. L’allora – e tuttora – sindaco di Palermo giunse a denunciarlo al CSM perché “tiene nascosti nei cassetti della Procura i nomi dei mandanti politici dei più gravi delitti di mafia”. Adesso è facile celebrare Falcone. Invece non era affatto facile essergli amici quando nel 1991 lo invitai a venire a Roma a lavorare con me al Ministero della Giustizia. Gli offrii l’incarico più importante perché ne avevo grande stima e sapevo che in Sicilia non poteva più lavorare. Molti colleghi, prima di destra poi di sinistra, si dedicavano a denigrarlo, chi per invidia chi per loschi traffici. I giornalisti più accecati dalla faziosità rincaravano e dilatavano i sospetti. Cosa Nostra con la complicità di poliziotti e agenti dei servizi gli organizzò un attentato in casa e colleghi e giornalisti insinuarono che se l’era preparato da solo per farsi pubblicità. I corvi con le toghe gli rovesciarono addosso calunnie infamanti protetti dall’anonimato. Il CSM aveva respinto tutte le sue aspirazioni: ad assumere la guida dell’Ufficio Istruzione e poi della Procura di Palermo. La Suprema Corte di Cassazione aveva bocciato l’assunto fondamentale dei suoi processi e cioè che la mafia avesse una struttura unitaria e gerarchica, insomma una “cupola” di comando. L’ANM lo aveva bocciato quando si candidò per il CSM. Il suo capo, Gianmanco, gli sottraeva le inchieste più importanti. L’allora – e tuttora – sindaco di Palermo giunse a denunciarlo al CSM perché “tiene nascosti nei cassetti della Procura i nomi dei mandanti politici dei più gravi delitti di mafia”. E il CSM lo sottopose a un interrogatorio umiliante. Gli attacchi del fuoco amico non cessarono quando divenne Direttore degli Affari Penali, anzi, l’accanimento del PCI contro di lui si fece ancora più aspro, delegittimandolo come “un magistrato che ha perso la sua indipendenza vendendosi ai socialisti e a Martelli”. Ma a Roma almeno poteva lavorare protetto dalla stima del Presidente della Repubblica, del Ministro della Giustizia, e del Ministro degli Interni, Scotti e di tanti collaboratori ed estimatori. Capì che facevo sul serio e che dal Ministero potevamo attuare il disegno che insieme avevamo concepito: trasformare in leggi la sua ineguagliata esperienza di contrasto alla mafia. Così varammo norme inedite di cooperazione tra tutti gli organi dello Stato – Governo, magistratura, Forze di polizia – dando vita a norme nuove e a nuovi e più efficaci strumenti di contrasto al crimine organizzato. A cominciare dalla Procura Nazionale Antimafia che doveva coordinare l’impegno delle varie procure distrettuali, supplire alle loro eventuali carenze, dirimere le loro dispute. Quelli che allora lo denigravano oggi gli attribuiscono anche il merito della Super Procura. Un eccesso di lode se non frutto di ignoranza insincero e sospetto. Non fu Falcone a concepirla. Era una vecchia proposta del senatore Valiani che io ripresi dalle sue carte dimenticate, aggiornai e trasformai in legge. Falcone ne fu felice, ancor più sapendo che per quel compito nuovo volevo lui.
Luciano Violante. Ieri Luciano Violante non ha fatto autocritica per l’avversione di trenta anni fa, però l’ha ammessa attribuendola però “a tutta la sinistra”. Prima di tutto questa non sarebbe una scusante, in secondo luogo Violante dimostra ancora una volta di perdere il pelo ma non il vizio: se socialisti, radicali, repubblicani erano d’accordo su Falcone vuol dire che ad essere contraria non era tutta la sinistra, ma i comunisti (e nemmeno tutti basti pensare a Chiaromonte) e in particolare proprio Violante, maestro di ipocrisia e doppie verità.
Ecco il “gioco grande” nel quale era entrato Giovanni Falcone. La Corte di Caltanissetta, nella sentenza Capaci bis, ha individuato una sinergia che «si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Giovanni Falcone». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 22 maggio 2021. Giovanni Falcone ha spiegato molto bene perché in Sicilia si viene uccisi dalla mafia. Il riferimento è agli omicidi eccellenti, quelli che definiva di “terzo livello”, ma che non ha nulla a che vedere con la narrazione distorta che gli continuano, senza pudore, ad affibbiare. La mafia corleonese non era quella con la coppola in testa, Totò Riina non era un contadinotto. Non a caso, nel suo ultimo libro, Cose di Cosa Nostra, scritto a quattro mani con Marcelle Padovani, scrive quanto siano «abili, decisi, intelligenti i mafiosi» e, aggiunge, «quanta capacità e professionalità è necessaria per contrastare la violenza mafiosa». Falcone, professionale lo era. Una mente che Totò Riina ha voluto sopprimere con un’azione eclatante e che ha rivendicato in segreto, parlandone a più riprese con il suo compagno d’ora d’aria al chiuso del 41 bis. Ma qual è il “gioco grande” che tanto viene tirato in ballo, travisando il significato molto più profondo che Falcone gli dava? Lui stesso, scrive nero su bianco nel libro Cose di cosa nostra, che gli uomini come Mattarella, Reina e La Torre erano rimasti isolati a causa delle battaglie politiche in cui erano impegnati. «Il condizionamento dell’ambiente siciliano – scrive Falcone -, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto». Più avanti diventa esplicito. Dice che si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un «gioco troppo grande». Quale? Non bisogna andare troppo lontano, ma molto più vicino di quanto uno pensi ed è talmente sconvolgente che mai nessun servizio televisivo ne parla nonostante sia agli atti.
La sentenza della sentenza Capaci bis. Ci viene in aiuto la motivazione della sentenza Capaci Bis depositata nel 2017. Il “gioco troppo grande” è stato individuato dalla Corte di Caltanissetta in una sinergia che «si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Giovanni Falcone». Ed ecco che si arriva al movente che singolarmente viene continuamente insabbiato da presunte “inchieste” televisive: «Alla base di questa campagna di delegittimazione – scrive la Corte – vi era una precisa consapevolezza del pericolo che l’attività di Giovanni Falcone rappresentava non solo per “Cosa nostra”, ma anche per una molteplicità di ambienti economico-politici abituati a stabilire rapporti di reciproco tornaconto con l’organizzazione criminale, a partire dal settore degli appalti e delle forniture pubbliche».
Ha osservato che le connessioni fra una politica affarista e una criminalità mafiosa. Lo stesso Falcone, sempre tramite i suoi scritti, ha considerato che la ricchezza crescente di Cosa nostra le dava un potere accresciuto, che «l’organizzazione cerca di usare per bloccare le indagini». Ha osservato che le connessioni fra una politica affarista e una criminalità mafiosa sempre più implicata nell’economia, rendono ancora più inestricabili le indagini. Non è un caso che, nelle sentenze, tra i mandanti della strage di Capaci (ma anche di Via D’Amelio) compare anche Salvatore Buscemi. Non è un personaggio secondario, visto che, assieme al fratello Antonino, erano fondamentali all’interno di Cosa nostra visto che ricoprivano un ruolo assolutamente dominante nella cosiddetta imprenditoria mafiosa avvalendosi della compiacente “collaborazione” fornitagli da taluni esponenti delle istituzioni di allora e da enormi settori del mondo dell’imprenditoria e della finanza.
Le dichiarazioni di Angelo Siino e Giovanni Brusca. Ma i Buscemi erano anche coloro che avrebbero avuto rapporti all’interno della magistratura. Ci sono due dichiarazioni dei pentiti Angelo Siino e Giovanni Brusca che sono state riportati nelle motivazioni della sentenza d’appello del Capaci uno. «Sul punto – scrive la Corte d’Appello -, Angelo Siino ha evidenziato di avere appreso che Pino Lipari aveva contattato l’onorevole Mario D’Acquisto affinché intervenisse nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo, dottor Giammanco, al fine di neutralizzare le indagini trasfuse nel rapporto “mafia-appalti” ed in quelle che si potevano stimolare in esito a tali risultanze».
I rapporti tra i fratelli Buscemi e il gruppo Ferruzzi-Gardini. C’è anche la dichiarazione di Brusca. «Quanto ai rapporti tra i fratelli Buscemi, il gruppo Ferruzzi-Gardini e l’ingegner Bini – scrive la Corte -, Brusca ha evidenziato di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese al gruppo Ferruzzi; che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato; che i fratelli Buscemi si “tenevano in mano…… questo gruppo imprenditoriale in maniera molto forte” e potevano contare sulla disponibilità di un magistrato appartenente alla Procura di Palermo, di cui non ha voluto rivelare il nome».
L’importanza degli appalti per la mafia. Falcone, che ha sempre esplicitato quanto sia importante la questione degli appalti riguardanti anche imprese nazionali (convegno del 15 marzo 1991 e che ha provocato la reazione dei Buscemi «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare»), andava eliminato per un insieme di concause. Dall’esito del maxiprocesso, alle indagini verso anche Cosa nostra americana (da qui anche la loro attenzione per l’attentato, come è emerso dalle dichiarazioni dei pentiti e contatti telefonici con utenze americane) fino ad arrivare alla questione mafia-appalti.
Andava eliminato con un’azione eclatante. Falcone, quindi, andava eliminato attraverso un’azione eclatante. Dagli atti emerge che è stata condotta esclusivamente dalla manovalanza mafiosa. Gioacchino La Barbera, tra coloro che hanno partecipato all’attentato, mai ha parlato di soggetti esterni che hanno partecipato all’azione. Si è ricordato, a distanza di molti anni, di aver visto due soggetti “estranei” per pochi minuti rispettivamente presso la villetta dove era avvenuto il travaso dell’esplosivo e il casolare da ultimo scelto quale base logistica del gruppo: non ha attribuito a questi individui alcuna condotta significativa, tanto che egli ha specificato di avere ritenuto che si trattasse del proprietario dell’immobile o di un giardiniere. Brusca, colui che ha diretto la fase esecutiva e ha poi premuto il telecomando per azionare il tritolo, è stato chiaro sul punto. Alla domanda se nessun estraneo è mai intervenuto nelle operazioni, lui ha risposto: «Assolutamente no».
Falcone andava a ledere i rapporti tra mafia e interessi economici. La mafia aveva chiaramente adoperato in connessione con altri interessi. Il pentito Antonino Giuffrè ha esplicitato che i “motivi più gravi” che determinarono l’isolamento, al quale seguì l’uccisione di Falcone, consistevano nel fatto che quest’ultimo «andava a ledere quelli che erano i rapporti professionali, economici, questo intrigo tra la mafia e organi esterni», facendo riferimento anche ai grandi canali del riciclaggio internazionale. Giuffrè ha poi evidenziato il pericolo rappresentato da Falcone per i “livelli alti” della politica, specificando che «c’era questo intreccio tra Cosa nostra, politica di un certo livello e imprenditoria in modo particolare».
Anche Borsellino aveva individuato il “gioco grande”. Ecco il “gioco grande” che Falcone ben conosceva. Lo sapeva anche il suo collega e fraterno amico Paolo Borsellino che non a caso, ha deciso di approfondire quelle connessioni che lo hanno portato all’isolamento, alla solitudine, alla mancanza di fiducia in alcuni colleghi. Borsellino aveva individuato il “gioco grande”, tanto che Riina ha dovuto accelerare l’esecuzione dell’attentato di Via D’Amelio. Oggi si parla di altro, di “entità”, di trattative, “facce da mostro”, perfino di donne bionde. E forse ancora per tanti altri anni si andrà avanti con l’astratto e l’indefinibile. Ma poi conterà ciò che si tocca con mano. Ci penseranno i posteri, quando non sarà più possibile intossicare, manipolare e prendere in giro gli ignari lettori e spettatori. Accadrà che si potrà serenamente raccontare tutto ciò che è visibile agli occhi. A quel punto si potrà per davvero onorare la memoria di Falcone e Borsellino.
Il libro del generale Giuseppe Governale. Scrivere di mafia come faceva Falcone. Alberto Cisterna su Il Riformista il 31 Dicembre 2021. Ha ancora un senso scrivere di mafia nel Terzo millennio? Oppure tutto è stato detto, tutto è stato scritto e alla fine non dobbiamo far altro che sfogliare il libro che meglio si attaglia alle nostre convinzioni, che meglio suggestiona la nostra immaginazione o anche solo accarezza la nostra sensibilità. Tanto lo si è capito da tempo che molti ormai scrivono – e con una certa furbizia – con lo sguardo rivolto al proprio pubblico, alla propria rete di aficionados, a un circuito di estimatori o anche solo a un più modesto stuolo di seguaci. Come per un romanziere o un giallista di professione, così una certa letteratura di mafia insegue i propri lettori, li coccola e insieme perimetra il proprio mercato; quasi nessuno vuole più spiegare o raccontare su cosa siano state o diventate le mafie; tanti pretendono solo di consolidare una posizione, di conservare una rendita. Troppe volte è diventata una questione di soldi e di potere. Troppe volte, ma non sempre.
Quando questo accade, quando chi scrive cede il passo al semplice desiderio di raccontare un’esperienza, di ricapitolare brandelli di vita vissuta, di ricomporre un pezzo di sangue e dolore staccatosi dalle proprie membra, il risultato è di per sé un miracolo che merita rispetto. Giuseppe Governale non è un professionista della scrittura, è un artigiano della narrazione come lo sono tutti coloro i quali non vivono di letteratura, eppur si nutrono, tra gli affanni del proprio lavoro, del rumore di fondo della vita, che hanno orecchie e occhi sensibili a quella solitaria litania che per essere percepita è necessario si colgano sussurri, semitoni, colorazioni tenui. Le storie di mafia sono state narrate spesso con enfasi, con sanguinolento compiacimento. Si vuole stordire il lettore, stupirlo, talvolta intimorirlo per poi compiacersi del proprio ruolo, della propria “missione”. Qua e là si mescolano verità, dicerie, supposizioni, bugie ben camuffate sotto la coltre dalla mera ripetizione, sfruttando l’inerzia e la pigrizia di chi non vuole approfondire, di chi si accontenta.
Da questo punto di vista il libro del generale Governale (comandante del Ros dei Carabinieri e direttore della Dia solo per citare gli impieghi più recenti) già nel titolo demistifica, circoscrive, chiarisce: Sapevamo già tutto (Solferino, 2021). Non c’è alcun arcano da svelare, né alcuna nebbia da diradare, né veli da squarciare. Era ed è tutto evidente, conosciuto, collettivamente e individualmente risaputo. Mafia e mafiosità vanno a braccetto nell’impari sfida per comprendere se l’una preceda l’altra o se l’altra sia la genitrice della prima; un gioco di specchi in cui, prima ancora che intimidazione, la mafia è condivisione di un modello di società, di uno stile di vita, di una percezione dello Stato e degli altri.
Giovanni Falcone narrò anni or sono la sua visione della mafia in un libro memorabile che aveva un titolo parimenti profetico, mite, pacato: Cose di cosa nostra (1991). Non una storia e enciclopedica di cosa nostra o della mafia, ma la pacata enunciazione delle (poche) cose che persino un gigante come Falcone riteneva di aver capito di quel mondo oscuro e sanguinario. Ecco, dopo 30 anni, Giuseppe Governale riprende il filo di quel racconto e lo fa, forse, senza neppure accorgersene; perché procede in modo naturale come accade a chi ha nuotato nel medesimo mare di Mondello, ha conosciuto le stesse strade di Palermo, ha respirato con la stessa aria di Sicilia, ha visto cadere gli stessi amici. Giovanni Falcone aveva chiarito con esattezza il proprio pensiero, la propria intelligenza dell’inscindibile legame che Giuseppe Governale riassume nell’apparente endiadi di “mafia e mafiosità”.
Aveva scritto nel 1991: «Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia» ammoniva il giudice ucciso, con una lucidità che ancor oggi stordisce. Trent’anni dopo il generale Governale raccoglie nel suo libro quella traccia, la insegue come gli impongono le stimmate dell’esperto investigatore e offre senza alcuna enfasi un suo bilancio. Racconta alcune altre “Cose di cosa nostra” finalmente, messe lì con ordine e precisione, senza voler narrare null’altro che non sia ciò che si è visto, ciò che si sa, come in un diario di guerra. Alberto Cisterna
Inchieste. Binario d'oro. Report Rai PUNTATA DEL 20/12/2021 di Danilo Procaccianti. Collaborazione di Marzia Amico, Norma Ferrara, Alessia Marzi. Immagini di Cristiano Forti, Dario D'India, Paolo Palermo e Andrea Lilli. Montaggio e grafica Monica Cesarani.
Un viaggio in Ferrovie dello Stato tra polizze misteriose e appalti. Ferrovie dello Stato è una delle prime aziende italiane per numero di dipendenti, ne ha 83.000 ed è una società per azioni controllata al 100% dal Mef, quindi controllo interamente pubblico. Negli ultimi 30 anni con la fiscalità generale sono andati 470 miliardi di euro a ferrovie, un quinto del debito pubblico. Le ferrovie sono pesantemente sussidiate perché considerate un servizio sociale. Eppure ci sono posti in Italia dove il treno è un miraggio. In Sicilia ci vogliono 11 ore per andare da Catania a Trapani, 13 ore da Trapani a Ragusa. Con il PNRR alle ferrovie andranno 25 miliardi. Sono in buone mani? Una recente inchiesta della Procura di Napoli ipotizza il coinvolgimento del clan dei casalesi negli appalti di Rete Ferroviaria Italiana e poi c'è l'inchiesta della procura di Roma sul settore assicurativo di Ferrovie dello Stato, con la polizza misteriosa dell'ex amministratore delegato Gianfranco Battista che ha avuto un risarcimento per malattia di 1.6 milioni di euro. Una cifra enorme e non lontanamente paragonabile ai risarcimenti riconosciuti ai familiari delle vittime della strage di Viareggio.
“BINARIO D’ORO” Di Danilo Procaccianti Collaborazione Marzia Amico – Norma Ferrara – Alessia Marzi Immagini Cristiano Forti – Dario D’India – Paolo Palermo – Andrea Lilli Montaggio e grafica Monica Cesarani
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 140 telecamere all’improvviso hanno cercato di contattare un sito esterno, un indirizzo ad oggi sconosciuto. Lo hanno fatto anche con una certa insistenza, circa 11mila volte all’ora. Ma per fare cosa? Per distribuire, far uscire dati, immagini, oppure perché c’era qualcuno che da remoto aveva interesse a controllare il sistema di videosorveglianza di un luogo strategico per il nostro paese. Ecco, era un fatto che fino ad oggi era rimasto sconosciuto, Report ne è venuto a conoscenza, e vi daremo più tardi tutti i dettagli. Dopo aver parlato dell’inchiesta sulla più grande stazione appaltante del nostro paese. Rete Ferrovie dello Stato. Ecco, stanno per arrivare 31 miliardi circa dal PNRR, come verranno spesi? Intanto, come è stata gestita Ferrovie dello Stato? Dal 1990 fino al 2016 ci è costata poco meno di 500 miliardi di euro. Altro che Alitalia che da sola nel dopoguerra ad oggi ci è costata quanto un solo anno di Ferrovie dello Stato: dai 10 ai 12 miliardi. Ora Ferrovie dello Stato è una delle aziende più importanti di Italia, con più dipendenti, 83 mila dipendenti e anche se si tratta di una società privata ad azioni, è controllata al 100 per 100 dallo Stato. E contribuisce in maniera sostanziale a Ferrovie dello Stato perché viene giudicato un servizio sociale. Ora però nessuno chiede conto se a tanti contributi corrispondono servizi di qualità. Lo Stato non li chiede. Ferrovie dello Stato perché dovrebbe rendicontare? Anche perché dovrebbero farlo quei manager che poi metterebbero in discussione compensi e buone uscite milionarie. Ora stanno per arrivare 31 miliardi dal PNRR e il nostro Danilo Procaccianti ha fatto la due diligence a Ferrovie dello Stato. Sono emerse delle criticità, dei bandi fatti su misura, delle polizze assicurative un po’, un tantinello troppo alte, poi appalti in odore di camorra. È anche emerso anche un misterioso viaggio di una pennetta su un Frecciarossa Roma-Milano, che conteneva lettere anonime che poi si sono trasformate in interrogazioni parlamentari. Non è che alla fine rispuntano i soliti nomi? Il nostro Danilo Procaccianti.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Abbiamo immaginato di essere turisti in Sicilia. Dopo l’Etna e Catania, vogliamo visitare le bellezze di Trapani e provincia. Decidiamo di spostarci in treno, visto che non stiamo parlando di posti sperduti ma di un importante collegamento tra due capoluoghi di provincia. Facciamo il biglietto alla stazione di Catania, orario di partenza 9.15. Ed ecco la prima sorpresa: non si parte in treno ma con un autobus sostitutivo, ci sono lavori sulla linea. Prima fermata Dittaino, provincia di Enna, si scende dal bus ed ecco finalmente il treno: arriviamo a Palermo alle 12.34. Una volta a Palermo, però, il grosso dovrebbe essere fatto visto che per Trapani mancano solo 100 km. Il nostro treno riparte alle 13.11, ma si ferma a Piraineto, stazione al centro del nulla poco fuori Palermo. Dopo più di due ore di attesa arriva la nostra coincidenza che però non ci porta a Trapani, la linea diretta è infatti interrotta a causa di alcune frane.
GIOSUÈ MALAPONTI – COMITATO PENDOLARI SICILIANI Da febbraio del 2013 diversi smottamenti sul tratto della via Milo che per otto anni ancora giacciono lì senza nessun intervento.
DANILO PROCACCIANTI 2013, ho capito bene?
GIOSUÈ MALAPONTI – COMITATO PENDOLARI SICILIANI Sì, otto anni fa
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Dopo nove anni, solo pochi giorni fa è stato pubblicato il bando di gara per i lavori. E allora, invece che andare dritti per Trapani, scendiamo giù fino a Castelvetrano, cambiamo treno e risaliamo per Trapani, dove arriviamo alle 19.00: 10 ore per fare appena 330 chilometri. Non va meglio all’indomani, quando da Trapani vogliamo andare a Ragusa, altro capoluogo di provincia, altra perla del Barocco siciliano. Si parte alle 6.50 del mattino. Arriviamo a Ragusa alle 22: ben 15 ore di viaggio per fare circa 300 km. Il terzo giorno da Ragusa rientriamo a Catania e proviamo anche l’ebrezza del furgoncino sostitutivo. Una cosa temporanea?
GIOSUÈ MALAPONTI – COMITATO PENDOLARI SICILIANI Esattamente maggio 2011 crolla un’arcata del ponte e, ahimè, da dieci anni il traffico ferroviario fra Caltagirone e Gela è interrotto e si fa con bus sostitutivi. Anche lì, oggi assistiamo a un finanziamento di dieci milioni di euro per la riprogettazione del viadotto.
DANILO PROCACCIANTI Cioè i lavori non sono iniziati?
GIOSUÈ MALAPONTI – COMITATO PENDOLARI SICILIANI No, che io sappia no
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Qui nessun modello Morandi, il ponte è stato fatto saltare nel 2014 e di lavori per la ricostruzione neanche l’ombra. E noi, per fare appena 100 km, ci abbiamo impiegato quattro ore: un disastro che nemmeno i politici possono far finta di non vedere.
DANILO PROCACCIANTI Io ci ho messo 11 ore da Catania a Trapani, 13 ore da Trapani a Ragusa, quattro ore per fare cento chilometri da Ragusa a Catania. Che ferrovie sono queste? Cioè, da terzo mondo?
NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Sì, da terzo mondo ed è quello che ho detto al ministro dei Trasporti. Il guaio è che prima di dirlo a Giovannini, l'ho detto alla De Micheli, che l'ha preceduto, e prima di dirlo alla De Micheli l'ho detto a Toninelli.
DANILO PROCACCIANTI Però lei è il presidente della regione
NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Quindi?
DANILO PROCACCIANTI Cioè, lei è uno che conta, non è un passante
NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Bravo e conto fino a dieci dopodiché dovrei mandare a quel paese i miei interlocutori a meno che lei non creda che io debba avere la vocazione del suicidio, mi metto al centro di un binario appena passa il treno con un biglietto scritto e dire: mi ammazzo perché il governo centrale da 70 anni non potenzia le ferrovie in Sicilia
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Non sarà colpa di nessuno ma su 1369 km di linee ferroviarie in Sicilia, 1146 sono a binario unico e ben 578 km sono ancora non elettrificate: i treni vanno a gasolio
DANILO PROCACCIANTI Quanto abbiamo speso negli anni per le ferrovie italiane?
FRANCESCO RAMELLA - DOCENTE DI TRASPORTI, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO Dal 1990 al 2016 la spesa è di poco inferiore ai 500 miliardi.
DANILO PROCACCIANTI Quindi altro che Alitalia…
FRANCESCO RAMELLA - DOCENTE DI TRASPORTI, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO Ogni anno Ferrovie ci costa come Alitalia in tutto il dopoguerra.
DANILO PROCACCIANTI Parliamo di quanti soldi ogni anno?
FRANCESCO RAMELLA - DOCENTE DI TRASPORTI, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO Siamo intorno ai 10-12 miliardi.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Altro che Frecciarossa e Alta velocità, pensate: proprio pochi giorni fa si è fatto festa con tanto di taglio del nastro e brindisi perché sono arrivati i Frecciabianca, che nel resto d’Italia sono entrati in servizio dieci anni fa_ questi li hanno dismessi dalla Milano Lecce perché hanno fatto il loro tempo.
GIANCARLO CANCELLERI - SOTTOSEGRETARIO PER LE INFRASTRUTTURE E LA MOBILITÀ Se oggi voglio andare da Catania a Roma impiego 10 ore e 30. Con questo simbolo ci impieghiamo invece 7 ore e 10 quindi andiamo avanti compatti e uniti.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Dalle parole del sottosegretario Cancelleri sembrerebbe che questi treni siano più veloci e riducano i tempi di percorrenza in realtà non è così. Guardate: da Palermo a Catania il Frecciabianca impiega 3 ore e 7 minuti, il semplice regionale veloce ne impiega 3 ore e 9 minuti e addirittura il successivo regionale impiega due minuti in meno. Quello che cambia è solo il prezzo, che è il doppio.
DANILO PROCACCIANTI Ma che cos'è questa cosa? Più una roba di marketing, diciamo.
GIANCARLO CANCELLERI - SOTTOSEGRETARIO PER LE INFRASTRUTTURE E LA MOBILITÀ No, non è una roba di marketing perché i siciliani oggi per andare a Roma con l'unico servizio che c'è, l’Intercity, ci stanno 10 ore 30. Con questo qui, che tu lo dici marketing, ci stanno 7 ore e 30.
DANILO PROCACCIANTI Il treno in sé non è più veloce, ha il bar in più
GIANCARLO CANCELLERI - SOTTOSEGRETARIO PER LE INFRASTRUTTURE E LA MOBILITÀ Ti garantisce le coincidenze, nessun altro treno ti garantisce questo ed è una cosa molto importante.
DANILO PROCACCIANTI Sì, però, se questa roba qui la facevamo con un regionale veloce era uguale se mettevamo a posto le coincidenze questo dico, non è il treno che cambia
GIANCARLO CANCELLERI - SOTTOSEGRETARIO PER LE INFRASTRUTTURE E LA MOBILITÀ Però è il servizio Freccia che noi garantiamo anche. Cioè scusa, i siciliani perché non dovrebbero avere diritto ad avere il bar a bordo e il servizio Freccia!
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Anche i siciliani devono avere il bar e ci sembra giusto, tanto paga sempre Pantalone visto che il Frecciabianca, che dovrebbe sostenersi con il prezzo dei biglietti, nel primo mese di vita ha avuto circa 20 viaggiatori a tratta: ne servirebbero 140 per mantenersi. Alla fine, lo Stato tapperà l’ennesimo buco e nessuno chiederà conto.
MARCO PONTI – GIA’ ORDINARIO DI ECONOMIA, POLITECNICO DI MILANO Non c'è una rendicontazione nemmeno minima dei risultati degli investimenti.Lo Stato non chiede quanto traffico è arrivato su quella linea. Se io metto lì dei soldi pubblici, io Stato devo chiedere i risultati che quei soldi dei contribuenti hanno generato alla collettività.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nel PNRR ci sono circa 25 miliardi per le ferrovie e almeno due miliardi andranno in Sicilia. Sembrava una manna dal cielo per colmare il gap infrastrutturale e invece?
NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Hanno previsto soltanto le opere che erano presenti nel piano regionale dei trasporti della legge obiettivo. Hanno recuperato tutti i progetti che avevano nel cassetto, li hanno fatti aggiornare in alcuni mesi e li hanno resi proponibili per il PNRR.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Proprio così, la maggior parte dei soldi sono stati convogliati nella cosiddetta Alta velocità Palermo/Catania e sembra una beffa perché di quest’opera se ne parla da almeno 20 anni: era già stata finanziata e dovrebbe essere addirittura quasi ultimata. I soldi del PNRR sostituiscono finanziamenti esistenti per un miliardo e cento milioni e aggiungono solo 317 milioni di nuove risorse.
NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Nel PNRR ci sono i progetti dello Stato, sono quelli del piano di mobilità del 2001. Sono passati 20 anni, quindi penso che fra dieci, quindici anni avremo le opere realizzate, solo che il PNRR dice che bisogna completarli entro il 2026. Naturalmente io ho tutte le buone ragioni per non farmi illusioni.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Fa bene il presidente Musumeci a non illudersi, sebbene le opere del PNRR andrebbero ultimate entro il 2026, alcune tratte dell’alta velocità Palermo/Catania/Messina, finanziate con il PNRR, saranno completate già da cronoprogramma ufficiale nel 2029, figuriamoci se poi ci saranno ritardi. Insomma, l’opera in sé non sarà molto veloce. Quanto, poi, al risultato finale, si tratta di vera alta velocità?
FRANCESCO RUSSO - DOCENTE DI TRASPORTI UNIVERSITÀ MEDITERRANEA REGGIO CALABRIA A lavori completati si percorrerà la Palermo-Catania in due ore quindi due ore per fare 200 chilometri vuol dire 100 chilometri di media. L'alta velocità è a 300 chilometri quindi non credo che si possa usare la definizione di alta velocità.
DANILO PROCACCIANTI E che tipo di progetto è?
FRANCESCO RUSSO - DOCENTE DI TRASPORTI UNIVERSITÀ MEDITERRANEA REGGIO CALABRIA Un ottimo progetto di intervento straordinario, di manutenzione straordinaria sulla linea
DANILO PROCACCIANTI Che però, diciamo, questa cosa qui si poteva fare vent'anni fa.
FRANCESCO RUSSO - DOCENTE DI TRASPORTI UNIVERSITÀ MEDITERRANEA REGGIO CALABRIA Sì in effetti c’è stato un poco di ritardo sul fare le linee siciliane, trent'anni, diciamo, di ritardo.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Sull’onda della fretta per la presentazione del Pnrr, per la Sicilia sono stati approvati i progetti vecchi che già erano nel cassetto. Basta attraversare lo Stretto, però, e la filosofia cambia radicalmente. Il PNRR prevede infatti una linea alta velocità nuova di zecca tra Salerno e Reggio Calabria, una linea di cui non c’è nemmeno il progetto esecutivo
PAOLO BERIA – PROFESSORE ASSOCIATO ECONOMIA DEI TRASPORTI, POLITECNICO DI MILANO Quello che è circolato finora è una parte dello studio di fattibilità, quindi è evidente che la Salerno-Reggio Calabria non può stare nel Pnrr cioè non ci sta fisicamente perché nel 2026, probabilmente, ci sarà la progettazione completa.
DANILO PROCACCIANTI E già questa è una notizia perché, appunto, dovremmo avere opere pronte, invece lei dice forse il progetto
PAOLO BERIA – PROFESSORE ASSOCIATO ECONOMIA DEI TRASPORTI, POLITECNICO DI MILANO Mi sembra irrealistico che si possa arrivare a completare un'opera di quella entità, stiamo parlando di circa 27 miliardi la previsione, e di una roba da 160 chilometri di gallerie negli Appennini.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il punto è che, proprio per i costi esorbitanti, questa linea rischia di diventare l’eterna incompiuta come è stato per la sua gemella autostradale. L’opera, infatti, dovrebbe costare circa 24 miliardi di euro ma con il PNRR, direttamente, ne arrivano solo 1,8
DANILO PROCACCIANTI Quindi nel Pnrr dovrebbe esserci scritto non “nuova linea Salerno-Reggio Calabria” ma un pezzetto di linea
PAOLO BERIA – PROFESSORE ASSOCIATO ECONOMIA DEI TRASPORTI, POLITECNICO DI MILANO Sì
DANILO PROCACCIANTI E tutto il resto?
PAOLO BERIA – PROFESSORE ASSOCIATO ECONOMIA DEI TRASPORTI, POLITECNICO DI MILANO E il resto, il resto sono quasi dieci miliardi che sono il fondo complementare, sono soldi aggiuntivi peraltro a debito
DANILO PROCACCIANTI E il resto si vedrà.
PAOLO BERIA – PROFESSORE ASSOCIATO ECONOMIA DEI TRASPORTI, POLITECNICO DI MILANO E il resto si vedrà, sì.
MARCO PONTI – GIA’ ORDINARIO DI ECONOMIA, POLITECNICO DI MILANO Questo è il peggiore dei mali e purtroppo è, però, quello che i costruttori desiderano cioè che si aprano i cantieri perché sanno che non si potranno più chiudere.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora se questo è un test su come verranno spesi i soldi del PNRR, insomma si parte con il piede sbagliato. L’esempio della Salerno-Reggio Calabria, la linea ferroviaria sarà finanziata per metà dai soldi del PNRR. Il cronoprogramma? Parliamo di 22 miliardi di euro, prevede che i lavori debbano essere terminati entro il 2016. E sapete dove termineranno? A pochi chilometri da Cosenza, una cittadina, Tarsia, di circa 2 mila abitanti. E il resto? Boh, vedremo. Quello che è certo è che il PNRR sarebbe stata l’occasione giusta per modificare il volto delle Ferrovie Siciliane. E invece in qualche modo sono finiti per finanziare dei progetti già finanziati che rientravano nel piano mobilità del 2001. E allora uno si chiede ma perché se non sono riusciti in vent’anni a chiudere queste opere, lo faranno in 5? Poi nel caso specifico, per esempio, della Palermo-Catania non si tratterebbe appunto di un valore aggiunto il finanziamento, ma della sostituzione di un finanziamento già avvenuto. E anche là insomma, siamo certi che riusciranno a chiudere l’opera nel 2026, perché da cronoprogramma è previsto che i lavori potrebbero finire nel 2029. Cioè 3 anni oltre. E poi anche se riuscissero, non si tratterebbe di alata velocità perché è previsto, stimato che i treni viaggerebbero in una velocità media di 100 chilometri orari, quando l’alta velocità ne richiederebbe almeno 300. Insomma, alla fine faranno con i soldi del PNRR una bella manutenzione della linea. Il vecchio lucidato è accolto come il nuovo in Sicilia e la beffa è avvenuta pochi giorni fa quando è stato presentato il nuovo Frecciarossa che da Milano arriverà a Parigi in sole 6 ore. Costo del biglietto: 29 euro. Mentre invece sono stati portati Frecciabianca in Sicilia, sulla linea Palermo-Catania; costo del biglietto 28 euro. E non erano neppure nuovi perché per dodici anni hanno viaggiato sulla tratta Milano-Bari-Lecce, insomma in Puglia, poi sono stati messi sulla tratta siciliana. Tuttavia sono stati accolti con trionfalismo dalla politica, dall’imprenditoria, dalla nobiltà siciliana perché consente loro di prendere sul treno un caffè… troppo caro gli costa… 14 euro in più… anche se poi impiegano anche addirittura qualche minuto in più a volte del regionale veloce perché poi alla fine la linea quella è. A questo punto c’è da chiedersi, ma un siciliano quando paga le tasse, che cosa paga? Sostanzialmente paga l’alta velocità a chi la percorre tra Milano e Roma. E poi di chi sono le responsabilità quando una linea ferroviaria invece rimane interrotta per dieci anni a causa di una frana o di un ponte interrotto? Sicuramente della politica. È nelle more si fregano le mani quegli imprenditori che con i mezzi di… i bus portano la gente sui percorsi alternativi, passeggeri che dovrebbero prendere il treno. Leader nel campo è Autoservizi Cuffaro, la società che fa riferimento ai fratelli dell’ex governatore Totò Cuffaro. Nel 2020, non bisogna dimenticarselo, Ferrovie dello Stato è stata sicuramente la società appaltante più importante del nostro paese. Da sola ha stanziato 14 miliardi per il 40 per cento degli appalti totali del nostro paese. Ecco, secondo la magistratura napoletana, alcuni di questi sarebbero andati in aziende… ad aziende che sono in odore di camorra. E non è una camorra qualsiasi, ma quella che farebbe riferimento a Sandokan, capo dei Casalesi.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Questo è il palazzo delle Ferrovie dello Stato. Proprio qui sarebbe arrivata la camorra. I Casalesi avrebbero messo le mani sugli appalti. Lo ipotizza un’inchiesta della procura di Napoli. Da alcuni documenti esclusivi siamo risaliti alle registrazioni degli ingressi presso la sede di Ferrovie. In particolare, ci interessa questo nome, Nicola Schiavone. Entra in Ferrovie di continuo, ogni settimana, più volte a settimana. Andava a trovare tutti i dirigenti di Rete ferroviaria italiana, era di casa lì. Ma Nicola Schiavone non è uno qualsiasi perché è compare di Francesco Schiavone detto Sandokan, il boss dei Casalesi a cui ha battezzato il figlio. È stato anche imputato nel processo Spartacus, da cui è uscito completamente assolto
DANILO PROCACCIANTI Chi è questo Nicola Schiavone, l’imprenditore?
ROSARIA CAPACCHIONE – GIORNALISTA E SENATRICE PD 2013 – 2018 Aveva rapporti come subappaltatore per le Ferrovie dello Stato, poi RFI, a un certo punto questi rapporti sono diventati più forti e si sono consolidati
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Un salto che, secondo le ipotesi investigative, sarebbe stato fatto grazie ai soldi dei Casalesi, come ha dichiarato di recente la moglie del capo clan Francesco Schiavone detto Sandokan usando un’efficace metafora: “Nicola Schiavone - dice - usa il lievito madre che tanti anni fa ha preparato mio marito”.
ROSARIA CAPACCHIONE – GIORNALISTA E SENATRICE PD 2013 – 2018 Li ha messi in condizione di lievitare, di crescere, senza mai comparire. Da questo accordo non scritto poi la camorra è arrivata al cuore della finanza nazionale.
GIOVANNI ESPOSITO FARIELLO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE È l'ipotesi che non funziona perché io a sostegno della falsità dell'ipotesi le offro sentenze, accertamenti giudiziari, due procedimenti penali nei quali è stata esclusa in radice l'appartenenza delinquenziale camorristica di Nicola Schiavone.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Le nuove indagini della procura, però, partono da una intercettazione ambientale successiva al processo Spartakus. Nel carcere di Parma dove è rinchiuso al 41 bis, Francesco Schiavone Sandokan parla con la figlia Angela che si sarebbe sposata da lì a poco, gli dice di rivolgersi a Nicola Schiavone per qualsiasi esigenza di natura economica.
DANILO PROCACCIANTI Dottor Schiavone, buongiorno, sono Danilo Procaccianti, sono un giornalista di Report. Siccome mi sto occupando di quella vicenda che la riguarda, insomma.
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Eh, guardi in questo momento mi trova in disagio perché ho gli avvocati sopra che mi stanno aspettando per cui se mi lascia un bigliettino, poi, le daranno conto gli avvocati.
DANILO PROCACCIANTI Però intanto che, insomma, che mi può dire insomma, il suo figlioccio dice che le sue imprese hanno lavorato coi soldi dei casalesi
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Allora, guardi
DANILO PROCACCIANTI Non è vera questa storia?
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Guardi non è vero nulla e parleranno i miei avvocati per me
DANILO PROCACCIANTI che l'ha battezzato, sì è vero?
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Allora non è vero niente, non è vero nulla per cui è inutile che vi mettete a...
DANILO PROCACCIANTI però insomma sono…
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Guardi non essere invadente, io vi do tutta la disponibilità
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nicola Schiavone non vuole parlare ma c’è un altro Nicola Schiavone che invece parla, eccome se parla. Si tratta del figlio di Sandokan, che ha iniziato a collaborare con la giustizia nel 2018. Ha parlato molto del suo padrino imprenditore
NICOLA SCHIAVONE – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA “La crescita economica e sociale dei fratelli Nicola e Vincenzo Schiavone è senza dubbio legata agli aiuti ed al sostegno iniziali che mio padre prima direttamente nei confronti di Nicola e successivamente mio zio Walter nei confronti di Vincenzo, hanno fornito loro. Se dovessi offrirvi un esempio per farvi comprendere di che tipo di personaggio stiamo parlando, potrei paragonarlo a Luigi Bisignani, ovvero a un importante faccendiere, un facilitatore. Ricordo in particolare che in occasione del mio matrimonio mi regalò la somma di ventimila euro in contanti”.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Dai racconti del collaboratore emerge che i rapporti tra l’imprenditore Nicola Schiavone e il clan dei Casalesi sarebbero stati continui negli anni e lo stesso imprenditore si sarebbe anche interessato delle vicende giudiziarie della famiglia Schiavone
NICOLA SCHIAVONE – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA “Con riferimento alla questione degli avvocati ricordo senz'altro che Schiavone Nicola, che come ho già detto è il mio padrino di battesimo, ha pagato per me l'avvocato Esposito Fariello, pagò la somma di lire venticinque milioni”.
DANILO PROCACCIANTI Su queste cose che dite?
GIOVANNI ESPOSITO FARIELLO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Le affermazioni di questo ragazzo, ragazzo una volta, di questo, questa persona sono prive di qualsiasi verificazione.
DANILO PROCACCIANTI Ma ‘sto Nicola Schiavone quindi, junior, si alza la mattina e parla di Nicola Schiavone senior perché? lo vuole distruggere?
GIOVANNI ESPOSITO FARIELLO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Questa è la domanda che deve fare a lui
UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Il tema è quello del riscontro. Io dico di una persona: quella persona è stato fortemente aiutato le sue imprese, e scusate ma un'impresa la vogliamo indicare una, un lavoro, ecco
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Non sappiamo se il collaboratore abbia indicato lavori e imprese ma noi attraverso documenti esclusivi abbiamo scoperto che per gli inquirenti Nicola Schiavone risulterebbe il dominus di una serie di imprese a lui non direttamente riconducibili come il consorzio IMPREFER, formato dalle aziende TEC, Macfer, e in passato anche ITEP, imprese intestate a terzi ma di fatto controllate e gestite da Nicola Schiavone DANILO PROCACCIANTI Il punto è che adesso arriveranno tanti miliardi, no
ROSARIA CAPACCHIONE – GIORNALISTA E SENATRICE PD 2013-2018 il rischio serio e concreto è che è stato trovato diciamo per caso Nicola Schiavone con le sue imprese di subappalto con rete ferroviaria ma non sappiamo quanti altri Nicola Schiavone ci sono in giro per l'Italia
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Dell’inchiesta si è saputo perché ormai due anni fa circa sono partite delle perquisizioni nelle case e negli uffici di alcuni dirigenti di RFI, poi licenziati. Sarebbero stati dei consulenti occulti di Nicola Schiavone. Si tratta di Massimo Iorani, Piergiorgio Bellotti, Paolo Grassi e Giuseppe Russo. Sarebbero stati corrotti da Nicola Schiavone per favorirlo nell’assegnazione degli appalti o per far lievitare i costi di alcuni lavori come quelli della stazione di Contursi Terme o di Avezzano, come ci racconta una nostra fonte che preferisce rimanere anonima. FONTE ANONIMA Sì, Schiavone ha incontrato più volte il dirigente Giuseppe Russo, gli chiedeva di scrivere relazioni e perizie per ottenere una lievitazione diciamo economica per quanto riguarda la sottostazione di Contursi. Schiavone riempiva di regali tutti i dirigenti di RFI: cravatte Marinella, biglietti aerei, pranzi costosissimi. Pensate che nell’ufficio di Schiavone c’era proprio una lista con i diversi prodotti da dare poi ai diversi dirigenti di Rfi: che ne so, babà, mozzarelle, conserve di pomodori, un po’ di tutto insomma.
DANILO PROCACCIANTI Nicola Schiavone andava negli uffici dei dirigenti ad alti livelli di RFI per fare che cosa?
UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Il professore Schiavone non è mai stato imprenditore, è stato sempre consulente di società
DANILO PROCACCIANTI Però in questo senso si interessava, cioè se una delle imprese che lui seguiva
UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE ma lui la seguiva per le qualifiche DANILO PROCACCIANTI perdeva una gara, poteva andare lì e dire perché è stata esclusa.
UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE No, assolutamente no. Lui si interessava della fase preliminare.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Le cose non starebbero proprio così. Massimo Iorani era un dirigente apicale di RFI nella Direzione Acquisti e Direzione Produzione. Era responsabile del procedimento di molte gare d’appalto e responsabile degli accordi quadro. F
ONTE ANONIMA Sì, Iorani era considerato una sorta di consigliere occulto di Schiavone, ecco. Dopo una gara d’appalto in cui l’azienda riferibile a Schiavone aveva perso, fu lo stesso Iorani a suggerirgli a Schiavone di fare ricorso al Tar, e gli diede anche degli appunti per il suo avvocato, ecco.
DANILO PROCACCIANTI Sono Danilo Procaccianti, sono un giornalista, volevo parlare con lei un attimo se era possibile
MASSIMO IORANI – EX MANAGER RETE FERROVIARIA ITALIANA A proposito di che?
DANILO PROCACCIANTI A proposito di quella inchiesta che la riguardava.
MASSIMO IORANI – EX MANAGER RETE FERROVIARIA ITALIANA No, guardi non è il caso
DANILO PROCACCIANTI Sono accuse pesanti insomma
MASSIMO IORANI – EX MANAGER RETE FERROVIARIA ITALIANA Non in questo momento
DANILO PROCACCIANTI Cioè, è accusato di aver favorito Schiavone
MASSIMO IORANI – EX MANAGER RETE FERROVIARIA ITALIANA C'è un pm che da molto tempo ha le carte in mano. Stiamo aspettando con grande pazienza che si decida a leggerle e a fare delle considerazioni. A qualcuno fa comodo buttare la croce addosso a qualcun altro che non c'entra niente. Però io non le posso, non possiamo entrare nel merito con lei, perché è un pour parler, capisce
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Con noi non vuole parlare ma nei documenti del ricorso che vi mostriamo in esclusiva l’ingegner Iorani nega di aver mai favorito Nicola Schiavone ma ammette che l’imprenditore frequentava abitualmente la sede di RFI e tira in ballo l’allora amministratore delegato Maurizio Gentile che, secondo Iorani, si dava del tu con Schiavone e riceveva da lui omaggi in occasione delle festività.
MAURIZIO GENTILE - AD RETE FERROVIARIA ITALIANA 2014-2020 Il Signor Schiavone l'ho incontrato diverse volte, lui veniva in ufficio, faceva il pass. L’ho incontrato in situazioni ufficiali, non l'ho mai incontrato di nascosto, mai parlato di gare, mai parlato di queste cose qui, mai chiesto nulla che fosse fuori le righe, almeno con me.
DANILO PROCACCIANTI Ma è normale che lui venisse tutte quelle volte?
MAURIZIO GENTILE - AD RETE FERROVIARIA ITALIANA 2014-2020 oggettivamente non è normalissimo, no. Diciamo che dal punto di vista del tenere le relazioni era piuttosto insistente, mettiamola così
DANILO PROCACCIANTI Però l'ingegner Iorani nel suo ricorso scrive che Schiavone si dava del tu con Gentile, a Gentile faceva sempre regali
MAURIZIO GENTILE - AD RETE FERROVIARIA ITALIANA 2014-2020 Ma quando mai, ma non è vero. Vede, l’ingegneri Iorani, è stato licenziato per il codice etico. Voglio dire, non è stato in grado di giustificare perché, per come, si sia fatto pagare una vacanza costosa a Positano.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Gli investigatori hanno scoperto che l’ingegner Iorani nel 2018 ha fatto le vacanze sulla costiera amalfitana. Dall’8 al 12 settembre, qui, nel meraviglioso hotel san Pietro di Positano. Poi, dal 12 al 14 settembre, all’hotel Bellevue Syrene di Sorrento. A pagare le vacanze sarebbe stato proprio Nicola Schiavone.
DANILO PROCACCIANTI Avrebbe pagato questa vacanza all'ingegnere Massimo Iorani nella costiera amalfitana
UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Non è oggetto del procedimento DANILO PROCACCIANTI Ma nel merito vi risulta che abbia pagato le vacanze?
UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Assolutamente no.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ed eccoli in esclusiva i fotogrammi delle telecamere interne dell’albergo in cui si vede Schiavone nel momento in cui avrebbe pagato le vacanze del dirigente di RFI. D’altronde, nel ricorso contro il licenziamento fatto da Iorani è lui stesso che ammette il pagamento della vacanza ma a sua insaputa, lo avrebbe scoperto solo al check-out. Iorani aggiunge di aver manifestato disappunto e imbarazzo e dice di aver poi rimborsato Schiavone con 6mila euro, di cui però non ci sarebbe traccia.
DANILO PROCACCIANTI Il fatto che però ha pagato le vacanze a un dirigente
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Non ho pagato nessuna vacanza, faccia le verifiche
DANILO PROCACCIANTI Come no? Lo dicono gli inquirenti
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Niente, niente, niente non è vero niente.
DANILO PROCACCIANTI Risultano… anche, insomma, non è vero nemmeno questo
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Guardi, non è vero niente, preferisco non parlare
DANILO PROCACCIANTI E il fatto che andava sempre in RFI, lei non aveva di fatto delle imprese
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Io ho titolo per andare in Rfi, sono un consulente di aziende nazionali e internazionali.
DANILO PROCACCIANTI Eh, ma ci andava ogni settimana, ogni settimana era lì, cioè nemmeno chi ha imprese ci va ogni settimana.
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Io, io avevo più aziende di consulenza, facevo consulenze ad aziende nazionali e internazionali
DANILO PROCACCIANTI E quindi ci andava così? Anche il boss dice sto in galera anche per lui, anche questo non è vero?
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Sì. Mi lasci il suo biglietto. È Report
SEGRETARIA DI NICOLA SCHIAVONE Vada via
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se le indagini della magistratura confermassero questi indizi, ci troveremmo difronte alla faccia imprenditoriale della camorra. Va detto chiaramente che Nicola Schiavone è stato coinvolto nel processo Spartacus, con l’omonimo Schiavone, Sandokan, ma è uscito completamente assolto. Va detto anche chiaramente che questa è un’indagine di cui vi abbiamo parlato stasera preliminare, ancora nelle fasi preliminari, che nasce esclusivamente quando qualcuno si accorge che un signore con un cognome ingombrante entra ed esce da Rete Ferroviarie Italiane, dalla stazione appaltante più importante del nostro paese, come se fosse a casa sua. Anche con orari improbabili. Il nostro Danilo ha raccolto testimonianze che Schiavone entrava addirittura alle 16 del pomeriggio e usciva alle 6 di mattina. Ma per fare cosa? Si muoveva come se fosse a casa sua, incontrava direttori degli acquisti, incontrava addirittura il top management, l’ex ad Gentile ci ha detto: sì è vero l’ho incontrato, ma non sapevo chi fosse. Il cognome però insomma, una campanellina… l’avrebbe dovuta far suonare. Mentre tutti gli altri dirigenti sono stati indagati, compreso Massimo Iorani, direttore degli acquisti della società. L’attuale invece management di Ferrovie dello Stato ci tiene a far sapere che ora non sarebbe stato più possibile effettuarsi di queste pratiche perché sono stati messi in piedi strumenti e presidi anticorruzione. Le aziende coinvolte legate a Schiavone sono uscite dalla white-list, e quindi sono state eliminate. I dirigenti coinvolti nell’inchiesta sono stati licenziati perché avrebbero violato il codice etico. Ecco, compreso anche, licenziato l’ingegner Iorani, che era quello che si era fatto pagare a sua insaputa dice, le vacanze sulla Costiera Amalfitana e Sorrentina. Solo che è stato licenziato perché non va bene a Ferrovie, è stato incaricato invece il 13 settembre scorso dal comune di Roma come direttore di un’importante opera pubblica. Retribuzione: 86 mila euro. Ora continua anche ad accumulare incarichi, Mauro Moretti, l’ex amministratore delegato di Ferrovie dello Stato italiane, è diventato amministratore delegato di Leonardo, la più importante azienda italiana n tema di tecnologia e armamenti, e oggi è amministratore delegato di PSC, un colosso dell’impiantistica delle infrastrutture e delle costruzioni, colosso internazionale. Ma Moretti, particolare non trascurabile, era amministratore delegato nel 2009, nel giugno del 2009 quando si è consumata la strage di Viareggio.
AUDIO 29 GIUGNO 2009 Pronto, sono il macchinista del treno a Viareggio. Abbiamo deragliato, noi siamo scappati ma è scoppiato tutto.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Era il 29 giugno del 2009, un treno cisterna deraglia all’altezza della stazione di Viareggio. La prima cisterna si squarcia e fuoriesce gas gpl, che dopo un innesco esplode e distrugge un’intera via. Perdono la vita 32 persone, tutte per le ustioni riportate sul corpo. Proprio lo scorso gennaio è arrivata la sentenza di Cassazione ma dopo 12 anni, purtroppo, siamo lontani da un’idea di giustizia.
VIDEO REAZIONI SENTENZA CASSAZIONE DANIELA ROMBI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Ho provato un dolore immenso come, come quando mi dissero che era morta mia figlia. Proprio non ci pensavamo, potevamo pensare a tutto ma l'incidente sul lavoro proprio no. Perché se non è questo un incidente sul lavoro, a me mi dovete dire quale è.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Non riconoscendo l’aggravante dell’incidente sul lavoro, la Cassazione ha mandato in prescrizione il reato di omicidio colposo e il desiderio di giustizia dei familiari delle vittime. Marco Piagentini porta ancora i segni delle gravi ustioni di secondo e terzo grado sul 90% del corpo. Quella notte perse sua moglie e due figli, il terzo figlio, Leonardo, per fortuna fu estratto vivo dalle macerie dopo quattro ore e mezza.
MARCO PIAGENTINI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Io ho un ricordo totalmente vivo e presente perché ero cosciente, vigile. Sto vigile finché non mi hanno estratto dalle macerie. Quindi ricordo ogni singolo istante di quei tre minuti in cui ho cercato di salvare la mia famiglia e che purtroppo non ci sono riuscito.
DANILO PROCACCIANTI Lei quella sera ha perso tutto, le è rimasto un figlio e la voglia di giustizia
MARCO PIAGENTINI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO E abbiamo ottenuto dei brandelli di giustizia. Come lo racconto a mio figlio, no? Dov'è la verità? E quindi la prescrizione la subiamo come un una spugna che cancella tutto quello che è la ricerca della verità.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Con la prescrizione dell’omicidio colposo la Cassazione ha deciso che si deve celebrare un nuovo processo d’appello per la determinazione delle pene per l’unico reato rimasto, il disastro ferroviario. Negli anni sono scomparsi i reati di incendio colposo e di lesioni colpose.
TIZIANO NICOLETTI – LEGALE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO È difficile poter spiegare a una madre che sa che il proprio figlio è morto ustionato che quel reato non esiste, dal punto di vista della giustizia non esiste più. D
ANIELA ROMBI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Ma di che cosa sono morti questi figli? Di che è morta mia figlia e le altre 31 persone? Loro sono responsabili anche dell'incendio che conseguentemente ha ucciso queste 32 persone che ricordiamocelo erano in casa. Sono state cancellate 32 vite per i soldi, per il profitto, per il guadagno.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Salvatore Giannino è il pm che ha sostenuto l’accusa nel primo e secondo grado e adesso sta preparando il nuovo processo d’appello.
DANILO PROCACCIANTI I familiari delle vittime dicono
SALVATORE GIANNINO – SOSTITUTO PROCURATORE LUCCA E hanno ragione
DANILO PROCACCIANTI Senza l’omicidio
SALVATORE GIANNINO – SOSTITUTO PROCURATORE LUCCA Hanno ragione, hanno ragione è un nonsenso perché il fatto è lo stesso. Quelle stesse condotte poste in essere nello stesso tempo hanno fatto sì che morissero 32 persone, ci fosse l'incendio e l'esplosione delle case e ci fosse il disastro ferroviario.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il treno cisterna è deragliato perché un’asse era arrugginito e si è spezzato. Per questo sono stati condannati i proprietari stranieri del carro. E le nostre Ferrovie dello Stato? L’allora amministratore delegato Mauro Moretti disse subito che loro non c’entravano nulla perché il carro lo avevano noleggiato.
DAL TG1 DEL 30 GIUGNO 2009 Mauro Moretti: “Noi facciamo i controlli sui nostri carri, ogni proprietario fa i controlli sui suoi!”
DANILO PROCACCIANTI L'amministratore delegato di allora, di Ferrovie, Moretti, ha sempre detto non dovevamo controllare noi quelle cisterne
SALVATORE GIANNINO – SOSTITUTO PROCURATORE LUCCA Il processo ha stabilito che questo non corrisponde al vero. È sconfessata la linea difensiva che, con cui si sosteneva che la responsabilità fosse solo dei cosiddetti tedeschi
DANILO PROCACCIANTI Moretti ha sempre detto: noi, la società estera ci ha dato un foglio in cui si dice che la cisterna era stata controllata, a noi bastava quello, il processo non ha detto questo
SALVATORE GIANNINO – SOSTITUTO PROCURATORE LUCCA Non hanno controllato neanche quei fogli tanto per cominciare perché in quei fogli i nostri consulenti si sono accorti solo guardando quei fogli che il carro non poteva circolare in sicurezza. Una omissione gravissima per scelta perché la loro politica era proprio questa: io noleggio all'estero e non mi occupo più di nulla.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Mauro Moretti ha sempre rinunciato alla prescrizione ma oggi che la Cassazione ha rinunciato a un processo in corte d’appello la rinuncia di Moretti deve essere ribadita D
ANILO PROCACCIANTI Adesso però la Cassazione dice: se l'ingegner Moretti vuole rinunciare a prescrizione deve tornare in aula e dirlo nuovamente. È così?
MARCO PIAGENTINI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Sì, è proprio così e noi abbiamo sobbalzato sulla seggiola perché noi eravamo in aula, abbiamo udito bene le parole di Moretti di rinunciare alla prescrizione, pur consapevole che quella rinunzia non era solo per il processo in corso in appello ma sarebbe stata valida anche per gli ulteriori successivi gradi di giudizio. La Cassazione gli sta offrendo una via d'uscita. Adesso vediamo se Moretti veramente ha rinunciato alla prescrizione perché è una persona coerente oppure no.
MAURO MORETTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2006 - 2014 No, lasciatemi stare
DANILO PROCACCIANTI No, solo se ci conferma
MAURO MORETTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2006 – 2014 Per cortesia, non toccare
DANILO PROCACCIANTI Ma non la sto toccando, se ci conferma, se conferma
MAURO MORETTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2006 – 2014 Non confermo nulla a nessuno, parlo solo in tribunale
DANILO PROCACCIANTI Cioè, le famiglie aspettano queste notizie, è solo una domanda MAURO MORETTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2006 – 2014 Parlerò in tribunale
DANILO PROCACCIANTI Quindi ci sta pensando, insomma, non è scontato che rinunci alla prescrizione
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Chissà cosa deciderà Moretti che nonostante le condanne in primo e secondo grado non ha mai avuto ripercussioni sulla sua carriera, è rimasto amministratore delegato di Ferrovie fino al 2014, quando è stato nominato ad di Finmeccanica e poi nel 2021 ad di PSC Group. Nel frattempo, l’anno dopo la strage di Viareggio, nel 2010, era stato anche nominato cavaliere
DANIELA ROMBI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Non parliamo poi di Napolitano che è andato all'ospedale a trovare il bambino, unico bambino rimasto vivo di Marco. Questo bambino aveva otto, nove anni gli ha regalato anche il disegno. E neanche un anno dopo fa Cavaliere del Lavoro Mauro Moretti. Cioè io dico: ma lo stomaco dove l'hanno, l'anima, la coscienza dove ce l'hanno?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora negli anni sono caduti in prescrizione l’incendio e poi anche le lesioni colpose, ora è caduta anche l’accusa dell’aggravante dell’incidente sul lavoro che avrebbe avuto tempi di prescrizione più lunghi, ma caduta questa, ovviamente è cauta in prescrizione l’omicidio colposo. Per tutti tranne che per Moretti che aveva rinunciato ad onor del vero alla prescrizione, ora però la Cassazione avendo mandato in appello in Corte d’appello il procedimento, scrive in sentenza che Moretti dovrà dichiarare nuovamente di voler rinunciare alla prescrizione. Lo farà? Insomma, con noi non ha voluto parlare. Quello che è successo che la piccola procura di Lucca ha messo in atto tutti gli sforzi possibili per evitare la prescrizione ed arrivare ad una verità, ha mandato notifiche nella maniera più veloce possibile all’estero per gli imputati tedeschi, e poi ha cercato di far tradurre nella maniera più veloce possibile anche la sentenza in lingua tedesca. Ma si trattava di materia complessa e delicata. Il primo traduttore ha rinunciato a metà strada, il nuovo ha dovuto ricominciare tutto da capo, e ha impiegato circa un anno. E poi quando nel 2013 è cominciato il processo, lo Stato che avrebbe potuto far sentire la propria vicinanza alle vittime della strage di Viareggio, ha rinunciato a costituirsi parte civile. E ha trattato direttamente il risarcimento con le assicurazioni. Già le assicurazioni hanno da sempre un ruolo importante quando ci sono questi avvenimenti, hanno cercato di svuotare il più possibile il processo trattando con le parti risarcimenti, cercando di accordarsi per far partecipare al processo meno gente possibile. Ora una vita di una familiare morto nella strage di Viareggio vale circa 330 mila euro. Cosa diversa invece se l’assicurazione deve trattare il caso di malattia di un ex ad di Ferrovie, Battisti. Ora è stata pagata una polizza per malattia della bellezza di un milione e 600 mila euro. è una polizza… tutto legittimo, lo diciamo, che però ha scatenato una valanga. E proprio intorno a questa polizza che si scatena una guerra senza esclusione di colpi e anche di lettere anonime che viaggiano misteriosamente in una chiavetta sull’Alta Velocità Roma-Milano. Ecco, quelle lettere anonime che poi vengono trasformate in interrogazioni parlamentari… da chi?
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nella tragedia di Viareggio un ruolo fondamentale lo hanno avuto le assicurazioni, una in particolare, Generali, che è la compagnia assicurativa di Ferrovie dello Stato. Inizialmente, per volere dell’allora ad Mauro Moretti, non furono nemmeno attivate per la tragedia
DANIELA ROMBI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO E disse che loro era, non era responsabilità loro, che questi che avevano fatto i controlli... La colpa era tutta dei tedeschi e quindi non avrebbero mai attivato le assicurazioni D
ANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Successivamente, però, quando si è capito che le cose non erano così semplici come li dipingeva l’ingegner Mauro Moretti, le assicurazioni non solo furono attivate ma assunsero un ruolo centrale nel processo
TIZIANO NICOLETTI – LEGALE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Hanno cercato di risarcire più possibile le parti civili, cioè hanno cercato di togliere dal processo più parti civili possibile.
DANIELA ROMBI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO A me vennero anche due anni fa. La prima volta mi davano, boh, 270mila, 370mila euro perché il cadavere della bimba costava 200, la sofferenza, la mamma aveva 50 anni, cioè io dissi al mio avvocato: ma che è una lista della spesa?
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Quello che pochi sanno è che per questo tipo di incidenti esistono delle vere e proprie tabelle che stabiliscono il risarcimento in base al danno subito
TIZIANO NICOLETTI – LEGALE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Per esempio, la perdita di un figlio va in una forbice che va da 160mila euro a 320mila euro.
DANILO PROCACCIANTI Cioè una vita vale al massimo 300mila euro?
TIZIANO NICOLETTI – LEGALE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Al massimo 331 mila euro, sì. Sono state riconosciute anche le sofferenze della vittima diretta, che ha sopravvissuto in maniera cosciente quindi consapevoli di essere ustionati, di andare verso la morte e di soffrire. Ecco, questa sofferenza delle vittime è poi stata quantificata: si va su 500, massimo 600mila euro comprensivo appunto della perdita del familiare, delle sofferenze e anche del danno materiale e abitazioni quindi queste sono le cifre.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Tutti questi calcoli non valgono sempre. È il caso di una polizza misteriosa che è costato il posto di amministratore delegato di ferrovie a Gianfranco Battisti. Si è scoperto che alla fine del 2014, quando ancora non era Ad di Ferrovie ma era a capo della divisione alta velocità, ha incassato un risarcimento da un milione e 600mila euro per una malattia invalidante. Una cifra enorme soprattutto se si tiene conto che in quell’anno Battisti non ha mai preso un giorno di malattia.
DANILO PROCACCIANTI Se uno che muore, poveraccio, prende, e ci sono stati anche dirigenti che sono arrivati a 600mila euro, perché si arriva a un milione e seicentomila per una malattia?
GIANFRANCO BATTISTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2017-2021 cioè non è che è un privilegio che ho avuto io, tutti ce l’hanno. Quindi, poi, in base alla gravità della malattia, io ho avuto una malattia. Quando io feci la domanda, la Generali mi ha sottoposto non a una ma a dieci visite di controllo certificate da tre ASL poi, hanno certificato che avevo, che ho una patologia per la quale posso lavorare
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La polizza dei misteri è venuta fuori grazie a un esposto anonimo. Parte un audit interno che si conclude nel maggio del 2017. I risultati sono impietosi: “Il sistema di controllo interno e di gestione dei rischi è risultato caratterizzato da diffuse carenze di disegno e di operatività che lo rendono nel complesso carente”
ANTONIO COVIELLO – RICERCATORE IRISS-CNR Non avere idea, secondo quanto dice il documento, di quello che andava assicurato, come andava fatto, in che modo. Cioè come se dire a una casalinga di fare la spesa e lei la fa in base a quello che prima verifica che c'è in frigorifero o nelle credenze. Mi mancano, non so, il pane il latte lo zucchero eccetera. Non fare questa operazione è come mandare la signora a fare la spesa senza sapere di che necessita quindi può comprare tutto, anche quello che non c'è, o nulla, quello che serve.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’audit interno, insomma, scoperchia un vero e proprio vaso di Pandora tanto che la procura di Roma apre un’inchiesta per corruzione che è ancora in corso e che vede come unico indagato Raffaele D’Onofrio, che fino al 2017 gestiva il settore assicurativo di Ferrovie. Dagli atti emerge che tra il 2011 e il 2019 Ferrovie ha pagato oltre 550 milioni di premi assicurativi. Di questi, l’89,5% sono andati alle Assicurazioni Generali.
DANILO PROCACCIANTI Dottor D'Onofrio?
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Sì?
DANILO PROCACCIANTI Salve, sono Danilo Procaccianti, sono un giornalista della Rai.
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO E allora?
DANILO PROCACCIANTI Siccome mi sto occupando di questa inchiesta sulle assicurazioni, volevo chiedere conto a lei visto che è l'unico sotto inchiesta
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Ho da fare. Quale inchiesta scusi?
DANILO PROCACCIANTI C'è questa inchiesta sulle assicurazioni su Generali. Lei sarebbe l'unico indagato.
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Una cosa vecchia…
DANILO PROCACCIANTI Vecchia? È ancora in corso. E lei che dice?
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Niente
DANILO PROCACCIANTI che Generali aveva il monopolio
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Assolutamente, erano tutte con gare.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Tra le anomalie segnalate nel rapporto c’è anche la sparizione sia dall’archivio informatico che da quello cartaceo di 66 pratiche. Una è proprio quella di Gianfranco Battisti, la famosa polizza da un milione e seicentomila euro
DANILO PROCACCIANTI Tutte queste pratiche sparite
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO No, no, assolutamente
DANILO PROCACCIANTI 66 pratiche sparite
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO No, no, non è sparito, erano in Generali
DANILO PROCACCIANTI perché Ferrovie non ce l'aveva, non c’erano in archivio.
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Questo non lo so, in archivio dovevano starci non so perché non c'erano.
DANILO PROCACCIANTI Però lei era responsabile
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Sì, ma io già ero andato via
DANILO PROCACCIANTI E vabbè, è andato via quando si sono accorti che mancavano
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO non lo so che fine hanno fatto
DANILO PROCACCIANTI Anche, anche quella pratica di Battisti.
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Lo chieda a Generali che ha fatto un'indagine con i medici
DANILO PROCACCIANTI Nell’audit c’è la mancata trasparenza.
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Di che giornale è?
DANILO PROCACCIANTI Sono di Report, di Raitre
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Ciao, salve
DANILO PROCACCIANTI Non le piace Report?
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Sì che mi piace
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Va via Raffaele D’Onofrio e non spiega perché, quando al suo posto sono arrivati altri, le cose sono andate decisamente meglio. Nel 2016, infatti, l’allora ad di Ferrovie Renato Mazzoncini, nominato dal governo Renzi, a gestire il settore assicurativo chiama due manager di comprovata esperienza, Giovanni Conti e Marco Binazzi. Con loro Generali non è più l’unica partecipante alle gare e si risparmiano 42 milioni di euro in due anni. I due, però, invece di essere premiati, vengono mandati via proprio da Gianfranco Battisti, che nel frattempo era diventato amministratore delegato.
MARCO BINAZZI – EX RESPONSABILE ASSICURATIVO FERROVIE DELLO STATO Mi hanno ovviamente proposto piuttosto che un licenziamento, un accordo consensuale. Dal punto di vista dell’immagine sembra che siamo tutti d’accordo, ma non è così ovviamente. È stata “spintanea” no?
DANILO PROCACCIANTI E perché, secondo lei?
MARCO BINAZZI – EX RESPONSABILE ASSICURATIVO FERROVIE DELLO STATO Probabilmente qui sono andato a pestare tanti piedi, non lo so
DANILO PROCACCIANTI Quando arriva però Conti con Binazzi eccetera in qualche modo risanano quel settore assicurativo
GIANFRANCO BATTISTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 Ma che risanano, ma che, io ho tutto scritto, macché è un bluff! Binazzi e quest’altro quando fanno le altre gare danno perimetri completamente diversi. Sono quelli cacciati che poi hanno architettato tutto.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO I due manager da quello che ci racconta Gianfranco Battisti sarebbero stati quindi cacciati perché complici di un piano per farlo fuori, un piano fatto di lettere anonime che sarebbe stato architettato da Gianluigi Castelli, all’epoca presidente di ferrovie e oggi consulente del ministro Colao.
GIANFRANCO BATTISTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 Un giorno entra questo Castelli e mi legge una lettera anonima che dice che io ero raccomandato dal Vaticano, da Confindustria che, però, avevo avuto un indennizzo non dovuto. Solo dopo dice questa è la prima di altre lettere anonime. Arriva una seconda lettera anonima che dice l’indennizzo corrisponde a questa cifra qua. Che succede, che da questa seconda lettera si scatena la guerra. Renzi su Repubblica: “siluro di Renzi all’ad delle Ferrovie”.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ovviamente l’ex premier Matteo Renzi non c’entra sicuramente nulla con questa presunta attività di dossieraggio. Certo è che quando le lettere anonime non erano ancora uscite dai palazzi delle ferrovie, il 12 ottobre 2019 esce un articolo su Repubblica che anticipa un’interrogazione parlamentare dell’onorevole Nobili di Italia Viva che riprende passo passo quelle lettere anonime e fa riferimento proprio al risarcimento da un milione e seicentomila euro.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Chi ha passato le lettere anonime all’onorevole Nobili e soprattutto chi le ha scritte? Qui comincia una vera e propria spy story con al centro una misteriosa chiavetta che avrebbe viaggiato tra Roma e Milano, la trova un capotreno, dentro c’erano le tre lettere anonime e l’avrebbe dimenticata proprio il presidente di Ferrovie Castelli
GIANFRANCO BATTISTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 lo chiamo, registrato, lui ammette che è la sua chiavetta
DANILO PROCACCIANTI Cioè lui ammette che era tutta una manovra per fare fuori lei
GIANFRANCO BATTISTI – AMMINISTRATORE DELEGATO FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 Sì, dice che è stato lui a fare le lettere anonime e mi propone di non fare niente in modo che non scoppino gli scandali. E quindi c’era tutta una manovra per ammazzarmi.
DANILO PROCACCIANTI Io ho incontrato l'ex amministratore delegato Battisti e lui mi dice che era lei a scrivere le lettere anonime.
GIANLUIGI CASTELLI – PRESIDENTE FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 che lo provi in qualche aula di tribunale dopodiché ne pagherà le conseguenze.
DANILO PROCACCIANTI lui mi racconta la storia di questa chiavetta che è stata trovata su un treno, la chiavetta sarebbe stata sua e dentro c’erano le lettere anonime
GIANLUIGI CASTELLI – PRESIDENTE FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 non so di che cosa stia parlando. Me ne aveva parlato e fatto un cenno, forse posso anche sapere da dove provenisse quella chiavetta ma non è mia intenzione discuterne con lei.
DANILO PROCACCIANTI Ma lei mi conferma che la chiavetta era sua?
GIANLUIGI CASTELLI – PRESIDENTE FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 Io so che girava una chiavetta, è stata girata una chiavetta: che sia stata attribuita a me o che, questo non posso confermarlo con certezza
DANILO PROCACCIANTI Quindi lei non ha mai ammesso di essere stato il corvo?
GIANLUIGI CASTELLI – PRESIDENTE FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 Ci mancherebbe, altro ci mancherebbe altro. La prima lettera anonima era stata inviata non solo agli organi di Ferrovie ma era stata inviata al presidente del Consiglio e a tre ministri. E quindi quali possano essere state poi le fughe di notizie, questo non lo posso sapere
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Una vita vale 330.000 euro, una malattia seppur invalidante 1 milione e 600mila euro. La vita è quella di una figlia morta nella strage di Viareggio. La malattia invalidante anche se non ha fatto mancare un solo giorno dal posto di lavoro è quella dell’ex ad Battisti di Ferrovie. Questo è un po’ un mistero delle valutazioni delle assicurazioni che tuttavia hanno un criterio cinico alla base. Per le polizze assicurative il risarcimento di un manager per una malattia equivale a 3 volte il compenso annuo. E Battisti quell’anno prendeva 500 mila euro. insomma, è tutto legittimo. L’anomalia è la valanga che ne scaturisce da questa polizza assicurativa. Ne scaturisce un’indagine della magistratura, unico indagato Raffaele D’Onofrio. Che gestiva le pratiche assicurative che finiscono nell’occhio di un audit interno. E sarebbero state gestite in maniera impropria, avrebbero addirittura messo a rischio le casse, le risorse dell’azienda, delle Ferrovie dello Stato. Sono finite sotto l’occhio della magistratura i 550 milioni di euro di risarcimenti di premi, di polizze assicurative che sono finite poi nella casse di Generali. Le attuali invece, l’attuale management ci scrive di Ferrovie che prosegue nel campo assicurativo un percorso virtuoso che era cominciato già nel 2016 con l’avvento dell’ad Renato Mazzoncini, che era stato nominato da Renzi. Oggi sono ancora aumentate le compagnie di assicurazione, questa crea una maggiore ovviamente competizione nelle offerte, con conseguenti anche risparmi per le casse delle Ferrovie. Ecco invece riguardo alla sparizione dei 66 documenti, delle 66 pratiche assicurative che sono scomparse dagli archivi tra cui anche quella riguardante la polizza di Battisti di un milione e 600 mila euro, fanno sapere gli attuali manager che sono state presentate delle denunce. Rimane però il mistero di questa chiavetta che ha fatto il viaggio tra Roma e Milano contenente le 3 lettere anonime. Secondo Battisti da noi intervistato l’autore sarebbe il presidente di allora Castelli, che le avrebbe anche preparate e diffuse, e di questo avrebbe prova in una registrazione. Castelli invece da noi intervistato, nega. Il mistero che invece rimane è quello del motivo per cui una di queste lettere anonime, proprio quella riguardante la polizza di un milione e 600 mila euro di risarcimento di Battisti, finisce in un’interrogazione parlamentare. Chi è che consegna questa lettera anonima al parlamentare? Chi è questo parlamentare? È Luciano Nobili di Italia Viva. Lo stesso parlamentare che aveva presentato l’interrogazione su un dossier falso che ci riguardava, che riguardava Report e me in particolare che appunto si è rivelato falso. Lui, abbiamo chiesto una spiegazione, lui che è sempre prolisso, questa volta si cela dietro il riserbo.
ALTA VELOCITA’. DA 30 ANNI LE MANI DELLA CAMORRA SUGLI APPALTI. “REPORT” LE SCOPRE OGGI. Andrea Cinquegrani su la Voce delle Voci il 18 Dicembre 2021.
Le mani della camorra sugli appalti ferroviari.
I tentacoli della malavita organizzata, soprattutto campana, sui miliardari lavori dell’Alta velocità.
E’ lo scoop cucinato da ‘Report’ per il menù serale del 20 dicembre.
Peccato che la storia sia vecchia di trent’anni, raccontata dalla Voce fin dai primi ’90, ricostruita nei verbali della Commissione Antimafia del ’96 e ottimamente raccolta nel libro-verità “Corruzione ad Alta Velocità”, firmato nel 1999 da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato.
Ma, soprattutto, come avevano incredibilmente intuito Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che proprio per questo vennero fatti saltare in aria: “dovevano morire”, perché avevano scoperto quel nuovo Eldorado chiamato TAV per mafia & camorra, unite nella spartizione nel gigantesco fiume di danari pubblici. Con gli ‘amici’ giusti.
Le odierne novità che il team di Report passerà ovviamente ai raggi x sono i “20 miliardi di euro del Recovery Plan” che fanno tanto gola ai clan, come da giorni preannuncia il pacioso volto di Sigfrido Ranucci via spot Rai.
Procediamo in ordine cronologico.
QUEL SUPER DOSSIER “MAFIA & APPALTI”
Falcone e Borsellino hanno potuto lavorare per circa un anno alla pista “Mafia & Appalti”, sulla scorta di un ponderoso dossier elaborato dal ROS dei carabinieri, nonché servirsi delle numerose informative redatte dallo SCO della polizia e dei report del GICO delle Fiamme gialle.
Tutti gli sforzi investigativi erano finalizzati a individuare, in anticipo, i meccanismi attraverso cui le mafie (ossia mafia, camorra e ‘ndrangheta) si stavano attrezzando per dare l’assalto alla diligenza, cioè alle vagonate di miliardi pubblici che lo Stato generosamente metteva in campo per dar vita al faraonico progetto dell’Alta Velocità, il TAV (Treno ad Alta Velocità) per i suoi fans: costosissimo (perciò ottimo per tutti), inutile (del tutto dimenticate le ferrovie secondarie) e devastante sotto il profilo ambientale.
Di particolare pregnanza le quasi mille pagine preparate dal ROS della Benemerita, un maxi rapporto che scandaglia fino in fondo i rapporti, le connection, le collusioni tra grandi imprese del nord e quelle del Sud collegate con cosche e clan. Emblematico, tra tutti i casi, quello del Gruppo Ferruzzi, che con la sua Calcestruzzi sbarca in Sicilia e firma un vero e proprio accordo con gli uomini di rispetto. Tutto ciò farà dire a Falcone, nel 1989, “la Mafia è arrivata in Borsa”, riferendosi alla quotazione del titolo Ferruzzi in Borsa.
Una story, questa, che arriva fino al clamoroso ‘suicidio’ di Raul Gardini, nel pieno della bufera di Tangentopoli, quando il manager si toglie la vita appena prima di recarsi in Procura, a Milano, per ‘vuotare il sacco’. Di tutta evidenza, anche Gardini ‘doveva morire’, cioè ‘non doveva parlare’.
La Voce ha più volte scritto del dossier ‘Mafia& Appalti’, il vero detonatore per le bombe di Capaci e di via D’Amelio; così come ne ha scritto – in perfetta solitudine – Ferdinando Imposimato, quando firmò, nel 1996, la relazione di minoranza all’interno della Commissione Antimafia, all’epoca presieduta dalla forzista Titti Parenti. Una relazione al calor bianco, una vera ‘bomba’, perché venivano messi nero su bianco i nomi di imprese, faccendieri e politici di riferimento, tutti d’amore e d’accordo per spartirsi il gigantesco bottino, un affare colossale partito da appena 27 mila miliardi di lire, lievitato a dismisura con il passare dei primi anni e già attestato, nel 1998, a quasi 150 mila miliardi di lire.
Un conto, quello dei miliardi profusi, che ormai non si riesce più a tenere. E che continua in tutti gli anni duemila e fino ai giorni nostri: tanto è vero che gli ultimi ad arrivare sono proprio i miliardi (ma di euro) del Recovery: non 20, come calcola Report, ma oltre il doppio. E vedremo poi come.
Torniamo al dossier ‘Mafia & Appalti’, dove erano contenuti tutti gli ingredienti di una Tangentopoli ante litteram. E venivano passate ai raggi x imprese che, come in una cartina di tornasole, documentano i rapporti collusivi tra politica, imprese & mafie.
L’IMPRESA DEL CUORE DI ‘O MINISTRO
Tanto per citarne solo alcuni, nel dossier si dettagliano le acrobazie finanziarie della regina del dopoterremoto (l’altra grande manna piovuta dal cielo nel 1980, 70 mila miliardi pubblici pronta cassa) in Campania, ossia ‘ICLA’, l’impresa del cuore di ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino; in ottimi rapporti con la ‘Sorrentino Costruzioni Generali’ prima vicina alla NCO di Raffaele Cutolo poi alla ‘Nuova Famiglia’ di casa Alfieri, e capace di fare un sol boccone, incorporandola, del colosso storico del mattone partenopeo, ‘Fondedile’.
Si parla a lungo di ‘Saiseb’, sigla nell’orbita di Angelo Siino, il ‘ministro dei lavori pubblici’ di Cosa Nostra, una delle reginette degli appalti pubblici in Sicilia, come ad esempio le fognature a Selinunte e i lavori per svariati comuni, come Castelvetrano.
E si parla della ‘Rizzani de Eccher’, l’impresa friulana che può contare su un referente siciliano di tutto rispetto, il geometra Giuseppe Li Pera, l’uomo che conosce tutti i meccanismi degli appalti in Sicilia e non solo; e conosce tutte le collusioni tra imprese del nord e quelle in forte odore mafio-camorristico del sud; e sa tutto sul ‘Sistema Tav’.
Li Pera finisce in galera, e durante la sua detenzione nel carcere romano di Rebibbia viene interrogato dal pm che regge le redini del pool milanese di Mani Pulite, Antonio Di Pietro.
E proprio seguendo le mosse del pm che improvvisamente abbandona la toga e si tuffa in politica, scopriremo perché non è scoppiata la vera Tangentopoli, quella soprattutto a base di TAV, mentre invece è solo andata in scena quella eterodiretta e voluta dalla CIA: perché – pochi lo sanno e quei pochi preferiscono non ricordarlo – nei dieci mesi che hanno preceduto l’inizio di ‘Mani Pulite’, quel 14 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, l’ex poliziotto Di Pietro soleva recarsi, almeno un paio di volte al mese, in visita di cortesia nella magione meneghina del console generale americano, Robert Seldon: di tutta evidenza per ricevere istruzioni operative e anche per aggiornare i servizi a stelle e strisce sui lavori investigativi in corso. Ottimo e abbondante.
Di Pietro, quindi, ha la possibilità di interrogare “chi tutto sa”, Li Pera, sugli appalti siciliani, attraverso i quali corre il filo rosso della corruzione via TAV e il saccheggio politico-mafioso delle casse pubbliche: però non cava un ragno dal buco. Strano, per un pm di tempra ed esperienza come lui…
Ma Di Pietro concede addirittura il bis. E fa il suo capolavoro con la “non inchiesta” sull’Alta velocità: chiamatelo se volete – e di certo ci ‘azzeccate’ – depistaggio. In piena regola.
IL DEPISTAGGIO TAV
Qual è, stavolta, il personaggio chiave, l’uomo di tutti i segreti, colui che tutto sa: o meglio, proprio secondo la definizione data da Di Pietro, ‘l’Uomo a un passo da Dio’?
Si chiama Pierfrancesco Pacini Battaglia detto Chicchi, un faccendiere-banchiere italo elvetico. La Voce ne scrive proprio in occasione dei primi articoli sull’affaire TAV: il suo nome, infatti, faceva capolino in una società, ‘Orox Finanziaria’, che lavorava nell’orbita di ‘Italferr-Sis-Tav’, la società pubblica incaricata dei controlli (sic) sui lavori per l’alta velocità. Della compagine di Orox all’epoca (1993) facevano parte, oltre a Pacini Battaglia, il suo amico Bruno Cimino (manager in Agip Petroli) ed Eugenio Buontempo, il mattonaro partenopeo di riferimento della ‘sinistra ferroviaria’ griffati Psi. Pacini Battaglia e Buontempo, poi, sono stati anche a bordo di una sigla che ha effettuato rilievi nei fondali di Ustica, dopo l’inabissamento del DC9 Itavia.
Torniamo al super depistaggio firmato Di Pietro a base di TAV, dettagliato passo dopo passo nell’imperdibile “Corruzione ad Alta Velocità”.
Sull’affaire TAV partono due inchieste. Una a Roma, concernente soprattutto il profilo ministerial-amministrativo; l’altra (la ciccia) a Milano, sul versante imprenditoriale.
Ecco il primo colpo da maestro messo a segno da don Tonino. Riesce ad ‘avocare’ il fascicolo capitolino, con il pretesto che è opportuno unificare i due filoni e che il principale è, appunto, a Milano, dove c’è una gola profonda che sta parlando (il Chicci). Convince così il più che malleabile titolare delle indagini nel porto capitolino delle nebbie, Giorgio Castellucci, a mollare le carte e a spedirle alla procura milanese.
Atto secondo, all’ombra della Madunina.
Cosa fa – anomalia delle anomalie – il solitamente inflessibile ex poliziotto?
Per una volta, proprio quella volta, al cospetto dell’Uomo a un passo da Dio, usa il guanto di velluto. La sua proverbiale durezza si scioglie come neve al sole, l’imputato Chicchi non fa neanche una notte in gattabuia e torna libero come un fringuello.
Senza aver raccontato niente di niente.
Miracolo di Sant’Ambrosio oppure di San Gennaro? Più probabilmente del secondo, perché per patrocinare la difesa del banchiere che potrebbe arruolare qualsiasi principe del foro, arriva invece dalla Campania un avvocato senza arte né parte, tale Giuseppe Lucibello. Nel suo pedigree c’è solo una nota: è un grande amico di don Tonino.
Il gioco, quindi, è presto fatto. L’oracolo Chicchi resta muto, anche se ‘sbiancato’.
Oppure ‘sbancato’? E’ questo il mistero che i giudici del tribunale di Brescia sono chiamati a decrittare, nel procedimento al quale poi va incontro Di Pietro. Un procedimento che lo vedrà assolto sotto il profilo penale, ma pesantemente censurato sotto quello etico, deontologico, professionale, per via dei più che anomali comportamenti (che hanno fruttato ricchi cadeau e molteplici ‘utilità’) intrattenuti con i ‘suoi’ imputati, spesso e volentieri via ‘legali’, come con l’amico Lucibello.
Alla fine della story, quindi, la maxi inchiesta sull’affare TAV va a farsi benedire, tutto finisce a tarallucci e vino, dopo pochi mesi don Tonino si sbarazza della toga e quell’inchiesta finisce letteralmente sotto montagne di naftalina. E non verrà mai più riesumata. Più che un depistaggio, l’autentico killeraggio di una pista investigativa d’oro.
Ultima ‘chicca’, è il caso dirlo: sapete da quale pm doveva andare per verbalizzare, quella tragica mattina, Raul Gardini? Da Di Pietro.
CIFRE, CLAN & IMPRESE
Ma terminiamo il tour ad alta velocità tornando a bomba.
Ossia a quelle mani della camorra sugli appalti banditi da FS e RFI (Rete Ferroviaria Italiana), farciti con i freschi miliardi del Recovery, di cui il 20 parla Report.
A proposito di cifre, ecco il totale reale, così come viene ricostruito da ‘Il Sole 24 Ore’: “La missione 3 del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) alimenta gli investimenti nelle infrastrutture ‘per una mobilità sostenibile’ con una spesa di 25,4 miliardi finanziata dai fondi europei, cui vanno aggiunti 6 miliardi previsti dal fondo complementare nazionale. (…) Ma se si vuole dare il totale delle risorse europee e nazionali collegate al Pnrr per le infrastrutture della mobilità sostenibile si deve parlare di 41,81 miliardi”.
Passando ai clan più impegnati, storicamente, nel dorato business di binari & carrozze, un nome è d’obbligo, quello dei Moccia da Afragola, uno dei più popolosi comuni dell’hinterland partenopeo dove, guarda caso, è miracolosamente ‘piovuta’ dal cielo la mega stazione TAV, un vero gioiello nel più totale deserto, firmato dall’archistar anglo-iraniana Zaha Hadid.
Per inquadrare e decifrare il contesto ‘ambientale’, ci affidiamo alle parole di Francesca Fagnani, che parte da una scena da soap, tutta melodie & confetti, ossia il pranzo nuziale di una rampolla eccellente, Lucia Moccia.
Dettaglia Fagnani: “Erano presenti molti imprenditori dell’area nord-est di Napoli, affidatari d’importanti appalti, come Bartolo Paone, un imprenditore di Casoria che con la sua ‘Cogepa’ ha stipulato contratti con Tim, Enel, Open Fiber, Enav, Terna; o come Giovanni Esposito, padre di Manlio ed Angelo, proprietari di ‘Kam Costruzioni’ con sede ad Afragola, che risulta nella lista degli operatori a cui RFI ha affidato appalti per una serie di attività, in un caso addirittura per 13 milioni di euro. A ben vedere risultano altre ditte, vicino ai Moccia, che lavorano per RFI: come ad esempio la ‘Railway Enterprice srl’, per una classe d’importo pari anche qui a 13 milioni, intestata a Concetta Credendino, moglie di Giuseppe De Luca (condannato in passato per mafia), cognato di Angelo Moccia e ai figli Antonio e Leonardo De Luca. Anni prima Railway, in un complicato valzer di passaggi societari, aveva acquisito la ‘Del Gap Costruzioni srl’, già destinataria di un’interdittiva antimafia perché sussistevano tentativi d’infiltrazione mafiosa da parte della criminalità organizzata”.
Continua la ricostruzione: “La lista degli amici imprenditori dei Moccia che si sono aggiudicati un appalto pubblico da RFI incredibilmente non finisce qui. Nell’elenco degli operatori che lavorano per l’azienda pubblica compare anche la ‘Edil-Fer srl’, di proprietà dei figli di Enrico Petrillo, Gennaro e Antonio e amministrata dalla sorella, Orsola Petrillo. Chi è Enrico Petrillo? Un imprenditore edile che entra molti anni fa nell’orbita dei Moccia attraverso amicizie pericolose con cui era in affari: Giorgio Salierno e sua moglie Immacolata Capone, tramite di Michele Zagaria, al vertice del clan dei Casalesi. Salierno e la Capone verranno assassinati in due distinti agguati camorristici, Enrico Petrillo invece resterà contiguo alla famiglia Moccia, tanto che la ‘Edil.Mer.’, la società di cui Petrillo era titolare, sarà poi colpita da due interdittive antimafia proprio perché ritenuta condizionata dal clan di Afragola. Anche la famiglia della moglie di Petrillo, Francesca Mormile, appare molto vicina ai Moccia: suo fratello Luigi fu arrestato a Gaeta per favoreggiamento, sorpreso in barca con i latitanti Angelo e Antonio Moccia; e sua sorella Giuseppa Mormileè la dama di compagnia di Teresa Moccia”. Cin cin.
Inchieste. LA GRANDE OPERA. Report Rai PUNTATA DEL 20/09/2001 di Stefania Rimini
AGGIORNAMENTO DEL 29/04/2002
Di Stefania Rimini - Era il 29 dicembre 1992, quando il governo dà il via all' operazione Alta Velocità, appena tre giorni prima dell'entrata in vigore della direttiva europea che impone di fare gare d'appalto internazionali.
Il 29 Dicembre del 1992 il governo italiano dava il via alla costruzione dell'"alta velocità". I soldi ce li mettevano per la maggior parte i privati, i lavori li avrebbero eseguiti 3 General Contactors in grado di rispettare i tempi e i costi, ovvero l'Iri, l'Eni e la Fiat. Tempi di consegna: 1999. Quindi oggi dovremmo viaggiare da Napoli a Milano a 300 km all'ora. E invece? Invece niente, per completare l'intera tratta nazionale con treni, nel frattempo ribattezzati ad "alta capacità", dovremo aspettare fino al 2010. Nel frattempo i costi sono triplicati e nessuno e' in grado di dire esattamente quanto verrà a costare l'operazione finale; fatto marginale se non fosse il contribuente a pagare per intero questa "grande opera". Ma non si era detto che a pagare erano i privati? Strada facendo, dalla Val Susa, passando per la tratta Milano Genova e Milano Venezia, per scendere giù fino a Roma emergono tutte le realta' locali fatte di concessioni in cambio di parcheggi, tangenziali...
I DOCUMENTI:
I quesiti del Consiglio di Stato
Gli impegni di spesa del TAV
LA GRANDE OPERA di Stefania Rimini
MILENA GABANELLI IN STUDIO Questa sera cercheremo di capire storia, finanziamenti, pro e contro della linea ad alta velocità e, tanto per iniziare, vediamo come viaggiano gli altri, i francesi.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Qui è l'estremo Nord della Francia. Oltre il faro c'è il canale della Manica. Alla stazione di Calais sta per partire un TGV, il treno ad alta velocità francese, che sta per tentare un record.
AUTRICE Oggi i francesi provano a fare 1077 chilometri in 4 ore: da Calais, dove siamo adesso, fino a Marsiglia.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Partiti! In 22 minuti il treno ha già percorso 100 km con punte di 360 all'ora; non si scende mai sotto i 320 all'ora. Ecco là Avignone: in 3 ore e 13 siamo ormai in Provenza. Il TGV inizia a rallentare, stiamo entrando a Marsiglia. E' come andare da Bolzano a Taranto e il TGV l'ha fatto in 3 ore e 29 minuti. Poi sono tornata in Italia, sempre col treno. Marsiglia - Ventimiglia, quindi Ventimiglia - Genova, 3 ore, e poi il diretto Genova-Bologna, altre 3 ore e un quarto. Ma quest'ultimo a un certo punto si è fermato per strada e nessuno sa perché.
PASSEGGERO Dicono che è un problema della locomotiva che abbiamo davanti che& ha bucato!
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Effettivamente siamo fermi perché pochi chilometri più avanti i binari sono occupati da un altro treno in avaria: stiamo aspettando che qualcuno lo sposti, come spiega il controllore. CONTROLLORE (coprendosi il volto) Hanno già mandato qualcuno. Non sappiamo però se l'hanno agganciato, se lo stanno trainando. Non rispondono al telefono
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Quando ripartiamo è quasi buio. Alla fine il treno è arrivato a Bologna con un'ora di ritardo. Totale: Genova - Bologna, 285 Km, in 4 ore e un quarto. Ma quand'è che avremo l'alta velocità anche in Italia?
MILENA GABANELLI IN STUDIO Parlare di un'alta velocità che ancora non si vede ma che stiamo già pagando da 10 anni, e che continueremo a pagare per altri 10, significa spiegare cosa è e da dove è partita. L'inchiesta della nostra brava Stefania Rimini inizia il 29 dicembre 1992, quando il nostro governo, tre giorni prima dell'entrata in vigore della normativa europea che prevede gare d'appalto internazionali, dà il via, per il rotto della cuffia, all'intera operazione. Le Ferrovie dello Stato affidano i lavori all'IRI, all'ENI e alla FIAT, in gergo si chiamano "general contractors", sono i più grandi gruppi industriali italiani in grado, si pensa, di garantire tempi e costi certi. A loro volta questi gruppi affidano i lavori ad altre società e a consorzi. Bisogna dire però che all'epoca si profilava tangentopoli per cui i grandi lavori pubblici entrano in stallo e l'alta velocità rappresenta l'ultima grande occasione, la scialuppa di salvataggio per cui chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori. E dentro ci sono proprio tutti.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Costo dell'opera: 26.180 miliardi. Opera pronta: nel 1999. Chi se ne deve occupare è una nuova società creata dalle FS, cioè la TAV, Società Treno Alta Velocità. La TAV è presentata come una società che rischia soprattutto del suo, perché i soci privati ci hanno messo il 60% del capitale. E poi? Poi negli anni seguenti le cose vanno diversamente dal previsto. I lavori non procedono. I costi aumentano. I soldi dei privati non arriveranno mai, e tutto il conto dell'Alta Velocità lo paga lo Stato. Le FS finiscono per ricomprare le quote del capitale privato all'interno della società per il treno ad Alta Velocità e quindi la TAV, che doveva essere una società che rischia soprattutto del suo, oggi è una società che rischia soprattutto del nostro...denaro, si intende. Infine, a distanza di dieci anni, anche l'Alta Velocità non è più la stessa: le hanno cambiato il nome in "Alta Capacità". Come mai?
ANTONIO SAVINI NICCI - Amministratore delegato TAV All'inizio sembrava veramente importante concentrarsi sulla velocità, in realtà le necessità del paese sono quelle di rispondere aumentando di molto l'offerta ferroviaria, e quindi, "Alta Capacità": più merci, più passeggeri a media e lunga percorrenza, più traffico locale.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Quindi da un sistema dedicato solamente ai passeggeri, siamo passati a un sistema dedicato anche alle merci. L'ex direttore del settore merci delle Ferrovie, la legge in un'altra maniera:
GIUSEPPE PINNA - Ex Direttore settore merci Ferrovie dello Stato Il mio dubbio è che viene adoperato questo slogan per coprire il fatto che neanche sui viaggiatori si è trovata una soluzione di redditività all'Alta Velocità, questo è il mio dubbio. Allora si dice:"lo faccio per le merci".
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Lei dice che quella che ci sarà in Italia non sarà Alta Velocità?
GIUSEPPE PINNA - Ex Direttore settore merci Ferrovie dello Stato No, tant'è vero che abbiamo dovuto cambiarle il nome per dire che non è alta velocità!
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Che la facciamo per le merci o che la facciamo per i passeggeri, che la chiamiamo Alta Capacità piuttosto che Alta Velocità, sta di fatto che doveva essere finita già nel '99. Vediamo a che punto sono con i lavori. Lo chiediamo direttamente ai costruttori. Tratta Roma - Napoli, Consorzio Iricav Uno, riferito all'Iri.
LUCIANO BERARDUCCI - Presidente IRICAV UNO. Noi prevediamo che i lavori si concluderanno nel 2004.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Tratta Milano Bologna, Consorzio Cepav Uno, riferito all'Eni.
ANGELO CARIDI- Presidente CEPAV UNO Il completamento dei lavori contrattualmente è previsto a fine giugno 2006.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Tratta Bologna - Firenze, Corsorzio Cavet, riferito alla Fiat.
CARLO SILVA - Direttore generale CAVET Il programma di messa in esercizio della linea è previsto per la fine del 2006.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE E tutta la rete nel complesso, quando sarà pronta?
ANTONIO SAVINI NICCI - Amministratore delegato TAV La rete ad Alta Velocità, la prima fase da Torino a Milano a Napoli, entrerà in esercizio nel 2007.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Mancano all'appello le due tratte di Milano - Venezia e Milano - Genova, che sono ancora nella fase in cui devono ottenere tutti i permessi degli enti locali e dei ministeri, per cui l'Alta Velocità o Alta Capacità sarà finita soltanto nel 2010. Insomma, dovremo aspettare altri 9 anni. Ma se la Fiat, l'IRI e l'ENI erano stati scelti saltando le gare d'appalto proprio perché potevano garantire tempi certi, com'è possibile un ritardo così? Cepav 1, tratta Milano-Bologna, a cosa è dovuto il vostro ritardo?
ANGELO CARIDI- Presidente CEPAV UNO Al mancato completamento di tutte le autorizzazioni previste in chiusura di Conferenza dei servizi.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Niente paura, adesso vi spieghiamo cosa vuol dire "conferenze dei servizi". Tradotto dal burocratese significa che i rappresentanti di tutti i Comuni, le Regioni e le Province attraversate da una linea ad Alta Velocità si mettono insieme e ognuno dice la sua sui problemi annessi e connessi. E finché non danno il via libera tutti, o almeno la maggioranza, non si può cominciare a costruire. IRICAV UNO, tratta Roma - Napoli.
LUCIANO BERARDUCCI - Presidente IRICAV UNO. Nel caso della Roma Napoli è sorta una molteplicità di difficoltà con gli enti locali, ognuno dei quali, abbastanza legittimamente, intendeva ancora di più difendere gli interessi della cittadinanza e del territorio attraversato.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE CAVET, tratta Bologna - Firenze. Se lei dovesse elencare i fattori che hanno causato i ritardi?
CARLO SILVA - Direttore generale CAVET Il fattore di ritardo sulla Firenze Bologna è stato solamente un problema di scelta della penetrazione urbana della linea a Firenze e a Bologna.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Traducendo: con "penetrazione urbana" il direttore del CAVET intende la decisione su come la linea ad Alta Velocità entra nelle città di Bologna e di Firenze. Tutti d'accordo, allora: i ritardi li hanno causati gli enti locali con le loro interminabili discussioni sui progetti che le imprese gli presentavano prima per ottenere l'autorizzazione a passare poi sul loro territorio. Ma che cos'avranno tanto da ridire sui progetti questi enti locali? Per capirlo siamo andati a vedere sulla tratta su cui stanno appunto ancora discutendo, cioè la Milano Venezia. Qui siamo a Peschiera, in provincia di Verona, e precisamente al santuario della Madonna del Frassino.
GIOVANNI MONTRESOR - Ingegnere L'Alta Velocità qui a Peschiera è previsto che passi tra la statua della Madonna e il santuario della Madonna del Frassino. E' prevista parzialmente interrata: quindi ci sarebbe un rilevato in terra alto circa 2-3 metri tra la Madonna del Frassino e il suo santuario. DONNA N.1 Non potremo più usufruire di un posto di pace e di serenità.
GIOVANNI MONTRESOR - Ingegnere Potrebbero esserci sicuramente delle lesioni per queste strutture lapidee che hanno ormai una certa età e che non si possono spostare, mentre l'Alta Velocità sì.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Ma il progetto proposto non crea solo dilemmi spirituali.
DONNA N.1 Questi sono i vigneti della zona lugana. Praticamente verrà sbancata buona parte della zona Doc. E' un peccato perché l'uva Lugana rende molto e viene pagata anche 150 mila lire al quintale.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE E come la mettiamo con la conservazione delle tradizioni?
MARISTELLA TITONI Per Cavalcaselle l'Alta Velocità andrà a tagliare il colle dove si svolge una fiera millenaria della transumanza.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Qui, invece, siamo ad Arcugnano, in provincia di Vicenza.
GIANNI FRANCHIN - Assessore ambiente ad Arcugnano Lo stravolgimento maggiore è proprio il fatto di dover fare un argine alto quasi 3 metri per far passare il treno e, per avere accesso a tutte le frazioni qui intorno, dobbiamo fare un cavalcavia che per circa 10 metri deve passare sulla ferrovia, un impatto ambientale che definirei "mostruoso". E' come se noi andassimo in Toscana, a San Gimignano, a Volterra e gli proponessimo di fare qualcosa del genere presso i loro paesi.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Sempre in provincia di Vicenza, vogliono far passare il treno in una delle rare valli rimaste ancora come una volta. I pochi che ci abitano si ritenevano dei privilegiati, fino a quando non hanno saputo che davanti a casa loro vogliono costruire ben tre viadotti.
UOMO Dovrebbe passare proprio qui di fronte. Mi vedrei tutto lo spettacolo, dovrò fare domanda per un posto di casellante!
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Ma allora, dove vogliono farlo passare questo treno gli enti locali della tratta Milano - Venezia?
ENNIO TOSETTO - Comitato Altavilla Vicentina Vogliamo che si realizzi un tunnel a partire da Altavilla che passi sotto la città di Vicenza e che esca dopo Grisignano di Zocco. In questo modo si risolverebbero tutti i problemi dal punto di vista ambientale e trasportistico.
MILENA GABANELLI IN STUDIO Mentre si discute il tempo passa, e insieme al tempo aumentano anche i costi. Per esempio la tratta Milano - Bologna era stata stimata dalle Ferrovie dello Stato a 2900 miliardi, a costruirla è il CEPAV 1 che fa capo all'IRI, dopo 10 anni a quale cifra saranno arrivati?
ANGELO CARIDI - Presidente CEPAV UNO Il prezzo forfettario per l'opera è di 9.294 miliardi e 500 milioni.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Da 21 mila a 43 mila miliardi, il conto dell'Alta Velocità in dieci anni è più che raddoppiato e non include nemmeno le tratte ancora da fare, come la Milano - Venezia e la Milano - Genova. E ricordate che erano partiti dicendo che la maggior parte dei soldi sarebbero arrivati dai privati, mentre la verità è che oggi la bolletta dell'Alta Velocità è tutta a carico delle casse statali. Tanto che c'è qualcuno che pensa che questa stangata che ci arriva non sia una pura e semplice sfortuna e che se fossero state fatte quelle famose gare d'appalto, nel 91, non ci troveremmo in questa situazione. Il meccanismo se lo è studiato bene il direttore dell'Itaca, Istituto per la trasparenza negli appalti.
IVAN CICCONI - Direttore itaca e Quasco E' un meccanismo infernale, perché procedendo a gare internazionali si potrebbero risparmiare 27.500 miliardi.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Ma su questo meccanismo torneremo dopo. Prima chiediamolo direttamente ai costruttori perché i costi dell'Alta Velocità sono più che raddoppiati.
MARIO LUPO - Presidente Associazioni Imprese Generali AGI Il Comune che cosa fa? Ad un certo punto cerca di vendere cara la pelle: tu vuoi passare sul mio territorio? Allora mi fai la piscina, mi fai la scuola comunale, mi fai il parco delle Rimembranze, mi fai la viabilità minore e questi sono tutti sovraccosti che fanno lievitare il prezzo finale dell'opera.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Quindi da una parte la TAV aveva bisogno del permesso del Comune per fare un buco e dall'altra parte il Comune aveva bisogno dei soldi della TAV per farsi la scuola nuova . E' andata così? Risponde la presidente del coordinamento dei sindaci del Nord Est.
MARIA LUISA TESO - Sindaco di Grumolo delle Abbadesse Con noi avevano incominciato a dire "sei l'unico Comune che non ha ancora dato parere favorevole, gli altri Comuni sono d'accordo, se anche tu non ti metti in movimento non potrai avere nulla, perché passeremo in ogni caso".
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Qui siamo in alta Toscana, nel Mugello. E' un buon posto per capire com'è andata, poiché i Comuni del Mugello, a detta della TAV, sono stati fortemente impattati dai cantieri dell'Alta Velocità. Siamo nel territorio del Comune di Firenzuola. Il Cavet qui ha costruito ben 220 km di strade che rimarranno al Comune. C'è stato un prezzo però: Firenzuola ha perso molte delle sue sorgenti, che sono state intercettate e prosciugate durante i lavori. Un sacrificio annunciato: per esempio la Badia di Moscheta si sa già che rimarrà senz'acqua. Come si vede, il Cavet ci ha costruito un bel parcheggio nuovo per i turisti, ma quando qui sarà tutto secco è probabile che di turisti non se ne vedranno molti.
FRANCO ALPI - Assessore all'ambiente di Firenzuola Le sorgenti d'acqua si seccheranno, probabilmente, così come in altre zone interessate dall'Alta Velocità del nostro comune di Firenzuola.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Ma perché il comune di Firenzuola ha accettato di perdere le sorgenti. Questa è una zona bellissima, si rischia di perdere il turismo.
FRANCO ALPI - Assessore all'ambiente di Firenzuola No, non si tratta di accettarlo o no. Ti ripagano, ma non è sufficiente, è una toppa. Hanno dato una cifra di 30 miliardi.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Trenta miliardi solo per Firenzuola. Non male per un paese di 5000 abitanti. Pare che ne approfitteranno per costruirsi il collegamento con l'autostrada che desideravano da tempo. Ma andiamo avanti a vedere come sono stati spesi i soldi dell'Alta Velocità. Qui siamo alla frazione la Traversa.
FABRIZIO FRANCHINI - Comitato Amici del Sasso di Castro L'area verde verrà spostata e ampliata con una spesa complessiva di un miliardo in cambio della distruzione del Monte del Sasso di Castro, uno dei monti più belli di tutto l'appennino tosco-emiliano.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Qui siamo alla frazione Covigliaio, 125 abitanti.
ADRIANO MALAVOLTI - Comitato Amici del Sasso di Castro Avevamo già un piccolo parcheggio, su in alto. Questo qui è vuoto per quasi tutto l'anno, al limite può servire a metterci qualche attrezzo agricolo.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Quindi Covigliaio ha ricevuto un bel parcheggio che non serve a nessuno. Andiamo a S.Piero a Sieve. Qui i cantieri del Cavet avevano bisogno di una strada per portar via i materiali di scarico. Il Comune gli ha chiesto una strada che deviasse dal paese.
SARA BENSI Senza motivo alcuno è stato costruito un cavalcavia che unisce tre case con il colle opposto.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Il fatto è che quelle tre case avevano già un passaggio che le univa con la strada. Allora non si capisce a cosa serve il cavalcavia nuovo.
SARA BENSI L'unica cosa che so è che questo ponte triplica i rumori quando le macchine passano sotto.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Risultato: inquinamento acustico giorno e notte. E quanto è costato questo ponte inquinatore? SARA BENSI A me è stato detto che è costato 700 milioni di cemento armato.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE 700 milioni solo per questo ponte. Come li giustifica il Cavet che l'ha costruito?
CARLO SILVA - Direttore generale CAVET Non dimentichiamo che il Cavet è un'impresa di costruzioni. Oso dire che è come un pasticcere: mi si chiede tre cannonicini, due meringhe e tre biscotti, io mi faccio pagare come pasticcere e glieli faccio. Chiaramente poi chi paga è il proprietario.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE I costruttori possono lavarsene le mani delle opere inutili perché tanto vengono rimborsati completamente. Infatti chi paga alla fine è la TAV, con il denaro pubblico. Ma quello che a noi pare inutile, per i diretti interessati, che incassano, ovviamente inutile non è.
ANGELO CARIDI - Presidente CEPAV UNO Vorrei chiarire anche questo: non ci sono delle opere "compensative", non c'è una linea ad Alta Velocità e poi dei campi di calcio, delle piscine o cose del genere, sgombriamo senz'altro il campo da questa ipotesi. Tutte le opere che noi realizziamo sono intimamente connesse all'infrastruttura.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Visto che il CEPAV UNO lavora alla realizzazione della Milano - Bologna, andiamo a vedere se è vero che sulla sua tratta si stanno realizzando solo opere intimamente connesse all'infrastruttura. Qui siamo a Fontanellato, in provincia di Parma, dove ha sede la Pizzarotti, una delle aziende di costruzioni che fanno parte del CEPAV UNO.
GIULIANO MORELLI - Artigiano Fontanellato, che ha un centro abitato di circa 3000 abitanti, non si riesce a capire perché debba avere un'opera di compensazione per la realizzazione dell'Alta Velocità, di una tangenziale di 22 km. Chiaramente è una cosa in più che non serve a Fontanellato: sarebbero sufficienti circa 9 km per togliere il traffico dal centro abitato e portarlo all'esterno del paese.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE E allora a cosa serve una tangenziale da 22 Km?
GIULIANO MORELLI - Artigiano Probabilmente serve ad avvantaggiare qualche industria, ma non sicuramente i cittadini di Fontanellato che su questa opera sono quelli che vengono maggiormente penalizzati.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Sempre a Fontanellato, la TAV ha speso un miliardo per il restauro della Rocca. Anche questo è intimamente connesso all'infrastruttura?
ANTONIO SAVINI NICCI - Amministratore delegato TAV Abbiamo lì aperto però uno sportello per tutti quanti volessero informazioni sulla tratta.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Si spende 1 miliardo per restaurare una rocca, ci si apre uno sportello d'informazione e si dice che è intimamente connesso all'opera ferroviaria. Non è un po' tirato per i capelli?
MILENA GABANELLI IN STUDIO Forse si. Però secondo la TAV le rocche, le strade, gli asili fanno lievitare i costi solo del 10%, un po' come la mancia al ristorante. Ma quello che fa aumentare i costi in maniera pesante è la continua richiesta di modifica al progetto originale. Un meccanismo complesso che, si pensa, qualcuno controllerà. Ma chi? Facciamo l'esempio della Bologna - Firenze.
IVAN CICCONI - Direttore Itaca e Quasco Sulla Bologna - Firenze si realizza il paradosso che il committente dell'opera è la Fiat nei confronti di Cavet. La maggioranza del Cavet per il 75% ce l'ha l'Impregilo, che è Fiat. Per cui il controllore Fiat controlla se stesso. Quindi quale stimolo Fiat ha per tenere bassi i costi? Nessuno.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Volevamo sentire la Fiat, ma la Fiat ci ha rimandato al Cavet come soggetto più qualificato per l'intervista e quindi sentiamo cosa risponde il Cavet. E' vero che controllando l'Impregilo, la Fiat controlla sé stessa?
CARLO SILVA - Direttore generale CAVET Diciamo che questo progetto è iniziato nel '92. All'epoca l'Impregilo era di maggioranza Fiat. Oggi la partecipazione azionaria si è molto stemperata per cui direi che l'Impregilo oggi è una public company con un azionista di riferimento privato.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Comunque sia, il sistema contrattuale ha un'altra caratteristica che fa venire dei dubbi: per fare i lavori le imprese prendono 100 tutto garantito dalla TAV, ma poi solo 60 lo fanno loro, 40 lo fanno fare fuori con gare d'appalto. Facendo le gare d'appalto ottengono dei ribassi e quello che hanno risparmiato non lo restituiscono alla TAV ma se lo tengono loro, anche se si tratta di denaro pubblico. Quindi questo è legale?
IVAN CICCONI - Direttore Itaca e Quasco Sarebbe legale se il concessionario rischiasse ma siccome i consorzi prendono 100, tutto pubblico, non si vede perché si debbano tenere il risparmio.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Questo ribasso ve lo tenete voi?
LUCIANO BERARDUCCI - Presidente IRICAV UNO Certamente sì. E' vero che però ci teniamo noi (e le potrei fare una lunga casistica) anche i maggiori oneri quando l'impresa che ha fatto l'offerta decide ad un certo punto che i lavori non le convengono più, lascia tutto in sospeso e noi dobbiamo subentrare per finire quei lavori. Questi sono dei maggiori oneri imprevisti e imprevedibili che dobbiamo sopportare.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Mi dica una cosa: quanti macchinisti ci vogliono per questi treni? Uno o due?
MACCHINISTA Due.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE (su immagini di sportello aperto su treno in movimento) La sicurezza è importante in Italia ed è legata anche al grado di automazione. E siamo in regola con l'automazione? Qui si viaggia con la porta aperta.
MILENA GABANELLI IN STUDIO Sui treni interregionali comunque questa non è una novità. Ma rimaniamo su quelli veloci e andiamo a vedere quei paesi che hanno già da un po' l'alta velocità come la Francia e la Germania. Partiamo da Parigi e vediamo se i loro treni super veloci si fermano ogni 100 km o vanno via dritto alla destinazione finale?
FRANCOIS LALIRE - Pilota del TGV Sono io che accelero, che freno, ma quando tutto va bene qui non c'é quasi niente da fare. Ecco si parte. Tutto quello che su un treno normale si fa a mano, sul TGV è automatico.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE In Francia i treni ad alta velocità viaggiano come su una colonna d'acqua. Dove passano loro non passa nessun altro treno.
FRANCOIS LALIRE - Pilota del TGV Su questa linea possono viaggiare solo i TGV normali, TGV Thalys che fa la linea Parigi, Bruxelles, Amsterdam e Colonia. I treni normali non possono passare. Fa questa linea anche il TGV Eurostar, che va da Parigi a Londra: è una linea dedicata ai treni che vanno a 300 all'ora.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Il TGV può andare anche molto veloce perché la linea è tracciata come una retta su una carta geografica.
FRANCOIS LALIRE - Pilota del TGV Per evitare di girare intorno alle colline il percorso è stato tirato come una retta, il più dritto possibile, e segue il tracciato dell'autostrada, per non rovinare il paesaggio.
ROLAND BONNEPART - Dirigente SNCF (Ferrovie Francesi) Un TGV normale fa tranquillamente i 300 all'ora. Siamo riusciti a farlo andare anche ad oltre 500 all'ora, già 10 anni fa. Con il nostro sistema, le carrozze sono rigidamente collegate l'una all'altra, il che permette una notevole stabilità del treno.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Mentre in Francia le linee veloci sono dedicate esclusivamente ai treni veloci e non ai merci, in Germania hanno scelto una soluzione mista fin dall'inizio: treni merci veloci e treni passeggeri veloci sulle stesse linee. Siamo andati a Monaco per vedere come funziona il loro sistema ad alta velocità. Innanzitutto i treni veloci tedeschi, sono un po' meno veloci di quelli francesi.
JOHANNES DRILLER - Dirigente DB (Ferrovie tedesche) La velocità media dipende dalla linea e va dai 160 ai 200 all'ora.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Mentre il TGV francese è l'equivalente di un'auto di Formula 1, il treno veloce tedesco, che si chiama ICE, è l'equivalente di una Mercedes. In sostanza, mentre il Francia il traffico si irradia da Parigi e si dirama sulle lunghe distanze, in Germania il traffico si concentra tra città medie e grandi relativamente vicine e quindi i tedeschi hanno preferito dei treni non troppo veloci, ma che possono trasportare più persone.
MILENA GABANELLI IN STUDIO Anche da noi i treni fanno fermate sulle medie distanze però sulla direttissima Firenze - Roma abbiamo già l'alta velocità perché si viaggia a 250 km orari. Le Ferrovie dello Stato stanno investendo molto perché prevedono di passare nei prossimi 10 anni dai 20.000 ai 100.000 passeggeri al giorno. Basandosi sul fatto che si farà più strada in meno tempo. Ma è credibile?
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Le Ferrovie dello Stato fanno queste previsioni calcolando che con l'alta velocità si realizzeranno consistenti risparmi di tempo. Per esempio la Roma Milano, che oggi si fa in 4 ore e mezza, con l'Alta Velocità si farà in 3 ore. Benissimo. Ma il punto è un altro: c'era proprio bisogno dell'alta velocità per risparmiare tempo? Per esempio, da Milano a Firenze e da Firenze e Roma la distanza è quasi uguale: circa 290 Km. Il treno veloce dovrebbe impiegare lo stesso tempo a fare ciascuna tratta. Invece no: sulla Firenze - Roma impiega meno, anche se lì va più piano, a 250 invece che a 300 all'ora. Com'è possibile? E' perché il treno super veloce fa comunque molte fermate. Insomma è come avere una Ferrari in autostrada e fermarsi ad ogni autogrill. Ma allora, c'era proprio bisogno dell'Alta Velocità? O non bastavano degli Intercity veloci?
CLAUDIO CANCELLI - Docente Ingegneria Politecnico di Torino Facendo un discorso tagliato con l'accetta, questi treni hanno la possibilità di essere relativamente redditizi se si possiedono grandi città di milioni di abitanti, poste a una distanza di 300/500 km tra loro e senza la necessità di fermate intermedie. I paesi che non hanno queste caratteristiche come l'Inghilterra, la Svezia e la Svizzera hanno scartato l'alta velocità perché mancavano i presupposti tecnici ed economici perché la cosa risultasse funzionante. L'Italia è l'unico paese che senza nessuna analisi, né tecnica né economica né di redditività, si è buttata a capofitto a un certo punto in un'impresa di questo tipo.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Però l'alta velocità è diventata ormai alta capacità alla tedesca, passeggeri e merci insieme. Funzionerà? Vedremo. Intanto però, proprio i tedeschi hanno cambiato idea.
JOHANNES DRILLER - Dirigente DB (Ferrovie tedesche) I treni passeggeri andranno sulle linee nuove e i treni merci su quelle vecchie. Separandoli, vanno più veloci sia le merci sia i passeggeri.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE L'obiettivo è che con l'Alta Capacità molte merci dovrebbero spostarsi dai Tir su strada alla Ferrovia. Per capire se questo è realistico, spostiamoci in Val di Susa, in provincia di Torino. Qui il Governo italiano e il Governo francese intendono costruire la Torino - Lione, una nuova tratta ad Alta Velocità che dovrebbe risolvere il problema del traffico delle merci con un tunnel di 54 Km tra l'Italia e la Francia. Ma i Valsusini non ne vogliono sapere e sono andati a protestare al Ministero dell'Ambiente.
OSCAR MARGAIRA - Comitato Habitat Val di Susa Tutti gli amministratori hanno detto che ci sono alcuni tipi di problemi e si sono sentiti rispondere che sarebbero stati presi in considerazione. Al momento di stendere il rapporto, viene fuori: capitolo 10, era intitolato "problemi aperti: l'opposizione degli enti locali e delle associazioni dei cittadini". Il titolo è diventato: "la partecipazione delle comunità locali e del pubblico".
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Ma di cosa hanno paura gli abitanti della Valsusa? Per esempio, dell'effetto "diga".
CLAUDIO SCAVIA - Docente Geotecnica Politecnico di Torino Nella bassa Val di Susa, il treno passerà in rilevato, un rilevato di 8/9 metri che costituirà una vera e propria diga nel momento in cui fossimo in presenza di un'alluvione, come è successo nell'ottobre dell'anno scorso, impedirà il normale deflusso dell'acqua.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Poi i Valsusini temono che bucando la montagna per 54 Km, si vadano ad intercettare delle vene di uranio e che quindi i detriti che verrebbero scaricati nella valle possano essere radioattivi. I residenti della Valsusa fanno notare che nel gruppo dell'Albenga quella dell'uranio è una presenza conosciutissima, tanto che ne era previsto lo sfruttamento nazionale. Inoltre i Valsusini non accettano quello che considerano uno scempio inutile della loro valle, che costerà 12 mila miliardi.
UOMO Mi seccherebbe moltissimo pagare per venti anni finanziarie salate per un'opera che alla fine dei conti è inutile, come è dimostrato.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Dall'altra parte c'è il Comitato promotore della Torino - Lione, di cui fan parte associazioni imprenditoriali e grandi Comuni da Torino a Trieste, guidato da Sergio Pininfarina. Il Comitato ha una risposta per tutto. Per esempio, l'uranio? Non c'è.
BRUNO BOTTIGLIERI - Segretario Comitato promotore Transpadana Abbiamo letto i risultati delle indagini geologiche condotte dai tecnici italiani e francesi sul tracciato e questa storia dell'uranio fino ad oggi si è rivelata una favola.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Secondo il blocco dei promotori e secondo i due Governi, italiano e francese, la linea Torino - Lione ad Alta Velocità è indispensabile per togliere dalla strada 40 milioni di tonnellate di merci nei prossimi anni. Ma stranamente, in uno studio commissionato proprio dai progettisti, si dice che la costruzione della Torino - Lione farà spostare su ferrovia soltanto l'1% delle merci. Chiedo spiegazioni al portavoce del Comitato Promotore.
BRUNO BOTTIGLIERI - Segretario Comitato promotore Transpadana No, ma per carità, e allora secondo Lei perché il governo francese punta ad accelerare?
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE La spiegazione lì per lì non arriva, ma arriva dopo pochi giorni un fax dove si ribadisce che la Torino - Lione è indispensabile. Nel frattempo è cambiata la guardia al vertice della Commissione intergovernativa che si occupa della nuova linea. E il nuovo presidente è Sergio Pininfarina, quando si dice il caso. E allora guardiamo il rapporto che ha prodotto proprio la Commissione intergovernativa.
ANDREA DE BERNARDI - Ingegnere Questo è il rapporto finale della Commissione Intergovernativa licenziato prima del vertice di Torino di gennaio. In questo rapporto c'è scritto che le condizioni di fattibilità economica per l'opera non esistono, che i suoi costi supereranno i suoi benefici, la valutazione arriva a un danno di circa 3600 miliardi di lire.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE A quanto pare per l'Alta Velocità in Val di Susa sono i governi stessi a valutare che i costi superano i benefici. Allora vogliamo capire: nel resto d'Italia è stata fatta un'analisi costi - benefici per il progetto Alta Velocità? Lo chiedo alla TAV, mi dicono di sì, parecchi, ma non ne hanno sottomano. Comunque, escludendo le FS che sono parte in causa, c'è qualche ente indipendente in Italia che raccoglie e certifica i dati su cui si basano i progetti?
GIUSEPPE PINNA - Ex Direttore settore merci Ferrovie dello Stato Abbiamo solo delle stime. Allora avendo delle stime, si fanno i progetti sulle stime. Se queste stime sono quelle di coloro che devono costruire, mi viene il dubbio che siano stime e valori che sono indirizzati proprio per costruire. Se per caso poi si costruisce una cosa che non torna utile o si fa un modello di esercizio che non corrisponde alle esigenze del mercato, la conseguenza deriva proprio dal fatto che il controllore è anche il controllato.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Da chi?
GIUSEPPE PINNA - Ex Direttore settore merci Ferrovie dello Stato Da nessuno.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE I dubbi vengono sicuramente se si va, come abbiamo fatto noi, a fare un giro sulla Milano - Genova. La costruzione della tratta ad Alta Velocità Milano - Genova era stata affidata al consorzio Cociv. Anche la Milano - Genova doveva essere finita già nel 1999. Oggi il consorzio Cociv non esiste più, ma in compenso ci sono tre buchi inutili per i quali le imprese costruttrici hanno ricevuto 71,5 miliardi.
AUTRICE Qui siamo a pochi chilometri da Genova. Questo è ciò che rimane di un foro di esplorazione fatto per vedere se si poteva far passare l'alta velocità. E' stato chiuso tutto.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Ma a quel tempo, nel '94, non si era neanche deciso che il tracciato doveva passare di qui infatti il progetto definitivo non c'era e non c'era neanche la valutazione di impatto ambientale che è stata addirittura negativa e per questi fori inutili la Tav ha pagato 65 miliardi più IVA oltre ai 155 miliardi che aveva già dato al COCIV. Anche sul progetto generale per l'Alta Velocità, presentato dalle FS nel '91, c'era stato un membro della commissione di valutazione dell'impatto ambientale che aveva detto "no". Siamo andati a chiedergli perché.
ANTONIO TAMBURRINO - ingegnere urbanista Il progetto era molto vago e indefinito per cui io non mi sono sentito di dare l'assenso alla valutazione d'impatto ambientale, perché ho ritenuto che noi non avremmo ottenuto l'Alta Velocità, avremmo speso un sacco di soldi e ci saremmo allontanati sempre di più dall'Europa. Ed è quello che si sta verificando, quello che oggi tutti possono vedere.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Dopo aver espresso il suo parere negativo, è stato riconfermato nel suo ruolo?
ANTONIO TAMBURRINO - ingegnere urbanista No.
MILENA GABANELLI IN STUDIO E tutto questo è successo perché 10 anni fa le Ferrovie avevano una gran fretta di cominciare e anche se il progetto era di massima, il Ministero per l'ambiente aveva dato il via libera. Ma a cosa serve la valutazione di impatto ambientale? Anche a far partecipi quei cittadini che si trovano, per esempio, un treno sulla porta di casa. A queste persone bisogna però dire che la TAV ha offerto da subito gli indennizzi e se avete la pazienza di aspettare un paio di minuti vi diremo anche con quali cifre.
MILENA GABANELLI IN STUDIO Riprendiamo la nostra inchiesta sull'alta velocità. C'è gente che si trova la linea dei binari sulla porta di casa come succede nelle campagne padane, a Firenze o a Tor Sapienza, per esempio, vicino a Roma. Con quali cifre la TAV rimborserà un negozio che inevitabilmente vedrà diminuire i suoi guadagni o un appartamento nel quale è diventato complicato vivere?
UOMO 1 Io per comprarmi questa casa ci ho messo 35 anni. Dovevo andare via da qua, affittarmi un'altra casa e mi avevano offerto 400, 450.000 lire al mese. E chi te la da una casa a questa cifra?
MASSIMO BOVE - Comitato Tor Sapienza e La Rustica Per un bar all'interno di una palestra, consumando tre cappuccini, due caffè e un cornetto, ha preso per tre anni di lavoro 462 milioni come risarcimento polvere e rumore, mentre per l'abitazione dal lato opposto della strada sono stati dati 39 milioni, sempre dalla TAV. Secondo i calcoli degli ingegneri delle Ferrovie, la polvere arriva fino qui, cade per terra e più di qua non va.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Lei non è considerato frontista perché non ha le finestre dove passa il treno. Ma il rumore lo sente lo stesso?
UOMO ANZIANO Si lo sento lo stesso.
COMMERCIANTE La carne non si può vendere con la polvere. Chiudendo per tre anni penso che l'attività la perderò tutta. Mi dispiace molto&.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE I contestatori sono decisi a tutto.
DONNA ANZIANA A me non mi può buttare fuori nessuno da casa mia. Se mi fanno la casa, come quella che ho, allora me ne vado. Altrimenti non mi muovo e loro qui non lavorano.
DONNA Diciamo che il problema maggiore è quello delle vibrazioni. Queste case hanno 50 anni e noi vorremmo avere la certezza che durante i lavori le case non vengano giù.
SAVERIO PARISI - Ingegnere TAV Escludiamo a priori il fatto che possano crollare delle case. La vibrazione indotta dal treno è paragonabile a quella di un camion che passa per la strada.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Ma la gente è preoccupata anche per le vibrazioni prodotte dai lavori nei cantieri.
UOMO Ecco vede: questa è una crepa dovuta alle vibrazioni dei lavori che hanno fatto.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE A Roma la linea del treno passa anche a 8 metri dalle case. Ma c'è qualcuno che è andato metro per metro a verificare che terreno è e che problemi possono avere le case intorno?
SAVERIO PARISI - Ingegnere TAV Certo. Questa è un'analisi che si fa appena realizzato il progetto.
DONNA Io ho due bambini piccolini. Non voglio morire per via dell'alta velocità sotto le macerie. Che facessero le cose uguali per tutti perché a 8 metri stiamo ad alto rischio! Vibra adesso, pensa dopo con 360 treni al giorno. Io qui non voglio restare. Sa cosa ci hanno risposto? "non siamo la Gabetti".
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE La gente può stare tranquilla che le case non crolleranno?
SAVERIO PARISI - Ingegnere TAV Su questo non c'è alcun dubbio.
DONNA Io abito a 14 metri dalla ferrovia. Inseguito ai lavori per l'alta velocità il muro verrebbe a questa distanza e l'altezza del muro atto a proteggerci da rumori e polvere arriverebbe al balcone del secondo piano. Loro hanno progettato l'alta velocità e dovevano prevedere questi inconvenienti.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Gli inconvenienti derivano dal fatto che la gente si parla e ha scoperto che i più deboli, che hanno accettato prima, non hanno ricevuto come i più forti che hanno tenuto duro.
DONNA ANZIANA Abbiamo accettato perché ci hanno detto che o prendevamo quello o nulla. A Bove, per esempio, hanno dato 50 milioni, a quella sotto 13 milioni.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Al mercato va bene ma per una società pubblica è civile comportarsi così?
DOMENICO TRUCCHI - Direttore attività sul territorio TAV Nego nella maniera più assoluta. Se è avvenuto mi arrabbio e saranno guai seri.
MASSIMO BOVE - Comitato Tor Sapienza e La Rustica Io abito all'ultimo piano. Sono stato contattato dalla TAV 5 anni fa per il risarcimento per polvere e rumore durante la cantierizzazione. Hanno cominciato con un'offerta di 3.200.000 lire, dopo 3 anni sono arrivato a 50 milioni. Quello sotto a me, con casa più grande della mia, è stato risarcito, perché ha firmato un anno prima di me, con 13.080.000 lire.
DOMENICO TRUCCHI - Direttore attività sul territorio TAV Io non ci credo a questo sbalzo, evidentemente la casa valeva di più. Non c'è, confermo, alcuna diversità, altrimenti salterebbe tutto.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE In via del Bono 39 ci sono 4 villette a schiera all'apparenza tutte uguali eppure il trattamento riservato ai proprietari è stato molto diverso.
DONNA Vengo a sapere che ai signori a fianco a noi danno la casa intera e a me no. Perché dovrei rimanere qui a subire il passaggio dei treni, perché?
DOMENICO TRUCCHI - Direttore attività sul territorio TAV Torno ripetere che non c'è nessuna diversità. Quel caso non lo conosco e ammesso che ci sia un errore sono disponibile ad andare a verificare.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Sulla Milano - Bologna chi ci va di mezzo sono soprattutto gli agricoltori della pianura Padana.
MARISA TREBBI - Associazione regionale Davide Da noi alcuni poderi che valgono 1 miliardo e mezzo e che vengono tagliati in due dalla linea ad Alta Velocità hanno avuto come risarcimento 180 milioni. I poderi tagliati nella nostra zona di Modena sono circa 280, senza contare quelli che verranno devastati dai 7 cantieri e dalla viabilità indotta dai cantieri.
AGOSTINO CAVAGNARI - Agricoltore Non mi pare corretto nei confronti di cittadini che devono mettere a disposizione la propria casa, che tra l'altro è anche la prima casa, il sistema di occupare prima la proprietà e poi dopo discutere dell'indennizzo. A me hanno offerto la metà del valore commerciale che avevano stimato a suo tempo i miei periti: 641 milioni al posto di 1 miliardo e trecento. Ancora una volta, è giusto comportarsi così?
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE In Mugello i cittadini se ne sono accorti subito che c'erano i lavori per l'Alta Velocità, soprattutto quando sono rimasti senz'acqua e poi il Mugello non è più lo stesso.
PIERCARLO TAGLIAFERRI - abitante S. Pellegrino Questi camion del Cavet sono stati il nostro cruccio: velocità, polvere, rumore e fango che imbrattava edifici porte e case.
FRANCESCO BONI Dopo 4 anni di queste sofferenze ci siamo decisi a prendere un avvocato e siamo in causa. E appena il giudice ha ordinato una perizia fonometrica, per il rumore, quelli dell'Alta Velocità hanno smantellato immediatamente il ventilatore.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Ecco il rumore di fondo che ha sentito questa famiglia, tutti i giorni e tutte le notti per due anni e mezzo.
LA FAMIGLIA BONI FA SENTIRE UNA REGISTRAZIONE DEL RUMORE
CARLO SILVA - Direttore generale CAVET Non si può pretendere che la realizzazione di un'opera di questo tipo avvenga senza che nessuno se ne accorga Ognuno deve sopportare un po' di disagio per poter avere poi quest'opera finita.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE A Firenze il tunnel dell'Alta Velocità passa proprio sotto il centro, con tutti i rischi che ne conseguono per le case e per i monumenti.
ELISABETTA - Associazione IDRA Non siamo neanche considerati nel libro degli espropri come dei soggetti da indennizzare anche se abbiamo la galleria a meno di 7 metri. Hanno talmente la convinzione della perfezione del loro operato che per loro è impensabile che possa accadere qualcosa alle abitazioni dei sottoattraversati.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Prendiamo ad esempio il Sasso di Castro: l'Unione Europea lo classificava tra i siti da proteggere, ma è diventato una cava.
ALESSANDRO CIANTI - Comitato Amici del Sasso di Castro Il tutto per recuperare un ambiente "degradato".
ANNA NADETTI - Comitato contro polo estrattivo di Calenzano Ci vorranno almeno 15/20 anni affinché la ferita venga ricoperta.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE E oltre alle sorgenti seccate, ci sono i fanghi. Secondo alcuni sono velenosi.
CARLO SILVA - Direttore generale del CAVET Questi materiali non sono assolutamente nocivi, sono stati fatti tutti i test, li abbiamo fatti noi, e non abbiamo mai trovato inquinanti.
DAL TG1 DEL 23 GIUGNO 2001 I nuclei ecologici hanno sequestrato in Toscana 15 tra cantieri, cave e discariche della linea ferroviaria ad alta velocità in costruzione tra Firenze e Bologna. SPEAKER TG Una cinquantina di carabinieri del nucleo ecologico si sono presentati stamattina nei cantieri dell'alta velocità ferroviaria in Toscana, opera pubblica di valenza nazionale, per bloccare l'utilizzo di una ventina di cave e discariche lungo tutto il tracciato tra Sesto Fiorentino e Firenzuola. Secondo la magistratura di Firenze dopo due anni di indagini, il materiale di scavo è stato smaltito in modo irregolare, inquinando l'ambiente.
MICHELE CIANTI - Comitato Amici di Sasso di Castro Secondo l'Agenzia Regionale di Protezione Ambiente e Territorio risultano essere rifiuti in quanto contengono sostanze tipo nichel che dovrebbero essere stoccati e trasportati come rifiuti speciali. Invece secondo il CAVET sono rifiuti normali che vengono stoccati in quest'area che all'inizio è servita da cava, sono stati tolti 2 milioni e mezzo di metri cubi di ghiaia, dopodiché è stato tutto ritombato, proprio nelle vicinanze del fiume.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Questi i pericoli emersi alle cronache, ma non finiscono qui, come dimostra quello che è capitato proprio a noi. Stavamo facendo un giro intorno al cantiere del Cavet al Carlone (S.Piero a Sieve) per fare delle riprese dopo un'intervista. A un certo punto notiamo qualcosa di verde dentro un canale di scolo. Guardiamo meglio e rimaniamo sconcertati: si tratta di 7 sacchetti contenenti ciascuno 4,2 chili di esplosivo al plastico. Qui siamo sulla strada vicino alla galleria e in questo buco abbiamo trovato dell'esplosivo abbandonato. 'C'è scritto "Union espanola de explosivos". Avvertiamo i carabinieri. Siccome è esplosivo che viene usato dal Cavet, in occasione dell'intervista chiedo a loro: come mai c'è del plastico dentro un canale di scolo su una strada pubblica?
CARLO SILVA - Direttore generale CAVET Non glielo posso dire, c'è un inchiesta in corso. Cavet non dispone di depositi di esplosivi e ha scelto la fornitura dell'esplosivo nelle 24 ore. Cioè per le mie necessità c'è un camion che parte dalla polveriera con i registri, viene in cantiere, dà esattamente la quantità di esplosivi necessari per fare la "volata", cioè lo scavo, dopodiché rientra e non c'è esplosivo mantenuto in cantiere.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Quindi è impossibile che qualcuno se lo sia dimenticato lì?
CARLO SILVA - Direttore generale CAVET Ah certamente, lì non ci poteva essere.
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Perché era tanto?
CARLO SILVA - Direttore generale CAVET No era una cassetta di esplosivo..
VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Sono sette sacchetti. Quindi sette per quattro 28.
MILENA GABANELLI Le immagini girate da Stefania Rimini sono state chieste tre giorni fa dalla magistratura e le indagini sono in corso. Come è in corso il buco che rischia di non avere fondo. Eppure il Consiglio di Stato aveva detto OK, con la premessa che il capitale fosse al 60% dei privati. Sono andati avanti anni a farcelo credere ma non è mai stato vero perché non è mai stato possibile e lo sentiamo direttamente dalla voce dell'amministratore delegato della TAV.
ANTONIO SAVINI NICCI - Amministratore delegato TAV Il problema di portare i privati nel finanziamento delle grandi infrastrutture non l'ha ancora risolto nessuno. All'inizio hanno partecipato al capitale sociale che è stato di 400 miliardi ma veri e propri soldi oltre questo i privati, al di fuori di contratti di finanziamento non li hanno mai dati.
MILENA GABANELLI IN STUDIO "Portare i soldi dei privati dentro agli investimenti infrastrutturali non lo ha ancora risolto nessuno". Dice l'amministratore delegato della TAV. Allora speriamo che ci riesca il nostro ministro per le infrastrutture, visto che proprio in questi giorni leggiamo che il 60% del capitale per la costruzione del ponte di Messina sarà dei privati. E questo non è un attacco alle grandi opere, ben vengano, ma con tutte le autorizzazioni, sapendo cosa si va a fare, quanto costano. Condizioni che qui non c'erano, perché c'era una gran fretta di chiudere. Ricordiamo che l'operazione è stata siglata il 29 dicembre del '92. Dal 1 gennaio '93 si sarebbe dovuto ricorrere alle gare d'appalto internazionali e allora la torta se la sarebbero spartita anche altri. E i costi che oggi stiamo pagando tutti noi probabilmente sarebbero stati più bassi.
La grande opera - Aggiornamento del 24/04/2012.
Era il 29 dicembre 1992, quando il governo dà il via all' operazione Alta Velocità, appena tre giorni prima dell'entrata in vigore della direttiva europea che impone di fare gare d'appalto internazionali.
Per il rotto della cuffia le gare non si fanno e le Ferrovie dello Stato affidano i lavori direttamente all'IRI, all'ENI e alla FIAT, i più grandi gruppi industriali italiani, a condizione però che garantiscano tempi certi e costi certi.
A distanza di dieci anni, i tempi e i costi sono più che raddoppiati, e ci sono tratte come la Milano - Venezia e la Milano - Genova, dove non si è ancora aperto neanche un cantiere. Però i soldi le imprese li hanno incassati lo stesso: vedi questi fori di esplorazione sulla Milano Genova, che ci sono costati oltre 71 miliardi di vecchie lire, soltanto per essere abbandonati.
Fatto sta che il conto complessivo dell'Alta velocità è arrivato a 43 mila e passa miliardi e pesa interamente sulle tasche del contribuente italiano.
LA GRANDE OPERA – Report Rai del 29/04/2002 di Stefania Rimini Aggiornamento del 20/09/2001 Era il 29 dicembre 1992, quando il governo dà il via all' operazione Alta Velocità, appena tre giorni prima dell'entrata in vigore della direttiva europea che impone di fare gare d'appalto internazionali. Per il rotto della cuffia le gare non si fanno e le Ferrovie dello Stato affidano i lavori direttamente all'IRI, all'ENI e alla FIAT, i più grandi gruppi industriali italiani, a condizione però che garantiscano tempi certi e costi certi. A distanza di dieci anni, i tempi e i costi sono più che raddoppiati, e ci sono tratte come la Milano - Venezia e la Milano - Genova, dove non si è ancora aperto neanche un cantiere. Però i soldi le imprese li hanno incassati lo stesso: vedi questi fori di esplorazione sulla Milano Genova, che ci sono costati oltre 71 miliardi di vecchie lire, soltanto per essere abbandonati. Fatto sta che il conto complessivo dell'Alta velocità è arrivato a 43 mila e passa miliardi e pesa interamente sulle tasche del contribuente italiano. Com'è possibile che siamo arrivati a tanto? Secondo alcuni osservatori è colpa del fatto che non si sono fatte le gare d'appalto.
IVAN CICCONI - Direttore Itaca e Quasco Procedendo a gare d'appalto si potrebbero risparmiare 27.500 miliardi di lire.
AUTRICE Secondo i costruttori invece hanno influito molto i tiremmolla con i comuni sui progetti. Secondo altri esperti invece il peccato è originale e risiede nel primo progetto generale delle Ferrovie. Nel frattempo, i treni veloci non ce li abbiamo ma, tanto per dirne solo una, nel Mugello gli scavi per l'Alta velocità hanno fatto seccare 50 sorgenti, e il giugno scorso la magistratura ha ordinato il sequestro di 15 cantieri perché pareva che i materiali smaltiti nelle cave fossero inquinati. E non c'era solo il pericolo di inquinamento da rifiuti. Ben altro pericolo era quello in cui ci siamo imbattuti per caso a poca distanza da un cantiere dell'Alta Velocità sempre in Mugello: 30 chili di esplosivo al plastico così, abbandonato, su una strada pubblica.
IN STUDIO MILENA GABANELLI Il fatto era stato denunciato a maggio dello scorso anno presso la stazione dei carabinieri di Vaglia. Siccome a noi non pare normale che qualcuno possa dimenticare 30 chili di plastico in un canale di scarico, a distanza di un anno abbiamo chiesto alla procura di Firenze, se potevano dirci qualcosa, quantomeno se ci sono indagini in corso. La risposta è stata: nessuna dichiarazione. Ma sull'alta velocità in questo anno sono cambiate diverse cose: si doveva ricorrere alle gare d'appalto internazionali per le nuove tratte e alcuni cantieri erano stati chiusi per i fanghi tossico nocivi. Stefania Rimini nuovamente sul binario un anno dopo, e il punto nodale era, ricordiamolo : tempi certi e costi certi.
AGGIORNAMENTO AUTRICE Ma ecco che cosa succede qui a Roccapriora, sulla tratta Roma - Napoli, dove devono costruire un elettrodotto di servizio per la linea ad Alta Velocità. Di varianti per questo elettrodotto ne hanno fatte già tre. Invece di andar dritto fa tutto un giro, per non passare troppo vicino al Comune di S.Cesareo.
SARA LILI - residente di Roccapriora Si è prevista la deviazione dell'intero tracciato dell'elettrodotto, allungandolo di 7 km, con una spesa aggiuntiva di circa 7 miliardi rispetto alla previsione iniziale.
AUTRICE A forza di curvare per allontanarsi da S. Cesareo, l'elettrodotto dell'Alta Velocità è andato a finire a ridosso delle case di questi residenti di Roccapriora.
ABITANTE ROCCAPRIORA Qui è pieno di case, questo non l'hanno considerato loro.
ABITANTE ROCCAPRIORA 1 Da una perizia fatta dalla Tav, casa mia sta a 19 metri e 20 dai fili dell'elettrodotto, ed è abitata. La sua sta ancora più vicino, a 8 metri e 30 dai fili, per cui...
AUTRICE E le conseguenze che i residenti si attendono sono queste.
ABITANTE ROCCAPRIORA 2 Astenia, nausea, cefalea, alterazioni della capacità procreativa...
ABITANTE ROCCAPRIORA 3 Che poi io il treno non lo prendo nemmeno, quindi...
AUTRICE Queste sono tutte le curve che fa l'elettrodotto.
ABITANTE ROCCAPRIORA 4 Noi vorremmo capire il motivo perché sono state fatte tutte queste curve, e questi 7 km in più e 8 miliardi in più, per salvare le terre di...
ABITANTE ROCCAPRIORA 5 ...Dei consiglieri comunali!
ABITANTE ROCCAPRIORA 6 Noi non siamo contenti, precisamente.
D - Una strada ci sarebbe, vi fate eleggere tutti consiglieri, no? AUTRICE Gli interessati hanno ottenuto un incontro con il consorzio di costruzione e con il vice ministro alle Infrastrutture, per chiedere che l'elettrodotto fosse interrato. E cosa gli hanno risposto?
CLAUDIO FATELLI - Comitato Alta Velocità Roccapriora Le risposte delle società e del vice ministro sono state che era troppo tardi, e che i lavori dovevano andare avanti il più velocemente possibile. E che costava troppo, l'interramento costava troppo.
AUTRICE Troppo tardi. La nuova legge Lunardi intervenuta nel frattempo si propone di accelerare i tempi. Con la vecchia legge che dava voce in capitolo anche al più piccolo Comune, c'era chi riusciva ad ottenere varianti anche per non passare sul terreno del sindaco. Con la nuova legge questo non sarà più possibile perché decide tutto il SuperCipe, ovvero il Comitato interministeriale, al quale è difficile che importi qualcosa del terreno del sindaco. Comunque per qualcuno che se ne è approfittato, pagheranno tutti gli enti locali, che improvvisamente la legge Lunardi mette fuori gioco dalla discussione sui progetti dell'Alta Velocità. E c'è chi se la sta vedendo brutta.
MIRKO BOLIS - Sindaco Grisignano di Zocco Rischiano di farci in pratica un viadotto di 5 km su una lunghezza di 6 km di attraversamento del nostro Comune, grossomodo, all'altezza di 12/13 metri, sopra il quale ci passano i treni a 250 Km all'ora. Quindi può immaginare, con il paese che dista 350 metri dalla linea, se di notte si possa dormire a Grisignano, questa è la nostra paura.
D - E però con la nuova normativa non potete dire "no questa linea noi non la vogliamo fatta in questo modo?
MIRKO BOLIS - Sindaco Grisignano di Zocco Esattamente.
AUTRICE I sindaci del Nord Est vorrebbero che in questa zona invece che una serie di viadotti si facesse un tunnel e per farsi valere sono pronti anche a ricorrere alla Corte Costituzionale. Più litigi, più ritardi. E anche il tempo dei disagi si allunga: la cantierizzazione di Firenze, per esempio, durerà 9 anni. E gli effetti sono questi.
ELISABETTA MORI - Idra I sei cedri del Libano che sono vecchissimi e formano un simbolo per la città di Firenze e per piazza Vittorio Veneto, parlano di trapianto. Hanno ingaggiato una ditta di Avignone che ci costerà ben 200 milioni ad albero, con il risultato che i sei cedri moriranno, perché sono troppo vetusti per poter sopportare un trapianto.
AUTRICE Qui per esempio si sta costruendo il sotto passo alla futura tranvia, opera collegata all'Alta Velocità. Ma era proprio necessario?
FABIO CAMPRINCOLI - comitato tranvia Firenze - Scandicci L'assurdità di questo cantiere è che serve solamente per evitare un semaforo. Questo semaforo avrebbe evitato di buttare giù tutti gli alberi e di risparmiare 15 miliardi.
AUTRICE Quest'altra via è diventata un inferno.
RESIDENTE DI VIA DEL PIGNONCINO Anche di notte è così, non è che c'è differenza tra ore di punta e non.
GIACOMO CARTI - comitato antitraffico Questo è l'effetto dell'arrivo dell'Alta Velocità a Firenze. Tutto il traffico in entrata e in uscita è stato convogliato in questa strada
RESIDENTE VIA DEL PIGNONCINO E' una cosa disumana, c'è un passaggio di 80 macchine in 1 minuto. Qui vede, sono stati messi dei vetrini che servono per controllare le crepe, la stabilità del terreno. Sicuramente un elemento è legato proprio al traffico.
GIROLAMO DELL'OLIO - Idra E poi in una città come Firenze, pensate, i camion pieni di terra che vanno avanti e indietro. Questo è il rischio concreto che si presenta per anni per la città.
AUTRICE Tutta la terra scavata sarà portata via dai camion e raccolta nel quartiere di Firenze Nova, dove sarà caricata su vagoni merci. Queste persone hanno la sfortuna di abitare nelle vicinanze del punto di raccolta.
CARMINE LETTIERI - Comitato Firenze Nova Assolutamente noi non siamo contenti.
AUTRICE C'è qualcuno che dovrebbe essere contento? Sì, c'è. Grazie alla nuova legge, possono festeggiare i costruttori di gallerie, in particolare il Cavet, che scava sulla Firenze Bologna. La legge di Lunardi, che con la sua azienda di famiglia ha contribuito alla progettazione delle gallerie dell'Alta velocità, gli leva le castagne dal fuoco, quando dice che da ora in poi le terre scavate dalle gallerie non devono più essere considerate rifiuti. E' molto meno contenta la Regione Toscana, che quelle terre le aveva trovate un po' inquinate dagli oli, tanto che si era arrivati al sequestro dei cantieri.
TOMMASO FRANCI - Assessore Ambiente Regione Toscana Sì, sono stati trovati questi oli soprattutto nei materiali, nei fanghi, nei materiali che vengono movimentati nei piazzali dei cantieri. Questi effettivamente sono dei veri e propri rifiuti speciali, dovevano essere trattati come tali e invece venivano smaltiti come se fossero semplici terre di scavo.
AUTRICE La legge Lunardi semplifica la vita agli scavatori di gallerie. Metti che abbiano 20 tonnellate di smarino, cioè terra di scavo da smaltire e le vogliano mettere in un posto che può contenerne 200: la soglia di contaminazione non si calcola su 20, ma su 200. E' come dire che per misurare l'inquinamento dell'acqua di Porto Marghera lo si divide per tutta l'acqua dell'Adriatico. E la conseguenza qual è?
GIOVANNI BARCA - Dirigente area rifiuti Regione Toscana Se c'è una partita di materiale che è molto contaminata, si confonde con la media di tutte le altre che non lo sono. Quindi se quella partita per l'appunto va in un luogo ad elevata sensibilità ambientale, può dare dei problemi comunque.
D - Perchè?
GIOVANNI BARCA - Dirigente area rifiuti Regione Toscana Perché è concentrata in un punto.
AUTRICE E quanto ci metterebbe la sostanza inquinante a raggiungere le falde acquifere?
GUGLIELMO BRACCESI - geologo Se abbiamo un terreno molto permeabile e una falda molto superficiale, il tempo che un inquinante ci metterà ad arrivare in falda è molto ridotto, anche nell'ordine di qualche giorno.
AUTRICE Inoltre, non essendo più soggette al regime dei rifiuti, le terre di scavo benchè contaminate, possono essere riutilizzate liberamente, senza l'obbligo di denuncia preventiva alla Provincia. E se poi un domani inquinassero una falda, va a sapere chi ce le ha messe là.
TOMMASO FRANCI - Assessore Ambiente Regione Toscana Questo noi lo impediremo in ogni caso.
D - Che cosa?
TOMMASO FRANCI - Assessore Ambiente Regione Toscana Che vengano collocati degli smarini con quei livelli di contaminazione degli oli, perché noi lo consideriamo un pericolo per l'ambiente.
D - Ma la legge dice che lo possono fare.
TOMMASO FRANCI - Assessore Ambiente Regione Toscana La legge è una legge che non rispetta le direttive europee e noi riteniamo di poter applicare direttamente il contenuto delle direttive europee.
AUTRICE La domanda d'obbligo è da rivolgere al Ministro Lunardi: perché quello che fino a ieri era da considerarsi un rifiuto, oggi non lo è più? La domanda è stata fatta a gennaio, rifatta a febbraio e risollecitata ad aprile. Ma il Ministro non aveva mai tempo. E passiamo ai contratti affidati senza gare d'appalto, che riguardano le tratte dove i lavori non sono neanche mai partiti. Quei contratti erano stati rescissi, con soddisfazione delle Ferrovie. Ora il Governo li resuscita, ma questo per l'Antitrust non va bene, perché?
RITA CICCONE - Segretario generale Antitrust Secondo noi non va assolutamente bene, innanzitutto perché c'è un obbligo, che deriva dalla nostra appartenenza all'Unione Europea, di fare delle gare europee in caso di appalti di questo tipo. E' solo attraverso una gara che si ha il miglior risultato, perché se si è in beata solitudine si possono evidentemente alzare i prezzi. AUTRICE Anche sul perché non si fanno più le gare d'appalto dovrebbe rispondere il Ministro, ma come abbiamo già detto, non aveva tempo. ùIN STUDIO MILENA GABANELLI Morale: niente gare d'appalto e diluizione del rifiuto.
BORSELLINO. IL J’ACCUSE DI FIAMMETTA: PERCHE’ I MAGISTRATI NON PARLANO? Andrea Cinquegrani su la Voce delle Voci il 5 Maggio 2019.
La pista “mafia-appalti” per capire le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Torna a ribadirla con sempre maggior forza Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato coraggio che conFalcone stava indagando sui grandi lavori pubblici entrati nel mirino della delinquenza super organizzata, a partire da quelli per l’allora nascente Alta Velocità.
Punta l’indice, Fiammetta, su quell’ultima bollente riunione che si svolse alla procura di Palermo cinque giorni prima del tritolo di via D’Amelio.
Al centro della rovente discussione proprio l’inchiesta “mafia-appalti”, mai ufficialmente assegnata ai due magistrati, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma da loro sempre seguita con grande attenzione per via delle enormi esperienze maturate sul campo.
QUELLA RIUNIONE DEI MISTERI
“Cosa successe in quella riunione? Cosa si dissero i magistrati che vi parteciparono?”, si chiede con tormento Fiammetta. “Interrogativi ai quali non è mai stata data una risposta. Da nessuno di quei magistrati che vi presero parte. E’ ora che qualcuno parli”. Si sa che alla fine di quella riunione Borsellino era su tutte le furie. E poi quasi rassegnato, il viso rigato dal pianto.
Parole dure come pietre, quelle della figlia Fiammetta. Chissà se riusciranno a smuovere il gigantesco macigno relativo al movente, quello vero, che ha armato le mani mafiose in grado di eseguire ordini più ‘alti’. Perché anche Borsellino, dopo Falcone, “Doveva morire”.
“In quella maxi indagine mafia-appalti c’erano dentro politici, imprenditori, mafiosi”, ricorda Fiammetta, e tanti magistrati – oltre una mezza dozzina – si sono passati la patata bollente, senza imprimere peraltro una efficace svolta giudiziaria a quella mole di lavoro investigativa già svolta dal ROSdei carabinieri per ordine proprio di Falcone.
Un’inchiesta che si sgonfierà come un palloncino praticamente “intempo reale”. Tutto in un baleno. A poche ore da quella infuocata riunione, Il 13 luglio di quel maledetto 1992, la procura di Palermo chiede infatti l’archiviazione. A firmare la richiesta i sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato.
Il procuratore Pietro Giammanco (“perchè mai interrogato su quei fatti?”, si chiede Fiammetta) la controfirma quando il cadavere di Borsellino è ancora caldo, a tre giorni dall’eccidio di via D’Amelio.
L’archiviazione definitiva si verifica dopo meno di un mese, alla vigilia di ferragosto, un periodo leggermente “atipico”. E’ il 14 agosto ‘92, infatti, quando il gip di Palermo Sergio La Commare mette una pietra tombale su quell’inchiesta che avrebbe fatto tremare l’Italia.
Perché – si chiede oggi Fiammetta – nessuno vuol parlare di quella riunione e di quella decisione? Perché neanche una sillaba su quella archiviazione lampo, da guinness dei primati nella storia giudiziaria del nostro martoriato Paese?
MAFIA-APPALTI, L’INCHIESTA BOMBA
Ma torniamo all’inchiesta Mafia-Appalti che stava tanto a cuore di Falcone e Borsellino. I quali avevano deciso da tempo di percorrere “il cammino dei soldi”, come rammentavano spesso.
In questa chiave si spiegano le incursioni svizzere di Falcone e Borsellino, la visita di Carla Dal Ponte all’Addaura, compreso il fallito attentato.
Fu Falcone, in particolare, ad ordinare al Ros di Palermo una approfondita indagine per appurare i legami di imprese siciliane – paravento di interessi mafiosi – con pezzi medio grandi dell’imprenditoria nazionale.
E’ nel 1989 che Falcone esclama – quando viene a conoscenza dalle prime anticipazioni sulle connection siciliane della Calcestruzzispadi Ravenna made in Ferruzzi– “la mafia è entrata in Borsa!”. E’ poi la volta di altre imprese nazionali che hanno significativi referenti siciliani: per fare solo alcuni nomi la napoletana Icla-Fondedile, la trentina Rizzani De Eccher, la Saiseb.
E’ così che, con il passar dei mesi, il dossier Mafia-Appaltisi ingrossa, un vero fiume in piena. 890 pagine, 44 personaggi di spicco e altrettante imprese citate nel rapporto come anelli di congiunzione tra la mafia e il potere politico, una super bomba in grado di rappresentare la vera, prima, autentica Tangentopoli: altro che i tric trac successivi griffati Mani pulite.
Per la precisione, è questa la scansione temporale. Il Rosconsegna a Falcone una prima informativa a luglio 1990, poi una seconda un mese dopo, 5 agosto. Le stesse memorie vengono recapitate anche al sostituto procuratore di Palermo Guido Lo Forte.
Falcone studia le carte e a settembre chiede al Ros di approfondire alcune piste investigative. Ed è così che il rapporto finale approda sulla scrivania del magistrato a febbraio 1991, la data clou. Ci sarà anche il tempo per una pilotata fuga di notizie, tanto per informare in anticipo gli indagati eccellenti: altro tassello mai chiarito del giallo.
Per continuare nella scaletta temporale, il potente Dc Salvo Lima viene ucciso a marzo ‘92, poi a giugno e luglio le stragi di Capaci e via D’Amelio.
Come non leggere in quelle date l’escalation stragista? Gli avvertimenti politico-mafiosi in quella tempistica?
Di tutta evidenza Falcone e Borsellino dovevano essere fermati ad ogni costo. Anche di stragi che avrebbero richiamato l’attenzione del mondo.
FALCONE E BORSELLINO DOVEVANO MORIRE
Di tutti questi scenari e soprattutto delle connection che stanno alla base delle stragi di Capaci e via D’Amelio, hanno scritto nel profetico “Corruzione ad Alta Velocità” Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato. Un j’accuse firmato esattamente 20 anni fa e che poneva al centro di quella stagione stragista proprio gli appalti, ed in particolare quella in fase di ebollizione ormai da un paio d’anni, appunto la TAV, oggi al centro delle querelle gialloverdi.
In quel libro Imposimato e Provvisionato dettagliavano i protagonisti politici dell’affaire TAV, a cominciare dal presidente IRI e poi capo ulivista Romano Prodi, il padre di tutte le sciagurate privatizzazioni made in Italy. Per continuare con i magistrati che hanno insabbiato le prime inchieste sull’Alta Velocità, in pole position Antonio Di Pietro che non solo decapita il filone milanese ma anche – previa avocazione – quello romano, coprendo le responsabilità dell’uomo “A un passo da Dio” che tutto conosceva sulle maxi tangenti Enimont e l’alta velocità, il finanziere italo elvetico Francesco Pacini Battaglia.
Nel 2012 Imposimato aggiorna il suo primo j’accuse, scrivendo un fondamentale capitolo all’interno del volume “La Repubblica delle stragi impunite”, pubblicato da Newton Compton, basato sul movente Mafia-Appalti e Alta Velocità, “la più grande e sporca operazione della nostra storia recente”.
Come palesa anche una sentenza della Corte d’Appello di Catania: “nelle indagini mafia-appalti c’è il movente principale di Capaci”.
Scrive Imposimato: “C’era, nella Cupola, la seria preoccupazione che Falcone e Borsellino imprimessero un impulso alle investigazioni nel settore degli appalti pubblici”.
“Se andiamo a esaminare i nomi dei personaggi e delle imprese su cui Falcone stava indagando ci troviamo di fronte a una verità sorprendente: erano quasi tutti inseriti nei lavori dell’Alta Velocità”.
“Borsellino era riuscito a convincere alcuni dei mafiosi e rivelare i meccanismi e i beneficiari dell’imbroglio, i politici, gli amministratori, imprenditori, mafiosi, faccendieri e decine di magistrati che fungevano da controllori controllati”.
A proposito dello strategico dossier Mafia-Appalti: “Nel rigirare tra le mani quel rapporto provai anche un senso di timore. Possibile che partendo dai lavori nelle opere pubbliche del 1994 si stesse arrivando alla mai scoperta Tangentopoli siciliana? Possibile che la progettazione e la costruzione di una linea ferroviaria di interesse europeo avesse collegamenti con quanto era accaduto nella Sicilia degli appalti mafiosi?”.
“Quella che all’inizio mi era sembrata un’intuizione, sia pure basata su fatti concreti, si stava rivelando un’indagine esplosiva. Pulite sulla carta, dotate del loro bel certificato antimafia, alcune società impegnate nei lavori della tratta ferroviaria Roma-Napoli – tutte vagliate e scelte da un colosso delle partecipazioni statali come l’IRI– risultavano implicate negli affari più oscuri, in collegamento con esponenti di spicco della criminalità organizzata”.
Che fine ha fatto una delle poche indagini sul campo – si chiede Imposimato – quella dell’allora giovane sostituto procuratore Luca Tescaroli sull’attentato dell’Addaura e la strage di Capaci, basata anche sulle verbalizzazioni del ‘ministro dei lavori pubblici’ di Cosa nostra Angelo Siino?
Che fine ha fatto – ci chiediamo – l’inchiesta partenopea di fine anni ’90 poi passata al porto romano delle nebbie su Appalti pubblicie Alta velocità, partita dalle rivelazioni di due siciliani-napoletanizzati, i faccendieri Spiniello, di spiccata fede massonica?
Che fine ha fatto un’altra inchiesta romana portata avanti, sempre a fine anni ’90, da Pietro Saviotti e Otello Lupacchini ed invariabilmente su lavori pubblici affidati alle “imprese di riferimento” ed ai clan di mafia e camorra, ben compresi i lavori per l’Alta Velocità?
Misteri, sempre misteri, ancora misteri.
Perché – come denuncia oggi Fiammetta Borsellino – dalla magistratura non arriva mai il segnale di un cambio di rotta, verso una giustizia che aspettiamo da tanti, troppi anni?
BORSELLINO. LA PISTA “MAFIA-APPALTI” DENUNCIATA DA GIUFFRE’ 13 ANNI FA. Paolo Spiga su la Voce delle Voci il 8 Febbraio 2019.
Giallo Borsellino. La pista “Mafia-Appalti” per individuare il vero movente delle strage di via D’Amelio prende sempre più corpo.
Giorni fa ha puntato i riflettori Fiammetta Borsellino ai microfoni di “Che tempo che fa”. Ferdinando Imposimato la indicò addirittura nel 1995 firmando un vero e proprio j’accuse con la relazione di minoranza alla Commissione parlamentare antimafia presieduta da Tiziana Parenti. Ricostruzione ancor più dettagliata nel volume “Corruzione ad alta velocità” scritto nel 1998 dallo stesso Imposimato insieme a Sandro Provvisionato.
Ora stanno emergendo altre ricostruzioni fino ad oggi misconosciute.
Eccoci, ad esempio, all’audizione, sempre in Commissione Antimafia, del procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci.
Paci fa riferimento all’epoca in cui Borsellino era procuratore capo a Marsala: “Allora – rammenta Paci – di quel rapporto ‘Mafia-Appalti‘ Borsellino chiese copia quando si trova ancora a Marsala. Altro dato che emerge inquietante è che spesso ci siamo soffermati a pensare a quest’aspetto, già nel 1991 Cosa nostra vuole organizzare un attentato a Paolo Borsellino a Marsala. Per quest’attentato che non va in porto muoiono due mafiosi, i fratelli D’Amico, i capi della famiglia di Marsala. Muoiono perchè si oppongono all’eliminazione di Borsellino a Marsala”.
Continua Paci: “Che cosa ha fatto Borsellino nel 1991 di particolare? Questo è un altro rovello che ha spesso accompagnato nei nostri approfondimenti. Paolo Borsellino viene a conoscenza del rapporto Mafia-appalti a Pantelleria. Evidentemente viene a conoscenza di quelle famose notizie che riguardano anche la De Eccher, il rapporto con imprenditori del Nord e, soprattutto, la vicenda che riguarda l’amministratore della società, comunque legato mani e piedi al mondo politico romano”. Quindi il filo rosso mafia-politica nazionale.
Non solo la Rizzani-De Eccher, comunque, fra le società più che border line nel dossier “Mafia-Appalti” finito a febbraio 1991 sulla scrivania di Giovanni Falcone e, scopriamo ora, di Borsellino a Marsala. Ma anche la Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi che fa esclamare a Falcone “la mafia è entrata in Borsa”; la Fondedile–Icla tanto cara a ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino; la Saiseb”. Insomma, la mafia stava penetrando in modo massiccio tra i big del mattone.
Non solo, ma nell’inchiesta di Falcone e Borsellino c’è la chicca dei maxi appalti per la TAV, quell’altra velocità che stava già diventando il colossale business degli anni a venire e su cui hanno acceso i riflettori Falcone e Borsellino. Per questo “Dovevano Morire”.
Non è certo finita, perchè del rapporto “Mafia-Appalti” come movente almeno per la strage di via D’Amelio, ha parlato anche uno dei pentiti ai quali è stata sempre riconosciuta la massima attendibilità, Antonino Giuffrè. Le sue parole pronunciate nel 2006 davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Catania vengono riportate nella sentenza del Borsellino quater.
Ecco cosa, già 13 anni fa, verbalizzava Giuffrè: “Un motivo è da ricercarsi, per quanto io so, nel discorso degli appalti. Perchè si sono resi conto che il dottor Borsellino era molto addentrato in questa branca, cioè in questo discorso mafia, politica e appalti. E forse alla pari del dottor Falcone”.
E ribadisce: “Il dottor Borsellino stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare per quanto riguarda il discorso degli appalti”.
Ricorda il fatto che la pericolosità di Borsellino era ancor più elevata perchè avrebbe potuto diventare procuratore nazionale antimafia. Quindi rammenta l’isolamento totale (anche sul fronte dei colleghi magistrati) sia di Falcone che di Borsellino.
Nella motivazione del Borsellino quater, infatti, si legge: “L’inquietante scenario descritto dal collaboratore (Giuffrè, ndr) trova precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Borsellino e la sua convinzione che la sua esecuzione sarebbe stata resa possibile dal comportamento stesso della magistratura”. Parole che pesano come macigni.
E ancora, tanto per chiudere i cerchi, scrivono le toghe: “Falcone e Borsellino erano pericolosi nemici di Cosa Nostra per la loro persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti”.
E poi qualcuno dubita ancora del movente “Mafia-Appalti”?
IL DOSSIER “MAFIA-APPALTI”. LA CHIAVE PER CAPIRE LE STRAGI DI CAPACI E VIA D’AMELIO. Andrea Cinquegrani su la Voce delle Voci l'11 Giugno 2020.
Il rapporto “Mafia-Appalti” come movente base per le stragi di Capaci e Via D’Amelio. L’assalto delle “imprese di partito” – anzi di corrente – ai mega appalti pubblici, a cominciare da quelli dell’Alta Velocità, che rappresentava la grande torta. La mafia come collante e come braccio armato.
La Voce ne ha scritto fin da inizio anni ’90, così come ha fatto uno dei nostri autori più prestigiosi, Ferdinando Imposimato, che a metà anni ’90 ebbe il coraggio di firmare una “storica” relazione di minoranza all’interno della Commissione Antimafia per puntare l’indice su quell’esplosivo dossier finito sulla scrivania di Giovanni Falcone alcuni mesi prima di essere trucidato. Un lavoro condiviso subito con Paolo Borsellino e portato avanti fino all’eccidio di via D’Amelio.
Una pista – quella Mafia Appalti – sempre “osteggiata” dai papaveri della magistratura. E che invece, di tanto in tanto, torna a turbare i sonni dei potenti, molti pezzi da novanta travestiti da politici, imprenditori o in toga.
LA VERA MAFIO-TANGENTOPOLI
Adesso succede con le fresche dichiarazioni di Basilio Milio, avvocato, figlio di un altro avvocato storico, Pietro Milio, radicale, per anni braccio destro di Marco Pannella in tante battaglie sul fronte dei diritti civili.
Ha sempre lottato, Pietro, per far emergere la verità su quelle “Stragi di Stato”, ed ha sempre indicato quella pista, l’esplosivo dossier “Mafia-Appalti”, redatto dal Ros dei carabinieri all’epoca guidato da Mario Mori e dal suo allora braccio destro, Giuseppe De Donno.
980 pagine davvero “al tritolo”, come quello che ha fatto saltare per aria le vetture di Falcone e Borsellino. Verità all’epoca, appunto, esplosive, perché facevano già luce su una maxi Mafio-Tangentopoli, uno tsunami ben più gigantesco di quello innescato, mesi e mesi dopo, dal pool di Milano.
Perché in quelle carte e in quei documenti da quasi mille pagine erano dettagliate tutte le connection tra le big dell’imprenditoria di casa nostra, soprattutto sigle del nord, e vip di riferimento della politica, i legami con le cosche di mafia e di camorra. Ancora: le ragnatele dei subappalti, la mappa delle commesse, le infrastrutture pubbliche nel mirino. A cominciare, appunto, dai super appalti per l’Alta Velocità, 27 mila miliardi di lire allo start, nel ’90, una torta lievitata a dismisura.
Tanto che nel loro mitico libro-j’accuse – “Corruzione ad Alta Velocità” scritto nel 1999 – gli autori Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato già all’epoca scrivevano di una cifra mostre, 150 mila miliardi di lire. Che nell’arco di questi oltre vent’anni hanno raggiunto vette stratosferiche, ormai incalcolabili, un pozzo senza fine per lobby d’ogni sorta e politici d’ogni risma.
Torniamo alle parole di Basilio Milio – oggi legale di Mario Mori per il processo sulla “Trattativa” – nel corso di un’intervista rilasciata a “il Riformista”.
PARLA BASILIO MILIO
“Le ragioni dell’accelerazione della strage in cui persero la vita Borsellino e gli uomini della scorta furono altre (non quelle che riportano alla ‘Trattativa’, ndr). Si temeva che Borsellino fosse nominato Super Procuratore Antimafia. E soprattutto c’era il timore che Borsellino proseguisse con De Donno, avvalendosi della collaborazione del Ros, l’inchiesta iniziata da Falcone sulla correlazione mafia-appalti, che coinvolgeva anche uomini politici”.
Milio rammenta anche “una riunione avvenuta il 14 luglio 1992, cinque giorni prima della morte di Borsellino, tra gli appartenenti alla procura della repubblica di Palermo. Nella quale Borsellino chiese conto e ragione del fatto che i carabinieri si erano lamentati degli esigui sbocchi processuali di quell’inchiesta su mafia e appalti”.
“Borsellino chiese conto e ragione del perché l’indagine Mafia-Appalti procedesse così a rilento. Manifestò interesse e protesse i carabinieri, chiedendo di quella indagine ai suoi colleghi”.
Di lì a qualche ora due colleghi rispondono con i fatti. Anzi con un ceffone in faccia a Borsellino. Si tratta di due icone (sic) antimafia, Giuseppe Lo Forte e Roberto Scarpinato che – udite udite – chiedono nientemeno che l’archiviazione – poi regolarmente arrivata – di quella inchiesta bomba!
Ai confini della realtà. Come buttare sotto montagne di naftalina e cenere un tesoro di notizie, di reati pesantissimi, di fatti che avrebbero fatto crollare i Palazzi, rappresentando una super Tangentopoli con condimento mafioso, disvelando la più grande associazione di stampo mafioso mai scoperta in Italia!
Ma è meglio chiudere gli occhi, non vedere. E affossare.
Rammenta Milio: “Borsellino, davanti al feretro di Falcone, disse che le ragioni della morte di Falcone andavano ricercate nell’ambito dell’indagine Mafia-Appalti”.
E aggiunge: “non mi spiego come, a distanza di quasi trent’anni, si continua a non prendere nella dovuta considerazione quell’indagine del Ros e anzi a non attribuirle alcuna importanza”.
LA PISTA PERICOLOSA
Nel corso dell’ultima commemorazione delle vittime di Capaci, il coordinatore nazionale dei ‘Familiari delle vittime di mafia’ e dell’associazione ‘I cittadini contro le mafie e la corruzione’, Giuseppe Ciminisi, ha sottolineato: “Il valore della memoria sta nell’aiuto che dobbiamo trarne per costruire, mattone su mattone, una società più sana. Oggi più che mai il nostro impegno deve essere quello di chiedere a gran voce che venga strappata quella ragnatela che continua ad avvolgere i tanti misteri delle stragi del ’92, a partire dal dossier mafia-appalti, l’indagine voluta da Falcone e che Borsellino avrebbe voluto venisse portata avanti, e che in molti ormai ritengono sia stata la vera causa degli attentati”.
Una pista più volte indicata con vigore – carte alla mano – dall’uomo che conosce tutto di quel mondo delle commesse pubbliche, a proposito del Sistema degli Appalti su cui la politica a fine anni ’80- inizio anni ’90 aveva messo le mani, per controllare i giganteschi flussi di danari pubblici.
Si tratta del geometra Giuseppe Li Pera, il quale ha puntato l’indice contro quelle toghe che hanno affossato l’inchiesta scaturita dal rapporto “Mafia-Appalti”. In quegli anni bollenti è stato il rappresentante di una grossa impresa edile del nord, la friulana Rizzani-De Eccher: il cui nome faceva capolino nel lotto delle sigle baciate dalla fortuna per i maxi appalti siciliani. Tra le altre star c’era l’Icla molto cara ad ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino e la Calcestruzzi di casa Ferruzzi.
Ha reso anche una lunga e articolata verbalizzazione su quei fatti bollenti, Li Pera, dettagliando proprio quel Sistema criminale.
Ma non è scaturito mai niente.
Neanche un battito d’ali.
Il pm che lo interrogò si chiama Antonio Di Pietro.
MANI PULITE. LA “SCENEGGIATA” DELL’EX SUPER PM ANTONIO DI PIETRO. Andrea Cinquegrani su la Voce delle Voci il 19 Gennaio 2020.
La sceneggiata. O, se preferite, la messinscena.
E’ quella recitata con quel “suo modo un po’ buffo e stratificato di parlare” da Antonio Di Pietro davanti al trepidante taccuino dell’inviata speciale dell’Espresso a Montenero di Bisaccia, Susanna Turco, autrice di una mega ricostruzione da sette pagine (7) – compresa una gigantografia – sulla “Vera Storia di mani pulite”, raccontata dall’allora pm di punta del pool di Milano.
Una autentica buffonata, un calcio alla verità storica e giudiziaria di quel periodo che avrebbe potuto cambiare l’Italia ed invece ha rappresentato il totale inizio dello sfacelo.
Con una caterva di depistaggi.
Tanto più grave – la ricostruzione taroccata – perché arriva dal numero uno di quella operazione, con un burattinaio nelle mani degli Usa e della Cia che si traveste da pecorella smarrita nei mari delle mafie e delle corruzioni, il Moralizzatore che da poliziotto semplice passa ai vertici della più strategica procura italiana.
Ai confini della realtà.
Ma andiamo subito al cuore di quella ricostruzione che fa acqua da tutte le parti, zeppa di errori, orrori e soprattutto omissioni e capovolgimenti della realtà.
Vere acrobazie da circo.
IL SUPER DOSSIER “MAFIA-APPALTI”
Uno dei nodi centrali è rappresentato dal dossier Mafia-Appalti, 980 pagine redatte dal ROS dei Carabinieri. Rammenta l’ex pm: “Doveva andare a Giovanni Falcone, ma lui viene trasferito”, ossia al ministero della Giustizia, quando titolare era il socialista Claudio Martelli, oggi tornato sulla cresta dell’onda.
Prima gaffe storica. Quel fascicolo viene accuratamente esaminato da Falcone (prima di andarsene a Roma) che salta sulla sedia, ne parla con l’amico e collega Paolo Borsellino, ordina le prime indagini.
E’ il vero primo basilare tassello – quel rapporto – per ricostruire tutti i rapporti, le sporche connection che legano già allora la mafia con le più grandi imprese non solo siciliane, ma nazionali: nel mezzo, come perfetto trait d’union, c’è la politica, anche i vertici nazionali.
Una bomba, altro che Mani pulite. Il vero movente per l’esplosivo di Capaci e via D’Amelio.
Racconta Di Pietro: “Il rapporto del ROS rimane lì, a Palermo, in mano a Pietro Giammanco (l’allora procuratore capo, ndr), che lo mette in cassaforte”.
Un rapporto – precisa Di Pietro – “dove veniva raccontato quello che io ho scoperto dopo anni”. Boh. Vedremo tra poco.
Di Pietro sostiene di essere stato fermato quando era ad un passo da quelle verità, e per questo dovette lasciare la toga. Ossia quando l’inchiesta di Brescia sulle malefatte da pm a Milano lo stava passando ai raggi x e lui temeva per sé: addirittura quelle manette che aveva spesso usato con tanti imputati!
Una sceneggiata nella sceneggiata.
Ricostruisce il fondatore (e affondatore) di Italia dei Valori: la bufera, attivata dalla procura di Brescia (in cui opera il pm Fabio Salamone), mi colpisce “proprio mentre io stavo arrivando alla cupola mafiosa grazie alle dichiarazioni che mi aveva fatto il pentito Li Pera su un certo Filippo Salamone (fratello del magistrato, ndr), imprenditore agrigentino intermediario tra il sistema mafioso e il sistema imprese-appalti, il nord che veniva gestito soprattutto da Raul Gardini e dalla Calcestruzzi di Panzavolta. Insomma, Palermo arriva prima di me, nel 1992”.
Sì, spiega, perché il capitano del ROS “Giuseppe De Donno un bel giorno mi porta a Regina Coeli, a parlare con l’ex capo della Rizzani De Eccher in Sicilia, Giuseppe Li Pera, il quale mi tira fuori il nome di Filippo Salamone”.
RIVELAZIONI BOMBA
Per districarci nel labirinto e cominciare a capire qualcosa, partiamo proprio da Li Pera, una figura base.
Si tratta di un allora dirigente della friulana Rizzani De Eccher, capo area in Sicilia. E’ il primo uomo a parlare con i magistrati siciliani del sistema mafioso negli appalti, delle commesse taroccate, delle connection politico mafiose proprio per assicurarsi una montagna di lavori pubblici.
Ma nessuno gli crederà, in Sicilia, tranne un magistrato catanese, Felice Lima, il quale – proprio per questo – viene trasferito per “incompatibilità ambientale”: ovvio, se scopri ‘O Sistema muori (come è successo per Falcone e Borsellino, certo non per Di Pietro, che a suo tempo andò in vacanza in Centro America) o vieni delegittimato, comunque neutralizzato, reso del tutto inoffensivo.
Fa di più, Li Pera: chiama in causa con pesanti accuse magistrati del calibro dello stesso Giammanco e di quattro sostituti di peso (Lo Forte, Scarpinato, Pignatone, De Francisci).
Ma nessuno, pur tirato in ballo, oserà mai querelarlo o citarlo in giudizio.
Diverso il discorso con il pm da Montenero. Che lo incontra a Roma. A questo punto è basilare rammentare le parole di una fonte super attendibile, l’avvocato Pietro Milio, figura storica sul fronte antimafia, una vita da radicale al fianco di Marco Pannella: “Le rivelazioni-bomba di Li Pera su determinati appalti al Centro e Nord Italia, confessati ad Antonio Di Pietro, non hanno avuto seguito – chiarì Milio – semplicemente perché, con somma sorpresa dell’interessato, Li Pera non venne più invitato ad approfondire i temi della confessione a Di Pietro né dallo stesso pm milanese, né da altri suoi colleghi settentrionali ai quali il pm molisano potrebbe aver trasmesso il verbale per competenza, e nemmeno venne mai chiamato a testimoniare nei processi dedicati in tutto o in parte alle circostanze da lui riferite il 9 novembre 1992”. Una rivelazione – questa sì – da scoop.
AUTOSTRADE & TANGENTI
Ma come era nato quell’incontro tra Di Pietro e Li Pera?
E’ quest’ultimo a fornire i dettagli: “Ho chiesto di parlare con un pm di Milano perché, per esperienza diretta, ho avuto modo di constatare alcuni meccanismi di suddivisione degli appalti al Nord, specie con riferimento a quegli Enti che si occupano di autostrade: mi riferisco alla società Autostrade, ai consorzi autostradali (Consorzio Val di Susa per l’autostrada del Frejus, Consorzio Torino-Savona etc.) e, in particolare, l’Anas”.
Proprio Autostrade per l’Italia, oggi nell’occhio del ciclone per la tragedia del ponte Morandi e la revoca della concessione; proprio quei consorzi mangiasoldi che agiscono nell’ombra; proprio quell’Anas tanto cara a don Tonino soprattutto nei mesi – governo Prodi, 2007 – in cui è stato ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture, combinandone di cotte e di crude proprio sul versante degli appalti (per poi tornare, dieci anni dopo, sul ‘luogo del delitto’ al timone della altrettanto mangiasoldi Pedemontana Lombarda).
Riprendiamo con quel maledetto Sistema degli Appalti, che il ROS dei carabinieri (ma anche lo SCO della polizia, come vedremo nella prossima puntata) dettaglia tassello per tassello. E come poi farà proprio Li Pera, invano, con tanti magistrati sordi e muti della procura palermitana (tranne il sostituto catanese Felice Lima). Precisa l’ex geometra della Rizzani De Eccher: “Faccio riferimento alla costruzione di quelle strade di cui l’Anas ha preso la gestione o l’alta sorveglianza”.
A suffragare tutto ciò c’è un illuminante articolo scritto da Gianmarco Chiocci (oggi direttore dell’Adn Kronos, all’epoca redattore de ‘Il Giornale’) esattamente dieci anni fa, il 19 gennaio 2010, nel quale ricostruisce la Mafia-Appalti story e intervista Li Pera.
CARA ANAS, NON TI INDAGO
Scrive ad un certo punto Chiocci: “Prima di elencare a Di Pietro gli appalti viziati dal pagamento di tangenti, da accordi tra società solo in apparenza concorrenti, dalle percentuali alle imprese riconducibili a Cosa nostra, Li Pera spiega come funzionava ‘il sistema delle imprese’ che ‘si accordano tra loro in una specie di cartello avente lo scopo di controllare e precostituire il buon esito della gara’. Ogni società, a turno, con un ‘sistema di rotazione’ attraverso ‘un sorteggio a eliminazione’, si aggiudicava l’appalto. Per i lavori autostradali era lo stesso e attraverso progettisti compiacenti si arrivava a ‘far lievitare ad arte il valore di un appalto a un prezzo tale che gli potesse permettere di creare un surplus di guadagno tale anche da ricompensare quegli organi delle istituzioni che le hanno permesso simili operati’”.
Il geometra Li Pera fa l’elenco degli studi di progettazione puntualmente beneficiati dalle commesse, parla di ‘prezzario dell’Anas’ che è ‘una specie di Vangelo che non corrisponde ai reali valori di mercato ma serve a creare utili non giustificati’, si dilunga sugli escamotage per creare il nero e finanziare i partiti o la mafia.
Parla per esperienza diretta, Li Pera, durante quel colloquio a Roma, e a Di Pietro rivela: “Sull’autostrada Val di Susa la mia ed altre imprese assegnatarie degli appalti pagavano una somma di circa il 7 per cento del valore dell’appalto ai politici”.
Segue un dettagliato elenco dei politici pagati, dei funzionari a conoscenza delle corruzioni e aggiunge: “Poi c’è la questione dell’autostrada Roma-Napoli dove ho appreso del pagamento delle tangenti all’Anas, idem per l’ospedale di Torino”: quel raddoppio della corsia Roma-Napoli di metà anni ’80 che vide, oltre all’Anas, come protagonisti i mattonari nazionali e campani, nonchè la partecipazione attiva dell’emergente clan dei Casalesi, che faceva già allora man bassa di subappalti e movimento terra.
SALVO LIMA, LO SCOOP TAROCCATO DELL’ESPRESSO
In quell’articolo di 10 anni fa esatti, Chiocci rivelava quello che oggi l’Espresso spaccia per uno scoop.
Nel sottotitolo dell’intervista al settimanale, infatti, troviamo la oggi la notiziona del secolo: “La maxi tangente Enimont andò anche a Salvo Lima. Per conto della mafia e di Andreotti. Che sarebbe stato arrestato se Raul Gardini non si fosse ucciso. Le rivelazioni dell’ex pm”.
Accipicchia, quali rivelazioni! E che scoop!
Ascoltato come teste al processo Borsellino Ter, il 21 aprile ’99, Di Pietro s’è ricordato di Li Pera, soffermandosi sul filone siciliano del comitato d’affari. Ecco le profetiche (sic) parole del pm senza macchia e senza paura: e senza vergogna ora di ripetere cose già dette vent’anni fa: “Nel settembre ’92 mi arrivò, non ricordo se dal ROS o dal nucleo operativo di Milano, suggerimento di sfruttare un certo Li Pera per avere delle notizie ed aprire un troncone ‘Mani pulite’ in Sicilia. Ascoltai Li Pera e indagando sul comitato d’affari indicato dal geometra scoprii che Salvo Lima, 15 giorni prima di essere ucciso, ricevette dall’Enimont un miliardo in Bot e Cct”.
Una vicenda, Enimont, sulla quale torneremo in una seconda puntata.
Ma ora spunta un interrogativo alto come un grattacielo e inquietante come un pozzo che più nero non si può.
Come mai Antonio Di Pietro non approfondì quel gigantesco, stra-clamoroso filone investigativo? Per quale motivo mai non andò lui stesso avanti, invece di abbandonare la toga come nella più classica delle sceneggiate? O altrimenti: perché non affidò nelle mani di colleghi milanesi, romani o della procura che più gli andava a genio quella bollentissima inchiesta?
Succede lo stesso con la maxi inchiesta sull’Alta Velocità, prima scippata e poi insabbiata, nonostante già allora si trattasse di una evidente storia di “Corruzione ad alta velocità”, come denunciarono in un profetico – quello sì – libro uscito 20 anni fa esatti Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, un autentico j’accuse nei confronti di Di Pietro.
Succede con l’Uomo a un passo da Dio, Francesco Pacini Battaglia, che tutto sa su Enimont, TAV e altri buchi neri, e con cui il pm usa un insolito guanto di velluto. Anzi lo lascia subito libero, come vedremo nella prossima puntata.
Due coincidenze possono capitare per caso.
Ma tre – come sa bene ‘O Pm – fanno una prova.
ANTONIO DI PIETRO. IL J’ACCUSE DELLA FIGLIA E DEL LEGALE DI GARDINI. Paolo Spiga su la Voce delle Voci il 9 Febbraio 2020.
Un gran vaffanculo all’intervista fiume di Antonio Di Pietro del 19 gennaio scorso rilasciata all’inviata speciale dell’Espresso a Montenero di Bisaccia, Susanna Turco, genuflessa davanti all’ex pm, all’epoca di Mani pulite inviato altrettanto speciale della Cia per “rivoltare l’Italia come un calzino”, secondo il Verbo dell’amico e collega Piercamillo Davigo.
Protagonisti del Vaffa intonato per ‘O pm sono Maria Speranza Gardini, la figlia di Raul Gardini, al centro delle choccanti dichiarazioni del fondatore-affondatore di Italia dei Valori; e Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia e storico legale di Gardini.
Un j’accuse in piena regola, quello della figlia e dell’avvocato, che inchiodano Di Pietro alle sue fesserie o, se preferite, ai suoi comportamenti fuorilegge.
Antonio Di Pietro. In apertura Raul Gardini con le due figlie
Così si rivolge – ridicolizzandolo – Maria Speranza Gardini all’inquisitore di suo padre: sono “certa che saprà comprendere quale indignazione abbiano generato in noi le sue parole, tanto più drammatiche perché usate per narrare supposti aspetti deplorevoli e agghiaccianti della vita di un uomo che non c’è più, che non ha potuto raccontare la sua verità allora e che, adesso, non può difendere il proprio onore e la propria reputazione. Ho meditato su quanto la sua intervista possa avere contenuti diffamatori e offensivi per la memoria di mio padre e quindi, di conseguenza, per i suoi famigliari; ho riflettuto su quanto le sue parole possano aver leso l’immagine che tante persone conservano ancora di lui”.
E ancora: “Lei ha inutilmente creduto di mettere in dubbio le mie certezze con un ‘teorema dei se’ che di certezze, invece, ne ha ben poche”. O meglio, nessuna.
Non meno dure – nella sostanza – le parole di Flick.
“Già nel 2013 mi era capitato di dover puntualizzare i ricordi dell’ex pm Antonio Di Pietro sul suicidio di Raul Gardini, del quale ero difensore insieme all’avvocato Marco De Luca. Gardini non era all’estero e, alla vigilia del suicidio, non rientrò a tarda notte a Palazzo Belgioioso, dove invece aveva trascorso il pomeriggio e la serata con me e l’avvocato De Luca”.
Poi: “Ma questa volta nei ricordi di Di Pietro c’è una novità: l’ex pm, senza citarmi, parla di un co-difensore di Gardini, l’ex sostituto procuratore a Milano, con il quale aveva concordato modalità e tempi dell’interrogatorio che avrebbe potuto evitargli l’arresto. Non mi risulta che avesse un terzo difensore, ed io, ex magistrato, non avevo mai prestato servizio a Milano”.
Ancora: “Nel 2013 Di Pietro sosteneva che, se avesse fatto arrestare Gardini prima dell’interrogatorio, gli avrebbe salvato la vita; ora sostiene che Gardini, già vestito, si affacciò, vide i carabinieri, pensò che Di Pietro lo avesse ‘tradito’ e lì decise di suicidarsi per evitare il carcere. A parte il fatto che Gardini non era vestito ma in accappatoio e non aveva potuto vedere i carabinieri, delle due l’una: era meglio arrestarlo per salvargli la vita, o perse la vita proprio perché lo stavano per arrestare?”.
Come si sente, oggi, Di Pietro davanti a tali circostanziate accuse, davanti ad un dolore ancora così straziante?
Ma è mai stato per un solo momento un vero Uomo, Di Pietro, un autentico Magistrato?
IL LIBRO. Raul Gardini, la sua morte ha deviato il corso del processo Enimont e quello della storia. Il Domani il 12 gennaio 2022.
Il 13 gennaio esce in libreria il romanzo di Gianluca Barbera, L’ultima notte di Raul Gardini, edito da Chiarelettere.
Ricorre quest’anno il trentennale di Mani pulite e molti conti ancora non tornano, tra cui la morte del famoso manager che guidava Montedison, trovato senza vita il 23 luglio 1993, lo stesso giorno in cui avrebbe dovuto andare in procura a Milano dopo essere finito nel mirino del pool di Mani pulite.
Suicidio o omicidio? Per la magistratura non vi sono dubbi: Gardini si è tolto la vita. Ma molte cose non sono mai state chiarite.
Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 12 gennaio 2022.
L' ultima notte di Raul Gardini diventa un romanzo (e una serie tv) di Gianluca Barbera. Fondato su una rigorosa ricerca, il libro (edito da Chiarelettere, pp. 240, euro 16; in uscita il 13 gennaio) aggiunge alcuni personaggi di fantasia, un giornalista d'inchiesta e suo fratello, spione professionista, per mettere in fila i fatti e suggerire al lettore le diverse soluzioni: il suicidio, come da risultanze processuali, ma anche le altre piste, più o meno credibili, saltate fuori sui giornali e anche nei tribunali.
Qualche cosa (forse) non funzionò nell'indagine: a partire dalla sospetta manomissione della scena del crimine, con le notizie di una pistola troppo lontana dal cadavere e appoggiata sul comodino.
Barbera ricostruisce il clima da crollo di un impero per via giudiziaria, con lo spettro del carcere per chiunque avesse realmente le mani in pasta nel capitalismo italiano. Il 20 luglio 1993 si uccide Gabriele Cagliari in carcere. Tre giorni dopo, il 23 luglio, tocca a Gardini nel suo palazzo milanese, poco prima di recarsi in procura. Sono i tre giorni neri di Mani Pulite. È in quel momento drammatico che inizia a cambiare il vento dell'opinione pubblica.
Fu dunque per evitare l'arresto, a opera di Antonio Di Pietro, che Raul Gardini si suicidò? Non lo sapremo mai. Il romanzo è bello e serrato. Difficile staccare gli occhi dalle ultime cento pagine. Barbera ci racconta diverse storie italiane, che si intrecciano fino ad arrivare alla morte di Gardini. Assistiamo alla nascita della dinastia Ferruzzi, attraverso lo spirito imprenditoriale di Serafino, il capostipite che indicherà il suo successore nel genero, Raul, soluzione appoggiata dall'intera famiglia. Quello di Serafino era un altro capitalismo: meno attento ai bilanci e disposto a correre rischi altissimi. Serafino, però, aveva un senso della strategia che gli permetteva di trovare sempre una soluzione. Anche Raul ha un carattere simile, ma si trova a vivere in un'altra epoca: certe mosse da poker finanziario non sono più ammesse ed entrare nel salotto della finanza, senza chiedere permesso, può essere uno svantaggio. In più c'è la politica affamata di denaro e dalle pretese crescenti. Infine c'è l'inchiesta Mani Pulite che funge da detonatore.
La madre di tutti gli errori è il tentativo di Gardini di mettere le mani sul salvadanaio dei partiti, l'Eni, per creare Enimont: la famosa maxi-tangente nasce da questa operazione che poteva trascinare a fondo il gruppo. La famiglia scarica Raul e accetta di uscire da Enimont, in cambio di una cifra considerevolmente fuori mercato per eccesso. Gardini non è d'accordo, vede nella vendita delle quote l'inizio della fine, ma è tagliato fuori. Chiediamo a Barbera quale sia il rapporto tra verità e finzione nel romanzo: «Anche nelle scene inventate ho usato sempre dichiarazioni registrate da giornali, tribunali o agenzie. In una delle pagine iniziali assistiamo a una conferenza stampa di Idina, la moglie di Gardini. La conferenza stampa non ci fu. Ma lei disse veramente quelle cose, sono sempre parole sue».
Non teme qualche querela?
«No, in fondo al romanzo ci sono gli esiti giudiziari delle varie inchieste. Non ci sono peggioramenti delle figure reali. Nessuno è accusato di fatti per i quali non sia stato effettivamente condannato. Ho letto migliaia di pagine su Gardini, Sama, Cusani e tutti i personaggi reali. Mi sono attenuto alle loro parole».
Nel finale, tra depistaggi e colpi di scena, si gioca sulla ambiguità: «Non è compito mio condannare o assolvere. La realtà è complessa, non do giudizi, sarebbe ridicolo. Non mi sono mai posto da un punto di vista moralistico. Credo che le relazioni personali siano ricche di sfumature. Per non dire delle sfumature che possiamo cogliere nella natura complessa del grande capitalismo. Ho preso un pezzo di Storia d'Italia e di una famiglia e l'ho raccontato in modo spero efficace».
La pensa così la Mompracem, società di Carlo Macchittella e dei Manetti Bros, i registi più in vista del momento grazie al film Diabolik. Il romanzo diventerà una serie tv. Barbera sarà consulente al soggetto e alla sceneggiatura. Perché Gardini è così affascinante?
«È uno di quei grandi personaggi che non si fermano davanti a nulla. Diceva spesso di non essere interessato alle opinioni altrui». Un orgoglio che sconfina nella superbia: «Un segno di individualismo assoluto. La sostanza però c'era. Gardini era considerato in possesso di una grande visione, da Romano Prodi ad esempio. Voleva fare la Storia. In questo era simile a Serafino Ferruzzi. Quando voleva una cosa, non badava al prezzo. Spese cifre enormi anche per armare il Moro di Venezia, la sua passione, la barca a vela con la quale affrontò la Coppa America. Era talmente convinto di sé da credere.Il padre Ivan era un ricco imprenditore agricolo, impegnato nella bonifica dell'area paludosa attorno a Ravenna. Raul studiò presso l'Istituto agrario di Cesena dove conseguì il diploma di perito agrario. Nel 1987 gli sarà conferita la laurea honoris causa in agraria dall'Università di Bologna. Crebbe professionalmente nell'azienda di Serafino Ferruzzi, di cui diventò genero nel 1957 sposandone la figlia Idina (1935-2018). Il 10 dicembre 1979 Serafino Ferruzzi morì in un incidente aereo e i suoi quattro eredi (Idina, Arturo, Franca, Alessandra) affidarono a Gardini le deleghe operative per tutto il Gruppo che finì con lo specializzarsi in prodotti chimici dal basso impatto ecologico. La tentata fusione con Eni segna l'inizio della fine. Sotto il pool di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Francesco Saverio Borrelli. Gardini si uccise il giorno in cui doveva essere interrogato da Di Pietro di poter ripianare qualsiasi debito». Gardini sognava di essere leader mondiale nel settore energetico della agrochimica (benzine verdi).
Marciava nella giusta direzione. Era amato dai "colleghi" imprenditori? Barbera: «Era un parvenu nei salotti "aristocratici" di Cuccia e Agnelli. Gardini veniva dalla provincia e da una famiglia che fondava la sua ricchezza sulla terra. Aveva il diploma di perito agrario, la laurea honoris causa in agraria all'Università di Bologna risale al 1987. Non era simpatico al potere politico e credo non volesse scendere a compromessi. In un certo senso, è stato stritolato da un ingranaggio del quale non voleva tenere conto». Questa fu la sua rovina: «La fusione con Eni lo mise nelle condizioni di doversi obbligatoriamente confrontare con la politica». E Tangentopoli...
«È un missile che sarebbe finito comunque contro Eni e Montedison. Credo che questo Gardini lo sapesse. Essere personalmente coinvolto nell'inchiesta invece ebbe un effetto dirompente. Non poteva accettare l'onta di finire in carcere, di essere visto come un perdente». Di recente, Federico Mosso ha pubblicato Ho ucciso Enrico Mattei (Gog edizioni) in cui tiene banco la morte del fondatore di Eni (ancora e sempre Eni...). Nel prossimo futuro incuriosisce il romanzo di Alessandro Bertante sulle Brigate Rosse, Mordi e fuggi, in uscita a fine mese per Baldini & Castoldi (ne riparleremo). La Storia pare aver dato vita a un filone romanzesco tra verità e finzione, che il cinema, con risultati alterni, aveva già toccato.
Stefano Zurlo per “il Giornale” il 12 gennaio 2022.
Tutto in tre giorni. Fra il 20 e il 23 luglio 1993. Il momento forse più cupo di Mani pulite e uno dei più drammatici nella storia recente del nostro Paese. La mattina del 20 luglio, dunque, Gabriele Cagliari, ex potentissimo presidente dell'Eni, a San Vittore da 134 giorni, chiude la partita con un suicidio meticolosamente preparato: ferma la porta del bagno della sua cella, la 102, con un pezzetto di legno, poi infila la testa in un sacchetto di plastica bloccato con un laccio da scarpe e soffoca con una tecnica disumana ma collaudata.
Il giudice Simone Luerti, che si era occupato di questa tragedia e che interrogai, fu categorico: «Purtroppo in letteratura ci sono casi di questo tipo». Nessun presunto mistero e niente di anomalo, se non una carcerazione preventiva interminabile e intollerabile, la sensazione di essere dentro un meccanismo che ti sta stritolando e da cui non uscirai più.
Lo stesso clima che deve aver vissuto ventotto anni dopo, sia pure da uomo formalmente libero, Angelo Burzi che a Torino la notte di Natale l'ha fatta finita con un colpo di pistola. In quei mesi del terribile Novantatré, che sul calendario sembra riecheggiare gli eccessi dell'originale giacobino, Mani pulite è una macchina da guerra che pare travolgere tutto e tutti. Il 23 luglio Raul Gardini, uno dei più importanti capitani d'industria, ha appuntamento per un interrogatorio con i magistrati del Pool. Il suo destino è segnato e gli spifferi e i verbali in uscita proprio in quelle ore sul Mondo lo rendono ancora più fragoroso. Il Contadino è un imprenditore abituato al comando, non alle mortificazioni e alla discesa nell'ombra della vergogna e dell'immobilità.
Quando ha saputo della fine di Cagliari, ha telefonato al cognato Carlo Sama: «È morto da eroe». Un presagio, anzi un annuncio. Si sveglia nella sua residenza milanese di Palazzo Belgioioso e si spara. Questa volta il sempre risorgente partito del dubbio e del chissà che cosa c'è dietro ha qualche carta in più, ma i protagonisti dell'epoca mi consegnarono versioni concordi. Sergio Cusani, braccio destro di Gardini, fu netto: «Raul non concepiva l'idea di potersi trovare in una situazione del genere e si ammazzò». Antonio Di Pietro scivolò sul registro del rimpianto: «Chissà, se lo avessimo arrestato, forse lo avremmo salvato».
In un libro misurato, Storia di mio padre, Stefano Cagliari ricostruisce quelle ore spaventose, senza misericordia, con la pietà in fuga dalle vie di Milano, tanto che pure il funerale era diventato un problema quasi insormontabile: «Il parroco di San Babila non c'era, il vice si rifiutò e così pure il vicariò di Carlo Maria Martini all'Arcivescovado». La gogna e il giustizialismo erano arrivati fino a mettere a repentaglio le basi della convivenza civile. Chi avrebbe officiato le esequie? «Allora - prosegue Stefano Cagliari- il cardinale, che è in Francia, chiama il cappellano di San Vittore, don Luigi Melesi, e lo prega di celebrare la funzione al posto suo». Ma i colpi di scena non sono ancora finiti, anzi la successione crudele degli avvenimenti raggiunge il suo apice, come in un film: «La chiesa era gremita, la gente si accalcava fuori. Arrivò la notizia del suicidio di Raul Gardini», morto a poche centinaia di metri da San Babila, nel cuore colmo di spine della metropoli.
«Era tutto più grande di noi». I familiari leggono le lettere. Quella all'ormai vedova Bruna è stata scritta a San Vittore il 3 luglio ed è chiusa in una busta con la dicitura agghiacciante: «Da aprirsi al mio ritorno». Prima che il pm Fabio De Pasquale, oggi sotto accusa per altri verbali Eni, si rimangiasse la promessa di chiedere al gip gli arresti domiciliari per la vicenda Eni-Sai. Quell'episodio è forse la goccia che fa traboccare il vaso, ma la decisione è presa prima e spiegata in quella missiva di congedo: «Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza teste né anima... Siamo cani in un canile dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la sua esercitazione».
Una critica feroce, meditata e in qualche modo fatta propria da Gherardo Colombo, storico magistrato del Pool Mani pulite che firma proprio la prefazione del libro di Stefano Cagliari: «Il magistrato si incentra sulle esigenze della giustizia termine che inserisco fra molte virgolette - ma così facendo non si rende conto delle conseguenze che i suoi atti producono su coloro che le investigazioni subiscono».
RAUL GARDINI. PERCHE’ DOVEVA MORIRE. Cristiano Mais su la Voce delle Voci il 19 Agosto 2018
Il mistero della morte di Raul Gardini, uno dei buchi nei della martoriata storia italiana. Lo abbiamo scritto in un’inchiesta nei giorni scorsi. Una ferita ancora aperta nel cuore della Tangenpoli di casa nostra. I figli invocano giustizia ma dovrebbe essere soprattutto uno Stato degno ancora (ne dubitiamo) di tal nome a pretenderla.
Sapeva tanto dei misteri della maxi mazzetta Enimont dove tutti i partiti erano dentro, la madre di tutte le tangenti. Il suo pm era Antonio Di Pietro che con lui non usò certo il guanto di velluto che in realtà utilizzò praticamente con nessuno dei suoi inquisiti: tranne che con Francesco Pacini Battaglia, dello Chicchi, l’uomo a “un passo da Dio”, colui il quale non solo sapeva tutti i segreti della Enimont story, ma anche sugli esordi affaristici della Alta Velocità, sulla quale avevano appena cominciato ad indagare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: e con ogni probabilità per questo stati uccisi, avendo scoperto gli inconfessabii patti tra politici nazionali, mafie e imprese di riferimento.
Per questo Dovevano morire (come hanno scritto Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato nel 1999), così come doveva morire Gardini e così come doveva naufragare il troncone dell’inchiesta milanese sulla (TAV ed Enimont in pole position) affidata appunto a Di Pietro. Che se la sbrigò in poche battute. Il grande imputato, Chicchi Battaglia, si presentò affiancato da un avvocato che al Foro di Milano nessuno aveva mai visto prima in circolazione: Giuseppe Lucibello, giunto da poco dall’avellinese per fare il legale nella gran Milan. E per sua grande fortuna gli capita subito un cliente da novanta, quello che tanti avvocati aspettano per una vita e non vedono mai bussare al loro studio: nientemeno che Pacini Battagia, l’uomo che conosce tutti i Misteri & i Segreti d’Itaia. Ma chi li mette in contatto? Il pm, l’inquisitore di Pacini, ossia Antonio Di Pietro. Ai confini della realtà.
Ed è prorpio per questo che tutti i grovigliosi maxi misteri, tutte le storie a base di maxi tangenti e volar di danari, accordi corruttivi e quant’altro costituisce illegalità alla centesima potenza, per un autentico miracolo di scioglie come neve al sole.
Pacini Battaglia verrà interrogato per un paio di volte dal morbidissimo Di Pietro, che lo lascerà andare libero come un fringuello senza fargli scontare neanche un’ora a guardare il cielo a scacchi.
Per quanto riguarda Gardini, invece, il ghigno di Hannibal torna in campo. Il pm convoca il suo indagato per le 9 di mattina in procura: Gardini non si presenta, perchè nel frattempo, nel suo studio di casa, s’è sparato una rivoltellata alla testa. Portando con sé tutti i segreti.
Sulla fine di Raul Gardini è appena uscito un volume scritto da Matteo Cavezzali, edito da minimum fax e titolato “Icarus. Ascesa e caduta di Raul Gardini”.
Scrive il Corsera: “Nel Mistero Gardini c’è troppo: la sua morte. Quella di almeno altre quattro persone (Cavezzali indica oltre a Gardini, Franco Piga, Sergio Castellari, Gabriele Cagliari e Lorenzo Necci), coinvolte nella storia monstre di Enimont.”
Tra gli altri, Cavezzali intervista la guardia del corpo-assistente di Gardini, Leo Porcari, che sostiene: “Gardini è stato ucciso, ne sono più che sicuro”.
Qualche magistrato è andato mai a chiedergli perchè ne è così certo?
LA MAXI TANGENTE ENIMONT. SE CARLO SAMA COMINCIA A PARLARE. Cristiano Mais su la Voce delle Voci il 15 Luglio 2018.
Dalle sue ricche piantagioni in Paraguay, dopo un quarto di secolo racconta le sua verità sulla madre di tutte le tangenti, Enimont, Carlo Sama, che sposò una delle figlie, Alessandra, dell’ex imperatore del grano, Serafino Ferruzzi.
Una delle pagine più sconvolgenti di Tangentopoli, per la morte – “suicidio?” – di Raul Gardini, patròn del gruppo e marito di un’altra rampolla di casa Ferruzzi, Idina. La mattina stessa che avrebbe dovuto verbalizzare davanti al pm di ferro, Antonio Di Pietro, preferì spararsi una rivoltellata in testa.
Un po’ come fece il capo Eni Gabriele Cagliari, che scelse un sacchetto intorno alla testa piuttosto che affrontare la gogna giudiziaria.
Un paginone del Corriere della Sera griffato Stefano Lorenzetto, torna su quei buchi neri, su quelle vicende che ancora ammorbano la storia italiana e rappresentano un’autentica macchia nella giustizia (sic) di casa nostra.
Titolo del pezzo: “Io, mio cognato Gardini e il colpo di pistola 25 anni fa”.
Scrive Lorenzetto: “Il protagonista del processo Enimont, inchiodato dal pm Antonio Di Pietro per aver pagato ‘la madre di tutte le tangenti’ e riabilitato di recente dal tribunale di sorveglianza di Bologna, vive tra Montecarlo e il Sudamerica”. Beato lui.
Novello Hemingway, narra Sama: “Nel bosco mi sono costruito una casa di legno (progettino firmato Fuksas?, ndr) su un albero a 20 metri da terra, ma confesso che non ci ho ancora dormito… Ho paura dei giaguari: quelli si arrampicano”.
E quelli di Tangentopoli gli facevano il solletico?
Da una rimembranza all’altra. “Avevamo il monopolio mondiale del propilene. Ma bisognava investire centinaia di miliardi in ricerca. La Shell era pronta. Avremmo riportato a casa i pozzi petroliferi in Adriatico. E l’Edison. L’advisor dell’operazione era Romano Prodi, affiancato da Claudio Costamagna, attuale presidente della Cassa Depositi e Prestiti”. Arieccoli.
“Perchè a 60 anni Gardini si uccise?”, chiede Lorenzetto.
“Non certo per disonore: non aveva fatto nulla. Temeva di finire come Gabriele Cagliari. 134 giorni nel canile. Quando il presidente dell’Eni si suicidò in cella, Raul mi telefonò: ‘E’ morto da eroe’. Pensava solo a quello, all’arresto. Di Pietro lo teneva sulla graticola. Non si lavora una vita per finire in ginocchio da chi ti accusa”.
Nel libro “Corruzione ad Alta Velocità” firmato vent’anni fa da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, si parla ovviamente della maxi tangente Enimont e dei protagonisti dell’affaire.
Ecco un paio di stralci.
Il primo fa riferimento ad una sigla acchiappa lavori & tangenti, TPL, un vero e proprio scrigno. “In questo intreccio di mazzette resta centrale la figura di Francesco Pacini Battaglia, il quale avrebbe reso possibile la costituzione di fondi neri societari all’estero, nel tentativo di rendere invisibili i beneficiari di quel denaro. Tutto questo – lo ricordiamo – lo scopriranno i magistrati di Perugia”.
Ecco l’interrogativo clou: “Ma perchè, pur incappando, cinque anni prima, negli affari sporchi della Tpl, Antonio Di Pietro, e con lui Gherado Colombo, non erano riusciti a venire a capo di nulla? Eppure sempre nel 1993, interrogato dai magistrati del pool di Milano, il finanziere Sergio Cragnotti, all’epoca amministratore delegato di Enimont e buon amico di Raul Gardini, aveva raccontato di aver ricevuto dalla Tpl 5 miliardi di lire, soldi poi bonificati da Pacini Battaglia. 2 miliardi – aveva riferito Cragnotti – li aveva tenuti per sé, 2 erano finiti a Gardini e l’ultimo a Necci (allora presidente dell’Enimont) e Pacini Battaglia”.
Passiamo al secondo stralcio con le parole di Imposimato, un vero e propro j’accuse: “Sono andato a rileggere l’elenco dei nomi dei principali imputati del processo Enimont: non nascondo che un brivido mi ha attraversato la schiena. Alcuni di quegli imputati come Gabriele Cagliari furono letteralmente torturati psicologicamente e tenuti in carcere fino alla morte. Per sucidio. Altri, come Raul Gardini, furono minacciati senza pietà di arresto fino alla morte. Per suicido. Altri ancora – è il caso di Cragnotti e Pacini Battaglia – il carcere lo hanno visto appena (il primo) o, almeno a Milano, non l’hanno mai visto (il secondo)”.
E’ la giustizia, bellezze.
E non ha caso mai da aggiungere qualcosa di più corposo, da Montecarlo a dalla capannuccia in Paraguay, l’altro uomo (oltre Francesco Pacini Battaglia) di tutti i segreti Enimont, Carlo Sama?
LA VERA STORIA DELLA MAXI TANGENTE ENIMONT. IL DEPISTAGGIO FIRMATO DI PIETRO. Andrea Cinquegrani su la Voce delle Voci il 20 Gennaio 2020.
Rieccoci a don Tonino Di Pietro ed all’epica intervista da 7 pagine rilasciata all’inviata speciale – a Montenero di Bisaccia – dell’Espresso, Susanna Turco.
Nella parte finale salta fuori il Di Pietro Amerikano, e la inusuale frequentazione del consolato meneghino a stelle e strisce ben prima che scoppiasse Mani Pulite. La Stampa una decina d’anni fa ha ricostruito quella ragnatela di incontri ‘preparatori’. Il pm senza macchia e senza paura, infatti, si era più volte incontrato con il console Usa a Milano, Peter Sandler, al quale avrebbe addirittura raccontato in anticipo la sua intenzione di arrestare Bettino Craxi e Mario Chiesa.
La Voce ha più volte rammentato quelle stories, che puzzano lontano un miglio. Per la serie: Di Pietro era un burattino nelle mani degli Usa e della Cia. Nel precedente articolo lo abbiamo definito ‘burattinaio’: per il semplice motivo che se don Tonino era eterodiretto (dagli States), a sua volta impartiva ordini al pool (ed anche alle toghe romane), in perfetta intesa con il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli.
INCONTRI E CENE DI “SERVIZIO”
Vediamo cosa racconta oggi ‘O Pm alla Turco sul tanto agognato arresto di Craxi e Chiesa: “E’ un’invenzione totale. Nel ’91 io Mario Chiesa nemmeno sapevo che esistesse. E’ vero che io stavo facendo delle indagini molto delicate, dal 1989, dal ’90, ma rispetto ad una realtà che conoscevano pure le pietre. Per me Craxi è uno dei tanti, lui la gira in modo politico inventandosi, facendo scrivere questa storia dei servizi, dossieraggi che non ci azzeccano nulla”.
Ma che razza di risposta è mai questa? Lui chi, quel Craxi morto vent’anni fa che non può certo rispondere?
E come mai Di Pietro non dice una sola parola, neanche mezza, circa gli inquietanti, frequenti incontri con il console Peter Sandler?
Ma c’è un altro buco nero. Il mistero di quella cena di Natale, tanto per fare quattro chiacchiere e scambiarsi gli auguri tra amiconi.
Ecco come la racconta don Tonino: “Ah già! Quella famosa cena di Natale al consolato dove c’era Bruno Contrada (che guarda caso verrà arrestato pochi giorni dopo, ndr), il capo dei servizi, c’era il responsabile dei servizi americani, il console americano, l’allora colonnello Leonardo Gallitelli”.
Ci mancavano solo i super capi del Pentagono e dell’Fbi.
Prosegue nel suo racconto alla Turco: “Cosa succede quel giorno? Per me quello era un pranzo natalizio in una pausa tra gli interrogatori. C’era un mare di gente e mi avevano messo al tavolo centrale, col console americano, francese e non so chi altro. Quindi quella foto che poi è girata nelle redazioni dei giornali sembra il pranzo del complottista. Ma escludo che quel pranzo sia stato fatto per fini complottisti. E, se pure lo fosse, certamente non col concorso mio e nemmeno con il concorso di Gallitelli”.
E, non contento, aggiunge: “Io non ho mai avuto a che fare con un solo agente segreto in vita mia”.
Siamo su ‘Scherzi a parte’?
Passiamo ad altri nodi che, man mano, vengono al pettine, anche grazie all’intervista-autogol. Che permette di alzare non pochi altarini.
LA SCENEGGIATA DI BRESCIA
Il fondatore (affondatore) di Italia dei Valori fa riferimento alla persecuzione giudiziarie (sic!) nei suoi confronti e il timore di un possibile rinvio a giudizio, se non addirittura di quel tintinnar di manette del quale gli uomini del pool erano molto esperti. Da qui la decisione – improvvisa – di gettare la toga sul banco, quando tutta l’Italia si chiede il perché.
Una sceneggiata, l’abbiamo definita ieri. In piena regola, rispettando in mondo perfetto tutti i canoni delle piece napoletane.
Sapeva bene, infatti, Di Pietro che ne sarebbe uscito a vele spiegate, o solo con qualche piccola ammaccatura. Al termine del breve percorso istruttorio, infatti, arriva la scontata sentenza del tribunale di Brescia che lo pone al riparo da ogni conseguenza, anche se le motivazioni sono un po’ pesantucce, il minimo sindacale. Quella sentenza leva le castagne dal fuoco sul fronte delle accuse da non poco, non ravvisando alcun profilo penale; lo censura solo sotto il profilo morale, deontologico, professionale. Come dire: qualunque altro sarebbe andato a processo, tu certo no.
Si trattava di fatti e capi d’accusa per qualunque professionista – figurarsi un magistrato – da novanta: come gli strani rapporti con l’avvocato Giuseppe Lucibello, i tanti regali ricevuti – spesso via Lucibello – dai suoi stessi inquisiti, i prestiti, le auto, gli appartamenti fittati con disinvoltura, di tutto e di più in una sequela di favori inimmaginabili per un pm senza macchia e senza paura e senza vergogna nel ricevere cadeau di quel tipo dai suoi stessi imputati!
Tutto ciò per Brescia è penalmente irrilevante, significativo solo sotto (l’inutile) profilo etico, deontologico, professionale.
E così Giustizia è fatta.
Nel profetico libro scritto 20 anni fa da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, “Corruzione ad Alta Velocità”, tutti quegli imbarazzanti episodi che hanno visto il pm Di Pietro come ‘protagonista’ sono dettagliati con dovizia di particolari.
Ne esce un quadro agghiacciante, del resto mai contestato dal Pm di Montenero di Bisaccia, che non ha neanche chiesto, agli autori, di rettificare parti di quel testo infuocato.
PACINI BATTAGLIA, L’UOMO A UN PASSO DA DIO
Un j’accuse potente come una bomba – quel libro edito da Koinè nel ’99 – e chissà perché mai attenzionato da alcun vero magistrato per far davvero luce sulla mole dei fatti narrati da Imposimato e Provvisionato.
Come, una su tutte, l’inchiesta taroccata sull’Alta Velocità (lo vedremo in dettaglio nella prossima puntata) e il ruolo giocato in tutta la Mani Pulite story da Francesco Pacini Battaglia, “l’Uomo a un passo da Dio” – come lo definì inquisitor Di Pietro – il super faccendiere che tutto sapeva della vicenda Enimont, la madre di tutte le Tangenti, dei segreti di TAV e di mezzo parastato in stra-odore di mafia e di corruzione.
A questo punto, non resta che riportare alcuni tra i più salienti passaggi che potete leggere in “Corruzione ad Alta Velocità”: rammentiamolo, scritto a quattro mani vent’anni suonati fa, un j’accuse che avrebbe dovuto far scoppiare la vera Tangentopoli.
Partiamo da Chicchi Pacini Battaglia, sul quale indaga Di Pietro a Milano, dopo essersi fatto trasferire altri fascicoli d’inchiesta sul faccendiere dalla procura di Roma (insieme a quelli dell’Alta velocità).
E da una società sotto i riflettori degli inquirenti, TPL.
Scrivono Imposimato e Provvisionato: “Responsabili della TPL sono Mario Maddaloni, presidente, e Leonello Sebasti e Pietro Tradino, amministratori delegati, tutti e tre molto legati a Pacini Battaglia nella cui banca (svizzera, ndr), la Karfinco, sono titolari di conti, oltre ad essere azionisti dello stesso istituto. (…) Tutto questo lo scoprirono i magistrati di Perugia. Ma perché, pur incappando, ben cinque anni prima, negli affari sporchi della TPL, Antonio Di Pietro e, con lui, Gherardo Colombo, non erano riusciti a venire a capo di nulla? Eppure sempre nel 1993, interrogato dai magistrati del pool di Milano, il finanziere Sergio Cragnotti, attuale presidente della Lazio calcio, all’epoca amministratore delegato di Enimont e buon amico di Raul Gardini, aveva raccontato di aver ricevuto dalla TPL 5 miliardi, soldi poi bonificati da Pacini Battaglia. 2 miliardi – aveva riferito Cragnotti – li aveva tenuti per sé, 2 erano finiti a Gardini e l’ultimo a Necci, allora presidente di Enimont (Lorenzo, poi ai vertici di FS e promotore di Tav, ndr) e Pacini Battaglia”.
QUEL RITO AMBROSIANO
Un giochetto da ragazzi scoprire la combriccola con le mani nella marmellata. E invece cosa succede?
Proseguono gli autori: “Anziché essere messo a confronto con Cragnotti da Di Pietro, Pacini Battaglia viene creduto come fosse un oracolo e mandato a casa. Non era mai accaduto nel ‘rito ambrosiano’, quello officiato da Di Pietro, che un imputato, disposto non solo a confessare, ma anche a fare dei nomi e a fornire precisi riscontri obiettivi che a distanza di anni sono stati trovati, non sia stato creduto. Per questa brutta pagina giudiziaria Di Pietro finirà sotto inchiesta davanti ai magistrati di Brescia che nel marzo 1998 lo accuseranno, tra l’altro, di aver omesso di sviluppare, dal punto di vista investigativo, ‘come sarebbe stato necessario e possibile, attraverso rogatorie internazionali, le notizie fornite’. Lo stesso Di Pietro, quindi, avrebbe creduto a Pacini Battaglia, senza verificare ciò che aveva detto Cragnotti – tutte rivelazioni confermate anche da un altro imputato, Roberto Marziale – e cioè che a Necci era stata accreditata una somma da 1 milione e mezzo di franchi svizzeri sul conto intrattenuto presso la Karfinco”.
Ma sono ancora più precisi, su questi punti bollenti, Imposimato e Provvisionato: “In altre parole la procura di Brescia raggiungerà la convinzione che Di Pietro, da pm a Milano, avesse favorito il banchiere (Pacini Battaglia, ndr), omettendo una serie di indagini sul suo conto e salvando, di fatto, personaggi come Necci. Secondo i magistrati bresciani, infatti, Di Pietro aveva revocato la rogatoria internazionale con la Svizzera che avrebbe invece consentito di scoprire che presso la Karfinco di Ginevra, cioè la banca di Pacini, erano accesi conti intestati a diversi coindagati, tra i quali i responsabili di Eni e di Tpl. Ma il gip di Brescia, Anna Di Martino, ha prosciolto Di Pietro da tutte le accuse con la formula ‘perché il fatto non sussiste’”.
Ai confini della realtà.
UN MARE DI DOMANDE (ANCORA) SENZA RISPOSTA
Non è certo finita qui. Perché gli interrogativi fioccano e si moltiplicano.
Si chiedono gli autori di ‘Corruzione ad Alta Velocità’: “Come mai Di Pietro lasciò Pacini Battaglia libero? Non c’era per il faccendiere, fulcro di tutti gli imbrogli dell’Enimont, quel rischio d’inquinamento delle prove tanto spesso tirato in ballo per arrestare e tenere in galera tanti personaggi dallo spessore criminale decisamente inferiore a quello di Pacini? Rischio che l’ordinanza del tribunale di Milano del 1 dicembre 1997 e del gip di La Spezia e di Perugia hanno confermato? E’ solo una coincidenza che anche Pacini fosse difeso dal solito avvocato Peppino Lucibello, lo stesso legale per il quale i magistrati di Perugia chiederanno, senza però ottenerla, l’incompatibilità nella difesa del suo assistito? E come mai il cervello così carico di saggezza popolare del pm milanese non venne neppure sfiorato dall’idea di procedere ad una serie di confronti incrociati tra Cragnotti e Pacini, tra Cragnotti e Necci e tra Necci e Pacini? Perché Di Pietro lasciò che un calibro da novanta come Pacini venisse interrogato da Borrelli, che poco o nulla sapeva dei dettagli della vicenda di cui Cragnotti aveva parlato? Perché, guarda caso, proprio i nomi di Pacini, Necci e Cragnotti vennero stralciati dal processo Enimont? Perché in questa vicenda Di Pietro non ha usato quella sua personalissima tecnica, ampiamente collaudata, e cioè tenere dentro tutti: Cragnotti, reo confesso, Necci, chiamato in correità e Pacini anche lui chiamato in correità?”.
Interrogativi da brividi, ai quali sarebbe interessante ottenere risposte dal pm che ha scritto la storia di Mani pulite, invece di dover leggere le rispostucole alla genuflessa Susanna Turco, la super inviata a Montenero di Bisaccia per abbeverarsi alle fonti della Verità!
Imposimato va avanti come un trattore, come quelli che vengono utilizzati dai contadini nelle verdi campagne molisane.
“Sono andato a rileggere l’elenco dei nomi dei principali imputati del processo Enimont: non nascondo che un brivido mi ha attraversato la schiena. Alcuni di quegli imputati come Gabriele Cagliari furono letteralmente torturati psicologicamente e tenuti in carcere fino alla morte. Per suicidio. Altri, come Raul Gardini, furono minacciati senza pietà di arresto fino alla morte. Per suicidio. Altri ancora – è il caso di Cragnotti e Pacini Battaglia – il carcere lo hanno visto appena (il primo) e, almeno a Milano, non l’hanno visto mai (il secondo)”.
Il materiale, su vari fronti, è super abbondante.
STELLE A MILANO. FACCIA A FACCIA TRA DI PIETRO E MASTELLA. Paolo Spiga su la Voce delle Voci il 15 Ottobre 2017.
Confronto fra titani, a Milano, sulla vecchia Tangentopoli. Protagonisti il numero uno di quella stagione Antonio Di Pietro e l’ex guardasigilli Clemente Mastella.
“Rifarei mille volte Mani pulite”, ha proclamato l’ex pm. Il quale ha aggiunto che tutto è stato fermato dopo il suicidio di Raul Gardini, che il giorno seguente si sarebbe dovuto recare proprio da Di Pietro per un interrogatorio decisivo. “Se no Mani pulite andava avanti”, secondo il fondatore di Italia dei Valori.
Nessuna spiegazione, invece, sui mancati interrogatori all’uomo a un passo da Dio, quel Pierfrancesco Pacini Battaglia che tutto sapeva su Tangentopoli e soprattutto sulla maxi tangente Enimont. Perchè Di Pietro non è riuscito a farlo parlare? Come mai con lui ha usato un insolito guanto di velluto?
Lo stesso pm ha aggiunto di aver scoperto solo la metà del bottino di quella maxi tangente da 150 miliardi di vecchie lire. L’altra metà – ha detto – “non so che fine abbia fatto. Ho fatto una rogatoria internazionale al Vaticano per lo IOR ma nessuno ha mai risposto”.
Non era più semplice – ripetiamo – farselo spiegare da Pacini Battaglia che tutto sapeva? Ha giovato a Pacini avere un avvocato difensore come Giuseppe Lucibello, storico amico di Di Pietro?
Al dibattito fra titani di Milano l’altra stella era Mastella, poche settimane fa assolto dalle accuse per cui poi cadde il governo Prodi, del quale era guardasigilli dieci anni fa.
Da Mastella critiche allo stesso Prodi, “che non ha commenato la mia assoluzione, non ha detto come mai si è verificato tutto. Perchè per fregare il governo Prodi si è fregato Mastella”.
Ha poi aggiunto di aver in mente una rifondazione del suo Udeur. “Se lo rifaccio è per quelli che erano con me e in questi anni sono stati vilipesi”.
Sulla sua collocazione, a destra al centro o a sinistra, non ha scoperte lo carte. “La collocazione di Mastella rimane un mistero”.
Per quest’Italia, ottimo e abbondante.
DI PIETRO – POMICINO. LA SINGOLAR TENZONE AL PROCESSO STATO-MAFIA. Andrea Cinquegrani su la Voce delle Voci il 4 Ottobre 2019.
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Bomba Pomicino al processo di Palermo per la Trattativa Stato-Mafia, che all’udienza dell’11 novembre dovrebbe vedere la testimonianza di Silvio Berlusconi.
Antonio Di Pietro, citato come teste, a scoppio molto ritardato – oltre un quarto di secolo – rivela un particolare da novanta sulla famigerata super mazzetta Enimont, la madre di tutte le tangenti. Fu Paolo Cirino Pomicino a consegnare 150 milioni di lire a Salvo Lima, ammazzato dalla mafia pochi mesi dopo.
Una circostanza fino ad oggi mai venuta a galla. E subito contestata da ‘O Ministro che attacca Di Pietro come un ignorante, ossia uno che non sa distinguere tra corruzione e finanziamento ai partiti. E, a sua volta, spara a zero sullo stesso fondatore di Italia dei Valori.
Nel corso del processo palermitano, comunque, il tema centrale ha ruotato intorno al nodo “Mafia-Appalti”, di certo il movente per la strage di Capaci e per quella di via D’Amelio, come del resto da anni sostiene con forza – voce quasi nel deserto – Fiammetta Borsellino, la coraggiosa figlia di Paolo.
Ma recapitoliamo quanto è successo nel corso dell’udienza palermitana.
QUEI CCT BOLLENTI DA POMICINO A LIMA
Partiamo subito dalle bollenti parole pronunciate dal pm di punta del pool di Mani Pulite che abbandonò la toga senza apparenti motivi.
“Anche Salvo Lima incassò una tangente Enimont da Raul Gardini, attraverso i CCT che gli girò Paolo Cirino Pomicino”, il quale “aveva incassato 5,2 miliardi di lire (della tangente Enimont, ndr) e poi diede i cct a Lima”.
Quasi in tempo reale la replica di ‘O Ministro. “Macchè tangente Enimont. Di Pietro, come è noto, non sa l’italiano. Non si tratta di una tangente ma di un finanziamento politico alla corrente andreottiana. Ricordo al signor Di Pietro che io sono stato assolto dall’ipotesi di corruzione nel processo. Fu un finanziamento per tutta la corrente andreottiana. Ricordo che venne a casa mia Ferruzzi, e non Gardini, come dice Di Pietro. Anche perché i rapporti con Gardini erano pessimi. Ferruzzi finanziò l’intera campagna elettorale del 1992. Non solo, girai quelle somme a tutti i deputati della corrente”. Tra cui, appunto, Salvo Lima.
Sorgono subito spontanee alcune domande. Come mai a Di Pietro adesso salta in mente di attaccare Pomicino, tirando fuori un elemento importante, ma a tale distanza di tempo? Cosa bolle in pentola, in quella che a molti pare una sceneggiata alla napoletana?
LA LUNGA STORY TRA DI PIETRO & POMICINO
Val la pena di ricostruire la turbolenta story nei rapporti tra ‘O Ministro e ‘O Pm.
Il primo finisce nel mirino del secondo proprio in occasione di Mani Pulite e della maxi tangente Enimont. Pomicino parlerà sempre di persecuzione giudiziaria, l’ennesima inchiesta – anche se la più importante – a suo carico. E rammenterà come un gingle per tutti gli anni seguenti: “33 processi e 32 assoluzioni”, da ottimo medico. Unica condanna, quella griffata Enimont: ma solo per finanziamento ai partiti, nessuna corruzione o altro, come rinfaccia oggi al suo pm di allora.
Quello stesso pm senza macchia e senza paura il quale aveva nello stesso periodo, tra gli inquisiti eccellenti, il numero uno, l’Uomo a un passo da Dio, Francesco Pacini Battaglia, detto Chicchi, il banchiere italo elvetico che ha messo il naso in tutti i maxi appalti del nostro Paese, a cominciare dall’Alta Velocità, allora appena agli esordi.
Il solito inflessibile pm – che oggi ricorda commosso il tragico “suicidio” di Raul Gardini – allora usò un del tutto inconsueto guanto di velluto nei confronti di Pacini Battaglia. Una vicenda mai chiarita, “sbiancamento” o “sbancamento” compresi. Tutta la story è stata ricostruita, esattamente venti anni fa, nel j’accuse firmato da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, “Corruzione ad Alta Velocità”, dove Di Pietro viene tirato pesantemente in ballo.
A questo punto assumono i connotati di un vero e proprio “avvertimento” le parole pronunciate da Pomicino come replica a Di Pietro: “Il signor Di Pietro – precisa tagliente – dovrebbe spiegarci che fine hanno fatto le centinaia di miliardi di vecchie lire dei fondi neri dell’Eni, quando la politica ha ricevuto 15-20 miliardi in tutto come finanziamento ai partiti. Ecco, Di Pietro dovrebbe dire che fine hanno fatto quei fondi, lui che ha indagato…”.
O meglio, lui che “non ha indagato” su Pacini Battaglia, come invece avrebbe dovuto e potuto fare. Così come sullo strategico filone milanese dell’Alta Velocità, affossato senza pensarci su.
Un chiaro “messaggio” quello di ‘O Ministro a ‘O Pm.
ERAVAMO TANTO AMICI
Peccato. Perché la storia, dopo la brevissima stagione di Mani Pulite, volge al sereno e tra i due comincia a correre buon sangue. Ottimo.
Soprattutto quando ‘O Pm getta la toga sul banco e si tuffa in politica, fondando la sua Italia dei Valori.
Ma per la prima tornata elettorale d’esordio non è affatto facile. Sa di non potercela fare perfino nel suo Molise. Ed ecco l’ideona: chiedere aiuto all’ormai amico Pomicino. Il quale non fa altro che alzare il telefono e chiamare un altro amico, il molisano Aldo Patriciello, re del movimento terra, degli appalti edili e appena entrato nel grande mondo della sanità e delle cliniche.
E’ così che Patriciello – il quale poi a sua volta diventerà europarlamentare berlusconiano a vele spiegate – si trasforma nel Grande Elettore per il nuovo amico Tonino. Una mano lava l’altra, e così magicamente anche le rogne giudiziarie da novanta che affliggono Patriciello cambiano pelle in assoluzioni o archiviazioni.
E quando Pomicino sarà per l’ennesima volta alle prese col suo cuore matto e un altro by pass, al suo capezzale chi chiama mai? Ma l’amico del “cuore”, don Tonino. Le cronache racconteranno poi che l’ex pm e il suo ex inquisito dialogheranno fitto fitto per una decina di minuti: quasi un “testamento” da affidare in mani sicure.
E oggi ‘O Ministro ha appena spento la sua ottantesima candelina.
LA VERA PISTA “MAFIA-APPALTI”
Ma torniamo al filone “Mafia Appalti” come vero movente per le stragi di Capaci e via D’Amelio.
Racconta Di Pietro davanti alle toghe palermitane al processo per la Trattativa. “Nel 1992, da febbraio a maggio e fino all’omicidio di Falcone, l’inchiesta Mani pulite si allargò e assunse una rilevanza nazionale. Io mi confrontai con Falcone che mi disse che le rogatorie erano l’unico strumento per individuare le provviste e mi accennò che da lì si arrivava anche in Sicilia. Ecco perché bisognava controllare gli appalti anche in Sicilia”.
E ancora: “Davanti alla bara di Falcone, Paolo Borsellino mi disse: dobbiamo fare presto, dobbiamo vederci o sentirci nei prossimi giorni. Dobbiamo trovare il sistema. Capii allora che Borsellino si stava occupando di questo. Cosa di cui ebbi conferma dopo tempo, quando su imput del Ros andai a sentire Giuseppe Li Pera, geometra della De Eccher che mi spiegò il sistema degli appalti in Sicilia e mi fece i nomi di Siino e Salamone”.
Vediamo di decodificare qualcosa. Angelo Siino era il “ministro dei Lavori pubblici” di Cosa nostra, che ha in non poche verbalizzazioni ricostruito i rapporti tra mondo politico, imprenditoriale e mafia nella gestione degli appalti in Sicilia. E non solo, parlando anche di Alta Velocità e grosse commesse a livello nazionale.
Filippo Salamone era all’epoca un imprenditore siciliano in rapporti border line con imprese in forte odore mafioso. E fratello del giudice Fabio, per anni a Brescia, il quale si è occupato del “caso Di Pietro” quando il pm del pool venne indagato per i rapporti più che chiacchierati con i legali dei suoi imputati (come nel caso, già citato, di Chicchi Pacini Battaglia). Poi assolto con un’assoluzione “pesante”, Di Pietro: comportamenti penalmente “non rilevanti”, ma fortemente censurabili sotto il profilo deontologico, professionale, morale.
PERCHE’ ‘O PM NON USO’ QUELLA FONTE?
Mentre il geometra Li Pera è stata la vera fonte del Ros dei carabinieri per la preparazione del famoso dossier “Mafia Appalti”, finito sulla scrivania di Falcone (e Borsellino) a febbraio ’92, il vero detonatore per il tritolo di Capaci e via D’Amelio.
Li Pera, infatti, ha ricostruito per filo e per segno tutto il Sistema degli Appalti, soprattutto in Sicilia, of course, ma anche in tutta Italia. Era il responsabile tecnico di una delle imprese più importanti impegnate negli appalti siciliani, la friulana Rizzani de Eccher, finita appunta nel mirino degli investigatori del Ros. Tra le altre imprese, per fare un solo esempio, la napoletana Fondedile-Icla, nelle grazie di ‘O Ministro Pomicino.
Lo stesso Li Pera aveva più volte chiesto agli allora pm palermitani di essere ascoltato, proprio sul filone Mafia-Appalti. Ma senza grossi risultati.
Gli unici a sentirlo Di Pietro e Felice Lima, all’epoca pm a Catania. Quest’ultimo lo fece verbalizzare più volte. Ma senza “apparenti” grandi esiti. Lo stesso pm è stato poi spostato da quella sede, forse troppo bollente. O perché – come si suol dire – “ambientalmente incompatibile”.
Ma Di Pietro cosa fece? Come mai non proseguì lungo quel filone che, lungo l’asse Milano-Palermo – come del resto insegnavano Falcone e Borsellino – avrebbe certo corroborato la pista Mafia-Appalti, il vero movente delle stragi?
Perché insabbiò tutto, così come fece con l’Uomo a un passo da Dio, Chicchi Pacini Battaglia?
TAV & MAFIE. DALL’INCHIESTA DI FALCONE E BORSELLINO AI VERBALI DI ANGELO SIINO. Andrea Cinquegrani su la Voce delle Voci l'8 Marzo 2019.
Come mai nella list “costi benefici” a proposito del TAV nessuno ha preso in considerazione il rischio mafie? Perché nessuno se ne fotte, mentre ormai tutti danno i “numeri” come neanche nella lotteria più pazza del mondo?
Perché lo sceriffo Matteo Salvini, da primo inquilino del Viminale, dimentica questo fattore strategico? Forse perché pensa di aver sconfitto in meno di un anno le piovre malavitose, come spesso sbrodola nei suoi interventi, con la casacca delle fiamme gialle oppure dei vigili del fuoco?
Come mai tutti gli altri partiti di opposizione, dal neo segretario PD Nicola Zingaretti che del Tav ha fatto una battaglia di vita, ai satelliti di centro destra berlusconiani e meloniani, se ne fregano ampiamente? Vivono tutti su Marte?
Anche i media di palazzo, da Repubblica al Corsera, inneggiano al TAV, altrimenti si tradisce l’Europa e l’occupazione cola a picco, come non fosse affondata da un pezzo.
Ecco cosa scrive per il Corriere della Sera Marco Imarisio nell’editoriale dell’8 marzo titolato “Un gioco pericoloso”. Riferendosi alle “eventuali infiltrazioni mafiose”, osserva: “Uno degli argomenti cari a chi si oppone al treno veloce”, come per fare un altro esempio l’amianto. “Prima – prosegue – quelle idee rimanevano confinate in ambito locale, erano strumento di propaganda No Tav, che venivano smontate dagli organi ufficiali, il ministero o altri enti di controllo. Oggi, senza alcuna mediazione, arrivano dritte sul tavolo del presidente del Consiglio”.
I PRIMI CONTROLLI TAROCCATI
Forse Imarisio non può ricordare perché aveva all’epoca i calzoncini corti. A quali “organi ufficiali”, ministeriali o enti di controllo si riferisce mai? Non sa, ad esempio, che i primi controlli per il TAV di inizio anni ’90 non solo praticamente non esistevano (quelli veri), ma quando esistevano erano in mano a faccendieri interessati solo alla realizzazione delle opere per l’Alta Velocità?
La Voce ne scrisse in un’inchiesta del 1993, quando scoprimmo che nell’orbita di una sigla, Italferr Sis Tav, adibita proprio ai controlli, gravitavano sigle (coma Orox finanziaria) e personaggi del calibro di un Francesco Pacini Battaglia, il banchiere-finanziere italo svizzero, l’Uomo a un passo da Dio come lo definiva Antonio Di Pietro, ossia l’uomo che conosceva tutti i segreti non solo della madre di tutte le tangenti, Enimont, ma soprattutto dell’Alta Velocità. Altri personaggi di contorno, il mattonaro partenopeo della “sinistra ferroviaria” griffata Psi Eugenio Buontempo, e tale Bruno Cimino, un manager dell’Agip Petroli ottimo amico di Pacini Battaglia.
Per approfondire tutte le connection mafiose ruotate intorno alle battute iniziali del TAV e la montagna di corruttele – per non parlare di chiacchiere al vento come oggi tutta la disastrata e ignorante classa politica sta facendo – c’è solo da leggere il volume scritto esattamente 20 anni fa da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, “Corruzione ad Alta Velocità”, di cui la Voce ha più volte scritto.
Farebbero bene tutti gli italiani a leggerlo, perché viene spiegata per filo e per segno la mostruosità di un progetto del genere, capace solo di inghiottire miliardi a palate, di alimentare in modo esponenziale le mafie, di foraggiare pletore di consulenti & amici da beneficiare, di scempiare l’ambiente. Un poker da brividi. E perché nessuno, oggi, anche a livello mediatico, è capace di sollevare anche uno solo di quei temi?
Va sottolineato che tutte le prime inchieste sull’Alta velocità sono state regolarmente affossate: sia a Roma che a Milano (unica a procedere vanamente La Spezia, mentre Firenze segue il filone del nodo Tav gigliato). Nel porto delle nebbie fu Giorgio Castellucci a muovere i primi passi, ma poi passò tutto il fascicolo al collega Di Pietro: il quale riuscì in un vero miracolo degno di San Gennaro, cioè insabbiare sia le indagini meneghine che quelle romane, come Imposimato e Provvisionato documentano “per tabulas”. Un vero prodigio!
Eccoci alla domanda delle cento pistole, come diceva Fabio Fazio ai suoi esordi televisivi.
L’INCHIESTA FATALE PER FALCONE E BORSELLINO
Ma lo sa sceriffo Salvini e lo sanno i vari Zingaretti & piddini al seguito, che la prima inchiesta sul TAV venne avviata da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? Come mai nessuno – tantomeno quei media di regime – vuol far conoscere agli italiani quella drammatica verità che è costata la vita ai due magistrati coraggio? Perché mai la nascondono nel modo più complice e omertoso?
Il progetto del TAV, infatti, era al centro di quel dossier “Mafia-Appalti” arrivato sulla scrivania di Falcone e Borsellino a febbraio del 1991. Un dossier molto corposo, super dettagliato, contenente nomi cognomi indirizzi numeri di telefono e quant’altro su una sfilza di imprese nazionali e locali in combutta con le mafie (siciliana e campana in primis).
Un rapporto che raccontava la prima maxi infiltrazione nella Calcestruzzi siciliana, controllata dal gruppo Ferruzzi e che fece esclamare a Falcone “la mafia è entrata in Borsa”. Come mai a Gardini è stato consentito un facile suicidio? Forse perché stava per rivelare anche le connection di altre star del mattone?
Nel dossier “Mafia-Appalti”, compaiono i nomi di Saiseb, Rizzani de Eccher, Icla. La regina del dopo terremoto in Campania e su tutto il fronte dei lavori pubblici fine ’80 – primi ’90, l’Icla tanto cara a ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino. Il cui uomo ombra, il faccendiere Vincenzo Maria Greco, fu tra i progettisti d’oro delle prime opere TAV.
Rammentiamo ancora che di TAV ha verbalizzato a lungo, proprio in quegli anni, Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina. Fece riferimento, Siino, proprio a quelle imprese e dichiarò che l’Alta velocità era il piatto più ghiotto, allora, per i mafiosi. E fece anche i nomi di alcuni politici coinvolti.
Cosa pensate sia saltato fuori da quell’inchiesta? Un bel niente. Sì, perché avviata a Napoli partendo da una famiglia di massoni, gli Spinello, Salvatore e Nicola, già conteneva una serie di elementi bomba, proprio sul fronte dei lavori pubblici, in grado di corroborare non poco le piste investigative scaturite dal dossier “Mafia-Appalti”. Quell’inchiesta, però, si perse per strada, perché venne trasferita da Napoli a Roma, azzerandosi of course nel porto delle nebbie capitolino.
Tutte le inchieste sulla TAV – emerge con disarmante chiarezza – “Dovevano Morire”, perché nessuno avrebbe mai dovuto e potuto disturbare i manovratori: e soprattutto anche solo sfiorare quel “patto” siglato tra mafia, imprese e politica che aveva puntato dritto ai miliardi di lire, e poi ai milioni di euro, rappresentati dal TAV, ossia il più grande pozzo dei desideri, un fiume senza fine di danari pubblici.
Va rammentano, infatti, che lo start, nel 1990, fu da 27 mila miliardi di lire. Un project financing che andava allora tanto di moda, attraverso il quale – si disse – c’è un iniziale propellente pubblico, poi arriveranno montagne di soldi privati: motivo per cui sarà un vero regalo che i costruttori faranno all’Italia. Proprio come l’asino che vola.
UN INFINITO FIUME DI DANARI PUBBLICI
Bene. Da quella cifra iniziale, solo 8 anni dopo, si è passati a 150 mila miliardi di lire, come viene dettagliato passo dopo passo da Imposimato e Provvisionato. Potete facilmente immaginare cosa sia successo nei 20 anni seguenti. Caterve di fondi nazionali ed europei, a tutt’oggi praticamente incalcolabili: perché non mettere in piedi, invece di tante cazzate come la “costi-benefici”, una micro commissione che districandosi nella giungla di cifre faccia conoscere a tutti gli italiani quanto hanno speso (gli italiani) per quel maledetto TAV che serve solo ad ingrassare mafie & colletti bianchi?
Quanto a cifre, comunque, stanno letteralmente dando i numeri. Non solo sul fronte delle spese future, delle sanzioni europee, di tutto e di più. Ma perfino sulle ricostruzioni temporali. I numeri, sanno anche i bambini, non sono un’opinione: ma per lorsignori sì, capaci di rivoltare le verità e le realtà come perfetti saltimbanchi tra pizzette e roccocò.
Qualche fresco esempio.
Il premier Giuseppe Conte fa riferimento a “dieci anni fa”, con ogni probabilità riferendosi ai primi cantieri in Val di Susa. Sbaglia per difetto, visto che risalgono almeno al 2002-2003. Era da poco nato il movimento No global, infatti, e risalgono a quell’epoca i primi incontri tra No global e No Tav a Venaus, per fare un solo esempio.
Anche la memoria di sceriffo Salvini fa cilecca. Parla di “venti anni fa”: non si capisce, a questo punto, a cosa si riferisca: se al Tav in Val di Susa o al Tav “italiano”, per intendersi quello di cui abbiamo scritto in questo articolo, quel Tav su cui avevano per primi puntato i riflettori Falcone e Borsellino. Nel primo caso la cifra è esagerata, nel secondo caso clamorosamente sbagliata perché i primi vagiti sono di 30 anni fa esatti.
Per finire, anche sulla grammatica c’è lite, ma soprattutto, ancora una volta, una suprema ignoranza. Si continua con i due partiti del TAV e della TAV. Senza rendersi conto – media in pole position – che TAV significa Treno ad Alta Velocità, ovviamente al “maschile”. Mentre al “femminile” si può parlare solo di AV, vale a dire Alta velocità. Tanto per celebrare l’8 marzo.
P.S. Qualcuno potrebbe obiettare: mafia e camorra forse c’erano all’inizio, adesso non c’entrano più. E poi magistratura e Anac controllano.
Teniamo presente che oggi in Piemonte e anche in Val d’Aosta le mafie sono più presenti che mai, con una ‘ndrangheta che negli ultimi vent’anni fa fatto passi da gigante. Dai casinò ai subappalti, dalle infrastrutture al variegato mondo dei riciclaggi, tutto ottimo e abbondante per ingrassare. E l’Alta velocità è il piatto più ghiotto.
‘O PM. COME ANTONIO DI PIETRO HA INSABBIATO LE INCHIESTE SULL’ALTA VELOCITA’. Andrea Cinquegrani su la Voce delle Voci il 21 Gennaio 2020.
Non solo la maxi intervista genuflessa dell’Espresso. C’è un Di Pietro bis a stretto giro, un secondo endorsement da novanta: quello che gli dedica il Fatto quotidiano dell’amico di sempre, Marco Travaglio. Altro inchino in piena regola.
Riprendiamo il filo del ragionamento dell’ultima puntata dedicata a don Tonino Di Pietro e alla Mani pulite story.
Ci eravamo lasciati con le parole di pietra scritte da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, esattamente 20 anni fa, nel j’accuse contro Antonio Di Pietro, “Corruzione ad Alta Velocità”. Tra le cento altre cose, anche la responsabilità storica – per ‘O Pm e per il pool di Milano – di aver provocato la morte per suicidio di Gabriele Cagliari e Raul Gardini.
Nel corso della super intervista da 7 pagine rilasciata all’inviata speciale dell’Espresso a Montenero di Bisaccia, Susana Turco, il fondatore/affondatore di Italia dei Valori si sofferma sul giallo della morte di Gardini.
GARDINI, UN ERRORE
Un edificio Enimont. In apertura Antonio Di Pietro e, a destra, Pierfrancesco Pacini Battaglia. Sullo sfondo i lavori per l’Alta Velocità
Ecco le sue parole: “Tutti dicono che ho fatto Mani pulite per mettere sotto processo la prima Repubblica. Io invece ho processato una persona sola: Cusani. Gli altri erano indagati per reato connesso. Il vero casino nasce quando io faccio il grande errore di non fidarmi di Gardini. Perché io capisco – lo capivo perché già lo sapevo – che dovevo arrivare a Gardini: con lui avrei chiuso il cerchio”.
Invece, nessun cerchio mai chiuso e un “errore” che costa una vita. Bazzecole, per il pm senza macchia e senza paura. E, oggi, senza vergona.
Prosegue ‘O pm davanti al taccuino Turco: “L’interfaccia tra me e Gardini è un ex procuratore aggiunto di Milano, che era diventato suo co-difensore. Concordiamo tutto. Cosa Gardini dirà, e il fatto che se ne andrà con le sue gambe, cioè non sarà arrestato. L’accordo è che lui viene alle otto di mattina. Abbiamo la certezza che è all’estero, in Svizzera, quindi per venire da me deve andare a dormire da qualche parte. Per cui faccio mettere carabinieri, finanza, polizia a Milano, Roma, Ravenna. Non faccio capire nulla a nessuno. Quello per venire da me deve necessariamente rientrare in Italia: e da allora non mi deve scappare più. Perché anche io lottavo contro il tempo, c’era anche l’ipotesi di farmi fuori, non dimentichiamo. Comunque, a mezzanotte mi chiamano i carabinieri e mi dicono: è arrivato a piazza Belgioioso, lo prendiamo? E io: no, mantengo la parola sennò non mi parla più. Poi mi chiedono, e io do, l’ordine formale di non arrestarlo. Se l’avessi arrestato ora sarebbe ancora vivo. Ora non so più quello che avrebbe messo per iscritto davanti a me. Alle otto mi telefona l’avvocato di Gardini, dice ‘stiamo arrivando’. Lui era già vestito. Da quanto riferisce il maggiordomo, si affaccia e vede i carabinieri. E pensa che io l’ho tradito. A quel punto: bum, è un attimo. Si è ammazzato perché era convinto che lo stavo arrestando”.
Un errore? Bum! Ma che cavolo di racconto è mai? E con quale tono oltraggioso per ogni vita umana?
C’è da rabbrividire. Quello stesso brivido che ha percorso Ferdinando Imposimato quanto scorreva la lista delle vittime del “rito ambrosiano” officiato e brevettato da ‘O Pm.
Torniamo, a questo punto, al formidabile j’accuse di Imposimato e Provvisionato, scritto 20 e passa anni fa e oggi più che mai “ottimo e abbondante” per costituire un vero e proprio capo d’accusa contro Di Pietro.
ALTA VELOCITA’, COME TI INSABBIO
Passiamo ai raggi x il secondo maxi bubbone al centro dell’inchiesta dei due autori: oltre al giallo della Madre di tutte le Tangenti, ENIMONT, l’affaire dell’Alta Velocità, TAV per gli aficionados: sotti i riflettori, in particolare, ci sono le vicende giudiziarie.
Così scrivono: “La vicenda dell’Alta velocità ferroviaria, l’affare TAV, è un vero guazzabuglio. Non è solo un affare da migliaia di miliardi lucrati da loschi figuri, secondo i calcoli di alcuni esperti addirittura 140 mila miliardi”.
E figurarsi a quanto potrà mai ammontare oggi, dopo vent’anni, quel bottino! Incalcolabile.
E poi: “E’ un intreccio di nomi, fatti, cifre, episodi che si avviluppano in maniera quasi inestricabile. Ma com’era veramente cominciata l’inchiesta sull’Alta velocità ferroviaria?”.
Ecco la minuziosa ricostruzione. “Tutto comincia nella prima metà del 1993, quando l’ex ministro socialdemocratico Luigi Preti presenta un esposto alla Procura di Roma nel quale vengono censurate le procedure seguite per la costituzione della società TAV spa, amministrata da Ercole Incalza. La denuncia viene affidata al sostituto procuratore Giorgio Castellucci. Ma ecco che accade subito qualcosa di inusuale. Nel corso di un vertice per chiarire alcune sovrapposizioni, vertice che si svolge nel palazzo di giustizia della capitale e al quale partecipano diversi sostituti procuratori di Roma e di Milano, viene deciso lo sdoppiamento dell’appena nata inchiesta sull’Alta velocità. Al vertice partecipano tra gli altri anche Castellucci e Antonio Di Pietro”.
Ecco dunque affacciarsi la sagoma di ‘O Pm sulla scena dell’affaire TAV. Continua la ricostruzione storica: “E’ stato lo stesso Castellucci, nell’ottobre del 1996, a spiegare come andarono le cose. Il magistrato romano – è bene evidenziarlo – nel 1993 aveva appena aperto il fascicolo sull’Alta velocità, ma Di Pietro – racconta Castellucci – gli confidò che su quell’argomento aveva cominciato a parlare l’imprenditore Vincenzo Lodigiani, secondo il quale intorno al progetto TAV c’era una vera e propria ‘programmazione tangentizia’. Fu così che a Roma rimase l’inchiesta sulla correttezza nelle procedure con cui era stata costituita TAV spa di Incalza, mentre quella sugli appalti per l’Alta velocità ferroviaria finì a Milano nelle mani di Di Pietro”.
Come dire: io (Di Pietro) mi becco la tranche fondamentale, la ‘ciccia’, voi beccatevi le bucce.
Ottimo e abbondante programma!
LO SCIPPO ROMANO
Ancora. “Già nel 1993, quindi, c’è chi indaga sull’Alta velocità. Per la verità esistono ben due inchieste: una milanese e l’altra romana. Ma fino al 1996, quando interverranno gli ordini d’arresto di La Spezia, non succede nulla. Come mai?”.
Ecco la spiegazione del mistero. “La tranche d’inchiesta presa in carico da Di Pietro a tutt’oggi non si sa che fine abbia fatto. Di Pietro se ne spoglia quando nel dicembre abbandona la toga (per la ‘sceneggiata’ che abbiamo dettagliato nelle puntate precedenti, ndr). Nell’inchiesta romana, invece, Castellucci prima gioca sui tempi lunghi. Il 28 dicembre 1993 chiede una proroga, che il gip Augusta Iannini (la moglie di Bruno Vespa, ndr), esattamente un mese dopo, gli concede disponendo che però lo stesso Castellucci iscriva sul registro delle notizie di reato i rappresentanti legali delle società Italferr e Tav, cioè Ercole Incalza ed Enrico Maraini. Ma Castellucci continua a mantenere il procedimento a carico di ignoti”.
La vicenda va avanti tra i continui tentativi di Castellucci d’insabbiare tutto, nel porto delle solite nebbie romane.
Ma a questo punto “sono delle intercettazioni ad inguaiare Castellucci, accusato di aver preso denaro per far archiviare a Roma l’inchiesta sull’Alta velocità”.
Così, “sospeso Castellucci dal suo incarico, la tranche dell’inchiesta ancora nelle mani dei magistrati romani passa ad un altro pm, Giuseppe Geremia, che per prima cosa vuol vederci chiaro in quella strana spartizione di atti giudiziari avvenuta nel 1993 tra Castellucci e Di Pietro. Alla Geremia non era scappato un particolare: non era la prima volta che Di Pietro si appropriava di un’inchiesta nata a Roma. Era già accaduto. Era successo con l’inchiesta sui soldi spariti della cooperazione, di cui era titolare il sostituto procuratore di Roma Vittorio Paraggio”.
COOPERAZIONE & MILIARDI
La narrazione di Imposimato e Provvisionato prosegue come in un thriller mozzafiato, dettagliando i profili di un’altra maxi indagine, quella sulla quale stava lavorando anche Ilaria Alpi, alle prese con i maxi fondi pubblici gestiti soprattutto in Africa. Un’inchiesta nella quale è coinvolto il faccendiere Francesco Pacini Battaglia, l’Uomo a un passo da Dio inquisito per “finta” da Di Pietro – come abbiamo visto nelle puntate precedenti – sulla maxi tangente Enimont.
Dettagliano i due autori: “L’11 giugno 1993 Paraggio aveva ricevuto un fax da Di Pietro – ma l’ex pubblico ministero ha negato questa circostanza – nel quale lo invitava a trasmettergli gli atti relativi alla posizione di Pierfrancesco Pacini Battaglia, che Paraggio aveva iscritto nel registro degli indagati assieme, tra gli altri, all’allora segretario del Psi Bettino Craxi, all’ex ministro degli Esteri, anche lui socialista, Gianni De Michelis e al finanziere Ferdinando Mach di Palmenstein. Nell’abitazione parigina di quest’ultimo, intestata all’attrice Domiziana Giordano, erano stati trovati documenti, alcuni dei quali si riferivano proprio ad Antonio Di Pietro”.
Eccoci al cuore dell’intreccio affaristico. “Paraggio aveva indagato Pacini Battaglia a proposito di un progetto di cooperazione che si sarebbe dovuto realizzare in Africa e di cui si occupava l’imprenditore Paolo Ciaccia, titolare di CTIP. Ma nel fax – stando alla versione di Paraggio – Di Pietro insisteva per avere le carte relative al banchiere italo svizzero (Pacini Battaglia, ndr). Il motivo: Pacini Battaglia, indagato anche a Milano nell’ambito del processo Enimont, sta collaborando. Era quindi opportuno evitare qualsiasi forma di sovrapposizione. A quel punto Paraggio aveva deciso di stralciare la posizione del finanziere e l’8 luglio 1993 l’aveva inviata per competenza alla Procura di Milano”.
Proseguono Imposimato e Provvisionato. “Basterebbe questa nuova invasione di campo di Di Pietro per far drizzare le orecchie a chiunque. Prima la faccenda dell’Alta velocità in cui Pacini Battaglia ha avuto un ruolo determinante, poi quella della cooperazione dove il pubblico ministero punta la sua attenzione proprio su di lui, sul tanto discusso banchiere. Se una coincidenza è una coincidenza, due diventano un indizio. Almeno così ragionava Di Pietro quando faceva il magistrato”.
Non è certo finita qui, perché le anomalie in questa incredibile story che meriterebbe oggi una rilettura non più storica, ma giudiziaria, sono una caterva.
Sottolineano infatti gli autori: “Ma c’è di più, molto di più. Che Roma stesse indagando su Pacini Battaglia fin dal 1993 lo scoprono i sostituti di La Spezia Alberto Cardino e Silvio Franz. Sono loro a chiedersi che fine avrà fatto quell’inchiesta. Prendono quindi contatto con la Procura di Roma, scoprendo che quegli atti sono stati inviati da Paraggio a Milano. Cercano allora i colleghi di Milano. Di Pietro non è più ormai da tempo magistrato, è vero, ma quelle carte su Pacini dove sono mai finite? I magistrati di Milano cadono dalle nuvole. Qui da noi sul faccendiere e sui suoi affari con la cooperazione non c’è proprio nulla”.
ATTI SPARITI. VOLATILIZZATI
Incredibile ma vero, “si scopre così che quegli atti, quelle carte, sono scomparsi. Spariti. Volatilizzati. In altre parole non si trovano più. Risultato: certamente il più gradito a Pacini Battaglia. Per tre anni nessuno ha indagato su di lui. I magistrati di Roma perché avevano stralciato la sua posizione, inviandola a Milano. Quelli del capoluogo lombardo perché Pacini Battaglia era indagato nell’inchiesta sulla cooperazione e dell’inchiesta sulla cooperazione si occupava Roma”.
Ancora delle belle (e delle balle). “Ci sono altri atti che sono spariti. A Roma non si trovano più alcuni documenti sequestrati a Mach di Palmenstein. Già, proprio così, alcuni documenti facenti parte del dossier in cui si parla ancora di lui: Antonio Di Pietro”.
Poi. “Intanto, sempre a causa di alcune intercettazioni, nei guai sono finiti anche due ufficiali di polizia giudiziaria: il maggiore dei carabinieri Francesco D’Agostino, braccio destro di Paraggio ma vicino anche a Di Pietro ai tempi in cui quest’ultimo conduceva l’inchiesta ‘Mani pulite’; e il capitano della Guardia di finanza Mauro Floriani, marito della deputata di Alleanza Nazionale Alessandra Mussolini, già collaboratore a Milano dello stesso Di Pietro. Entrambi – stando alla magistratura di La Spezia – sono in strettissimo contatto con Pacini Battaglia e il secondo anche con Lorenzo Necci. Forse sarà solo un caso, ma una volta dimessosi dalle fiamme gialle, Floriani è stato assunto dalle FS dello stesso Necci”.
Ma Di Pietro per ‘miracolo’ se la cava, come abbiamo visto nella precedente puntata. Infatti “i sospetti su Di Pietro finiranno a Brescia. Archiviazione anche per lui. A scoprire l’arcano sono i pm di Perugia che scrivono: ‘Gli atti relativi a Pacini (in tema di cooperazione) sono stati effettivamente trasmessi a Milano’ dopo che, su istanza di Lucibello, il pm Di Pietro chiese al collega Paraggio di non svolgere indagini su Pacini in quanto stava offrendo rilevante collaborazione nelle indagini svolte dalla procura di Milano”.
L’AMICO DI GRANDI MERENDE
Si tratta di Giuseppe Lucibello, Peppino, il grande amico di Di Pietro e arrivato all’ombra della Madunina con una valigia legata di spago dai fori del Sud, introdotto da don Tonino negli ambienti della Milano da bere.
E tanto da patrocinare come legale – incredibile ma vero – nientemeno che l’Uomo a un passo da Dio, Pacini Battaglia!
Rieccoci ad un altro passaggio clou di “Corruzione ad Alta Velocità”. “Riprendiamo il filo della nostra storia. Come abbiamo visto c’è qualcuno che quei fatti su Di Pietro vorrebbe verificarli e approfondirli. Per questo il 7 aprile 1997 il pm di Roma Giuseppa Geremia lo convoca a Roma. Di Pietro, dopo aver misteriosamente lasciato la magistratura alla fine del 1994, era ormai un personaggio lanciatissimo in politica. L’ex pm però non ci pensa due volte e, ignorando la convocazione, fa la cosa più semplice: non si presenta. Quale indagato di reato connesso, si avvale della facoltà di non rispondere. E perché mai, se non aveva nulla da nascondere?”.
Con amarezza Imposimato e Provvisionato concludono: “Nessuno, quindi, finora è ancora riuscito a fare chiarezza sulla strana sovrapposizione tra Roma e Milano, tra Castellucci e Di Pietro, tra Paraggio e Di Pietro. E quegli atti giudiziari su Pacini Battaglia sono stati fatti sparire a Milano oppure – come dice Di Pietro – la procura della capitale non li ha mai mandati a quella del capoluogo lombardo? Mistero”.
Uno dei tanti, troppi misteri.
Una delle cento e passa anomalie.
Ma non è arrivato il momento di scrivere – una volta per tutte – la vera storia di Mani pulite, al di là delle cialtronerie che ‘O Pm racconta ieri all’Espresso, oggi al Fatto e domani chissà a chi?
APPALTI FERROVIARI. UNA VERA CUCCAGNA PER I CASALESI. DA SEMPRE.
Andrea Cinquegrani su la Voce delle Voci il 4 Aprile 2019.
Ferrovie, che passione. Una vera cuccagna per il clan dei Casalesi gli appalti messi in campo da RFI, il braccio operativo delle ferrovie di casa nostra, stando ad una clamorosa inchiesta che sta portando avanti la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli.
Secondo i primi riscontri alcuni boss sono in grado di condizionare scelte e perfino promozioni all’interno di RFI. Figurarsi, quindi, cosa succede sul fronte delle commesse, più facili che mai.
Peccato solo che le mani della camorra, ed in particolare del potente clan dei Casalesi, sul business di rotaie & traversine d’oro siano ben note a magistrati e inquirenti da oltre un quarto di secolo. Almeno da quando iniziarono i j’accuse al calor bianco lanciati da Ferdinando Imposimato, nel periodo in cui faceva parte della Commissione Antimafia.
Cosa hanno fatto in questi vent’anni e passa? Come mai toghe e forze dell’ordine non sono riusciti a stoppare e neanche a sfiorare quella escalation criminale? Misteri di casa nostra.
Ma partiamo dalle news.
NEI PIANI ALTI DI RETE FERROVIARIA ITALIANA
L’odierna inchiesta della DDA di Napoli – pm Antonello Ardituro e Graziella Arlomede – parte dalle verbalizzazioni di un pentito da non poco, Nicola Schiavone, il figlio del celebre Sandokan, cioè Francesco Schiavone, l’incontrastato re, per anni, del clan dei Casalesi.
Ma il protagonista degli ultimi affari con RFI è un altro Nicola Schiavone, che proprio quarant’anni fa tenne a battesimo il suo omonimo.
Sia Sandokan che zio Nicola sono finiti nelle maglie del maxi processo Spartacus, durato per anni. E dal quale, miracolosamente, Nicola è uscito indenne.
Da allora in poi ha cominciato a far l’imprenditore e a coltivare una vecchia passione di famiglia: i lavori ferroviari, fra rotaie e traversine d’oro. E ha pensato bene di fare armi e bagagli trasferendo il suo quartier generale dalla natia Casal di Principe a Napoli, dove certo meglio potevano mimetizzarsi le imprese di uno “Schiavone”.
Di carriera ne ha fatta e parecchia, come documentano oggi i pm della DDA partenopea. Aprendo sedi nelle zone più prestigiose di Napoli, come il salotto chic di piazza dei Martini o via Scarlatti nel cuore del Vomero. E con la sua decina di società al seguito è riuscito a far man bassa di lavori, appalti e subappalti in mezza Italia.
Potendo contare sulle giuste amicizie da novanta. Fino al punto da ottenere commesse in cambio non solo dei soliti favori, ma addirittura di promozioni per quei funzionari compiacenti. Quando si dice, aver le chiavi d’accesso per i palazzi più alti del potere economico.
Sotto inchiesta, tra gli altri, tre dirigenti di RFI: Massimo Iorani, ex responsabile della Direzione Acquisti, Paolo Grassi, responsabile del settore Appalti, Giuseppe Russo, responsabile del Dipartimento trasporti ferroviari a Napoli. Calibri non da poco.
Cerca di mettere una pezza a colori RFI, che in un comunicato fa sapere: “Rete Ferroviaria Italiana garantisce la piena collaborazione per lo svolgimento dei necessari accertamenti da parte degli inquirenti e conferma la propria fiducia nell’autorità giudiziaria. In base agli sviluppi delle indagini, Rfi valuterà le eventuali azioni a propria tutela”. Scontato.
DALLE LENZUOLA D’ORO AI FIUMI MILIARDARI DEL TAV
Ma passiamo in rapida carrellata alcune tra le tappe bollenti delle ferrovie di casa nostra.
E’ di fine anni ’80 la famigerata storia delle “lenzuola d’oro”. Un appalto messo in campo dalle Ferrovie dello Stato allora capeggiate dal calabrese Ludovico Ligato. Una vera messincena, una commessa allora miliardaria per strapagare quelle lenzuoline alle società che facevano capo all’avellinese Elio Graziano, per alcuni anni patròn dell’Avellino Calcio, con la sua società di riferimento Idaff.
Partì l’inchiesta che accertò l’affaire, ovviamente revocato l’appalto: era il primo, chiaro segnale dei percorsi pericolosi che le ferrovie di casa nostra stavano intraprendendo.
Graziano e le sue società vennero poi coinvolti in un altro scandalo, i cui cascami giudiziari sono ancora in vita al tribunale di Avellino: la pericolosissima – per la salute dei lavoratori – scoibentazione delle carrozze ferroviare, l’amianto killer che ha ucciso decine e decine di operai.
Nel bel mezzo delle bufere giudiziarie, Ludovico Ligato venne ammazzato. Un giallo, mai chiarito. Con ogni probabilità manovalanza di ‘ndrangheta per un delitto eccellente.
Passiamo subito al TAV, il più grande & business mai messo in campo dalla politica, con il fondamentale corredo di mafie e faccendieri al seguito.
Di TAV abbiamo scritto e denunciato tante volte. A partire dal 1993, gli iniziali j’accuse che tiravano in ballo quella classe politica a cavallo di Tangentopoli, le primissime inchieste di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sulla scorta dell’esplosivo dossier “Mafia-Appalti”.
E poi le presenze che destavano alcuni forti sospetti: a partire da quel Francesco Pacini Battaglia sul cui nome aveva cominciato ad indagare il pm della procura di Milano Antonio Di Pietro: per finta, dal momento che “l’Uomo a un passo da Dio” non ha trascorso neanche una settimana in gattabuia ed è stato poi scagionato da ogni coinvolgimento…
Poi il certosino lavoro di Ferdinando Imposimato, che da senatore del Pds firma una relazione di minoranza per la Commissione Antimafia. Mette nero su bianco i nomi delle imprese dei Casalesi e di quelle mafiose coinvolte nel grande affare della Tav.
CHI TOCCA QUEL TRENO AD ALTA VELOCITA’….
Non l’avesse mai fatto. Chi denuncia, infatti, muore. O rischia di morire. Almeno politicamente. E così successe al coraggioso Ferdinando, il pm che per primo aveva indagato sulle iniziali fortune di Silvio Berlusconi e le acrobazie della Banda della Magliana: gli uccisero il fratello Franco, sindacalista a Maddaloni della Face Standard, a metà anni ’80. Una vendetta trasversale: quel giudice non doveva indagare.
E fu così che, a metà ’90, partì a Napoli un’inchiesta farlocca sugli appalti dei Casalesi. Fra gli indagati – udite udite – proprio il giudice coraggio, Imposimato.
Incredibile ma vero. Quell’Imposimato che punta l’indice, in documenti ufficiali, contro i Casalesi, indagato per collusioni. Obiettivo: delegittimarlo, depotenziarne ogni azione politica e non solo.
Imposimato passa brutti anni, ma trova la forza di uscirne. Non solo quell’inchiesta ovviamente si arena con un nulla di fatto (non risulta che alcuna toga gli abbia mai chiesto scusa, quando Ferdinando era ancora in vita), ma riprende ad indagare e a scrivere.
E’ di 10 anni fa esatti, 1999, il libro “Corruzione ad Alta Velocità”, scritto a quattro mani con un vero giornalista coraggio, Sandro Provvisionato, il padre del sito “Misteri d’Italia”.
Un libro profetico, quello sui mega affari del TAV, capace già allora di mettere in fila tutti i tasselli del business lievitato, dagli iniziali 27 mila miliardi di lire, ad oltre 150 mila: la cifra, oggi, è praticamente incalcolabile.
Nel libro di vent’anni fa, un vero e proprio j’accuse, venivano individuate tutte le responsabilità una ad una: sia a livello politico, con un ex presidente dell’IRI e poi premier Romano Prodi prono ai voleri dei mattonari; che manageriale, con un Lorenzo Necci, capo della FS, in prima linea (e anche la sua morte in bicicletta travolto da un’auto pirata resta un super giallo); e giudiziario, con un Antonio Di Pietro pigliatutto – ha scippato anche l’inchiesta romana sul TAV – e pronto ad insabbiare.
Il 1999 è un vero anno di svolta. A maggio di quell’anno, infatti, deflagra un’inchiesta romana condotta dal pm Pietro Saviotti: scattano clamorosi ordini di cattura firmati dal gip Otello Lupacchini che riguardano politici, faccendieri, banchieri e imprenditori.
Al centro delle indagini una sfilza di appalti in mezza Italia. Alta velocità, of course in prima fila, ma anche infrastrutture di trasporto in Campania, nel Lazio, al Sud, soprattutto ferrovie ed aeroporti, ma non solo. Un super cocktail attraverso cui far affluire gigantesche liquidità a camorra e mafia in prima fila.
Nel mirino degli inquirenti, tra gli altri, esponenti di spicco di Alleanza Nazionale, alcuni imprenditori tra cui i titolari dell’ICLA, la società storicamente cara ad ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino, un paio di dirigenti della Banca di Roma, funzionari ministeriali.
Un’inchiesta che avrebbe potuto mandare in tilt i palazzi del Potere, quelli veri: perchè nelle sue centinaia di pagine venivano dettagliati per filo e per segno tutti i rapporti intercorrenti fra i politici, le imprese di riferimento e i Casalesi.
L’inchiesta stranamente partorisce un topolino: solo piccole condanne per pesci piccolissimi. Il resto finisce in una classica bolla di sapone. Dopo alcuni anni Saviotti muore di crepacuore.
LE IMPRESE DEL CUORE
Ecco cosa ha scritto la Voce in una cover story di giugno 1999. “A fine ’95 cominciano a far capolino le prime relazioni pericolose tra ICLA e clan camorristici del Casertano. ‘I Casalesi son già tornati’, titoliamo ad ottobre. Due mesi dopo, il clamoroso matrimonio Icla-Fondedile viene descritto dalla Voce come un’operazione che getta pericolose ombre sui collegamenti mafiosi e sulla sospetta provenienza dei capitali in essa investiti. Del resto è lo stesso Ros di Palermo a definire Fondedile ‘una controllata di Cosa nostra’”.
Le stesse conclusioni alle quali erano giunti Falcone e Borsellino, prima di saltare per aria.
Continuava la Voce di vent’anni fa esatti: “Un anno più tardi (1996) affiora il reticolo d’imprese beneficiarie dei generosi subappalti di marca Icla. Tra loro Edilmoter, Sud Edil, Diana, Madonna, De Rosa Nicola Costruzioni, B.M. Beton Meridonale, Biemme Beton. I titolari delle prime tre – sottolinea Ferdinando Imposimato – tra loro imparentati, risultano contigui con i potenti gruppi criminali dell’Agro aversano, a loro volta legati alla mafia siciliana”.
Connection ottime e abbondanti. Ma nessuno, a livello giudiziario, se ne frega.
Guarda caso nello stesso anno, 1996, verbalizza per la prima volta Carmine Schiavone, il cugino di Sandokan, sulle connection politico-camorristiche sul fronte dei traffici di rifiuti tossici. Una testimonianza choc resa ai Carabinieri della stazione di Castello di Cisterna, alla presenza di un colonnello che di strada poi ne farà molta: Vittorio Tommasone.
Quei verbali finiranno per molti anni a marcire in naftalina, per tornare alla ribalta solo una decina d’anni dopo, quando Schiavone riapre il sacco e parla con i giornalisti di mezza Italia. Dopo qualche mese cade da un pero e muore; così come muore in un mai chiarito “incidente” stradale sulla Salerno-Reggio Calabria Federico Bisceglia, il magistrato che indagava da mesi sulle connection dei traffici di rifiuti.
Negli anni 2000 di tanto in tanto altre inchieste sulle ferrovie. Tra sprechi, inefficienze, mancanza di controlli che causano morti e feriti, va rammentata la strage di Viareggio. Per un solo motivo: perchè nessuno ha indagato mai su un aspetto di quel tragico rogo nel quale sono arse vive 33 persone?
Vale a dire su quel carico merci trasportato dal treno killer.
Si trattava di una gigantesca quantità di metano di proprietà della Aversana Petroli. Nessuno ha mai accertato niente e forse non c’era proprio niente da accertare. Ma sull’Aversana Petroli forse qualche controllatina andava fatta: anche perché fa capo alla famiglia dei Cosentino, con l’ex sottosegretario (nell’esecutivo Berlusconi) Nicola Cosentino condannato in via definitiva per rapporti con il clan dei Casalesi.
P.S. Siamo alle solite. Dopo 24 ore di flash televisivi, il silenzio mediatico più assoluto. Perfino il primo quotidiano di Napoli e del Sud, il Mattino, non scrive un rigo sui business dei Casalesi con RFI. Come mai il gruppo Caltagirone oscura? E anche gli altri chiudono gli occhi?
TAV & MAXI INCIUCIO. NASCE IL GRANDE PARTITO DEGLI AFFARI.
Andrea Cinquegrani su la Voce delle Voci il 7 Agosto 2019.
La maggioranza parlamentare è favorevole a consegnare gli appalti per l’Alta velocità alle mafie.
Il Grande Partito degli Affari vince, sfonda e apre le porte a cosche & clan che non aspettavano altro: l’ok finale al TAV, il disco verde alla maxi opera su cui hanno da sempre puntato, con ‘ndrine e non solo pronte a schierarsi compatte per lanciarsi tra palate milionarie.
Alla faccia della legalità, della trasparenza, delle minime regole della concorrenza e del mercato, del rispetto per l’ambiente.
Chissenefrega. Il Partito Unico degli Affari ha pensato bene di ossigenare le casse delle mafie, da tempo in attesa di quella manna che si chiama Alta velocità.
Matteo Salvini in Parlamento nelle ore calde del voto TAV.
Come mai nessuno, tra le fila della Lega, del Pd, di Forza Italia e di Fratelli d’Italia si accorge che le mafie esistono, sono già strapotenti e non aspettavano altro? Non sanno, lorsignori, che il tumore della malavita organizzata ha già creato le sue malefiche metastasi al centro nord da vent’anni a questa parte e che il business targato TAV è il propellente giusto al momento giusto?
Perché non una parola, non un cenno al vero, grande pericolo che l’Italia corre, in una folle impresa suicida, quella di consegnarsi del tutto agli strapoteri mafiosi? E tutto questo qualcuno riesce a farlo sapere ai distratti (nel migliore dei casi) parlamentari europei?
Lo abbiamo scritto qualche giorno fa. La miglior sintesi l’ha fornita un cittadino della Valsusa che, intervistato per 5 secondi dai Tg Rai, ha avuto appena il modo di affermare: “Ma lo sanno i nostri parlamentari che qui non si muove foglia che la ‘ndrangheta non voglia?”. Perfetto. E’ questa la situazione.
Ma ‘O Sceriffo Matteo Salvini se ne frega. Tanto lui le mafie le stritola da solo, con le sue mani. Come ha fatto con una villetta dei Casamonica a bordo di una ruspa, come farà gonfiando il petto quando trascorrerà il suo ferragosto di lavoro a Castelvolturno per dar la caccia a migranti e casalesi. Basta lui, il Nembo kid del Viminale per terrorizzare cosche, clan e ‘ndrine e riportare l’Ordine nel nostro sciagurato Paese.
LA SCENEGGIATA “COSTI-BENEFICI”
Partiamo dalla autentica sceneggiata alla napoletana su “costi e benefici”.
Sorge subito l’interrogativo: se sappiano bene che i soldi finiranno in gran parte nelle casse mafiose, di cosa stiamo parlando? In quale “voce” collochiamo i subappalti, il movimento terra, il calcestruzzo, il pietrisco che sono un diretto appannaggio delle imprese mafiose?
Abolita anche l’Anac, chi mai effettuerà lo straccio di un controllo? Libertà quindi assoluta di subappalto alle sigle colluse, contigue, o anche emanazione diretta degli uomini di rispetto, in grado di presentare, attraverso il facile gioco dei prestanome, certificati antimafia immacolati. Come, per fare un solo esempio, è appena accaduto con il ponte Morandi di Genova i cui lavori non sono ancora iniziati!
Quindi la storia “costi-benefici” nasce già taroccata fin dall’inizio, e non ha alcun senso parlarne. Quando anche si volesse farlo, c’è un macigno altrettanto grande sul percorso TAV: quello dell’impatto ambientale devastante in Valsusa, dei danni che verranno provocati al territorio, delle ferite che saranno inferte. Come lo calcoliamo, questo “costo”?
I benefici? Un quarto d’ora in meno di percorso per le merci. Un po’ di spiccioli che arrivano dalla Ue tanto per darci la mancia. E la Francia che gongola alla faccia nostra.
Il lavoro, l’occupazione? Con opere mille volte più utili, sul serio, per il sistema dei trasporti (regionali) e per i cittadini, per i pendolari trattati come merci, è il caso di dirlo, si dà eguale se non maggiore occupazione.
Ma lorsignori, dalla Lega al Pd passando per Forza Italia e FdI, se ne fottono: perché stanno lavorando alla costruzione del Grande Partito degli Affari e degli Appalti. Finalmente hanno trovato un cemento con il quale consolidare la neo formazione. Vergogna.
CORRUZIONI AD ALTA VELOCITA’
Ma torniamo al vero bubbone, quello delle mafie da tutti messe in naftalina, dimenticate, oscurate anche dai media che sul TAV hanno regolarmente ignorato la realtà dei fatti.
Soleva raccontare Ferdinando Imposimato, il grande magistrato, sempre in prima linea contro i poteri mafiosi. “Per forza i media, sia giornali che televisioni, non parlano di Alta velocità: perché i loro editori sono dentro gli stessi business del Tav”.
Una mosca bianca della politica a lottare, in modo rigoroso e stra documentato, contro i progetti dell’Alta velocità, Imposimato. Abbiamo diverse volte ricordato la sua battaglia nella Commissione Antimafia, quando a metà anni ’90 (era un senatore del Pds) presentò una coraggiosa relazione di minoranza in cui venivano dettagliate tutte le magagne politiche, le corruzioni che già avanzavano, le connection mafiose. Una relazione che ovviamente non passò (ma resta nella storia parlamentare) anche perché furono gli stessi Pds ad affossarla. Proprio come oggi il Pd corre a fianco della Lega e di Forza Italia per il Si Tav.
E gigantesco fu lo sforzo dello stesso Imposimato e di Sandro Provvisionato (il padre di “Misteri d’Italia”) per scrivere, esattamente 20 anni fa, metà 1999, il più forte j’accuse contro il TAV, un libro che OGGI tutti dovrebbe leggere per capire come nasce il grande imbroglio, “Corruzione ad Alta Velocità”.
Ci sono tutti gli ingredienti del caso, tutti gli esplosivi elementi della stratosferica combine. Il ruolo giocato dall’IRI e da Romano Prodi per il decollo, le “imprese di partito” arruolate, gli accordi con le mafie, e anche le non-inchieste. Ossia le inchiesta avviate e poi insabbiate. Due in particolare, all’inizio, quella romana e quella milanese.
INCHIESTE INSABBIATE & DEPISTAGGI
La prima, infatti, viene praticamente scippata alla procura di Roma da Antonio Di Pietro, uno degli ultimi atti prima di abbandonare la toga.
Ha tra le mani, Di Pietro, un inquisito eccellente, “l’Uomo a un passo da Dio”, come lo definiva lo stesso pm, ovvero Francesco Pacini Battaglia. Sta verbalizzando, a Milano, sulla madre di tutte le tangenti, Enimont: ma sa anche moltissimo sull’affaire dell’Alta velocità, Pacini Battaglia.
Gioco facile, per Di Pietro, chiedere il fascicolo sul TAV alla procura di Roma per unificare tutto sotto il suo controllo.
Ma il parto è un piccolo tric trac: perché il solito rigido, ruvido pm di ferro si scioglie come neve al sole e indossa i panni del passerotto timido: non cava un ragno dal buco da Pacini Battaglia, il super faccendiere che tutto sa sui maxi appalti pubblici. Non passa neanche una notte in gattabuia ed esce libero come un fringuello.
E’ così che l’inchiesta sull’Alta Velocità muore prima ancora di nascere. Quando invece c’erano tutti gli elementi per impostare una grande inchiesta e un grande processo: il clou, il vero cuore di Tangentopoli. Ma Di Pietro, guarda caso, lascia baracca e burattini e si tuffa in politica. Tutto un caso?
Magistrati che insabbiano e magistrati che scoprono. Pochi lo sanno, ma i primi ad accendere i riflettori sulle prime manovre per l’Alta Velocità sono stati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Furono loro, infatti, ad ordinare al Ros dei carabinieri e allo Sco della polizia di redigere dei rapporti sui legami tra le imprese di mafia e quelle nazionali, gemellate sul fronte degli appalti. Il dossier del Ros, 890 pagine, titolato “Mafia e Appalti”, fece una minuziosa analisi di quei rapporti.
Il dossier, a febbraio 1991, finì sul tavolo di Falcone che ebbe il modo di lavorarci su per parecchi mesi, incrociando le sue ricerche con quelle di Borsellino. Un lavoro “esplosivo”, che valse il tritolo prima per l’uno e poi per l’altro: a dimostrazione che la pista-appalti era il vero movente sia per Capaci che per via D’Amelio, come da anni denuncia nel deserto Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, che punta l’indice anche contro inquirenti e magistrati che hanno palesemente depistato nelle prime inchieste sulla strage in cui sono stati ammazzati Paolo e la sua scorta.
SEMPRE LE STESSE IMPRESE
Un’altra inchiesta, stavolta portata avanti a metà anni ’90 dalla procura partenopea, ha puntato i riflettori sul TAV. Le indagini erano partite da alcune intercettazioni telefoniche intercorse tra un pezzo da novanta di Cosa nostra, il “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina, ovvero Angelo Siino, e alcuni faccendieri napoletani, i fratelli Spiniello, massoni. Un’inchiesta al color bianco, perché guarda caso vi ricorrevano diversi nomi di imprese che erano già nominate nel dossier del Ros e quindi nei documenti su cui lavoravano Falcone e Borsellino. Per fare solo un esempio, ICLA, l’acchiappatutto del dopo terremoto molto cara a ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino. E guarda caso l’uomo ombra di Pomicino, il faccendiere Vincenzo Maria Greco, ha incrociato i suoi compassi per le prime progettazioni dell’Alta Velocità.
L’inchiesta partenopea sulle piste tracciate da Siino si è poi persa nel nulla, passando al porto delle nebbie, alla procura di Roma. Dove – vedi i destini – era appena partita un’altra inchiesta, affidata al pm Paolo Saviotti. Anche in questo caso implacabili rapporti dei settori investigativi delle forze dell’ordine, un’ordinanza del gip Otello Lupacchini al fulmicotone, una gigantesca radiografia di appalti in mezza Italia ma soprattutto in Campania e in Lazio (ben compreso il TAV), ancora diverse di quelle imprese coinvolte (per la terza volta c’è l’Icla), ma poi il flop. A processo subiscono minime condanne dei pesci piccoli. Il gotha resta sempre, immancabilmente intoccato.
E TAV continua a correre su binari sicuri, divorando palate di miliardi di lire prima e di milioni di euro poi. Una cifra che nel 1999 – ai tempi di Corruzione ad Alta Velocità – era già lievitata a 150 mila miliardi di lire, partendo da una piccola base da 27 mila miliardi di lire secondo l’iniziale project financing griffato Iri.
I primi articoli della Voce sull’affare TAV sono del 1992. E in un’inchiesta del ’93 faceva già capolino il nome di Francesco Pacini Battaglia, l’Uomo a un passo da Dio, dentro un arcipelago di sigle che – per conto delle nostre Ferrovie – avrebbero dovuto “sorvegliare” sulla correttezza dei lavori per l’Alta velocità. Ai confini della realtà.
Ma queste cose il Grande Partito degli Affari non le sa…
TAV. QUELLA CUCCAGNA “STORICA” PER FACCENDIERI E MAFIOSI.
Cristiano Mais su la Voce delle Voci il 3 Febbraio 20190.
Com’è possibile dedicare giorni e giorni di stucchevoli polemiche alla arcinota questione dell’Alta Velocità, quando le cose sono chiare – e da anni – anche per chi non vuol vedere?
Come fanno a dare i numeri il ministro degli Interni Matteo Salvini e al seguito l’intero codazzo delle opposizioni dal Pd a Forza Italia passando per le sparute truppe meloniane?
Come mai per settimane e settimane non si fa altro che parlare di sbarchi & Ong, di trafori & alta velocità?
Quando il paese sta crollando giorno per giorno nel baratro e discutiano per giorni a bordo del Titanic?
Il TAV (Treno ad Alta Velocità) o che dir si voglia l’AV (Alta Velocità): si tratta dell’infrastruttura che nell’ultimo quarto di secolo ha già inghiottito un mare di miliardi di lire prima e di euro poi: una cifra oggi incalcolabile. Partenza nel ’92 a quota 27 mila miliardi di lire, un project financing che avrebbe dovuto vedere i privati in prima linea. Privati mai apparsi sulla scena e invece solo danari pubblici, contrariamente al progetto originariamente sbandierato.
A fine anni ’90 si vola e la cifra aumenta di 6 volte e ormai supera i 150 mila miliardi: tanto calcolano Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato nel loro profetico “Corruzione ad Alta Velocità”. Un libro di vent’anni fa esatti ma che oggi tutti dovrebbero leggere per capire come è nato, in che modo si è sviluppato, chi sono i veri progatonisti di quel colossale affaire in cui si mescolano soldi, politica, finta imprenditoria e, soprattutto, mafie. E’ proprio sul progetto e la messa in cantiere del Tav che puntarono i riflettori, nella loro ultima, fatale inchiesta, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i quali avevano cominciato ad alzare il velo sui rapporti tra mafie e politica proprio in occasione dei lavori del Tav, per spartirsi i bottini negli anni a venire.
Sorge spontanea una prima domanda: come mai tutte le successive inchieste sul Tav sono finite in una bolla di sapone? Come mai pur avendo raccolto una montagna di elementi che documentavano traffici & connection, non è stato partorito neanche un topolino? Forse perchè mancava la ciliegina sulla torta che avrebbe dovuto fornire l’Uomo a un passo da Dio, ossia Chicchi Pacini Battaglia? Come mai il suo “inquisitore” Antonio Di Pietro non ne cavò mai un ragno dal buco, usò con lui un anomalo guanto di velluto e mollò subito la presa? Forse perchè Pacini Battaglia era difeso da un avvocato grande amico di don Tonino, cioè Giuseppe Lucibello? Fatto sta che il super pm molisano quella volta fece un clamoroso flop e uno dei maxi filoni Tav finì in naftalina.
Quindi il mega business, l’opera pubblica “continua”, è tranquillamente proseguita drenando soldi a palate, in parte finiti nelle casse di mafia, camorra e ‘ndrangheta, regine del movimento terra e lungo tutto il fronte dei subbappalti.
S’intende oggi continuare ad alimentare giganteschi sperperi, foraggiare imprese e progettisti amici, finanziare direttamente le imprese mafiose? Almeno lo dicano a chiare lettere.
C’è un secondo, forte motivo che dice No alla prosecuzione nello scempio economico ed ambientale, collusioni mafiose a parte. Ma non si rendono conto lorsignori dello stato comatoso delle nostre linee ferroviare ormai da quinto mondo? Dei carri bestiame su cui tanti pendolari sono costretti a viaggiare? Della sicurezza che va a farsi fottere come provano tanti incidenti evitabilissimi con un minimo di manutenzione? Del drastico, progressivo taglio di linee e collegamenti? Dei folli ritardi quotidiani? Insomma, si pensa a risparmiare 20 minuti sulla linea per la Francia e sperperare vagonate miliardarie quando tutto va a mare…
Non ci rendiamo conto che le Ferrovie protagoniste nello sfascio ora addirittura dovrebbero soccorrere e salvare la sforacchiata Anas alle prese con i suoi gravissimi problemi? Ma chissenefrega, c’è il Tav.
Sangue sulle linee pugliesi, strage a Viareggio, morte a Pioltello: aspettiamo le prossime tragedie per ricordarci che la situazione dei nostri trasporti ferroviari ormai è quasi senza ritorno? Che gli anni passano e i treni sono sempre gli stessi? Che i cittadini rischiano tutti i giorni di bruciare le loro vite tra le lamiere?
Ma chissenefrega, c’è il Tav. O, se preferite, l’Av.
NUOVI APPALTI ANAS. QUASI 2 MILIARDI ALL’ETERNA SALERNO-REGGIO, CLAN E ‘NDRINE FESTEGGIANO.
Cristiano Mais su la Voce delle Voci il 27 Novembre 2015.
Piano Anas, una torta da 20 miliardi di euro. E la fetta più grossa, pari a 1 miliardo 765 milioni, va per i lavori della Salerno-Reggio Calabria. Incredibile ma vero: a cinquant’anni suonati dall’apertura dei cantieri e dallo stanziamento dei primi miliardi di lire, i cittadini devono ancora dissanguarsi per completare un’opera pubblica senza fine, servita ad alimentare clan di camorra e cosche delle ‘ndrine, oltre che per foraggiare faccendieri, politici e colletti bianchi.
“Il pacchetto regalo” è stato appena confezionato con la benedizione del presidente e amministratore delegato di Anas, Gianni Vittorio Armani, arrivato per moralizzare una società storicamente nota non per i fiumi di asfalto versati, ma per quelli mazzettari serviti a finanziare politici di prima e seconda repubblica. Fino all’ultimo ciclone tangentizio di qualche mese fa, che ha portato alla fine dell’incontrastato regno di Piero Ciucci. Suona le trombe Repubblica. “Il cambio di passo è stato annunciato dal numero uno di Anas Armani e dal ministro Graziano Delrio”. La “grande innovazione” sta nel fatto che si tratta solo marginalmente del finanziamento di nuove opere (circa 200 chilometri), ma anche di completamenti di lavori già avviati (520 chilometri) e soprattutto di opere di manutenzione straordinaria e messa in sicurezza (quasi 3000 chilometri). La parte del leone, stavolta, la fa il Sud, beneficiario del 63 per cento dei fondi. Ma come visto verranno per buona parte inghiottiti dalla Salerno-Reggio Calabria.
E pensare che una minuziosa inchiesta portata avanti da magistrati della Dda, e tre anni fa ratificata in Cassazione, ha dettagliato come camorra e ‘ndrangheta siano state in grado di suddividersi i lotti in modo scientifico, chilometro per chilometro: clan soprattutto salernitani per la tratta campana, per poi proseguire lungo tutto il tacco dello stivale a bordo di ‘ndrine. “Lo stesso è successo con i lavori per la terza corsia Napoli Roma – c’è chi ricorda ancora al ministero delle Infrastrutture – quando erano in pista big del mattone partenopeo che subappaltavano regolarmente ai clan di camorra, in prevalenza gli allora emergenti Casalesi, visto che il territorio era quello del casertano e del Basso Lazio”. Del resto, anche gli arcimilionari lavori per l’Alta Velocità hanno visto la stessa formazione allegramente in campo (politici, imprese di riferimento e mafie) per spartirsi una montagna di danari pubblici (e non privati, come falsamente propagandato dai padrini di Tav). Stesso copione – su scala minore – per la linea Metrò a Napoli, iniziata addirittura nel 1976, costi incalcolabili, portappalti in campo e scempi ambientali al seguito.
Sorgono spontanee alcune domande. Si parla di contrasto alla corruzione, trasparenze e vigilanza sugli appalti. Mentre è sotto il naso di tutti esattamente il contrario: lavori fuorilegge, sentenze penali che colpiscono pesci piccoli, nessuna verifica sui subappalti, sempre selvaggi, nessun controllo su movimento terra, forniture e via di questo passo: tutto esattamente come un quarto di secolo fa, e anche dopo (visto l’esito tric trac di Mani pulite e tangentopoli annesse).
Possibile che il ‘trasparente’ governo di speedy Renzi non abbia nulla da dire?
Moccia, da Afragola a Roma: un clan ad alta velocità. Dopo i ristoranti della capitale, la holding campana si butta sugli appalti ferroviari. Storia di una famiglia che si è riciclata grazie a protezioni eccellenti. E di un processo con un solo imputato che va avanti da dieci anni. Francesca Fagnani su L’Espresso il 2 dicembre 2021.
Se di élite di camorra si può parlare, di certo i Moccia ne sono l’emblema. Una dinastia che ha le sue radici nella provincia nord di Napoli e che dagli anni ’80 esprime il livello più alto della criminalità mafiosa. Un numero imprecisato di omicidi, estorsioni, intimidazioni rappresentano un passato da cui oggi la famiglia di Afragola prende le distanze. Così dichiarano. Per la procura di Napoli, invece, quello dei Moccia resta un clan potentissimo che estende la sua influenza ben oltre il territorio di provenienza. Quella ferocia di allora del resto ai Moccia non serve più. Basta il nome e soprattutto l’enorme disponibilità di capitali liquidi che gli consente di fare affari in molteplici ambiti dell’economia. C’è un settore però particolarmente redditizio, nel quale i fratelli Moccia si mimetizzano meglio che altrove: gli appalti pubblici, che condizionano da anni a livello nazionale e sempre più alto. Il clan a base familiare è diretto dal nucleo ristretto dei fratelli Angelo, Luigi, Antonio, Teresa e suo marito Filippo Iazzetta, che si alternano alla guida ogni qual volta uno di loro sia impedito a farlo, perché latitante o in carcere.
Luigi Moccia, Gigino, ’o colletto bianco che fino allo scorso luglio si trovava al 41 bis per mafia, ora è tornato libero per decorrenza dei termini della custodia cautelare. Anche la sorella Teresa è stata scarcerata ed è fuori con l’obbligo di firma. Gli altri due fratelli, Antonio e Angelo invece erano liberi fino allo scorso aprile, quando sono stati arrestati nell’ambito di due diverse inchieste. Desta particolare curiosità il caso di Antonio Moccia, sul quale pende un altro verdetto da oltre dieci anni in un processo dove compare come unico imputato e con un solo capo di imputazione: camorra. Cento udienze per un solo imputato.
GLI AFFARI
I Moccia sono una delle più potenti organizzazioni criminali del panorama nazionale; il loro non è un semplice clan ma una confederazione camorristica di vastissime dimensioni, per numero di affiliati ed estensione del territorio controllato: Afragola, Casoria, Arzano, Caivano, Cardito, Crispano, Frattamaggiore, Frattaminore e tutti i comuni della cinta nord di Napoli. E poi Roma.
La passione dei Moccia per la Capitale, dove Angelo e Luigi hanno spesso vissuto, quest’ultimo tra l’altro in un appartamento di proprietà della famiglia Inzaghi, combacia con la necessità di riciclare immensi capitali, attraverso l’acquisizione di ristoranti, alberghi, appartamenti in zone prestigiose e Ferrari, mediante intestazioni fittizie a persone totalmente assoggettate al clan come Guido Gargiulo, che - intercettato nell’ambito dell’inchiesta condotta dai Carabinieri del Ros e del Nucleo investigativo - riferendosi ai ristoranti già sequestrati a Francesco Varsi, prestanome di Angelo Moccia, dice: «I ristoranti sono di Angelo Moccia. Tu lo sai chi è? Vedi che c’hanno un’organizzazione che per spaventarmi io… ti dico spaventosa! Non sai quanto!». La forza d’intimidazione del clan è tale che i nuovi gestori dei ristoranti sequestrati erano costretti a versare ad Angelo 300 mila euro, a fronte del suo benestare. «Pensa di gioca’ ma questi ti ammazzano», dice ancora Gargiulo riferendosi a Vittorio Dominici a cui il tribunale aveva appena affidato quattro ristoranti. I Dominici che all’inizio avevano raccontato ai Carabinieri di essere vittime di estorsione, hanno poi ritrattato tutto.
L’abilità imprenditoriale dei Moccia emerge con chiarezza nell’ultima inchiesta che li riguarda, Petrol-mafie Spa, condotta dallo Scico della Guardia di finanza con il Ros dei carabinieri, coordinati dalle procure di Napoli, Roma, Catanzaro e Reggio Calabria; un maxi-bliz che ha portato a 71 misure cautelari e al sequestro di quasi un miliardo di euro. Spicca la centralità dell’organizzazione che ruota intorno al più giovane dei fratelli Moccia, Antonio, elemento di vertice della cosca, che con l’aiuto di commercialisti e faccendieri, aveva messo in piedi una macchina per reinvestire denaro sporco e per moltiplicare i guadagni attraverso le frodi fiscali nel commercio del gasolio, venduto poi a prezzi troppo bassi per qualsiasi operatore onesto. L’egemonia dei Moccia nel business dei carburanti era tale da allarmare gli altri clan operanti nel settore, in particolare i Mazzarella che per mandare un segnale preciso ai rivali tentarono due agguati con colpi di pistola esplosi verso Alberto Coppola, braccio destro di Antonio Moccia. Ne derivò una pax mafiosa imposta da quest’ultimo attraverso la cessione di una quota dell’impianto di carburanti ai Mazzarella.
Proprio l’affare del petrolio potrebbe essere tra i possibili moventi ipotizzati per un omicidio eccellente e ancora da capire, avvenuto ad Afragola nel 2017, nel cuore del feudo dei Moccia: quello di Salvatore Caputo, detto Usain, facoltoso imprenditore, molto vicino alla famiglia Moccia, attivo in diversi settori, tra cui proprio i carburanti. Il killer sceso da un furgone gli ha scaricato addosso un intero caricatore, lasciandolo in una pozza di sangue. Un’esecuzione esemplare, avvenuta nel territorio epicentro dei Moccia, un’offesa gravissima rimasta però, inaspettatamente, senza vendetta. A complicare il quadro (o forse a chiarirlo), sono le dichiarazioni rese da un pentito, ex affiliato di peso del clan Moccia, Salvatore Scafuto, detto Tore a’ Carogna, che pochi mesi prima che Caputo fosse assassinato, dichiarò che fu proprio Anna Mazza, la potentissima vedova di Gennaro Moccia a chiedergli di ucciderlo: «Quando sono iniziate le pressioni dei Moccia …mi sono reso conto che l’unica via di uscita per me, non era quella di scappare, ma di collaborare con la giustizia. Dopo aver ucciso Caputo, avrei rischiato di morire anche io ovvero di imbrigliarmi ancora mani e piedi con i Moccia». Salvatore Caputo si sentiva autonomo? Non aveva restituito dei soldi transitati nelle sue mani? Oppure non aveva favorito l’ingresso dei Moccia nel business del gasolio? Solo ipotesi, tutte da accertare.
FIORI D’ARANCIO E TRENI
Fatto sta che Antonio, il fratello di Salvatore Caputo, quattro mesi dopo l’omicidio figura tra gli invitati al matrimonio di Lucia Moccia, la figlia che Angelo accompagna all’altare appena uscito dal carcere, nella Basilica di San Lorenzo in Lucina, accanto al Comando provinciale dei carabinieri. Molto interessante è scorrere la lista dei numerosi invitati, che hanno poi proseguito i festeggiamenti nella prestigiosa Villa Miani. Oltre ad alcuni affiliati, finiti poi in carcere per indagini che hanno riguardato la famiglia, come Maurizio Esposito e Pasquale Puzio, a festeggiare le nozze di Lucia Moccia con Giosafatte Laezza erano presenti molti imprenditori dell’area nord-est di Napoli, affidatari d’importanti appalti, come Bartolo Paone, un imprenditore di Casoria che con la sua Cogepa ha stipulato contratti con Tim, Enel, Open Fiber , Enav, Terna; o come Giovanni Esposito, padre di Manlio e Angelo, proprietari della Kam Costruzioni con sede ad Afragola, che risulta nella lista degli operatori a cui Rfi (Rete ferroviaria italiana) ha affidato appalti per una serie di attività, in un caso addirittura per 13 milioni. A ben vedere risultano altre ditte, vicino ai Moccia, che lavorano per Rfi, come ad esempio la Railway Enterprice srl, per una classe d’importo pari anche qui a 13 milioni, intestata a Concetta Credentino, moglie di Giuseppe De Luca (condannato in passato per mafia), cognato di Angelo Moccia e ai figli Antonio e Leonardo De Luca. Anni prima, Railway, in un complicato valzer di passaggi societari, aveva acquisito la Del Gap Costruzioni srl, già destinataria di un’interdittiva antimafia perché sussistevano tentativi d’infiltrazione mafiosa da parte della criminalità organizzata. La lista degli amici imprenditori dei Moccia che si sono aggiudicati un appalto pubblico da Rfi incredibilmente non finisce qui. Nell’elenco degli operatori che lavorano per l’azienda pubblica compare anche la Edil-Fer srl, di proprietà dei figli di Enrico Petrillo, Gennaro e Antonio e amministrata da sua sorella da Orsola Petrillo. Chi è Enrico Petrillo? Un imprenditore edile, che entra molti anni fa nell’orbita dei Moccia attraverso amicizie pericolose con cui era in affari: Giorgio Salierno e sua moglie Immacolata Capone, tramite di Michele Zagaria, al vertice del clan dei Casalesi. Salierno e la Capone verranno assassinati in due distinti agguati camorristici, Enrico Petriello invece resterà contiguo alla famiglia Moccia, tanto che, la Edil.Mer, la società di cui Petrillo era titolare, sarà poi colpita da due interdittive antimafia proprio perché ritenuta condizionata dal clan di Afragola. Anche la famiglia della moglie di Petrillo, Francesca Mormile appare molto vicina ai Moccia: suo fratello Luigi fu arrestato a Gaeta per favoreggiamento, sorpreso in barca con i latitanti Angelo e Antonio Moccia e sua sorella Giuseppa Mormile è la dama di compagnia di Teresa Moccia.
LA STORIA
Parte dagli anni ’70, il capostipite era Gennaro Moccia, benestante imprenditore agricolo e in possesso di un ingente patrimonio immobiliare. Considerato un “uomo di rispetto” secondo il linguaggio e la cultura di allora, ben altro probabilmente secondo le leggi in vigore oggi. Una sera Gennaro, trovato in possesso di un’arma detenuta illegalmente, fu arrestato dal maresciallo Gerardo d’Arminio. Il 5 gennaio del ’76, mentre il sottoufficiale era con suo figlio di quattro anni, Vincenzo Moccia, il figlio sedicenne di Gennaro, gli spara. Un tragico errore, dirà Vincenzo, arrestato. Il vero obiettivo riferisce sarebbe stato Luigi Giugliano, esponente del gruppo rivale dei Moccia ad Afragola, che dopo qualche mese risponderà, colpendo il bersaglio più grosso: il capo. Gennaro Moccia viene assassinato il 31 maggio del ’76. Da quel momento, sua moglie Anna Mazza (oggi deceduta) diventa la temutissima “vedova nera” e il sodalizio passa nelle sue mani e in quelle dei figli, che si vendicheranno uccidendo uno ad uno tutti quelli coinvolti nell’omicidio del padre. Una guerra che durerà trent’anni, una catena infinita di vendette e lutti. Nel ’78 il tredicenne Antonio Moccia uccide nel cortile del tribunale di Napoli un esponente dei Giugliano, dieci anni dopo Vincenzo Moccia, 28 anni, appena uscito di galera viene assassinato; dopo quattro giorni, Giuseppe Fusco, ritenuto il killer di Vincenzo, viene torturato e ucciso. Accanto al cadavere faranno trovare una croce di legno, un modo per far sapere che la faida non era finita. «Ammetto anche l’omicidio di Fusco Giuseppe», dirà in un interrogatorio Angelo Moccia. «Anche» quell’omicidio, dice, compiuto insieme a Michele Senese detto ’o Pazzo, che diventerà capo indiscusso della camorra romana. Un legame indissolubile, se ancora nel 2016 Senese, intercettato in un colloquio in carcere affida alla moglie un messaggio per Antonio Moccia: «Devi dire di non avere paura, quello sa morire»: nonostante la condanna definitiva, cioè, può contare sul silenzio di Michele ’o Pazzo. Ma rispetto a cos’altro ancora?
Il salto nella carriera criminale della famiglia di Afragola avviene con l’ingresso nella Nuova Famiglia, una confederazione di clan, fondata dai boss Carmine Alfieri e Pasquale Galasso per mettere fine all’espansione della Nco di Raffaele Cutolo. La potenza militare e le capacità strategiche dei Moccia emergeranno subito, così come la ferocia. «Quanti omicidi ha commesso come esecutore?», gli chiederà nel ’96 l’allora pm Giovanni Melillo. «Una ventina», dice Angelo Moccia. «E come mandante?», replica il pm. «Abbastanza», risponde Angelo.
I PROCESSI
Nel frattempo, l’altro fratello, Luigi si rende protagonista insieme al terrorista Cesare Battisti di una clamorosa evasione dal carcere di Frosinone dove entrambi erano reclusi. La conoscenza con il mondo delle organizzazioni terroristiche fa scattare la scintilla per quella che sarebbe stata la strategia difensiva adottata per primi dai Moccia: la “dissociazione”, lo strumento utilizzato durante gli anni di piombo dai terroristi per ottenere vantaggi processuali, senza svelare nulla. In quegli anni a Napoli, molti camorristi stavano terremotando il sistema criminale attraverso la scelta della collaborazione. Angelo Moccia, allora latitante, aveva accumulato troppi capi d’imputazione e soprattutto troppi omicidi. Il 3 febbraio del 1992, Angelo si consegna al carcere dell’Aquila e dopo un anno dichiarerà le sue intenzioni: ammettere le proprie responsabilità, senza però fornire alcuna collaborazione né sull’organizzazione di cui faceva parte né su altri, a meno che non fossero morti o collaboratori; «La mia non è omertà, mi creda, non me la sento di fare qualcosa che è fuori della mia coscienza», dirà. Una strategia unitaria quella della dissociazione scelta dal gruppo Moccia per evitare l’ergastolo e per arginare il fenomeno del pentitismo, depotenziando il peso dei collaboratori. Consegnare le armi allo Stato e riferire solo di fatti di sangue era un modo, inoltre, per conservare il potere criminale sul territorio e soprattutto per preservare gli affari. La battaglia dei Moccia verrà sostenuta da importanti esponenti ecclesiastici come il vescovo di Acerra don Antonio Riboldi che si fece ambasciatore presso le istituzioni per veder riconosciuta processualmente la dissociazione anche per i camorristi. Che quella di Angelo Moccia invece fosse una linea difensiva meramente strumentale è dimostrato dal comportamento del fratello Luigi che, mentre in pubblico sosteneva la politica della dissociazione, contemporaneamente cercava di convincere, in un modo o nell’altro, i collaboratori a retrocedere dalla decisione di pentirsi. Il progetto era quello di far fuori i pentiti Umberto Ammaturo, Mario Pepe e Pasquale Galasso, il più pericoloso di tutti, attraverso le informazioni che passava al clan l’ex maresciallo dei Carabinieri Giovanni Russo responsabile della sicurezza personale proprio di Galasso. Nel frattempo la “vedova nera” Anna Mazza, faceva minacciosamente arrivare al pentito Dario De Simone, tramite suo fratello Aldo, «i saluti» da parte del figlio Angelo Moccia. Dopo due mesi, Aldo muore, raggiunto da colpi sparati in faccia. Negli anni successivi alcuni pentiti faranno un passo indietro, altri invece come Rocco D’Angelo, Angelo Ferrara e Antonio Giustino saranno trovati morti in cella: suicidi, come si è detto. La procura di Napoli non ha mai creduto alla dissociazione dei Moccia, altri magistrati invece sì: nel 2015 Angelo ha pubblicato la sua autobiografia “Una mala vita”, scritta con Libero Mancuso, un magistrato che è stato anche presidente della corte di Assise di Bologna. La prefazione è firmata da Nicola Quatrano, altro magistrato poi diventato avvocato dei Moccia. La postfazione è scritta da Paolo Mancuso, un pm che si è occupato a lungo di camorra e anche dei Moccia. «Questi hanno soldi e potere politico inimmaginabile», diceva il sodale Gargiulo: «Non è camorra, questi stanno a livelli istituzionali, politici, con i tribunali».
AGGIORNAMENTO 2 DICEMBRE 2021: La replica di Luigi Moccia al nostro articolo
Precisoche. La replica di Luigi Moccia all'inchiesta dell'Espresso
Mi chiamo Luigi Moccia, fratello di Angelo ed Antonio, ed intendo prospettarLe la mia verità, per la parte stragrande del tutto alternativa ed anzi di autentica smentita di quanto riferito su di me, sui miei fratelli e sull'intero mio nucleo famigliare nell’articolo a firma Francesca Fagnani pubblicato sul numero de L’Espresso attualmente in edicola.
- E' esatto che negli anni '80 mio fratello Angelo sia stato - insieme ad Alfieri e Galasso - ai vertici della Nuova Famiglia, il sodalizio criminale che nacque per contrastare e finì col prevalere sull'organizzazione avversa, quella della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.
- E' invece errato che un tale passato criminale sia costituito da un numero imprecisato di omicidi, estorsioni etc. in quanto Angelo, da latitante, scelse di costituirsi ed arrendersi allo Stato confessando spontaneamente tutti gli illeciti anche gravissimi che aveva commesso, per molti dei quali non era mai stato neppure accusato.
- Quanto alla pretesa enorme disponibilità di capitali liquidi che consentirebbe alla mia famiglia di fare affari in molteplici ambiti dell'economia è vero invece che tutti noi siamo stati ripetutamente sottoposti a misure di prevenzione anche patrimoniali, procedure con cui le nostre effettive disponibilità economiche sono state ogni volta risvoltate come un calzino.
- Per quel che mi riguarda personalmente è vero anzi che il cospicuo patrimonio effettivamente nella disponibilità mia e della mia famiglia è stato ed è tuttora sottoposto a sequestro finalizzato alla confisca a dispetto del fatto che persino il perito nominato dal Tribunale ne ha ribadito la legittima provenienza dalle rendite degli immobili lecitamente ereditati dalla mia famiglia e la piena congruità rispetto ai redditi da me regolarmente dichiarati in sede fiscale.
- E' vero che, secondo alcuni PP.MM., la proposta dissociativa di Angelo sarebbe stata insincera ed anzi strumentale a godere di un qualche beneficio di pena.
- Ancor più vero è tuttavia che Angelo non ha mai goduto di alcun altro beneficio se non quello infine riconosciutogli per aver confessato l'interezza dei reati commessi; circostanza confermata da decine di sentenze passate in giudicato e soprattutto dal fatto che mio fratello ha scontato per intero gli oltre trenta anni di carcere cui è stato infine condannato.
- E' invece una panzana che i miei fratelli ed io si abbia a che fare con quegli appalti che tuttavia - secondo la giornalista - egualmente condizioneremmo da anni a livello nazionale e sempre più in alto; è infatti vero al contrario che il c.d.G. Scafuto (l'inventore di una tale panzana), controinterrogato sul punto, non ha saputo indicarne neppure uno; non meno eloquente la circostanza che nessun addebito di appalti truccati od altre irregolarità similari ci è mai stato rivolto neppure in astratta ipotesi di accusa.
- Anche la pretesa ultrattività a tutt'oggi di un clan Moccia riconducibile ai componenti del nostro ristretto nucleo famigliare è tale soltanto nel convincimento di alcuni PP.MM.; dunque costituisce nient'altro che una mera ipotesi accusatoria, quella per cui ormai già da anni pendono due distinti processi tutt'ora in corso, non ancora definiti neppure in primo grado; peraltro uno nei confronti miei, un altro nei confronti di mio fratello Antonio,
nessuno anche nei confronti di Angelo.
- Per non dire che Antonio è già stato assolto per l’appunto quanto all'ipotesi di perdurante condotta associativa sino al 2003.
- E' vero che sono stato scarcerato per decorrenza termini insieme a mia sorella Teresa dopo tre anni a mezzo dal mio arresto: un tempo lunghissimo e tuttavia impegnato pressoché per intero dal malgoverno dell'acquisizione della sola prova di addebito da parte del P.M.; a dispetto di udienze fissate con la frequenza parossistica di una ed addirittura due ogni settimana; nonostante il decisivo scorciamento dell'istruttoria dibattimentale consentito per l'appunto dalla mia difesa che ha prestato l’assenso all'acquisizione al dibattimento dei verbali resi al PM da innumerevoli cc.d.G. altrimenti tutti da escutere nella pienezza del contraddittorio.
- Altrettanto vero che il processo a carico di mio fratello Antonio pende effettivamente ancora in primo grado da poco meno di dieci anni ma anche tale paradosso dipende esclusivamente dall'accusa che continua imperterrita - da ultimo sino a poche settimane addietro - a mobilitare nei suoi confronti pentiti sempre nuovi quanto egualmente inconsistenti.
- Dunque niente e nessuno autorizza la tracotante sicumera con cui la Fagnani ha falsamente già accreditato non solo la permanenza di un nostro clan Moccia - infatti tuttora sottoposta al vaglio dei giudici di primo grado - ma addirittura la sua pretesa natura di confederazione camorristica di vastissime dimensioni.
- Niente e nessuno autorizza neppure le postulazioni della giornalista sulla pretesa attività di interposizione fittizia e riciclaggio addebitata a me ed ai miei famigliari in Roma; è infatti passata di recente in giudicato la sentenza con cui la III Sez. Pen. della Corte di Appello di Roma, ha integralmente ribaltato la condanna inflittami al riguardo in primo grado; ciò assolvendomi, insieme a tutti i miei più stretti congiunti, con la formula più ampia.
- Per un un addebito similare - per il quale risulta eloquente che sia stato anch'io arrestato, salvo archiviare la mia posizione subito poi - è effettivamente tutt'oggi in corso il processo nel quale Angelo sta ancora scalpitando in attesa che tocchi finalmente alla sua difesa poter articolare innanzi al Tribunale le prove della più totale inconsistenza dell'accusa anche nei suoi confronti.
- L'articolo continua spacciando per accertato ciò che - come si è visto - costituisce invece oggetto di processi tutti ancora da definire; accredita così in capo a mio fratello Antonio immaginifici protagonismi imprenditoriali illeciti nel settore delle petrolmafie, illeciti per cui l'O.C.C. correlativa, a suo tempo emessa nei confronti di oltre cento indagati, risulta non meno eloquentemente appena annullata dalla Suprema Corte solo quanto alla posizione di mio fratello.
- Indica appena dopo, con una agilità disinvolta francamente incresciosa, il predetto affare del petrolio come uno dei possibili moventi per l'omicidio di nostro cugino, Salvatore Caputo, un omicidio che per la verità mai è stato contestato né ad Antonio né ad alcun altro componente della mia famiglia nonostante le accuse rivolte in tal senso dal c.d.G. Scafuto; lo stesso che frattanto aveva altrimenti confessato al PM che odiava Caputo e che proprio lui voleva ammazzarlo; sicché pare davvero ovvio che si sia poi adoperato per sviare da sé la responsabilità dell'omicidio in parola; un c.d.G. che d'altra parte, certo non a caso, è già stato dichiarato del tutto inattendibile, se non contra se, dalla V Sez. Pen. del Tribunale di Napoli.
- Il che ben spiega perché permangono nei confronti del fratello di Salvatore gli stessi rapporti di genuino affetto a suo tempo esistenti tra la mia famiglia ed il defunto sicché Domenico (non Antonio) è stato anch'egli a buon titolo invitato al matrimonio della figlia di Angelo esattamente allo stesso modo che ad ogni altra similare ricorrenza famigliare.
- Né tocca a me difendere l'onorabilità personale e professionale dei molti imprenditori di livello citati subito poi dalla giornalista quali asseriti rappresentanti di ditte vicine ai Moccia: si tratta effettivamente di familiari e comunque di imprenditori di prim'ordine che - al netto della colpa di non aver anch’essi rinnegato gli annosi rapporti di parentela ed affetto con la mia famiglia - hanno già ampiamente dimostrato in tutte le competenti sedi la pulizia, solidità e serietà delle proprie aziende, peraltro - al di la delle chiacchere - presenti sul mercato da decenni e con un avviamento ed una storia imprenditoriale invidiabile.
- Ignobile prima ancora che arbitrario il successivo accostamento alla mia famiglia degli omicidi di Giorgio Salierno e della moglie Immacolata Capone, mai oggetto neppure di ipotesi di addebito a nostro carico.
- Non meno gratuita la successiva, fuorviante ricostruzione dell'omicidio del m.llo D'Arminio, che infatti letteralmente calpesta la sentenza correlativa passata in giudicato; una sentenza che spiega in modo ampio ed inequivoco che il sottufficiale venne ucciso da un colpo di arma da fuoco rivolto a tutt'altro soggetto, dunque non certo intenzionalmente né tantomeno per aver in precedenza arrestato mio padre, un uomo che a propria volta non ha mai avuto alcun atteggiamento o comportamento da uomo di rispetto nel senso mafioso del termine e che infatti è restato da ultimo vittima piuttosto che protagonista attivo della camorra.
- All'insegna di una qualche coerenza nell'indegnità, il pezzo propone poi al lettore un opinabile sunto di pretesa archeologia giudiziaria che culmina nel suggestivo richiamo a mia madre quale pretesa temutissima vedova nera nelle cui mani sarebbe passato il sodalizio recante il nostro cognome subito dopo la morte del marito: una donna che non ha fatto altro che la moglie, la madre e la nonna e che comunque non ha mai riportato alcuna condanna ex art 416 bis c.p.
- Un sunto di pretesa archeologia giudiziaria dominato dalla suggestione assai più che da riferimenti corretti agli effettivi atti processuali e comunque impotente a scalfire l'ormai definitivo riconoscimento giudiziario della genuinità delle confessioni e della proposta dissociativa di Angelo; quella che infatti viene tutt’oggi ancora negata solo da un paio di Procure, tra cui non a caso proprio quella di Napoli, la stessa a suo tempo costretta ad incassare la sconfitta bruciante di un tale riconoscimento.
- La successiva, generica insinuazione di nostre pretese, inusitate capacità corruttive non solo a livello politico-istituzionali ma sinanche giudiziari risulta infine piegata allo scopo di mascariare personaggi quali Libero e Paolo Mancuso nonchè Nicola Quatrano, uomini la cui storia personale prima ancora che professionale l'autrice del pezzo francamente non è certo all’altezza di mettere in discussione.
Resto ovviamente a Sua disposizione per documentare l'interezza delle circostanze che precedono. Resta tuttavia inspiegabile che esse siano state complessivamente ignorate a dispetto delle informazioni assai specifiche altrimenti utilizzate in senso contrario per la stesura dell'articolo in parola.
Il che autorizza a rilevare ed a fare presente che - in ragione di una tale disinformazione mirata - l'articolo in parola spende la inquietante valenza oggettiva di un intollerabile tentativo di condizionare e suggestionare proprio i giudici che devono pronunziarsi fors'anche a breve nei delicatissimi processi a nostro carico tutt'oggi in corso.
Persino un Moccia quale il sottoscritto ha pertanto il diritto di chiederLe di rispettare l'etica elementare della direttiva europea che ha ripristinato anche nel nostro ordinamento l'obbligo civile di rispettare la presunzione di innocenza che nessuno, tanto meno la testata da Lei diretta, ha il diritto di negarmi.
Riscoprendo le meritorie tradizioni di cultura dei diritti e del processo che almeno un tempo hanno certamente contraddistinto la testata che Lei dirige oggi, quelle stesse volgarmente tradite dalla suggestiva faziosità velinara del pezzo in parola. Ciò pubblicando con adeguato risalto tipografico questa mia sul prossimo numero della Sua rivista. In fede Sig. Luigi Moccia
Francesca Fagnani: Prendo atto di quanto scrive il signor Moccia, ma tutte le informazioni che ho riportato sono documentate in atti investigativi e giudiziari. (F.F.)
Matteo va alla guerra. Quando Messina Denaro andò a Roma per uccidere Falcone e Costanzo. Giacomo Di Girolamo su L'Inkiesta l'1 Settembre 2022
Giacomo Di Girolamo ricostruisce con una formidabile inchiesta letteraria il ruolo della mafia trapanese e del suo boss nelle stragi del 1992. A parlare sono proprio i mafiosi impegnati in quella guerra allo Stato, capeggiati dal boss ormai latitante da quasi trent’anni
E quindi partimmo per Roma. Matteo, che pensava a tutto, come sempre, ci diede un consiglio, prima di fare le valigie: «Abbigliamento adeguato». La cosa ci mise un po’ d’ansia. Come dice un vecchio adagio, puoi portare una persona fuori da un luogo, ma non un luogo fuori da una persona.
Che avrà in testa il capo – pensammo – noi che siamo bravi solo a sparare, a strangolare; non sono cose che si fanno con il vestito buono della domenica, né con le scarpe marroni: fai uno e basta, finisce lì, anche perché quasi mai è una cosa pulita, e poi i vestiti o sono sporchi di lanzo o di piscio – perché la gente, voi non lo sapete, ma quando la strozzi mica tira l’anima via in un colpo e amen!
Quello si muove, si contorce, grida, vucia, e poi se la fa sotto perché, ricordatelo, è intessuto di merda l’animo degli uomini: quella esce, dopo l’ultimo rantolo. Non l’anima, non il vapore, non la voce degli angeli, ma, semplicemente, merda – oppure se dai fuoco a un’auto, o a una casa, e aspetti che la vampa si accenda e salga – e, cari miei, dipende come tira il vento – i vestiti si impuzzano, che il giorno dopo li puoi andare a buttare. Però Roma è Roma, ci siamo detti, e capace che nelle città grandi gli omicidi si fanno in abito da sera. Ma in realtà il nostro Matteo aveva un piano – ha avuto sempre un piano – ed era quello di farci fare la bella vita a Roma. Ecco perché ci voleva eleganti.
Perché si andava nei bei locali la sera, e in bei negozi a fare shopping, nelle belle vie a passeggiare e a fare girare la testa alle ragazze; ma solo quello, perché avevamo una missione – elegante, sì, ma pur sempre una missione – tra gli sciacalli e le iene, gli uomini di potere, molti dei quali divenuti tali grazie a noi, che affondavano voraci i loro denti nella carne putrida di quella che chiamavano
cosa pubblica.
E c’era anche il nostro amico Francesco Geraci nella banda dei gitanti, il gioielliere, quello che una volta Matteo aveva aiutato per una vicenda di un’estorsione, e da allora gli era rimasto legato e aveva cominciato anche lui a partecipare agli omicidi, alla guerra, alle gite fuori porta.
Ed era stato utile alla causa. Un giorno il signor Riina in persona lo aveva chiamato, e gli aveva detto: so che sei bravo picciotto, e amico di Matteo, e che hai una gioielleria; io ho un po’ di cose da conservare, non è che hai una cassetta di sicurezza, qualcosa per me? E lui gli aveva addirittura fatto costruire, sotto la sua gioielleria, un piccolo caveau, con tanto di ascensore, dove i Riina avevano messo di tutto: i collier della signora Bagarella, gli orecchini di Lucia, gli orologi Cartier, e pure delle spille di Italia ‘90 tempestate di diamanti, e Geraci ci aveva confidato che, a occhio e croce, tutto questo bendidio valeva tipo due miliardi di lire.
E un pomeriggio Matteo lo va a trovare e gli racconta del progetto degli attentati ai personaggi famosi. Baudo, Costanzo, Martelli, Santoro, gli dice, in preciso ordine alfabetico, per non fare disparità. E se capita, anche Enzo. Biagi, aggiunge. «E per fare cosa?» gli chiede il gioielliere. E Matteo: «Dobbiamo creare scompiglio, caos, destabilizzare». Francesco sta in silenzio e poi gli dice: «Buono è».
Geraci in effetti ci serviva per tantissime cose, ci completava. Anche questa, se ci pensate, è stata un’idea geniale di Matteo: non portarti, per una missione delicata, un tuo simile, un clone, uno che obbedisce e basta. Portati uno che sa cose che tu non sai, che aggiunge esperienza, know-how, come si direbbe nei corsi moderni dove si parla tutto in inglese. E in effetti ancora prima di partire Geraci ci disse: «Picciotti, io ce l’ho un posto dove possiamo andare a comprare roba buona per il viaggio». E il posto era Alongi, in centro a Palermo. Alta moda, roba fina.
Solo lui spese circa 12 milioni di lire, roba da sticchio e quasette di seta. Oggi al posto di Alongi c’è un negozio che vende i mattoncini per le costruzioni, che costano quanto un abito da sera. Segno dei tempi, certo. (…)
E poi Riina e Matteo avevano pensato anche alle alleanze interregionali, perché si giocava fuori casa, e noi avevamo bisogno il più possibile di aiuto. È per questo che avevamo fatto arrivare in Sicilia due napoletani: Ciro Nuvoletta e uno che si chiamava Maurizio. Erano della famiglia della zona di Marano, e con noi erano in ottimi rapporti. Li abbiamo ospitati al Jolly Hotel, poi siamo andati a prenderli, e li abbiamo portati a Bellolampo, vicino Palermo, per una riunione operativa.
Anche loro sarebbero stati della partita, mantenendosi come disse Riina «a nostra disposizione per ogni occasione». Cioè? «Se avete bisogno per qualcuno… potete anche chiamare i napoletani per spararci. Perché, essendo di Napoli, sono più pratici delle zone…».
Matteo sorrideva dell’ingenuità di Riina che, come tutti gli anziani siciliani, era convinto che la Sicilia fosse fatta di mille continenti (vero) e che il resto del mondo fosse una specie di unica penisola dove tutto era condensato, e perciò un napoletano, per Riina, era come un romano di periferia. Ma nessuno, come in altre occasioni, fece delle obiezioni a quel cristiano per correggerlo, e per dire che magari napoletani e siciliani a Roma, insieme, sarebbero stati molto riconoscibili, per una missione che invece doveva essere coperta dalla più assoluta segretezza.
E il motivo per cui non lo avevamo contraddetto era per il fatto che, potevano essere napoletani, potevano essere emiliani, venire da Nuova York come da Carrapipi, ma quei nostri alleati erano innanzitutto uomini d’onore, e come tali avrebbero dato la vita per noi, così come noi avremmo dato la nostra per salvarli e aiutarli.
E partimmo dunque per Roma, il 24 febbraio del 1992. In quel giorno, pensate, nasce in Italia la Protezione Civile. E noi ci sentivamo un po’ la Protezione Civile di Cosa nostra, corpi scelti per accorrere dopo un cataclisma, ma con idee più originali del piantare baracche e tende e si salvi chi può. (…)
Partimmo ognuno con un mezzo diverso, piccoli accorgimenti per non dare nell’occhio. Che poi noi abbiamo sempre contato, oltre che sulla nostra organizzazione, anche sulla pigrizia di chi avrebbe dovuto controllarci.
Ma si guardava dappertutto, tranne che in provincia di Trapani. E così Sinacori partì con l’aereo, e il biglietto lo fece un po’ storpiato: Vincenzo Rinacori, con la erre. Tanto bastava. Matteo, invece, al quale sarebbe bastata come lasciapassare la sua stessa faccia, aveva una carta di identità falsa, a nome Matteo Messina, e sì, si era sprecato anche lui a fantasia, ma ve lo diciamo davvero: nessuno
si interessava a noi; era quasi per prendere per il culo tutti che cambiavamo iniziali e consonanti, quasi fosse La pagina della Sfinge della Settimana Enigmistica.
Matteo, tra l’altro, venne in auto con Geraci. Altri ancora in treno. Ogni volta che partiva per il continente, Matteo rifletteva sempre su questo fatto, e cioè che il traghetto che faceva la spola tra la sponda siciliana e quella calabrese si chiamava Caronte. E si chiedeva se quel nome, di quel traghettatore infernale, lo avessero messo apposta o no. E man mano che il traghetto si allontanava dalla Sicilia, lui percepiva come un sipario leggero che si alzava, un fiato di estraneità. L’isola da una parte, e poi il resto del mondo. Anche se all’inizio era soltanto Calabria. (…)
E dalle cave di Mazara era partito anche l’esplosivo che doveva servirci nel caso in cui avremmo voluto fare una cosa non pulita, ma di quelle potenti, con il botto. Matteo in quei giorni era inquieto. Prima parlava di Maurizio Costanzo e ci diceva che anche lui doveva saltare in aria perché in televisione parlava male dei mafiosi. C’era stata infatti questa cosa del commerciante ucciso a Palermo, l’estate prima, quello che faceva pigiami e non voleva pagare il pizzo, e Costanzo e l’altro, Michele Santoro, avevano fatto pure una puntata speciale, che manco se giocava il Palermo in Coppa Uefa. Poi invece cercava di capire i movimenti del dottore Falcone, che in quel periodo aveva preso servizio al ministero della Giustizia. Poi ancora era convinto che gli agguati da fare erano tanti. (…)
Il primo appartamento romano era in Viale Alessandrino, e apparteneva a un dentista, La Mantia, che era originario di Mazara e amico di Mariano Agate. Manco a farlo apposta (o fu fatto apposta? ah, saperlo…), Mariano Agate aveva trascorso un periodo di soggiorno obbligato a Roma, e lì aveva incontrato La Mantia per avere poi l’appartamento.
Solo che, minchia, arriviamo là, e ok, noi non è che volevamo l’appartamento extralusso con la Jacuzzi nella stanza da letto e il televisore a cinquanta pollici, ma, minchia, manco i cessi funzionavano! Manco acqua corrente c’era.
E quando arrivammo tutti a Roma, ci demmo appuntamento alla Fontana di Trevi per confonderci tra i turisti, perché per noi quello era il posto turistico per eccellenza di Roma. E la prima questione fu quella dell’appartamento. Chi era arrivato un paio di giorni prima aveva fatto un’esperienza terribile, non si poteva stare.
«Non vi preoccupate, c’è Gesù» disse Matteo. Qualcuno di noi pensò a un’improvvisa crisi mistica del nostro capo, che magari credeva in un Gesù tubista che miracolosamente allacciava acqua e corrente con una preghiera, ma in realtà apprendemmo subito che il Gesù di Matteo si chiamava Giacomino, ed era un altro siciliano a Roma, amico di Scarano, che ci venne presentato tra l’altro la
prima volta da Matteo proprio di fronte alla Fontana di Trevi. E questo Giacomino Gesù, contattato da Matteo e Scarano, metteva a disposizione un appartamento con tre camere da letto, un bel salotto con le tende, sempre in una zona buona, e provvisto anche di una bella cucina, cosa che a noi importava poco perché avremmo sempre mangiato fuori, ma era meglio averla, no? La casa era della mamma di Gesù, che non sappiamo se si chiamava Maria, e avremmo magari potuto chiederglielo, però la signora era in Abruzzo da dei parenti e proprio per questo la casa era libera.
Quel Gesù fu molto generoso con noi, e per sdebitarci gli regalammo un po’ di cocaina, così magari se la vendeva e ci tirava su due lire, o faceva un miracolo come il suo omonimo e la moltiplicava come con i pani e i pesci, e ci poteva campare una vita. Amen. E quindi una prima cosa era sistemata.
Arrivò dalla Sicilia Giovan Battista Consiglio con il figlio, che gli aveva fatto compagnia durante il viaggio dato che lui ormai aveva una certa età, e non immaginava tutta la santabarbara che stava nascosta nel camion. Lo abbiamo aspettato al raccordo anulare, poi da lì siamo andati presso un capannone abbandonato, abbiamo sceso armi ed esplosivo e abbiamo caricato tutto nella macchina di Scarano, che lui si sarebbe portato tutto a casa e nascondeva la roba nello scantinato, tra le damigiane con l’olio buono, gli attrezzi e le cianfrusaglie di sua madre.
Poi abbiamo noleggiato un’auto, una Y10 bianca, targata Roma, con la carta di credito di Geraci che era l’unico ad avere la fedina penale bianca come quell’auto. E diciamo anche che quella carta di credito l’abbiamo prosciugata, in quei giorni. Noi lo prendevamo in giro: Minchia, Gerà, se eri in viaggio di nozze o te ne andavi a buttane ’sto viaggio ti costava meno! Ma Geraci non diceva nulla,
anche perché già prima del viaggio aveva dovuto dare su ordine di Matteo 20 milioni di lire a Scarano per il disturbo.
Noi intanto spendevamo: in Via Condotti abbiamo comprato camicie e cravatte, perché ci piaceva fare i pedinamenti eleganti, se no ci avrebbero sgamati subito; Matteo si comprò anche un cappotto colore cammello come in quella canzone «che al Maxiprocesso eravate ’u chiù bello», uè. Da lì cominciammo a cercare: Falcone, Martelli, Costanzo. Un po’ in Via Arenula, dove c’è il ministero della Giustizia, un po’ nelle zone di Parioli. Siamo stati in giro per una decina di giorni. E, dobbiamo dire, senza grande successo.
Ogni mattina si partiva con l’auto, a turno, si andava in Via Arenula, e ogni sera si giravano le zone di Trastevere per capire dove andasse a mangiare il dottore Falcone, se era al Matriciano, o alla Carbonara, o da Sora Lella, o nel locale preferito di Matteo, il ristorante Dei Gracchi. Eravamo convinti che li avremmo incontrati. Per due o tre sere siamo stati a Parioli, abbiamo anche seguito i movimenti di Costanzo, ci mettevamo all’uscita del teatro dove registrava il suo programma, a un certo punto sembravamo quasi fan che aspettavano l’autografo. Nel teatro non siamo entrati. La verità? Ci annoiava. Cioè, a noi il Costanzo Show come programma neanche piaceva, pensate vederlo dal vivo! Una sera ci siamo andati a teatro, ma mica lì, al Bagaglino, che quello ci divertiva
anche in televisione, con Pippo Franco e l’attore che faceva sempre la femmina, e un sacco di pilu. Al Bagaglino, tra l’altro, siccome invitavano spesso i politici, magari avevamo una botta di culo e capitavamo in una puntata in cui invitavano Martelli o qualcun altro che interessava a noi.
Comunque, tornando a Costanzo, era quello più facile da fare. Non era scortato, faceva sempre gli stessi movimenti, ci potevamo sparare, ci potevamo mettere l’autobomba, o meglio, piazzare l’esplosivo in un cassonetto che era vicino il teatro, in un vicolo dal quale l’auto ogni sera doveva svoltare. Insomma, potevamo anche chiamare i napoletani.
Qui dobbiamo aprire una parentesi, per una cosa che avevamo notato, e che pensavamo sarebbe stata oggetto di discussione, e invece è finita e morta lì. Noi avevamo le armi, ok, per uccidere il dottore Falcone e tutti gli altri, e all’occorrenza l’esplosivo. Che erano due sacchi belli grossi, tipo cento chili. Solo che non avevamo detonatori, telecomandi, micce, non avevamo nulla, solo la polvere. Questa cosa ogni tanto tornava nei nostri discorsi, perché qualcuno capitava che lo dicesse: sì, dobbiamo fare l’attentato, ma come? E Matteo diceva di non preoccuparci. E come sempre nessuno osava più continuare. Chi ci avrebbe aiutato? Non lo sapevamo, non lo abbiamo mai
saputo… Perché questa è la domanda che vi inquieta più di tutte: ma davvero avete fatto tutto da soli? E la risposta è semplice: noi abbiamo fatto quello che andava fatto. E soli non siamo stati, mai.
La sera poi ci si vedeva in qualche ristorante affollato, e ognuno riferiva a Matteo quello che aveva visto: nessuno ci notava. Geraci faceva sempre teatrino, perché ogni volta, quando c’era da pagare il conto, doveva tirare fuori la sua carta di credito. Ma Matteo glielo diceva: poi ti restituisco tutto. E a noi picciotti invece ci avrebbero dato cinque milioni di lire a testa.
Eravamo eleganti, eravamo bellissimi. Stavamo bene nella capitale d’Italia, eravamo felici. E avremmo voluto anche mandare un telegramma alla mamma per dire di questa città, Roma, grande piena luci gioielli stop. Passeggiando per Roma, a un certo punto, ci venne anche una fantasia. Di conquistarla. Di farla nostra. Avevamo grande stupore nello scorgere il Colosseo, i Fori, le chiese monumentali, il cupolone di San Pietro, tutto arrivato ai giorni nostri, questa Italia di rovine di ogni età e di generi che sembrava offrirsi al nostro desiderio come una buttana, anzi, no… questa città di cadaveri, ecco. Mai avevamo provato una sensazione così pura e completa. E capitava che ci sorprendevamo fermi, immobili, a contemplare le rovine, immaginando come un giorno, noi, proprio noi, con Matteo, avremmo potuto fare rinascere vita intorno a questi resti superbi e paralitici. Ridando loro magnificenza. Altri anfiteatri, altre chiese, altri palazzi. Altra potenza. Vi sembrerà strano, ma era un pensiero che ci riempiva di gioia: eravamo di fronte all’infanzia del mondo.
E poi Matteo disse: se ci dobbiamo mettere la bomba, ci vuole il permesso di Riina. E mandò Sinacori a Palermo, per chiedere la specifica autorizzazione. Riina sorprese tutti: non dovete fare nulla, dice, perché ci sono in ballo cose più grosse. E Sinacori tornò subito a Roma che pareva che manco era partito o che l’aveva fatta a piedi correndo come un turco, tanto era trafelato e pallido, quando bussò alla porta del nostro appartamento per dire: picciotti, dobbiamo andare via, lo zio Totuccio mi ha detto che è tutto sospeso. «Dicci a Matteo di tornare indietro», sono state le sue parole. «Dicci ai picciotti di scinnere, me la sbrigo io qua».
Tutto sospeso, ci dice Matteo. Ok. Torniamo giù, in Sicilia, ognuno per i fatti suoi. Scendiamo lenti come i corvi. Ci rivedemmo a Palermo, di nuovo nella calda nudità di luce della Sicilia, per aggiornarci. Parlammo poco, ma fu un silenzio vorace. Ognuno sapeva un pezzetto di quello che sarebbe accaduto, lo stretto necessario. Solo Matteo sapeva tutto.
E infatti qualche settimana dopo acchiappò a Geraci e gli fece:
«È meglio che per un po’ a Palermo non ci vai».
«In che senso, Mattè?».
«Nel senso che non devi andare a Palermo».
Ma Geraci lavorava, aveva la gioielleria, andava e veniva da Palermo con i suoi fratelli tutti i giorni perché aveva fornitori in zona, e altre faccende. Stava per arrivare maggio, mese di sposalizi e di regali di matrimonio. E allora Matteo gli disse: «Vabbè, fai così, allora, a Palermo ci puoi
andare, se proprio devi. Ma non prendere l’autostrada. Esci ad Alcamo, e ti fai tutta la statale, la strada vecchia».
Dopo la strage di Capaci, Matteo poi disse a Geraci:
«Adesso puoi andare a Palermo». E gli fece come una specie di sorriso.
da “Matteo va alla guerra”, di Giacomo Di Girolamo, Zolfo Editore, 288 pagine, 18 euro
Matteo Messina Denaro, il mafioso più misterioso della Sicilia. GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 16 giugno 2022
Messina Denaro non custodisce gli ultimi segreti sulle stragi, perché è lui il “segreto”. Ancora una volta, i fatti, il territorio, le carte parlano. Ed è incredibile, oggi, notare come Matteo Messina Denaro fosse un killer e un capomafia già a trenta anni nel pieno del suo potere, ma assolutamente sconosciuto alle forze dell’ordine...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene dal 22 al 26 giugno a Lamezia Terme.
1992 - 2022: 30 anni dopo le terribili stragi di mafia, su quegli eventi sappiamo molto. Eppure ci sembra di non sapere nulla. È per questo che, ogni tanto, fa capolino un pensiero: chiedete a Matteo Messina Denaro. È lui il temibile boss di Castelvetrano, latitante dal 1992, pupillo di Totò Riina, a custodire i segreti inconfessabili sugli eventi che portarono alle stragi di Capaci, Via D’Amelio, alle bombe del ‘93.
Riina lo diceva, a fine ‘92, quasi presagendo la sua prossima cattura: «Se mi succede qualcosa, Matteo e Giuseppe sanno tutto». Giuseppe è Graviano, boss palermitano, altro rampollo della mafia corleonese. Riina poi viene catturato a Gennaio del ‘93. E Messina Denaro ha tempo di portarsi delle cose con sé, ci dicono alcuni pentiti, dall’ultima casa dove era ospite lo zio Totò. Documenti? Pizzini? Agende? Via via, negli anni, questi segreti sono cresciuti, hanno assunto una forma fisica, sono diventati, addirittura, in qualche articolo, un “baule”.
Ma io non me lo immagino Messina Denaro girare dietro con un baule di segreti, non fosse altro che per scomodità.
Ma, ancora di più, adesso che più invecchio e più cresce in me un senso di disincanto, non riesco neanche ad immaginarlo custode di chissà quali segreti. Primo, perché Cosa nostra per noi ormai non ha più segreti. I collaboratori di giustizia, soprattutto di quegli anni, ci hanno raccontato tutto. Segreti, invece, hanno altri, che Cosa nostra hanno sfruttato, in quel periodo come nel resto della storia dell’organizzazione criminale, e che non parleranno mai, perché mai avremo un pentito di Stato, se così lo vogliamo chiamare, che ci racconta l’altra parte della trattativa perenne tra istituzioni e criminalità organizzata, che è la cifra del nostro paese.
E poi sono convinto che Messina Denaro non abbia chissà quali segreti perché sono riemerso da poco da un lavoro di grande immersione, un lavoro di carotaggio, di più, una faticaccia da palombaro. Nella confusione di questi tempi, tra decine di “rivelazioni” che durano lo spazio di un tweet, accuse reciproche, sospetti e ricostruzioni “inedite”, ho deciso di fare quello che ogni giornalista scrittore dovrebbe fare. Tornare alla fonte, fare parlare le carte, i fatti, i territori. È tutto lì, mi sono detto. Basta risalire alla sorgente. La sorgente sono i fatti che hanno portato alle stragi del ‘92 - ‘93, la loro organizzazione ed attuazione, le tessere del mosaico messe insieme con cura. E questo viaggio in risalita ed in profondità, alla foce e nell’abisso di quegli anni, ha preso forma di un libro, e il libro si chiama Matteo va alla guerra.
Lavorando, ancora una volta, nelle viscere dei fatti, aumentano le domande - com’è giusto che sia - ma ci sono anche delle pietre angolari importanti. No, Matteo Messina Denaro non depositario degli ultimi segreti sulle stragi, perché Riina non gli ha detto tutto. Perché non diceva tutto a tutti, ma ad ognuno un pezzo della sua storia, ed era comunque la storia che vedeva Riina dalla sua prospettiva. Quando Messina Denaro va a Roma per pedinare Giovanni Falcone ed organizzare il suo omicidio nella capitale, non sa che, nelle campagne vicino Palermo, Brusca fa le prove con l’esplosivo che sarebbe servito per la strage di Capaci.
Messina Denaro, poi, aveva un compito preciso, in quella guerra, che si può riassumere con questo ordine: sparare alle spalle di chi fugge. Il suo compito cioè era quello di non permettere defezioni, all’interno di Cosa nostra, rispetto alla strategia stragista. Ecco, Messina Denaro custodisce questo tipo di segreti.
IL SEGRETO
E poi, c’è una terza cosa che va detta. Messina Denaro non custodisce gli ultimi segreti sulle stragi, perché è lui il “segreto”. Ancora una volta, i fatti, il territorio, le carte parlano. Ed è incredibile, oggi, notare come Matteo Messina Denaro fosse un killer e un capomafia già a trenta anni nel pieno del suo potere, ma assolutamente sconosciuto alle forze dell’ordine, ignoto alla magistratura, mai “nociuto”. Il suo alter ego palermitano, Giuseppe Graviano, ad esempio, in quegli stessi anni era già latitante. Messina Denaro non aveva fatto un giorno di galera. I primi “pentiti” che aiutarono Borsellino, procuratore a Marsala, nel ‘90 - ‘91, a ricostruire la mappa della mafia trapanese e del Belice, non fecero mai il suo nome. Mai un giorno di galera, mai una misura di prevenzione, un interrogatorio. Nulla. Sarà infatti latitante solo nel ‘93.
Ricercato in ambito internazionale solo dal ‘94. Il suo profilo criminale, la sua caratura, emergeranno solo negli anni, quando altri pentiti (Sinacori, Geraci, Patti) racconteranno davvero chi era, e cosa aveva combinato. Ma sarà già troppo tardi, per un fuggitivo che oggi sembra imperdibile. Come sia stato possibile tutto ciò, è la vera domanda da farsi, a proposito di quegli anni. Come sia stato possibile questa impunità alla luce del sole, questo agire quasi sfrontato, questo muoversi per l’Italia ad organizzare attentati e procurare esplosivo. Questo è il vero segreto. E la risposta potrebbe non piacere. GIACOMO DI GIROLAMO