Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LA GIUSTIZIA
NONA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA GIUSTIZIA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)
Una presa per il culo.
Gli altri Cucchi.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Un processo mediatico.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Senza Giustizia.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Qual è la Verità
SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Parliamo di Bibbiano.
Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.
La Sindrome di Stoccolma.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Giustizia Ingiusta.
La durata delle indagini.
I Consulenti.
Incompatibilità ambientale: questa sconosciuta.
Il Diritto di Difesa vale meno…
Gli Incapaci…
Figli di Trojan.
Le Mie Prigioni.
Le fughe all’estero.
Il 41 bis ed il 4 bis.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Simone Renda spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Angelo Vassallo spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Mario Paciolla spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.
Ingiustizia. L’inchiesta "Why not" spiegata bene.
Ingiustizia. Il caso di Novi Ligure spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Garlasco spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Pietro Maso spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Marcello Pittella spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Angelo Burzi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Cogne spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Ciatti spiegato bene.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il tribunale dei media.
Soliti casi d’Ingiustizia.
Angelo Massaro.
Anna Maria Manna.
Cesare Vincenti.
Daniela Poggiali.
Diego Olivieri.
Edoardo Rixi.
Enrico Coscioni.
Enzo Tortora.
Fausta Bonino.
Francesco Addeo.
Giacomo Seydou Sy.
Giancarlo Benedetti.
Giulia Ligresti.
Giuseppe Gulotta.
Greta Gila.
Mario Tirozzi.
Massimo Garavaglia e Mario Mantovani.
Mauro Vizzino.
Michele Iorio.
Michele Schiano di Visconti.
Monica Busetto.
Nazario Matachione.
Nino Rizzo.
Nunzia De Girolamo.
Piervito Bardi.
Pio Del Gaudio.
Samuele Bertinelli.
Simone Uggetti.
INDICE SESTA PARTE
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Giustizialisti.
I Garantisti.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Cupola.
Gli Impuniti.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.
Palamaragate.
Magistratopoli.
Le toghe politiche.
INDICE NONA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero di piazza della Loggia.
Il Mistero di piazza Fontana.
Il Mistero della Strage di Ustica.
Il mistero della Moby Prince.
I Cold Case italiani.
Il Caso del delitto del Circeo: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez.
La vicenda della Uno Bianca.
Il mistero di Mattia Caruso.
Il caso di Marcello Toscano.
Il caso di Mauro Antonello.
Il caso di Angela Celentano.
Il caso di Tiziana Deserto.
Il mistero di Giorgiana Masi.
Il Giallo di Ponza: Gian Marco Pozzi.
Il caso di Cristina Mazzotti.
Il Caso di Marta Russo.
Il giallo di Polina Kochelenko.
Il Mistero di Martine Beauregard.
Il Caso di Davide Cervia.
Il Mistero di Sonia Di Pinto.
La vicenda di Maria Teresa Novara.
Il Caso di Daniele Gravili.
Il mistero di Giorgio Medaglia.
Il mistero di Eleuterio Codecà.
Il mistero Pecorelli.
Il Caso di Ernesto Picchioni: il primo assassino seriale italiano del '900.
Il Caso Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.
Il Caso Bruno Caccia.
Il mistero di Acca Larentia.
Il mistero di Luca Attanasio.
Il mistero di Evi Rauter.
Il mistero di Marina Di Modica.
Il mistero di Milena Sutter.
Il mistero di Tiziana Cantone.
Il Mistero di Sonia Marra.
Il giallo di Giuseppe Pedrazzini.
Il giallo di Mauro Donato Gadda.
Il giallo di Piazzale Dateo, la strage di Capodanno a Milano.
Il Mistero di Nada Cella.
Il Mistero di Daniela Roveri.
Il caso di Alberto Agazzani.
Il Mistero di Michele Cilli.
Il Caso di Giorgio Medaglia.
Il Caso di Isabella Noventa.
Il caso di Sergio Spada e Salvatore Cairo.
Il caso del serial killer di Mantova.
Il mistero di Andreea Rabciuc.
Il caso di Annamaria Sorrentino.
Il mistero del corpo con i tatuaggi.
Il giallo di Domenico La Duca.
Il mistero di Giacomo Sartori.
Il mistero di Andrea Liponi.
Il mistero di Claudio Mandia.
Il mistero di Svetlana Balica.
Il mistero Mattei.
Il caso di Benno Neumair.
Il mistero del delitto di via Poma.
Il Mistero di Mattia Mingarelli.
Il mistero di Michele Merlo.
Il Giallo di Federica Farinella.
Il mistero di Mauro Guerra.
Il caso di Giuseppe Lo Cicero.
Il Mistero di Marco Pantani.
Il Mistero di Paolo Moroni.
Il Mistero di Cori: Elisa Marafini e Patrizio Bovi.
Il caso di Alessandro Nasta.
Il Caso di Mario Bozzoli.
Il caso di Cranio Randagio.
Il Mistero di Saman Abbas.
Il Caso Gucci.
Il mistero di Dino Reatti.
Il Caso di Serena Mollicone.
Il Caso di Marco Vannini.
Il mistero di Paolo Astesana.
Il mistero di Vittoria Gabri.
Il Delitto di Trieste.
Il Mistero di Agata Scuto.
Il mistero di Arianna Zardi.
Il Mistero di Simona Floridia.
Il giallo di Vanessa Bruno.
Il mistero di Laura Ziliani.
Il Caso Teodosio Losito.
Il Mistero della Strage di Erba.
Il caso di Gianluca Bertoni.
Il caso di Denise Pipitone.
Il Mistero dei coniugi Aversa.
Il mistero di Lidia Macchi.
Il Mistero di Francesco Scieri.
Il Caso Emanuela Orlandi.
Il mistero di Mirella Gregori.
Il giallo del giudice Adinolfi.
Il Mistero del Mostro di Modena.
Il Mistero del Mostro di Roma.
Il Mistero del Mostro di Firenze.
Il Caso del Mostro di Marsala.
La misteriosa morte di Gergely Homonnay.
Il Mistero di Liliana Resinovich.
Il Mistero di Denis Bergamini.
Il Mistero di Lucia Raso.
Il Mistero della morte di Mauro Pamiro.
Il mistero di «Gigi Bici».
Il Mistero di Anthony Bivona.
Il Caso di Diego Gugole.
Il Giallo di Antonella Di Veroli.
Il mostro di Foligno.
INDICE DECIMA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero di Ilaria Alpi.
Il mistero di Luigi Tenco.
Il Caso Elisa Claps.
Il mistero di Unabomber.
Il caso degli "uomini d'oro".
Il caso delle prostitute di Roma.
Il caso di Desirée Mariottini.
Il mistero di Alice Neri.
Il Mistero di Matilda Borin.
Il mistero di don Guglielmo.
Il giallo del seggio elettorale.
Il Mistero di Alessia Sbal.
Il caso di Kalinka Bamberski.
Il mistero di Gaia Randazzo.
Il caso di Giovanna Barbero e Maria Teresa Bonaventura.
Il mistero di Giuseppina Arena.
Il Caso di Angelo Bonomelli.
Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.
Il caso di Sabina Badami.
Il caso di Sara Bosco.
Il mistero di Giorgia Padoan.
Il mistero di Silvia Cipriani.
Il Caso di Francesco Virdis.
La vicenda di Massimo Alessio Melluso.
La vicenda di Anna Maria Burrini.
La vicenda di Raffaella Maietta.
Il Caso di Maurizio Minghella.
Il caso di Fatmir Ara.
Il mistero di Katty Skerl.
Il caso Vittone.
Il mistero di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi.
Il Caso di Salvatore Bramucci.
Il Mistero di Simone Mattarelli.
Il mistero di Fausto Gozzini.
Il caso di Franca Demichela.
Il Giallo di Maria Teresa “Sissy” Trovato Mazza.
Il caso di Giovanni Sacchi e Chiara Barale.
Il caso di Luigia Borrelli, detta Antonella.
Il mistero di Antonietta Longo.
Il Mistero di Clotilde Fossati.
Il Mistero di Mario Biondo.
Il mistero di Michele Vinci.
Il Mistero di Adriano Pacifico.
Il giallo di Walter Pappalettera.
Il giallo di Rosario Lamattina e Gianni Valle.
Il mistero di Andrea Mirabile.
Il mistero di Attilio Dutto.
Il mistero del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino.
Il mistero di JonBenet Ramsey.
Il Caso di Luciana Biggi.
Il mistero di Massimo Melis.
Il mistero di Sara Pegoraro.
Il caso di Marianna Cendron.
Il mistero di Franco Severi.
Il mistero di Norma Megardi.
Il caso di Aldo Gioia.
Il mistero di Domenico Manzo.
Il mistero di Maria Maddalena Berruti.
Il mistero di Massimo Bochicchio.
Il mistero della morte di Fausto Iob.
Il Delitto di Ceva: la morte di Ignazio Sedita.
Il caso di Stefano Siringo e di Iendi Iannelli.
Il delitto insoluto di Piera Melania.
Il giallo dell'omicidio di Nevila Pjetri.
Il mistero di Jessica Lesto.
Il mistero di Stefania Elena Carnemolla.
L’omicidio nella villa del Rastel Verd.
Il Delitto Roberto Klinger.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il mistero della strage della Stazione di Bologna: E’ Stato la Mafia.
LA GIUSTIZIA
NONA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Il Mistero di piazza della Loggia.
Strage Piazza Loggia, processo di revisione per Tramonte: per la sorella e l’ex moglie «quello in foto non è lui». Redazione Online su Il Corriere della Sera l'8 Luglio 2022.
In corso l’udienza in tribunale. Al centro del dibattito la figura di Maurizio Tramonte, condannato all’ergastolo, che oggi tornerà in aula: le discordanze sulla fotografia d’epoca al centro degli interrogatori
«In questa foto non è lui, anche il naso è diverso». Lo ha detto Manuela Tramonte, sorella di Maurizio Tramonte, nell’udienza davanti alla corte d’appello di Brescia per la revisione del processo per la strage di piazza della Loggia. «In quel periodo era più cicciotto e aveva i capelli molto corti», ha detto la sorella maggiore dell’uomo, condannato all’ergastolo per l’esplosione che il 28 maggio 1974 uccise 8 persone e ne ferì altre 102. La tesi è stata avallata anche da Patrizia Foletto, moglie di Tramonte all’epoca dei fatti, che ha spiegato di non aver mai evidenziato la differenza tra le fotografie perché non aveva capito potesse essere utile alle indagini.
Il 70enne Maurizio Tramonte torna oggi in aula, collegato dal carcere, dopo che la seconda sezione penale della corte d’Appello ha accettato la richiesta di revisione, presentata dagli avvocati Baldassare Lauria e Pardo Cellini. L’uomo è stato condannato in via definitiva all’ergastolo per aver partecipato ad una riunione in cui venne pianificata l’esplosione. I legali dell’ex `Fonte Tritone´ del Sid hanno presentato una nuova perizia antropometrica realizzata con un software americano su una fotografia scattata poco dopo lo scoppio e in cui, tra le persone ritratte, ci sarebbe anche Maurizio Tramonte
Terzo livello. La nuova inchiesta sulla strage neofascista di Brescia porta lì dove nessuno poteva immaginare. Il comando Nato di Verona. di Carlo Bonini (coordinamento editoriale) e Massimo Pisa. Coordinamento multimediale di Laura Pertici. Produzione Gedi Visual, su La Repubblica il 27 gennaio 2022.
Quando l'hanno battuta le agenzie, poco prima di Natale, la notizia ha faticato a conquistarsi una breve. Due chiusure indagini per la strage di piazza della Loggia e due nuovi e semisconosciuti estremisti di destra accusati di aver messo la bomba che dilaniò Brescia alla fine del maggio di 48 anni fa, uccise otto persone, ne ferì un centinaio, inaugurò l'ennesima stagione dello stragismo di mano neonazista con la complicità di pezzi dello Stato.
La strage «più politica»: piazza della Loggia a Brescia. Francesco Giambertone su Il Corriere della Sera il 30 gennaio 2022.
La bomba del 28 maggio 1974, , chiude la strategia della tensione cinque anni dopo piazza Fontana, uccide otto persone. Tra loro c’è Livia i, insegnante 32enne, moglie dell’impiegato e sindacalista Manlio Milani, che in quella piazza, a differenza di lei, si salverà. E che da quasi 50 anni porta avanti - con molti altri - la memoria di quella strage.
È sua la voce che apre (e guida) la terza puntata di , la serie podcast scritta da Giovanni Bianconi con Alessandra Coppola, disponibile per gli abbonati a Corriere.it (oppure su Audible), che ripercorre i grandi eventi criminali – ma non solo criminali – che hanno cambiato il corso della storia repubblicana e che ancora presentano molti lati oscuri.
(Qui sotto il teaser dell'episodio, qui la puntata integrale)
La bomba di piazza della Loggia in qualche modo chiude la strategia della tensione, cinque anni dopo piazza Fontana, seguita due mesi dopo dalla strage dell’Italicus e anticipata, un anno prima, da quella alla Questura di Milano. È la strage più «politica»: non colpisce a caso chi passa in una banca o viaggia su un treno, ma gli aderenti a una manifestazione antifascista convocata dai sindacati. Una strage su cui sono rimasti insoluti diversi misteri laterali: come l’omicidio di Ermanno Buzzi, neonazista condannato in primo grado all’ergastolo per la bomba a Brescia (ma quel processo si rivelò un depistaggio), trasferito nel carcere di Novara e qui ucciso dai neofascisti Concutelli e Tuti nel 1981, alla vigilia del processo di appello, in cui avrebbe forse fatto rivelazioni...
Strage di Piazza Loggia, Toffaloni: «Anche a Brescia gh’ero mi. Son sta mi». Mara Rodella su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.
Le ammissioni di Toffaloni ritenuto allievo di Besutti (fu indagato). La pista atlantica della bomba: le riunioni pure alla Nato di Verona. Zorzi e quei «vuoti investigativi».
Uno aveva 16 anni (ancora per pochi giorni). E la mattina del 28 maggio 1974, stando al «Registro assenze generali» del Liceo Girolamo Fracastoro di Verona, era «presente a scuola». Impossibile documentare quando e per quanto, però. Il secondo, invece, 20enne, «dalle 7.45 alle 10.45», secondo le dichiarazioni rese dalla figlia, nell’agosto di quell’anno, se ne stava «al bar della stazione delle filovie di Porta San Giorgio». Il primo si chiama Marco Toffaloni e vive in Svizzera con una nuova identità: Franco Maria Muller. Per il procuratore aggiunto Silvio Bonfigli e il sostituto Caty Bressanelli, in concorso con Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi (condannati all’ergastolo in via definitiva), «allo scopo di attentare la sicurezza interna dello Stato, appartenendo all’organizzazione eversiva Ordine Nuovo, che aveva promosso l’attentato nell’ambito della pianificazione di una serie di azioni terroristiche, agendo quale autore materiale», in piazza Loggia, ha «concorso nel collocamento dell’ordigno esplosivo» nel cestino. C’è una foto, a immortalarlo sul posto, e una antropometrica a confermarne la compatibilità. Il secondo è Roberto Zorzi e nello stato di Washington alleva dobermann nel suo allevamento, «Il littorio»: per gli inquirenti avrebbe «partecipato alle riunioni in cui l’attentato veniva ideato, manifestando la sua disponibilità e rafforzando il proposito di Toffaloni in particolare». Agli atti, cinque faldoni, quasi trecento mila pagine, centinaia di verbali, intercettazioni, informative e documentazione d’archivio.
Per incastrare i riscontri a carico dei due presunti esecutori della strage, ma anche (ri)chiamare nomi noti o ricostruire il presunto ruolo di Silvio Ferrari, all’epoca. Toffaloni e Zorzi: legati dall’eversione nera e da un super teste che ne ha confermato le ideologie e i movimenti. E le presunte coperture. Perché le riunioni stragiste sarebbero state organizzate anche nella caserma dei carabinieri di Parona Valpolicella, nell’ex sede del centro di controspionaggio, a Verona, e addirittura a Palazzo Carli, sede del comando Fatse. La Nato. Anche Silvio Ferrari, stando alle rivelazioni del super testimone, vi avrebbe preso parte, «accolto» da alti ufficiali.
Che Toffaloni («cauto e accorto nell’operare nel mondo oscuro dell’eversione») quindi la bassa manovalanza, giovanissima, degli ordinovisti veronesi, abbia avuto un ruolo nella strage bresciana lo avrebbe detto lui stesso al pentito Giampaolo Stimamiglio a inizio anni novanta: «Anche a Brescia gh’ero mi. Son sta mi». L’ordigno glielo avrebbe consegnato il suo «maestro» Roberto Besutti: origini mantovane e militanza veneta, anche lui nell’ottobre 2011 viene indagato dalla procura. Morirà nel maggio 2012.
«Sono 14 anni che non ho più contatti con gente vicina a Ordine Nuovo», disse Toffaloni nel 1989 al giudice istruttore di Bologna che lo sentì in relazione alle indagini sulle Ronde Pirogene. Quindici anni prima, invece, aveva negato ogni contatto con il movimento. Sarebbe passato poi nel gruppo «Anno Zero» salvo poi militare nei «Guerriglieri di Cristo Re». Lo chiamavano «Tomaten» perché arrossiva spesso — sembrava tenero ma era un duro, nella credenza di casa la zia, da cui si era trasferito, trovò una rivoltella. Il quadro probatorio, per gli inquirenti, ne restituisce «la personalità fuori dal comune e contestualizza la sua presenza all’interno di una consorteria capace di operare anche a Brescia con violenza e determinazione».
Frequentava il poligono di Verona, lo stesso in cui era iscritto anche Carlo Digilio (armiere degli ordinovisti, avrebbe messo in sicurezza l’esplosivo destinato a Brescia) ed era grande amico di Roberto Zorzi, il «marcantonio» dalla corporatura robusta figlio di un marmista, colui che stando ai camerata dell’epoca, «guidava il gruppo». E che era in città quando, il 21 maggio 1974, furono celebrati i funerali di Silvio Ferrari, saltato in aria con la sua Vespa in piazza del Marcato: fece recapitare una corona di fiori con l’ascia bipenne e il nastro di raso, firmata «I camerati di Anno Zero». Proprio tra il 28 e il 29 maggio 1974 Zorzi — «un tipo particolare, che mescolava la politica alla religione» e «diceva di vedere la Madonna», «viene condotto dai carabinieri in caserma a Verona, perchè sospettato di essere stato tra gli autori della strage di piazza Loggia». Ma mai viene perquisito o le sue presunte menzogne sugli occupanti veronesi della Fiat 600 con cui venne al cordoglio per Ferrari confutate: gli accertamenti troppo «scarni», nei suoi confronti, superficiali. Anche la figlia del bar della stazione delle filovie, risentita dagli inquirenti nel 2015, ha ammesso: «Mai visto una foto, di lui non ricordo assolutamente», quella mattina del 28 maggio.
· Il Mistero di piazza Fontana.
L’anniversario della strage, Piazza Fontana la strana inchiesta da Mister X a Valpreda. Massimo Pisa La Repubblica il 12 Dicembre 2022.
La tesi del colonnello Giraudo, liquidata a Milano, ha trovato ascolto a Brescia in un fascicolo su piazza della Loggia. Ma senza riscontri
La storia giudiziaria di piazza Fontana si è chiusa nove anni fa. Ma un’inchiesta parallela e ufficiosa è andata avanti almeno fino al 2020 e Repubblica è in grado di documentarla. Ha avuto come motore il colonnello del Ros Massimo Giraudo, e come regia la procura di Brescia. Ha mischiato anarchici e fascisti, Valpreda e “Mister X”, Merlino e un elettrauto, il “Paracadutista” e “l’Antiquario”, fino a un magistrato in pensione. Sta nelle carte dell’ultima indagine sulla bomba di piazza della Loggia del 1974, conclusa con la richiesta di rinvio a giudizio per Marco Toffaloni e Roberto Zorzi.
Il 12 dicembre 1969, alle 16.37, la storia d'Italia precipita nel suo pozzo nero: è l'ora della strage di piazza Fontana, della bomba che uccide 17 persone e apre quella che poi verrà definita la strategia della tensione. Nelle foto d'archivio ripercorriamo a cinquant'anni da quel giorno quanto avvenne in quei giorni: dai primi sopralluoghi dopo la bomba, con l'atrio della Banca nazionale dell'agricoltura trasformata in uno scenario di guerra, ai funerali di Stato in Duomo, con migliaia di milanesi in una piazza fredda e coperta di nebbia, e le istituzioni in chiesa, fino ai funerali dell'anarchico Giuseppe, Pino, Pinelli, considerato la 18esima vittima di piazza Fontana.
Origine e bocciatura
L’antefatto è del 15 luglio 2009: la comunicazione di notizia di reato informativa in 22 pagine che Giraudo, dopo aver letto il controverso libro di Paolo Cucchiarelli (Il segreto di piazza Fontana, quello della tesi della “doppia bomba”) inviò al pm milanese Massimo Meroni. Prospettava l’ipotesi che l’anarchico Pietro Valpreda — il primo “mostro” della vicenda, incastrato dalle questure di Roma e Milano e assolto solo nel 1987 — avesse davvero messo una bomba a basso potenziale nella banca (poi “raddoppiata” dai neonazisti), e che l’esplosivo di piazza Fontana fosse lo stesso utilizzato poi a Brescia, come testimoniato da un anonimo “Mister X” a Cucchiarelli. La risposta del procuratore aggiunto Armando Spataro fu durissima, inibiva il colonnello a proseguire senza deleghe ma il fascicolo, su istanza dei parenti delle vittime, fu comunque aperto. Si riempì di vaghe testimonianze degli ex ordinovisti Giampaolo Stimamiglio e Gianni Casalini, delle allusioni del “barone nero” Tomaso Staiti di Cuddia a un abbaino nei pressi della Scala (presunta base degli artificieri della strage), e dei deliri del mitomane Alfredo Virgillito. Cucchiarelli, convocato dai magistrati, si rifiutò di rivelare “Mister X” e finì indagato. La richiesta di archiviazione, firmata il 24 aprile 2012 da Spataro e dal pm Grazia Pradella, bocciò senza appello i nuovi spunti e l’ufficiale del Ros che li aveva proposti. Giraudo, però, continuò a godere della fiducia dei pm bresciani e proseguì nelle indagini su piazza della Loggia.
Da Verona a Valpreda
Interrogando l’ex ordinovista veronese Claudio Lodi, il 13 dicembre 2012, il colonnello riprese il filo. Lodi avvalorava un presunto (e mai riscontrato dai fatti) passato ordinovista di Pietro Valpreda, un suo ruolo da finto anarchico e da operativo nella trama stragista. Ombre che si riallacciavano a una vecchia traccia: nel 1971 la testimone Adriana Zanardi gettò sospetti sull’ex fidanzato dell’epoca, il parà nero (e figlio di direttore di banca) Claudio Bizzari, privo di alibi il 12 dicembre 1969 e allusivo sulle responsabilità di Valpreda. A Bizzari come esecutore materiale di piazza Fontana aveva pure accennato il pentito Carlo Digilio nel 1994.
La conclusione di Giraudo finì in due informative dell’8 gennaio e 8 aprile 2013: recuperavano alcune teorie formulate dall’ergastolano Vincenzo Vinciguerra e saldavano Valpreda al filo delle trame nere, insieme al paracadutista Bizzari e agli ordinovisti duri e puri veronesi. Il materiale venne trasmesso da Brescia a Milano, stavolta senza risposta. Così come le ricostruzioni che attribuivano un ruolo da tecnico degli ordigni di piazza Fontana a Ugo Cavicchioni, chiacchierato elettrauto di Rovigo in contatto con Franco Freda (il suo nome compariva nelle agende del legale padovano). Fecero il percorso inverso, in direzione di Brescia, i colloqui tra il giudice Guido Salvini e il detenuto Cristiano Rosati Piancastelli, ex sanbabilino, antiquario, nipote di un collaboratore di Tom Ponzi. Spiegò che in piazza Fontana c’erano telecamere nascoste, piazzate dal superdetective privato, a riprendere tutto. Le bobine andavano cercate in chissà quale baule. Il 30 settembre 2013 il decreto di archiviazione firmato dal gip Fabrizio D’Arcangelo, e il suo giudizio sulla “radicale infondatezza della notizia criminis”, mise un freno a spunti e illazioni.
Ripresa e “Mister X”, finalmente
Alla fine del 2018, il colonnello Giraudo tornò a cercare la gola profonda delle due stragi. Tra colloqui e analisi di tabulati telefonici, la trovò: Giancarlo Cartocci, ex ordinovista romano diventato addetto stampa in Parlamento con Pino Rauti, e già lambito tra il ’69 e il ’72 dai sospetti di aver partecipato gli attentati romani (quelli senza vittime) del 12 dicembre. Cartocci — ormai vecchio e malato — venne intercettato e interrogato otto volte. Qualcosa ammise, molto negò, soprattutto le sue conoscenze sugli esplosivi e gli autori delle stragi, su doppie bombe e partecipazione degli anarchici. Né aggiunse dettagli l’interrogatorio del 6 giugno 2019 a Mario Merlino, amico di Cartocci, l’infiltrato nero nel circolo anarchico di Pietro Valpreda, anch’egli uscito indenne dai processi. Ma l’escursione bresciana sui misteri della Banca dell’Agricoltura non finì lì.
L’ultimo filone seguito dal colonnello Giraudo ha preso spunto da La maledizione di piazza Fontana, il memoir del giudice Guido Salvini. Dopo la morte del “Paracadutista” Bizzari, indicato come il depositore della borsa omicida, l’ufficiale interrogò (era il 19 dicembre 2019) la vedova Manuela Olivieri, che però nulla sapeva. La maratona investigativa è terminata (per il momento) il 27 febbraio 2020 a Vicenza davanti all’ex magistrato Giovanni Biondo. Che negli anni Settanta fuggì in Spagna per evitare di essere processato come complice di Freda e Ventura. Salvini aveva raccontato di un colloquio particolarmente imbarazzante per l’ex collega, sull’orlo della confessione di cose indicibili. A verbale, però Biondo non confermò nulla. Nemmeno un briciolo di mistero.
Depistaggi e complicità: la strage di piazza Fontana. Francesco Giambertone su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.
La seconda puntata della serie audio sulle verità nascoste della storia della Repubblica racconta «la madre di tutte le stragi», che diede vita alla strategia della tensione.
Milano, venerdì 12 dicembre 1969. Sotto il grande tavolo nel salone Banca Nazionale dell’agricoltura, in piazza Fontana, esplode una bomba che uccide 17 persone, seguita da una scia di cadaveri e omicidi lunga molti anni, dalla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli al delitto del commissario Luigi Calabresi. La madre di tutte le stragi, quella che fa esplodere la strategia della tensione, è il tema della seconda puntata di «Nebbia - Le verità nascoste nella storia della Repubblica» , la serie podcast scritta da Giovanni Bianconi con Alessandra Coppola, disponibile per gli abbonati a Corriere.it (oppure su Audible), che ripercorre i grandi eventi criminali – ma non solo criminali – che hanno cambiato il corso della storia repubblicana e che ancora presentano molti lati oscuri.
La serie podcast «Nebbia» (qui la presentazione firmata da Roberto Saviano) racconta storie di giustizia negata, soprattutto a causa di depistaggi che hanno deviato le indagini e coperto responsabilità. Dieci episodi per dieci tappe fondamentali che si snodano tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Novanta, narrati attraverso le testimonianze dirette dei protagonisti – a partire dai familiari delle vittime –, dettagli «minori» che svelano trame più grandi, intrecci fra vicende apparentemente slegate che aiutano a ricostruire il contesto in cui tutto è accaduto.
· Il Mistero della Strage di Ustica.
Ustica non è un film: la verità è nelle carte desecretate da Draghi. Inviati all’Archivio di Stato centinaia di documenti, trentadue dei quali sono stati significativamente raggruppati sotto la dizione Ustica. Carlo Giovanardi su Il Dubbio il 16 ottobre 2022.
Scusandomi del ritardo posso soltanto oggi rispondere all’articolo di Valter Vecellio sul Dubbio del 28 luglio 2016 intitolato “Strage di Ustica, Giovanardi se ha le carte decisive le tiri fuori”.
Vecellio faceva riferimento alle carte depositate presso i Servizi Segreti, su cui il governo Renzi aveva tolto il segreto di Stato ma di nuovo classificate come Segrete e Segretissime , visionabili pertanto soltanto da magistrati o membri di Commissioni parlamentari di inchiesta, come era il sottoscritto allora facente parte della Commissione di inchiesta sulla morte di Aldo Moro.
In tale veste, assieme a colleghi che avevano fatto formale richiesta, ho potuto nel 2016 leggerle e annotarle, con la diffida a renderle pubbliche, reato perseguibile sino a tre anni di carcere in base al combinato disposto della legge 124 del 2007 e dell’ art 326 del Codice penale.
Le carte da me annotate riguardano il carteggio tra il governo italiano ed il nostro capocentro del Sismi a Beirut Col. Stefano Giovannone, dopo il sequestro a Ortona a fine 1979 di missili terra aria per cui erano stati arrestati e condannati gli Autonomi di Daniele Pifano e il referente dell’Olp in Italia Abu Saleh, residente a Bologna.
In tutti questi anni, unitamente alle signore Flavia Bartolucci e Giuliana Cavazza, rispettivamente figlie del generale Lamberto Bartolucci e della signora Anna Paola Pelliccioni, che perse la vita nella esplosione del DC 9 Itavia, presidenti della Associazione per la verità su Ustica, abbiamo ripetutamente chiesto la desecretazione di quegli atti, ricevendo sempre un deciso rifiuto.
Addirittura nel giugno del 2020 sono stato pubblicamente convocato a Palazzo Chigi per sentirmi di nuovo ripetere dal governo Conte che per tutelare l’interesse nazionale quelle carte dovevano rimanere segrete, cosa che venne notificata anche formalmente alla signora Cavazza che aveva chiesto l’ accesso agli atti.
Viceversa finalmente il governo Draghi, anche su nostra sollecitazione, ha desecretato e inviato all’Archivio di Stato centinaia di documenti, trentadue dei quali sono stati significativamente raggruppati sotto la dizione Ustica.
Per comprendere l’importanza di questi documenti riporto quanto da me annotato nel 2016, nella parte coincidente con i documenti desecretati (altri non risultano ancora depositati :
16 novembre 1979: si afferma che Arafat ha compreso che l’episodio di Ortona costituisce la prova, sino ad allora mancante, della collusione tra palestinesi e terrorismo internazionale, che potrebbe coinvolgerli in responsabilità per operazioni più efferate degli anni precedenti, tra cui la stessa vicenda Moro;
12 maggio 1980: si fa presente che il 18 sarebbe scaduto l’ultimatum quale termine ultimo per la risposta da parte delle Autorità italiane alla richiesta del Fronte di scarcerare Saleh, notando che in caso di risposta negativa la maggioranza della dirigenza e la base del Fronte di Liberazione Popolare della Palestina intende riprendere, dopo 7 anni, la propria libertà di azione nei confronti dell’Italia e dei suoi interessi con operazioni che potrebbero anche colpire innocenti. L’interlocutore ha lasciato capire che il ricorso alla azione violenta sarebbe la conseguenza di istigazione della Libia, diventata il principale sponsor dell’Fplp, ha affermato che nessuna azione avrà luogo prima della fine di maggio e probabilmente senza che vadano date specifiche comunicazioni;
27 giugno 1980 : il 27 giugno alle ore 10 (quella sera esplode il DC 9 Itavia sui cieli di Ustica ndr ) Beirut riferisce che “l’Fplp avrebbe deciso di riprendere piena libertà di azione senza dare corso a ulteriori contatti a seguito del mancato accoglimento del sollecito del nuovo spostamento del processo. Se il processo dovesse aver luogo e concludersi in senso sfavorevole mi attendo reazioni particolarmente gravi in quanto l’Fplp ritiene di essere stato ingannato e non garantisco sicurezza Ambasciata Beirut”.
La frase “dopo 7 anni” si riferisce chiaramente all’ accordo stipulato con i palestinesi per una moratoria sugli attentati in Italia dopo quello all’Aeroporto di Fiumicino del 1973 che causò ben 32 morti e 15 feriti.
L’esistenza del quale accordo il cosiddetto lodo Moro) è stato ribadito nel giugno 2017 nella commissione d’indagine parlamentare su Moro da Bassam Abu Sharif, ex braccio destro di George Habash, a quei tempi segretario generale dell’Fplp, che ha riferito di aver personalmente assistito alla sua definizione tra Habash e il governo italiano.
Ricordo inoltre a Vecellio che i generali dell’ Aeronautica accusati di tradimento per Ustica sono stati assolti tutti con formula piena, dopo aver rinunciato alla prescrizione, e che la sentenza definitiva bolla come ipotesi da fantascienza o film giallo quella dei fantomatici missili e battaglia aerea.
Di più: la perizia depositata nel processo penale, firmata da 11 dei più famosi periti aeronautici ( due inglesi, due svedesi, due tedeschi e cinque italiani ) indica senza alcun dubbio nell’esplosione di una bomba nella toilette di bordo la causa dell’abbattimento del DC9 Itavia.
Nel mese di agosto 2022 l’Associazione sulla verità su Ustica ha comunque presentato una istanza alla magistratura chiedendo il sequestro probatorio del DC 9, nel 2006 consegnato in custodia giudiziaria al comune di Bologna che l’ha rimontato per una esposizione museale, per consentire una nuova superperizia.
L’istanza è stata rigettata dal Gip di Roma con la motivazione che le perizie e le consulenze esperite al massimo livello nel processo penale da specialisti italiani e stranieri sono state ritenute esaustive, confermando così implicitamente le conclusioni della sopracitata Commissione Misiti sulla esplosione di una bomba a bordo.
In questo quadro ancora più sconcertanti sono le motivazioni con le quali il Gip di Bologna dottor Bruno Giangiacomo il 9 febbraio 2015 ha archiviato il procedimento penale a carico di Thomas Kram, il terrorista tedesco collegato a Carlos di cui è stata accertata giudizialmente la presenza a Bologna l’ 1 e 2 agosto 1980.
Scrive Giangiacomo: “Sul lodo Moro si rinvia alla richiesta di archiviazione che correttamente pone in evidenza che la sua stipulazione non è stata accertata né sono state accertate precise occasione di concreta tolleranza, da parte dello Stato italiano, del porto illegale di armi ed esplosivi da parte di agenti delle organizzazioni palestinesi.
Non è tuttavia, neppure possibile escludere che funzionari dei servizi di sicurezza o esponenti di fazioni politiche dello Stato italiano possano aver operato, riservatamente e volta per volta, per assicurare la impunità agli agenti palestinesi e per il trasporto di armi ed esplosivi sul territorio italiano, qualora destinati contro obiettivi esteri, in cambio della neutralizzazione del territorio e degli interessi italiani dalle operazioni terroristiche; ma anche se queste attività fossero state consentite ed effettuate, esse non sarebbero state comunque eseguite in attuazione di un previgente accordo e sarebbero state comunque illegali, per quanto rivolte alla sicurezza del territorio e dei cittadini italiani”.
Per inciso ricordo che il giudice istruttore Aldo Gentile, che indagava sulla strage del 2 agosto, incontrò ripetutamente Abu Saleh, dopo che nell’agosto del 1981 era stato scarcerato per decorrenza dei termini della custodia cautelare, e addirittura lo autorizzò a recarsi in settembre per una settimana a Roma.
Siamo poi a pochi giorni dal quarantesimo anniversario dell’assalto terroristico alla Sinagoga di Roma e la Comunità Ebraica ha giustamente chiesto la verità sul perché ai quattro terroristi palestinesi venne lasciata libertà d’azione (e di fuga) malgrado i servizi avessero segnalato il pericolo di attentati, e di nuovo si è parlato apertamente di applicazione del Lodo Moro.
Il vero problema allora, caro Vecellio, è capire perché davanti a questa lunga scia di sangue la Ragion di Stato, in nome dell’ “interesse nazionale”, abbia coperto con il Segreto di Stato prima e con la classifica Segreto e Segretissimo poi documenti fondamentali per scoprire gli autori di questi efferati crimini.
Sarebbe ora che magistrati, storici e giornalisti di fronte a tale sterminata documentazione e non negando più l’evidenza, smettessero, in particolare su Ustica, di dar credito a film, sceneggiati, documentari, canzoni, ballate e baracconate varie sulle 32 versioni della fantomatica e inesistente battaglia aerea e si applicassero nella ricerca della verità e dei responsabili di quella strage.
Sono passati 42 anni ma forse siamo ancora in tempo.
Cade il Dc-9 Itavia il dramma di Ustica. In prima pagina quel 28 giugno del 1980. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il il 28 Giugno 2022.
La notizia è arrivata in redazione molto tardi, ma in tempo per essere pubblicata in prima pagina su La Gazzetta del Mezzogiorno del 28 giugno 1980.
«Caduto in mare un aereo per Palermo con 81 persone a bordo»: è l’annuncio dell’ennesima strage che avviene in un Paese già martoriato dalla bomba di Piazza Fontana a Milano, dall’eccidio di piazza della Loggia a Brescia e da una lunga serie di fatti di sangue che purtroppo non si interromperà in quel 1980.
Un Dc-9 della Compagnia aerea Itavia non dà più notizie dalle 20.45: è praticamente certo che sia caduto in mare. «Il Dc-9 IH 870 serie 10, partito da Bologna alle 20.02, doveva arrivare a Palermo alle 21.45. L’ultimo contatto radio si è avuto sulla verticale dell’isola di Ponza alle 20.55; il radar l’ha seguito per altre 30 miglia poi l’immagine è scomparsa», si scrive sulla Gazzetta.
Il volo Bologna-Palermo era programmato alcune ore prima ma a causa di ritardi accumulati dall’aereo prima di arrivare all’aeroporto «Guglielmo Marconi» di Bologna, il decollo è avvenuto solo alle 20.02. «Le operazioni di imbarco sono state regolari e il velivolo, proprio a causa del ritardo, ha potuto evitare i temporali che sul Bolognese si sono abbattuti nel tardo pomeriggio».
Le ricerche del DC-9 sono coordinate dal centro di soccorso aereo di Martina Franca dell’Aeronautica Militare: «Sono impegnati elicotteri abilitati al volo notturno e battelli della Marina militare, la nave “Carducci”, i traghetti “Clodia” e “Nomentana”, un rimorchiatore e una motovedetta. In tutta la zona in cui si svolgono le ricerche dell’aereo disperso le condizioni del mare sono cattive (forza 5) e c’è un forte vento da nord-ovest che ostacola in particolare il compito degli elicotteri. Le ricerche si sono concentrate in un’area a 10 miglia a nord di Ustica», conclude il cronista. In piena notte appare l’ultimo aggiornamento: «Secondo notizie apprese all’ 1,40… la nave “Clodia” avrebbe avvistato due razzi di segnalazione e si starebbe dirigendo verso l’indicazione ricevuta, nel tratto di mare tre le isole di Ustica e Ponza».
Quello stesso 28 giugno 1980 ci sarà il drammatico ritrovamento dei resti dell’aereo. La notizia sarà ufficiale: nessun superstite. Su 81 morti solo 38 salme saranno recuperate: 77 passeggeri, tra cui 14 bambini, e 4 membri dell’equipaggio. All’indomani della strage, sorgono i primi sospetti. Ecco le prime ipotesi: «un sabotaggio, un missile, uno scontro con un aereo Nato». Dopo 42 anni, i parenti delle vittime e il Paese intero aspettano ancora la completa verità su quella notte.
Il "Funerale dopo Ustica" non è ancora terminato. Luca Crovi l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.
Un'edizione accresciuta del libro del 1989 dedicato a uno dei tanti misteri italiani.
Funerale dopo Ustica è una spy-story singolare che Loriano Macchiavelli pubblicò per la prima volta nel maggio del 1989 da Rizzoli, firmandola con lo pseudonimo di Jules Quicher. Lo scrittore emiliano all'epoca aveva già scritto molti romanzi, ottenendo il meritato successo grazie all'originale serie noir di Sarti Antonio con cui aveva raccontato luci e ombre di Bologna, e decise di progettare una trilogia più complessa che sarebbe stata dedicata ai segreti italiani.
Una sequenza di romanzi che sarebbe poi stata completata dai successivi Strage e Noi che gridammo al vento (dedicati rispettivamente alla strage di Bologna e a quella di Portella della Ginestra). Funerale dopo Ustica fu il primo progetto di quel genere a essere proposto al pubblico ed ebbe un buon successo, anche perché funzionò l'idea di aver ideato uno pseudonimo particolare per lanciarlo. Macchiavelli si celò infatti dietro il misterioso Jules Quicher che appariva in copertina e per il quale inventò una singolare biografia: «esperto di problemi della sicurezza al servizio di una famosa multinazionale svizzera. Ha lavorato per circa vent'anni in tutto il mondo (anche in Italia per circa quattro anni, in periodi diversi). Questo è il suo primo romanzo; lo firma con pseudonimo perché desidera vivere in pace, non per maniacale culto della riservatezza. Cinquantenne, sposato con tre figli (due femmine e un maschio che frequenta i corsi di una celebre accademia militare europea), vive in una villa su un lago della Svizzera. Di madre italiana e di padre svizzero-francese, Jules Quicher parla e scrive alla perfezione in italiano e francese (sue lingue madri), e in inglese, tedesco e spagnolo». Oggi nel ridare alle stampe Funerale dopo Ustica (Sem Edizioni, pagg. 528, euro 20) l'autore non solo si riappropria del suo vero nome, ma propone una versione aggiornata e ampliata del libro che lo rende attualissimo, anche per i lettori contemporanei abituati al ritmo serrato dei thriller e alle atmosfere cupe di certi noir storici. Come racconta lo stesso Macchiavelli, «ho aggiunto capitoli e brani che tengono conto di alcuni dei troppi segreti relativi al DC 9 abbattuto sul mare di Ustica. Sono i pochi segreti emersi nelle successive indagini su quella drammatica strage, che purtroppo non hanno ancora portato alla completa verità. Com'è ormai consuetudine nel nostro paese. Ho aggiornato il testo per farlo aderire a una realtà più vera, se pure sempre fantastica, come deve essere per un romanzo. Sono convinto che questa versione abbia oggi una suggestione evocativa molto più forte che nel 1989. Oggi che possiamo vedere gli avvenimenti, distanti da noi nel tempo, con uno sguardo più pacato e con un dolore sempre acuto ma meno condizionato dalla tragedia che avvenne sul mare di Ustica in quel fatale 27 giugno del 1980, e proprio per questo più profondo e più critico».
Il lavoro di editing di questa versione del libro fu fatto per un po' di tempo con la collaborazione di Severino Cesari, all'epoca direttore editoriale di Einaudi, che voleva fortemente ristampare Funerale dopo Ustica (un desiderio che purtroppo con la sua scomparsa non si è concretizzato). Leggere oggi quel romanzo di Macchiavelli significa sentire «il racconto di una verità che fa paura» attraverso le pagine di una spy story scritta in maniera impeccabile che fa riflettere sul passato, ma anche sul presente della nostra Italia. Un'opera di fantasia che tiene d'occhio la Storia che ha preceduto e seguito la tragedia accaduta a Ustica. E dietro ai nomi di personaggi che sembrano immaginari, come l'ammiraglio Dikte dei servizi segreti della difesa, la doppia moglie dell'Onorevole Bellamia, l'onorevole Furoni o il pilota libico Adin Al Fadal o il meccanico aereo Ferdinando o l'agente dei servizi segreti spagnoli Hilario, i lettori possono immaginare quali fossero gli eventuali personaggi reali. Possono anche ipotizzare chi facesse parte del fantomatico Nucleo Sette e quali fossero i suoi scopi, possono entrare nei laboratori segreti gestiti dal Dottor Miland e possono indagare anche sul misterioso Victorhugo e sulle sue motivazioni. Realtà e fantasia si compenetrano in una storia che pone più di una questione e che Macchiavelli firma con serietà e divertimento.
Un'inchiesta in cui nessuna pedina è messa a caso sullo scacchiere e dove ognuno dei personaggi potrebbe cambiare il suo ruolo da un momento all'altro, per necessità o per opportunità. Esemplare per esempio la costruzione della biografia dell'onorevole Furoni che così ci viene presentato: «ex comandante partigiano, ex aderente al Partito d'azione, ex attivista del Partito comunista italiano, ex terrorista altoatesino e infine deputato al Parlamento italiano per conto di un partito dell'arco costituzionale e difensore delle riforme sociali e politiche». Nessuno degli eventi che ci viene raccontato da Macchiavelli è casuale. Non si può parlare di destino crudele davanti a certe tragedie per le quali ci sono precise responsabilità. E la fantasia, ha ragione lui, può essere davvero testimone della realtà solo «se tiene d'occhio la Storia che ha preceduto e seguito le tragedie, numerose, che ci hanno accompagnato negli ultimi settant'anni».
Il mistero dell'aereo abbattuto: la strage di Ustica. Francesco Giambertone su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.
Il settimo episodio della serie audio sulle verità nascoste della Repubblica racconta, con le voci dei protagonisti, un disastro aereo che dopo oltre 40 anni non ha ancora una spiegazione ufficiale, tra depistaggi e strane morti di possibili testimoni.
La sera di venerdì 27 giugno 1980 un aereo di linea Dc9 della compagnia Itavia decolla da Bologna diretto a Palermo. Non arriverà mai a destinazione: si inabisserà nei pressi dell’isola di Ustica, per motivi che in tanti hanno provato a nascondere. Di sicuro, quella notte il bireattore non viaggiava da solo. Una strage da 81 morti che a oltre quarant’anni non ha ancora una spiegazione, con processi celebrati e conclusi senza colpevoli e un’inchiesta giudiziaria ancora aperta. Con molti misteri intorno: le strane morti dei testimoni che avrebbero potuto incrinare il «muro di gomma», tra i quali Mario Dettori, maresciallo dell’aeronautica militare che quel giorno era in servizio alla base radar di Poggio Ballone. Oppure Franco Parisi, radarista alla base di Otranto: entrambi impiccati nel 1987. Che cosa ha fatto precipitare il DC9, in quella notte di «guerra di fatto e non dichiarata»?
Ustica, il fascino delle fake news è ancora un ostacolo per la giustizia. 30/07/2020 Bologna. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella accompagnato Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica, visita il Museo per la Memoria. ALFREDO ROMA su Il Domani l'11 gennaio 2022.
Sulla tragedia di Ustica, in cui morirono 81 persone per l’abbattimento del DC9 Itavia in volo da Bologna a Palermo, sono usciti recentemente due libri controcorrente: «Ustica, un’ingiustizia civile» e «Ustica, i fatti e le fake news».
Per i media la tesi del missile era molto più affascinante perché coinvolgeva aerei della portaerei USA Saratoga in rada a Napoli, aerei francesi, libici e italiani, il possibile passaggio nei cieli di Ustica di Gheddafi.
Questa ricostruzione, su cui si basano anche i risarcimenti alle famiglie delle vittime, è completamente smentita dalla sentenza penale. Ma ha impedito di indagare meglio la pista di una bomba e di avere una idea più obiettiva di quella strage.
ALFREDO ROMA. Alfredo Roma, economista, già presidente dell'Ente Nazionale Aviazione Civile (Enac) e dell'European Civil Aviation Conference (Ecac), ex coordinatore nazionale del Programma Galileo presso la presidenza del Consiglio dei ministri.
Cosa è successo nel 1980. Strage di Ustica, la verità negata della bomba a bordo del Dc9 Itavia. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Dicembre 2021. Quella di Ustica è una storia scritta su pagine bruciate della storia italiana. E non è bene parlarne come di una questione aperta, perché esiste una sorta di comitato di vigilantes della menzogna che campano di rendita sulla menzogna, e ne hanno fatto per così dire un logos, un marchio di fabbrica. Mettiamoci nelle braghe dei tempi, o come si dovrebbe dire, contestualizziamo perché quella di Ustica è una faccenda, estremamente divisiva, perché divide chi ha mentito da chi ha detto il vero. E perché malgrado le sentenze – che rispettiamo e troviamo tuttavia molto obiettabili, per così dire, si tratta ancora di una strage senza autore, o con molti autori in circostanze in parte vere, in parte dubbie e per una gran parte figlie di ipotesi che poggiano su altre ipotesi.
Ciò che viene taciuto è che in quella strage così come nella successiva della Stazione di Bologna un mese più tardi, è in perfetta funzione il “Lodo Moro” anche se Moro non c’entra, ovviamente, visto che il Presidente della Dc era già stato eliminato con una delle più sfacciate, mostruose e ben protette operazioni criminali e politiche della nostra triste Storia. Se fu un attentato con bomba a bordo, allora gli autori dell’attentato vanno certamente cercati nell’area islamica allora attivissima in Italia ed era l’area dell’Olp di Yasser Arafat, ma più che altro di un altro leader dell’organizzazione per la liberazione della Palestina, il dottor George Abbash, cristiano peraltro, e altri membri militari attivi per esempio nell’Fplp.
Noi non sappiamo chi mise la bomba ma tutte le informazioni e le prove portano solo nella direzione della bomba e anche i pubblici ministeri dovettero ammettere che solo l’ipotesi della bomba soddisfaceva tutti gli indizi e le prove, ma è avvenuto che per un patto tacito e terribilmente operativo, non si dovesse in alcun modo ammettere che l’aereo fosse stato turato già con i suoi passeggeri da una bomba come probabile rappresaglia, già annunciata dai gruppi terroristici di allora. La tesi della bomba è stata derisa e criminalizzata anche perché l’aereo partì in ritardo e dunque “come potevano i terroristi sapere del ritardo?”. Potevano e come: in mille modi. Per esempio, azionando un timer che si sarebbe avviato solo al decollo, oppure con un timer a pressione e altri tipi di innesco perfettamente aggiornati. Secondo l’onorevole Zamberletti che era allora capo della Protezione civile, Ustica fu l’avvertimento e Bologna fu la punizione. Molti sono gli indizi, ma nessuno ha voluto indagare in quella direzione, dunque, se non sono state cercate le prove allora reperibili, è ovvio che oggi sia impossibile trovarne.
Ma tutta la vicenda di Ustica avvenne all’insegna del linciaggio del dissidente, della diffamazione del diverso parere, una compattezza sfacciata del pensiero unico e unificato. Colgo quindi l’occasione di questi ricordi cronologici per tentare di spiegare meglio il disastro materiale e morale che passa sotto il nome convenzionale di Ustica. La strage di Ustica del giugno 1980, avvenne quando il DC-9 della Compagnia Itavia, decollato con grande ritardo da Bologna e diretto a Palermo si inabissò per un evento improvviso (una bomba? Un missile? Un aereo che volava parallelamente a distanza cortissima?) nelle acque che circondano l’isola di Ustica. Morirono tutti, ma si disse subito che c’era qualcosa di unico, eccezionale e anzi inaudito in questo disastro e io allora ero un semplice cronista, anche piuttosto meticoloso. I lettori mi perdoneranno se cerco di ricordare a chi non ha vissuto quell’epoca, l’importanza sia emotiva che reale della guerra fredda. La guerra fredda interveniva anche in casi clamorosi di qualsiasi genere e in quegli anni si dava regolarmente la colpa agli americani. In subordine ai francesi.
La domanda che quasi tutti si posero fu: come e perché gli americani hanno abbattuto l’aereo di Ustica? O in seconda battuta i francesi che erano molto presenti sullo scenario europeo di quegli anni con molte azioni segrete dei loro corpi speciali. Poi, più tardi, riesaminai la questione sotto ogni aspetto anche come membro del Parlamento. E infine scrissi un libro che per metà è composto da documenti intitolato Ustica verità svelata per l’editore Bietti, libro ormai fuori commercio. Mi rendo conto che quanto sto per dire non è condiviso dalla maggior parte dei miei concittadini, i quali sono stati a mio parere intossicati con una azione crescente. E tenuti all’oscuro dei fatti reali. Non mi aspetto quindi di farmi molti nuovi amici raccontando dei fatti che considero molto importanti e totalmente trascurati.
Primo fatto: la strage di Ustica avviene un mese prima (33 giorni) di quella di Bologna. Che sia ipotizzabile una relazione? Risposta: mah.
Secondo elemento: che cosa fece di colpo cadere l’aereo che stava placidamente avvicinandosi all’aeroporto di Palermo Punta Raisi? Due le ipotesi più gettonate: missile, o bomba a bordo. Il DC9 della compagnia Itavia caduto a Ustica aveva una toilette nel centro della fila di sinistra (guardando verso la cabina di pilotaggio) e questo elemento avrà la sua importanza.
Quanto all’ipotesi del missile, appresi che i missili aria-aria di quei tempi non colpivano il loro bersaglio come un ago può colpire un palloncino, ma quando i sensori rilevavano una determinata distanza col bersaglio, gli “esplodevano in faccia” con milioni di frammenti che polverizzavano il bersaglio. L’aereo di Ustica, che fu ritrovato sui fondali da una compagnia di recuperi sottomarini, era smembrato in cinque o sei grandi pezzi, ma non era stato mai investito da una miriade di schegge, né presentava un foro d’entrata. Telefonai a un uomo chiave di quella tragedia: il colonnello dell’aeronautica Guglielmo Lippolis che era in forze presso la Protezione Civile. Bisogna ricordare che i corpi e i sedili restarono a galleggiare per molte ore e che l’Espresso pubblicò in copertina una raccapricciante foto in cui si vedevano tutti questi cadaveri galleggianti legati alla loro poltrona prima di inabissarsi. Telefonai al colonnello, con cui in seguito parlai altre due volte e aveva la voce rotta dall’emozione: «Vede – mi disse – io vengo da un’altra tragedia: quella di un barcone carico di fuochi artificiali, esploso in acqua uccidendo tutti gli uomini dell’equipaggio. E siamo riusciti a ricostruire secondo le bruciature riportate dalle vittime le loro posizioni rispetto al punto dell’esplosione.
Qui è la stessa cosa: con l’elenco dei passeggeri e i loro sedili abbiamo subito trovato quelli che erano più vicini al fornello dell’esplosione e poi le bruciature sono sempre meno intense. È un lavoro terribilmente triste – concluse Lippolis – ma il risultato è inequivocabile: questo aereo è stato danneggiato e fatto inabissare da una bomba situata esattamente dietro il pannello della toilette». Gli chiesi se avrebbe testimoniato portando in tribunale questa sua verifica diretta sui cadaveri del DC9 di Ustica e lui mi assicurò che l’avrebbe fatto immediatamente. Quando ci riparlammo il processo volgeva al termine con i protagonisti divisi in molti partiti: quello del missile, della bomba del quasi-contatto, dello scontro frontale in aria. Erano stati creati due scenari del tutto immaginari ma molto utili per il wargame processuale: fu inventata di sana pianta la storia secondo cui Muammar Gheddafi, il dittatore libico, viaggiasse su un mig di ritorno da un Paese dell’Est e che dei caccia americani, o forse francesi, tentarono di abbatterlo, e che il pilota libico trovandosi a portata del DC9 Itavia ebbe la bella idea di mettersi sotto la pancia dell’aereo il quale si sarebbe preso un missile destinato a Gheddafi, nell’omertà generale.
Il secondo scenario è quello del wargame: nel corso di una esercitazione elettronica, in parte simulata e in parte vera, operata dalla nostra aeronautica militare, ops, parte un missile vero che abbatte il DC9. Richiamai dunque Lippolis e gli chiesi se avesse testimoniato: «Sì, mi hanno chiamato a testimoniare ma mi hanno impedito di raccontare ciò che avevo visto e controllato di persona e mi fu ingiunto di rispondere esattamente alle domande che mi venivano fatte. ed erano domande di dettaglio che non avevano nulla a che vedere con la mia posizione di testimone». La testimonianza di Lippolis dimostrava senza dubbio che il DC9 fosse esploso per una bomba a bordo e che i pubblici ministeri pian piano se ne convinsero, ma c’era un problema. Il problema era il necessario risarcimento alle famiglie delle vittime che non fossero quei quattro soldi dell’assicurazione. Ci voleva un colpevole, un escape goat, un capro espiatorio che ponesse sul banco dei condannati uomini dello Stato affinché lo Stato potesse risarcire in modo adeguato le vittime e le loro famiglie.
L’aereo fu tirato su a pezzi dal fondo del mare dove un sottomarino francese addetto a questo genere di ricerche ritrovò quasi tutti i pezzi, salvo l’estremità della coda. Come li trovò? Attraverso la facile soluzione di un problema fisico: se prendete un aereo che vola a quella velocità secondo quella traiettoria e un oggetto esplosivo lo disarticola nelle sue giunture, considerata velocità, massa e forma, dove finiranno i pezzi? Qui, là, e laggiù. E il sottomarino trovò tutto e il caso fu risolto: il disgraziato aereo è tornato in un hangar a grandi pezzi separati, ma non c’è alcuna traccia di missile. Il pannello che fu colpito dall’esplosione manca, probabilmente disintegrato. Il segreto di Stato copre la tremenda bugia e quando fu chiesto al governo Conte di dar prova di amore per la verità, il segreto fu confermato.
E poi c’è la vicenda del fisico inglese Mark Taylor che è uno dei massimi esperti di attentati aerei celebre anche per aver risolto il caso dell’aereo caduto nei cieli di Lockerbie dopo l’esplosione di una bomba a bordo messa da agenti libici, cosa che costrinse Gheddafi a risarcire le famiglie delle vittime.
A Taylor che spiegava per filo e per segno, dopo aver analizzato tutti i materiali, in che modo una bomba esplosa nella toilette avesse fatto collassare la struttura dell’aereo, fu opposta una obiezione stupidamente diabolica, che sentiamo puntualmente recitata con fiero cipiglio in televisione, e cioè che il sedile del gabinetto era intatto. Come può restare intatta una tavoletta del gabinetto se a pochi metri scoppia una bomba? Taylor rispose che è possibilissimo perché l’energia esplosiva non investiva la tavoletta nella sua traiettoria energetica e persino nei più feroci bombardamenti ci sono oggetti che si trovano in una posizione immune dalle contorsioni.
Taylor fu letteralmente cacciato dal tribunale. con ignominia. Lo ritrovai nell’aula magna del Cnr davanti a una enorme lavagna a spiegare la strage di Ustica causata da una bomba con tutte le coordinate e anche il materiale chimico trovato nella toilette dell’aereo. fibra per fibra, grado per grado, secondo per secondo, equazioni e un tormentato borbottare in inglese alla sola presenza di alcuni giornalisti specialisti di aeronautica e io soltanto che avevo seguito la sua triste vicenda e quella del nostro ingannato Paese, a proposito di patriottismo.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
· Il mistero della Moby Prince.
«Il mistero Moby Prince», il docu-film che cerca fare chiarezza. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022
Il film documentario di Salvatore Gulisano prodotto da Simona Ercolani cerca di far luce su uno dei troppi misteri del nostro Paese, sull’ennesima strage impunita
La sera del 10 aprile 1991, il traghetto Moby Prince salpa da Livorno diretto a Olbia. Al comando della nave c’è Ugo Chessa, un ufficiale di provata esperienza che ha percorso parecchie volte quella tratta. Dopo pochi minuti di navigazione, la Moby entra in collisione con una petroliera ancorata in rada, l’Agip Abruzzo, infilando la prua dentro una tanica della nave cisterna contenente greggio altamente infiammabile. È una strage: centoquaranta persone muoiono tra le fiamme a bordo della nave passeggeri, la più grande tragedia della marineria civile italiana. Un solo sopravvissuto. Ma è stato davvero un incidente? Nel corso degli anni sono emersi molti dettagli inquietanti che finiscono per proiettare sui fatti una luce sinistra, alimentando il sospetto che le cose non siano andate come riferito dalle ricostruzioni ufficiali.
«Il mistero Moby Prince», il film documentario di Salvatore Gulisano, prodotto da Simona Ercolani e Stand by me per Rai Documentari (Rai2), cerca di far luce su uno dei troppi misteri del nostro Paese, sull’ennesima strage impunita. Secondo la ricostruzione ufficiale, stabilita da due sentenze assolutorie e altrettante richieste di archiviazione, la causa dello scontro sarebbe stata «una nebbia fittissima». E non ci fu soccorso perché le vittime morirono pochi minuti dopo la collisione. Caso chiuso. Una verità, quella ufficiale, a cui i parenti delle vittime, in primis i figli del comandante, Angelo e Luchino, non hanno mai creduto, e che li ha portati a lottare in tutti questi anni per fare chiarezza sull’ennesimo «mistero d’Italia» (hanno impegnato tutto quello che avevano, hanno speso più di mezzo miliardo di vecchie lire per rendere giustizia alle vittime). «Il mistero Moby Prince» è uno di quei documentari che non riesci a smettere di guardare anche se ti gettano nello sconforto. Cosa c’è dietro la «nebbia fittissima», inadeguatezza o malafede?
Disastro Moby Prince: dopo 31 anni si scopre che la nave fantasma c’era davvero. Salvatore Righi su L'Indipendente il 17 settembre 2022.
La nave fantasma c’era davvero, allora. Ci sono voluti 31 anni e forse l’unica Commissione d’inchiesta che ha cavato il ragno dal buco, certamente l’unica che ha finito i propri lavori in anticipo, ma c’è una svolta sulla strage del Moby Prince. Un colpo di scena ben più grande e importante della virata che ha dovuto – inutilmente – compiere il traghetto della Navarma per evitare appunto l’imbarcazione senza nome né bandiera, sbucata dal nulla quella notte del 10 aprile 1991 nella rada del Porto di Livorno. A Palazzo San Macuto, all’esito dei lavori della commissione in chiusura per fine legislatura, la conclusione delle indagini ha illuminato alcune zone d’ombra sul più grave disastro marittimo italiano dell’epoca moderna. Una strage, appunto, senza colpevoli ma con 140 vittime, oltre ad una cicatrice ancora molto profonda sulla coscienza di questo Paese.
Per cominciare, la Commissione ha spazzato via una volta per tutte i depistaggi e le fumose ipotesi che hanno contribuito a tenere sommersa la verità del rogo del traghetto: nella rada labronica, quella notte di primavera, il mare era calmo e il tempo sereno. Non c’era nebbia, non c’era agenti atmosferici a complicare l’uscita dal porto della Moby Prince, o a ridurre la visibilità durante le sue manovre terminate poi col fragoroso e terribile impatto con la petroliera Agip Abruzzo, che si trovava in una posizione dove non avrebbe dovuto trovarsi e che era avvolta da vapori, lei sì, dovuti ad un’avaria. Che invece non ha avuto la Moby Prince, perfettamente efficiente sia nel motore che nelle eliche: i lavori della Commissione hanno tolto anche questa ipotesi dal tavolo, secondo la quale appunto la sala comando del traghetto non sarebbe riuscita a impedire l’impatto con la petroliera a causa di guasti tecnici.
Con la collaborazione di Cetena, società di ingegneria navale del gruppo Fincantieri che dal 1962 si occupa di consulenze e ricerca in campo nautico (tra le sue skills, simulazioni, fluidodinamica, prototipazione virtuale, analisi di ormeggio e ship survivability), la Commissione d’inchiesta ha però aggiunto un elemento fondamentale nella ricostruzione della tragedia. La causa dell’impatto tra la Moby e la petroliera è stata la presenza e le manovre fin troppo disinvolte di una nave, un terzo scafo, della cui presenza quella notte si è fin qui molto parlato, ma di cui appunto non c’era certezza. Una nave che si è trovata improvvisamente sulla rotta della Moby Prince in manovra per uscire dal porto, diretta in Sardegna, e che il traghetto ha cercato di evitare compiendo una virata di 15 gradi a sinistra nello spazio ristrettissimo di trenta o quaranta secondi. Una disperata sterzata del timone a bordo della nave del comandante Chessa e un brusco cambio di rotta che hanno provocato poi la tragica collisione con la petroliera: per evitare un ostacolo, secondo le indagini della Commissione, la Moby Prince è andata semplicemente a sbattere contro un altro.
Il problema è che il sipario calato sui lavori della Commissione, senza dimenticare i due processi celebrati nel frattempo e conclusi con un pugno di mosche, non ha permesso di dare un nome e una targa alla nave fantasma che ha provocato il disastro di 31 anni fa. La rosa dei sospetti, però, non è infinita. La sagoma che la Moby si è trovata improvvisamente davanti quella notte potrebbe essere quella di qualche bettolina impegnata nel contrabbando di petrolio (bunkeraggio) dalla Agip Abruzzo, e questo spiegherebbe forse anche il fatto che la petroliera fosse ormeggiata fuori posto nella rada. Oppure, e questo forse è il sospetto più concreto che ci lascia l’inchiesta della Commissione, l’ombra più grande, potrebbe trattarsi della “21 Oktober II“, una nave al centro di parecchie torbide trame riconducibili al traffico di armi e di rifiuti tossici. Si trattava di un peschereccio battente bandiera somala, ma in realtà nella sua stiva pare ci fosse tutt’altro che gamberetti e tonni, e che si trovava ufficialmente nel porto di Livorno per riparazioni, dimezzata nell’equipaggio (in parte aveva chiesto asilo politico in Italia). Fu anche vista da un testimone mentre quella sera lasciava l’ormeggio, pur essendo impossibilitata a farlo dai guasti per cui si trovava all’ancora in quel porto: come poteva navigare lo stesso? Non è l’unico punto interrogativo su quella nave che faceva parte della Shifco, una società di diritto somalo titolare di sei imbarcazioni, tra pescherecci e navi frigo, donate al governo africano da quello italiano. Ufficialmente, quelle navi dovevano servire per il trasporto e il commercio di pesce dall’Oceano Indiano a Gaeta, nel Lazio, ma ricostruendo le rotte della “21 Oktober II”, si è scoperto poi che toccava Beirut, il Golfo Persico e perfino le coste irlandesi.
Su quella nave, soprattutto, e sulle triangolazioni pericolose tra Somalia, Italia e Medio Oriente, si era concentrata l’attenzione di Ilaria Alpi e Miriam Hrovatin, prima di essere uccisi in un’imboscata a Mogadiscio nel 1994, tre anni dopo il disastro della Moby Prince. Il nome “21 Oktober II”, unito a Shifco, era finito del resto anche sotto la lente del Sismi che ha monitorato un summit dei vertici della compagnia tenutosi proprio nei giorni della strage di Livorno, a bordo del peschereccio e poi proseguito in un hotel alle porte di Reggio Emilia. Di certo, fino adesso nessuno ha realmente approfondito e indagato i movimenti di quella nave somala quella notte di aprile, in una rada che pullulava peraltro di altre imbarcazioni, a cominciare dalle sette navi militari americane (in principio erano ufficialmente tre, poi Washington ha dovuto ammettere la verità) che hanno scaricato proprio la notte del 10 aprile 1991 migliaia di tonnellate e munizioni: per la base di Camp Darby, dissero gli americani, anche se in realtà in quella base non sarebbe arrivata nemmeno una pallottola. C’era molto movimento di cui sappiamo ancora troppo poco, insomma, nella rada del porto di Livorno la notte in cui la Moby col suo carico di 140 persone è andata a fuoco, e i familiari delle vittime anche davanti alla Commissione, a Palazzo San Macuto, hanno usato a chiare lettere le parole che vergano ormai da anni: “depistaggio da parte di pezzi dello Stato”. [di Salvatore Maria Righi]
Francesco Grignetti per La Stampa il 16 settembre 2022.
È stato il disastro più raccapricciante della marineria italiana, la collisione tra il traghetto «Moby Prince» e la petroliera «Agip Abruzzo», nel porto di Livorno. Accadeva la sera del 10 aprile 1991. E dunque: un normale traghetto di linea misteriosamente urtò una petroliera che si trovava dove non avrebbe dovuto e prese fuoco. Quella sera si piansero 140 morti. Da trentuno anni ci si interroga su come sia stato possibile. E ora, in chiusura di legislatura, arrivano le clamorose conclusioni di una commissione d'inchiesta: c'era una terza nave misteriosa in rada, e fu proprio per evitarla che il comandante del traghetto virò precipitosamente.
Non fu un errore, bensì una manovra d'emergenza.
Solo che in questo modo la «Moby Prince» andò a sbattere contro la petroliera, che incredibilmente si era resa invisibile. «Per evitare la collisione certa con questa terza nave - ha spiegato il presidente della commissione, Andrea Romano, Pd - la "Moby Prince" effettuò una manovra di emergenza che la portò a collidere con la petroliera "Agip Abruzzo", che si trovava in una zona dove non doveva trovarsi e che in base alle nostre indagini e valutazioni era invasa da una nube di vapore acqueo, provocata da una possibile avaria dei sistemi che producevano vapore. Insieme a questo era stata colpita da un black-out tale da renderla di fatto invisibile agli occhi della Moby Prince».
Sono conclusioni assolutamente nuove e che contraddicono le verità giudiziarie, che finora avevano dato la colpa dell'incidente a una misteriosa nebbia e un inspiegabile errore del comandante.
Invece no. Ci si basa ora su una perizia effettuata da un brillante studio di ingegneria navale che apre nuovi scenari. «Purtroppo - dice ancora Romano - non siamo in grado di identificare la terza nave, ma diamo due piste su cui eventualmente lavorerà chi vorrà farlo».
Una pista porta alla nave "21 October II", un ex peschereccio battente bandiera somala, che sembra essere stato a Livorno per riparazioni dopo un incidente a Zanzibar. L'altra a una o più bettoline (imbarcazioni di piccole dimensioni che effettuano servizio di trasporto di merci o di liquidi verso navi più grandi in ambito portuale) a cui si fa riferimento nelle comunicazioni radio. Ma la fantomatica bettolina potrebbe essere stata la stessa nave somala, chissà.
Ricostruisce Romano: «Il comandante della petroliera nei primi momenti dice: "Ci è venuta addosso una bettolina"». Poi però ci sono anche altri aspetti inquietanti, «come quello di un tubo che fuoriusciva dalla "Agip Abruzzo" e che potrebbe, uso il condizionale, rimandare ad attività di bunkeraggio clandestino in cui avrebbero potuto essere coinvolte delle bettoline». Bunkeraggio clandestino, ovvero contrabbando di petrolio.
Forse il mistero della «Moby Prince» è tutto qui: in un'attività criminale nel porto di Livorno, il furto del petrolio dalla grande petroliera dell'Ente di Stato. In traffici di bettoline che facevano di tutto per nascondersi, a costo di mettere a rischio la navigazione dei traghetti di linea.
E anche l'avaria che avrebbe reso invisibile la «Agip Abruzzo» acquista un sapore diverso. Tutto quello che ne è seguito, depistaggi, false piste, processi imbastiti in fretta e furia, ipotesi campate in aria, sarebbe allora un gigantesco tentativo di nascondere le tracce.
E finora ha funzionato egregiamente. A dispetto di quel che si disse agli inizi, la commissione parlamentare ha reso onore all'equipaggio, che fece il suo dovere fino in fondo, avendo «raccolto tutti i passeggeri nel salone». Un comportamento «di valore e coraggio straordinari. I membri dell'equipaggio, infatti, sono eroicamente rimasti ai posti assegnati, nel tentativo disperato di salvare i passeggeri con loro imbarcati».
E infatti quella sera morirono tutti, i 65 membri dell'equipaggio (salvo il caso fortunatissimo di un mozzo) assieme ai 75 passeggeri. L'Eni, invece, non ha brillato per collaborazione con il Parlamento. «Questa Commissione ritiene di biasimare - si legge - il comportamento di Eni, connotato di forte opacità». Continua a non spiegare l'effettiva provenienza della petroliera, quale carico era realmente trasportato, quali le attività svolte in rada. E non ha giovato alla verità l'accordo assicurativo sulla collisione, siglato nell'immediatezza dei fatti «per la rappresentazione dei fatti prospettata e che in seguito fu accolta dall'autorità giudiziaria».
Moby Prince, una terza nave causò il disastro in cui morirono 140 persone. Il Tempo il 15 settembre 2022
Una novità clamorosa viene fuori dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro Moby Prince, avvenuto al largo di Livorno il 10 aprile 1991. Il traghetto di proprietà della Nav.Ar.Ma. si scontrò con la petroliera Agip Abruzzo: per le conseguene dell'impatto morirono 140 persone (65 membri dell’equipaggio e 75 passeggeri). "Lo scenario più vero della collisione coincide con un cambio di rotta improvviso della Moby Prince, più marcato di 15 gradi, nell’arco di 30-40 secondi, che fu provocato dall’improvvisa comparsa di una terza nave di fronte alla Moby Prince", ha detto il deputato del Pd, Andrea Romano, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro Moby Prince presentando la relazione conclusiva approvata oggi all’unanimità.
Per evitare la collisione certa con questa terza nave, spiega Romano, il traghetto effettuò una "manovra di emergenza che lo portò a collidere con la petroliera Agip Abruzzo, che si trovava in una zona dove non doveva trovarsi e che in base alle nostre indagini e valutazioni, era invasa da una nube di vapore acqueo, provocata da una possibile avaria dei sistemi che producevano vapore. Insieme a questo l’Agip Abruzzo era stata colpita da un black out tale da renderla di fatto invisibile agli occhi della Moby Prince".
Su quale fosse la terza nave, ci sono solo ipotesi. "Purtroppo non siamo in grado di identificare la terza nave ma diamo due piste su cui eventualmente lavorerà chi vorrà farlo - ha chiarito Romano - . Una pista è quella relativa alla nave 21 October II che è un ex peschereccio battente bandiera somala sul quale esistono incertezze circa la presenza davanti al porto di Livorno" dove si doveva trovare per alcune riparazioni dopo "un incidente a Zanzibar". "L’altra pista - ha aggiunto - è quella delle bettolina o bettoline, a cui si fa riferimento già nelle comunicazioni radio di quel momento. Il comandante della petroliera Agip Abruzzo Superina nei primi momenti dice ’ci è venuta addosso una bettolina'. Qui facciamo riferimento parziale ad altri elementi, come quello di un tubo che fuoriusciva dalla Agip Abruzzo e che potrebbe, uso il condizionale, rimandare ad attività di bunkeraggio clandestino in cui avrebbero potuto essere coinvolte delle bettoline".
L'attività della commissione "si è interrotta prima della fine della legislatura - ha concluso Romano - sappiamo con ragionevole certezza che si è trattato di una terza nave a provocare la collisione, purtroppo non possiamo darle un nome e dobbiamo limitarci ad indicare alcune piste".
Luca Serranò per repubblica.it il 15 settembre 2021.
"La Moby Prince è andata a collidere con la petroliera Agip Abruzzo per colpa della presenza di una terza nave comparsa improvvisamente davanti al traghetto che provocò una virata a sinistra che ha poi determinato l'incidente. Purtroppo questa nave non è ancora stata identificata con certezza".
Potrebbe essere vicina la verità sul disastro del Moby Prince, il traghetto della Navarma che la sera del 10 aprile del 1991 si scontrò con la petroliera Agip Abruzzo, provocando la morte di 140 persone. Come spiegato dal presidente della commissione parlamentare d'inchiesta, Andrea Romano, le indagini hanno accertato la presenza di una terza nave - circostanza affiorata anche nei giorni successivi la tragedia, ma mai riscontrata - che di fatto avrebbe provocato il disastro. L'imbarcazione, anche a causa della fine anticipata dei lavori della commissione, non è ancora stata identificata. Due le ipotesi, secondo Romano, su cui si dovrebbe investigare ancora: una bettolina (una chiatta per il trasporto merci), o un peschereccio somalo.
"Le perizie ci dicono che l'esplosione non fu causa della collisione", ha aggiunto ancora Romano presentando i risultati della relazione finale, in cui si esclude tra le altre cose la presenza di esplosivo a bordo del traghetto. Poi, riguardo le condizioni meteo di quella notte: "Sono state ricostruite con vari documenti o misure fatte da strumenti che si trovavano in quell'area: le conclusioni sono che visibilità di fronte al porto di Livorno era buona se non ottima, vento di pochi nodi, mare calmo e corrente marina ininfluente".
Le conclusioni della Commissione d'inchiesta. Strage Moby Prince, altro che nebbia: “disastro provocato da una terza nave” e ruolo opaco dell’Eni. Redazione su Il Riformista il 15 Settembre 2022
A provocare il disastro del 10 aprile 1991, quando lo scontro nella rada del porto di Livorno tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo provocò la morte di 140 persone (65 membri dell’equipaggio e 75 passeggeri), fu “una terza nave che non è stato possibile identificare con certezza” ma che ha costretto il traghetto a una virata improvvisa culminata con lo schianto contro la petroliera che non doveva trovarsi in quella posizione. E’ quanto emerge dalla conclusione dei lavori della Commissione di inchiesta parlamentare che ha approvato all’unanimità la relazione finale sulla strage avvenuta ben 31 anni fa. Commissione che ha “lavorato in collaborazione con le procure di Livorno e di Firenze” e ha stabilito che “le verità giudiziarie a cui si era arrivati in passato erano infondate” ha dichiarato il deputato del Pd, Andrea Romano, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro Moby Prince presentando la relazione conclusiva approvata oggi all’unanimità.
“La collisione tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo è avvenuta all’interno dell’area di divieto di ancoraggio nella rada del porto di Livorno, a seguito di una turbativa esterna della navigazione provocata da una terza nave che non è stato possibile identificare con certezza” aggiunge Orlando. Le vittime viaggiavano tutte sul traghetto diretto a Olbia: l’unico sopravvisto del Moby Prince fu il mozzo Alessio Bertrand.
Sulla mancata identificazione della terza nave coinvolta Romano spiega che “non abbiamo potuto dare risposte certe sull’identificazione del natante che ha causato la collisione perché non ne abbiamo avuto il tempo a causa della fine anticipata della legislatura, ma abbiamo suggerito nella relazione conclusiva due piste da seguire in futuro sia da parte della magistratura e del prossimo Parlamento”. La Commissione chiarisce poi la dinamica della collisione e il ruolo della terza imbarcazione: “La presenza di una terza unità navale in movimento ha interferito con la rotta del traghetto e obbligato Moby Prince a una virata a sinistra per evitare una collisione certa con essa, per poi andare a collidere con la petroliera ancorata dove non doveva essere e resa invisibile da un improvviso black out”.
La stessa Commissione offre due tracce per individuare la nave che provocò l’incidente: la prima porta alla 21 Oktobaar II, un ex peschereccio somalo; la seconda è relativa alla presenza di una o più bettoline “che stavano effettuando bunkeraggio clandestino”. Del resto, hanno accertato i commissari, la notte del 10 aprile 1991, “la navigazione si stava svolgendo con condizioni di visibilità buona, se non ottima, vento a regime di brezza e mare calmo” e che l’esplosione a bordo del Moby, “è avvenuta dopo la collisione”, pertanto negli anni scorsi le ipotesi “di nebbia, di una bomba sul traghetto o di una distrazione del comando della nave” come cause della collisione “hanno contribuito a creare confusione” creatasi nelle indagini. Sarà però la magistratura, e nello specifico la Procura di Livorno, a stabilire se siano state condotte negligenti o veri e propri depistaggi.
Secondo Romano “la Commissione ha avuto conferma della valutazione, pienamente condivisibile, fatta dalla Commissione senatoriale sul ‘comportamento di Eni connotato di forte opacità‘, riscontrata, in particolare, in merito alla determinazione dell’effettiva provenienza della petroliera, del carico realmente trasportato e delle attività svolte durante la sosta nella rada di Livorno: comportamento, dunque, certamente opaco che questa Commissione ritiene di biasimare”. Da qui l’appello all’Eni “a rendere pubblici i suoi documenti interni visto che forse sapeva che Agip Abruzzo si trovava dove non doveva essere, forse sapeva anche del black out o del vapore e perfino che forse era coinvolta in attività di bunkeraggio clandestino: noi abbiamo chiesto i materiali delle inchieste interne ma non li abbiamo avuti”.
All’agenzia Agi Luciano Chessa, uno dei due figli del comandante del Moby Prince commenta: “Ciò che sta emergendo è un risultato positivo. Già il presidente della commissione aveva dato delle indicazioni importanti che ribaltavano le verità processuali. E’ importante aver scoperto che la virata improvvisa del traghetto è stata legata alla presenza di una terza imbarcazione. Poi, certo, adesso bisognerà capire quale era questa terza nave. Sarà molto importante adesso sapere esattamente quale era questa terza nave”, ha osservato Chessa, “perché in questo modo si potrà capire chi ha lavorato per nascondere la verità e per quale ragione l’ha fatto”. Secondo Nicola Rosetti, vicepresidente del Comitato Moby Prince 140, “bisogna trovare i responsabili di quelle menzogne che da subito volevano farci credere che fu la nebbia e una tragica fatalità a determinare la morte di 140 persone”.
Moby Prince, non c'era esplosivo nel locale motore. La nuova perizia sul traghetto andato a fuoco nel 1992. "I reperti furono contaminati erroneamente". La Repubblica il 13 Settembre 2022.
Non c'era esplosivo nel locale motore dell'elica di prua e nel garage sovrastante all'interno del Moby Prince, il traghetto della Nav.Ar.Ma andato a fuoco il 10 aprile 1991 di fronte al porto di Livorno dopo una collisione contro la petroliera Agip Abruzzo. Un disastro che causò la morte di 140 persone fra passeggeri ed equipaggio e il ferimento di una persona, il mozzo Alessio Bertrand, unico superstite della tragedia. Lo avrebbe stabilito l'analisi del colonnello dei carabinieri Adolfo Gregori, comandante della sezione chimica del Ris di Roma a cui la Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause del disastro della nave Moby Prince ha recentemente affidato l'incarico di fare chiarezza su questo punto specifico che ha generato, nel corso di questi anni, tutta una serie di congetture fino ad ipotizzare un traffico di armi ed esplosivi a bordo del traghetto Moby Prince lasciando intravedere, addirittura, l'ombra di Cosa Nostra.
Le conclusioni dell'esperto del Ris contraddicono la precedente perizia esplosivistica depositata nel febbraio 1992 e svolta dall'ex agente del Sismi Alessandro Massari, incaricato dalla Procura di Livorno di analizzare i resti del traghetto. Nella perizia di Massari, che il 21 dicembre scorso venne anche audito dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul disastro della Moby confermando di aver diretto un laboratorio chimico dei Servizi segreti militari prima di passare alla Criminalpol, si parlava infatti di esplosivo, forse contenuto in una borsa, anche se non è stato possibile stabilire se esploso prima o dopo la sciagura.
La nuova perizia, firmata dal colonnello dei carabinieri del Ris Adolfo Gregori, che ha potuto utilizzare tecnologie innovative e strumentazioni più sofisticate ancora inesistenti all'epoca dell'analisi precedente, svela che sul traghetto non vi era alcun esplosivo e che quello trovato nel 1991 sui reperti analizzati dal perito Massari è frutto di "evidenti tracce di contaminazioni" esterne da cattiva conservazione. In definitiva i reperti - che non avevano inizialmente tracce di esplosivo - furono, poi, contaminati, secondo il Ris, portando erroneamente alla conclusione che vi fosse esplosivo sul traghetto.
Il materiale analizzato venne recuperato nel 1991 dai precedenti periti dal locale motore dell'elica di prua e dal garage sovrastante la Moby Prince. E comprendeva, fra l'altro, lembi di stoffa, frammenti di borse e valigie, pezzi di plastica e di legno, fili elettrici, bulloni e rondelle, lamierini, circuiti stampati e strati di vernici oltre a campionamenti recuperati da un camion che si trovava a bordo del traghetto. Tutto quel materiale, analizzato nei laboratori della polizia Scientifica della Criminalpol e dell'Enea dall'ex-007 militare su incarico della Procura di Livorno, restituì un quadro inquietante con la presenza, scrisse il perito Alessandro Massari, di vari tipi di esplosivi.
Il lavoro del colonnello del Ris dei carabinieri, Adolfo Gregori, sarà presentato il prossimo 15 settembre assieme alla Relazione finale dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause del disastro della nave Moby Prince. L'analisi chimico-esplosivistica contenuta nel rapporto di una quarantina di pagine consegnato dal colonnello Gregori sia alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla Moby Prince sia alla Procura di Firenze che sta procedendo ad una nuova indagine con la Direzione Distrettuale Antimafia, ha accertato la presenza di "esplosivo da contaminazione" non solo su alcuni reperti prelevati dal locale motore dell'elica di prua e dal garage sovrastante ma perfino - ed è questo il punto - all'esterno degli stessi scatoloni e delle buste contenenti il materiale, fatto che lascia immaginare una non corretta repertazione e conservazione del materiale, evidentemente maneggiato da chi, in quei frangenti, era contaminato da esplosivo.
Moby Prince: morto Angelo Chessa, una vita spesa per la verità. (ANSA l'11 giugno 2022. ) - CAGLIARI, 11 GIU - È morto a Milano all'età di 56 anni Angelo Chessa, primario di ortopedia, figlio di Ugo, comandante del traghetto Moby Prince al largo di Livorno nel 1991. Insieme al fratello Luchino ha combattuto per anni, attraverso un comitato, in Parlamento e nelle aule dei tribunali per fare luce sulla tragedia che costò la vita al padre e ad altre 140 persone con un solo superstite.
"Una persona speciale, una vera forza. Porteremo avanti questa battaglia sino alla fine anche nel suo ricordo", dice all'ANSA Luchino, dirigente medico dell''Aou di Cagliari. La tragedia nella notte del 10 aprile 1991: alle 22.25, il traghetto Moby Prince della Navarma entrò in collisione con l'Agip Abruzzo, petroliera della Snam, a 2,7 miglia dalla costa. Fu l'inferno: morirono in 140 - di cui 26 sardi - tra passeggeri e equipaggio del Moby. Si salvò solo Alessio Bertrand, mozzo del traghetto che partito alle 22 era diretto a Olbia. Tutti salvi sulla nave Agip.
La battaglia di Luchino e Angelo Chessa partì qualche anno dopo. Una missione, con il coinvolgimento dei parenti delle vittime, per capire, al di là dei primi responsi sulle responsabilità, che cosa fosse accaduto davvero quella notte. Nella storia di questa ricerca della verità anche il lavoro di una commissione parlamentare, presieduta dal senatore sardo Silvio Lai. Gli esiti: lo scontro non era stato causato dalla nebbia o dall'imprudenza di un comandante. Ora c'è un'altra commissione di inchiesta in corso. Nel disastro morì anche la madre di Luchino e Angelo Chessa, Maria Giulia Ghezzano.
Un documentario del giornalista Rai Paolo Mastino, intitolato Buonasera Moby Prince, ha riassunto le fasi salienti della vicenda è delle inchieste. "Angelo e Luchino Chessa - spiega all'ANSA - hanno diviso la loro vita tra famiglia, professione e ricerca della verità. Proprio Angelo coinvolse a Milano i consulenti che ribaltarono le conclusioni dei processi facendo venire alla luce nuovi decisivi dettagli". (ANSA).
Morto Angelo Chessa, figlio del comandante del Moby Prince. Il Dubbio l'11 giugno 2022.
Per 30 anni, insieme al fratello Luchino, Angelo si era impegnato per individuare la verità sul rogo del Moby Prince e per tenere alta la reputazione del padre.
È morto a Milano all’età di 56 anni, dopo una lunga malattia, Angelo Chessa, primario di ortopedia, figlio di Ugo Chessa, comandante del traghetto Moby Prince, che il 10 aprile 1991 entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo nella rada del porto di Livorno. Insieme al fratello Luchino, Angelo Chessa è stato anima dell’Associazione “10 Aprile” che, con l’Associazione “Io sono 141”, hanno tenuto vivo il ricordo delle vittime della più grande tragedia della marineria civile e si sono battuti per la verità sui motivi del disastro che costò la vita al loro padre ad altre 140 persone.
Per 30 anni, insieme al fratello Luchino, Angelo si era impegnato per individuare la verità sul rogo del Moby Prince e per tenere alta la reputazione del padre. Insieme alle associazioni, ricorda Salvetti, Chessa «ha dato un contributo fondamentale per riaprire le inchieste e attivare le commissioni parlamentari che devono fare luce sulla tragedia e sulle tante lacune emerse nella ricostruzione dell’incidente e sugli interrogativi aperti». «La scomparsa di Angelo Chessa sarà un ulteriore stimolo per l’Amministrazione per non dimenticare, né ora né mai e per stare al fianco dei familiari delle vittime del Moby nell’inseguire giustizia e verità», ha detto il sindaco.
MOBY PRINCE. ATTENTI A QUEI DUE. MARIO AVENA su La Voce delle Voci il 6 Gennaio 2022.
Un altro colpo di scena nel tragico giallo del Moby Prince che sta per compiere 40 anni il prossimo 10 aprile senza che mai un colpevole, neanche l’ombra, sia stato assicurato alle patrie galere.
Nel corso di una delle ultime audizioni che si stanno svolgendo davanti alla seconda Commissione parlamentare d’inchiesta, stavolta presieduta dal PD Andrea Romano, un ex funzionario dei servizi segreti, al quale incredibilmente nel corso della prima inchiesta venne assegnato il ruolo di perito, tira fuori la storia dell’esplosivo a bordo del Moby Prince, di cui sostiene di aver a suo tempo rilevato le tracce: venne snobbato, racconta, dai pm con i quali entrò in rotta di collisione, arrivando fino ad una denuncia al Csm.
Adesso spuntano fuori i verbali di una precedente audizione, in queste ore resa nota per via di alcune possibili ‘secretazioni’, e in qualche modo torna a far capolino la ‘pista esplosivo’. O meglio, improvvisamente (ossia dopo 40 anni!) salgono alla ribalta due misteriosi individui a bordo nelle ore precedenti la partenza del traghetto e quindi del rogo che stroncò tante vite innocenti.
A raccontare la storia, davanti ai membri della Commissione, è Marina Caffarata, moglie del secondo ufficiale del Moby Prince, Lido Giampedroni. La signora si imbarcò sul Mobyin compagnia del marito e del figlio di due anni, Emanuele, alle 14 di quel tragico 10 aprile 1991.
Ecco le sue parole: “Quando siamo arrivati, un marinaio ha detto a mio marito: ‘Sai che abbiamo trovato a bordo?’”.
Sempre in presenza della signora Caffarata, la notizia viene confermata al marito anche dal capo dei marinai, il nostromo Ciro Di Lauro, il quale osservò: “Non sappiamo cosa stavano a fare”. Al che Giampedroni chiede al nostromo se avessero chiamato la polizia, sentendosi rispondere in modo laconico ‘No, li abbiamo fatti scendere”.
Marina Caffarata afferma davanti ai commissari di avere, all’epoca dell’inchiesta, riferito l’episodio al pm incaricato, Luigi De Franco e al coordinatore della polizia giudiziaria della Procura, l’ispettore Giampiero Grosselle. “Ma il mio racconto non venne mai preso a verbale”, puntualizza adesso.
E aggiunge un altro elemento non da poco. “Un anno fa ho scritto quanto accaduto anche alla Procura di Livorno (che ha riaperto il caso, ndr), via pec: ma non mi hanno mai risposto”.
Da notare che Di Lauro non era a bordo del Moby la sera della collisione con la petroliera Agip Abruzzo, perché aveva ottenuto un ‘permesso verbale’, mai ben chiarito.
Alcuni familiari delle vittime della Moby Prince in tribunale.
E fu lo stesso nostromo, cinque mesi dopo la tragedia, nel settembre ’91, a confermare alla procura di Livorno di aver effettuato una manomissione alla timoneria del Moby Prince, il giorno dopo l’ormeggio in porto del relitto durante le fasi di recupero dei corpi.
Reo confesso, quindi, Di Lauro, e assolto dai giudici livornesi con sentenza definitiva perché “il fatto non sussiste”. Se l’era sognata, quella manomissione?
E fu assolto anche chi, a sua volta, il nostromo aveva tirato in ballo come colui il quale gli aveva ordinato quella manovra: ossia il vicecapo ispettore tecnico della compagnia armatoriale del Moby, Pasquale D’Orsi.
Misteri nei misteri.
Moby Prince, la strage e gli esplosivi a bordo: 30 anni dopo, la svolta in tribunale. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 30 dicembre 2021. Trent' anni. Ci sono voluti (esattamente) trent' anni per riaprire il caso della Moby Prince e, in sostanza, tornare a uno dei punti di partenza. La procura di Firenze vuole far luce sulla tragedia del traghetto della Navarmar avvampato in un incidendo nella rada del porto di Livorno il 10 aprile del 1991. Un processo infinito, due gradi di giudizio, una commissione parlamentare d'inchiesta: siamo ancora qui, tre decenni dopo, a chiederci cosa sia successo, ad aspettare gli esiti di una perizia (altri novanta giorni) affidata a tre esperti di esplosivi. Adolfo Gregori, comandante della sezione Chimica dei Ris di Roma; Gianni Bresciani, ingegnere "esplosivista" e Danilo Coppe, che ha lavorato anche sulla strage di Bologna. La magistratura toscana (e mica solo lei) vuole sapere se ci sono nuovi elementi a suffragio della tesi che la Moby Prince stesse trasportando materiali pericolosi. Solo che, nel frattempo, la nave è affondata ed è stata recuperata e l'unico sopravvissuto (il mozzo Alessio Bertrand) dice di convivere «con l'ansia e la depressione».
Due scatole, 25 buste e una serie di reperti prelevati nel novembre del 1991. Una vita fa. Non è la prima volta che l'ipotesi degli esplosivi fa capolino tra le carte processuali. Già nel 1992 la Scientifica ha ammesso di aver «evidenziato tracce di esplosivo di uso civile all'interno di un locale a prua»: cinque tipi (ma ce ne sarebbero anche altri due, questa volta impiegati in campo militare), tra nitroglicerina e nitrato di ammonio. Quelli che "a uso civile" son noti come gelatine o dinamite. Il mandato che riapre l'inchiesta è firmato dalla Direzione distrettuale antimafia fiorentina, e forse non è un caso. Quella maledetta sera del 10 aprile di trent' anni fa, sulla Moby Prince, c'erano 141 persone: se n'è salvata solo una, un ragazzo napoletano che lavorava con l'equipaggio. Tutti gli altri son morti dopo le 22:03. Avevano appena lasciato il molo in direzione di Olbia, in Sardegna. Stavano uscendo dal porto quando il traghetto è entrato in collisione con la petroliera Agip Abruzzo. È finito diritto dentro la cisterna numero sette, che conteneva qualcosa come 2.700 tonnellate di oro nero. Uno sversamento. In mare, ma anche sulla prua della Moby Prince. Quella prua che adesso è (di nuovo) sotto osservazione. E poi quell'incendio, le fiamme nel salone principale che era sì dotato di pareti tagliafuoco, ma era anche circondato dal rogo e non c'è stato più niente da fare. Una storia lunga trent' anni che ha vagliato il possibile errore umano, il malfunzionamento di alcuni apparati di sicurezza, le procedure di uscita dal porto.
"Si ventilano due ipotesi", dice Coppe al quotidiano Il Fatto, «che sono da smentire o da confermare: la prima riguarda l'esplosione come causa dell'incidente, la seconda il trasporto di esplosivi di matrice mafiosa, che poi sono bruciati». «Attendiamo fiduciosi gli esiti di quanto disposto», fa sapere, invece, Nicola Rosetti, che è il portavoce dell'associazione dei famigliari delle vittime. A complicare le indagini ci si è messo il 28 maggio del 1998, quando la Moby Prince, allora ancora sotto sequestro, è affondata nelle acque del porto di Livorno, sotto gli occhi di chi guardava dalla banchina. L'hanno recuperata e l'hanno avviata alla demolizione in Turchia, ma intanto l'orologio continuava a girare. A maggio di questi' anno è stata istituita pure una nuova Commissione sul disastro che è riuscita, per la prima volta, ad acquisire un nastro delle comunicazioni radio che non era mai stato ascoltato in passato perché (l'ennesima beffa) mancava un registratore particolare che era uscito di produzione. Resta l'amaro in bocca per il tempo trascorso, le 140 morti che ancora non trovano una spiegazione univoca, chiara. Quesiti senza risposta. E l'ennesima inchiesta mai arrivata in fondo.
· I Cold Case italiani.
Dal delitto Mattei agli attentati contro Falcone e Borsellino: il libro nero delle stragi di Stato. Il Fatto Quotidiano l'1 dicembre 2021.
Pubblichiamo l'introduzione del Libro nero delle stragi di Stato di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, edito da Chiarelettere. Il volume ripropone in edizione unica quattro libri degli stessi autori: L'agenda rossa di Paolo Borsellino, Profondo nero, L'agenda nera della Seconda repubblica, DepiStato. Il risultato è un'inchiesta completa sullo stragismo italiano con radici mafiose e il suo carico di complicità istituzionali.
La parresia è un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità e rischia la propria vita, perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio. Nella parresia il parlante fa uso della sua libertà e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale.
Non c’è bisogno di scomodare la «parresia» di Michel Foucault o le sue analisi del discorso pubblico con la zona di «indistinzione tra visibile e dicibile» per confessare di avere iniziato a scrivere insieme libri nel 2006 sulla spinta di una considerazione tanto banale quanto evidente a tutti: la diffusione di informazioni parziali e fuorvianti sull’arresto, dopo quarantatré anni di latitanza, del capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano, spacciato come l’ultimo padrino al vertice di una mafia agreste, che in un casolare del corleonese tra ricotta e cicoria governava i «picciotti» con l’uso di pizzini sgrammaticati. Una visione tranquillizzante di una mafia ormai sconfitta dalla forza dello Stato di diritto, severo ed efficace nel reprimere ogni pulsione mafiosa originata dalla stagione delle stragi, trasmessa a reti unificate, pubbliche e private, e particolarmente sottolineata dal Tg2 che il giorno dopo l’arresto portò a Montagna dei Cavalli, nel covo corleonese del boss, le telecamere di Anna La Rosa, accompagnata dal senatore Beppe Lumia, per mostrare ai telespettatori italiani il materasso senza lenzuola, le caciotte appese al muro e il televisore affidato a un’antenna fatiscente, esposta ai capricci del vento, unico collegamento del superlatitante con la realtà del mondo esterno.
Una visione che non ci convinse per nulla e che in quei giorni ci spinse a scrivere un libro, Il gioco grande. Ipotesi su Provenzano, che non compare in questa raccolta perché pubblicato da un altro editore: «Quella che i media ci hanno raccontato» scrivevamo nell’introduzione «è la favola della mafia a una dimensione; la storia minimalista di Provenzano, il padrino di una mafia arcaica e pretecnologica che tra lupara e cicoria ha concluso la sua parabola lontano dagli scenari occulti e ufficiali del potere…». E poi: «Lo Stato esulta perché ha catturato Provenzano, i media celebrano la sconfitta della mafia, la borghesia mafiosa gioisce alla scoperta che la verità della mafia è quel profilo basso di “pizzo” e “pizzini” sbandierando finalmente la prova che tutto il resto (trame occulte, mandanti occulti) esiste solo nelle cervellotiche ricostruzioni fantagiudiziarie». Una riflessione che in molti si affrettarono a bollare come fantasia di complottisti, termine abusato in questi ultimi decenni per descrivere l’approccio all’analisi di dinamiche sociali attraverso la chiave di lettura di un fenomeno, il complotto, che (come ben sanno gli storici in polemica con noi) ha costantemente fatto parte della storia italiana dai tempi di Machiavelli e dei Borgia. Vista l’evoluzione degli avvenimenti negli ultimi settant’anni forse è il caso di aggiornare anche il lessico corrente, sottraendo a questo termine l’accezione di riprovazione e scandalo e restituendogli il significato originario di intrigo, macchinazione, cospirazione criminale di natura sistemica.
Il numero, le dimensioni e il livello delle protezioni politiche e delle coperture giudiziarie e investigative che hanno segnato la lotta alla mafia e la ricerca della verità sulle stragi sono, infatti, una componente strutturale della vicenda italiana, venuta a galla con il verdetto di primo grado del processo sulla trattativa Stato-mafia la cui riforma subita recentemente in appello non sembra mettere in discussione la ricostruzione storica operata dalla Procura di Palermo: per i giudici, infatti, il fatto (la trattativa o la minaccia veicolata fino al cuore di tre governi, lo si capirà dalle motivazioni) si è verificato, ma non è qualificabile come reato. La sentenza del 23 settembre 2021, promulgata dalla Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, precisamente, ha assolto gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno «perché il fatto non costituisce reato», e l’ex senatore Marcello Dell’Utri «per non aver commesso il fatto»: ha dunque tirato fuori quelle responsabilità penali individuali individuate in primo grado dal groviglio criminale della stagione delle stragi. Ma confermando contestualmente la condanna per i boss Leoluca Bagarella (ventisette anni, uno in meno rispetto al giudizio di primo grado) e Antonino Cinà (dodici anni), accusati di aver veicolato la minaccia mafiosa all’interno dello Stato, la Corte di Palermo ha convalidato, indipendentemente da ogni giudizio «a caldo» sul verdetto, il rapporto di continuità con quella prassi tradizionale di minacce e intimidazioni (sfociate nel 1992-1993 in una brutale aggressione terroristica) che aveva già indotto un magistrato consulente della commissione Antimafia, Antonio Tricoli, a sostenere in una relazione depositata il 12 luglio 2012 a palazzo San Macuto, come «per la difficile e travagliata cogestione del potere si è sempre addivenuti alla stipula di compromessi o patti informali anche ai limiti della legalità», fino a giungere al punto in cui «la trattativa con la criminalità è diventata quasi consuetudine».
Ma se questa componente strutturale è un dato consacrato in migliaia di atti parlamentari, fin dal 5 luglio 1950, giorno dell’omicidio del bandito Giuliano (la cui versione ufficiale venne smentita pochi giorni dopo da un articolo de «L’Europeo» firmato da Tommaso Besozzi), quello che in Italia non si era mai visto in diretta era il cammino verso la morte di un dead man walking. Per cinquantasei lunghissimi giorni, tra il botto di Capaci e l’orrore di via D’Amelio, Paolo Borsellino andò consapevolmente incontro al suo martirio davanti alle telecamere di giornalisti italiani e stranieri che facevano a gara per intervistarlo, alle voci squillanti di membri del governo che si affannavano a indicarlo come l’unico erede di Falcone, salvifico per tutti, ai voti compatti dei parlamentari di un partito, Alleanza nazionale, che in quarantasette lo votarono contro la sua volontà, candidandolo al Quirinale. Per l’Italia ufficiale era l’eroe antimafia che avrebbe garantito la risposta dello Stato dopo Capaci vendicando il suo amico Falcone; per l’Italia sotterranea, ovvero nella consapevolezza di boss, picciotti e uomini degli apparati, era soltanto il prossimo agnello sacrificale. Quella frase «Satò macari Paluzzu» pronunciata dal boss Mariano Agate al botto del 19 luglio, udito da una cella dell’Ucciardone, a poche centinaia di metri da via D’Amelio, fu il sigillo della fine di un’attesa, l’ovvia conclusione di un dramma greco andato in scena in quella estate del 1992 davanti a milioni di telespettatori. L’eroe muore, e improvvisamente l’informazione italiana, come schiacciata dal peso di un segreto troppo fitto e intrecciato con le turbolenze istituzionali del passaggio tra Prima e Seconda repubblica individua la via d’uscita più semplice, ma meno onorevole: trasforma la cronaca in tragedia. E come i greci inventarono la tragedia per rappresentare la volontà degli dei nella punizione dell’eroe buono, facendone affiorare la consapevolezza senza spiegarne le ragioni, così l’informazione italiana ha ritenuto per decenni di indagare sui misteri di quella strage rappresentando l’orrore della sua violenza e i tributi alla memoria delle vittime, senza occuparsi delle ragioni che l’hanno determinata, dribblando i dubbi e ignorando i punti oscuri, concentrandosi solo sui «successi» investigativi di Arnaldo La Barbera, conseguenza del primo (e più grave) dei depistaggi che hanno segnato la Seconda repubblica.
Per qualche giorno, nel 2007, discutemmo se dare al libro L’agenda rossa un titolo diverso: Zona rimozione, con il doppio riferimento al provvedimento mai adottato dallo Stato per proteggere nel modo più ovvio il giudice Paolo Borsellino in via D’Amelio, ma soprattutto per sottolineare come già a pochi anni dalle stragi era in corso quella che il procuratore Roberto Scarpinato ha definito la «sagra della rimozione» collettiva, che a oggi impedisce di raccontare lo stragismo italiano con tutte le sue implicazioni politico-istituzionali, anche sotto i profili eversivi. Il volume L’agenda rossa non fu uno scoop, ma ebbe tra i lettori un effetto ancor più dirompente, perché per la prima volta i fatti (umani, professionali, istituzionali) contenuti, già noti a tutti, erano messi in fila raccontando il «contesto» drammatico e sconcertante di un uomo delle istituzioni, Paolo Borsellino, ultimo baluardo nella lotta contro un nemico invincibile (e solo in parte visibile), che non fu soltanto lasciato solo ma che negli ultimi cinquantasei giorni della sua vita fu stretto in un abbraccio mortale, e indicato come parafulmine da una classe politica ormai in via di dissoluzione, mentre in Parlamento gli allarmi sul pericolo di una stagione eversiva lanciati dal ministro dell’Interno Vincenzo Scotti venivano ridicolizzati dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti.
Era il 2007, la Procura di Caltanissetta aveva aperto due anni prima l’inchiesta sulla sparizione dell’agenda rossa dall’auto blindata tra le fiamme di via D’Amelio, sui giornali le parole di Vincenzo Scarantino venivano spacciate per verità granitiche fino a quando, l’anno successivo, un imbianchino di Brancaccio divenuto killer di fiducia dei boss Graviano, Gaspare Spatuzza, ribaltò la narrazione giudiziaria autoaccusandosi del furto della 126 usata come autobomba. Aspettammo due anni per scrivere L’agenda nera della Seconda repubblica, e raccontare la piccola storia ignobile di Vincenzo Scarantino, prototipo del capro espiatorio da laboratorio, individuato da Arnaldo La Barbera fin dai giorni dell’omicidio dell’agente Agostino (ucciso con la moglie a Palermo il 6 agosto 1989), riproposto in un identikit anonimo già nei giorni immediatamente successivi alla strage, allevato nelle «veline» dei servizi segreti, costruito dagli investigatori nei colloqui al carcere di Pianosa, e via via preservato e difeso con azioni ai confini della legalità nella sua incredibile e sconclusionata verità, pur tuttavia creduta fino ai massimi livelli della Cassazione.
In mezzo, nel 2009, scoprimmo su uno scaffale di una libreria romana, in largo Chigi, a Roma, un libretto giallo dal titolo accattivante Il Petrolio delle stragi scritto da un poeta pesarese, Gianni D’Elia. Dentro c’era raccontato per la prima volta il legame tra i delitti Mattei e De Mauro con l’omicidio Pasolini. Era un’intuizione in forma poetica, raccolta dall’archiviazione giudiziaria del pm di Pavia, Vincenzo Calia, ma sufficiente per mettere a fuoco i collegamenti, fino a quel momento ignorati, tra l’attentato più grave alla sovranità italiana, spacciato per decenni per un incidente aereo, l’omicidio di un giornalista che aveva indagato su quel mistero a Palermo e il pestaggio mortale dell’intellettuale apocalittico, l’unico in Italia a denunciare in presa diretta la strategia della tensione, indicandone i nomi dei responsabili e chiedendo un processo per i dirigenti di allora della Democrazia cristiana. Il libro Profondo nero, che apre questo volume, è stato un viaggio dentro il segreto del potere con radici siciliane, con il suo carico di omicidi e stragi, di ricatti incrociati e depistaggi, che ancora oggi rende quella italiana una cronaca inceppata, ancora arenata nelle secche della Storia, con molte appendici nei traffici di influenze e nelle corruzioni dei colletti bianchi, versione 2.0 di cappucci, grembiuli e compassi che oggi, come sessant’anni fa, continuano a segnare la vita di un paese, ormai entrato dentro i meccanismi di una tecnocrazia diffusa in tutto il pianeta, senza riuscire a scrollarsi di dosso il suo passato più ingombrante con una definitiva operazione verità.
Scritto nel 2019, infine, a ventisette anni da via D’Amelio, il volume DepiStato cerca di comprendere perché il livello della risposta giudiziaria per la strage Borsellino è ancora giudiziariamente tarato sulle responsabilità di tre poliziotti, ultimi anelli di una catena di comando coinvolta a livello decisionale nelle scelte, investigative e giudiziarie, che hanno trasformato un artigiano analfabeta in un provetto stragista, allontanando la verità per due decenni. Un ritardo che se ovviamente non fornisce la «prova regina» di quanto hanno sostenuto il presidente dell’antimafia siciliana Claudio Fava e il fratello del giudice assassinato in via D’Amelio, Salvatore Borsellino, e cioè che «a piazzare il tritolo furono gli stessi che hanno fatto sparire l’agenda rossa», consente di affermare senza timore di querele che quella di via D’Amelio fu una «strage di stato», come ha fatto l’avvocato Fabio Repici, assolto dal gip di Catania Stefano Montoneri dall’accusa di diffamazione nei confronti dell’ex procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone: quell’indagine, sottolineò il gip citando la sentenza del Borsellino Quater, nacque con un vizio d’origine, e cioè con un’iniziativa «decisamente irrituale» (ma in realtà da qualificarsi, più correttamente in lingua italiana, come «illecita», in quanto contraria a norme di legge) del procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra che già nella serata del 20 luglio 1992 chiese al numero tre del Sisde (Bruno Contrada) di collaborare alle indagini sulle stragi, sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria, e nonostante la normativa vigente precludesse al personale dei servizi di informazione e sicurezza di intrattenere rapporti diretti con la magistratura.
Oggi, a oltre settant’anni da Portella della Ginestra, la prima strage del dopoguerra, nel mainstream mediatico (tv e testate giornalistiche), l’informazione sulla mafia e sulle sue complicità è stata sostituita, tranne qualche eccezione, dalla fiction. E di quella stagione di bombe che hanno cancellato la Prima repubblica resta una memoria funzionale agli schieramenti in campo, spesso circoscritta solo agli addetti ai lavori. E la disattenzione progressiva dei media non può che suscitare un dubbio legittimo e inquietante: il sospetto che chi ha creato in questi anni una lunga teoria di depistaggi (non soltanto a partire da via D’Amelio) abbia brigato nell’ombra anche per condizionare un’informazione di per sé poco incline a deragliare dai binari tranquillizzanti dell’agenda politica del paese, orientando, calmierando e promuovendo di volta in volta le notizie funzionali ai propri disegni di conquista di spazi politico-istituzionali o di mantenimento di equilibri faticosamente raggiunti sul sangue dei servitori dello Stato.
È certamente singolare che l’informazione oggi così attenta alla scarcerazione di Giovanni Brusca e agli scivoloni, indotti o meno, delle parole pronunciate, peraltro autosmentendosi, dal pentito Maurizio Avola, che nega ogni partecipazione dei «servizi» in via D’Amelio, ignori quelle dei procuratori Giuseppe Lombardo e Gabriele Paci che nelle rispettive requisitorie, a Reggio Calabria e a Caltanissetta, hanno sottolineato i gravissimi ritardi e gli errori investigativi che hanno consentito alla ’ndrangheta di restare fuori per due decenni dal contesto stragista, pur essendo coinvolta sin dall’inizio, e al boss Matteo Messina Denaro di evitare un mandato di cattura per la strage di Capaci arrivato solo ventidue anni dopo nonostante quattro collaboratori (Giovanni Brusca, Balduccio Di Maggio, Vincenzo Sinacori e Vincenzo Ferro) avessero indicato fin dall’inizio il superlatitante trapanese come uno dei registi dell’attacco allo Stato. Negligenze gravi, come quelle sottolineate dal pg di Palermo Giuseppe Fici nel processo d’appello per la trattativa Stato-mafia, sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso, e sulla restituzione di tre cellulari mai ufficialmente sequestrati al suo guardaspalle, Giovanni Napoli, favoreggiatore del capo corleonese, custode della fortuna miliardaria del boss nel paese.
Mentre oggi sui social in molti si spingono a ipotizzare scenari stragisti in cui i mafiosi vestono i panni dei figuranti, esecutori di volontà esterne alle finalità stesse dell’organizzazione decimata dalla reazione dello Stato, alimentando di fatto le accuse di complottismo, questo libro che raccoglie settant’anni di cronache di massacri in un paese come l’Italia, dove un presidente del Consiglio che ha retto alternativamente le sorti di governo per oltre due decenni è indagato per strage a Firenze ed è chiamato in causa come socio da uno dei principali boss stragisti, serve anche a ricordare che la verità terribile di questi anni è ancora lungi dall’essere raccontata.
Come ha sottolineato il pg Giuseppe Fici nella sua requisitoria del processo d’appello sulla trattativa, riferendosi ai segreti delle coperture del boss Bernardo Provenzano: «Chi ha agito violando le regole lo ha fatto per la salvezza di un determinato assetto di potere. Anche a costo di calunniare degli innocenti, distruggendo famiglie e seminando dolore e lo ha fatto al di fuori delle dinamiche democratiche. Noi invece vogliamo capire. Lo dobbiamo a tutti i familiari delle vittime».
Massimo Lugli per “il Venerdì di Repubblica” l'11 aprile 2022.
L’ultimo sospettato è un fantasma. E ci mancava solo questa, la svolta surreale e vagamente horror del grande giallo a puntate, l'ultimo capitolo di una serie interminabile di misteri mai risolti.
Casi giudiziari che si snocciolano per decenni, indagini che si aprono, si chiudono, tornano a riaprirsi con la promessa di una svolta sempre attesa e mai in arrivo. Presunti colpevoli che finiscono sotto i riflettori e svaniscono nel buio, innocenti alla gogna mediatica, testimoni che si contraddicono o riacquistano la memoria dopo anni e anni, perizie tecniche in disaccordo, magistrati e poliziotti che si accapigliano tra loro, sentenze capovolte nei vari gradi di giudizio.
I cold case italiani sono un pentolone che ribolle di continuo sotto la fiamma alimentata da titoli d'apertura dei telegiornali, interminabili dissertazioni in diretta, criminologi da salotto, lettere anonime ad avvocati improbabili. E quasi sempre la vittima ha un nome e un volto di donna, da Wilma Montesi a Christa Wanninger, da Milena Sutter a Ida Pischedda, preistoria criminale. Fino a Simonetta Cesaroni. Già, lei, la ventenne di via Poma, la ragazza sulla spiaggia in costume da bagno con un'espressione che vorrebbe essere disinvolta e un sorriso strano.
È il Giallo per eccellenza, una serie tv interminabile che sembra riservare un colpo di scena a ogni nuova stagione. Fino agli ultimi sviluppi recenti.
Dopo Pietrino Vanacore, il portiere del palazzo, arrestato e scarcerato in meno di un mese, dopo Federico Valle, nipote di un noto ingegnere che abitava a via Poma e che fu indagato e scagionato senza mai arrivare a un processo, dopo Raniero Busco, l'ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, condannato a ventiquattro anni in primo grado e definitivamente assolto in Appello e Cassazione, adesso nel mirino è finito un personaggio scomparso sei anni fa: indagini riaperte per un processo che non si farà mai.
L'omicidio di via Poma, 7 agosto del 1990, sembra uno di quei casi destinati a restare nella storia, forse il più noto tra i gialli senza colpevole (o con un colpevole molto dubbio) che tengono i lettori e gli spettatori della cronaca nera col fiato perennemente sospeso.
Il nome del "sospettato", tenuto nascosto nei primi giorni dopo l'uscita della notizia, è finito per trapelare come inevitabilmente succede in questi casi. Ed è un nome che pesa: Francesco Caracciolo di Sarno, ex presidente dell'Associazione italiana alberghi della gioventù, l'ufficio dove Simonetta lavorava da poco e che avrebbe lasciato il giorno successivo al delitto.
Famiglia blasonata, personaggio corrusco e scontroso che si era rintanato da tempo nella sua tenuta di Tarano, nella Bassa Sabina, Caracciolo era entrato e uscito dall'inchiesta a passo di carica.
Il suo alibi («Avevo accompagnato mia figlia e un'amica all'aeroporto a prendere un aereo e poi mi sono fatto riaccompagnare a Tarano») sembrava inattaccabile e, del resto, in quei primi giorni la Squadra mobile puntava tutto sul portiere, Vanacore. Ricordiamolo: l'uomo si uccise alla vigilia della sua nuova testimonianza in Corte d'Assise durante il processo Busco: rimorso? Paura di venire smascherato? O addirittura un omicidio mascherato da suicidio? Altri misteri. Sta di fatto che, secondo la pm Ilaria Calò, Vanacore avrebbe avuto comunque un ruolo nel delitto, se non altro di copertura.
La nuova pista, in realtà, non è affatto nuova. Di Francesco Caracciolo di Sarno si parlò in un'informativa della Digos, una delle tante carte dimenticate, in cui l'uomo veniva definito più o meno un molestatore seriale.
Nel 2010, una testimone che smentiva la sua versione fu ascoltata dalla polizia ma la cosa finì lì. È stata la pubblicazione di un romanzo Il giallo di via Poma, edizioni Newton Compton, firmato da chi scrive e da Antonio Del Greco, a riaccendere i riflettori sulla vicenda della ragazza uccisa con ventinove pugnalate. Del Greco è l'ex funzionario della mobile che diresse le indagini sul giallo assieme a Nicola Cavaliere: fu lui ad arrestare Vanacore e, successivamente, a indagare su Federico Valle.
Dopo l'uscita del libro, l'ex poliziotto fu letteralmente bersagliato di segnalazioni, sospetti, suggerimenti, insinuazioni più o meno velenose. La maggior parte erano spazzatura ma, tra le tante soffiate fasulle, è arrivata quella, molto più consistente, che puntava a Caracciolo. Ascoltato in Procura per oltre cinque ore, Del Greco ha ripreso in mano tutti gli appunti e la documentazione sull'omicidio.
Disincantato e scettico per natura, l'ex investigatore evita di sbilanciarsi ma sembra convinto che, stavolta, la pista potrebbe reggere - e se ci crede lui Il problema è che l'inchiesta è diretta dallo stesso pubblico ministero che, dodici anni fa, sostenne l'accusa in quel delirio giudiziario che fu il processo a Raniero Busco e riuscì perfino a vincerlo: 24 anni di galera per il segno di un morso che forse non era un morso sul seno della ragazza e per una traccia di Dna sul reggiseno.
Una follia che, fortunatamente, non costò all'ex fidanzato neanche un giorno di carcere: i due successivi gradi di giudizio ristabilirono una verità fin troppo evidente: innocente come Abele.
Cambiare strada, ammettere l'errore e ricominciare da capo è segno di intelligenza e duttilità e bisogna vedere fino a che punto la Procura sarà in grado di smentire se stessa. Una sola cosa è certa: l'inchiesta si fermerà dove dovrebbe cominciare, visto che non si possono fare accertamenti su una persona deceduta né tantomeno condannarla post mortem. La verità, almeno quella ufficiale, sancita da una sentenza definitiva, insomma, resterà sempre nascosta.
Restano il dolore dei familiari di Simonetta, la delusione degli investigatori di allora, l'interesse quasi maniacale per un omicidio che continua a dilagare e ad alimentare ricostruzioni più o meno deliranti che rimbalzano di continuo sui social e sui siti sempre più frequentati di crime investigation.
I grandi gialli, dicevamo, sono quasi sempre al femminile. Gli ingredienti perché una storiaccia di cronaca nera diventi un mistero infinito sono sempre gli stessi: la vittima deve suscitare empatia e compassione, nell'indagine deve comparire un presunto colpevole, gli indizi debbono essere labili o poco convincenti. Ciliegina sulla torta: il caso deve prestarsi a quelle dietrologie tipicamente italiane che fantasticano di servizi segreti deviati, grandi intrighi internazionali e, magari, misteri d'Oltretevere.
Già perché un altro viso di ragazza che contende a Simonetta il primato di vittima più nota d'Italia è quello di Emanuela Orlandi.
Quindici anni, figlia di un dipendente del Vaticano, l'adolescente uscì da una lezione di musica il 22 giugno del 1983 e scomparve nel nulla. Di lei si è saputo tutto senza sapere niente. L'elenco delle piste investigative potrebbe riempire un'antologia del crimine: rapita dalla Banda della Magliana come ritorsione per i fondi della gang bloccati dallo Ior, la Banca vaticana, uccisa durante un'orgia di pedofili in clergyman, sequestrata da agenti segreti bulgari, seppellita sotto un palazzo romano, ricoverata in permanenza in una clinica psichiatrica a Londra, viva e madre in Turchia, avvistata in vacanza su un'isola greca.
Rivelazioni a tassametro, spiate di detenuti infami, rivelazioni in diretta a Chi l'ha visto?, una tonnellata di fiction, docufiction, romanzi, dibattiti televisivi, film, serie tv, disperati appelli del fratello che cerca ancora la verità con implacabile ostinazione. Risultati: zero.
La sceneggiata più assurda fu la riapertura dell'ossario della basilica di Sant' Apollinare in Classe, dove fu sepolto Enrico De Pedis, il "Renatino" della Magliana, con tanto di analisi sui resti umani che risalivano al 1500, ovviamente sotto l'occhio onnipresente delle telecamere. Indagini spettacolo destinate a dissolversi come fumo.
Ma l'esempio più eclatante di inchiesta mediatica senza risultati fu il caso di Denise Pipitone, la bimba di 4 anni scomparsa all'ora di pranzo del 1° settembre 2004 a Mazara del Vallo e mai ritrovata.
Faida familiare, visto che la piccola era nata da una relazione adulterina? Vendetta? Ritorsione? Indagini difficili, in un contesto intriso di omertà e diffidenza, con personaggi pericolosamente vicini alle cosche locali e, sembra, alcuni investigatori collusi. Dopo anni di silenzio, l'ex pm, Maria Angioni, trasferita al Tribunale del lavoro, diventa una specie di star televisiva e riapre il caso.
Parla, accusa, denuncia, indica nuove piste a tamburo battente e riesce nella difficile impresa di comparire in tre diversi programmi nel giro di un solo giorno. «Io so dov' è, ha due figli, vive all'estero ed è felice», annuncia, sibillina, a Storie Italiane, il programma condotto da Eleonora Daniele, davanti agli ospiti basiti e ai telespettatori esterrefatti. E non demorde neanche quando le sue rivelazioni verranno puntualmente smentite dagli inviati delle televisioni, che sembrano gli unici a indagare veramente mentre la magistratura sonnecchia.
Conclusione: l'indagine viene nuovamente chiusa e l'ex pm Angioni finisce sotto processo per ostacolo alle indagini e falsa testimonianza. Per consolidare la fiducia nella magistratura non è decisamente il massimo.
Ma in Italia, del resto, le toghe dei giudici non sono state mai particolarmente amate, forse per via di tre gradi di giudizio che a volte, se la Cassazione annulla un dibattimento, possono diventare quattro o cinque con sentenze stravolte o capovolte nel giro di pochi mesi. Chi ha ragione? L'ultimo che parla?
Anche per questo il caso di Marta Russo si è lasciato dietro uno strascico di polemiche e dubbi che durerà almeno per un paio di generazioni. La ragazza, studentessa di giurisprudenza (voleva diventare magistrato), fu uccisa da un colpo di pistola calibro 22 in un vialone dell'università La Sapienza, il 9 maggio del 1997.
Omicidio senza movente, arma del delitto scomparsa, classico processo indiziario: il 15 dicembre del 2003 la Corte di Cassazione condanna in via definitiva gli assistenti universitari Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, a 5 anni e 4 mesi e a 4 anni e 2 mesi di reclusione, una pena quasi simbolica. Una sentenza contestata in ogni modo possibile e immaginabile: troppo blanda, di compromesso, ingiustificata, "pilotata", assurda. I due non hanno mai confessato e molti continuano a ritenerli innocenti. I dubbi, comunque, restano.
È chiuso per sempre, invece, un altro dei gialli romani più clamorosi dell'ultimo mezzo secolo: l'omicidio di Alberica Filo della Torre, strozzata nella sua villa dell'Olgiata il 10 luglio 1991, l'anno successivo al delitto di via Poma, una sorta di maledizione estiva capitolina. Classico giallo alla Poirot, con ingredienti da best seller: una nobildonna fascinosa assassinata mentre stava per festeggiare i dieci anni di matrimonio, una rosa di sospettati ristretta, una famiglia con legami nel mondo della finanza e della politica.
Manca solo un detective impomatato che se ne esca con «L'assassino è in questa stanza».
Per vent' anni gli investigatori si arrabattarono dietro le piste più folli senza cavare un ragno dal buco. Un magistrato piuttosto noto arrivò a ipotizzare che un unico serial killer avesse ucciso Simonetta, Alberica e, perché no, anche altre tre o quattro donne romane. Il caso fu archiviato e riaperto nel 2011 dopo ripetute istanze della famiglia.
Ai nuovi investigatori bastarono pochi giorni per trovare una macchia di sangue mai analizzata e individuare il colpevole: Manuel Winston Reyes, ex domestico della villa, licenziato dalla contessa.
L'assassino è il maggiordomo, roba da Agatha Christie. Winston Reyes confessò, si beccò 16 anni, è uscito pochi mesi fa ed è tornato dalla figlia, battezzata Alberica come la sua vittima.
"Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem", dice il principio del Rasoio di Occam che risale al XIV secolo, "Non moltiplicare gli elementi più del necessario". Un concetto chiarissimo: a parità di fattori, scegli la spiegazione più semplice. Funziona, ma molti investigatori sembrano essersene dimenticati. O magari non averlo mai sentito nominare.
· Il Caso del delitto del Circeo: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez.
Circeo: Greta Scarano racconta la serie sul massacro che sconvolse l'Italia. Francesco Canino il 23/09/22 su Panorama.
1975, quartiere popolare della Montagnola: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, due adolescenti piene di vita e di sogni, si preparano per uscire con dei ragazzi della Roma bene, da poco conosciuti. Quando accettano di accompagnarli a una festa al mare, non si immaginano che quella serata presto diventerà un incubo: sequestrate, picchiate e violentate per ore in una villa al Circeo, dove verranno rinchiuse nel bagagliaio di una macchina perché credute morte. Ecco compiuto il massacro del Circeo. Ripercorre le fasi del processo seguito ad uno dei casi di cronaca che più hanno sconvolto l'opinione pubblica italiana Circeo, la serie disponibile su Paramount+ Original, prodotta da Cattleya in collaborazione con VIS, Paramount+ e RAI Fiction con la giovanissima Ambrosia Caldarelli nei panni della Colasanti e Greta Scarano in quelli di Teresa Capogrossi, un'ambiziosa avvocata (è un personaggio di fantasia) che imparerà a prendersi cura della sopravvissuta al dramma, dimostrando che può vincere il processo e cambiare la legge. Proprio Greta Scarano racconta a Panorama.it il progetto, quanto sia stato complicato calarsi nel ruolo e quanto la serie sia un modo per rivendicare quel senso di giustizia che la Colasanti ha ricercato per tutta la vita.
La mattina del 1° ottobre, i giornali, le televisioni, le radio aprono tutti con la stessa notizia: in un’auto a viale Pola sono state trovate due ragazze. Nude, avvolte nelle coperte. Una è morta. L’altra è viva: Donatella. Il delitto del Circeo scuote l'Italia e il processo che ne segue viene raccontato quotidianamente da tutti i giornali. Donne da ogni angolo del Paese si presentano al tribunale di Latina per sostenere Donatella e assicurarsi che gli assassini vengano condannati all'ergastolo. Ciò che però la ragazza non sa è che dal quel momento in poi non sarà mai più semplicemente Donatella, ma sempre e solo “la sopravvissuta del Circeo”. Per tutti, infatti, Donatella diventerà un simbolo del movimento femminista e in gioco non c'è solo il desiderio di giustizia per lei e per Rosaria, ma ci sono anche i diritti di tutte le donne.
La posta in gioco è alta: cambiare la legge e la mentalità di un Paese in cui lo stupro non è considerato un crimine contro la persona ma un’offesa alla pubblica morale. A difendere Donatella c’è Teresa Capogrossi (personaggio di fantasia interpretato appunto da Greta Scarano), la giovane e ambiziosa avvocata che lavora prima per il noto penalista Fausto Tarsitano e poi per Tina Lagostena Bassi, l’ “avvocato delle donne” impegnata in prima linea per la riforma della legge sulla violenza sessuale. Teresa è una donna idealista e appassionata, mossa da una forte sete di giustizia: come una sorella maggiore, imparerà a prendersi cura di Donatella dimostrando che si può vincere il processo e anche cambiare la legge. Ad ogni costo. Così la serie in tre puntate diretta da Andrea Molaioli diventa un lungo viaggio verso la giustizia in cui le due donne impareranno molto l’una dall’altra, in una ricerca costante della propria identità e del proprio ruolo nel mondo. Circeo è scritta da Flaminia Gressi, Lisa Nur Sultan e Viola Rispoli.
· La vicenda della Uno Bianca.
"Mai l'avrei pensato". Quegli agenti dietro rapine e omicidi. Francesca Bernasconi il 26 Aprile 2022 su Il Giornale.
Per oltre sette anni, la Banda della Uno Bianca terrorizzò l'Emilia-Romagna e le Marche. I criminali erano quasi tutti poliziotti. L'uomo che disegnò i loro identikit: "Mai avrei pensato a un collega".
Per sette anni agirono indisturbati, seminando terrore e morte in Emilia-Romagna e Marche. Oltre cento le azioni criminali portate a termine, altrettanti i feriti e 23 le persone rimaste uccise. Poi i killer della Banda della Uno Bianca vennero individuati e fermati. Ma nessuno si aspettava che quei criminali senza scrupoli nel tempo libero lavorassero nei commissariati di Bologna, Rimini e Cesena. Tutti i membri della banda tranne uno infatti erano dei poliziotti. A guidarne le azioni erano due dei tre fratelli Savi, Roberto e Fabio, mentre gli altri componenti del gruppo vi orbitavano intorno erano Alberto Savi, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli.
I criminali nascosti dietro una divisa
Nessuno si immaginava che dietro alla divisa da poliziotti potessero nascondere una doppia vita, fatta di rapine, agguati e omicidi. Difficile per chi indagava sospettare che un collega potesse essersi reso colpevole di crimini tanto atroci. Nemmeno il numero uno dei disegnatori di identikit, Giovanni Battista Rossi, che tratteggiò a matita il volto dei fratelli Savi, si rese conto di aver disegnato un collega: "Collega, guarda come gli assomigli", disse Rossi a un agente, dopo aver disegnato il volto di uno dei banditi. Ma la possibilità che quel collega fosse proprio il killer che stavano cercando non lo sfiorò nemmeno: "Mai avrei pensato una cosa del genere", ha rivelato a ilGiornale.it.
"Do volto alle paure". Un identikit per incastrare i criminali
L'identikit disegnato da Rossi rappresentava Roberto Savi, assistente capo della polizia di Bologna, considerato il capo della banda. In Polizia dal 1976, Roberto aveva 33 anni quando iniziò con le rapine. Era l’addetto alla sala operativa, quella cioè che riceve le segnalazioni di allarme e smista le auto. Per quanto riguarda la vita privata, al momento dell’arresto, Roberto era separato dalla moglie, con la quale aveva avuto un figlio, ed era andato a vivere con una ragazza nigeriana di 21 anni. Savi, come riporta l’Unità del 23 novembre 1994, venne "arrestato mentre stava prendendo servizio". In un garage gli agenti trovarono un vero e proprio arsenale: "Armi lunghe e corte, esplosivo, circa 230 milioni di lire in contanti".
Dopo l’arresto di Roberto, gli inquirenti iniziarono a cercare Fabio Savi. Il secondo fratello, 34 anni al momento del fermo, finì in manette pochi giorni dopo, intercettato in un Autogrill dell’autostrada Udine-Tarvisio, l’ultimo prima del confine con l’Austria. Fabio aveva provato a passare il concorso per entrare in polizia ma, non essendoci riuscito, lavorava in proprio e, dopo essere stato sposato e aver avuto un figlio, conobbe una donna romena di origine ungherese, Eva Mikula, con la quale viveva in Italia. Fu proprio la donna, fermata con lui all’Autogrill, a raccontare molti dettagli agli inquirenti. A casa di Fabio vennero trovate altre armi, polvere da sparo, baffi finti, parrucche e 80 milioni di lire in contanti.
Anche il terzo fratello, Alberto Savi, era un poliziotto come Roberto. Sposato, con un figlio. Era il più piccolo dei tre fratelli e, nel 1994 quando venne arrestato, aveva 29 anni. In Polizia dal 1983, era in servizio al commissariato di Rimini come agente delle volanti, dopo essere stato a Ferrara e all’aeroporto di Miramare. "Se è davvero lui il killer della Uno farebbe bene a spararsi un colpo in testa", avrebbe detto riferendosi al fratello Roberto, quando venne resa nota la notizia dell’arresto. Gli agenti lo fermarono alla stazione, mentre aspettava il treno per Roma, dove era diretto per discutere il suo trasferimento. "Anch’io ero nella banda - ammise dopo l’arresto, secondo quanto riportato nell’Unità del 27 novembre 1994 - È stato un errore di gioventù. Ho iniziato nel 1987, con una rapina ad un casello dell'autostrada".
Oltre ai tre fratelli Savi, parteciparono ai colpi tra Emilia-Romagna e Marche anche altri tre poliziotti: Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli. Il primo, 34 anni al momento dell’arresto, in Polizia dal 1982, lavorava insieme a Roberto Savi, alla sala operativa di Bologna, dopo essere stato a Milano e a Firenze. Al suo arresto si arrivò grazie a una videocassetta trovata nell’arsenale di Roberto. Marino Occhipinti, 29enne al tempo, faceva parte della sezione Narcotici, dopo aver lavorato sulle volanti insieme a Roberto Savi, venne arrestato a casa sua, nel suo giorno di riposo, mentre Luca Vallicelli, in Polizia dal 1986 e agente scelto a Cesena, venne fermato mentre usciva da un bar.
Sette anni di terrore: così agiva la banda della Uno Bianca
I numeri del terrore
Sette. È il numero degli anni di paura, sangue e morte che hanno avvolto Emilia-Romagna e Marche, martoriate dal 1987 al 1994. Ma a questo vanno aggiunti tutti gli altri numeri della banda. Primo fra tutti, l’uno, corrispondente al modello dell’automobile maggiormente usata durante i colpi. Il motivo di questa scelta lo ha spiegato Fabio Savi a Franca Leosini, nel programma Storie Maledette: "Era quella più diffusa". Anche Roberto fece riferimento all’auto, specificando che la Uno "era una macchina anonima. Rubavamo quel modello di auto per non essere riconosciuti". In realtà, la Uno non è l’unica automobile a essere stata guidata nei colpi: "Usavamo macchine di tutti i tipi", precisò Fabio.
Poi ci sono le cifre, da brividi, legate alle azioni criminali: 103 i colpi effettuati, secondo il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, di cui 91 tra rapine e tentate rapine, 102 i feriti e 23 le persone che hanno perso la vita a causa delle azioni del gruppo guidato dai fratelli Savi. Come precisato sul sito della Polizia penitenziaria, le rapine ebbero come obiettivi 22 banche, 22 caselli autostradali, 20 distributori di benzina, 15 supermercati (di cui 9 Coop), 9 uffici postali e una tabaccheria.
E poi ci sono i numeri che fanno capire la totale impotenza di chi si è trovato faccia a faccia con i banditi della Uno Bianca. Sono tutti quelli che corrispondono alle età delle vittime: 21 sono gli anni che avevano le due vittime più giovani, Mauro Mitilini e Andrea Moneta, i due carabinieri uccisi al quartiere Pilastro a Bologna, mentre 66 sono quelli di Pietro Capolungo, il più anziano ucciso dalla Banda della Uno Bianca. Nel mezzo ci sono i carabinieri 22enni Cataldo Stati e Umberto Erriu, il poliziotto 41enne Antonio Mosca colpito a Cesena, i militari assassinati al Pilastro, le guardie giurate uccise durante le rapine o le tentate rapine e i comuni cittadini, colpevoli di aver ripreso verbalmente i banditi o di aver cercato di annotare la targa dell’auto dei criminali.
Gli arresti e le condanne
Il primo a essere arrestato fu Roberto Savi. Le manette scattarono ai polsi del più grande dei tre fratelli la sera del 21 novembre 1994 mentre si trovava al lavoro, in questura a Bologna. Gli arresti di tutti i componenti della banda avvennero nel 1994.
Per la Banda della Uno Bianca non si è svolto un solo maxiprocesso, ma tre distinti processi a Bologna, Rimini e Pesaro. Nessuno quindi ha preso in considerazione l’intera catena di delitti. Fabio e Roberto Savi sono stati riconosciuti responsabili di quasi tutti i fatti di sangue attribuiti alla banda, mentre Alberto Savi, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli sono stati considerati come membri associati, gregari, che hanno partecipato solamente ad alcuni colpi.
In particolare, secondo quanto ricorda Ursula Franco, Alberto Savi partecipò ad alcune rapine ai caselli autostradali, all’assalto a una Coop e a un ufficio postale e alla strage del Pilastro, mentre Marino Occhipinti prese parte a una rapina terminata in tragedia, con l’omicidio della guardia giurata Carlo Beccari. Pietro Gugliotta si unì alla banda per alcune rapine e l’assalto a uno degli uffici postali, mentre Luca Vallicelli partecipò ad una sola rapina incruenta.
Il processo in Corte d’Assise di Rimini si concluse il 6 marzo del 1996. Roberto, Fabio e Alberto Savi vennero condannati all'ergastolo e all'isolamento diurno. Tredici anni di reclusione, invece, per Pietro Gugliotta. Anche a Bologna, il 31 maggio 1997, i tre fratelli Savi vennero condannati all’ergastolo, insieme a Occhipinti, mentre Gugliotta a 18 anni e Vallicelli patteggiò a 3 anni e 8 mesi. Inoltre la Corte condannò il Ministero degli Interni a risarcire le parti civili.
Che fine hanno fatto i membri della banda?
Dopo le condanne, tutti i membri della banda finirono in carcere per scontare la loro pena. I tre fratelli Savi si trovano ancora in carcere. Roberto ha chiesto la grazia, ricevendo per tre volte un parere sfavorevole; Fabio aveva fatto richiesta, respinta, di usufruire del rito abbreviato a posteriori; Alberto, dopo 23 anni di carcere, ha iniziato a beneficiare di permessi premio. Nel 2008 è stato invece scarcerato Pietro Gugliotta, dopo 14 anni di reclusione, mente nel 2018 Marino Occhipinti è stato ritenuto "non socialmente pericoloso" e ha ottenuto la libertà. Luca Vallicelli è tornato libero dopo aver scontato la sua pena.
Banda della Uno bianca Marino Occhipinti libero: "Non è più pericoloso"
Ma quali furono i moventi che spinsero i banditi ad agire? "Io volevo pagare i debiti", dichiarò a Franca Leosini Fabio Savi. Anche secondo il sostituto procuratore Daniele Paci, "la motivazione principale era far quattrini", precisando però, in un’intervista a Pandora Rivista, che alcuni delitti "non hanno nulla a che fare con motivi di lucro".
Anche il pubblico ministero Walter Giovannini, durante il processo di Bologna, ha parlato dell’assenza del movente del denaro in alcuni delitti, definendo la vicenda "caratterizzata in modo ritmico da totale indecifrabilità, incomprensibilità, totale assenza di giustificazione che non sia una giustificazione da ricercare nei meandri di una mente malata", disse, ricordando "episodi di così gratuito spargimento di sangue che forse il movente era altro, insondabile, inspiegabile, irrazionale".
D’accordo con queste conclusioni anche la presidentessa dell’Associazione dei familiari delle vittime della Uno Bianca, Rosanna Zecchi, che dichiarò: "Non accettiamo la tesi che lo facevano solo per lucro, va al di là della nostra comprensione". Per questo, recentemente, i famigliari delle vittime sono tornati a chiedere la verità sull’intera vicenda, facendo luce su eventuali complici e sui mandanti. "Siamo sempre di più familiari delle vittime a chiedere la verità attraverso la riapertura completa delle indagini - hanno dichiarato i parenti di Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitili, come riportato da Ansa - non solo per la strage del Pilastro".
Un contributo in questo senso potrebbe arrivare dalla digitalizzazione degli atti sulla Banda della Uno Bianca, che era stata chiesta proprio dall'associazione. Infine, ribadendo la richiesta di una "completa verità", i familiari delle vittime hanno annunciato che continueranno "a contrastare permessi e sconti di pena per chi ha terrorizzato un'area del nostro Paese con crimini efferati e apparentemente inspiegabili". Francesca Bernasconi
Sette anni di terrore: così agiva la banda della Uno Bianca. Francesca Bernasconi il 19 Aprile 2022 su Il Giornale.
La storia della banda che per 7 anni macchiò di morte e terrore Emilia-Romagna e Marche e che sconvolse l'Italia. Dietro ai killer anche cinque poliziotti.
Prima le rapine ai caselli stradali, poi le banche e i furgoni portavalori, fino agli agguati a cittadini indifesi, poliziotti e carabinieri. Sette anni di terrore chiusero in una morsa di paura l’Emilia-Romagna e le Marche, da Bologna e Cesena, passando per Rimini, fino a Pesaro. Protagonista dei numerosi fatti di sangue una banda, formata da sei uomini, cinque dei quali poliziotti, diventata nota con il nome del modello di auto solitamente usato durante i colpi: una Fiat Uno bianca. Dal 1987 al 1994 la banda della Uno Bianca ha commesso centinaia di delitti, uccidendo decine di persone e ferendone oltre cento. A lungo le forze dell’ordine hanno indagato per cercare di dare un volto a quei criminali, che poi si rivelarono essere dei colleghi. In carcere finirono i tre fratelli Savi, due dei quali (Roberto e Alberto) erano poliziotti, mentre il terzo, Fabio, era un camionista, e altri agenti di polizia, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli.
Dalle rapine ai caselli agli omicidi
Oltre cento sono i colpi attribuiti alla banda della Uno Bianca. Il primo in ordine cronologico corrisponde alla rapina al casello di Pesaro, del 19 giugno 1987. Quella volta il bottino fu di 1.300.000 lire. Poi, nel giro dei successivi due mesi, vennero messi a segno altre dodici rapine, tutte ai danni di caselli autostradali, tranne una, che venne effettuata in un ufficio postale di Coriano. Così, dai caselli autostradali si passò alle rapine negli uffici postali e, successivamente, la banda prese di mira i supermercati, soprattutto Coop. Fino a qui, la banda si era lasciata alle spalle solamente un ferito.
Tutto cambiò nell’ottobre del 1987, quando la banda tentò un’estorsione. Dopo aver crivellato di colpi le vetrine di un’autoconcessionaria di Rimini, i criminali inviarono al proprietario una lettera con una richiesta di 50 di lire. La somma avrebbe dovuto essere consegnata sulla A14: la vittima dell’estorsione, secondo le indicazioni dei malviventi, avrebbe dovuto fermarsi a ogni cavalcavia, a uno dei quali avrebbe trovato una corda, dove avrebbe dovuto legare la valigetta coi soldi, per poi andarsene. Il proprietario dell’autosalone avvisò subito la polizia di Rimini, che intervenne con l’obiettivo di smascherare i ricattatori. Il 3 ottobre 1987 l’uomo si recò all’appuntamento con la propria auto, ma nel bagagliaio era nascosto un agente di polizia, mentre un’altra auto con a bordo tre poliziotti seguiva quella della vittima dell’estorsione.
Arrivati vicino al cavalcavia al chilometro 104 della A14, a poca distanza dal casello di Cesena, l’auto della polizia venne investita da una raffica di colpi e, durante il seguente conflitto a fuoco, vennero feriti i tre poliziotti che viaggiavano a bordo: Antonio Mosca, Addolorata Di Campi e Luigi Cenci. Mosca morì nel luglio del 1989, dopo un lungo periodo di sofferenza, e viene considerato la prima vittima della banda della Uno Bianca.
Dopo questo colpo i criminali in divisa passarono alle rapine nei supermercati e, durante quella alla Coop di Rimini, il 30 gennaio 1988, venne uccisa la guardia giurata Giampiero Picello, 41 anni. Erano circa le 18 quando i criminali iniziarono a sparare, uccidendo Picello, ferendo gravemente un’altra guardia giurata e altre persone, tra cui una bambina di 9 anni. "Ero andata a fare la spesa con mio padre, mia madre e mia sorella di tre anni - raccontò quella bambina al Corriere della Sera, diversi anni dopo - Mentre eravamo sulla rampa che portava all’ingresso della Coop sentimmo degli scoppi alle nostre spalle [..] Poi sentii ancora le urla di mio padre che ci dice di stare giù perché stanno sparando".
A questo episodio seguirono una serie di rapine e tentate rapine. Durante quella compiuta in un supermercato a Casalecchio di Reno ci fu un’altra vittima: di nuovo guardia giurata, Carlo Beccari, 26 anni, che stava prelevando l’incasso giornaliero insieme a tre colleghi, che rimasero feriti.
I carabinieri uccisi a Castel Maggiore
Dopo altri due colpi, a un casello e a una Coop, si arrivò al 20 aprile del 1988. La lista di morti legati alla Uno Bianca si allungò. A perdere la vita furono due carabinieri di 22 anni, Cataldo Stasi e Umberto Erriu, durante un giro di perlustrazione nelle zone più isolate di Castel Maggiore (Bologna). I militari si avvicinarono all'auto della banda, puntandovi contro il piccolo faro della vettura per illuminare. Poco dopo, i due carabinieri vennero investiti da una raffica di colpi, che li lasciò a terra, senza vita.
Come si legge nella Sentenza della Corte d’Assise di Bologna del 31 maggio 1997, Roberto e Fabio Savi ammisero di essere i responsabili della morte dei due carabinieri. "Sparai io con la 357 e Fabio con un’altra pistola a tamburo", disse Roberto raccontando l’episodio: "Eravamo a Castel Maggiore per la rapina al furgone portavalori, ce ne stavamo andando perché le guardie giurate erano fuori orario […] Ricordo che noi stavamo andando via quando arrivarono i carabinieri. Noi dicemmo che andavamo di fretta e che eravamo in ritardo. I due militari tirarono fuori la pistola e ci chiesero i documenti. A quel punto noi sparammo. Non ricordo se anche i due militari riuscirono a sparare. Anche se direi di no". Anche Fabio ammise il duplice omicidio, dichiarando, come si legge in sentenza: "lo abbiamo fatto io e mio fratello Roberto". E descrivendo la dinamica "in maniera del tutto corrispondente alla versione fornita dal complice".
Nel corso del 1988 la banda compì ancora diverse rapine a caselli, supermercati e uffici postali, collezionando altri feriti e un bottino complessivo da centinaia di milioni di lire. Successivamente, il 26 giugno 1989, i killer colpirono di nuovo: poco dopo aver rapinato la Coop di Corticella, i banditi incontrarono il 52enne Adolfino Alessandri, che li apostrofò con un "cosa fate, delinquenti?". Tanto bastò a spingere i membri della banda a uccidere l’uomo. Seguirono ancora una serie di rapine, tra cui quella all’ufficio postale di Bologna, che causò una quarantina di feriti, uno dei quali, Giancarlo Armorati, morì successivamente. La stessa sorte di Alessandri toccò anche a Primo Zecchi, colpevole di aver assistito a una rapina in una tabaccheria e di aver provato a prendere la targa dell’auto dei criminali.
Nel 1990 la banda della Uno Bianca si rese protagonista di diverse azioni delittuose e di altri tre omicidi. I primi, in ordine cronologico, furono quelli di Rodolfo Bellinati e Patrizia Della Santina, colpiti dai criminali che avevano aperto il fuoco sul campo nomadi di via Gobetti a Bologna. Era il 23 dicembre 1990, due giorni prima di Natale. Appena quattro giorni dopo, una Uno bianca si fermò a un distributore di benzina a Castel Maggiore e due uomini armati chiesero al benzinaio di consegnare l’incasso della giornata. Prima di andarsene, i criminali uccisero Luigi Pasqui. Ma l’uomo non fu l’unica vittima di quel giorno: anche Paride Pedini venne ucciso, probabilmente perché aveva visto la banda cambiare auto, a Trebbio di Reno.
La strage del Pilastro
Un altro agguato, dopo gli omicidi a Castel Maggiore, coinvolse i carabinieri. Era il 4 gennaio del 1991. Ore 21.45. Una pattuglia dell’Arma stava transitando nel quartiere Pilastro di Bologna. Dopo aver imboccato via Casini, l’auto venne investita dai primi colpi, che ferirono mortalmente il militare alla guida, Otello Stefanini. L'auto dei carabinieri sbandò, prima contro il marciapiede, rompendo la ruota anteriore e lo sterzo, e poi finì contro quattro cassonetti. Quando l’auto dei militari si fermò, per gli altri due carabinieri a bordo, Mauro Mitilini e Andrea Moneta, non c’era più scampo: gli assassini iniziarono a sparare addosso ai sopravvissuti, dandogli poi il colpo di grazia. I killer del Pilastro erano a bordo di una Fiat Uno bianca. La stessa macchina, notarono inquirenti, stampa e opinione pubblica, comparsa in molti degli omicidi compiuti nella zona di Bologna negli ultimi mesi.
Roberto e Fabio confesseranno di essere i killer dei poliziotti e daranno la loro versione, nel corso degli interrogatori e del processo di Bologna del 1994. "All’inizio di via Casini venimmo sorpassati da un’auto dei carabinieri e pensammo che questa stesse per fermarci - dichiarò Roberto - Allora esplosi dal finestrino del posto anteriore destro alcuni colpi in direzione del baule della vettura […] C’eravamo io, Alberto alla guida, Fabio dietro". La loro presenza al Pilastro venne spiegata con la necessità di procurarsi delle auto da usare nei successivi colpi. "Noi pensammo che i carabinieri stessero scappando via - continuò Roberto - poi circa 100-150 metri più avanti la macchina era ferma, questi erano scesi e stavano sparando verso di noi, io rimasi ferito nel momento in cui stavo scendendo dalla macchina".
La strage del Pilastro fu uno dei crimini più efferati commessi dalla banda della Uno Bianca e quello che ha maggiormente sconvolto l’opinione pubblica, tanto che l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga definì la strage "un atto di guerra". Quella sera a perdere la vita non furono solo tre carabinieri, ma tre ragazzi poco più che ventenni, che lasciarono madri, padri, mogli, figli, fratelli e sorelle a piangere la loro morte.
Gli ultimi colpi
L’ultima strage non fermò la banda della Uno Bianca, che per altri due anni continuò a seminare terrore e morte tra Emilia-Romagna e Marche. Il 20 aprile 1991 perse la vita il titolare di una stazione di servizio di Borgo Panigale, il cinquantenne Claudio Bonfiglioli, che stava ritirando l’incasso del self-service automatico. A terra, in mezzo al sangue, rimasero la gran parte dei soldi appena prelevati dall’uomo.
Il 2 maggio dello stesso anno, a perdere la vita furono Licia Ansaloni, 48 anni, e Pietro Capolungo, 66. Come riporta il Comune di Bologna, che ha ricostruito una mappa degli atti delittuosi della banda, intorno alle 10.15 di quella mattina, un uomo entrò nell’armeria di Licia Ansaloni, in pieno centro a Bologna, chiedendo di visionare alcune pistole. Quell’uomo era Fabio Savi, che poco dopo fu raggiunto da Roberto. A scoprire i corpi di Ansaloni e Capolungo, a cui i killer avevano sparato a distanza ravvicinata, furono un cliente e un negoziante. Anche questa volta, i soldi erano rimasti al loro posto. A mancare erano, invece, due pistole.
Il 19 giugno, la banda si recò distributore di benzina di Cesena, dove trovò il gestore Graziano Mirri, 55 anni. Quando la Uno bianca si fermò, due banditi scesero dall’auto, intimando all’uomo di consegnare loro i soldi, come percepito anche dalla moglie della vittima, che assistette alla scena. "Cos’è, uno scherzo?", avrebbe risposto Mirri ai killer, che senza dare ulteriori spiegazioni esplosero nove colpi di pistola contro l’addome dell’uomo, uccidendolo. Nessun bottino. Solo un morto in più nella lunga lista di sangue.
Circa due mesi dopo il colpo al distributore di benzina, i killer presero di mira due operai senegalesi, Ndiaj Malik, 29 anni, e Babou Chejkh, 27 anni. I due operai erano in cerca di un albergo, quando furono affiancati dall’auto diventata tristemente famosa. Gli uomini a bordo scaricarono sulle vittime decine di colpi, che tolsero la vita ai due ragazzi.
Tra il 1993 e il 1994 altre tre persone perirono sotto i colpi dei poliziotti-killer. Il 24 febbraio 1993 venne assassinato Massimiliano Valenti, un ragazzo di 21 anni, dipendente di una ditta di trasporti, che senza volerlo aveva assistito al cambio di auto della banda, dopo la rapina al Credito Romagnolo di Zola Predosa. Lì, intorno alle 8.30, un bandito, travestito con baffi finti, occhiali neri e un cappello, aveva portato via 50.000.000 di lire. Massimiliano venne costretto dai banditi a entrare nella loro auto e, dopo averlo ucciso, lo abbandonarono sul ciglio di un fossato. Nello stesso anno, i banditi tentarono una rapina alla Cassa di Risparmio di Riale. Lì però, l’impiegata presa di mira riuscì a ribellarsi e uscì per dare l’allarme, avvicinandosi a un’officina. I killer però non rinunciarono alla vendetta e iniziarono a sparare in direzione dell’officina, ferendo gravemente l’elettrauto Carlo Poli, che morì pochi giorni dopo.
Risale al 24 maggio 1994 l’ultimo omicidio della banda della Uno Bianca. Erano da poco passate le 8 a Pesaro e il direttore della Cassa di Risparmio, Ubaldo Paci, stava entrando in filiale, quando venne avvicinato da un uomo con barba posticcia, occhiali e cappello, che gli sparò un colpo di pistola alla schiena. Poi, con un altro colpo si assicurò che Paci morisse. Poco distante, un complice, in macchina, lo aspettava per fuggire.
Questa fu l’ultima azione della banda della Uno Bianca. Dopo centinaia di azioni criminali e 23 omicidi i killer vennero fermati.
· Il mistero di Mattia Caruso.
Laura Berlinghieri per la Stampa il 28 settembre 2022.
Una ferita in pieno petto, nel parcheggio di un locale della provincia di Padova, inferta da un uomo che indossava una felpa con il cappuccio. Ha ucciso Mattia Caruso, 30 anni, commerciante ambulante di dolciumi, di Albignasego. Accoltellato a morte, il ragazzo ha comunque provato a fuggire, in macchina, con la fidanzata. Per poi arrendersi, uscire dall’abitacolo ed, esanime, crollare sull’asfalto, macchiato dal sangue.
Montegrotto, domenica sera. Caruso e la fidanzata trascorrono la serata nel locale Ai laghi di Sant’Antonio. C’è una festa: dopo l’omicidio, i partecipanti saranno tutti ascoltati dagli inquirenti. Passano un paio d’ore e la coppia decide di rientrare a casa. Mattia e la fidanzata escono dal locale, dirigendosi verso la macchina. È a quel punto che il 30enne viene avvicinato da un uomo. Probabilmente aveva partecipato alla festa. Mattia lo conosce e, per questo, dice alla fidanzata di precederlo in auto, lui l’avrebbe raggiunta poco dopo.
Sarà così, ma in quell’auto Mattia rientrerà con una ferita al petto, che si rivelerà fatale. Il giovane è nel parcheggio del locale, discute animatamente con l’uomo con il cappuccio. Poi questi estrae un coltello e lo colpisce al cuore. Un solo colpo, basterà a ferirlo a morte. Mattia a quel punto cerca di fuggire, sale in macchina, sul posto del guidatore. Sul sedile accanto c’è la fidanzata Valentina, che dirà di non essersi accorta di nulla. Caruso gira la chiave nel cruscotto, ingrana la prima e parte con l’auto. Una strada, poi l’altra, poi l’altra ancora.
Poi non ce la fa più. Nemmeno un chilometro, Comune di Abano. Mattia accosta, scende dall’auto e crolla sull’asfalto. È solo a quel punto - riferirà agli inquirenti - che la donna si rende conto che il fidanzato è ferito, e chiama il 118. Intanto Mattia è disteso a terra, esanime. Alcuni residenti vedono la scena e, a loro volta, chiamano i Carabinieri. Sul posto arrivano un’ambulanza e una pattuglia del Nucleo radiomobile della compagnia di Abano. Mattia viene trasportato d’urgenza all’ospedale di Padova, dove morirà poco dopo.
Ieri i Carabinieri hanno sentito una decina di persone, compresi i partecipanti alla festa, intorno ai quali starebbero già stringendo il cerchio. Sono potenziali testimoni dell’aggressione o quantomeno dei momenti che l’hanno preceduta, nel locale. È stata sentita a lungo, sia lunedì che ieri, anche la fidanzata di Caruso. I due stavano insieme da un paio d’anni. Un rapporto travagliato, fatto di continui tira e molla, e per questo osteggiato dalla famiglia di lui.
A Mattia non interessava e da qualche giorno si era trasferito a casa sua. «Era una relazione turbolenta, fatta di giorni di amore folle e altri di enormi litigi. Ma lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei», racconta la sorella Melinda. Lei, la fidanzata, che domenica sera non si era resa conto di nulla. Gli investigatori confrontano le versioni, proprio nel tentativo di capire come sia possibile che la donna non si fosse accorta che il suo fidanzato, alla guida, fosse stato accoltellato.
Si passano al setaccio le immagini delle telecamere. Così come i messaggi e le telefonate di Mattia: il suo telefono è stato acquisito dai Carabinieri subito dopo l’omicidio. E si indaga nelle sue frequentazioni. Cattive frequentazioni, ultimamente. Potrebbe essere questa la chiave dell’omicidio, forse nato nell’ambito di un regolamento di conti, forse legato alla droga. Intanto, la sorella Melinda chiede giustizia: «Lo avevo visto domenica, era passato a trovarmi. E poi l’ho rivisto disteso sul letto dell’obitorio. Voglio sapere cos’è successo a mio fratello».
Omicidio Mattia Caruso, la confessione della fidanzata: «Sono stata io ad accoltellarlo». Riccardo Bruno, Roberta Polese su Il Corriere della Sera il 30 Settembre 2022.
La 31enne Valentina Boscaro aveva depistato le indagini sull’omicidio di Abano Terme. «Non volevo, mi ha picchiata». In un primo tempo aveva indicato un uomo di colore con il cappuccio. Dopo averlo colpito, ha messo l’arma nella tasca del compagno.
Il suo racconto agli inquirenti era apparso subito pieno di lacune, di incongruenze. Valentina Boscaro aveva detto che domenica scorsa, dopo aver passato un paio d’ore in una discoteca di Montegrotto Terme, nel Padovano, era salita in macchina con il suo fidanzato, Mattia Caruso . Che non si era accorta che era ferito, che lui dopo un chilometro aveva fermato l’auto, era sceso e si era accasciato a terra. Una donna aveva visto la scena, Valentina ancora sotto choc, e aveva chiamato il 118. Ma i soccorsi erano stati vani, Mattia era morto poco dopo in ospedale. Lei aveva anche aggiunto che davanti al locale Mattia si era allontanato per parlare con un uomo di colore con un cappuccio. Un tentativo, poi si è capito, per sviare le indagini.
I carabinieri del Reparto operativo di Padova, guidati dal tenente colonnello Gaetano La Rocca, in questi quattro giorni hanno sentito diversi testimoni e soprattutto visionato le telecamere all’esterno della discoteca. Hanno visto che Valentina e Mattia salivano subito sull’auto, nessun contatto con altre persone, e poi andavano via. Ieri mattina hanno convocato la ragazza in caserma, le hanno chiesto di chiarire i punti oscuri. Lei ha provato a resistere, poi ha ceduto. «L’ho ucciso io, ma non volevo. Abbiamo litigato, lui era alterato, aggressivo, violento. Mi ha picchiata e strattonata e non era la prima volta. Ho preso il coltellino che aveva nel cruscotto e l’ho colpito».
La posizione di Valentina Boscaro, 31 anni, è così cambiata da testimone ad accusata di omicidio. A quel punto sono stati chiamati i suoi legali, Nicola Guerra e Federico Cibotto. L’interrogatorio è proseguito fino alla sera davanti al pm Roberto Piccione, che poi ha emesso il fermo in quanto indiziata di delitto. Essendo incensurata, sono stati disposti i domiciliari.
Oggi sul corpo di Mattia Caruso sarà eseguita l’autopsia. Da un primo esame sembra che sia stato raggiunto da un solo colpo al torace, all’altezza del cuore. Un fendente che non gli ha lasciato scampo. Valentina ha poi posato il coltellino nella tasca del compagno. Un dettaglio su cui il pm ha insistito. Lei si è difesa: «Non mi ricordo dove l’ho messo».
Mattia avrebbe compiuto 31 anni il prossimo 11 ottobre. Nato e cresciuto ad Albignasego, un grosso comune a sud di Padova, lavorava con la famiglia che vende dolci siciliani nelle fiere e nelle sagre. Aveva qualche piccolo precedente per rissa e droga, da ragazzino avevo fatto parte di una baby gang. Sembra che nell’ultimo periodo, come ha raccontato qualche amico, avesse di nuovo iniziato a frequentare ambienti poco raccomandabili.
Con Valentina, madre di una bambina di sei anni affidata al padre, si erano conosciuti un paio di anni fa nei mercatini, anche lei venditrice ambulante di vestiti. Una relazione vissuta tra alti e bassi, che non piaceva alla famiglia di lui. Melinda, la sorella maggiore di Mattia, ha detto al Corriere del Veneto: «Da poco aveva cominciato a vivere con lei e aveva lasciato la casa dei miei genitori, eravamo un po’ preoccupati per lui. Era innamoratissimo di quella ragazza un po’ complicata, si lasciavano e si riprendevano in continuazione. Era un rapporto tormentato».
In questi giorni, Valentina è stata sentita più volte dai carabinieri. Un altro tassello che non tornava, prima ancora di visionare le immagini delle telecamere, era il fatto che nessuna traccia di sangue era stata trovata nel piazzale della discoteca. Strano, se davvero Mattia era stato colpito lì. La verità è che non aveva discusso con nessun uomo con il cappuccio, la lite era nata in macchina tra i due fidanzati. Lei ieri ha ammesso: «La nostra era una storia burrascosa, abbiamo litigato anche quella sera». Forse lei non voleva che così «alterato» si mettesse alla guida. In effetti alle 22.20, lui chiama un amico: «Ho fatto una cavolata, vienimi a prendere». Ma poi decide di partire con Valentina. A casa Mattia non arriverà mai. Ucciso con un colpo al cuore dalla donna di cui era innamorato.
Marina Lucchin per "il Gazzettino" l'1 ottobre 2022.
È una storia di litigi e botte, di urla e sangue, di un amore vicendevolmente tossico quella di Mattia Caruso, assassinato a 30 anni con una pugnalata al cuore, e Valentina Boscaro, la sua carnefice, che ora piange e si dispera nella sua casa, dov’è stata confinata agli arresti domiciliari.
Ieri il suo avvocato è andato a trovarla, per pianificare come comportarsi questa mattina quando la donna, 31 anni, padovana, comparirà davanti al gip del tribunale di Padova per la convalida del fermo d’indiziato di delitto per il reato di omicidio volontario, aggravato dal fatto che i due erano legati da una relazione sentimentale: Valentina rischia l’ergastolo. «Sta male - spiega il legale, Nicola Guerra - È sotto choc perché si rende conto di quel che è avvenuto. Una cosa che Valentina Boscaro non avrebbe mai voluto accadesse».
Eppure la 31enne ha fatto di tutto pur di scamparla, inventando bugie, mettendo in atto depistaggi. Un castello di menzogne che è crollato dopo quattro giorni di “resistenza”. Finché la padovana giovedì mattina non è capitolata davanti ai carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale euganeo, guidato dal colonnello Michele Cucuglielli. «La nostra era una storia burrascosa, litigavamo sempre. Mi picchiava e mi minacciava, una volta voleva farmi mangiare una tartaruga morta.
Quella sera guidava veloce, ha iniziato a strattonarmi tirandomi le mutande. È imprevedibile quando beve. Io ero stanca ed esasperata, ho visto il suo coltello sul cruscotto, l’ho preso e l’ho colpito». Poi Valentina ha iniziato a raccontare i due anni passati con Mattia. Lei assicura tra botte e maltrattamenti, anche se non l’ha mai denunciato e mai è andata al pronto soccorso per qualche ferita. Mentre gli amici di lui, e anche il fratello Rosario assicurano che lui la amava più della sua stessa vita e che «era lui che qualche volta è tornato a casa con un occhio nero perché lei lo picchiava».
Voci, racconti. Quel che è certo è che lui aveva un discreto curriculum criminale: nel 2014 aveva preso quattro mesi di reclusione, convertiti in affidamento in prova ai servizi sociali, per resistenza e rifiuto di un accertamento in stato di ebbrezza; nel 2015 otto mesi (con la sospensione) per falso; nel 2019 altri otto mesi per furto in un bar, mentre nel 2021 un fascicolo per lesioni è stato archiviato per tenuità del fatto. Mattia era stato anche segnalato alla prefettura quale assuntore di cocaina, motivo per cui gli era stata ritirata la patente.
La questione della droga, ha assicurato al pubblico ministero Roberto Piccione, era uno dei motivi di tante litigate, perché lei, mamma di una bimba piccola, si è sempre detta contraria all’uso di stupefacenti. In gioventù aveva commesso un errore anche lei: nel 2010 era stata processata per furto in un negozio. Prese 2 mesi e una multa di 100 euro. Poi ha cambiato rotta. Dopo gli studi al liceo Modigliani di Padova si è trasferita in India, quindi a Roma, dove ha conosciuto il padre di sua figlia. Una storia tormentata anche quella, finita con la separazione: la bambina è affidata a lei e ogni tanto va nella Capitale a trovare il papà. Come in quest’ultimo fine settimana. Ecco perchè Valentina era potuta uscire liberamente, non avendo il pensiero di prendersi cura della figlia per un paio di giorni. «Non esco mai» ha raccontato ai carabinieri.
Ma cos’è scattato nella testa della donna per arrivare ad assassinare il fidanzato? Lei racconta di botte e litigate violente. Di minacce e “punizioni”. Come quella volta che lui voleva obbligarla a mangiare la sua tartaruga domestica, accusandola di essere stata lei la causa della morte. Agli inquirenti tutto fa pensare a un delitto d’impeto. Ma poi, nonostante lo choc, c’è stato il tentativo di depistare gli investigatori: il coltellino riposto nelle tasche di Mattia, l’abbraccio al fidanzato morente per non destare sospetti sul fatto che fosse sporca di sangue, l’aggressione da parte di un “uomo nero” e incappucciato. Alla fine il crollo: «Sono stata io». Un amore tossico, di cui restano solo sangue e lacrime, una vita spezzata, e un’altra rovinata.
Da repubblica.it il 29 settembre 2022.
«L’ho ucciso con il coltello a serramanico che aveva sempre con sé». Questa la svolta nelle indagini relative all’omicidio di Mattia Caruso, il 30enne di Albignasego ucciso nella notte tra domenica e lunedì con una profonda coltellata al cuore: è stata fermata dai Carabinieri la fidanzata del giovane, Valentina Boscaro, che avrebbe confessato l’omicidio.
Diversi i punti oscuri su cui Procura e carabinieri stavano indagando. La sera di domenica 25 settembre Caruso era ai Laghi di Sant'Antonio con la fidanzata. È stata lei a raccontare agli inquirenti cosa sarebbe accaduto quella notte, un racconto – con diverse versioni – che ha subito suscitato diversi dubbi, spingendo il pm a convocarla nuovamente in caserma per ascoltarla.
Stando a quanto riferito dalla giovane, infatti, i due fidanzati si sarebbero recati a una festa, al termine della quale Caruso si sarebbe allontanato con un estraneo, mentre lei sarebbe rimasta in auto. Il giovane sarebbe stato accoltellato da un ragazzo, per poi risalire in macchina e percorrere qualche chilometro prima di morire, fermandosi in via dei Colli. Boscaro ha dichiarato di non essersi accorta che il fidanzato sanguinava. Una versione che non ha convinto gli inquirenti. Durante l’interrogatorio la ragazza è crollata, confessando il delitto.
Caruso è morto con molta probabilità per il colpo fatale inferto al cuore. Giunti sul posto, i carabinieri lo hanno trovato in gravissime condizioni. I soccorsi lo hanno portato in ospedale, dove però non c’è stato nulla da fare e il 30enne è deceduto.
Riccardo Bruno,Roberta Polese per il “Corriere della Sera” il 30 settembre 2022.
Il suo racconto agli inquirenti era apparso subito pieno di lacune, di incongruenze. Valentina Boscaro aveva detto che domenica scorsa, dopo aver passato un paio d'ore in una discoteca di Montegrotto Terme, nel Padovano, era salita in macchina con il suo fidanzato, Mattia Caruso. Che non si era accorta che era ferito, che lui dopo un chilometro aveva fermato l'auto, era sceso e si era accasciato a terra.
Una donna aveva visto la scena, Valentina ancora sotto choc, e aveva chiamato il 118. Ma i soccorsi erano stati vani, Mattia era morto poco dopo in ospedale. Lei aveva anche aggiunto che davanti al locale Mattia si era allontanato per parlare con un uomo di colore con un cappuccio. Un tentativo, poi si è capito, per sviare le indagini.
I carabinieri del Reparto operativo di Padova, guidati dal tenente colonnello Gaetano La Rocca, in questi quattro giorni hanno sentito diversi testimoni e soprattutto visionato le telecamere all'esterno della discoteca. Hanno visto che Valentina e Mattia salivano subito sull'auto, nessun contatto con altre persone, e poi andavano via. Ieri mattina hanno convocato la ragazza in caserma, le hanno chiesto di chiarire i punti oscuri. Lei ha provato a resistere, poi ha ceduto. «L'ho ucciso io, ma non volevo. Abbiamo litigato, lui era alterato, aggressivo, violento. Mi ha picchiata e strattonata e non era la prima volta. Ho preso il coltellino che aveva nel cruscotto e l'ho colpito».
La posizione di Valentina Boscaro, 31 anni, è così cambiata da testimone ad accusata di omicidio. A quel punto sono stati chiamati i suoi legali, Nicola Guerra e Federico Cibotto. L'interrogatorio è proseguito fino alla sera davanti al pm Roberto Piccione, che poi ha emesso il fermo in quanto indiziata di delitto. Essendo incensurata, sono stati disposti i domiciliari.
Oggi sul corpo di Mattia Caruso sarà eseguita l'autopsia. Da un primo esame sembra che sia stato raggiunto da un solo colpo al torace, all'altezza del cuore. Un fendente che non gli ha lasciato scampo. Valentina ha poi posato il coltellino nella tasca del compagno. Un dettaglio su cui il pm ha insistito. Lei si è difesa: «Non mi ricordo dove l'ho messo». Mattia avrebbe compiuto 31 anni il prossimo 11 ottobre.
Nato e cresciuto ad Albignasego, un grosso comune a sud di Padova, lavorava con la famiglia che vende dolci siciliani nelle fiere e nelle sagre. Aveva qualche piccolo precedente per rissa e droga, da ragazzino avevo fatto parte di una baby gang. Sembra che nell'ultimo periodo, come ha raccontato qualche amico, avesse di nuovo iniziato a frequentare ambienti poco raccomandabili. Con Valentina, madre di una bambina di sei anni affidata al padre, si erano conosciuti un paio di anni fa nei mercatini, anche lei venditrice ambulante di vestiti.
Una relazione vissuta tra alti e bassi, che non piaceva alla famiglia di lui. Melinda, la sorella maggiore di Mattia, ha detto al Corriere del Veneto : «Da poco aveva cominciato a vivere con lei e aveva lasciato la casa dei miei genitori, eravamo un po' preoccupati per lui. Era innamoratissimo di quella ragazza un po' complicata, si lasciavano e si riprendevano in continuazione. Era un rapporto tormentato». In queste giorni, Valentina è stata sentita più volte dai carabinieri.
Un altro tassello che non tornava, prima ancora di visionare le immagini delle telecamere, era il fatto che nessuna traccia di sangue era stata trovata nel piazzale della discoteca. Strano, se davvero Mattia era stato colpito lì. La verità è che non aveva discusso con nessun uomo con il cappuccio, la lite era nata in macchina tra i due fidanzati. Lei ieri ha ammesso: «La nostra era una storia burrascosa, abbiamo litigato anche quella sera».
Forse lei non voleva che così «alterato» si mettesse alla guida. In effetti alle 22.20, lui chiama un amico: «Ho fatto una cavolata, vienimi a prendere». Ma poi decide di partire con Valentina. A casa Mattia non arriverà mai. Ucciso con un colpo al cuore dalla donna di cui era innamorato.
Rashad Jaber e Roberta Polese per corriere.it il 30 settembre 2022.
Mattia e Valentina, coetanei, giovani, belli e maledetti. La loro relazione è nata sotto una cattiva stella, un amore complicato, tormentato, struggente e a tratti violento. Così gli amici descrivono la storia finita domenica nel più tragico dei modi: con Mattia morto in ospedale dopo una coltellata al cuore e Valentina che, quattro giorni dopo, ha confessato agli inquirenti di averlo colpito.
L’incontro
Mattia e Valentina si erano conosciuti due anni fa ai mercatini. Lui lavorava al banco dei genitori che vendono dolcetti siciliani alle sagre e alle fiere. I Caruso li conoscono tutti, e Mattia era un ragazzo turbolento che si faceva ben volere. La bella Valentina invece è figlia di impiegati e qualche anno fa ha aperto anche lei un’attività di ambulante di vestiti. Lei e Mattia si erano conosciuti ad uno di questi mercatini, tutti sapevano chi erano: dalla festa di Radio Sherwood alla fiera del Socco a Grisignano, dal mercatino di Natale nelle piazze alle tante fiere venete.
Lei è bella e tormentata, le girano attorno molti ragazzi perché il suo fascino è irresistibile. Ma tra tutti Mattia fa breccia nel suo cuore. Lei esce da una storia travagliata che le ha dato una figlia, lui è single. Si vedono, si piacciono e si mettono insieme. Ed è lì che inizia il viaggio verso l’abisso. Perché Valentina vuole stare in coppia ma vuole essere libera, lui le sta addosso poi si allontana, e allora lei se lo riprendere. Una relazione tossica, una dipendenza affettiva che li allontana da tutti. Per gli amici è difficile stargli accanto e lentamente si isolano.
I litigi continui
«Gli avevo detto mille volte di lasciarla - racconta Mihail Eftene, l’amico del cuore di Mattia - lei lo faceva impazzire, lei dice che lui la picchiava? Tutte bugie, era lei che lo prendeva a pugni, è venuto a casa mia tante volte con un occhio nero perché lei lo pestava, certo Mattia ogni tanto si difendeva, ma non alzava le mani, le prendeva e basta, ma non riusciva a staccarsi da lei - spiega - li ho visti a cena martedì della settimana scorsa, era impossibile stare vicino a entrambi, litigavano continuamente».
Vite turbolente
A detta di tanti Valentina è una ragazza instabile: cammina su un filo di lana fatto di follia e bisogno di sicurezze, trasgressioni e ricerca di tranquillità. Ha un fratello e due genitori che le vogliono bene e cercano di starle vicino ma pare che niente sia abbastanza. La nascita della bambina sei anni fa sembrava le potesse portare un po’ di stabilità, ma non è stato così. Mattia dal canto suo non era certo un tipo tranquillo e remissivo. In passato aveva avuto qualche problema con la giustizia, piccolo spaccio, risse da bar in cui erano stati coinvolti anche alcuni suoi familiari.
Da piccolo aveva fatto parte di quella che tutti conoscevano come la baby gang della Guizza, un quartiere di Padova. Il lavoro al truck dei dolciumi gli consentiva di mantenersi. Ma lo stop delle fiere per via del Covid lo aveva colpito profondamente. Il denaro che prima c’era e poi non c’era più, la fatica di ricominciare, quella relazione burrascosa con quella donna di cui era follemente innamorato erano tutti elementi che avevano contribuito a destabilizzarlo ancora di più.
La convivenza
E nel conto bisognava mettere pure i cattivi rapporti con la famiglia, interrotti da quando Mattia aveva iniziato a frequentare Valentina. Ai Caruso quella ragazza non piaceva per niente. «Da un po’ di tempo era andato a vivere con lei, lasciando casa dei miei genitori - aveva dichiarato nei giorni scorsi la sorella Melinda - Mattia era innamoratissimo di lei. Noi eravamo preoccupati per via del fatto che Valentina si fosse già dimostrata una persona complicata, si lasciavano e si riprendevano in continuazione, avremmo solo voluto vederlo più sereno».
Una relazione che fra alti e bassi durava da ormai due anni, al punto da evolvere in una convivenza, ma evidentemente ciò non era bastato a limitare le discussioni e i litigi fra i due. Mattia aveva lasciato la casa di Albignasego, il paese appena fuori Padova dove è nato e cresciuto, per andare a stare con Valentina che abitava in una casetta nell’ultimo lembo di campagna padovana in via Ca’ Silvestri a Montà. Nel giardino della donna il 29 settembre, giorno del suo fermo, si vedevano i giochi della bambina che evidentemente passa molto tempo a casa insieme alla mamma. Ma c’era anche un cartello sul campanello «No ai giornalisti».
Eppure mattina Valentina era dai carabinieri di buon’ora, quel cartello evidentemente era stato messo il giorno prima. Del resto era inevitabile cercarla e voler parlare con lei, che era l’ultima ad aver visto vivo Mattia Caruso. Eppure in quella casa, che lei stessa aveva condiviso con Mattia, ha tenuto il suo segreto ben saldo, senza farne parola con nessuno. Chissà se pensava di farcela, di riuscire a portarsi dentro una croce così pesante, da sola.
· Il caso di Marcello Toscano.
Napoli, il professore Marcello Toscano trovato morto nel cortile della scuola. Il Tempo il 28 settembre 2022
Riverso a terra in una pozza di sangue in un'aiuola del cortile della scuola. È stato trovato così Marcello Toscano, insegnante di sostegno della scuola media Marino Guarano, a Melito di Napoli, in provincia di Napoli.
Sul corpo l'uomo, ex consigliere comunale di Mugnano, sono state ferite riconducibili a un'arma bianca. L'allarme era scattato nella tarda serata di ieri quando l'uomo non aveva fatto ritorno a casa. È stata la figlia a individuare la macchina del padre nei pressi della scuola. I carabinieri stanno indagando e hanno acquisito diverse immagini delle telecamere presenti in zona.
"Non so cosa sia successo ma potrebbe essere stata una nota a scatenare l'ira di qualche ragazzo o qualche genitore", dice a LaPresse il professor Andrea Cipolletti, che insegna alla scuola 'Melissa Bassi' di Scampia, amico di Marcello Toscano. "Marcello a mezzogiorno ha chiesto a un suo collega di insegnargli a mandare la posizione tramite WhatsApp, probabilmente si sentiva in pericolo", racconta.
Chi lo conosce parla di un uomo normalissimo "un padre di famiglia, prossimo alla pensione", con un sogno "quello di trovare un casolare del Cilento per passare la pensione, il suo sogno è morto un martedì dei fine settembre", racconta ancora a LaPresse il cugino. "È un problema di ordine pubblico. È allucinante nel 2022 che si muoia accoltellato nel cortile di una scuola - prosegue -. Questa questione deve accendere i riflettori sul quadrante di Napoli. Tra l'altro nella stessa scuola ci sono stati comunque dei precedenti", aggiunge facendo riferimento all'accoltellamento avvenuto a maggio ai danni di uno studente 13enne.
"È emergenza sicurezza", denuncia Luciano Mottola, il sindaco di Melito, denunciando una "impotenza conclamata, quella che scaturisce dall'impossibilità di essere numericamente pronto per fronteggiare l'emergenza delinquenziale che attanaglia la mia città e tante altre della cintura di Napoli. Ti senti piccolo piccolo, quasi inerme. Al punto da avere voglia di mollare tutto, ma poi viene fuori l'orgoglio e la volontà di voler lottare per cambiare il destino, apparentemente già segnato, della nostra Melito ed allora lanci un disperato appello a Sua Eccellenza il Prefetto di Napoli, al fine di ottenere un dispiegamento maggiore di forze dell'ordine sul nostro territorio.
Un'emergenza criminalità che non la si può certamente combattere con i mezzi attualmente a disposizione, ma che deve essere ai primi posti nell'agenda del nascente governo se non si vorrà abbandonare Melito, e tante altre realtà come Melito, al proprio destino".
Il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi affida a Twitter il proprio sgomento: "Sono sconcertato per la tragica morte del Professor Marcello Toscano, a Melito di Napoli. Mi stringo al dolore della sua famiglia e della comunità scolastica. Chiediamo sia fatta luce al più presto sul drammatico avvenimento". Intanto nessuno è stato fermato ma una persona si trova in caserma dei carabinieri ed è stata sentita dal pm che indaga sulla morte dell'insegnante.
Omicidio Melito, sangue sui vestiti del bidello: la pista del debito con il professore ucciso. Fulvio Bufi su Il Corriere della Sera il 30 Settembre 2022.
Il delitto del professore nel cortile della scuola a Melito (Napoli). Fermato l’uomo sospettato: è un bidello. Il racconto dei testimoni e le immagini delle telecamere. In casa del collaboratore scolastico trovati vestiti forse macchiati di sangue.
Ci sarebbe una questione legata a un debito all’origine dell’omicidio di Marcello Toscano, il docente di sostegno sessantaquattrenne della media «Marino Guarano» di Melito ritrovato martedì sera nel cortile dell’istituto con l’addome e il torace squarciati da diverse coltellate (in una foto pubblicata ieri dal Corriere è stata attribuita al professor Toscano — come indicato dall’agenzia Photo Masi — l’immagine di un’altra persona). Ne sono convinti i pm della Procura di Napoli Nord, che ieri hanno disposto il fermo di un bidello della stessa scuola in cui lavorava Toscano: Giuseppe Porcelli, 54 anni.
In tempi brevissimi, i carabinieri hanno raccolto una serie di elementi ritenuti dai magistrati più che sufficienti per accusare Porcelli di omicidio. Anche se lui, durante l’interrogatorio, non ha mai fatto ammissioni.
Il movente ricondurrebbe a un debito contratto dal bidello con il professore. Secondo alcuni testimoni, Porcelli avrebbe chiesto a Toscano — ottenendolo — un prestito per avviare una attività commerciale. Non emergono dettagli sull’ammontare della cifra né sulle modalità concordate per la restituzione, ma gli investigatori sono sicuri che questo argomento sia stato al centro del confronto sfociato poi nell’accoltellamento.
I principali elementi a carico del bidello verrebbero dall’impianto di videosorveglianza di una macelleria che si trova in viale delle Magnolie, proprio di fronte al cortile della Guarano. Le immagini registrate intorno alle 13, quando le classi sono appena uscite e ci sono ancora ragazzi fermi davanti al cancello, mostrerebbero Toscano e Porcelli che, a pochi secondi di distanza l’uno dall’altro, si dirigono verso la ex casa del custode, una palazzina bassa separata dal corpo della scuola, utilizzata ora come deposito. Il cadavere del professore sarà ritrovato intorno alle nove di sera davanti a quel piccolo fabbricato, ma è all’interno che si sarebbe consumato l’omicidio. Le telecamere, infatti, non inquadreranno più Toscano, dopo averlo ripreso mentre si avvia verso la ex casa del custode. Inquadreranno invece poco dopo Porcelli che fa il percorso inverso e poi esce dalla scuola. Intorno alle cinque del pomeriggio eccolo arrivare di nuovo. Stavolta spalanca il cancello, entra con l’auto e si dirige di nuovo verso il deposito.
Le tracce di sangue trovate sugli scalini dimostrerebbero che Porcelli ha trascinato all’esterno il corpo del professore, verosimilmente con l’intenzione di caricarlo in macchina per poi abbandonarlo chissà dove. A fargli cambiare programma un imprevisto: la scuola non era deserta come immaginava. Voci provenienti dalla palestra, dove alcuni inservienti stavano rimettendo in ordine gli attrezzi, lo hanno messo in allarme. E per capire chi ci fosse si è affacciato e ha finito per farsi vedere da quelle persone che poi sono state ascoltate dai carabinieri e hanno riferito l’episodio.
Il resto lo ha fatto una perquisizione a casa del bidello, dove sono stati trovati e sequestrati abiti macchiati, presumibilmente di sangue. E anche la testimonianza della sua compagna non lo ha aiutato: la donna avrebbe riferito che per due volte, a ora di pranzo e nel pomeriggio, appena rientrato si è cambiato.
Grazia Longo per “la Stampa” il 30 settembre 2022.
C'è un prestito non restituito, o forse elargito con interessi troppo alti, dietro l'omicidio dell'insegnante di sostegno Marcello Toscano, 64 anni, accoltellato lunedì nel cortile della scuola media "Marino Guarano" di Melito dove lavorava.
Ad ucciderlo sarebbe stato Giuseppe Porcelli, 54 anni, arrestato l'altra notte dai carabinieri del Comando provinciale di Napoli, coordinati dalla procuratrice Maria Antonietta Troncone.
Il professore, da quanto risulta al momento, avrebbe prestato del denaro al bidello, che svolgeva funzioni di custode, per consentirgli di aprire un'attività commerciale. Ma qualcosa è andata storto e tra i due è nata una lite, degenerata nel drammatico epilogo. Ad inchiodare il collaboratore scolastico ci sono le chiare immagini della telecamera di un negozio davanti al cortile della scuola (la video sorveglianza all'interno dell'istituto scolastico non funzionava) e i vestiti sporchi di sangue trovati a casa sua.
Intorno alle 13 di lunedì le immagini riprendono sia il professore sia il bidello dirigersi verso l'ex casa del custode, ora utilizzata come deposito, accanto alla quale è stato poi trovato il cadavere. Ma dopo alcuni minuti torna indietro solo il bidello. Il professore no. Segno che, con tutta probabilità è stato ucciso proprio in quel frangente.
«Dopo le 13 sono uscito da scuola e non ci sono più tornato» ha raccontato Porcelli agli inquirenti. Falso. Perché le telecamere lo inquadrano di nuovo mentre entra nel cortile della scuola con la sua automobile intorno alle ore 17. E si avvicina di nuovo al deposito sui cui gradini è stato ritrovato del sangue. Forse voleva recuperare il corpo della vittima per trasportarlo altrove? Fatto sta che viene disturbato dal rumore proveniente dalla palestra e commette l'errore di affacciarsi sulla porta per vedere chi c'è.
Ecco che alcuni addetti alla pulizia della palestra lo vedono, lo riconoscono e racconteranno di averlo notato. A questo punto lui non porta più via il cadavere, che rimane nascosto dietro un cespuglio dove verrà poi ritrovato lunedì dopo le 21 dai carabinieri, in seguito alla denuncia di scomparsa del docente presentata dal figlio Ciro e dopo che la figlia Ezia aveva notato l'auto del padre parcheggiata davanti alla scuola. Tante le persone interrogate, ma l'attenzione di investigatori e inquirenti si è subito concentrata su Porcelli, che lunedì pomeriggio è stato messo sotto torchio e nella notte è stato poi sottoposto a fermo.
Difeso dall'avvocato Emanuele Caianiello non ha per ora confessato. «Io e il professore eravamo amici» si sarebbe limitato a dire. Ma la sua convivente ha ammesso che lunedì pomeriggio a casa si è cambiato due volte: dopo le 13, quando è rientrato la prima volta e poi dopo le 17, quando è tornato dopo essersi recato nuovamente a scuola. E gli abiti sporchi di sangue sono stati prelevati dai carabinieri del Ris che hanno svolto anche esami sulle tubature del bagno dove l'uomo si è presumibilmente lavato. L'arma del delitto non è ancora stata ritrovata e neppure il telefonino del professore. A proposito del movente economico del delitto, sul profilo Facebook di Porcelli, il 7 settembre un'amica gli chiedeva se aveva aperto la sua nuova attività. «Ormai l'apro la seconda settimana di settembre» rispondeva lui. Poi va a capire che cosa è successo.
Prof ucciso a Napoli, la svolta: fermato collaboratore scolastico. Rosa Scognamiglio il 29 Settembre 2022 su Il Giornale.
L'uomo, del quale non sono ancora note le generalità, è stato lungamente ascoltato dagli inquirenti. L'ipotesi di reato che gli viene contestata è di omicidio
C'è un fermo per il presunto assassinio di Marcello Toscano, l’insegnante di sostegno di 64 anni trovato senza vita dai carabinieri in un’aiuola della scuola "Marino Guarano" di Melito, nel Napoletano. Si tratterebbe di un collaboratore scolastico fermato con l'ipotesi di reato per omicidio dopo essere stato lungamente ascoltato degli inquirenti. Le indagini del caso sono affidate ai militari dell'Arma e coordinate dal procuratore Maria Antonietta Troncone.
I fatti
Il cadavere di Toscano è stato trovato attorno alle 22.30 di mercoledì (27 settembre). Le ricerche dell'uomo erano partite alle ore 20, quando i familiari della vittima allertato le forze dell'ordine. Sarebbe stato il figlio dell'insegnante, per primo, a denunciare la scomparsa del padre ai carabinieri di Mugnano. Poi la figlia di Toscano avrebbe notato l'auto del genitore vicino alla scuola "Mariano Guarano". A quel punto ha allertato immediatamente militari dell'Arma. I carabinieri, giunti sul posto, hanno ispezionato l'intero perimetro dell'istituto rinvenendo il corpo senza vita dell'insegnante in un'aiuola in cortile.
Le ferite all'addome
Dalle prime osservazioni cadaveriche sembrerebbe che Toscano sia stato ucciso con un'arma bianca, trafitto all'addome con un coltello (l'arma del delitto non è stata ancora rinvenuta). I carabinieri hanno acquisito i filmati delle telecamere di videosorveglianza della scuola nel tentativo di ricostruire la dinamica dell'aggressione fatale. L'ipotesi di una rapina sfociata nel sangue è stata scartata fin da subito dal momento che il 64enne aveva con sé ancora tutti gli effetti personali. Quanto alla pista delittuosa, ormai certa, restano ancora molti dubbi da sciogliere. In primis il movente che, al momento, è ancora sconosciuto.
Le tracce di sangue
Al vaglio degli investigatori che indagano sul presunto omicidio a Melito di Marcello Toscano, vi sono anche - secondo quanto apprende l'agenzia di stampa Ansa - alcuni reperti ematici rilevati in un magazzino adiacente al luogo dove è stato rinvenuto il cadavere. Non si esclude che le tracce di sangue possano appartenere all'assassino. Analogamente, i carabinieri stanno vagliando le immagini di alcune telecamere di sorveglianza presenti in zona, sempre allo scopo di trovare altri elementi utili all'inchiesta.
Professore ucciso a scuola, fermato un bidello per l’omicidio di Marcello Toscano: giallo sul movente. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 29 Settembre 2022
Svolta nelle indagini sull’omicidio di Marcello Toscano, il professore di sostegno di 64 anni trovato cadavere nel cortile dell’edificio dove insegnava, la Marino Guarano di Melito (Napoli), poco dopo le 21.30 di martedì 27 settembre. Dopo circa 24 ore è stato sottoposto a fermo un collaboratore scolastico che lavora nello stesso edificio.
All’uomo – lungamente ascoltato dagli inquirenti – la procura di Napoli Nord, guidata da Maria Antonietta Troncone, contesta il reato di omicidio. Si tratta – così come riferisce Il Mattino – di Giuseppe Porcelli. Non è ancora chiaro il movente dell’omicidio. Il fermo dovrà essere convalidato nelle prossime ore dal giudice.
Sconcertanti le parole di un altro docente, Andrea Cipolletti, che insegna in una scuola nel vicino quartiere di Scampia ed era amico della vittima: “Marcello a mezzogiorno ha chiesto a un suo collega di insegnargli a mandare la posizione tramite WhatsApp, probabilmente si sentiva in pericolo”. Parole sulle quali sono in corso accertamenti dei carabinieri a lavoro per verificare se Toscano avesse rivelato qualcosa ai suoi colleghi poche ore prima di essere ucciso.
Toscano è stato ucciso con almeno cinque coltellate all’addome. Il suo corpo è stato ritrovato dietro a un cespuglio nei pressi di un piccolo edificio dove in passato viveva il custode della scuola. C’è un buco di sette ore con gli inquirenti che stanno provando a ricostruire le ultime ore di vita del 64enne, originario di Mugnano e in passato consigliere comunale in quota Pd. Toscano era a scuola per le lezioni ed è stato in aula fino alle 13. Poi da qui iniziano i mille interrogativi.
L’uomo non è tornato a casa e dalle 15 è stato più volte chiamato sul cellulare dai familiari. Alle 19 il figlio Ciro si è recato dai carabinieri per denunciarne la scomparsa. Passano due ore e l’altra figlia, Ezia, segnala ai militari dell’Arma la presenza dell’auto del genitore nel parcheggio all’esterno della scuola. I militari hanno fatto aprire i cancelli al custode (che non vive nello stesso edificio dove si trova la scuola) e dopo aver ispezionato tutti i locali hanno ritrovato il corpo del 64enne dietro un’aiuola, a poca distanza dall’edificio dove in passato abitava il custode.
Proprio nei pressi di questo edificio sarebbero state trovate tracce di sangue che potrebbero essere riconducibili alla vittima anche se sarà l’esame del Dna a cristallizzarlo. In caso contrario potrebbero appartenere invece a chi ha ucciso o partecipato all’omicidio del docente. Tracce ematiche che sono state trovate a pochi metri dal cadavere: non è presente una scia di sangue, quindi presumibilmente il corpo non è stato trascinato. Nessuna traccia anche del coltello utilizzato da chi ha ucciso il professore.
In attesa degli accertamenti della Scientifica, i carabinieri hanno ascoltato numerose persone che hanno incontrato Toscano nella mattinata di ieri. Dalla preside ai colleghi docenti passando per i collaboratori scolastici agli stessi alunni. Ascoltati anche i familiari, a partire dalla moglie. Si scava nella vita personale del 64enne anche se per il momento non è emerso nulla di rilevante su possibili controversie sia in ambito lavorativo (rapporti turbolenti con alunni) che privato.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
Trovate tracce di sangue sugli indumenti del collaboratore scolastico. Professore ucciso da bidello “per soldi”, la figlia chiede scusa: “Ci vergogniamo, sono mortificata e umiliata”. Redazione su Il Riformista il 29 Settembre 2022.
“Io e la mia famiglia ci dissociamo da quello che è accaduto, è un gesto assolutamente ingiustificabile, non posso fare altro che vergognarmi e chiedere umilmente scusa a tutti i parenti”. A parlare, all’agenzia LaPresse, è la figlia di Giuseppe Porcelli (nella foto a destra), il collaboratore scolastico di 54 anni sottoposto a fermo dalla procura di Napoli nord con l’accusa di omicidio volontario. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, le indagini sono condotte dai carabinieri, sarebbe stato lui a uccidere Marcello Toscano, il professore di sostegno di 64 anni, residente a Mugnano di Napoli, trovato cadavere nel cortile dell’edificio dove insegnava, la Marino Guarano di Melito (Napoli) la sera del 27 settembre scorso.
Dopo circa 24 ore, Porcelli, che lavora nella stessa scuola, è stato sottoposto a fermo dopo un lungo interrogatorio. Non ha confessato l’omicidio che sarebbe maturato per questioni di natura economica e non a dissidi in ambito lavorativo o di natura sentimentale. La Procura ha raccolto gravi indizi di colpevolezza nei confronti del collaboratore scolastico che adesso si trova nel carcere di Poggioreale in attesa della convalida da parte del giudice.
Il provvedimento – scattato dopo un lungo interrogatorio nella caserma dei carabinieri – è stato emesso anche per evitare che stamattina si potesse recare al lavoro. Tracce di sangue sono state trovate dai carabinieri di Marano (Napoli) su alcuni indumenti sequestrati a casa del collaboratore scolastico. I militari dell’arma hanno anche raccolto immagini dei sistemi di videosorveglianza presenti nella zona circostante il luogo del delitto.
Inoltre è stato accertato che il telefono del docente era irraggiungibile già dalle 12.30 di martedì 27 settembre, quando aveva già ultimato la lezione e sarebbe dovuto rientrare a casa.
A LaPresse la figlia ha tagliato corto chiedendo scusa alla famiglia di Toscano (sposato e padre di due figli) per il “gesto assolutamente ingiustificabile”, se dovesse essere confermato, del genitore. “Le scuse le porta il vento, e ne sono consapevole. Ma ad oggi, non posso fare altro… sono veramente mortificata e umiliata“. “Al momento in casa regna il silenzio ed il dolore” ha aggiunto.
Toscano è stato ucciso con almeno cinque coltellate all’addome. Il suo corpo è stato ritrovato dietro a un cespuglio nei pressi di un piccolo edificio dove in passato viveva il custode della scuola. C’è un buco di sette ore con gli inquirenti che stanno provando a ricostruire le ultime ore di vita del 64enne, originario di Mugnano e in passato consigliere comunale in quota Pd. Toscano era a scuola per le lezioni ed è stato in aula fino alle 13. Poi da qui iniziano i mille interrogativi.
L’uomo non è tornato a casa e dalle 15 è stato più volte chiamato sul cellulare dai familiari. Alle 19 il figlio Ciro si è recato dai carabinieri per denunciarne la scomparsa. Passano due ore e l’altra figlia, Ezia, segnala ai militari dell’Arma la presenza dell’auto del genitore nel parcheggio all’esterno della scuola. I militari hanno fatto aprire i cancelli al custode (che non vive nello stesso edificio dove si trova la scuola) e dopo aver ispezionato tutti i locali hanno ritrovato il corpo del 64enne dietro un’aiuola, a poca distanza dall’edificio dove in passato abitava il custode.
Proprio nei pressi di questo edificio sarebbero state trovate tracce di sangue che potrebbero essere riconducibili alla vittima anche se sarà l’esame del Dna a cristallizzarlo. In caso contrario potrebbero appartenere invece a chi ha ucciso o partecipato all’omicidio del docente. Tracce ematiche che sono state trovate a pochi metri dal cadavere: non è presente una scia di sangue, quindi presumibilmente il corpo non è stato trascinato. Nessuna traccia anche del coltello utilizzato da chi ha ucciso il professore.
· Il caso di Mauro Antonello.
A Chieri una strage preparata con gli appunti per la festa. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera l'8 Agosto 2022
Sono passati poco meno di 20 anni, le responsabilità penali sono chiare. Ma restano i dubbi tra ipotesi di insanità mentale e un movente incerto
Mauro Antonello e la moglie Carla Bergamin
«Appunti per la festa» è il nome che un padre di famiglia di Chieri aveva dato alla pianificazione non del compleanno della figlia ma di una strage, così barbara e fuori contesto da essere stata inghiottita dal silenzio di una comunità che non accettava il peso di sette persone ammazzate seguendo alla lettera un ricettario di morte.
Il movente impossibile
Sono passati poco meno di vent’anni da quel 15 ottobre del 2002 nel quale si consumò una tragedia della quale sì, si conoscono precisamente le responsabilità penali, tecnicamente non è un caso misterioso. Ma è rimasto un episodio dai contorni sfuggenti, sfrangiati tra ipotesi di insanità mentale e tentativi di ricostruire un movente cui appendere il peso di sette vite innocenti.
Gli appunti
«Appena obbiettivo ti guarda spara: importante. Appena esce dalle scale, scendi da camper e aspetta dietro cinta Maurizio. Quando lei gira l’angolo, affrettati senza correre. Passato soglia cancello carrabile, chiuderne un’anta. Sparare a tutto nel raggio di 25 metri. Primaria importanza scovare obiettivi». Sembra una scrittura per un ciak di Rambo, invece è il delirante piano di azione di Mauro Antonello, quarant’anni, carpentiere. O meglio: ex carpentiere.
La sua storia
L’uomo era sposato con Carla Bergamin, tre anni più giovane di lui, di mestiere bidella in una scuola materna di Andezeno. La coppia aveva in animo di crescere insieme la figlia di otto anni. Dopo due anni di convivenza, tuttavia, Carla se n’era andata: iracondo, dai comportamenti imprevedibili e scombinati, restare sotto lo stesso tetto non era più possibile. Lui era rimasto nella casetta tra Chieri e Cambiano contando sugli aiuti del fratello per sopravvivere, insieme a qualche lavoretto saltuario. Per colpa non sua, come si evince dalle cronache autoprodotte, ma del «cemento dei cantieri che mi ha rovinato le mani».
Il risentimento covato
Su tutto, aveva iniziato a covare la sua vendetta perché, come lasciò scritto nei diari dedicando alcune righe alla figlia, «tua madre non vuole tornare con me, non capisce che per una bimba non c’è gioia più grande che vederci insieme». La disoccupazione, colpa del mestiere usurante. La fine del matrimonio, responsabilità della moglie: la circostanza che i suoi comportamenti fossero intollerabili e che proprio da quelli fosse dipesa la separazione, evidentemente, neanche lo sfiorava.
La scelta di lei
Lei, intanto, era tornata a vivere in una villetta condivisa con la madre, la signora Teresa, rimasta vedova e ancora responsabile del laboratorio tessile al piano terreno della casa, un’attività che il marito gestiva prima che si togliesse la vita. Lo temeva ma sperava di riuscire ad affrancarsi definitivamente dalla sua presenza.
La passione per le armi
Avvicinandosi la data della formalizzazione in tribunale, Mauro Antonello aveva deciso di risolvere la questione della sua vita fallita a modo suo. Appassionato di armi e di film di guerra, si era costruito un poligono insonorizzato in casa e, col tempo, aveva completato la sua collezione di pezzi facendo acquisti presso un negozio specializzato in città. Undici tra pistole e fucili, due chilogrammi di polvere da sparo; pure un puntatore laser, di quelli in dotazione alle forze speciali. Per quasi una settimana spiò i movimenti della casa in cui vivevano la donna e la figlia, cui lui si rivolgeva con l’appellativo di «Pulcino».
Il piano diabolico
Affittò un camper, lo parcheggiò nel piazzale di fronte al cancello e, da una feritoia nel bagno, prese a segnare meticolosamente ogni spostamento, le partenze e gli arrivi di tutti. Il mattino del 15 ottobre passò all’azione: bevve abbondante camomilla con un sedativo e un antiemetico, si mise i tappi nelle orecchie e partì verso il suo obiettivo.
L’inizio della strage
La prima a essere colpita fu proprio Carla, nel cortile. Stava salendo sull’automobile per andare al lavoro, venne falciata da cinque proiettili. Gli spari allarmarono il vicino di casa, il povero signor Decio Guerra. Nonostante il killer si fosse proposto di agire chirurgicamente e di non fare vittime innocenti (sic!) cambiò subito idea e fulminò lui e la moglie, Laura. La quarta vittima fu la madre di Carla: anche per lei, fu fatale l’affacciarsi all’uscio per capire cosa stesse capitando. A cadere per quinta, un’altra persona che con i fallimenti di Antonello non aveva alcunché a che fare: Pietrangela Gramaglia, che lavorava nella ditta tessile. Appena entrato in casa, l’uomo trovò Sergio, suo cognato, e la cognata Margherita. Per loro, una pioggia di proiettili.
Il racconto sul diario
Così spiegata nel diario: «Lui ha convinto la sorella a separarsi da me, lei parlava male di me». Quattro minuti e c’erano a terra i corpi di sette individui. L’ottavo cadavere che la scientifica identificò, ucciso da un colpo di pistola al petto autoinflitto, fu quello di Mauro Antonello. Aveva, secondo il piano della “festa”, previsto una fuga per i campi dal suo sterminio ma l’arrivo dei carabinieri, o forse la consapevolezza di ciò che lo attendeva, lo convinsero a sottrarsi al giudizio umano. Che sia passato tanto tempo da quei fatti lo testimonia un’intervista a un attempato criminologo, a poche ore dalla strage: ci teneva a spiegare che l’artefice «non è un killer, è un autolesionista che poi si suicida». Mancava solo un rimando al dovere della donna di tenere insieme la famiglia e di non andarsele a cercare.
· Il caso di Angela Celentano.
Il giallo di Angela Celentano. «Presto il Dna di una ragazza sudamericana che somiglia alla sorella». Fulvio Bufi su Il Corriere della Sera il 7 Novembre 2022
L’avvocato della famiglia della bambina scomparsa a tre anni, nell’estate del 1996 sul monte Faito, conferma che attende il Dna per sottoporlo a comparazione
Nelle prossime settimane la famiglia di Angela Celentano, la bambina scomparsa a tre anni, nell’estate del 1996 sul monte Faito, potrebbe venire in possesso del Dna di una ragazza sudamericana che presenta più di una caratteristica in comune con Angela. A farlo sapere, con una dichiarazione rilasciata stamattina ai microfoni della trasmissione Mattino 5, e successivamente confermata al Corriere, è l’avvocato Luigi Ferrandino, il legale che da alcuni anni assiste Maria e Catello Celentano, i genitori della bambina (oggi donna) scomparsa. Per comprendere come nasce questa nuova pista imboccata per risolvere un mistero impenetrabile da più di 26 anni va premesso che tra le iniziative che la famiglia non ha mai sospeso per ritrovare la bambina, da qualche mese, grazie alla collaborazione con una associazione internazionale impegnata nella ricerca di persone scomparse, un’immagine di Angela, rielaborata al computer e resa come presumibilmente potrebbe essere oggi la ragazza, compare sugli schermi dei bancomat di mezzo mondo.
Ciò ha fatto arrivare numerose segnalazioni, e a destare maggiormente l’attenzione dei Celentano è stata quella relativa a una giovane donna sudamericana che non solo ha una profonda somiglianza con una delle sorelle di Angela, ma condivide con la bambina scomparsa anche una macchia sulla schiena, seppure non precisamente nello stesso punto. Secondo quanto riferisce l’avvocato Ferrandino c’è qualcuno, da lui definito «un nostro gancio», che opera nello stesso ambito professionale di questa ragazza e l’ha contattata proponendole di partecipare a un progetto lavorativo. Lei si sarebbe mostrata interessata e avrebbe detto che nelle prossime settimane sarà in Europa (Ferrandino non ha voluto specificare il Paese) e quindi potrà incontrare il «gancio» per discutere i termini di una eventuale collaborazione. Nessun riferimento, quindi alla vicenda di Angela né a una eventuale comparazione del Dna.
«Ma in quella occasione — spiega il legale dei Celentano — ci auguriamo di riuscire a prelevare un quantitativo sufficiente di materiale biologico di questa ragazza in modo da poterne estrarre il Dna e confrontarlo con quello dei familiari di Angela». Ferrandino aggiunge che sarà il “gancio” stesso, in base a istruzioni che lui gli ha impartito, a raccogliere il materiale biologico e a spedirlo a Napoli, dove sarà portato in laboratorio. Stavolta, quindi, il legale e i suoi clienti hanno deciso di intraprendere una strada assolutamente nuova e non priva di rischi. Innanzitutto, relativamente all’attendibilità dell’esame: raccogliere e conservare materiale biologico senza averne la necessaria competenza può comportare contaminazioni che vanificherebbero poi la ricerca del profilo biologico. E anche procedere alla raccolta di un dato così sensibile — il più sensibile in assoluto — all’insaputa dell’interessata è una procedura che fino a oggi nel caso Celentano, ma anche in quello di Denise Pipitone, non è mai stata seguita.
Si è sempre fatto tutto rimanendo nel rispetto delle leggi, delle regole e delle persone. Perché stavolta sia diverso e perché l’avvocato Ferrandino sia andato anche ad annunciarlo in tv, sapendo che le sue parole avrebbero avuta un’eco rilevante, non è chiaro. Potrebbe sembrare una mossa sballata, ma l’impressione è che dietro ci sia un motivo specifico, e non è escluso che possa entrarci qualcosa un altro riferimento fatto dal legale: «Questa ragazza appartiene a una famiglia molto importante e svolge una professione per la quale gode di una rete di protezione particolare». Lui, però, al Corriere la spiega così: «Se avessimo voluto fare come sempre ci saremmo dovuti rivolgere alla Procura che avrebbe dovuto coinvolgere il ministero degli Esteri e avviare una rogatoria internazionale e sarebbero passati mesi se non anni. E poi chi ci dice che la persona avrebbe accettato di sottoporsi al test? Se si tratta di Angela non si ricorda certo della sua famiglia, per lei i parenti sono quelli con cui ha vissuto negli ultimi 26 anni e quindi è presumibile che rifiuterebbe l’esame per proteggerli. Perché se dovesse venire fuori che la ragazza è Angela Celentano, quelli che lei crede siano i suoi genitori dovrebbero spiegare molte cose. Insomma, si scatenerebbe l’inferno. Quindi preferiamo prima sapere la verità: se è quella che sospettiamo, presenteremo tutte le denunce necessarie e l’inferno lo faremo scatenare noi».
La svolta tra poche settimane. Angela Celentano, la ragazza sudamericana e la somiglianza con una delle due sorelle: “Verrà in Europa per la prova del dna”. Rossella Grasso su Il Riformista il 7 Novembre 2022
Per la famiglia Celentano la speranza di ritrovare Angela non si è mai affievolita, anche se i colpi sono stati tanti e duri. Da quando Angela è scomparsa il 10 agosto 1996 dal Monte Faito, Catello e Maria Celentano e Rosa e Noemi, le due sorelle della bambina non hanno mai smesso di cercarla. Ventisei dolorosi e lunghi anni di ricerche, tra falsi allarmi e speranze disattese. La famiglia da qualche mese segue una nuova pista: ci sarebbe una ragazza in un non meglio precisato luogo del Sud America i cui dati anagrafici corrispondono a quelli di Angela Celentano e ci sarebbe anche una grossa somiglianza fisionomica oltre alla coincidenza di una macchia sul dorso. Ma oltre le speranze la prova regina resta quella del Dna, l’unica in grado di confermare o smentire questa tesi. E non mancherebbe troppo tempo per saperlo: “Tra poche settimane la ragazza sud americana sarà in Europa e in quella occasione ci auguriamo che si riesca a raccogliere il materiale per la prova del dna”, ha detto l’avvocato Luigi Ferrandino intervistato da Mattino Cinque.
Il legale che da sempre è al fianco dei Celentano nelle ricerche della bambina che oggi avrebbe 29 anni. Già da mesi si cercano conferme e si segue la pista sud americana. In un’intervista al Riformista Maria e Catello Celentano spiegarono che si stava procedendo con i piedi di piombo e con tutta la cautela del caso vista la delicatezza della materia trattata. L’avvocato Ferrandino ha spiegato che “la nostra persona di riferimento ha raggiunto un accordo con la ragazza Sud Americana e nelle prossime settimane verrà in Europa, non posso svelare dove e noi ci auguriamo che si riesca a prelevare del materiale per la prova del dna”.
“La persona che fa da contatto fa parte dello stesso ambiente professionale – ha spiegato l’avvocato – le ha prospettato la possibilità di lavorare insieme in un bel progetto e la ragazza ha detto che verrà in Europa nelle prossime settimane per lavorarci. In quella circostanza speriamo che questa persona riesca a prelevare un campione di saliva tale da poter fare il test del dna. Ovviamente gli abbiamo dato dei suggerimenti, io gli ho dato delle indicazioni su come prelevare il campione e farcelo pervenire senza che possa essere contaminato o che sia insufficiente per ricavare il dna”. Come fanno i Celentano ad essere certi che la ragazza verrà all’appuntamento con questa persona in Europa? “Il nostro contatto è un’autorità nell’ambito della loro attività professionale – ha precisato Ferrandino – una persona che ha credibilità e autorevolezza per avvicinare la ragazza. L’idea di lavorare insieme per lei è allettante. La ragazza è una che gira il mondo quindi per lei spostarsi in Europa non è un problema e quindi ha accettato di incontrare il nostro contatto”.
Le indagini su questa ragazza sono state fin ora molto complicate perché, ha spiegato l’avvocato “è una persona che ha una rete di protezione per la famiglia perché appartiene a un nucleo familiare piuttosto importante in Sud America. Anche la ragazza per la professione che svolge è un po’ più protetta rispetto ad altre persone che fanno una vita normale”. Ferrandino e i Celentano, scottati dalle delusioni precedenti, ci vanno cauti ma l’avvocato dice di avere buone sensazioni questa volta. “Ho visto più di una foto di questa ragazza perché siamo riusciti ad avere una serie di fotografie – ha continuato il legale – La mia sensazione è che ci sia una grande somiglianza, ma la mia sensazione ha poca importanza. Quello che ha importanza è la sensazione che ha avuto Maria, la mamma di Angela. Uno perché la mamma riesce a vedere laddove gli altri non riescono a vedere e perché essendo una donna è più attenta ai dettagli e ai particolari. Ritengo che la sua opinione sia di grandissima importanza. Quando ha visto la foto Maria ha sobbalzato e si è anche commossa e c’è una grande somiglianza con una delle due figlie, una delle sorelle di Angela”.
Nonostante tutto porti a far sperare molto, i Celentano ci vanno cauti: “Tutto questo non vuol dire nulla – ha concluso l’avvocato – lo ribadisco: noi non vogliamo illudere la famiglia, loro non si illudono, sono persone con i piedi per terra, che ne hanno già passate tante e quindi diciamo che il percorso siamo obbligati a farlo perché gli elementi sono tanti, ma siamo consapevoli che potrebbe essere un ulteriore buco nell’acqua”.
Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.
“Sono io Angela Celentano”: nuova pista sul caso della bambina scomparsa nel 1996. Federica Palman l'08/10/2022 su Notizie.it.
Rimane valida anche la pista in Sudamerica, dove vive una donna che somiglia all'elaborazione del viso che potrebbe avere oggi Angela Celentano.
Il caso di Angela Celentano, la bambina di 3 anni scomparsa sul Monte Faito, in provincia di Napoli, il 10 agosto 1996, è tornato sotto i riflettori dopo due recenti sviluppi. Il primo riguarda una giovane donna sudamericana, molto somigliamente a come dovrebbe essere Celentano nel 2022; il secondo una donna italiana convinta di essere la bambina sparita, come rivelato nella puntata di Quarto grado di venerdì 7 ottobre 2022.
La donna ha contattato l’avvocato della famiglia Celentano, Luigi Ferrandino, raccontandogli dei ricordi d’infanzia che potrebbero essere compatibili con quanto successo ad Angela.
Una donna italiana è convinta di essere Angela Celentano
Nel corso della trasmissione, Luigi Ferrandino ha riferito quanto raccontatogli dalla donna italiana. Sarebbe stata rapita in un bosco quando era bambina e avrebbe trascorso una notte in una grotta. La mattina seguente, sarebbe stata portata in un casolare e poi prelevata dalla famiglia che l’avrebbe cresciuta.
Secondo il racconto della donna, nel casolare ci sarebbero stati altri bambini, probabilmente rapiti anche loro. L’esame del Dna svelerà se la donna è effettivamente Angela Celentano.
In Sudamerica vive una donna che somiglia a come Angela Celentano dovrebbe essere
Rimane ancora valida anche la pista sudamericana, che vede una donna molto somigliante a come sarebbe Angela Celentano secondo l’elaborazione dell’associazione statunitense Missing Angels, che ha incrociato i tratti somatici dei genitori e delle sorelle.
Come rivelato dal padre, inoltre, la ragazza avrebbe la stessa voglia della bambina. Anche in questo caso la verità sarà rivelata dall’esame del Dna.
Il neo, il Dna, il bancomat: "Così speriamo di ritrovare Angela Celentano". L'avvocato Luigi Ferrandino a ilGiornale.it: "C'è una grande somiglianza tra la ragazza della foto e Angela Celentano. Aspettiamo il Dna". Rosa Scognamiglio il 16 Settembre 2022 su Il Giornale.
Una segnalazione giunta dal Sud America ha riacceso le speranze di poter ritrovare Angela Celentano, la bimba di 3 anni scomparsa durante una gita coi genitori sul Monte Faito (Vico Equense) il 10 agosto del 1996. "C'è una ragazza che assomiglia a nostra figlia. Stiamo verificando una serie di elementi prima di procedere, qualora dovesse esserci un riscontro positivo, col test del Dna ", aveva raccontato Catello Celentano, il papà di Angela, in un'intervista rilasciata alla nostra redazione. Ma c'è di più.
"C'è un neo sul corpo della ragazza che, per forma e colore, è simile a quello di Angela. Siamo ancora in fase di accertamento, bisogna essere cauti", spiega a ilGiornale.it l'avvocato Luigi Ferrandino, il legale della famiglia Celentano.
Le testimonianze contrastanti e il dubbio: com'è stata rapita Angela Celentano?
Avvocato Ferrandino, ci sono novità?
"Siamo in attesa di ricevere il materiale genetico della donna che sembrerebbe avere una grande somiglianza con Angela Celentano".
Dopodiché?
"Si procederà con un test comparativo del Dna tra i genitori, le sorelle di Angela e la ragazza della segnalazione".
A proposito della segnalazione. Com'è nata?
"Virginia Adamo, l'esperta alla quale i coniugi Celentano hanno affidato il coordinamento del team social, nonché presidente dell'associazione 'Manisco World' e amministratrice del gruppo 'Busco mi Familia Biològica' ('Cerco la mia Famiglia Biologica', ndr), che si avvale della collaborazione di ben 80 associazioni internazionali, è riuscita a ottenere un accordo con il circuito bancomat Atm che ha diffuso la foto di Angela in decine di Paesi di tutto il mondo".
E poi?
"Una persona ha notato una particolare somiglianza tra Angela e una ragazza, dunque lo ha segnalato all'associazione. Dopodiché sono stati informati i coniugi Celentano e quindi anche io".
"C'è una pista". E spunta una nuova foto di Angela Celentano
Quale è stata la mossa successiva?
"Abbiamo fatto una serie di indagini, come sempre accade ogniqualvolta riceviamo una segnalazione, e ci è sembrata una pista interessante".
Per quale motivo?
"Perché ci sono indubbiamente delle somiglianze tra Angela e la ragazza della segnalazione".
Di che genere?
"Sia per il vissuto personale di questa donna che per una serie di dettagli".
Qualcosa in particolare?
"C'è un neo sul corpo della ragazza che, per forma e colore, è simile a quello di Angela. Quando ci siamo accorti del dettaglio abbiamo consultato una dermatologa poiché, attraverso il riscontro fotografico, abbiamo notato che il neo della donna è posizionato al centro della schiena e non a destra com'era quello di Angela. Ma la dottoressa ci ha spiegato che è probabile si sia spostato durante la crescita"
C'è qualche altro dettaglio che può rivelarci?
"Ci sono altri elementi interessanti ma preferisco non sbilanciarmi più del necessario. Bisogna tutelare anzitutto la privacy della ragazza".
"Ha bisogno di ritrovare la famiglia", si cerca Angela Celentano ai bancomat
Come siete riusciti a rintracciarla?
"Abbiamo fatto una serie di ricerche e poi, mediante alcuni contatti, siamo riusciti ad ottenere varie foto di questa persona. Successivamente sono stati fatti degli accertamenti e, grazie alla mediazione delle autorità locali, abbiamo acquisito in forma privata (quindi senza costi per lo Stato) il Dna della ragazza".
A proposito del Dna, quello dei genitori di Angela è già disponibile?
"Sì, c'è già una copia disponibile del profilo genetico sia dei coniugi Celentano che delle sorelle presso la polizia scientifica".
Avvocato, sono passati 26 anni dalla scomparsa di Angela. Che idea si è fatto di questa storia?
"Non mi sono fatto nessuna idea. Da avvocato sono abituato a valutare i fatti in modo obiettivo e realistico. Dietro la scomparsa di Angela potrebbero esserci decine di situazioni, si possono fare molteplici ipotesi: dalle adozioni illegali a molte altre. La verità è che non c'è alcun elemento che possa far propendere per l'una o l'altra possibilità".
Ma resta la speranza.
"Certo. I genitori di Angela non hanno mai smesso di cercare la loro figlia e sono fiduciosi, come è giusto che sia, di poterla riabbracciare un giorno. Ed è quello che ci auguriamo noi tutti".
Intervista a Maria e Catello Celentano. Angela Celentano e la nuova pista in Sud America, la mamma e il papà: “Troppe delusioni, restiamo con i piedi per terra in attesa del Dna”. Rossella Grasso su Il Riformista il 9 Settembre 2022
Migliaia di volte hanno immaginato di trovarsi davanti alla loro figlia Angela, scomparsa dal Monte Faito il 10 agosto 1996. Catello e Maria Celentano da 26 anni non hanno mai smesso di cercare la figlia di cui si sono perse le tracce quando aveva 3 anni e che oggi ne avrebbe 29. La speranza di trovarla non si è mai affievolita sin dal primo istante in cui la cercarono ovunque su quella montagna in provincia di Napoli con il cuore in gola. I due genitori non sanno cosa le direbbero se la trovassero davanti. “Si possono pensare a mille cose poi magari…Se ci sarà un abbraccio vorrà dire tanto. Se ci sarà un pianto…io solo a immaginarlo inizio a piangere. Abbiamo immaginato più volte questo momento, sarà sicuramente un momento molto forte”, dice Maria senza riuscire a trattenere le lacrime. Eppure ora si apre una nuova pista, una segnalazione che arriva dal Sud America che riaccende la speranza che possa trattarsi di lei, di Angela. “Restiamo con i piedi per terra – dicono Angela e Maria – Dopo la fase di Celeste Ruiz che è durata alcuni anni, quando davvero abbiamo creduto di aver ritrovato Angela, per poi scoprire che era tutto un bluff, per noi è stata una mazzata. Questa volta l’ho detto dal primo momento: stiamo con i piedi per terra, non ci dobbiamo illudere di niente”.
Maria e Catello Celentano hanno ripercorso con Il Riformista 26 dolorosi anni di ricerche, tra falsi allarmi e speranze mai svanite. “Il nostro intento non è più quello di riportare Angela a casa, perché ora è grande e ha una vita sua, ma quello di ritrovarla. Vogliamo farle sapere che ci siamo sempre stati, ci siamo, questa è la sua famiglia, casa sua. La decisione sul prosieguo della sua vita poi spetta a lei. Sono cambiati un po’ gli obiettivi delle ricerche in un certo senso. Stiamo facendo tutto questo perché la nostra speranza è che sia lei a trovare noi”. E dopo la pista messicana, ora si apre anche quella in Sud America.
Oggi c’è una nuova pista, quella in Sud America. Come ci siete arrivati?
La pista è arrivata a giugno tramite la segnalazione dell’associazione ‘Busco Mi familia biologica’ che collabora con altre 80 associazioni in tutto il mondo. Avevamo diffuso la foto in age progression di Angela sui social e così ci è arrivata questa segnalazione. Ce ne sono arrivate tante, non è stata l’unica. Addirittura ci scrivono ragazze che cercano la loro origine sapendo di essere state adottate. Tra le tante segnalazioni questa ci sembrava da prendere in considerazione più delle altre.
Perché proprio questa segnalazione ha catturato la vostra attenzione?
Abbiamo visto la foto ed è molto somigliante per i tratti somatici alle nostre due figlie, Rossana e Naomi e anche a noi. Poi questa persona ha una macchiolina sulla schiena, una voglia color caffè, come l’aveva Angela. Vari elementi ci hanno portato ad approfondire in maniera più accurata questa segnalazione.
Come vi siete mossi dopo la segnalazione?
Abbiamo iniziato le indagini a livello privato con il nostro team. Stiamo ancora prendendo quante più informazioni è possibile e se dovessero coincidere totalmente passeremo alla prova del Dna.
Maria, lei ha visto una foto della ragazza che potrebbe essere Angela, come si è sentita vedendola?
Da premettere che siamo abbastanza con i piedi per terra. Dopo la fase di Celeste Ruiz che è durata alcuni anni, quando davvero abbiamo creduto di aver ritrovato Angela, per poi scoprire che era tutto un bluff, per noi è stata una mazzata. Questa volta l’ho detto dal primo momento: stiamo con i piedi per terra, non ci dobbiamo illudere di niente. Vogliamo fare le cose che devono essere fatte, rimanendo sempre con i piedi per terra. Quando ci è arrivata questa foto l’abbiamo vista e rivista tantissime volte e abbiamo deciso di valutare attentamente. Così sono partite le indagini per avere qualche informazione in più su questa ragazza.
L’avvocato Ferrandino ha detto che state agendo tramite attività investigativa privata per scelta. Come mai?
È il modo più veloce. Con tutta la burocrazia rallenteremmo tanto.
Che tipo di informazioni state cercando per avere delle conferme?
Tutte le informazioni che ci possono portare al risultato finale che è la prova del Dna. Stiamo aspettando questo momento, questa opportunità che dovremmo avere a breve per portare così a conclusione. Abbiamo in campo una serie di collaborazioni.
La ragazza che potrebbe essere Angela e la sua famiglia sono a conoscenza delle indagini che state svolgendo?
Ancora no.
Come riuscirete ad arrivare alla prova del dna?
Per quello ci vuole la collaborazione della famiglia e della ragazza stessa. Ecco perché prima prendiamo tutte le informazioni possibili. Stiamo ancora aspettando e cercando altre informazioni perché la faccenda è molto delicata, non è una cosa semplice andare ad intaccare la sensibilità delle persone e delle identità.
Tutto parte dall’ultimo rendering diffuso di come sarebbe Angela oggi?
Quella è stata una spinta in più per far veicolare la notizia della scomparsa di Angela e delle ricerche. La nuova age progression che abbiamo pubblicato è molto somigliante alle sorelle e ai tratti somatici della famiglia. Sta veicolando bene tramite i social, Tiktok, Instagram. Tra poco useremo anche il sito che ora è in allestimento. Stiamo avendo una buona risposta da parte delle persone che ringraziamo e invitiamo a continuare a far circolare la notizia perché in questo modo Angela sta arrivando in tutto il mondo. Abbiamo riscontri dall’America Latina, Europa, Australia, sta arrivando ovunque.
Per le indagini state procedendo privatamente, in tutti questi anni di ricerche vi siete sentiti abbastanza supportati dallo Stato?
Ritornare sul passato non cambia le cose. È un po’ come in tutti i casi di scomparsa, fortunatamente pochi, che ci sono stati di bambini italiani. Bisognerebbe migliorare molti aspetti per quanto riguarda le ricerche, la parte investigativa,…è come se si ripetessero sempre gli stessi errori. Lo Stato per quello che ha potuto fare l’ha fatto ma evidentemente non è bastato.
Avete perso fiducia nei confronti dello Stato?
È difficile dirlo o pensarlo perché comunque è lo Stato. È sempre lo Stato, l’organo a cui ci dobbiamo rivolgere anche nel caso di ritrovamento di Angela per poter convalidare il dna e poter poi rifare tutto. Più che perso fiducia, in alcuni momenti, siamo rimasti un po’ delusi.
Anche quando è stato archiviato il caso, cosa avete provato?
È stato un caso aperto per tanti anni, 24 per la precisione, e questo ha meravigliato anche gli addetti ai lavori. Non ce lo aspettavamo però lo sentivamo. Ma l’archiviazione non ci ha tolto la speranza di ritrovare Angela o ci ha rallentati, anzi. È stata una spinta in più per riprendere personalmente in mano le redini della situazione componendo questo nuovo pool investigativo con cui collaboriamo con l’avvocato Ferrandino, il criminologo Sergio Caruso e Virginia Adamo che si occupa della parte web delle indagini. Siamo un buon gruppo e stiamo facendo un buon lavoro.
Se dovesse essere positivo il test cosa farete?
Noi lo abbiamo sempre detto, soprattutto negli ultimi anni: ora il nostro intento non è più quello di riportare Angela a casa, perché ora è grande e ha una vita sua, ma quello di ritrovarla. Vogliamo farle sapere che ci siamo sempre stati, ci siamo, questa è la sua famiglia, casa sua. La decisione sul prosieguo della sua vita poi spetta a lei. Sono cambiati un po’ gli obiettivi delle ricerche in un certo senso. Stiamo facendo tutto questo perché la nostra speranza è che sia lei a trovare noi.
C’è un’altra mamma che da 18 anni cerca la figlia scomparsa, Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone. Lei dice spesso che i bambini non scompaiono da soli e che vanno cercati.
È così, i bambini vanno cercati sempre. Tutte le persone vanno cercate. Non è possibile che le persone scompaiano nel nulla, nessuno vede niente, nessuno sa niente, non si sa dove sono. È assurda questa cosa. Figuriamoci i bambini, non se ne vanno via da soli, c’è qualcuno che li porta via. Finchè abbiamo vita il nostro obiettivo è cercarli.
Che idea si è fatta, cosa è successo sul monte Faito quel 10 agosto 19996?
La nostra idea da sempre è che Angela è stata rapita per una adozione illegale. È sempre stato il nostro pensiero che ci accompagna tutt’oggi. Angela è stata presa per essere adottata illegalmente. O è stata una cosa occasionale o organizzata, non lo sappiamo.
Intorno alla vicenda della scomparsa di Angela c’è sempre stato molto clamore mediatico. Negli anni c’è stato qualcosa che vi ha infastidito o addolorato come conseguenza di questo clamore?
Ci ha dato fastidio che ci sono persone che approfittano della storia per cercare visibilità, farsi notare e remare contro. Ci sono sempre queste persone. Ma più che guardare a queste, magari uno in negativo, guardiamo a 100mila positivi che ci sono stati. È la vita così, non ci possiamo fare niente.
Ci sono state segnalazioni mosse da morbosità e suggestione date proprio magari da questo clamore?
Sì, ci è successo. Finchè le indagini erano aperte invitavamo tutte le persone che ci facevano segnalazioni a rivolgersi alle forze dell’odine. Non potevamo noi con le indagini aperte prendere iniziative. Ci sono stati anche dei mitomani, dei folli. Ne abbiamo viste di cose in questi anni. C’è chi ha chiamato per chiederci un riscatto, chi ci ha detto che sapeva dove stava Angela e noi siamo corsi sul posto anche lontano da noi. E alla fine abbiamo scoperto che la persona che ci aveva fatto la segnalazione era un paziente psichiatrico in cura. Non ultimo la persona che si nascondeva dietro Celeste Ruiz. Quella è stata una cosa per noi incredibile, ancora oggi, che è durata 7 anni.
Questa persona vi contattava e vi diceva di essere Angela?
Si, ha iniziato nel 2010 e tutto si è concluso nel 2017 con la persona che si è riconosciuta nella foto che ci ha detto di non essere Celeste Ruiz e che non era nostra figlia Angela. Ci disse che qualcuno aveva rubato la sua foto per fare tutto quello che ha fatto. Ci siamo anche incontrati con questa donna ma poi non l’abbiamo più sentita.
Cosa vi ha dato la forza in tutti questi anni di continuare a cercare usando ogni mezzo?
La fede in Dio ci ha sostenuto tanto e continua a sostenerci. Non è facile affrontare tutto questo, per niente. Ma grazie alla fede in Dio siamo ancora qui oggi e abbiamo ancora speranza. Ed è forte, è una cosa che ci mantiene in vita questa. È la speranza forte di riabbracciarla un giorno, quello che ci fa continuare le nostre ricerche. E la sentiamo oggi come la sentivamo allora.
La foto di Angela è circolata anche attraverso i bancomat.
All’inizio doveva essere una settimana poi è stato prolungato per due settimane. È stata visualizzata 90milioni di volte al giorno in tutta Europa in 50mila Atm. Ora stanno continuando con altre foto di altre persone.
Se dovesse finalmente riabbracciare Angela oggi o almeno sapere chi è cosa le direbbe?
Non lo sappiamo. Si possono pensare a mille cose poi magari…Se ci sarà un abbraccio vorrà dire tanto. Se ci sarà un pianto…io solo a immaginarlo inizio a piangere. Abbiamo immaginato più volte questo momento, sarà sicuramente un momento molto forte. Poi non so la nostra reazione quale sarà. Siamo contenti che le persone ci stanno aiutando nella divulgazione della foto e questo per noi è molto importante, non ci fermiamo. Mentre stiamo continuando le indagini su questa ragazza continuiamo a diffondere la foto. Vogliamo ringraziare tutte le persone che in qualsiasi modo lo stanno facendo, questo per noi è molto importante.
Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.
Angela Celentano, choc dal Messico: "Sulla schiena...", il dettaglio decisivo? Libero Quotidiano il 03 settembre 2022
Una nuova segnalazione arrivata dal Messico dà speranza a Maria e Catello Celentano, i genitori di Angela, la bambina scomparsa 26 anni fa - il 10 agosto 1996 - durante una gita con la famiglia sul Monte Faito. Da quel momento più nessuna notizia della piccola. Con la segnalazione è giunta anche una foto della ragazza che potrebbe essere Angela. "Quando una delle figlie dei coniugi Celentano ha visto una foto della ragazza ha esclamato: 'Ma sembro proprio io!'", ha raccontato all'Ansa l'avvocato Luigi Ferrandino.
Non è certo la prima volta che arriva una segnalazione di questo tipo alla famiglia Celentano. Ecco perché il loro legale ha chiarito: "Di questo tipo di indicazioni, ne arrivano di continuo. Tutte passano al vaglio ma solo alcune vengono da noi poi attivamente seguite". Questa volta, però, sembra esserci qualcosa di diverso: "I genitori di Angela non si fanno particolari illusioni. Ma certo stavolta gli elementi sono diversi", ha detto Ferrandino.
"Detto dell'incredibile somiglianza con una delle figlie della coppia, c'è la foto di un neo sulla schiena che potrebbe corrispondere a quello che aveva la piccola Angela - ha continuato l'avvocato -. E poi ci sono rapporti che i genitori di questa ragazza hanno avuto con l'Italia in quegli anni, in particolare con la Campania e con Vico Equense". Per ora, però, non sono stati coinvolti né l'autorità giudiziaria italiana né quella del Paese dove risiede la ragazza. L'avvocato, infine, ha spiegato che al momento mancherebbe solo il test della Dna.
Angela Celentano in Sud America? Il papà: "Aspettiamo riscontri, poi il Dna". Si riaccendono le speranze per la bimba scomparsa 26 anni fa sul Monte Faito. Il papà a ilGiornale.it: "Quella ragazza ha gli stessi tratti del viso di Angela. Siamo speranzosi". Rosa Scognamiglio il 26 Agosto 2022 su Il Giornale.
Sono passati 26 anni dalla scomparsa di Angela Celentano. La bimba - al tempo aveva 3 anni - svanì nel nulla durante una gita sul Monte Faito (Vico Equense) con i genitori, le sue sorelline e il gruppo di preghiera di cui faceva parte la sua famiglia. All'epoca la notizia suscitò grande clamore mediatico attirando le telecamere dei tiggì di tutto il mondo.
Era il 10 agosto del 1996. "Oggi ha trent'anni, è una donna", racconta in una intervista alla redazione de ilGiornale.it Catello Celentano, il papà di Angela che, assieme a sua moglie Maria e le altre due figlie, Rosa e Noemi, non ha mai perso la speranza. Una speranza che si è riaccesa con una recente segnalazione dal Sud America: "C'è una ragazza che assomiglia a nostra figlia. - spiega Catello - Stiamo verificando una serie di elementi prima di procedere, qualora dovesse esserci un riscontro positivo, col test del Dna".
"C'è una pista". E spunta una nuova foto di Angela Celentano
Signor Catello, in occasione del 26esimo anniversario della scomparsa, lei e sua moglie Maria avete diramato una foto che mostra come potrebbe essere Angela oggi. Come l'avete ottenuta?
"L'immagine è stata realizzata dagli esperti dell'associazione Missing Angels Org, con sede in Florida (Usa) e con cui siamo in contatto, mediante uno speciale e avanzato software che ha permesso di realizzare una age progression del volto di mia figlia da bambina. Come ha spiegato l'avvocato Ferradino, il nostro legale, l'immagine è stata ottenuta elaborando i tratti somatici miei, di mia moglie e delle altre due mie figlie, Rosa e Noemi".
La foto è stata diffusa su tutte le piattaforme social. Avete ricevuto qualche riscontro?
"Sì. L'immagine è stata diffusa in tutti i database dedicati alle persone scomparse nel mondo e sui vari social network. E devo dire che abbiamo raggiunto già una buona copertura, c'è stato subito un ottimo riscontro".
Si è parlato anche di una segnalazione dal Sud America. Quindi c'è una nuova pista?
"Al momento stiamo verificando tutta una serie di elementi relativi alla segnalazione di una ragazza che, per i tratti del viso, somiglia molto a nostra figlia".
Può dirci qualcosa in più al riguardo?
"Questa ragazza sembrerebbe compatibile con Angela anche per una serie di dettagli. Per ora stiamo facendo alcuni accertamenti. Poi, qualora il riscontro dovesse essere positivo, si procederà con la prova del Dna".
"Ho visto Angela sull'autobus" La testimone che riapre il caso
Sono passati 26 anni dalla scomparsa. Col senno di poi, cosa crede sia successo quel giorno?
"L'idea che ho oggi e la stessa che avevo 26 anni. Credo si tratti di una 'questione illegale', mettiamola in questi termini. Così come penso che, se al posto suo ci fosse stata un'altra bambina o bambino, non sarebbe cambiato nulla per i presunti rapitori".
Quindi, secondo lei, è stata "scelta" a caso?
"Io credo di sì".
Nel corso di questi anni avete ricevuto molte segnalazioni?
"Di segnalazioni, per fortuna, ne sono arrivate tante in questi anni. Le abbiamo sempre verificate approfondendo quelle che ci sembravano attendibili. Purtroppo però, come è noto anche alla stampa, alcune piste si sono rivelate completamente false o infondate. Ciononostante io e la mia famiglia non abbiamo mai smesso di cercare Angela".
Avete mai pensato che Angela possa trovarsi ancora in Italia?
"Io lo escluderei. Ho sempre pensato che si trovasse all'estero".
Quei bambini sospesi nel nulla
Quando è scomparsa aveva tre anni. Che bambina era?
"Molto vivace, intelligente ed espansiva".
E oggi, come immagina sia diventata?
"Un mix tra Rosa e Noemi, le sue sorelle. E poi credo che abbia conservato il carattere estroverso".
Come hanno vissuto Rosa e Noemi la scomparsa della sorella?
"Al tempo erano piccine, non ricordano molto. Crescendo però ci hanno dato una grossa mano e si sono spese tantissimo per aiutarci nelle ricerche. Ora curano tutta la parte social con le varie pagine che abbiamo abbiamo attive sulle diverse piattaforme".
In che modo, lei e sua moglie, siete riusciti a mantenere viva la speranza di potere riabbracciare Angela per tutto questo lungo tempo?
"Con la fede. La fede è una cosa ben diversa dalla speranza perché non ti abbandona mai, non perde mai forza e intensità, specie nei momenti più difficili".
In Italia ci sono tantissimi genitori nella sua stessa condizione. Quale suggerimento sente di voler dare a queste famiglie?
"Una cosa che mi preme dire è che non bisogna colpevolizzarsi né tantomeno prendersela con il proprio partner. Io e mia moglie Maria ci siamo sempre sostenuti a vicenda, siamo stati l'uno la spalla dell'altro in questi anni. E quando ripensiamo al giorno della scomparsa, rifaremmo tutto allo stesso modo. Non rimpiangiamo di aver organizzato quella gita sul Monte Faito perché ciò che è accaduto non potevamo prevederlo. Quindi dico a queste famiglie, a questi genitori che vivono nell'attesa, di restare uniti e remare insieme nella stessa direzione".
Se invece potesse parlare direttamente ad Angela, cosa le direbbe?
"Vorrei rassicurarla del fatto che non intendiamo in alcun modo turbare la sua serenità. Sappiamo che adesso è una donna adulta, con un vissuto diverso dal nostro e probabilmente ha anche una famiglia tutta sua. A noi interessa solo sapere che è felice. Speriamo che un giorno ci riconosca e decida di contattarci per dirci che sta bene. Non chiediamo nulla di più. L'aspettiamo".
"Stiamo vagliando diverse segnalazioni, una di queste in America Latina sta meritando la nostra attenzione". Angela Celentano, a 26 anni dalla scomparsa la famiglia continua a cercare: “Ecco come sarebbe oggi”. Rossella Grasso su Il Riformista il 9 Agosto 2022.
Era il 10 agosto 1996 quando in pochi istanti la piccola Angela Celentano che all’epoca aveva solo 3 anni, scomparve nel nulla dal Monte Faito mentre stava facendo un picnic con la famiglia. Tra piste poi rivelatesi sbagliate, avvistamenti poi smentiti, la sua famiglia non ha mai perso le speranze di riabbracciarla. E ha sempre continuato a cercarla lanciando appelli e usando qualsiasi mezzo per ritrovarla. Sono passati 26 anni esatti e adesso la famiglia punta ad usare il grandissimo potere di diffusione dei social per arrivare ad Angela che oggi avrebbe 29 anni. La speranza è che la ragazza, riconoscendosi nelle foto diffuse, possa essere lei stessa a contattare la sua famiglia. E per questo motivo i Celentano hanno fatto elaborare da esperti una nuova foto di come sarebbe oggi Angela.
“Noi Catello e Maria Celentano, in coincidenza con il ventiseiesimo anniversario della scomparsa di nostra figlia Angela, avvenuta il 10 agosto del 1996 sul Monte Faito, rendiamo noto che esperti dell’Associazione ‘Missing Angels Org’ con sede in Florida, USA, grazie ad uno speciale ed avanzato software, hanno realizzato una age progression della sua immagine che corrisponderebbe in maniera quasi reale alle sembianze che avrebbe oggi . È stata forte la nostra emozione la foto è veramente veritiera, Maria ha pianto vedendo una foto che sembra reale”, scrive la famiglia sulla pagina Fabebook che le sorelle di Angela, Rosa e Naomi, hanno messo su per portare avanti le ricerche.
“Per compiere questa progression sono state utilizzati i tratti somatici di tutti i componenti della nostra famiglia, con particolare riferimento alle altre nostre due figlie Rossana e Naomi. Vogliamo ringraziare tutti coloro che stanno mettendo il cuore nella ricerca di nostra figlia , in primo luogo uno dei massimi esperti in indagini difensive italiani, il penalista napoletano il Prof. Luigi Ferrandino che coordina il team di esperti che ci coadiuva nella ricerca di nostra figlia, il noto criminologo calabrese Dott. Sergio Caruso, e tutte le associazioni che hanno diffuso e continuano a diffondere le immagini di Angela da piccola”, continua il post della famiglia Celentano.
E spiegano: “Riteniamo che i social siano di fondamentale importanza poichè ci consentono di spingere la ricerca in ogni angolo del pianeta. Per questo motivo abbiamo affidato il coordinamento del team social ad una esperta del settore, la Signora Virginia Adamo, presidente dell’Associazione ‘Manisco World’ e amministratrice del gruppo ‘Busco mi Familia Biològica’ che si avvale della collaborazione di ben 80 associazioni internazionali, grazie alla quale si è raggiunto un accordo con il circuito bancomat ATM che ha pubblicato in decine di paesi di tutta la terra l’immagine di nostra figlia”. L’iniziativa è stata portata avanti in molti paesi in tutto il mondo. Andando al bancomat le persone possono vedere sulla schermata le foto di Angela e il suo segno distintivo di una macchia sul dorso.
“Sono state create diverse pagine su differenti piattaforme social per la ricerca di nostra figlia Angela, riteniamo di ripeterne qui gli indirizzi chiedendo ad ogni persona un gesto di forte sensibilizzazione e solidarietà condividendo la age progression che oggi diffondiamo con questo comunicato affinchè si raggiungano i massimi risultati in termini di visibilità – conclude il post della famiglia Celentano – INSTAGRAM ” Angela.Celentano_official ” , TIK TOK ” @angela.celentano ” , FACEBOOK ” Rosa e Naomi per Angela Celentano” . Chiediamo a tutti di contribuire alle ricerche. Il lavoro nostro e dei nostri esperti per portare a casa Angela non si ferma, sono in corso varie attività in ogni settore investigativo e stiamo vagliano diverse segnalazioni interessanti, in particolare una di queste in America Latina sta meritando la nostra attenzione. Il nostro avvocato, Luigi Ferrandino, raccomanda sempre grande prudenza e assieme ai nostri esperti, vaglia ogni minimo dettaglio coinvolgendoci in ogni attività investigativa”.
Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.
· Il caso di Tiziana Deserto.
La donna andrà in una casa famiglia di Brindisi. Tiziana Deserto torna libera 12 anni dopo la condanna per la morte della figlia Maria. La Redazione su la Voce di Manduria martedì 9 agosto 2022.
E’ tornata libera Tiziana Deserto, oggi 44enne, la donna originaria di Erchie, provincia di brindisi, che ha terminato di scontare 15 anni di reclusione (tre condonati), che le vennero inflitti per concorso nell’omicidio della figlia Maria Geusa, morta all’età di due anni e sette mesi a Città di Castello nell’aprile del 2004.
La condanna venne definitivamente confermata dalla Cassazione il 17 maggio del 2012, anche per concorso nella violenza sessuale subita dalla piccola. Addebiti ai quali Deserto si è sempre proclamata estranea. Maria Geusa morì il 6 aprile del 2004, è emerso dai processi, in seguito alle violenze subite dall’imprenditore edile Giorgio Giorni, condannato definitivamente all’ergastolo. Secondo la ricostruzione accusatoria, la donna gli affidò la figlia dopo essersi innamorata di lui.
"Sono libera, finalmente. Se sono felice? Si, per aver riconquistato la libertà, ma penso sempre alla mia piccola Maria”, ha detto Tiziana Deserto alla “Nazione”. ” Io sono innocente – ha aggiunto – sono stata condannata per pregiudizi nei miei confronti. Cercavano un capro espiatorio. Mia figlia conosce la verità, lei sa tutto. Sa quanto l’ho amata e quanto la amo. Il mio pensiero è fisso su mia figlia Maria. Adesso che sono libera farò del tutto per riportarla al cimitero di Torre Santa Susanna. Provo rabbia e rancore, perché è stato rubato il suo futuro”. Sempre al quotidiano “La Nazione” la donna ha spiegato di essere ancora nella comunità dove ha scontato gli arresti domiciliari. “Alla fine di questa settimana, al massimo all’inizio della prossima- ha proseguito – mi trasferirò a Brindisi, in una più grande con un servizio sanitario all’interno. Ripartirò da lì, sempre con la mia Maria nel cuore. Vorrei fare la commessa in un negozio di abbigliamento o di scarpe. Si, nel settore della moda mi vedrei bene”. Giorgio Giorni, imprenditore edile d San Sepolcro, ammise di aver picchiato la piccola Maria ma negò di aver abusato di lei .
Confessò al Procuratore della Repubblica di Perugia di allora (Nicola Miriano) e al Pm Giuseppe Petrazzini che si trattò di un raptus di follia, che lo avrebbe colto verso le 12,30, prendendo a pugni e calci la bambina, rimasta sola, poco prima, per circa un’ora nell’abitazione di Città di Castello. Negò in maniera determinata ogni tipo di violenza sessuale. Tuttavia, i primi esami medici all’ospedale di Città di Castello. dove Maria fu portata in fin di vita, confermarono la presenza di gravi lesioni sessuali . Giorni aveva dichiarato di aver lasciato sola Maria perché era rimasto chiuso fuori dall’abitazione, ed era andato a San Sepolcro a prendere una copia delle chiavi. Avrebbe poi affermato che la porta non aveva subito effrazioni durante la sua assenza. Maria fu sepolta ad Erchie, il paese dei nonni paterni.
MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA? MALAGIUSTIZIA. IL CASO DELLA PICCOLA MARIA GEUSA.
Non intende smettere di lottare Massimo Geusa: dopo aver chiesto al Presidente della Repubblica la grazia per sua moglie, Tiziana Deserto, è arrivato in televisione per perorare la sua causa, scrive Maura De Gaetano su “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 27.04.2013. L’uomo è stato ospite de “I fatti vostri”, popolare programma di Rai2, nella mattinata di ieri. Sostenuto dalla presenza fisica del suo legale, Giuseppe Caforio, e da quella ideale dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, Geusa ha spiegato al conduttore, Giancarlo Magalli, i motivi della sua richiesta. «Mia moglie ha subito una grande ingiustizia – ha ribadito l’uomo – perché è stata condannata praticamente senza prove, come se già non fosse sufficiente il male che ha subito, con la perdita di nostra figlia». Tiziana Deserto dovrà scontare 15 anni di reclusione per concorso nell’omicidio e nella violenza sessuale della piccola Maria, figlia concepita con il marito e morta, a meno di 3 anni nel 2004, per mano del nuovo compagno della donna. «Quelle violenze sessuali reiterate non ci sono mai state – ha affermato ancora una volta Geusa – perché altrimenti sarei stato il primo ad accorgermene, vivendo in casa con la bimba. Sono certo che mia moglie non avrebbe mai affidato nostra figlia nelle mani di un uomo, sapendo che costui la violentava». Il devoto marito di Tiziana ha raccontato alle telecamere, ancora una volta, la sua versione dell’accaduto: la benevolenza dimostrata dall’assassino Giorgio Giorni, condannato all’ergastolo, e la fiducia che questi si era conquistato tanto presso la mamma, quanto presso il papà di Maria. A un Magalli stupefatto dell’amore dimostrato, nonostante tutto, da Geusa a sua moglie, l’uomo ha spiegato: «Da tempo ho perdonato il suo tradimento e la sua storia con Giorni. Non potrei mai perdonarla, però, del concorso nell’omicidio di nostra figlia. Se ho chiesto la grazia per lei, è perché sono convinto della sua buona fede». La domanda di grazia, inviata a Giorgio Napolitano lo scorso mese, è al momento al vaglio del ministro di Grazia e giustizia, che ha avviato le procedure del caso. «Ho ancora fiducia nella giustizia – conclude Geusa – e spero che la verità sulla morte di Maria venga a galla: Tiziana è innocente».
«Ho commesso una leggerezza, ma amavo mia figlia. Non le avrei mai fatto nulla di male». Così Tiziana Deserto, in carcere da quasi un anno per il concorso nell’omicidio della figlia Maria Geusa, racconta con dolore la morte della bambina di due anni e mezzo uccisa il 5 aprile 2004 a Città di Castello da Giorgio Giorni, datore di lavoro del marito, Massimo Geusa, e sogno di una vita insieme per lei, scrive Egle Priolo su “L’Espresso”. Lei che in un anno (ne deve scontare altri 11) ha cambiato tre istituti penitenziari a causa delle sue pessime condizioni di salute. Da fuori, il marito Massimo continua a sostenerla in ogni modo. Ha già chiesto al presidente della Repubblica la grazia per la sua Tiziana (la pratica è stata inoltrata) e ora, dopo la lettura delle motivazioni della sentenza con cui la Corte di cassazione ha reso definitiva la condanna a 15 anni (tre condonati per l’indulto), vuole addirittura la revisione del processo per quanto riguarda l’accusa di concorso in violenza sessuale. La Corte, che ha ribadito quanto stabilito in primo e secondo grado, ha però ritenuto fondato il motivo del ricorso che riguarda l’aggravante dell’uso di sevizie e crudeltà. Non cambia nulla dal punto di vista della pena («ininfluente sul trattamento sanzionatorio», ribadiscono i giudici), ma per i genitori di Tiziana e per Massimo è lo spiraglio per chiedere la revisione del processo. Un’ipotesi che l’avvocato della Deserto, Giuseppe Caforio, conferma di star studiando. «Stiamo valutando questa possibilità», spiega il legale, mentre Massimo si sta impegnando a cercare una consulenza medico legale che possa sostenere la convinzione che ha da sempre. «Ho perso una figlia, non voglio perdere anche una moglie - racconta oggi -. Le ho perdonato il tradimento, ma non avrei perdonato a Tiziana gli abusi sulla nostra bambina. Ma quegli abusi non ci sono stati, sono sicuro. Ho cambiato Maria fino al giorno precedente l’omicidio e non aveva nessun segno, nessuna ferita. Niente di niente che possa far pensare a una violenza sessuale. I giudici hanno sbagliato». I giudici, secondo Massimo, hanno sbagliato sei volte (i tre gradi per Giorni e i tre per Tiziana), stabilendo una verità processuale, ma non scientifica. Basata su quell’«alta suggestione», cioè alta probabilità della violenza. «Probabilità, non certezza», insiste Massimo Geusa. Che ora, operaio in Puglia, quando non va a trovare Tiziana in carcere, passa il tempo su internet a informarsi sulle violenze sui minori, su riscontri e prove, cercando di individuare professionalità che possano dare un sostegno scientifico alle sue convinzioni. Paradossalmente, se ci riuscisse, potrebbe aiutare l’uomo che ha ucciso sua figlia per salvare la sua amata Tiziana. Che da maggio scorso (si è presentata in carcere il 18 maggio) ha perso più di venti chili e adesso non riesce neanche a mangiare. «Non trattiene più nessun alimento - racconta l’avvocato Giuseppe Caforio - ed è in un preoccupante stato di prostrazione psicofisica». Anche per questo motivo, l’avvocato ha richiesto il suo trasferimento già due volte: da Lecce a Foggia e da Foggia a Trani. Ma sembra che le sue condizioni non migliorino. Prostrata e distrutta, a ripetere solo di non aver mai fatto del male alla piccola Maria.
· Il mistero di Giorgiana Masi.
Quando uccisero Giorgiana io c’ero, ma nessuno ancora ci dice chi sia stato a spararle. Quel 12 maggio 1977 il Partito Radicale aveva organizzato a piazza Navona un concerto, ma dal Viminale arrivò un “no”. Valter Vecellio su Il Dubbio il 12 maggio 2022.
“Eroe della sesta giornata”: così si definisce quel personaggio che si intruppa ai vincitori quando ormai il pericolo è passato, la vittoria conquistata, la lotta (nello specifico le famose cinque risorgimentali giornate della rivolta milanese contro gli austriaci), finita. Poi ci sono i “professionisti del reducismo”, spesso millantatori. Non foss’altro per anagrafiche ragioni, non possono essere reduci di nulla; e in quanto alla professione, diciamo che vanno dove li porta il cuore, a volte; o l’interesse, spesso. Categorie che spesso, come la cattiva erba finiscono col soffocare quella commestibile; moneta di pessimo conio che soppianta quella “buona”. Considerazione generale, vale per la storia in genere, e le “storie” che poi ne fanno parte. Per questo sono importanti le “memorie”; quelle che si ricavano dai diari, dalle lettere, dai memoriali; i racconti che si tramandano; poi è compito degli storici depurare i ricordi, le memorie dalle scorie che inevitabilmente contengono: come il diamante estratto: prima di diventare un prezioso gioiello, va pazientemente, sapientemente lavorato.
I rischi di chi scrive di storia sono sempre tanti: non solo la fatica di trovare le giuste fonti; immancabilmente ci si imbatte, appunto, negli “eroi della sesta giornata”, quelli che raccontano, senza esserci mai stati, con dovizia di particolari, cos’è accaduto quel giorno specifico. Chi davvero c’era, nel vederli in “esibizione”, nell’ascoltarli, non può che pensare alla fulminante battuta di Ennio Flaiano: “Quelli là, credono di essere noi”. Tocca dunque sbrigarci, noi che c’eravamo, e che ancora ci siamo; tanti, purtroppo, se ne sono andati, di loro è rimasta labilissima traccia.
Quel 12 maggio 1977, dunque: già 45 anni fa: una quasi vita… Quel giorno una studentessa romana di 19 anni appena, Giorgiana Masi, vuole trascorrere la serata in compagnia del fidanzato, e ascoltare musica. Si dirige a piazza Navona, luogo fissato per un annunciato concerto. Non ci arriverà mai. All’altezza del ponte di Garibaldi si trova coinvolta in una immotivata, brutale carica dei carabinieri. Qualcuno, dalla parte delle forze dell’ordine, esplode dei colpi di pistola, un proiettile raggiunge la ragazza alla schiena. Colpita, cade a terra, muore. Sono circa le 20 di sera. Questi, i fatti, nella cruda essenzialità.
C’è un contesto. Quello che si è scritto finora è appena una parte di un “tutto” che ancora, a quasi cinquant’anni dai fatti, attende di essere spiegato in modo soddisfacente: sotto il profilo giudiziario, politico, storico. Nel volume che raccoglie i diari dell’ambasciatore Ludovico Ortona negli anni in cui è stato Consigliere Stampa di Francesco Cossiga, presidente della Repubblica, alla data 16 maggio 1987, si legge: “Esce su alcuni quotidiani un attacco di Pannella a Cossiga sulle vicende dell’epoca in cui era ministro dell’Interno (Giorgiana Masi, caso Moro). Lo vedo piuttosto turbato, anche se poi si riesce a ridimensionare l’episodio dicendogli che è un attacco del solito Pannella. Ne è chiaramente dispiaciuto”. Indicativo quel “si riesce a ridimensionare l’episodio”; sarebbe interessante sapere “chi”, ha ridimensionato; “come” ha ridimensionato; quanto al “perché” lo si intuisce. C’è quel “dispiaciuto…”: il presidente della Repubblica a cui Pannella rimprovera il ruolo giocato sulle vicende Masi e Moro, si “dispiace”. Crediamoci. Ma limitarsi a un “dispiacere” è davvero poca cosa. Ben altro che il dispiacere, per quei due tragici eventi che sono alla base della polemica accesa da Pannella. Si torni, ora al quel 12 maggio 1977.
Il Partito Radicale convoca a piazza Navona un concerto. Si festeggia l’anniversario della vittoria del NO all’abrogazione della legge sul divorzio, e si raccolgono le firme per altri referendum abrogativi di legge fasciste, autoritarie, liberticide. Dal ministero dell’Interno, “governato” allora da Cossiga, arriva un NO: manifestazione vietata. Quale sia il timore che si nutre nelle inutilmente austere stanze del palazzone progettato dall’architetto Manfredo Manfredi nel 1911, non è dato sapere. Mai i radicali sono stati un problema per quel che riguarda l’ordine pubblico. Perché quell’assurdo divieto? E cosa si “prepara”, cosa nasconde, sottende quel NO improvviso, a manifestazione già convocata? Naturalmente nessuno sospetta che si stia preparando quello che poi accadrà. Ingenuità? Forse, ma col senno del dopo.
Come che sia, quel giorno Roma è in stato d’assedio: mancano solo i carri armati; per il resto, c’è tutto: poliziotti e carabinieri in assetto di guerra, caschi, scudi, lacrimogeni, fucili usati come sfollagente; e tanti agenti in borghese, travestiti da autonomi: rivoltella in pugno, spranghe in mano: infiltrati tra i manifestanti: ore e ore di provocazioni, aggressioni, botte, arresti; si spara ad altezza d’uomo, e non per legittima difesa, sia chiaro. Gli incidenti cominciano alle 14, vicino al Senato; coinvolgono ragazzi, turisti, passanti. Calci, pugni, sputi ai parlamentari che pur si qualificano come tali, e anzi, magari li si aggredisce con maggiore gusto e cura. Di questo, chi scrive, è diretto testimone e vittima: conservo ancora con somma cura la giacca di renna dilaniata dai carabinieri; e una istantanea che mi “fissa” mentre sono malmenato; la ritroverò pubblicata sulla tedesca “Stern”. La didascalia parla di “autonomo milanese” durante non precisati scontri (a prova del fatto che la “precisione” non è solo del giornalismo italiano).
Gli scontri si allargano a macchia d’olio, tutto il centro città è coinvolto in questa programmata follia: fino a Trastevere e oltre, una vera caccia all’uomo. A ponte Garibaldi, Giorgiana è colpita alle spalle, muore. Nessun agente o carabiniere, in divisa o in borghese ha sparato, dice il sottosegretario agli Interni Nicola Lettieri, subito smentito dai fatti. “Fuoco amico”, insinua Cossiga. “Amico” di chi? Non certo di Giorgiana, colpita alle spalle, mentre cerca di fuggire. E’ tutto documentato, nel libro bianco, le testimonianze, le fotografie, i filmati che il Partito Radicale diffonde poche ore dopo i “fatti”. Una documentazione inoppugnabile, mai smentita. Uno straordinario documento, il racconto di una strage cercata e voluta; e più che mai si può citare l’Elias Canetti de La provincia dell’uomo: “La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto ‘al momento giusto’”.
Chi ha sparato a Giorgiana e l’ha uccisa è uno dei tanti misteri italiani. Tutti ricordano la foto di Giovanni Santone, il poliziotto in borghese, maglione bianco con una banda scura, pistola in mano, spranga bianca nell’altra, borsa di Tolfa a tracolla (per la carta igienica, racconterà poi); ma la prova regina, la testimonianza fondamentale è un’altra: un video girato in “super 8” da una signora che abita in piazza della Cancelleria in cui si vedono chiaramente due poliziotti in divisa, nascosti dietro le colonne, che estraggono la pistola dalla fondina e sparano ad altezza uomo. Quelle immagini smentiscono clamorosamente quanto detto dal sottosegretario Lettieri in Parlamento: “Le forze di polizia non fecero uso di armi da fuoco”. Si cercava il morto. Si voleva il morto. Purtroppo il morto c’è stato. Questi i fatti. Vissuti e raccontati da chi ha vissuto le “cinque giornate”; e ora ascolta con amarezza divertita i racconti di chi è accorso il sesto giorno.
· Il Giallo di Ponza: Gian Marco Pozzi.
Rita Cammarone per “Il Messaggero” il 26 maggio 2022.
Attorno alla morte dell'ex campione di kickboxing Gianmarco Pozzi una rete di spaccio tra Roma, Ponza e Napoli. Un'attività ben organizzata per un volume d'affari di 5.000 euro al giorno, 150mila al mese.
È quanto emerge dall'ordinanza del Gip Domenico Di Croce del Tribunale di Cassino che ieri ha portato all'arresto, con restrizione ai domiciliari, di cinque persone e all'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, due volte al giorno, a carico di altri tre indagati, accusati a vario titolo di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, cocaina e hashish.
«Finalmente si smuovono le acque - ha commentato l'avvocato Fabrizio Gallo, legale della famiglia Pozzi -. Questa operazione avvalora la nostra ipotesi, formulata sin dall'inizio delle indagini difensive, in base alla quale riteniamo che Gimmy (Gianmarco Pozzi, ndr) sia stato ucciso nell'ambito del traffico di stupefacenti tra Ponza e Roma».
I provvedimenti cautelari hanno riguardato anche il coinquilino del pugile di 27 anni trovato morto il 9 agosto 2020, con la testa fracassata e ferite multiple su tutto il corpo, all'interno di un'intercapedine tra il muro di contenimento di un terreno e una villetta in località Santa Maria sull'isola, a poche centinaia di metri dall'abitazione che i due condividevano insieme ad altri ragazzi.
Si tratta del 28enne Alessio Lauteri, residente a Roma, da ieri ai domiciliari. Ma hanno riguardato anche Vincenzo Pesce, 34 anni di Ponza, titolare del Blue Moon, noto locale della movida ponzese in cui nell'estate 2020 lavoravano sia Lauteri che Pozzi.
Ai domiciliari anche Angelo e Circo Monetti, rispettivamente di 44 e 61 anni, residenti a Napoli e Afragola, e Antonio Iaria, 28enne originario di La Spezia e residente a Roma.
Destinatari della misura dell'obbligo di presentazione alla pg due romani, di fatto domiciliati a Ponza, Manuel M. e Marco B., entrambi di 39 anni, e Antonio P., 46enne residente a Pozzuoli, nell'hinterland napoletano.
Oltre cinquanta le cessioni di droga fotografate dagli investigatori dell'Arma, attribuite agli indagati nel periodo appena antecedente alla morte di Gianmarco Pozzi e da quel momento fino ad ottobre dello stesso anno.
Le indagini, come emerge nell'ordinanza del Gip, hanno consentito di ricostruire anche la contabilità dell'attività illecita, con tanto di crediti e debiti, in grado di fruttare all'organizzazione come riferiscono gli indagati intercettati fino a 5.000 euro al giorno.
I canali di approvvigionamento della droga sono stati individuati sia nella capitale, con importante piazza di spaccio nel quartiere Laurentino 38, sia nell'hinterland dal capoluogo campano.
Le indagini sul traffico di stupefacenti per l'estate ponzese, condotte dai carabinieri della Compagnia di Formia e coordinate dalla Procura di Cassino, con i conseguenti arresti di ieri, hanno tratto spunto proprio dal decesso del giovane pugile romano, buttafuori al Blue Moon, avvenuto in circostanze ancora da chiarire e per il quale hanno precisato ieri gli inquirenti sono ancora in corso accertamenti.
Nell'ordinanza viene evidenziato che le circostanze della morte di Pozzi avevano destato da subito perplessità negli investigatori per il coinvolgimento del giovane nelle attività di spaccio sull'isola e, successivamente, per i dubbi sollevati dalla sorella Martina, sentita dagli inquirenti a proposito della morte del fratello.
Cause inizialmente attribuite dalla Procura di Cassino a una caduta accidentale dell'ex campione di kickboxing da un'altezza di tre metri, mentre era sotto gli effetti della cocaina. Una ricostruzione smontata dalla perizia medico-legale del professor Vittorio Fineschi, ingaggiato dalla famiglia Pozzi, in base alla quale il 27enne sarebbe stato massacrato di botte e poi gettato nell'intercapedine.
Secondo Fineschi, inoltre, il quantitativo di cocaina assunto dal ragazzo non sarebbe stato tale da provocare il delirio e la conseguente caduta mortale. L'inchiesta sullo spaccio mette in luce che i due giovani, Lautieri e Pozzi, pochi giorni prima della tragedia sono andati a Roma per acquistare 70 grammi di cocaina per Pesce, ceduti a 4.800 euro.
Ma soprattutto mette nero su bianco la testimonianza di un barista di Formia che rivoluziona gli orari forniti dal coinquilino di Gimmy su quella tragica mattina del 9 agosto. Una vicenda ancora tutta da ricostruire quella della morte del pugile sull'isola.
Giallo di Ponza, la famiglia accusa: «Il nostro Gimmy come Cucchi, anche nel suo caso ci sono stati depistaggi». Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 27 aprile 2022.
Lettera anonima inviata al padre di Gian Marco Pozzi, trovato morto sull’isola il 9 agosto di due anni fa: «Coinvolte due persone che indagavano». Il papà: «Noi lasciati soli, il Presidente Mattarella ci aiuti».
Un altro colpo di scena nella vicenda della misteriosa morte del campione di kick boxing Gian Marco Pozzi, detto Gimmy, trovato senza vita all’alba del 9 agosto di due anni fa a Ponza dove lavorava come addetto alla sicurezza in un locale sul porto, il Blue Moon. Secondo la famiglia il 28enne, romano di Quarto Miglio, sarebbe stato massacrato di botte e ucciso forse nell’ambito di un regolamento di conti per droga.
Adesso, il 20 aprile scorso, al padre del ragazzo, Paolo Pozzi, è stato recapitato per posta un messaggio anonimo, indirizzato anche alla procura di Cassino e alle Iene di Italia 1 nel quale si gettano ombre su due persone coinvolte nelle indagini sul fronte investigativo che avevano rapporti fra loro e che potrebbero - secondo il mittente sconosciuto - aver occultato prove per nascondere le negligenze dei primi accertamenti svolti sull’isola. Sul corpo di Pozzi non è stata effettuata l’autopsia e poi la salma, su disposizione dei familiari, è stata cremata. Rimangono foto del 28enne deceduto dal quale, secondo una perizia della famiglia, si evincono le botte subìte e il risultato degli esami tossicologici che confermano una forte assunzione di cocaina prima del decesso.
«Penso sia una cosa grave, su consiglio dell’avvocato, ho preso la lettera e l’ho inviata al pm con una raccomandata velocissima», racconta il padre del campione all’Aska News. «Secondo me chi ci scrive è qualcuno che fa parte dell’apparato dello Stato, perché per come è formalmente scritta nei modi e nella maniera, sembra un personaggio delle istituzioni - ha aggiunto -. Indagini fatte male fin dall’inizio e adesso anche questa illazione, non so se sia vera o falsa, perché la lettera è anonima, però porta sempre del marcio sulle indagini, su qualcosa che non è stato fatto nell’immediatezza».
«Vorrei - dice ancora Pozzi - un segnale dal presidente della Repubblica Mattarella e dal ministro Cartabia, per la seconda volta ho inviato la seconda raccomandata 3-4 giorni fa, io voglio essere sentito, perché ci sono troppe anomalie. Mio figlio l’hanno ucciso, ma perché le indagini le hanno condotte in una maniera pessima? Sono passati 21 mesi e non ho ricevuto nulla, né dal magistrato, che devo dire ultimamente l’ho incontrato e mi ha fatto un ottimo effetto, il pm Flavio Ricci, però non ho segnali di niente, non mi sembra normale, io sono la parte offesa, mi volete dire qualcosa, mi volete aiutare?».
Secondo il legale della famiglia, Fabrizio Gallo, «questa lettera anonima non ci sorprende, questo fatto lo conoscevamo da mesi, la figlia di Paolo, la sorella di Gianmarco (Martina Pozzi, ndr), ne aveva già notiziato il pm di questa circostanza importante e grave, che se fosse vera sconvolgerebbe tutto il percorso, anche probatorio. É una circostanza importante, che sembrerebbe confermare le voci che erano già arrivate alla famiglia, cioé di una compromissione, naturalmente tutta da verificare, dalla quale prendiamo le distanze perché non è stato accertato, ma chiediamo al pm (Flavio Ricci, ndr) di voler accertare se vi sono state intromissioni di gente delle istituzioni che stava facendo le indagini nei confronti di soggetti che stavano facendo relazioni importanti sulle indagini». «È un caso simile - conclude l’avvocato -, come quello di Stefano Cucchi, dove sono coinvolti dei carabinieri. Le due storie sono identiche, ci sono coinvolti dei carabinieri lì, ci dovrebbero essere coinvolti dei carabinieri anche qui, perché le indagini sono state fatte o non sono state fatte da loro».
· Il caso di Cristina Mazzotti.
Sequestro Mazzotti, sono quattro gli indagati per il rapimento di 47 anni fa: c'è anche il boss Giuseppe Morabito. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 9 Novembre 2022.
La procura chiude le indagini sul caso della 18enne rapita il 1° luglio 1975 a Eupilio, nel Comasco. Cristina Mazzotti venne trovata morta un mese dopo in una buca a Castelletto Ticino (Novara). Indagati Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò, Antonio Talia e Peppe Morabito
Quattro nomi: Demetrio Latella, Antonio Talia, Giuseppe Calabrò, alias 'u Dutturicchiu, e Giuseppe Morabito. Sono loro, secondo le nuove indagini della squadra Mobile, coordinata dai pm Stefano Civardi e Alberto Nobili, i responsabili del sequestro della 18enne Cristina Mazzotti, rapita a Eupilio nel Comasco 47 anni fa. Secondo la ricostruzione della procura, Giuseppe Morabito, oggi 78enne, originario di Africo ma emigrato da molti anni a Tradate (Varese) e organico alla cosca Morabito-Falzea, avrebbe messo a disposizione l'Alfa Romeo Giulia super 1300 blu usata dal commando per «segnalare l'arrivo della Mini Minor» sui cui viaggiava la vittima e per «fare la staffetta verso il luogo di prigionia».
La Direzione distrettuale antimafia di Milano, che ha riaperto le indagini grazie a una sentenza della corte di Cassazione secondo la quale il reato di omicidio aggravato non può mai estinguersi per prescrizione, ha così ricostruito le fasi del rapimento. Il 31 luglio 1975 un commando composto (tra gli altri) da Latella, Talia, Morabito e Calabrò avrebbe bloccato la Mini su cui viaggiava Cristina Mazzotti con due amici intorno all'1.30 di notte «nei pressi dell'abitazione della vittima». «Dopo aver ricevuto il segnale dell'arrivo della Mini, da parte di una Alfa Romeo Giulia che superava la Mini lampeggiando - Alfa Romeo messa a disposizione da Morabito -, con una vettura Fiat 125 condotta da Talia, bloccarono il cammino della Mini».
Il commando aveva messo l'auto di traverso puntando i fari abbaglianti, poi aveva circondato l'auto della vittima e costretto i tre occupanti a sedersi nei sedili posteriori. Qui li avrebbero minacciati con una pistola impugnata da Calabrò e con le due auto erano poi partiti verso Appiano Gentile, dove i complici avevano preso in consegna la vittima, l'avevano incappucciata, mentre gli amici «furono legati e semi narcotizzati e lasciati nei sedili posteriori della Mini». Calabrò, secondo gli inquirenti, avrebbe «reclutato Latella e Talia a Milano nel gruppo di azione per il sequestro». Il rapimento sarebbe stato invece «ideato da Morabito insieme Francesco Aquilano e Giacomo Zagari», entrambi deceduti. Peppe Morabito avrebbe poi partecipato all'azione mettendo a disposizione la Giulia «intestata alla sorella Antonia». Il nome di Morabito era emerso già nei verbali di Antonio Zagari, importante collaboratore di giustizia morto nel 2004 in un incidente d'auto.
Nuova inchiesta a Milano su un rapimento di 47 anni fa. ANSA il 30 aprile 2022.
C'è una terza e nuova inchiesta della Procura di Milano, con quattro indagati nella vecchia 'mala' milanese vicina alla 'ndrangheta, sul sequestro a scopo di estorsione che si è concluso con l'omicidio, 47 anni fa, della 18enne Cristina Mazzotti, la prima donna a essere rapita dall'Anonima sequestri al Nord Italia.
I pm milanesi Alberto Nobili e Stefano Civardi, sulla base del lavoro della squadra Mobile, contestano a 4 persone legate alla 'ndrangheta l'omicidio volontario della 18enne, nel presupposto che "segregandola in una buca senza sufficiente aereazione e possibilità di deambulazione, somministrandole massicce dosi di tranquillanti e eccitanti", ne abbiano "così cagionato la morte" nelle stesse ore in cui il padre pagava il riscatto tra il 31 luglio e l'1 agosto 1975. Si tratta di Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò, Antonio Romeo e Antonio Talia. Si sono avvalsi della facoltà di non rispondere.
Cristina Mazzotti fu rapita la sera del'1 luglio 1975 fuori dalla sua villa di Eupilio (Como). Al padre della ragazza, Helios, furono chiesti 5 miliardi di lire di riscatto e dopo un mese l'uomo racimolò 1 miliardo e 50 milioni che pagò. Il primo settembre del '75 una telefonata anonima indicò ai carabinieri di scavare in una discarica di Galliate (Novara), e lì fu ritrovato il cadavere. Cristina era stata uccisa da un cocktail di farmaci. Un primo processo si concluse a Novara con 13 condanne di cui otto ergastoli a carico di fiancheggiatori ma non degli esecutori materiali del sequestro finito in omicidio. (ANSA).
Giuseppe Legato,Monica Serra per “la Stampa” il 30 aprile 2022.
All'epoca, nel 1975, fu il primo caso di una ragazza sequestrata che morì nella lunga stagione dell'Anonima al Nord. Ma le condanne già inflitte per l'omicidio della diciottenne Cristina Mazzotti, figlia di un ricco industriale, trovata morta in una discarica nel Novarese dopo aver vissuto in un fosso imbottita di psicofarmaci, hanno raccontato solo parte della verità. Per questo, dopo 47 anni, la procura di Milano ha riaperto l'inchiesta, e iscritto per concorso in omicidio volontario aggravato dalla crudeltà quattro nomi nel registro degli indagati. Nomi «inconfessabili» anche per gli imputati già finiti all'ergastolo.
Tra loro c'è l'ex gangster della Milano di Epaminonda, Demetrio Latella, calabrese di 67 anni, che, incastrato da un'impronta, già nel 2007 aveva confessato di aver partecipato al sequestro di Cristina. E aveva tirato in ballo Giuseppe Calabrò, 72 anni di San Luca, uomo d'oro del narcotraffico lombardo, detto «u dutturicchiu», il dottorino, per via di qualche esame dato all'università; Antonio Talia, 71enne di Africo e l'avvocato civilista 66enne di Bovalino, Antonio Romeo, cognato di Calabrò che mai prima d'ora era stato indagato per il delitto.
Tutti e quattro oggi liberi, sono stati interrogati dai pm Alberto Nobili e Stefano Civardi, e dalla Squadra mobile diretta da Marco Calì. E tutti si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, tranne Latella, che avrebbe aggiunto dettagli importanti alla confessione già resa.
A incastrare Latella nel 2007 era stata un'impronta trovata sulla Mini Minor in cui la notte del primo luglio 1975, Cristina fu rapita mentre tornava alla villa di famiglia, a Eupilio, nel Comasco. Già all'epoca erano stati indagati anche Calabrò e Talia, ma il fascicolo finì archiviato per la prescrizione dei reati contestati. L'anno scorso però l'avvocato Fabio Repici, che assiste la famiglia del procuratore ammazzato dalla 'ndrangheta Bruno Caccia, scavando su Latella, ha presentato un esposto sul caso Mazzotti, ricostruito anche nel suo libro «I soldi della P2».
E ha segnalato, tra le altre cose, che nel 2014 le sezioni unite della Cassazione hanno stabilito che non c'è prescrizione per l'omicidio volontario aggravato. In base a questa sentenza il caso Mazzotti è stato riaperto, nella speranza di riscrivere, definitivamente, questa dolorosa storia.
Per Cristina Mazzotti la giustizia non arriva mai. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 30 aprile 2022.
Caro Aldo, fu atroce l’eco che generò il sequestro di Cristina Mazzotti. Io avevo solo un anno ma per oltre un decennio vissi sempre sotto controllo. Una volta in famiglia ad una festa ci fu una rapina con banditi armati di fucili: il terrore dei rapimenti segnò l’Italia per parecchi anni. Gian Paolo Conte Che storia terribile, ma meglio tardi che mai. Cristina Mazzotti ha avuto una morte tremenda, sapere che non si è mai smesso di cercare gli esecutori materiali del sequestro, mi fa sentire fiero del nostro sistema giudiziario. Cristina merita giustizia. Andrea Graziano
Cari lettori, Per la generazione che era bambina negli anni 70, il rapimento e la morte di Cristina Mazzotti furono uno choc, non meno grave di quello provocato dai crimini del terrorismo nero e rosso. Cristina aveva appena diciotto anni. Fu sequestrata e detenuta in condizioni feroci, in una buca. Le furono dati tranquillanti, per farla dormire, ed eccitanti, per farle telefonare a casa in modo da indurre i genitori a pagare. Sul Corriere Luigi Ferrarella e Cesare Giuzzi hanno ricostruito la vicenda giudiziaria, che aggiunge orrore a orrore, sconcerto a sconcerto. Le inchieste avevano portato in cella i fiancheggiatori, non gli esecutori materiali del sequestro. Nel 2007 un’impronta incastrò il bandito Demetrio Latella, uscito di galera l’anno prima per altri crimini, il quale confessò e chiamò a correo i suoi (presunti) complici. Ma un magistrato valutò che il reato fosse prescritto. Cioè uno sequestra una ragazza di diciotto anni, la chiude in una buca, la uccide, incassa un miliardo dai genitori la cui vita sarà distrutta dal dolore, e per la giustizia italiana non può essere punito. Ora però il caso è stato riaperto da un avvocato, che assiste la famiglia Caccia — Bruno Caccia è l’eroico procuratore della Repubblica a Torino assassinato dalla ‘ndrangheta il 26 giugno 1983: era domenica e Caccia aveva lasciato la giornata libera alla scorta —, e ha ricordato come nel 2015 la Cassazione abbia stabilito che l’omicidio volontario è un reato imprescrittibile. Intanto dalla morte di Cristina Mazzotti sono passati quarantasette anni. Oggi Cristina ne avrebbe sessantacinque. Come lei, non sono tornati a casa Duccio Carta, 18 anni; Emanuele Riboli, 18 anni; Giovanni Stucchi, 31 anni; Paolo Giorgetti, 16 anni; Gianfranco Lovati, morto per asfissia...
'Ndrangheta e sequestri, dopo quasi 50 anni 4 indagati per la morte di Cristina Mazzotti. Il Quotidiano del Sud il 30 aprile 2022.
C’è una terza e nuova inchiesta della Procura di Milano, con quatto indagati nella vecchia “mala” milanese vicina alla ‘ndrangheta, sul sequestro a scopo di estorsione che si è concluso con l’omicidio, 47 anni fa, della 18enne Cristina Mazzotti, la prima donna a essere rapita dall’Anonima sequestri al Nord Italia.
I pm milanesi Alberto Nobili e Stefano Civardi, sulla base del lavoro della squadra Mobile, contestano a 4 persone legate alla ‘ndrangheta l’omicidio volontario della 18enne.
La Procura di Milano contesta ai 4 indagati l’omicidio di Cristina Mazzotti nel presupposto che «segregandola in una buca senza sufficiente aereazione e possibilità di deambulazione, somministrandole massicce dosi di tranquillanti e eccitanti», ne abbiano «così cagionato la morte» nelle stesse ore in cui il padre pagava il riscatto tra il 31 luglio e l’1 agosto 1975.
Le persone indagate sono Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò, Antonio Romeo e Antonio Talia, Tutti si sono avvalsi della facoltà di non rispondere.
Cristina Mazzotti fu rapita la sera del’1 luglio 1975 fuori dalla sua villa di Eupilio (Como). Al padre della ragazza, Helios, furono chiesti 5 miliardi di lire di riscatto e dopo un mese l’uomo racimolò 1 miliardo e 50 milioni che pagò. Il primo settembre del ’75 una telefonata anonima indicò ai carabinieri di scavare in una discarica di Galliate (Novara), e lì fu ritrovato il cadavere. Cristina era stata uccisa da un cocktail di farmaci.
Un primo processo si concluse a Novara con 13 condanne di cui otto ergastoli a carico di fiancheggiatori ma non degli esecutori materiali del sequestro finito in omicidio. Nel 2007 un’impronta digitale, grazie alla nuova banca dati, fu attribuita Demetrio Latella. Il gip ne respinse per mancanza di esigenze cautelari l’arresto chiesto dalla Procura di Torino,
ma Latella ammise di essere stato uno dei sequestratori e chiamò in causa altre due persone. Il fascicolo (passato a Milano per competenza territoriale) fu archiviato nel 2012: prescritti, per varie ragioni, il sequestro di persona e l’omicidio volontario aggravato. Nel frattempo, però, una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione nel 2015 aveva indicato imprescrittibile il reato di omicidio volontario.
Un esposto è stato quindi riproposto da Fabio Repici, già avvocato della famiglia Mazzotti e poi parte civile per la famiglia del magistrato torinese Bruno Caccia ucciso nel 1983 in un delitto nel quale per Repici avrebbe avuto un ruolo Latella.
Gabriele Moroni per il Resto del Carlino il 15 agosto 2022.
Il 9 maggio 1997 è un venerdì di sole. Marta Russo, 22 anni, studentessa del terzo anno di giurisprudenza alla Sapienza di Roma, libretto costellato di 30, cammina con l'amica e compagna di studi Iolanda Ricci in un vialetto dell'università. Le 11.42.
Marta si accascia davanti a un'aiuola. In ospedale le viene scoperto un proiettile calibro 22 nella nuca. Dopo tre giorni di agonia è dichiarata clinicamente morta. I genitori autorizzano l'espianto degli organi. Quella del 9 maggio è una data fosca.
Diciannove anni prima è stato ucciso Aldo Moro. Lo stesso giorno la mafia ha eliminato Peppino Impastato. L'attesa del Giubileo del 2000 agita la paura del terrorismo islamico. Il questore Rino Monaco parla di «un muro di omertà».
Le indagini si concentrano sulle persone presenti nella stanza da dove sarebbe partito lo sparo, la numero 6 al primo piano dell'Istituto di filosofia del diritto. La polizia scientifica consegna una perizia: sul davanzale di una finestra è stato trovato un residuo di polvere da sparo.
C'è un telefono e dai tabulati risulta che sono state fatte due chiamate, una alle 11.44 diretta a casa Lipari e una quattro minuti dopo, allo studio Lipari. Maria Chiara Lipari, figlia di Nicolò, docente nella stessa università ed ex parlamentare della Dc, lavora nell'istituto. È la prima testimone. All'inizio dichiara di non avere visto nessuno, poi parla di alcune persone, fra cui Gabriella Alletto, una segretaria. La Alletto diventa la teste-chiave. È interrogata a lungo. L'11 giugno giura di non avere mai messo piede nella stanza 6. Il 14 giugno la versione definitiva: dopo avere sentito come un tonfo, ha visto un bagliore, Salvatore Ferraro portarsi la mano alla fronte in segno di disperazione e Scattone con in pugno una pistola nera che ha riposto in una borsa, poi portata via da Ferraro.
Scattone e Ferraro vengono arrestati in nottata. Sono amici.
Scattone, 29 anni, figlio di una buona famiglia romana, carabiniere nel servizio di leva, si è laureato con 110 e lode. Ferraro, di Locri, ha 30 anni. Il giorno dopo l'arresto avrebbe dovuto sostenere l'esame finale per il dottorato di ricerca. Si difendono sicuri: la loro parola contro quella dell'accusa. Dalle perizie emerge che il colpo letale è compatibile con nove tipi di arma, compresa una carabina. La dinamica è tortuosa. Scattone avrebbe dovuto avvicinarsi alla finestra, spostare la tenda, aggirare il condizionatore, prendere la mira, fare fuoco, con il rischio di essere visto.
Dubbi e interrogativi che si rincorrono nei cinque processi, il primo grado, due appelli, due pronunce della Cassazione. Il sigillo finale dalla quinta sezione penale della Suprema Corte (15 dicembre 2003) lima le condanne: cinque anni e quattro mesi a Scattone per omicidio colposo, quattro anni e due mesi a Ferraro per favoreggiamento. «La premessa conclusiva - scrive la sentenza - della Corte del disposto rinvio è che al termine del processo si sa che Giovanni Scattone ha sparato, ma non si sa né perché né come». Una condotta grave.
«Le conseguenze di omicidio per la provocata morte di Marta Russo non possono, però, essere ascritte all'imputato a titolo di dolo». Questo «per difetto assoluto di dimostrazione probatoria di un effettivo intento omicidiario». Rimane un grumo di interrogativi. Solo ipotesi sulla traiettoria del proiettile. L'arma e il suo innesco non compatibili con la particella di polvere da sparo. E anche su questa il dubbio che si trattasse invece del residuo dei freni di una macchina o di una stampante. La pistola e il bossolo mai trovati. Il movente? Sconosciuto. Ma perché lei, perché Marta Russo?
Niccolò Zancan per “la Stampa” il 9 maggio 2022.
Umidità. Segni neri del tempo. Passaggio degli anni sulla targa per Marta Russo.
«Voi conoscete la sua storia?».
Le ragazze stanno sdraiate su un'aiuola al sole e mangiano un panino davanti all'ingresso dell'Università La Sapienza. «No, chi era?». Marta Russo, 22 anni, studentessa di Giurisprudenza, campionessa di fioretto, figlia di Aureliana Iacoboni e di Donato Russo, sorella di Tiziana, uccisa con un colpo di pistola sparato dall'aula 6 dell'istituto di Filosofia del diritto il 9 maggio del 1997.
Uccisa a caso. Mentre andava a lezione.
Sono passati venticinque anni e nessuno ha ancora trovato pace per quel delitto senza movente.
«La stanza di Marta è rimasta identica», dice adesso il padre Donato Russo. «Abbiamo tenuto tutte le coppe. Ho avuto la fortuna di essere il suo maestro di scherma quando ha vinto il titolo italiano a 11 anni. Quello per me è il ricordo più felice, e lì che vado a cercare conforto. Ma poi Marta era cresciuta, voleva diventare magistrato. Era molto sensibile e portata per lo studio, bravissima. E noi eravamo felici per lei».
I genitori di Marta Russo questo lunedì torneranno sotto la targa all'Università.
«Andremo al mattino. È sempre difficile passare là sotto. Bisogna farsi coraggio e certe volte il coraggio non basta. Fa ancora male stare nel punto esatto dove è successo il dramma».
Marta Russo, che camminava in un vialetto della città universitaria a fianco all'amica Jolanda Ricci, si è accasciata all'improvviso. Il proiettile passato dall'orecchio sinistro si è conficcato nella nuca. È morta dopo quattro giorni di coma. I suoi organi sono stati donati, come lei stessa aveva detto di voler fare dopo aver sentito in televisione la storia di Nicholas Green. Dunque, oggi, Marta Russo vive altrove. Mentre tutti gli altri protagonisti del delitto sono rimasti prigionieri di quel tempo. È uno di quei casi in cui la storia di un processo non diventa storia.
Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro si sono sempre dichiarati innocenti e ancora lo fanno. Sono stati condannati a 8 e 6 anni di carcere per omicidio colposo e per favoreggiamento e porto abusivo d'arma. Erano due assistenti universitari. Erano amici, appassionati di calcio, uno della Juve e l'altro del Toro. Ancora lo sono. Il primo fa traduzioni dall'inglese e dallo spagnolo, il secondo insegna chitarra e pianoforte, scrive canzoni e lotta per i diritti dei carcerati. Sono entrambi convinti di essere vittime di un clamoroso errore giudiziario. Giovanni Scattone abita all'Eur, nella stessa casa della sua famiglia in cui andarono ad arrestarlo: «Ho deciso di non rilasciare più interviste, perché tanto è inutile». Salvatore Ferraro vive con la moglie accanto all'Università La Sapienza: «Sono sempre rimasto qui. Accetto volentieri di parlare, ma solo se possiamo fare un lavoro organico su tutte le carte processuali. Altrimenti, va bene lo stesso». Così aveva detto in aula: «Non posso confessare nulla, perché non ho fatto nulla».
Tutti i dubbi sono già stati messi in fila durante questi anni. Per esempio nel podcast Polvere, firmato da Cecilia Sala e Chiara Lalli per l'HuffPost.
Il residuo di polvere da sparo trovato sulla finestra dell'aula numero 6 forse non era polvere da sparo: la particella bario più antimonio potrebbe essere altro. La testimonianza ritrattata dell'impiegata Gabriella Alletto, che tuttavia diventerà il caposaldo dell'accusa: «Io in quell'aula non c'ero! Lo volete capire? Lo giuro sulla testa dei miei figli! Io non ho visto nulla». «Si sforzi. Deve per forza ricordare qualcosa».
E sì, alla fine Gabriella Alletto ricorderà: 36 giorni dopo il delitto. Ma perché hanno sparato? L'assenza di movente fu la ragione stessa dell'omicidio: dimostrare di saper compiere un delitto perfetto. Per questo Scattone e Ferrara l'hanno ideato. Per una specie di «superomismo» nietzschiano, per dimostrare a loro stessi di esserne capaci. Infine, il dubbio più grande, la pista alternativa: quella dei dipendenti dell'impresa di pulizie che avevano un bagno al primo piano sulla stessa ala dell'università, bagno da cui avevano sparato per gioco e che chiamavano «il deposito delle munizioni».
Due dipendenti di quella impresa di pulizie andavano a esercitarsi al poligono. Il padre di Marta Russo sa tutto questo, e lo sa con rammarico: «Purtroppo la verità giudiziaria non è mai diventata anche la verità fuori dall'aula. Eppure gli investigatori erano fra i più bravi in circolazione, poliziotti finiti ai vertici nazionali. Ci sono stati cinque gradi di giudizio e sentenze, nonostante questo sempre qualcuno mette in discussione la verità». Le fa male questa solitudine?, domandiamo al padre di Marta Russo.
«Può dispiacermi, ma se dopo un quarto di secolo quelle due persone non hanno provato un sentimento di compassione per nostra figlia io non so cosa dire, mai abbiamo ricevuto una parola da Scattone e Ferraro». L'aula 6 adesso è «un'aula seminari». Ma il numero è scritto ancora in alto con un pennarello nero. Da quella finestra è partito il colpo di pistola. «Mia madre venticinque anni fa era una studentessa, è lei che mi ha spiegato la storia di Marta Russo, è grazie a lei se adesso so quello che è successo», dice lo studente di Filosofia del diritto Massimo D'Angelo. La finestra è aperta: una ragazza con lo zainetto rosso sta passando lungo lo stesso vialetto, alla medesima ora. È lo specchio rotto d'Italia, dove i pezzi non si ricompongono mai.
· Il giallo di Polina Kochelenko.
Ex modella Polina Kochelenko annegata in una roggia del Pavese: riaperte le indagini dopo la richiesta della famiglia. La Repubblica l'1 Luglio 2022.
La donna, 35 anni, addestratrice di cani, era stata trovata morta a Valeggio nell'aprile 2021. I genitori non hanno mai creduto alla morte accidentale e per questo avevano assunto un pool di investigatori.
La procura di Pavia ha riaperto le indagini su Polina Kochelenko, addestratrice di cani, ex modella e concorrente di reality show, trovata morta annegata in una roggia a Valeggio (Pavia) il 18 aprile del 2021. Lo riporta oggi la Provincia Pavese.
La donna, di 35 anni, era stata trovata annegata nella roggia Malaspina, ma i genitori non hanno mai creduto alla morte accidentale. Il pm aveva archiviato il caso ma la famiglia ha assunto un pool di investigatori e legali che hanno presentato nuova documentazione e il gip ha deciso la riapertura dell'inchiesta. I suoi oggetti personali sono stati trovati a 800 metri di distanza e qualcuno, secondo la tesi della famiglia, avrebbe cancellato la geolocalizzazione dai social.
Polina quel giorno era uscita con sei cani. Una delle ipotesi è che si fosse gettata nella roggia per salvarli, ma l'acqua non era molto alta e lei sapeva nuotare. Due animali, inoltre, non sono mai stati ritrovati.
Monica Serra per “La Stampa” il 2 luglio 2022.
Polina Kochelenko è morta annegata. E questa è l'unica cosa certa. Il corpo della criminologa, addestratrice di cani, ex modella di 35 anni è stato trovato senza vita a mezzanotte del 17 aprile dello scorso anno nei sessanta centimetri d'acqua della roggia Malaspina a Valeggio, poco più di duecento anime in provincia di Pavia.
Un paesino sperduto tra i campi, dove Polina aveva affittato una villetta a fine 2020, in pieno lockdown, per avere tutto lo spazio necessario per addestrare i quattro cuccioli di pastore tedesco che le erano stati affidati da un centro cinofilo pavese. E che accudiva con i suoi due Border Collie.
Per il pm Alberto Palermo, che da subito ha aperto un fascicolo per omicidio colposo, dietro la morte della giovane ex concorrente del reality «L'isola di Adamo ed Eva» ci sarebbe stato un suicidio o un incidente avuto, forse, per salvare i cani caduti in quel rivolo d'acqua artificiale usato per irrigare le risaie.
Ma la ricostruzione non ha mai convinto la mamma Alla e l'avvocata di famiglia, Tiziana Barrella che, evidenziando tutti i misteri mai chiariti dagli accertamenti, si sono opposte all'archiviazione dell'inchiesta. Così, il giudice Maria Cristina Lapi ha ordinato nuove indagini alla procura.
A partire dall'analisi dell'iPhone di Polina, ritrovato a ottocento metri dal cadavere, nell'erba, dalla madre che la cercava disperata, con un accendino, le cuffiette (una schiacciata nel terreno) e tre fazzolettini usati (mai repertati).
Quel cellulare è stato tenuto sotto sequestro per mesi e poi restituito alla famiglia senza mai essere controllato dagli inquirenti. Che ora dovranno anche fare nuovi tabulati telefonici, e ascoltare alcune persone vicine alla trentacinquenne, mai interrogate o che potrebbero aver mentito.
«Anche gli abiti di Polina, il giubbino a fiori, i pantaloni neri, che riportano degli strappi non sono mai stati analizzati», spiega l'investigatore privato Claudio Ghini, ingaggiato dalla famiglia. Che ha raccolto la testimonianza di due vicini di casa: «Polina aveva amici e famiglia a Torino, dove vive la madre. Nella sua nuova casa non andava a trovarla nessuno: solo un uomo misterioso di cui parlano i due testimoni, con una monovolume grigia, che qualche volta si era fermato a dormire da lei».
Chi è quest' uomo? L'identikit è quella di un quarantenne, magro, brizzolato, coi capelli alle spalle che non si è mai fatto avanti. Perché? «Due sono le cose: o era sposato e non voleva problemi, o ha qualcosa da nascondere», dice Ghini.
Polina aveva interrotto da qualche tempo la relazione con l'ex, con cui conviveva a Pavia e neanche a lui aveva dato il nuovo indirizzo. Secondo l'investigatore, ma anche secondo il consulente di parte Fabrizio Vinardi, Polina non è caduta nel punto indicato dalla procura, ma a cinquecento metri di distanza, da un ponticello nascosto dalla vegetazione dove potrebbe essere arrivata per inseguire i cani (due dei sei non sono mai stati trovati).
«Lì potrebbe aver incontrato il suo aggressore», conclude Ghini. Sul corpo della donna c'erano diversi lividi «segno di una possibile colluttazione - sottolinea l'avvocata Barrella - in corrispondenza degli strappi dei vestiti». C'è altro. E a scoprirlo è stata una blogger pavese che ha presentato due esposti in procura, dando via a un secondo fascicolo d'inchiesta. Analizzando i profili social di Polina, ha scoperto che alcuni dati importanti - foto, geolocalizzazioni, link - sarebbero stati rimossi anche mesi dopo la sua morte. Chi lo ha fatto? E perché? Risponde l'avvocata: «Ora potrebbe avere le ore contate».
Polina Kochelenko, il giallo dell’allevatrice morta nel canale: i cani spariti, il blog e gli spostamenti, caso riaperto. Davide Maniaci su Il Corriere della Sera il 4 Maggio 2022.
Polina Kochelenko, 35enne russa, è stata trovata nella roggia Malaspina di Valeggio (Pavia) il 17 aprile 2021: apparentemente annegata in pochi centimetri d’acqua. La famiglia si è opposta all’archiviazione, prima udienza il 6 giugno. Due esposti in Procura di una blogger appassionata di criminologia.
Il caso non è chiuso, e forse non è stata una fatalità ma omicidio: la prima udienza per chiarire le cause della morte dell’allevatrice di cani sarà il 6 giugno, presso il tribunale di Pavia. Il Gip Maria Cristina Lapi ha ritenuto ammissibile l’opposizione all’archiviazione da parte della famiglia di Polina Kochelenko, la 35enne di origini russe trovata morta dai vigili del fuoco in un canale irriguo, la roggia Malaspina, nella mattinata del 17 aprile 2021. Era a 500 metri da casa sua, nelle campagne di Valeggio, in provincia di Pavia, coi suoi cani che sono spariti nel nulla. L’autopsia eseguita presso la Medicina Legale di Pavia, pur non avendo chiarito i dubbi sulle reali cause del decesso, aveva indotto la Procura della Repubblica di Pavia a richiedere l’archiviazione. La famiglia di Polina si è sempre opposta, viste le numerose anomalie ancora non spiegate.
Gli esposti in Procura
Inoltre una blogger, appassionata di criminologia, ha inviato due esposti in Procura perché alcuni dati relativi a Polina e ai suoi spostamenti, emergenti dal blog della sfortunata 35enne, erano stati cancellati dopo la sua morte. Il sospetto è che qualcuno conoscesse le sue credenziali di accesso. Polina Kochelenko, addestratrice cinofila, laureata in criminologia, si era trasferita a Valeggio, centro rurale di 200 abitanti, da pochi mesi per permettere ai cani che le erano stati affidati di poter ricevere un ottimo addestramento, in un luogo dove lo spazio di certo non mancava. Ma quella sera, il 16 aprile 2021, la giovane non aveva dato più notizie di sé.
La ricostruzione dei fatti
A dare l’allarme è stata la madre. Il giorno seguente le due donne sarebbero dovute andare a comprare un’auto nuova, ma Polina a quell’appuntamento non è mai andata. A conclusione delle ricerche avviate a seguito della scomparsa, subito denunciata ai carabinieri di San Giorgio Lomellina, la giovane donna veniva ritrovata priva di vita non lontana da casa, in campagna, dove si era recata a fare una passeggiata con cinque cani, di cui 3 di razza pastore tedesco di proprietà di un famoso centro cinofilo, presso il quale collaborava come istruttrice. La Procura della Repubblica di Pavia ha subito aperto un procedimento penale contro ignoti per omicidio colposo, ma poi la morte per annegamento veniva archiviata ritenendo che Kochelenko fosse affogata nel tentativo di salvare due dei cinque cani di 6/7 mesi che, forse caduti in acqua, non riuscivano a risalire la ripida sponda della roggia Malaspina.
Gli animali scomparsi
Gli animali però, del valore di almeno 4 mila euro l’uno, non vennero mai ritrovati né nelle acque del canale, né in altri luoghi. Una circostanza che ha fatto da subito dubitare della ricostruzione i suoi familiari. Molte le circostanze anomale riguardo la morte della giovane: Polina è annegata in un canale irriguo dove l’acqua era alta poche decine di centimetri. I cani di alta genealogia e molto costosi non sono mai stati rinvenuti, né vivi a seguito delle numerose segnalazioni anche ad opera dei media, né morti nei canali irrigui. La giovane era un’abile nuotatrice, una donna sportiva ed in piena forma fisica. Le indagini difensive sono state coordinate dall’avvocato Tiziana Barrella del foro di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) che assiste quale persona offesa la madre della giovane, dall’investigatore privato Claudio Ghini, dall’ingegner Fabrizio Vinardi dell’Ordine degli Ingegneri di Torino e da altri periti e consulenti. Tutti sono ancora convinti che la tragedia non abbia nulla a che fare con un semplice incidente e che uno dei possibili moventi sia di ordine economico, dato l’alto valore dei due pastori tedeschi, cuccioli di elevato valore e pregio.
· Il Mistero di Martine Beauregard.
Confessioni spontanee, sfruttatori e personaggi altolocati: chi ha ucciso Martine Beauregard? Federico Ferrero su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2022.
La donna esercitava la professione e fu trovata in un fosso a Vinovo con segni di strangolamento e sevizie. Dopo parecchi indagati, l’inchiesta fu archiviata.
Chi ha ammazzato Martine Beauregard? Non si sa. Apprendista, operaia turnista, collaboratrice domestica: non avesse cambiato mestiere, la sua tragica storia sarebbe stata dimenticata in una settimana. Invece di Martine, una splendida ragazza, una delle più affascinanti e sofisticate a esercitare il mestiere di «mondana», come la castigata e pruriginosa stampa dell’epoca definiva le prostitute, si parlò per anni. Nata a Parigi nel 1944 da papà Alberto, anziano pittore, e mamma Georgette, era vissuta in centro a Moncalieri, in via Real Collegio, con i genitori e quattro sorelle. Il babbo, già sposato in epoca pre-divorzio, non aveva potuto dare il suo cognome alle figlie. Fino alla maggiore età non era stata una privilegiata: a quattordici anni, si era fatta intestare il libretto di lavoro e le annotazioni non raccontano una carriera rutilante. A vent’anni, fine dei mestieri ufficiali. In famiglia raccontarono che avrebbe voluto fare l’ostetrica, prima di essere plagiata dal balordo che l’aveva messa sulla strada. Nelle sue agende private, a partire dal gennaio del 1965 era comparso un altro tipo di contabilità: data, giorno della settimana e, accanto, la cifra di incasso quotidiana: cinquemila lire, diecimila, ventimila. Da trecento a cinquecentomila lire al mese, con un’impennata — ebbe la malizia di notare un cronista dell’epoca — «nei mesi estivi, quando le mogli sono in vacanza». Proprio come nel film con Marilyn Monroe, del suo innamorato Tom Ewell e della scena immortale della grata della metropolitana.
Clara l’ultima a vederla
La si trovava tra corso Galileo e corso Re Umberto. Frequentava spesso gente inserita in società e, come direbbero oggi i giovani, altospendente, ma anche sbalestrati e lingére. Il 17 giugno 1969, verso sera, era passata a prenderla un signore a bordo di una Dino. I due avevano cenato insieme. Dopodiché si era fatta riaccompagnare all’incrocio, dove aveva incontrato la sua collega Clara. L’ultima testimone a vederla viva. La donna raccontò di aver notato, verso le 23, una Fiat 125 chiara targata Cn, o forse Ch, con gli interni rossi, accostarsi nel controviale. Martine aveva scambiato due parole con la persona alla guida ed era salita, salutando l’amica. Ma quell’arrivederci era stato un addio: il suo corpo fu ritrovato il giorno dopo in un fosso, vicino all’ippodromo di Vinovo, qualche metro più in là degli attuali campi di allenamento della Juventus. Il medico legale relazionò di un iniziale tentativo di strozzamento, varie sevizie e poi il soffocamento. Bastò poco per individuare il protettore della povera Martine in tale Ugo G (foto in basso), un viveur sfaccendato ma occupato in una vita dispendiosa. Proprietario di una spider rossa Dino, venne incarcerato con l’accusa di sfruttamento della prostituzione e con l’ipotesi di aver fatto del male alla ragazza, sebbene avesse presentato un alibi: nelle ore dell’omicidio era in un locale notturno. Ciononostante, restò per mesi in custodia cautelare. Nel passare dal Don Pepe al Mack 1, due locali alla moda di quei tempi, si disse che poteva avere avuto il tempo di commettere l’omicidio. Per non parlare di chi vide una Dino nella zona di ritrovamento del cadavere. E del fatto che i segni di tortura suggerissero la classica lezione impartita dallo sfruttatore alla sfruttata.
Il signor Carlo C.
Non successe null’altro fino al dicembre di quell’anno quando un giovane uomo, il signor Carlo C., noto agli amici come “Champagne”, non telefonò al capo della squadra mobile, il mitico commissario Montesano, per confessare l’omicidio. Disse di essere passato a prendere Martine con la sua 125, di averla portata nella sua casa di corso Galileo. La ragazza si era sentita poco bene, forse aveva bevuto troppo e aveva chiesto di farsi un bagno. Lui l’aveva assecondata, per poi trovarla priva di sensi nella vasca e, per qualche ragione, invece di aiutarla l’aveva guardata annegare. Preso dal panico, l’aveva caricata in auto e abbandonata in un luogo isolato. Peccato che nulla tornasse: non c’era acqua nei polmoni di Martine, né alcol nel suo sangue. Nel gennaio del 1970, l’uomo ritrattò: spiegò di essersi trovato in una situazione disperata con la sua azienda di prestiti e, a forza di leggere articoli di giornale sul caso Beauregard, aveva avuto la brillante pensata di uscirsene dai guai economici confessando un crimine a caso. Venne creduto. Verso la fine di quell’anno, i due erano stati prosciolti da ogni accusa sulla morte di Martine.
L’epilogo
Il padre di Carlo si era suicidato per la vergogna. Si trovò un mazzo di fiori al Monumentale, sulla sua tomba, con un biglietto: «Perdonami». Emerse che, a piazzarlo, era stato un giornalista frustrato per l’assenza di nuovi spunti da raccontare. Poi, uno strano riscontro: nell’ottobre del 1970, una collega di Martine, Rosanna, morì in un incidente stradale a Cavagnolo. Nella sua agenda trovarono nomi e numeri di personaggi in vista: uno di questi era riportato anche in un’agenda della Beauregard. Apparteneva a uno scapolo quarantenne della provincia di Cuneo che, effettivamente, aveva una 125 chiara. Rintracciato, ammise di frequentare Rosanna ma di non sapere neanche chi fosse Martine e di non sapersi spiegare la presenza del suo recapito telefonico. Nient’altro. Nel 1971, si prese due anni di reclusione per sfruttamento della prostituzione anche il vecchio fidanzato di Martine, Giancarlo R.: secondo la corte, era stato il primo a trarre vantaggio dai sentimenti della ragazza, donna volubile e facilmente manovrabile. Ma non l’aveva uccisa. È appena di cinque anni fa l’ultimo sussulto: una donna raccontò che il padre, sul letto di morte, le aveva fatto il nome dell’assassino di Martine. Era suo zio, Giovanni M., imprenditore ormai in pensione e peraltro amico di Carlo «Champagne». L’anziano negò di averla mai conosciuta. Venne indagato; l’inchiesta fu archiviata per insufficienza di indizi. Nessuno l’avrebbe più riaperta.
· Il Caso di Davide Cervia.
Davide Cervia. LA LUNGA STORIA DI UN MISTERO ITALIANO. Gianluca Zanella il 18 aprile 2022 su Il Giornale.
Che i servizi segreti di Paesi stranieri abbiano operato in Italia con il tacito accordo dei nostri apparati – se non addirittura con la collaborazione attiva – è un fatto acclarato. Pensiamo alla strage dei dissidenti libici operata nel corso degli anni Settanta e Ottanta per mano dei sicari di Muhammar Gheddafi; pensiamo al rapimento di Mordechai Vanunu a opera del Mossad; ricordiamo il rapimento, nel 2003, a Milano, di Abu Omar, quando a operare sul campo fu la Cia con il supporto dell’allora Sismi.
Insomma, non c’è troppo da stupirsi, eppure c’è una storia che batte tutte le altre per i risvolti incredibili che si annidano nelle sue pieghe oscure; una vicenda poco nota (“appassionati” di misteri a parte), che vede coinvolti apparati certamente interni allo Stato italiano, ma anche presenze estere sulle quali, purtroppo, non è mai stata fatta luce. Stiamo parlando del rapimento di Davide Cervia.
Prologo – Chi era Davide Cervia
Ma chi era Davide Cervia? Per capirlo – e per ricostruire nelle sue fasi più importanti questa storia terribilmente vera – abbiamo parlato a lungo con il giornalista investigativo che più di tutti si è occupato della vicenda, pagando questo impegno anche a livello personale: Gianluca Cicinelli. “Davide Cervia era un militare della Marina militare italiana, un esperto di guerra elettronica. Uno dei pochi a saper utilizzare – e a poter insegnare come farlo – il sistema missilistico Teseo Otomat. Nel 1990, anno della sua scomparsa, in Italia erano solo un centinaio di persone ad avere le sue competenze”. 120, per la precisione. All’epoca della sparizione di Davide Cervia, solamente una sessantina di queste erano ancora in servizio. Così come 64 erano i Paesi a cui nel 1990 era stato venduto il Teseo Otomat.
Fermiamoci un attimo e spieghiamo cosa voglia dire – tra la fine degli anni Ottanta e il principio dei Novanta – “guerra elettronica”. Semplificando, si tratta di un sistema di individuazione, di difesa e – contemporaneamente – di offesa attraverso dei missili. Un sistema che – oggi viene quasi da sorridere – risolveva il problema della curvatura terrestre: “Il sistema Teseo Otomat, una coproduzione italo francese tra la Oto Melara e la Matra”, ci spiega Gianluca Cicinelli, “era in grado di individuare, per fare un esempio, un aereo a 3 mila chilometri di distanza. Ma non solo, il Teseo Otomat era in grado di capire se l’aereo in questione era amico o nemico, con che tipo di equipaggiamento era rifornito, quante persone c’erano a bordo e, cosa più importante, poteva distruggerlo senza svelare la propria posizione”.
In questo contesto, Davide Cervia era un’eccellenza. Non un ingegnere, ma un ottimo operatore. Peccato che nel 1984 decida di congedarsi. Un divorzio dal mondo militare assolutamente tranquillo, una decisione maturata per stare più vicino alla moglie Marisa, a suo figlio e a sua figlia, entrambi nati da poco.
Da quel momento, quella di Davide Cervia diventa una vita del tutto ordinaria. Trasferita la famiglia nelle campagne di Velletri, prende impiego in una fabbrica del posto e tutto scorre serenamente fino al 1990.
Poi qualcosa cambia. “In questa vicenda, un ruolo cruciale lo giocano le date”. Gianluca Cicinelli si riferisce a un giorno in particolare: il 2 agosto 1990. Data in cui Saddam Hussein invade il Kuwait. Scoppia la Prima guerra del Golfo: “È all’inizio dell’estate che cominciano i primi segnali. E da lì fino al 12 settembre dello stesso anno, sarà un’escalation che si conclude con il rapimento di Cervia”.
Marisa Gentile Cervia, moglie di Davide Cervia.
Capitolo 1 – Il rapimento
Come in un film, la tranquilla quotidianità di una famiglia serena viene inghiottita in una spirale di eventi che solamente Davide è in grado di decifrare. Sua moglie Marisa, da oltre 30 anni in prima linea per cercare la verità, non sa che il marito è un esperto di guerra elettronica. Per lei, come del resto per tutti quelli che non fossero i suoi colleghi, Davide è un ex marinaio. E tanto basta.
Al principio dell’estate, nei terreni intorno alla casa dei Cervia compaiono delle persone. Operai. “Marisa ricorda che il marito ci andò a parlare per capire cosa stessero facendo. Dissero che si stavano occupando del censimento dei vigneti. Peccato che Davide avesse tolto il suo nel 1988”.
Poi arrivano altre persone. Marisa Gentile vede suo marito parlarci animatamente. Cosa inusuale per uno come Davide, una persona estremamente educata e con una grande capacità di autocontrollo. “Quella volta, Davide le disse che quelle persone chiedevano solo indicazioni”.
Ad agosto nuovi segnali. Solo a posteriori possiamo capire di cosa si trattasse: era il cappio che si stringeva: “La rete della recinzione viene tagliata in corrispondenza di dove Davide parcheggiava la sua Golf bianca. Marisa ci racconta che a quel punto suo marito comincia a essere molto agitato. Lei, più che per questi episodi, si meraviglia dell’agitazione di Davide che, poco dopo, chiede il porto d’armi per un fucile”.
Ma l’incubo di Cervia non si ferma: l’impianto elettrico della sua macchina prende fuoco: “Marisa racconta che il marito ebbe una crisi di pianto. Una cosa che la colpì molto, non aveva mai visto Davide in quello stato”.
Davide Cervia deve aver capito molto bene quello che gli stava accadendo, eppure non una parola, non una richiesta di aiuto. Con l’intento di salvaguardare la famiglia che aveva tanto desiderato mettere in piedi con sua moglie Marisa, cerca di gestire da solo la situazione. Ma sottovaluta la portata dell’ingranaggio in cui era caduto e dal quale viene risucchiato.
Il 12 settembre 1990 Cervia esce da lavoro attorno alle 17 e da quel momento, diventa un fantasma. L’orario lo fornisce un suo collega, l’ultima persona ad averlo visto. Almeno fino a dicembre, ma ci arriviamo. Quando Marisa va a fare denuncia di scomparsa, i carabinieri locali minimizzano: “Le dissero che probabilmente era scappato con una bionda”.
Rimasta sola con due figli da gestire, improvvisamente sola, Marisa veste suo malgrado i panni dell’investigatrice, supportata costantemente da suo padre, Alberto. “Comincia a scavare nella vita di suo marito su suggerimento di alcuni ex colleghi di Davide, dei militari di Marina. Trova i manuali crittografati su cui il Cervia della vita precedente, l’esperto in guerra elettronica, studiava e si aggiornava costantemente sul sistema missilistico Teseo Otomat”. In poche parole, Marisa Gentile comincia a unire i puntini degli ultimi mesi e si convince ancora di più di quanto già non lo fosse che Davide non è andato via. È stato rapito.
La certezza – come sopra accennato – arriva però solo a dicembre.
“Il vicino di casa telefona a Marisa. Le chiede di incontrarla. Considerando che lui e Davide non si parlavano da anni a causa di una disputa di vicinato, Marisa a quell’incontro ci va con un registratore”. L’uomo, intorno alle 17.30 del 12 settembre, ha assistito al rapimento di Davide: “Era in giardino quando Davide ha parcheggiato la macchina di fronte al cancello di casa. Subito dopo è arrivata un’altra macchina, da cui sono scese tre persone. Mentre in due si avventavano su Davide, costringendolo a salire sulla macchina rimasta in moto con una persona alla guida, il terzo saliva sulla Golf bianca di Cervia. Prima di essere infilato a forza in quell’auto, Davide vede il suo vicino e lo chiama per tre volte”.
Nonostante il tardivo rigurgito di coscienza del vicino, sembra trattarsi di una testimonianza che meriterebbe un approfondimento immediato. Ma i carabinieri di Velletri sono di tutt’altro avviso: “Non presero agli atti la testimonianza di quell’uomo. Dissero che non ci vedeva. Si era sbagliato”.
Capitolo 2 – Il depistaggio
Gianluca Cicinelli entra in questa storia non solo come giornalista. Ne diventa parte a tutti gli effetti e in un ruolo di comprimario accanto a Marisa e suo padre. Il grande assente di questa storia è proprio il suo protagonista, Davide.
“Era il gennaio 1991 e lavoravo a Roma presso Radio Città Aperta. Un giorno si presenta questo Alberto, che mi racconta una storia di spionaggio. Di matti ne capitavano tanti lì in redazione e non ci feci caso più di tanto. Mi diede un volantino, annunciava una manifestazione che si sarebbe tenuta di lì a un paio di settimane di fronte Montecitorio”.
Casualità (ma il caso in questa storia c’entra davvero poco) Cicinelli quel giorno deve andare proprio a Montecitorio ed è lì, sulla piazza, che incontra nuovamente Alberto, suocero di Davide Cervia, e conosce Marisa, la moglie: “C’erano loro, i bambini e pochi altri amici di Davide. Mi colpirono gli occhi di Marisa. Ci mettemmo a parlare e non andai nemmeno dove dovevo andare, restai lì ad ascoltarla”.
Gianluca Cicinelli e Marisa Gentili cominciano a lavorare fianco a fianco per scavare in questa storia, per farla conoscere all’opinione pubblica: “Di questa storia si parlava solo a livello locale. E lì a Velletri Marisa veniva considerata una matta, perché diceva che suo marito era stato rapito dai servizi segreti”.
Il 22 gennaio 1991 il caso Cervia finisce a Chi l’ha visto? Condotto al tempo dalla compianta Donatella Raffai. Nel corso della trasmissione, chiama un autista dell’allora Acotral, che il 12 settembre 1990 se lo ricorda molto bene. Quel giorno, attorno alle 17.40, stava percorrendo la via Appia da Roma a Velletri. Proprio in corrispondenza dell’imbocco della strada che porta alla casa di Cervia, aveva dovuto inchiodare. Due macchine erano sbucate a velocità folle. Dentro la prima, gli era sembrato di vedere due uomini intenti a trattenere un terzo sdraiato sul sedile posteriore. Questa testimonianza si incastra perfettamente con quella del vicino di casa.
Da quel momento, Marisa comincia a ricevere telefonate nel cuore della notte. Al suo indirizzo, arrivano anche due lettere battute a macchina: “Lascia perdere qualsiasi ricerca su Davide”. Ma lei non si lascia intimidire.
Con l’arrivo di una minima notorietà sulla vicenda, si attiva quello che Gianluca Cicinelli definisce il vero e proprio depistaggio: nel corso di una puntata di un programma televisivo (che ebbe vita breve) che doveva essere la risposta al successo di programmi come Telefono Giallo e, appunto, Chi l’ha visto?, parla quello che viene presentato come un amico di Davide Cervia.
Giuseppe Carbone sostiene in diretta televisiva che poco prima di sparire, Davide gli aveva detto di essere stanco della vita in famiglia e che, parlando l’arabo, aveva deciso di trasferirsi in qualche imprecisato Paese a lavorare. La sua testimonianza – a differenza di quella del vicino di casa – viene ritenuta talmente importante dai carabinieri di Velletri, che Carbone viene invitato a deporre e la sua deposizione finisce agli atti. Peccato che – intervistato da due giornaliste – l’uomo dimostrò di non aver nemmeno mai avuto a che fare con Davide Cervia. Chi fosse e per chi lavorasse realmente Giuseppe Carbone, non si è mai capito.
Capitolo 3 – Il mistero della macchina (da scrivere)
“Il primo marzo 1991 Donatella Raffai chiama Marisa. Hanno ritrovato a Roma la macchina di Davide”.
La Golf bianca di Cervia si trova in via Marsala, in buono stato. A giudicare dall’erbetta cresciuta sotto le ruote, dev’essere ferma lì da non più di due, tre mesi. Peccato che quella zona vicino alla stazione Termini fosse stata battuta palmo a palmo da Alberto, il papà di Marisa, e dai suoi amici e conoscenti: “Alberto, prima di trasferirsi con sua moglie a casa della figlia, aveva gestito per tanti anni un’edicola vicino Termini. Subito dopo la sparizione di Davide aveva attivato l’intero quartiere per cercare la macchina. In quella strada non c’era di sicuro”.
I problemi di Cicinelli cominciano con questo episodio: “Sono finito in tribunale e ho vinto. Avevo scritto che la Digos sapeva della presenza di quella macchina in via Marsala molto prima del primo marzo”.
La Golf di Davide Cervia era alimentata a gas.
La Digos – guidata in quell’occasione dall’ispettore Sandro Nervalli, noto per aver arrestato i brigatisti Morucci e Faranda – intervenne con gli artificieri, che per aprire la macchina fecero saltare il portabagagli con una piccola carica esplosiva: “Ci sono le immagini a testimoniarlo. Se nell’impianto ci fosse stato del gas, via Marsala sarebbe diventata come Beirut. Ma evidentemente la Digos sapeva che in quella macchina non c’era gas”. Come si è arrivati alla macchina? “Una lettera anonima alla redazione di Chi l’ha visto?”.
E anche qui un dettaglio enigmatico: “L’abbiamo fatta analizzare. È stata battuta dalla stessa macchina con cui sono state scritte le due lettere anonime ricevute da Marisa a Velletri”.
Tre lettere, stessa macchina da scrivere. Le prime due intimano a Marisa di lasciar perdere; la terza fornisce un aiuto concreto per provare a capirci qualcosa: “In uno spettacolo teatrale sul caso Cervia, ho immaginato che per mancanza di fondi, Sismi e Sisde utilizzassero la stessa macchina da scrivere. Ad ogni modo, ritengo che dietro la tastiera ci fossero due persone diverse. Appartenenti allo stesso apparato, ma con finalità e coscienze diverse”.
Cominciano le interrogazioni parlamentari. Gianluca Cicinelli e Marisa Gentile parlano con tutti i governi che si sono succeduti dal 1992 al 2002. Dieci anni in apnea a nuotare in una palude. “Tutto in questa storia ha una doppia chiave di lettura, tutto è ambivalente. Arrivi a un certo punto in cui ti chiedi quanto di quello che accade sia realmente come lo percepisci”. Cicinelli si riferisce a episodi in ordine sparso: dalla cartomante che chiama Marisa e che, tra le varie cose, sa esattamente com’era vestito Davide al momento del rapimento (dettaglio mai diffuso pubblicamente), al biglietto di auguri di Natale nella sua macchina: “Era chiusa. Sul biglietto c’era scritto auguri a te e famiglia. Ma era marzo”.
Il collega di Davide che l’aveva visto all’uscita da lavoro viene minacciato da un uomo che si scoprirà legato al Sismi e anche il giornalista comincia a ricevere telefonate notturne: “Vallo a spiegare a quella che era mia moglie che ero finito in una storia di spionaggio!”.
Capitolo 4 – La pista francese
Tra il 1994 e il 1995 Gianluca Cicinelli scrive due libri su questa storia: “Il secondo è arrivato così presto perché nel giro di un anno c’erano state delle novità importanti”.
La novità principale riguardava la ditta di censimento dei vigneti vista da Marisa nell’estate del 1990, che Cicinelli dimostra essere legata al ministero della Difesa, ma questo secondo libro innesca un ulteriore sviluppo nella vicenda. È grazie alla sua pubblicazione se si apre concretamente una pista internazionale. Nello specifico, la pista francese.
“Il libro esce il 12 settembre 1995 in edicola con la rivista Avvenimenti. Mentre sono in redazione mi arriva una telefonata. È un uomo, ha comprato il libro, vuole vedermi”.
L’uomo è un pensionato dell’Air France Italia e vive a Roma, quartiere Montesacro: “Ricordava perfettamente che nel gennaio del 1991 i carabinieri di Velletri erano andati alla sede romana dell’Air France per fare accertamenti. Lui aveva chiamato la sede centrale a Parigi per trasmettere il nome da verificare e da Parigi gli avevano risposto che sì, Davide Cervia risultava presente su un volo effettuato il 15 gennaio da Parigi a Il Cairo, che nel 1991 era l’unica porta d’accesso per il teatro infuocato dalla guerra del Golfo”. Due giorni dopo scatta l’operazione Desert storm e gli Stati Uniti invadono l’Iraq.
Ma c’è di più: il biglietto con cui viaggia Cervia fa parte di un pacchetto di due biglietti acquistati dall’agenzia Les invalides, nella cui orbita c’è anche un ospedale per militari, su mandato del Ministero degli Affari esteri francese. Su chi fosse il compagno di viaggio di Cervia, il mistero. “Cercai il direttore dell’Air France per l’Italia dell’epoca, lo trovai a Parigi e lui mi confermò che era tutto vero, ma che poi passò la pratica ai servizi di sicurezza francesi, perché aveva sentito parlare di Davide Cervia in televisione e si era preoccupato”.
I servizi francesi prendono in carico la cosa. Nulla stupisce in questa storia. Cicinelli denuncia tutto alla questura di Roma e scattano i controlli della criminalpol presso la sede romana dell’Air France. Morale della favola: il fascicolo su Cervia evapora. Al suo posto, un fascicolo dove si parla di una mademoiselle Cervia, imbarcata su una tratta differente, in una data differente.
Ormai, nonostante le pressioni ricevute, quello di Davide Cervia appare incontrovertibilmente per quello che è: non solo un rapimento, ma una intricatissima storia di spionaggio internazionale che – al consueto traffico di armi – aggiunge anche il traffico di uomini. E ricordiamo i dettagli: una sessantina di esperti per il funzionamento del sistema Teseo Otomat; 64 Paesi a cui il sistema è stato venduto al 1990. Andato in congedo Davide Cervia, qualcuno è probabilmente rimasto con il cerino in mano e con un giocattolo tanto costoso quanto inutile senza un istruttore.
Capitolo 5 – L’ombra dei servizi segreti italiani
“Sono convinto che Davide sia stato rapito da uomini dei servizi fuori servizio. Un rapimento su commissione di uno dei paesi a cui il sistema era stato venduto”.
E i servizi italiani, in questa vicenda? “Il Sisde disse che Davide era solo un semplice marinaio. Il Sismi fu più sottile, disse che sì, Davide era un esperto e che si trovava in Iraq. Se ci fosse andato di sua sponte, non lo specificarono mai”. Per anni si è cercato di sminuire la portata di questa vicenda anche passando attraverso una manipolazione della figura professionale di Davide: “Per un periodo circolarono quattro fogli matricolari diversi. In uno Cervia non risultava nemmeno sposato. Per ottenere quello vero, dove si parlava delle sue specializzazioni, io e Marisa dovemmo letteralmente occupare una sala del ministero della Difesa. Alla fine intervenne Falco Accame e, almeno su quel fronte, la verità venne pienamente a galla”.
Nel 1998, grazie all’avvocato Nino Marazzita, il fascicolo su Cervia viene avocato dalla Procura generale di Roma per inerzia della procura originaria e l’indagine passa nelle mani del magistrato Luciano Infelisi, che nel 2001 chiede l’archiviazione, ma segnando un punto fondamentale: “È un’archiviazione importante, perché viene affermato che Cervia è stato rapito a opera di un paese straniero, non più identificabile a causa del troppo tempo passato, a causa della sua competenza in guerra elettronica. Per la prima volta viene messo nero su bianco in una sentenza di tribunale che Cervia è stato rapito, che si tratta di un’operazione di spionaggio internazionale”. E i carabinieri di Velletri di questo ne erano a conoscenza già il 15 settembre 1990, tre giorni dopo il rapimento, quando un uomo del Sios Marina, l’apparato d’intelligence presente in ogni forza armata, si era presentato in caserma. Un dettaglio emerso durante uno dei processi sostenuti da Cicinelli, che fu denunciato dai carabinieri di Velletri per diffamazione a mezzo stampa. E che venne assolto.
Epilogo – Vittoria (simbolica)
Il colpo di coda di questa storia c’è nel 2021, ma dobbiamo fare un passo indietro di tre anni. Nel 2018, infatti, il Tribunale Civile condanna il ministero di Grazia e Giustizia e il ministero della Difesa per aver ostacolato il raggiungimento della verità nel caso Cervia. Una sentenza importante. Nel giugno di quell’anno scadono i termini per l’Appello, ma l’allora ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, decide di mettere la parola fine. Nonostante molte pressioni. Il tribunale – in accordo con la famiglia Cervia – stabilisce un risarcimento simbolico di un euro. Marisa ha vinto. Se di vittoria si può parlare.
“Ma succede qualcosa di strano. La presa di posizione della Trenta fa storcere il naso a qualcuno. E nel 2021 assistiamo e veniamo sfiorati da una guerra tra bande tutta interna alle istituzioni e agli apparati d’intelligence. Qualcosa di simile a quanto avvenuto con il ritrovamento della macchina”.
In corrispondenza alla pubblicazione della sentenza civile che condanna il ministero della Difesa (avvenuta il 23 gennaio 2018), la sorella di Davide viene convocata dai carabinieri di Sanremo che le chiedono il consenso per il prelievo del Dna. Lei acconsente.
Tre anni dopo, nel maggio 2021, un magistrato attribuisce a un cadavere ritrovato nel lago Maggiore una comparazione altissima con la sorella di Davide. Il cadavere in questione, ripescato nel 2013, ha un foro di proiettile nella nuca ed è alto circa 1 metro e 68. Davide era alto 1 metro e 82 “e, cosa più importante, la comparazione del Dna funziona tra genitori e figli, non tra fratello e sorella”.
Nel giro di poche ore la squadra si rimette in moto: Marisa, sua figlia e suo figlio e Gianluca Cicinelli formano una squadra di tecnici, tra cui un esperto di Dna e tracce ematiche: “Poche ore dopo aver comunicato alla procura la nomina di questa squadra, il pm blocca tutto: quel cadavere non è di Davide Cervia”.
Arrivati alla fine di questa storia incredibile, abbiamo fatto a Gianluca Cicinelli la domanda più difficile: Davide Cervia è vivo o morto? “Fino a poco tempo fa non rispondevo a questa domanda, ma sono passati 32 anni. Io credo che Davide sia morto e che ciò sia avvenuto poco dopo il suo rapimento”.
Secondo il giornalista che per oltre trent’anni ha seguito la vicenda in ogni suo risvolto e che, ce lo sottolinea più di una volta, si muove nel campo delle deduzioni, Davide potrebbe essere finito in Arabia Saudita, Paese che aveva acquistato il Teseo Otomat e che, sceso a patti con “il grande Satana”, durante la guerra del Golfo aveva concesso agli Stati Uniti una base d’appoggio “Secondo le mie valutazioni è il posto più probabile. Si presta alla segretezza e subisce dei bombardamenti. Saddam spara i suoi missili, anche se con scarso esito. Ed è mia convinzione, molto indiziaria, che Davide sia morto nei primi mesi della Prima guerra del Golfo. Dopotutto, ritengo sia complesso nascondere qualcuno per oltre 30 anni”. Autore: Gianluca Zanella
· Il Mistero di Sonia Di Pinto.
(ANSA il 18 Aprile 2022. ) - "Non me l'hanno fatta vedere, mi hanno solo detto che un gran colpo le ha fracassato il cranio. Domani ci sarà l'autopsia". Così all'ANSA Sauro Diogenici, compagno di Sonia Di Pinto, l'italiana trovata morta in un ristorante in Lussemburgo.
"Penso a una rapina, non credo sia stato premeditato. Era una persona tranquilla. Faceva il suo lavoro e lo faceva bene", dice Diogenici. "Convivevamo da 5 anni, ci saremmo dovuti sposare il 14 maggio -racconta - Lei era solita rientrare tardi, quando io già dormivo. Ieri al mio risveglio non c'era, ho pensato fosse uscita. Aspettavamo amici a pranzo... invece l'hanno uccisa".
Da ilmessaggero.it il 18 Aprile 2022.
Forse una rapina finita male. È questa l'ipotesi che si fa strada tra gli inquirenti sulla morte di Sonia Di Pinto, la 47enne italiana trovata morta nel giorno di Pasqua in Lussemburgo. Il cadavere è stato ritrovato nel seminterrato poco lontano dal ristorante dove lavorava, nel quartiere di Kirchberg, in JF Kennedy Avenue.
Originaria di Petacciato, in Molise, la donna sarebbe stata colpita alla testa. L'autopsia, disposta dalla magistratura, chiarirà maggiormente le cause del decesso. L'allarme lo ha dato il compagno, allarmato per il mancato rientro a casa della donna dopo il turno di lavoro.
Secondi i media locali potrebbe essersi trattato di una rapina finita male. Secondo i primi rilievi effettuati dalla polizia, alla donna sarebbero stati portati via circa tremila euro. Fondamentali saranno le immagini delle telecamere di videosorveglianza per individuare l'autore o gli autori del delitto. Secondo quanto riportato dal giornale locale Le Quotidien, la 46enne sarebbe stata colpita in testa con un corpo contundente.
«Esprimo a nome mio, dell'amministrazione comunale e di tutta la cittadinanza il cordoglio per la tragica e improvvisa scomparsa di Sonia. Il dolore, lo smarrimento sono i sentimenti prevalenti dell'intera comunità di Petacciato che si stringe intorno ai genitori e ai fratelli per questa tragedia che lascia tutti nello sconcerto». È quanto afferma il sindaco di Petacciato (Campobasso) esprimendo le condoglianze della sua comunità ai familiari di Sonia di Pinto, la 46enne molisana trovata senza vita ieri nel seminterrato del ristorante dove lavorava in Lussemburgo.
La donna sarebbe stata uccisa con un colpo alla testa. La polizia locale - riferiscono i media locali - sta indagando su un possibile tentativo di rapina finito in tragedia ma non si escludono altre ipotesi. È stata disposta l'autopsia mentre si lavora sulle immagini riprese dalle telecamere di sicurezza attive nella zona del locale.
Valentina Errante per “il Messaggero” il 18 aprile 2022.
Il corpo di Sonia Di Pinto era nel seminterrato del ristorante dove lavorava, in Avenue JF Kennedy, una strada a scorrimento veloce a Kirchberg, il quartiere residenziale a nord di Lussemburgo sede delle più importanti istituzioni europee.
Sabato sera, Sonia, 46 anni, originaria di Petacciato, in provincia di Campobasso, aveva finito il suo turno di responsabile di sala del ristorante della catena Vapiano. Era tardi, come accadeva sempre, sabato però qualcuno l'avrebbe attesa e colpita alla testa con un oggetto molto pesante per rubare l'incasso. Forse la donna che aveva praticato arti marziali ha reagito e la rapina è finita male.
A dare l'allarme, ma soltanto al mattino, è stato Sauro Diogenici, il compagno con il quale Sonia viveva a Esch-sur-Alzette, a circa venti chilometri da Kirchberg, e che avrebbe sposato tra un mese. Non era rientrata dal lavoro.
Ora, l'autopsia, disposta dalla magistratura, chiarirà le cause del decesso. La famiglia ha ricevuto la drammatica notizia il giorno di Pasqua, al ritorno a casa dopo la messa. In contatto con il funzionario dell'ambasciata d'Italia a Lussemburgo, i genitori e i fratelli sono subito partiti. Ad attenderli Sauro che, disperato, ha postato diversi ricordi su Facebook: «Non posso ancora crederci. Eravamo felici, mi hanno strappato l'anima, sei stata sempre la migliore tra noi due, non riesco ad accettarlo», ha scritto in un breve post condividendo la foto di Sonia.
Le indagini sono ancora in corso, l'autopsia chiarirà anche la dinamica dell'aggressione. Ma sembrano esserci pochi dubbi sul fatto che possa essersi trattato di una rapina. La polizia locale ha verificato infatti che mancano tremila euro, ossia gli incassi del ristorante nella serata di sabato.
Secondo la prima ricostruzione, Sonia aveva appena finito di lavorare e stava uscendo dal locale quando è stata colpita alla testa. Il cadavere della donna è stato ritrovato otto ore dopo la fine del turno. Adesso saranno le telecamere di sorveglianza, già acquisite dalla polizia, a fornire ulteriori elementi e forse anche a svelare di più sui responsabili. Ma nessuna pista è esclusa.
«Non me l'hanno fatta vedere, mi hanno solo detto che un gran colpo le ha fracassato il cranio. Domani (oggi per chi legge ndr) ci sarà l'autopsia - racconta Diogenici - Penso a una rapina, non credo sia stato premeditato. Era una persona tranquilla. Faceva il suo lavoro e lo faceva bene - aggiunge l'uomo - convivevamo da cinque anni, ci saremmo dovuti sposare il 14 maggio. Lei era solita rientrare tardi, quando io già dormivo. Ieri al mio risveglio non c'era, ho pensato fosse uscita. Aspettavamo amici a pranzo, invece l'hanno uccisa».
Sonia era partita cinque anni fa da Petacciato per trasferirsi in Lussemburgo. Ora l'intera comunità è sconvolta. «È sempre stata sempre una ragazza che si è distinta per la sua voglia di fare ma anche l'impegno sociale. Assurdo morire così. Assurdo. Difficile capacitarsi», ha commentato il sindaco Antonio Di Pardo.
utti in paese conoscevano e stimavano Sonia Di Pinto per il suo impegno nel sociale. La Protezione civile di cui faceva parte, piange la sua scomparsa: «La notizia ci ha sconvolti, non si può morire così», ha scritto in un post su Facebook. Cordoglio anche dalla scuola di Kung Fu, dove Sonia era diventata cintura marrone: «Ricordiamo tutti Sonia come un'atleta, donna tranquilla e gentile con tutti. Una ragazza dolcissima e sempre disponibile», si legge in un post della scuola.
«Ha perso la vita in modo assurdo, per una rapina sul posto di lavoro, per una manciata di euro. Ci resta di Sonia il ricordo delle giornate trascorse insieme, le sue risate e la sua voce squillante Quando una persona ci lascia inaspettatamente, un pezzo del nostro cuore si spezza per sempre. Riposa in pace cara Sonia».
Lussemburgo, l’uccisione di Sonia Di Pinto, svolta nell’indagine: arrestate tre persone, una è un collega. Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.
La svolta nell’inchiesta sulla morte della 46enne di Petacciato, banconista in un fast-food nel Granducato. Presi i due rapinatori che l’hanno colpita con violenza. Fermato anche l’addetto che ha permesso ai malviventi di entrare all’interno del locale.
Sonia Di Pinto tradita da un collega di lavoro, da una persona che lavorava nel suo stesso ristorante. La svolta nelle indagini sulla morte della 46enne di Petacciato (Campobasso) uccisa la sera del Sabato Santo in Lussemburgo nel locale dove lavorava da sette anni, è arrivata dieci giorni dopo il delitto e ha portato a galla una verità che per i familiari della donna è stato un altro duro colpo da incassare: una delle tre persone finite in manette perché sospettate di essere coinvolte nell’omicidio lavorava proprio nello stesso ristorante dove è avvenuta l’aggressione mortale, il Vapiano. Una specie di «basista», insomma. La svolta conferma anche le perplessità iniziali di cui il compagno della donna, Sauro Diogenici, aveva parlato a Corriere.it riferendosi al fatto che al mattino di Pasqua la collega di Sonia che aveva aperto il locale aveva trovato la serratura regolarmente chiusa. «Come se i rapinatori fossero rimasti all’interno e fossero usciti da una finestra», aveva raccontato l’uomo.
A svelare i nuovi dettagli delle indagini è stato oggi (venerdì) il giornale online lussemburghese Rtl : sarebbe stata proprio una persona che lavorava nel ristorante a permettere ai due malviventi, che poi hanno aggredito la donna, di entrare nel locale. Questa persona sarebbe stata la prima ad essere stata arrestata e interrogata e solo dopo le sue rivelazioni sarebbero stati identificati e arrestati anche gli altri due malviventi coinvolti nella vicenda. Prima degli arresti inoltre sono state eseguite anche perquisizioni in Place de la Gare e a Bonnevoie, due quartieri della stessa città dove è avvenuto il delitto. Fondamentali per la ricostruzione dell’accaduto sono state le immagini delle telecamere di sicurezza che hanno ripreso i due rapinatori mentre aggredivano Sonia Di Pinto.
È stato proprio grazie a quei video che gli investigatori sono riusciti a risalire a chi avrebbe favorito l’ingresso dei malviventi nel locale per poter rubare l’incasso della serata, circa 3mila euro. La rapina come è noto è poi però finita in tragedia con la morte della 46enne che è stata picchiata e colpita alla testa. L’ufficio del pubblico ministero lussemburghese nel confermare i tre arresti ha anche reso noto che si tratta di giovani tra i 20 e i 30 anni. Il compagno di Sonia, Sauro Diogenici, con il quale la donna molisana si sarebbe dovuta sposare tra due settimane, non ha voluto commentare gli sviluppi delle indagini, ma ha preferito ricordare il suo legame con Sonia rivolgendosi direttamente a lei con un post su Facebook: «Ciao Angelo mio, non ti dico addio perché sarà un arrivederci, sono stato molto fortunato a conoscerti, tante cose avevamo in programma, purtroppo ce l’hanno impedito brutalmente, sarai sempre una persona importante — ha scritto — per me nei miei pensieri e nei miei ricordi, il tuo sorriso mi scaldava il cuore e mi faceva sciogliere come neve al sole, sei stata davvero unica».
Anche lo staff del ristorante dove è avvenuto il delitto, locale che oggi è ancora chiuso, ha voluto salutare Sonia attraverso i social: «Siamo tutti profondamente addolorati e rattristati per aver perso Sonia, membro della famiglia Vapiano dal 2014. La sua tragica scomparsa ci riempie tutti di paura, dolore e ci colpisce profondamente. Lei era un modello per tutti noi, la sua professionalità e la sua dedizione erano un esempio per tutti. Non la dimenticheremo, il suo bel sorriso rimarrà per sempre nei nostri pensieri».
Italiana uccisa in Lussemburgo: arrestati tre giovani. Tradita da un collega di lavoro. La Repubblica il 29 Aprile 2022.
Sonia Di Pinto, 46 anni di Petacciato (Campobasso), è stata assassinata la notte di Pasqua. Fondamentale, per l'inchiesta, il video delle telecamere di sicurezza.
La svolta è arrivata dieci giorni dopo il delitto. Tre giovani sono stati arrestati per l'omicidio di Sonia Di Pinto, la 46enne di Petacciato (Campobasso) uccisa la notte di Pasqua in Lussemburgo, nel ristorante dove lavorava da 7 anni. A far segnare una svolta alle indagini sono state le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza che mostrano i malviventi mentre aggrediscono la donna.
E l'inchiesta chiarisce che Sonia Di Pinto è stata tradita da un collega di lavoro, da una persona impiegata nello stesso ristorante: il Vapiano. A svelare i nuovi dettagli è stato oggi il giornale online lussemburghese Rtl: sarebbe stata proprio una persona che lavorava nel ristorante a permettere ai due malviventi, che poi hanno aggredito la donna, di entrare nel locale. Questa persona sarebbe stata la prima ad essere stata arrestata e interrogata e solo dopo le sue rivelazioni sarebbero stati identificati e arrestati anche gli altri due malviventi. Le persone finite in manette hanno tra i 20 e i 30 anni.
Prima degli arresti inoltre sono state eseguite anche perquisizioni in Place de la Gare e a Bonnevoie, due quartieri della stessa città dove è avvenuto il delitto.
Le immagini delle telecamere di sicurezza hanno ripreso i due rapinatori mentre aggredivano Sonia Di Pinto. Grazie a quei video gli investigatori sono riusciti a risalire a chi avrebbe favorito l'ingresso dei malviventi nel locale per poter rubare l'incasso della serata, circa 3mila euro. La rapina è poi però finita in tragedia con la morte della 46enne, picchiata e colpita alla testa.
Il compagno della vittima, Sauro Diogenici - i due si sarebbero dovuti sposare tra due settimane - non ha voluto commentare gli sviluppi delle indagini. Ha preferito ricordare il suo legame con Sonia rivolgendosi direttamente a lei con un post su Facebook: "Ciao Angelo mio, non ti dico addio perché sarà un arrivederci, sono stato molto fortunato a conoscerti, tante cose avevamo in programma, purtroppo ce l'hanno impedito brutalmente".
· La vicenda di Maria Teresa Novara.
Maria Teresa, la bimba che non tornò mai dai genitori. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera il 18 Aprile 2022.
La tremenda vicenda di Maria Teresa Novara, tredicenne rapita e tenuta chiusa in una botola a Canale dove venne fatta prostituire.
Per come venne vissuta dall’Italia degli anni Sessanta, la storia di Maria Teresa Novara è un tragico esempio di quelle pratiche odiose e squallide, tali da non essersi trovate parole italiane per definirle: victim blaming la chiamano, la colpevolizzazione della vittima. Una cultura maschilista e perbenista che allignava in un Paese in cui l’emancipazione femminile era ancora più vagheggiata che seriamente affrontata. E che rende ancora oggi insopportabile una serie di avvenimenti atroci che consegnarono nelle mani di due balordi il destino di una povera ragazzina. Aveva tredici anni, Maria Teresa Novara, e viveva in una frazione di Cantarana, nell’Astigiano. I genitori, Mario e Angela, erano gente semplice, aveva tre fratelli e, del mondo, non aveva visto nulla. Essendo inverno, padre e madre si erano accordati con una famiglia di cugini per farla ospitare nella loro cascina di Villafranca d’Asti, così da facilitarle il viaggio mattutino verso scuola. Destino volle che due delinquenti, tali Bartolomeo Calleri e Luciano Rosso, avessero preso di mira il fattore perché si diceva detenesse beni e denaro in quantità. Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1968, i due tentarono il furto ma trovarono, nel deposito individuato per il “colpo”, una ragazzina addormentata. Convinti si trattasse della figlia del proprietario, ebbero la bella pensata di rapirla. La discesa agli inferi ebbe là il suo principio. Non venne chiesto alcun riscatto: Calleri, il leader, un bandito professionista e spietato, decise di sfruttare in altra maniera la sua prigioniera. La nascose a Canale, paese del Roero vicino ad Alba, in una cascina di cui era proprietario. Quando lui e il socio si allontanavano per le loro scorribande criminali, la chiudeva in una botola. Altrimenti la deteneva in un locale che aveva destinato a casa di appuntamenti. L’omertà generale contribuì a non chiarire mai alcuni aspetti della sciagura e, anzi, servì a generare un flusso incontrollato di versioni: si parlò di festini organizzati con l’arrivo di prostitute e di gente facoltosa, anche da Torino e circondario.
Tutto fa pensare che Maria Teresa sia stata sfruttata per mesi, stordita con farmaci, venduta a uomini che abusavano di lei a pagamento. Legata a una catena, seviziata, ridotta a merce a disposizione di uomini schifosi. Quando fu trovata cadavere, era truccata. A margine di una pagina di un fumetto che gli aguzzini le avevano lasciato per riempire le sue inimmaginabili giornate, aveva scritto così: «Sono Maria Teresa Novara e voglio tornare dai miei genitori». Ma nessuno l’avrebbe ricondotta in famiglia. Successe che Calleri e Rosso, rincorsi dai carabinieri dopo un furto a Torino il 5 luglio del 1969, si tuffarono nel Po. Calleri morì annegato; l’altro si salvò ma non fece il nome del complice, identificato solo dopo il ritrovamento del cadavere. Tutto cospirò per tardare l’ispezione alla cascina Barbisa dove, in realtà, gli agenti cercavano solo refurtiva e non certo Maria Teresa. Questioni di firma sul mandato rallentarono ulteriormente la perquisizione fin quando, il 13 agosto, venne ritrovata, per caso, l’entrata di un tugurio sotterraneo. Dentro, il corpo di Maria Teresa Novara. Era morta, così riferiva l’esame necroscopico, da non più di ventiquattr’ore. Non potendo processare Calleri, la procura riuscì a provare la responsabilità di Rosso per la sola «sottrazione a scopo di libidine». L’uomo negò sempre di sapere sia del rapimento, sia della detenzione ma ciò che lascia sgomenti è che nessuno, neanche con quel gesto vigliacco che è la spedizione di una lettera anonima, avesse pensato di salvare la vita di quella ragazza facendo sapere dove era stata segregata. Come se non bastasse, parte della stampa suggeriva potesse essersi trattato di una fuga volontaria e non di un martirio, usando come argomento l’ipotesi che si fosse prostituita e suggerendo che, in fondo, non fosse una ragazza perbene.
Nel 2019, il procuratore Laura Deodato ha tentato di restituire un briciolo di giustizia a Maria Teresa Novara rileggendo il fascicolo delle indagini e del processo, ascoltando un ormai anziano vicino di casa di Calleri - che era stato arrestato e processato e assolto - perché sospettato di favoreggiamento. Ha risentito il procuratore Mario Bozzola, che indagò con impegno per mesi sulla vicenda ed è morto novantenne nel 2020, e il professor Baima Bollone, nel 1969 giovane medico legale cui toccò l’autopsia sul corpo della vittima. Ma per l’omicidio della ragazza, unico reato non caduto in prescrizione, non sono stati trovati elementi sufficienti per identificare altri responsabili. Rosso era morto l’anno precedente la riapertura delle indagini. Nelle cronache del tempo si legge che, dopo la scoperta della tragedia, per mesi fluirono i pellegrini del macabro. Volevano ispezionare la botola e passeggiare nell’aia della cascina dell’orrore; sui prati circostanti, venditori di bibite e panini. Niente selfie, ma solo perché mancava lo strumento: in questo, dopo cinquant’anni, siamo rimasti gli stessi di allora.
· Il Caso di Daniele Gravili.
Il rapimento, lo stupro, la morte: quel bimbo senza giustizia. Angela Leucci il 12 Aprile 2022 su Il Giornale.
Nel 1992 il piccolo Daniele Gravili fu rapito dalla casa dei genitori e violentato sulla spiaggia: il bimbo morì perché la sabbia gli ostruì i polmoni.
È un caldo pomeriggio sulla costa salentina, quella del litorale adriatico. È quasi la fine dell’estate. È rimasta poca gente a Torre Chianca, pochi, pochissimi villeggianti, per lo più locali e residenti. Molti riposano, hanno da poco terminato il pranzo. Qualcuno passeggia al mare. Un bambino fa avanti e indietro nel cortile della sua casa. Ha solo 3 anni, fa quello che tutti i suoi coetanei fanno. Si gode il sole del primo pomeriggio. Ma succede qualcosa: qualcuno, un estraneo, apre il portone. Quello che i suoi genitori hanno chiuso affinché lui possa star tranquillo, mentre loro finiscono di caricare l’auto per rientrare a Lecce.
Inizia così la tragica vicenda di Daniele Gravili, un bambino scomparso alle 14 del 12 settembre 1992 in una frazione di Lecce e ritrovato poco dopo in fin di vita, sulla spiaggia, stuprato e soffocato. Il colpevole non è mai stato ritrovato. “L’unico insuccesso, tra i casi di una certa gravità, che abbiamo avuto come Procura di Lecce”, dice a IlGiornale.it Cataldo Motta, il magistrato che all’epoca si occupò del caso.
La scomparsa
La sparizione di Daniele avviene proprio dal cortiletto della casa di villeggiatura. Uno sconosciuto riesce ad aprire il portone, adesca il piccolo - forse con delle caramelle mou poi ritrovate nei pressi dagli inquirenti - e lo porta sulla spiaggia. La strada percorsa sarebbe stata una scorciatoia, resa nota da una persona che fu accusata da un messaggio anonimo, ma non c’è certezza su questo dettaglio.
"Saluti, al prossimo omicidio". La firma del "mostro" sui bimbi morti
I genitori Silvana e Raffaele, insegnante e autista, si accorgono dell’assenza del figlio pochissimi istanti dopo. Iniziano a cercarlo spasmodicamente, bussando a tutte le case del vicinato ancora abitate. Ma in quegli attimi concitati nulla accade.
Il ritrovamento
Alle 15.30 il 112 viene allertato da una telefonata. Un ragazzino, anche lui di nome Daniele, ha trovato un bambino agonizzante sulla battigia. L’adolescente è inizialmente sotto choc, non riesce a capire se si tratta di un bambolotto o di una persona. Teme che il bimbo sia stato restituito dal mare, che abbia rischiato di annegare.
Daniele Gravili è ancora vivo però. Ha una parte dei vestiti stracciati, graffi sul corpo, sta a faccia in su. Sono i soccorritori del luogo ad allertare i carabinieri e l’ambulanza, un vigile del fuoco che vive Torre Chianca gli pratica la respirazione bocca a bocca in attesa dell’ambulanza. Che arriva, e porta il piccolo al “Vito Fazzi” di Lecce. Qui viene svelata una scoperta ancor più raccapricciante: Daniele è stato stuprato e il suo aguzzino gli ha tenuto la testa nella sabbia per non farlo urlare. Il bimbo ha i polmoni pieni di sabbia. E da poco passate le 21 spira, dopo aver conosciuto l’orrore più grande della sua breve vita.
Le tracce
Il mostro che ha aggredito, violentato e ucciso Daniele non ha agito con circospezione. Sul bambino sono infatti state trovate tracce di sangue e sperma del suo aggressore. Queste circostanze, all’inizio, hanno lasciato ben sperare gli inquirenti: quei fluidi contenevano il Dna del criminale, la sua firma. Ma purtroppo non è bastato. Nonostante siano stati sottoposti svariati uomini e ragazzi, a volte “denunciati” da telefonate o lettere anonime, all’esame per il confronto del corredo genetico, non ci sono stati match di corrispondenza. Nessuno di loro è colpevole. “Erano i primi vagiti di una tecnica che poi è andata migliorandosi molto - anche se già allora non era una rarità - diventando una delle tecniche di identificazione più diffuse”, spiega Motta.
Stuprata e poi gettata nel vuoto: "Così fu uccisa Fortuna"
Non è bastata neppure quella manciata di persone, una ventina scrivono le testate locali, presenti in spiaggia a quell’ora. Tutte interrogate, tutte risposero di non aver visto nulla. Ma non si può stabilire con certezza: era fine estate, era il momento della controra in una località come Torre Chianca che all’epoca non poteva vantare un turismo di massa come Otranto o Gallipoli. “Purtroppo il caso è andato male dall’inizio, perché nessuno aveva visto nulla, nessuno poteva dire nulla, nessuno sapeva nulla - chiarisce Motta - Mentre sulla spiaggia però c’era ancora gente che si muoveva. Certo la gente non ha parlato, sarebbe stato fondamentale per le indagini. Non abbiamo nessuna prova che ci sia gente che ha visto. Si può ipotizzare che qualcuno abbia visto. In quel momento non c’era un particolare affollamento, era apparentemente una situazione tranquilla. Sarebbe però arbitrario dire se ci fosse gente”.
Nel 2010 il ragazzino che aveva ritrovato il piccolo Gravili fu ascoltato da “Chi l’ha visto?” per via delle contraddizioni nella sua testimonianza. Dapprima aveva detto di aver trascorso del tempo con un amichetto più grande, poi di esserselo inventato per paura di un uomo con i capelli brizzolati e la barba incolta visto vicino al corpo del piccolo e poi in fuga verso la torre. Alla trasmissione di Rai 3, Daniele, oggi adulto, smentì e spiegò: “Quando sono arrivati i genitori, hanno detto: ‘Chi è stato?’. Pensavano che fossi stato io. La spiaggia era un deserto, non c’era nessuno. Non ho mai detto di essere stato spaventato da qualcuno”.
Sempre nel 2010, una giovane donna che nel 1992 aveva circa 10 anni, raccontò di aver visto una vettura bianca quel giorno allontanarsi a tutta velocità dalla zona. Era una circostanza insolita, poiché in quella zona giocavano spesso i bambini: era un fatto noto e tutti si muovevano con circospezione sulle quattro ruote.
Le indagini senza esito
Trenta anni dopo il suo stupro e l’omicidio, Daniele Gravili non ha ricevuto giustizia. E non l’ha ricevuta perché il colpevole di tanto orrore non è mai stato ritrovato. “Di questo evento si è tornati a parlare più volte, ma non ci sono mai state novità purtroppo”, conclude Motta.
I rom, la famiglia, l'ipotesi russa: "Denise? Qualcuno ha visto"
E anche quei pochi messaggi anonimi si sono rivelati un buco nell’acqua. "Quando accadono eventi di una certa rilevanza, ci sono persone che ritengono di depistare, di non farsi notare - in modo da poter essere ascoltati - e ricorrono alle lettere anonime - aggiunge - Che non dovrebbe avere aspetti sconosciuti, perché si tratta di qualcuno che scrive dicendo: ‘Io c’ero’. Come è capitato in altri casi, che il testimone o comunque la persona informata dei fatti venga fuori in un secondo momento. Accade quando l’omertà non è legata a fatti di criminalità organizzata. Qui però non abbiamo davvero nessuno che ci abbia indirizzato. Si sono distratti i genitori un momento e il bambino è stato preso da qualcuno: è tutto molto vago. Abbiamo elementi per sapere che la morte è avvenuta per soffocamento. E ci lascia l’amaro in bocca, perché non ci dice null’altro”.
· Il mistero di Giorgio Medaglia.
Giorgio Medaglia morto annegato nell’Adda: è stato ucciso? «Troppe anomalie, coinvolte più persone». Andrea Galli su Il Corriere della Sera l'11 Aprile 2022.
Giorgio Medaglia è morto il 28 giugno 2020 a Lodi: astemio, è stato ritrovato con una altissima quantità di alcol in corpo. Il gip si oppone all’archiviazione per suicidio e ordina nuovi accertamenti dopo la contro-inchiesta del «Corriere». La madre Ombretta Meriggi: «Forse l’hanno scaraventato nel fiume per vederlo affannarsi e disperarsi».
Giorgio Medaglia è morto il 28 giugno 2020 nell’Adda a Lodi: aveva 34 anni
Del resto «è un dato di fatto che la morte di Medaglia presenta diversi aspetti che lasciano intendere come probabile la partecipazione di altre persone…». Il gip di Lodi, dottor Francesco Salerno, con atto depositato in cancelleria lo scorso venerdì, non soltanto si è opposto alla richiesta di archiviazione sulla morte di Giorgio Medaglia, il 28 giugno 2020 a Lodi, accogliendo la contro-indagine del «Corriere» confluita in una delle puntate di «Giallo padano», la serie giornalistica sui delitti irrisolti; il gip ha altresì ordinato nuovi accertamenti. Che, nell’esame delle azioni da svolgere, comportano di fatto il ritorno delle indagini alle loro origini.
La battaglia della mamma Ombretta Meriggi
Dunque paga, pur nell’eterno strazio della perdita del figlio unico, l’instancabile lotta di Ombretta Meriggi, la mamma di Giorgio, che aveva 34anni e soffriva di un disturbo neuro-evolutivo della condizione motoria; e paga la precisa attività dell’avvocato Lorenza Cauzzi, che ha cristallizzato le anomalie rendendole perfino plastiche. Giorgio, figlio unico, venne rinvenuto senza vita nel fiume Adda, a quindici chilometri di distanza; l’autopsia rivelò una massiccia, perfino quasi insostenibile presenza di alcolici; eppure Giorgio era terrorizzato dall’acqua e non beveva nemmeno un goccio di spumante a Capodanno. Se davvero, come avvenne, i carabinieri seguirono anche l’ipotesi di un suicidio, pur nell’insondabile labirinto della mente esso contrastava e con l’animo di Giorgio, con il suo momento esistenziale di gioia e impegni, con l’imminenza delle sognate vacanze in Liguria. Dopodiché, grava sulla (rapida) richiesta del pm di chiudere il caso, una sequenza di elementi quantomeno anomali, come confermato dal gip.
Lo scooter Liberty, il percorso, l’alcol
Per cominciare, un amico di Giorgio non ricordò oppure volontariamente mentì su alcune telefonate e sulla loro coincidenza temporale (lo stesso, diede al Corriere versioni contrastanti); non fu mai trovato un ragazzino visto da dei residenti parcheggiare il motorino di Giorgio, uno scooter Liberty, e andarsene a piedi; andrà esplorata la figura di un barman a domicilio, che cioè vendeva alcolici a case propria, nella geografia prossima al tratto di Adda dove Giorgio entrò (spinto, a questo punto) in acqua, in quanto proprio da quell’uomo Giorgio potrebbe esser stato ubriacato; manca la precisa ricostruzione, attraverso i filmati delle telecamere di Lodi, del percorso compiuto quella sera da Giorgio, il quale era uscito con l’unico obiettivo di un giretto prendendo un po’ di fresco in giorni più che afosi; bisognerà di nuovo interrogare titolari e frequentatori della palestra usata da Giorgio, che al momento del rinvenimento, indossava pantaloncini non suoi. Mamma Ombretta ci aveva già detto (e val la pena riportare per intero il discorso): «Era buono, generoso, disponibile. Non incline a reagire neanche quando lo offendevano. L’hanno tirato in mezzo, costretto a bere, fatto ubriacare, per deriderlo. L’hanno accompagnato in riva all’Adda e spinto a fare cose strane… delle stupide sfide… Non sopportava l’acqua, ne aveva assoluto terrore, non sapeva nuotare e non aveva mai voluto imparare. Forse l’hanno scaraventato nel fiume per vederlo affannarsi e disperarsi».
Le bugie, i tradimenti, la pista dell’omicidio
Lo scorso 13 gennaio Ombretta ha depositato un’opposizione all’archiviazione (indaga la procura di Lodi). Dopo oltre un mese, nessuna risposta. «Spesso penso a un pregiudizio: quello di dire che siccome Giorgio stava in un Centro psico-sociale, beh, allora avrà per forza fatto tutto da solo, impazzendo all’improvviso». La signora Ombretta, infermiera, donna gentile, non cerca vendette: cerca la verità. E forse questa volta gli inquirenti potrebbero scoprire chi, come e perché causò la morte di Giorgio Medaglia, che di certo, come da sottinteso del gip, non fece tutto da solo. Più d’uno ha mentito, più d’uno l’ha tradito, più d’uno l’ha assassinato.
· Il mistero di Eleuterio Codecà.
Codecà, l’ingegnere della Fiat ucciso sotto casa. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera l'11 Aprile 2022.
Cinquant’anni fa l’omicidio del manager in via Villa della Regina: l’ex partigiano Faletto fu accusato dell’assassinio e poi assolto.
A sfogliare un quotidiano di settant’anni fa, in un’era di ricostruzione post bellica e priva di aggeggi elettronici, si ritrovano temi familiari: le liti tra i partiti della maggioranza, «i cinque teatri di guerra in Asia», «la pioggia arrivata appena in tempo» per arginare i danni della siccità e, soprattutto, le brutte notizie. Il Corriere del 15 aprile 1952 raccontava di una perpetua accusata di essere una serial killer di parroci, di uno sciopero per la crisi di un’azienda telefonica, di una tragica inondazione, di un incidente mortale sul lavoro. E della partita di pallone: quel fine settimana si sarebbe giocato uno dei Torino-Juventus ancora segnati dal dopo Superga. Sarebbe finita sei a zero per Boniperti e compagni ma Eleuterio Codecà, per tutti Erio, il derby non l’avrebbe mai visto.
Una carriera fulminante
L’ingegner Codecà, quella sera, era uscito dallo stabilimento Fiat di Torino ed era salito sulla sua 1100. Attraversato il Po, si era fermato di fronte alla sua villetta — tuttora esistente e abitata — di via Villa della Regina, al civico 26. Aveva parcheggiato sul lato opposto, col muso rivolto verso il fiume, e si era ritirato. Era solo in casa, salva la presenza della governante: la moglie Elena e la figlia Gabriella stavano passando qualche giorno di svago a Rapallo. Codecà era nato nel 1901 da una buona famiglia e aveva fatto carriera: dopo la laurea in ingegneria in Francia, la Fiat lo aveva assunto e incaricato di coprire ruoli di responsabilità negli stabilimenti in Romania e in Germania. A Bucarest aveva conosciuto Elena Piaseski, figlia di un medico di origine polacca, poi divenuta sua moglie. Durante la guerra, era stato figura di vertice della Deutsche Fiat Automobil Verkaufs ed era rientrato in Italia dopo l’armistizio dell’otto settembre, per occuparsi del centro produttivo di Mirafiori. Nel 1952, da responsabile delle divisioni Grandi Motori, faceva parte di un gruppo ristretto di dirigenti realmente influenti, capitanati dal presidente Vittorio Valletta.
Una passeggiata dopo lavoro
Verso le 21.30, dopo aver cenato e chiamato la famiglia al telefono, Codecà uscì di casa col suo cocker per fare una passeggiata. Fece in tempo a caricare il cane in automobile quando qualcuno, nascosto dietro una siepe, gli sparò addosso un colpo di pistola. Il proiettile trapassò l’emitorace destro, perforò fegato, polmoni, cuore e non gli diede scampo. In tasca gli trovarono una lettera col timbro di Rapallo e un biglietto: «Caro Papà, ti faccio tanti auguri di buona Pasqua». Nei giorni seguenti, sui muri di Mirafiori comparvero scritte che inneggiavano all’assassinio: «Uno di meno», «Il primo è servito e altri ne seguiranno». Non erano ancora i tempi del terrorismo nelle fabbriche, ma della lotta di classe sì: la Cgil si affrettò a prendere le distanze da quelle vaghe rivendicazioni, condannando pubblicamente l’esecuzione. Il fatto è che Codecà, al di là del carattere mansueto, pareva un bersaglio improbabile per un assassinio politico: non si era mai esposto, non risultavano intestati a suo nome provvedimenti degni di vendetta. Era un uomo buono.
La Procura si muove
Nonostante il clamore e a dispetto dello sconvolgimento della città, nel giro di qualche settimana il caso dell’ingegner Codecà si sgonfiò, per mancanza assoluta di indizi. Fino all’estate del 1955: in luglio, il procuratore generale Cassina mandò a prelevare un uomo residente a Pianezza. Si trattava di Giuseppe Faletto, 34 anni, ex partigiano col nome di battaglia di Briga: secondo i suoi conoscenti, un tipo spregiudicato e coraggioso che, spesso, durante la Liberazione aveva passato il segno macchiandosi di atti illeciti. A incastrarlo, due rudimentali intercettazioni ambientali con un magnetofono, catturate in un ristorante di Druento. A preparargli la trappola due presunti amici, Vinardi e Camia, che si erano rivolti ai carabinieri raccontando di aver ascoltato Faletto mentre si vantava dell’omicidio Codecà. In corte d’Assise, però, le accuse non ressero: non c’erano prove dirette della presenza di Briga nel luogo dell’omicidio quel 15 aprile, né indizi solidi.
Gli accusatori allettati dalla taglia
I due accusatori pare fossero stati attirati dalla taglia offerta dalla Fiat per chi avesse aiutato a risolvere il caso. Faletto venne assolto con la formula, oggi estinta, dell’insufficienza di prove ma scontò comunque un ergastolo, poi ridotto a diciotto anni di reclusione nel carcere di Fossano, per reati commessi durante la guerra. Mandato a uccidere una panettiera, ritenuta una spia fascista, aveva ammazzato anche il figlio, del tutto estraneo alle vicende belliche. Si era macchiato anche dell’omicidio di un fattore dei conti Valperga, da cui aveva preteso capi di bestiame e denaro. Ma con la tragica morte di Codecà non aveva nulla a che fare. L’ex senatore torinese del Pci Lorenzo Gianotti, vent’anni fa, scrisse un libro in cui si suggerivano piste alternative alla vendetta di un ex partigiano comunista per i licenziamenti di operai di sinistra in Fiat. Faceva riferimento ad appunti in caratteri cifrati trovati sulla scrivania dell’ingegnere, a minacce ricevute nei mesi precedenti l’attentato e al possibile traffico di segreti industriali con Paesi dell’est. Ma sono rimaste pure congetture. Elena Piaseski è morta nel 1979, senza sapere perché le toccò in sorte di rimanere vedova e di crescere orfana di padre una ragazzina di dodici anni che, fino in tarda età, negli anniversari di aprile ha fatto pubblicare un necrologio che somiglia tanto a quella lettera del ’52: «A papà, con immutato affetto».
Omicidio Pecorelli, procura Roma avvia nuova indagine. I pm della capitale hanno affidato alla Digos l'incarico di svolgere nuovi accertamenti. La richiesta di riapertura era stata avanzata dalla sorella del giornalista, ucciso quasi 40 anni fa, il 20 marzo del 1979, scrive il 5 marzo 2019 La Repubblica. La procura di Roma ha avviato una nuova indagine sull'omicidio di Mino Pecorelli, il giornalista ucciso nella capitale il 20 marzo 1979. A chiedere la riapertura era stata alcune settimane fa la sorella di Pecorelli. I magistrati romani hanno affidato agli uomini della Digos l'incarico di svolgere una serie di accertamenti preliminari dopo l'istanza depositata negli uffici della Procura da Rosita Pecorelli il 17 gennaio scorso. Il legale della donna, Valter Biscotti, chiedeva ai pm di avviare nuovi accertamenti balistici su alcune armi che furono sequestrate a Monza nel 1995 ad un soggetto in passato esponente di Avanguardia Nazionale. Si tratta, tra le altre, di una pistola Beretta 765 e di quattro silenziatori artigianali. Nella richiesta finita all'attenzione dei pm si fa riferimento anche ad una dichiarazione che l'estremista di destra Vincenzo Vinciguerra fece nel 1992 all'allora giudice istruttore Guido Salvini. Vinciguerra sosteneva di aver sentito un dialogo in carcere tra due militanti di estrema destra in cui si affermava che l'uomo poi arrestato tre anni dopo a Monza aveva in custodia la pistola usata per uccidere il giornalista. Il caso Pecorelli, dal punto di vista processuale, è chiuso dal 30 ottobre 2003, quando la Cassazione assolse definitivamente Giulio Andreotti dall'accusa di essere il mandante. In primo grado, il 24 settembre del 1999, il sette volte presidente del consiglio fu assolto per non aver commesso il fatto assieme agli altri presunti mandanti Gaetano Badalamenti, Claudio Vitalone, Pippo Calò e a due imputati accusati di essere gli esecutori materiali del delitto, cioè Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera. Il 17 novembre del 2002, in appello, invece, fu confermata l'assoluzione per tutti ad eccezione di Andreotti e Badalamenti che vennero condannati a 24 anni di reclusione. Condanna che la Suprema Corte spazzò via annullando senza rinvio la sentenza di secondo grado.
«Tirate fuori quella pistola: voglio la verità su Mino». La sorella Rosita Pecorelli, 84 anni, chiede la riapertura delle indagini sull’omicidio del giornalista, scrive Simona Musco il 18 gennaio 2019 su "Il Dubbio". «C’è un appiglio ed io mi aggrappo». Rosita Pecorelli sta lasciando Piazzale Clodio assieme all’avvocato Valter Biscotti quando, con una foto del fratello tra le mani, pronuncia queste parole. Quaranta anni dopo l’omicidio di suo fratello Mino, giornalista scomodo ucciso in circostanze mai chiarite il 20 marzo 1979, i due si sono presentati in Procura a Roma, chiedendo la riapertura del caso. Un’istanza presentata sulla base di una vecchia dichiarazione di Vincenzo Vinciguerra, ex membro dei movimenti neo- fascisti Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo – all’ergastolo per l’uccisione di tre carabinieri nella strage di Peteano del 1972 – che nel 1992 fece il nome di colui che, a suo dire, conservava l’arma di quel delitto: l’avanguardista Domenico Magnetta. Quella dichiarazione nell’immediatezza, non portò a nulla. Ma il ritrovamento di alcune armi in suo possesso, tre anni dopo, potrebbe ora portare ad una svolta nella vicenda. Quel verbale è stato rispolverato dalla giornalista Raffaella Fanelli il 5 dicembre scorso ed è proprio da un suo articolo che Rosita Pecorelli ha tratto spunto per chiedere la riapertura del caso. Si tratta di dichiarazioni risalenti al 27 marzo 1992: Vinciguerra parla di una pistola, una calibro 7.65, l’arma usata per uccidere il giornalista. «Il Tilgher – si legge nel verbale – mi disse che Magnetta (vicino a Massimo Carminati, l’ex Nar processato e assolto per l’omicidio Pecorelli, ndr) si stava comportando male in quanto gli aveva fatto sapere che o veniva aiutato ad uscire dal carcere o lui avrebbe consegnato le armi in suo possesso, fra cui la pistola che era stata utilizzata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli». Un verbale conservato in un fascicolo sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, raccolto dal magistrato Guido Salvini, giudice istruttore negli anni di piombo. Vinciguerra fa riferimento a due avanguardisti con cui parla in carcere, tra il 10 e il 20 novembre del 1982, a Rebibbia. Si tratta di Adriano Tilgher e Silvano Falabella, con i quali parla dell’arresto di Magnetta e Carminati, avvenuto nel 1981. Si trovavano al valico del Gaggiolo quando furono fermati da una pattuglia, stavano tentando la fuga in Svizzera. L’arresto causò a Carminati la ferita che lo portò a perdere l’occhio sinistro. Magnetta, dice dunque Vinciguerra a Salvini, aveva l’arma usata per uccidere Pecorelli, una calibro 7.65 col quale venne colpito quattro volte, tre alla schiena e uno in faccia. Per ammazzarlo vennero usati proiettili marca Gevelot, molto rari sul mercato e dello stesso tipo di quelli sequestrati nell’arsenale della Banda della Magliana – alla quale Carminati era affiliato – nei sotterranei del Ministero della Sanità. Vinciguerra, conferma Salvini a Fanelli, è credibile. E quel verbale, spiega oggi l’avvocato Biscotti al Dubbio, «venne trasmesso subito a tutti i procuratori che si occupavano di terrorismo in Italia in quel periodo. Tra questi c’era Giovanni Salvi, al quale nel luglio del 1992 Vinciguerra confermò quella versione. Tutte le comparazioni fatte dalla Procura sulle armi, però, non portarono alcun risultato». Ma la storia non si ferma qui. E’ quanto accade tre anni dopo che oggi porta al deposito della richiesta di riapertura delle indagini. A Magnetta, infatti, il 4 aprile 1995 vengono sequestrate delle armi, ritrovate in un doppiofondo nel bagagliaio dell’auto: tra queste anche una semiautomatica calibro 7.65 Beretta con matricola parzialmente punzonata, una canna per pistola calibro 7.65 priva di numero di matricola e quattro silenziatori di fabbricazione artigianale. Su quelle armi, afferma Biscotti, «sicuramente non è stata fatta alcuna analisi. Quello che chiediamo noi – aggiunge – è che si vada ad individuare quella pistola e che venga fatto un confronto con proiettili agli atti del processo, che potrebbero ancora trovarsi nell’ufficio dei corpi di reato del tribunale di Monza. Una richiesta che la signora Pecorelli ha voluto presentare perché, finché avrà fiato in gola, vuole cercare di capire chi ha ucciso suo fratello. Se la comparazione fosse positiva allora questo signore dovrà dire chi gli ha dato quella pistola». Nell’articolo pubblicato dalla giornalista Fanelli sul sito Estreme conseguenze è proprio Guido Salvini a sostenere che, con molta probabilità, quel confronto balistico oggi chiesto dalla signora Pecorelli non è mai stato eseguito. «Non sapevo del sequestro di quest’arma – conferma a Fanelli – se fosse stata fatta una perizia lo saprei. Se non è stata fatta sarebbe interessante farla perché certamente c’è una corrispondenza». «Mio fratello sapeva troppe cose, era un pericolo per tutti e bisognava farlo fuori. Ho combattuto 40 anni per sapere la verità sull’omicidio di Mino e non mi arrenderò mai. Mi aspetto di avere giustizia – spiega Rosita Pecorelli, oggi 84enne – Mio fratello era tutto per me, mi ha fatto da padre, fratello e amico. Oggi – conclude – ci sono elementi per cui pensiamo ci sia qualcosa di nuovo che possa aiutare a raggiungere la verità».
Che senso ha vietare a uno stragista i funerali della figlia? Niente permesso per i funerali della figlia a Maurizio Tramonte, condannato all’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia, scrive Damiano Aliprandi il 21 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Ieri non ha potuto assistere al funerale della figlia di 18 anni Magda Francesca Nyczak, morta nel sonno giovedì scorso. Parliamo di Maurizio Tramonte, che sta scontando l’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia a Brescia. Un permesso negato, quello nei confronti dell’ex informatore dei Servizi che sta scontando la condanna al carcere di Fossombrone. «Non hai mai odiato né invidiato. La tua onestà e la tua semplicità sono sempre state la tua ricchezza ed è questo che ci lasci in eredità», sono le parole di Maurizio Tramonte che sono riecheggiate ieri nella chiesa di Sant’Andrea a Concesio durante le esequie. Ha potuto mandare solo questa lettera, senza essere presente. Nel suo messaggio ha ricordato il giorno della nascita di Magda Francesca e di come «nel silenzio del sonno e senza disturbare ti sei ritrasformata nella più lucente stella». E poi: «Franci, la tua vita è stata breve ma non sei stata una meteora. Il tuo affetto, i tuoi sorrisi, la tua luce e la tua semplicità rimarranno nel mio cuore. Arrivederci tesoro mio». Una decisione, quella del permesso negato, che ha trovato disapprovazione anche da parte di Manlio Milani, presidente dell’Associazione Vittime della Strage e marito di una delle vittime. «Non condivido la decisione – ha spiegato Milani – di non concedere a Maurizio Tramonte di partecipare alle esequie di sua figlia adottiva. A un padre, come in questo caso, non può essere negata la possibilità di assistere al seppellimento della figlia». Parole, quelle del presidente dell’associazione vittime della strage che colpiscono al cuore di uno Stato diventato sempre più cinico. «Ci sono occasioni – ha concluso Milani – per compiere gesti umani che uno Stato democratico dovrebbe sempre rispettare anche nei confronti di chi ha commesso reati». Eppure anche gli ergastolani, così come anche nei confronti di chi rientra nel 41 bis, hanno il diritto al permesso di necessità. Non mancano sentenze della Cassazione, come quella riguardante un detenuto al 41 bis al quale morì un fratello, fissando il principio di diritto per cui: «Rientra nella nozione di evento familiare di particolare gravità eccezionalmente idoneo, ai sensi dell’articolo 30 secondo comma della legge 254 del 26 luglio 1975, a consentire la concessione del permesso di necessità, la morte di un fratello in conseguenza della quale il detenuto richieda la possibilità di unirsi al dolore familiare, in questo risolvendosi la sua espressa volontà di pregare sulla sua tomba, giacché fatto idoneo a umanizzare la pena in espiazione e a contribuire alla sua funzione rieducativa». Quando innescò l’ordigno di Brescia, Maurizio Tramonte aveva solo 21 anni ma già poteva contare diversi anni di militanza nel movimento neofascista di Ordine Nuovo, nato nel dicembre 1969 pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana a Milano. Originario di Camposampiero, paese alle porte di Padova dove era nato nel 1952, Tramonte è attivista dell’Msi sin dalla prima adolescenza. Dopo la militanza nell’estrema destra parlamentare di Ordine Nuovo a cavallo tra gli anni ‘ 60 e ‘ 70 sarebbe entrato in contatto con i settori deviati dei servizi segreti del Sid (Servizio informazione difesa), di cui diviene informatore con il nome in codice ‘ Tritone’. Con questo ruolo Tramonte avrebbe innescato l’ordigno a Brescia, mischiandosi tra la folla della manifestazione sindacale indetta quel giorno di 43 anni fa. Poco dopo la strage si trasferisce a Matera, terminando l’attività di informatore ed iniziando una serie di attività imprenditoriali che lo porteranno a guai giudiziari per bancarotta, finendo ai domiciliari all’inizio degli anni 90. Solo nel 1993, a quasi vent’anni dalla strage di Piazza della Loggia, sarà interrogato per il suo ruolo di esecutore materiale dell’attentato terroristico di Brescia. L’iter giudiziario lo vedrà imputato assieme al mandante, il neofascista Carlo Maria Maggi. Inizialmente assolto nei primi due gradi di giudizio, Tramonte sarà condannato in via definitiva nel 2015 dopo che la Cassazione aveva istruito un nuovo processo, durante il quale una complessa perizia antropologica lo aveva riconosciuto in un’istantanea scattata accanto al cadavere di una delle vittime. La sentenza che lo condanna all’ergastolo arriva nel giugno 2017. Pochi giorni prima Tramonte era andato in Portogallo attraverso la Francia e la Spagna. Viene arrestato a dicembre del 2017 a Fatima, durante una visita al Santuario. Maurizio Tramonte si dichiara però ancora innocente.
L’omicidio dimenticato: Mino Pecorelli, scrive Valter Vecellio il 20 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Il giornalista viene ammazzato la sera del 20 marzo a Roma, il processo in cui sono imputati anche Andreotti e la banda della Magliana vede tutti assolti. La sera del 20 marzo di 39 anni fa, viene ucciso a Roma, in via Orazio, poco prima delle 20,40, Mino Pecorelli. È il direttore di un settimanale Osservatore Politico, da tutti conosciuto (e avidamente letto) come OP. Il lungo iter giudiziario si conclude con la piena assoluzione degli imputati, tra cui Andreotti. Il delitto Pecorelli resta senza colpevoli. Ne abbiamo scritte e dette di ogni tipo, in questi giorni, sull’Affaire Moro, profittando del 40 anniversario della strage a via Fani. In questo oceano di parole, dove tutti hanno ricordato, rievocato, raccontato, interpretato, si registrano anche dei vuoti. Uno, clamoroso – ma ci si potrà tornare, ne vale, letteralmente, la pena – la furibonda polemica che si accende in generale attorno al distorto slogan “Né con lo Stato, né con le Br”, malevolmente attribuito come paternità, a Leonardo Sciascia: che mai ha detto quelle cose e le ha pensate. Occasione- pretesto per una lacerante polemica: quel che si sostiene e scrive (e si fa) attorno alle lettere che Aldo Moro in quei 55 giorni del sequestro e prima d’essere ucciso, merita d’essere pensato e ripensato. Ma nessuno si è ricordato (e ha riconosciuto) che Sciascia con il suo L’Affaire Moro (da tanti criticato e contestato, senza neppure averlo letto, due per tutti: Eugenio Scalfari e Indro Montanelli), aveva visto giusto, e soprattutto ha avuto il torto di avere ragione. Quelle lettere erano Moro, con quello che ne consegue. Ma oggi c’è un altro clamoroso “vuoto” con cui in qualche modo occorre fare i conti. La sera del 20 marzo di 39 anni fa, viene ucciso a Roma, in via Orazio, poco prima delle 20,40, un giornalista. L’assassino, o gli assassini, lo sorprendono a bordo della sua automobile, e lo crivellano con quattro colpi di pistola. Quel giornalista si chiama Mino Pecorelli, ed è il direttore di un settimanale Osservatore Politico, da tutti conosciuto ( e avidamente letto) come OP. Chi è Pecorelli all’epoca lo sapevano tutti gli addetti ai lavori (oggi, magari un po’ meno; per dire: nelle rievocazioni dei giornalisti uccisi, il suo nome non figura mai, eppure il tesserino rosso in tasca l’aveva lui pure. E che il suo non sia stato un suicidio, è sicuro…). Negli atti processuali, Pecorelli viene così descritto: «… Era uno spregiudicato e scanzonato avventuriero della notizia. Le sue allusioni più o meno decifrabili, la sua ironia, il suo sarcasmo talvolta incisivo ed elegante, talvolta greve e becero, disegnano la traccia di una personalità complessa ma, tutto sommato, ben delineabile. La traccia di una passione civile affermata con troppo chiari accenti di sincerità per non essere autentica, anche se posta al servizio di valori e di scelte discutibili. Una passione civile nella quale sopravvive lo spirito di avventura che lo aveva portato, a sedici anni, a combattere con le truppe polacche inquadrate nell’esercito inglese. E poi, il gusto di infastidire i potenti, di svelarne le meschinità piccole e grandi, di incrinarne la facciata impeccabilmente virtuosa. Soprattutto, come abbiamo detto, una personalità ingovernabile». Per tanti, se no per tutti, Pecorelli s’era fatta fama di “ricattatore”. Il non lieve particolare, è che non è morto lasciando particolari proprietà e “beni”. Certamente avrà cercato finanziamenti e sostegni, finalizzati alla sopravvivenza della sua rivista, di cui era anche editore. Certamente avrà pubblicato documenti e “materiali” che a qualcuno conveniva fossero pubblicati e resi noti. Un do ut des che ben conosce, e quasi sempre pratica, chi per mestiere frequenta aule di tribunale e palazzi del potere. Certamente Pecorelli dispone di ottimi contatti ed “entrature” nel mondo non solo dei servizi segreti, ma di coloro che “sanno”; ha una quantità di materiali e li pubblica. Non è insomma persona “comoda” per tanti, prova ne sia che a forza di “incomodare”, finisce come è finito. Perché Pecorelli merita d’essere ricordato, e qualcuno ancora oggi si adopera perché non lo sia? In soccorso vengono ancora gli atti processuali: «La lettura della collezione di OP nel periodo marzo 1978- marzo 1979 rafforza il convincimento che grazie ai suoi collegamenti… fosse a conoscenza di inquietanti retroscena o accreditandosi dinanzi ai lettori – forse a qualcuno in particolare – quale depositario di “riservatissime” informazioni. Sta di fatto che OP è stato l’unico organo di stampa a pubblicare, nella fase del sequestro, alcune lettere di Moro ai propri familiari… Grazie alle sue indiscusse entrature negli ambienti del Viminale e della Questura di Roma era dunque riuscito a procurarsi copia di quel carteggio epistolare…». C’è tantissimo altro (e di altro interessante, e che merita di essere letto e riletto con gli occhi e il senno dell’oggi) nelle duecentomila pagine chiuse in 400 faldoni del processo Pecorelli celebrato a Perugia; un labirinto di carte meritoriamente conservato e digitalizzato nell’Archivio di Stato di Perugia: uno spaccato di Italia di “ieri” e la cui ombra ancora si profila sull’ “oggi”. Un filo d’Arianna in questo labirinto viene da un recente libro, Il Divo e il giornalista scritto a quattro mani da Alvaro Fiorucci e Raffaele Guadagno (Morlacchi editore, pp. 377, 15 euro). Fiorucci è forse il giornalista che più di ogni altro può citare a memoria quella babele di carte. Cronista prima di Paese Sera, poi di Repubblica, per anni ha retto la sede della Rai di Perugia, e in questa veste ha seguito tutte le udienze di quel tormentato processo che ha visto sul banco degli imputati Giulio Andreotti, e Claudio Vitalone “mescolati” a mafiosi del calibro di Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò, un Massimo Carminati all’epoca giovane militante della destra estrema, ed elementi della Banda della Magliana. Guadagno, impiegato al ministero della Giustizia, in virtù del suo lavoro ha preso parte alle attività processuali, raccolto e catalogato quel mare di carte e certamente le conosce e sa “leggerle” come pochi. Il lungo iter giudiziario, va ricordato, si conclude con la piena assoluzione degli imputati. Il delitto Pecorelli resta senza colpevoli. Assolti coloro che venivano indicati come esecutori, assolti coloro che venivano indicati come mandanti. Ma, ricorda il procuratore di allora Fausto Cardella, «le carte restano per chi voglia conoscere un pezzo della nostra storia, ancora da scrivere». Il valore del certosino lavoro dei due autori consiste in una puntuale ricostruzione di una sconcertante successione di episodi e di fatti che hanno “segnato” la nostra storia recente. Una zona oscura e buia nella quale le nostre istituzioni hanno rischiato di perdersi. Fiorucci e Guadagno le elencano, e ogni “capitolo” parla: “Il memoriale di Aldo Moro scomparso”, lo scandalo Italcasse, le banche e gli “affari” di Michele Sindona, la truffa dei petroli… Sono tutte vicende che vedono Pecorelli e la sua OP protagonista, nel senso che pubblicano e rendono note indicibili verità, che tanti avevano interesse a tenere nascoste. Sullo sfondo, la eterna strategia della tensione a fini stabilizzatrici, gli anni di piombo, la vicenda Gladio, il terrorismo rosso e lo stragismo nero, le stragi e gli attentati della Cosa Nostra, i servizi che sempre si definiscono “deviati”, ma che erano (e presumibilmente sono) appunto quelli che chiamati a svolgere lavori sporchi… Pecorelli e il suo delitto sono parte integrante, dicono i due autori, di «un melting-pot che ribolle per più di un ventennio. C’è tutto questo nella sintesi dei processi per l’omicidio di un giornalista scomodo». Il libro è stato presentato ad Assisi, nell’ambito della prima edizione di “Tra me Giallo Fest”, dicono gli osservatori che l’appuntamento è stato tra quelli che ha riscosso maggior successo. Indicativo, che a un evento dedicato al “giallo” abbia suscitato maggior interesse una storia vera che sembra inventata, rispetto a tante altre storie inventate che posson sembrare vere.
20 marzo 1979: chi ha ucciso Mino Pecorelli? Emanuele Beluffi il 20 Marzo 2022 su Culturaidentita.it su Il Giornale.
Oggi, 20 marzo 2022, sono passati 43 anni dall’assassinio di Mino Pecorelli, giornalista e direttore della rivista OP-Osservatore Politico (ma ahilui anche OP-Omicidio Pecorelli).
Come per altri misteri italiani, anche questa storia giudiziaria (e non solo giudiziaria) è una storia travagliata: ad oggi non sono stati individuati “al di là di ogni ragionevole dubbio” né i mandanti né gli esecutori materiali dell’assassinio. Solo la fine è nota, tanto per citare il romanzo poliziesco di Geoffrey Holiday Hall, poi diventato un film.
E la fine è quella Citroën CX Pallas verde, all’angolo con via Tacito, mezza sul marciapiede, con l’indicatore di direzione destro acceso, la retro inserita e il finestrino in frantumi.
Sono le 20.40 di martedì 20 marzo 1979, al lato guida e riverso sul sedile del passeggero, forse per prendere la pistola nel vano porta oggetti in un estremo tentativo di difesa, c’è Mino Pecorelli. Gli hanno sparato quattro proiettili, il primo dritto in bocca, come per mettere a tacere una volta per tutte “il cantante”: perché lo chiamano così, quel giornalista che chiede i contributi finanziari per OP agli stessi che poi sputtana sulle pagine di OP.
Pecorelli è al di là dei limiti deontologici e professionali del giornalismo oppure opera dentro questi limiti ma in maniera folle?
OP-Osservatore Politico è la rivista settimanale che dal marzo 1978 (proprio in concomitanza con il sequestro di Aldo Moro in via Fani a Roma la mattina del 16 marzo 1978) fa il grande balzo in avanti, dopo essere uscita come bollettino diffuso per abbonamento a un indirizzario selezionatissimo di politici, magistrati, avvocati, industriali, militari, giornalisti e alti prelati: ora invece questa pubblicazione, dove spesso gli articoli li capisce solo il cerchio magico della nomenklatura romana, scende dalle scrivanie giuste e arriva nelle edicole.
Ma chi tocca i fili muore e Mino Pecorelli con la sua OP ne tocca un verminaio: tanti sono i “cold case” in cui cercare la spiegazione dell’omicidio, dallo scandalo petroli a quello dell’Italcasse, dal golpe Borghese al crack della banca di Sindona, tanto per citarne qualcuno.
Chi ha ucciso Pecorelli? Perché? Chi sono i mandanti?
Ombre e misteri fanno da sfondo a tante possibili verità: ha scoperto dei segreti di Stato? O forse questi segreti di Stato sono i vizi inconfessabili di qualche uomo politico?
Chi, quella sera del 20 marzo 1979, quando devono ancora arrivare le Alfetta col lampeggiante, apre il bagagliaio della sua CX messa di traverso? E chi entra per primo nella redazione di via Tacito? Gli interrogativi sono tanti e non finiscono qui.
A un certo punto (è il 1992) Tommaso Buscetta dice: “Pecorelli e dalla Chiesa sono cose che si intrecciano“. Di qui il mistero del memoriale di Aldo Moro e di una sua parte mancante, che però ad oggi nessun comune mortale ha visto nemmeno col binocolo, un segreto di cui sarebbero stati a conoscenza sia dalla Chiesa che Pecorelli, memoriale rinvenuto nel covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano nell’ottobre 1978, cinque mesi dopo il rinvenimento del cadavere di Moro nel bagagliaio della celeberrima Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani (è un dattiloscritto o ci sono anche documenti manoscritti? Ci sono forse anche delle bobine con la voce di Moro, come lascia intendere Pecorelli in un suo articolo?). E ri-trovato, una seconda volta, in fotocopie, nell’ottobre 1990.
Contengono forse qualcosa di sconvolgente per la sicurezza dello Stato queste verità nascoste del “memoriale Moro”? O forse riguardano qualcosa di indicibile per qualcuno dei “potenti”?
La storia dell’omicidio Pecorelli è del resto anche una storia giudiziaria dall’iter complicato, che dalla Procura di Roma devia a quella di Perugia per competenza territoriale e che alla fine non porta pressoché a nulla di concreto: chi e perché ha ucciso Pecorelli non si sa.
Idem per la pistola che ha sparato (nonostante i particolarissimi proiettili conducano ex post a un certo deposito, “free” per gli esponenti di una famosissima banda criminale romana).
Forse l’unica e plausibile spiegazione del delitto si basa sul rasoio di Occam, per cui la più semplice è quella giusta. E allora Pecorelli potrebbe essere stato ucciso per aver mandato in fumo il “piano di liberazione” architettato da un notissimo criminale (poi assassinato brutalmente da un altro galantuomo, lo stesso che con le proprie dichiarazioni manderà in galera il povero Enzo Tortora) per “guadagnarsi” la libertà, con in mezzo un noto falsario collegato alla criminalità romana (poi assassinato anche lui, ma non senza prima avergli fatto fare, non si sa da chi, un colpaccio miliardario in una società di trasporto valori della Capitale) e che a un certo momento dell’affaire Moro entra pesantemente con una sorta di messinscena vagamente teatrale.
Insomma, se quella del “boss dei due mondi” non è ‘na sòla (“Pecorelli e dalla Chiesa sono cose che si intrecciano“), allora, forse, questo intreccio passa per il sequestro Moro, un po’ per finta e un po’ per davvero: vaste programme, per dirla con de Gaulle.
Non possiamo qui addentrarci in una fittissima trama, ma se può valere (anche) questa ipotesi di spiegazione del delitto Pecorelli, allora la possiamo sintetizzare così. Niente politici, niente mafiosi, niente servizi “deviati” (che “deviati” lo sono per definizione, come dice Antonio Cornacchia alias Airone 1, all’epoca del sequestro Moro colonnello e comandante del nucleo investigativo dei carabinieri di Roma e arrivato per primo, o fra i primissimi, in via Tacito a cadavere di Pecorelli ancora caldo): Pecorelli e dalla Chiesa fanno saltare una macchinosa cialtronata (ma basata su fatti veri, cioè il sequestro Moro) organizzata da un ospite delle patrie galere per guadagnarsi i “titoli” per uscire di prigione.
Questa è una delle tante verità, magari la meno sexy, dell’omicidio Pecorelli.
Pecorelli muore il 20 marzo 1979, dalla Chiesa tre anni e mezzo dopo, il 3 settembre 1982 a Palermo, massacrato insieme alla giovane moglie Emmanuela Setti Carraro da “circa cinquanta colpi da 7,2 millimetri, un calibro da arma da guerra” (cit. Francesco Pazienza): troppo tempo per “intrecciarli“?
Post scriptum. Il tenente colonnello Antonio Varisco e il liquidatore del Banco Ambrosiano (crack Sindona) Giorgio Ambrosoli muoiono assassinati neanche quattro mesi dopo Pecorelli, rispettivamente il 13 e l’11 luglio. Tutti e tre, insieme a dalla Chiesa, un giorno si incontrano nell’ufficio del colonnello Varisco in Piazza delle Cinque Lune a Roma: è questa un’altra storia? E’ un caso se il bellissimo film del regista italiano ostracizzato dagli operatori chic, Renzo Martinelli, incentrato sul sequestro di via Fani, si intitola Piazza delle Cinque Lune? E’ anche questa un’altra delle (tante) verità dell’Omicidio Pecorelli?
· Il Caso di Ernesto Picchioni: il primo assassino seriale italiano del '900.
Nella "tela del ragno": così il "mostro" dava le vittime in pasto ai maiali. Francesca Bernasconi l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Ernesto Picchioni fu il primo assassino seriale italiano del '900. Per attirare le sue vittime tesseva una "tela", che le costringeva a entrare nella sua casa. La giornalista Rita Cavallaro: "Faceva a pezzi le vittime e le dava in pasto ai maiali".
Chiodi, candele e una casa accogliente. Erano gli ingredienti che Ernesto Picchioni, ribattezzato dalle cronache come "il mostro di Nerola", utilizzava per attirare le sue vittime in trappola. Le aspettava, come fa un ragno con le mosche, dopo aver tessuto la tela. Poi le colpiva, le uccideva, rubava tutto quello che possedevano e le seppelliva in giardino. Così, il chilometro 47 della via Salaria, che da Roma porta a Porto d'Ascoli sul Mare Adriatico, divenne tristemente noto negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, quando Picchioni iniziò a colpire.
"Lui è il primo serial killer italiano della storia moderna", ha spiegato a ilGiornale.it la giornalista Rita Cavallaro, autrice insieme a Emilio Orlando del libro "22 gradini per l'inferno. Dal mostro di Nerola al depezzatore di Roma. I serial killer italiani nella scala del male", edito da Male Edizioni di Monica Macchioni, che analizza gli assassini seriali italiani, per capirne il grado di malvagità. "Lui, nonostante abbia commesso molti delitti in maniera efferata - continua la giornalista - non si pone a un livello alto della scala del male, perché non agiva per piacere o impulsi sadici, ma uccideva per profitto".
Chi era Ernesto Picchioni?
Nato nel 1906 a Ascrea (Rieti), Ernesto Picchioni era andato ad abitare vicino a Nerola, in una casa costruita su un terreno che si estendeva al lato della via Salaria. "Ha iniziato ad agire nel periodo della Seconda Guerra Mondiale - ha precisato la giornalista Cavallaro - Era un periodo in cui c'erano guerra, fame e disagio sociale ed erano stati creati dei quartieri per i reietti". Durante e immediatamente dopo la guerra, le persone povere e quelle che vivevano nell'emarginazione e nel disagio erano tante. L'uomo che divenne "il mostro di Nerola" era tra queste.
Era un contadino che per vivere, a suo dire, vendeva lumache. Picchioni viene descritto dall'Unità come un uomo "tarchiato, basso, robusto. Un volto chiuso, come il guscio di una grossa noce. Mani grandi, forti, abituate alla zappa e all'aratro. Occhi piccoli nascosti sotto sopracciglia folte e sporgenti". Era una persona "senza cultura, appartenente al basso ceto sociale e non aveva un lavoro - ricorda la giornalista Cavallaro - era un perditempo. Passava le giornate senza far nulla se non giocare a dadi, frequentare bische clandestine e andare a bere nelle osterie fino a ubriacarsi".
Viveva in un'abitazione al 47esimo chilometro della via Salaria insieme alla moglie Filomena e ai loro quattro figli, tre femmine e un maschio. Ma quella casa Picchioni l'aveva ottenuta con la forza. L'uomo infatti aveva aggredito il proprietario del fondo sul quale abitava abusivamente e lo aveva colpito con una pietra. Per questo era stato condannato a scontare alcuni mesi di carcere, ma poi aveva continuato a vivere in quella casa insieme alla famiglia. E anche lì, nel focolare domestico, Picchioni non risparmiava botte, minacce e insulti. "Per lui, la moglie andava comandata e sottomessa, con botte e soggiogamento psicologico - ha spiegato Rita Cavallaro a ilGiornale.it - In questo quadro, lui agiva sempre con carattere da despota e manipolatore, sia all'interno che all'esterno della famiglia, attuando minacce per cercare di imporre la sua volontà". Fu in questo contesto che iniziò ad agire il "mostro di Nerola".
Come un ragno che tesse la tela
"Vieni nel mio salotto, disse il ragno alla mosca". In una poesia scritta nel 1829 da Mary Howitt, il ragno gettava l'esca per far cadere in trappola la sua preda, senza muoversi dal suo nascondiglio. Lo stesso faceva Ernesto Picchioni. Ma la sua tela era fatta di chiodi e candele. Il "mostro" infatti aveva messo a punto una strategia efficace, che gli permetteva di attirare a sé le sue vittime, che entravano volontariamente in casa sua.
"Buttava dei chiodi per terra - ha raccontato la giornalista Cavallaro - e quando qualcuno passava in bicicletta o in motocicletta bucava". Così chi percorreva la via Salaria si ritrovava con una gomma forata al chilometro 47. Intorno il nulla. Impossibile chiedere aiuto a qualcuno. Ma poi, poco lontano, i passanti scorgevano qualcosa: "Si vedevano solo le luci fioche della casa di Picchioni - ha spiegato Rita Cavallaro - Lui lasciava accese apposta le luci delle candele per farsi vedere. Perché era l'unica cosa che si vedeva nel buio e attirava così le sue vittime".
Chi era in difficoltà si avvicinava a casa sua e vi trovava un contadino gentile e disponibile: "Una volta aperta la porta, Picchioni recitava la sua parte e, come un ragno, le attirava all'interno". La recita consisteva nell'offrire alle persone chiedevano aiuto "cibo e vino. Poi si offriva di ospitarli per la notte, dicendogli che l'indomani li avrebbe aiutati a cambiare la gomma", spiega la giornalista Cavallaro. Ma quando il malcapitato di turno si addormentava, l'assassino "entrava nella stanza, lo colpiva e lo uccideva. Una volta morto, Picchioni portava via alla vittima tutto quello che aveva, soldi, gioielli e lo spogliava anche dei vestiti. Poi lo faceva a pezzi e una parte la sotterrava e l'altra la dava in pasto ai maiali".
Negli anni successivi all'arresto dell'uomo anche i giornali raccontarono la tecnica utilizzata dal "mostro di Nerola", paragonandola ad una ragnatela: "Secondo la sentenza, il Picchioni aveva escogitato una trappola - si legge su un numero dell'Unità di diversi anni dopo la scoperta dei corpi - Aspettava le vittime come un ragno al centro di una rete. La rete era formata di chiodi disseminati sulla Salaria. Passava un ciclista, un motociclista, un automobilista, forava, chiedeva aiuto alla casa più vicina. Il 'ragno' sembrava gentile, offriva cibo e vino, ubriacava il malcapitato e lo uccideva per derubarlo". Lo scopo di Ernesto Picchioni, infatti, era quello di recuperare qualche soldo e oggetto, per poter continuare con la sua vita di sempre, tra osterie, partite a carte e debiti. Una dopo l'altra, le sue prede rimanevano impigliate nella tele e il "mostro di Nerola" otteneva soldi o oggetti.
Le vittime del mostro di Nerola
Otto. È il numero delle vittime accertate ma, secondo le dichiarazioni della moglie, ce ne sarebbero molte di più. Difficile il riconoscimento dei resti, dato che "non si trovarono mai i corpi, perché lui li faceva a pezzi e una parte andava in pasto ai maiali, mentre l'altra la sotterrava", ha raccontato a ilGiornale.it la giornalista Rita Cavallaro.
Tra le vittime sospette, un nome è certo: Pietro Monni, un avvocato di Rieti, scomparso il 5 luglio del 1944. Quel giorno, ricostruirono poi gli inquirenti, Monni passava sulla Salaria, diretto a Ponterotto, una frazione a pochi chilometri da Nerola, provenendo da Roma. Al chilometro 47 però, un chiodo sulla strada gli fece bucare una gomma. Intorno a lui il nulla, tranne un'abitazione: quella di Ernesto Picchioni. Il contadino gli aprì la porta, fornendogli aiuto. Poi il "mostro" colpì l'avvocato, lo uccise e lo depredò di ogni avere. E seppellì il corpo.
"La causa della morte fu senza dubbio prodotta dallo scoppio del cranio, scoppio che, a ricostruzione eseguita del cranio, si è potuto stabilire essere stato conseguenza di un colpi d’arma da fuoco a proiettili multipli esploso contro la regione posteriore destra del cranio", si legge sul referto medico, riportato su La zona morta. Il corpo venne seppellito nell'orto davanti all'abitazione del "mostro".
Quando i carabinieri andarono a scavare, spiega la giornalista Cavallaro "riuscirono a identificare solamente il corpo di Pietro Monni. Gli altri erano resti". Quando Picchioni venne interrogato sull'omicidio dell'avvocato Monni, ammise di averlo ucciso, ma tentò di giustificarsi, come riportò un numero dell'Unità del 1985: "Mentre mangiava - disse - cominciammo a discutere. Era un uomo istruito, voleva avere sempre ragione e allora io cominciai a odiarlo, gli urlai degli insulti. Lui mi rispose. Io afferrai un fucile e lo freddai. Poi lo seppellii nell’orto".
Oltre a quello di Pietro Monni, i giornali dell'epoca fecero anche il nome di Alessandro Daddi, impiegato al Ministero della Difesa e scomparso nel maggio del 1947, mentre si recava a trovare la madre a Contigliano, in provincia di Rieti. Il giorno della scomparsa, Daddi viaggiava a bordo di una bicicletta su cui era stato montato il Cucciolo, un piccolo motore che trasformava la bici in una sorta di motocicletta. Secondo quanto sostennero i quotidiani del tempo, anche il Daddi avrebbe bucato al chilometro 47 della Salaria e avrebbe chiesto aiuto a Picchioni, che lo avrebbe ucciso.
Il "mostro", si legge sull'Unità, avrebbe confessato l'omicidio: "Anche il Daddi bucò, chiese aiuto e fu ucciso. Perché? 'Lui mi insultò e mi aggredì - narrò il Picchioni - Era ben più alto di me e, quando stava per buttarmi a terra, riuscii ad afferrare un coltello e a colpirlo alla gola'". In realtà, ha spiegato la giornalista Rita Cavallaro, "non c'è una certezza. L'unico accertato dai documenti è Pietro Monni". Gli altri resti ritrovati nel terreno vicino alla casa di Picchioni "erano solo pezzi di corpi - spiega la giornalista - e dalle analisi scoprirono che alcuni erano di un adolescente, mentre altri di un signore con i baffi. Riuscirono ad accertare otto vittime, ma la moglie disse che il marito ne uccise molti di più".
"Avrebbe continuato a uccidere"
Nell'ottobre del 1947 Ernesto Picchioni venne fermato. Ma, secondo la giornalista Rita Cavallaro, "sicuramente, se non fosse stato arrestato, avrebbe continuato a uccidere". E probabilmente non avrebbe colpito solo persone estranee: "I carabinieri - continua la giornalista - avevano scoperto che lui aveva già messo in contro anche di sterminare la sua famiglia", sia la moglie che i figli. Ma fu proprio la sua famiglia a fermare "il mostro di Nerola".
Un giorno, infatti, la moglie Filomena "uscì di casa con una scusa e corse alla stazione dei carabinieri e raccontò tutto. Così venne fuori chi era davvero Ernesto Picchioni". La moglie parlò degli omicidi, della trappola messa a punto dal marito, che aveva costretto lei e il figlio Angelo a scavare la fossa dell'orto, dentro la quale seppelliva i resti delle sue vittime: "Ha confessato di essere stata costretta a seppellire il cadavere, sotto la minaccia di fare la stessa fine - si legge nell'Unità del 30 ottobre 1947 - Anche i figli del Picchioni, Angelo di 14 anni, Valeria di 10, Carolina di 8 e Gabriella di 4 e la vecchia madre Clorinda, vivevano sotto l'incubo del malvivente. Una volta il Picchioni aveva costretto la moglie e il figlio più grande a scavare una fossa e poi aveva detto: 'Qui ci metterò voi e tutti gli altri se fiaterete'".
Fu forse anche questa paura a spingere Filomena a parlare. "Fu grazie alla moglie che venne fuori tutto - ha spiegato Rita Cavallaro - Altrimenti nessuno avrebbe mai immaginato l'orrore che aveva messo in scena in quegli anni" Ernesto Picchioni, perché in quel tempo, con la guerra, la scomparsa di una persona non rappresentava un evento straordinario. Ma la donna, rendendosi conto che Picchioni avrebbe potuto uccidere anche lei e i figli, decise di raccontare la verità e indicò agli inquirenti il luogo in cui avrebbero dovuto scavare per trovare i resti delle vittime.
Il processo contro l'uomo ormai conosciuto come "il mostro di Nerola" iniziò nel marzo del 1949 e, in tribunale, la moglie raccontò nuovamente gli orrori commessi dal marito. Il 13 marzo 1949, la Corte d'Assise di Roma condannò Ernesto Picchioni a due ergastoli e 26 anni di carcere. I giudici, come spiegò l'Unità, lo ritennero "un simulatore". Ma, successivamente, "il direttore del carcere nel quale il Picchioni scontava la sua pena accertò che l'ergastolano non era completamente padrone di sé e Io fece ricoverare al manicomio giudiziario di Reggio Emilia, dove egli fu trattenuto per quattro anni".
Per questo, mentre era in attesa dell'Appello, l'uomo venne sottoposto a una perizia psichiatria. Ma, la perizia accertò l'assenza di infermità mentale, che il Picchioni intendeva simulare: "Al termine delle osservazioni cui è stato sottoposto, il detenuto in oggetto è risultato esente da infermità mentale in atto - si legge nella perizia riportata su La zona morta - Egli presenta solo le note di una costituzione neurodegenerativa originaria ed esibisce disordini del pensiero e della condotta di natura chiaramente intenzionale". Nel 1954 l'Appello confermò la condanna all'ergastolo e nel 1956 la Cassazione rese definitiva la sentenza. Ernesto Picchioni morì in carcere nel maggio del 1967.
Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.
· Il Caso Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.
«Abbiamo sparato noi su Andrea Rocchelli e Andrej Mironov uccidendoli». Un soldato svela la verità. Il programma Spotlight di Rai News 24 intervista un militare ucraino che rivela come a uccidere i due giornalisti il 24 maggio del 2014 furono i lealisti ucraini. E il loro comandante oggi è deputato e cura i rapporti con l’Italia. Valerio Cataldi, Giuseppe Borello e Andrea Sceresini su L'Espresso il 31 gennaio 2022.
L’uomo osserva la mappa sullo schermo del portatile, poi annuisce e si infila in bocca una sigaretta: «Sì, quel giorno ero lì», esclama massaggiandosi le tempie. «Ho ancora la scena davanti agli occhi. Alcuni civili erano scesi da una macchina e si erano gettati nel fossato, in mezzo alla boscaglia. Non so chi di noi li abbia avvistati, ma ricordo le parole del nostro comandante: “Quelle persone non devono stare lì”.
Omicidio Caccia, lo sfogo della figlia Paola: “I mandanti del delitto sono ancora sconosciuti”. L’accusa al convegno “Mafia, 30 anni dalle stragi” al Politecnico. la Stampa l'01 Marzo 2022. «Ancora oggi, 40 anni dopo il suo assassinio, esistono tante verità nascoste su mio padre. C’è luce sugli esecutori di quel delitto che sappiamo essere persone appartenenti alla ‘ndrangheta calabrese, ma non sappiamo ancora chi siano stati i veri mandanti. Non sappiamo chi ha incoraggiato questo omicidio e questa verità, questo piccolo pezzo di verità, non ci basta».
Non è mai banale Paola Caccia, figlia del magistrato Bruno ucciso da un commando della ‘ndrangheta la sera del 26 giugno 1983 in via Sommacampagna (delitto per il quale sono stati finora condannati Domenico Belfiore e Rocco Schirripa affiliati alla malavita calabrese) e non lo è stata nemmeno ieri al convegno dal titolo «Mafia, 30 anni dalle stragi» che si è tenuto al Politecnico di Torino e al quale hanno preso parte, tra gli altri, Giancarlo Caselli e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando.
La figlia del magistrato ha lanciato una sorta di appello: agli investigatori certo, ma anche a tutti quelli che conoscono «ciò che di nascosto c’è ancora oggi sull’uccisione di mio papà e non parla». Ha aggiunto: «Sappiamo che è passato tanto tempo, forse troppo. Non abbiamo più tanta fiducia in una verità processuale. Molte persone che avrebbero potuto sapere cose rilevanti su quei fatti sono morte. Ma una verità storica auspichiamo di averla ancora. Io, queste verità nascoste su quell’omicidio, le sento tutt’oggi attorno a noi vivendo questa città. Vi assicuro che non è una sensazione piacevole». Paola Caccia ha ripercorso «le tante difficoltà incontrate per far riaprire il caso insieme al legale Fabio Repici a 30 anni di distanza: «Molti indizi che portavano anche in altre direzioni non erano stati presi in debito conto e lo consideriamo un modo di non contribuire alla verità oltre ad aver in questo modo fatto sì personaggi mafiosi di assoluto spessore di attraversare questi decenni senza alcun problema. Rileggendo gli atti sono riuscita, io che non ho conoscenze giuridiche approfondite, a trovare almeno 20 anomalie sulla storia dell’uccisione di mio padre. Perché è accaduto? Tuttora non lo so» ha concluso.
Bruno Caccia: l’omicidio di un magistrato e quelle indagini rimaste senza giustizia. Un collega di Torino, ora in pensione, racconta delle trame di altri colleghi togati che avrebbero favorito gli stessi malavitosi che Caccia mise sotto inchiesta. di Mauro Vaudano su lavocedinewyork.com il 9 Gennaio 2022.
Bruno Caccia (Cuneo 16 novembre, 1917 - Torino 26 giugno 1983)
"La sentenza per l’omicidio condannerà moralmente quei “magistrati inquinati”, perché con la loro «disponibilità» verso i malavitosi ne avrebbero rafforzato la motivazione ad uccidere Bruno Caccia, confidando che alla sua morte sarebbero subentrati i magistrati loro amici. Un giudizio severo, ma – come vedremo – per lo più senza conseguenze..."
IL CONTESTO
Per comprendere il contesto in cui è maturato l’assassinio del procuratore capo della Repubblica a Torino Bruno Caccia è necessario inquadrare l’ambiente storico e culturale e criminale piemontese degli anni 70-80. Era il periodo in cui la città di Torino e lo stesso Piemonte e gran parte dell’Italia era sotto la pressione del terrorismo “rosso” della sinistra estrema rivoluzionaria e “nero” della destra estrema eversiva. Le Brigate Rosse e di Prima Linea da un lato; dall’altro del terrorismo cosiddetto “nero” di estrema destra di Ordine Nuovo, i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR) e altri gruppuscoli di estrema destra neofascista. Senza trascurare gli altri aspetti criminali organizzati che si svilupparono in modo preoccupante proprio in quello stesso periodo. Fu il dilagare in Nord Italia di sequestri di persona legati all’ambiente della mafia siciliana e calabrese esistenti da tempo, criminalità nel Nord Italia non ancora percepita nelle sue dimensioni e sua importanza.
LA SITUAZIONE A TORINO NEL 1980
In questa situazione storica Bruno Caccia fu nominato procuratore capo della Repubblica nel 1980. Egli così successe a magistrati capi dell’ufficio che non avevano dimostrato di essere capaci di iniziative penetranti. Caccia aveva già seguito insieme ai giudici istruttori di Torino tutta una fase importantissima delle istruttorie sulle Brigate Rosse. Istruttorie trasferite a Torino per competenza a causa nella presenza di vittime tra i magistrati di Genova e della conseguente assegnazione a Torino delle indagini stabilita dalla Cassazione.
Ricordo bene che quando entrai in magistratura come giovanissimo giudice istruttore nel 1972 il capo dell’ufficio era una persona carismatica: Mario Carassi mio, indimenticabile maestro e guida. Mario Carassi mi mise subito in guardia su una certa situazione molto delicata e spiacevole. Mi informò che infatti non vi era un rapporto ideale tra i due uffici della Procura della Repubblica e quello dei Giudici Istruttori almeno in alcuni casi… Pertanto invitò a essere potentemente diffidente nei confronti specifici di magistrati anziani in servizio alla Procura.
Bruno Caccia arrivò già ben consapevole di questa situazione e subito ebbe la conferma concreta del perdurare di condotte scorrette di alcuni sostituti procuratori già noti. Gli stessi che poi furono sottoposti a processo disciplinare e penale, per sua specifica iniziativa. Quando Bruno Caccia fu ucciso, insomma, l’Italia era distratta (e a questa distrazione non rimediò mai). Il 1983 fu l’anno in cui, come scrive Gian Carlo Caselli in Le due guerre, «l’Italia poté considerarsi fuori dall’emergenza terrorismo». Anche grazie all’impegno in prima linea di Bruno Caccia. Nel 1975 era stato lui, a Torino, a redigere e firmare la richiesta di rinvio a giudizio contro il nucleo storico delle Brigate Rosse che si stava celebrando in quei giorni nel carcere torinese delle Vallette in secondo grado (la requisitoria porta la data del 3 luglio 1975). Il processo iniziò nel 1976, ma – alcuni lo ricorderanno – nel 1977 non si era celebrata neppure un’udienza, perché in tutta Torino non si trovavano sei cittadini disposti a ricoprire l’incarico di giudici popolari. Bruno Caccia, sostituto procuratore generale, e Gian Carlo Caselli, giudice istruttore, avevano costruito l’intero processo ricorrendo per la prima volta all’accusa di “banda armata”.
L’Italia delle elezioni politiche del 1983, dunque, usciva dall’emergenza del terrorismo. Non da quella delle mafie, che nelle terre di origine, proprio in quegli anni, facevano centinaia di morti. Tra il ’79 e l’83 si contarono 818 morti ammazzati in Campania, dove Luigi Giuliano aveva costituito una federazione di famiglie napoletane (denominata prima Nuova Fratellanza, poi Nuova Famiglia) per combattere lo strapotere di Raffaele Cutolo. E mille morti ammazzati tra l’81 e l’83 in Sicilia, dove Totò Riina aveva dato inizio alla cosiddetta “seconda guerra di mafia”, per sterminare i mafiosi palermitani della vecchia guardia. La ’ndrangheta era uscita rinnovata da qualche anno dalla prima guerra di mafia (iniziata nel ’75 con l’omicidio del capo dei capi della ’ndrangheta, ’Ntoni Macrì, padrino vecchia maniera). Da allora si chiamava “Santa”: inizialmente trentatré (numero tipico del rituale massonico), i “santisti” erano autorizzati dal codice della nuova organizzazione a intrattenere rapporti con ambienti prima vietati (a cominciare da carabinieri e poliziotti), e ad affiliarsi alla massoneria deviata, in modo da gestire direttamente il potere politico ed economico e ad aggiustare le sentenze. Vedremo più avanti con quali possibili risvolti proprio nel movente.
LA RINASCITA DELLA PROCURA
Posso quindi con tranquillità affermare che da un lato Bruno Caccia fu amatissimo da una parte di magistrati della Procura che vedevano in lui la possibilità di un vero riscatto dell’ufficio; nonché dalla maggior parte dei giudici istruttori che infine vedevano la possibilità di collaborare con reciproca fiducia ed efficacia con l’ufficio della Procura della Repubblica evitando tante situazioni spiacevoli e dannose degli anni precedenti. Altrettanto non si poteva dire di altri magistrati che inevitabilmente ( sia pure in maniera non esplicita ) si opposero all’azione risanatrice portata avanti da Bruno Caccia. Nel 1983 queste trame erano ancora oscure. Il primo a squarciarle, com’è noto, fu Tommaso Buscetta. Per la ’ndrangheta bisognerà aspettare fino al 1992, quando inizierà la collaborazione di Giacomo Lauro, inizialmente coperto dagli inquirenti con il codice “Alfa”.
Raccontare il caso Bruno Caccia significa anche riesumare le «relazioni pericolose» a cui è dedicato il capitolo più doloroso della seconda sentenza di appello per l’omicidio, che descrive il quadro delle indagini. Gli investigatori non avevano ancora individuato chi lo aveva ucciso, ma a poco a poco scoprivano le trame di alcuni suoi colleghi per favorire gli stessi malavitosi che lui aveva messo sotto inchiesta, dirigendo un ufficio di magistrati giovanissimi. La sentenza per l’omicidio condannerà moralmente quei “magistrati inquinati”, perché con la loro «disponibilità» verso i malavitosi ne avrebbero rafforzato la motivazione ad uccidere Bruno Caccia, confidando che alla sua morte sarebbero subentrati i magistrati loro amici. Un giudizio severo, ma – come vedremo – per lo più senza conseguenze.
Ecco perché si può dire che eliminazione fisica di Bruno Caccia, (poiché non era certamente possibile influenzarlo in altro modo con le minacce né attraverso blandizie) finì per divenire necessaria secondo la parte criminale privata e quella pubblica collusa. Forse fu perché era stato vanamente tentato di “sondare il terreno” nei suoi confronti che una parte dei delinquenti organizzati insediati a Torino ed in Piemonte e collegati a quel gruppo di magistrati infedeli decisero di passare all’atto omicida. Sia pure a posteriori é quindi emerso con chiarezza che Bruno caccia fu assassinato sia per quello che aveva fatto, sia per quello che si temeva che avrebbe potuto ancora fare in una serie di delicate indagini in corso: come quella sui Casinò della Valle d’Aosta (collegati ad altri in Liguria come Sanremo e al confine svizzero come Campione d’Italia) ed ancora in altre delicate inchieste.
IL SABATO PRIMA...
Il sabato mattina 25 Giugno 1983 io ero in ufficio come quasi sempre. Mi incombevano, come giudice istruttore, le necessità di lavoro urgenti di chi si occupava di un processo di grandissima rilevanza sullo scandalo dei Petroli. Bruno Caccia, era ugualmente presente anche quel sabato, come sua costante abitudine. Ebbi quindi la possibilità di consultarlo e coinvolgerlo in un parere urgente in ordine alla necessità di emissione di un’importante e delicato mandato di cattura. Si trattava di un provvedimento urgente nei riguardi di altissimi ufficiali della Guardia di Finanza e di alcuni alti funzionari del ministero delle Finanze, nel settore delle Dogane e dell’ imposta di fabbricazione sugli oli minerali (petrolio). In questa occasione ebbe modo di mostrarmi alcuni appunti riservati. Queste annotazioni tra l’altro concernevano il comportamento di magistrati di cui alcuni del suo ufficio. Tra di essi, uno in particolare che aveva palesemente insabbiato alcune inchieste quando il settore di frode e corruzione nel contrabbando petrolifero era in piena espansione. In questa occasione volle parlarmi specificatamente in ordine ad un appunto da me inviatogli che conteneva una precisa denuncia nei confronti di questo magistrato. Costui aveva chiaramente tenuto un comportamento di copertura dei responsabili di frodi nello stesso settore dei Petroli. Inoltre poco tempo prima mi aveva inviato un biglietto di velate minacce verso di me (scritto di suo pugno); che, in più, rivelava indirettamente un suo costante contatto con un imprenditore, all’epoca latitante su mandato di cattura da me emesso per falso e contrabbando in oli minerali, nel processo dei petroli. Questi contatti illeciti furono poi provati e confessati nell’istruttoria del giudice istruttore di Milano a carico dello stresso magistrato torinese. La sera successiva Bruno Caccia fu assassinato davanti la sua abitazione.
Il PRIMO TENTATIVO DI DEPISTAGGIO
Bruno Caccia fu assassinato il 26 giugno 1983 mentre portava a passeggio il proprio cane; venne affiancato da una macchina con due uomini a bordo, che spararono numerosi colpi di arma da fuoco.
Sin da subito le indagini degli inquirenti presero la pista delle Brigate Rosse: infatti, mezz’ora dopo l’agguato, un uomo chiamò il centralino del quotidiano La Stampa: “Non capisco, stavo dormendo, è squillato il telefono. Un tale mi ha detto di avvertirvi subito e di dirvi che loro, le Brigate Rosse, hanno ucciso il dott. Bruno Caccia”.
Il mattino successivo due telefonate a quotidiani di Roma e alla sede RAI di Milano rivendicarono nuovamente l’attentato a nome delle BR. Tuttavia quindici giorni dopo l’omicidio, l’11 luglio 1983, le Brigate Rosse negarono ufficialmente di essere autrici del delitto: “Con la morte di Bruno Caccia noi non c’entriamo – dichiarò il brigatista Francesco Piccioni leggendo un comunicato nell’aula del carcere ‘Le Vallette’ di Torino -. Questo è un omicidio a cui purtroppo siamo estranei”.
LA RIPRESA DELLE INDAGINI A MILANO
Un mese dopo il delitto, il 26 luglio 1983, gli atti dell’inchiesta sull’omicidio furono trasferiti per competenza da Torino a Milano, dove il Procuratore capo Mauro Gresti assegnò il fascicolo ad un magistrato relativamente giovane.
Le indagini sull’omicidio segnarono il passo per circa un anno, durante il quale furono sentiti diversi frequentatori del casinò di Saint-Vincent, tra cui anche Rosario Cattafi. Questa pista di indagine non fu ritenuta valida nonostante alcuni testi e ufficiali di polizia giudiziaria l’avessero indicata esplicitamente
Il RUOLO DEI SERVIZI SICUREZZA ( SISDE)
Lo svolgimento delle indagini istruttorie dopo una lunga fase di stallo ebbe (dopo anni) un nuovo impulso da un intervento molto particolare. Un responsabile del centro torinese dei servizi segreti civili ( SISDE) si offrì di far agire come agente provocatorio all’interno del carcere di Torino un noto e importante mafioso catanese, Domenico “Ciccio” Miano. Questi risultava legato da rapporti di cooperazione criminale al gruppo mafioso calabrese impiantato da tempo a Torino: gruppo che poteva essere responsabile dell’omicidio. Lo scopo era quello di indurre a parlare dei fatti e delle motivazioni dell’omicidio il loro capo riconosciuto, Giuseppe Belfiore.
Francesco Miano fu incaricato di effettuare occultamente in carcere la registrazione di colloqui da lui intrattenuti con il boss ‘ndranghetista Domenico Belfiore, ugualmente detenuto nel carcere di Torino per altra causa.
Stando alle dichiarazioni di Miano e alle registrazioni dei suoi colloqui con Belfiore, quest’ultimo si sarebbe assunto la responsabilità di mandante dell’omicidio Caccia.
In seguito, e correlatamente a questa azione, a partire dal mese di luglio 1984, alcuni membri della criminalità organizzata in stato di detenzione iniziarono a rilasciare all’Autorità Giudiziaria una serie di dichiarazioni che indicavano elementi della malavita organizzata di origine calabrese come gli autori e mandanti dell’omicidio del procuratore Caccia. Mimmo Belfiore fu la persona che poi sarà il principale imputato condannato (e alla fine, l’unico; almeno fino a un’epoca recentissima) come mandante dell’assassinio. Questa impostazione dell’indagine risultò poi essere stata decisa e consentita dai magistrati inquirenti torinesi ( peraltro già non più formalmente competenti per questo delitto!) allo scopo di ottenere dei risultati altrimenti (secondo essi) non altrimenti conseguibili. Tuttavia questa scelta finì per inquinare (o almeno restringere) la ricerca della verità nello svolgimento processuale successivo, sia istruttorio, sia dibattimentale. Di fatto questo orientamento a senso unico non permise di arrivare a elementi di più ampia comprensione dei fatti e della responsabilità penale e morale di questo spietato assassinio mafioso.
IL CRIMINE ORGANIZZATO AL NORD, UNA REALTA’ GIA’ NEL 1970-1985
E’ necessario sottolineare che già negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta la criminalità organizzata operante a Torino faceva principalmente riferimento a due gruppi, distinti tra loro sulla base della provenienza geografica ma poi legati da comuni parziali interessi criminali.
Si trattava de “i catanesi (i cd cursoti)” e “i calabresi ndranghetisti”. Leader dei ‘catanesi’ è personaggio comunque di indiscusso prestigio, Francesco Miano, che si avvaleva – nella prevalente attività di commercio di sostanze stupefacenti – della collaborazione del fratello Roberto (…).
Il gruppo dei ‘calabresi’ – dedito in particolare ai sequestri di persona a scopo di estorsione – aveva al suo vertice Domenico Belfiore, con il fratello Giuseppe Belfiore e soprattutto con il cognato Placido Barresi, Mario Ursini e la ‘mente finanziaria’ del gruppo, Franco Gonella’. (…) Le attività dei due gruppi avevano numerosi punti di contatto. Le indagini condotte dall’Autorità Giudiziaria di Torino accertarono, ad esempio, il sostegno fornito dal gruppo dei ‘catanesi’ a quello dei ‘calabresi’ (e viceversa) per sfruttare ‘entrature’ nel mondo giudiziario e condizionare l’iter processuale di procedimenti penali riguardanti membri appartenenti ai due clan”
L’ABBANDONO DELLA PISTA DEI CASINO’
La pista dei casinò fu quindi completamente abbandonata .
La mafia messinese e quella di Barcellona Pozzo di Gotto cui risultava essere legato quel Rosario Pio Cattafi indicato nel rapporto del maggiore Bertella, non fu mai realmente coinvolta nelle indagini istruttorie e nemmeno nei successivi processi .
I processi che si celebrarono in seguito videro infatti solo la condanna definitiva di Domenico Belfiore quale mandante dell’omicidio. Il movente che spinse Domenico Belfiore a programmare l’omicidio del Procuratore Caccia fu identificato nella costante azione di contrasto che il magistrato esercitava nei confronti del gruppo criminale guidato da Belfiore. Tuttavia, nulla emerse durante i dibattimenti sui nomi degli esecutori dell’omicidio e su eventuali altri mandanti rimasti nell’ombra. (…) Nelle sentenze inerenti l’omicidio Caccia, solo poche pagine sono dedicate ad un possibile movente del delitto distinto da quello indicato a carico di Domenico Belfiore.
NUOVI ELEMENTI, DOPO 19 ANNI
Diciannove anni dopo la sentenza di condanna definitiva a carico di Belfiore, una intercettazione telefonica ruppe la coltre di silenzio calata sull’omicidio Caccia.
Nel 2011, infatti, furono depositati a Reggio Calabria gli atti relativi ad un’inchiesta in cui un magistrato, il dottor Olindo Canali, era indagato dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria per falsa testimonianza aggravata.
Nel fascicolo era presente un’intercettazione del dr. Canali poi confermata testimonialmente in giudizio nella quale egli faceva diretto riferimento, in merito all’omicidio Caccia, a Rosario Pio Cattafi.
Egli all’epoca dell’assassinio di Bruno Caccia era uditore giudiziario a Milano nell’ufficio del magistrato titolare delle indagini, Francesco Di Maggio.
A trent’anni dall’omicidio, quindi, i figli di Bruno Caccia, con il loro avvocato Fabio Repici, chiesero alla Procura di Milano di riaprire le indagini.
La famiglia tramite il suo difensore propose, con una dettagliata controinchiesta, l’ipotesi del coinvolgimento nell’omicidio del Procuratore Caccia della mafia catanese di Nitto Santapaola e dei suoi presunti colletti bianchi, che allora tentavano di riciclare nel casinò di Saint Vincent e altre case da gioco i guadagni dei loro traffici illeciti.
I nomi delle persone chiamate in causa dalla famiglia furono principalmente due: Rosario Pio Cattafi, identificato come ipotetico mandante dell’omicidio, e Demetrio “Luciano” Latella, quale ipotetico esecutore.
Secondo il legale della famiglia Caccia, Fabio Repici, il pm Francesco Di Maggio all’epoca avrebbe già “raccolto elementi indizianti ben significativi su soggetti diversi da quelli poi sottoposti a processo. (…) La rilevante mole di fonti probatorie relative a Rosario Cattafi, a uno dei presunti killer e al possibile movente del delitto rimase però del tutto trascurata. Su di essa fu omessa ogni valutazione, anche solo finalizzata a destituirla di fondamento“.
Per due volte, i procuratori della Direzione investigativa antimafia di di Milano iscrissero l’inchiesta tra gli atti “non costituenti notizia di reato”. Registro che proceduralmente non consente di svolgere se non delle limitate attività informative.
Le indagini quindi non avanzarono.
Solo nel 2015 e solo in seguito al deciso intervento del Procuratore generale reggente cui si erano rivolti i famigliari tramite il legale, i nomi di Cattafi e Latella furono infine iscritti nel registro degli indagati, con l’ipotesi di reato di concorso nell’omicidio del procuratore Bruno Caccia e vi fu una nuova spinta investigativa in generale che coinvolse anche la Squadra Mobile di Torino.
Infatti da alcuni mesi Giuseppe Belfiore era stato messo in detenzione domiciliare per gravi motivi salute e si trovava nella sua abitazione in provincia di Torino. Furono attivate intercettazioni ambientali, inizialmente senza esito.
Il 22 dicembre 2015, a sorpresa, il GIP di Milano dispose l’arresto di una persona diversa, con l’accusa di essere uno dei killer di Bruno Caccia.
Si trattava di un panettiere di origini calabresi, già coinvolto e condannato in processi per traffico di stupefacenti, Rocco Schirripa.
La squadra mobile di Torino, sotto la direzione dei magistrati milanesi titolari del fascicolo sull’omicidio, aveva infatti inviato a Schirripa e ad altri affiliati della cosca Belfiore (ma non ai due denunciati dalla famiglia, Rosario Cattafi e Demetrio Latella) una lettera anonima contenente ritagli del quotidiano La Stampa sull’omicidio Caccia e un foglio con la scritta: “Omicidio Caccia: se parlo andate tutti alle Vallette (il carcere di Torino, nda). Esecutori: Domenico Belfiore – Rocco Barca Schirripa. Mandanti: Placido Barresi, Giuseppe Belfiore, Sasà Belfiore”.
Questo stratagemma sollecitò i dialoghi tra i protagonisti destinatari della lettera, che furono contestualmente mantenuti sotto intercettazioni telefoniche e ambientali.
Da queste indagini emersero elementi solidi indiziari a carico di Schirripa che portarono al suo arresto.
Nel luglio 2017 Rocco Schirripa fu condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Bruno Caccia.
Il processo di appello, iniziato il 5 febbraio 2019, vide la richiesta di conferma della sentenza di primo grado.
Il 14 febbraio 2019 la Corte d’assise d’appello confermò la sentenza di condanna, per il reato di concorso in omicidio, a carico di Rocco Schirripa.
Un anno dopo la Cassazione rese definitiva la condanna di Rocco Schirripa che é attualmente tuttora detenuto.
UNA NUOVA INDAGINE ANCORA FORSE…
Nell’ottobre 2016, intanto, si era pentito il giovane ‘ndranghetista Domenico Agresta, rivelando nuovi elementi sull’omicidio Caccia
Il procuratore Caccia – secondo le dichiarazione del neopentito – non avrebbe voluto ascoltare le richieste della famiglia Belfiore di “aggiustare alcune indagini e processi” .
Per questo, Rocco Schirripa e Francesco D’Onofrio, un estremista di Prima Linea vicino alla cosca calabrese, l’avrebbero ucciso.
D’Onofrio venne così iscritto nel registro degli indagati per omicidio, fino a quando, scaduti i termini per approfondire le indagini, la Procura di Milano chiese l’archiviazione della posizione di D’Onofrio, cui seguì prontamente la richiesta di opposizione all’archiviazione da parte della famiglia Caccia.
A quel punto la Procura generale di Milano decise di avocare l’inchiesta a carico di Francesco D’Onofrio sull’omicidio del procuratore Bruno Caccia, poiché – venne scritto nel decreto di avocazione – era “mancata nel presente procedimento una reale attività di indagine”.
L’indagine preliminare risulta ad oggi essere ancora in corso.
RISULTATI ANCORA INSUFFICIENTI E PARZIALI
Questi primi nuovi risultati ( in sé certamente positivi) non hanno portato purtroppo alla possibilità di trovare prove nei confronti di altre persone pur indicate nelle ripetute denunce alla Procura di Milano della famiglia Caccia e del suo avvocato.
I magistrati milanesi incaricati della nuova inchiesta non ritennero mai che vi fossero sufficienti elementi: nemmeno per eseguire perquisizioni e intercettazioni telefoniche nei confronti di costoro.
Pertanto almeno al momento in cui si scrive non ci sono state nuove indagini né incriminazioni ulteriori possibili responsabili.
Mauro Vaudano. Magistrato in pensione. Giudice istruttore a Torino 1972-1988, poi come Procuratore della repubblica ad Aosta 1989-1994, come direttore dell'ufficio ministeriale Estradizioni e assistenza giudiziaria internazionale 1994 e membro ufficio studi del CSM 1995-1997, ed infine come Presidente del Tribunale distrettuale Piemonte e Valle di Aosta 1997-2001 con un breve periodo alla Corte di Cassazione nella seconda parte del 2001. Dal 2002 al 2010 ha assunto la funzione di consigliere giudiziario operazionale presso l'ufficio europeo antifrode (OLAF) a Bruxelles fino al pensionamento. Tra il 1986 e 1988 ha collaborato intensamente in delicate indagini di riciclaggio all'estero di finanze mafiose con Giovanni Falcone.
· Il mistero di Acca Larentia.
Acca Larentia, 7 gennaio 1978: una strage da non dimenticare. Alessio Buzzelli su Il Tempo il 07 gennaio 2022.
Sono le 18,30 del 7 gennaio 1978, fuori è già buio ormai da diverse ore. Cinque giovani escono da quella che allora era una delle sezioni romane del Movimento Sociale Italiano, in via di Acca Larenzia, quartiere Tuscolano, per fare un po’ di volantinaggio per il prossimo concerto della band «Gli amici del vento», uno dei pochi gruppi di musica alternativa «di destra» allora in circolazione. I cinque ragazzi facevano parte del Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del partito da cui bisognava partire – come del resto allora avveniva in ogni altro partito - se si voleva essere un «militante» degno di questo nome.
Dopo pochi secondi dall’uscita, una pioggia di proiettili travolge il gruppo di giovani; pallottole provenienti da armi automatiche, quelle che di solito non lasciano scampo. A fare fuoco un commando di cinque o sei persone, difficile contarle in mezzo a quel frastuono di spari ed urla. Uno dei giovani militanti, Franco Bigonzetti, 20 anni, iscritto al primo anno di Medicina e chirurgia, muore sul colpo. Altri tre militanti, due illesi e uno colpito ad un braccio, riescono miracolosamente a rientrare nella sede del MSI e a chiudere la porta alle loro spalle, sfuggendo agli assassini che ancora non sono andati via. Manca il quinto del gruppo, il diciottenne Francesco Ciavatta: non è a terra, fortunatamente, ma nemmeno con gli altri al sicuro all’interno della sede di partito. Francesco, infatti, è ancora in strada e sta cercando di fuggire disperatamente dai suoi assassini, correndo a perdifiato sulla scalinata che si arrampica di fianco alla sezione del partito. Ma una pallottola, l’ennesima sparata dal commando, lo raggiunge dritto alla schiena; morirà poco dopo in ambulanza. Due ragazzi, uno di venti e uno di diciotto anni, sono stati ammazzati per strada, a freddo. È chiaramente un agguato politico, come troppi ne avvenivano in quegli anni. Anni di piombo.
Le ore successive al doppio omicidio sono dense di sgomento e rabbia, in aumento man mano che la notizia correva lungo le strade della Capitale; alla spicciolata gruppi di persone si ritrovano fuori la sede del MSI fino a diventare una folla sempre più difficile da gestire. E infatti, con l’arrivo della Polizia, iniziano fatalmente gli scontri tra i militanti e le forze dell’ordine, perché il sangue versato quel giorno non era ancora stato abbastanza. Pugni, calci, bastoni, manganelli. Poi, spari di pistola. I primi in aria, l’ultimo si pianta nella fronte di Stefano Recchioni, diciotto anni, militante della sezione MSI di Colle Oppio e chitarrista del gruppo di musica alternativa Janus. Morirà anche lui dopo due giorni di agonia. Il colpo che uccise Recchioni è stato oggetto di numerose indagini e perizie balistiche nel corso degli anni, ma ancora oggi nessuno sa dire con certezza chi, quando e perché sparò il proiettile. Un «mistero», questo, che si aggiunge ad un altro, sempre riguardante la tragedia di Acca Larentia, anch’esso mai sciolto davvero: quello della mitraglietta Skorpion utilizzata dagli assassini durante l’agguato, rinvenuta nel 1988 in un covo delle Brigate Rosse a Milano. In seguito ad un’interpellanza parlamentare del 2013, si è scoperto che l’arma fu inizialmente acquistata legalmente nel 1971 da un famoso cantante italiano e poi rivenduta 6 anni dopo ad un commissario di Polizia, senza però riuscire a svelare come da lì arrivò nelle mani degli assassini.
La prima rivendicazione dell’attentato, invece, arriva qualche giorno dopo l’agguato, con il ritrovamento di una cassetta audio accanto ad una pompa di benzina, in cui una voce leggeva un comunicato a nome dei Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale e che si concludeva con la frase «abbiamo colpito duro e non certo a caso». Molto dopo, nel 1987, grazie alla confessione di una pentita, si arrivò finalmente ad individuare cinque responsabili per la strage di Acca Larentia, tutti militanti di Lotta Continua e tutti accusati per il duplice omicidio. Di quel giorno resta una targa commemorativa, il ricordo di tre giovani morti troppo presto e la speranza di essersi lasciati davvero alle spalle quegli anni terribili.
· Il mistero di Luca Attanasio.
(ANSA il 15 novembre 2022) - La Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di due dipendenti del Programma alimentare mondiale (Pam), agenzia dell'Onu, per la vicenda legata alla morte dell'ambasciatore italiano Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, uccisi in Congo il 22 febbraio dell'anno scorso.
Nei confronti di Rocco Leone e Mansour Luguru Rwagaza, il procuratore Francesco Lo Voi e l'aggiunto Sergio Colaiocco, contestano il reato di omicidio colposo. I due sono gli organizzatori della missione del nord del Paese africano durante il quale i due italiani furono uccisi.
I due indagati sono accusati di avere "attestato il falso, al fine di ottenere il permesso dagli uffici locali del Dipartimento di sicurezza dell'Onu, indicando nella richiesta di autorizzazione alla missione, al posto dei nominativi dell'ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci, - spiegò una nota della Procura quando furono chiuse le indagini - quelli di due dipendenti Pam così da indurre in errore gli uffici in ordine alla reale composizione del convoglio e ciò in quanto non avevano inoltrato la richiesta, come prescritto dai protocolli Onu, almeno 72 ore prima".
Una morte misteriosa aumenta i dubbi sull’uccisione di Luca Attanasio. LUCA ATTANASIO su Il Domani il 22 luglio 2022
Nella serata del 19 luglio è arrivata la notizia dell’uccisione di una delle persone che avrebbero preso parte all’agguato del 22 febbraio 2021 in cui sono stati uccisi l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo.
L’uomo ucciso si chiamava Mauziko Banyene (anche se sul nome non c’è totale certezza), ed è stato linciato dalla folla della zona di Mubambiro, alla periferia di Goma, Kivu del nord, perché considerato un crudele bandito.
Questa notizia rende ancora più ingarbugliata la lettura delle indagini sul drammatico agguato del 22 febbraio 2021, i cui progressi sembrano ancora destinati a sollevare dubbi più che ad alimentare certezze.
Nella serata del 19 luglio è arrivata la notizia dell’uccisione di un elemento del commando che, secondo gli inquirenti congolesi, avrebbe preso parte all’agguato del 22 febbraio 2021 in cui sono stati uccisi il nostro ambasciatore a Kinshasa, Luca Attanasio, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. L’uomo ucciso si chiamava Mauziko Banyene (anche se sul nome non c’è totale certezza), ed è stato linciato dalla folla della zona di Mubambiro, alla periferia di Goma, Kivu del nord, perché considerato un crudele bandito.
Banyene non era tra i cinque detenuti interrogati dai carabinieri dei Ros volati in Congo a inizio luglio perché, non è ancora chiaro sulla base di quale motivazione, era stato rilasciato qualche settimana fa e, a quanto risulta, avrebbe ripreso la sua attività estorsiva nella zona, incurante della polizia e degli abitanti che ne subivano le crudeli gesta.
GLI ARRESTI DI GENNAIO
Questa notizia rende ancora più ingarbugliata la lettura delle indagini sul drammatico agguato del 22 febbraio 2021, i cui progressi sembrano ancora destinati a sollevare dubbi più che ad alimentare certezze.
Aveva per esempio alimentato speranze la notizia che finalmente, dopo reiterate richieste italiane di collaborazione sistematicamente ignorate e due rogatorie cadute nel nulla, i carabinieri del Ros fossero stati invitati a Kinshasa per incontrare i loro colleghi congolesi e interrogare cinque dei sei uomini arrestati a gennaio scorso con l’accusa di essere il commando che ha effettuato l’agguato.
Al loro ritorno, in realtà, in attesa che le carte consegnate ai carabinieri e a disposizione della procura di Roma vengano tradotte dallo swahili, l’entusiasmo iniziale ha lasciato sempre più spazio alle perplessità. Le prime notizie riportate, infatti, darebbero per certa la versione sostenuta dalla magistratura congolese secondo cui i sei arrestati lo scorso gennaio e condotti ammanettati, scalzi, e seduti sul prato davanti al comando di polizia di Goma, sarebbero gli autori di uno dei più gravi attentati mai compiuti nella Repubblica Democratica del Congo.
Il comandante di polizia del Nord Kivu, generale Aba Van Ang, il 18 gennaio, convocata un’improvvisata conferenza stampa, ha dichiarato ai giornalisti presenti che quei sei erano «parte del commando che ha progettato ed eseguito l’agguato del 22 febbraio».
I nostri inquirenti volati in Congo avrebbero acquisito confessioni secondo cui i sei (ci sarebbe un settimo, soprannominato Aspirant, il cui nome sarebbe Amos Mutaka Kiduhaye, che risulta ancora latitante) quella mattina avrebbero atteso il primo convoglio di “bianchi” per eseguire una rapina. Sempre secondo la ricostruzione dei fatti avvenuta grazie ai colloqui con gli inquirenti congolesi e i cinque arrestati e la visione di filmati, il commando avrebbe atteso l’arrivo del convoglio e fermato le due macchine per richiedere una somma di circa 50mila dollari senza sapere che a bordo di uno dei veicoli viaggiava l’ambasciatore italiano.
RICOSTRUZIONE DUBBIA
I dubbi attorno a questa versione sono numerosi. Intanto le confessioni non sono affatto lineari, ci sono state varie ritrattazioni, la più clamorosa delle quali è quella di Marco Prince Nshimimana, che ha ammesso di aver fatto parte del commando ma non, a differenza delle accuse che gli sono state mosse, di essere stato lui a sparare e uccidere Attanasio e Iacovacci.
Dalla lettura delle carte del fascicolo chiuso dal procuratore Colaiocco a febbraio con l’iscrizione nel registro degli indagati dei funzionari del Pam Leone e Rwagaza per «omesse cautele» poi, risultano molte incongruenze rispetto alla ricostruzione presentata dalle autorità congolesi. Secondo le testimonianze raccolte e inserite nelle migliaia di pagine conservate dalla procura di Roma, infatti, risulta innanzitutto che il commando che avrebbe eseguito l’agguato fosse appostato nella zona, con armi adeguate a un’operazione più grande di una semplice rapina, da due giorni e che, un’ora prima circa dell’attentato, sullo stesso tratto di strada viaggiassero altri “bianchi” membri di una ong, che hanno proceduto indisturbati. Come mai non sono stati rapinati da un commando che attendeva qualcuno da rapinare da due giorni? È plausibile poi che un commando bene armato fosse lì appostato da 48 ore per una rapina che gli avrebbe fruttato 50mila dollari?
LO SCONTRO A FUOCO
Ci sono altri punti che suscitano perplessità e che attengono al momento dello scontro a fuoco. Una volta compreso che la somma richiesta non era disponibile, gli attentatori hanno intimato a tutti i componenti di scendere (tra questi anche l’italiano Rocco Leone, dirigente Pam dell’area Congo) e dirigersi verso il vicino parco del Virunga.
Nessuno del convoglio di cui faceva parte Attanasio era armato mentre i ranger del parco, accorsi sul luogo allertati dagli spari, non hanno aperto il fuoco contro gli attentatori. Non si capisce perché il commando a un certo punto ha deciso di sparare e colpire, peraltro, solo Attanasio e Iacovacci (Milambo era già stato ucciso), e non gli altri quattro componenti l’equipaggio, tra cui un “bianco”.
Secondo le perizie balistiche poi, i colpi sarebbero stati sparati dal basso verso l’alto, evenienza che porta a pensare a fuoco aperto da qualcuno appostato a terra che mirava a obiettivi precisi.
«Nulla ci porta a pensare – dichiara una fonte investigativa interna alla procura – che quanto ci dicono gli inquirenti congolesi sia incongruo. Possono esserci dei dubbi, ma non abbiamo elementi di prova che la versione sia contraria al vero. Nel caso di Regeni, ad esempio, ci sono state fornite ricostruzioni assolutamente incongruenti, impossibili. In questo caso, invece, possiamo avere dei dubbi, ma non dire che siano del tutto da escludere, non c’è incompatibilità».
Il fatto che finalmente sia stato concesso ai Ros di andare a Kinshasa e ottenere collaborazione dalle autorità politiche e giudiziarie è sicuramente un fatto positivo che arriva, però, dopo un anno e mezzo di tentativi falliti e indifferenza alle richieste italiane. «È comunque un successo per il nostro paese, per la procura di Roma e per la Farnesina – riprende la fonte – se si considera che la Repubblica Democratica del Congo tende a non collaborare neanche con paesi con cui ha legami storici e più saldi, come il Belgio o la Francia. Non usano proprio rispondere alle rogatorie, l’Italia in qualche modo è riuscita, quindi è un successo frutto dell’attenzione del governo. C’è stato un intervento del presidente Felix Tshisekedi che ha mostrato una precisa volontà di collaborare e condividere i risultati e tutto il materiale probatorio. Quello che ci aspettiamo è di capire se questo materiale raccolto sarà utilizzabile secondo i parametri dell’ordinamento italiano».
Nel frattempo il procuratore di Kinshasa ha promesso di inviare alla procura di Roma «a stretto giro come risposta alle rogatorie tutto il fascicolo delle indagini che ritengono chiuse» e si spera che entro «agosto siano stati tradotti gli atti e che arrivi per vie diplomatiche il fascicolo intero».
Per quanto riguarda il fascicolo chiuso a febbraio scorso da Colaiocco che iscriveva nel registro degli indagati i due dirigenti Pam Leone e Rwagaza per gravissime omissioni nei protocolli e falsificazione di documenti (i due continuano ad appellarsi alla immunità diplomatica), sono state presentate le memorie difensive e la procura conta «di arrivare a decisioni finali subito dopo l’estate: se le memorie ci avranno convinto procederemo all’archiviazione altrimenti ci sarà il rinvio a giudizio».
LUCA ATTANASIO
Giornalista, scrittore, collabora con La Stampa, Atlante (Treccani), Confronti, Agenzia Fides. Esperto di fenomeni migratori, geopolitica, Paesi dell’area Mena e Africa Subsahariana; Vaticanismo. Ha pubblicato vari testi, tra gli ultimi Se questa è una donna, Robin Edizioni, 2014; Libera Resistenza, Mincione Edizioni, marzo 2017; Il Bagaglio. Storie e numeri del fenomeno dei migranti minori non accompagnati (seconda edizione con contributo di Roberto Saviano), Albeggi Edizioni, settembre 2018.
Ucciso uno dei presunti killer dell'ambasciatore Attanasio: come cambiano le indagini. Mauro Indelicato su Il Giornale il 19 luglio 2022.
Uno dei presunti assassini di Luca Attanasio sarebbe stato ucciso dalla popolazione inferocita di una località di Goma, capoluogo del North Kivu. Il suo nome era Maunguniko e a gennaio era comparso in un video della polizia locale che lo ritraeva tra i sei sospettati arrestati per l'omicidio dell'ambasciatore italiano.
A ricostruire la vicenda è stato il giornalista congolese Justin Kabumba. Poche frasi scritte su Twitter che però hanno permesso di capire ancora qualcosa in più del contesto in cui si è svolta (e si sta svolgendo) la vicenda relativa alle indagini sulla morte di Attanasio.
“Presentato dalle forze dell'ordine congolesi come uno degli autori dell'omicidio di Attanasio – si legge sul canale Twitter di Kabumba – Maunguniko è stato ucciso domenica scorsa dalla popolazione di Sake, nei pressi di Goma. Questa popolazione lo ha accusato degli atti di rapimento degli abitanti sulla Sake Road”.
La notizia della morte del ragazzo è arrivata a pochi giorni dai nuovi sviluppi dell'indagine portata avanti dalla procura di Roma e dagli uomini del Ros dei Carabinieri. In particolare, i militari dell'arma avrebbero sentito almeno quattro dei sospettati. Tra questi non c'era Maunguniko. Il loro racconto è stato importante per scorgere luci e ombre sull'inchiesta congolese.
Per Kinshasa infatti il caso è chiuso. Attanasio, assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all'autista Mustapha Milambo, è stati vittima di un tentativo di rapimento lungo la N2, la strada che collega Goma a Rutshuru, operato da una banda di criminali che volevano chiedere un riscatto. Qualcosa è andato storto e un componente del gruppo, tale Marco Prince Nshimimana, ha ucciso il nostro ambasciatore, il carabiniere di scorta e l'autista.
Questa la versione congolese. A Roma però si vorrebbe vedere con maggior nitidezza l'intera vicenda. Sia perché, una volta interrogati dagli italiani, alcuni sospettati avrebbero in parte ritrattato le loro confessioni rese agli inquirenti congolesi. E sia perché sono ancora diversi gli aspetti da chiarire, a partire dal discorso relativo alla gestione non proprio lungimirante della sicurezza.
La morte di Maunguniko potrebbe aver aggiunto un altro tassello. Perché testimonierebbe l'esistenza di una banda operativa nella zona di Goma e dedita al rapimento di cittadini. Non che prima questa circostanza fosse un mistero. Il North Kivu è martoriato dalla presenza di bande comuni e gruppi terroristici che lo rendono uno dei mosti meno sicuri dell'intero continente africano.
Il fatto però che uno degli arrestati dalla polizia congolese fosse effettivamente implicato in rapine lungo le strade della regione, potrebbe dare un piccolo importante indizio anche agli investigatori italiani. Resta da capire però se realmente Maunguniko faceva parte della banda accusata dell'uccisione di Attanasio e se la mattina del 22 febbraio il ragazzo si trovava effettivamente nel lungo dell'agguato.
La banda, per la cronaca, secondo la polizia congolese era composta da sette persone. Sei arrestate, tra queste Maunguniko ucciso domenica a Sake. Poi risulta latitante il presunto capo del gruppo, soprannominato “Aspirant” e tuttora introvabile.
Omicidio Attanasio, il Ros lascia il Congo con 40 video sugli arrestati. FRANCESCA POLIZZI su Il Domani il 13 luglio 2022
Le autorità della Repubblica democratica del Congo (Rdc) hanno consegnato ai carabinieri del Ros un totale di 40 video relativi alle indagini svolte nel paese per l’omicidio dell’ambasciatore Luca Attanasio. A gennaio le autorità congolesi avevano annunciato l'arresto dei presunti autori dell'omicidio, ma non c’era stata un’immediata collaborazione con la procura di Roma
Il caso dell’omicidio dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci potrebbe essere a un punto di svolta. Si è conclusa la missione che ha portato i carabinieri del Ros nella Repubblica democratica del Congo. I carabinieri hanno ottenuto 40 video relativi ai sopralluoghi effettuati dagli investigatori sui luoghi oggetto di indagine e sulle attività svolte dalle persone arrestate. È stata inoltre consegnata agli inquirenti italiani una copia degli atti di indagine raccolti dalla magistratura congolese.
LA MISSIONE DEI CARABINIERI
Negli scorsi giorni, i carabinieri del Ros hanno potuto interrogare le cinque persone poste in stato di arresto dalle autorità congolesi.
Questa nuova missione arriva dopo le prime che, effettuate nel periodo immediatamente successivo all’omicidio, avevano ottenuto pochi esiti a causa della scarsa collaborazione degli organi congolesi. Infatti, le reiterate richieste e rogatorie da parte delle autorità italiane erano rimaste inascoltate.
LE INDAGINI
A giugno la giustizia italiana ha aperto un’indagine contro un funzionario congolese del Pam che, stando a quanto riferito, si era occupato della verifica delle misure di sicurezza della spedizione. A gennaio le autorità congolesi avevano annunciato l’arresto dei presunti autori dell'omicidio, presentati come probabili membri del gruppo armato ribelle Balume Bakulu.
Dopo quell’annuncio, a procura di Roma aveva fatto richiesta di acquisire i verbali delle dichiarazioni rese dagli arrestati per esaminarli e verificare le eventuali responsabilità, sulle quali gravano dubbi riguardo a mandanti, esecutori e movente.
DOVEVA ESSERE UN RAPIMENTO
La non immediata collaborazione da parte delle autorità congolesi era stata motivata dal governatore militare del Nord Kivu, il generale Ndima Constant, come un bisogno di più tempo per «investigare su chi ha partecipato all’assassinio», come ha detto in un’intervista rilasciata all’agenzia Nova. Ha anche chiesto «più tempo per scavare ulteriormente in direzione di prove confermate».
Secondo quanto riferito in una conferenza stampa dal comandante provinciale della polizia, Aba van ang Xavier, il nome dell’uomo sospettato di aver sparato a Luca Attanasio è Aspirant. Il comandante riporta che, quando Aspirant ha sparato all’ambasciatore, gli altri membri della banda «si sono molto dispiaciuti» perché le loro intenzioni prevedevano il rapimento del diplomatico per chiedere in cambio un milione di dollari per il rilascio.
LA VICENDA
L’accaduto risale al 22 febbraio 2021, quando l’ambasciatore Luca Attanasio, 43 anni, è morto dopo essere stato colpito da colpi di arma da fuoco. Attanasio viaggiava su un convoglio del programma alimentare mondiale ed è caduto in un’imboscata a nord di Goma, alla periferia del parco nazionale di Virunga.
Nell’agguato sono morti anche la guardia del corpo italiana dell’ambasciatore, il carabiniere Vittorio Iacovacci, e l’autista congolese del Pam, Mustapha Milambo. FRANCESCA POLIZZI
Delitto Attanasio, i 5 sospettati: non sapevamo che c’era l’ambasciatore, puntavamo a un sequestro per soldi. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 14 Luglio 2022.
La Procura di Roma interroga i membri della gang arrestati in Congo, che hanno causato la morte dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, quella del carabiniere Luca Iacovacci e del loro autista Mustafa Milambo. La banda è stata arrestata dopo un altro sequestro, andato a buon fine.
I banditi che il 22 febbraio 2021 hanno rapito e ucciso l’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, non sapevano di aver assaltato un convoglio diplomatico.
Volevano fare un «semplice» sequestro a scopo di estorsione, e aspettavano le prime vittime «bianche» lungo la Route nationale 2, al confine con Uganda, Ruanda e Burundi, com’era accaduto in altre occasioni. Il colore della pelle indica prede più ricche, turisti o cooperanti che siano.
Poi però il sequestro che doveva essere «lampo» — il tempo di chiedere e ottenere il riscatto — s’è trasformato in triplice omicidio: l’autista Mustafa Milambo ucciso sul luogo dell’agguato, Attanasio e Iacovacci nella foresta, nel conflitto a fuoco con le guardie locali.
È la sintesi delle confessioni di cinque predatori arrestati un anno fa e ritenuti responsabili dalla Procura militare di Kinsasha. Per il Congo il caso è chiuso, grazie anche alle ammissioni dei presunti colpevoli; per la Procura di Roma che procede in parallelo ancora no. Gli atti trasmessi e quelli compiuti dai carabinieri del Ros che nei giorni scorsi, durante una missione, hanno riascoltato gli arrestati assistiti da un avvocato, presentano molti aspetti da valutare; a partire dalle parziali ritrattazioni dei cinque di ciò che avevano detto ai magistrati del loro Paese.
Il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco non ha ancora deciso se iscrivere i loro nomi sul registro degli indagati, proprio perché le deposizioni raccolte dagli investigatori italiani (le uniche valide secondo il nostro codice, giacché quelle rese ai congolesi senza difensore non lo sono) risultano molto più sfumate rispetto a quanto riferito ai congolesi.
I cinque attualmente in carcere a Kinshasa farebbero parte di un commando di sette persone guidato da Amos Mutaka Kiduhaye, chiamato anche «Aspirant», tuttora latitante. Sarebbe lui il regista dell’agguato; obiettivo: un riscatto da un milione di dollari. Tuttavia, dal racconto delle vittime sopravvissute agli inquirenti italiani è emerso che sul momento i banditi chiesero 50.000 dollari che però Attanasio e gli altri non avevano; di lì la decisione del sequestro e la fuga nel bosco dove successivamente c’è stata la sparatoria con i rangers. L’ha detto Mansour Rwagaza, il collaborare del il Pam (Programma alimentare mondiale) delle Nazioni unite che aveva organizzato il viaggio dell’ambasciatore.
Secondo le confessioni degli arrestati, il commando agiva con una tecnica ben sperimentata: due «vedette» a bordo di moto attendevano lungo la strada il passaggio di possibili vittime, le seguivano per un tratto e avvisavano i complici appostati più avanti.
Così sarebbe andata anche la mattina del 22 luglio quando due giovani congolesi, Issa Seba Nyani e Amidu Sembinja Babu, si sono messi sulle tracce delle due auto con a bordo Attanasio, Iacovacci, il vicedirettore del Pam in Congo Rocco Leone e altre tre persone. Hanno avvertito «Aspirant», che alla vista del convoglio è uscito dalla boscaglia insieme ad altri due complici, Marco Prince Nshimimana e Bahati Kiboko.
Hanno fermato le macchine armati di kalashnikov: Nshimimana davanti alla prima intimando l’alt, Kiboko dietro la seconda per bloccare un eventuale tentativo di fuga.
Saltata l’estorsione è cominciata la fuga, fino allo scontro a fuoco con militari e guardiaparco, nel quale i banditi hanno colpito Attanasio e Iacovacci. Secondo la ricostruzione congolese l’assassino sarebbe Marco Prince Nshimimana, che però ha ammesso la partecipazione all’agguato ma non l’uccisione delle due vittime italiane.
Ora la Procura di Roma valuterà il materiale investigativo arrivato da Kinshasa, confrontando tutte le deposizioni e compiendo ulteriori indagini. La polizia congolese ha realizzato e trasmesso in Italia anche una quarantina di video con le registrazioni dei sopralluoghi sulla scena dei crimini (agguato e omicidi) e dei pedinamenti dei sospettati prima della loro cattura, avvenuta indagando su un altro sequestro — andato a buon fine, nel maggio 2021 — ai danni di un imprenditore locale. In uno di questi video si vedono i presunti colpevoli riuniti a cena, circostanza ritenuta rilevante perché alcuni di loro avevano negato di conoscersi.
A Roma è arrivato anche il telefono satellitare di Iacovacci, trovato sul luogo del delitto, oltre al cellulare e due schede telefoniche di uno dei cinque arrestati, che verranno esaminati dagli investigatori italiani. Gli accertamenti a carico dei sospettati congolesi, che in patria rischiano comunque il processo, sono scollegati dal procedimento per omicidio colposo (dovuto alle mancate precauzioni nell’organizzazione della missione) a carico di Rocco Leone e Mansour Rwagaza per i quali, dopo l’estate, è attesa la richiesta di rinvio a giudizio.
Luca Attanasio: dubbi, misteri e omissioni sulla morte dell’ambasciatore in Congo. LUCA ATTANASIO su Il Domani l'11 aprile 2022
Lo scorso 8 febbraio è stato chiuso il fascicolo d’indagine aperto a Roma sull’uccisione dell’ambasciatore e del carabiniere Iacovacci.
Dalle carte emerge la notizia di alcuni arresti misteriosi e di piste mai approfondite. A pesare è anche la scarsa collaborazione delle autorità congolesi.
Nonostante due viaggi in Italia del presidente Tshisekedi si ancora troppo poco. Resta adesso da vedere se l’arrivo a Kinshasa di Alberto Petrangeli, nuovo ambasciatore presso la Repubblica Democratica del Congo, potrà segnare un cambio di tendenza.
LUCA ATTANASIO. Giornalista, scrittore, collabora con La Stampa, Atlante (Treccani), Confronti, Agenzia Fides. Esperto di fenomeni migratori, geopolitica, Paesi dell’area Mena e Africa Subsahariana; Vaticanismo. Ha pubblicato vari testi, tra gli ultimi Se questa è una donna, Robin Edizioni, 2014; Libera Resistenza, Mincione Edizioni, marzo 2017; Il Bagaglio. Storie e numeri del fenomeno dei migranti minori non accompagnati (seconda edizione con contributo di Roberto Saviano), Albeggi Edizioni, settembre 2018. La sua pagina:lucaattanasio.com
La lettera inedita del giovane Attanasio. Luca Attanasio il 16 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Nel 2000 scriveva a se stesso: "Sii strumento di pace, fai del bene per gli altri".
Caro Luca, come va?
Lo so. So che sei un bel po' stanco... il lavoro, il voler stare coi tuoi amici e far sempre tardi. Vabbe', avrai modo, forse un giorno, di riposare il corpo e la mente. Ma il tuo cuore? Dove ti sta portando? Verso dove viaggia? Te lo chiedo perché non mi sembra che tu abbia le idee chiare in merito. Ti vedo un po' perso e un po' frenetico. Stai diventando un uomo. Ma che uomo. Freddo e menefreghista? Sarà poi vero o è il momento? Lotta per ciò che vuoi. Non lo fai mai. Ti rassegni. Perché non ti accendi ed illumini chi ti sta intorno? Perché non ti lanci verso chi avrebbe realmente bisogno di qualche gesto di affetto? Non sei capace di fermarti, né di ascoltare, ascoltare te e gli altri. Mi sembra che tu vuoi essere sempre al centro dell'attenzione, forse un po' meno di qualche anno fa, ma sei ancora troppo preso da te stesso. Tant'è che non sai dar valore al bene fatto dagli altri. La tua riconoscenza spesso è insipida, passeggera, fatta solo di parole. Forse fai lo stesso anche con Gesù. Non provi ammirazione? Sì, ma a parole. Caspita! E poi ti fermi lì. Hai sempre un «sì, però...», pronto a farti passare sempre a qualche altra cosa. Ti distrai. E sono le cose meno serie, le più stupide a distrarti. Quanto sei preso dal tuo apparire, dal tuo essere un qualcosa che gli altri possano ammirare. Ma non ti fai schifo? Reciti per una ricompensa. Ma Gesù ha detto che non devi cercare la ricompensa delle tue azioni sulla terra. Nascondi, dietro l'umiltà, ogni tuo gesto di bontà. Fuggi dall'IPOCRISIA. Ma ami veramente il Signore? Sì? Cosa hai fatto per lui? A cosa hai rinunciato per lui? Sei un uomo che ha paura di solcare il mare in burrasca perché sei troppo attaccato alla tua vita, quella stessa vita che ti è stata data dalle mani di Dio. Sei troppo attaccato alle cose comode e belle. Alla vita comoda e bella che Dio ti ha regalato. Ma usa questa vita! Porta serena allegria. Forse per Dio non hai mai rinunciato a niente. O forse sì. In tal caso speriamo che LUI abbia una memoria (più grande) e migliore della tua e della mia. So che vuoi studiare, imparare e fare tanto bene agli altri. Ma devi capire bene in che modo. Tu credi di imparare a conoscere come ci si comporta in questo mondo e in particolare nel mondo degli affari per poi fare del bene immenso alle persone. Ma temo due cose: che ti attiri molto il guadagnare bene, l'essere ricco. Ma ancor di più l'essere ammirato ed apprezzato per il bene che fai. Chiedo scusa, chiedo perdono a Dio. Ma è così. Sappi che è così e vergognatene. Tu non ti accontenti di fare le cose in piccolo. Vuoi gratificarti per il successo di un qualcosa di grande. Vuoi creare una comunità, un'organizzazione o non so che altro per aiutare gli altri. Io spero che ce la farai. Spero soprattutto che ti resti la voglia di fare del bene. Non ti attaccare ai beni materiali. Non vanno molto d'accordo con le idee che hai di fratellanza. Sii strumento di pace. Fai del bene per gli altri. O meglio, vivi facendo del bene, sacrificando la tua comodità, per gli altri? No! E allora sei un chiacchierone. E Dio? Non entri realmente in contatto con lui. Egli è anche negli altri. Ma c'è anche lui. Dedicagli più tempo. Ama perché tutto ciò che fai per puro amore, con cuore disinteressato, è sicuramente giusto. Ama, senza riserve, dando il meglio di te. Dio ti ama. Dio ama e non giudica. Legge il tuo amore dalle labbra del tuo cuore. Impara a parlare d'amore. Impara ad ascoltare, anzitutto.
Questo è il primo passo. Non ti affannare per voler apparire il migliore. Perché ti affanni? Certo, impegnati e dai il meglio di te in tutto. In tutto però. Non solo nelle cose che ti vengono più comode. Ti voglio bene. Luca Attanasio
Da “Oggi” il 24 febbraio 2022.
«Luca non è morto per caso, è stata un’esecuzione». Salvatore Attanasio, padre dell’ambasciatore italiano, Luca Attanasio, 43, ucciso in Congo in un agguato il 22 febbraio 2021 rilancia il sospetto.
Nell’intervista rilasciata al settimanale OGGI, in edicola da giovedì 24 febbraio, Attanasio ipotizza il movente della morte del figlio: «In quella zona ci sono risorse preziose, si parla di fosse comuni.
Forse Luca aveva scoperto qualcosa che non doveva sapere. E mio figlio non era uno che girava la testa di là».
Poi elenca e tenta di ricollocare i pezzi del puzzle della vicenda che non trovano risposta. E lancia un’accusa che coinvolge anche i vertici dello Stato Italiano: «Nessuno ha compiuto un gesto fondamentale: presentare un’interrogazione alle Nazioni Unite sull’operato di una loro agenzia».
Valentina Errante per "Il Messaggero" il 22 febbraio 2022.
«Era un fatto privato. È la sua vita insomma, aveva scelto dove andare», così la moglie di Rocco Leone, vicedirettore del Pam nella Repubblica democratica del Congo, indagato per non avere protetto né informato l'ambasciatore Luca Attanasio dei concreti rischi del viaggio nel quale è stato ucciso, commentava il 27 febbraio scorso al telefono con un'amica.
Esattamente un anno fa, in quella trasferta Attanasio rimase vittima di un agguato insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci, che per quella missione aveva chiesto un'auto blindata, che non è mai stata consegnata e all'autista Mustafà Milambo a Goma.
È quanto emerge dagli atti della procura di Roma che ha chiuso le indagini, accusando Leone e il responsabile della sicurezza del Pam, Mansour Rwagaza di omicidio colposo e omesse cautele.
Leone sostituì il nome dell'ambasciatore con quello di un funzionario del Pam per evitare la lunga procedura che avrebbe di fatto bloccato la visita nella scuola. Un progetto per il quale l'Italia avrebbe dato un contributo al Programma di un milione di dollari.
È stato il carabiniere Luigi Arilli, anche lui in missione nella Repubblica democratica del Congo, a riferire di avere sentito quando il collega ha chiamato Mansour con il suo cellulare congolese: «Ho assistito io alla conversazione, perché ci trovavamo insieme nella stessa stanza. Durante la telefonata, dopo essersi presentato, Iacovacci ha chiesto a Mansour informazioni sulle misure di sicurezza che sarebbero state predisposte nel corso della missione e in particolare se sarebbe stato utilizzato un veicolo blindato per trasportare l'Ambasciatore».
E aggiunge: «Mansour garantiva la presenza di autovetture blindate, ma fornite da altri organismi, perché il Pam non ne aveva di proprie, almeno da quello che ho capito. Mansour riferiva che anche i dispositivi di protezione individuale sarebbero stati forniti da altri organismi. Per dispositivi di protezione individuale intendo i giubbetti antiproiettile».
Arilli ha riferito a verbale al Ros, che ha condotto le indagini, coordinate dall'aggiunto Sergio Colaiocco, che Iacovacci aveva anche chiesto informazioni generali sulla sicurezza nella zona «Mansour gli ha risposto che si sarebbe svolto un briefing sulla sicurezza, subito dopo l'arrivo a Goma. Il 19 febbraio. Da parte nostra, non sono state chieste informazioni sull'eventuale presenza di scorte armate».
È invece il direttore del World food program, che all'epoca dell'omicidio aveva il Covid ed era sostituito da Leone, a riferire ai militari che l'Italia avrebbe dato un consistente contributo al programma: «Sono arrivato nella RDC il 15 gennaio 2021 ma il 19 sono risultato positivo al Covid, quindi ho potuto presentare le credenziali solo l'8 febbraio.
Qualche giorno dopo il mio vicario, Rocco Leone mi ha parlato di un contributo italiano di un milione di dollari e mi ha riferito che ci sarebbe stato un viaggio con il defunto ambasciatore Attanasio e qualche giorno dopo ho dato il via libera firmando l'ordine di missione, la mia conoscenza della visita è avvenuta 2-3 giorni prima della partenza della missione».
Di fatto, in base alle indagini, è stata intenzionalmente omessa la richiesta di security briefing a Monusco (Cioè all'Onu) e il nome dell'Ambasciatore nella richiesta di security clearance al dipartimento sicurezza Concludono i carabinieri del Ros in un'informativa: «Dunque, l'insieme di queste omissioni di procedure tutte accomunate dalla finalità di coinvolgere nel processo di SRM, fa ritenere esse siano state intenzionali, volte a salvaguardare lo svolgimento della missione dei tempi previsti.
Da questo punto di vista, l'unica persona che aveva interesse a che la missione venisse svolta, per soddisfare la richiesta dell'ambasciatore italiano, era Rocco Leone, il quale, preso l'impegno, aveva l'esigenza di mantenerlo.
Le procedure, quindi non vennero rispettate salvare la missione, «attraverso l'omissione della comunicazione a Monusco e, in generale, di qualunque informazione che riguardasse la presenza dell'ambasciatore italiano nella missione, cosa che avrebbe dato avvio a una rivalutazione del rischio con il conseguente rischio di cancellazione della missione stessa».
Il tempo stringeva e la presenza di un diplomatico italiano avrebbe richiesto valutazioni più approfondite. È sempre Paola Colli, la moglie di Leone intercettata che commenta con le amiche l'agguato: «Ha detto Rocco, non era pericolosa, cioè è pericolosa in assoluto, ma relativamente a com'è il Congo no! E allora non dovevano andà in Congo allora. Non dovevano mettere piede nel Paese per stare sicuri, hai capito?».
L'amica chiede come mai non ci fosse una scorta e se l'epilogo di questa vicenda potesse in qualche modo avere eventuali ripercussioni sull'impiego professionale del marito Rocco: «Ieri era preoccupato anche per quello poi mi ha detto: no, meno male che hanno guardato tutto, è stato fatto tutto secondo le regole, secondo le procedure». E invece Leone, proprio in quei giorni, si era sottratto all'interrogatorio del Ros, fingendo di essere in ospedale.
(ANSA il 9 febbraio 2022) - Due dipendenti del Programma alimentare mondiale (Pam), agenzia dell'Onu, rischiano di finire sotto processo per la vicenda dell'ambasciatore italiano Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, uccisi in Congo il 22 febbraio dell'anno scorso.
La Procura di Roma ha chiuso le indagini, atto che precede la richiesta di rinvio a giudizio. I due, organizzatori della missione nel nord del Paese africano, sono accusati di omicidio colposo.
Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, coordinati da Francesco Lo Voi e Sergio Colaiocco, i due dipendenti del Pam, Rocco Leone e Mansour Luguru Rwagaza, avrebbero "omesso, per negligenza, imprudenza e imperizia - è detto in una nota della Procura - secondo la ricostruzione effettuata allo stato, che risulta in linea con gli esiti dell'inchiesta interna all'Onu, ogni cautela idonea a tutelare l'integrità fisica dei partecipanti alla missione Pam che percorreva la strada Rn2 sulla quale, negli ultimi anni, vi erano stati almeno una ventina di conflitti a fuoco tra gruppi criminali ed esercito regolare".
(ANSA il 9 febbraio 2022) - I due indagati dalla Procura di Roma, nell'ambito dell'omicidio dell'ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, sono accusati di avere "attestato il falso, al fine di ottenere il permesso dagli uffici locali del Dipartimento di sicurezza dell'Onu, indicando nella richiesta di autorizzazione alla missione, al posto dei nominativi dell'ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci, - è detto in una nota della Procura - quelli di due dipendenti Pam così da indurre in errore gli uffici in ordine alla reale composizione del convoglio e ciò in quanto non avevano inoltrato la richiesta, come prescritto dai protocolli Onu, almeno 72 ore prima".
Per i magistrati di piazzale Clodio i dipendenti del Pam avrebbero anche "omesso, in violazione dei protocolli Onu, di informare cinque giorni prima del viaggio, la missione di pace Monusco che è preposta a fornire indicazioni specifiche in materia di sicurezza informando gli organizzatori della missione dei rischi connessi e fornendo indicazioni sulle cautele da adottare (come una scorta armata e veicoli corazzati)".
E ancora: "avrebbero omesso di predisporre le cautele richieste dalla classificazione di rischio attribuita al percorso da effettuare che, pur avendo dei tratti classificati verdi cioè a basso rischio, aveva anche delle parti classificate gialle, cioè a rischio medio che avrebbero imposto di indossare, o avere prontamente reperibile il casco e il giubbotto antiproiettili".
I due inoltre avrebbero omesso "in presenza di un ambasciatore, che rappresentando il proprio Paese, costituisce soggetto particolarmente a rischio, e dopo aver dato assicurazioni al carabiniere Iacovacci, a seguito delle sue richieste, di poter usufruire di veicoli blindati (che il Pam aveva in dotazione a Goma), che le misure di sicurezza base sarebbero state incrementate, di approntare ogni utile ulteriore misura di mitigazione del rischio".
Le indagini proseguono infine per quanto riguarda il reato di sequestro di persona a scopo di terrorismo e sono "finalizzate ad identificare i componenti del gruppo di fuoco, anche attraverso le due rogatorie già inoltrate alle autorità della Repubblica democratica del Congo".
(ANSA il 9 febbraio 2022) - "Mi sarei stupito del contrario. Ci auguriamo che sia il primo passo verso la verità, perché senza verità non c'è giustizia". Così, raggiunto dall'ANSA, Salvatore Attanasio, padre di Luca, l'ambasciatore italiano in Congo ucciso il 22 febbraio 2021 nel corso di un agguato assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all'autista Mustapha Milambo, ha commentato la notizia della chiusura delle indagini della Procura di Roma e il probabile rinvio a giudizio per i due dipendenti del Pam (il Programma Alimentare Mondiale) dell'Onu, Rocco Leone e Mansour Luguru Rwagaza.
Per l'omicidio Attanasio l'Onu è sotto inchiesta. Fausto Biloslavo su Il Giornale il 10 febbraio 2022.
I funzionari del Programma alimentare mondiale, costola dell'Onu, non hanno rispettato le norme di sicurezza, che avrebbero potuto salvare il nostro ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere di scorta, Vittorio Iacovacci e l'autista congolese Mustapha Milambo. La procura di Roma ha indagato, nell'ambito della mortale imboscata, l'italiano Rocco Leone, numero due del Pam in Congo e Mansour Luguru Rwagaza responsabile della sicurezza del Programma alimentare. Il convoglio della morte era partito da Goma la mattina del 22 febbraio 2021 e un'ora dopo è finito in un agguato. L'autista è stato ucciso subito e l'ambasciatore con il carabiniere sono stati portati via dai rapitori, ma hanno perso la vita poco dopo durante il conflitto a fuoco con i ranger del parco Virunga intervenuti per sventare il sequestro.
Una nota della procura rivela che Leone e Rwagaza sono accusati di avere «attestato il falso, al fine di ottenere il permesso dagli uffici locali del Dipartimento di sicurezza dell'Onu, indicando nella richiesta di autorizzazione alla missione, al posto dei nominativi dell'ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci quelli di due dipendenti Pam così da indurre in errore gli uffici in ordine alla reale composizione del convoglio e ciò in quanto non avevano inoltrato la richiesta, come prescritto dai protocolli Onu, almeno 72 ore prima». In pratica non avevano fatto in tempo ad avvisare i caschi blu della missione Monusco, che potevano garantire una scorta armata e mezzi blindati. Gli inquirenti sottolineano che i due dipendenti Onu hanno omesso anche di «predisporre le cautele richieste dalla classificazione di rischio attribuita al percorso da effettuare () che avrebbero imposto di indossare, o avere prontamente reperibili, il casco (elmetto nda) ed il giubbotto antiproiettile».
Ancora più gravi le promesse non mantenute «in presenza di un ambasciatore che, rappresentando il proprio Paese, costituisce soggetto particolarmente a rischio, e dopo aver dato assicurazioni al carabiniere lacovacci, a seguito delle sue richieste, di poter usufruire di veicoli blindati (che il Pam aveva in dotazione a Goma), - si legge nella nota - che le misure di sicurezza base sarebbero state incrementate».
La Procura continua le indagini sull'agguato per sequestro di persona a scopo di terrorismo «finalizzate ad identificare i componenti del gruppo di fuoco, anche attraverso le due rogatorie già inoltrate alla Repubblica democratica del Congo». Il 19 gennaio la polizia di Goma aveva annunciato l'arresto di due membri della banda, ma dei loro interrogatori e verbali non si è saputo più nulla.
«Auspico che nessuno si sottragga alle proprie responsabilità e che il Pam non ostacoli in alcun modo lo svolgimento di un giusto processo nel Paese per cui Luca e Vittorio hanno sacrificato le loro giovani vite» ha dichiarato a caldo, Zakia Seddiki, la moglie dell'ambasciatore Attanasio. I legali del Pam avevano già alzato come scudo un'inesistente immunità diplomatica in Italia. «É emerso che la morte di mio marito non si sarebbe verificata se il Pam, come era suo obbligo fare, avesse gestito in modo scrupoloso e adeguato la sicurezza della missione» ribadisce la moglie.
Il padre di Attanasio, Salvatore, che fin dall'inizio ha puntato il dito contro l'Onu commenta così le notizie della Procura: «Mi sarei stupito del contrario. Ci auguriamo che sia il primo passo verso la verità, perché senza verità non c'è giustizia».
Attanasio, un anno dopo: "Ucciso per 50mila dollari". Ma il padre non ci crede. Patricia Tagliaferri il 22 Febbraio 2022 su Il Giornale.
La moglie: "«Quel giorno dovevo essere con lui". Il fratello del carabiniere morto: "Servono risposte".
Alla storia del rapimento finito male non crede. Neppure ora che dalle carte dell'indagine della Procura di Roma emergono i dettagli sull'omicidio dell'ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, uccisi per non aver dato ai banditi i 50mila dollari che chiedevano per lasciarli passare.
Il padre del diplomatico, Salvatore, nel giorno della commemorazione del figlio, a un anno dalla scomparsa, non si dà pace. La conclusione dell'inchiesta non lo convince: non è stato un rapimento andato storto. «Ci sono tantissime cose che non quadrano», dice. Per i pm, invece, sarebbe andata proprio così: il 22 febbraio del 2021 i balordi che assaltarono il convoglio Onu su cui viaggiava Attanasio in Congo chiesero la consegna immediata del denaro, che l'ambasciatore non aveva con sé. Il rifiuto avrebbe scatenato il conflitto a fuoco in cui persero la vita il diplomatico e la sua scorta. Una tragedia che, per i magistrati, si sarebbe potuta evitare se fossero stati rispettati i protocolli di sicurezza della missione. Per questo sono stati indagati per omicidio colposo Rocco Leone, vicedirettore del Pam, il programma alimentare dell'Onu, e il suo collaboratore Mansour Rwagaza. Il padre di Attanasio lo considera «un primo passo», ma aspetta ulteriori sviluppi: «È un cerchio che via via si stringe. Vediamo quanti pesci nella rete resteranno impigliati». «Finché non ci sarà verità e non ci sarà giustizia, noi non avremo pace», dice. Attanasio ha fiducia nella giustizia e si augura che «il sostegno delle istituzioni continui perché senza l'aiuto del governo anche i magistrati possono fare poco». Un dolore immenso, quello della famiglia Attanasio: «Per noi tutti i giorni sono come il primo giorno, il dolore è sempre uguale. Anzi, a volte non ci rendiamo conto di quello che è successo». Solo per un caso - come emerge ora dal libro del giornalista Fabio Marchese Ragona - il giorno dell'agguato la moglie dell'ambasciatore, Zakia Seddiki, non era con lui. «Dovevo essere insieme a Luca - rivela - ma questa volta per via di una coincidenza, mia mamma che non poteva tenere le bambine, ero stata costretta a rimanere a Kinshasa. Era una mattina normalissima, avevo preparato le bimbe e le stavo accompagnando a scuola in macchina. Sapevo che Luca aveva in programma di fare una visita al progetto Pam riguardante le mense scolastiche e che era sempre con Vittorio. Aveva chiamato sua mamma per un saluto e poi me». Di lì a poco l'assalto mortale. E ora il vuoto che cerca di superare portando avanti il messaggio del marito: credere nei sogni e nell'umanità. Con le tre figlie al fianco. «Chiedono sempre del papà, ma lui ci darà la forza di superare la sua mancanza», dice. Un dolore condiviso con la famiglia Iacovacci: «È forte come il primo giorno, mentre aumentano la consapevolezza che nulla sarà come prima e l'esigenza di avere risposte», afferma il fratello del carabiniere ucciso, Dario. Patricia Tagliaferri
«In Congo fu un atto politico contro l’Italia». Diego Motta su Avvenire il 10 febbraio 2022.
«La morte di mio figlio non può essere letta come un semplice fatto di cronaca. Luca era un ambasciatore e la sua uccisione è stata un atto politico contro lo Stato italiano». Salvatore Attanasio custodisce da quasi un anno la memoria del massacro avvenuto in Congo. Non ha mai creduto alle notizie sugli arresti dei presunti responsabili effettuati a Goma e ha sempre individuato nel comportamento del Pam, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, la causa di quanto è accaduto. L’inchiesta della Procura di Roma è finalmente «un primo passo verso la verità – dice –. Ora ne serviranno altri».
Quali?
Mio figlio si trovava nel nord Kivu, quel giorno, su invito del Pam. La lettera di viaggio per quella missione era stata firmata dall’Onu, i voli aerei su cui ha viaggiato erano dell’Onu. A loro spettava di garantire il massimo della sicurezza. Perché non è avvenuto? Perché nel documento in cui si presentava la missione, il nome di mio figlio non era indicato? Perché mancavano auto blindate per garantire maggiore protezione? Sono queste le domande a cui non abbiamo mai avuto risposta in questi mesi. E oltre all’alterazione delle lettere di viaggio, resta l’incredibile decisione dei testimoni oculari di rifiutarsi di parlare, trincerandosi dietro una presunta immunità diplomatica.
Si aspettava questa svolta?
Assolutamente sì. Mi sarei stupito del contrario. Ripeto: opporre l’immunità di fronte a un triplice omicidio è gravissimo. Ora per arrivare alla verità è necessario che le indagini vadano avanti: è necessario interrogare questi signori per poter ricostruire l’esatta dinamica dei fatti. Serve maggiore pressione dallo Stato e anche dall’Europa, di cui l’Italia è Paese fondatore. Ci sono stati troppi tentativi di depistaggi, troppe omissioni. Si arrivi alla verità, perché senza verità non ci sarà mai giustizia.
Quali ricadute sono possibili, dal punto di vista diplomatico?
Non sta a me dirlo. Durante il G20, Mattarella e Draghi hanno incontrato il presidente del Congo e questo è stato un segnale importante. A Strasburgo, una mozione firmata da 48 europarlamentari italiani ha chiesto un impegno chiaro all’Unione, perché si impegni a ottenere chiarezza sulla vicenda. Penso che ottenere la massima trasparenza dal Programma alimentare sia il minimo, anche vincolando i fondi destinati alla necessaria collaborazione nell’inchiesta.
Il capo dello Stato, nel consegnare alla vostra presenza l’onorificenza di Gran Croce d’Onore dell’Ordine della Stella d’Italia alla memoria di Luca, ne parlò come di un emblema e un simbolo per lo stile del diplomatico.
Luca faceva e non diceva, non amava il clamore. Interpretava la diplomazia come un servizio alla comunità e ricordava spesso che l’ambasciata, la sua ambasciata, doveva essere la casa degli italiani. Per questo, amava i medici e i missionari. In questi mesi abbiamo ricevuto testimonianze e ricordi del suo impegno a tutte le latitudini, dall’Africa agli Stati Uniti. Speriamo che il suo sacrificio non sia vano.
Attanasio, la verità un anno dopo: «L'impegno per l'Africa continua». Diego Motta su Avvenire.it il 21 Febbraio 2022.
Gli orfani di Luca sono tanti, ma nel frattempo la sua famiglia si è allargata. Un anno fa moriva in un agguato, sulla strada verso Goma, l’ambasciatore Luca Attanasio, insieme al carabiniere della sua scorta, Vittorio Iacovacci, e all’autista Mustapha Milambo. Oggi la Fondazione Mama Sofia, presieduta dalla moglie Zakia Seddiki, è sempre più presente nella Repubblica democratica del Congo, attraverso progetti e iniziative diverse, dalla clinica mobile per i bimbi di strada all’ambulatorio medico, fino al sostegno per la maternità. Lo fa attraverso i volti di tanti sostenitori e amici di Luca, che ne testimoniano ancora oggi la visione e che ne sono la concreta eredità sul territorio. «Vogliamo tradurre in interventi concreti i valori e gli intenti in cui io e mio marito abbiamo sempre creduto – ha detto Zakia –. Nella vita e nella carriera, Luca ha dimostrato che con la passione e il coraggio si possono restituire dignità e gioia a tanti giovani che non hanno di fronte a loro un orizzonte sereno. La Fondazione Mama Sofia nasce per lottare contro ogni situazione di disagio, marginalità, discriminazione, intolleranza e negazione dei più elementari diritti umani e di tutela dei minori».
Il riscatto e l’imboscata
Proprio domenica è filtrata, ad opera della Procura di Roma, la prima ricostruzione dei fatti, che completa il mosaico sulle responsabilità di quanto accaduto la mattina del 22 febbraio 2021, per i quali sono accusati di omicidio colposo, tra gli altri, anche due funzionari del Pam, il Programma alimentare mondiale. Il gruppo di banditi che assalì il convoglio, che procedeva senza auto blindate e senza le minime condizioni di sicurezza imposte da quella missione, avrebbe chiesto 50mila dollari. I passeggeri non avevano quel denaro e l’imboscata si trasformò subito in un tragico tentativo di sequestro a scopo di estorsione. Nel corso dell’interrogatorio reso agli inquirenti, il vicedirettore del Pam a Kinshasa, Rocco Leone, uno dei due indagati del Programma alimentare dell’Onu, ha spiegato di aver dato «tutto quello che avevo, 300-400 dollari, e il mio telefonino. Anche l’ambasciatore ha cominciato a togliersi le cose che aveva indosso, sicuramente il portafogli e forse l’orologio – ha spiegato –. Ho detto a Iacovacci di stare calmo e di non prendere la pistola, forse gliel’ha detto anche l’ambasciatore». Dal canto suo Mansour Luguru Rwagaza, il responsabile della sicurezza, anch’egli coinvolto nell’indagine, ha raccontato che i banditi «hanno intimato di consegnare i soldi, altrimenti ci avrebbero portati nella foresta e poi avrebbero chiesto un riscatto. Ho detto a Rocco Leone che dovevamo cooperare». I due, nella ricostruzione dell’inchiesta sulla preparazione della missione, sono accusati di avere «attestato il falso, al fine di ottenere il permesso dagli uffici locali del Dipartimento di sicurezza dell’Onu». Nella richiesta di autorizzazione, al posto dei nominativi di Attanasio e Iacovacci, sono stati infatti inseriti i nomi di due dipendenti del Pam, «così da indurre in errore gli uffici in ordine alla reale composizione del convoglio e ciò in quanto non avevano inoltrato la richiesta, come prescritto dai protocolli Onu, almeno 72 ore prima». Inoltre, non è stata data alcuna informazione, nei canonici cinque giorni prima del viaggio, alla missione di pace Monusco «che è preposta a fornire indicazioni specifiche in materia di sicurezza». Per questo mancavano ad esempio una scorta armata e veicoli corazzati.
Le ultime ore
Sugli ultimi attimi di vita dei tre uomini uccisi nel nord Kivu, non mancano ovviamente parti da chiarire, come ad esempio lo scontro a fuoco con i militari e le guardie del parco giunti a sorpresa nel bosco dove i banditi stavano conducendo gli uomini della missione a scopo di riscatto. Aspetti che andranno appurati con precisione nei prossimi mesi, una volta che sarà avanzata da Piazzale Clodio la richiesta di rinvio a giudizio per gli indagati, verosimilmente a metà marzo. «Quel giorno dovevo essere insieme a Luca» ha raccontato la moglie, a proposito delle ultime ore del marito. «Mia moglie ha deciso che bisogna essere ambasciatori e rappresentanti dello Stato. Insieme – sosteneva l’ambasciatore Attanasio nel discorso pronunciato nel 2020 ritirando il Premio internazionale Nassiriya per la pace –. Per questo viviamo in Congo e insieme rappresentiamo lo Stato in tutte le sue varie forme». L’opera di aiuto e solidarietà continua, anche a un anno di distanza da quella tragedia.
Luca Attanasio, arrestati gli assassini dell’ambasciatore in Congo: «Volevano rapirlo». Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022.
Il diplomatico è stato ucciso un anno fa assieme a un carabiniere e all’autista.
«Ecco i colpevoli dell’uccisione dell’ambasciatore italiano. Volevano rapirlo. E chiedere un milione di dollari di riscatto». A quasi un anno dall’imboscata assassina in cui morirono Luca Attanasio, il suo carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista, Mustafa Milambo, la polizia del Congo cattura e mostra al mondo i presunti assassini.
Sono sei giovani, seduti sul prato della caserma di Goma, capoluogo della regione del Nord Kivu al confine col Ruanda. Tutti ammanettati, quattro sono scalzi, alle spalle nove agenti col mitra a tracolla. I sei tacciono. Di fronte hanno un gruppetto di giornalisti e fotografi, invitati per la conferenza stampa: «Signor governatore — proclama con voce solenne il comandante di polizia del Nord Kivu, il generale Aba Van Ang — , vi consegno tre gruppi di criminali che hanno portato il lutto nella città di Goma. Fra di loro, c’è anche il gruppo che ha attaccato il convoglio dell’ambasciatore».
A dire il vero, l’uomo che ha sparato non c’è: è il capo d’una banda nota col nome di «Aspirant», dicono gli investigatori, ed «è ancora in fuga, ma gli stiamo dando la caccia». Di sicuro, spiega un altro militare, il colonnello Constant Ndima Kongba, su quel prato sono in manette i suoi complici: «Gli uomini d’altre due gang criminali, i Bahati e i Balume. Sappiamo dove si trova il capo di ‘Aspirant’. Speriamo di trovarlo».
La banda era ricercata da vari mesi. Dopo l’agguato ad Attanasio il 22 febbraio dello scorso anno, sulla strada fra Goma e Rutshuru, ai confini del parco nazionale dei Virunga, in tutta la regione ci sono stati diversi assalti a convogli: in uno, a novembre, era stato ammazzato anche un uomo d’affari della zona, Simba Ngezayo. E sarebbero stati proprio gli indizi raccolti durante l’inchiesta per quest’ultimo assassinio, sostengono i giornalisti di Goma, a mettere la polizia del Nord Kivu sulle tracce di queste tre bande.
Il generale Van Ang non racconta come si sia arrivati alla cattura. Non fa cenno alle inchieste italiane che nel giugno 2021 hanno portato a indagare un funzionario congolese del World Food Program, sospettato d’avere trascurato le misure di sicurezza previste per il trasporto dei diplomatici. Nemmeno fornisce elementi particolari che spieghino il collegamento con l’uccisione di Attanasio.
Ma i toni sono determinati. «Aspirant» e i suoi uomini, dice l’ufficiale, tesero l’imboscata alle auto dell’ambasciatore italiano e del World Food Program «con uno scopo ben preciso»: volevano rapire il diplomatico e chiedere un riscatto milionario. Secondo gli investigatori, infatti, «quando ‘Aspirant’ sparò sugli obbiettivi», uccidendo quasi all’istante Attanasio e Iacovacci, «si morsero le mani» perché la loro intenzione era di prendere gli ostaggi bianchi e trattare con l’Italia per rilasciarli. «È la stessa tattica usata in altri casi», viene spiegato, e che doveva funzionare anche per rapire Ngezayo. «Ora lancio un appello alla giustizia — dice il generale del Nord Kivu —: che questi criminali siano puniti tenendo conto di tutto quel che hanno fatto sopportare alla nostra popolazione». Nei mesi passati, la polizia congolese aveva già annunciato possibili arresti smentiti, poi, in poche ore: se sia la svolta giusta, è ancora presto per dirlo.
Luca Attanasio e il carabiniere, uccisi per 50 mila dollari. L’inchiesta sul rapimento e i quattro colpi fatali. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 20 febbraio 2022.
L’ ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, uccisi un anno fa insieme all’autista Mustafà Milambo a Goma, sul confine orientale del Congo, sono morti per 50.000 dollari. I banditi che assalirono il convoglio la mattina del 22 febbraio 2021 pretendevano quella cifra, che i passeggeri non avevano. A quel punto l’imboscata alle due macchine con a bordo tre uomini bianchi s’è trasformata in un sequestro a scopo di estorsione. Gli ostaggi servivano per ottenere un riscatto, ma l’azione è fallita con la sparatoria in cui sono rimasti vittime il diplomatico italiano e il carabiniere addetto alla sua sicurezza. I dettagli dell’agguato sono svelati dagli atti dell’inchiesta della Procura di Roma a carico di Rocco Leone, vicedirettore del Pam, il Programma alimentare dell’Onu, e il suo collaboratore locale Mansour Rwagaza, accusati di omicidio colposo per non aver rispettato i protocolli di sicurezza nella preparazione del viaggio.
«Norme violate»
È dal loro racconto e da quello di altri testimoni che il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco e gli investigatori del Raggruppamento operativo speciale dell’Arma hanno ricostruito gli antefatti della missione e l’imboscata mortale. Fino alla conclusione contenuta nell’informativa del Ros: «Si ritiene che l’organizzazione frettolosa e informale abbia fatto sì che non venissero attivate le procedure normalmente attuate in questo genere di missioni, perché i tempi ridotti non lo avrebbero permesso». Tutto fu concordato attraverso «una gestione personalistica in violazione delle norme che regolano la sicurezza all’interno delle o rganizzazioni dell’Onu». Anche la relazione del Dipartimento di sicurezza delle Nazioni unite, acquisita dalla Procura, ha sottolineato l’inosservanza di diverse disposizioni, tra cui le mancate informazioni alla missione dell’Onu e alla sua unità di sicurezza, oltre i nomi indicati nella «lista di autorizzazioni» cambiati all’ultimo momento, senza avvertire nessuno.
Niente auto blindate
Il 22 febbraio era l’ultimo giorno di una spedizione cominciata il 18, ai confini con Ruanda e Burundi, per visitare i programmi del Pam in Congo. La sera prima Iacovacci parlò con l’altro carabiniere addetto all’ambasciata, Luigi Arilli, rimasto a Kinshasa: «Siamo stati noi a decidere, di comune accordo, che andasse Iacovacci, perché a breve sarebbe stato trasferito e perché più interessato di me a viaggiare e conoscere la gente del posto, essendo anche appassionato dell’artigianato locale... Del viaggio dell’indomani mi ha riferito che sarebbero andati in una zona non troppo tranquilla, ma non era preoccupato». Nei giorni precedenti Arilli aveva assistito a una telefonata tra Iacovacci e Rwagaza: «Mansour garantiva la presenza di vetture blindate, ma fornite da altri organismi perché il Pam non ne aveva». In realtà le due auto partite poco dopo le 9 dal Kivu Lodge di Goma non erano blindate perché, come riferito da Fidele Nzabandora, responsabile di settore del Pam, «per tutte le visite non sono mai state utilizzate... I giubbotti antiproiettile erano nel cofano del portabagagli, se ne avessimo avuto bisogno bastava girarsi e prelevarli. Nel corso dell’attacco non abbiamo avuto il tempo di metterli».
Seguiti dalle moto
Mansour Rwagaza — che aveva ricevuto il nulla osta per il viaggio ma senza indicare nei documenti la presenza dell’ambasciatore e del carabiniere di scorta, «perché non si fa la security clearence per gli ospiti» — era sulla prima macchina, guidata da Milambo, insieme a Nzabandora; nella seconda c’erano Attanasio, Iacovacci, Leone e l’autista. Nessuno si è preoccupato delle moto che seguivano gli equipaggi che, trascorsa circa mezz’ora, li hanno superati. Poco dopo sono sbucate dalla foresta sei persone armate di kalashnikov e machete, sparando in aria e bloccando il convoglio. «Ci hanno intimato di consegnare i soldi — racconta Rwagaza —. Volevano 50.000 dollari, altrimenti ci avrebbero portati via nella foresta e poi avrebbero chiesto un riscatto... Ho detto a Rocco che dovevano cooperare per evitare che fossimo sparati».
Lo scontro a fuoco
Rocco Leone: «Ho dato tutto quello che avevo, 300-400 dollari e il mio telefonino. Anche l’ambasciatore ha cominciato a togliersi le cose che aveva indosso, sicuramente il portafogli e forse l’orologio». Poi gli assalitori hanno cominciato a spingere gli ostaggi verso il bosco: «Ho detto a Iacovacci di stare calmo e di non prendere la pistola, forse gliel’ha detto anche l’ambasciatore». All’inizio del cammino ci sono stati altri spari, che hanno ucciso Milambo e ferito Rwagaza a una mano. Rocco Leone, l’ultimo della fila, è caduto a terra, i rapitori l’hanno lasciato lì ed è riuscito a tornare indietro: «Ho visto un uomo in tenuta militare, gli ho chiesto di chiamare aiuto ma non l’ha fatto perché non aveva credito sul telefonino». Percorsi un paio di chilometri, i banditi e gli ostaggi sono stati sorpresi dal fuoco di militari e guardaparco, arrivati da nord-est. Mansour Rwagaza: «Il conflitto a fuoco è durato almeno cinque minuti, poi c’è stato un minuto di silenzio e lì è successo il peggio. Il carabiniere si è alzato e ha provato a sollevare l’ambasciatore dalla cintura, a quel punto è stato colpito a un braccio e al fianco sinistro... Ho visto chiaramente che gli assalitori sparavano contro la guardia del corpo e l’ambasciatore, hanno tirato quattro colpi contro di loro... Ho sentito una forte espirazione, credo si trattasse delle esalazioni del carabiniere... Sentivo invece l’ambasciatore che mi diceva di essere ferito, mi diceva che non sentiva più i piedi... Mi ha chiesto di avvicinarmi, diceva che stava soffocando».
La corsa in ospedale
I banditi sono riusciti a fuggire, i militari hanno caricato Attanasio e gli altri sui fuoristrada e sono tornati sul luogo dell’agguato, dove hanno incontrato Leone: «Ho visto Mansour seduto su una camionetta militare tenere l’ambasciatore in braccio. Sono salito sulla camionetta, che è partita tutta velocità». Giunti alla base Onu, dotata di un piccolo ospedale, Attanasio è stato portato in sala operatoria: «Abbiamo atteso dieci minuti o un quarto d’ora, finché il medico responsabile ci ha detto che non c’era speranza per l’ambasciatore». A un anno di distanza, le autorità congolesi hanno arrestato sette presunti sequestratori, che avrebbero confessato confermando nella sostanza la versione delle vittime superstiti dell’agguato. Agevolato, secondo l’accusa degli inquirenti italiani, dal mancato rispetto delle procedure per l’organizzazione della missione. Che Attanasio e Iacovacci stavano vivendo con entusiasmo, come confermato dall’ultima conversazione del carabiniere col suo collega Arilli: «Mi ha detto che era contento, e che grazie all’ambasciatore gli era stata regalata una maschera artigianale».
Zakia Seddiki, la moglie di Luca Attanasio: «È ancora con me». Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2022.
Un anno dopo l’agguato mortale dell’ambasciatore del Congo Luca Attanasio, per ricordarlo la moglie Zakia Seddiki inaugura la Fondazione Mama Sofia in Italia.
È passato un anno da quell’attentato sanguinario. Luca Attanasio lasciò la sua vita a Kibumba, vicino alla città di Goma, in Congo, dove era stato nominato ambasciatore. Aveva 43 anni. E lei, la moglie Zakia Seddiki, lo ha voluto ricordare proprio oggi con una partita di calcio con la Nazionale cantanti, nel paese dove Luca Attanasio era nato, Limbiate, provincia di Monza e Brianza. E poi con un nuovo avvio della sua Fondazione. «In memoria di Luca la Fondazione Mama Sofia da oggi opererà anche in Italia. Porterà avanti anche qui i valori di Luca».
Di cosa si occupa Mama Sofia?
«È nata per seguire i bambini di strada, in Congo, l’ultimo Paese dove Luca ha lavorato. Si occupava principalmente di dare loro istruzione e formazione».
E poi?
«Abbiamo allargato i progetti, con una rete in Congo di 14 organizzazioni impegnate nei diritti dell’infanzia. È stato Luca che ha creato questa rete».
Anche Luca era impegnato nella Fondazione Mama Sofia?
« Lui la seguiva molto da vicino. Era un ambasciatore diplomatico, sì, ma soprattutto umano».
Avete già progetti italiani in programma?
«Sì. E ci occuperemo delle persone che soffrono, non soltanto di bambini. Ad esempio siamo stati contattati da Rita, una donna disabile siciliana. Lavoreremo perché possa vedere rispettati tutti i suoi diritti. Studiare, muoversi come gli altri, anche un aiuto psicologico».
Impegni e progetti molto importanti, utili a sostenere la mancanza di Luca, un anno dopo?
«Non sento la mancanza di Luca».
In che senso?
«Non so come spiegarlo. Luca è ancora con me. Non c’è fisicamente ma è ancora qui. Continua a fare delle cose».
Che cosa?
«Tutto. Mi sostiene in ogni cosa che faccio. Continua a unire le persone».
Cosa intende?
«Unire le persone, come nella rete del Congo: è stato Luca a crearla. Adesso è rimasta unita».
Lei ha tre bambine piccole, come vivono la mancanza del padre?
«Vivono una mancanza fisica. Ma il padre c’è sempre».
Cosa vuole dire?
«A casa nostra tutti i giorni si parla di Luca. Questo aiuterà le bambine a superare la mancanza fisica del padre».
È vero che il giorno dell’attentato lei avrebbe dovuto essere con suo marito?
«Sì, lo seguivo spesso nelle sue missioni».
E invece?
«Invece nei giorni della missione del Pam (Programma alimentare mondiale, ndr) mia madre aveva dovuto fare un viaggio in Marocco. E io sono rimasta a casa con loro. Non avevo mai lasciato le bambine da sole con le tate».
E non lo ha fatto nemmeno quella volta?
«No».
Un segnale?
«Già. Adesso loro hanno me».
Dopo l’attentato lei si è trasferita a Roma.
«Sì, era quello che avremmo voluto fare con Luca per il futuro delle bambine».
E adesso tornerà in Congo per seguire il progetto di Mama Sofia?
«È troppo presto».
A Roma la fondazione ha una collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio?
«In realtà la collaborazione con loro è cominciata in Congo, con quei progetti che adesso dovranno andare avanti. Ma qui in Italia sicuramente ne faremo altri insieme con la Comunità di Sant’Egidio».
Lei è musulmana nata in Marocco, Luca era italiano ed era cattolico. Avete mai avuto problemi per la differenza tra le vostre religioni?
«No, non è stato mai importante. Avevamo un rapporto che andava oltre la religione. C’è un essere sopra di noi che ognuno può chiamare come vuole. Allah, Dio. Cosa cambia?».
Adesso sopra di lei c’è anche Luca...
«Che mi aiuta e mi sostiene ogni giorno».
"Arrestati in Congo gli assassini dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio". Francesca Galici il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Svolta nelle indagini per la morte di Luca Attanasio in Congo: arrestate due persone ritenute responsabili della morte del diplomatico.
La polizia del Nord Kivu, in Congo, ha annunciato che sono stati arrestati i presunti assassini del diplomatico Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e all'autista del Pam Mustafa Milambo, assassinati lo scorso 22 febbraio. Sul web circolano alcuni video che li mostrano negli istanti subito successivo all'arresto, con le manette ai polsti e seduti per terra, circondati dagli agenti armati.
Sono in 6 e sono stati indicati dal comandante della polizia della provincia orientale del Paese, Aba Van Ang, come membri di "tre gruppi di criminali che hanno insanguinato Goma". Il comandante aggiunge anche: "Tra loro, il gruppo che ha attaccato il convoglio dell'ambasciatore". Tuttavia, nel gruppo non ci sarebbe l'uomo che ha materialmente premuto il grilletto per uccidere Luca Attanasio, il carabiniere di scorta e il suo autista. Lui risponderebbe al nome di Aspirant ma "è ancora in fuga", ha aggiunto Aba Van Ang.
Le operazioni non si concludono qui ma proseguiranno nei prossimi giorni anche con l'obiettivo di catturarlo. Il comandante assicura: "Sappiamo dove si trova e speriamo di trovarlo". Ovviamente, per non tradire il vantaggio acquisito, il comandante non ha rivelato i dettagli dell'operazione, tuttavia è stato riferito che il gruppo avrebbe inizialmente voluto solo rapire l'ambasciatore per poi chiedere un riscatto da un milione di dollari. Ma quando 'Aspirant' ha sparato all'ambasciatore in fuga, uccidendolo, hanno necessariamente dovuto cambiare i loro piani.
Al momento dell'agguato, Luca Attanasio era in missione fuori da Goma con il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite che avrebbe dovuto garantirne la sicurezza. Appena pochi giorni fa il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, aveva scritto al Pam chiedendo "la massima collaborazione con la magistratura italiana" per contribuire a far luce sull'uccisione di Attanasio, Iacovacci e Milambo. Inoltre, Inside Over ha recentemente lanciato un reportage in Congo per cercare, e raccontare, la verità dietro la morte di Luca Attanasio.
Insieme al gruppo in cui ci sarebbero gli assassini di Luca Attanasio, inoltre, sono stati arrestati gli appartenenti di due gruppi, chiamati Bahari e Balume, ritenuti responsabili di diversi omicidi e di attacchi a scopo di rapina.
Sono tre le indagini aperte in merito alla morte del diplomatico italiano. L'ipotesi privilegiata dagli inquirenti è quella del conflitto a fuoco seguito a un tentativo di rapimento. Attanasio e Iacovacci morirono durante una sparatoria tra i sei assalitori e i ranger del parco, intervenuti dopo aver sentito i colpi esplosi per bloccare il convoglio. Nel momento in cui la pattuglia intimò agli assalitori di abbassare le armi, questi ultimi avrebbero aperto il fuoco contro il militare dell'Arma dei carabinieri, uccidendolo, e contro l'ambasciatore italiano, ferendolo gravemente.
I pubblici ministeri italiani hanno contestato i reati di omesse cautele in relazione al delitto, in base agli articoli 40 e 589 del codice penale, e hanno indagato Mansour Rwagaza, funzionario congolese del Wfp responsabile della sicurezza del convoglio con cui viaggiavano Attanasio e Iacovacci.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
L'annuncio della polizia locale non confermato dalle autorità centrali. Omicidio dell’ambasciatore Attanasio, arrestati presunti assassini: “Volevano un riscatto da un milione di dollari”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 19 Gennaio 2022.
La polizia congolese ha annunciato in una conferenza stampa di aver arrestato alcuni dei presunti assassini dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio. Il diplomatico venne ucciso in un agguato, nella Repubblica Democratica del Congo, il 22 febbraio 2021 con il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. Sul caso sono aperte tre inchieste. Della conferenza stampa hanno scritto sui social i corrispondenti Justin Kabumba, France24 e A, e Stanis Bujakera Tshiamala, Reuters e Dpa.
I tweet dei giornalisti mostrano foto e video dei presunti assassini consegnati al governo militare del Nord Kivu. Al momento non ci sono però conferme da parte delle autorità centrali congolesi. Sei gli arresti. “Ecco i colpevoli dell’uccisione dell’ambasciatore italiano. Volevano rapirlo. E chiedere un milione di dollari di riscatto”, le parole della polizia. “Signor governatore — proclama il comandante di polizia del Nord Kivu, il generale Aba Van Ang – , vi consegno tre gruppi di criminali che hanno portato il lutto nella città di Goma. Fra di loro, c’è anche il gruppo che ha attaccato il convoglio dell’ambasciatore”.
Tutti ammanettati i presunti assassini, quattro scalzi, seduti sul prato della caserma di Goma, capoluogo della regione del Nord Kivu al confine col Ruanda. Di fronte a loro giornalisti, fotografi e operatori. L’uomo che avrebbe esploso i colpi tuttavia non c’è: è un membro di una banda detta “Aspirant” ed è in fuga, anche se gli agenti dicono di sapere dove si trova e che gli stanno dando la caccia. Quelli in manette sono i suoi complici, uomini di altre due bande criminali, i Bahati e i Balume. Le indagini sono arrivate ai tre gruppi dopo l’omicidio di un uomo d’affari, Simba Ngezayo, lo scorso novembre.
Attanasio, Iacovacci e Milambo furono uccisi in un agguato sulla strada tra Goma e Rutshuru, ai confini del parco nazionale dei Virunga, patrimonio mondiale dell’Unesco dal 1979, nella provincia del Nord-Kivu, al confine con il Ruanda, storicamente instabile e territorio della cosiddetta Guerra Mondiale Africana. “Inizialmente, non era loro intenzione uccidere Attanasio – ha detto il giornalista Justin Kabumba di France 24, riferendo le parole della polizia – avevano programmato di rapirlo per chiedere un riscatto di un milione di dollari. Le cose sono andate male, il piano è fallito e i rapitori hanno subito ucciso l’ambasciatore”.
Secondo il giornalista solo due dei sei arrestati sono presunti assassini di Attanasio, uno avrebbe confessato”. Dopo l’imboscata si scatenò un conflitto a fuoco tra gli assalitori e le guardie del parco intervenute dopo aver sentito i colpi. Attanasio aveva una moglie, Zadia Seddiki, e tre figlie. Sul caso sono aperte tre indagini: quella del Dipartimento per la sicurezza delle Nazioni Unite, quella delle autorità italiane e quella delle autorità congolesi.
Erano già circolate notizie di arresti, in diverse occasioni, senza però riscontri che avevano lasciato ombre sulla dinamica dei fatti e le responsabilità. Si è parlato molto della mancanza di un’adeguata protezione armata al convoglio in un’area attraversata da bande, miliziani e jihadisti. I pubblici ministeri italiani hanno contestato i reati di omesse cautele in relazione al delitto, in base agli articoli 40 e 589 del codice penale, e hanno indagato Mansour Rwagaza, funzionario congolese del World Food Programme (Wfp) responsabile della sicurezza del convoglio con cui viaggiavano Attanasio e Iacovacci.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Il padre di Attanasio: «Gli arresti soltanto una messinscena, la chiave è il silenzio dell’Onu». Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2022.
I genitori dell’ambasciatore ucciso in Congo: vogliamo i mandanti.
Si chiamano Bahati Kibobo e Balume Bakulu. Sono molto giovani. Scalzi, ammanettati, martedì li hanno fatti sedere assieme ad altri quattro su un prato del comando di polizia di Goma, mostrati come un trofeo. «Eccoli, gli assassini dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio», ha proclamato sicuro il generale Aba Van Ang Xavier, il comandante provinciale del Nord Kivu. Kibobo e Bakulu non sarebbero due criminali qualsiasi. Secondo il generale, sono miliziani ribelli dell’M23: il Movimento 23 Marzo che dal 2009 combatte il governo e i caschi blu dell’Onu, «pagato dal Ruanda e dall’Uganda», terrorizzando il Nord Kivu con attentati e sequestri. In passato, raccontano, l’M23 ha già rapito operatori di Medici senza Frontiere e della Croce Rossa internazionale. Nel parco di Virunga, ha anche sequestrato e ucciso un turista inglese e una guardia forestale. «Kibobo e Bakulu rispondevano agli ordini d’un capo, soprannominato Aspirant, che è riuscito a fuggire e che stiamo ricercando». Il loro piano sarebbe stato di prendere vivi Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci che lo scortava, per chiedere un riscatto d’un milione di dollari: «Non sapevano che si trattasse d’un diplomatico, loro cercavano solo dei bianchi».
Qualcosa però sarebbe andato storto, qualcuno del gruppo di Aspirant avrebbe sparato agli ostaggi, violando le consegne e «facendo arrabbiare gli altri». Il caso è risolto? «Kibobo e Bakulu hanno confessato dopo una serie d’interrogatori». Al momento, ci credono in pochi. Nessuno ha letto i verbali, non è stata presentata alcun’altra prova. Tace il presidente Felix Tshisekedi, ammutolito il governo. E di questa «svolta» nelle indagini sembra non fidarsi nemmeno il governatore militare della regione, Sylvain Ekenge, che ha chiesto ulteriori approfondimenti. Figurarsi gl’italiani: l’ambasciata a Kinshasa non ne sapeva niente, e meno ancora la Procura di Roma che da mesi trova un muro di silenzi e cerca (inutilmente) d’inviare in Congo i Ros. A Limbiate, hinterland monzese, davanti alla villetta di famiglia è scettico anche Salvatore Attanasio, il papà di Luca: «Ha i nomi degli arrestati? Me li risparmi, grazie. Non m’interessano. Non è la prima volta che arrivano notizie del genere, è successo anche a marzo e poi s’è rivelato tutto una farsa. Io sono come San Tommaso, non credo a questa storia finché non la certificano le autorità italiane. In autunno siamo stati dagli inquirenti a Roma, ogni tanto sento i Ros che mi tengono aggiornato sulle novità. Ho parlato stamane con un ambasciatore amico di Luca ed era d’accordo: sembra solo una messinscena per mettere a tacere tutto. Aria fritta. Forse in questi mesi c’è stata qualche pressione del governo italiano e in Congo hanno pensato di fare questa mossa. Ma io voglio i mandanti, non solo gli esecutori».
Quali mandanti? «Se non è stato un incidente, se è stato un agguato pianificato e non una rapina, sono troppi i dubbi. Se cercavano i bianchi, nel convoglio ce n’erano tre: perché ne hanno uccisi solo due? Luca poi ha ricevuto tre proiettili in pancia, Iacovacci uno al collo mentre cercava di proteggerlo: chi scappa da un agguato però viene colpito alle spalle, non davanti». Per gli Attanasio, la chiave è il silenzio del Pam, il Programma alimentare mondiale che aveva organizzato il convoglio: «Chi era coinvolto a qualche titolo nella vicenda, congolese o italiano, è stato mandato via dal Congo. Sparpagliato in altri Paesi. Anche Rocco Leone, il funzionario sopravvissuto alla sparatoria: dopo l’agguato, non s’è mai fatto vivo con noi. Ed è sparito, penso sia in Italia. Non sappiamo più nulla. Non si sono mai fatti vivi nemmeno con la moglie di Luca. E allora dico che il Pam dovrebbe spiegare tante cose: doveva provvedere alla sicurezza, perché non lo fece? Doveva comunicare ai caschi blu la presenza dell’ambasciatore, e non l’ha fatto. E sa perché? Se l’avesse fatto, non ci sarebbe stato il tempo materiale d’organizzare una scorta e i caschi blu non avrebbero dato l’ok al viaggio. Un missionario saveriano, padre Rinaldi, m’ha raccontato che Luca era molto attento alla sicurezza, quando andava nel Nord Kivu. Conosceva i rischi, e infatti prima d’ogni trasferta c’era una scorta armata. La sera prima del viaggio, a cena, Luca era molto preoccupato e chiedeva continuamente delle misure di sicurezza: quelli del Pam gli rispondevano di star tranquillo, la strada era sicura. Invece non c’era nessuno, a scortarli. Perché? Lo stesso Rocco Leone non poteva non conoscere i protocolli di sicurezza: perché non ha annullato il viaggio? O era un totale incompetente, e allora non doveva stare lì, oppure dovrebbe spiegare. Il Pam sta a Roma, i pm vorrebbero sentire la loro versione, ma i funzionari si sono appellati all’immunità e avvalsi della facoltà di non rispondere. Non collaborano in nulla. Non spiegano nulla. E’ una vergogna. Anche Di Maio è indignato e David Sassoli, prima di Natale, si stava interessando della cosa: va bene indagare il funzionario congolese del Pam, ma qui devono uscire le responsabilità pure dei vertici».
Difficile sopravvivere a un figlio, sempre. A un figlio come Luca Attanasio, «è durissima»: «S’immagini che Natale è stato, per noi. Fra qualche settimana è il 22 febbraio, l’anniversario, uscirà un libro, a Limbiate ci saranno eventi. Gli hanno intitolato la casa di riposo, una villa comunale. Riceviamo ancora lettere, lacrime, testimonianze dal Congo di tutto quel che faceva Luca».
Milano s’è dimenticata di lui, a dicembre, alla cerimonia degli Ambrogini d’oro… «Il problema non è dargli un Ambrogino, il sindaco Sala m’ha detto che farà qualcosa. Il punto è la sua memoria, da tenere viva. Lui ha mostrato al mondo la vera italianità, ha detto Mattarella, ed è vero: coniugava diplomazia e umanità, stava coi re e con gli ultimi, fin da ragazzino passava il tempo a impegnarsi nell’oratorio, ad aiutare gli anziani. Quando andavamo a trovarlo in Africa, c’erano i bambini di strada che l’aspettavano, lo amavano, lo chiamavano: ‘Monsieur l’Ambassadeur!’… Quel che dovrebbe essere un vero diplomatico. Tutto questo un po’ ci consola. Ma è durissima. Specie per mia nuora e le tre bambine, a Roma. E’ difficile spiegare la morte ai bambini. La più grande ha 5 anni, qualcosa ha capito. Ogni tanto si siede a tavola e chiede: a che ora arriva, papà?».
L’ingegner Salvatore è stanco, ma sa che «la verità alla fine emergerà, questo è diverso dal caso Regeni: là c’era un ragazzo lasciato solo, qui c’era un ambasciatore che in quel momento rappresentava l’Italia. E l’Italia non può far finta di nulla». Vorrebbe solo «un po’ di schiena dritta: chi ammazza un ambasciatore in missione ufficiale, è come se ammazzasse il Presidente della Repubblica. Colpisce il nostro Stato. E non si può andare cauti solo perché c’è di mezzo l’Onu. L’avessero fatto a un diplomatico francese, americano o israeliano, stia sicuro, in Congo non sarebbe rimasto in piedi neanche un albero».
Il giallo dei killer di Attanasio. Tempi sospetti e niente prove. Fausto Biloslavo il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.
La cattura della banda non convince nessuno. Il papà del diplomatico teme la farsa: "Arresti di valore zero".
Sei individui ammanettati e scalzi scortati da agenti con il dito sul grilletto per rendere la scena ad effetto. Il generale Aba Van Ang Xavier, comandante della polizia del Nord Kivu, nel Congo orientale, annuncia solennemente: «Fra di loro c'è anche il gruppo che ha attaccato il convoglio dell'ambasciatore» italiano Luca Attanasio. Il 22 febbraio dello scorso anno il nostro diplomatico è stato ucciso in un agguato assieme al carabiniere di scorta, Vittorio Iacovacci e l'autista del Programma alimentare mondiale Mustapha Milambo. L'obiettivo dei banditi sarebbe stato sequestrare il diplomatico e chiedere un milione di dollari di riscatto. Una notizia bomba per l'Italia, ma da prendere con la dovuta cautela. Poco dopo l'imboscata della morte erano già stati arrestati dei presunti assassini, ma poi si è scoperto che si trattava di uno scambio di persone. La tempistica è almeno sospetta. Il Congo non ha collaborato fino in fondo con i nostri inquirenti ostacolando le missioni dei carabinieri del Ros. E adesso che si attende la chiusura dell'inchiesta in Italia saltano fuori dei banditi. «Forse non è un depistaggio, ma solo la volontà di fare bella figura. Per ora direi che sono più che presunti responsabili» dichiara al Giornale una fonte che ha operato a Kinshasa e conosceva il carabiniere ucciso con l'ambasciatore.
I sei arrestati sono affiliati a tre bande criminali che operano nel Nord Kivu specializzate in sequestri. I due che avrebbero partecipato all'imboscata all'ambasciatore italiano fanno parte della gang «Balume Bakulu». Il loro capo Aspirant avrebbe sparato all'ambasciatore quando si è reso conto che non riusciva a portarselo via per l'intervento dei ranger del parco Virunga. Ma ancora non è chiaro da quale arma siano partiti i proiettili che hanno ucciso Attanasio e Iacovacci.
Aspirant è in fuga, ma la polizia spera «di trovarlo» sostenendo di sapere «dove si trova». Il governatore militare della regione, generale Ndima Constant, chiede «tempo per scavare ulteriormente in direzione di prove confermate». La svolta è arrivata grazie alle indagini sull'omicidio a novembre di Simba Ngezayo, un uomo d'affari locale. Non è drammatico come il depistaggio messo in piedi dagli egiziani sul caso Regeni, che hanno fatto fuori in un blitz dei banditi accusandoli della terribile fine di Regeni. Però non è stata fornita alcuna prova concreta, per ora, sui presunti assalitori del convoglio di Attanasio.
Il padre dell'ambasciatore ha pochi peli sulla lingua: «Non è la prima volta che dal Congo arrivano notizie del genere che poi si rivelano essere una farsa. Per cui non vorrei fare alcun commento sugli arresti prima che le nostre autorità abbiamo controllato e certificato l'operato della polizia congolese. Fino ad allora per noi famigliari questi arresti non contano nulla».
La procura di Roma, che ha già chiesto due rogatorie, si sta muovendo per acquisire i verbali «ed elementi che permettano la verifica e una attenta valutazione delle novità investigative che provengono dal Congo». L'obiettivo è far partire il prima possibile i carabinieri dei Ros che potrebbero anche interrogare i sospettati.
Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”, il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace.
"Il mio Vittorio ucciso in Congo. Non accetterò zone d'ombra". Fausto Biloslavo il 16 Gennaio 2022 su Il Giornale. La fidanzata del militare morto per difendere Attanasio: "Ha fatto bene il suo dovere, sono orgogliosa di lui".
«Vittorio ha fatto bene il suo dovere. È il mio orgoglio. Sono fiera di lui, ma non possiamo permettere di perdere così, in questo modo, dei rappresentanti dello Stato». Le parole della promessa sposa, Domenica Benedetto, 29 anni, sono commoventi e coraggiose. Il suo amore, Vittorio Iacovacci, carabiniere di scorta, è stato ucciso in un agguato il 22 febbraio dello scorso anno in Congo assieme all'ambasciatore che proteggeva, Luca Attanasio e all'autista congolese Mustafa Milambo.
Un anno dopo l'agguato vicino a Goma le indagini dovrebbero chiudersi a breve. Cosa si aspetta?
«Con la sua famiglia vogliamo giustizia e chiarezza. Ho fiducia in chi sta portando avanti l'inchiesta. Non voglio neanche pensare che restino delle zone d'ombre in una storia del genere, dove lo Stato italiano è stato direttamente colpito».
Il responsabile della sicurezza del convoglio del Programma alimentare mondiale è indagato. L'Onu ha delle responsabilità?
«Sicuramente qualcosa non ha funzionato. È un dato di fatto. Spero che si possa fare luce con la chiusura delle indagini. Anche se la vedo dura: si parla di immunità (per i funzionari del Pam coinvolti) e il Congo non collabora. Chiediamo giustizia per Vittorio, Luca, l'autista e per tutta l'Italia in maniera tale che non si verifichino più situazioni del genere».
È stato sottovalutato il pericolo?
«Vittorio non lasciava nulla al caso e ha lavorato tanto per quella missione. Aveva sentito anche un collega che c'era già stato sullo stesso tragitto tempo prima. L'ambasciatore non era un incosciente e si è fidato del Pam».
Quando ha sentito l'ultima volta il suo fidanzato?
«Due ore prima dell'agguato da Goma, sul lago, ed era tranquillo, come al solito. Il 22 febbraio stavo lavorando e verso le 11 ho cominciato a leggere sul telefonino le prime notizie dell'ambasciatore d'Italia ferito. Lo conoscevo troppo bene e ho capito subito: Vittorio non avrebbe mai permesso che colpissero Attanasio. Piuttosto si sacrificava, altrimenti non se lo sarebbe mai perdonato. Aveva solo il suo corpo l'unica forma di difesa e l'ha usato come uno scudo per proteggere l'ambasciatore».
Si è fatta un'idea sul motivo dell'agguato e su chi siano gli assassini?
«Di sicuro sono stati attaccati dai terroristi, ma poi i ranger (del vicino parco Virunga) sono intervenuti ed è tutta gente che spara cosìnel mucchio. Chissà da chi sono partiti i colpi che hanno ucciso Vittorio e l'ambasciatore. È tutto confuso e il fatto che in Congo non ci lascino indagare fino in fondo la dice lunga».
Vittorio le raccontava qualcosa delle difficoltà delle missione?
«Del lavoro parlava poco. Mi diceva che il Congo è bello, ma non tutto era rose e fiori. Non entrava nei dettagli e non ha mai detto che la protezione fosse insufficiente. Una volta si è lamentato delle guardie locali che si addormentavano spesso. Allora ha insegnato loro a usare la moka per fare il caffè italiano».
Come vi siete conosciuti?
«Nel 2015 a Firenze quando studiavo. Una serata come tante, in discoteca. Lui era più insistente di altri e quindi siamo usciti a prendere un caffè. Allora era in servizio come paracadutista nella Folgore impiegato nell'operazione Strade sicure. È stato così strano e così bello. Sembrava che ci conoscessimo da una vita. Talvolta gli dicevo: Ma dove sei stato fino adesso?».
Avevate fissato le nozze?
«Volevamo sposarci, anche se non era ancora stata decisa la data. Mi stavo preparando al suo rientro dal Congo: Mancavano solo 15 giorni. La casa che avevamo messo su assieme, con tanto entusiasmo, era quasi pronta. In giardino Vittorio aveva voluto un pennone di otto metri per fare sventolare il Tricolore».
Cosa prova un anno dopo?
«Quando incontri una persona rara è impossibile dimenticarla e non voglio. Mi sembra sia successo ieri. Il tempo non ha aiutato a lenire il dolore».
Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerr
"Attanasio? Morire per il Paese non merita meno rispetto". Gian Micalessin il 10 Gennaio 2022 su Il Giornale.
L'ex sottosegretario alla Difesa: "Ora si pretenda la verità per Luca come per Regeni".
«L'indifferenza per l'uccisione in Congo dell'ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci mi colpisce. Sembra quasi che morire servendo il proprio paese meriti meno rispetto».
L'ex sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto commenta così le parole di Salvatore Attanasio, padre del diplomatico ucciso, che denuncia il «silenzio tombale» sull'assassinio del figlio. «È evidente che quella vicenda - dichiara Crosetto in questa intervista a il Giornale - non suscita l'interesse riscontrato nei casi di Giulio Regeni o Patrick Zaki. Per questo non sentiamo politici, giornalisti o attivisti pretendere la verità su quanto successo o sul perché è successo. Questo colpisce perché la pietà non deve conoscere pregiudizi. E non devono esserci preferenze nell'invocare la verità. Chi s'indigna per la morte di Giulio Regeni, deve pretendere la verità anche per Luca Attanasio o per il dottorando Davide Giri accoltellato a morte a New York a dicembre».
Da Fabrizio Quattrocchi fino ad Attanasio e Giri c'è una sequela di morti classificate di serie B...
«Più che di classificazione parlerei di cinismo nell'utilizzo delle tragedie. Trattare pregiudizialmente i morti in base all'ideologia è molto brutto. Ancor peggio è celebrare e ricordare solo le vicende funzionali a trasferire una certa immagine della realtà. Chi è funzionale a quel disegno viene celebrato e diventa un morto di serie A. Chi non lo è passa in serie B e viene dimenticato».
Anche le disgrazie sono, insomma, funzionali ad una certa ideologia?
«Assolutamente. Dell'imprenditore veneto Marco Zennaro, prigioniero da mesi in Sudan, si è parlato molto poco. È stato dimenticato e abbandonato pur essendo un italiano trattenuto ingiustamente all'estero. Al contrario si è parlato tantissimo di un Patrick Zaki che, pur essendo una vittima, è un cittadino egiziano trattenuto in Egitto».
Dunque anche morti e ingiustizie rispondono al filtro del politicamente corretto?
«Certo, pensiamo alla vicenda di Giri. Il racconto del suo assassinio a New York per mano di un esponente d'una gang di colore andava contro il politicamente corretto. Per questo è stato ignorato e ridimensionato. Una vergogna perché bisogna avere la forza e il coraggio di scandalizzarsi per tutte le morti, non solo per quelle che fanno comodo. Il main stream, o meglio l'opinione corrente, cerca invece di farci vedere solo la realtà che risponde ai principi d'acclamare e celebrare. In quel teatrino la verità non conta, vite e morti si valutano solo attraverso le lenti dell'ideologia».
Torniamo al caso Attanasio. Il governo sta facendo abbastanza?
«Per quanto ne so governo, magistratura e Ros stanno facendo il possibile in una situazione resa particolarmente difficile dalla situazione conflittuale di quella regione del Congo. Farnesina, Carabinieri e Stato italiano stanno facendo di tutto per accertare la verità. Anche se questa è assai scomoda per il Pam (Programma alimentare mondiale)».
In che senso?
«Nel senso che il governo ha assunto una posizione molto dura sul tema dell'immunità diplomatica richiesta dal Pam, spiegando all'Onu che sarà la nostra magistratura a valutarla. Quindi ha respinto le tesi rivolte a impedire indagini approfondite».
Riusciremo a punire gli eventuali responsabili?
«Se le responsabilità verranno provate dovremo evitare che i responsabili ne escano impuniti come successe con i due aviatori americani responsabili della tragedia della funivia del Cermis. Dobbiamo imparare a comportarci come farebbero gli americani al nostro posto».
L'Onu riceve fondi dall'Italia. Ma tace sul caso Attanasio. Gian Micalessin l'11 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Il Pam continua a non rispondere alle domande dei pm. Dalla Ue ha preso quasi 2 miliardi nel 2020.
L'Italia nel 2021 le ha devoluto 60milioni 60mila 686 dollari. L'Unione Europea, Italia compresa, le ha allungato, nel 2020, un miliardo e 980 milioni di euro. Soldi in teoria ben spesi visto che il Pam (Programma Alimentare Mondiale) è un'agenzia dell'Onu che dona e trasporta cibo là dove guerre e carestie mettono a rischio intere popolazioni. Il problema è che a fronte della generosità del nostro paese e di un Unione Europea di cui siamo quarti contributori, il Pam contrappone un'omertosa chiusura sul fronte delle indagini riguardanti la morte dell'ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Jacovacci e dell'autista Mustapha Milambo uccisi mentre viaggiavano con l'organizzazione nella regione congolese del Kivu.
L'evidente contraddizione è evidenziata in una mozione degli eurodeputati di Fratelli d'Italia indirizzata all'Alto Rappresentante dell'Unione Europea Josep Borrel. Ora è chiaro dall'Ue, come si capì già ai tempi della questione dei marò detenuti in India, c'è da aspettarsi assai poco. Per contro c'è molto da riflettere sull'ambiguità di un'agenzia Onu che pur di trasformare un diplomatico in «testimonial» del proprio operato trascura e omette le più elementari norme di sicurezza portandolo di fatto alla morte assieme ad altre due persone.
Perché questo è il punto. Lo scorso febbraio Luca Attanasio, diplomatico giovane e generoso, intendeva approfittare d'una visita nel Kivu per visitare una scuola trasformata dal Pam in un centro di distribuzione alimentare. La disponibilità e la testimonianza del diplomatico rappresentavano la chiave per favorire i finanziamenti necessari all'apertura di un altro centro. Per effettuare la visita bisognava però attraversare una zona a rischio interessata in quei giorni da uno stato d'allerta. L'unico modo per farlo in sicurezza era chiedere una nutrita scorta di «caschi blu» della missione Monusco. Menzionare la presenza di un diplomatico straniero e di un carabiniere significava rischiare, però, che i vertici Monusco considerassero l'escursione troppo azzardata negando scorta e autorizzazione. Un problema che sembrerebbe esser stato risolto alterando i documenti così da nascondere alla Monusco la presenza dell'ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci. Un'omissione che il procuratore aggiunto di Roma Sergio Colaiocco, responsabile dell'inchiesta, vorrebbe verificare interrogando Mansour Rwagaza, il responsabile della sicurezza del Pam già indagato con l'accusa di omicidio colposo per omessa cautela, e l'italiano Rocco Leone al tempo vice-direttore del Pam in Congo. Due testimonianze preziose perché entrambi i funzionari del Pam viaggiavano con Attanasio e sono sopravvissuti all'imboscata.
Ma le legittime richieste del magistrato si scontrano con le barriere legali frapposte da un Pam deciso a rivendicare l'immunità diplomatica per i propri funzionari e nasconderne così le eventuali responsabilità. Una posizione sostenuta anche dopo la lettera del ministro degli Esteri Luigi Di Maio che chiede al direttore del Pam «la massima collaborazione con la magistratura italiana» e «una rapida risposta alla richiesta di elementi utili per le attività investigative in corso». Una posizione inaccettabile per un'agenzia Onu che, ha sede su un colle di Roma e lavora grazie ai finanziamenti di Italia ed Unione Europea.
Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera,Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. I miei reportage e documentari sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed internazionali (Cbs, Nbc, Channel 4, France 2, Tf1, Ndr, Tsi, Canale 5, Rai 1, Rai2, Mtv). Ho diretto i video giornalisti di “SeiMilano” la tv che ha lanciato il videogiornalismo in Italia. Ho lavorato come autore e regista alle prime puntate de “La Macchina del Tempo” di Mediaset. Ho lavorato come autore di “Pianeta7”, un programma di reportage esteri de “La 7”. Nel 2011 ho vinto il “Premio Ilaria Alpi” per il miglior documentario con un film prodotto da Mtv sulla rivolta dei giovani di Bengasi in Libia. Nel 2012 ho vinto il premio giornalistico Enzo Baldoni della Provincia di Milano.
La strada della morte. Lorenzo Vita su Inside Over il 9 gennaio 2022.
“Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio.
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Una strada nella giungla, nella parte più orientale della Repubblica Democratica del Congo. È lì che hanno perso la vita l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del convoglio, Mustapha Milambo. Uccisi in un agguato vicino al villaggio di Kibumba mentre insieme ai mezzi del World Food Program si recavano da Goma a Rutshuru.
Il primo rapporto dell’intelligence ha riferito che l’attacco è avvenuto in una zona chiamata “delle tre antenne”. L’area è considerata ad alto rischio da diversi anni, in particolare da quando furono infatti rapiti due cittadini britannici nel 2018. E le cose non sono certo cambiate nell’arco degli ultimi anni, in cui il Congo democratico è stato dilaniato da guerre intestine che hanno sconvolto la vita di migliaia di abitanti e di persone che lavorano per dare al Paese un destino migliore. Anche il territorio vicino al luogo dell’uccisione di Luca Attanasio, il Parco di Virunga, è una regione in cui le milizie sfruttano la fitta vegetazione e l’insieme di rifugi naturali per trasformarla in una sorta di Tortuga del terrore. E tra contrabbando di preziose materie prime, rapimenti con richiesta i riscatti e terrorismo di matrice etnica o religiosa, non esiste un’area di quella parte di Congo in cui non sia stato versato del sangue.
La strada RN2, una lunga via che collega diverse zone della parte orientale della Repubblica democratica del Congo, si presta perfettamente a essere teatro di assalti e rapimenti. Le bande armate, se devono nascondersi, sfruttano, le foreste e le aree più profonde del parco di Virunga (dove non a caso hanno scatenato una lunga e sanguinosa guerra anche contro i ranger). Ma quando si tratta di colpire chi si addentra in quella regione ed è un obiettivo "appetibile" per i traffici criminali, è sulla strada RN2 che si colpisce. Perché è solo lì che passano le vittime.
Non tutti i tratti di strada sono ugualmente pericolosi. Come ricordava Mario Giro su Il Domani, "si tratta di una strada considerata 'gialla' secondo i gradi di allerta e sicurezza in vigore nell’area", quindi in sostanza non estremamente pericolosa. Ovviamente in base ai parametri di chi si trova a combattere quotidianamente con milizie terroristiche, bande armate, contrabbandieri e gruppi legati a orze straniere che conoscono perfettamente il territorio in cui si snoda quell'asse viario. Ma se non tutti i tratti di strada sono allo stesso modo teatro di agguati, i numeri sono certamente cristallini. Secondo il dossier dei servizi, annotava AdnKronos, "dal 2017, nella parte meridionale del Parco di Virunga (Provincia del Nord Kivu) sono stati registrati circa 1300 incidenti di sicurezza con vittime, oltre 1.280 scontri e quasi 1.000 casi fra sequestri e rapimento ai fini di riscatto".
La tragica conferma della pericolosità di quel tratto di strada RN2 è arrivata poi qualche settimana dopo l'uccisione di Attanasio, quando a pagare con la vita è stato il procuratore militare William Mwilanya Assani. L'uomo, ucciso a circa 20 chilometri dal luogo in cui sono stati assassinati Attanasio, Iacovacci e Milambo, è stato considerato all'inizio come il procuratore che seguiva le indagini sull'agguato contro l'ambasciatore italiano. Tuttavia, alcune fonti hanno ridotto la portata di questa lettura più "retroscenista" negando in realtà il nesso diretto tra i due tragici episodi. Il governatore del Nord Kivu, Carly Nzanzu Kasivita, ha ribadito ad Agenzia Nova che non esistono collegamenti tra i due fatti. Anche Angelo Ferrari, giornalista africanista dell'Agi, ha spiegato che non esistono certezze né sul legame tra le due morti né sul ruolo nelle indagini su Attanasio. E soprattutto se queste abbiano avuto realmente un peso nella scelta dell'uccisione del militare. Il magistrato stava tornando da Goma, dove aveva partecipato ad alcune riunioni sulla sicurezza dell'area, ed era diretto a Rutshuru. Nelle riunioni si era parlato anche del caso Attanasio, tuttavia il generale a capo delle indagini sull'assassinio era Vital Awashango, mentre William Mwilanya Asani era revisore dei conti presso l’ufficio del procuratore militare secondario di Rutshuru, ed era quindi uno dei funzionari impegnati nelle indagini.
In base alle indagini su questo secondo tragico fatto di sangue, gli indizi hanno condotto verso un gruppo di militari ribelli, il 3416mo reggimento. Tuttavia, sembra che le fonti locali concordino (come riporta Formiche) sul fatto che questi miliziani stessero "infastidendo la popolazione sulla strada e quando hanno visto la jeep militare hanno iniziato a sparare". Una testimonianza che sembrerebbe spegnere le ipotesi sull'omicidio per coprire alcune verità scoperte durante le indagini, ma che conferma invece il tragico nome che circola su quel tratto di RN2: la strada della morte.
Gli ultimi sviluppi sull’agguato contro Luca Attanasio. Mauro Indelicato su Inside Over il 9 gennaio 2022.
“Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio.
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Baraka Dabu Jackson è un assistente del parco del Virunga, lo stesso percorso dalla route national N2 dove l’ambasciatore italiano Luca Attanasio ha trovato la morte assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci lo scorso 22 febbraio. Jackson si trovava lì nel giorno dell’agguato. In alcune foto che ritraggono il corpo senza vita del diplomatico all’interno di un furgone, lui spunta con una maglietta rossa. La sua testimonianza, riportata nelle scorse ore dal quotidiano Domani, ha aggiunto nuovi dettagli all’inchiesta. Ma, al contempo, ha aperto nuovi interrogativi. In primo luogo su chi ha ucciso i due italiani e, in secondo luogo, sul perché il convoglio in cui viaggiava Attanasio è stato preso di mira.
Le ultime due testimonianze
Il 22 febbraio a Kibumba era giorno di mercato. Kibumba è il nome del villaggio più vicino al lungo dell’agguato. Si trova lungo la N2 in una zona che i locali riconoscono con il nome “trois antennes” per via della presenza di tre grandi antenne poco lontane. In quella mattinata, il villaggio era un brulicare di persone, tra gente comune, acquirenti e commercianti. Baraka Jackson era alle porte di Kibumba quando, intorno alle 10:15, ha sentito nitidamente colpi di arma da fuoco. Il giovane, assieme ad altri colleghi che lavoravano come assistenti nel parco del Virunga, ha notato quattro persone portate via da uomini ben armati. Questi ultimi, secondo quanto raccontato da Jackson, volevano raggiungere la fitta boscaglia ai lati della N2. Ma sono stati ben presto notati dai Rangers del parco. Ne è nata una colluttazione a fuoco durata almeno 40 minuti. Non era certo la prima volta che gli abitanti di Kibumba si trovavano davanti a una scena del genere. La N2 è tra le strade meno sicure e soprattutto serve una regione, quale quella del North Kivu, che è la più instabile della Repubblica Democratica del Congo. Baraka Jackson però, nell’osservare la scena, si è accordo di un dettaglio di non poco conto. Tra le quattro persone rapite dal gruppo armato erano presenti due bianchi. Si trattava, si è scoperto dopo, proprio di Attanasio e Iacovacci.
Durante il conflitto a fuoco a un certo punto i rapitori hanno sparato ai due italiani. Nella sua testimonianza, Baraka Jackson ha nitidamente descritto la drammatica scena. I rapitori hanno prima sparato contro il carabiniere, mirando alla sua gola, dopo hanno colpito allo stomaco l’ambasciatore. Successivamente sono fuggiti, dileguandosi nella foresta. Trovandosi a poca distanza da lì, Jackson si è diretto verso i due italiani provando a soccorrere Luca Attanasio, esanime ma ancora in vita: “Ho preso in braccio l’ambasciatore – ha dichiarato il ragazzo – per portarlo in strada verso i soccorsi. Ma è morto tra le mie braccia”. La testimonianza confermerebbe un dettaglio emerso già a febbraio dalle autopsie. Iacovacci infatti, secondo i medici che hanno condotto gli esami fatti in Italia, sarebbe morto sul colpo dopo essere stato raggiunto dalle pallottole. Attanasio invece sarebbe deceduto dopo almeno 50 minuti di agonia durante il trasporto in ospedale. Baraka Jackson ha fatto riferimento anche a ulteriori dettagli essenziali per l’indagine. Il primo riguarda l’armamento posseduto dai rapitori. Sarebbe stato ben più potente di quello dei Rangers. Non si trattava quindi di criminali improvvisati, come tra i tanti presenti tra i sentieri del Virunga. Il secondo ha a che fare invece con la lingua parlata dagli autori dell’agguato. Dalle urla ascoltate da Jackson, sembrerebbe parlassero una versione congolese del kinyarwanda, lingua parlata soprattutto in Ruanda ma anche in alcune zone dell’Uganda e del North Kivu.
Dopo aver provato a soccorrere Luca Attanasio, Baraka Jackson è stato fermato e poi arrestato nonostante non avesse nulla a che fare con il fatto. Per questo per mesi non è stato possibile raccogliere la sua testimonianza. Una sorte toccata anche a un altro testimone. Si tratta di Julien Kitsa, commerciante presente con il suo bancone della frutta quel giorno nel mercato di Kibumba. Dopo aver sentito gli spari, si è precipitato nel luogo dell’agguato per capire cosa stesse succedendo. Ha sentito i rapitori urlare a telefono, in lingua kinyarwanda, “abbiamo rapito i bianchi”. Poi ha notato l’autista del convoglio in fin di vita. Si trattava di Mustapha Milambo, terza vittima di quell’agguato, morto durante i tentativi di soccorso dello stesso Julien Kitsa. Il quale, subito dopo, è stato interrogato e fermato senza motivo.
Rimangono i misteri sui dispositivi di sicurezza
Le due testimonianze raccolte hanno quindi chiarito alcuni dettagli circa gli ultimi istanti di vita di Attanasio e Iacovacci. Ancora non si era riuscita a comprendere la dinamica dell’agguato e in che modo le due vittime italiane erano decedute durante lo scontro a fuoco. Al contempo però sono aumentati i misteri. A organizzare l’incursione armata non è stata una banda comune, bensì un gruppo ben equipaggiato con armi di un certo peso. Di chi si trattava? Nella zona operano le Forze Democratiche Ruandesi (Fdlr) e, poco più a nord, la costola locale dell’Isis che qui corrisponde alla sigla Adf (Allied Democratic Force). Entrambi i gruppi però hanno escluso ogni coinvolgimento. Il governo congolese dal canto suo, per bocca dello stesso presidente Felix Tshisekedi, ha sempre parlato di una banda di criminali comuni quale responsabile del rapimento, mostrando come prova in tal senso alcuni arresti effettuati tra febbraio e maggio. Se però i fermati a cui si è fatto riferimento avevano lo stesso coinvolgimento nullo dei due testimoni ingiustamente arrestati, allora vuol dire che l’indagine congolese è stata, nella migliore delle ipotesi, superficiale e poco significativa. Ad ogni modo, l’inchiesta nel North Kivu risulta oggi arenata. Il primo magistrato locale a curare il fascicolo, Mwilanya Asani William, è stato ucciso pochi giorni dopo l’agguato ad Attanasio e sempre lungo la N2.
Altra domanda: perché i rapitori hanno ucciso i due italiani? La teoria della banda comune in azione ha sempre portato a pensare alla morte di Attanasio e Iacovacci quale conseguenza dello scontro con i rangers o di un tentativo di rapina andato a male. Ma, secondo la testimonianza di Baraka Jackson, i due sono stati uccisi a bruciapelo. C’è poi il quesito forse più importante: perché la sicurezza non è stata garantita? Per arrivare a una risposta la procura di Roma si sta scontrando non solo con l’inerzia congolese ma anche con quella del Pam, il Programma Alimentare Mondiale. L’ambasciatore italiano era in viaggio proprio con un convoglio Pam. Il responsabile della sicurezza, Mansour Rwagaza, ha avvisato soltanto la sera prima i propri vertici del passaggio del convoglio con Attanasio lungo la N2. I protocolli di sicurezza prevedono un preavviso di almeno 5 giorni. Inoltre Rwagaza ha comunicato che il convoglio sarebbe stato composto solo da personale Pam. Circostanza non vera ovviamente e che ha impedito l’organizzazione di un più efficiente dispositivo di sicurezza. Quella di Rwagaza, al momento unico iscritto nel registro degli inquirenti italiani, è stata una negligenza? Oppure c’è dell’altro? Il problema è che nemmeno il Pam sta pienamente collaborando. Lo stesso Rwagaza è stato trasferito in Mozambico. Fuori dal Congo è stato portato anche Rocco Leone, altro italiano presente nel convoglio e all’epoca tra i responsabili locali del Pam.
I buchi neri del caso Attanasio. Fausto Biloslavo su Inside Over il 10 gennaio 2022.
“Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio.
Il 20 dicembre il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha consegnato l’onorificenza di Gran Croce d’Onore dell’Ordine della Stella d’Italia, alla vedova dell’ambasciatore Luca Attanasio ucciso in un agguato in Congo assieme al carabiniere di scorta e l’autista. Al Quirinale erano presenti alla cerimonia la moglie del giovane diplomatico, Zakia Seddiki, la figlia Sofia, il padre Salvatore, la sorella Maria.
Due giorni dopo il ministero della Difesa ha avviato l’iter per assegnare al carabiniere Vittorio Iacovacci, che fece scudo con il suo corpo all’ambasciatore, la medaglia d’oro alla memoria. Il ministero degli Esteri ha intitolato ad Attanasio la sala della Farnesina utilizzata per i concorsi degli aspiranti diplomatici. Bello, giusto, ma non bastano medaglie e riconoscimenti per onorare la memoria dell’unico ambasciatore italiano ucciso in tempo di pace assieme alla sua scorta. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, l’ha chiarito senza se e senza ma, pochi giorni prima di Natale: “Auspico che venga fatta finalmente luce sul loro assassinio, e che si accertino prontamente tutte le responsabilità”.
L’agguato del 22 febbraio scorso in Congo è stato dimenticato in fretta dai media e dall’opinione pubblica nonostante i tanti aspetti ancora oscuri. Nel buco nero sta facendo luce la procura di Roma, che a breve dovrebbe chiudere le indagini, ma la strada per arrivare a verità e giustizia è tutta in salita. Il Programma alimentare mondiale, responsabile del convoglio finito in un agguato cerca di alzare lo scudo dell’immunità diplomatica sui suoi funzionari pesantemente coinvolti nella triste fine dell’ambasciatore, del carabiniere e dell’autista congolese, Mustafa Milambo. Le autorità di Kinshasa collaborano fino ad un certo punto. Non c’è certezza su chi abbia premuto il grilletto, i tagliagole dell’imboscata o le guardie del parco Virunga intervenute scatenando un conflitto a fuoco. Sulla matrice dell’agguato ed eventuali mandanti la nebbia è ancora più fitta. Pure la Farnesina e la nostra intelligence dovrebbero spiegare come mai il raddoppio della scorta richiesta da Attanasio è stato bocciato e nessuno ha pensato di intervenire per fermare l’ambasciatore in un viaggio non protetto e ad alto rischio.
Luca, Vittorio, Mustapha sono vittime che non vanno dimenticate e per questo InsideOver vuole raccontare i drammi senza fine del Congo e alzare il velo sulle ombre che ancora avvolgono l’agguato del 22 febbraio. Per farlo abbiamo bisogno del vostro aiuto, lettori, (Sostieni il reportage) se credete che la tragica fine dell’ambasciatore e le altre due vittime non vada relegata nell’oblio oppure insabbiata senza colpevoli nella palude dei cavilli giudiziari e diplomatici. Ostacoli da sgomberare e lati oscuri da chiarire sono ancora tanti.
Indagini e immunità diplomatica
L’inchiesta del procuratore aggiunto di Roma, Sergio Colaiocco, ha subito puntato il dito contro il ruolo ambiguo del Pam, agenzia delle Nazioni Unite. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha scritto al direttore del Pam chiedendo senza indugi “la massima collaborazione con la magistratura italiana” e “una rapida risposta alla richiesta di elementi utili per le attività investigative in corso”.
Il responsabile della sicurezza del convoglio finito nell’imboscata, Mansour Rwagaza, è indagato con l’accusa di omicidio colposo per omessa cautela. Non avrebbe chiesto con i cinque giorni previsti di anticipo il via libera al viaggio per ottenere la scorta armata delle forze di sicurezza congolesi ed eventualmente dei caschi blu dell’Onu presenti in zona. L’ambasciatore e il carabiniere di scorta hanno viaggiato su macchine non blindate con i giubbotti antiproiettile nel bagagliaio. E, fatto ancora più grave, sarebbe stata pure falsificata la lista dei nomi dei partecipanti alla missione omettendo quelli di Attanasio e Iacovacci. Forse per evitare che la visita al progetto del Pam saltasse per la mancata protezione.
Le indagini devono chiarire anche il ruolo di altri personaggi, primo fra tutti l’italiano Rocco Leone, numero due del Programma alimentare mondiale in Congo, a bordo del convoglio, testimone oculare scampato per miracolo all’agguato. Un altro carabiniere italiano in servizio presso l’ambasciata italiana a Kinshasa ha raccontato che nei giorni prima del viaggio della morte aveva sentito il suo collega Iacovacci, consapevole dei rischi, parlare con Leone e Rwagaza sulle misure di sicurezza adottate per la missione.
I legali dell’agenzia dell’Onu, con sede centrale a Roma, hanno tentato di alzare lo scudo dell’immunità per i dirigenti coinvolti nell’inchiesta. E pensare, che con il cadavere ancora caldo di Attanasio, il Pam aveva giurato massima apertura e disponibilità per fare luce sull’agguato. In realtà il loro uomo indagato, secondo la procura di Roma, non gode di alcuna immunità diplomatica non essendo accreditato nel nostro paese.
Chi ha sparato?
L’ambasciatore doveva visitare un progetto Pam per le scuole nell’Est del paese. Il convoglio è stato intercettato sulla strada N2, che parte da Goma tagliando la provincia congolese del Kivu nei pressi del mercato di Kibumba. Tra il 2018 e il 2021 gli investigatori italiani hanno scoperto che sullo stesso percorso si sono verificati almeno 20 scontri a fuoco che hanno coinvolto i ranger, le guardie del parco Virunga. Secondo il racconto di Leone almeno cinque uomini armati di kalashnikov e uno di machete hanno partecipato all’agguato fermando il convoglio. I passeggeri, compreso l’ambasciatore ed il carabiniere, sono stati costretti a scendere e poi a seguire la banda nel fitto della foresta. I ranger del parco sono intervenuti nel tentativo di liberare gli ostaggi.
Secondo il rapporto dell’Onu il conflitto a fuoco è scoppiato ad un paio di chilometri dal convoglio. Iacovacci aveva lasciato la pistola d’ordinanza sul fuoristrada del Pam, ma dopo i primi spari avrebbe fatto da scudo all’ambasciatore cercando di proteggerlo e allontanandolo dalla linea di fuoco. Il carabiniere è stato colpito mortalmente al collo da un proiettile di Ak 47, ma sia i ranger che i presunti sequestratori hanno sparato con quest’arma. Per Attanasio, ferito gravemente all’addome, non c’è stato nulla da fare.
Il terzo italiano, Leone, zoppicava e sarebbe rimasto indietro. Così è riuscito a dileguarsi durante il conflitto a fuoco. La sua guardia del corpo, ferita, si è salvata fingendosi morta.
Un anno dopo l’agguato non è ancora chiaro al 100% se Attanasio e Iacovacci siano stati uccisi dagli assalitori o dal fuoco amico.
“Gran parte dei poliziotti e militari congolesi sono un’Armata Brancaleone, poco addestrati e con il grilletto facile. Figuriamoci i rangers del parco nazionale intervenuti per primi dopo l’imboscata del 22 febbraio. Non ci sarebbe da stupirsi se aprendo il fuoco abbiano ucciso, per sbaglio, l’ambasciatore ed il carabiniere” spiega al Giornale chi ha fatto il lavoro di scorta in Congo.
I carabinieri del Raggruppamento operativo speciale avrebbero dovuto compiere un’ulteriore missione investigativa in Congo concentrandosi sui dati e le ricostruzioni balistiche per cercare di capire con definitiva certezza chi ha tirato il grilletto. Il governo congolese, nonostante le promesse iniziali, non collabora come dovrebbe per fare luce sulle zone d’ombra forse temendo che possano emergere verità imbarazzanti.
Gli scheletri nell’armadio italiani
Il nostro paese è esente da responsabilità, dirette o indirette, sul tragico agguato? Nel 2018, un anno dopo il suo insediamento l’ambasciatore aveva chiesto alla Farnesina di raddoppiare la scorta in Congo, che contava solo su 2 carabinieri. Il ministro degli Esteri aveva avviato un’ispezione, come da prassi, che ha respinto la richiesta. Il livello di sicurezza della nostra ambasciata in Congo si è incredibilmente ridimensionato negli anni. “Dal 2014 ci sono solo 2 operatori di scorta, prima eravamo in 4 e prima ancora il reggimento Tuscania (carabinieri paracadustisti nda) aveva 8 uomini” rivela una fonte dell’Arma. Per assurdo è capitato che non ci fosse neanche un autista e l’uomo di scorta ha chiesto, in alcune situazioni, all’ambasciatore di guidare, altrimenti non avrebbe potuto proteggerlo in maniera adeguata.
La nostra intelligence perché non ha fermato Attanasio pur sapendo bene che la zona dalla missione del Pam non era sicura con un convoglio senza scorta? Una fonte militare del Giornale sottolinea che “il movimento dell’ambasciatore da A a B dipende in ultima analisi dalla scorta italiana e dai nostri servizi, che devono autorizzare o meno gli spostamenti con tutte le garanzie di sicurezza dettate dalla situazione”. Purtroppo l’area del Congo era coperta da un ufficiale dei servizi segreti assegnato alla nostra ambasciata in Angola. Anche se il convoglio veniva gestito dal Programma alimentare mondiale, gli italiani dovevano accertare il livello di rischio e giudicare se fosse sufficiente la protezione. Qualcosa è andato storto come conferma un carabiniere che ha operato come scorta in Congo: “L’Onu avrebbe potuto anche non avere uomini disponibili o rifiutarsi di concedere una scorta di caschi blu perché il tragitto è “giallo”, ma in questi casi ci si rivolge alla polizia locale chiedendo almeno una camionetta con degli agenti”.
Ancor più se il primo rapporto della nostra intelligence a “caldo”, dopo la morte degli italiani e dall’autista congolese, confermava i pericoli lungo il tragitto. Il luogo dell’agguato, hanno scritto gli 007, “è ricompreso in un’area, denominata “Zona delle tre antenne” ad alto rischio per la sicurezza”.
Banditi o altro?
Sulla matrice dell’imboscata, che ha provocato la morte dell’ambasciatore, si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto. Ancora oggi gli assassini non sono stati identificati e non è chiaro se fosse una tentata rapina, un rapimento o qualcosa di peggio. Il governo di Kinshasa aveva accusato i resti degli hutu delle Forze democratiche di liberazione del Ruanda annidati nel Kivu. Al contrario alcuni missionari comboniani hanno chiamato in causa il discusso colonnello Jean Claude Rusimbi legato al governo ruandese e coinvolto in massacri nella turbolenta zona di confine. Nell’area sono spuntate anche formazioni jihadiste e l’intelligence sottolinea che a Goma, i terroristi ispirati dal Califfato, hanno impiantato una cellula. Paradossale, che proprio l’Isis africano abbia accusato di recente la “milizia Mai Mai, alleata dell’esercito congolese” per combattere i gruppi jihadisti, “di avere ucciso un anno fa a Goma l’ambasciatore italiano”.
Tattiche dei mille specchi o fumo negli occhi, che sono un motivo in più per dare un nome e cognome agli assassini di Attanasio, Iacovacci e Milambo facendo piena luce sulla matrice dell’agguato. L’arduo compito spetta alla procura di Roma e al governo italiano. Noi giornalisti, andando sul posto con l’aiuto di voi lettori, racconteremo in un reportage il Congo dimenticato che sanguina oltre alle zone d’ombra, i dubbi, le domande senza riposta sulle nostre vittime: l’autista, il carabiniere e l’ambasciatore.
Fausto Biloslavo per "il Giornale" il 10 gennaio 2022.
Non bastano medaglie e riconoscimenti per onorare la memoria di Luca Attanasio, l'unico ambasciatore italiano ucciso in tempo di pace assieme al carabiniere di scorta e un autista congolese.
Un anno dopo l'agguato del 22 febbraio in Congo, dimenticato in fretta dall'opinione pubblica, ci sono ancora troppe zone d'ombra. L'Italia ha il dovere di fare piena luce. A breve la procura di Roma dovrebbe chiudere le indagini fornendo, si spera, le risposte alle domande sorte fin dall'inizio di questa triste storia.
A cominciare dal ruolo ambiguo del Programma alimentare mondiale, che aveva organizzato il convoglio con l'ambasciatore, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l'autista congolese, Mustafa Milambo uccisi nell'agguato.
Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha scritto al direttore del Pam chiedendo senza indugi «la massima collaborazione con la magistratura italiana» e «una rapida risposta alla richiesta di elementi utili per le attività investigative in corso».
Il responsabile della sicurezza del Programma alimentare in Congo, Mansour Rwagaza, è indagato con l'accusa di omicidio colposo per omessa cautela. Non avrebbe chiesto con i cinque giorni previsti di anticipo il via libera alla missione per ottenere la scorta armata delle forze di sicurezza locali ed eventualmente dei caschi blu dell'Onu presenti in zona.
L'ambasciatore e il carabiniere hanno viaggiato su macchine non blindate con i giubbotti antiproiettile nel bagagliaio. E, fatto ancora più grave, sarebbe stata pure falsificata la lista dei nomi dei partecipanti alla missione omettendo quelli di Attanasio e Iacovacci. Forse per evitare che la visita al progetto del Pam saltasse per l'inesistente protezione.
Le indagini devono chiarire anche il ruolo di altri personaggi, primo fra tutti l'italiano Rocco Leone, numero due del Programma alimentare mondiale in Congo, a bordo del convoglio, testimone oculare scampato per miracolo all'agguato.
I legali dell'agenzia dell'Onu, con sede centrale a Roma, hanno tentato di alzare lo scudo dell'immunità per i dirigenti coinvolti nell'inchiesta. In realtà il loro uomo indagato, secondo la procura di Roma, non gode di alcuna copertura diplomatica non essendo accreditato nel nostro paese.
Chi ha sparato all'ambasciatore? Secondo il racconto di Leone almeno cinque uomini armati di kalashnikov e uno di machete hanno partecipato all'agguato fermando il convoglio.
Attanasio e il carabiniere sono stati costretti a scendere seguendo la banda nel fitto della foresta. I ranger del vicino parco di Virunga sono intervenuti aprendo il fuoco. Il carabiniere è stato colpito mortalmente al collo da un proiettile di Ak 47, ma sia i ranger che i presunti sequestratori hanno sparato con quest'arma.
Per Attanasio, ferito gravemente all'addome, non c'è stato nulla da fare. Il nostro paese è esente da responsabilità, dirette o indirette, sul tragico agguato? L'ambasciatore aveva chiesto, inutilmente, di raddoppiare la scorta in Congo, che contava solo su due carabinieri.
La nostra intelligence consapevole che l'area era a rischio non ha fermato Attanasio. L'area del Congo era coperta da un ufficiale dei servizi segreti assegnato all'ambasciata in Angola.
Anche se il convoglio veniva gestito dal Programma alimentare mondiale, gli italiani dovevano accertare il livello di rischio e giudicare se fosse sufficiente la protezione. Solo banditi i responsabili dell'agguato?
Ancora oggi gli assassini non hanno un nome e cognome e non è chiaro se fosse una tentata rapina, un rapimento o qualcosa di peggio. Paradossale, che proprio l'Isis africano abbia accusato di recente la «milizia Mai Mai, alleata dell'esercito congolese» per combattere i gruppi jihadisti, «di avere ucciso un anno fa a Goma l'ambasciatore italiano».
La procura di Roma e il governo dovranno dissipare i dubbi. Noi giornalisti vogliamo raccontare con un reportage, grazie all'aiuto dei lettori, il Congo che sanguina oltre alle zone d'ombra e le domande senza riposta per non dimenticare le nostre vittime: l'autista, il carabiniere e l'ambasciatore.
Testimoni smentiscono l’ipotesi che Attanasio sia stato ucciso in una rapina. Luca Attanasio su Editorialedomani.it il 7 gennaio 2022. I membri del commando che a febbraio ha ucciso l’ambasciatore italiano in Congo avevano armi sofisticate e parlavano una lingua ruandese, dicono due testimoni dell’attacco, contraddicendo la versione ufficiale. Gli inquirenti congolesi non rispondono alle richieste della magistratura italiana, l’agenzia Onu responsabile della sicurezza tace. I membri del commando che a febbraio ha ucciso l’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, e altre due persone, avevano armi sofisticate e parlavano una lingua ruandese, dicono due testimoni dell’attacco.
La ricostruzione corrobora l’ipotesi di un tentativo di rapimento scrupolosamente pianificato ed esclude la versione ufficiale, quella di una rapina fatta da banditi locali terminata con uno scontro a fuoco.
L’agenzia Onu responsabile della sicurezza rimane in silenzio e gli inquirenti congolesi non rispondono alle richieste della magistratura italiana. Perché il nostro governo non pretende collaborazione da quello del Congo, con cui pure vanta ottimi rapporti?
Luca Attanasio. Giornalista, scrittore, collabora con La Stampa, Atlante (Treccani), Confronti, Agenzia Fides. Esperto di fenomeni migratori, geopolitica, Paesi dell’area Mena e Africa Subsahariana; Vaticanismo. Ha pubblicato vari testi, tra gli ultimi Se questa è una donna, Robin Edizioni, 2014; Libera Resistenza, Mincione Edizioni, marzo 2017; Il Bagaglio. Storie e numeri del fenomeno dei migranti minori non accompagnati (seconda edizione con contributo di Roberto Saviano), Albeggi Edizioni,
I misteri sulla morte di Luca Attanasio. Mauro Indelicato su Inside Over il 30 dicembre 2021. “Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio. Circostanze che non tornano e governi, ancora una volta, poco collaborativi con l’Italia. Il 2021 ha portato via al nostro Paese l’ambasciatore Luca Attanasio, ucciso nella Repubblica Democratica del Congo il 22 febbraio scorso assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci, ma a fine anno ancora le inchieste non hanno portato all’individuazioni di mandanti e responsabili. Si sta indagando al Palazzo di Vetro, per via del coinvolgimento dell’agenzia Pam (Programma Alimentare Mondiale), così come a Kinshasa e a Roma. Nella capitale però gli inquirenti devono scontrarsi con elementi poco chiari e, soprattutto, ben poco chiariti dai diretti interessati.
Il ruolo della Pam
Luca Attanasio era ambasciatore dal 2016 nella Repubblica Democratica del Congo. Un Paese tanto vasto quanto tormentato. Soprattutto nelle regioni orientali dove da anni imperversano guerre, crisi alimentari ed epidemie. Attanasio il 22 febbraio si trovava proprio in questa parte del Congo. L’ultima notte il diplomatico l’ha trascorsa a Goma, capoluogo del North Kivu, una delle province più instabili del Paese e dell’Africa. Si è messo poi in viaggio verso Rutshuru, città raggiungibile tramite la strada N2. Si tratta di un’arteria molto pericolosa che attraversa il parco nazionale del Virunga, al cui interno sono attive bande criminali. Eppure non c’era personale di scorta, né dell’Onu (presente in zona con la missione Monusco) e né del governo congolese. Ed è questo il primo importante mistero con cui gli inquirenti si stanno scontrando. Attanasio era atteso a Goma per un evento del Pam. Il viaggio, nella sua interezza, era organizzato dall’agenzia Onu. Non solo lo spostamento del 22 febbraio, ma l’intera trasferta da Kinshasa iniziata il 19 febbraio. L’ambasciatore quel giorno, a bordo di un aereo messo a disposizione dall’agenzia, ha raggiunto Goma prima di spostarsi a Bukavu. A darne testimonianza è stato Padre Giovanni Magnaguagno, missionario saveriano che domenica 20 febbraio ha incontrato in questa città Attanasio. Poi lo spostamento di nuovo nel capoluogo, infine il viaggio verso Rutshuru.
Tutto sempre sotto l’egida del Pam. I vertici locali dell’agenzia ben conoscevano i rischi nel percorrere la N2. Eppure la strada è stata giudicata sicura. Attanasio, assieme a un convoglio composto da sette persone, era accompagnato unicamente dal carabiniere Vittorio Iacovacci, militare che prestava servizio nella nostra ambasciata. La settimana prima un contingente formato da diplomatici belgi, estoni, irlandesi e norvegesi sono transitati lungo la N2 scortati da un importante contingente armato. Il Pam invece non ha predisposto nulla in tal senso. Per questo la procura di Roma ha voluto ascoltare Mansour Rwagaza, funzionario Pam e coordinatore della sicurezza in quest’area del North Kivu. Secondo il sostituto procuratore Luca Colaiocco, Rwagaza avrebbe violato i protocolli di sicurezza dell’Onu. Contrariamente a quanto previsto in questi casi infatti non ha avvisato i vertici locali delle Nazioni Unite del viaggio del convoglio. Doveva farlo entro cinque giorni, in modo da predisporre le misure necessarie. L’unica nota è stata inviata il 21 febbraio, a meno di 12 ore dalla partenza del convoglio da Goma. Non solo: Rwagaza ha scritto che a bordo dei mezzi dovevano salire solo membri Pam. Dunque non è stata segnalata la presenza del nostro ambasciatore e del carabiniere al suo seguito.
Due mosse, quelle del funzionario, che forse hanno inciso su un livello di sicurezza piuttosto scarso per non dire inesistente. Gli inquirenti non escludono nulla: la negligenza o un’azione premeditata. Ascoltato e interrogato nei mesi scorsi, il diretto interessato si è avvalso della facoltà di non rispondere. Per la cronaca, anche le Nazioni Unite hanno aperto un’inchiesta, conclusa poche settimane dopo l’agguato e consegnata agli inquirenti romani. Il contenuto però è al momento segreto.
Kinshasa poco collaborativa
Fin qui gli aspetti legati alla sicurezza. C’è poi il discorso relativo alla dinamica dell’agguato. Chi è stato a uccidere i due italiani? E qual era lo scopo? Le autopsie hanno rivelato che il carabiniere Iacovacci è morto subito, centrato da un proiettile. Attanasio invece è stato raggiunto dai soccorsi ma le ferite erano gravi e il decesso sarebbe arrivato 50 minuti dopo aver subito il colpo. Morto all’istante è stato anche il loro autista, il congolese Mustapha Milambo. Illesi tutti gli altri, tra cui l’italiano Rocco Leone, vice direttore Pam in Congo. Si sa che il convoglio è stato fermato all’altezza della località nota come “3 Antennes” da ostacoli posti lungo la strada. Tra questo momento e quello dell’agguato fatale non si è ancora ben compreso cosa possa essere accaduto. Se cioè Attanasio e Iacovacci siano deceduti a seguito di colpi mirati verso di loro oppure dopo una fuga interrotta dai rapitori. Oppure ancora, se i due siano stati o meno colpiti da “fuoco amico” sparato dai Rangers del parco del Virunga, i primi a intervenire.
Rapina o agguato mirato contro il nostro ambasciatore, due ipotesi non scartate ma impossibili al momento da verificare. Il governo di Kinshasa infatti non sta collaborando. Nessuna risposta è arrivata alle due rogatorie inviate dai nostri inquirenti, mentre nemmeno un documento è stato inviato dalla capitale congolese verso Roma. Si sa soltanto che in Congo l’inchiesta è aperta ed è costata la vita al magistrato William Assani, titolare dell’indagine e assassinato il 5 marzo scorso sempre lungo la N2. Il presidente Felix Tshisekedi ha assicurato collaborazione e ha parlato a maggio di due arresti che darebbero spazio all’ipotesi dell’azione di bande comuni e non di gruppi organizzati che operano nel North Kivu. Eppure non ha aggiunto altro, nemmeno in due incontri diplomatici ad alto livello tenuti a Roma negli ultimi mesi. Né, tantomeno, sembra aver dato input a una certa e più proficua collaborazione con i magistrati italiani.
Il mistero di Lara Argento, la transessuale di Pavia scomparsa a Natale 2019. Un omicidio senza colpevoli. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 30 Marzo 2022.
Nonostante lunghe e approfondite indagini il corpo non è mai stato trovato. I sospetti sul fidanzato poi scagionato. L’ultima notte in riva al Ticino, il giovane che l’aveva contattata per un incontro a pagamento: tanti enigmi ancora senza risposta.
«Quei dettagli inquietanti»
Forse non tutti i morti sono uguali, specie i morti ammazzati. Ma nel caso di Lara Argento, inquieta e sofferente, precedenti per droga, cocainomane, malata di Aids, prostituta, quattro tatuaggi compreso uno con le impronte d’un cane, uscita dalla casa di Pavia nella notte tra il 21 e il 22 dicembre 2019, scomparsa e forse uccisa — il cadavere sepolto chissà dove, se non dato in pasto ai maiali che nulla di un corpo risparmiano —, ecco, tanto, davvero tanto è stato fatto. Ovvero trenta persone interrogate e venti intercettate, 1.600 targhe di macchine sott’esame, l’analisi di plurime telecamere di autostrade, tangenziali e paesi, poi elicotteri e droni, cani molecolari fra cascinali e fattorie, volontari di Protezione civile e Croce Rossa in esplorazione, gli esperti del Ris in abitazioni e macchine, ricerche in alberghi e ospedali, gli incroci tra le celle telefoniche e i cellulari agganciati in vaste aree della provincia, infine il rintraccio degli uomini che pagavano Lara — all’anagrafe Leandro Dos Santos Barcelos — perché Lara, trans brasiliana 38enne, si vendeva, soprattutto a pregiudicati e detenuti appena liberi.
Un unico sospettato
L’aveva sempre fatto dall’arrivo in Italia e continuava a farlo pur vivendo insieme a Roberto Caruso, stessa età, una famiglia un po’ balorda, un’esistenza zoppicante, sospettato d’esser lui il killer, però scagionato e finita lì: caso chiuso. Ufficialmente. Di Lara, mai più traccia, e nemmeno si esclude, come ipotesi minoritaria prossima all’impossibilità, il gran colpo di scena: un’anomala mutazione nel codice di comportamento di una donna apprensiva, vigilante, attaccata ai telefonini e connessa il giorno come la notte — si annunciava sui siti di incontri sessuali — che avrebbe pianificato ed eseguito un allontanamento volontario. Spegnendo gli apparecchi, trovando un appoggio e complici per nascondersi, tornando in Brasile sotto falso nome, magari la coda di cavallo sciolta oppure una parrucca in testa, lei che odiava le parrucche. Possibile? Gli investigatori non ci credono, i magistrati nemmeno. Troppo prevedibile, Lara Argento, caduta dentro il buio non soltanto di una notte d’inverno, a due mesi dall’inizio della pandemia che non agevolò le indagini, essendosi fermata l’Italia intera (e i movimenti dei pregiudicati, le telefonate per accordi illegali, le perlustrazioni del sesso a pagamento).
L’uomo del mistero
Vero che Caruso denunciò la scomparsa otto giorni più tardi, a mezzogiorno spaccato del 30 dicembre, motivando il ritardo con le abitudini di Lara a sparire senza comunicare alcunché, magari pagata da uomini per più giorni di servizio consecutivi fingendo d’essere una fidanzata, una moglie. Vero che mesi dopo Caruso vendette la macchina. Vero che un ventenne, l’ultimo a contattare Lara per del sesso, arrivò al luogo convenuto, il lido di Pavia sul Ticino, avvicinò la sua macchina a un’altra vettura «di colore grigio, non ricordo il modello», ci vide a bordo Lara stessa — quantomeno così ne aveva memorizzato il viso osservandola su Internet e convincendosi a scegliere lei —, e di fianco a Lara vide un uomo piccolo, in mutande; i due litigavano, senonché Lara scese, si avvicinò al ventenne che intanto spaventato si era sigillato nell’abitacolo, bussò sul finestrino, propose una cosa a tre, e il ragazzo scappò, rincasando a una velocità folle dalla fidanzata che lo cercava disperata, in quanto una sua amica aveva avuto un malore, bisognava correre in ospedale e quello non si trovava: ma non doveva andare a una cena con gli amici? I carabinieri del Nucleo investigativo mostrarono più avanti delle fotografie a quel ventenne, e lui, netto, puntò l’indice su una faccia che gli era ignota: Roberto Caruso. Ma Caruso lì, al lido, non c’era stato. O meglio, non c’era stato seguendo il suo cellulare, interrogando — di nuovo — le celle telefoniche, visionando – ancora – i filmati delle telecamere. Dunque chi era quell’uomo?
Le macchie di sangue
Quell’uomo non era nessuna delle persone comparse nel telefonino di Lara, che aveva due Sim. Strano: la trans adottava mille accorgimenti, dava un indirizzo e ne aggiungeva un secondo e pure un terzo, insisteva nel chiamare per avere un aggiornamento costante dei movimenti dell’uomo che l’aveva prenotata. Una forma di difesa, insieme alla sua robustezza (un metro e ottanta) utilizzata per aggredire Caruso: nella casa le liti erano frequenti. E a quelle liti, che esplodevano nei giorni di dosaggio ormonale, di astinenza dalle droghe e di eccessi alcolici, risalivano le 39 macchie di sangue isolate dal Ris, nel trilocale sporco, trasandato, dove appunto schizzi ematici ovunque non erano stati nemmeno puliti. Da settimane. Ma se si ipotizza che in quella casa si sia ambientata la scena del crimine, è un errore. Come lo è ragionare sulla macchina di Caruso: venduta, abbiamo detto, eppure ugualmente perlustrata dai carabinieri e intonsa dal punto di vista criminologico. Se però Lara non venne trasportata dalla macchina di Caruso, s’ignora su quale auto quella notte abbia viaggiato.
Il telefono
Torniamo ai giorni della sparizione. In particolare al 22 dicembre. E alla fascia temporale compresa tra 4.17 e le 7.09, quando le ultime celle agganciarono il cellulare di Lara, coprendo il territorio che va da Voghera a Lungavilla, verso sud. Qui, terre di pace e silenzi, i carabinieri del Comando provinciale di Pavia guidato dal colonnello Luciano Calabrò concentrarono le ricerche nel parco palustre e lungo gli argini del Po; qui l’assassino potrebbe aver portato Lara nascondendo corpo e telefonino. Nell’inventario complessivo dei reperti individuati in riva al Grande Fiume, vanno inclusi un paraurti di una macchina coperto da tracce di sangue e un braccialetto: oggetti considerati esterni all’inchiesta. Forse raccontano altre storie di sesso e miseria, dolore e violenza. Ma non questa storia.
· Il mistero di Evi Rauter.
Evi Rauter, mistero risolto dopo 32 anni. Suo il corpo trovato in Spagna. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.
La studentessa altoatesina sparì da Firenze nel settembre del 1990. Pochi giorni dopo un corpo fu trovato impiccato a un albero in Costa Brava. I genitori di lei lo hanno ora riconosciuto grazie ai vestiti e a un orologio.
La studentessa che scomparve a Firenze nel settembre 1990 e la giovane trovata impiccata in Spagna pochi giorni dopo sono la stessa persona. Dopo quasi 32 anni è stato risolto un «cold case» unendo due misteri rimasti a lungo senza risposta. Il corpo trovato appeso a un albero in una località balneare spagnola appartiene a Evi Rauter, studentessa altoatesina sparita dal pensionato in cui viveva a Firenze. I familiari della vittima hanno riconosciuto i resti grazie all’aiuto di una trasmissione tv austriaca. Ma il giallo può dirsi svelato solo in parte: fonti spagnole nutrono dubbi sul fatto che Evi si sia tolta la vita e alcuni indizi fanno sospettare un caso di omicidio.
Evi Rauter aveva 19 anni e aveva appena passato l’esame di maturità quando nell’estate del 1990 dal piccolo comune di Lana (Bolzano) va a trascorrere un periodo di vacanza a Firenze dalla sorella che studia all’università e vive in un piccolo appartamento di un pensionato. La mattina del 3 settembre quest’ultima trova un biglietto lasciato da Evi: «Vado in gita a Siena». Sembrava trattarsi dell’escursione di un giorno e invece da quel giorno della giovane si perdono completamente le tracce.
Pochi giorni dopo in una pineta di Portbou, località della Costa Brava spagnola viene trovato il corpo senza vita di una ragazza impiccato ad un albero. All’epoca in Spagna non è ancora stato introdotto il test del dna come metodo di indagine e nessuno riesce a dare un nome a quel cadavere. Non aiutano le testimonianze dei frequentatori di un vicino camping (tra cui anche alcuni austriaci): nessuno sa fornire informazioni su quella ragazza nè si è accorto di nulla. La ragazza del mistero viene sepolta in un cimitero in una tomba anonima, il caso viene archiviato come un suicidio. Nessuno poteva sospettare un collegamento con il dramma che in quegli stessi giorni viveva la famiglia di Evi Rauter.
La soluzione arriva grazie all’insistenza di una trasmissione in onda sul canale privato austriaco ATV, una sorta di «Chi l’ha visto?». Il direttore dell’emittente Benedikt Morak ha dichiarato che i genitori di Evi hanno riconosciuto la loro figlia grazie ad alcune foto, ai vestiti e all’orologio trovati sul cadavere e conservati dalla polizia. La «dritta» decisiva sarebbe arrivata da un telespettatore che ha riconosciuto Evi in una ragazza da lui incontrata in Spagna proprio in quell’estate del 1990.
Per un mistero che si risolve , invece, un altro sembra destinato a rimanere tale. La polizia, come detto, ritiene che la morte vada attribuita a un suicidio. Le ragioni del quale restano del tutto insondabili. Un medico legale tuttavia, dopo aver visionato alcune immagini del cadavere e della scena del ritrovamento a Portbou sostiene una versione diversa: la posizione della testa, il fatto che l’albero sia molto basso fanno propendere lo specialista per un caso di omicidio. Ma per la legge spagnola il caso sarebbe ormai prescritto e riaprire le indagini risulterà molto difficile.
· Il mistero di Marina Di Modica.
Il mistero di Marina Di Modica: per gli inquirenti uccisa e buttata in un fosso. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera il 16 Maggio 2022.
Una sera di maggio del 1996 Marina uscì a comprarsi un paio di scarpe e sparì nel nulla. Mai ritrovata, ma per il suo omicidio è stato condannato a 14 anni il filatelico Paolo Stroppiana.
Un appunto sull’agenda. Ricordava a Marina che, la sera dell’8 maggio di ventisei anni fa, avrebbe dovuto onorare un impegno: «b. cena Paolo x f.bolli». Gli inquirenti puntarono con tanta cura su quelle parole da considerarne tutte le possibili interpretazioni: riuscirono pure a scovare un certo Paolo Cena, che affittava un’autorimessa vicino a casa sua. E una ditta di raccoglitori per francobolli posseduta in società da un certo signor Paolo.
Le provarono davvero tutte, per capire in quale buco nero fosse stata risucchiata la povera Marina Di Modica, logopedista torinese vicina alla festa dei quarant’anni, che avrebbe dovuto festeggiare nella cascina di famiglia a Scaparoni d’Alba, dove invece oggi si trova una lapide in suo ricordo.
Invece, quella sera di maggio Marina uscì dal lavoro, andò a comprarsi un paio di scarpe e dei collant, si fece la messa in piega dal parrucchiere di fiducia e si chiuse alle spalle la porta di casa, per non tornare mai più. Suo padre, il professor Gaetano di Modica, accademico alla facoltà di chimica e personaggio illustre nel mondo delle scienze, non si dava pace.
Non aveva senso, quella scomparsa. Sua figlia era single, con una vita lavorativa piena e tanti amici con cui condivideva serate, l’amore per le piste da sci, i viaggi. Non c’era alcun motivo per considerare un allontanamento volontario: al di là della situazione personale, così stridente con l’ipotesi della fuga, Marina aveva lasciato tutto in casa. Mancava, sì, la sua automobile, che però una pattuglia di amici volenterosi ritrovò parcheggiata in via Magellano.
Il caso Di Modica lievitò facendosi argomento fisso sulla stampa, piemontese e non. Finché la famiglia non ricordò un dettaglio. Tempo prima, svuotando una soffitta, Marina aveva trovato una scatola di francobolli, appartenuti a un prozio avvocato. Li voleva far valutare e si era rivolta all’amica Bianca perché la aiutasse. Costei le aveva fatto conoscere il signor Paolo Stroppiana, impiegato della storica ditta di filatelia Bolaffi.
Il fratello di Marina, Marco, leggendo quell’appunto segnato sull’agenda, gli aveva attribuito il senso più immediato: andare a cena con Paolo (amico di b., cioè Bianca) per parlare dei francobolli. Chiamò lo Stroppiana in ufficio per sentirsi dire che sì, in effetti lui e Marina avevano in animo di vedersi prima o poi, ma nulla di più.
C’era materiale sufficiente per una convocazione in questura: di fronte agli agenti, Stroppiana ribadì di aver conosciuto Marina in una serata tra amici ma di non averla più incontrata. Dopo una ventina di giorni, venne riconvocato e ribadì la sua posizione.
Ma l’uomo aveva capito di essere sotto stretta osservazione e sentì l’obbligo di tornare una terza volta a colloquio con la polizia, di sua sponte, per rettificare l’alibi: «Effettivamente sì, avevo concordato un appuntamento con Marina. Ma l’ho disdetto un paio di giorni prima dell’8 maggio, perché avevo mal di schiena».
Intanto, di Paolo Stroppiana si andava componendo un identikit allarmante. A dispetto dei modi garbati, gli abiti di sartoria, e i sorrisi radiosi, il suo curriculum non era altrettanto ben stirato. Una condanna passata in giudicato per aver militato in Terza Posizione, su tutto. Il pubblico ministero Onelio Dodero, inizialmente, non credeva di aver incassato elementi sufficienti per un rinvio a giudizio: mancava il cadavere, il movente era oscuro.
I tracciati telefonici suggerivano che sì, l’uomo potesse essere tornato a casa dall’abitazione della sua fidanzata in tempo utile per incontrare Marina, ma senza certezze. Il giudice dispose l’imputazione coatta e iniziò un processo combattutissimo. Prima Dodero, poi il procuratore generale Vittorio Corsi e gli avvocati degli Stroppiana, Zancan e Castrale, da una parte. L’avvocato difensore Aldo Albanese dall’altra.
Tra racconti scabrosi di imprese con le sue tante frequentazioni femminili, ricostruzioni e smentite di alibi, Stroppiana venne sostanzialmente inchiodato alle sue bugie. La sua posizione reggeva sull’asserita telefonata di smentita dell’appuntamento concordato con Marina: peccato che i tabulati mostrassero soltanto la chiamata del 6 maggio, quella in cui l’appuntamento era stato fissato. L’imputato tentò, allora, la carta della improbabile telefonata fatta da una cabina telefonica (e perché mai?) non a casa di Marina, della quale aveva il numero, ma al centralino delle Molinette. Così che non ci fosse traccia da cercare.
La pervicacia nel proporre scenari poco credibili, e adattati alle smentite già incassate, diventò il cardine della ricostruzione accusatoria: Stroppiana aveva individuato un’altra preda sessuale in Marina. L’aveva incontrata e la serata, per qualche ragione, era degenerata in una situazione che alla donna non piaceva. Circostanza che, in qualche modo, era costata la vita.
Il suo corpo, secondo la procura, sarebbe poi finito in uno dei tanti orridi montani che Stroppiana, esperto alpinista, conosceva a menadito. La pena finale, per omicidio oltre l’intenzione, venne fissata dalla Cassazione, dopo un primo rinvio, in 14 anni. L’avvocato Zancan, con la sua oratoria da fuoriclasse, rievocò alcune affinità del caso di Marina con la scomparsa di una dipendente della Bolaffi, Camilla Bini. Sparita nel nulla nel 1989. Un caso senza colpevoli né indiziati.
A chi si indignava per una condanna priva di cadavere e movente, replicò che «dal precedente torinese del 1995 della povera trans Valentina, non conta più non accertarlo. Non è neppure decisivo ritrovare il corpo della vittima: ciò che conta è fare un percorso convincente di responsabilità». Stroppiana, di percorso, ne fece un altro: in carcere, senza mai ammettere alcunché. Grazie alla scontistica riconosciuta della legge penale e a un indulto, è libero dal 2019.
· Il mistero di Milena Sutter.
Il "biondino", la spider rossa e i dubbi sulla morte di Milena: "C'è un'altra verità". Rosa Scognamiglio il 3 Maggio 2022 su Il Giornale.
Milena Sutter, 13 anni, fu uccisa e gettata in mare il 6 maggio del 1971. Per l'omicidio fu condannato all'ergastolo Lorenzo Bozano. L'esperta: "Non c'è mai stata prova della sua colpevolezza". Tutti i dubbi sul caso.
“Milena uccisa”. Titolava così la prima pagina del Corriere Mercantile, il quotidiano storico di Genova, all'indomani del ritrovamento del cadavere di Milena Sutter, la 13enne di origini svizzere uccisa e poi gettata in mare il 6 maggio del 1971. Gli inquirenti dell'epoca attribuirono il delitto a Lorenzo Bozano, 25enne di estrazione alto-borghese, ribattezzato dalla stampa come il “biondino della spider rossa” per via dell'auto sportiva con cui era solito gironzolare per il capoluogo ligure.
Bozano, unico indagato per l'omicidio, fu condannato all'ergastolo a seguito di un processo indiziario. L'imputato dichiarò, a più riprese, di non conoscere Milena professandosi innocente fino all'ultimo dei suoi giorni (è morto a giugno dello scorso anno mentre si trovava in regime di libertà condizionata all'Isola d'Elba). Mentiva?
“Non vi è la prova che, oltre ogni ragionevole dubbio, Bozano sia colpevole nella morte di Milena. È assai probabile che la giovane studentessa della Scuola Svizzera di Genova non sia stata rapita per denaro. La richiesta di 50 milioni di lire (circa 500 mila euro di oggi) non sta in piedi. Forse si dovrebbero valutare soltanto i fatti oggettivi e togliere la parola rapimento dalla ricostruzione del caso”, spiega alla nostra redazione Laura Baccaro, criminologa e psicologa giuridica.
L'Omicidio di Milena Sutter: dal rapimento alla condanna del “biondino”
La scomparsa
Sono le ore 17 del 6 maggio del 1971. Milena, 13enne figlia del noto industriale della cera Arturo Sutter, esce dalla scuola svizzera di via Peschiera, a Genova, e si dirige verso la stazione Brignole per prendere il bus 88 che l'avrebbe riportata a casa, dalle parti di via Orsini. Deve rincasare alla svelta poiché ha una lezione privata fissata per le 17.30. Uno studente della prima media nota la ragazza mentre scende le scalette che conducono a via Groppallo, dove c'è la fermata dell'autobus 88. Da quel momento si perdono completamente le tracce di Milena.
Dopo averla cercata invano per l'intero pomeriggio, i coniugi Sutter decidono di denunciare la scomparsa della loro primogenita alla polizia attorno alle ore 21. È l'inizio di un'attesa spasmodica che culminerà 20 giorni dopo, quando il mare restituirà il cadavere di Milena.
La telefonata
Una scomparsa misteriosa o forse, data la giovane età della ragazza, un rapimento. La seconda ipotesi è suffragata da una telefonata che giunge a casa Sutter la mattina del 7 maggio 1971. Qualcuno, verosimilmente una voce maschile, formula una richiesta di riscatto: “Se volete Milena viva cinquanta milioni prima aiuola in corso Italia”, ripete per tre volte l'interlocutore “sillabando le parole”, precisa il giornalista e scrittore Maurizio Corte sul blog ilbiondinodellaspiderrossa.org citando un inquirente dell'epoca.
Si tratta della prima e unica volta in cui si fa vivo il presunto rapitore di Milena. La chiamata, confermata dal maresciallo di pubblica sicurezza Luigi Calanchi, non viene registrata per via di un non meglio precisato “guasto tecnico”. La cartella di Milena, invece, viene ritrovata nel punto indicato al telefono dallo sconosciuto: in un'aiuola di corso Italia.
Il ritrovamento del cadavere
Passano i giorni. I genitori di Milena, nel tentativo di stabilire una comunicazione coi presunti rapitori della figlia, chiedono il silenzio stampa. Temono che il trambusto mediatico creato attorno alla vicenda possa far desistere i responsabili della rapimento dall'intenzione di rilanciare la richiesta di riscatto. Di lì a breve giunge la tragica notizia.
È il pomeriggio del 20 maggio 1971. Due pescatori notano un corpo al largo delle acque di Priaruggia, a Quarto dei Mille. Il cadavere, parzialmente scarnificato dai pesci, sembra quello di un sommozzatore. A suggerire questa ipotesi è la presenza di una cintura da sub attorno alla vita. Fatto sta che i due uomini si dirigono verso la spiaggia per allertare le autorità. È un pescatore anziano, tal Benito Merli, a chiamare il 113.
Il corpo, estratto dal mare dai vigili del fuoco, è irriconoscibile per via della supposta lunga permanenza in acqua, che ha alterato i lineamenti del volto. Tuttavia la vittima ha con sé alcuni effetti personali tra cui una catenina con un ciondolo a forma di cuore in cui vi è inciso il nome “Milena”. Il dettaglio rimanda immediatamente alla ragazzina scomparsa dalla scuola svizzera. Motivo per cui gli inquirenti decidono di informare i coniugi Sutter.
L'autopsia eseguita dal medico legale, il professor Giorgio Chiozza, fuga ogni dubbio sull'identità del cadavere: “Non ci sono dubbi, purtroppo è lei (Milena ndr)”, afferma l'esperto attraverso le pagine del quotidiano genovese Il Secolo XIX all'indomani degli accertamenti cadaverici. Milena è morta per “asfissia meccanica” a seguito di uno strangolamento.
Il “biondino della spider rossa”
Sin da subito, i sospetti degli inquirenti si addensano su Lorenzo Bozano, 25enne di famiglia alto-borghese con una personalità eccentrica. All'indomani della scomparsa di Milena, precisamente nella notte tra il 9 e il 10 maggio, il ragazzo viene trattenuto in questura e poi rilasciato nelle ore successive.
Il soprannome di “biondino della spider rossa” salta fuori da un articolo di giornale. Alcune persone raccontano a un giornalista del Corriere Mercantile di aver visto un tal “biondino” a bordo di un'auto sportiva “rossa” aggirarsi dalle parti di via Orsini, dove abita la famiglia Sutter. Anche alcuni testimoni di via Peschiera dicono di averlo transitare/sostare davanti alla scuola svizzera frequentata da Milena. Tanto basta agli inquirenti per fare di Bozano un valido sospettato.
Ad avvalorare l'ipotesi di un coinvolgimento del 25enne nella scomparsa della giovane Sutter vi sono altri elementi. In primis, un biglietto che gli inquirenti ritrovano a casa del giovane durante una perquisizione. Sul foglio ci sono scritti tre verbi: “affondare, seppellire, murare”. Per gli investigatori è un indizio di colpevolezza. Bozano spiegherà che si tratta di una “ipotesi fantasiosa di rapimento”, nata a seguito di una chiacchierata tra amici e conoscenti sul sequestro di Sergio Gadolla. Non gli credono.
E poi ci sono altri possibili indizi: la cintura da sub (pare ne avesse una uguale a quella ritrovata attorno al corpo della giovane), una macchia di orina sui pantaloni e la mancanza di un alibi nell'ora in cui i periti hanno collocato il decesso della ragazza. La sera del 20 maggio 1971, a poche ore dal rinvenimento del cadavere di Milena, Bozano viene arrestato.
Il processo e la condanna all'ergastolo
Per gli inquirenti Milena è stata uccisa nel contesto di un rapimento a scopo di estorsione il giorno stesso della scomparsa. Bozano viene accusato dell'omicidio per via di una mole notevole di elementi indiziari – 44 secondo i media dell'epoca - raccolti sia durante le indagini preliminari che nel corso dell'intero procedimento penale. Tuttavia manca una traccia certa e inequivocabile della sua colpevolezza. Motivo per cui, nel maggio del 1973, l'imputato è assolto al processo di primo grado dalla Corte d'Assise di Genova per "insufficienza di prove" e liberato subito.
Sta di fatto che il 25enne continua a essere l'unico indiziato del delitto. Secondo i magistrati genovesi, il pomeriggio del 6 maggio, Milena sarebbe salita sulla spider di Bozano. Dopodiché, nel contesto di un'ipotetica aggressione da parte del giovane, è stata uccisa. Dunque il presunto assassino si sarebbe recato sul Monte Fasce per seppellire il cadavere in una buca - alcuni testimoni lo avrebbero visto transitare sulla collinetta - ma poi avrebbe desistito. Quindi avrebbe caricato il corpo esanime della ragazzina nel bagagliaio della vettura decidendo, a tarda sera, di disfarsene in mare.
Nel giugno del 1975 Bozano incassa una condanna all'ergastolo con l'accusa di rapimento a scopo di estorsione, omicidio e soppressione di cadavere. L'anno successivo la Corte di Cassazione conferma l'entità della pena. Nel mentre l'imputato si è rifugiato in Francia dove, nel 1979, viene arrestato.
Giunto in Italia, dopo una estradizione piuttosto farraginosa, viene rinchiuso nel carcere di Porto Azzurro, all'Isola d'Elba. Nel 1997 viene accusato di aver molestato una ragazza di 16 anni spacciandosi per un poliziotto. Per questo reato, nel 1999, viene condannato a 2 anni di reclusione. Nel febbraio del 2019 ottiene la semilibertà e, nell'ottobre dell'anno successivo, la libertà condizionale. È morto per un malore il 30 giugno 2021, all'età di 76 anni, mentre faceva il bagno a largo delle acque di Bagnaia, all'isola d'Elba.
Tutti i dubbi sull'omicidio Sutter
La perizia medico-legale
Nel 1971 i consulenti del giudice istruttore - i professori Franchini e Chiozza - affermano che il decesso risale alle ore 18 del 6 maggio 1971, il giorno della scomparsa, e che l’immersione del cadavere in mare è avvenuta entro poche ore dalla morte. Inoltre precisano che "non vi è stata violenza carnale" né sono state "riscontrate nel sangue della vittima tracce di sostanze stupefacenti o di sostanze tossiche che abbiano potuto determinare la morte o uno stato di diminuita difesa".
Nel 1972 il perito di parte nominato dal giudice istruttore, il professor Giacomo Canepa, analizzando la perizia di Franchini e Chiozza, giunge a conclusioni diverse. A detta dell'esperto "il quadro anatomo-patologico non consente di attribuire la morte della vittima ad asfissia meccanica violenta" e che la morte può essere stata originata "da un'altra causa". Infine spiega che il decesso può risalire a un periodo compreso fra il 6 maggio 1971 e una settimana prima del ritrovamento del corpo. (Le informazioni sono state fornite dalla criminologa e psicologa giuridica Laura Baccaro).
“Il professor Canepa contesta sia l’ipotesi della violenta costrizione al collo (lo strozzamento) che il soffocamento - spiega la criminologa - La collocazione delle ipostasi (lividure cadaveriche, ndr), poi, è incompatibile con l’immersione in mare del corpo di Milena entro poche ore dal decesso. La Medicina Legale ci dice ancora oggi che le lividure cadaveriche sul corpo di Milena rivelano che nel post-mortem il cadavere è rimasto per 12-15 ore in posizione supina su un piano, in ambiente temperato, quindi non in mare. Questo non è compatibile con la ricostruzione fatta dai giudici della sentenza di condanna, emessa nel 1975. È anche da verificare se è possibile che un corpo gettato in mare vicino a Genova, possa essersi spostato in due settimane solo di poche centinaia di metri. È poi da verificare se le condizioni in cui in cui è stato trovato il corpo di Milena Sutter siano compatibili con la permanenza in mare per due settimane".
Quanto all'assenza di tracce di stupefacenti nel sangue di Milena, l'esperta precisa: “Oggi sappiamo che gli esami tossicologici eseguiti nel maggio 1971 erano già a quel tempo inadeguati. Quegli esami non erano in grado di intercettare la presenza di sostanze stupefacenti (eroina, ad esempio) e/o di barbiturici, che l’offender avrebbe potuto far assumere alla vittima (anche a sua insaputa)”.
Il profilo criminologico di Bozano
Sin da subito Lorenzo Bozano finisce su tutti i quotidiani nazionali come il “biondino della spider rossa”. Ma non è né biondo né di corporatura minuta. Di lui si dice in giro che sia un “perdigiorno”, sempre a caccia di soldi, uno con delle “perversioni sessuali” e dalla personalità eccentrica. “Quando lo incontrai, anni fa, Lorenzo Bozano era un anziano signore di 70 anni - spiega ancora la criminologa - Cortese come può esserlo chi ha una certa età, quasi fuori moda, mostrava una certa sobrietà di modi e di linguaggio. Era disponibile e aperto al confronto pur con una certa rigidità e diffidenza iniziali. Sicuramente è stato influenzato dalla preoccupazione di fornire un’immagine di sé conformista e convenzionale, proprio di chi ha trascorso una vita in carcere. Bozano era molto sensibile al pensiero e al giudizio degli altri".
Non solo: "Lorenzo mostrava, già da giovane, una personalità rigida e moralista, con un elevato senso del dovere, attenta ai dettagli a volte in modo esagerato, lenta e granitica nelle sue certezze. Questo lo faceva sembrare supponente e arrogante. Non gli sono mai stata simpatica perché, in base alle mie analisi riportate nel libro 'Il Biondino della Spider Rossa. Crimine, giustizia e media', ho detto che anche nel 1971 Lorenzo Bozano non era, secondo me, in grado di pianificare e portare a termine un progetto complesso come quello della scomparsa e del successivo triste epilogo di Milena Sutter”.
Eppure, i giudici dell'epoca ritennero che potesse esser stato in grado di commettere il delitto. “La costruzione del 'mostro Bozano', fatta dai giudici che lo condannarono in appello, è un’immagine stereotipata e sensazionalistica - continua l'esperta - È poco aderente alla realtà fotografata dalle analisi e dalle valutazioni tecniche degli esperti di psicologia e psichiatria che allora lo ebbero a valutare. Non sono mai state registrate 'perversioni sessuali' in Lorenzo Bozano: né allora, al momento del caso di Milena Sutter, né nelle mie indagini psicologiche”.
Il movente del delitto
Quanto al movente, l'ipotesi formulata dagli inquirenti fu quella di un rapimento a scopo di estorsione. “Sull'anomalia e poca credibilità di un rapimento di Milena Sutter a scopo di estorsione concordano gli stessi giornali genovesi del 1971, in alcune analisi del caso prima del ritrovamento del corpo di Milena. Dubbi ci sono anche fra gli inquirenti: il capo della Squadra Mobile di Genova, Angelo Costa, mostra chiaro di pensare a un’azione di tipo sessuale”, chiarisce la dottoressa Baccaro.
Secondo l'esperta, le ipotesi relative "all'azione dell'offender" possono essere tre. “Se è stato un omicidio premeditato, il movente è legato a un esercizio di potere/dominazione - spiega - Se è stato un incidente, ad esempio un arresto cardiaco in una circostanza da chiarire, la conseguenza è l’azione di staging (una messinscena) per nascondere il corpo, e poi farlo ritrovare al momento opportuno: il 20 maggio 1971, quando Bozano è libero e tale resterebbe se non si trova la vittima. Oppure un raptus del momento, ovvero una perdita di controllo da parte dell’offender. A mio parere la morte di Milena Sutter non era nelle intenzioni dell’offender: un’ipotesi fondata è che si sia trattato di un omicidio preterintenzionale. Forse si dovrebbero valutare soltanto i fatti oggettivi e togliere la parola rapimento dalla ricostruzione del caso”.
Chi è il biondino della spider rossa?
Come ben precisa il giornalista e coautore del libro “Il biondino della spider rossa”, Maurizio Corte, ci sono alcune piste investigative che non sono state prese in considerazione dagli inquirenti del tempo. Come, ad esempio, quella di “Claudio” un nome che ricorre nel diario personale e sullo zaino di Milena. “Claudio My Love. I love Claudio”, scrive la ragazzina nelle pagine della sua agenda. Ma non è tutto. “Ci sono elementi per dire che sia in via Peschiera, davanti alla Scuola Svizzera, sia in via Orsini, nella zona in cui abitava Milena Sutter, vi era un altro biondino, con una spider rossa nuova fiammante - afferma la criminologa - Non vi sono tuttavia dati sufficienti per affermare, oltre ogni dubbio, che questo biondino abbia a che fare con la morte di Milena”.
Al netto dell'ipotesi sulla identità dell'assassino di Milena, e della condanna inflitta a Bozano, restano ancora molti dubbi sulle dinamiche del delitto. Insomma, perché Milena è stata uccisa? “È assai probabile che la giovane studentessa della Scuola Svizzera di Genova non sia stata rapita per denaro. La richiesta di 50 milioni di lire (circa 500 mila euro di oggi) non sta in piedi. La versione del rapimento, con la telefonata del rapitore che mostra molte incongruenze, può essere solo una messinscena per distogliere l’attenzione. C’è infatti da chiedersi: come mai la vittima – se rapita per denaro – è stata trovata svestita, come accade nei delitti a sfondo sessuale? Senza contare un’interessante ipotesi avanzata da don Andrea Gallo, nel suo libro 'Io non mi arrendo'. Don Gallo afferma, a proposito del caso di Milena Sutter: 'È un affare tra borghesi'”.
· Il mistero di Tiziana Cantone.
(ANSA il 25 maggio 2022) - Resta il suicidio per impiccagione l'ipotesi più probabile in relazione alla morte di Tiziana Cantone, la 31enne trovata senza vita, con un foulard al collo, il 13 settembre 2016, nell'abitazione della zia, a Casalnuovo (Napoli). E' quanto emerge dall'autopsia disposta nell'ambito delle indagini per omicidio volontario che hanno portato alla riesumazione del cadavere della donna, all'inizio del 2021.
La relazione dei medici legali, nominati dalla Procura di Napoli Nord, è stata depositata circa un mese fa. Resta comunque aperto il fascicolo (assegnato al sostituto procuratore Giovanni Corona) per l'ipotesi di omicidio volontario: gli inquirenti attendono il deposito della perizia psicologica che dovrebbe far luce sulle condizioni emotive di Tiziana, anche in relazione ai farmaci che assumeva e alle dichiarazioni che la ragazza aveva reso dopo la diffusione dei suoi video privati.
Solo a seguito di queste nuove risultanze, gli investigatori decideranno se archiviare l'indagine per omicidio oppure se continuare a indagare su questa pista. Nei giorni scorsi, uno dei dei video di Tiziana, è spuntato nuovamente dal deep web e ripubblicato on-line. Una vicenda, questa, che ha suscitato molto clamore e ravvivato le sofferenze della mamma della Cantone, Teresa Giglio, assistita dagli avvocati Emiliano Iasevoli, Gianluca Condrò e Stefano Marcialis.
Da liberoquotidiano.it 2 ottobre 2021.
Tiziana Cantone, la donna di 31 anni trovata senza vita nella tavernetta della sua abitazione a Mugnano di Napoli il 13 settembre del 2016 dopo esser stata vittima di revenge porn, sarebbe stata uccisa.
Non si tratterebbe dunque di suicidio ma di omicidio. E' questa la pista che sta prendendo corpo dopo gli ultimi accertamenti sui suoi dispositivi. Entrambi, infatti, rivela il Corriere della Sera, sono stati manomessi e svuotati dopo la sua morte.
Al professore Danilo Bruschi, del dipartimento di Informatica dell'Università Statale di Milano, è arrivato un parere pro-veritate sulla consulenza della Emme Team, il gruppo di specialisti informatici cui si è affidata la madre di Tiziana, Maria Teresa Giglio, in merito ai suoi iPhone e iPad.
I due dispositivi sarebbero stati alterati, con la cancellazione della memoria all'interno del tablet e il blocco del telefono, mentre erano in possesso dell'autorità giudiziaria, e riconsegnati poi alla famiglia senza possibilità di accedere ai dati.
La Procura di Napoli Nord, dunque, a cinque anni di distanza dalla morte di Tiziana Cantone, ha riaperto il caso anche dopo il ritrovamento sulla pashmina che la ragazza avrebbe usato per impiccarsi delle tracce biologiche maschili, con un fascicolo nel quale viene ipotizzata l'accusa di omicidio volontario contro ignoti. Lo scorso giugno è stata invece disposta la riesumazione del corpo di Tiziana ma l'esito non è ancora noto.
Secondo gli esperti di Emme Team col parere del professore Bruschi vien confermato il lavoro dei tecnici che hanno affiancato Maria Teresa Giglio, madre di Tiziana, e per questo vi è la "necessità da parte della Procura di nominare i propri consulenti per verificare quei dati, che nel frattempo, sono stati confermati anche da altri due esperti statunitensi, oltre che da quelli italiani, e dalla stessa Vodafone, che ha consegnato i tabulati telefonici e internet di Tiziana Cantone, dimostrando l’utilizzo dello smartphone immediatamente dopo il ritrovamento del corpo di Tiziana Cantone".
Fulvio Bufi per corriere.it il 18 maggio 2022.
Immagini ripescate dal deep web, montate e messe in Rete con una agghiacciante frase di presentazione: «Il video della defunta Tiziana, che si è suicidata dopo che il suo video è stato diffuso su Internet. Sono stati rimossi. Fino ad ora! Divertiti!».
La Tiziana alla quale si fa riferimento è Tiziana Cantone, la ragazza di Casalnuovo, in provincia di Napoli i cui video privati finirono in Rete, diventando tra i più cliccati sui siti porno. Era il 2015. Lei tentò disperatamente di far rimuovere quei filmati che le stravolsero la vita, ma dopo oltre un anno di battaglie inutili fu sopraffatta dallo sconforto: il 13 settembre del 2016 fu trovata impiccata con una pashmina attaccata a un attrezzo ginnico nella tavernetta della casa di una zia, dove si era trasferita insieme alla madre, Maria Teresa Giglio. Aveva 33 anni.
Dopo la sua morte — che secondo i familiari non fu dovuta a suicidio ma a omicidio e sulla quale è ancora aperto un fascicolo presso la Procura di Napoli Nord — i tecnici della Emme Team, la società americana alla quale si è rivolta la signora Giglio, sono riusciti a far rimuovere i video di Tiziana da un imprecisabile numero di siti porno dove erano stati via via linkati.
Evidentemente, però, nelle profondità del web era ancora rimasto qualcosa, e c’è stato chi quelle immagini le ha riportate nella Rete accessibile a tutti. É stato il Fatto Quotidiano a darne notizia stamattina, e per la Emme Team è ricominciato un lavoro di ricerca che però ha dato rapidamente i risultati sperati. In poco più di un’ora si è riusciti a rintracciare il sito sul quale era stato caricato il video ed è anche stata portata a termine la procedura per ottenerne la rimozione.
Il sito in questione, pur non essendo nessuno dei due più famosi in materia di immagini porno, è tra i più frequentati dagli appassionati del genere, grazie alla vastissima offerta gratuita di risorse per adulti.
Ha sede legale negli Stati Uniti, ma a caricare il filmato della ragazza napoletana è stata invece una società tedesca gestita da una donna. I consulenti di Teresa Giglio hanno chiesto al sito statunitense la rimozione del video ed hanno anche ricevuto riscontro alla loro mail. In pochi giorni, se non in poche ore, Tiziana Cantone dovrebbe sparire nuovamente dal web.
"Tritata dall'Uomo nero. Vi racconto cosa è successo a Sonia Marra". Angela Leucci il 24 Giugno 2022 su Il Giornale.
Sonia Marra è scomparsa il 16 novembre 2006: Alvaro Fiorucci ne ha raccontato la storia partendo da alcune intercettazioni brutali poi ritrattate.
“L’hanno tritata”. Ha inizio con un’agghiacciante intercettazione il libro “L’uomo nero” del giornalista Alvaro Fiorucci (Morlacchi editore). E questa intercettazione, al centro di una complessa storia di spaccio di stupefacenti, riguarda un seminarista che parla con un sacerdote: il sacerdote pone delle domande al seminarista, che fa riferimento a una ragazza, al suo omicidio, alla distruzione del suo corpo.
La ragazza in questione parrebbe essere Sonia Marra, all’epoca della sua scomparsa 25enne, che sparì da Perugia un giorno di novembre 2006. Sonia era di Specchia, in provincia di Lecce, ma viveva in Umbria per ragioni di studio, nello specifico all’istituto di Teologia di Perugia, dove tra l’altro lavorava come volontaria in segreteria. Era una giovane tranquilla, tutta casa, studio e lavoro. Poche amicizie e un paio di relazioni con coetanei: uno è l’ex fidanzato e l’altro è Umberto Bindella, unico indagato poi risultato estraneo e assolto per l’omicidio e la soppressione del cadavere.
E allora che cosa è accaduto a Sonia? A Specchia c’è una famiglia che aspetta la verità, una famiglia che dal primo momento non ha creduto all’allontanamento volontario e ha capito che a Sonia era accaduto qualcosa di molto brutto. “L’hanno buttata, quello è un modo per non farla ritrovare più! Quella non la ritroveranno mai”, dice ancora il seminarista nell’intercettazione riportata da Fiorucci. Ma poi il seminarista si rimangia tutto e anche il sacerdote. Il secondo afferma che di non sapere nulla, di aver posto solo delle domande. Il primo di essersi voluto rivalere su qualche membro della gerarchia ecclesiastica. Tutto falso quindi, stando ai diretti interessati. E il mistero continua.
Fiorucci, cos’ha di peculiare la vicenda della scomparsa di Sonia Marra?
“È un paradigma di come a volte un caso giudiziario, in questo caso un caso irrisolto, può finire sulle montagne russe, soprattutto per una serie di fattori tecnici”.
Cioè?
“È un’inchiesta che è passata di mano da 4 sostituti procuratori, 2 diverse corti che dovevano pronunciarsi sull’unico indagato della vicenda poi prosciolto e assolto in Cassazione. È stato un delitto senza movente, senza arma del delitto, senza scena del crimine e senza il corpo della persona uccisa. Perché Sonia Marra è stata sicuramente uccisa: è l’unica cosa certa stabilita dalla Corte di Cassazione, che del resto ha detto chiaramente che l’‘Uomo nero’, visto entrare e uscire dall’appartamento di Sonia il giorno della scomparsa, non era Umberto Bindella”.
Ma c’è anche molto altro.
“Altre persone sono state viste con la giovane ma non sono state identificate. C’è anche un movente che cambia in corsa: il movente iniziale era una reazione a una gravidanza non voluta, ma poi è cambiato e Sonia è stata immaginata come una stalker del ragazzo, perché voleva con lui una relazione più stretta (e l'ipotesi diventò quindi quella di un omicidio involontario, accidentale, ndr). Gli indizi su Bindella erano oggettivamente pochi e aveva un alibi che ha retto, tanto che è stato assolto da ogni accusa: non avrebbe avuto il tempo materiale per uccidere e nascondere il cadavere di Sonia”.
Quanto ha influito il periodo “storico” di riferimento nei rallentamenti giudiziari, per via di altri casi nella zona di Perugia?
“Ha avuto una sua importanza, perché probabilmente è mancata quella pressione dell’opinione pubblica che avrebbe potuto aiutare nella ricerca della verità. L’opinione pubblica è stata distratta dalla vicenda, successiva di un anno, dell’omicidio di Meredith Kercher”.
La pista religiosa fu accantonata. Fu giusto così o poteva rivelare qualche dettaglio importante?
“La pista ecclesiastica è stata sempre definita da tutti, pm e giudici, una favola metropolitana. Però c’è una curiosità: la pista nasce da un informatore dei carabinieri che indica il possibile coinvolgimento di un giovane sacerdote in questa vicenda. Ma quel giovane sacerdote era lo stesso su cui si vociferava in ambienti ecclesiastici. È curioso che non si sia sviscerato il perché di questa voce su un sacerdote che frequentava il medesimo piccolo ambiente nel quale si è spesa la breve vita perugina di Sonia Marra”.
Ovvero?
“È una fetta di città del diametro di 5 chilometri massimo, dove hanno vissuto diversi soggetti, ecclesiastici e laici, e tutto ruota intorno alla scuola di Teologia dove Sonia faceva da segretaria. Tra le voci alcune contraddizioni emerse, alcune singolari coincidenze potevano spingere a un approfondimento maggiore, soprattutto alla luce di quella intercettazione telefonica che pubblico nelle prime pagine del libro e che è di ben 5 anni dopo la scomparsa di Sonia. Le intercettazioni riguardano presunti reati da codice penale, ovvero lo spaccio e il traffico di droga. Si può ipotizzare che Sonia abbia visto e sentito cose che non doveva vedere e sentire”.
Quindi è per questo che è stata uccisa Sonia?
“È un’ipotesi per me valida. Sonia aveva un giro di amicizie molto piccolo, non frequentava nessun ambiente: o era a casa a Specchia con la famiglia, o nel suo appartamento o nell’istituto di Teologia. Ma all’università aveva un paio di amiche e un rapporto abbastanza aperto con una suora. Il problema è che non si riesce a capire quale sia il movente: non c’è la scena del crimine, di certo non è stata uccisa nella sua abitazione. Le vicende dello spaccio si sono incrociate con l’ambiente frequentato da Sonia Marra ma non hanno nulla a che fare con la sua scomparsa e quindi col suo omicidio”.
Quanto ha aiutato “Chi l’ha visto?” nella vicenda attraverso le segnalazioni?
“L’ho sentito affermare dall’avvocato dalla famiglia: la vicinanza e l’insistenza di ‘Chi l’ha visto?’ sono state utili perché, se non ci fosse stato neppure il pungolo della trasmissione, tutto si sarebbe ancor più rallentato e si sarebbe perso del tempo forse prezioso”.
Nel libro vengono esposti fatti, intercettazioni, storie. Ma lei che idea personale si è fatta sull’uomo nero che cita nel titolo?
“L’uomo nero è un soggetto che aveva le chiavi dell’abitazione di Sonia Marra o era riuscito in qualche modo a impossessarsene e che è entrato nell’appartamento per prendere qualcosa che avrebbe potuto ricondurre a lui”.
Abbiamo speranze di scoprire la verità?
“A questo punto credo che l’unica possibilità sia che qualcuno che sa - e da come ho seguito la storia persone che sanno sono più d'una. Questa persona potrebbe liberarsi di un fardello sulla coscienza e almeno in forma anonima potrebbe far ritrovare alla famiglia i resti di Sonia Marra, in modo che le sia data un’adeguata sepoltura, una tomba dove i parenti possano portare un fiore e recitare una preghiera”.
Come mai ha scelto di ospitare nel capitolo finale le parole di Anna Marra, sorella di Sonia?
“Sono convinto che chi ha il diritto e il dovere di parlare ancora di Sonia è la sua famiglia. È stata una scelta di scrittura: ho lasciato per ultima la voce narrante della famiglia”.
Egle Priolo per "Il Messaggero" il 15 maggio 2022.
«A quella ragazza sai che hanno fatto? A quella l'hanno tritata Quella non la ritroveranno mai. L'hanno buttata nell'immondizia». A parlare, ascoltati dai carabinieri di Todi, sono un seminarista e un parroco, intercettati per un'operazione antidroga coordinata dalla procura di Perugia. Il seminarista sembra molto ben informato: sta parlando di Sonia Marra, una 25enne pugliese scomparsa nel 2006 dalla sua casa di Elce, zona universitaria di Perugia poco distante dalla scuola di Teologia di Montemorcino dove lavorava.
Una vita letteralmente casa e chiesa, a cui si aggiungeva solo il brivido di una storia d'amore con un forestale di Marsciano, Umberto Bindella, che per quella scomparsa venne accusato di omicidio e sempre assolto, fino alla pronuncia della Corte di cassazione nel 2021 che ha confermato: non è stato lui a uccidere la giovane di Specchia e a far scomparire il cadavere, nonostante le bugie dette per anni per nascondere la loro relazione e (forse) un figlio in arrivo.
E si ritorna quindi a quanto ascoltato dai carabinieri nel 2011: un'intercettazione che, insieme a tantissimo altro materiale, adesso servirà alla famiglia di Sonia per chiedere la riapertura delle indagini. Perché in anni di processo a Bindella, dalle indagini fino al suo arresto per pochi giorni nel 2010, erano varie le circostanze che avevano convinto la procura ad accendere un faro su di lui, ma comunque esistono chili e chili di documenti, intercettazioni, testimonianze che portavano a conclusioni diverse dall'omicidio per occultare una gravidanza e un rapporto indesiderati.
Compresa, appunto, quella telefonata che prosegue così: «Era tutto un giro - insiste il seminarista - droga, soldi, sesso e altre questioni sai che alla fine ci rimettono sempre i più deboli. Poi quando la cosa si è ingigantita i più furbi Lei era in mezzo con un altro di Marsciano che era un laico. Poi è successo che in qualche modo la cosa cominciava a scottare perché lei ha visto e ha sentito. Per questo l'hanno annientata. Perché ci sarebbero andati di mezzo i preti».
«Chi c'era a capo di tutto questo?», chiede il parroco. «I capi? Uno è quello che adesso è anche indagato, va bene? E altri ci sono, ma non te lo posso dire. Tu immagina sta mamma che non trova più la su' figlia e immagina la Chiesa. Il corpo non lo troverà mai nessuno perché quella donna non esiste più».
Una telefonata inquietante, incipit del libro di Alvaro Fiorucci L'uomo nero. La scomparsa di Sonia Marra presentato a Perugia due giorni fa. Davanti a un pubblico attento c'era anche Anna, sorella di Sonia, che da anni si batte per dare almeno una verità ai suoi anziani genitori. E l'annuncio del lavoro per far riaprire le indagini è arrivato lì, nel foyer del Morlacchi, pesante come un macigno e insieme un sospiro di sollievo. «A fronte di una situazione di tale importanza e drammaticità ha confermato Alessandro Vesi, legale della famiglia - non si può non pensare a un'analisi totale di tutto il materiale raccolto negli anni. Non solo quello usato precipuamente per il processo a Bindella, ma tutto il materiale investigativo che abbiamo da poco recuperato, anche quello scartato per tipologia di interesse: indispensabile per sottoporre alcuni passaggi o alcune risultanze per procedere a un nuovo approfondimento di natura istituzionale».
LE TESTIMONIANZE TRASCURATE Avvocatese scaramantico ma il senso è univoco: dopo la triplice assoluzione dell'ex forestale, ci vuole la verità. E allora si riparte dalla vita di Sonia. Si riparte da intercettazioni e testimonianze finite in un cassetto. Si riparte da Montemorcino e anche dal mondo ecclesiastico, dopo un processo che ha visto testimoniare ben tre vescovi. In questa nuova fase, anche più dolorosa se possibile, la famiglia Marra sarà ancora supportata dall'avvocato Vesi ma anche dalla criminologa Roberta Bruzzone, che si è proposta per ottenere l'incarico di ristudiare tutte le carte di questo cold case.
Lei e il suo staff, in particolare la collaboratrice Sara Olivieri, sono già al lavoro sul back up dell'intero materiale di indagine. Per aiutare due anziani genitori, piegati da un dolore sordo. «Combatterò per trovare la verità ha detto Anna a Perugia -. Per trovare almeno un corpo su cui poter piangere mia sorella»
Studentessa di Specchia scomparsa, l'intercettazione: «L'hanno tritata». La sorella di Sonia: «Ora si cerca la verità». Le dichiarazioni negli atti del processo chiuso sul caso di Sonia Marra. Già valutata da pm. Linda Cappello su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 maggio 2022.
«A quella ragazza sai che hanno fatto? A quella l’hanno tritata…quella non la troveranno mai. L’hanno buttata nell’immondizia». L’intercettazione captata dai carabinieri di Todi nell’ambito di un’inchiesta per droga fra un parroco ed un seminarista getta nuove ombre sulla fine di Sonia Marra, la studentessa 25enne originaria di Specchia (Lecce) scomparsa a Perugia il 16 novembre del 2006.
La conversazione risale al 2011 ma non è escluso che adesso potrebbe essere utilizzata dai familiari per chiedere la riapertura delle indagini. A renderla nota il libro di Alvaro Fiorucci dal titolo «L’uomo nero. La scomparsa di Sonia Marra», che verrà presentato sabato 21 maggio nel castello di Specchia. I due interlocutori sono stati poi convocati dagli investigatori per rendere conto delle loro parole, ma secondo quanto emerso sembra che non abbiano fornito alcun elemento utile ai fini delle indagini: il seminarista, nello specifico, ha ritrattato ogni cosa. «Quando l’ho letta per la prima volta sono rimasta scioccata – dice alla Gazzetta Anna Marra, sorella della ragazza – fa sempre un certo effetto sentire due uomini di chiesa che parlano in questo modo. Mia sorella era una ragazza tranquilla, abitudinaria, senza grilli per la testa. Su di lei sono state dette tante falsità. Ad ogni modo la fede mi ha sempre accompagnato, specialmente nel periodo immediatamente successivo alla scomparsa di Sonia. Dio è una cosa, gli uomini un’altra. Per quanto riguarda questa vicenda, penso che se due persone parlano così le alternative sono due: o hanno qualche problema oppure c’è un chiacchiericcio nel loro ambiente su qualcosa che noi evidentemente non sappiamo».
I due interlocutori parlano poi di un non precisato giro di sesso, droga e soldi, e che Sonia sarebbe stata annientata poiché «c’erano di mezzo anche i preti».
La famiglia, con il supporto dell’avvocato perugino Alessandro Vesi, sta raccogliendo tutto il materiale probatorio raccolto in questi anni, con l’obiettivo di ottenere la riapertura del caso. Della vicenda si sta occupando anche il team della criminologa Roberta Bruzzone.
L’unico indagato nell’inchiesta sulla scomparsa della studentessa di Specchia è stato Umberto Bindella, l’ex forestale di Marsciano accusato di omicidio e occultamento di cadavere: è stato assolto in via definitiva dalla Corte di Cassazione dopo 15 anni di indagini. Quando scomparve, Sonia Marra studiava per diventare tecnico di laboratorio biomedico. A Perugia viveva da sola in un appartamento a ridosso del centro. A dare l’allarme furono i familiari. Gli investigatori risalirono a Bindella (arrestato e poi rimesso in libertà dopo pochi giorni) esaminando i tabulati telefonici della giovane. Dagli accertamenti emerse poi che entrambi frequentavano gli stessi ambienti. L’accusa ha inoltre ipotizzato che tra i due ci fosse stato un legame sentimentale che però l’indagato ha negato parlando di «semplice amicizia».
"L'hanno annientata, sapeva troppe cose": le intercettazioni su Sonia Marra. Angela Leucci il 19 Maggio 2022 su Il Giornale.
Ci sono intercettazioni relative a un caso di droga che potrebbero essere eloquenti sul destino di Sonia Marra, scomparsa a Perugia nel 2006.
L’indagine su Sonia Marra, 25enne salentina scomparsa nel 2006 da Perugia, è stata chiusa senza trovare soluzione e non è stata riaperta. Tuttavia, all’interno di un’inchiesta per droga in alcuni ambienti ecclesiastici della zona, sono emerse alcune intercettazioni che potrebbero far riaprire il caso. Queste intercettazioni, seppur di un caso che nulla ha a che fare con la sparizione della giovane, risultano in ogni caso significative rispetto al caso Marra.
Le intercettazioni che potrebbero riaprire il caso
Le intercettazioni sono contenute nel libro di Alvaro Fiorucci “L’uomo nero”. Il titolo fa riferimento a quella che probabilmente è stata la testimonianza più importante in relazione alla scomparsa di Sonia Marra.
Seminarista: Quella ragazza sai che hanno fatto? Quella l’hanno tritata…
Prete: Chi?
Seminarista: Quella non la troveranno mai!
Prete: Chi l’ha tritata?
Seminarista: L’hanno buttata, quello è un modo per non farla ritrovare più! Quella non la ritroveranno mai.
Prete: Ma chi l’ha tritata?
Seminarista: L’hanno buttata n’to la monnezza.
Prete: Ma chi?
Seminarista: Eh… Chi? Questo io non lo so. Ma il suo corpo, quello non lo troveranno… mai.
Prete: Ma io non la so ‘sta storia. Com’era ‘sta storia?
Seminarista: Perché lei, lei era incinta. Ma era il tempo che c’era l’altro prete che hanno arrestato per droga, ti ricordi?
Prete: Ah, sì.
Seminarista: In qualche modo la cosa cominciava a scottare, perché aveva visto e sentito cose che non doveva sentire… e l’hanno eliminata… l’hanno annientata.
Prete: E chi è il capo di tutta ‘sta cosa?
Seminarista: I capi? Uno è quello che adesso è stato indagato… va bene? E altri ci sono… che è meglio che non te lo dico… non te lo posso dire… ma guarda non ne parliamo… perché è una cosa spiacevole, tu immagina… immagina ‘sta mamma che non trova più sua figlia e non la troverà mai. Perché non esiste più il corpo… ma tu… imma… la Chiesa! Ma io dico… dovrebbero avere il coraggio di togliersi! Di togliersi di mezzo! Per coprire te stesso tu ammazzi un’altra persona? Tu hai capito? Qui se tu… vedi qualcosa… qualcosa… altro che la mafia… non mi chiedere, non posso più dire.
Prete: Ma smettila, perché non me lo puoi dire a me?
Seminarista: Perché… perché te lo dirò… te lo dirò più avanti, adesso non mi chiedere più perché non posso parlare più di tanto… su questo, capito? Quindi so che tu sei… te ne stai zitto. Più avanti ne parliamo… ne parleremo… comunque non era un giro pulito… assolutamente… chi ne è potuto uscire ne è uscito e tanto chi l’ha pagata è stata lei… che l’hanno zittita, capito? È polvere.
Prete: L’hanno mangiata i maiali?
Seminarista: No… l’hanno tritata… sulla… sulla monnezza. C’è questo giro di omertà, ma poi sai che Satana è diviso in te stesso… a questo punto si rompe qualcosa, si uniscono tutti contro qualcuno… però poi alla fine tra di loro c’è sempre che se devono parare… il culetto, capito? E quindi… è questo il senso.
Il seminarista e il prete al centro di queste intercettazioni sono stati interrogati dalla procura, ma hanno ritrattato: da un lato il sacerdote, che pare essere stato all'epoca un parroco molto importante della zona, ha affermato che in quel frangente chiese lumi proprio perché non conosceva nulla del caso. Il seminarista ha invece affermato di aver detto quelle cose per ripicca contro i propri superiori. Così gli inquirenti non hanno approfondito e al momento non c’è notizia di eventuale riapertura dell’indagine.
Chi è Sonia Marra
Come detto, Sonia Marra è una giovane che nel 2006 aveva 25 anni e viveva da poco a Perugia, ma era di Specchia, in provincia di Lecce. In precedenza aveva vissuto a Monteporcino. Venti giorni prima della sua scomparsa era stata aggredita nei pressi dell’istituto di teologia per il quale lavorava, ma non aveva detto nulla alla famiglia.
Il giorno della sparizione di Sonia, una 12enne vide entrare con le chiavi di casa un uomo vestito di nero nell’appartamento della giovane. Inoltre due vicini hanno notato una persona mai identificata parlare con la scomparsa: era l’uomo nero, che tra l’altro possedeva un’automobile bianca parcheggiata sempre nello stesso punto.
“Penso che mia sorella abbia sottovalutato la situazione. Credo che non sia stato un estraneo a commettere l’omicidio, ma qualcuno di cui si fidava”, ha concluso Anna Marra, sorella di Sonia, a “Chi l’ha visto?”.
Sonia Marra "tritata e buttata nell'immondizia". Ve la ricordate? Dopo 16 anni... orrore puro. Libero Quotidiano il 15 maggio 2022
Il caso di Sonia Marra, la ragazza pugliese scomparsa nel 2006 all'età di 25 anni, si arricchisce di un nuovo, inquietante, capitolo. I carabinieri di Todi, nell'ambito di un'operazione antidroga coordinata dalla procura di Perugia, si sono imbattuti in un'intercettazione-choc. "A quella ragazza sai che hanno fatto? A quella l'hanno tritata Quella non la ritroveranno mai. L'hanno buttata nell'immondizia", diceva uno riferendosi proprio a Sonia Marra.
La ragazza era sparita dalla sua casa di Elce, nella zona universitaria di Perugia, poco distante dalla scuola di Teologia di Montemorcino dove lavorava. E ora il caso si riapre. A dar contro della notizia Il Messaggero, che ricorda come Umberto Bindella è stato accusato di omicidio e poi sempre assolto, fino alla Corte di Cassazione, che nel 2021 ha confermato che non è stato lui a uccidere Sonia e a far scomparire il cadavere (nonostante le sue bugie per nascondere la loro relazione e forse un figlio in arrivo).
Nella telefonata intercettata a parlare sono il parroco e il seminarista. "Era tutto un giro - insiste il seminarista - droga, soldi, sesso e altre questioni sai che alla fine ci rimettono sempre i più deboli... Poi è successo che in qualche modo la cosa cominciava a scottare perché lei ha visto e ha sentito. Per questo l'hanno annientata. Perché ci sarebbero andati di mezzo i preti". E ancora: "Il corpo non lo troverà mai nessuno perché quella donna non esiste più", si sente ancora. Una telefonata inquietante, di cui dà conto nell'incipit il libro di Alvaro Fiorucci L'uomo nero. La scomparsa di Sonia Marra presentato a Perugia due giorni fa. Nel pubblico attento c'era anche Anna, sorella di Sonia, che da anni si batte per dare almeno una verità ai suoi anziani genitori.
Il caso della studentessa scomparsa nel 2006. Il giallo di Sonia Marra, l’intercettazione (“L’hanno tritata e buttata nell’immondizia”) e la parole della sorella: “Voglio piangere sul suo corpo”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 15 Maggio 2022.
Una intercettazione risalente al 2011 e riportata in auge nel libro del giornalista Alvaro Fiorucci, “L’uomo nero”, sulla scomparsa di Sonia Marra, la studentessa di 25 anni, originaria di Specchia (Lecce), scomparsa a Perugia il 16 novembre 2006 e mai più ritrovata. Nell’intercettazione, che non ha avuto sviluppi processuali, tra un seminarista e un parroco si fa riferimento alla fine di Sonia.
“A quella ragazza sai che hanno fatto? A quella l’hanno tritata. Quella non la ritroveranno mai. L’hanno buttata nell’immondizia“. A riferirla è il Messaggero che cita a sua volta il libro di Fiorucci presentato il 13 maggio scorso. Secondo quanto risulta agli atti del processo, i protagonisti del colloquio sono stati sentiti dagli inquirenti negli anni scorsi e uno di loro ha riferito di essersi inventato tutto.
I due vennero intercettati dai carabinieri di Todi, nell’ambito di una inchiesta antidroga coordinata dalla procura di Perugia. Sonia scomparve dalla sua casa di Elce, zona universitaria di Perugia poco distante dalla scuola di Teologia di Montemorcino dove lavorava.
Unico imputato Umberto Bindella, un forestale di Marsciano (Perugia) con la quale la donna aveva una relazione non ufficiale. L’uomo è stato accusato di omicidio ma sempre assolto, fino alla pronuncia della Corte di cassazione nel 2021 che ha confermato che non è stato lui a ucciderla e a far scomparire il cadavere, nonostante le bugie dette per anni per nascondere la loro relazione e, forse, un figlio in arrivo. E si ritorna quindi a quanto ascoltato dai carabinieri nel 2011: un’intercettazione che, insieme a tantissimo altro materiale, adesso servirà alla famiglia di Sonia per chiedere la riapertura delle indagini.
La telefonata tra il seminarista e il parroco si parlava anche dello strano giro di “droga, soldi, sesso e altre questioni… sai che alla fine ci rimettono sempre i più deboli. Poi quando la cosa si è ingigantita… i più furbi… Lei era in mezzo con un altro di Marsciano che era un laico. Poi è successo che in qualche modo la cosa cominciava a scottare perché lei ha visto e ha sentito. Per questo l’hanno annientata. Perché ci sarebbero andati di mezzo i preti“.
“Chi c’era a capo di tutto questo?”, chiede il parroco. “I capi? Uno è quello che adesso è anche indagato, va bene? E altri ci sono, ma non te lo posso dire. Tu immagina ‘sta mamma che non trova più la su’ figlia e immagina la Chiesa. Il corpo non lo troverà mai nessuno perché quella donna non esiste più”.
Una intercettazione che parta Alessandro Vesi, legale della famiglia, a una riflessione: “Non si può non pensare a un’analisi totale di tutto il materiale raccolto negli anni. Non solo quello usato precipuamente per il processo a Bindella, ma tutto il materiale investigativo che abbiamo da poco recuperato, anche quello scartato per tipologia di interesse: indispensabile per sottoporre alcuni passaggi o alcune risultanze per procedere a un nuovo approfondimento di natura istituzionale”.
Non si arrende Anna, sorella di Sonia: “Combatterò per trovare la verità – ha detto Anna a Perugia -. Per trovare almeno un corpo su cui poter piangere mia sorella”.
Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.
· Il giallo di Giuseppe Pedrazzini.
Margherita Grassi per corrieredibologna.corriere.it il 20 luglio 2022.
Tornano in cella. Si aggrava la posizione dei familiari di Giuseppe Pedrazzini, 77enne di Toano (Reggio Emilia) trovato morto in un pozzo vicino a casa, chiuso con una pesante lastra, il 12 maggio, dopo che era scomparso da qualche tempo.
Il tribunale della Libertà di Bologna, a cui si era rivolta la Procura reggiana, che coordina le indagini dei carabinieri, impugnando l’ordinanza del Gip ha disposto la custodia cautelare in carcere per la figlia Silvia e per il genero, Riccardo Guida, al posto dell’obbligo di firma e di dimora a cui erano sottoposti.
Per i giudici bolognesi la misura più afflittiva deve applicarsi non solo sui reati di truffa e soppressione di cadavere, ma anche per sequestro di persona. Nei confronti della vedova, Marta Ghilardini, rimane l’obbligo di firma e di dimora, ma anche per lei si estende al sequestro di persona.
Le misure cautelari sono sospese e non esecutive fino a quando non diventano definitive, cioè fino a una decisione della Cassazione su un eventuale ricorso delle difese.
La vicenda dell’anziano trovato nel pozzo
La vicenda è iniziata l’11 maggio scorso: quella sera i carabinieri trovarono un corpo in un pozzo a Cerrè Marabino di Toano. Dopo poche ore emerse che si trattava dell’anziano che i militari cercavano da qualche ora appena: Giuseppe Pedrazzini. Il pozzo era quello che l’uomo, agricoltore in pensione, usava per irrigare.
Il 77enne era scomparso dalla circolazione a fine gennaio, ma i parenti non avevano denunciato la cosa. Alcuni conoscenti, dopo insistenti domande su dove fosse finito Giuseppe, nei primi giorni di maggio sono andati in caserma raccontando di questa scomparsa.
Sono iniziate le ricerche, durate appunto poche ore. Secondo la procura, i tre famigliari avrebbero agito per motivi economici: l’ipotesi di reato di truffa ai danni dello Stato è in relazione al fatto che avrebbero continuato a percepire la pensione dell’uomo anche dopo la sua scomparsa.
Segregato per motivi economici
Secondo la moglie di Pedrazzini, interrogato il 31 maggio, l’anziano fu tenuto segregato per motivi economici. La donna, Marta Ghilardini, è indagata insieme alla figlia Silvia e al genero, Riccardo Guida, per sequestro di persona, soppressione di cadavere e truffa ai danni dello Stato, per aver percepito la pensione dell’uomo anche dopo la sua morte.
Le dichiarazioni a verbale sono citate nell’ordinanza con cui il tribunale della Libertà di Bologna dispone la custodia cautelare in carcere per i due familiari più giovani e mantiene l’obbligo di firma e di dimora per Ghilardini, ma lo applica anche per il reato di sequestro. Le misure non sono comunque esecutive perché non definitive.
Il nipote: «Il nonno piangeva perché non vedeva gli amici»
Agli atti sono riferite anche le parole di un nipote, che ha detto di aver visto il nonno piangere perché non poteva vedere i suoi amici Dalle indagini dei carabinieri di Reggio Emilia, sottolineano i giudici (presidente estensore Rocco Criscuolo) emerge «l’assenza di ogni remora» da parte di Silvia Pedrazzini e Riccardo Guida «nel dar esecuzione a un progetto criminale come quello di cui è stato vittima» il 77enne, «lasciato morire, senza alcuna assistenza sanitaria, nella propria abitazione sebbene, quantomeno negli ultimi giorni prima del decesso le sue condizioni fossero di molto peggiorare».
In carcere «perché potrebbero commettere altre azioni criminose»
E ancora il tribunale sottolinea «l’anteposizione del soddisfacimento degli interessi economici a ogni forma di umana solidarietà nei confronti di uno stretto congiunto», «il mantenere fermi i propositi criminosi che li hanno indotti ad agire per svariati mesi», la «scelta di occultare le prove dei propri misfatti», sbarazzandosi del corpo gettandolo in un pozzo e poi di inquinare le indagini, inviando agli inquirenti delle false email facendole apparire come inviate da Pedrazzini.
Sono tutti elementi che «danno conto della proclività al delitto» degli indagati e della loro «determinazione a non consentire un regolare svolgimento dell’attività istruttoria e l’accertamento della verità».
In particolare i due hanno dimostrato «totale disprezzo per l’altrui vita» e poi «spregiudicatezza e temerarietà fuori dal comune» senza «palesare alcuna titubanza o ripensamento». Per questo bisogna che vadano in carcere perché potrebbero commettere ulteriori condotte criminose, conclude il tribunale.
Il pensionato cadavere nel pozzo. "Segregato dai familiari per soldi". Tiziana Paolocci il 21 Luglio 2022 su Il Giornale.
Il Riesame dispone il carcere per la figlia e il genero. E anche per la moglie scatta l'accusa di sequestro.
Piangeva e implorava di vedere i suoi amici. Ma moglie, figlia e genero glielo impedivano. E lo hanno lasciato morire, per poi nascondere il suo corpo in un pozzo, sigillandolo con una lastra di marmo pesante 120 chili per continuare a percepire la pensione.
È agghiacciante la fine di Giuseppe Pedrazzini, l'anziano di 77 anni tenuto segregato nella sua casa di Toano (Reggio Emilia) per motivi economici dai familiari. L'uomo sarebbe stato tenuto isolato da gennaio a marzo, data della sua presunta morte, quando sarebbe stato avvolto in un lenzuolo e gettato nel pozzo. Le parole di un nipote aggravano la posizione della moglie della vittima, Marta Ghilardini, indagata insieme alla figlia Silvia e al genero, Riccardo Guida, per sequestro di persona, soppressione di cadavere e truffa ai danni dello Stato, per aver percepito la pensione dell'anziano anche dopo la sua morte.
Il tribunale della Libertà di Bologna, a cui si era rivolta la Procura reggiana che coordina le indagini, impugnando l'ordinanza del Gip, ha disposto la custodia cautelare in carcere per Silvia e il marito, al posto dell'obbligo di firma e di dimora a cui erano sottoposti. Nei confronti della vedova, Marta Ghilardini, rimane l'obbligo di firma e di dimora, ma per lei si estende al sequestro di persona. Le misure cautelari sono sospese e non esecutive fino a quando non diventano definitive, cioè fino a una decisione della Cassazione su un eventuale ricorso delle difese.
Erano stati proprio gli amici di Giuseppe a lanciare l'allarme. Non sapevano più che fine aveva fatto e avevano chiesto spiegazioni alla sua famiglia, che aveva risposto di non vederlo da mesi. Ma le spiegazioni erano state troppo vaghe e poco convincenti e gli altri si erano rivolti alle forze dell'ordine. I tre indagati avrebbero anche mandato mail ai carabinieri facendo apparire il 77enne come mittente.
«Dalle indagini dei carabinieri di Reggio Emilia - sottolineano i giudici (presidente estensore Rocco Criscuolo) - emerge l'assenza di ogni remora da parte di Silvia Pedrazzini e Riccardo Guida nel dar esecuzione a un progetto criminale come quello di cui è stato vittima il 77enne, lasciato morire, senza alcuna assistenza sanitaria, nella propria abitazione sebbene, quantomeno negli ultimi giorni prima del decesso le sue condizioni fossero di molto peggiorare». E ancora il tribunale sottolinea «l'anteposizione del soddisfacimento degli interessi economici a ogni forma di umana solidarietà nei confronti di uno stretto congiunto», «il mantenere fermi i propositi criminosi che li hanno indotti ad agire per svariati mesi», la «scelta di occultare le prove dei propri misfatti», sbarazzandosi del corpo gettandolo in un pozzo e poi di inquinare le indagini. Sono tutti elementi che rivelano la determinazione degli indagati «a non consentire un regolare svolgimento dell'attività istruttoria e l'accertamento della verità». In particolare i due hanno dimostrato «totale disprezzo per l'altrui vita» e poi «spregiudicatezza e temerarietà fuori dal comune» senza «palesare alcuna titubanza o ripensamento». Per questo, secondo il Tribunale, devono andare in carcere al fine di scongiurare la commissione di ulteriori condotte criminose.
Quarto Grado, si torna a parlare del caso Pedrazzini: perché il trattore è stato venduto? Valentina Mericio il 10/06/2022 su Notizie.it.
Il mistero della morte di Beppe Pedrazzini si infittisce sempre più. L'uomo che è stato trovato morto in un pozzo non avrebbe mai voluto vendere il suo trattore.
A circa un mese dal ritrovamento del corpo di Beppe Pedrazzini in quel pozzo vicino alla sua abitazione a Toano in provincia di Reggio-Emilia, le domande aumentano sempre più. Sono diversi i nodi sui quali fare chiarezza a cominciare dal trattore dal quale non si sarebbe mai voluto separare.
Proprio questa assenza aveva subito instillato degli interrogativi ai parenti dell’uomo che si sono insospettiti. Sul suo caso è tornato a fare chiarezza Quarto Grado.
Quarto Grado. perché il trattore di Beppe Pedrazzini è stato venduto?
Ma perché il trattore è importante in questa vicenda? Stando a quanto emerge ed è stato fatto notare dal filmato mostrato in trasmissione, l’uomo non lo avrebbe mai voluto vendere, cosa che tuttavia avvenne lo scorso gennaio.
Per capire veramente cosa c’è stato alla base della vendita è necessario tornare indietro di qualche mese e precisamente al 18 dicembre quando muore la suocera di Beppe, un brutto colpo la famiglia dell’uomo che si vede costretta a rinunciare alla pensione della donna.
C’è di più. Proprio il 18 dicembre 2021, il catasto avrebbe ricevuto, tramite un’autocertificazione, una rinuncia da parte di Beppe all’usufrutto di una casa e di un terreno.
Proprio quella rinuncia ha permesso alla moglie di vendere i due beni. Non solo. La figlia è anche preoccupata per le referenze degli eventuali acquirenti del terreno.
Il giallo sui documenti vendita del trattore
Nel frattempo a fine dicembre, un’amica di Pedrazzini riceve dall’uomo una chiamata. Quest’ultima aveva fatto sapere che l’uomo si era ripreso da una caduta avvenuta il 9 dicembre e che non vedeva l’ora di ritornare al lavoro.
L’otto gennaio è successo tuttavia l’impensabile. Il trattore è stato venduto, come se all’uomo non dovesse servire più. La conferma è arrivata dal titolare di una cooperativa agricola di Castelnovo ne monti dove Beppe si recava spesso per acquistare gli attrezzi. La proposta di vendere il trattore e altri attrezzi è arrivata dalla figlia Silvia, ma i soldi sono stati incassati dalla madre. Sul documento di vendita c’è la firma di Beppe, ma l’acquirente non lo vede di persona. Anche in questo caso ci si è chiesto se fosse stato davvero lui a firmare.
Da leggo.it il 12 maggio 2022.
Intorno alle 7, al termine di operazioni durate tutta la notte, i carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Reggio Emilia e i carabinieri della compagnia di Castelnovo Monti, con il supporto dei vigili del fuoco dei comandi di Reggio Emilia e Castelnovo Monti, hanno recuperato il corpo all'interno del pozzo, nelle vicinanze dell'abitazione dove lo scomparso viveva con la famiglia.
Il cadavere stato riconosciuto dalla moglie. Al momento i familiari e i congiunti conviventi si trovano al comando compagnia carabinieri di Castelnovo Monti dove sono in corso gli accertamenti. Sul posto si trova anche il Pm di turno della Procura reggiana che coordina le attività.
Giuseppe Pedrazzini, sospetti su tre familiari
Ci sono sospetti su tre persone in relazione alla scomparsa e alla morte di Giuseppe Pedrazzini, 77enne il cui cadavere è stato recuperato nella notte in un pozzo vicino alla casa dove il pensionato viveva a Toano, in provincia di Reggio Emilia. Si tratta della figlia, del genero e della moglie.
I primi due, interrogati nelle scorse ore, assistiti dall'avvocato Ernesto D'Andrea, non avrebbero finora risposto alle domande degli inquirenti. Tutti e tre si trovano in caserma per essere sentiti, dopo il recupero del corpo. Proseguono le indagini di Procura e carabinieri per accertare cause della morte ed eventuali responsabilità.
Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 13 maggio 2022.
Al bar di Toano non lo vedevano da mesi. «Ma dov' è sparito Giuseppe?, abbiamo cominciato a chiederci dopo un po' - racconta l'amico Luciano -. Anche perché prima veniva a giocare a carte tutti i giorni e non è che non lo notavi, portava sempre allegria». Sono così girate le voci più disparate: «C'era chi diceva che era malato, altri che l'avevano nascosto, un altro ancora che l'avevano messo in freezer...».
Chiacchiere da bar. La verità l'ha scoperta un cane molecolare del Nucleo cinofili dei carabinieri di Bologna che mercoledì sera ha fiutato la presenza di Giuseppe Pedrazzini, agricoltore in pensione di 77 anni, in un pozzo vicino alla casa dove abitava, in un piccolo borgo di montagna nel comune di Toano, Appennino Reggiano.
Il corpo del pensionato si trovava a cinque metri di profondità ed era senza vita. Per il magistrato e per i carabinieri che hanno condotto le indagini, non si è trattato di un incidente. No, Pedrazzini sarebbe stato ucciso e buttato nel pozzo.
E su chi possa aver commesso il delitto sembrano avere pochi dubbi. Ieri hanno fermato tre familiari dell'uomo: la figlia Silvia, 38 anni, giornalista freelance per hobby, il genero Riccardo Guida, 43, musicista, e la moglie Marta Ghilardini, 63enne in pensione, un tempo allevatrice.
Tutti conviventi e tutti ora in carcere a Reggio Emilia. Sono accusati di omicidio, occultamento di cadavere e sequestro di persona. Accuse messe nero su bianco dal pm Cristina Giannusa, sulle quali grava un indizio pesante come un macigno: la mancata denuncia di scomparsa della vittima.
I familiari, già interrogati, hanno fatto scena muta; la moglie ha avuto un mancamento. Per la figlia e il genero parla il legale che li difende: «I miei clienti sono frastornati e rivendicano la totale estraneità dei fatti, faremo di tutto per dimostrare che non c'entrano nulla», ha detto l'avvocato Ernesto D'Andrea, ricordando che un delitto deve avere un movente e che in questo caso non c'è. Si era ipotizzato una questione legata ai soldi, alla pensione, all'eredità.
«Non sta in piedi. La vittima non era ricca, non aveva nulla di intestato, visto che tutto è di proprietà della moglie». Al bar ricordano che le cose non stanno esattamente così: «Giuseppe aveva una casa a Toano che aveva sistemato da poco».
In questa storiaccia c'è di mezzo anche un bambino di undici anni, figlio di Silvia e Riccardo. Di colpo si è trovato senza nessuno, il nonno morto, la nonna, la mamma e il papà in carcere. È stato affidato ai servizi sociali che già in passato si erano interessati a lui ma non per maltrattamenti.
Una famiglia distrutta e un paese sotto choc. Alla luce dei fermi, gli amici hanno ripercorso con toni critici le vicende degli ultimi mesi. «Qualche parente era andato a cercare Giuseppe a casa sua ma è stato respinto: dicevano che non c'era bisogno di nulla. Per questo avevamo pensato a una malattia», ricorda Luciano.
Altri hanno puntato il dito sul rapporto non proprio idilliaco che Pedrazzini aveva con il genero. «Testa caldissima, quello». Anche il sindaco di Toano, Vincenzo Volpi, era un amico della vittima: «Lo conoscevo bene, brav' uomo, abbiamo lavorato insieme quando mi occupavo di vacche da latte, poi veniva da me a tagliar la legna. Io spero che si tratti di un tragico incidente. Certo è che non si capisce per quale motivo non abbiano denunciato la scomparsa. Su questo aspetto siamo tutti un po' esterrefatti». Le risulta che ci fossero problemi in famiglia? «Diciamo che a casa non mi sembrava proprio a suo agio».
L'autopsia, che sarà disposta oggi dal magistrato, potrà dire qualcosa di più sulle cause e sui tempi della morte di Pedrazzini. Il paesino di montagna deve ora fare i conti con la sua tragica fine.
Anziano scomparso nel Reggiano trovato morto in un pozzo. Valentina Dardari il 12 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il corpo è stato recuperato dai carabinieri e riconosciuto dalla moglie. I familiari non avevano sue notizie da mesi.
Il corpo trovato nella giornata di ieri, mercoledì 11 maggio, in un pozzo a Toano, comune in provincia di Reggio Emilia, appartiene a Giuseppe Pedrazzini, l’anziano di 77 anni scomparso da diverso tempo. Il cadavere è stato ritrovato nell'ambito delle ricerche sulla sua scomparsa che erano in atto. Verso le 7, al termine di operazioni che sono andate avanti per tutta la notte, i carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Reggio Emilia e i carabinieri della compagnia di Castelnovo Monti, con il supporto dei vigili del fuoco dei comandi di Reggio Emilia e Castelnovo Monti, hanno recuperato il corpo all'interno di un pozzo, che si trova poco lontano dall’abitazione in cui il 77enne scomparso viveva con la sua famiglia.
Il cadavere in fondo a un pozzo
A riconoscere il corpo senza vita del marito è stata la moglie. I familiari e i congiunti conviventi dell’uomo si sono recati al comando compagnia carabinieri di Castelnovo Monti, dove sono in corso gli accertamenti. Sul posto si trova anche il pm di turno della procura reggiana che si sta occupando di coordinare le attività di indagine. Ad avvistare ieri il cadavere di una persona in un pozzo profondo quattro metri era stato un cane dell'unità cinofila dei carabinieri. Dopo le procedure per il recupero del corpo erano subito iniziate le pratiche di identificazione. Per il momento gli inquirenti non hanno ancora escluso alcuna ipotesi. Amici, parenti e conoscenti dell'anziano verranno ascoltati nelle prossime ore.
La denuncia fatta dagli amici dell'anziano
L’appello diramato dai carabinieri di Toano era arrivato in seguito alla segnalazione da parte di alcuni amici dell’anziano che, non riuscendo a rintracciare l’uomo, si erano rivolti ai militari. Prima però, gli stessi avevano cercato di chiedere informazioni sulla sua salute ai familiari del 77enne, ma avevano ricevuto come risposta che non avevano notizie del parente da alcuni mesi. A quel punto, non convinti di quanto erano venuti a sapere dalla famiglia dell'amico, hanno quindi preferito rivolgersi ai carabinieri per cercare di rintracciare l'amico scomparso. I militari hanno avviato le ricerche con l’aiuto dei cani. A svolgere le indagini sono stati quindi i carabinieri della stazione del paese, insieme a quelli di Castelnovo nè Monti. Era anche stata diramata una foto dell’uomo con l'invito a chiunque avesse sue notizie, o lo avesse incontrato, a farsi avanti.
I familiari: “Noi estranei”. Trovato morto in un pozzo, svolta nella scomparsa di Giuseppe Pedrazzini: fermati moglie, figlia e genero. Fabio Calcagni su Il Riformista il 12 Maggio 2022.
Una doppia svolta in poche ore. È stato identificato il corpo senza vita trovato ieri in un pozzo a Toano, in provincia di Reggio Emilia: si tratta di Giuseppe Pedrazzini, 77 anni, scomparso da qualche tempo e riconosciuto dalla moglie.
A scovare e recuperare il corpo, al termine di operazioni durate tutta la notta, sono stati i carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Reggio Emilia e i carabinieri della compagnia di Castelnovo Monti, con il supporto dei vigili del fuoco dei comandi di Reggio Emilia e Castelnovo Monti.
Cadavere rinvenuto non lontano dall’abitazione dove Pedrazzini viveva con la famiglia. La Procura riferisce che la segnalazione della scomparsa era arrivata da amici e parenti ai carabinieri di Toano, che avevano sottolineato come l’anziano non si vedeva in paese da diversi mesi.
A distanza di poche ore la svolta è arrivata anche dal punto di vista delle indagini: figlia, genero e moglie del 77enne, dopo esser stati sentiti in caserma, presso il comando compagnia carabinieri di Castelnovo, sono stati sottoposti a fermo.
I sospetti sulla scomparsa e sulla morte di Giuseppe Pedrazzini sono infatti subito ricaduti sui parenti più ‘stretti’ di Pedrazzini, che “non avevano denunciato la scomparsa dell’uomo”, sottolinea la Procura.
Il genero Riccardo Guida e la figlia Silvia sono indagati con le accuse di omicidio, occultamento del corpo e sequestro di persona, mentre la moglie Marta solo per occultamento di cadavere. Tutti e tre sono stati portati in carcere a Reggio Emilia dai carabinieri, perché sussistono “gravi indizi di colpevolezza”, legati a motivazioni di carattere economico.
Figlia e genero che, spiega all’Ansa il loro avvocato difensore Ernesto D’Andrea, “rivendicano la loro estraneità dei fatti per questi capi d’accusa. Faranno di tutto per dimostrare che non c’entrano nulla”.
I due si sono avvalsi entrambi della facoltà di non rispondere durante l’interrogatorio con gli inquirenti in caserma. Per il loro legale marito e moglie sono “caduti dalle nuvole” perché “non si capirebbe l’eventuale movente di un delitto così efferato come ipotizza la Procura. La vittima non era ricca, non aveva nulla di intestato. È la moglie colei che è benestante”.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Morte nel pozzo, gli indagati Guida e Pedrazzini sono «confinati» a Taranto. La morte di Giuseppe Pedrazzini, 77enne trovato in un pozzo vicino a casa a Toano la sera dell’11 maggio. Escono dal carcere i tre accusati della scomparsa del 77enne emiliano, ma i due familiari non possono lasciare la loro residenza pugliese. Redazione online su la Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Maggio 2022.
Silvia Pedrazzini e Riccardo Guida, la figlia e il genero di Giuseppe Pedrazzini non potranno uscire dal Comune di Taranto, dove hanno una casa, mentre la vedova non potrà lasciare Toano, pur rimanendo in un’altra residenza perché quella dove viveva col marito è sotto sequestro. Non ci sono elementi per sostenere che i familiari di Giuseppe Pedrazzini lo abbiano rapito e assassinato, ma potrebbero essere stati loro a nasconderne il corpo in un pozzo, vicino a casa, a Cerré Marabino di Toano - nella provincia emiliana - dove è stato trovato la sera dell’11 maggio dopo che un cane dei carabinieri ne ha fiutato le tracce. Sembra essere questo il ragionamento del giudice per le indagini preliminari di Reggio Emilia Dario De Luca, che ha scarcerato la figlia Silvia, 38 anni e il genero, Riccardo Guida, 43, oltre alla moglie Marta Ghilardini, 63. Per loro, fermati giovedì, la Procura aveva chiesto la custodia cautelare in carcere. Il gip, che non ha ancora motivato la propria decisione, non ha convalidato i fermi e ha disposto la misura dell’obbligo di firma e di dimora, in relazione solo all’ipotesi di soppressione di cadavere, rigettando la richiesta della Procura per omicidio e sequestro di persona.
I tre sono indagati dalla Procura, che coordina le indagini dei carabinieri, anche per truffa, per essersi intascati la pensione d’invalidità del 77enne dalla scomparsa, collocata a inizio febbraio. Le indagini proseguono e l’autopsia, iniziata nel pomeriggio, sarà fondamentale per capire se il pensionato abbia avuto una morte naturale o di altro tipo. Dalle prime osservazioni sul corpo, recuperato nel pozzo e in stato avanzato di decomposizione, non sono stati trovati segni di violenza. In ogni caso resta il dubbio su come possa essere finito da solo in un buco profondo otto metri, per di più coperto da una pesante lastra di pietra. In un fienile è stata trovata una valigia con effetti personali dell’uomo e bisognerà capire chi e quando l’ha preparata.
I tre indagati, come giovedì davanti al pm, anche nell’udienza in mattinata non hanno risposto al gip e le uniche parole sono arrivate dalla figlia, che ha fatto dichiarazioni spontanee per spiegare un’intercettazione ambientale che le viene contestata.
Esultanza legale sulla scarcerazione
La scarcerazione viene definita dal difensore di Guida e Pedrazzini, avvocato Ernesto D’Andrea «il trionfo della giustizia». «Come si fa a parlare di omicidio se ancora non si ha la certezza che si sia trattato di questo?» Poi «il sequestro non sta in piedi, i testimoni della pubblica accusa hanno confermato quanto detto dall’ospedale dove è stato ricoverato e cioè che la vittima ha avuto sbandamenti a livello di capacità mentali conseguenti a un ictus avuto in precedenza e ad una ricaduta avuta a dicembre. La data di contestazione del sequestro è dal 9 dicembre 2021 al 30 gennaio 2022 quando Pedrazzini è uscito dall’ospedale. Un testimone ha dichiarato di averlo sentito l’ultima volta proprio il 30 gennaio e che stava malissimo. A che titolo i miei clienti avrebbero fatto il sequestro?». E allora perché i suoi stessi familiari non ne avrebbero denunciato la scomparsa? «Fa parte della soggettività di ciascuno. I miei clienti hanno detto di non essersi sentiti in dovere di farlo». Soddisfatta anche l’avvocato Rita Gilioli, difensore della vedova, che ha sottolineato l’assenza di indizi a carico della propria assistita.
Uscendo dal carcere, Guida e Pedrazzini hanno fatto riferimento a un rogito bloccato «ed evidentemente a qualcuno non andava bene. C'è molto altro sotto e lo verrete a sapere...», hanno detto. «Io sono un pacifista e odio la violenza», ha continuato Guida. «La morte di mio suocero? Non voglio parlarne». La moglie Silvia ha aggiunto: «Sicuramente uscirà la verità e la verrete a sapere».
Quel corpo-fantasma trovato in un pozzo
Un fantasma. Nessuno riusciva più a trovarlo e a parlargli. Da mesi, Pedrazzini era diventato un fantasma. Lo cercavano, inutilmente, gli amici del bar e i parenti che aveva in Appennino. Ma tutti i tentativi erano inutili. Le ricerche sono iniziate, in sordina, un paio di giorni fa. Quando, dopo l’ennesimo tentativo di contattarlo, da parte degli amici, con una risposta poco convincente dei famigliari, è partita una segnalazione alle forze dell’ordine che hanno messo in moto la macchina delle ricerche. Da lunedì era scattata l’operazione per cercare di capire che fine avesse fatto Pedrazzini con le unità cinofile mobilitate, oltre a tutto il personale preposto, con, in primis, gli uomini dei nuclei Operativo e Investigativo dei militari reggiani.
E' stata battuta palmo a palmo l’intera area circostante la casa di Pedrazzini. Non solo, la Procura, nella persona del pm Giannusa, opta per il sequestro preventivo della casa che Pedrazzini abitava con la moglie, la figlia ed il marito di lei. Intanto, i cani molecolari battono le zone circostante alla casa e alla fine viene fiuatata una traccia consistente nel pozzo vicino all’abitazione. Un pozzo coperto da una pesante lastra di metallo, coperto da un cancello con uno sportello (così è stato descritto da chi conosce il posto).
Svolta nell'indagine. Giuseppe Pedrazzini trovato morto nel pozzo, familiari scarcerati dopo 4 giorni: cadute le accuse di omicidio e sequestro. Redazione su Il Riformista il 16 Maggio 2022.
Sono usciti questa mattina dal carcere di Reggio Emilia, dopo quattro giorni in una cella, perché il Gip ha fatto decadere le accuse di omicidio e sequestro di persona, confermando solo la soppressione di cadavere e disponendo per questo la misura cautelare dell’obbligo di dimora e di firma.
C’è una svolta nell’indagine sulla scomparsa e sulla morte di Giuseppe Pedrazzini, il 77enne trovato in un pozzo vicino a casa a Toano (Reggio Emilia) la sera dell’11 maggio, venendo poi estratto senza vita la mattina seguente.
Nelle ore successive i carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Reggio Emilia e di Castelnovo avevano sottoposto a fermo il genero del 77enne, Riccardo Guida, la figlia Silvia, questi due indagati con le accuse di omicidio, occultamento del corpo e sequestro di persona, mentre la moglie Marta Ghilardini solo per occultamento di cadavere.
Ma a distanza di quattro giorni, mentre la Procura aveva chiesto la custodia cautelare in carcere, il giudice per le indagini preliminari ha rigettato per i reati di omicidio e sequestro di persona, mentre ha disposto la misura per soppressione di cadavere.
La segnalazione della scomparsa era arrivata da alcuni amici ai carabinieri di Toano, che avevano sottolineato come Pedrazzini non si vedeva in paese da diversi mesi. I sospetti sulla scomparsa e sulla morte di Giuseppe Pedrazzini erano subito ricaduti sui parenti più ‘stretti’ di Pedrazzini, che “non avevano denunciato la scomparsa dell’uomo”, sottolineava la Procura annunciando il fermo di figlia, genero e moglie dell’anziano.
Uscendo dal carcere, Riccardo Guida e Silvia Pedrazzini si sono sfogati con i giornalisti che erano lì ad attenderli: “Sappiamo solo che ci hanno bloccato un rogito di una casa che doveva fare la madre (Marta Ghilardini, ndr) da 50mila euro ed evidentemente a qualcuno non andava bene. C’è molto altro sotto e lo verrete a sapere…“, ha spiegato Guida, che quanto alla morte del suocero ha preferito non rilasciare dichiarazioni. “Sicuramente uscirà la verità e la verrete a sapere. Perché non abbiamo denunciato la scomparsa di mio padre? Parlatene col nostro avvocato”, sono state le parole di Silvia Pedrazzini, figlia del 77enne trovato morto nel pozzo vicino casa.
Il tema della mancata denuncia viene commentato così da Ernesto D’Andrea, avvocato difensore dei due coniugi: “Fa parte della soggettività di ciascuno. I miei clienti hanno detto di non sentirsi in dovere di fare denuncia. Ognuno ha una sensibilità, magari dopo un giorno dalla scomparsa c’è chi sarebbe andato a fare denuncia e chi no. Ma non l’hanno presentata nemmeno i fratelli e le sorelle che invece sono già corsi in Procura per costituirsi parte civile”.
Quanto al rilascio dei suoi clienti, per il legale “è il trionfo della giustizia“. Sull’inchiesta le parole sono più dure, in particolare nei confronti della Procura che aveva disposto il fermo dei familiari dei Pedrazzini: “Come si fa a parlare di omicidio se ancora non si ha la certezza che si sia trattato di questo – ha puntato il dito il legale -. Se fosse morto per cause naturali, avremmo tenuto in carcere tre persone per tutta la durata delle indagini preliminari?“. Poi contesta: “Il sequestro non sta in piedi, i testimoni della pubblica accusa hanno confermato quanto detto dall’ospedale Sant’Anna di Castelnovo Monti dove è stato ricoverato e cioè che la vittima ha avuto sbandamenti a livello di capacità mentali conseguenti a un ictus avuto in precedenza e ad una ricaduta avuta a dicembre. La data di contestazione del sequestro è dal 9 dicembre 2021 al 30 gennaio 2022 quando Pedrazzini è uscito dall’ospedale. Un testimone ha dichiarato di averlo sentito l’ultima volta proprio il 30 gennaio e che stava malissimo. A che titolo i miei clienti avrebbero fatto il sequestro?“.
A questo punto sarà fondamentale l’autopsia sul corpo dell’anziano, che si svolgerà nella giornata odierna e potrà così stabilire la causa del decesso e anche da quanto tempo il corpo di Pedrazzini fosse lì. Per ora sono stati esclusi segni di violenza.
· Il giallo di Mauro Donato Gadda.
Il ritrovamento nelle campagna: la pista sentimentale. Cadavere smembrato, carbonizzato, ritrovato nel bagagliaio: massacrato l’imprenditore Mauro Donato Gadda. Vito Califano su Il Riformista l'11 Maggio 2022.
Il corpo di Mauro Donato Gadda è stato trovato a pezzi, carbonizzato, nel portabagagli della sua Davia Logan parcheggiata nel bel mezzo delle campagne. Aveva 64 anni l’imprenditore di Busto Garolfo, in provincia di Milano, ucciso e torturato e ritrovato alle porte di Bucarest, ieri. Viveva in Romania da una decina d’anni. Per il truculento omicidio sono state arrestate due persone.
I due fermati sono Valentin e Carmeluta, 27 e 23 anni, marito e moglie, genitori di due figli di 6 e 4 anni, un maschio e una femmina ora in affido. Sarebbero stati ripresi dalle telecamere di sorveglianza nei pressi della scena del crimine. Gli arresti dovranno essere convalidati dal Tribunale dell’Ilfov. Il cadavere era stato fatto a pezzi e carbonizzato. Per le parti riconoscibili: le mani erano fratturate, le costole rotte, il cranio spaccato. Il 64enne era stato assassinato in un condominio nel “settore 5” della capitale rumena. Dietro l’omicidio a quanto emerge ci potrebbe essere una storia di sesso e vendetta.
Gadda da dieci anni si era stabilito tra Giurgiu e Bucarest. Secondo i media romeni era molto noto nell’ambiente imprenditoriale di Bucarest. Era socio di una coppia in un’azienda che si occupa di pompe e filtri d’acqua. Faceva una vita agiata tra una collezione di auto, una barca per la pesca e una villa nella contea di Giurgiu. La governante dell’imprenditore lombardo avrebbe raccontato che nella villa di Gadda c’era un viavai di giovani donne. E aveva riferito in particolare di un rapporto stabile che l’imprenditore aveva con una ragazza di 23 anni di Bucarest.
Secondo i quotidiani locali Antena 3 e Gandul, che citano fonti d’indagine, Gadda aveva o aveva avuto una relazione con Carmeluta. Il marito Valentin avrebbe studiato quindi il piano per eliminare l’imprenditore italiano. Il 64enne sarebbe stato invitato nell’appartamento della coppia in Aleea Livezilor a Bucarest dove i due si incontravano spesso. Secondo altre fonti citate da Il Corriere della Sera Milano l’uomo sarebbe stato scoperto in casa di Valentin con la moglie. Il fermato era già noto alle forze di polizia.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
F. Zan. Per “il Messaggero” il 13 maggio 2022.
Tutto era stato pianificato perché sembrasse un omicidio di stampo mafioso: un'auto senza targa incendiata in un campo alle porte di Bucarest - in Romania - e il corpo di un uomo nel bagagliaio. Ma secondo quanto ricostruito dagli investigatori, l'imprenditore italiano Mauro Donato Gadda, 64 anni, sarebbe stato invece ammazzato per gelosia. La polizia rumena ha fermato i coniugi Valentin Barbalau e Carmen, di 27 e 23 anni: non è ancora chiaro il ruolo della donna nel delitto, ma è stato accertato che da tempo aveva una relazione sentimentale con Gadda.
Il 64enne, originario di Busto Garolfo (Milano), aveva lasciato l'Italia una decina di anni fa e viveva stabilmente tra Giurgiu e la capitale, dove era socio di un'azienda che si occupa della produzione di filtri e pompe d'acqua.
Secondo una prima ricostruzione dell'omicidio, Gadda sarebbe stato caricato nel bagagliaio dell'auto già deceduto, e soltanto a quel punto gli assassini avrebbero appiccato quell'incendio che, come riportano i media locali, sarebbe durato quasi quattro ore. All'arrivo delle forze dell'ordine, il corpo è stato rinvenuto completamente carbonizzato, ma da un primo esame medico sarebbero emerse diverse fratture alle ossa delle mani, alle costole e al cranio. Un eventuale arma del delitto non è stata ancora trovata, ma saranno le indagini e l'autopsia ad accertare la precisa causa del decesso.
LA RICOSTRUZIONE
I due fermati avrebbero incontrato Gadda martedì scorso in un appartamento, durante uno degli appuntamenti romantici tra la vittima e Carmen. Secondo quanto riportano alcune testate locali, Valentin avrebbe seguito la moglie e, non appena si è trovato davanti l'imprenditore, ne è nata un'accesa lite, durante la quale il 64enne avrebbe perso la vita (tra le ipotesi, anche quella che abbia battuto la testa a terra in seguito a una forte spinta). A quel punto, quindi, l'idea di mascherare l'omicidio.
Non è chiaro quanto la donna sia stata partecipe della messinscena che avrebbe dovuto depistare gli inquirenti verso un delitto mafioso, ma entrambi i coniugi sarebbero stati ripresi dalle telecamere di videosorveglianza poco distanti dal luogo in cui è stata fatta bruciare l'auto. Questo è soltanto uno degli errori commessi dai due: negligenze che, una volta scoperte, hanno reso sempre più improbabile l'ipotesi di un legame con gli ambienti della malavita.
La targa della Dacia Logan di Gadda era stata rimossa, ma i presunti assassini non avevano pensato di rendere illeggibile anche il numero di telaio. A fare il nome dell'imprenditore sarebbe stata poi la sua governante che, riconoscendo la macchina dalle immagini al telegiornale, ha contattato le forze dell'ordine. Sempre lei, poi, avrebbe fornito ulteriori dettagli sulla vita del 64enne, che in Romania conduceva una vita agiata e tranquilla. Era appassionato di cavalli, collezionava auto, possedeva una barca per la pesca e una villa in un quartiere residenziale. Godeva senz' altro di un'ottima situazione economica e, secondo quanto raccontato agli inquirenti dalla governante, era solito condividere quella serenità con diverse amanti.
A detta della donna, infatti, sarebbe stata abitudine di Gadda avere ospiti femminili a casa, spesso anche molto giovani. Un dettaglio quest' ultimo, che ha ulteriormente rafforzato la pista passionale. Secondo quanto diffuso dalla stampa rumena, inoltre, Valentin Barbalau era già noto alle forze dell'ordine per violenza domestica nei confronti della moglie.
· Il giallo di Piazzale Dateo, la strage di Capodanno a Milano.
Piazzale Dateo, la strage di Capodanno a Milano: il killer misterioso e la Porsche, un romanzo criminale. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 12 Maggio 2022.
La notte di Capodanno 1999 sull’asfalto rimangono tre cadaveri: un operai bergamasco, una trans brasiliana, un immigrato cingalese. Uccisi dai colpi di due pistole utilizzate da un solo uomo. Che, nonostante anni di indagini accurate, non è mai stato individuato. Così come il movente.
Le anomalie di una strage
Ascoltati oggi dal Corriere a distanza di ventidue anni, magistrati e poliziotti allora a caccia del killer — che fosse uno soltanto è l’unica certezza —, parlano di un assassino per caso ma non casuale come preparazione balistica e «professionalità». Lo sterminatore, la notte del Capodanno 1999 in piazzale Dateo, di Paulo Barboza dos Santos, Pierfranco Talgati e Clement Wattoru Tantirige, scese dalla sua Porsche color scuro, freddò le tre vittime, risalì in macchina e sparì. Punto. Testimoni ce n’erano, almeno una decina, ma il più vicino stava a trenta metri; dopodiché i botti di fine anno e gli occhi all’insù coperti dall’ombrello ché pioveva… E se vogliamo, in quella Milano folle, spaventosa, sanguinaria, di cani sciolti e battaglie per strada, di arrivisti del crimine italiani e stranieri, una Milano da romanzo criminale, allora sì una Milano violenta e ingestibile (era proprio quello il periodo dei nove morti ammazzati in nove giorni), governavano la paura e l’omertà, o quantomeno la regola ordinava di schivare i proiettili e farsi i fatti propri, anche se tre uomini giurarono d’aver assistito a frammenti del massacro, cristallizzarono quella Porsche in allontanamento — per la verità anche una Panda — e raccontarono di uno sparatore con i capelli ricci che fece parlare soltanto le armi rimanendo zitto… Poco, quasi nulla. A parte che gli inquirenti si convinsero di dover cercare una Porsche e non una Panda. Con a bordo un killer ambidestro.
La sequenza di sangue
Dunque, le due e mezza del primo giorno del nuovo anno: una pistola impugnata nella destra, un’altra nella sinistra, e proiettili contro Paulo, 29 anni, brasiliano, viados, prigioniero della cocaina; proiettili contro Pierfranco, 51 anni, bergamasco di Canonica d’Adda, una gamba malata e una passione per le trans; proiettili contro Clement, cingalese, 27 anni, uno di quelli senza vizi né ossessioni. Ci dice un poliziotto: «La scena del crimine era un macello. In ogni senso». Nel tempo gli inquirenti hanno evocato un sicario a pagamento, un poliziotto dalla doppia vita, un vendicatore solitario, un serial-killer, un misantropo disturbato dalle feste e dai festeggiamenti, dalla gente che sorrideva: sceso da casa e dopo aver vagato e scelto gli obiettivi, diede inizio alla vendetta. Ma la presunta verità investigativa, non certo la verità processuale perché l’unico indagato fu scagionato e il caso, chiuso e riaperto è infine andato in archivio (forse) per sempre, tutto e tutti ha escluso. Lasciando un’ipotesi. Chi ammazzò, aveva avuto in precedenza un incontro con Barboza dos Santos per una prestazione sessuale, non c’era stato accordo, anzi era seguito un litigio, forse il viado aveva preso in giro l’altro il quale era andato a recuperare, se già non le aveva addosso — e per appunto in quegli anni succedeva spesso — non una ma due pistole, una Beretta e una Tanfoglio, e quando più tardi aveva scorto Paulo, non aveva esitato. Siccome al suo fianco c’era Talgati, che del viado si considerava il fidanzato ufficiale anziché uno dei tanti clienti, andava fatto sparire, avendo visto in faccia l’assassino e forse sapendo il pregresso. E Wattoru Tantirige? Rincasava dopo una serata da parenti, camminava a passo svelto per schivare l’acqua, e attraversando piazzale Dateo si ritrovò nella classica situazione del posto sbagliato. Lo sterminatore lo scorse, mancò ci penso sopra, e fece fuoco.
Le pisteNon c’entrava la droga, il viado non movimentava merce e denaro, pippava e basta, nessun regolamento di conti; non esistevano misteri nell’esistenza dell’operaio, a parte s’intende quell’assiduità da finanziatore delle trans e quell’essere a totale disposizione di Paulo, che magari sognava perfino di sposare; e lui, Barboza dos Santos, non rimandava a scenari criminali per esempio nel racket della prostituzione tali da ragionare su una possibile punizione; non era un confidente di polizia e carabinieri, non aveva tradito compagni facendoli arrestare, non flirtava con grossi personaggi criminali che potevano addurre una sorta di mancanza di rispetto per una relazione interrotta; e ancora, il viado non aveva collegamenti con precedenti omicidi, non era un testimone scomodo. Niente. Paulo Barboza dos Santos doveva morire lì, in quel punto, in quel momento, in quella notte, poiché poco prima lo sterminatore così aveva deciso.
Le urla al telefono
Certo, con i mezzi tecnologici di oggi sarebbe stato diverso. Logico, scontato, retorico. Basti pensare che, nella serata del 31 dicembre, Paulo aveva ricevuto tre telefonate, tutte da cabine telefoniche, e in una di queste — quando stava dalla parrucchiera — si mise a urlare e minacciare: ebbene, non fu possibile per i tecnici della polizia compiere accertamenti su quelle chiamate, che avrebbero orientato le indagini, forse perfino risolte. Abbiamo sopra menzionato un poliziotto dalla seconda vita. Sì: i bossoli rimandarono a un lotto acquistato proprio dalla polizia e distribuito agli agenti di mezza Italia. Compresa Milano. Risultati? Zero. Eppure non risultarono denunce di furti… Zero come le esplorazioni nei poligoni di tiro lombardi, fra addestratori e frequentatori. E come le ricerche delle Porsche (ma non delle Panda, che si decise di non contemplare: «Del resto» prosegue quel poliziotto, «facemmo una scelta, ponderata, con delle basi, ragionevolmente convinti di dover seguire quella pista. Sbagliammo? È una domanda inutile ormai»). Tentativi falliti. Come le successive comparazioni in occasione di due rapine ai caselli autostradali di Carugate e Agrate, il 26 gennaio e il 14 marzo, in quanto le pistole erano compatibili e i testimoni misero a verbale una Porsche. Di color lilla, non scura. L’auto rimandava a un pregiudicato, nella cui casa, murate, c’erano due pistole delle quali lui non aveva mai parlato. Sembrava l’epilogo. Invece le armi erano stagionate, non in funzione da un pezzo, e pace se in generale quello, un po’ balordo e un po’ ganassa, mentì e prese in giro gli investigatori, regalò presunte verità dritte, giocò con le parole: di fatto non c’entrava. Se lo sterminatore di piazzale Dateo aveva una Panda, l’avrà rottamata.
Se era un poliziotto, sarà andato in congedo.
Se aveva i capelli ricci, gli si saranno ingrigiti.
Se è ancora vivo, sa che non lo prenderanno mai.
· Il Mistero di Nada Cella.
Nada Cella, nessuna traccia di sangue sul motorino dell’indagata Annalucia Cecere. Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2022.
Concluso l’accertamento sui reperti trovati 25 anni dopo l’omicidio: nessuna evidenza ematica sotto la sella del motorino della donna ora indagata per l’assassinio.
Nessuna traccia di sangue sullo scooter del cold case. C’è un colpo di scena nell’indagine riguardante la morte di Nada Cella, la segretaria 25enne trovata morta a Chiavari nel 1996 nello studio dove lavorava. La procura della città della Lanterna aveva indagato per omicidio una donna, Annalucia Cecere, ex insegnante nel 2017 destituita per motivi disciplinari, allora ventottenne (oggi ha 53 anni). Adesso si scopre, a seguito dell’ulteriore proroga dei test genetici sul materiale sequestrato alla stessa Cecere, che non ci sono evidenze ematiche della vittima sul motorino che la segretaria, allora 28enne, utilizzava nel 1996 e che portò con sé anche a Boves, in provincia di Cuneo, dove si trasferì pochi mesi dopo il delitto.
Dall’esame gli investigatori si attendevano molto. Nello scorso novembre la Procura aveva infatti convocato un accertamento in contraddittorio, per prelevare il campione e poi affidarlo al genetista Emiliano Giardina, incaricato dai pm, per estrarre il Dna. Qualora il sangue fosse stato quello di Nada, sarebbe forse giunta una prova definita della colpevolezza dell’indagata. Invece nel sottosella del ciclomotore, che sembra fosse tenuto in garage in perfette condizioni, non c’è nemmeno una traccia ematica. Il test sul ciclomotore è stato eseguito, si apprende da qualificate fonti investigative, dalla polizia scientifica di Roma, prima con il luminol e poi tramite esami di laboratorio, ma l’esito è stato negativo.
Il sequestro del ciclomotore, che l’indagata conservava a Boves, era stato disposto dalla Procura dopo che erano state riesaminate alcune testimonianze dell’epoca. In particolare quella di una donna che aveva raccontato ai carabinieri di aver visto Cecere, la mattina della morte di Nada, allontanarsi a bordo del suo motorino proprio da via Marsala, dove si trovava lo studio del commercialista Marco Soracco, indagato per falsa testimonianza : per l’accusa avrebbe mentito su aspetti di cui era a conoscenza.
Soracco, peraltro, ha chiesto lo slittamento di un mese per i risultati dei test del Dna dopo che erano state ri-repertate diverse tracce organiche. I risultati dei test avrebbero dovuto arrivare a fine febbraio, ma dopo una prima proroga di un mese ora il genetista che si occupò anche il caso di Yara Gambirasio ne ha chiesto una seconda fino a fine aprile.
Per gli inquirenti che hanno riaperto il caso, Cecere avrebbe ucciso per gelosia nei confronti di Soracco, che avrebbe avuto un interessamento invece per la segretaria, e per prendere il suo posto di lavoro.
· Il Mistero di Daniela Roveri.
Daniela Roveri, manager uccisa a Colognola dal killer fantasma. La madre: «Ho fiducia che sarà identificato». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 7 Aprile 2022.
Assassinata nell’androne di casa il 20 dicembre 2016 a Colognola (Bergamo), il caso è stato archiviato nel 2019. Battuta ogni pista, dalla vendetta personale alla rapina finita male, più di 500 persone ascoltate, alibi «di cemento» forniti dai sospettati. Un assassino introvabile, una morte senza risposte
«C’è un assassino in libertà»
«Io parlo soltanto con la questura. Io ho fiducia, ancora fiducia, soltanto nella polizia, cioè nella legge», dice in un rapido colloquio, presto interrotto dalla disperazione — che vince sul grande contegno e la profonda gentilezza — la signora Silvia, mamma di Daniela Roveri, la manager uccisa senza che mai gli investigatori abbiano trovato l’assassino. Un caso del 2016. Un caso archiviato nel 2019. Un caso in cui, e lo confermano le carte dell’inchiesta, oltre il possibile è stato fatto.
L’agguato
«Non lo dico perché sono la madre: la mia Daniela era una donna seria, scrupolosa, serena. Bisognava faticare? Lei lo faceva e non protestava, portandosi il lavoro a casa il sabato e la domenica». Ecco, la casa. Cominciamo da qui. O meglio dai metri che precedono l’appartamento al civico 11 di via Keplero a Colognola, periferia residenziale di Bergamo dove Daniela, 48 anni, laureata in Economia e Commercio, single, viveva con la signora Silvia, vedova (il marito era morto in un incidente stradale). Ci hanno raccontato dalla squadra Mobile che per «capire, provare a capire ragionando sull’ipotesi più sostenibile, quella di una rapina finita tragicamente, bisogna considerare non lo stesso androne dell’agguato bensì l’ambiente esterno che a quell’androne conduce». Dunque Colognola: palazzine basse, un piccolo parco, mamme e bambini, cani e anziani, un’aria di tranquillità, si parla e non si urla, la sera ci si ritira presto, nessun locale che attragga e muova brutte compagnie. Ma adesso introduciamo la data del delitto: il 20 dicembre 2016. Sostengono le statistiche che laddove i giorni coincidenti con Ferragosto determinano un aumento dei furti negli appartamenti, quelli prima di Natale rappresentano il periodo dei predoni di strada. Balordi italiani e stranieri, a volte sbandati, a volte tossici, spesso disperati, che scelgono a caso, colpiscono, arraffano. Forse è un predatore, e nell’eventualità chissà dove approdato, l’assassino di Daniela Roveri, dirigente della Incra Italia, azienda di prodotti in ceramica a San Paolo d’Argon, a venti minuti di macchina da Colognola.
La passione per la palestra
I poliziotti, ovvio, misero sotto superiori e colleghi della vittima. Invano. Virarono su un personal trainer che aveva una frequentazione con Daniela: il suo alibi «era non di ferro, ma di cemento armato». Allora sondarono, gli investigatori, i vicini di casa. In fondo anche i più miti qui esplodono per questioni di parcheggio, i posti sono scarsi, e nelle miserabili dinamiche umane qualcuno vanta maggiori requisiti rispetto al prossimo per mollare la macchina anziché farsi duecento metri a piedi. Ciò premesso fra quei vicini non c’era l’omicida, così hanno sentenziato gli accertamenti che davvero hanno poggiato su ogni strumento a disposizione (in totale, cinquecento persone ascoltate, e ampio il numero degli intercettati, significative le verifiche incrociate nel tempo). Sicché torniamo all’origine: un rapinatore.
L’ipotesi serial killer
All’epoca il procuratore lo bollò come scenario infondato, che magari piaceva ai giornalisti e agli scrittori, e in fondo anche al pubblico appassionato dei polizieschi, ma che restava privo di agganci con la realtà: si pensò a un serial killer in azione nella Bergamasca, un misterioso uomo che prima di Daniela avrebbe ucciso a Seriate l’ex professoressa Gianna Del Gaudio, 63 anni. Niente di vero. Vero però che l’assassino della manager, dissanguata da un taglio netto alla gola provocato da un coltello, depositò una traccia: un capello e dei peli della mano. Elementi che hanno fornito per forza un profilo di Dna. Ma il Dna va associato a un individuo, e l’individuo è sparito o quantomeno non è più incappato in un’indagine che possa consentire l’abbinamento. Non è escluso, qualora fosse davvero un predatore, uno degli attori dei crimini di strada, che abbia colto di sorpresa Daniela per derubarla — drammaticamente era la prima che passava e lui se ne stava appostato in attesa —, l’abbia bloccata alle spalle poggiandole la lama sulla gola, e che poi Daniela abbia reagito originando una colluttazione durante la quale il coltello potrebbe aver colpito, per caso o precisa volontà, la manager. Manager che rientrava dalla palestra e che, superato l’androne dove tutto avvenne, avrebbe raggiunto mamma Silvia. Non aveva mai voluto, nonostante i corteggiatori, le proposte, e anche certi suoi pensieri, andarsene a stare da sola o in compagnia di un fidanzato, lasciando la mamma prigioniera, in solitaria, nel perdurante strazio della perdita dell’amato marito.
L’iPhone «muto»
Mentre Daniela agonizzava, il killer arraffò la sua borsa, che conteneva portafoglio e iPhone6. Quest’ultimo venne in seguito trovato rivelandosi però inutile: l’assassino l’aveva buttato appena possibile, e il cellulare era rimasto acceso fin quando aveva tenuto la batteria. Potrebbe però anche essere stata una manovra di depistaggio: portare via gli effetti personali della manager simulando un colpo e mascherando le reali coordinate dell’uccisione. Ragionando sull’elevata densità abitativa e il fatto che non siamo in aperta e sperduta campagna quanto in nuclei urbani, le celle telefoniche agganciate dai cellulari hanno sì fornito una loro narrazione collocando nel contesto eventuali persone sospette, ma di nuovo nulla regalando all’inchiesta. Rimarrà strano, molto strano a sentire gli investigatori, che non un passante, non un condomino abbiano notato un minimo dettaglio ambiguo nella quotidiana routine. Ma negli omicidi irrisolti c’è sempre chi tace, e conta sugli anni che passano. Gli anni sono già cinque. «Io parlo soltanto con la questura. Io ho fiducia, ancora fiducia, soltanto nella polizia, cioè nella legge» ripete, senza fiato, la signora Silvia.
· Il caso di Alberto Agazzani.
Margherita Montanari per corrieredibologna.corriere.it il 25 febbraio 2022.
Potrebbe non essersi tolto la vita Alberto Agazzani, ma essere vittima di un delitto successivamente mascherato da suicidio. Se il dubbio sollevato da un medico consulente della Procura fosse accertato, sarebbe un colpo di scena capace di sparigliare le carte di un caso che sembrava chiuso al giorno uno.
La storia del critico d’arte trovato morto
Il critico d’arte reggiano di 48 anni, fu trovato morto il 16 novembre 2015 nella sua casa in centro storico, in via Farini a Reggio Emilia. Quando lo trovarono, era in piedi, impiccato a una ringhiera con una cintura di cuoio al collo, a cui era stato attaccato un pezzo di stoffa.
Le forze dell’ordine si trovarono davanti a quella che sembrava la scelta di uomo che aveva compiuto un gesto estremo. Più tardi arrivò l’indagine. Mesi dopo, quando il corpo era già stato cremato. Un sopralluogo avvenne a marzo 2016, sulla base di «solo quattro foto, di qualità non ottimale».
Il processo sull’eredità
Ma durante l’udienza per il processo sull’eredità di Agazzani (che vede imputato Marco Lusetti, ex vicesindaco di Guastalla, per falso in testamento olografo e truffa) sono emerse nuove ipotesi sconcertanti. Davanti al giudice Matteo Gambarati sono stati presentati i dubbi sulle ultime ore del critico d’arte e un’ipotesi clamorosa sulla morte è stata sollevata.
«Pur con tutti i limiti degli accertamenti che ho svolto, l’ipotesi più plausibile è che ci sia stata l’azione di terzi», ha riferito Maria Paola Bonasoni, dottoressa specializzata in anatomia patologica, nominata consulente tecnica dal pm Maria Rita Pantani, titolare dell’inchiesta. Se diversamente il suicidio di Agazzani fosse stato invece frutto di un copione scritto da qualcun altro, si prospetterebbe un caso di omicidio.
I dubbi crescenti sul suicidio
Fu omicidio o suicidio, dunque? Per chi lo conosceva bene, Agazzani negli ultimi mesi prima di morire non era più quello di un tempo. Aveva iniziato la sua carriera di critico musicale nel 1986, poi era passato all’arte. Aveva incasellato una serie di risultati professionali, facendosi largo anche all’estero. Ma un incidente, in cui era rimasto coinvolto a luglio 2015, lo aveva cambiato, facendolo diventare più fragile.
Le nuove indagini sul decesso: «Dubbi sul fatto che si sia impiccato»
A sette anni di distanza dalla sua morte, potrebbero forse prendere il via nuove indagini sul suo decesso. Con la nuova ipotesi di omicidio basata su alcune anomalie che sono saltate all’occhio di Bonasoni.
Come la camicia di Agazzani, stirata ma spiegazzata sotto le ascelle, un elemento che potrebbe far pensare a una persona che è stata sollevata e spostata di peso. C’è poi la scarsa altezza scelta per l’impiccagione a riempire di dubbi: dal corrimano al pavimento c’erano 2 metri e 5 centimetri, forse troppo poco per il critico d’arte, che era alto 1,86 e pesava oltre 90 chili. E ancora: «Sembra che la cintura al suo collo sia stata chiusa dall’alto», ha notato la consulente. Infine, la possibilità che fosse sedato con farmaci prima del gesto. La prossima udienza è fissata a maggio.
· Il Mistero di Michele Cilli.
Barletta, due arresti per l'omicidio del giovane scomparso due mesi fa. Stamattina l'interrogatorio in Questura e poi il trasferimento in carcere. Le interviste al procuratore Nitti, al questore Pellicone e al capo della Squadra Mobile Masciopinto. Aldo Losito su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Marzo 2022. La scomparsa del giovane barlettano Michele Cilli, avvenuta lo scorso 15 gennaio, ha una spiegazione. Questa mattina, infatti, su ordine della Procura di Trani, ed in esecuzione della misura di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Trani, la Polizia ha arrestato due 33enni barlettani Dario Sarcina e Cosimo Damiano Borraccino. Il primo è ritenuto il presunto autore dell'omicidio di Michele Cilli, mentre il secondo (in concorso con Sarcina) è ritenuto il presunto autore della soppressione del cadavere di Cilli. I due indagati sono stati ascoltati questa mattina in Questura ad Andria, prima di essere trasferiti in carcere. Le indagini proseguono per capire il movente alla base dell'omicidio. Dalla conferenza stampa di questa mattina, svolta nella Questura di Andria, sono emersi tutti i dettagli delle indagini, spiegate dal capo della Procura di Trani, Renato Nitti; dal questore della Bat, Roberto Pellicone; e dal capo della Squadra Mobile, Gesualdo Mascipinto.
Omicidio Cilli, il presunto killer investì e uccise un pedone: era già accusato di omicidio. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Marzo 2022.
Rischia il processo il 33enne Dario Sarcina, arrestato ieri per il delitto del giovane di Barletta. Rischia un processo per omicidio stradale il 33enne Dario Sarcina, in carcere da ieri con l'accusa di aver ucciso e distrutto il cadavere del 24enne Michele Cilli, scomparso a Barletta nella notte fra il 15 e il 16 gennaio. Sarcina - è l’accusa della Procura di Trani - un anno fa, il 30 aprile 2021, avrebbe travolto e ucciso un pedone, il 52enne Cosimo Damiano Lamacchia, per poi caricarlo su un’altra auto con l’aiuto di due complici, due fratelli barlettani di 45 e 35 anni, ora accusati di favoreggiamento, e scaricarlo in fin di vita davanti all’ingresso del pronto soccorso. L’udienza preliminare per il rinvio a giudizio inizierà il 2 maggio. Nel procedimento si costituiranno parti civili la moglie e i due figli della vittima, assistiti dallo studio legale 3A. Quando Sarcina fu sentito dai poliziotti, durante le indagini sull'investimento mortale, tentò di depistare gli inquirenti ma poi ammise di essere stato lui a investire il 52enne durante manovre di parcheggio e di aver seguito fino all’ospedale l’auto a bordo della quale era stato caricato il corpo agonizzante di Lamacchia. La conferma della dinamica è arrivata dalle immagini di telecamere di sorveglianza, da dichiarazioni di alcuni testimoni e dai tabulati telefonici.
Ritrovati solo gli occhiali del ragazzo. Si allontanò con un conoscente la sera del 15 gennaio, da quel momento il buio. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Marzo 2022. Due persone sono state arrestate nell’ambito delle indagini avviate dopo la scomparsa di Barletta Michele Cilli, 24enne di Barletta.
In carcere, su ordine della Procura di Trani ed in esecuzione della misura di custodia cautelare in carcere emessa dal G.I.P. di Trani, sono finiti Dario Sarcina, trentatreenne di Barletta, ritenuto il presunto autore dell’omicidio di Michele Cilli, e Cosimo Damiano Borraccino, coetaneo di Sarcina che, in concorso con quest’ultimo, è ritenuto il presunto autore della soppressione del cadavere di Michele Cilli.
L complesse e articolate indagini condotte dalla Squadra Mobile della Questura di Barletta Andria Trani e dal Commissariato di P.S. di Barletta hanno consentito di ricostruire, attraverso le telecamere di sorveglianza della zona e l'ascolto di numerosi testimoni, cosa accadde la notte del 15 marzo scorso, giorno in cui Michele Cilli, sparì nel nulla dopo essere salito nell'auto di Sarcina.
La mattina del 17 gennaio ne denunciarono la scomparsa la madre e la sorella, riferendo di non aver avuto più notizie del ragazzo dalla sera del sabato precedente, quando questi aveva partecipato alla festa di compleanno di un suo amico svoltasi in un lounge bar di Barletta.
Cilli era stato visto allontanarsi dal bar quando ancora la festa di compleanno era in corso, alle prime ore di domenica 16 gennaio, in compagnia ed a bordo dell’auto di Sarcina e quest’ultimo era stato visto tornare in prossimità del bar con la propria auto da solo e, dopo una brevissima sosta finalizzata a prendere a bordo la propria compagna, senza scendere dall’auto, ripartiva a forte velocità.
Nell'ordinanza di custodia cautelare il gip di Trani parla di «elementi indiziari oltre che di natura fattuale, in virtù delle emergenze dettagliatamente indicate, anche di natura logica, quale lettura combinata, precisa e scrupolosa, dei molteplici indizi raccolti dall’organo inquirente, a fronte di un evidente clima omertoso permeante la vicenda in disamina. Ciò nondimeno, però, gli indizi raccolti, chiaramente univoci e concordanti, si rilevano di numero considerevole, ma soprattutto si dimostrano convergenti nel focalizzarsi sugli odierni indagati».
Le indagini, svolte anche con l'ausilio di cinofile, sommozzatori, droni, e attraverso una complessa analisi delle immagini registrate dai numerosi sistemi di video sorveglianza presenti nella zona, nonché dei tabulati telefonici e telematici e dei tracciati Gps di alcune autovetture sospette, sono riusciti a ricostruire minuziosamente quanto sarebbe accaduto quella notte.
La sera tra il 15 ed il 16 gennaio - è la tesi della Procura - Sarcina, dopo aver cenato in compagnia di altre persone in un ristorante di Barletta, è andato in un bar dove ha incontrato Michele Cilli, con il quale si è allontanato alle ore 1.38, guidando la propria auto in direzione del lungomare Pietro Mennea. L’auto con a bordo Michele Cilli è stata ripresa entrare alle ore 1.40 circa all’interno di un garage ubicato in un complesso condominiale di Barletta, dove è rimasta circa mezz’ora; alle successive ore 2.10 circa, la stessa auto è uscita dal garage per parcheggiare in prossimità alcune abitazioni dove è rimasta pochi minuti, per poi ripartire con a bordo il solo Sarcina e giungere alle ore 2.24 in prossimità del bar, dove è rimasta giusto il tempo di far salire a bordo persone che erano già in compagnia del Sarcina quando questi era arrivato in precedenza al bar. S.D. ritornerà a casa in auto dopo circa due ore.
La sosta dell’auto di Sarcina nel garage e, dopo, per pochi minuti, nei pressi di alcune abitazioni, non è sfuggita all’attenzione degli investigatori che sarebbero riusciti a comprendere il motivo della breve sosta dell’auto susseguente a quella più lunga all’interno del garage.
Infatti, in prossimità di quelle abitazioni - sempre secondo quanto sostiene la Procura - è uscito un uomo alto e longilineo che, correndo, si è diretto verso il complesso condominiale dove si trova il garage, entrandovi e restando pochi minuti prima di uscire e, sempre correndo, è stato ripreso dirigersi verso la propria abitazione da dove, dopo poco, usciva un’autovettura. Tutto ripreso dalle telecamere di sorveglianza.
Seguendo il percorso dell'auto è stato possibile accertare che il conducente si è recato in una vicina stazione di servizio dove ha riempito una tanica di benzina per poi andare all’interno del garage dove era stato Sarcina.
L’uomo in questione è stato identificato nell'indagato Borraccino, che indossava un pantalone della tuta ed un paio di scarpe. Le stesse - dicono gli investigatori - ritrovate in zona Fiumara di Barletta il successivo 21 gennaio. Al ritrovamento di tali indumenti, nei giorni successivi, seguirà un altro fatto, ovvero, la denuncia di furto dell’auto utilizzata da B. la notte del 16 gennaio.
È proprio seguendo il percorso di questa auto che i poliziotti sono giunti in una delle contrade di campagna di Barletta, dove nel pomeriggio del 31 gennaio hanno trovato gli occhiali di Michele Cilli. Nella stessa contrada, Borraccino tornerà la mattina del 16 gennaio, quando Cilli era già sparito.
L’auto condotta dal Sarcina la notte dell’omicidio è stata sequestrata. La Polizia Scientifica ha rinvenuto al suo interno formazioni pilifere, presunte sostanze vegetali, biologiche e, soprattutto, sostanze ematiche sul clacson ed in altri punti dell’abitacolo.
Il giorno in cui sono scattate le indagini, Sarcina aveva ferite su entrambe le mani di cui sono state fornite giustificazioni considerate dal gip un falso alibi.
· Il Caso di Giorgio Medaglia.
Giorgio Medaglia, ucciso dai pregiudizi. La madre: «Lo hanno ubriacato e poi lasciato annegare nell’Adda». Andrea Galli, inviato a Lodi, su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2022.
Il 28 giugno 2020 scomparve dopo essere uscito di casa. Il 3 luglio venne ritrovato senza vita nel fiume. Soffriva di un distrurbo neo-cognitivo ed era astemio eppure l’autopsia dirà che quella sera aveva bevuto molto alcol. Addosso aveva pantaloni non suoi: «Qualcuno l’ha attirato in trappola»
«Un mistero non ancora chiarito»
Gliel’hanno ucciso, non l’hanno soccorso, sono rimasti zitti e ancora tacciono: un omicidio da branco; un omicidio non diretta azione delittuosa come spari, coltellate, pestaggi, ma forse conseguenza di bullismi degenerati. Oppure no. Lui ha compiuto un azzardo, ad esempio camminando lungo il fiume ed è caduto (dunque una disgrazia), a meno che non si sia tuffato (pertanto un suicidio). La prima versione è sostenuta dalla mamma Ombretta Meriggi che insiste nell’evocare una parola, «pregiudizio»; la seconda versione è convinzione degli inquirenti; il caso è la morte di Giorgio Medaglia, il 34enne scomparso il 28 giugno 2020 dalla casa, condivisa con la stessa madre in via Aldo Moro a Lodi, e rinvenuto il successivo 3 luglio nell’Adda, a Cavenago, sempre nel Lodigiano, trascinato dalle acque dopo esservi entrato quell’afosissima sera. Se non può mai esserci pace in un genitore che perde il figlio, e se qualcuno crede che le richieste di Ombretta — non chiudere il fascicolo bensì rifare l’inchiesta daccapo — siano un’azione scontata, fisiologica, ecco, qui il contesto è differente. Il motivo lo andiamo a raccontare, partendo dalle indagini difensive dell’avvocato Lorenza Cauzzi e aggiungendo ulteriori elementi.
Pronto per le vacanze
Ogni condotta esistenziale uniforme e costante può presentare eccezioni. Giorgio non beveva alcol; piuttosto, beveva acqua, mai fredda, e al massimo dei succhi di frutta alla pera. Evitava di brindare con lo spumante a Capodanno, rinunciando pure a una punta sulle labbra. Nell’autopsia il medico legale, escludendo violenze sul corpo, aveva riscontrato presenze massicce di alcolici. Fuori dal linguaggio tecnico, aveva detto che Giorgio era «talmente imbottito di alcol da non stare in piedi». Il 28 giugno, alle 21.30, Giorgio aveva comunicato alla mamma che sarebbe uscito in scooter, un Piaggio Liberty, per rinfrescarsi. Nel corso della settimana aveva comprato nuove valigie: in programma c’era una vacanza alle Cinque Terre, nell’alloggio di una collega di Ombretta, infermiera, che glielo prestava; l’entusiasta Giorgio stava contando le ore mancanti alla partenza. Di ritorno dalle ferie, si sarebbe iscritto all’autoscuola per la patente, sua forte ambizione. Insomma, progetti nel breve e nel medio termine. Ciò premesso, una domanda: qualora non volessimo tenere come base questi temi, Giorgio era gravato da profondi tormenti che possano «spiegare» il suo suicidio? I conoscenti avevano escluso l’ipotesi con fermezza, anche ai carabinieri, anche a distanza di mesi.
Lo scooter ritrovato
Lo scooter Liberty, poggiato sul cavalletto, venne rinvenuto a quattro chilometri da casa, in viale Aosta angolo via Adda, dove una strada d’asfalto conduce al fiume, insieme allo zainetto di Giorgio che conteneva chiavi di casa, portafoglio e secondo cellulare senza Sim (il primo telefonino l’aveva lasciato o dimenticato in cucina). Il percorso è costituito da 150 metri di prati e boschi, privi di lampioni. Secondo lo scenario del suicidio, Giorgio avrebbe coperto a piedi la distanza fino all’Adda, ubriaco, quasi a tentoni per l’assenza di luce, e si sarebbe gettato nel fiume. Indossando però pantaloni altrui. Aveva lasciato l’abitazione con dei jeans bermuda mentre nella fase della scoperta del corpo a Cavenago portava dei pantaloni rossi da ginnastica, stretti, non della sua taglia (un metro e 85 per 90 chili). Escluso che abbia comprato dei vestiti nuovi il 28 giugno — essendo appunto sera, i negozi erano chiusi —, s’ignora il proprietario originario di quell’indumento. Forse, dopo aver bevuto, Giorgio potrebbe aver vomitato ed essersi sporcato: chi stava con lui, avrebbe recuperato abiti di riserva. Ma chi stava con lui? E la Sim mancante da quel telefonino: Giorgio l’ha prestata oppure gli è stata sottratta?
L’amico e le diverse versioni
Un amico, A.F., ha mentito oppure non ha ricordato, sostenendo con gli inquirenti di non aver telefonato a Giorgio. Falso: lo aveva fatto alle 20.41 di quella sera e, in precedenza, due volte al mattino. Rintracciato dal Corriere, A.F., nel frattempo sparito da Lodi e andato a vivere altrove, ha negato il fatto, ribadendo di non aver mai cercato Giorgio. Nella zona dell’abbandono dello scooter, sorge un palazzo al cui interno un barman esercita in una specie di «locale» domestico. Ebbene, costui ha riferito ai carabinieri di avere visto, la sera del 28 giugno — la sera della scomparsa —, un adolescente parcheggiare il motorino di Giorgio e allontanarsi, salvo modificare la versione e confondersi nel resoconto ai carabinieri, forse per star fuori dalla storia. Intanto, bisogna(va) capire chi era quel ragazzino, perché conduceva il Liberty di Giorgio, da dove arrivava, verso quale meta era diretto; poi, bisogna(va) scoprire se lo stato di ubriachezza di Giorgio aveva un collegamento con il «locale» del barman. Siccome Giorgio aveva bevuto, bevuto fino a star male, deve averlo fatto da qualche parte. Forse aveva una destinazione prefissata, che potrebbe esser stata raggiunta attraverso un tragitto abbozzato da un commerciante. L’uomo guidava la sua macchina, aveva incrociato Giorgio sul motorino, l’aveva riconosciuto, e aveva memorizzato quel tragitto fin quando era rimasto accodato al Liberty: via Di Vittorio, via Europa e via della Marescalca. Ovvero in una zona dalla parte opposta rispetto all’Adda. Dove andava Giorgio? E in relazione ai suoi movimenti, che cosa svelano i filmati delle telecamere, sempre se sono stati acquisiti e valutati?
Un uomo felice
Giorgio aveva un disturbo neuro-evolutivo della coordinazione motoria. Frequentava un Centro psicosociale che l’aveva visto essere prima un paziente quindi un tutor. I dipendenti della struttura hanno descritto un uomo felice, in pace, sereno. Dice Ombretta, in questo appartamento fra fotografie, ritratti di Giorgio impressi sui cuscini del letto e i Vhs dei film anni ’80, grande passione del figlio: «Era buono, generoso, disponibile. Non incline a reagire neanche quando lo offendevano. L’hanno tirato in mezzo, costretto a bere, fatto ubriacare, per deriderlo. L’hanno accompagnato in riva all’Adda e spinto a fare cose strane… delle stupide sfide… Non sopportava l’acqua, ne aveva assoluto terrore, non sapeva nuotare e non aveva mai voluto imparare. Forse l’hanno scaraventato nel fiume per vederlo affannarsi e disperarsi». Lo scorso 13 gennaio Ombretta ha depositato un’opposizione all’archiviazione (indaga la procura di Lodi). Dopo oltre un mese, nessuna risposta. «Spesso penso a un pregiudizio: quello di dire che siccome Giorgio stava in un Centro psico-sociale, beh, allora avrà per forza fatto tutto da solo, impazzendo all’improvviso».
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· Il Caso di Isabella Noventa.
Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti” il 3 marzo 2022.
L'agenzia delle Entrate ha presentato alla famiglia di Isabella Noventa, l'impiegata di 55 anni uccisa nel 2016 dall'ex fidanzato con la complicità della sorella e dell'amante, il conto delle tasse della defunta.
Nelle carte dell'inchiesta si parla di «corpo soppresso», un tecnicismo giuridico per indicare che è stato nascosto o disperso chissà dove, dicitura però non riconosciuta dall'agenzia delle Entrate. Isabella non può essere considerata morta finché non sarà messa a disposizione dell'Agenzia delle Entrate una dichiarazione di "morte presunta".
Ora la famiglia dovrà far pubblicare, per 5 mila euro, un estratto della domanda di morte presunta per due volte consecutive su altrettanti quotidiani — uno regionale e un altro nazionale — dando il termine di sei mesi a quanti potranno fornire notizie (fondate) su Isabella. Trascorsa quella finestra temporale senza aver avuto alcuna informazione certa, potrà essere dichiarata dal tribunale la morte presunta.
I giudici: «Isabella Noventa è stata uccisa». Ma per il Fisco non è morta. Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 2 Marzo 2022.
Padova, il delitto nel 2016. L’Agenza delle Entrate: per la successione serve la dichiarazione di morte presunta. La Cassazione aveva confermato le condanne dell’ex, della sorella e di una complice.
E d’accordo che il corpo non è stato mai trovato. Ma ci sono tre sentenze per omicidio premeditato che lo dicono chiaramente: Isabella Noventa è stata uccisa e, dunque, per la legge, è defunta. Pare non lo sia però per l’Agenzia delle Entrate che, di fronte alla richiesta dei familiari di aprire la successione ereditaria, ha acceso il semaforo rosso: «Non è possibile procedere, serve una dichiarazione di morte presunta». Una bella grana: la dichiarazione può infatti essere certificata solo dal tribunale. E per averla i parenti devono prima pubblicare un estratto su due quotidiani, aspettare sei mesi e, se nel frattempo nessuno avrà eccepito nulla, potranno andare avanti. Il tutto, naturalmente, a spese di chi fa la domanda, che in questo caso è il fratello di Isabella, Paolo: «Dolore che si aggiunge al dolore». D’altra parte, o fa così o non può subentrare alla sorella in tutti i rapporti giuridici che aveva in piedi prima del delitto.
Il paradosso
Insomma, la burocrazia ci ha messo la zampino anche in una tragedia ampiamente risolta dalla giustizia. Con l’effetto paradossale che per il Fisco italiano, la vittima del delitto risulta ancora in vita.
Il fatto di sangue risale alla notte fra il 15 e il 16 gennaio del 2016. Da allora di Isabella Noventa, impiegata padovana di 55 anni, si sono perse le tracce. Per i giudici non ci sono dubbi: è stata uccisa dall’ex fidanzato Freddy Sorgato, con la complicità della sorella di lui, Debora, e di un’amica veneziana, Manuela Cacco.
Il movente? I magistrati ipotizzano il tentativo di recuperare una storia che lei voleva chiudere. Quella sera Isabella era uscita a cena con Freddy. Secondo la Squadra Mobile di Padova e secondo i giudici si sarebbe trattato di una trappola, tesa dal diabolico terzetto. Che, dopo averla uccisa, avrebbe occultato il corpo.
Le condanne
Per un mese i parenti di Isabella e pure Freddy avevano fatto ripetuti appelli, coinvolgendo anche la trasmissione televisiva Chi l’ha visto. Tutto inutile, naturalmente. Ma i familiari non avevano mai creduto ad un allontanamento volontario. Venne a galla infatti la tragica verità del «delitto premeditato con soppressione di cadavere». Una verità scritta nelle tre sentenze di primo, secondo e terzo grado.
Il 18 novembre 2020 la Cassazione ha messo la parola fine alla vicenda giudiziaria, confermando le condanne a 30 anni per i fratelli Sorgato e a 16 anni e 10 mesi per la complice.
E così, mentre i tre sono in carcere a scontare le loro pene per il delitto di Isabella, negli uffici dell’Agenzia delle Entrate va in scena il grottesco siparietto della sua morte che non risulta certificata. Come se la magistratura e il Fisco parlassero due lingue diverse.
Delitto Isabella Noventa, l'Agenzia delle Entrate chiede le tasse alla famiglia perché il corpo non è stato trovato. Enrico Ferro su La Repubblica il 2 marzo 2022.
Lo sfogo del fratello della donna uccisa nel 2016 dal fidanzato e due complici. I tre sono stati condannati, ma per il fisco manca la dichiarazione di "morte presunta". Vittima di un omicidio premeditato per la legge, contribuente ancora in vita per l’Agenzia delle Entrate. Fino a prova contraria, s’intende. E tra le prove contrarie non sono evidentemente incluse le tre sentenze per omicidio che raccontano il delitto di Isabella Noventa, l’impiegata di 55 anni uccisa nel 2016 dall’ex fidanzato con la complicità della sorella e dell’amante. “Dolore che si aggiunge ad altro dolore”, commenta il fratello, Paolo Noventa, che si trova al centro di questo corto circuito burocratico nato dal fatto che il corpo di Isabella non fu mai trovato. Nelle carte dell’inchiesta, come ricostruisce il Mattino di Padova, si parla di “corpo soppresso”, un tecnicismo giuridico per indicare che è stato nascosto o disperso chissà dove. Per l’Agenzia delle Entrate, però, finché non ci sarà una “dichiarazione di morte presunta”, è come se Isabella fosse ancora viva. Questo blocca tutto l’iter della successione ereditaria.
La notte dell'omicidio
Era la notte tra il 15 e il 16 gennaio 2016, quando fu consumato il feroce omicidio di Isabella Noventa. La cinquantacinquenne impiegata era stata in pizzeria con il fidanzato Freddy Sorgato, come tentativo di ricomporre una storia che lei voleva chiudere. Dopo quella notte sparì nel nulla e per un mese familiari e addirittura lui, l’ormai ex fidanzato, rinnovavano in tv appelli a Chi l’ha visto nella speranza di ritrovarla. Fu la Squadra mobile di Padova a scoprire le malefatte del terzetto diabolico composto da Freddy Sorgato, dalla sorella Debora Sorgato e dall’ex amante di lui Manuela Cacco. Gli investigatori hanno ricostruito quell’ultima notte, con la trappola tesa alla cinquantacinquenne e la successiva soppressione del cadavere. Isabella è stata uccisa da Freddy e Debora Sorgato con la complicità dell’amica veneziana di lui: lo hanno ribadito tre sentenze, l’ultima quella della Cassazione che, il 18 novembre 2020, ha confermato le condanne a 30 anni per i fratelli e a 16 anni e 10 mesi per la coimputata. Ma, nonostante un’indagine capace di ricostruire con meticolosità ogni momento e ogni dinamica mentale del trio, non furono mai trovati i tre elementi chiave di ogni omicidio: il cadavere, il movente, l’arma del delitto.
La carta mancante
Insomma, la verità del Fisco è un’altra. E Isabella non può essere considerata morta finché non sarà messa a disposizione dell’Agenzia delle Entrate una dichiarazione di “morte presunta”. La famiglia dovrà far pubblicare, a proprie spese, un estratto della domanda di morte presunta per due volte consecutive su altrettanti quotidiani – uno regionale e un altro nazionale – dando il termine di sei mesi a quanti potranno fornire notizie (fondate) su Isabella. Trascorsa quella finestra temporale senza aver avuto alcuna informazione certa, potrà essere dichiarata dal tribunale la morte presunta. “Dovrò spendere almeno 5 mila euro per le pubblicazioni”, rivela il fratello. “Mi auguro sia l’ultimo imprevisto. Di sicuro nessuno mi restituirà più mia sorella”.
· Il caso di Sergio Spada e Salvatore Cairo.
IL CASO. Brindisi, imprenditori uccisi, uno mai ritrovato: fermati due fratelli dopo vent'anni. Cosimo ed Enrico Morleo, accusati di aver assassinato, con l'aggravante del metodo mafioso, Sergio Spada e Salvatore Cairo. La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Marzo 2022.
Due fratelli sono stati fermati dalla Polizia con l’accusa di aver ucciso due imprenditori del settore casalinghi nel 2000 e 2001: si tratta di Cosimo ed Enrico Morleo, di Brindisi, accusati di aver assassinato, con l'aggravante del metodo mafioso, Sergio Spada e Salvatore Cairo, quest’ultimo scomparso e mai ritrovato. Secondo le indagini, Cairo fu assassinato perché ritenuto responsabile di un ammanco di diversi milioni di lire commesso ai danni di una società di articoli per la casa di cui era socio con Cosimo Morleo e avrebbe costituito poi una propria società nonostante il divieto impostogli. Sarebbe stato ucciso e fatto a pezzi.
Spada, invece, sarebbe stato assassinato perché ritenuto responsabile di essersi inserito, sempre nello stesso settore, nel rapporto di esclusiva della sua società e di aver effettuato operazioni commerciali e di compravendita in danno della stessa. Le indagini, della Squadra mobile di Brindisi, sono state coordinate dalla Dda di Lecce. Dei due delitti ha parlato negli ultimi tempi un collaboratore di giustizia a cui vi è stato, sostengono gli inquirenti, adeguato riscontro con intercettazioni e altre dichiarazioni. Secondo l’accusa Cosimo Morleo sarebbe stato il mandante del delitto ed Enrico l'esecutore materiale.
· Il caso del serial killer di Mantova.
Enrico Zenatti, in carcere da tre mesi: l’«uomo perbene» sospettato di essere il serial killer di Mantova. di Andrea Galli inviato a Roverbella (Mantova) su Il Corriere della Sera il 10 Marzo 2022.
Per gli inquirenti è stato lui ad aver assassinato la suocera il 9 dicembre 2021. Nel suo passato altri tre anni dietro le sbarre accusato (poi prosciolto) di aver ucciso due prostitute. Dalla cella ostenta tranquillità, così come la moglie che non lo difende ma nemmeno ne prende le distanze
«Sospetti su un insospettabile»
«Io non parlo. Esca subito». Tre donne assassinate: le prostitute Jolanda Holgun Garcia (nel 2003) e Luciana Lino De Jesus (2004), e l’anziana Anna Turina (lo scorso 9 dicembre). Poi una quarta donna, Mara Savoia, che dopo aver aperto in anticipo di dodici minuti rispetto all’orario, e dopo aver sistemato mascherina e grembiule, ci allontana decisa dall’ampio negozio di frutta davanti alla chiesa di Malavicina, frazione di Roverbella; è la moglie di quell’Enrico Zenatti condannato e assolto per le uccisioni di Jolanda e Luciana, e da tre mesi in carcere con l’accusa di aver ammazzato la signora Anna, 73 anni, sua suocera in quanto madre della stessa Mara che ha appunto scelto il silenzio a oltranza. Nessun commento, nessuna presa di distanza, nessuna difesa, nessun attacco. Quantomeno resi pubblici. «Esca subito». Eppure, quel 9 dicembre, tardo pomeriggio, mentre la mamma si spegneva nella sua villa dissanguata a causa di un’ampia ferita alla gola, da lato a lato — un taglio netto, preciso, profondo, da una mano esperta —, nella casa divenuta scena del crimine c’era anche lei. Mara Savoia era lì. Pur estranea secondo l’accusa, che ha codificato un unico assoluto responsabile, cioè Zenatti, il quale dal carcere, dove impassibile e sereno trascorre giorni e notti, ha giurato e rigiurato la propria innocenza, Mara, erede di una ricca famiglia di proprietari terrieri, in vista, rispettata dai notabili del paese e della provincia mantovana, dunque tace. Nasconde forse qualcosa?
Latitanza e falsi alibi
All’epoca delle indagini sulle prostitute, quando la polizia ritenne Zenatti il killer da ricercare e lui scappò dandosi alla latitanza, Mara gli protesse la fuga fornendo alibi falsi. Gli agenti restano convinti che la verità storica sia difforme dalla verità processuale, ma noi su quest’ultima dobbiamo basarci sicché s’ignorano l’omicida della 39enne colombiana Jolanda (cadavere mai rinvenuto, s’ipotizzò sepolto sottoterra nelle campagne mantovane) e della 30enne brasiliana Luciana (strangolata nel bilocale che usava per vendersi), avendo Zenatti trascorso tre anni di galera fino al 2008, l’anno dell’assoluzione e della liberazione, campane a festa su ordine del sacerdote che non s’era perso un’udienza e invitava i parrocchiani a pregare per il buon Enrico vittima della malagiustizia. La medesima verità processale dirà se quella letale ferita l’abbia provocata quest’uomo del quale anche s’ignorano eventuali traumi e problemi da bambino poiché nella nostra infanzia tutto nasce; uomo presto divenuto un frequentatore ossessivo di donne in vendita, specie se sudamericane — andarci appena poteva, andarci senza badare a spese, andarci e andarci —, e accolto in casa dalla moglie all’uscita di prigione, mantenuto (nel negozio, Mara è la padrona e Zenatti era il dipendente facchino) senza mai ascoltare i ripetuti consigli della signora Anna a cacciarlo una buona volta. Per proseguire, dobbiamo però tornare al 9 dicembre e alla villa. Il Corriere è in grado di ricostruire quanto davvero successo.
La famiglia sulla scena del crimine
Le 17. Anna Turina si sente male. Forse un principio d’infarto, forse un ictus. Riesce a chiamare al telefono la figlia, che vive accanto. La figlia a sua volta avvisa il fratello, ugualmente non distante. Loro due, insieme a Zenatti, accorrono. Figlia e figlio girano per l’estesa abitazione su due piani alla ricerca di medicinali, asciugamani, coperte; forse invece sono colti dal panico e si muovono senza una ragione; chiedono comunque i soccorsi; Zenatti rimane invece in cucina, afferra un corpo contundente che farà sparire e colpisce l’anziana, la quale cadendo — o venendo spinta — infrange una parte a vetri dell’arredo. Tagli sul corpo. E un taglio alla gola. Forse Zenatti è convinto di depistare i carabinieri, che attribuiranno quelle lesioni al vetro. Il medico legale si costruisce uno scenario opposto, insistendo su un particolare: quel taglio è stato posteriore alla chiamata alla figlia, perché in quelle condizioni Anna Turina non poteva parlare. I carabinieri percorrono lo scenario e, al termine degli interrogatori incrociati in caserma — Mara, suo fratello, Zenatti —, giudicano congrua la ricostruzione, appoggiata dalla procura e in una seconda fase suffragata dai rilievi del Ris, che conduce a un unico colpevole: Enrico Zenatti. Qualità d’ogni investigatore dev’essere l’assenza di pregiudizio. Mente libera. Pertanto, in questa fase, il passato non conta e non può influire. Ma da parte nostra, il passato di Zenatti va raccontato.
Sesso a pagamento
Luciana Lino De Jesus fu uccisa tra le 14 e le 15. Quel giorno Zenatti l’aveva chiamata al telefono più e più volte; un’azione compulsiva che aveva interrotto d’improvviso, proprio in coincidenza della fascia temporale della morte. Le celle telefoniche cristallizzarono la presenza di Zenatti a cinquecento metri dal bilocale della prostituta, a Verona. Infine braccato dai poliziotti, Zenatti teneva in macchina, nascosti sotto la ruota di scorta, i ritagli di giornale relativi alle indagini. Zenatti pagava anche Jolanda, sempre di base a Verona. E pagava, fra le altre, una terza prostituta, che si ricordò di lui e raccontò agli agenti delle sue perversioni. S’ignora se dal 2008 a dicembre 2021, Zenatti abbia di nuovo vagabondato alla ricerca di prostitute; s’ignora se, nello stesso periodo, Zenatti sia collegato alla scomparsa di nuove donne. Almeno tre i casi di donne sparite tra Mantovano e Veneto meriterebbero intensi approfondimenti. Non che sia una seconda segreta esistenza, quella di Zenatti: sua mamma, nel rispondere ai giornalisti, disse all’epoca che andare a prostitute non costituisce reato. Punto, fine. Lo pensa anche la moglie Mara? Fatti loro, questioni di coppia. Dinanzi a nostra insistita domanda, gli inquirenti escludono qualsiasi coinvolgimento sia di Mara sia di suo fratello, persone rispettabili, perbene, in pace. Una telecamera di videosorveglianza privata ha ripreso i tre uscire ed entrare nel pomeriggio del 9 dicembre dalla villa di Anna Turina. Nessun altro, né prima né dopo. Non un disperato, un rapinatore, un tossico, magari straniero, come in paese avrebbero preferito. Di Zenatti, ammesso che sia stato il killer dell’anziana, si ripete che è un brav’uomo, che fa perfino volontariato, un religiosissimo compaesano del quale andare orgogliosi. E in fondo — anche questo ascoltiamo per le serene strade di Malavicina —, alla fin fine, volendo essere sinceri, beh, insomma, quelle due, erano delle «tr…».
· Il mistero di Andreea Rabciuc.
Andreea Rabciuc, il fidanzato indagato: “Non ho nulla da nascondere”. Debora Faravelli il 23/06/2022 su Notizie.it.
Il fidanzato di Andreea Rabciuc continua a dirsi tranquillo per le indagini della scomparsa della giovane e ammette di non avere niente da nascondere.
Continuano le ricerche di Andreea Rabciuc, la ragazza di 27 anni scomparsa da Jesi lo scorso 12 marzo : il fidanzato Simone Gresti, indagato per sequestro di persona dalla procura di Ancona, ha affermato di non avere nulla da nascondere.
Intervenuto durante la puntata di Chi l’ha visto di mercoledì 22 giugno, il giovane ha reso noto di non essere ancora stato ascoltato dal magistrato ma di essere a disposizione per tutti i chiarimenti necessari. “Sono tranquillo, non ho nulla da nascondere“, ha ribadito. Il suo legale Emanuele Giuliani ha spiegato che sono state fatte tante attività di indagine e che, al momento opportuno, valuterà come è meglio agire (lasciando intendere che Simone potrebbe avvalersi della facoltà di non rispondere).
“Fino ad oggi le notizie uscite, comprese le tracce di sangue, ci hanno lasciato tranquilli“, ha sottolineato.
Il riferimento è alle tracce ematiche rinvenute a bordo dell’auto di Simone, che si è così giustificato: “Siamo una coppia, quell’auto la usavamo praticamente per tutto ed è normale che possano esserci delle tracce di questo tipo“.
L’ipotesi dell’auto nera
Intanto proseguono le indagini per capire cosa sia successo alla giovane scomparsa dopo una serata trascorsa in compagnia del fidanzato e di una coppia di amici.
Secondo alcune testimonianze potrebbe essere salita a bordo di un’auto nera, ma di quella vettura non ci sarebbe traccia. L’ipotesi degli inquirenti è dunque che qualcuno possa averla portata via, ma nessuna telecamera ha inquadrato Andreea allontanarsi la mattina seguente alla festa.
Valentina Reggiani e Gianpaolo Annese per “il Giorno” il 5 aprile 2022.
Choc nel Modenese. Un sacco di plastica, contenente un cranio e piccoli frammenti di ossa umani, è stato trovato da un raccoglitore di asparagi selvatici, lungo il fiume Tiepido, lo scorso sabato. Poco distante una residente, qualche ora dopo, ha individuato quello che pare essere un osso lungo circa 12 centimetri, forse un segmento di spina dorsale.
«Si vede che è stato segato di netto», ha dichiarato sconvolta. Il Dna dei resti sarà comparato con quello di alcune persone scomparse. Prima tra tutte Saman Abbas, la 18enne pachistana sparita il 30 aprile 2021 da Novellara, nel Reggiano, secondo la procura uccisa dai familiari dopo aver rifiutato un matrimonio combinato.
Di recente è stata chiusa l'inchiesta a carico di cinque persone per omicidio e soppressione di cadavere. Stando ai primissimi rilievi, la dentatura apparterrebbe a una persona giovane. Poco distante dal sacco i militari hanno rinvenuto anche frammenti di abiti: un maglione e una sciarpa.
Il cranio, i frammenti ossei così come ciò che resta degli indumenti sono stati adagiati su un telo, repertati e trasportati in medicina legale. Gli accertamenti saranno condotti dai carabinieri del Ris di Parma ma risulterà fondamentale, ovviamente, la comparazione del Dna per escludere che i resti appartengano, appunto, a Saman. La giovane sarebbe stata uccisa a diversi chilometri di distanza rispetto al luogo in cui il terreno ha restituito le ossa, inoltre il delitto sarebbe avvenuto in pieno lockdown.
Difficile dunque per i presunti assassini spostarsi senza essere sorpresi dalle forze dell'ordine. I reperti parrebbero inoltre più 'datati', ma è ancora presto per formulare qualsiasi ipotesi. Nonostante si propenda per una vittima di sesso femminile, impossibile non pensare anche ad Alessandro Venturelli, il 22enne sparito da Sassuolo il 5 dicembre 2020. Tra le denunce di scomparsa nel Modenese c'è quella della 79enne Silvana Covili, sparita da Pavullo lo scorso novembre.
Sul macabro ritrovamento gli inquirenti mantengono il più stretto riserbo: nulla è trapelato fino ad ora in merito ma è scontata l'apertura di un fascicolo, in procura, con l'ipotesi di omicidio volontario. Sul posto, sabato, sono intervenuti i carabinieri di Maranello, il Nucleo investigativo di Modena e appunto i Ris di Parma che hanno 'isolato' la zona. Da quanto erano lì quei resti? A chi appartengono? Il timore è che quel sacchetto riconduca all'ennesimo, terrificante femminicidio.
Marina Lucchin per “il Messaggero” l'8 aprile 2022.
Una ragazza giovane, dalla carnagione chiarissima, alta un metro e sessanta e dal fisico abbastanza minuto da essere infilata in posizione fetale in un borsone da calcio. Oltre a questo di lei sappiamo che le piacevano i colori sgargianti, come viola e blu con le paillettes o forse tessuti tipo laminati o comunque luccicanti. E che aveva con sé anche un capo di vestiario comodo, tipo una felpa, sui toni del rosa.
È questo l'identikit ancor più preciso della donna orrendamente mutilata, assassinata e gettata nel Po, rinvenuta lunedì mattina da un tecnico dell'Aipo che controllava le sponde col suo barchino. E in base a queste nuove indicazioni, emergono anche nuove piste che potrebbero portare finalmente alla soluzione del giallo di Occhiobello, in Polesine, dove i miseri resti di questa sconosciuta vittima di un efferato omicidio sono stati ritrovati.
L'IDENTIKIT Età, conformazione fisica, data della scomparsa, ma anche la predilezione per i colori sgargianti, fanno venire in mente un volto in particolare, quello di una ragazza di 27 anni scomparsa l'11 marzo scorso dopo aver partecipato a una festa in un casolare in provincia di Ancona, a Maiolati Spontini. Il suo nome è Andreea Alice Rabciuc. Tanto che ieri i carabinieri di Ancona si sono scambiati informazioni con quelli di Rovigo.
Ma ci sono altri dettagli: il fatto che il cadavere trovato fosse in un buono stato di conservazione e che fosse in acqua da meno di un mese, elemento che ha portato ad escludere, invece, l'ipotesi che potesse trattarsi di Isabella Noventa o Samira El Attar, è uno di questi. Ma anche le mutilazioni: il corpo è senza mani e senza testa. Andreea aveva tatuaggi proprio sulle mani e i capelli blu, elementi che l'avrebbero resa immediatamente riconoscibile.
Occorrerà comunque attendere i riscontri. Andreea Rabciuc, 27enne di origini rumene, è sparita, come si è detto, l'11 marzo dopo aver preso parte a una festa in un casolare sulla Montecarottese, tra appennino e mare Adriatico.
I LATI DA CHIARIRE Ci sono tuttavia dei punti oscuri. E gli inquirenti hanno dei dubbi: «Non aveva tatuaggi». E poi cosa è successo prima della festa e per quale motivo stava litigando con il fidanzato? Perché lui le avrebbe trattenuto il cellulare riportandolo solo la domenica successiva, ritardando di fatto l'allarme della scomparsa? Nel caso si trattasse davvero di Andreea, però, bisogna capire come il suo corpo sia potuto finire sulle sponde del Po.
Un'ipotesi è che possa essere stato gettato dal ponte autostradale che collega l'Emilia Romagna con il Veneto, a circa un 200 chilometri dalla zona della scomparsa, che si raggiunge in un paio d'ore di macchina. Altra ipotesi, più remota, è che sia stata gettata in un corso d'acqua che fa parte del bacino del Po. Intanto si attendono nuovi dettagli sul ritrovamento. Qualche cicatrice, qualche neo, qualche piercing o tatuaggio. Qualsiasi cosa possa aiutare a risolvere il mistero che ha tinto di giallo le acque del Po.
Andreea Rabciuc scomparsa, la lite alla festa e il giallo del cellulare preso dal fidanzato. Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.
Il corpo trovato nel Po a Rovigo non può essere il suo: non ha i tatuaggi sulle braccia.
«Andreea, amore mio, sono passati troppi giorni, dove sei? Qualsiasi cosa sia accaduta possiamo risolverla. Mi manchi, non vedo l’ora di riabbracciarti». L’appello sui social di mamma Georgeta risale allo scorso 31 marzo e sua figlia Andreea Rabciuc, una ragazza di 27 anni di origine romena, era già sparita da più di due settimane. Esattamente dalle 7 della mattina del 12 marzo.
La giovane, residente a Jesi, nell’Anconetano, la sera precedente aveva partecipato a una festicciola con una decina di amici in un casolare tra le colline di Montecarotto. Qui tutti l’avevano vista litigare a lungo con il fidanzato che l’aveva accompagnata. All’ennesimo riesplodere del bisticcio, solo verbale, Andreea, cameriera in un pub a Jesi, un passato in Romania nel tiro a segno dove si era distinta con buoni risultati, si sarebbe allontanata a piedi, sotto gli occhi dei presenti, incamminandosi lungo la strada che porta verso la vicina Moie. Poi nessuno l’ha più vista. Già altre volte, «almeno sei o sette», la ragazza era sparita, tornando sempre a casa dalla madre. Al prolungarsi insolito dell’assenza, Georgeta è andata dai carabinieri del comando provinciale di Ancona guidato da Carlo Lecca per denunciare la scomparsa.
Sono cominciate così le ricerche, anche con i cani molecolari. Il casolare è stato setacciato palmo a palmo, senza esito. Così come a nulla hanno portato i controlli, condotti anche ieri dai Vigili del fuoco e dalle squadre della Protezione civile, nei boschi e nelle campagne circostanti. Andreea, piercing sulle labbra e frangetta blu, aveva dei tatuaggi su braccia e dita, circostanza per la quale è stato escluso che il cadavere — privo di alcun tipo di segno particolare sulla pelle — con la testa mozzata trovato lunedì sulla sponda sinistra del Po, nel Rodigino, fosse quello della cameriera di Jesi. Stando alle testimonianze, la sera dell’11 marzo Andreea,— che di recente avrebbe fatto uso di droghe leggere, circostanza non di rilievo nell’inchiesta — sarebbe stata piuttosto in disparte durante la festa, preferendo scambiare messaggi con un suo ex, Daniele. Un comportamento che avrebbe indispettito il suo fidanzato, innescando i battibecchi.
«Litigavano continuamente, ma lei stava in silenzio. A un certo punto non vedevo l’ora che se ne andassero. Verso le 7 ho visto la ragazza che si allontanava verso la strada. Il fidanzato però si era tenuto il cellulare di Andreea» è la testimonianza di Federico, il proprietario del casolare, alla trasmissione «Chi l’ha visto?». Ma perché il suo compagno avrebbe dovuto trattenere il telefonino? La risposta, data anche agli investigatori, è che sarebbe stata la stessa Andreea a infilarglielo in tasca in un momento di rabbia, senza più riprenderselo. Fatto sta che il proprietario del casolare nei giorni successivi avrebbe incontrato il fidanzato di Andreea, vedendolo ancora in possesso del cellulare della giovane. Nel fascicolo aperto in Procura non ci sono indagati, nessuna ipotesi è esclusa. E resta il mistero.
Nel fascicolo aperto in Procura non ci sono indagati, nessuna ipotesi è esclusa. E resta il mistero.
Jesi, per la scomparsa di Andreea Rabciuc è indagato il fidanzato. Agostino Gramigna su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2022.
Ieri mattina era stato portato in caserma dai carabinieri di Jesi. Per notificargli il decreto di sequestro della sua auto, del cellulare, di un tablet e di alcuni vestiti. Poi in serata, Simone Gresti, 43 anni, è stato iscritto nel registro degli indagati dal pm di Ancona, Irene Bilotta. Gresti che (per ora) deve rispondere di sequestro di persona, è il fidanzato di , 27enne romena, scomparsa dalle prime luci dell’alba del 12 marzo scorso. Oltre al fidanzato, in caserma c’erano anche Francesco, il proprietario del casolare dove la coppia aveva trascorso la serata, e una terza persona.
Le indagini
Si tratta di una prima importante svolta nel giallo della sparizione della campionessa di tiro con l’arco, anche se gli inquirenti fanno sapere che l’iscrizione nel registro è «un atto dovuto a garanzia dell’indagato». I militari hanno sequestrato i vestiti che Simone indossava la sera in cui ha visto per l’ultima volta Andreea, la sua auto e il cellulare. Così come la roulotte fatiscente, adiacente alla mura del casolare, dove si tenevano i festini tra pochi amici, e il casolare in via Monte Carottese da cui la giovane era fuggita il 12 marzo dopo un litigio con Simone. Erano passate da poco le sei e trenta del mattino. Andreea indossava una pantalone e una felpa con disegnato Tom e Jerry, ai piedi scarponcini neri, in spalla uno zainetto verde fluorescente e in testa un cappellino rosa con le orecchie di gatto. Prima di varcare la soglia di casa Simone le avrebbe tolto dalle mani il suo cellulare. Secondo l’amico, si sarebbe arrabbiato perché durante la serata lei avrebbe chattato con il suo ex fidanzato, Daniele. È a lui che aveva mandato l’ultimo messaggio vocale. «Stasera resto qui ma da domani sono libera, aiutami a scomparire». Simone ha tenuto il telefono per un giorno e mezzo prima di consegnarlo alla madre di Andreea. Qualche giorno prima del 12 marzo, il quattro, Simone aveva postato su facebook uno scritto di insulti pesantissimi rivolti alla fidanzata.
Le telecamere
La mattina del 12, Simone avrebbe in teoria potuto incontrare Andreea lungo la strada che dal casolare porta a Jesi. Un percorso che si snoda per una decina di chilometri nel nulla, tra terreni agricoli in parte coltivati. Lui era uscito in auto circa 20 minuti dopo. Ma ha dichiarato di non averla vista. Non potranno essere di aiuto le videocamere dell’unica area di servizio su quel tratto di strada: quel giorno non funzionavano. Ad arricchire il giallo, nelle ultime ore uno dei profili social della ragazza avrebbe preso ad animarsi e il sospetto è che qualcuno possa essere entrato conoscendo le password.
Andreea Rabciuc: il fidanzato indagato e il giallo del video sui social dopo la scomparsa. Redazione Today.it il 14 aprile 2022.
Da oltre un mese nessuna traccia della giovane donna. Nemmeno una segnalazione. L'iscrizione nel registro degli indagati è un atto dovuto, l'uomo potrà partecipare agli accertamenti tecnici. Tutto quello che si sa fino a questo momento e gli ultimi appelli.
E'un giallo la scomparsa di Andreea Rabciuc, la 27enne romena campionessa di tiro a segno, residente a Jesi (Ancona), di cui si sono perse le tracce dal 12 marzo: ieri è stato iscritto nel registro degli indagati dal pm di Ancona Irene Bilotta il suo fidanzato, Simone Gresti, 43 anni: il reato ipotizzato è sequestro di persona. L'uomo in mattinata era stato convocato in caserma dai carabinieri di Jesi come persona informata sui fatti e per notificargli il decreto di sequestro dell'auto, del cellulare, di un tablet e di vestiti. L'iscrizione nel registro degli indagati è un atto dovuto a garanzia dell'indagato, che potrà partecipare agli accertamenti tecnici che la magistratura disporrà a breve. In rimis l'accertamento irripetibile sui dispositivi informatici.
Andreea Rabciuc scomparsa nel nulla
Gresti è stato l'ultimo, insieme ad altre due persone, a vedere Andreea la sera prima della scomparsa. In quattro si erano incontrati in un'area nel territorio di Montecarotto, dove si trovano un casolare e una roulotte. Durante la notte Gresti e la 27enne avevano litigato furiosamente finché lei si era allontanata a piedi prima delle 7 di mattina, senza il cellulare che aveva lasciato all'uomo. La decisione del pm è arrivata dopo l'interrogatorio. Intervistato a Chi l'ha Visto? Simone aveva confermato i continui litigi con Andreea: "In questi sette mesi non è stata certo la prima volta. E' capitato che ci siamo dati anche degli schiaffi ma mai oltre. Più di una volta mi lasciava il telefono e per questo ce l'avevo io. Volevo chiamare la mamma di Andreea per farla venire a prendere". Durante la trasmissione è intervenuto anche Daniele, l'ex della 27enne: "L'ultima volta che ci siamo sentiti erano le 10 del venerdì sera. La mattina le ho provato a scrivere ma non ho ricevuto risposta". L’ultimo messaggio di Andreea all’ex fidanzato alle 21:57 dell’11 marzo.
In caserma sono state convocate anche le altre due persone per essere ascoltate e sono stati posti i sigilli all'area intorno al casolare in via Montecarottese. Una zona già al centro di un sopralluogo con cani molecolari nei giorni scorsi e dove ieri sono stati a lungo al lavoro carabinieri e vigili del fuoco. Le indagini sono particolarmente complesse perché si sono persi molti giorni preziosi, quelli immeditamente successivi alla scomparsa e spesso decisivi. Le ricerche della ragazza sono partite con un certo ritardo, perché inizialmente si era pensato a un allontanamento volontario. Già in passato la 27enne se ne era andata di casa, facendo perdere le proprie tracce e non mettendosi in contatto con i familiari.
Tra gli elementi raccolti durante le indagini anche le chat via telefono prodotte nelle ultime ore con l'ex fidanzato, con cui era rimasta in rapporti di amicizia. Gli investigatori non escludono nessuna ipotesi, compresa quella di un malore che potrebbe avere colto la 27enne in mezzo alla vegetazione. Nei giorni scorsi gli inquirenti avevano escluso che il corpo ritrovato nel Po a Rovigo fosse quello di Andreea.
Nella zona nessuno sembra avere più visto Andreea. Nemmeno mezza segnalazione. La ragazza è alta 1,68 centimetri, capelli blu e fisico atletico. Al momento della scomparsa indossava anche un cappellino rosa con le orecchie di gatto, una felpa grigia con la stampa di "Tom&Jerry" e dei jeans chiari.
“Andreea ha molti tatuaggi, tra i quali uno grande su una coscia, quello di un cavallo” dice il fidanzato della giovane donna scomparsa a Chi l'ha visto?
Il giallo del video sui social
Ha pubblicato Andreea il seguente video dopo la sua scomparsa? Il fidanzato Simone mostra alla trasmissione di Federica Sciarelli un post datato 24 marzo. “C’è anche un like all’inizio di aprile”. Davvero la donna scomparsa sta utilizzando i social?
"Andreea dove sei? Fatti sentire, mi basta solo sapere che stai bene". E poi ancora: "Cerbiatta manchi a tutti e soprattutto a me e Dorron. Vorrei solo sapere come stai ,ti supplico fammi sapere". Così Daniele Albanesi, ex della giovane, continua a lanciare appelli ad Andreea Rabciuc attraverso il social network sperando che lei da un altro telefono o da un computer nel posto in cui si trova ora possa leggere. Daniele, con cui lei aveva un rapporto forte, tanto che gli ha affidato il suo cane Dorron, teme le sia accaduto "qualcosa di grave" ma la speranza di riabbracciarla o solo di sapere che è viva e sta bene è molto più forte. Sui social, a un mese dalla sua scomparsa da Jesi, continua a postare le loro foto insieme, quelle del cane Dorron e dei sorrisi che lei ha regalato a tutti. Daniele ricorda "il pranzo spensierato, le risate che ci siamo fatti con Thor che ce l’aveva con Dorron. Manchi Andry: fatti sentire".
Dal 12 marzo Andreea Rabciuc è svanita nel nulla: non si può escludere alcuna ipotesi.Anche quella di un malore che potrebbe avere colto la 27enne in mezzo alla vegetazione.
Il giallo della campionessa di tiro con l'arco. Andreea Rabciuc, svolta nell’inchiesta sulla scomparsa: indagato il fidanzato Simone. Fabio Calcagni su Il Riformista il 14 Aprile 2022.
C’è una svolta nelle indagini sulla scomparsa di Andreea Rabciuc, la 27enne di cui si sono perse le tracce dal 12 marzo scorso. Dalla serata di mercoledì il fidanzato dalla giovane di origini romene, Simone Gresti, risulta iscritto nel registro degli indagati dal pm di Ancona Irene Bilotta, col reato ipotizzato di sequestro di persona.
Gresti, 43 anni, era stato convocato ieri mattina in caserma dai carabinieri di Jesi come persona informata sui fatti e per notificargli il decreto di sequestro dell’auto, del cellulare, di un tablet e di vestiti. Iscrizione nel registro degli indagati che è un atto dovuto a garanzia dello stesso Gresti, che in questo modo potrà partecipare agli accertamenti tecnici che la magistratura disporrà a partire dalle prossime ore.
Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, la 27enne campionessa di tiro con l’arco è sparita nel nulla dopo una serata trascorsa a casa di amici nei pressi di Ancona, in un casolare di Montecarotto. Andreea Rabciuc era andata a questa festa invitata dal proprietario del casolare, arrivando assieme al fidanzato e un’altra coppia. Secondo quanto ricostruito da Il Corriere della Sera, i presenti avrebbero raccontato che la ragazza si è allontanata intorno alle sette del mattino a piedi sulla strada di campagna dopo aver passato la serata a litigare con Gresti.
A confermare le tensioni della coppia a “Chi l’ha visto?” l’amico proprietario del casolare. Il fidanzato di Andreea si sarebbe arrabbiato perché durante la serata la fidanzata avrebbe chattato con l’ex, Daniele. A lui aveva anche mandato un messaggio vocale: “Stasera resto qui ma da domani sono libera, aiutami a scomparire”. Il Corriere scrive anche che Gresti ha tenuto con sé lo smartphone della fidanzata per un giorno e mezzo prima di consegnarlo alla madre di Andreea, e che alcuni giorni prima della scomparsa aveva postato su facebook uno scritto di insulti pesantissimi rivolti alla fidanzata.
A denunciare la scomparsa della giovane è stata la madre di Andreea. Fisico atletico, allenato, capelli a caschetto tinti di viola e numerosi tatuaggi. A quanto pare la ragazza era solita allontanarsi da casa per qualche tempo per poi ritornare. La prolungata assenza in questo caso ha però fatto scattare l’allarme.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Talita Frezzi per “il Messaggero” il 14 aprile 2022.
Il fidanzato di Andreea Rabciuc, la 27enne di cui si sono perse le tracce dal 12 marzo scorso, è stato iscritto ieri sera nel registro degli indagati dal pm di Ancona Irene Bilotta. Per Simone Gresti, 43 anni, il reato ipotizzato è sequestro di persona. Ieri mattina era stato convocato in caserma dai carabinieri di Jesi come persona informata sui fatti e per notificargli il decreto di sequestro dell'auto, del cellulare, di un tablet e di vestiti.
L'iscrizione è un atto dovuto a garanzia dell'indagato, che potrà partecipare agli accertamenti tecnici che la magistratura disporrà a partire dalle prossime ore. C'è stata un'accelerata, dunque, sulle indagini relative alla scomparsa della 27enne di origini rumene, di cui si sono perse le tracce dopo una burrascosa serata passata a litigare col fidanzato Simone e culminata con una festa, una specie di rave party, in una roulotte davanti a un casolare sulla Montecarottese.
Festicciola a cui hanno partecipato Andreea, Simone, il proprietario di quel casolare con annesso podere agricolo Francesco e una ragazza, loro conoscente, Aurora ospite di una comunità di recupero della Toscana. Da quella notte tra l'11 e il 12 marzo di Andreea si sono perse le tracce. I partecipanti alla festa avrebbero detto ai microfoni di Chi l'ha visto? di quella violenta lite e che poi la ragazza si sarebbe incamminata da sola sulla Montecarottese, tra le 6,30 e le 7 di sabato. Ma nessuno su quella strada provinciale 38 l'ha vista.
LA SVOLTA Ieri, una svolta importante, a un mese dalla scomparsa. Il sostituto procuratore Irene Bilotta si è recata alla caserma dei carabinieri di Corso Matteotti a Jesi per sentire i tre giovani che per ultimi hanno trascorso la serata con Andreea, più una quarta persona: si tratta di Valentino, il fidanzato di Aurora, che sebbene non avesse partecipato a quel rave, risulterebbe persona informata dei fatti.
Sono stati tutti sentiti singolarmente, le loro dichiarazioni messe a verbale. Secondo indiscrezioni, sembra che l'attenzione degli investigatori sia puntata sui dispositivi elettronici in uso a Simone, sul telefonino di Andreea che il fidanzato aveva trattenuto con sé fino alla domenica pomeriggio, quando si era deciso a riconsegnarlo alla madre Georgeta dandole quindi adito a formalizzare la denuncia di scomparsa della figlia (presentata il lunedì successivo, ndr) e sull'analisi delle chat, presenti e cancellate.
Ma non basta. Questa pista sembra essere la chiave di volta del giallo sulla scomparsa della ragazza, anche perché proprio ieri mattina i carabinieri hanno posto i sigilli nell'area sulla Montecarottese dove si è svolta la festa, l'ultima festa di Andreea. Recintata l'area del casolare, sequestrati anche la roulotte, il terreno agricolo e le pertinenze. E sebbene nella prima fase delle indagini quei luoghi siano stati scandagliati con una perquisizione anche con l'ausilio delle unità cinofile, oggi potrebbero essere oggetto di analisi più approfondite.
Così come i militari si sono recati a Maiolati Spontini, a casa dei genitori di Simone per sequestrare la sua auto, pc, tablet, cellulare e gli indumenti che il ragazzo indossava la sera della festa. Nel corso dell'audizione di ieri, a Simone e Francesco sono stati anche notificati i verbali di sequestro penale dei loro beni. Sembra che Aurora sia stata accompagnata davanti al Pm dagli stessi carabinieri che sono andati a prenderla presso la comunità che la ospita, in Toscana.
La dottoressa Bilotta, arrivata alla caserma verso le 13, ha concluso gli interrogatori alle 14,50. I ragazzi sono usciti tra le 15 e le 16. Le indagini dei carabinieri della Compagnia di Jesi proseguono nel più stretto riserbo: il fascicolo aperto in Procura è ancora per la scomparsa. Ma se dopo un mese di intense indagini, solo adesso sono stati disposti i sequestri, probabilmente nel corso delle indagini tecniche svolte finora e affidate al consulente di indagini informatiche forensi Luca Russo devono essere emersi dettagli che portano le ricerche a concentrarsi lì, nella bocca dell'inferno che ha inghiottito Andreea.
TPa per “il Giornale” il 15 aprile 2022.
Andreea spariva spesso. La ventisette campionessa di tiro a segno, scomparsa nel nulla il 12 marzo nelle campagne di Montecarotto, in provincia di Ancona, tutto era meno che un tipo tranquillo.
Un paio d'ore prima che uscisse dal casolare in cui aveva trascorso la serata con Simone Gresti, il fidanzato 43enne e una coppia di amici aveva lanciato un disperato sos al papà, che vive in Spagna. «Mia figlia mi ha chiamato alle 4,20 di notte, mi ha scritto che era finita nei guai per colpa sua e aveva dei problemi», racconta Marcel, che abita da 20 anni a Madrid.
L'uomo dormiva quando lei gli ha telefonato e non ha risposto. «Poi ho provato a telefonarle verso mezzogiorno - ha raccontato -. Erano due o tre settimane che non ci sentivamo. Di solito lo facevamo al telefono o su Whatsapp».
Ma cosa le stava accadendo? Quella sera anche all'ex fidanzato Daniele, con cui era rimasta in buoni rapporti, aveva scritto di voler scomparire per un po', pregandolo di aiutarla. Ma poi aveva cambiato idea, dicendo che si sarebbero visti direttamente il giorno seguente. Il caso sembra una ragnatela senza fine.
Ma mercoledì sera il pm Irena Bilotta della Procura di Ancona ha iscritto nel registro degli indagati Simone, autotrasportatore che aveva una relazione con la scoparsa, con l'accusa di sequestro di persona. Un atto dovuto per consentirgli di nominare consulenti di parte che parteciperanno alle perizie sui dispostivi che gli sono stati sequestrati, a partire dal tablet e dal telefono. Il pm ha nominato l'esperto informatico Luca Russo per passarli al setaccio e avrà 60 giorni di tempo per depositare i risultati.
«Andrea è viva, perché continua a visualizzare e ascoltare canzoni in rumeno sul canale Youtube», continua a ripetere il 43enne. Anche ieri è stato scaricato un video su quel canale Youtube che io non apro da tempo. C'era la canzone rumena Ba Ba ba di Irina Rimes postata il 17 marzo alle 20.57 e un altro video di mercoledì alle 23,34. La notte prima della scomparsa mentre era con Simone, Andreea chattava con l'ex Daniele.
«Fai attenzione a quello che scrivi che è con me e legge tutto», gli confidava. Accertamenti verranno effettuati anche sull'Audi dell'indagato, sulla Fiat Panda della mamma e sui vestiti che indossava quella notte, in cui nella roulotte accanto al casolare sulla Montecarottese non ha smesso un attimo di discutere con la ragazza.
«È tranquillissimo - ha spiegato il legale dell'uomo, l'avvocato Emanuele Giuliani- crede che Andreea si stia nascondendo da qualche parte e accoglie serenamente il fatto di esser indagato e ha fiducia negli sviluppi futuri. Ha detto che è stata lei a consegnarli spontaneamente il telefonino. Probabilmente un gesto istintivo a seguito di questa discussione che sembra ci sia stata tra i due».
Oggi è previsto un nuovo sopralluogo nell'area del casolare a Montecarotto, già messa sotto sequestro, che nei giorni scorsi era stata battuta dai carabinieri con cani molecolari. Si cercano dettagli e risposte, che per ora sembrano lontani dall'arrivare.
Talita Frezzi per "il Messaggero" il 16 aprile 2022.
C'è un ultimo giallo nelle indagini sulla scomparsa di Andreea Rabciuc, la 27enne di origini rumene inghiottita nel nulla dal 12 marzo. Ed è quello relativo all'ultimo messaggio arrivato al padre, circa due settimane fa, quando la ragazza di cui non si hanno più notizie dal 12 marzo scorso era già sparita. è il dubbio che ora attanaglia gli inquirenti: quel messaggio, in cui diceva di «essere nei guai» e di avere «problemi con il fidanzato», l'ha davvero spedito lei?
Oppure, come si è già visto in un altro caso (quello di Carol Maltesi, uccisa dall'ex compagno) era un depistaggio? Altro giallo quello del sangue rinvenuto su un giubbotto del fidanzato Simone. Secondo l'avvocato «è il suo, perché era stato aggredito fuori da un locale». Ma dell'accaduto non ci sono prove: il ragazzo infatti non andò al pronto soccorso per farsi medicare e non ha mai sporto denuncia per quell'episodio.
Intanto, le indagini si stanno concentrando sul casolare situato sulla Montecarottese dove, proprio la sera della scomparsa, si è svolta una festa a cui la ragazza ha partecipato insieme al fidanzato Simone Gresti (43 anni, autotrasportatore, unico indagato al momento per sequestro di persona), al proprietario del casolare Francesco e a una loro conoscente, Aurora.
GLI INTERROGATORI Sentiti dai carabinieri come persone informate dei fatti sia Francesco, che Aurora e il ragazzo di lei, Valentino, il passo successivo degli inquirenti è scandagliare da cima a fondo i luoghi della scomparsa: il casolare, le pertinenze e una roulotte che sono sotto sequestro giudiziario. Ieri mattina alle 8,30 sulla Montecarottese sono arrivati il sostituto procuratore Irene Bilotta che coordina le indagini dei Carabinieri della Compagnia di Jesi, gli esperti del Ris delle investigazioni scientifiche e le unità cinofile del Gruppo Cinofili di Bologna, l'analista forense Luca Russo cui la Procura ha conferito l'incarico di eseguire le analisi sui cinque cellulari sequestrati sia all'indagato che a 3 persone a lui vicine. C'erano anche Simone Gresti col suo avvocato difensore Emanuele Giuliani, e il loro consulente tecnico di parte, Andrea Ariola dei Servizi Investigativi srl.
GLI ACCERTAMENTI Le indagini scientifiche sono volte a reperire tracce biologiche e indizi utili alle ricerche di Andreea, che ancora vaga nel limbo degli scomparsi da oltre un mese. I cani hanno fiutato all'interno del casolare e della roulotte, hanno ispezionato a fondo i luoghi e il campo adiacente. I Ris hanno passato con il luminol l'interno della roulotte del casolare, sebbene inagibile, alla ricerca di tracce ematiche e di Dna. I laghetti erano stati già scandagliati dai sommozzatori dei vigili del fuoco nei giorni scorsi.
«Siamo qui per dare il nostro contributo alle indagini dice l'avvocato Emanuele Giuliani stiamo lavorando, prima ancora che come difesa dell'unico indagato, per aiutare a trovare Andreea, speriamo viva. È la nostra priorità, soprattutto di Simone che vive con serenità il fatto di essere stato iscritto nel registro degli indagati ma con un certo carico emotivo i lunghi giorni di assenza della sua fidanzata. In passato si era allontanata altre volte e lui ha fatto sempre l'impossibile per riportarla a casa. Stavolta no, questo è il suo unico cruccio adesso».
Nei prossimi 60 giorni sarà l'analista forense Luca Russo a scandagliare invece i meandri delle chat, dei contatti social e della vita virtuale di Andreea, Simone e di altre 3 persone a loro vicine. Al vaglio delle analisi scientifiche anche l'Audi di Simone, la Panda della madre, due giubbotti del ragazzo di cui uno sporco di sangue. «È il suo - precisa il difensore - e sarà facilissimo provarlo, poiché Simone nell'ultimo weekend ha subìto un'aggressione davanti a un locale a Jesi, ma non è andato al pronto soccorso».
Un altro tassello da analizzare e districare: la sera dell'11 marzo, la ragazza alle 4,20 ha tentato di chiamare il padre Marcel che vive in Spagna. Lo ha fatto tramite Messenger. Ma l'uomo dormiva e non ha risposto, ha provato a richiamarla verso mezzogiorno, ma niente.
Due settimane fa, secondo quanto riferito dal padre, l'ultimo messaggio in cui la figlia gli confidava di «non trovarsi bene con il suo fidanzato e che era finita nei guai per colpa sua, aveva dei problemi», senza specificare che tipo di problemi. E anche su questo strano messaggio c'è la nebbia più fitta. Andreea è viva?
Giallo di Jesi, che fine ha fatto Andreea Rabciuc? Cosa sappiamo e gli elementi che potrebbero dare una svolta. La Stampa il 16 Aprile 2022.
Ragazza scomparsa, il fidanzato è indagato.
«Stiamo collaborando con le autorità. Per noi la priorità è trovare Andreea. E la cerchiamo viva. Ieri abbiamo partecipato, con il nostro consulente al sopralluogo con i carabinieri del Ris nell'area posta sotto sequestro nelle campagne di Montecarotto, poi in serata abbiamo cominciato delle ricerche per conto nostro in altre zone». Emanuele Giuliani, legale di Simone Gresti, il 43enne di Maiolati Spontini indagato dalla Procura di Ancona per sequestro di persona in relazione alla scomparsa della fidanzata Andreea Rabciuc, 27 anni, di cui si sono perse le tracce dalla mattina del 12 marzo quando si allontanò a piedi dall'area ora sotto sequestro dopo un litigio con l'uomo, non usa giri di parole. «Continueremo a lavorare anche in questi giorni di festa, anche con l'uso di droni speciali - aggiunge il legale -. Ripeto, stiamo cercando una ragazza viva, ma i nostri accertamenti sono a 360 gradi». Gresti è l'unico indagato: la notte tra l'11 e il 12 marzo nell'appezzamento, dove ci sono un casolare diroccato e una roulotte per feste private, era presente anche un'altra coppia, sentita dai carabinieri di Jesi come persone informate sui fatti. E le ricerche si sono concentrate all’interno del casolare e poi nelle campagne circostanti, quelle zone di Montecarotto, in provincia di Ancona da dove la giovane ventisettenne campionessa di tiro a segno di origini romene, si è allontanata la mattina del 12 marzo scorso, dopo una lite con il fidanzato durante un party a cui avevano partecipato altre due persone: da allora di lei si sono perse le tracce.
L’indagato.
Il fidanzato Simone Gresti, trasportatore di 43 anni, è indagato per sequestro di persona, ma sono ancora tanti gli aspetti da chiarire. Sinora era detto convinto che la ragazza stesse bene e si stesse «nascondendo» come aveva fatto altre volte in passato. Ed è anche per questo che, attraverso il suo legale, sono state iniziate le ricerche della fidanzata anche da parte di Gresti, convinto di rivederla viva. Ora però, dopo oltre un mese di assenza e silenzio, fa sapere che anche lui è preoccupato. Ne ha parlato, appunto, Giuliani che ieri ha assistito al sopralluogo dei Ris con un suo consulente. «Si rimprovera - ha detto - il fatto che, quando in passato lei si è allontanata, lui ha fatto sempre l'impossibile per riportarla a casa». Cioè a Maiolati Spontini dove Andreea abita da 8 mesi insieme a Simone e ai genitori di lui. Anche quella mattina avrebbe potuto trattenerla, correrle dietro. «Questo è quello che lui si chiede: “l'ho fatto tante volte..” - ha aggiunto l'avvocato -. Forse ha avuto un momento di stanchezza, forse questa è l'unica cosa che potrebbe essere il suo cruccio». Ora «lui non si sa dare una spiegazione di dove potrebbe essere». Si tratta dell'ennesimo allontanamento della ragazza, che secondo l'avvocato Giuliani, il suo assistito ha legato «all'aspetto caratteriale di Andreea. Lui l'ha descritta come uno spirito libero...».
Le attività sui social.
Ma anche un'anima inquieta, Gresti ha detto di avere individuato tracce di attività di Andreea sui social: «Per cercare di capire cosa è successo si è concentrato su quello che aveva a disposizione, i social network», tanto più che «lei è molto abile con le tecnologie, ha vari profili. Poi però - ha sottolineato il legale - bisogna capire chi ha utilizzato cosa, come si clona un profilo». Per questo la prima perizia disposta dal pm Irene Bilotta della Procura di Ancona che coordina le indagini condotte dai carabinieri di Jesi è di tipo informatico e riguarda vari cellulari e dispositivi sequestrati a Simone, alle altre due persone che erano lì quella mattina e anche il cellulare di Andreea. Che lei aveva lasciato al fidanzato in un momento di rabbia, secondo l'uomo, mentre altri sostengono che è stato lui a non restituirlo. Aspetti su cui dovrà fare chiarezza il perito informatico Luca Russo, anche lui oggi nell'area sottoposta a sequestro. Dai cellulari, tra l'altro, potrebbero venire elementi per individuare eventuali spostamenti delle persone che erano lì la notte tra l'11 e il 12 marzo e la mattina seguente, oltre al recupero di messaggi (uno inviato al padre poco prima dell'alba) e conversazioni. Oggi intanto i carabinieri del Ris hanno repertato vario materiale. Sul luogo in azione anche un cane molecolare, impiegato in un casolare diroccato e una roulotte che si trovano nel terreno, ma anche in alcune pertinenze. Gli elementi mancanti al quadro sono ancora molti: dovrebbe essere ascoltato anche un ex fidanzato di Andreea, che con lui si confidava e che ha lanciato, sempre tramite social vari appelli per convincere la ragazza a farsi viva. Al momento non sono previste ulteriori ricerche nelle campagne circostanti, condotto nei giorni scorsi da vigili del fuoco, carabinieri e Protezione civile.
La 27enne sparita nel nulla a inizio marzo. Il giallo di Andreea, il sangue sul giubbotto del fidanzato e le tracce dietro il casolare della festa. Vito Califano su Il Riformista il 17 Aprile 2022.
Continuano le ricerche per trovare Andreea Rabciuc, la 27enne sparita nel nulla dopo una festa in campagna nelle Marche lo scorso 12 marzo. Si cerca con il luminol e i cani molecolari. Setacciata l’area del casolare di Montecarotto dove si era tenuta la festicciola, con una decina di persone, alla quale la ragazza aveva partecipato con il fidanzato. E dove sono state rinvenute numerose tracce della ragazza. Ritrovato del sangue sul giubbotto del fidanzato della 27enne campionessa di tiro con l’arco.
L’unico indagato per sequestro di persona al momento è proprio Simone Gresti, 43 anni, sicuro che la compagna sia viva, che si sia allontanata come aveva già fatto altre volte in passato. Come ricostruito da Il Messaggero l’indumento è stato sequestrato insieme con due telefonini e l’auto Audi A3 dell’uomo. “Ma è quello del mio assistito che il venerdì della settimana scorsa è stato coinvolto in una rissa”, ha riferito l’avvocato Emanuele Giuliani. Una rissa scoppiata all’esterno di un locale dove all’uomo non sarebbe stato permesso di entrare. La traccia ematica è stata sottoposta al test del dna.
“La priorità è trovare Andreea — ha aggiunto il legale — stiamo collaborando con le autorità. E cerchiamo una ragazza viva, anche se i nostri accertamenti sono a 360 gradi”. Le indagini al momento non escludono alcuna pista. La pm Irene Bilotta che coordina le indagini condotte dai carabinieri non ha ancora sentito Gresti. Utilizzati anche i droni. Sotto sequestro i telefonini, il casolare, la roulotte e tutta l’area. Condotti sul posto rilievi e reportage fotografici e video.
La ragazza è scomparsa dopo la notte di festa, alle prime luci del giorno. È partita da sola, a piedi. Poco prima aveva cercato il padre che vive in Spagna, a Madrid, e che a quell’ora dormiva e non ha risposto. Gli aveva scritto di essersi messa nei guai. A quanto emerso avrebbe chattato durante tutta la serata con il suo ex fidanzato. Il telefonino però sarebbe rimasto nelle mani di Gresti, ancora non si è capito per quale ragione. L’apparecchio ora è al vaglio della Procura. Dovrebbe essere ascoltato dai carabinieri, oltre al fidanzato e ai due amici che erano sul posto al momento della sparizione, anche l’ex compagno della 27enne di origini rumene.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Il caso dei messaggi cancellati. “Qualcuno è passato a prendere Andreea alla festa”, la pista sul giallo della campionessa 27enne sparita nel nulla. Vito Califano su Il Riformista il 19 Aprile 2022.
Gli inquirenti che indagano sul caso di Andreea Rabciuc sarebbero convinti del fatto che qualcuno sia andato a prendere la 27enne scomparsa nel nulla a inizio marzo nei pressi del casolare di Montecarotto, nel marchigiano, dove si sono perse le sue tracce. Lo scrive Repubblica aggiungendo che la soluzione al giallo della campionessa di tiro a segno di origini rumene si trova nei messaggi che qualcuno ha cancellato dal suo telefonino.
La ragazza, infatti, secondo quanto emerso finora, si è allontanata dal casolare senza il telefonino. Se lasciato deliberatamente al fidanzato o se costretta a farlo, ancora non è chiaro, le versioni divergono. Così come non è chiaro da chi siano stati cancellati i messaggi. Il compagno Simone Gresti, 43 anni, autotrasportatore, intanto è l’unico indagato per sequestro di persona. La pm Irene Bilotta ha incaricato l’analista forense Luca Russo per recuperare quei messaggi con la collaborazione della Servizi Investigativi, la società di investigazioni private nominata come consulente di parte dal difensore di Gresti, l’avvocato Emanuele Giuliani.
Gli inquirenti ritengono impossibile che a quell’ora, intorno alle 7 del mattino del 12 marzo, nessuno abbia notato la ragazza allontanarsi a piedi lungo la strada. Secondo altri dettagli emersi nelle scorse settimane, la ragazza aveva chattato tutta la sera con il suo ex fidanzato e aveva litigato furiosamente con il suo compagno. Gresti è convinto che la compagna sia ancora viva, che si stia nascondendo. Ha fatto riferimento alle altre volte in cui si è allontanata senza dire nulla. L’uomo ha ipotizzato che la ragazza abbia anche usato alcuni profili social dopo la data della scomparsa.
Il 43enne ha consegnato ai carabinieri il suo tablet e le password per accedere a un profilo che i due avevano in comune. L’agenzia Servizi Investigativi sta intanto coadiuvando i Ris negli accertamenti sul casolare e portando avanti indagini difensive per ritrovare la ragazza. Ha messo in campo i droni e condotto interviste. Si è rivolta perfino a una sensitiva che ha confermato come la 27enne sia viva. Utilizzati anche cani molecolari per risalire a tracce della ragazza – ritrovate, ovviamente, in misura abbondante nei pressi del casolare.
I militari hanno perlustrato tutta l’area. Analisi anche sull’automobile di Gresti e sul suo giubbotto sporco di macchie di sangue. “Ma è quello del mio assistito che il venerdì della settimana scorsa è stato coinvolto in una rissa”, ha riferito l’avvocato Emanuele Giuliani. Una rissa scoppiata all’esterno di un locale dove all’uomo non sarebbe stato permesso di entrare. La traccia ematica è stata sottoposta al test del dna. Il padre della ragazza, che vive in Spagna, ha raccontato di aver ricevuto un messaggio dalla figlia, la notte della sparizione, in cui gli raccontava di essersi messa nei guai.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Andreea Rabciuc scomparsa, sms cancellati nel backup fatto dal compagno. Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2022.
L’inchiesta sulla sparizione della 27enne di origine rumena, campionessa
di tiro a segno, sparita il 12 marzo. Controlli su 4 cellulari e un tablet. L’ipotesi: qualcuno sarebbe venuto a prenderla. Il proprietario del casolare: «Lei aveva fretta di andare via».
Quattro cellulari e un tablet sotto sequestro. E dei messaggi cancellati durante un backup. Per ora ruotano attorno a questi elementi le indagini su Andreea Rabciuc, la ragazza 27enne di origini rumene, campionessa di tiro a segno, sparita nel nulla dalla mattina del 12 marzo scorso, quando si allontanò da un casolare nelle campagne di Montecarotto (Ancona), dove aveva trascorso la notte in una roulotte con il fidanzato Simone Gresti, dopo una serata in compagnia anche di altre due persone. Tra ricerche condotte con cani molecolari e analisi con il luminol, vanno avanti anche le analisi sui telefonini affidate dalla Procura al perito Luca Russo, titolare della «Indagini informatiche forensi».
Verifiche sono in corso sui due cellulari di Gresti (l‘autotrasportatore di 43 anni indagato per sequestro di persona), su quello di Andreea (commessa in un pub) rimasto in possesso dello stesso fidanzato e sui dispositivi di un’altra coppia di amici, che è già stata sentita dai carabinieri come persone informate sui fatti. Russo sta ricostruendo i movimenti, anche virtuali, di quei dispositivi tra l’11 e il 12 marzo e anche la mattina del 12 marzo e i giorni seguenti. Ma sta anche cercando eventuali messaggi e chat cancellate — «frutto di un backup fatto successivamente da Gresti» dice l’avvocato Emanuele Giuliani che assiste l’indagato — tra le quali potrebbe esserci la richiesta di un aiuto o di un passaggio ad altre persone. Nelle prime ore del 12 marzo, Andreea mandò un messaggio al padre, che vive in Spagna, e che lo vide solo il giorno dopo.
A Mattino 5, il proprietario del casolare, Francesco, ha detto che, dopo i bisticci verbali durati tutta la notte, «a un certo punto Andreea ha preso e se ne è andata, come se avesse fretta... ha voluto andare via; ha chiesto più volte il telefono, Simone voleva cercare di trattenerla, anche io ho cercato di calmarla, però lei si era agitata parecchio. Ad un certo punto io sono uscito un attimo, poi sono usciti tutti quanti e lei ha preso e se ne è andata, poi lei ci ha mandato con il dito a quel paese. C’era qualcuno che l’aspettava? Penso proprio di sì, non si spiegherebbe tutta questa fretta per andare via».
Se l’ipotesi fosse confermata, la verità potrebbe stare nel cellulare della stessa Andreea, rimasto nelle mani di Simone e che lei gli avrebbe dato in un momento di stizza; lui non glielo avrebbe più riconsegnato, ridandolo alla madre, che nel frattempo aveva chiamato, solo il giorno dopo. «Il telefono non gliel’ha dato Andreea — ha ricordato lo stesso Francesco, riferendosi alla lite — ma alla fine ce l’aveva in mano Simone». La discussione? «Litigi di coppia, forse c’era anche un po’ di gelosia». Con lo stesso telefono Andreea si era messaggiata nel pomeriggio dell’11 marzo con il suo ex fidanzato Daniele, con cui era rimasta in buoni rapporti. «Lei voleva cambiare vita, ritornare ad essere quella che era la vera Andreea» ha raccontato Daniele ai microfoni di Mattino 5.
Intanto farà presto un sopralluogo nelle zone interessate la sensitiva «arruolata» dallo staff investigativo che assiste la difesa di Gresti. Sinora la donna, fa saper e Andrea Ariola della Servizi Investigativi srl, ha lavorato «da remoto», con oggetti o foto, dando indicazioni di località diverse da quella da cui Andreea si era allontanata, ma sempre riconducibili alle zone dell’Anconetano in cui è avvenuta la scomparsa.
Il caso nelle Marche. Il giallo di Andreea, la 27enne scomparsa da 53 giorni: gli avvistamenti, il fidanzato indagato, le tracce nell’auto. Vito Califano su Il Riformista il 4 Maggio 2022.
Ancora nessuna traccia di Andreea Rabciuc, a 53 giorni dalla scomparsa della 27enne sparita dopo una festa con amici nelle campagne di Montecarotto, vicino Jesi, in provincia di Ancona. Altre due segnalazioni di avvistamenti sono giunte alla trasmissione Chi l’ha visto? da Milano. Sempre da Milano erano arrivate delle segnalazioni nei giorni scorsi. Le ultime dalla stessa zona, nei pressi della metropolitana Cadorna. C’è cautela. L’unico indagato, con il quale la ragazza ex campionessa di tiro con l’arco avrebbe litigato vivacemente e lungamente durante quella notte, è il fidanzato 43enne Simone Gresti: sequestro di persona.
Continuano i rilievi nell’auto sequestrata a Gresti, un’Audi. Come ricostruisce Il Resto del Carlino sui prelievi anche organici rinvenuti è stato incaricato il medico legale Adriano Tagliabracci delle analisi. In 15 giorni il perito dovrà accertare se ci sono tracce del sangue di Andreea. La difesa ha nominato un consulente di parte, il medico legale Cristiano Cortucci di Jesi, specialista che seguirà parallelamente le analisi per tutelare l’indagato. Sempre in corso le analisi forensi sui cellulari sequestrati: due dell’indagato e un terzo dell’ex fidanzato della ragazza, Daniele.
“Non vogliamo illuderci – dice l’avvocato Giuliani – a noi ci è stato comunicato sabato mattina di questi due avvistamenti ma attendiamo di capire se sono attendibili perché lo stile della ragazza, con i capelli blu, abbiamo visto che lo hanno anche altre ragazze infatti i precedenti avvistamenti sono stati smentiti, sia quello fatto a noi di Milano che quello a Roma fatto addirittura in diretta in trasmissione“. Stasera Simone Gresti, il suo legale e il consulente Andrea Airola saranno di nuovo a Chi l’ha visto? “anche se io non ho novità che posso comunicare – ha precisato l’avvocato -, noi continuiamo le nostre indagini difensive senza interferire in quelle degli inquirenti e abbiamo ovviamente una nostra idea dei fatti sui quali però Simone non c’entra nulla”.
Andreea Rabciuc si sarebbe incamminata a piedi, da sola, sulla strada che conduce a Moie, all’alba dopo la notte passata in una roulotte dell’amico Francesco, con il fidanzato Simone e un’altra amica di nome Aurora. Da quel momento nessuna notizia più. Nessuno dei presenti l’avrebbe seguita per fermarla. Il telefono della ragazza è rimasto nelle mani del ragazzo, che nega di averle fatto del male, di averla raggiunta dopo il litigio.
L’uomo pensa che, come altre volte, a suo dire, la ragazza si sia allontanata di sua spontanea volontà. E che sempre lei sia entrata su alcuni account social sui quali sono state registrate delle attività dopo la data della scomparsa. Sul giubbotto sporco di sangue dell’uomo l’avvocato aveva spiegato: “Ma è quello del mio assistito che il venerdì della settimana scorsa è stato coinvolto in una rissa”. Una rissa scoppiata all’esterno di un locale dove all’uomo non sarebbe stato permesso di entrare. La zona del casolare è stata perlustrata in lungo e in largo dall’agenzia Servizi Investigativi e dai Ris. Utilizzato anche un drone e un cane molecolare.
Gli inquirenti ritengono impossibile che a quell’ora, intorno alle 7 del mattino del 12 marzo, nessuno abbia notato la ragazza allontanarsi a piedi lungo la strada. Secondo altri dettagli emersi nelle scorse settimane, la ragazza aveva chattato tutta la sera con il suo ex fidanzato e aveva litigato furiosamente con il suo compagno. “Mia figlia mi ha chiamato alle 4:20 di notte, mi ha scritto che era finita nei guai per colpa sua e aveva dei problemi”, ha raccontato a Chi l’ha visto? il padre della ragazza, Marcel, che da 20 anni vive in Spagna proprio a proposito della notte della scomparsa.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Andreea Rabciuc, il patrigno: “Ha conosciuto persone sbagliate, eravamo contrari alla storia con Simone”. Asia Angaroni il 05/05/2022 su Notizie.it.
Il compagno della madre di Andreea Rabciuc, scomparsa da Jesi lo scorso 12 marzo, dichiara: "Ha conosciuto le persone sbagliate e si è rovinata la vita".
Non si fermano le indagini per ritrovare Andreea Rabciuc, la 27enne scomparsa da Jesi lo scorso 12 marzo. Da quel giorno di lei non si hanno notizie e si è persa ogni traccia. Si susseguono le ipotesi sulle sorti della giovane, che per alcuni si troverebbe ad Amsterdam.
I familiari, tuttavia, non credono alle indiscrezioni circolate nelle ultime settimane. Finora è il fidanzato della giovane il principale indiziato. A parlare ora è il compagno della madre, che non trattiene le accuse.
Scomparsa di Andreea Rabciuc, parla il compagno della madre
Il compagno della madre di Andreea, intervenuto ai microfoni di “Chi l’ha visto”, ha tenuto a precisare: “Ho sentito molte cose non vere dette in tv, Andreea aveva studiato, lavorava, aveva una vita come tante ragazze della sua età.
Poi ha conosciuto determinate persone, sbagliate, e si è rovinata la vita: è successo quello che è successo. Ma quello che vedo in tv per me è solo teatro”.
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Della giovane di origini rumene si sono perse le tracce dopo aver trascorso una serata con il fidanzato Simone e due amici. Il suo patrigno spiega: “La madre di Andreea è una persona fragile: sta soffrendo molto in questo momento.
Non abbiamo idea di dove possa trovarsi ora Andreea, noi non l’abbiamo sentita da quando è scomparsa. Tutti i luoghi di cui hanno parlato questi presunti amici in cui potrebbe essersi nascosta non sono veri. Non è ad Amsterdam. Tutto quello che dicono è un teatro. Stiamo collaborando con i Carabinieri che sono gli unici che possono trovarla”.
Poi ha ricordato che la madre di Andreea “non è mai stata d’accordo con la sua storia con Simone”.
Tuttavia, “lei ogni tanto scappava da questo fidanzato, per motivi che un giorno dirò”. Quindi ha ribadito: “Nessuno tra Simone o Daniele era adatto per noi: se sbagli amicizia ti rovini la vita”.
Le parole del fidanzato
Anche Simone, il 43enne fidanzato con Andreea, ha detto la sua ai microfoni del celebre programma di Rai 3. L’uomo, convinto che la giovane si sia sentita con qualcuno prima di scomparire, ha dichiarato: “Andreea è andata via per sua scelta, nessuno l’ha trattenuta. Mi sento in colpa perché avrei dovuto trattenerla anche quella volta, non potevo immaginare che sparisse per quasi due mesi senza lasciare traccia”.
Simone continua a difendersi e proclamarsi innocente, ignaro – a sua detta – delle sorti della fidanzata. Inoltre, ricorda che lui e Andreea stavano progettando un futuro insieme.
· Il caso di Annamaria Sorrentino.
Fulvio Bufi per il Corriere della Sera il 12 marzo 2022.
Si sono concluse le indagini sulla tragica fine di Annamaria Sorrentino, la ragazza napoletana precipitata il 16 agosto del 2019 dal balcone della casa di Tropea dove era in vacanza con il marito e due coppie di amici, e morta due giorni dopo. Per la Procura di Vibo Valentia il suo non fu un suicidio, come raccontarono altre persone presenti in casa. Cadde dal balcone per sfuggire al marito Paolo Foresta, che la stava picchiando. Perciò i pm hanno iscritto da tempo Foresta nel registro degli indagati con l'accusa di omicidio preterintenzionale.
E ora che l'inchiesta è chiusa, è presumibile che ne chiederanno il rinvio a giudizio. Indagati, ma per favoreggiamento, anche Gaetano Ciccarelli e Francesca Nero, marito e moglie, che erano presenti in casa e che testimoniarono cercando, secondo i magistrati, di coprire le responsabilità di Foresta.
«Ho sempre saputo che Annamaria non si è uccisa», dice Luisa Sorrentino, sorella della vittima. E aggiunge: «Lei con il marito aveva chiuso da mesi, e se continuavano a vivere nella stessa casa era soltanto perché lui la costringeva. Ma presto se ne sarebbe andata».
Il gruppetto che aveva preso in affitto la casa in Calabria era composto tutto da audiolesi, e questo ha avuto una particolare importanza nelle indagini. Perché in commissariato gli amici di Foresta comunicarono tra loro usando la lingua dei segni e ricostruendo, secondo l'interpretazione dei consulenti della Procura, i momenti in cui Annamaria era precipitata, in maniera ben diversa da quanto poi riferito agli inquirenti.
Dalle indagini è emerso che Foresta accusava la moglie di avere una relazione con un altro degli amici presenti in quella casa di vacanze. Perciò l'avrebbe più volte insultata e aggredita. «Mia sorella non aveva nessun amante clandestino», insiste Luisa Sorrentino. «Se aveva una relazione l'aveva da donna libera, perché lei con il marito aveva già chiuso. È sempre stato un violento. Per due volte mia sorella ha abortito proprio a causa dei suoi maltrattamenti».
Sono stati i familiari della ragazza, assistiti dagli avvocati Nicodemo Gentile e Antonio Cozza, a battersi perché la morte di Annamaria - che qualche anno fa vinse anche il concorso di Miss Campania - non venisse archiviata come suicidio. Le loro denunce sono state raccolte da trasmissioni tv come Chi l'ha visto? e Quarto Grado e dal settimanale Giallo, e hanno portato lontano. «Ora - spiega l'avvocato Cozza - aspettiamo di poter avere accesso a gli atti per valutare il lavoro investigativo e dare eventualmente il nostro contributo».
· Il mistero del corpo con i tatuaggi.
Cadavere a pezzi, la lista dei tatuaggi per risolvere il giallo dell’identità. Mara Rodella su Il Corriere della Sera il 24 Marzo 2022.
Si indaga sul corpo di una donna, sezionato in circa 15 pezzi, chiusi in 4 sacchi di plastica, trovato a Borno in Valcamonica. Diffuso l’elenco dei disegni sulla sua pelle. L’appello per dare un’identità alla donna uccisa.
Chi l’ha conosciuta non può averli dimenticati, tutti quei tatuaggi così particolari: scritte, lettere, disegni. E potrebbe davvero contribuire alla svolta nelle indagini, per dare un’identità al cadavere di donna recuperato domenica pomeriggio, lungo una scarpata poco distante dalla strada interna di Paline, piccola frazione di Borno, in Valcamonica , al confine tra la provincia di Brescia e di Bergamo. Il corpo sezionato (in maniera «chirurgica») in una quindicina di pezzi, chiusi dentro quattro sacchi neri dell’immondizia e gettati via. Presenta tracce di un precedente congelamento e il volto sfregiato dal fuoco. Ma può ancora fornire indizi utilissimi ad attribuirgli un nome. Per questo la Procura e i carabinieri hanno deciso di divulgare la lista dei tanti tatuaggi, oltre una decina, riscontrati durante i primi accertamenti medico legali.
Quelle scritte sulla pelle
«Step by step» è scritto sulla caviglia destra, «wonderlust», invece, sulla clavicola, sempre destra. Sulla schiena (lato destro) si era fatta tatuare «elegance is the», mentre «be brave» è tatuato sul gomito sinistro, dove è stato rilevata anche la porzione di un disegno. Sul polso destro, ancora, la scritta «fly». E quella lettera, incisa sulla pelle più di una volta: una «V» rovesciata sulla coscia destra, due «VV» rovesciate — o forse una doppia vu — sulla coscia sinistra. Infine, quel «te» tatuato sul dorso della mano sinistra. A chi fosse dedicato non è dato saperlo, non ora.
L’appello a tatuatori ed estetisti
Tracce di altri tatuaggi emergono sulle dita della mano destra, oltre a un disegno «maculato» sul gluteo destro. E non si esclude ce ne fossero altri, pare, brutalmente cancellati. Quella donna uccisa e abbandonata tra i rifiuti e i rovi risulta fosse di corporatura esile: un metro e sessanta per cinquanta chili. I capelli scuri e le unghie delle mani e dei piedi «particolarmente curate con uno smalto violetto e i glitter argentati». Chi la conosceva, l’estetista o il tatuatore che riconoscono la propria firma nelle descrizioni, chiunque abbia informazioni utili per risalire all’identità della vittima — l’appello degli investigatori — «si faccia avanti»: contattando i carabinieri di Breno allo 0364322800 o la Procura. Affinché questa donna abbia un nome. Una donna che aveva «voglia di viaggiare», «passo dopo passo», magari di «volare», come dicono alcuni suoi tatuaggi in inglese.
Valeria Arnaldi per “Leggo” il 30 marzo 2022.
Una donna uccisa e poi fatta a pezzi. Antonio Del Greco, ex capo della Squadra Mobile a Roma, le sono capitati casi così?
«I casi con corpi fatti a pezzi sono rari. Il più eclatante è stato quello del Canaro della Magliana, a Roma. L’aspetto più difficile è risalire all’identità della vittima. E sono proprio identità e ultimo indirizzo del soggetto gli elementi che fanno decollare un’indagine. Il primo elemento del riconoscimento, di solito, è rappresentato dalle impronte digitali, che se il soggetto ha precedenti penali, consentono di risalire alla sua identità.
È accaduto così per il Canaro. Altrimenti, si fa attività di ricerca tra le persone scomparse, per restringere il campo. Poi si usa ogni elemento distintivo. Ricordo che, una volta, riuscii a risalire all’identità di un cadavere cui era stato dato fuoco, grazie a una fibbia particolare».
In questo caso, a consentire il riconoscimento sono stati i tatuaggi.
«I giovani ne hanno molti, sono diventati elementi connotanti. Si può usare anche altro, come l’arcata dentaria, qualsiasi protesi in bocca, frammenti di abiti, cicatrici e altro ancora».
La procedura di pubblicare l’elenco dei tatuaggi sui giornali è stata eccezionale?
«No, è una procedura su cui spesso si ragiona quando si deve identificare una vittima. Però serve il benestare del pubblico ministero».
La confessione di Davide Fontana: «Ho accoltellato Carol Maltesi da morta e ho comprato un freezer su Amazon». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 30 Marzo 2022.
Delitto di Carol Maltesi (Charlotte Angie) a Rescaldina, la confessione nel verbale di Fontana: «Ho smembrato il corpo in tre giorni. Per due mesi ha risposto agli sms dal cellulare della giovane: «Volevo far credere che fosse viva». I due si erano conosciuti su Instagram nel 2020, Fontana aveva lasciato la moglie.
«Stavamo girando un filmino hard. Lei era legata, aveva un sacchetto in testa. Ho iniziato a colpirla con un martello su tutto il corpo, non forte. Poi quando sono arrivato verso la testa ho iniziato a colpirla forte, non so bene il perché. Non so cosa mi sia successo. Credo fosse già morta ma non sapendo che altro fare le ho tagliato la gola con un coltello da cucina». Sono le tre di martedì notte, Davide Fontana, 43 anni, bancario, fotografo, food blogger per passione, attore hard amatoriale, crolla davanti ai magistrati e ai carabinieri dopo quattro ore di mezze parole. Confessa d’aver ucciso Carol Maltesi, di averne smembrato il corpo «in tre giorni», di aver prima tentato di darle fuoco e infine di aver abbandonato i resti tra le montagne di Borno (Brescia) durante una vacanza in un hotel di Boario Terme. «Vi ho raccontato tutto questo perché volevo togliermi questo peso e dire la verità», mette a verbale davanti agli investigatori. Secondo gli inquirenti è lui il presunto autore (reo confesso) della morte dell’attrice hard Charlotte Angie.
Il telefonino di Carol
Per più di due mesi, con in mano il telefonino della ragazza, aveva risposto ai messaggi: «Nel tentativo di far credere loro che fosse viva». Agli altri attori e agli amici che la cercavano aveva raccontato che «voleva cambiare vita, lasciare il mondo del porno». Menzogne ripetute fino al 26 marzo quando, dopo la scoperta del corpo, il giornalista Andrea Tortelli scrive e chiede per conferma di ascoltare la viva voce di Carol: «È stato l’unico a chiedere un vocale in questi due mesi. Mi sono spaventato e non gli ho più risposto». Fontana racconta di come ha smembrato il corpo dopo aver acquistato «un’accetta e un seghetto da metallo». Un’operazione durata tre giorni. Di aver ripulito l’appartamento e di aver lavato gli stracci in lavatrice. Poi ha acquistato «su Amazon un freezer a pozzetto». Prima aveva fatto un tentativo comprando un braciere «ma l’ho restituito». Sono i giorni in cui il figlioletto di una vicina di casa, vedendolo in cortile, gli chiede dove siano Carol e il figlio che ogni quindici giorni veniva a Rescaldina a giocare: «È con il papà a Verona», la risposta gelida. In quei giorni, siamo a febbraio, nessuno dubita ancora di lui.
L’omicidio a gennaio
Il delitto è avvenuto, stando al suo racconto, «il 10 o l’11 di gennaio»: «Era mattina, intorno alle 11, ero in smart working. Abbiamo girato due video con il mio telefonino». Il primo («una scena non violenta») è ancora conservato sul suo Iphone, il secondo l’ha cancellato. Lega la ragazza a un palo da lap dance al primo piano dell’appartamento della vittima. Le fissa mani e piedi con lo scotch. Poi, mentre riprende, inizia a colpirla con il martello, fino alla morte: «Sono stato mezz’ora a guardarla e poi sono tornato a casa». Assistito dal legale Stefano Paloschi, Fontana racconta l’incontro con Carol e l’inizio della loro relazione: «L’ho conosciuta in un hotel di Milano nell’ottobre 2020. Io lavoravo in banca ma ho la passione per la fotografia. L’ho incontrata attraverso Instagram e le facevo degli scatti in abbigliamento intimo. Vivevo a Milano insieme a mia moglie, poi ho deciso di lasciarla perché avevo iniziato a frequentarmi con Carol. Avevamo una relazione aperta. Lei vendeva filmati e foto hard su Onlyfans».
La deposizione
La loro relazione dura qualche mese, anche se si continuano a frequentare e ad avere rapporti. Fontana, nella sua prima deposizione, racconta che la ragazza aveva iniziato a frequentare un altro attore porno. «Ma lui era troppo geloso» e il fidanzamento finisce a gennaio di quest’anno. Dice anche che da quella data Carol «non s’è più fatta viva». «Abbiamo avuto qualche contatto su Telegram, lei spesso cancellava i messaggi. Diceva che voleva dedicarsi al figlio. Diceva che voleva lasciarsi la vita precedente alle spalle». Strani i racconti del bancario con la passione per la cucina, perché nessuno degli amici della 26enne ha mai ricevuto le stesse confidenze. Anzi. Fontana racconta anche di non avere mai avuto le chiavi di casa sua, o meglio che lei gliele lasciava solo quando «doveva fare qualche lavoretto»: «Io gliele restituivo mettendole nella cassetta della posta». Lo stesso vale per l’auto, la Fiat 500 della ragazza.
Le incongruenze nella ricostruzione
Il suo racconto però si sgretola sotto una lunga catena di incongruenze e inesattezze. Gli inquirenti ormai sono convinti che nessun altro, se non lui, possa essere il possibile autore del delitto. Il 43enne è sotto pressione e crolla. Il racconto del delitto, dei giorni in cui ha depezzato il cadavere, è un film dell’orrore. Una volta uccisa la ragazza conserva i resti per giorni nel freezer, poi tenta di bruciarli con l’alcol nel barbecue di un bed and breakfast di una frazione di Cittiglio (Varese). Non ci riesce. Così riporta tutto a casa e decide di puntare verso le montagne di Borno dove trascorreva le vacanze da bambino con la famiglia. Dopo il ritrovamento dei sacchi con il corpo, i carabinieri impiegano pochi giorni per riavvolgere il nastro. L’ultimo tentativo, quello di tagliare la pelle in corrispondenza dei tatuaggi, s’è rivelato l’ennesimo fallimento di un piano senza senso. La sua confessione davanti agli investigatori colma gli altri passaggi non ancora cristallizzati dalle indagini. Sono le tre e mezza di martedì notte, gli inquirenti chiudono il cerchio e il bancario, food blogger, fotografo e porno attore amatoriale Davide Fontana esce dalla caserma per essere portato in carcere. Oggi, mercoledì 30 marzo, sarà interrogato per la convalida del fermo. Potrà chiarire i dettagli che ancora mancano o scegliere liberamente di non rispondere.
Davide Fontana, chi è l’uomo dell’omicidio di Brescia che ha confessato di aver ucciso Charlotte Angie: bancario e food blogger, era il suo vicino di casa. Redazione Brescia su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.
L’uomo, food/travel blogger per passione, ha confessato di averla fatta a pezzi e nascosta in freezer per poi liberarsene a Borno. Aveva usato il cellulare della donna, in questi giorni, per depistare le indagini.
È Davide Fontana, milanese, dipendente di banca nella sua città, food/travel blogger per passione (sui social vanta un profilo Instagram con oltre 13 mila follower: comprende fotografie e recensioni di piatti e ristoranti anche nel passato recente, nel periodo in cui la donna era scomparsa), il 43enne che ha confessato l’omicidio dell’attrice hard di 26 anni Charlotte Angie (chi era la donna: il suo profilo) i cui resti sono stati trovati a Borno, in provincia di Brescia. I due erano vicini di casa a Rescaldina (Milano) e avevano avuto una relazione. Alle due abitazioni, nel centro del paese dell’hinterland milanese, i Carabinieri hanno posto i sigilli, così come alla macchina di lui parcheggiata nel cortile: quella della vittima, che Fontana ha usato per trasportarne il cadavere fatto a pezzi, è in una via limitrofa.
Il suo profilo sul sito dedicato alla passione per la cucina
Appassionato di tecnologia e fotografia, che fondeva alla passione per il cibo nella sua attività sociale, Fontana si definisce così sul sito dedicato alla passione per la cucina, attivo da molti anni: «Ariete atipico, calmo e razionale ma testardo e determinato a raggiungere gli obiettivi prefissati. Amo la cucina a 360 gradi - spiega - mi diletto ai fornelli provando e riprovando ricette tradizionali e non, cercando spunti e ispirazione dai migliori chef. La creatività la ricerco nei ristoranti che frequento, sono sensibile al fascino di un piatto che riesca ad abbinare bellezza visiva ad un gusto sorprendente».
L’interrogatorio dell’uomo: solo la madre e l’ex l’avevano cercata
Davide Fontana, nelle oltre tre ore di interrogatorio nella caserma dei carabinieri di Brescia, ha raccontato che nessuno in questi mesi ha cercato Charlotte Angie, che lui aveva ucciso a gennaio. «Solo la mamma con alcuni messaggi whatsapp e l’ex compagno sempre con messaggi. Al telefono nessuno» ha detto il 43enne impiegato di banca che ieri sera alle 22.39 è entrato nella caserma dei carabinieri a Brescia da uomo libero e ne è uscito da fermato finendo in carcere. Ha confessato l’omicidio, la distruzione del cadavere e l’occultamento, prima dell’arrivo del suo legale. Da gennaio ad oggi ha utilizzato il telefono della donna. «Ho pagato anche l’affitto di casa sua» ha detto al pm Lorena Ghibaudo durante l’interrogatorio, per poi spiegare che aveva scelto Borno per averci passato dei giorni di vacanza in passato.
I depistaggi usando il telefono della vittima
«Non ho tempo adesso per i giornalisti e per spiegare perché ho lasciato il porno». L’assassino di Charlotte Angie, scriveva al sito Bsnews.it (che ha seguito passo passo la vicenda sin dalla segnalazione di un radio ascoltatore de “La Zanzara” su Radio 24), fingendo di essere la donna che invece lui stesso aveva ucciso mesi prima. Al giornalista che chiedeva conto del fatto che i tatuaggi indicati dagli inquirenti sul cadavere a pezzi trovato a Borno fossero uguali a quelli dell’attrice hard, lo stesso assassino - fingendosi Charlotte Angie - aveva risposto via messaggio sabato scorso: «Ah ho capito mi hanno già detto diverse persone di quella ragazza. Io sto bene fortunatamente». Ma non aveva inviato il messaggio vocale richiesto dalla redazione. Un ulteriore indizio, decisivo.
Carol Maltesi, chi era la pornostar Charlotte Angie uccisa e fatta a pezzi: commessa, un figlio a 20 anni, poi il cinema hard. Andrea Camurani su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.
La giovane, 26 anni, figlia di genitori italiani e olandesi, era originaria di Sesto Calende sul lago Maggiore (Varese). Poi si era trasferita a Milano, il debutto nell’hard durante il lockdown sul sito Onlyfans.
Era originaria di Sesto Calende, Comune del Varesotto sul lago Maggiore, Carol Maltesi, 26 anni, conosciuta nel mondo dell’hard con lo pseudonimo di Charlotte Angie, la giovane trovata fatta a pezzi in alcuni sacchi dell’immondizia nelle alture di Borno in provincia di Brescia in località Paline lo scorso 20 marzo. Gli investigatori sono risaliti all’identità della donna grazie a una serie di tatuaggi sul corpo, da cui è stato possibile dare un nome alla ragazza assassinata e sezionata, fatto per il quale c’è il fermo del suo presunto assassino, Davide Fontana, 43 anni, impiegato di banca, residente come lei nel Milanese, a Rescaldina, sottoposto a provvedimento di fermo di indiziato di delitto emesso dalla Procura della Repubblica di Brescia con l’accusa di omicidio volontario aggravato, distruzione e occultamento di cadavere. I due in passato avevano avuto una relazione sentimentale, ma dopo la rottura sarebbero rimasti in buoni rapporti. L’omicidio sarebbe stato commesso da Fontana a fine gennaio nella casa della donna, e il corpo sarebbe stato inizialmente congelato. L’uomo ha confessato ai carabinieri di aver ucciso Carol Maltesi «a colpi di martello durante un gioco erotico». Versione ancora da verificare.
La famiglia e il lavoro come commessa
Carol Maltesi, italo-olandese, era cresciuta sulle rive del Verbano dove aveva frequentato le scuole medie e superiori: aveva studiato alle ex Orsoline e per anni aveva praticato equitazione e danza. Aveva avuto un figlio giovanissima, all’età di 20 anni (il bimbo sta con il padre). Da Sesto Calende si era trasferita prima a Busto Arsizio e poi in provincia di Milano, a Rescaldina. Dopo la nascita del figlio, nel 2016, la donna aveva cominciato a lavorare come commessa al terminal 2 di Malpensa e fino all’estate 2021 era impiegata al centro commerciale di Rescaldina.
Gli amici a Sesto Calende
Oltre alle amiche dell’età adulta, e della sua «seconda vita», Carol aveva ancora diversi conoscenti e compagni di scuola a Sesto Calende, il paese dove ha vissuto a lungo coi genitori e dove ha frequentato elementari, medie e i primi due anni delle superiori, allo scientifico delle Orsoline; dopodiché ha frequentato il Linguistico a Busto Arsizio per un anno e successivamente il Tecnico «Olga Fiorini» sempre a Busto dove ha studiato «Sistema moda» e si è diplomata nel 2015 con 85/100. «Sì, studiava, era una ragazza per bene, intelligente e solare», ricordano i suoi professori. I compagni di classe di Sesto Calende la piangono sulle bacheche di Facebook, profili quasi sempre privati che ricordano le passioni di Carol: i cavalli, la musica e gli amici.
Il lockdown e il debutto nell’hard
Sono state le difficoltà del Covid, ha raccontato Carol, ad avvicinarla nel periodo del lockdown al mondo dell’intrattenimento per adulti e del porno attraverso un profilo sul sito Onlyfans (con i primi video casalinghi) e, successivamente, come attrice hard sotto il nome di Charlotte Angie. Oltre al porno, Maltesi si esibiva anche dal vivo. Sul web si trovano molte locandine che la annunciano sul palco di locali a luci rosse in diverse città italiane. Al Luxy Club Milano avrebbe dovuto tenere uno show, per il «Luxy Erotik Festival 2» in programma da venerdì 11 a domenica 13 marzo. Ma Charlotte Angie non si era presentata. La sua storia era finita a gennaio.
Contro la violenza sulle donne
Nel novembre 2020 aveva realizzato un video postato su Instagram dove parlava di violenza sulle donne, «non solo vittime di violenza fisica, ma anche psicologica, spesso nei riguardi delle altre donne. Me ne sono accorta quando sono diventata mamma», diceva in quel video di due anni fa. Era la giornata mondiale contro la violenza di genere.
Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 30 marzo 2022.
Carol era diventata Charlotte durante il lockdown. Le amiche e colleghe che lavoravano con lei nella boutique «Parfois» prima allo scalo di Malpensa e al centro commerciale di Rescaldina, raccontano gli inizi, i primi timori e la svolta degli ultimi mesi quando aveva deciso di licenziarsi per seguire la sua nuova strada.
«Aveva paura che mostrarsi senza veli online potesse danneggiare il suo lavoro. E anche la nostra immagine», racconta Emanuela: «Era la sua vita privata, nessuno poteva e doveva giudicarla». Poi l'estate scorsa aveva deciso di scommettere tutto sul mondo dell'hard. Aveva iniziato a viaggiare, Belgio, Praga, poi le serate nei locali di lap dance.
Come il weekend del 13 marzo quando era attesa a Milano al Luxy club di corso Buenos Aires, dove però non s' è mai presentata.
Ha vissuto due vite molto diverse, Carol Maltesi. Ma senza mai nascondersi o nasconderle. «Non si vergognava, aveva scelto consapevolmente».
Studentessa, poi commessa, infine attrice hard. Alle vicine, nella piccola palazzina di ringhiera di via Barbara Melzi a Rescaldina, dove si era trasferita meno di un anno fa, raccontava di sogni da modella, ma non celava il suo presente.
Alle ex colleghe Emanuela e Cristina aveva raccontato di aver fatto quella scelta «per i guadagni, perché era un ambiente in cui si trovava bene e perché così poteva dare un futuro migliore a suo figlio».
Il bambino abitava con il suo primo compagno, a Verona, città dove anche lei aveva vissuto prima di tornare dalla madre, alle prese con problemi di salute (aveva chiesto i congedi previsti dalla legge 104) a Sesto Calende (Varese). Il padre vive in Olanda insieme al fratello che lavora come dj.
«Le sarebbe piaciuto a un certo punto trasferirsi ad Amsterdam, sognava di viaggiare, e con il suo nuovo lavoro in qualche modo lo stava realizzando», racconta la vicina Sara.
Vedeva il figlio ogni 15 giorni, i rapporti con l'ex compagno erano sereni. «Il piccolo giocava in cortile insieme a mio figlio. Carol era una ragazza gentile, sensibile. Era diventata mamma a vent' anni, forse per questo non era la classica mamma attenta e premurosa, ma era legatissima al figlio». A Natale aveva raccontato di voler portare il piccolo in vacanza a Disneyland, per festeggiare insieme.
Italo-olandese, era cresciuta sulle rive del lago Maggiore dove aveva studiato alle ex Orsoline, poi l'istituto tecnico «Olga Fiorini» a Busto Arsizio dove con la specializzazione in «Sistema moda» e il diplomata nel 2015 con 85/100. Per anni si era divisa tra equitazione e danza.
Nel 2016 il lavoro come commessa al terminal di Malpensa, poi un anno fa il passaggio «forzato» con il ricollocamento a Rescaldina dopo la chiusura per l'epidemia e il blocco dei voli, e la decisione («anche per sentirsi più libera, indipendente») di trasferirsi nella nuova casa.
Nei giorni del trasloco con lei c'era anche Davide Fontana, amico, per un certo periodo compagno. Complice in alcuni film hard pubblicati in Rete. S' era trasferito lì due mesi dopo.
Le vicine li ricordano, a volte anche senza vestiti, mentre correvano sul ballatoio per rientrare dopo una notte insieme a casa uno dell'altra. «Mai sentiti litigare, qui le pareti sono sottilissime.
Andavano d'accordo e uno aveva le chiavi di casa dell'altro. Davide usava la sua macchina». La Fiat 500 che ieri i carabinieri hanno portato via con il carro attrezzi. La stessa usata, secondo la confessione del 43enne, per abbandonare i resti nei boschi di Borno.
La Clio grigia di Fontana, invece, è in cortile con i sigilli. Anche i due appartamenti, agli opposti della palazzina a «elle» di via Melzi sono sotto sequestro. Nelle prossime ore inizierà il lavoro dei tecnici in cerca delle tracce del delitto.
Carol aveva iniziato nel lockdown con i primi filmati di nudo su Onlyfans. Così era nata Charlotte Angie. Era stato Fontana, appassionato di fotografia, ad aiutarla con le prime immagini e con il mondo del porno amatoriale.
Poi il grande salto nelle produzioni hard, le prime interviste, la partecipazione alla Zanzara di Radio24 come attrice emergente. «Poco dopo essersi trasferita aveva raccontato che le erano spariti dei soldi - racconta la ex collega Cristina -. Il solo ad avere le chiavi era Davide ma non ha mai dubitato di lui».
I sopralluoghi di Davide Fontana per occultare il corpo di Carol Maltesi: «Un weekend all’hotel con la spa». Mara Rodella su Il Corriere della Sera il 31 Marzo 2022.
Le tappe di Fontana per decidere dove gettare i resti della ragazza uccisa: a febbraio aveva trascorso un weekend in albergo a Darfo Boario Terme. In precedenza aveva prenotato su Airbnb una casa di montagna isolata e aveva provato a bruciare il corpo.
Ha confessato anche davanti al giudice: mezz’oretta scarsa, per ribadire, non senza fatica, di essersi tolto un peso, raccontando, finalmente, la verità. Per «uscire da un incubo durato due mesi». Quelli in cui, dal 10 o 11 gennaio, «non ricordo con precisione» e fino al 20 marzo, quando li ha gettati in una scarpata a Paline di Borno in Valcamonica, Davide Fontana, impiegato bancario e food blogger di 43 anni, ha tenuto nascosti i resti del corpo di Carol Maltesi, 26 anni, pornostar del web nota come Charlotte Angie. Nel pomeriggio il gip di Brescia Angela Corvi ha convalidato il fermo e disposto la custodia cautelare in carcere alla luce dei «gravi indizi di colpevolezza».
La confessione di Davide Fontana
Anche davanti a lei, Fontana si è rifatto alle dichiarazioni rese al pm in caserma la notte tra lunedì e martedì, quando è crollato confessando l’omicidio: commesso a colpi di martello (e coltellate post mortem) mentre «giravamo il secondo di due video hard in casa sua, il più violento». E i passaggi propedeutici all’occultamento dei resti, conservati nel freezer a pozzetto «ordinato su Amazon». Come la trasferta da Rescaldina fino alla Valcamonica, in albergo, «per un sopralluogo. Ho passato il fine settimana in hotel a Boario Terme, c’era la spa. In quell’occasione sono salito a Borno passando da Malegno e sono andato fino a Paline. Lungo la strada, ho verificato la presenza di più punti utili per disfarmi del cadavere».
A Darfo Boario Terme
Fa confusione sul nome della struttura ricettiva, anche del periodo preciso in cui ci avrebbe soggiornato, in prima battuta: è di fronte alle contestazioni degli investigatori, che ricorda con precisione. Gli mostrano prima le foto estrapolate da Google, poi l’analisi dei tabulati telefonici del suo smartphone: agganciano le celle di Darfo Boario Terme dalle 10.01 del 19 febbraio alle 8.40 del 20 febbraio scorso. «Confermo che, in effetti, quel weekend mi sono recato a Boario e ho fatto un sopralluogo, in particolare il sabato verso le 11.30-12 del mattino». Lì, a Borno, «mi recavo da adolescente ogni estate: conosco Paline perché capitava di passarci quando ci andavo in vacanza».
L'Airbnb a Cittiglio
Un sopralluogo precedente, invece, l’aveva fatto in una frazione di Cittiglio, Varese, i giorni successivi al delitto, quando il piano per la distruzione del corpo era un altro. «Ho prenotato una casa singola, isolata, in montagna, su Airbnb. La prima volta mi ci sono recato alla guida della Fiat 500 (della vittima, ndr) e ho pernottato due giorni per rendermi conto della logistica». Poi ha prenotato ancora «e ho portato i sacchi con i resti. Ho provato ad appiccare il fuoco nella zona barbecue, con alcol e benzina, ma mi sono reso conto che non era fattibile». E li ha riportati, nel freezer, a casa di Carol. «È una persona frastornata, che non ha ancora dormito e sta realizzando il futuro che lo aspetta», ha detto il suo avvocato Stefano Paloschi dopo l’interrogatorio.
Il papà di Carol Maltesi: «Davide Fontana diabolico, mi ha mandato gli auguri al posto di mia figlia». Laura Tedesco su Il Corriere della Sera il 31 Marzo 2022.
Fabio Maltesi è sconvolto: «Credevo che lei stesse bene invece l’aveva già ammazzata, in questi mesi c’è stato uno scambio di messaggi, anche per il mio compleanno». Il padre di Carol Maltesi sta tornando dall’Olanda per i funerali.
«È un mostro, quell’uomo è un mostro ... In queste settimane io scrivevo a mia figlia e lui mi rispondeva facendo finta di essere la mia Carol. Credevo che lei stesse bene invece l’aveva già ammazzata, ci siamo mandati messaggi anche per il mio compleanno , ma ora ho scoperto che era lui a farmi gli auguri, non mia figlia... Sono sconvolto, ditemi solo che non è vero». Fabio Maltesi ha «il cuore distrutto dal dolore, non riesco a parlare». È il padre di Carol Maltesi, uccisa dal vicino di casa reo confesso, Davide Fontana, a Rescaldina (il cadavere, a pezzi, è stato poi gettato tra i boschi della Valcamonica). Papà Maltesi ha 58 anni e dopo la fine del matrimonio con l’ex moglie italiana rimasta a vivere a Sesto Calende, risiede ad Amsterdam. Parla al telefono con la voce rotta dalle lacrime: «Non posso non piangere, non sono riuscito a chiudere occhio, vorrei solo che non fosse vero».
È un momento tremendo, signor Maltesi.
«L’avvocato mi ha detto di non rilasciare interviste, ma io non parlo delle indagini, voglio solo che tutti sappiano che Carol era una creatura splendida, una figlia affettuosa, una mamma che adorava suo figlio, era piena di voglia di vivere. Non era una pornostar come sto leggendo, lei era un angelo».
È morta in modo crudele, il suo assassino ha confessato particolari raccapriccianti.
«L’ha uccisa come una bestia, nessuno merita di soffrire così, mia figlia ha fatto una fine terribile, ho sentito delle cose tremende su come l’ha ammazzata, è stato diabolico. Non riesco a crederci, mia figlia era bellissima, lei era la mia dolcissima Carol».
Verrà in Italia?
«Mi sto organizzando per la partenza, non potrei mai restare qui, voglio sapere com’è morta mia figlia. Non potrei mai lasciare sola la mia ex moglie, sta vivendo come me un dolore insopportabile, non sta bene e devo starle accanto. E poi devo vedere il mio nipotino che sta a Verona, il figlioletto di Carol è tutto ciò che mi rimane di lei».
Da quanto tempo non la sentiva?
«Ecco, io in verità credevo di sentirla sempre, perché in tutto questo tempo le ho scritto su Whatsapp. Anzi, in realtà io la chiamavo, ma trovavo spento, allora le scrivevo e lei mi rispondeva. Almeno, credevo fosse lei ma ora ho scoperto che era il suo assassino... pazzesco, è una cosa incredibile ciò che ha fatto quell’uomo».
Quindi lei era convinto che sua figlia stesse bene mentre era già morta?
«Certamente, dicono che l’ha uccisa a gennaio, ma io anche dopo ho continuato a scriverle, ci siamo sentiti per il compleanno, o meglio io avrei voluto sentirla perché gli auguri ce li facevamo sempre a voce, ma ho trovato spento così ci siamo scritti, o meglio mi sono scritto con il suo assassino».
Nulla l’aveva mai insospettita?
«A dire il vero qualcosa di strano c’era... Prima di tutto, nelle ultime settimane lei non mi rispondeva mai subito, ma mi scriveva solo dopo uno-due giorni. E poi, mi ero accorto che spesso mi mandava dei messaggi copia-incolla con i precedenti e questo non era da lei. Allora le ho chiesto il perché e lei, anzi il suo assassino, mi ha risposto di essere a Dubai. Invece era già in cielo».
Davide Fontana: «Carol Maltesi voleva trasferirsi vicino a suo figlio, così ho deciso di ucciderla». Mara Rodella su Il Corriere della Sera l'1 Aprile 2022.
I pm scrivono che Davide Fontana, che ha lasciato la moglie per Carol Maltesi, «le ha barbaramente tolto la vita approfittando della incondizionata fiducia che la giovane riponeva in lui». La confessione dell’assassino: «Non potevo accettare l’idea di vivere senza di lei».
O con lui, o con nessuno. A tratteggiare «un evidente movente passionale» per l’atroce delitto della sua ex, amica e vicina di casa Carol Maltesi, 26 anni — fatta a pezzi, sfigurata e conservata in freezer per due mesi nel suo appartamento di Rescaldina (Milano) prima di gettarne i resti in un dirupo della Valcamonica — è stato lo stesso Davide Fontana , bancario e food blogger di 43 anni. Lo ha fatto davanti al gip di Brescia, Angela Corvi, che ne ha convalidato il fermo per omicidio volontario aggravato . «Tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022 Carol mi disse che intendeva trasferirsi fra il Veronese, dove vive il figlioletto, e Praga». Una notizia, scrive il giudice, che per lui era stata «un shock». Perché «non potevo accettare di vivere senza di lei, lei che per me era tutto», ha ammesso Fontana dopo aver confermato la «dettagliata» confessione resa al pm e ai carabinieri.
Quello scatto della gamba
Ecco perché, «mentre stavamo girando il video hard — le cui modalità erano state concordate, compreso lo scotch sulla bocca di lei — nel momento in cui mi sono trovato il martello in mano, ho pensato che l’avrei persa». L’ha colpita al capo «e quando ho sollevato il cappuccio, ho notato uno scatto della gamba, quindi per evitare di farla soffrire le ho tagliato la gola con un coltello da cucina». Stando al medico legale Carol era verosimilmente ancora viva, pur in agonia.
«Non ero geloso di lei»
Dalla moglie, Davide Fontana si era separato per stare con Carol, nel marzo 2021. La loro relazione stabile durò circa un mese. Non gli importava se frequentava altri: «A me bastava solo lei, non ero geloso». Il 28 marzo è andato in caserma a Rescaldina, per denunciare la scomparsa di Carol: «Non ce la facevo più. Volevo rivelare che la donna trovata a Borno il 20 era lei. Tornato a casa, la mia intenzione era di suicidarmi». Invece è crollato in serata, sotto il peso delle sue contraddizioni.
L’uso del cellulare di lei
«Pur acconsentendo che Carol Maltesi, di cui si è rappresentato follemente innamorato, intrattenesse relazioni anche con altri uomini — scrive il gip — Fontana non poteva assolutamente accettare che se ne andasse lontano, abbandonandolo. E così le ha barbaramente tolto la vita, approfittando della incondizionata fiducia che la giovane riponeva in lui, tanto da farsi legare, imbavagliare e incappucciare, rendendosi inerme nelle sue mani». E nonostante la confessione vada vagliata, non è priva di riscontri: l’analisi dei tabulati conferma gli spostamenti di Fontana per i sopralluoghi propedeutici all’abbandono dei resti, o il fatto che da gennaio a marzo abbia usato il cellulare della vittima per rispondere sui social o via chat, oltre che per pagarle affitto e bollette: «Ho finto di essere lei».
La strategia di depistaggio
«Per oltre due mesi — scrive il gip — escogitava, preparava e attuava una complessa strategia per occultare l’orrendo delitto commesso, compiendo ogni azione possibile per simulare l’esistenza di Carol in vita». Dopo averla uccisa, «per evitare seguisse il suo destino e i suoi progetti lontana da lui». Macroscopico, per il giudice, il rischio di recidiva: la gravità dei fatti ne denota «indomita ferocia ed estrema pericolosità», oltre alla «totale mancanza di umana compassione o scrupolo morale». Al punto che, dopo l’omicidio, durante la trasferta in una villa di Vararo (nel tentativo fallito di bruciare i resti del corpo), ha trovato il tempo di recensire, in Rete, l’abitazione: «Un luogo magico per trascorrere il tempo in totale relax».
Da corriere.it il 31 marzo 2022.
Un uomo spietato, feroce. Privo di compassione. Che ha commesso un delitto barbaro e pianificato ogni mossa successiva per evitare di venire scoperto. Non un gioco erotico finito male: una lucida strategia assassina. Davide Fontana ha ammazzato Carol Maltesi «poiché non poteva accettare di vivere senza la ragazza».
Tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, scrive il gip di Brescia Angela Corvi nell’ordinanza di convalida del fermo, la 26enne «gli aveva comunicato che intendeva lasciare Rescaldina e trasferirsi fra il Veronese, dove risiedeva il figlioletto, e Praga».
Quell’informazione era stata «un vero e proprio shock» per lui. Il 43enne ha ucciso perché non voleva vedere Carol allontanarsi e deve restare in carcere per il «macroscopico pericolo di recidiva»: potrebbe scappare, inquinare le prove o colpire ancora. È accusato di omicidio volontario aggravato. Il gip smonta tutte le bugie del bancario di Rescaldina.
La convalida del fermo
Il bancario è reo confesso, il delitto è stato commesso tra il 10 e l’11 di gennaio. «Pure acconsentendo a che Maltesi, di cui si è rappresentato follemente innamorato, intrattenesse relazioni anche con uomini diversi — spiega il gip —, non poteva assolutamente accettare che se ne andasse lontano, abbandonandolo; e così, le toglieva barbaramente la vita, durante un gioco erotico che avevano concordato, approfittando della evidentemente incondizionata fiducia che la giovane riponeva in lui tanto da farsi legare, imbavagliare e incappucciare, rendendosi inerme nelle sue mani».
Fontana ha reso agli inquirenti una confessione piena, «rivelando altresì il movente, di evidente natura passionale». Fontana, aggiunge il gip Corvi, ha ucciso «una giovanissima donna, madre di un bimbo ancora in tenera età, “colpevole” soltanto di volere seguire i propri progetti e aspirazioni lontano» da lui».
La dinamica omicida
Dopo aver ucciso Carol, Fontana ha vissuto accanto al cadavere per 69 giorni. Ha cercato di disfarsene in più riprese, ha tentato di bruciarlo, ha smembrato il corpo e ne ha conservato i resti in un congelatore.
Fontana ha descritto ai magistrati «una folle dinamica omicida» (le martellate, la coltellata alla gola, il cadavere sezionato), ha escogitato, preparato e attuato «una complessa strategia per occultare l’orrendo delitto commesso», ha comprato la sega e il freezer a pozzetto per conservare i resti «senza destare sospetti», ha affittato una casa su Airbnb per «far sparire le tracce» nel Varesotto, ha effettuato sopralluoghi nelle zone scelte per liberarsi del cadavere, si è «sostituito» alla ragazza rispondendo ai messaggi sul cellulare (quando ha fatto gli auguri di compleanno al padre, ad esempio), si è finto Carol per settimane simulando «la sua esistenza in vita».
Ha pagato anche le bollette di casa della ragazza, il bancario Fontana. Ha dimostrato «una totale mancanza di ogni senso di umana compassione» e l’assenza di «ogni scrupolo morale». Il gip cita ad esempio la recensione online lasciata dopo il soggiorno nel Varesotto, dove il 43enne ha provato a disfarsi del corpo bruciandolo nel barbecue: «Un luogo magico immerso nella natura per trascorrere del tempo in totale relax», una casa isolata, appartata, «piena di dettagli di ottimo gusto per vivere un soggiorno di qualità». Fontana aveva raggiunto Vararo sulla Fiat 500 della ragazza, il corpo raccolto nei sacchi neri dell’immondizia.
Il rischio di fuga
Le azioni di Fontana, scrive il gip, mostrano in maniera lampante «la ferma, pervicace, inamovibile volontà» di evitare le conseguenze delle sue azioni e certificano un «evidente rischio di fuga». Deve stare in carcere perché potrebbe darsi alla macchia di fronte a un reato punibile con l’ergastolo. Deve stare in carcere perché potrebbe uccidere ancora.
Dal Daily Mail il 31 marzo 2022.
Davide Fontana, il bancario e food blogger di 43 anni che ha confessato di aver ucciso Carol Maltesi a martellate nel corso di un video, ha raccontato agli agenti che «dovevamo fare due film, il secondo doveva essere più violento. Era la mattina del 10 o 11 gennaio ed eravamo a casa sua».
Carol Maltesi, pornostar nota come Charlotte Angie, 26 anni, viveva accanto a lui a Rescaldina. Continua Fontana: «Abbiamo finito il primo film e poi siamo andati in camera da letto dove c'è un palo per la lap dance. Le ho legato i polsi al palo e le ho messo un sacchetto di plastica sulla testa».
«Era completamente nuda e le ho legato anche i piedi. Avevo un martello e ho iniziato a colpirla sul corpo, non forte, cominciando dalle gambe. Poi, mentre mi facevo strada verso l'alto, ho iniziato a colpire più forte fino a quando non sono arrivato alla sua testa».
«Non so perché l'ho fatto, non so davvero cosa sia successo. Lei muoveva ancora la testa ma io continuavo a picchiarla. Poi all'improvviso ho capito cosa stavo facendo. Le ho tolto il sacco dalla testa, ho pensato che fosse morta, c'era molto sangue ed era gravemente ferita».
«Non sapevo cosa fare, così ho preso un coltello da cucina e le ho tagliato la gola. È stato un atto di gentilezza; vedevo che stava soffrendo».
Fontana ha detto ai poliziotti di aver cancellato i video dal suo telefono, ma gli esperti forensi stanno esaminando la sua scheda di memoria per cercare di recuperare le immagini raccapriccianti.
Carol, che in precedenza aveva lavorato in una profumeria, si era rivolta alla pornografia durante il lockdown per sbarcare il lunario e sostenere il suo bambino di sei anni.
I colleghi hanno detto ai media locali: «Sapevamo cosa faceva, ma non si vergognava. Aveva preso una decisione e non era stata costretta. Era la sua vita privata». Un vicino ha detto: «Lei e Davide sono stati un po' insieme, ma poi si sono lasciati. Sembravano andare d'accordo dopo».
«Si era separata dal padre di suo figlio, lui viveva altrove e aveva un figlio, ma il piccolo veniva e restava ogni tanto. Mio figlio e lui giocavano insieme in cortile. Nessuno può credere a quello che è successo».
«So che aveva una famiglia in Olanda perché me l'aveva detto ed era andata lì per Natale. Aveva anche parlato di trasferirsi lì, ma non ne era venuto fuori nulla. Era una donna adorabile, gentile, gentile e una madre devota».
Fontana è attualmente in custodia e dovrebbe comparire davanti a un gip accusato di omicidio aggravato, mutilazione e occultamento di cadavere. Un portavoce della polizia ha detto: «Questo è un caso scioccante e alcuni degli stessi agenti sono rimasti molto sconvolti dai dettagli che hanno sentito».
Massimo Pisa per “la Repubblica” il 31 marzo 2022.
Mamma Lilli, già minata dalla sla, ha saputo in casa, a Sesto Calende. Travolta dalla morte della figlia Carol Maltesi, turbata dal suo passato: «È una donna distrutta - racconta l'avvocato Manuela Scalia, che difende la famiglia della ragazza uccisa e fatta a pezzi a Rescaldina - anche perché non sapeva dell'attività di lei, ed è molto cattolica.
Carol con la mamma era meravigliosa, l'assisteva, la portava a prendere il gelato, non si è mai vergognata della sua malattia». Papà Fabio, che gestisce un locale ad Amsterdam, sta lottando con la certificazione anti-Covid per rientrare in Italia. Alla notizia, ha urlato («Un sicario! Un mostro psicopatico! Ha distrutto anche la mia vita!») contro Davide Fontana, il carnefice reo confesso: «È un uomo trafitto al cuore - prosegue il legale - Carol era la sua principessa, era attaccatissima al padre.
Ma una cosa ci tengono a far sapere: la cercavano tutti i giorni, solo che da quel telefono arrivavano risposte rassicuranti: "Sono a Dubai, con le leggi di qui non posso parlare al cellulare ma state tranquilli. Non vi preoccupate. Sono felice, vengo a breve col bambino". Avevano un rapporto splendido col nipote. E anche con gli altri nonni».
Fontana è in isolamento a Brescia, sorvegliato a vista. Ha risposto per mezz' ora alle domande del gip Angela Corvi, che ne ha convalidato l'arresto e ha trasmesso gli atti a Busto Arsizio per competenza: «Ha precisato alcune circostanze e ha ribadito quanto aveva ammesso - spiega il suo difensore, Stefano Paloschi - e soltanto adesso sta realizzando la vita che lo attenderà.Ha confessato perché voleva uscire da un incubo».
Settanta giorni in cui il 43enne bancario, fotografo e attore hard ha fatto a pezzi il cadavere, gettato gli strumenti con cui aveva fatto scempio dell'ex fidanzata, escogitato modi diversi per nasconderne i resti, perfino gettato le chiavi dell'appartamento di Carol in un tombino. Per non parlare del presunto video con cui Fontana avrebbe ripreso il gioco erotico concordato - secondo la sua versione - alla fine del quale avrebbe ucciso la 26enne a martellate in testa e poi con una coltellata alla gola.
Soltanto la copia forense dello smartphone già sequestrato potrà rivelare tracce video del massacro. Davanti al magistrato, l'accusato non ha parlato di movente, ma più di un testimone ha raccontato ai carabinieri della compagnia di Breno di una crescente gelosia nei confronti dell'ex, dei suoi partner, della sua carriera nel porno. I colleghi della filiale Bpm dove lavorava Fontana evitano i cronisti.
Così come l'ex moglie Silvia, sotto shock da due giorni: proprio lunedì, mentre Davide Fontana crollava in Procura a Brescia, la donna era passata a ritirare gli ultimi effetti prima di abbandonare l'appartamento in periferia dove la coppia aveva convissuto dal 2004, fino a quando Fontana aveva allacciato una relazione con Carol Maltesi e si era trasferito a Rescaldina. «Veniva ancora qui a curare i gatti quando la signora non c'era - dice Gaspare il custode - sempre in giacca e cravatta col suo zainetto. Sembrava uno normale».
Mara Rodella per il “Corriere della Sera” il 31 marzo 2022.
Ha confessato anche davanti al giudice: mezz' oretta scarsa, per ribadire, non senza fatica, di essersi tolto un peso, raccontando, finalmente, la verità. Per «uscire da un incubo durato due mesi». Quelli in cui, dal 10 o 11 gennaio, «non ricordo con precisione» e fino al 20 marzo, quando li ha gettati in una scarpata a Paline di Borno in Valcamonica, Davide Fontana, impiegato bancario e food blogger di 43 anni, ha tenuto nascosti i resti del corpo di Carol Maltesi, 26 anni, pornostar nota come Charlotte Angie. Nel pomeriggio il gip di Brescia Angela Corvi ha convalidato il fermo e disposto la custodia cautelare in carcere alla luce dei «gravi indizi di colpevolezza».
Anche davanti a lei, Fontana si è rifatto alle dichiarazioni rese al pm in caserma la notte tra lunedì e martedì, quando è crollato confessando l'omicidio, commesso a colpi di martello mentre «giravamo il secondo di due video hard in casa sua, il più violento». E confessando ance quei passaggi propedeutici all'occultamento dei resti, poi conservati nel freezer a pozzetto «ordinato su Amazon».
Come la trasferta da Rescaldina fino alla Valcamonica, in albergo «per un sopralluogo.
Ho passato il fine settimana in hotel a Boario Terme, c'era la spa. In quell'occasione sono salito a Borno passando da Malegno e sono andato fino a Paline. Lungo la strada, ho verificato la presenza di più punti utili per disfarmi del cadavere». Fa confusione sul nome della struttura ricettiva, anche del periodo preciso in cui ci avrebbe soggiornato, in prima battuta: è di fronte alle contestazioni degli investigatori, che ricorda con precisione.
Gli mostrano prima le foto estrapolate da Google, poi l'analisi dei tabulati telefonici del suo smartphone: agganciano le celle di Darfo Boario Terme dalle 10.01 del 19 febbraio alle 8.40 del 20 febbraio scorso. «Confermo che, in effetti, quel weekend mi sono recato a Boario e ho fatto un sopralluogo, in particolare il sabato verso le 11.30-12 del mattino». Lì, a Borno, «mi recavo da adolescente ogni estate: conosco Paline perché capitava di passarci quando ci andavo in vacanza».
Un sopralluogo precedente, invece, l'aveva fatto in una frazione di Cittiglio, Varese, i giorni successivi al delitto, quando il piano per la distruzione del corpo era un altro. «Ho prenotato una casa singola, isolata, in montagna, su Airbnb. La prima volta mi ci sono recato alla guida della Fiat 500 (della vittima, ndr ) e ho pernottato due giorni per rendermi conto della logistica». Poi ha prenotato ancora «e ho portato i sacchi con i resti. Ho provato ad appiccare il fuoco nella zona barbecue, con alcol e benzina, ma mi sono reso conto che non era fattibile». E li ha riportati nel freezer, a casa di Carol. «È una persona frastornata, che non ha ancora dormito e sta realizzando il futuro che lo aspetta», ha detto il suo avvocato Stefano Paloschi dopo l'interrogatorio.
Carol Maltesi, i messaggi del killer dal telefono della vittima: «Ho trovato casa a Verona e mi godo mio figlio». La preoccupazione di nonna Lilli: «Come dirò al nipotino che la mamma non tornerà?» Laura Tedesco su Il Corriere della Sera il 2 Aprile 2022.
«Ehi ciao, sì ho trovato diverse case a Verona, adesso sono in pausa, mi sto godendo mio figlio». Due frasi stringate ma rassicuranti, che terminano con uno «smile», una faccina che ride. Eccolo, uno dei messaggi della «chat dell’orrore»: è il 31 gennaio quando vengono inviate queste parole dalcellulare di Carol Maltesi-Charlotte Angie. Lei, in quel momento, era già morta,crudelmente assassinata - senza che nessuno lo sapesse tranne il killer- una ventina di giorni prima. Il destinatario che riceve quel messaggio è Eddy Santangelo, amico della 26enne italo-olandese atrocemente uccisa tra il 10 e l’11 gennaio scorsi a Rescaldina, nel Legnanese vicino a Milano, e poi tenuta nascosta per quasi tre mesi in un congelatore «appositamente acquistato su Amazon» dal vicino di casa-killer. Davide Fontana l’ha massacrata a coltellate, sgozzata, fatta a pezzi gettandone infine i resti il 20 marzo in un dirupo a Borno, in provincia di Brescia.
I messaggi finti
In tutte queste settimane, dopo aver ucciso Carol e prima di essere arrestato martedì, l’omicida si è finto la vittima, «messaggiando», chattando, rispondendo a tutti coloro - genitori, amici, amiche, l’ex compagno veronese, colleghi di lavoro - che inutilmente cercavano di parlarle al telefono. Fontana teneva il cellulare di Carol-Charlotte spento, ma lo riaccendeva con regolarità per non destare sospetti e, spacciandosi per la 26enne, inviava brevi risposte scritte a tutti. A molti ha detto di essere «a Dubai, sono felice, presto torno, ora non posso parlare», mentre a Eddy l’assassino ha mentito raccontandogli di essere «in pausa, mi sto godendo mio figlio».
L’ultimo show e il silenzio
Santangelo è un noto dj e direttore artistico del locale Showgirl di Bolzano e ha incontrato la vittima un paio di giorni prima del delitto-choc: «Il 7 e l’8 gennaio Carol si è esibita nel locale - ricorda il dj -. C’era anche Fontana con lei: l’ha accompagnata al locale, ma non è entrato. Poi è tornato quando è finito lo show per scortarla in albergo». Eddy la descrive come serena: «Carol dopo lo show mi ha parlato del figlio e del suo desiderio di trasferirsi in Veneto per avvicinarsi a lui: così mi sono offerto di darle una mano per trovare una nuova casa nel Veronese». Poi però è sparita dai social e dalle piattaforme dove postava i video: il silenzio si è protratto per diversi giorni, «questo non era da lei», così Eddy ha deciso di scriverle.
L’assassinio
È il 29 gennaio: «Non ti vedo più operativa sui social e mi sono preoccupato». Due giorni dopo, il 31 gennaio, la risposta: «Sono in pausa, mi sto godendo mio figlio». Ma lei, Carol, era già stata ferocemente uccisa: non è stato un delitto d’impeto, non si è trattato di un raptus, l’insospettabile bancario-blogger 43enne l’ha «deliberatamente» ammazzata con un «preciso movente passionale - scrive il gip nell’ordinanza-, Fontana era sotto choc, non accettava l’allontanamento dalla vittima che gli aveva annunciato pochi giorni prima, tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, di voler lasciare Rescaldina (dove si era momentaneamente trasferita per aiutare la madre Lilli che sta a Sesto Calende, nel Varesotto, ed è malata di Sla, ndr). Carol stava infatti per tornare a Verona, dove vive il figlio» di sei anni.
Il dolore della mamma
Ed è proprio al nipotino che vanno i pensieri della madre della vittima, la signora Lilli, devastata dal dolore: «Carol lavorava per poter stare vicino a suo figlio. Le interessava fare solo la mamma. Come si può raccontare al mio nipotino che la mamma non c’è più, come potrò dire al bambino che lei non tornerà? A lui manca tantissimo la sua mamma, la cerca, chiede di lei....Cosa gli diremo?». Parlando dell’assassino, la signora Lilli è angosciata: «Perché ha fatto male a mia figlia, perché?... Voglio ricordare Carol per quello che era, una cosa bella. Mi manca la risata, gli abbracci, i baci. Quando mi sono ammalata è stata sempre attenta a me. Ha sempre fatto tutto per proteggermi».
Da “la Zanzara - Radio 24” del 6 dicembre 2021 il 29 marzo 2022.
Charlotte Angie ha 26 anni, è italo-olandese ed è passata dal mestiere di commessa a quello di pornoattrice. Lei fa delle scene molto estreme, anche nel privato è abituata a fare gangbang o cose simili?: “No, no. Anzi. Nel privato queste cose non le ho ancora mai fatte nel mio privato. Solo sul set, in scena”.
Ma come si fa a passare da un giorno all’altro da un mestiere cosiddetto normale al mondo del porno, che Parenzo giudica repellente e schifoso? La motivazione è solo i soldi, il denaro?: “Allora, da italo-olandese sono cresciuta con una mentalità molto aperta sul sesso. E poi ho sempre guardato il porno. A un certo punto mi sono detta: mi piacerebbe essere dall’altra parte, essere l’attrice, provare quella situazione che nel privato non poteva capitarmi.
Ovvio che poi a livello economico mi convine di più rispetto a fare la commessa. Dunque ho conciliato le due cose: fare una cosa che mi piaceva e nello stesso tempo guadagnare di più”.
Ma perché iniziare con scene molto estreme, tipo andare con cinquanta uomini o altre cose di questo tipo?: “L’estremo è molto seguito nel mercato del porno, è inutile negarlo. All’inizio avevo, però, avevo paura di affrontare cose mai provate. Ma volevo entrare in questo mondo, le ho provate, mi sono trovata a mio agio, e poi lavoro con professionisti veri”. Lei ha un sogno, qualcosa che vuole provare in questo mestiere?: “Non mi pongo particolari limiti, sono aperta a ogni esperienza”.
Niccolò Fantini per mowmag.com il 29 marzo 2022.
Carol Maltesi (nota nell'hard come Charlotte Angie), 26 anni, madre di un bambino di sei), è stata uccisa e fatta a pezzi dal vicino di casa, reo confesso. Lui, il bancario-fotografo Davide Fontana, ha detto ai carabinieri che nessuno dopo la sua scomparsa l’aveva cercata, ma la collega attrice porno Sabrina Ice, che abbiamo intervistato, lo smentisce: “Lo conosco bene. Avevano una storia. Cercavo dove poterla contattare e lui mi diceva che aveva smesso. Spesso rispondeva lui, anche sugli account per lei. Non mi sembra possibile che sia stato lui. Voleva farmi della foto e ci stavamo organizzando. Ora questa cosa mi fa tremare”. E sul porno: “Lei ha cominciato con me nel 2021 e poi ha iniziato ad andare a girare scene sui set di Praga. Abbiamo girato la nostra prima scena in Italia con Max Felicitas: non è ancora uscita ed è il vero debutto di Charlotte”.
Si chiamava Carol Maltesi, aveva 26 anni ed era una italo-olandese mamma di un bambino di sei anni. Nell'ultimo biennio era alla ricerca di "un nuovo inizio": dalla provincia di Varese, tra Busto Arsizio, Rescaldina e Sesto Calende, dove aveva studiato nell'istituto delle ex orsoline e dopo aver lavorato come commessa per alcuni anni in una profumeria di Milano, aveva cominciato a girare film sui set a luci rosse nell'Est Europa, nel ruolo di attrice hard e col nome d'arte di Charlotte Angie.
Lei è la povera ragazza, fatta a pezzi e gettata in sacchi del pattume, ritrovata domenica 20 marzo in fondo a un dirupo nei pressi di Borno, in provincia di Brescia. Il sito di informazione BSNews ha svolto un'inchiesta giornalistica che ha contribuito alle indagini con elementi cruciali per identificare la vittima, attraverso il riconoscimento dei tanti tatuaggi sul corpo dell'attrice per adulti.
E soprattutto per l'agire del colpevole assassino: il vicino di casa e bancario di Milano, Davide Fontana. Gli inquirenti sono infatti riusciti a risolvere l'ennesimo omicidio efferato ai danni di una giovane donna e senza alcuna forma di rispetto umano e post mortem, come nel precedente caso dell'omicidio della giovane Pamela Mastropietro.
A ucciderla è stato infatti un suo amico e vicino di casa, con cui pareva essere in buoni rapporti dopo una relazione sentimentale: il 43enne milanese Davide Fontana, di professione bancario e per “hobby” anche fotografo di giovani e promettenti attrici hard nel mondo del Porno.
L'uomo lombardo si è presentato ieri sera in caserma, assicurando di voler fornire elementi utili allo sviluppo delle indagini, ma con un racconto zeppo di contraddizioni è stato messo alle strette dagli investigatori ed è crollato, confessando l'efferato delitto. La giovane Carol e il suo assassino Davide avevano avuto una relazione, ma dopo la rottura erano rimasti amici continuando a frequentarsi, come dichiarato dal reo confesso agli inquirenti e come è stato confermato a MOW da alcune attrici e performer che conoscevano la giovane originaria di Varese.
L'omicidio risale allo scorso gennaio, secondo quanto ha dichiarato il 43enne che utilizzava spesso l'auto della vittima, che è stata anche immortalata dalle telecamere di sorveglianza nel comune di Borno la domenica del ritrovamento del cadavere di Charlotte Angie. L'omicida ha conservato il cadavere della donna in un congelatore nella casa della sua stessa vittima, poi dopo averlo sezionato a pezzi, lo ha inserito in 4 sacchi neri della spazzatura e li ha scaraventati nel dirupo che conosceva in montagna per pregresse vacanze.
Inoltre Davide Fontana ha usato per molti mesi il telefono della vittima, scrivendo lo scorso sabato ai colleghi di Brescia: “Non ho tempo adesso per i giornalisti e per spiegare perché ho lasciato il porno” e aggiungendo: "ah ho, capito mi hanno già detto diverse persone di quella ragazza. Io sto bene fortunatamente" in risposta alle domande circa gli identici tatuaggi.
Nelle 3 ore di domande dei carabinieri l'assassino ha raccontato che nessuno in questi mesi ha cercato Charlotte Angie: “Solo la mamma con alcuni messaggi whatsapp e l'ex compagno sempre con messaggi. Al telefono nessuno” , un'informazione infondata, almeno dai riscontri che ha ricevuto MOW per tutta la mattinata di oggi: il 43enne impiegato di banca, rispondeva in sostituzione di persona ai messaggi ricevuti o alle telefonate dirette sul proprio personale numero di telefono. Menzogne a parte, Davide Fontana ha confessato l'omicidio, la distruzione del cadavere e l'occultamento, dopo essersi presentato spontaneamente in caserma per denunciare la scomparsa della giovane attrice hard 26enne.
Come lei stessa aveva dichiarato a Giuseppe Cruciani de La Zanzara, che ben conosce le attrici hard italiane che vanno lavorare sui set per adulti in Repubblica Ceca, lo scorso 6 dicembre: Charlotte Angie aveva da poco iniziato a lavorare nel settore dell'intrattenimento per adulti, con un proprio canale su Onlyfans ed era stata a Praga per girare scene hardcore per alcune note produzioni del cinema per adulti: già vantava parecchi video e riprese davvero molto estreme. Sia gangbang, che bukkake e altre performance hard e pratiche sessuali che certamente non sono una competenza di tutte le donne di questo Pianeta, ma sono invece molto richieste dal settore dell'intrattenimento per adulti e vengono ben remunerate in termini economici per le attrici che le interpretano durante le riprese.
MOW da stamattina è impegnato in scambi di informazioni e opinioni con alcuni noti nomi mondiali del cinema a luci rosse. Il leggendario attore, regista e produttore del cinema internazionale per adulti Rocco Siffredi non conosceva personalmente l'attrice italo-olandese, ma ci ha raccontato che di recente era stata anche a Budapest, un'altra importante capitale mondiale dell'intrattenimento per adulti, nonché ci ha mostrato una chat privata con un'altra famosa personalità del settore a luci rosse: Ester Brillabes, titolare dell'agenzia di modelle erotiche brillbabes.com, che aveva avuto solo alcuni primi contatti con Carol Maltesi, come il canonico scambio di fotografie professionali, dove la giovane attrice hard italo-olandese è ritratta sui set cinematografici dei video interpretati.
Abbiamo quindi contattato un'altra attrice per adulti, già conosciuta dai lettori del nostro giornale: Sabrina Ice, ex hostess di una nota compagnia aerea fallita di recente, nonché amica personale di Charlotte Angie, al secolo Carol Maltesi.
Sabrina, spiace sentirsi in occasioni così drammatiche come un macabro omicidio di una collega: quando l'ha sentita l'ultima volta?
"Sono sconvolta perché la settimana scorsa, pochi giorni fa, ho sentito lui: Davide, che mi ha raccontato che lei era andata via e lui credeva fosse a Padova. Non l'ho sentita direttamente da quando era tornata da Praga, circa dicembre. Lei si voleva ritirare, ma è tutto quello che mi ha detto lui: con lei non ho parlato dopo Praga.
Con lui ho invece parlato spesso, perché mi doveva fare anche delle foto. Oddio, ho i messaggi con lui: gli avevo chiesto come contattarla e lui mi ha detto che non aveva il suo nuovo numero. Voleva farmi delle fotografie e ci stavamo appunto organizzando. Oddio che cosa davvero tremenda: è stato lui, ma davvero, non mi sembra possibile?!?"
Sì, ha confessato ieri in caserma dai Carabinieri a Brescia. Lo hanno arrestato. Ma Davide Fontana è un bancario o è un fotografo?
"No, non so che lavoro fa in realtà. Lui è il suo vicino, con cui aveva avuto una storia, ma mesi fa, agli inizi. Erano amici, lui le faceva le foto, ma così per passione, non lo fa di lavoro tutti i giorni. Le voleva fare anche a me, per questo ci eravamo sentiti! Lui voleva organizzare queste foto con me: ci siamo sentiti apposta in questi giorni e ha ripetuto che lei aveva smesso ed era andata via. Ma quindi è stato lui: sono sconvolta! Lo conosco molto bene, l'ho sentito appena pochi giorni fa, mi fa tremare questa cosa".
Ma era il suo ex?
"No, lei ha avuto il figlio anni fa ma con un altro uomo. Lui era il suo vicino di casa. Avevano una storia, ma un po’ di mesi fa, all'inizio quando lei ha cominciato a conoscere l'ambiente del porno, lui non so cosa faceva di mestiere, ma agli inizi la aiutava e le faceva le foto, la accompagnava in giro, cose così. Si frequentavano perché erano in buoni rapporti: erano amici".
Voi due, come altre attrici hard italiane che lavorano sui set per adulti a Praga, avete praticamente cominciato insieme, nello stesso biennio, giusto?
"Lei ha iniziato con me: nel 2021. Dopo la mia operazione al seno, per cui credo intorno a giugno 2021. Noi due abbiamo girato una nostra prima scena, ma in Italia e con Max Felicitas, che non è ancora uscita. In questa scena siamo noi 3, ma non si è mai vista ed è il vero debutto di Charlotte, ma nessuno l'ha vista perché ancora non è stata rilasciata. L'abbiamo girata tanti mesi fa, dopo la scorsa primavera".
E dopo che Carol era stata a lavorare a Praga non l'ha più sentita? Era scomparsa?
"No, quando è tornata non pensavo che fosse scomparsa. Ho sentito solo lui: cercavo dove poterla contattare e lui mi ha detto che aveva smesso. Spesso rispondeva lui, anche sugli account di lei, non è così infrequente. Pensavo che per lei fosse un cambio di vita, un colpo di testa, almeno lo pensavo fino ad ora: questo è quello che a me aveva sempre detto lui, ancora la scorsa settimana, che non sapeva come contattarla. E anche su Instagram aveva tolto alcune foto, come avevo visto. E io ho chiesto a lui dove fosse lei: mi ha detto che era tornata dal figlio, mi ha detto lui che era li. Il figlio vive a Padova con il padre, per questo non ci ho pensato molto sopra: è quello che mi ha detto lui al telefono e in chat la scorsa settimana".
Per cui non è vero, come ha dichiarato oggi il reo confesso, che nessuno la cercava?
"Mi pare evidente: è una menzogna".
Ma Carol aveva appena cominciato a fare l'attrice di film per adulti e già voleva smettere? Nell'intervista de La Zanzara dice tutt'altro, tu pensi sia vero?
"Lei ha cominciato con me nel 2021 e poi ha iniziato ad andare a girare scene sui set di Praga. Sapevo che lei era tornata da Praga, ma poi tra social e contatti pareva davvero che avesse smesso: ma ora si scopre che è stata uccisa tanto tempo fa ed è chiaro che è stato lui per cui non so cosa fosse vero. Lei pensava che nel porno si ottiene tutto e subito, ma tu lo sai che è difficile in questo settore: è un lavoro. Forse non era molto a suo agio ed era un po' turbata. Ma in realtà lei aveva lasciato il suo lavoro precedente e spesso il successo non arriva subito. Lei si era licenziata per iniziare la carriera nel porno".
Grazie per il tuo tempo e per le tue risposte, perdona l'invasione in un momento drammatico e concitato.
"Grazie a voi e sono sconvolta: che orribile fine. Lui l'ho sentito da pochi giorni. Che cosa orribile. Mi ha molto agitato la notizia".
Carol Maltesi uccisa e fatta a pezzi dal vicino Davide Fontana, le prove nei video: "Sono rimasto mezz'ora a guardarla". Massimo Pisa su La Repubblica il 30 Marzo 2022.
Davanti ai carabinieri il 43enne ha ripercorso il film dell'orrore dall'omicidio della ragazza, che con lui aveva iniziato a fare film hard, al giorno in cui si è sbarazzato dei resti gettandoli in un dirupo.
Rescaldina - "Ho legato la ragazza al palo con del nastro telato nero e con un sacchetto di plastica sulla testa". Come fosse un gioco. Concordato. Estremo. E filmato col telefono, come altre volte aveva fatto con Carol Maltesi, quando stavano insieme e poi sui set hard, dove lei era "Charlotte Angie". "Ho però provveduto a cancellare il video", spiega Davide Fontana, che con la lucidità di un Patrick Bateman - il protagonista di American Psycho di Bret Easton Ellis - ripercorre l'orrore: "Poi ho preso un martello e ho cominciato a colpirla".
La fanno a pezzi e la gettano nel dirupo: la lista dei tatuaggi per capire chi è. Francesca Bernasconi il 25 Marzo 2022 su Il Giornale.
La procura di Brescia ha diffuso l'elenco dei tatuaggi trovati sul corpo della donna fatta a pezzi e ritrovata in un dirupo in provincia di Brescia. La speranza è che qualcuno la riconosca e possa aiutare nell'identificazione.
Prima fatta a pezzi e poi gettata in un dirupo, raccogliendone i resti in diversi sacchi di plastica. È giallo sul corpo della donna ritrovato in località Paline del comune di Borno, in provincia di Brescia, al confine con Bergamo. Un corpo senza nome, almeno per il momento. L'identificazione, infatti, non è ancora stata possibile. Ma ora, i carabinieri si affidano ai tanti tatuaggi trovati sul corpo della donna e, per sperare che qualcuno li riconosca, la procura ne ha diffuso un elenco.
La lista dei tatuaggi
Altezza: 1 metro e 60. Peso: tra i 50 e i 55 chili. Capelli scuri e unghie di mani e piedi curate e colorate da uno smalto color violetto, con glitter argentato. Sul corpo, una decina di tatuaggi. Sono questi gli elementi restituiti dal medico legale, dopo l'esame sul corpo della donna, e diffusi dalla procura di Brescia, nel tentativo di dare un nome a quel corpo ritrovato avvolto in diversi sacchi della spazzatura.
La lista dei tatuaggi trovati sul corpo della donna comprende scritte in inglese, disegni e singole lettere. Sulla caviglia destra, aveva tatuata la frase "step by step", mentre sulla clavicola destra le si poteva leggere "wanderlust" e sul lato destro della schiena "elegance is the". Sul gluteo destro è stato trovato un disegno "maculato", mentre sul gomito sinistro, il medico legale ha potuto identificare una porzione di disegno e la frase "be brave", e sul polso destro la scritta "fly". Gli ultimi tre tatuaggi individuati sono stati localizzati sulla coscia destra, dove è presente uns "V" rovesciata, sulla coscia sinistra, dove sono state disegnate due "V" rovesciate ("VV") e sul dorso della mano sinistra, che presenta la scritta "te". Sul corpo e sulle mani, la donna aveva traccia di altri tatuaggi: in particolare ne sono stati individuati alcuni sulle dita della mano destra. Stando a quanto riporta Ansa, i professionisti del settore hanno riconosciuto i tatuaggi come tipici delle giovani donne, tra i 25 e i 35 anni.
Gli investigatori hanno fatto sapere di aver diffuso queste informazioni affinché "possibili conoscenti della donna nonché i professionisti del settore (tatuatori ed estetiste) possano fornire informazioni utili all'identificazione". Per questo, chiunque riconosca la donna è invitato dalle forze dell'ordine a "contattare il numero 0364/322800 (Centrale Operativa del Comando Compagnia Carabinieri di Breno) oppure recarsi presso negli Uffici delle Forze dell'Ordine".
Il ritrovamento
Il corpo smembrato della donna era stato ritrovato lo scorso 21 marzo, in un dirupo lungo la strada di Borno, al confine tra Brescia e Bergamo, che collega la Valle Camonica alla Val di Scalve. A individuare i resti è stato un passante, che ha avvisato subito i carabinieri, intervenuti sul posto. La procura ha aperto un fascicolo per omicidio, per il momento a carico di ignoti.
Il primo passo delle indagini, come raccontava anche ilGiornale.it, è stato quello di passare al setaccio le denunce di scomparsa presentate nella zona, sia nella parte bresciana che bergamasca. Inoltre, i carabinieri stanno lavorando anche all'analisi delle celle telefoniche. Le denunce di scomparsa, però, per il momento non hanno dato l'effetto sperato.
Il cadavere, fanno sapere gli investigatori, come riporta Ansa, è in uno "stato di conservazione ritenuto buono", tanto che si ipotizza che il corpo sia stato congelato. Un congelamento che non sarebbe dovuto alle temperature e alle intemperie a cui è rimasto esposto, ma alla conservazione dei resti in un ambiente freddo. Non è detto che la vittima fosse residente nella zona: è possibile, infatti, che la donna abitasse altrove e che anche il delitto sia stato compiuto in un luogo distante da quello del ritrovamento.
Uccisa e fatta a pezzi, il vicino confessa tutto. "L'ho colpita alla testa". Antonio Borrelli il 30 Marzo 2022 su Il Giornale.
"Raptus dopo un gioco erotico". Il depistaggio via sms e il cadavere riposto in congelatore.
«Durante un gioco erotico l'ho colpita con un martello alla testa. Poi non ho più capito nulla». Con queste parole Davide Fontana, impiegato di banca milanese di 43 anni, ha confessato di aver ucciso e fatto a pezzi Carol Maltesi, 25enne italo-olandese, mamma di un bimbo di 6 anni. Dopo quasi dieci giorni dal ritrovamento di quel cadavere massacrato e abbandonato in Valcamonica, ora la vittima ha un nome. A molti era nota come «Charlotte Angie» nome d'arte che l'attrice del Varesotto usava nel mondo dell'hard.
E sono stati proprio alcuni suoi follower i primi a ipotizzare che quel corpo trovato il 20 marzo scorso a Borno potesse essere di Carol. Da quel momento, la svolta nelle indagini. Il teatro dell'orrore è una piccola corte a due piani a Rescaldina, nel Legnanese. È lì che vivono vittima e carnefice, in due appartamenti uno accanto all'altro. La giovane si era trasferita da alcuni anni nella zona e lì lavorava come commessa. Un mestiere che alternava a quello di pornostar amatoriale, «content producer per adulti» - questa la definizione che di se stessa dava nelle interviste. Lui, invece, oltre al lavoro in banca gestiva il blog di cucina «storie di food».
Quello tra la vittima e il 43enne, che avevano avuto una relazione, era un rapporto di fiducia, tanto che lui aveva le chiavi di casa della giovane e l'aveva anche accompagnata a qualche casting, come raccontano le ex colleghe. Ma qualcosa dev'essere andato storto, in quella drammatica notte di fine gennaio: dopo aver ucciso Carol, Davide Fontana prende delle cesoie e la taglia in oltre 15 pezzi: testa, piedi, mani, braccia, gambe, persino lo sterno. La testa decapitata e poi bruciata, per renderla irriconoscibile.
Lo stesso Davide Fontana, nelle oltre tre ore di interrogatorio in caserma a Brescia, racconta poi di avere acquistato un congelatore, installato nell'abitazione della donna, appositamente per nascondere i resti di Carol. E lì, in casa, sono rimasti per due mesi. Fontana fa persino credere che la ragazza sia ancora viva, continuando a pagare l'affitto della 25enne e rispondendo agli sms ricevuti spacciandosi per lei. Poi, il 20 marzo scorso, la decisione di disfarsi del corpo: caricata l'auto di Carol con quattro sacchi pieni dei suoi resti, si mette alla guida fino alla Valcamonica. Si ferma al confine tra Brescia e Bergamo e getta i sacchi a un passo dal dirupo. Le telecamere di Borno, piccolo borgo a mille metri d'altezza, registreranno l'auto di Carol Maltesi essere passata proprio quel giorno, con un uomo alla guida.
Due vite parallele, quelle dell'attrice Charlotte Angie e della donna Carol Maltesi. La prima sempre sotto i riflettori con migliaia di follower sui social, la seconda in profonda solitudine, al punto che dalla fine di gennaio nessun parente, familiare o amico ne aveva denunciato la scomparsa. «Solo la mamma con alcuni messaggi Whatsapp e l'ex compagno, sempre con messaggi. Al telefono nessuno», ha detto agli inquirenti Davide Fontana, che proprio lunedì mattina - poche ore prima dell'arresto - si era recato alla stazione dei carabinieri di Rescaldina per sporgere denuncia, accompagnato da un'amica. L'ennesimo tentativo di un depistaggio protrattosi per mesi. «Ariete atipico, calmo e razionale ma testardo e determinato a raggiungere gli obiettivi prefissati» - così si racconta Fontana sul suo blog. Su Instagram il 43enne ha però anche un altro profilo, unicamente dedicato a fotografie di ragazze con nomi di fantasia. Il 13 marzo scorso, quando ormai Carol era già morta da mesi, l'uomo pubblica una foto di «Charlotte Angie».
Il food blogger, l'ex pornostar pentita e il massacro tenuto nascosto per mesi. Andrea Cuomo il 30 Marzo 2022 su Il Giornale.
Carol Maltesi, italo-olandese, aveva un figlio e si era inventata una carriera nell'hard. Il killer continuava a recensire i locali.
Lui, Davide Fontana detto l'Uomo alla coque, ha continuato a postare foto di piatti prelibati fino all'ultimo, anche quando il corpo di Carol Maltesi detta Charlotte Angie, era nel suo congelatore in tanti pezzi e poi in un fosso. Una delle ultime immagini postate dal food blogger su Instagram, il 26 febbraio, mostra una margherita di una celebre pizzeria gourmet della provincia di Verona che da poco ha aperto una filiale in centro a Milano. «Salsa di pomodoro, mozzarella di bufala campana DOP, pomodorini confit, gocce di pesto e basilico», scriveva lui un mese fa. «Tagliata molto bene!», ribatte ieri con umorismo macabro una instagrammer. E un altro utente prefigura un futuro da food blogger carcerario per il bancario: «Il signor Fontana non mancherà certo di fornire un proprio creativo contributo. Il tempo non dovrebbe mancargli». Qualcuno scova anche una foto del 25 settembre 2018, che riprende una locandina contro la violenza sulle donne: «Non è normale che sia normale». E tanti «Bravissimo!» 174 mesi fa. E tanti «Mostro!» ieri.
Sembra una pagina strappata da American Psycho il delitto di Borno, con il carnefice che continua a documentare la sua vita luccicante di buoni ristoranti e foto glamour e sorride con la poker face talora oscurata dagli occhiali da sole. Ieri chi scrive era a pranzo con una addetta stampa del settore enogastronomico proprio mentre si diffondeva la sconcertante notizia nel magico mondo del food milanese e lei ricordava di averlo visto, l'Uomo alla coque, non più di tre o quattro settimane fa all'inaugurazione di un locale di una catena di fast food gourmet, in via Dante. E le si accapponava la pelle pensando a che cosa dovesse agitarsi dentro di lui mangiando patatine olandesi come nulla fosse. E a noi con lei. Perché certe cose sembrano cinema fin quando non ti sfiorano come un venticello gelido.
Fontana è (tempo indicativo presente) un bancario milanese di 43 anni con la passione per il cibo: «Nato a Milano in aprile, ariete atipico, calmo e razionale ma testardo e determinato a raggiungere gli obiettivi prefissati», si descrive su Instagram ai suoi 13.100 follower. E nel sito Storie di Food, di cui Fontana è fondatore, inanella recensioni sempre entusiastiche, con gran dovizia di aggettivi e punti esclamativi, perché così va il mondo dei food blogger, la critica non è contemplata. L'ultima visita raccontata, quella a una trattoria milanese, Zia Ninì, reca la data del 14 febbraio, il giorno degli innamorati. Non si può certo dire che il destino non abbia il senso dell'umorismo.
Carol Maltesi aveva (tempo indicativo imperfetto) ventisei anni ed era di Sesto Calende. Madre olandese, padre italiano, studi alle Orsoline, danza, equitazione, tutto quello che compete a una ragazza di buona famiglia, poi la vita sterza: un figlio giovanissimo, che ora ha sei anni e sta con il padre. Lei nel frattempo finisce a Rescaldina, vicina di casa di Fontana, con cui condivide una storia d'amore poi trasformata in amicizia, almeno così si dice. Prima del Covid Carol era una commessa carina, niente di più, dapprima a Malpensa, poi in un centro commerciale. Con la pandemia, perso il lavoro dietro al bancone, si reinventa nel cosiddetto «intrattenimento per adulti», un po' strip tease e un po' porno. Video amatoriali, un tanto a pezzo di vestiario tolto, poi ecco Charlotte Angie, gli show dal vivo nei club a luci rosse. E la fine dentro un fosso, a pezzi, riconosciuta per quei tatuaggi che arredavano il suo corpo. Non si uccidono così anche le cattive ragazze.
Carol, i verbali dell'orrore: "Accoltellata da morta. Non so perché ho iniziato". Antonio Borrelli il 31 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il racconto di Davide Fontana. L'ipotesi di un gioco hard e gli oltre due mesi di messinscena.
Se alla base del feroce femminicidio di Carol Maltesi ci sia stato o meno un gioco erotico è ancora da accertare, ma ciò non aggiunge né toglie drammaticità a un racconto raccapricciante in ogni suo dettaglio. Secondo Davide Fontana - bancario nella vita, foodblogger per passione - lui e la 26enne dovevano girare due video erotici. Era una mattina, il 10 o forse l'11 gennaio, in casa di lei, a Rescaldina, alle porte di Milano. «Ho legato la ragazza a un palo con un nastro telato nero e un sacchetto di plastica nero sulla testa - racconta il 43enne ai carabinieri -. Era in piedi, con i polsi legati dietro la vita e al palo. In una seconda fase l'ho slegata dal palo, l'ho sdraiata a pancia in su e le ho legato nuovamente i polsi al palo, e anche i piedi. Ho poi preso un martello e iniziato a colpirla su tutto il corpo, non forte, partendo dalle gambe. Quando sono arrivato verso la testa ho iniziato a colpirla forte, non so bene il perché».
Ma è solo l'inizio della barbarie, descritta con dovizia di particolari dallo stesso Fontana: «Credo che a quel punto fosse già morta. E non sapendo che altro fare, le ho tagliato la gola con un coltello da cucina che poi ho buttato in un cestino dell'immondizia. Mi è sembrato un atto di pietà, vedevo che stava soffrendo». Dei due video, sostiene il 43enne milanese, conserva solo il primo e cancella il secondo. In queste ore gli esperti dell'Arma stanno cercando di recuperarlo per avere una conferma al racconto. Quello che però continua a stupire è la lucidità con la quale l'uomo ha provato a depistare le ricerche, impegnandosi a tutto tondo per oltre due mesi. Dopo avere ucciso la 26enne italo-olandese, mamma di un bimbo di 6 anni, commessa e attrice hard, con cui circa un anno e mezzo fa aveva avuto una breve relazione diventata poi amicizia, Fontana acquista un'accetta, una sega e un freezer. Per tre giorni taglia a pezzi il corpo di Carol in oltre 15 parti. Cerca persino di togliere letteralmente la pelle del volto della giovane e di cancellare anche con il fuoco i tatuaggi che la 26enne aveva sul corpo. Poi ripone il frutto del suo folle lavoro nel congelatore installato in casa di lei, che non apre fino al mese di marzo. Prova a bruciare il corpo in un barbecue sul lago Maggiore, senza riuscirci. Poi, a febbraio fa un sopralluogo a Paline di Borno, zona che frequentava da bambino. È lì che individua quella scarpata al confine tra le province di Brescia e Bergamo per abbandonare il cadavere smembrato di Carol. Qualche settimana dopo sale a bordo della Fiat 500 di lei alla volta della Valcamonica con i quattro sacchi neri coi resti umani. E proprio in quel luogo, il 20 marzo scorso quei sacchi vengono ritrovati da un passante. Nel frattempo, però, Fontana continua a pubblicare sui social foto di «Charlotte Angie» (nome d'arte che la donna usava nel mondo dell'hard) e a scrivere online recensioni di ristoranti. Per due mesi paga l'affitto dell'appartamento della ragazza e si finge persino la vittima rispondendo ai pochi messaggi che arrivavano sul suo telefono. «In questo modo non ci sarebbero stati sospetti», ha detto agli inquirenti il 43enne, che ieri ha confessato tutto in un interrogatorio di convalida del fermo durato meno di 30 minuti. Fontana si trova ora nel carcere bresciano di Canton Mombello, con l'accusa di omicidio volontario, distruzione e occultamento di cadavere. «Il mio assistito è una persona frastornata - dice Stefano Paloschi, avvocato di Fontana - che confessando è uscito da un incubo che stava vivendo da due mesi».
Claudia Guasco per “Il Messaggero” il 30 marzo 2022.
Una casa di ringhiera in una vecchia cascina. A un lato del ballatoio, al primo piano, c'è l'appartamento di Carol Maltesi e in fondo quello di Davide Fontana. «Andavano e venivano spesso. Mi capitava di vederli passare, mentre stendevo. Lui in mutande, lei nuda», racconta la vicina Sara.
Ma da dicembre nessuno ha più visto Carol, in arte Charlotte Angie, stella di Onlyfans, attrice porno in rampa di lancio, assai richiesta nei locali milanesi. Spesso girava film all'estero e nessuno se ne è preoccupato più di tanto.
E invece la ventiseienne era sempre lì, nel suo monolocale: il volto bruciato e sfigurato, fatta a pezzi, almeno una quindicina, chiusi in quattro sacchi della spazzatura e infilati nel congelatore che il suo assassino ha comprato apposta.
Finché Davide Fontana, bancario di 43 anni, ha deciso di disfarsene gettandoli in un dirupo in montagna. Nell'interrogatorio di lunedì notte ha confessato: «Pagherò per quello che ho fatto. Non ero più in grado di tenermi dentro tutto questo».
Eppure per settimane, raccontano gli investigatori, ci è riuscito benissimo. Ha cancellato prove, depistato, risposto al telefono della ragazza, continuato come se nulla fosse la sua vita di bancario in smart working con la passione per la fotografia e il cibo.
Sempre lucido e controllato, l'insospettabile assassino della porta accanto. «Ho ucciso Carol durante un gioco erotico, l'ho colpita con un martello. Poi non ho capito più niente», ha detto agli inquirenti.
Si è procurato un'accetta e una sega e per smembrare il corpo ha impiegato tre giorni. Ora è in carcere a Brescia, con l'accusa di omicidio volontario aggravato, distruzione e occultamento di cadavere.
Lui e Carol, mamma di un bimbo di 6 anni affidato al padre, si conoscevano da un anno e mezzo, lo scorso giugno lei si è trasferita a Rescaldina e due mesi dopo lui l'ha seguita. «L'ho incrociato l'ultima volta domenica scorsa. Era tranquillissimo, andava a fare la spesa. Ci aveva insospettito non vedere più Carlos, il bimbo di Carol che lei portava qui ogni due settimane - riflette una vicina - Tanto che mio figlio, con cui giocava in cortile, gli ha chiesto dove fosse. A Verona da suo padre, ha risposto lui senza fare una piega».
A legare omicida e vittima è stata, all'inizio, la fotografia: lei voleva farsi strada nel mondo dell'hard, lui ama ritrarre. «Scatto per passione, sperimento, esploro. La banalità mi annoia», si descrive sul suo blog di cucina Uomoallacoque in cui posta piatti gourmet.
E poi c'è un altro profilo Instagram, sempre dedicato alla fotografia, ma di tutt'altra ispirazione: solo ragazze, con nomi di fantasia, in biancheria intima e atteggiamenti seducenti. Tra le ultime foto pubblicate, lo scorso 13 marzo, quelle di Carol ormai morta e citata come Charlotte Angie.
«Avevano un buon rapporto, le prime volte lui l'aveva anche accompagnata sul set, non credo che fosse innamorata ma tra loro c'era sicuramente più di una complicità», ricorda Emanuela, ex collega del negozio di abbigliamento. «Stavano insieme e lei si fidava, Davide aveva anche le chiavi della casa di Carol».
Nemmeno un'ombra o un sospetto, anche se «una volta mi ha detto che le erano spariti dei soldi dalla cassaforte, credo qualche migliaia di euro, e che solo lui e il suo ex sapevano dove trovarli». Erano risparmi messi da parte «per il bimbo, per il suo futuro, lei però non l'ha mai accusato di nulla».
All'apparenza è una relazione spigliata, ma Davide Fontana un passo alla volta si insinua nella vita di lei. Usa abitualmente la macchina di Carol, mentre la sua è ferma in giardino, l'aiuta nelle incombenze quotidiane.
La conosce a tal punto che non è un problema spacciarsi per Carol dopo averla uccisa. Per allontanare i sospetti prende il suo telefono e risponde ai messaggi al posto della ragazza. Scrive alla madre malata che vive a Sesto Calende, all'ex compagno che abita a Verona con il figlio Carlos.
Accampa scuse dicendo che è in viaggio, è impegnata in servizi fotografici all'estero. La collega Sabrina Ice telefona: «Sono sconvolta perché la scorsa settimana mi ha risposto Davide. Mi ha raccontato che era andata via e lui credeva fosse a Padova». L'omicida, nel frattempo, si è liberato del corpo, ritrovato da un residente il 20 marzo in un burrone sui monti tra Bergamo e Brescia.
Spunta una mano, poi vari pezzi del corpo, i carabinieri descrivono i tatuaggi e i fan riconoscono Charlotte Angie. Due giorni fa Davide Fontana, accompagnato da un'amica, si presenta ai carabinieri per fornire informazioni sulla scomparsa di Carol, ma pasticcia, si contraddice e nel frattempo gli investigatori hanno le immagini delle telecamere che lo riprendono (sulla macchina di lei) lungo la strada dove ha buttato i sacchi. «Ho scelto Borno perché qui venivo in vacanza da bambino», ha detto agli investigatori.
Monica Serra per “La Stampa” il 30 marzo 2022.
Nel ricordo di chi l'ha conosciuta, Carol era «una ragazza di 26 anni con tutte le sue fragilità, le sue insicurezze». Fino a giugno 2021, Emanuela ha condiviso con lei il lavoro di commessa nel negozio Parfois del centro commerciale di Rescaldina: «Carol era finita qui dopo la chiusura del negozio a Malpensa. Come tutti nel primo lockdown era finita in cassa integrazione e aveva deciso di iniziare a fare video amatoriali per arrotondare».
A un certo punto però la fama di Charlotte Angie, il suo nome d'arte, è cresciuta. «Ha iniziato a crearsi problemi, temeva che qualcuno la riconoscesse dietro al bancone».
Emanuela le diceva di non preoccuparsi, «ma a giugno 2021 Carol ha deciso di dedicarsi completamente al nuovo lavoro». Emanuela ne è certa: «Ha fatto tutto per garantirsi un futuro, soprattutto per garantirlo a suo figlio».
La nuova vita di Carol, dopo il trasferimento a Rescaldina «le piaceva molto. Era fatta di viaggi, a Berlino, a Praga, di incontri con artisti importanti», ricorda l'amica Cristina, che lavora nello stesso centro commerciale. Non ha mai conosciuto Fontana, «ma Carol parlava di lui, era un amico, il suo fotografo. Spesso l'accompagnava, aveva anche le sue chiavi di casa», racconta.
I due trascorrevano molte serate insieme, anche dopo la fine della loro relazione: «Erano molto legati», ricorda Sara, che abita nella stessa corte a Rescalidina, la casa di Carol da una parte quella di Fontana dall'altra.
«Domenica l'ho visto l'ultima volta. Mio figlio gli ha chiesto dov'era il bambino di Carol, che fino a Natale era qui con la mamma ogni 15 giorni. Davide non ha fatto una piega: "A Verona, col papà"».
Claudia Guasco per "Il Messaggero" il 30 marzo 2022.
Una casa di ringhiera in una vecchia cascina. A un lato del ballatoio, al primo piano, c'è l'appartamento di Carol Maltesi e in fondo quello di Davide Fontana. «Andavano e venivano spesso. Mi capitava di vederli passare, mentre stendevo. Lui in mutande, lei nuda», racconta la vicina Sara. Ma da dicembre nessuno ha più visto Carol, in arte Charlotte Angie, stella di Onlyfans, attrice porno in rampa di lancio, assai richiesta nei locali milanesi.
Spesso girava film all'estero e nessuno se ne è preoccupato più di tanto. E invece la ventiseienne era sempre lì, nel suo monolocale: il volto bruciato e sfigurato, fatta a pezzi, almeno una quindicina, chiusi in quattro sacchi della spazzatura e infilati nel congelatore che il suo assassino ha comprato apposta. Finché Davide Fontana, bancario di 43 anni, ha deciso di disfarsene gettandoli in un dirupo in montagna. Nell'interrogatorio di lunedì notte ha confessato: «Pagherò per quello che ho fatto. Non ero più in grado di tenermi dentro tutto questo».
GIOCO EROTICO Eppure per settimane, raccontano gli investigatori, ci è riuscito benissimo. Ha cancellato prove, depistato, risposto al telefono della ragazza, continuato come se nulla fosse la sua vita di bancario in smart working con la passione per la fotografia e il cibo. Sempre lucido e controllato, l'insospettabile assassino della porta accanto. «Ho ucciso Carol durante un gioco erotico, l'ho colpita con un martello. Poi non ho capito più niente», ha detto agli inquirenti.
Si è procurato un'accetta e una sega e per smembrare il corpo ha impiegato tre giorni. Ora è in carcere a Brescia, con l'accusa di omicidio volontario aggravato, distruzione e occultamento di cadavere.
Lui e Carol, mamma di un bimbo di 6 anni affidato al padre, si conoscevano da un anno e mezzo, lo scorso giugno lei si è trasferita a Rescaldina e due mesi dopo lui l'ha seguita. «L'ho incrociato l'ultima volta domenica scorsa.
Era tranquillissimo, andava a fare la spesa. Ci aveva insospettito non vedere più Carlos, il bimbo di Carol che lei portava qui ogni due settimane - riflette una vicina - Tanto che mio figlio, con cui giocava in cortile, gli ha chiesto dove fosse. A Verona da suo padre, ha risposto lui senza fare una piega». A legare omicida e vittima è stata, all'inizio, la fotografia: lei voleva farsi strada nel mondo dell'hard, lui ama ritrarre. «Scatto per passione, sperimento, esploro. La banalità mi annoia», si descrive sul suo blog di cucina Uomoallacoque in cui posta piatti gourmet.
E poi c'è un altro profilo instagram, sempre dedicato alla fotografia, ma di tutt' altra ispirazione: solo ragazze, con nomi di fantasia, in biancheria intima e atteggiamenti seducenti. Tra le ultime foto pubblicate, lo scorso 13 marzo, quelle di Carol ormai morta e citata come Charlotte Angie. «Avevano un buon rapporto, le prime volte lui l'aveva anche accompagnata sul set, non credo che fosse innamorata ma tra loro c'era sicuramente più di una complicità», ricorda Emanuela, ex collega del negozio di abbigliamento.
«Stavano insieme e lei si fidava, Davide aveva anche le chiavi della casa di Carol». Nemmeno un'ombra o un sospetto, anche se «una volta mi ha detto che le erano spariti dei soldi dalla cassaforte, credo qualche migliaia di euro, e che solo lui e il suo ex sapevano dove trovarli». Erano risparmi messi da parte «per il bimbo, per il suo futuro, lei però non l'ha mai accusato di nulla».
I MESSAGGI All'apparenza è una relazione spigliata, ma Davide Fontana un passo alla volta si insinua nella vita di lei. Usa abitualmente la macchina di Carol, mentre la sua è ferma in giardino, l'aiuta nelle incombenze quotidiane. La conosce a tal punto che non è un problema spacciarsi per Carol dopo averla uccisa. Per allontanare i sospetti prende il suo telefono e risponde ai messaggi al posto della ragazza. Scrive alla madre malata che vive a Sesto Calende, all'ex compagno che abita a Verona con il figlio Carlos. Accampa scuse dicendo che è in viaggio, è impegnata in servizi fotografici all'estero. La collega Sabrina Ice telefona: «Sono sconvolta perché la scorsa settimana mi ha risposto Davide. Mi ha raccontato che era andata via e lui credeva fosse a Padova».
L'omicida, nel frattempo, si è liberato del corpo, ritrovato da un residente il 20 marzo in un burrone sui monti tra Bergamo e Brescia. Spunta una mano, poi vari pezzi del corpo, i carabinieri descrivono i tatuaggi e i fan riconoscono Charlotte Angie. Due giorni fa Davide Fontana, accompagnato da un'amica, si presenta ai carabinieri per fornire informazioni sulla scomparsa di Carol, ma pasticcia, si contraddice e nel frattempo gli investigatori hanno le immagini delle telecamere che lo riprendono (sulla macchina di lei) lungo la strada dove ha buttato i sacchi. «Ho scelto Borno perché qui venivo in vacanza da bambino», ha detto agli investigatori.
Da liberoquotidiano.it il 29 marzo 2022.
Un gioco erotico finito in mattanza: così Davide Fontana, 43enne impiegato di banca e broker, lo scorso gennaio ha ucciso e fatto a pezzi Carol Maltesi, la giovane attrice a luci rosse nota anche su Instagram con il nome d'arte di Charlotte Angie. Il suo cadavere, a monconi, è stato ritrovato dagli inquirenti in un parco di Breno, a Brescia. L'orrendo omicidio si è però consumato nella cascina di Rescaldina (Milano) dove entrambi abitavano.
L'assassino ha trasportato il corpo della ragazza, 25enne ex commessa, con l'auto della vittima, che usava da mesi. I poveri resti sono stati ritrovati solo lo scorso 21 marzo, poi gli inquirenti sono riusciti a stringere il cerchio su Fabbri, che lunedì sera è arrivato in caserma a Brescia ed è crollato, confessando tutto dopo aver denunciato spontaneamente la scomparsa della ragazza, in mattinata a Milano. Troppe però le incongruenze. Messo sotto torchio, ha fatto emergere la drammatica verità.
Si sarebbe trattato di un raptus nel corso di un gioco erotico. L'uomo ha iniziato a colpire Carol con un martello, "poi non ho più capito nulla". Sarebbero emersi dettagli raccapriccianti: la ragazza è stata sfregiata al volto con il fuoco, decapitata, fatta a pezzi con "una mano esperta", come sottolineato dagli investigatori. Fontana ha anche comprato un congelatore per conservare il corpo, usando poi il telefono della ragazza per far credere a chi la conosceva che fosse ancora viva.
Sconcertata una vicina di casa: "Lui entrava e usciva facendo finta di niente. Non riesco a credere che la tenesse in casa. Abbiamo iniziato a pensare che avessero una storia perché uscivano di mattina presto uno da casa dell'altro. Qui le pareti sono sottilissime, si sente tutto, non abbiamo sentito nulla, se avessimo sentito delle urla o simili saremmo usciti e invece non li abbiamo mai sentiti litigare".
Paolo Colonnello per “La Stampa” l'1 aprile 2022.
Altro che «raptus» e «amicizia disinteressata»: a scatenare la furia omicida dell’irreprensibile bancario Davide Fontana verso la giovane Carol Maltesi fu la più classica e spregevole delle motivazioni maschili: il possesso, la gelosia. E non verso un altro uomo, ma verso il figlioletto che la donna avrebbe voluto raggiungere nel veronese per vivergli accanto.
È lo stesso Fontana a gettare la maschera nell’interrogatorio di convalida del suo fermo, l’altro ieri, davanti al gip di Brescia: «Quando verso Capodanno mi disse che intendeva lasciare Rescaldina per trasferirsi dove risiedeva il figlioletto, per me fu un vero e proprio choc».
E dunque, scrive il gip nel provvedimento di convalida dell’arresto, «mentre stavano girando il video hard, nel momento in cui si era ritrovato il martello in mano, aveva pensato che l’avrebbe persa. Allora la colpiva al capo, due o tre volte», mentre «lei muoveva la testa, non sapeva per via dei colpi o per un’altra ragione…». Ma non c’erano altre ragioni: lei non lo voleva più. E lui l’ha uccisa. Semplice e banale come sono sempre queste storie brutali, come sono, alla fine, tutti i femminicidi.
Il bancario che si dilettava come blogger di food, che mentre conservava in un freezer il corpo fatto a pezzi di Carol, il 14 febbraio scriveva sulla sua pagina web la recensione entusiasta dei gamberi “freschissimi” di un ristorante, racconta agli inquirenti esterrefatti come gli «bastasse solo lei» e che in fondo, il fatto che lei frequentasse anche altri uomini o si mostrasse nuda nei video, non lo aveva reso geloso.
Forse perché intuiva che per Carol quello era soltanto un lavoro. Ciò che Fontana non sopportava davvero erano invece i sentimenti autentici di Carol, come l’amore verso il suo bambino che lo avrebbe escluso della vita della giovane.
Ecco, è questo che il bancario con aspirazioni da attore porno, proprio non riusciva ad accettare e che lo avrebbe spinto ad ucciderla a sangue freddo e non durante «un raptus» come aveva lasciato capire in un primo momento: «Quando il Fontana le tagliava la gola “per porre fine alle sue pene” – e dunque nella consapevolezza che la giovane, per quanto agonizzante fosse ancora in vita –, non può dubitarsi della piena consapevolezza e volontà dei propri atti da parte dell’indagato».
Scrive il gip: «D’altra parte lui stesso ha oggi confessato il movente passionale del delitto, commesso per evitare che la ragazza seguisse il suo destino, lontana da lui». Tagliarle la gola insomma non fu «un atto di pietà» come Fontana spiegò nel suo primo interrogatorio.
Perché Fontana, «con indomita ferocia» uccise una donna «che si fidava ciecamente del suo ex compagno e intimo amico». Assassinandola «barbaramente, colpendola più volte con bestiale violenza per poi tagliarle la gola; così privando della vita – con modalità che poco o nulla hanno di compassionevole – una giovanissima donna, madre di un bimbo ancora in tenera età, colpevole soltanto di voler seguire i propri progetti ed aspirazioni lontano dall’indagato».
Tra l’omicidio, l’occultamento del cadavere e i due mesi passati a fingere con amiche e famigliari della vittima che Carol fosse ancora in vita, Fontana dimostra, «la ferma, pervicace inamovibile volontà di evitare le conseguenze delle sue gravissime azioni».
Le quali dimostrerebbero da una parte la sussistenza di «un evidentissimo pericolo di fuga», dall’altra il «concreto pericolo» di inquinamento probatorio. Infine, il gip non nasconde che Fontana è un assassino pericoloso, con «totale mancanza di ogni senso di umana compassione», privo di «qualsiasi scrupolo morale», visto che persino mentre si trovava a Vararo, il paesino del varesotto dove avrebbe voluto bruciare i pezzi del cadavere di Carol, trovò tempo per scrivere sul suo blog che si trovava «in un luogo magico, immerso nella natura per trascorrere tempo in totale relax...». Un mostro.
Monica Serra per “La Stampa” il 31 marzo 2022.
«Volevo togliermi questo peso e dire la verità». Dopo due notti al carcere di Canton Mombello, l’interrogatorio di Davide Fontana è durato poco, non più di mezz’ora. Nel primo pomeriggio il giudice Angela Corvi aveva già convalidato il suo fermo per omicidio aggravato da sevizie, distruzione e occultamento del corpo della ventiseienne Carol Maltesi. Il banchiere quarantatreenne, food blogger per passione ha confermato quanto aveva già confessato.
L’omicidio a martellate di Carol nel corso di un video che stavano girando a casa della ragazza: «Non so perché ho colpito Carol. Non so che cosa sia successo». Ma, per il gip, nei due mesi che sono trascorsi tra l’omicidio, il 10 o forse l’11 gennaio, e il fermo, la notte tra lunedì e martedì, tutti i comportamenti di Fontana rendono ancora attuale, anche in vista della necessità di completare le indagini, il «rischio di inquinamento probatorio».
A partire dal tentativo di far sparire il corpo della ragazza, facendolo a pezzi e nascondendolo nel suo stesso appartamento. Il giorno dopo averla uccisa a martellate, «sono andato al Bricoman di Rescaldina - ha confessato Fontana - con la Fiat 500 di Carol e ho acquistato un'accetta ed un seghetto da metallo. Sono poi andato a casa sua, dopo l'orario di lavoro.
Ho slegato Carol dal palo, le ho tolto tutti i pezzi di nastro dal corpo e ho iniziato a depezzarla». Così Fontana si è procurato un freezer a pozzetto: «L’ho acquistato online su Amazon, mi è stato consegnato dal corriere pochi giorni dopo, forse tre». Lo ha installato nell’appartamento della ventiseienne, all’ingresso della piccola corte di via Barbara Melzi a Rescaldina, nel Milanese, dove anche lui si era trasferito a vivere nella primavera scorsa.
E ha chiuso i resti della ragazza lì dentro, in cinque sacchi neri. Sempre nel tentativo di inquinare le prove - conferma il giudice - Fontana ha risposto a tutti i messaggi che venivano inviati al cellulare della vittima. Spacciandosi per lei ha detto alla madre della ragazza che vive nel Varesotto, al padre che invece è in Olanda, all’ex compagno, il papà del suo bambino di sei anni, che la ventiseienne stava bene, che era in viaggio all’estero, che era in vacanza.
Tutto questo «nel tentativo - ha messo a verbale il bancario - di far credere loro che Carol fosse ancora viva». Addirittura, per evitare di essere scoperto, Fontana è arrivato a pagare «i canoni di locazione dell’appartamento di Carol, attraverso l’app di home banking Bunq installata sul cellulare» della vittima.
E dopo aver provato a bruciare il corpo della ragazza nell’area barbecue di un appartamento preso in affitto nel Varesotto, il banchiere ha rimosso pezzi dei suoi tatuaggi e del suo volto per renderla irriconoscibile. Sempre per inquinare le prove - sostengono gli inquirenti - Fontana ha gettato i resti della ventiseienne nella scarpata a Paline di Borno, dove poi domenica 20 marzo sono stati ritrovati.
Un posto scelto con cura, dove Fontana aveva trascorso delle vacanze durante la sua adolescenza. Non basta. Quando lunedì, dopo aver ricevuto sul cellulare della vittima il messaggio di un giornalista che cercava Carol, sentendosi in trappola Fontana ha deciso di presentarsi alla caserma dei carabinieri per denunciare la scomparsa dell’amica. E anche in quel momento, per ore, prima di crollare e confessare il delitto, ha raccontato bugie. Tante bugie.
Provando a gettare ombre sugli ex della vittima. Per il giudice (che ha già chiesto la trasmissione degli atti alla procura di Busto Arsizio, perché è di sua competenza il territorio in cui è stato commesso il delitto) a motivare la custodia del quarantatreenne in carcere c’è anche il rischio di reiterare un così feroce reato, proprio per via della pericolosità sociale di Fontana. Che non permette di escludere neppure il pericolo di fuga dell’indagato. «È molto scosso - dice il suo difensore, l’avvocato Stefano Paloschi - solo ora inizia a realizzare quello che ha fatto».
Da brescia.corriere.it il 29 marzo 2022.
È Davide Fontana, milanese, dipendente di banca nella sua città, food/travel blogger per passione (sui social vanta un profilo Instagram con oltre 13 mila follower: comprende fotografie e recensioni di piatti e ristoranti anche nel passato recente, nel periodo in cui la donna era scomparsa), il 42enne che ha confessato l’omicidio dell’attrice hard di 25 anni Charlotte Angie i cui resti sono stati trovati a Borno, in provincia di Brescia.
I due erano vicini di casa a Rescaldina (Milano) e avevano avuto una relazione. Alle due abitazioni, nel centro del paese dell’hinterland milanese, i Carabinieri hanno posto i sigilli, così come alla macchina di lui parcheggiata nel cortile: quella della vittima, che Fontana ha usato per trasportarne il cadavere fatto a pezzi, è in una via limitrofa.
Il suo profilo sul sito dedicato alla passione per la cucina
Appassionato di tecnologia e fotografia, che fondeva alla passione per il cibo nella sua attività sociale, Fontana si definisce così sul sito dedicato alla passione per la cucina, attivo da molti anni: «Ariete atipico, calmo e razionale ma testardo e determinato a raggiungere gli obiettivi prefissati. Amo la cucina a 360 gradi - spiega - mi diletto ai fornelli provando e riprovando ricette tradizionali e non, cercando spunti e ispirazione dai migliori chef. La creatività la ricerco nei ristoranti che frequento, sono sensibile al fascino di un piatto che riesca ad abbinare bellezza visiva ad un gusto sorprendente».
L’interrogatorio dell’uomo: solo la madre e l’ex l’avevano cercata
Davide Fontana, nelle oltre tre ore di interrogatorio nella caserma dei carabinieri di Brescia, ha raccontato che nessuno in questi mesi ha cercato Charlotte Angie, che lui aveva ucciso a gennaio. «Solo la mamma con alcuni messaggi whatsapp e l’ex compagno sempre con messaggi. Al telefono nessuno» ha detto il 43enne impiegato di banca che ieri sera alle 22.39 è entrato nella caserma dei carabinieri a Brescia da uomo libero e ne è uscito da fermato finendo in carcere.
Ha confessato l’omicidio, la distruzione del cadavere e l’occultamento, prima dell’arrivo del suo legale. Da gennaio ad oggi ha utilizzato il telefono della donna. «Ho pagato anche l’affitto di casa sua» ha detto al pm Lorena Ghibaudo durante l’interrogatorio, per poi spiegare che aveva scelto Borno per averci passato dei giorni di vacanza in passato.
I depistaggi usando il telefono della vittima
«Non ho tempo adesso per i giornalisti e per spiegare perché ho lasciato il porno». L’assassino di Charlotte Angie, scriveva al sito Bsnews.it (che ha seguito passo passo la vicenda sin dalla segnalazione di un radio ascoltatore de “La Zanzara” su Radio 24), fingendo di essere la donna che invece lui stesso aveva ucciso mesi prima.
Al giornalista che chiedeva conto del fatto che i tatuaggi indicati dagli inquirenti sul cadavere a pezzi trovato a Borno fossero uguali a quelli dell’attrice hard, lo stesso assassino - fingendosi Charlotte Angie - aveva risposto via messaggio sabato scorso: «Ah ho capito mi hanno già detto diverse persone di quella ragazza. Io sto bene fortunatamente». Ma non aveva inviato il messaggio vocale richiesto dalla redazione. Un ulteriore indizio, decisivo.
Cadavere irriconoscibile, il killer le ha bruciato il volto. Il giallo di Borno, donna fatta a pezzi e ritrovata in 4 sacchi della spazzatura: “Ha 11 tatuaggi, aiutateci a darle un nome”. Redazione su Il Riformista il 24 Marzo 2022.
E’ ancora giallo sul cadavere della donna fatto a pezzi e ritrovato nel pomeriggio di domenica 20 marzo in quattro sacchi dell’immondizia lungo la strada provinciale di Borno, comune in provincia di Brescia. Ad oggi gli investigatori non sono riuscititi a identificare la vittima e, in seguito ai primi risultati emersi dall’esame autoptico, lanciano un appello affinché qualcuno si faccia avanti e riconosca il cadavere della donna o fornisca indicazioni utili all’identificazione.
Dall’autopsia effettuata presso presso l’Istituto di Medicina Legale di Brescia, è emerso che la vittima è alta circa 160 cm per un peso di 50-55 chili. Capelli scuri, unghie delle mani e dei piedi particolarmente curante con l’utilizzo di uno smalto di colore violetto con glitter argentati. Almeno 11 i tatuaggi o parte di tatuaggi presenti sul corpo fatto a pezzi dall’autore dell’efferato omicidio: “step by step” sulla caviglia destra, “wanderlust” sulla clavicola destra, “elegance is the” sulla schiena lato destra, una porzione di disegno sul gomito sinistro, “be brave” sul gomito sinistro, “fly” sul polso destro, una “V” rovesciata sulla coscia destra, “VV” rovesciate sulla coscia sinistra, “te” sul dorso della mano sinistra.
Tracce di altri tatuaggi sono visibili anche sulle dita della mano destra e un disegno “maculato” sul gluteo destro. “Non si esclude la presenza di altri tatuaggi sul corpo della donna” fanno sapere i carabinieri del Comando Provinciale di Brescia che poi spiegano che queste informazioni vengono diffuse perché “i possibili conoscenti della donna nonché i professionisti del settore (tatuatori ed estetiste) possano fornire informazioni utili all’identificazione”.
Le forze dell’ordine invitano poi a “contattare il numero 0364/322800 (Centrale Operativa del Comando Compagnia Carabinieri di Breno) o recarsi presso gli Uffici delle Forze dell’Ordine.
IL GIALLO DI BORNO: CADAVERE TROVATO DA UN ALLEVATORE
A distanza di quattro giorni dal ritrovamento del cadavere della donna, gli elementi in possesso degli investigatori sono ancora pochi. La vittima, forse di età compresa tra i 30 e i 45 anni, è stata fatta a pezzi in 15 parti e abbandonata sul ciglio della strada in quattro sacchi di spazzatura al confine con la provincia di Bergamo. Ad allertare l’intervento delle forze dell’ordine è stato un allevatore residente nella zona.
La Procura di Brescia ha aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio volontario, distruzione e occultamento di cadavere. Il killer oltre a farla a pezzi, le ha sfregiato il volto con il fuoco per non renderà riconoscibile. Oltre all’autopsia, sono state prelevate le impronte digitali e raccolto tracce di Dna della donna che verranno confrontante con la banca dati per verificare se la donna fosse già nota alle forze dell’ordine per vari motivi (magari perché scomparsa). Sono state sequestrate le registrazioni di almeno 12 telecamere della zona. Potrebbe bastare un fotogramma per una svolta.
(ANSA il 29 marzo 2022) - È stato arrestato il presunto responsabile dell'omicidio della donna ritrovata cadavere, fatta a pezzi a Borno nel bresciano una settimana fa. L'uomo, 43 anni, è un amico e vicino di casa della vittima, identificata come Carol Maltesi, 25 anni, in arte Charlotte Angie, milanese nota nel mondo dell'hard. Ha confessato l'omicidio durante un interrogatorio nella notte ai carabinieri.
Da leggo.it il 28 marzo 2022.
E' giallo sul ritrovamento del cadavere fatto a pezzi e rinvenuto il 21 marzo a Borno, nel Bresciano. I carabinieri di Brescia stanno verificando una nuova pista. Le verifiche si concentrerebbero su una influencer lombarda che mancherebbe dai suoi profili social da alcuni giorni e che avrebbe sul corpo almeno 7 degli 11 tatuaggi indicati dagli inquirenti.
Le nuove indagini sono scattate a seguito di una segnalazione arrivata alla redazione del quotidiano online BSnews il cui direttore Andrea Tortelli è stato ascoltato dai carabinieri. Secondo un'altra fonte, riportata da BresciaToday, il cadavere sarebbe quello di un'attrice porno italiana, residente in Lombardia e di cui non si avrebbero notizie da tempo.
Sono in corso le indagini per capire se il cadavere corrisponde effettivamente alla donna. Nei giorni scorsi i carabinieri avevano diffuso informazioni sui tattoo della donna, durante l'autopsia. La donna era alta circa 160 centimetri, pesava 50-55 chili aveva capelli scuri e le unghie delle mani e dei piedi particolarmente curate con l'applicazione di uno smalto di colore violetto con glitter argentati. I tatuaggi riportavano le scritte: "step by step" sulla caviglia destra, "wanderlust" sulla clavicola destra, "elegance is the" sulla schiena lato destra, una porzione di disegno sul gomito sinistro, "be brave" sul gomito sinistro, "fly" sul polso destro, una "V" rovesciata sulla coscia destra, "VV" rovesciate sulla coscia sinistra, "te" sul dorso della mano sinistra e un disegno maculato sul gluteo destro.
Le informazioni sono state diffuse, spiegano gli investigatori, affinché «i possibili conoscenti della donna nonché i professionisti del settore (tatuatori ed estetiste) possano fornire informazioni utili all'identificazione».
Il delitto di Borno. Uccisa e fatta a pezzi, confessa il vicino di casa: la vittima è l’attrice hard Charlotte Angie. Redazione su Il Riformista il 29 Marzo 2022.
C’è una svolta nelle indagini sulla donna trovata morta a Borno, nel Bresciano, lo scorso 20 marzo. Un cadavere fatto a pezzi trovato in una scarpata di una strada interna della Valcamonica, tenuto in un congelatore e sezionato in almeno una quindicina di pezzi, chiuso poi in quattro sacchi neri.
Un uomo di 43 anni è stato fermato per omicidio e ha confessato l’omicidio della donna, identificata nella 25enne Carol Maltesi, italo-olandese nota col nome d’arte Charlotte Angie, nota nel mondo dell’hard. La giovanissima residente nel Milanese era la sua vicina di casa.
L’omicidio sarebbe avvenuto, stando alla confessione dell’uomo, lo scorso gennaio. Come spiega l’Ansa il 43enne ieri si era presentato ai carabinieri per fornire informazioni sulla donna scomparsa, “offrendo circostanze che subito si rivelavano contraddette dalle emergenze investigative fino a quel momento acquisite”.
Nel frattempo gli inquirenti e i carabinieri che indagano sul caso hanno raccolto elementi che collocavano l’uomo nel territorio di Borno la mattina di domenica 20 marzo. Di fronte alla serie di contestazioni di carabinieri e inquirenti, alla presenza del suo difensore, il 43enne ha deciso di confessare l’omicidio e l’occultamento del cadavere, prima riponendolo in un congelatore nella casa della stessa vittima e poi, una volta fatto a pezzi, gettandolo nel dirupo di montagna.
Nei confronti dell’uomo i carabinieri del Comando provinciale di Brescia e della Compagnia di Breno hanno eseguito alle 4:30 un provvedimento di fermo emesso dal pm di Brescia Lorena Ghibaudo.
Per il vicino di casa della 25enne l’accusa è di omicidio volontario aggravato, distruzione e occultamento di cadavere. Omicidio che sarebbe avvenuto a Milano, mentre l’occultamento è avvenuto a Brescia. Anche per questo dopo l’interrogatorio di convalida del fermo, il fascicolo passerà per competenza territoriale al tribunale di Milano.
Una prima svolta nel caso era arrivata grazie alle segnalazioni giunte al sito locale bsnews.it e all’identikit diffuso dalle forze dell’ordine, in particolare in riferimento agli 11 tatuaggi riscontrati dal medico legale sul corpo della vittima. Sette di questi, oltre alla corporatura esile, avevano attirato l’attenzione di alcuni lettori che avevano comunicato come il corpo risultasse compatibile con quello di Carol Maltesi, diva dell’hard scomparsa da giorni.
In effetti i social della 25enne erano inattivi da giorni e la sua presenza annunciata in un locale in centro a Milano, per un evento in programma dall’11 al 13 marzo scorso, era saltata, così come ogni tentativo di contattarla telefonicamente.
La mamma: "Resta la mia principessina". Uccisa da un mostro "ma ci si concentra sulla sua professione". Carol Maltesi, e la versione stereotipata della donna, uccisa dal “bancario” Davide Fontana: il racconto della vergogna. Redazione su Il Riformista il 31 Marzo 2022.
Una donna di 26 anni è stata trucidata e tagliata in 15 pezzi, congelata per qualche tempo in un freezer comprato su Amazon dopo il delitto, scaricata in quattro sacchi di plastica in una scarpata lungo la statale e ritrovata oltre due mesi dopo la scomparsa. Un’atrocità inaudita che però passa quasi in secondo piano perché sui media e sui social a colpire è un altro dettaglio: Carol Maltesi, giovane italo-olandese, da qualche anno faceva foto e video hard, era una “pornostar“, una “attrice hard”. Era quasi colpevole per il suo “nuovo stile di vita“, per le immagini che pubblicava sui profili di Charlotte Angie.
Ad ucciderla Davide Fontana, 43 anni, un professionista perché “bancario”, “food blogger” (solo perché aveva aperto un sito), “fotografo”. Insomma una persona distinta, colta da un “raptus” improvviso. A 48 ore di distanza dal fermo, arrivato dopo la confessione, disposto dal pm della procura di Brescia Lorena Ghibaudo e confermato dal gip, va in scena la versione stereotipata della donna, quasi a giustificare, o quanto meno, a provare a comprendere una brutalità raccapricciante.
Succede questo in Italia dove tra giornali e social (dove il comico Pietro Diomede vomita battute perché “in passato ha sofferto e quindi non si pone limiti”), si continua a raschiare il fondo, anche dopo l’orrore andato in scena tra Rescaldina (Milano) e Borno (Brescia). Perché scrivere “pornostar”, “attrice hard”, “prostituta” rende tutto molto più pulp, fa gossip, attira di più l’attenzione dei lettori. Ragionamenti che oggi vanno per la maggiore nelle redazioni e nessuno, compreso noi, è senza peccato.
“Valuteremo eventuali azioni legali, trovo inconcepibile che davanti alla morte di una ragazza di 26 anni, ci sia chi si permette di dire certe cose, di fare battute indecenti” commenta all’agenzia Ansa l’avvocato Manuela Scalia, legale della mamma di Carol. “La cattiveria delle persone la stiamo percependo in questi giorni – ha proseguito Scalia – E’ assurdo che invece di concentrarsi sul fatto che una ragazza giovane sia stata trucidata da un mostro, ci si concentri sulle sue scelte professionali“.
Un racconto truculento quello di Fontana, una persona instabile, malata, accecata dalla gelosia ma anche da una lucida follia che l’ha portato a occultare un cadavere per oltre due mesi, provando prima a bruciarlo, poi a cancellare l’inchiostro degli almeno 11 tatuaggi che Carol aveva. Dalla scomparsa di Carol (10 gennaio) al ritrovamento del cadavere (20 marzo), Falcone continuava a rispondere ai messaggi che arrivavano sul telefono e sui social della povera 26enne, madre di un bimbo di sei. Con la madre di Carol continuava a chattare spacciandosi per la figlia. “Sono a Dubai” scriveva aggiungendo poi che non poteva rispondere alle telefonate. Discorso analogo anche per l’ex compagno che aveva in affidamento il figlio.
Ma Davide Fontana resta il “bancario, fotografo, food blogger” mentre Carol (e Charlotte) viene uccisa una seconda volta dai luoghi comuni. “Voglio ricordare mia figlia come la conoscevo io, di quello che dicono gli altri non mi interessa” fa sapere la madre di Carol attraverso l’avvocato Manuela Scalia che aggiunge: “Aveva una famiglia che la amava, anche se mamma e papà erano separati, le volevano bene, la chiamavano principessa” ha proseguito l’avvocato Scalia.
"È diabolico, l'ha uccisa come una bestia". “Carol mi scriveva, anche al compleanno, ma era quel mostro di Davide Fontana”, il dolore del padre della 26enne uccisa. Vito Califano su Il Riformista il 31 Marzo 2022.
Il padre di Carol Maltesi – la 26enne uccisa, fatta a pezzi, i resti conservati in freezer e poi abbandonati in sacchi di plastica in una scarpata a Borno – ha rilasciato un’intervista a Il Corriere della Sera. Non ha altre parole se non definire Davide Fontana, il principale indiziato e reo confesso del truculento delitto, come “un mostro”, un uomo “diabolico”. “Scrivevo a mia figlia e lui mi rispondeva facendo finta di essere la mia Carol. Credevo che lei stesse bene invece l’aveva già ammazzata, ci siamo mandati messaggi anche per il mio compleanno , ma ora ho scoperto che era lui a farmi gli auguri, non mia figlia … Sono sconvolto, ditemi solo che non è vero”.
Secondo quanto riferito nell’interrogatorio dall’accusato, ora in carcere, il delitto si sarebbe consumato a inizio gennaio, oltre due mesi prima del ritrovamento dunque e della confessione. Fabio Maltesi ha 58 anni e risiede ad Amsterdam da dopo la fine del matrimonio con l’ex moglie italiana, si sta organizzando per venire in Italia. “L’ha uccisa come una bestia, nessuno merita di soffrire così, mia figlia ha fatto una fine terribile, ho sentito delle cose tremende su come l’ha ammazzata, è stato diabolico. Non riesco a crederci, mia figlia era bellissima, lei era la mia dolcissima Carol”.
Il dettaglio, già emerso in questi giorni, del cellulare della 26enne nelle mani di Fontana. “In verità credevo di sentirla sempre, perché in tutto questo tempo le ho scritto su Whatsapp. Anzi, in realtà io la chiamavo, ma trovavo spento, allora le scrivevo e lei mi rispondeva. Almeno, credevo fosse lei ma ora ho scoperto che era il suo assassino … pazzesco, è una cosa incredibile ciò che ha fatto quell’uomo“. Messaggi anche per il compleanno del padre, che qualcosa di strano aveva notato, come alcuni messaggi copia-incolla. “Allora le ho chiesto il perché e lei, anzi il suo assassino, mi ha risposto di essere a Dubai. Invece era già in cielo”.
Fontana avrebbe fatto lo stesso con altri amici e conoscenti della 26enne. Fabio Maltesi tornerà in Italia per prendersi cura dell’ex moglie e del nipote di sei anni, il figlio di Carol. “L’avvocato mi ha detto di non rilasciare interviste, ma io non parlo delle indagini, voglio solo che tutti sappiano che Carol era una creatura splendida, una figlia affettuosa, una mamma che adorava suo figlio, era piena di voglia di vivere. Non era una pornostar come sto leggendo, lei era un angelo“. Durante il lockdown la donna aveva avviato una carriera nell’hard sotto lo pseudonimo di Charlotte Angie.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
(ANSA) - E' stato tenuto in un congelatore, fatto a pezzi e poi gettato in un dirupo, il cadavere di Carol Maltesi, 25 anni, trovato il 21 marzo scorso in alcuni sacchi neri a Borno, nel bresciano, e di cui un uomo ha confessato l'omicidio la scorsa notte. Nei confronti dell'uomo, residente nel milanese, i carabinieri del Comando provinciale di Brescia e della Compagnia di Breno hanno eseguito alle 4:30 un provvedimento di fermo emesso dal pm di Brescia Lorena Ghibaudo. È accusato di omicidio volontario aggravato, distruzione e occultamento di cadavere.
Monica Serra per “la Stampa” il 29 marzo 2022.
L'età, l'altezza, i tatuaggi, come quella trama maculata sul gluteo sinistro. Qualcosa in più di semplici coincidenze. Il cadavere fatto a pezzi e ritrovato nel pomeriggio di domenica 20 marzo in una scarpata a Paline di Borno, nell'alta Val Camonica bresciana, al confine con la provincia di Bergamo, potrebbe appartenere a una nota pornodiva, scomparsa da settimane: il suo nome d'arte è Charlotte Angie. La pista principale battuta dai carabinieri porta a lei.
Italo olandese di ventisei anni, ex commessa diplomata in fashion design, che puntava a trasferirsi a Praga, ma viveva a Milano. Dove era attesa venerdì 11 marzo, tra le decine di ospiti del Luxy Erotic Festival, una tre giorni al Luxy club di corso Buenos Aires. E dove non si è mai vista.
«La sua presenza era prevista nel cartellone ma non è venuta e siamo stati costretti a rimpiazzarla con un'altra artista», conferma uno dei responsabili. Molto conosciuta per i suoi video estremi, amatoriali e professionali. Particolarmente quotata nell'ambiente e attiva sui suoi canali social e sul web, dove circolano anche diverse interviste.
Dopo il ritrovamento del cadavere sezionato e chiuso in quattro sacchi neri, congelato e poi abbandonato nella scarpata, col volto sfigurato dal fuoco forse proprio per impedirne il riconoscimento, erano stati i carabinieri del comando provinciale di Brescia, coordinati dal pm Lorena Ghibaudo, a diffondere l'elenco degli undici tatuaggi, nel tentativo di risalire al nome della vittima e risolvere il giallo.
Diverse le scritte su tutto il corpo: «step by step» sulla caviglia destra, «wanderlust» sulla clavicola destra, «elegance is the» sul lato destro della schiena lato destra, «be brave» sul gomito sinistro, «fly» sul polso destro, diverse «V» rovesciate sulle cosce, «te» sul dorso della mano sinistra. Tracce di altri tatuaggi erano visibili anche sulle dita della mano destra, oltre alla trama maculata sul gluteo.
Segni distintivi che sono rimasti impressi ai tanti fan di Charlotte. Diverse segnalazioni sono così arrivate alla redazione del sito d'informazione locale bsnews.it. Dopo la pubblicazione dell'articolo, domenica pomeriggio gli investigatori hanno sentito a verbale il direttore del quotidiano, Andrea Tortelli, e l'ascolto ha dato un'importante svolta alle indagini.
Gli esami eseguiti agli Spedali Civili dalla consulente Nicoletta Cerri avevano già stabilito l'età della vittima, presumibilmente compresa tra i trenta e i cinquant' anni, e l'altezza, che si aggira attorno al metro e sessanta. Le mani erano molto curate con uno smalto viola glitterato applicato sulle unghie. Il cadavere è stato sezionato con tagli netti. Chi l'ha uccisa ha sfigurato il volto con il fuoco, poi ha infierito sul corpo con un'accetta, o una sega elettrica, per farlo a pezzi e chiuderlo in quattro sacchi di plastica.
Per giorni li ha conservati in una cella frigorifera, come rivelavano i segni di disgelamento sui resti. Infine, ha scelto con cura il luogo in cui gettarli: una piazzola sterrata e isolata di una stradina di montagna, che collega la bresciana Borno e la bergamasca Dosso, la Val Camonica e la Val di Scalve sopra una scarpata troppo spesso usata come discarica a cielo aperto. A scoprire i sacchi è stato proprio un abitante del posto. Stufo dei vandali ha provato ad aprirne uno, in mezzo a tanta spazzatura.
E si è trovato davanti la mano della donna. Subito sono state avviate le indagini, che ora proseguono nel più stretto riserbo. Il sospetto degli investigatori è che possa trattarsi di un omicidio maturato nella cerchia di conoscenze o frequentazioni della vittima, come lascia pensare il tentativo di renderla irriconoscibile.
Chi l'ha ammazzata sperava che il corpo non venisse identificato, segnale che dal suo riconoscimento si sarebbe potuto risalire facilmente al nome del killer. Proprio per questo nelle ultime ore le indagini hanno avuto una forte accelerazione, tra interrogatori e accertamenti tecnici. L'inchiesta si sta allargando pure al Milanese, dove Charlotte viveva. Anche per stabilire con esattezza la data e l'ora della scomparsa, e i suoi ultimi contatti, compresi quelli telefonici, prima di svanire nel nulla.
Monica Serra per “la Stampa” il 3 Aprile 2022.
Non in maniera «grossolana», come aveva detto nel corso dell'interrogatorio. Davide Fontana ha ripulito il piccolo appartamento di Carol «accuratamente». Tanto che a occhio nudo, ieri mattina, appariva «quasi perfetto». Quasi, perché nel corso dell'ispezione della sezione Rilievi dei carabinieri, che ha fatto il primo sopralluogo nella corte di via Melzi a Rescaldina dove vittima e presunto assassino vivevano, piccole, piccolissime tracce ematiche sono state individuate. Minuscoli schizzi di sangue sfuggiti al bancario e food blogger quarantatreenne che ha confessato di aver ammazzato Carol Maltesi, in arte Charlotte Angie, il 10 gennaio.
Proprio la camera da letto al primo piano in cui Fontana ha ucciso a martellate la ventiseienne, «colpendola più volte con bestiale violenza per poi tagliarle la gola con modalità che nulla hanno di compassionevole», era piena di peluche.
Piccoli, grandi. Sui ripiani attorno al palo di lap dance a cui quella mattina di tre mesi fa Carol era legata mani e piedi per girare un video erotico con l'amico, di cui «si fidava ciecamente». E quei peluche hanno fatto «una grande tenerezza e molta tristezza» anche al procuratore di Busto Arsizio, Carlo Nocerino, che ha appena ereditato il fascicolo per competenza territoriale da Brescia e ieri ha seguito di persona i rilievi. «Magari erano del figlioletto di sei anni - spiega - ma sembravano proprio suoi, di Carol».
Ogni cosa nella casa era al suo posto, in ordine. Nella cucina al piano terra c'era ancora il freezer a pozzetto che Fontana racconta di aver acquistato su Amazon per conservare i resti della ragazza, dopo averla fatta a pezzi col seghetto e l'accetta. È stato disinfettato al punto da sembrare nuovo, come anche gli stracci usati sono già stati lavati.
Nell'appartamento della vittima è stato sequestrato un cellulare: forse proprio quello che Fontana aveva usato per oltre due mesi dopo il femminicidio, per respingere le telefonate e rispondere ai messaggi della famiglia di Carol, per rassicurare la mamma e il papà: «Sto bene, sono a Dubai per lavoro».
In casa c'erano anche alcuni giocattoli del figlio, che viveva con il padre nel Veronese e a cui Carol aveva deciso di avvicinarsi. Per Fontana - spiega il giudice che ha convalidato il fermo - è stata questa la "colpa" della ragazza: «Volere seguire i propri progetti e aspirazioni lontano dall'indagato». Mentre - ha confessato il quarantatreenne - lei «per me era tutto».
Prima di concludere il sopralluogo, i carabinieri sono entrati anche a casa di Fontana, per sequestrare alcuni oggetti, tra cui due computer. I prelievi delle tracce trovate saranno effettuati solo in seguito, in presenza dei consulenti di parte. Il difensore Stefano Paloschi, che ieri è tornato a trovare Fontana in isolamento nel carcere di Canton Mombello, si è riservato di chiedere l'incidente probatorio. Presto il bancario sarà interrogato ancora.
È della pornodiva Charlotte Angie il cadavere fatto a pezzi a Borno: arrestato un 43enne. La Stampa il 29 marzo 2022.
Questa mattina i carabinieri del comando provinciale di Brescia e della compagnia di Breno hanno fermato un uomo di 43 anni residente nel milanese. Il provvedimento è stato emesso dal pm Lorena Ghibaudo per i reati di omicidio volontario aggravato, distruzione e occultamento di cadavere. Il 43enne è sospettato di essere responsabile per la morte della donna ritrovata il 20 marzo a Borno, in Valcamonica. Il corpo della giovane era stato fatto a pezzi e gettato in un dirupo. Il ritrovamento è avvenuto grazie ad un cittadino che, accortosi della presenza di quattro sacchi neri de3lla spazzatura, ne aveva aperto uno, rinvenendo pezzi di cadavere umano ed in particolare, tra i pochi identificabili, una mano di donna. I carabinieri, avvisati dal passante, hanno avviato le indagini, rese molto difficili dalla totale assenza di elementi utili all'identificazione della vittima. Gli investigatori hanno deciso di pubblicare un comunicato nel quale descrivevano alcuni tatuaggi ancora parzialmente visibili sul corpo della donna. Proprio questo particolare ha permesso di stabilire che la vittima era Charlotte Angie, 26 anni, italo olandese, ex commessa diplomata in fashion design, diventata diva del cinema porno. L'auto della donna proprio il 20 marzo era passata nel territorio di Borno. Alla guida, però, c'era il 43enne che aveva le chiavi e che era già stato fermato a bordo del veicolo. Ieri l'uomo, amico e vicino di casa della vittima, si è presentato dai carabinieri per fornire informazioni sulla scomparsa di Charlotte Angie, dando però informazioni in contrasto con le indagini. Il 43enne, interrogato alla presenza del suo avvocato per tutta la notte, alla fine ha confessato. Il 43enne ha ammesso di aver ucciso l'amica a gennaio, poi di aver nascosto il suo corpo in un congelatore nella casa della stessa vittima. Solo dopo fatto a pezzi il cadavere, gettandolo nel dirupo di montagna. Il racconto dell'uomo ha chiarito molti particolari e adesso la Procura e i carabinieri sono al lavoro per cercare ulteriori riscontri.
La ragazza fatta a pezzi è Charlotte Angie, attrice hard scomparsa. Fermato un uomo, ha confessato. Mara Rodella, Redazione Cronache su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.
Svolta nel giallo della scomparsa a Borno di Carol Maltesi, 26 anni, conosciuta come Charlotte Angie: la ragazza è stata uccisa, e il suo corpo è stato fatto a pezzi e buttato in un dirupo, in alcuni sacchi neri. Fermato un vicino di casa di 43 anni. Svolta nel giallo di Borno. Un uomo di 43 anni è stato fermato e ha confessato di aver ucciso Carol Maltesi , 26 anni, nota anche con il nome di Charlotte Angie , il cui corpo era stato ritrovato domenica scorsa, 20 marzo, in una scarpata a bordo di una strada interna della Valcamonica, nella piccola frazione di Paline di Borno, in provincia di Brescia, al confine con quella di Bergamo: tenuto in un congelatore, sezionato in almeno una quindicina di pezzi, chiuso in quattro sacchi neri e abbandonato tra rovi e rifiuti. L’uomo è accusato di omicidio volontario aggravato, distruzione e occultamento di cadavere.
L’impulso alle indagini è stato dato da una segnalazione (pervenuta al sito locale bsnews.it ) attorno alla quale gli inquirenti hanno concentrato le verifiche.
In base alla corporatura esile (un metro e sessanta di altezza per circa cinquanta chili) delle vittima ma anche ad almeno sette degli undici tatuaggi riscontrati dal medico legale — e divulgati dagli inquirenti — il corpo risultava compatibile con i disegni sulla pelle di Carol Maltesi, conosciuta come Charlotte Angie, una casa nel milanese, metà italiana e metà olandese, scomparsa da giorni.
Da giorni i suoi profili social, come le piattaforme in cui si esibisce, risultavano inattivi: nessun post o aggiornamento. Non solo. Definita dagli addetti ai lavori, nei mesi scorsi, «l’astro nascente dell’hard italiano», la sua partecipazione come stripper era annunciata, in locandina e in Rete, in un locale in centro a Milano, per un evento in programma dall’11 al 13 marzo scorso. Ma i riscontri sulla sua effettiva presenza erano risultati negativi. Vani anche i tentativi di contattarla: il telefono risultava staccato. Nel frattempo, hanno lavorato per ricostruire legami e movimenti di Carol, contattando le persone a lei vicine e chi la conosceva.
Al vaglio di chi indaga anche l’analisi incrociata delle immagini cristallizzate dalle telecamere di videosorveglianza installate nella zona e sulle arterie stradali vicine al punto del ritrovamento del corpo: ad avvistare i sacchi, attorno alle 15.30 di domenica, è stato un residente della zona di sessant’anni. Certo si trattasse di spazzatura, con l’intento di rimuovere dal dirupo quei sacchi neri, si è avvicinato al primo, buttato a circa sette metri dalla carreggiata. È bastato smuoverlo un po’ per accorgersi fosse in parte lacerato, e notare una mano sporca di terra. La mano di una donna: con le unghie molto curate, smaltate di lilla con i glitter argento. Subito ha avvisato le forze dell’ordine, innescando l’indagine che ha portato alla svolta nella notte tra lunedì e martedì.
L’assassinio avvenuto a Milano
Secondo quanto confessato dall’uomo, l’omicidio sarebbe avvenuto a gennaio. Dalle indagini era emerso che lo scorso 20 marzo l’auto intestata a Carol Maltesi era transitata, proprio in territorio di Borno, guidata da un uomo.
Ieri l’uomo, vicino di casa della vittima, si è presentato in caserma per fornire informazioni sulla donna scomparsa: ma le sue parole «si rivelavano contraddette dalle emergenze investigative fino a quel momento acquisite», spiegano gli inquirenti.
Interrogato dal magistrato e dai carabinieri, l’uomo ha poi confessato l’omicidio e l’occultamento del cadavere, avvenuti a gennaio 2022. Il corpo sarebbe stato prima riposto in un congelatore nella casa della stessa vittima e poi gettato nel dirupo di montagna. L’omicidio e la distruzione del cadavere sono avvenuti a Milano; mentre l’occultamento è avvenuto a Brescia. L’uomo — come rivelato dal sito BSNews - ha anche risposto al cellulare fingendo di essere la sua vittima, tra l’altro rispondendo alle domande di alcuni giornalisti della testata locale.
Fatta a pezzi e surgelata: arrestato il killer della donna gettata nel dirupo. Angela Leucci il 29 Marzo 2022 su Il Giornale.
È di Carol Maltesi il corpo smembrato rinvenuto nei giorni scorsi nel Bresciano: il presunto killer è un vicino di casa di 43 anni.
Ha un nome il corpo di donna trovato a pezzi in un dirupo nel Bresciano lo scorso 21 marzo. E ha un volto il suo presunto killer. La vittima, come diffuso da Agi, si chiamava Carol Maltesi, aveva 25 anni ed era un’attrice hard milanese, nota nell’ambiente con il nome d’arte di Charlotte Angie.
Il presunto assassino è invece un uomo di 43 anni, che ha confessato l’omicidio stanotte. Stando al suo racconto, Carol sarebbe stata uccisa, congelata e successivamente fatta a pezzi e gettata nella scarpata di Paline di Borno, in provincia di Brescia, dove è stata ritrovata. L’uomo è in stato di fermo su disposizione del pm di Brescia Lorena Gribaudo con l’accusa, come riporta Ansa, di omicidio volontario aggravato, distruzione e occultamento di cadavere.
Tutto sarebbe iniziato a gennaio, quando cioè sarebbe avvenuto l'omicidio. Il reo confesso avrebbe ucciso Carol, del quale si è detto amico e vicino di casa. Dopo di che ne avrebbe chiuso il corpo in un congelatore e l’avrebbe fatta a pezzi, portandone i resti a Borno il 20 marzo con l’automobile della stessa giovane. Vettura che in effetti era stata vista transitare sul luogo, condotta dall’uomo, e i carabinieri ne erano venuti recentemente a conoscenza nel corso delle loro indagini.
Nella giornata di ieri il 43enne si era recato spontaneamente dai militari, "offrendo circostanze che subito si rivelavano contraddette dalle emergenze investigative fino a quel momento acquisite”, come hanno spiegato gli inquirenti. Sottoposto a diverse contestazioni, anche in sede di formale interrogatorio, l’uomo ha confessato. Del caso si interesseranno due procure: quella di Brescia che è di pertinenza alla zona di ritrovamento del corpo e quella di Milano, dove sarebbero avvenuti l’occultamento e la distruzione di cadavere.
L'uomo si sarebbe spacciato per Carol per alcune settimane, utilizzando il telefono della vittima. Un giornalista di BsNews aveva infatti cercato di contattare l'attrice riconoscendo nei suoi i tatuaggi trovati sul cadavere. "Non ho tempo adesso per i giornalisti e per spiegare perché ho lasciato il porno - ha scritto il 43enne a un cronista, fingendosi Carol - Ah ho capito mi hanno già detto diverse persone di quella ragazza. Io sto bene fortunatamente".
La fanno a pezzi e la gettano nel dirupo: la lista dei tatuaggi per capire chi è
Come ricorda Adnkronos, il ritrovamento del corpo smembrato di Carol era avvenuto il 21 marzo grazie a un residente locale che aveva notato quattro bustoni neri di plastica nel dirupo: aprendone uno aveva scorto una mano femminile, avvisando immediatamente i carabinieri. Sono così partite, tempestive, le indagini sul possibile responsabile, che hanno portato all'arresto di stanotte.
Contemporaneamente erano partite le ricerche dell’identità della donna uccisa, alla quale si è risaliti soprattutto grazie alla presenza di alcuni tatuaggi come dei disegni animalier su una delle natiche e due V rovesciate. Inizialmente si era parlato di una presunta influencer scomparsa ma ben presto è giunta la certezza che si trattasse di Carol Maltesi. Non è ancora stato reso noto il presunto movente dell’omicidio.
"Psicopatico e manipolatore". Nella testa del killer di Carol. Rosa Scognamiglio l'1 Aprile 2022 su Il Giornale.
Il dottor Silvio Ciappi, criminologo e psicoterapeuta, analizza il comportamento del killer di Carol Maltesi: "Un soggetto privo empatia. Si sente onnipotente, grandioso, bugiardo, manipolatore".
Carol Maltesi, 26 anni, è stata uccisa perchè voleva lasciare Rescaldina.
Uccisa con un martello, fatta a pezzi e poi gettata in una scarpata tra le montagne di Borno, nel Bresciano. È il racconto di un femminicidio efferato, quello di Carol Maltesi, 25 anni, vittima della furia omicida del vicino di pianerottolo Davide Fontana. Per sessantanove giorni il killer, reo confesso, ha stipato i resti della ragazza in un congelatore a pozzetto, salvo poi disfarsene lo scorso 20 marzo.
L'autore del delitto - bancario, food blogger e con una passione per il porno - ha rivelato i dettagli del truce omicidio nel corso della confessione resa ai carabinieri del comando provinciale di Brescia lo scorso martedì sera. A verbale la narrazione di un film dell'orrore fitto di retroscena raccapriccianti. "Ci troviamo difronte a un soggetto psicopatico. Carol è stata ridotta a un corpo da consumare e smembrare, un oggetto inanimato", spiega alla nostra redazione lo psicoterapeuta e criminologo Silvio Ciappi, esperto di indagini criminologiche su casi di depezzamento e cannibalismo.
Dottor Ciappi, quali sono gli aspetti più cruenti di questo omicidio?
"Alla luce di quanto emerso sinora, attraverso le dichiarazioni rese dal presunto assassino agli inquirenti, gli aspetti più cruenti stanno nelle modalità del delitto, ma anche nel comportamento post delictum, nelle dichiarazioni rese, nei comportamenti avuti nel periodo intercorso tra la morte della ragazza e il rinvenimento del cadavere".
Procediamo per punti. Cosa intende per modalità del delitto?
"Mi riferisco sia al fatto che abbia colpito la vittima con un martello ma anche, e soprattutto, che abbia depezzato il cadavere. È una modalità arcaica, che rimanda a una mitologia ancestrale di divoramento e annientamento del corpo, basti pensare alla mitologia greca, ai divoramenti bacchici, archetipi che portano dritti al nesso moderno tra 'sesso perverso e distruzione del corpo'."
Cioè?
"Il presunto assassino ha parlato di 'gioco erotico finito male'. E probabilmente, nella drammaticità della circostanza, è vero".
In che senso?
"Nel senso che, inscenando questa orrenda spiccata perversione sessuale, il reo confesso Fontana ha disumanizzato la vittima. Carol è diventata un oggetto di piacere, priva di qualunque dimensione umana. Quindi l'ha colpita e poi l'ha fatta a pezzi ".
Fontana dice: "L'ho colpita sul corpo, piano. Poi quando sono arrivato verso la testa non ho capito più nulla". Perché?
"La 'testa' racchiude il volto e il volto, sopratutto gli occhi, sono l'anima di una persona. Carol era coperta con un 'sacco nero' – secondo il racconto dell'assassino – e quindi era divenuto un corpo senza volto. Probabilmente, ma ragioniamo nel campo delle ipotesi, se non avesse avuto la testa coperta non sarebbe andata così".
Il killer ha dichiarato di aver dapprima tentato di incenerire i resti in un barbecue e poi di averli messi di un congelatore. C'è un motivo?
"Non mi stupisce. Questa sua dichiarazione rafforza l'idea che, nella sua fantasia perversa, si trovasse davanti a un oggetto inanimato, un corpo da consumare e smembrare".
Come possiamo profilare, dal punto di vista psicologico e criminologico, l'autore dell'omicidio?
"Verosimilmente siamo davanti a un soggetto psicopatico e, nello specifico, un 'narcisista maligno'. A questa grave forma di patologia aggiungo la perversione feticistica e antisociale, secondo la quale l'altro diventa un oggetto. Persone per le quali gli altri sono riducibili semplicemente a corpi, a oggetti, e se non servono più vengono divorati o buttati via o come in questo caso uccisi".
Ovvero?
"Il narcisista maligno è un soggetto privo empatia, non ha la percezione dell'altro nella sua totalità di individuo. È onnipotente, grandioso, bugiardo, manipolatore. Pone se stesso e il soddisfacimento del proprio piacere al centro delle relazioni".
Il 43enne ha detto anche di aver reciso la gola alla vittima "per farla smettere di soffrire". Non è un paradosso?
"Per una persona moralmente integra sì. Ma in questo caso ci troviamo di fronte a un soggetto psicopatico (o almeno così sembrerebbe). Questo 'atto di pietà' nei confronti della vittima – mi riferisco alla scelta di reciderle la gola – comprova l'ipotesi che il presunto assassino fosse in preda a un delirio di onnipotenza. Del resto lo ha dimostrato anche nella fase post delictum".
Cosa può dirci a tal riguardo, cioè sul comportamento dell'assassino dopo il delitto?
"Fontana è rimasto lucido e razionale. Ha dimostrato di avere una forte cognizione cognitiva. Basti pensare che si è procurato il seghetto e il congelatore a pozzetto per disfarsi del cadavere. Ha ripulito la scena del crimine e lavato gli stracci in lavatrice. Ha agito con metodo e freddezza. Non ha avuto alcuna reazione emotiva".
Per due mesi Fontana ha finto di essere Carol rispondendo ai messaggi di amici e parenti della vittima. Per quale motivo lo ha fatto?
"Sicuramente lo ha fatto per evitare di insospettire i familiari della ragazza ma, a mio avviso, c'è anche dell'altro. Il presunto assassino pensava di farla franca. E non credo si trattasse di una speranza ma di un convincimento profondo alimentato ancora una volta da un senso sadico di onnipotenza".
Fatta a pezzi e gettata nel dirupo: chi era la commessa diventata diva hard
"Lucido e razionale" ma poi, alla fine, ha confessato. Secondo lei, perché?
"Lo ha spiegato lui stesso nel corso della confessione resa ai carabinieri: 'Per togliersi un peso'. Ancora una volta ha confermato di aver disumanizzato la vittima. Quel cadavere sulla coscienza era un ostacolo, un 'peso' di cui liberarsi. Per certo, non lo ha fatto per rimorso nei confronti della povera ragazza".
Crede che abbia raccontato tutta la verità?
"Questo non lo so, bisognerà indagare. È pur vero che non mi stupirebbe se avesse mentito. La menzogna rientra tra le caratteristiche dei narcisisti maligni".
Ritiene ci sia il rischio di reiterazione?
"Direi che le probabilità sono molto elevate. Da criminologo e psicoterapeuta mi auguro che in futuro si ravveda. Ma allo stato attuale dei fatti, dubito fortemente che accadrà".
Carol Maltesi: Procura, trovati riscontri. ANSA il 2 aprile 2022.
"Abbiamo trovato riscontri alle dichiarazioni dell'indagato nell'appartamento, sono state individuate tracce ematiche". Sono le parole del Procuratore della Repubblica di Busto Arsizio (Varese), Carlo Nocerino, al termine dei primi a accertamenti dei carabinieri della Sezione Investigativa di Brescia nell'appartamento di Carol Maltesi, la 26 enne trucidata nella sua casa di Rescaldina (Milano), dal 43 enne, Davide Fontana, suo vicino di casa che ha confessato l'omicidio.
"La ricostruzione di come è avvenuto il delitto è ancora in itinere - ha aggiunto - L'indagato verrà interrogato nuovamente nei prossimi giorni". L'appartamento del delitto, ha raccontato il Procuratore, è stato totalmente ripulito dal killer. Anche il piano superiore, dove si trova il palo da lap dance a cui Fontana ha detto di aver legato Carol con la scusa di girare un video erotico, per poi colpirla a morte. "È stato tutto accuratamente lavato, abbiamo trovato diversi stracci da periziare", ha precisato il Procuratore, mentre il congelatore dove il killer ha conservato il corpo della vittima dopo averla fatta a pezzi "era posizionato al piano di sotto, un freezer molto grande rispetto alla metratura del cucinotto".
Stessi accertamenti sono stati svolti in casa di Fontana, dove Nocerino ha spiegato "sono state ricercate tracce ematiche e sequestrati device elettronici, che saranno analizzati".
"L'unica cosa che posso dire è che fanno tristezza e tenerezza i tanti pupazzi che aveva in casa" Carol, forse per il suo bambino "o forse suoi", ha concluso il Procuratore.
A carico di Fontana, ha concluso Nocerino "non sono emersi precedenti psichiatrici di alcun tipo". (ANSA).
Uccisa e fatta a pezzi, in casa di Carol Maltesi trovate tracce di sangue. Giuseppe Spatola il 2 Aprile 2022 su Il Giornale.
Il procuratore di Busto Arsizio, Carlo Nocerino, conferma i riscontri: "Fanno tristezza e tenerezza i tanti pupazzi che aveva in casa".
Mattina di indagini dei Ris dei Carabinieri entrati in casa di Carol Maltesi, la 26 enne presa a martellate, sgozzata e fatta a pezzi dal vicino di casa, reo confesso, Davide Fontana, 43 enne di Rescaldina (Milano). Sul posto i carabinieri della Sezione Investigazioni Scientifiche di Brescia che hanno passato al setaccio le abitazioni di vittima e killer per trovare riscontri a quanto raccontato da Fontana durante l’interrogatorio di garanzia. Sono state messe sotto sequestro anche le due auto. A supervisionare le operazioni il procuratore della Repubblica di Busto Arsizio (Varese), Carlo Nocerino, che ha ereditato il fascicolo di inchiesta dalla Procura di Brescia.
Il Procuratore e i Ris al lavoro
Si sono cercate tracce, anche biologiche, che confermino la ricostruzione dell'omicidio, anche a seguito dell'interrogatorio reso da Fontana al Gip di Brescia, prima del cambio di ufficio giudiziario per competenza territoriale. “Abbiamo trovato riscontri alle dichiarazioni dell'indagato nell'appartamento, sono state individuate tracce ematiche“, ha rimarcato il Procuratore Nocerino. Non solo. “La ricostruzione di come è avvenuto il delitto è ancora in itinere - ha aggiunto -. L'indagato verrà interrogato nuovamente nei prossimi giorni".
Pelusce e pupazzi sul luogo dell'omicidio
L'appartamento del delitto, ha raccontato il procuratore, è stato totalmente ripulito dal killer. Anche il piano superiore, dove si trova il palo da lap dance a cui Fontana ha detto di aver legato Carol con la scusa di girare un video erotico, per poi colpirla a morte. Il procuratore ha sottolineato come sia “stato tutto accuratamente lavato, abbiamo trovato diversi stracci da periziare", mentre il congelatore dove il killer ha conservato il corpo della vittima dopo averla fatta a pezzi "era posizionato al piano di sotto, un freezer molto grande rispetto alla metratura del cucinotto“. Stessi accertamenti sono stati svolti in casa di Fontana. “L'unica cosa che posso dire è che fanno tristezza e tenerezza i tanti pupazzi che aveva in casa“ Carol, forse per il suo bambino “o forse suoi“, ha concluso il procuratore.
Tra sangue e telefonini i rilievi a casa di Carol "Omicidio premeditato". Cristina Bassi il 3 Aprile 2022 su Il Giornale. Sopralluogo dei Ris nell'appartamento della 26enne e in quello del killer: "Tracce ripulite".
Tracce di sangue, quindi prove del delitto, sono state trovate ieri nella casa di Carol Maltesi, la donna di 26 anni uccisa e poi fatta a pezzi a Rescaldina, non lontano da Milano. Nella mattinata i carabinieri del Reparto investigazioni scientifiche di Brescia hanno effettuato un sopralluogo nell'abitazione con rilievi e analisi biologiche.
Il primo risultato degli accertamenti è stato comunicato dal procuratore di Busto Arsizio, in provincia di Varese, Carlo Nocerino, competente per le indagini sull'omicidio. «Abbiamo trovato riscontri alle dichiarazioni dell'indagato nell'appartamento, sono state individuate tracce ematiche», ha spiegato il magistrato. Il vicino di casa della vittima, il 43enne Davide Fontana, ha confessato di averla uccisa. «La ricostruzione di come è avvenuto il delitto è ancora in itinere - continua il procuratore - L'indagato verrà interrogato nuovamente nei prossimi giorni». L'appartamento della 26enne, ha aggiunto Nocerino, è stato totalmente ripulito dal killer. Anche il piano superiore, dove si trova il palo per la lap dance, cui Fontana ha detto di aver legato Carol con la scusa di girare un video erotico, per poi colpirla con un martello e accoltellarla. O almeno questo è il racconto di Fontana, cui gli inquirenti cercano riscontro. «È stato tutto accuratamente lavato, abbiamo trovato diversi stracci da periziare». Il sangue della vittima è stato lavato ed era in apparenza sparito, ma i rilievi scientifici hanno comunque ritrovato le tracce. Il congelatore comprato online dell'uomo proprio per nasconderci il cadavere fatto a pezzi infine «era posizionato al piano di sotto, un freezer molto grande rispetto alla metratura del cucinotto».
Anche nella casa di Fontana sono stati fatti gli stessi accertamenti alla ricerca di residui di sangue. Ancora il procuratore: «Sono state ricercate tracce ematiche e sequestrati device elettronici, che saranno analizzati. L'unica cosa che posso dire è che fanno tristezza e tenerezza i tanti pupazzi che aveva in casa» la donna, forse per il suo bambino di sei anni «o forse suoi». Sull'indagato, ha concluso Nocerino, «non sono emersi precedenti psichiatrici di alcun tipo». Sotto sequestro ci sono anche l'auto della donna e quella del bancario.
Fontana, con cui Carol Maltesi aveva una relazione, ha fornito il proprio racconto del delitto davanti al gip di Brescia Angela Corvi, prima che l'indagine fosse trasferita a Busto Arsizio per competenza territoriale. Il movente dell'omicidio, dichiarato dallo stesso indagato, è stato il progetto della giovane donna di lasciare Rescaldina e rifarsi una vita in Veneto per stare più vicina al figlio piccolo. Per il gip, nessun gioco erotico finito male o raptus improvviso alla base dell'omicidio bensì un piano ben studiato in precedenza. Per oltre due mesi, dall'uccisione al ritrovamento dei resti della donna, poi identificata grazie ai tatuaggi, in un dirupo a Borno nel Bresciano, Fontana ha continuato a condurre la propria vita. E a simulare il fatto che Carol fosse ancora viva, rispondendo con il suo telefono ai messaggi dei genitori, di amici e colleghi di lavoro. La 26enne da qualche tempo aveva intrapreso la carriera di porno attrice. Poche ore prima di essere massacrata, la vittima aveva mandato un messaggio vocale alla madre: «Verrò presto a trovarti», diceva.
Charlotte Angie, "non so perché ho iniziato": dopo che era morta... la terrificante confessione del killer. Libero Quotidiano il 31 marzo 2022.
"Ho legato la ragazza a un palo con un nastro telato nero e un sacchetto di plastica nero sulla testa": inizia così il raccapricciante racconto che il bancario Davide Fontana ha fatto ai carabinieri, parlando della morte di Carol Maltesi, conosciuta anche come Charlotte Angie. Stando alla versione dell'uomo, lui e la 26enne dovevano girare due video erotici la mattina del 10 o forse dell’11 gennaio, nell'abitazione della ragazza alle porte di Milano. Qualcosa, però, è sfuggito di mano.
"Era in piedi, con i polsi legati dietro la vita e al palo. In una seconda fase l’ho slegata dal palo, l’ho sdraiata a pancia in su e le ho legato nuovamente i polsi al palo, e anche i piedi. Ho poi preso un martello e iniziato a colpirla su tutto il corpo, non forte, partendo dalle gambe. Quando sono arrivato verso la testa ho iniziato a colpirla forte, non so bene il perché", ha continuato Fontana, come riporta il Giornale. Il bancario non avrebbe risparmiato i dettagli: "Credo che a quel punto fosse già morta. E non sapendo che altro fare, le ho tagliato la gola con un coltello da cucina che poi ho buttato in un cestino dell’immondizia. Mi è sembrato un atto di pietà, vedevo che stava soffrendo".
Fontana avrebbe cercato di depistare le indagini per ben due mesi. Dopo avere ucciso la 26enne, mamma di un bimbo di 6 anni, commessa e attrice hard, con cui aveva pure avuto una relazione in passato, il bancario avrebbe pensato a tutto per sbarazzarsi del corpo. E avrebbe quindi acquistato un’accetta, una sega e un freezer. Dopo aver tagliato a pezzi il corpo della ragazza in oltre 15 parti, avrebbe cercato di bruciare i suoi tatuaggi e rendere irriconoscibile il volto. Poi avrebbe spostato tutto nel congelatore installato a casa della 26enne. Solo dopo settimane, il bancario avrebbe deciso di disfarsi del corpo della ragazza, buttando quattro sacchi neri con i resti umani all'interno in una scarpata al confine tra le province di Brescia e Bergamo, in Valcamonica. Dove poi sono stati avvistati da un passante. Tutto confessato dall'uomo durante l'interrogatorio di convalida del fermo. Per il giudice Fontana avrebbe ucciso la ragazza perché voleva lasciare Rescaldina per trasferirsi in provincia di Verona per avvicinarsi così al figlio.
Charlotte Angie, Malena: "Cosa mi ha scritto l'uomo che l'ha uccisa con il suo telefono". Libero Quotidiano l'01 aprile 2022.
Malena aveva conosciuto Carol Maltesi, attrice a luci rosse conosciuta come Charlotte Angie, uccisa dal vicino di casa Davide Fontana, fatta a pezzi e gettata in un dirupo in Valcamonica. "Sembri una bambina, hai già un figlio?", le aveva detto la musa di Rocco Siffredi quando la giovane si era rivolta a lei per avere dei consigli sul mondo del cinema hard.
"Ho avuto il piacere di conoscere Carol e di trascorrere quattro giorni insieme a lei sul set. La prima cosa di cui sono rimasta impressionata è stata la dolcezza e poi la bellezza di questa ragazza", ha raccontato Malena a Pomeriggio 5, nella puntata del 1 aprile. "Aveva 26 anni, ma sembrava una bambina. Mi ha chiesto consigli sul mio lavoro e poi mi ha parlato del figlio. 'Non vivo con lui – mi raccontava –, ma il mio desiderio più grande è di riappacificarmi con lui'".
Ad un certo punto, ha continuato la pornostar, non si sono più sentite: "Era diverso tempo che non partecipava ad alcuni eventi e lui (Fontana, ndr) attraverso il suo telefonino aveva scritto di non voler fare più questo lavoro. A me sembrava strano perché aveva appena incominciato".
"Riconosciuta dai tatuaggi? Ma...". Poi Zelig cancella il comico. Novella Toloni il 30 Marzo 2022 su Il Giornale.
Dopo la battuta infelice su Carol Maltesi, la 25enne uccisa e fatta a pezzi, Pietro Diomede è finito al centro di una bufera social. Il comico doveva essere a Zelig, ma lo show lo ha escluso.
Si chiama Pietro Diomede ed è salito alla ribalta della cronaca non per un monologo comico sensazionale, ma per un tweet di pessimo gusto su Carol Maltesi, la 25enne uccisa e smembrata dal vicino di casa. "Che il cadavere di una Pornostar fatto a pezzi venga riconosciuto dai tatuaggi e non dal diametro del buco del culo non gioca a favore della fama della vittima", ha scritto il comico attraverso il suo profilo Twitter e le sue parole lo hanno fatto finire nella bufera.
"Scherzo su tutto senza limiti. Infatti il personaggio che cerco di portare anche sul palco si chiama Cattivissimo Diomede", aveva dichiarato in un'intervista rilasciata nel 2017. Ma questa volta la sua comicità cinica gli è costata cara. Il cinguettio condiviso sul popolare social network su uno dei fatti di cronaca più cruenti degli ultimi tempi gli è costato non solo gli insulti del popolo del web, ma anche la partecipazione allo show Zelig.
Diomede - di cui si conosce ben poco - avrebbe dovuto prendere parte allo show in programma il prossimo 12 aprile sul palco di Zelig a Milano "con un monologo devastante", aveva annunciato il comico sui suoi canali social. Ma su quel palco non ci salirà proprio. In seguito al clamore suscitato dalle sue parole e dalle migliaia di segnalazioni, gli organizzatori di Zelig hanno deciso eliminarlo dal cartellone. "Abbiamo ricevuto segnalazioni in seguito al tweet di un artista che avrebbe dovuto esibirsi presso lo Zelig il 12 Aprile. Ci dissociamo completamente da quel Tweet, che disapproviamo nella maniera più assoluta. Di conseguenza, l'artista è stato escluso dalla programmazione Zelig", si legge sulla pagina ufficiale dello show.
Il food blogger, l'ex pornostar pentita e il massacro tenuto nascosto per mesi
Da ore su Twitter il profilo del comico è bersaglio di messaggi di sdegno e offese e il suo account è oggetto di segnalazioni in massa. Anche l'attrice hard Malena si è detta scioccata dalle parole di Diomede nei confronti di Carol Maltesi, madre di un bambino di 6 anni ed ex attrice hard con il nome d'arte Charlotte Angie. "Mi auguro che Zelig non lo ospiti, questo non è umorismo da comico", ha scritto nelle storie del suo profilo Instagram Malena, stringendosi al fianco della famiglia della vittima. Al momento il comico non ha rilasciato dichiarazioni. Di sé lui scrive sui social: "Sono l'anello di congiunzione tra una testa e un cazzo". Non servono altre parole.
Il tweet vergognoso e la cacciata da Zelig. Chi è Pietro Diomede, il comico e la ‘battuta’ su Carol Maltesi: “Non ho limiti perché ho sofferto troppo”. Redazione su Il Riformista il 30 Marzo 2022.
E’ stato cancellato dallo Zelig di Milano, dove doveva esibirsi il prossimo 12 aprile, in seguito a una ‘battuta’ disgustosa fatta su Twitter che ironizzava sulla morte di Carol Maltesi, la 26enne uccisa e fatta a pezzi nella sua casa di Rescaldina, nel Milanese, dal vicino di casa Davide Fontana. Quest’ultimo poi l’ha tenuta ‘nascosta’ per due mesi, fino a buttarne i resti in un dirupo a Borno, nella Val Camonica.
Pietro Diomede è un comico, noto per la partecipazione a diversi show televisivi. E cresciuto a Follonica in Toscana (oggi vive a Rho, in provincia di Milano) e non ha mai nascosto il suo forte spirito critico e la sua satira che “deve essere cattiva, deve colpire”, raccontò prima della sua esibizione a Eccezionale Veramente su La7.
Più volte in passato ha sottolineato di non concepire argomenti intrattabili e nel 2017, alla rivista GQ, raccontò di aver avuto un passato segnato da tre grosse perdite, tutte dovute al cancro: quelle di suo padre, sua madre e sua sorella, quest’ultima morta a 29 anni.
“Per dieci anni della mia vita ho dovuto frequentare il reparto oncologico di Pisa dove ho visto morire la mia famiglia colpita da una serie di tumori uno dietro l’altro: padre, madre e sorella. La comicità mi ha salvato. Potevo dire che la vita è una merda e invece ho deciso di ridere alla vita, quindi le battute che faccio sui terminali e la malattia nascono da un’esperienza personale. Questa è la vera chiave per cui estremizzo e vado oltre ogni limite perché io sono stato costretto ad andare oltre ogni limite. Adesso posso spaziare da tutte le parti e mi sento autorizzato a farlo.”
Pietro Diomede si definisce politicamente scorretto su tutto “e non solo sui morti ma anche sui disabili, i malati di tumori e ho anche una sottile vena di sessismo perché scrivo le cose che alla gente non piace sentirsi dire. Hai presente ciò che uno pensa ma non vuole dire? Io lo dico”.
L’ultima “perla” l’ha vomitata sull’omicidio di Carol Maltesi: “Che il cadavere di una Pornostar fatto a pezzi venga riconosciuto dai tatuaggi e non dal diametro del buco del culo non gioca a favore della fama della vittima”, facendo riferimento ai video hard postati dalla giovane vittima sulla piattaforma Onlyfans e alla svolta nelle indagini arrivata grazie alla diffusione da parte degli inquirenti dei tatuaggi della 26enne, che hanno spinto alcuni ‘followers’ a indicarla come possibile vittima quando ancora non era chiaro di chi fossero i resti trovati a Borno.
LA FAMIGLIA DI CAROL: “VALUTIAMO AZIONI LEGALI, CATTIVERIA ASSURDA”
Raggiunta dall’agenzia Ansa, l’avvocato Manuela Scalia, legale della mamma di Carol, annuncia: “Valuteremo eventuali azioni legali, trovo inconcepibile che davanti alla morte di una ragazza di 26 anni, ci sia chi si permette di dire certe cose, di fare battute indecenti. La cattiveria delle persone la stiamo percependo in questi giorni – ha proseguito Scalia – E’ assurdo che invece di concentrarsi sul fatto che una ragazza giovane sia stata trucidata da un mostro, ci si concentri sulle sue scelte professionali“.
Soldato Diomede. Il problema non sono le battute offensive, ma quelle scarse. Guia Soncini su L'Inkiesta il 31 Marzo 2022. Il caso del giorno è un comico imbarazzante e pieno di sé che non fa ridere e che ha sbagliato mestiere.
A margine della questione dello smataflone, un amico – uno che di mestiere fa il comico – l’altro giorno diceva che la colpa della battuta di Chris Rock non era d’essere offensiva: era d’essere fiacca. A me sembrava dignitosa, per essere una battuta improvvisata (le cronache da dietro le quinte degli Oscar dicono che alle prove Rock non l’avesse detta: probabilmente è stato vedendosi davanti Jada Pinkett Smith che gli è venuto in mente Soldato Jane).
Poi, ieri, abbiamo tutti scoperto l’esistenza di Pietro Diomede, e ci siamo vergognati d’aver dubitato, e abbiamo chiesto scusa l’uno all’altra e confermato che sì, Chris Rock è un gigante del pensiero e dell’azione, e abbiamo annuito concordi: il problema sono le battute scarse.
Dell’esistenza di Pietro Diomede fino all’altroieri non ero – come credo molti di voi – al corrente. Sospetto che egli non sia fuori media rispetto a quel mezzo disastro che è la comicità italiana, levando dalla quale Guzzanti e un’altra mezza dozzina (scarsa) di nomi resta gente per la quale perlopiù imbarazzarsi.
Diomede, però, se la sente caldissima – che è un’espressione romana per la quale non ho ancora trovato un corrispondente italiano. Diomede è evidentemente convinto d’essere un genio incompreso, e lo è da un bel pezzo: ieri su Google il primo risultato che lo riguardava era un’intervista rilasciata a GQ nel 2017. Lo so, non vi ho ancora detto perché ieri Diomede era la notizia del giorno, ma lasciate che prima vi ricopi degli stralci della sua intervista di cinque anni fa, non voglio siate condizionati dall’attualità nel leggerla.
«Non ho un genere, ma la cattiveria è il trait d’union [mi sono permessa di correggere: il giornalista scriveva “trade union”]»; «Sono battute in cui se devo dire le cose non mi pongo freni»; «Il mio confine è sicuramente il buon gusto»; «La prima battuta non è quasi mai buona»; «Sono un bastardo poliedrico. Sto sul cazzo a tutti e vado avanti. C’è chi mi accusa di essere di destra, comunista, nichilista. A rotazione colpisco tutti e vengo attaccato».
Quindi, si chiederanno i miei piccoli lettori, questo autocertificato feroce ma anche autocertificato esigente con sé stesso quale battuta ficcante avrà fatto ieri? Meno male che esistono i link, così non devo copiarvela, perché ho uno stomaco abbastanza forte rispetto all’irriverenza ma quando sembri un dodicenne con un’erezione davanti a un cadavere di cui s’intraveda un capezzolo sono un po’ a disagio.
Diomede fa quindi questa battuta imbarazzante su una ragazza uccisa, e – come dicono i giornalisti – i social insorgono. Vista la subitanea impopolarità del ragazzo, Zelig gli cancella uno spettacolo già annunciato. E qui il tema è: ma prima li faceva ridere? È lo stesso tema dei conduttori di talk che stracciano il contratto agli ospiti improvvisamente impopolari: ma criteri di valutazione vostri non ne avete?
Il giorno prima Diomede – già scarsissimo come comico ma già smaniosissimo di farsi notare – aveva fatto una battuta su Bebe Vio che pure univa il voler essere feroce al non saper essere efficace. In generale, sul suo Twitter – che l’intervista ci spiegava essere una palestra, come per chiunque lavori con le parole – non c’è una battuta decente praticamente mai. Dice che le prime le scarta sempre, quindi quelle scemenze che posta sono pure il frutto di revisioni.
Sospetto che il livello di Zelig quello sia (il fatto che sia passato di lì Zalone non fa media: i talenti eccezionali non fanno mai media), e che quindi, finché non è diventato lo scandale du jour, Diomede gli andasse benissimo.
Fa abbastanza ridere (assai più della battuta media di Diomede) che questo carneade si trovi con la carriera stroncata da una rivolta dell’internet nei giorni in cui quella stessa internet tiene a dirci che Chris Rock è un povero sfigato che ha approfittato di Will Smith per diventare famoso.
Fa abbastanza ridere (anche se non quanto una battuta qualunque scartata da Chris Rock perché troppo debole) che, per accorgerci che uno che di mestiere dovrebbe far ridere non fa in realtà ridere, ci serva l’argomento sensibile, la reazione suscettibile, il signora mia ma questo è offensivo. Come se fare una battuta scarsa non fosse assai più offensivo che fare una battuta su un cadavere.
Nell’intervista di cinque anni fa, Diomede spiegava d’aver passato molto tempo nei reparti di oncologia, essendogli morta tutta la famiglia. Come tutti gli scarsi, offriva giustificazioni: sono tagliente come reazione al dolore.
Mi aspetto, per oggi, analoga intervista in cui spieghi che dire cose che non fanno ridere è il suo modo di elaborare il lutto. Ci conto, su questa botta di tardivo vittimismo. Abbiamo già la scarsezza professionale, l’internet che chiede teste, i datori di lavoro che non fanno un plissé se sei scarso ma si terrorizzano se i cuoricinatori si turbano. Manca solo la dolenza autobiografica, e poi Diomede, pur fallimentare come comico, sarà quella perfettamente riuscita figura professionale che cercano i navigator: un contratto a tempo indeterminato come incarnazione del postmoderno non glielo leva nessuno.
Maria Volpe per corriere.it il 30 marzo 2022.
Abbiamo appena finito (non ancora per la verità) di discutere sulla battuta del comico conduttore della serata degli Oscar, Chris Rock, sulla testa rasata della moglie dell’attore Will Smith (che si è alzato colpendo con un pugno, il conduttore) chiedendoci che limiti deve porsi la comicità e già ci si presenta un altro caso, tutto italiano. E decisamente più grave.
Una battuta disgustosa su una povera ragazza uccisa e fatta a pezzi. Il comico (comico??) Pietro Diomede, legato a Zelig, ha scritto un tweet rivoltante sul corpo di Carol Maltesi, giovane madre di 26 anni, attrice hard (nome d’arte Angie Charlotte), uccisa, fatta a pezzi e gettata in un dirupo da Davide Fontana, suo vicino di casa di 43 anni.
I social si sono rivoltati e molti tweet hanno chiesto a Zelig di allontanare l’attore. Immediatamente l’account ufficiale di Zelig ha scritto: «Abbiamo ricevuto segnalazioni in seguito al tweet di un artista che avrebbe dovuto esibirsi presso lo Zelig (locale in viale Monza, a Milano, ndr) il 12 aprile. Ci dissociamo completamente da quel tweet che disapproviamo nella maniera più assoluta. Di conseguenza l’artista è stato escluso dalla programmazione di Zelig».
Durissimo il tweet di Alessandro Gassmann: «Signor Pietro Diomede io penso che lei rappresenti a pieno, il gradino più basso e repellente della specie umana. Si vergogni e chieda scusa alla famiglia della vittima». Una battuta che decisamente va oltre il dibattito su dove si deve fermare la comicità. Qui si è andato oltre, senza se e senza ma.
Grazia Sambruna per mowmag.com il 30 marzo 2022.
Pietro Diomede è uno stronzo. Ma chi è Pietro Diomede? Abbiamo contattato telefonicamente il comico il cui nome è tra le tendenze di Twitter in queste ore. E l'hashtag non è seguito da belle parole nei suoi riguardi.
Anzi, tanto forti sono state le reazioni a un suo cinguettio su Charlotte Angie, la pornostar uccisa dall'ex fidanzato, che Zelig ha comunicato ufficialmente di aver cancellato il nome del comedian dalla scaletta della serata prevista nello storico locale di viale Monza il prossimo 12 aprile.
"E questa è stata una pagliacciata", commenta Diomede. Che non si scusa, anzi, rilancia: "Se fosse morto fatto a pezzi un attore hard, mettiamo pure Rocco Siffredi, nessuno si sarebbe scomposto davanti a una battuta sul suo cazzo".
Possibile dargli torto? A quanto pare, a furor di popolo dell'internet, sì. Il politicamente corretto ha rotto i coglioni? Ecco a voi, in esclusiva, la versione di Diomede.
Quindi da oggi non sei più un “comico di Zelig”...
Beh, non lo sono mai stato. Semplicemente, mi ero proposto per una serata a microfono aperto prevista per il 12 aprile allo Zelig di Milano, il locale di viale Monza. Quando accettarono la mia partecipazione, chiesi: “Ma posso dire tutto?” e mi risposero di sì. Aggiungendo di invitare gli amici e di portare gente. Ora, da come tutti ne stanno parlando, pare che mi abbiano cacciato dagli Arcimboldi (ride, ndr)
Ci è rimasto male?
Ma va. Erano due anni che non mi esibivo su un palco per via della pandemia. Aspetterò ancora, non mi cambia niente. Spero che tutto il casino che è scoppiato possa dare visibilità a questa serata del 12 aprile allo Zelig. Intanto il mio nome è in trending topic su Twitter, cosa che non era riuscita nemmeno al programma quando è andato in onda dagli Arcimboldi con Claudio Bisio e Vanessa Incontrada. Per dire.
Lei ha saputo di essere stato cancellato dalla serata via Twitter?
No, Giancarlo Bozzo mi aveva chiamato per comunicarmi la decisione presa. E ha avuto tutta la mia comprensione: c’era gente che gli scriveva minacciando di distruggergli il locale se fossi salito sul palco. Cos’altro doveva fare? Il modo in cui ha comunicato la notizia sui social, però, mi ha lasciato basito…
Come mai?
Perché mi sono sentito trattato come una sorte di criminale, quando Davide Fontana, l’assassino di Carol - tengo a chiamarla Carol perché tutti quelli che danno notizia della sua morte usano il suo nome d’arte, Charlotte Angie - Davide Fontana me lo immagino ora in carcere a chiedersi: “Oh, ma come mai nessuno parla di me e stanno tutti dando dello stronzo a Pietro Diomede?”. Capisci che è surreale questa cosa?
Entriamo nel merito della battuta?
Le battute non si spiegano. Fanno ridere oppure no. E questo dev’essere. Ho visto che tutti stanno parlando di me da Selvaggia Lucarelli a Lorenzo Tosa, passando per Andrea Scanzi che mi ha definito: “la parte peggiore di Pio e Amedeo”.
E lei cosa pensa di Andrea Scanzi?
Penso che Pau dei Negrita, ai tempi, non gliene abbia date abbastanza.
Di Selvaggia Lucarelli, invece? Non è la prima volta che vi scontrate...
Di Selvaggia dico che l'amore non è bello se non è litigarello.
La Lucarelli sostiene, via Instagram, che "il cerchio si chiude sempre". Sente che il suo cerchio si sia chiuso?
Mah, al massimo sento stringersi il cappio. Intorno all'informazione italiana se si ritrova "costretta" a parlare così tanto di quanto sia stronzo Pietro Diomede.
Come si spiega queste reazioni?
Non me le spiego. Ho scritto di molto “peggio”, se è per questo e tanto ho ancora da dire: ho già pronte una serie di battute per quando tornerò libero di postare su Facebook. Per adesso, ho quattro profili: tutti bloccati.
Comunque credo che tutti i particolari morbosi e davvero rivoltanti con cui la stampa italiana sta riportando la notizia della morte di Carol, sia la parte peggiore. Se proprio dobbiamo etichettare una “parte peggiore”.
Credo anche che se fosse morto un attore hard, mettiamo caso - facendo le corna - Rocco Siffredi, allo stesso modo ovvero fatto a pezzi, nessuno avrebbe avuto nulla da eccepire se avessi scritto: “Ah, ma come? L’hanno riconosciuto dai tatuaggi e non dal cazzo?”. Tutto il resto, ovvero quello che si sta scatenando su Twitter in queste ore, è pura ipocrisia.
Ipocrisia o no, lei ha perso una serata - sia pure di poco conto - e in genere molti comici hanno preso l’abitudine di scusarsi per battute postate sui social che ricevono un’accoglienza negativa. Le cito Michela Giraud, per esempio, che cancellò, chiedendo poi perdono, il tweet in cui paragonava Demi Lovato al Mago Otelma per via del pronome “loro”...
Eh, grazie al cazzo. Quando cancellò quel tweet, scusandosi, aveva in promozione un film a tematiche LGBTQ+ in uscita su Prime Video, ha dovuto scusarsi per forza! A parer mio non certo perché si dolesse profondamente di quella battuta…
Lei si duole della sua?
No. Né di quella su Carlo né di tutte le altre che trovate e troverete sempre sui miei profili (finché non li bannano, ma tanto poi torno). E a maggior ragione, l’idea di scusarmi non mi è passata neanche per l’anticamera del cervello. Non lo farò mai.
Trova sbagliato che i comici lo facciano?
Questo è affar loro. Trovo sbagliato, sicuramente, che molti comici che consideravo amici oggi mi attacchino e prendano le distanze da me via social…
Qualche nome?
Non posso farlo. Anche perché, da gran coraggiosi, non mi citano espressamente nei loro tweet e post. Ma il riferimento è chiaro. Dopotutto, li capisco: ognuno di noi deve arrivare alla fine del mese come può.
E lei come ci arriva? Con le battute che mette sui social?
Ma va! Io nella vita sono un impiegato fantozziano, quello è il mio lavoro. Per il resto, sono solo un cazzaro che si diverte a fare battute.
Ma se il pubblico le dimostra di non divertirsi, per usare un eufemismo, non pensa che dovrebbe cambiare strada?
Io posto quello che fa ridere a me: il mio metro di giudizio, prima di pubblicare una cazzata che mi viene in mente, è: “Questa cosa è perseguibile penalmente?”, se la risposta è “no”, la posto. Il resto non mi interessa.
Punta a prendersi un cartone in faccia da Will Smith?
Ma magari! (ride, ndr)
Cosa pensa di quell’episodio?
Guardi, ci ho pure twittato sopra come hanno fatto tutti. Ma, battute a parte, penso che entrambi, sia Will Smith che Chris Rock, si siano comportati da tamarri di periferia. Dando, tra l’altro, un bell’assist ai razzisti americani. Quei due, così facendo, hanno alimentato lo stereotipo che già purtroppo esiste e che negli Stati Uniti è duro a morire.
Lei non crede di essere un tamarro di periferia, considerato quello che posta sui social?
Io sono un tamarro di periferia. Però me lo posso permettere: mica sono Will Smith.
Per lei Will Smith, dunque, non è l’eroe romantico che ha difeso l’onore della propria donna - sì è letto anche questo negli ultimi giorni?
Ma le pare? La cosa che mi fa più sorridere di questo episodio è che chiunque abbia riportato la notizia, abbia parlato di Jada Pinkett chiamandola “la moglie di Will Smith”. Poi dicono che sia un problema scherzarci su perché è una donna e ha una malattia. Ok, ma intanto almeno cominciate a chiamarla per nome.
Per lei è lecito scherzare sulle malattie?
Per me è lecito scherzare su qualunque cosa. Basta che faccia ridere. Poi ci terrei a dire che Jada Pinkett ha l’alopecia, mica un cancro. Sono stati in molti a fraintendere la cosa. Comunque, avrei scherzato anche sul cancro. Mi piacciono le battute sulla morte.
Che le piacciono l’abbiamo notato. Sa dirmi come mai?
La morte fa parte della vita di ognuno di noi, non vedo perché debba necessariamente essere un argomento tabù. Poi, soprattutto, fa parte della mia vita.
In che senso?
Nel senso che ho visto morire tutta la mia famiglia, madre, padre e sorella nel giro di pochissimi anni. Per cancro. Sì, come la moglie di Giallini che ho citato in un post preso d’assalto dal Tribunale di Twitter. Io quella battuta la farei davvero sul palco dei David dei Donatello. Perché a me fa ridere. E pensare che, prima che la mia famiglia andasse all’altro mondo, ero un musone, non scherzavo mai. Dopo, ho cominciato a fare battute. Credo sia stato il mio modo per esorcizzare quanto successo.
Me lo sta dicendo per giustificarsi?
Assolutamente no. Non penso di avere il patentino sulle battute riguardo alla morte solo perché mi è morta la famiglia, non sono mica uno di Twitter! L’unica cosa che mi infastidisce è che la morte dell’ultimo famigliare che mi era rimasto, mia sorella, risale al 2006, quando i social ancora non avevano il peso che hanno ora: pensi quanti like mi sono perso!
Però almeno non ha dovuto “ereditare” profili social da gestire. Tre sarebbero stati un bel po’ di lavoro…
Cazzo, sì. Alla fine, ho avuto culo.
Cosimo Curatola per mowmag.com il 3 aprile 2022.
Charlotte Angie bukkake. Poi Charlotte; Angie; Charlotte Angie. Queste sono le parole in tendenza su PornHub oggi, il primo sito porno in Italia per numero di visitatori con 120 milioni di accessi mensili nel nostro paese. E questa è l’Italia.
Bandiere della pace al davanzale e i video di una morta fatta a pezzi nell’iPhone, dritti verso il primo fine settimana di aprile lontani dall'emergenza sanitaria. La storia di Carol Maltesi, messa in un congelatore prima di essere bruciata, è roba da serial killer americani, roba a cui non siamo abituati.
Come se Edmund Kemper, che negli anni Settanta squartava studentesse californiane per poi farci sesso, fosse venuto nell’Italia del 2022. Il fatto che la gente abbia cominciato a cercare il suo nome sui siti porno non sarebbe rilevante, ma a farlo sono all’incirca quattro milioni di persone al giorno.
Virologi, esperti di politica internazionale, allenatori di pallone: tutti a guardare - come dice Pietro Diomede - se il cadavere di Charlotte Angie lo si riconosce meglio dai tatuaggi o dalle dimensioni del buco del culo.
Ma come si arriva a questo punto? Lei ha cominciato a pubblicare video su OnlyFans durante il lockdown, poi è passata al porno. Si è trasferita a fianco all’uomo che l’ha uccisa e martoriata, erano amici, forse amanti.
Una storia che non puoi evitare se scrivi per un giornale perché questo vende, questo vuole la gente: sesso, sangue, merda. Soldi anche. Stavolta però la gente, tantissima gente ha superato di slancio la narrazione ipnotica e nauseante della televisione.
Abbiamo già visto tutto e lo abbiamo visto dal salotto di casa, dalla guerra in Europa ai migranti dell’Africa, dalle orge al Carnevale di Rio ad un tizio che si fa tirare calci nelle palle.
La gente adesso va matta per il legal, ma ha appena scoperto una categoria strettamente correlata alla cronaca nera. PornHub, la grande azienda progressista che toglie l'acceso ai russi e fa gli sconti agli italiani in lockdown, ci sta facendo i soldi.
I quattro milioni che in questi giorni vanno a cercare Charlotte Angie sono gli stessi che rallentano in tangenziale se vedono un’ambulanza. Gente che di solito cerca su internet il nome di un defunto illustre, a lui completamente sconosciuto, per non sfigurare con i colleghi.
Gente che, dopo la morte di un attore di medio livello, si cerca tutto i suoi film per rendergli tributo su Instagram. Sono, comunque, di gran lunga più degli elettori di Italia Viva. Viviamo in un paese di codardi che si alimenta di contraddizioni.
Non prendetevela coi giornali che raccontano di Carol Maltesi, non prendetevela nemmeno con l’uomo che l’ha uccisa. Questo siete, questo siamo: bestie, ma mai davanti agli altri. Solo per vedere di nascosto l’effetto che fa.
Da Ansa il 4 aprile 2022.
"Io non ero geloso, ma l'amavo e per questo le dicevo che doveva allontanarsi da quel Davide che non mi piaceva, era morboso, era ossessionato da lei, le stava attaccato 24 ore al giorno e l'aveva convinta che lei avesse bisogno di lui". Sono le parole di Salvatore Galdo, che si dice il fidanzato di Carol Maltesi, la ragazza uccisa da Davide Fontana, rilasciate in un'intervista che sarà proposta domani sera, 5 aprile, a "Fuori dal Coro" su Retequattro.
"Davide - dice Galdo - non ha mai accettato che Carol dopo la breve relazione che avevano avuto due anni fa, durante il lockdown, lo avesse lasciato e proprio ai primi di gennaio lei finalmente aveva deciso di staccarsi definitivamente da lui e questo evidentemente lo ha fatto scattare. Lui avrà pensato: o con me o niente. Per questo credo che il delitto sia stato premeditato. La storia del video se l'è inventata. L'ha uccisa perché non voleva farle fare la sua vita. Lei voleva stare con me. Voleva venire a vivere con me" continua il trentenne. "Io e lei - dice - eravamo fidanzati, siamo stati fidanzati fino all'ultimo momento della sua vita perché non è vero che lei mi aveva lasciato. Lui dopo che l'ha uccisa mi ha scritto fingendosi lei".
"Eravamo simili, eravamo fatti l'uno per l'altra. Io volevo sposarla, le ho regalato un anello di fidanzamento che lei ha giurato di non togliersi mai più ed eravamo felici". Il giovane racconta anche che, dopo giorni dalla morte di Carol, ha ricevuto una chiamata dal suo profilo, ma non è riuscito a rispondere in tempo. Ha cercato, invano, di richiamarla più volte finché disperato ha scritto a Fontana, chiedendogli di farlo contattare da Carol: "Dorme sempre" la risposta.
(ANSA l'8 aprile 2022) – "Perchè non ci hai provato con me pezzo di ....? Ti aspetto quando esci dal carcere, anche dopo 30 anni": è quanto ha scritto su Facebook Fabio Maltesi, padre della 26 enne Carol, uccisa e fatta a pezzi dal vicino di casa reo confesso, Davide Fontana, a Rescaldina (Milano). "Nessuna pietà per questo mostro... Diavolo diavolo maledetto, assassino psicopatico, macellaio schifoso, come ti sei permesso di togliere la vita e torturare il bel viso e il corpo della mia bimba, anche dopo la sua morte", ha scritto Fabio Maltesi.
Da fanpage.it l'8 aprile 2022.
Avrebbe continuato a chiedere ad altre ragazze collaborazioni per la produzione di video hard amatoriali: a dirlo sono Ginevra e Juan, entrambi colleghi di Carol Maltesi, che – durante un'intervista a "Le Iene" andata in onda su ItaliaUno – hanno mostrato alcuni messaggi che Davide Fontana, l'uomo che ha confessato di aver ucciso e distrutto il corpo della 26enne, avrebbe inviato nei giorni successivi al ritrovamento del cadavere.
Durante l'intervista Ginevra ha spiegato che, quando la Procura aveva diffuso l'elenco dei tatuaggi presenti sui resti, li aveva subito associati a quelli di Carol. Prima ancora di rivolgersi ai carabinieri – cosa che la coppia ha poi fatto – la ragazza ha visitato i profili della collega: "Il suo profilo OnlyFans c'era, ma era stato disattivato.
Non c'era più nulla". È Juan a spiegare che sempre su quel profilo era stato pubblicato un post che annunciava come tutti i contenuti prodotti fino a quel momento erano stati trasferiti su quello di Fontana. E sempre su quella piattaforma, nei giorni successivi al ritrovamento dei resti, il 43enne aveva pubblicato un video con Carol: "Questa ragazza era sparita già da almeno una settimana e forse di più e lui – afferma Juan – continuava ancora a pubblicare video di lei. Stavano sempre insieme. Non ti fai due domande se è sparita?".
Alcune loro colleghe hanno poi raccontato che, nel periodo in cui Carol era già morta, avrebbero ricevuto dei messaggi dal suo profilo: "Dei nostri colleghi avevano ricevuto dei messaggi da lei, addirittura di collaborazioni. Arrivavano messaggi sia dal profilo di Carol – racconta Ginevra – sia dal profilo di Davide". Come poi raccontato da Fontana nell'interrogatorio, sarebbe stato in realtà lui a rispondere ai messaggi fingendosi Carol: "Alcune nostre colleghe ci hanno mandato gli screen di queste conversazioni dove Davide scriveva loro dicendo di scrivere a Charlotte perché poteva assicurare che era una persona fidata. E lei rispondeva a questi messaggi dicendo "Sì, è una persona affidabile"".
Proseguono le indagini degli inquirenti
Per il momento, stando a quanto appreso da Fanpage.it, proseguono le indagini. Gli investigatori e gli inquirenti si stanno concentrando anche sul fatto che Fontana, per oltre due mesi e mezzo, si sia finto Carol inviando messaggi ad amici, parenti e colleghi. Carabinieri e magistrati sono al lavoro per cercare di capire il perché di questo gesto. Ovviamente – come precisato a Fanpage.it – è ancora troppo presto per elaborare qualsiasi tipo di deduzione volta a capire le reali intenzioni del reo confesso. Sicuramente a poter chiarire ulteriori dubbi, potranno essere le analisi e le perizie sui dispositivi elettronici di Carol e Fontana. Bisognerà però attendere ancora qualche giorno. Al momento inoltre, apprende sempre Fanpage.it, è escluso che vi sia stato un complice nell'omicidio della giovane donna.
Omicidio Carol Maltesi, il padre scrive al killer sui social: "Ti aspetto quando esci dal carcere". Manuela Messina La Repubblica l'8 aprile 2022.
Fabio Maltesi scrive su Facebook le sue parole di rabbia rivolte all'assassino di sua figlia Davide Fontana.
Un monologo social fatto di dediche, cuori e canzoni. E quindi lo sfogo pubblico, virtuale, di un genitore che ha perso la figlia - "il diamante della mia vita" - nel modo più atroce, ammazzata a 26 anni. Si rivolge a lei, Carol Maltesi, che ormai non può più sentirlo, quando le dedica, solo ieri notte, "Angie", la dolce ballata dei Rolling Stones sulla fine di un amore. Un soprannome caro a lei, che lo usava per lavorare nel mondo dei sex worker.
Persino nell'universo intangibile di Facebook, si sente il cupo grido del padre Fabio Maltesi, le sue parole di rabbia. Dalla sua bacheca verso l'assassino, Davide Fontana, annuncia vendetta, pronuncia insulti e maledizioni. Minacce, che suonano concrete. "Perché non ci hai provato con me pezzo di m...? Ti aspetto quando esci dal carcere, anche dopo 30 anni, se no ti sistemerò io o uno dei miei giovani amici che ti odiano come me".
Al 43enne che ha massacrato la 26enne a Rescaldina, e che ieri si è sottoposto a un interrogatorio di 5 ore, confessando tutto, manda il malaugurio più feroce. "Meglio che marcisci in cella di isolamento, o che vai a morire lì un giorno" per mano dei "veri criminali che hanno un codice di rispetto per donne e bambini prima di incontrare me".
Ieri nell'interrogatorio, l'uomo ha ammesso tutto. "Mi vergogno per ciò che ho fatto e per non avere chiamato subito i carabinieri", ha detto quando gli è stato chiesto perché avesse fatto a pezzi il corpo della ragazza, tenuto in un congelatore per oltre due mesi e poi gettato in cinque sacchi di plastica in un dirupo a Paline di Borno. Fontana da Gennaio rispondeva ai messaggi degli amici attraverso il cellulare della vittima, per non destare sospetti. E per questo motivo nessuno ne aveva denunciato la scomparsa.
A rivelarlo è il gip Stefano Colombo. Ecco perché Davide Fontana ha ucciso Carol Maltesi: la furia omicida dopo una telefonata. Roberta Davi su Il Riformista il 21 Aprile 2022.
È la mattina del 10 gennaio. Carol Maltesi risponde a una telefonata del suo ex compagno veronese, padre del suo bimbo di 6 anni. Lui chiede aggiornamenti sul suo trasferimento a Verona, deciso proprio per stare più vicina al piccolo. E la furia omicida di Davide Fontana, il bancario vicino di casa, unico testimone di quella conversazione, scatta proprio in quel momento. Quando lui si rende conto che la ragazza ha altri progetti di vita e andrà a vivere altrove.
A rivelarlo è il gip Stefano Colombo nella rinnovazione della custodia cautelare, da cui emerge che il 43enne ha iniziato a colpire a martellate la 26enne appena chiusa quella chiamata, riporta Il Corriere della Sera Veneto.
La ricostruzione dell’omicidio
Carol Maltesi, commessa diventata attrice di film hard durante il lockdown con l’obiettivo di dare un futuro al suo bambino, stava cercando casa in affitto a Verona da qualche tempo. Desiderava ricongiungersi con l’amato figlioletto. Una decisione che l’avrebbe portata ad allontanarsi da Davide Fontana, con cui aveva avuto in passato una breve relazione e che negli ultimi tempi, con la scusa di farle ‘da manager’, la seguiva dappertutto.
Era lui ad accompagnarla nei locali in cui si esibiva, o sui set dove lei girava film per adulti. Nutriva una vera e propria ossessione per la ragazza, tanto da decidere di lasciare la moglie, con cui aveva trascorso vent’anni di vita, per inseguire Carol. E nella casa che lei stava per lasciare a Rescaldina, comune vicino a Milano, l’ha massacrata a martellate prima di tagliarle la gola con un coltello giapponese.
A ricostruire la dinamica del delitto è il gip Colombo. Carol Maltesi e Davide Fontana vengono interrotti dalla telefonata dell’ex compagno di lei mentre stanno girando insieme un video per adulti in un improvvisato set cinematografico. Neanche il tempo di chiudere la conversazione che Fontana inizia a colpirla con un martello. “Non so cosa mi sia successo” dirà poi ai magistrati. La videocamera continua a registrare e riprende l’intera escalation di violenza contro la ragazza che lui “era terrorizzato di perdere”. Il materiale informatico ritrovato in casa dell’uomo è al vaglio degli esperti per cercare di recuperare il filmato, poi cancellato dal Fontana.
Il ritrovamento del cadavere
Per le settimane successive, fino al 21 marzo, data del ritrovamento del cadavere della 26enne italo-olandese in un dirupo a Borno, in provincia di Brescia, Davide Fontana ha utilizzato il cellulare della vittima, spacciandosi per lei, cercando di nascondere al mondo la verità. Dopo aver fatto a pezzi il corpo aveva provato a bruciarlo, senza successo; poi l’ha conservato in un freezer appositamente acquistato su Amazon. Infine, la decisione di gettare i poveri resti in una scarpata. Messo alle strette, Fontana ha poi confessato: è ora rinchiuso in carcere con l’accusa di omicidio volontario aggravato, distruzione e occultamento di cadavere.
Intanto non c’è ancora una data per i funerali di Carol Maltesi. Dai pm non è ancora arrivato il nullaosta alla sepoltura per effettuare tutti gli accertamenti irripetibili, scrive sempre Il Corriere della Sera. Alcuni giorni fa il papà della ragazza ha lanciato una raccolta fondi per poter affrontare le spese, spiegando: “Io e mia moglie viviamo di pensione e i conti di Carol sono bloccati”.
Una seconda raccolta fondi, promossa invece dal rapper Shade e da alcuni amici di Carol sulla piattaforma Gofundme, ha superato la quota di 5mila euro: soldi che andranno interamente al figlio di 6 anni.
Roberta Davi
Il femminicidio di Carol Maltesi e quegli inaccettabili giudizi riservati alle vittime donne. Luca Bottura su L'Espresso il 4 Aprile 2022.
L’oscena ossessione sui dettagli della sua attività, la morale che si accanisce e la solidarietà pelosa dipingono l’ennesima vergogna nel racconto di un crimine a cui ci stiamo purtroppo abituando.
«Ce l’hanno con lei perché è una donna». La rivelazione di Guido Crosetto, l’altra mattina, nel programma che conduco su Radio1 insieme a Marianna Aprile, non mi aveva – lo ammetto – mai sfiorato. Soprattutto perché Lei è Giorgia Meloni e loro sono Matteo Salvini e Silvio Berlusconi i quali, nella lettura dell’Omone cuneese, si sentirebbero inibiti nel loro patriarcato politico e personale anche e soprattutto a causa del genere della opponente.
A me, per criticare Meloni, bastano i post che permette al suo social media manager (un uomo) tutti a base di attacchi agli stranieri in quanto tali. Un modo di difendere il brand, di scipparlo appunto a Salvini, imitandone i toni. Peraltro con pieno successo elettorale. Di Governo, chissà. Ma è un discorso che ci porterebbe lontano dal parallelo che l’epifania crosettiana mi ha ispirato.
Fino a quella chiacchiera, pensavo che le notizie su Carol Maltesi, la copertura mediatica estrema, oscena, affaticante, derivassero dal mestiere che praticava. Non solo e non tanto per questioni morali, ma per la logica del clic che ormai ha impestato quasi ogni mezzo d’informazione.
Quelle paginate piene di ammiccamenti al suo ruolo nell’hardcore, i titoloni, i pezzi “di colore” sulle difficoltà economiche e sul trapasso dal mestiere di commessa a quello di attrice, le foto oscene tagliate ad hoc, ma impaginate ugualmente, anche sui giornali “veri”, quelle non censurate, disturbanti, pubblicate in apposite gallery sui siti che gli addetti ai lavori citano, inseguono sperando di essere citati, derubricano a informazione “senza peli sulla lingua”… tutto mi pareva facesse parte di un banale interesse economico: il sesso vende bene persino se è il motore di un assassinio feroce, di una storia orribile, talmente orribile che non mi stupirei se qualcuno ne avesse già proposta una versione a puntate su Netflix. Invece Carol è rimasta vittima del teorema Crosetto.
Perché se è vero che il caso di Luca Sacchi, dei cosiddetti festini, roba che si fa il titolo a nove colonne da sola, era stato trattato dai quotidiani e dalle tv con identica attenzione lubrica, il giudizio morale planato sulla vittima di questa vicenda poteva riguardare solo una donna.
Solo a una donna sarebbe toccata la solidarietà pelosa per la “costrizione al porno”. Solo di una donna si sarebbe sottolineato, quasi a elevarla, che comunque era madre, cioè che aveva assolto al ruolo pensato per lei dalla notte dei tempi. Solo per una donna l’accanimento del dettaglio, persino nella descrizione dei suoi film, avrebbe fatto con i ritratti altrui in qualche modo assolutori, con uso estremo di termini (raptus) che suonano giustificatorie anche solo a pronunciarle. Che poi, per carità, è sempre tutto più complesso di così. E a volte può essere persino utile specchiarsi nella banalità del male altrui, che in qualche angolo dell’anima è quella di ogni maschio adulto. Ma alla fine, il racconto pornografico di un omicidio orribile, di un corpo a pezzi giudicato persino da morto, sta tutto là. Era una donna. E il suo è un femminicidio. Termine che, purtroppo, di ascolti ne fa pochissimi.
· Il giallo di Domenico La Duca.
Michela Allegri per “Il Messaggero” il 19 marzo 2022.
Davanti alla telecamera con gli occhi gonfi di pianto dicevano di essere preoccupatimi e disperati: la moglie parlava di lui tra i singhiozzi e il migliore amico, che lo conosceva da 13 anni, lo aveva definito «un fratello». Il corpo di Carlo Domenico La Duca, 38 anni, agricoltore e imprenditore di Termini Imerese, nel Palermitano, non è mai stato trovato. Ma gli inquirenti non hanno dubbi: Luana Cammalleri e Pietro Ferrara, la moglie e l'amico fraterno, appunto, sono stati arrestati con l'accusa di omicidio premeditato e soppressione di cadavere. Secondo i magistrati avevano una relazione clandestina da tempo e avrebbero ucciso insieme La Duca.
IL MOVENTE Il movente sarebbe economico: la coppia si stava separando e la donna temeva di perdere la casa. Per l'accusa emerge dalle intercettazioni: gli arrestati per parlare tra loro utilizzavano sim segrete e numeri telefonici di cui nessuno era a conoscenza. Avrebbero pianificato l'omicidio nei dettagli: la vittima sarebbe stata attirata in un terreno di proprietà dell'amico e lì sarebbe stata uccisa. L'omicidio, per la Procura, risale al 2019, anno della scomparsa. Anche la madre di La Duca ha lanciato diversi appelli in diretta tv, a Chi l'ha visto. Ha sempre detto che temeva che al figlio fosse successo qualcosa di grave: «Era un ragazzo tranquillo, non c'erano motivi per allontanarsi da casa. Hanno trovato la sua macchina posteggiata a Palermo, chiusa perfettamente e senza nulla di particolare. Carlo non ci avrebbe mai abbandonati».
L'ACCUSA Gli amanti diabolici ora sono finiti in carcere con l'accusa di omicidio e soppressione di cadavere. Alla base del delitto, però, non ci sarebbe un sogno d'amore ostacolato: anche la vittima aveva una nuova compagna e con la moglie aveva avviato le pratiche per la separazione. Gli investigatori sottolineano che la Cammalleri temeva di perdere il casolare in cui viveva coi figli, nelle campagne di Cerda, nel palermitano. L'immobile, infatti, era di proprietà di La Duca e la donna lo avrebbe dovuto lasciare dopo la separazione.
I due erano in lite da tempo e la situazione era precipitata dopo l'ennesima violenta lite. Uno degli scontri aveva coinvolto anche la madre della vittima: la nuora, durante una discussione, le aveva stretto attorno al collo il filo del telefono di casa. L'anziana l'aveva denunciata e la donna era finita sotto processo per minacce. Il giorno prima della scomparsa di La Duca si era celebrata una delle udienze. Tutta la famiglia, comunque, continuava a vivere sotto lo stesso tetto: la suocera e il figlio erano al piano superiore, mentre la Cammalleri e i ragazzi erano al piano terra. È proprio nelle campagne intorno al casolare che i carabinieri stanno cercando il cadavere. Dalle intercettazioni è emerso che gli indagati avrebbero pianificato l'omicidio per mesi.
IL PIANO Dopo avere ucciso La Duca in un terreno di proprietà di Ferrara, i due avrebbero portato l'auto della vittima a circa 12 chilometri di distanza, per depistare le indagini. Nel corso dei mesi successivi avrebbero cercato di creare alibi e anche le interviste in tv avrebbero fatto parte del piano. Ferrara aveva raccontato ai microfoni di Chi l'ha visto che l'amico nell'ultimo periodo era tormentato e che il giorno della scomparsa doveva raggiungere la nuova fidanzata a Cinisi: «Qualcosa lo preoccupava, tra la situazione lavorativa, i problemi con la madre e la nuova compagna, si sentiva soffocare. Era stressato». La moglie, durante la stessa puntata della trasmissione, aveva parlato di «problemi economici e rapporti extraconiugali». In lacrime aveva aggiunto: «Carlo, lasciamo da parte i problemi. Io mi sento moglie. Lasciamo stare le liti, io sono una donna che ha il senso della famiglia e se tu torni, avrai la famiglia che avevi prima».
I TESTIMONI Fondamentali per l'inchiesta, oltre alle intercettazioni, anche le immagini estrapolate dai sistemi di videosorveglianza e i racconti dei testimoni. In molti hanno raccontato che La Duca sembrava preoccupato: qualche mese prima della scomparsa qualcuno aveva ucciso i suoi cani e La Duca aveva rivelato agli amici che aveva paura si trattasse di un'intimidazione. Non avrebbe però avuto mai dubbi sulla fedeltà dell'amico. Secondo la Procura di Palermo, si sbagliava.
La fidanzata dell’uomo ucciso e sepolto da moglie e amico: «Sapevo quanto lei odiasse Carlo, non credevo alle sue lacrime». Felice Cavallaro su Corriere della Sera il 22 marzo 2022.
Sono le immagini di Chi l’ha visto? e di altre dirette tv di tre anni fa a tormentare Giusy Mazzola, la fidanzata di Carlo La Duca, l’agricoltore scomparso a Palermo il 31 gennaio del 2019, forse fatto sparire e ucciso dalla moglie Luana Cammalleri e dal suo presunto amante, Pietro Ferarra, entrambi da venerdì scorso in carcere. Lei, la fidanzata che stava costruendo una nuova vita con la vittima, «mentre le pratiche di divorzio seguivano liti furibonde», non è mai comparsa sulla scena. Ma adesso Giusy Mazzola, 56 anni, tre figli da un suo primo matrimonio, ha un ruolo chiave nell’inchiesta sui due «amanti diabolici», come vengono descritti. Anche perché era rimasta in buoni rapporti con Pietro Ferrara e con sua moglie, Maria Ricotta. «Ci vedevamo e sentivamo fino a qualche giorno fa. Come potevo dubitare del migliore amico di Carlo?».
E con Luana, adesso sospettata di avere perfino occultato il cadavere del padre dei suoi due bambini? «Mai incontrata. La vedevo in tv dopo la sparizione e capivo che era una bugiarda. Non credevo alle sue lacrime per il marito che invece odiava. Sapevo che erano lacrime di coccodrillo. La sentivo invocare Carlo in tv: “Torna a casa, amore mio”. Fingeva».
E la tresca con l’amante? «È il rovello di questi giorni. Sconvolgenti le intercettazioni dei carabinieri».
Proverebbero che i due tramavano prima e dopo il delitto. Anche contro la moglie di Ferrara. «Lui e Carlo per me erano amici inseparabili. Io e Carlo eravamo amici di Ferrara e sua moglie. Attraverso loro, io ho conosciuto il mio Carlo. Ma non potevo certo pensare a un legame segreto...».
Mai un sospetto su questo rapporto «diabolico»? «Non avevo capito nulla, se le cose stanno così. Io fremevo per le liti di quella famiglia dove Carlo e Luana vivevano ancora nella stessa casa. Ma stavamo dando la svolta alla nostra vita. Pochi mesi e Carlo sarebbe venuto a vivere con me».
Litigava con la moglie per questioni economiche? «Cercava lavoro dalle mie parti, qui a Cinisi, fra Palermo e l’aeroporto. Voleva intestare tutto ai bambini e cambiare vita. Non gli hanno consentito di cambiare vita».
Su che cosa si fondava l’odio di cui parla? «Erano vicini al divorzio e non ci sarebbero state ragioni. Ne parlavo e mi confidavo con Pietro Ferrara. Io ho continuato a farlo fino alla scorsa settimana. E la sera prima dell’arresto ci siamo scambiati un messaggio di buonanotte con sua moglie, Maria. Nemmeno lei ha capito? Non so. Sono frastornata. Ognuno sembra apparire ora in modo diverso da come si mostrava».
Quel giorno di tre anni fa... «Era un giovedì. Lo aspettavo a Cinisi nella mia casa per passare insieme il fine settimana. Lui era partito dalla campagna di Cerda, a due passi dalle tribune della Targa Florio. “Passo da Piero”. E deve essere passato dal podere di Piero, nella borgata palermitana di Ciaculli».
Poi, nessun messaggio? «A mezzogiorno è scattato l’allarme per me e per la povera mamma di Carlo, la signora Concetta che adesso, a 79 anni, vedova, si ritrova ad accudire i due bimbi di Carlo. Ma chi lo spiega a queste due creature che la madre è accusata di avere loro ucciso il padre?».
Li ha più visti? «Pochi giorni prima della scomparsa, io e Carlo li abbiamo portati al circo. Poi, mai più. Luana, un muro. Io non ho titolo. Non esisto, ufficialmente. Anche se la mia vita passa pensando a Carlo. Ma ci sarò sempre per la sua mamma, costretta dal destino a gestire da sola i due bambini».
Palermo, sparì tre anni fa: arrestata la moglie Luana Cammalleri. «L’ha ucciso aiutata dall’amante». Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera il 19 Marzo 2022.
Il complice era suo amico. Prima erano stati ammazzati i 4 cani della vittima.
I mandati di cattura per la 36enne compagna di Carlo Domenico La Duca, agricoltore ucciso nel 2019 con la complicità di un suo operaio, Pietro Ferrara 57
Il divorzio ritardava e per accelerare anche i tempi di una diatriba economica una donna si sarebbe liberata del marito uccidendolo, aiutata dall’amante, senza più fare ritrovare il corpo. Forse occultato in campagna. Eccoli i protagonisti di un giallo assegnato dopo tre anni di indagini al filone «amanti diabolici» , come fanno i carabinieri dopo avere ottenuto dai magistrati di Palermo i mandati di cattura per Luana Cammalleri, 36 anni, la moglie di Carlo Domenico La Duca, agricoltore di 38 anni a quanto pare ucciso il 31 gennaio 2019 con la complicità di un suo operaio di 57 anni, Pietro Ferrara, fino a ieri mattina ritenuto in questa famiglia disastrata il migliore amico della vittima.
Saremmo davanti a una coppia di assassini di una freddezza glaciale perché il cinismo descritto da chi ha indagato per tre anni su tabulati telefonici, intercettazioni e video di sorveglianza, stride con le lacrime della donna rovesciate, a un mese dalla sparizione del marito, davanti alle telecamere di «Chi l’ha visto?». Il pensiero ai suoi bimbi rimasti orfani a 6 e 10 anni. «Torna a casa», ripeteva lasciando aleggiare l’ipotesi di un allontanamento spontaneo. Un’angoscia trasmessa in modo da apparire reale. Come lo sfogo del «migliore amico» adesso in cella, pronto allora pure lui a invocare il ritorno dello «scomparso»: «Io ero per lui un fratello. E Carlo per me era il fratello che non ho mai avuto...».
In tv fornivano i numeri di telefono per eventuali segnalazioni e fremeva pure la madre dell’agricoltore, la suocera di Luana Cammalleri che qualche vago dubbio l’ha avuto, ma non fino al punto da immaginare il peggio. Sconvolta alla notizia che da ieri i carabinieri scavano in un podere di Pietro Ferrara, vicino alla borgata palermitana di Ciaculli, perché il sospetto è che gli amanti abbiamo sotterrato il corpo. Non è una storia semplice. Perché da allora i due presunti assassini hanno provato a deviare ogni sospetto senza sconvolgere le abitudini quotidiane e gli stessi assetti familiari. Luana ha continuato ad abitare nella villetta di campagna di Termini Imerese dove negli ultimi mesi viveva con il marito, da separati in casa. Anche perché il marito non faceva mistero di una sua relazione con una ragazza di Cinisi.
Né Ferrara ha lasciato la moglie e i due figli. Anzi, pare che abbia avuto frattanto un’altra storia con una signora senza nome per la cronaca. Di qui la difficoltà di ricostruire il reale rapporto che esisteva fra i presunti killer nel gennaio 2019. Periodo comunque travagliato. Con segnali inquietanti. Poche settimane prima della sparizione di La Duca, in una fase segnata da interminabili litigi sulla spartizione dei beni con la moglie, qualcuno uccise i suoi quattro cani, trovati dai carabinieri in un sacco lontano da casa. Adesso è anche la madre della vittima a restituire peso ad una lite con la nuora, culminata quasi in un tentato omicidio. Luana Cammalleri tentò addirittura di strangolarla con un cavo elettrico e la cosa finì in tribunale.
Episodi mai collegati finora alla scomparsa dell’agricoltore del quale fu ritrovata solo l’auto a 12 chilometri da casa Ferrara. Forse spostata ad arte nel disegno «diabolico» sventato dal controllo delle telecamere. Come si scopre a Termini Imerese, la città dove un’altra donna ha recentemente ucciso il marito avvelenandolo, condannata a 30 anni, a piede libero perché frattanto diventata mamma di un bimbo avuto con un altro uomo. Ma proprio da ieri anche lei in prigione, come stabilito con provvedimento della stessa magistratura.
Domenico La Duca, svolta choc sul caso: ucciso e sepolto. Scoperta su moglie e migliore amico. Da caffeinamagazine.it il 18/3/2022.
Morte di Carlo Domenico La Duca, la svolta nelle indagini dopo 3 anni. Correva il 31 gennaio 2019 quando a denunciare la scomparsa dell’agricoltore di Termini Imerese sono stati i familiari. Un allontanamento volontario, questa la prima ipotesi avanzata, poi purtroppo una realtà più cruenta sull’uomo emersa a distanza di qualche anno. Le accuse di omicidio e occultamento di cadavere sembrano ricadere proprio sulla moglie della vittima.
Familiari e amici sconvolti dalla scomparsa del caro Carlo Domenico. Tanta la preoccupazione da quando dell’uomo si sono perse le tracce, fino ad arrivare all’appello della moglie Luana Cammalleri in lacrime nello studio di “Chi l’ha visto?” nella speranza di esortare a parlare chi potesse sapere qualcosa in più sul marito e aiutare così le indagini e le ricerche.
Un uomo “dedito al lavoro e alla casa”, così ne aveva parlato Luana nello studio televisivo. La donna, in lacrime, aveva aggiunto: “Ci sono stati periodi anche brutti. È bello quando si prepara un matrimonio, ci sono i figli, mentre era brutto quando c’erano le liti”. E secondo l’accusa, sarebbe stata proprio Luana a porre fine alla vita di quell’uomo.
A distanza di tre anni dalla scomparsa di Carlo, la svolta arriva dopo estenuanti indagini e ricerche senza sosta. Secondo quanto si evince, pare che l’uomo sarebbe stato ucciso Luana Cammalleri con la complicità del suo migliore amico Pietro Ferrara. I due sarebbero stati arrestati dai carabinieri in esecuzione di un provvedimento del gip del Tribunale di Palermo. Per la coppia sarebbe stata disposta dal gip la misura cautelare del carcere.
Sulle loro spalle a gravare sarebbe l’accusa di omicidio e soppressione di cadavere. Secondo quanto riferito dalle forze dell’ordine: “Dall’attività investigativa coordinate dalla Procura, con intercettazioni, analisi dei tabulati e delle immagini di videosorveglianza, acquisizioni informatiche e documentali è emerso, in via gravemente indiziaria che i due arrestati, tra di loro legati da una relazione sentimentale di natura clandestina”.
E ancora: “Dopo avere pianificato l’omicidio hanno attirato la vittima a Palermo nel terreno di proprietà del 57enne”. Ma “le acquisizioni investigative – si legge in una nota – hanno anche permesso di demolire gli alibi che i due avevano creato nel corso del tempo per tentare di allontanare da loro l’attenzione degli inquirenti”.
Il giallo dell'agricoltore "Moglie e amico i killer". Valentina Raffa il 19 Marzo 2022 su Il Giornale.
I due avevano una relazione e avrebbero architettato il delitto. Si cerca il corpo.
È una coppia diabolica quella formata da Luana Cammalleri, 36 anni, e Pietro Ferrara, 57, ad avere fatto fuori, il 31 gennaio 2019, il 38enne Carlo Domenico La Duca, marito di lei e migliore amico di lui. Entrambi piangevano davanti alle telecamere di «Chi l'ha visto» invocando il ritorno di Carlo, invece erano loro ad averne premeditato l'omicidio e, ancora oggi, solo loro sanno dove è nascosto il cadavere. Forse in un terreno di proprietà di Ferrara, dove si sta scavando. Grazie al depistaggio messo in atto, erano riusciti a farla franca, continuando a vivere la loro relazione clandestina. Ma gli investigatori dell'Arma di Termini Imerese sono riusciti a risolvere il giallo della scomparsa del 38enne. Quella sera Carlo fu attirato nel podere del 57enne a Palermo, fu ucciso, l'auto fu condotta a 12 chilometri di distanza dal luogo del delitto e il corpo fu occultato. La coppia diabolica comunicava attraverso utenze segrete, che però non sono sfuggite agli investigatori.
La moglie sosteneva che intercorressero col marito buoni rapporti anche se era stata avviata la pratica di separazione. Apparentemente la sua verità corrispondeva alla realtà, visto che entrambi continuavano a vivere nello stesso casolare a Cerda, vicino all'azienda agricola di famiglia, ma in piani diversi, lui con la madre al piano superiore e lei con i figli in quello sotto. I rapporti, invece, non erano propriamente distesi, tanto che il giorno prima della scomparsa di Carlo, era stata celebrata l'udienza che vedeva Luana accusata di minacce nei confronti della suocera. Durante una lite, Luana le aveva stretto attorno al collo il filo del telefono di casa e lei l'aveva denunciata. Prima della scomparsa di Carlo, erano accaduti degli episodi inquietanti, come la morte di 4 dei suoi cani ritrovati dai carabinieri in un sacco gettato in un podere e, qualche settimana dopo questo fattaccio, qualcuno aveva lasciato una bottiglia di acido sul trattore di Carlo. Forse gli amanti si stavano preparando il terreno per far credere che qualcuno ce l'avesse con Carlo. Per scoprire il piano diabolico e le fasi antecedenti, i carabinieri, coordinati dalla procura di Palermo, hanno effettuato intercettazioni e analizzato i tabulati e le immagini dei sistemi di videosorveglianza. Ieri Luana e l'amante Pietro sono finiti in manette su richiesta della procura di Termini Imerese e per ordine del gip del tribunale di Palermo. Attualmente sono solo indiziati di delitto, pur gravemente, e la loro posizione sarà definitivamente vagliata giudizialmente solo dopo una sentenza passata in giudicato. La madre e i parenti di Carlo non hanno mai creduto a un suo allontanamento volontario, ma apprendere chi siano stati i suoi assassini «non fa che acuire il dolore» dice Salvatore Pirrone, legale della madre che al processo si costituirà parte civile. C'è una strana coincidenza in questo delitto: sempre a Termini Imerese nel gennaio 2019 avveniva un altro omicidio a sfondo sentimentale, quello di Sebastiano Rosella Musico ucciso dalla moglie, Loredana Graziano, che voleva rifarsi una vita con l'amante.
· Il mistero di Giacomo Sartori.
Cesare Guizzi per il corriere.it il 7 maggio 2022.
C’è un solo mistero che le indagini non sono riuscite a chiarire: il motivo. Perché Giacomo Sartori, 29 anni, ha deciso di togliersi la vita nella notte tra il 17 e il 18 settembre nelle campagne di Casorate Primo, in provincia di Pavia, dove mai era stato in precedenza. Ma nelle inchieste sui suicidi sono proprio le ragioni che spingono al gesto estremo a rimanere più intime e incomprensibili.
In questi quasi otto mesi la famiglia dell’informatico, originario di Mel nel Bellunese, ha messo insieme i coriandoli di una vita, istanti e parole alle quali non si era dato peso prima. Ha affrontato il dolore della morte trovando risposte che è giusto rimangano private.
Tutto il resto, il giallo della sua scomparsa dopo il furto dello zaino in un locale a Milano e il ritrovamento del corpo impiccato a una quercia vicino alla Cascina Caiella, ha trovato una soluzione nelle indagini dei carabinieri e della procura di Pavia. Il pm Andrea Zanoncelli è pronto a chiedere al giudice l’archiviazione: «Un’inchiesta che ha seguito lo stesso meticoloso protocollo previsto nei caso di omicidio». Tanto che ad occuparsene sono stati gli esperti investigatori della squadra Omicidi del Nucleo investigativo di Milano.
E quindi analisi sulle telecamere, indagini informatiche, biologiche e medico legali. Tutto, insomma, quel che potesse chiudere il mistero sulla morte di Sartori. Ogni elemento emerso è risultato convergere su una sola ipotesi, quella del gesto autolesionistico. Non ci sono assassini, né misteriosi ladri che avrebbero convocato la vittima per una trattativa legata alla restituzione del computer. Anzi, Sartori non ha mai seguito il segnale del pc aziendale e del cellulare rubato.
L’autopsia ha chiarito «l’assenza di segni violenza o di pressione esterna». Il Dna sulla catena e sul cavo elettrico utilizzati per uccidersi (un primo tentativo era andato a vuoto) era solo il suo. Lo stesso per il materiale biologico e le impronte sul cellulare che la vittima ha lasciato ai piedi dell’albero. E anche nell’auto di Sartori non c’erano altre tracce recenti di Dna ad esclusione delle sue. Unico dettaglio i sedili spostati rispetto alla normale posizione di guida, ma compatibili con il fatto che il ragazzo sia rimasto diverse ore in auto a pensare, e forse a dormire, prima di farla finita.
Il lavoro del medico legale ha permesso di chiarire che la vittima non aveva ingerito altro dopo aver lasciato il pub di Porta Venezia. Le indagini sul tracciato del cellulare hanno confermato che Sartori dopo il furto subito è tornato a casa, per diversi minuti, prima di rimettersi in macchina dopo la mezzanotte. In quelle ore ha tentato di collegarsi da remoto al sistema di gestione del pc aziendale. Secondo gli inquirenti avrebbe tentato di cancellare gli hard disk del pc aziendale rubato. Operazione impossibile visto che il computer è spento e scollegato.
Cosa aveva su quel pc? Secondo il datore di lavoro materiale di poco conto, forse c’era qualcosa di più personale che Sartori invece voleva cancellare prima di farla finita. Probabilmente il furto dello zaino, il secondo subito in pochi mesi, gli ha provocato una sorta di burnout, di esaurimento emotivo. La vittima non aveva una fidanzata, frequentava pochi amici e sul lavoro faticava ad esprimere le proprie capacità.
Ma perché uscire di casa di notte e muoversi, in autostrada, verso le campagne del Pavese? La telecamera del casello di Binasco lo riprende dopo l’una: è solo, nessuna macchina lo segue. All’1.40 il cellulare si spegne, non lascerà messaggi né farà o riceverà chiamate. I carabinieri lo hanno inviato in Germania per analizzarne la memoria: niente di rilevante. Poi Giacomo ha continuato a girovagare in auto tra Motta Visconti e Casorate, poi prima dell’alba trova il modo di farla finita «rubando» la corda e la catena tra gli attrezzi dell’agriturismo.
Lo zaino rubato, poi la morte. Giallo risolto: cos'è successo a Giacomo Sartori. Rosa Scognamiglio il 7 Maggio 2022 su Il Giornale.
Giacomo Sartori fu ritrovato senza vita a Casorate Primo (Pavia) nella notte tra il 17 e il 18 settembre. Il pm verso l'archiviazione.
Giacomo Sartori, il 29enne di Mel (Belluno) ritrovato senza vita nella notte tra il 17 e il 18 settembre scorso a Casorate Primo, in provincia di Pavia, avrebbe scelto di togliersi la vita. Sono le conclusioni a cui sono giunti gli esperti del nucleo investigativo di Milano secondo cui il ragazzo, perito informatico presso un'azienda di Assago, si sarebbe suicidato. Stando a quanto riporta il Corriere della Sera, il pm Andrea Zanoncelli è pronto a chiedere al giudice l'archiviazione del caso: "Un'inchiesta che ha seguito lo stesso meticoloso protocollo previsto nel caso di omicidio".
Tutto quello che non torna nella morte di Giacomo Sartori
Il giallo della scomparsa
Nessun mistero sulla morte di Giacomo Sartori. Il 29enne scomparve nella notte tra il 17 e il 18 settembre del 2021 dopo aver trascorso la serata in un'enoteca di Via Vittorio Veneto, a Milano. Si allontanò dal locale attorno alle 23.30 a seguito del furto dello zaino con all'interno il pc aziendale, i documenti e il portafogli. La sua auto, una Volkswagen Polo di color grigio scuro, fu ritrovata il mercoledì successivo a Casorate Primo, nel Pavese. A pochissima distanza dalla vettura, nei pressi dell'agriturismo Cascina Caiella, fu rinvenuto il corpo senza vita del ragazzo impiccato con una catena e un cavo elettrico ad un albero. Le circostanze delle scomparsa, nel contesto del furto anomalo subito qualche ora prima del gesto autolesionistico, avevano indotto gli inquirenti a ritenere plausibile la pista dell'omicidio. A distanza di circa 8 mesi dall'accaduto, gli investigatori escludono l'ipotesi delittuosa.
"Impiccato a un albero". Trovato il corpo di Giacomo Sartori
L'autopsia
A fissare un punto fermo sulle circostanze del decesso è l'esito dell'autopsia: "Nessun segno di violenza o di pressione esterna", si legge a margine del referto medico-legale. Il Dna rinvenuto sulla catena e sul cavo elettrico che il ragazzo avrebbe usato per togliersi la vita appartengono alla vittima. Così come sono di Sartori le tracce genetiche all'interno dell'auto aziendale in uso al 29enne. L'unica anomalia riguarda i sedili della vettura, leggermente reclinati rispetto alla posizione ordinaria di guida, ma compatibile con il fatto che il giovane sia rimasto verosimilmente a pensare qualche ora prima di farla finita. Attorno alla mezzanotte di quella tragica sera - ricostruiscono gli inquirenti - Sartori sarebbe rientrato a casa per qualche minuto salvo poi rimettersi alla guida della vettura. La telecamera del casello di Binasco lo immortalano dopo l'una. All'1.40 il cellulare si spegne: nessun messaggio, nessuna chiamata prima dell'estremo gesto.
"Vicino al cimitero...". Cosa ha fatto Giacomo prima di morire
Il computer
Se c'è un "giallo" in questa drammatica vicenda riguarda il pc aziendale. Quella notte di settembre, Sartori avrebbe tentato invano di connettersi da remoto al portatile per cancellare i dati dall'hard disk. Un'operazione pressochè impossibile dal momento che il dispositivo era spento. Cosa c'era su quel pc? Secondo il datore di lavoro del 29enne nulla di rilevante, informazioni di poco conto. Resta il mistero di un morte incomprensibile - forse dovuta a una sorta di esaurimento emotivo per il fatto che gli avessero rubato due volte il pc in pochi mesi - e il dolore profondo dei familiari.
· Il mistero di Andrea Liponi.
"Vado a lavare l'auto". E Andrea sparì. Spunta una pista dopo 14 anni. Rosa Scognamiglio il 5 Aprile 2022 su Il Giornale.
Andrea Liponi è scomparso da Bolzano nel 2008. Dopo 14 anni riprendono le ricerche del 22enne. La nuova ipotesi: "Vittima di una caduta accidentale".
Sono trascorsi quasi 14 anni da quando Andrea Liponi, al tempo 22 anni, studente di Mediazione Linguistica, è scomparso da Bolzano. "Vado a lavare l'auto", aveva detto ai genitori mente si dirigeva verso la zona boschiva di Nalles, nella frazione di Sirmiano, dove poi furono ritrovati i suoi effetti personali e la vettura. "Quella fu l'ultima conversazione che abbiamo avuto con nostro figlio. Poi se ne sono perse le tracce, non ne abbiamo saputo più nulla", raccontano alla nostra redazione Livio e Mirella, il papà e la mamma del ragazzo.
Tra ipotesi, congetture e presunti avvistamenti, sono ancora molti gli interrogativi irrisolti. Uno su tutti: cosa può essere accaduto ad Andrea? "Sono passati molti anni. Sono riuscito a recuperare tutti gli atti relativi alla scomparsa di Andrea per avere un quadro più completo sulla vicenda. La mia ipotesi, in linea con quanto si evince dai documenti, è che ad Andrea possa essere successo un evento tragico, secondario alle sue volontà. Pertanto ciò che noi stiamo cercando a distanza di 14 anni, sono i suoi resti", spiega a ilGiornale.it il criminologo e antropologo forense Fabrizio Pace che, accogliendo il congruo appello della famiglia Liponi, ha avviato di nuovo ricerche proprio laddove il ragazzo fu avvistato per l'ultima volta.
La scomparsa
Era l'8 giugno del 2008. "Quella domenica Andrea era rientrato a casa verso le cinque del mattino, dopo esser stato via per qualche giorno - racconta Mirella - Si fece la doccia e poi si coricò accanto al papà. Al risveglio era un po' imbronciato, non aveva molta voglia di parlare. Io e mio marito Livio gli proponemmo di andare a pranzo fuori. Lui accettò di buon grado anche se, quando eravamo al ristorante, non ordinò molte pietanze. Disse una frase che mi colpì molto: 'Devo abituarmi a mangiare poco'. Col senno di poi credo che già avesse meditato di andarsene".
Andrea stava attraversando un momento impegnativo dal punto di vista personale. I genitori erano a conoscenza del suo malessere e preferirono non infierire con domande che avrebbero potuto turbarlo ulteriormente. Così, per stemperare la tensione, gli proposero una passeggiata all'aria aperta. "Il ristorante era nei pressi di un bosco - continua Mirella - Dopo pranzo gli proponemmo di fare due passi. A un certo punto, vedendolo silenzioso e un po’ teso, Livio gli mise una mano sulla spalla e, per cercare un contatto con lui, gli disse: 'Che spalle forti hai'. Ma lui, dicendo 'No, sono solo rigide', si allontanò bruscamente. Poi gli chiesi se voleva accompagnarmi al cimitero, per deporre un cero sulla tomba di mia madre".
Mentre si dirigevano in auto verso il cimitero, Andrea tornò a scurirsi in volto. "Durante il tragitto ci disse che gli servivano dei soldi per fare benzina - prosegue il racconto - Gli diedi 20 euro e mi assicurai che li usasse per fare rifornimento. Non so, avevo avuto come la sensazione che se gli avessi dato di più, lui se ne sarebbe andato".
Il presagio di mamma Mirella non era infondato. Del resto già in precedenza Andrea aveva manifestato una solida e radicata insofferenza. "Una volta giunti al cimitero, Andrea andò via di tutta fretta - continua Mirella - Lo contattai al cellulare e lui disse che sarebbe andato a lavare l'auto aggiungendo che avremmo dovuto tornare a casa a piedi. Quella fu l'ultima volta che sentii la voce di mio figlio. Dopodiché spense il cellulare". Rientrati a casa, Livio e Mirella notarono che l'auto di Andrea, una Fiat Grande Punto di colore blu, non c'era ancora. Provarono a contattare il figlio ripetutamente al cellulare ma invano. Verso sera scattarono le ricerche.
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Il ritrovamento dell'auto
La Punto di Andrea fu ritrovata a Nalles, nella frazione di Sirmiano, a circa 15 chilometri da Bolzano. Era parcheggiata all'esterno del cancello di un'abitazione, in prossimità di un maso. Fu proprio il proprietario della masseria ad allertare i carabinieri notando la vettura in sosta da molte ore. I militari dell'Arma riscontrarono tempestivamente trattarsi della macchina appartenente al 22enne scomparso ed allertarono i genitori.
Giunto a Sirmiano, Livio, in possesso di una chiave di riserva dell'auto, riuscì ad aprire il bagagliaio. All'interno del veicolo c'erano il cellulare di Andrea, alcuni vestiti, e le chiavi di accensione. E non solo. Al mattino seguente, il proprietario dell'agriturismo ritrovò nel campo dove era solito portare le mucche al pascolo un paio di scarpe, dei pantaloni e altri oggetti sparsi sull'erba. Nello specifico si trattava del portafogli e del lettore cd - ancora in funzione - di Andrea. Un oggetto però mancava all'appello: l'orologio Casio Pro Trek trisensor di colore nero che il ragazzo aveva al polso il giorno della scomparsa. "Quello che non capisco è come mai ci fossero i cd di Andrea sparsi sul prato e il lettore mp3 con la musica che andava ancora. Perché?", si chiede ancora oggi Mirella.
Le ricerche furono estese a tutta l'area boschiva attorno a Nalles impegnando carabinieri e unità cinofile per giorni ma si rivelarono infruttuose. Di Andrea non vi è mai stata più traccia nonostante l'impegno profuso dai genitori che, nel corso degli anni, non hanno mancato di lanciare appelli attraverso i microfoni del programma televisivo "Chi l'ha Visto?".
Il mistero della cartolina
Una svolta sembrò arrivare tre anni dopo la scomparsa. Tra il 16 e il 17 ottobre del 2011, a Livio e Mirella fu recapitata una cartolina con un'illustrazione del deserto del Kuwait: "Tanti salutoni, Andrea. Sono lontanissimo", recitava il testo del messaggio. La corrispondenza proveniva però da Milano Borromeo, uno dei centri di smistamento postale della Lombardia, e riportava un francobollo italiano timbrato alla data del 13 ottobre. L'indirizzo di destinazione invece era scritto in versione bilingue: "via Vicenzastr (Vicenzastrasse) cap 39100 Bolzano Bozen". Di chi si trattava?
"La grafologa di 'Chi l'ha visto?' analizzò la cartolina ed escluse che potesse trattarsi della calligrafia di Andrea - spiega Mirella - Anni dopo, io e mio marito frequentammo dei corsi di grafologia a Bressanone. In quella circostanza conoscemmo un altro perito a cui chiedemmo di analizzare il messaggio sulla cartolina. Il suo parere fu che potesse averlo scritto Andrea. Difficile stabilire quale sia la verità, quale delle due grafologhe avesse ragione. Certo è che il dubbio ci è sempre rimasto: era lui o no?".
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La segnalazione 11 anni dopo la scomparsa
Nel corso degli anni non sono mancate segnalazioni di presunti avvistamenti pervenute, in buona parte, alla redazione di "Chi l'ha visto?". L'ultima nel novembre 2019 quando una telespettatrice del programma di Rai 3 ha fotografato un uomo su autobus in partenza da Marghera e diretto a Venezia. Il giornalista Giuseppe Pizzo ha provato a rintracciarlo ma, purtroppo, non ci è riuscito.
Mirella e Livio non escludono che possa essere Andrea il ragazzo della foto. "Abbiamo riscontrato delle somiglianze tra l’uomo della foto e nostro figlio, tanto da non poter escludere che si possa trattare di lui", dicono. Ma era davvero lui?
Le nuove ricerche
Nel 2021, su richiesta della famiglia Liponi, il criminologo e antropologo Fabrizio Pace ha deciso di ispezionare l'area boschiva attorno a Nalles dove fu rinvenuta l'auto del ragazzo. Le ricerche riprenderanno a fine settimana con anche l'ausilio di una squadra cinofila della Dection Dogs Ticino. Ma cosa potrebbe aver spinto Andrea a raggiungere la montagna? "In quel periodo Andrea era alla ricerca di se stesso. Le ragioni possono essere molteplici e varie. Probabilmente non le conosceremo mai - spiega l'esperto - Possiamo però partire da un dato statistico che, in qualche modo, può aiutarci a trovare una spiegazione razionale al suo comportamento. Nei casi di scomparsa gli adulti tendono a spostarsi verso il basso mentre i bambini si muovono verso l'alto. Questo ci dà un'idea dello stato d'animo che potrebbe aver avuto in quel momento".
Il criminologo ha ipotizzato anche che Andrea sia caduto dopo essersi inoltrato nel bosco. "Non sappiamo se Andrea in quel momento fosse pienamente consapevole delle sue azioni - continua l'esperto - Io credo che possa esser scivolato, che in qualche modo sia rimasto vittima di un incidente durante il suo cammino. Stiamo parlando di luoghi inerpicati, difficili da raggiungere e soprattutto da percorrere. In quelle zone il terreno è molto scivoloso".
Quei bambini sospesi nel nulla
La speranza
La storia di Andrea si intreccia con quella di moltissime, altre persone scomparse di cui si occupa l'Associazione Penelope Italia. "Non bisogna mai smettere di cercare le persone scomparse, mai - afferma Fabrizio Pace - Dobbiamo pensare a una persona scomparsa come se fosse un parente, un fratello o un amico a noi caro e che questo dramma possa accadere a ognuno di noi. Il nostro dovere è quello di dar voce a chi, purtroppo, non ne ha più".
Livio e Mirella non hanno mai smesso di cecare loro figlio. Una speranza che si rinnova a ogni segnalazione e che raccontano attraverso il blog dedicato ad Andrea. "Sappiamo che Andrea si trovava in un momento critico della sua esistenza, tanto da pensare che fosse necessario scomparire, rifarsi una vita altrove - concludono - Ma in 14 anni non abbiamo trovato alcuna traccia di lui, malgrado diverse segnalazioni, che si sono finora rivelate prive di fondamento. Noi speriamo sempre di poterlo riabbracciare o, almeno, di sapere che cosa gli sia successo dopo la scomparsa".
· Il mistero di Claudio Mandia.
Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 30 ottobre 2022.
La morte di Claudio Mandia, lo studente suicidatosi il 17 febbraio scorso in una stanza della EF Academy di New York nella quale era stato tenuto in isolamento per tre giorni, punito per aver copiato un compito di matematica, è una delle vicende più dolorose che abbiamo raccontato quest' anno. I genitori, Elisabetta e Mauro, arrivati dall'Italia per riprendersi il figlio, vennero informati in aeroporto, subito dopo l'atterraggio, del tragico evento.
Il comportamento dell'istituto privato, come raccontato a suo tempo dal Corriere, apparve subito molto discutibile: estremo, spietato, senza nessuna cura per l'allarme suicidi degli adolescenti che in America suona da tempo con forza nelle scuole. Un ragazzo di 17 anni rientrato nella boarding school (ultimo anno del liceo) in ritardo per il Covid che aveva colpito in Italia il resto della sua famiglia e per un lutto, indietro col programma, si era fatto aiutare da un compagno per un compito di matematica. Per questo ne era stato deciso l'isolamento fino al momento dell'espulsione.
I genitori di Mauro, imprenditori salernitani, inizialmente travolti dalla disperazione, hanno cominciato a indagare su quanto accaduto affidandosi ad avvocati e strutture private e ieri hanno presentato, attraverso l'avvocato George Bochetto, una denuncia civile alla Corte Suprema dello Stato di New York accusando la scuola di comportamento inumano e gravissime negligenze: pur sapendo che il ragazzo era disperato e minacciava di suicidarsi, l'hanno tenuto in isolamento assoluto per quattro giorni lasciandogli i pasti fuori dalla porta e non prendendo alcuna precauzione nonostante l'istituto avesse sperimentato in precedenza tentativi di suicidio.
E nonostante il suddetto allarme suicidi per il quale anche personale dell'Academy aveva ricevuto un'istruzione specifica per la prevenzione.
La denuncia chiama in causa il direttore dell'Istituto, Vladimir Kuskovski, il dean Wayne Walton, la psicologa Chelsea Lovece, che aveva più volte incontrato Mauro per le sue difficoltà ambientali e mentali (numerose richieste di mental health treatment delle quale i genitori non furono mai informati) e altri dipendenti della EF Academy. I nove capi d'imputazione per i quali viene chiesta la condanna della EF Academy vanno da wrongful death , cioè morte procurata dai comportamenti dell'Istituto, alla detenzione abusiva alla negligenza nella gestione di vari aspetti della vita accademica e, soprattutto, dei trattamenti disciplinari, fino alle sofferenze psicologiche consapevolmente inflitte, ai maltrattamenti e all'abuso di minori.
Nel documento tutto il film della tragica vicenda, dal tentativo di suicidio un anno prima di un altro studente italiano che si tagliò i polsi, scoperto e salvato proprio da Mauro Mandia e da un membro dello staff della Academy, alle drammatiche ultime ore di vita nelle quali il ragazzo chiedeva aiuto via email, era addirittura malnutrito perché alcuni pasti non gli erano stati serviti, fino alla breve visita di alcuni compagni, autorizzati a vederlo per un ultimo saluto prima della sua partenza, prevista per il giorno dopo. I ragazzi si accorsero che Mauro aveva segni di ferite e di legamenti attorno al collo, ma lui disse che era caduto nella doccia. Nemmeno questi segnali misero in allarme la scuola. Che scoprì il suicidio solo quando la sorella di Mauro, anche lei allieva della EF Academy, si insospettì per la mancata risposta ai suoi messaggi.
Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 31 ottobre 2022.
Per prima parla Elisabetta, la madre: «Claudio non ce lo ridarà nessuno, ma speriamo che quanto stiamo facendo serva almeno a evitare altre tragedie simili. Nostro figlio non ha preso la decisione di togliersi la vita: Claudio è morto perché non ha resistito ai crudeli maltrattamenti e agli atroci abusi che ha subito da parte della scuola. Quell'istituto al quale lo avevamo affidato e che si era impegnato a prendersi cura del suo sviluppo e del suo benessere».
A fianco a lei Mauro, il padre, si sforza di misurare le parole, ma fa fatica: «Solo delle belve feroci possono trattare un ragazzino come un criminale».
Weekend di Halloween nella hall di un albergo di Manhattan: fuori è pieno di ragazzi in costume: cantano, ballano, vanno alle feste mascherate. A pochi metri da quelle esplosioni di gioia, Elisabetta Benesatto e Mauro Mandia, genitori di Claudio, il ragazzo di Battipaglia di 17 anni che si suicidò il 17 febbraio scorso dopo essere stato tenuto in detenzione (solitary confinement) per quasi quattro giorni dalla EF Academy, una boarding school privata di Thornwood, pochi chilometri a nord di New York, ricostruiscono, affranti ma lucidi, la tragedia nella quale sono precipitati otto mesi fa.
E che li ha spinti, come ha scritto ieri il Corriere , a presentare una denuncia contro la Academy presso la sezione civile della Corte Suprema di New York. L'avvio di un percorso giudiziario che le indagini della procura distrettuale della contea di Westchester, tuttora in corso, potrebbero in futuro trasformare in processo penale.
Travolti da una simile tragedia, cosa ha spinto voi, imprenditori italiani, ad affrontare l'impegno di un'indagine privata condotta oltreoceano?
«Siamo italiani - risponde Mauro - ma l'America è sempre stata centrale per noi.
Io ho studiato qui, una parte importante della nostra attività (i Mandia producono soprattutto pizze surgelate) è diretta verso gli Stati Uniti dove, prima del Covid, venivo una volta al mese.
E Claudio si è innamorato di New York fin da bambino. Era destinato a diventare il titolare della nostra azienda e scherzava: "Non dovete nemmeno cambiare il timbro dell'amministratore".
L'azienda (Fiad), infatti, è tuttora intestata a mio padre 83enne, che si chiama anche lui Claudio. Volevamo dargli un'istruzione internazionale fin dal liceo. Elisabetta pensava alla EF Academy di Oxford, in Gran Bretagna, ma Claudio voleva gli Stati Uniti. Amiamo questo Paese, ne conosciamo bene la lingua e anche le regole severe, diverse dalle nostre.
Questo istituto sembrava degno di fiducia: educatori capaci ed empatici, consapevoli della fragilità di ragazzi minorenni. Invece hanno trattato nostro figlio con inaudita crudeltà».
Claudio era stato espulso dalla scuola per aver copiato un compito di matematica.
Nella denuncia voi spiegate che il ragazzo era in difficoltà e sotto stress. Prima per un rientro ritardato a scuola dall'Italia per una quarantena da Covid che gli aveva fatto perdere diverse lezioni, poi per un lutto familiare. Giustificata o meno che fosse l'espulsione, la detenzione è misura abnorme. Se non altro perché da tempo le scuole americane sono state messe in allarme per l'aumento dei suicidi tra gli adolescenti. Non sapevate di queste pratiche punitive?
L'avvocato George Bochetto, che ascolta in disparte, interviene per spiegare che nelle scuole pubbliche di New York il confinement è ammesso solo in casi molto gravi e sotto stretto controllo del personale se dura più di due ore.
«Non solo - spiega Mauro - la EF Academy non ha mai parlato di questi provvedimenti punitivi. Ma quando da lunedì 14 febbraio abbiamo saputo della decisione di espellerlo e di trasferirlo in un edificio isolato in attesa del nostro arrivo e ho cominciato a tempestare la scuola di chiamate mi sono sempre sentito rispondere che Claudio non era in isolamento».
«Claudio - riprende Elisabetta - non è stato l'unico a subire trattamenti così primitivi. Quanti altri prima di noi hanno vissuto esperienze simili senza avere gli strumenti per reagire, indagare. Noi abbiamo potuto farlo e andremo fino in fondo perché nessun altro studente debba subire azioni così disumane, orribili e ingiuste».
Nella vostra denuncia si legge di altri tentativi di suicidio. Un anno prima un altro ragazzo italiano si tagliò i polsi e fu scoperto e salvato proprio da Claudio, insieme a un membro dello staff della scuola. E nell'indagine avete appurato che c'era una sala attrezzata contro i rischi di suicidio. Quella in cui è stato rinchiuso Claudio, invece, aveva letti con barre di metallo e, pare, altri appigli. Ma la scuola dice che lui non era tecnicamente detenuto.
«Dicevano che poteva aprire la porta, ma non era autorizzato a uscire e se lo faceva la porta si richiudeva e non poteva essere riaperta. La poteva aprire solo per prendere i pasti che gli lasciavano a terra: peggio di un detenuto.L'ultimo giorno, poi, non gli portarono né la colazione né il pranzo».
In serata un comunicato anonimo della EF Academy ribadisce il dolore per la scomparsa di Claudio, ma anche che la scuola è impegnata a tutelare sicurezza e benessere degli studenti. Parla poi di «inesattezze nella documentazione legale circolata». In particolare: «La stanza dello studente non era chiusa a chiave: non era in isolamento e poteva avere interazioni sociali» e «accesso alle risorse della scuola».
In quei giorni Claudio comunicava via messaggi e WhatsApp. Sentivate la sua disperazione?
«No, cercava di tranquillizzarci, ma ai compagni rivelava il suo vero stato d'animo.
Chiedeva aiuto alla psicologa, era chiaramente sotto estremo stress. Quando mercoledì, la sera prima del suicidio, i compagni sono stati autorizzati ad andare a salutarlo, visto che doveva partire il giorno dopo, tutti videro segni di legamenti intorno al collo, tracce di ferite.
Erano presenti anche due membri dello staff scolastico. Claudio provò a minimizzare dicendo che era caduto in doccia».
Sembra che in uno dei messaggi inviati a suoi amici Claudio avesse addirittura scritto «ho paura di quello che sto per fare». Poi si impiccò. Voi avete saputo appena atterrati all'aeroporto Kennedy.
«Ritirati i bagagli due agenti in borghese chiesero a me ed Elisabetta si seguirli in una sala riservata. Pensavamo a un normale controllo. Dentro c'erano i detective della polizia di Mount Pleasant e tre persone della scuola tra cui un insegnante italiano che già conoscevo.
Mi disse di botto che Claudio era morto. Io caddi a terra. Elisabetta, dopo i primi momenti di disperazione, chiese di nostra figlia Martina, allieva della stessa scuola. La tenevano ignara e isolata. Ci chiesero cosa fare. Dovevamo dirglielo noi. Andammo alla EF Academy».
Come fu l'incontro coi capi della scuola?
«Non venne nessuno. Anzi, non ci fecero nemmeno entrare: ci consegnarono Martina tremante in camicetta con una temperatura sotto zero. Dovemmo chiedere che andassero a prenderle il cappotto. Ci dissero che la nostra presenza avrebbe turbato gli altri studenti».
Siete andati nei giorni successivi?
«Non abbiamo più visto nessuno. Il giorno dopo dovevamo andare a ritirare gli effetti personali di Claudio. Per evitarlo mandarono l'infermiera della Academy a portarci le sue cose all'obitorio».
Katie Meyer come Claudio Mandia, i genitori della calciatrice: «Si è uccisa per un provvedimento disciplinare dell’Università». Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.
La vicenda della capitana della squadra di calcio dell’Università di Stanford trovata morta nel campus si arricchisce di particolari: si sarebbe tolta la vita prima di essere punita dall’ateneo per aver difeso una compagna di squadra.
Una vicenda che, alla luce delle ultime notizie, ricorda quella di Claudio Mandia, il giovane studente universitario italiano morto suicida a New York per le conseguenze subite a causa dell’espulsione dall’EF Academy. Katie Meyer, 22 anni, portiere e capitano della squadra di calcio dell’Università di Stanford, trovata morta nella sua stanza del campus, si sarebbe uccisa per la paura delle conseguenze di un provvedimento disciplinare che l’università stava per intraprendere nei suoi confronti. È questa l’accusa fatta dai genitori della ragazza, Steve e Gina Meyer ai microfoni della Nbc.
«Katie, essendo Katie, stava difendendo una compagna di squadra nel campus per un incidente e le ripercussioni della sua difesa di quella compagna di squadra potevano portare a un’azione disciplinare», ha dichiarato Steven Meyer alla Nbc. «Non abbiamo ancora visto l’ultima mail che aveva ricevuto — ha spiegato invece Gina — sappiamo solo che aveva ricevuto lettere per un paio di mesi. Questa lettera era una specie di lettera finale nella quale si diceva che ci sarebbe stato un processo o qualcosa del genere. Questa è l’unica cosa che ci è venuta in mente che potrebbe essere all’origine della decisione di togliersi la vita».
Secondo i genitori di Katie l’Università di Stanford avrebbe dovuto spiegare anche a loro cosa stava succedendo, anche se la figlia era maggiorenne. Dal canto suo l’Università non ha negato e neanche confermato quanto detto dai genitori limitandosi a pubblicare un comunicato in cui dice: «Tutta la nostra comunità è devastata dalla morte di Katie, e condividiamo le nostre più profonde condoglianze con la famiglia di Katie e con tutti coloro che la conoscevano a Stanford, in tutto il Paese e nel mondo. Katie ha toccato così tante vite. Non possiamo però condividere informazioni su questioni disciplinari che riguardano studenti. Noi, come comunità universitaria, continuiamo a piangere con la famiglia di Katie e abbiamo a cuore i nostri ricordi di lei».
Claudio Mandia, il mistero sulla morte in un college a New York due giorni prima dei suoi 18 anni. Fulvio Bufi su Il Corriere della Sera il 20 Febbraio 2022.
Claudio Mandia studiava a New York. I genitori erano negli Usa proprio per il suo compleanno. Claudio Mandia sapeva quale sarebbe stato il suo futuro. Un giorno, forse, avrebbe guidato l’azienda di famiglia a Battipaglia. Prima accanto al papà Mauro e alla mamma Elisabetta, e poi, a tempo debito, si sarebbe occupato lui di tutto. Però un futuro Claudio non lo ha avuto. È morto nella notte tra giovedì e venerdì scorsi. Due giorni prima del suo diciottesimo compleanno.
Le ipotesi
È una tragedia che non ha ancora una spiegazione ufficiale, anche se tutto lascia supporre che Claudio sia rimasto vittima di un evento improvviso e imprevedibile. Forse una morte dovuta ad un aneurisma, oppure era affetto senza saperlo da una patologia cardiaca di quelle che spesso si rivelano fatali la prima volta in cui si manifestano. Ma non si possono escludere anche altre ipotesi (ed eventuali responsabilità correlate). Per questo la morte di Claudio resta un mistero. Per, scioglierlo bisognerà attendere l’esito dell’autopsia. A occuparsi di tutto saranno le autorità americane, perché Claudio non è morto nella sua cittadina in provincia di Salerno, ma a New York, dove da alcuni mesi si era trasferito per studiare in un college, dopo aver conseguito l’estate scorsa la maturità classica nel più quotato liceo di Battipaglia.
L’America
A New York ci stava bene. Claudio lo aveva detto ai suoi amici di sempre quando era tornato a casa per le festività natalizie. Gli piaceva l’America, gli piaceva l’ambiente del college, gli piacevano gli studi che aveva iniziato, a cominciare dall’inglese, che già conosceva ma voleva imparare alla perfezione perché ne comprendeva benissimo l’importanza e perché sapeva quanto gli sarebbe servito se fosse entrato nell’azienda dei genitori, che si occupa di export di prodotti alimentari in tutto il mondo, e dove quindi si lavora parlando soprattutto in inglese. Stava andando tutto così bene, nella vita di Claudio. E pure il suo diciottesimo compleanno si preannunciava fantastico. Lo avrebbe festeggiato a oltre settemila chilometri di distanza da casa, è vero. Ma non lo avrebbe festeggiato da solo. I suoi genitori non se lo sarebbero mai voluto perdere un momento come quello, e da tempo avevano prenotato il volo per raggiungere il figlio e stare con lui in un giorno così importante. La sorella Martina, di poco più piccola, e le altre due più piccine gli avrebbero fatto gli auguri in videochiamata, ma papà e mamma no, loro sarebbero stati al suo fianco, avrebbero potuto abbracciarlo e baciarlo e brindare con lui.
La serata con gli amici
E invece da questo viaggio a New York torneranno con la vita stravolta. Hanno avuto il tempo di vedere il figlio giovedì, quando lo hanno raggiunto dall’aeroporto e hanno passato qualche ora insieme. Poi si erano dati appuntamento per l’indomani. Loro erano provati dal viaggio e dal jet lag, lui aveva già organizzato la serata con gli amici. Nessun problema, di tempo a disposizione ne avevano. «Ci vediamo domani», si erano detti. Programmando di dedicare la giornata a organizzare la festa per il compleanno. E invece in un momento tutto è cambiato. Un momento che nessuno sa nemmeno quando sia arrivato. Sicuramente in piena notte, mentre i genitori di Claudio dormivano da un pezzo e pure lui era andato a letto. E dormivano anche i suoi compagni di stanza al collage. Sono stati gli altri ragazzi, al risveglio, ad accorgersi che Claudio era morto. Hanno chiamato — ormai inutilmente — i soccorsi e hanno avvertito Mauro e Elisabetta. Che si aspettavano un’altra telefonata, un’altra giornata. Un’altra vita.
«Claudio Mandia si è suicidato a New York»: tre giorni in isolamento e espulso dal college per aver copiato un test. Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 21 Febbraio 2022.
Il giovane studente morto a New York alla vigilia dei suoi 18 anni. Era amato e benvoluto da tutti, amici e docenti. La famiglia parla di trattamento «inimmaginabile».
È morto mentre i suoi genitori erano in volo verso l’America. E, anche se nessuno parla ufficialmente di suicidio, tutte le indicazioni raccolte tra gli studenti e le persone che si occupano dell’indagine parlano di un gesto disperato di Claudio Mandia che, alla vigilia del suo 18esimo compleanno, aveva visto il suo percorso accademico alla EF Academy troncato da un provvedimento disciplinare. Espulso dalla scuola, è rimasto in isolamento in una camera riservata agli studenti sospesi per ben tre giorni, in attesa dei genitori. Lì è maturato il suicidio.
Amato e benvoluto da tutti, studenti e docenti, Claudio era un ragazzo solare e molto vivace, popolarissimo in tutto l’istituto anche perché, durante la fase dura del lockdown, aveva fatto arrivare dall’azienda di famiglia un gran numero di pizze surgelate che erano state cotte in un forno nel campus e distribuite a tutti.
Le autorità scolastiche non consentono l’accesso al campus dell’istituto che sorge su una collina circondata da un bosco nella contea di Westchster, una quarantina di chilometri a nord di Manhattan: è giorno di festa, il President’s Day, e poi gli studenti sono minorenni e ci sono ancora le restrizioni per il Covid. Al cronista solo un garbato invito a tornare indietro e parole di dolore per la tragica scomparsa di Claudio, di vicinanza alla famiglia. In una nota, poi, l’Academy garantisce piena collaborazione alle indagini di polizia, si riserva ulteriori commenti a caso chiuso e replica alle accuse di soprusi — il «trattamento inimmaginabile» da parte dell’istituto del quale parla la famiglia nel comunicato dei suoi avvocati — assicurando che «la sicurezza della nostra comunità scolastica è sempre in cima alle nostre priorità».
Abbottonati anche i detective del commissariato di Mount Pleasant che svolge le indagini: «Domani il capo del dipartimento raccoglierà gli elementi e farà una dichiarazione pubblica». Ma, piano piano, affiorano gli elementi principali di questa drammatica vicenda che è anche una storia di incomprensioni, differenze culturali, misure disciplinari gestite in modo discutibile o forse peggio.
Il film di questa tragedia inizia lunedì scorso quando Claudio viene espulso dalla scuola. Pare accusato di aver copiato un compito essenziale per il diploma IB (International Baccalaureate) che avrebbe dovuto conseguire a maggio, alla fine del suo ultimo anno scolastico. In America copiare non viene visto con una certa indulgenza come accade da noi. E l’IB è qualcosa più di un diploma di maturità liceale: è un titolo più ambito, riconosciuto da un’istituzione che ne tutela il valore anche imponendo regole rigide. Gli istituti che le violano rischiano di perdere la licenza.
Tutto ciò giustificava l’espulsione di uno studente che ha sempre avuto voti ottimi? E perché uno come lui, che non ne aveva bisogno, ha copiato? Forse, rientrato a scuola con settimane di ritardo dal periodo natalizio in Italia per problemi legati alla pandemia, era rimasto indietro col programma. Di certo le espulsioni dalla EF Academy non sono rare (in certi anni se ne sono contate decine) ma sono dovute prevalentemente a problemi disciplinari: c’è tolleranza zero per l’uso di droghe, poca tolleranza per alcol e scappatelle dal campus. Ma a Claudio non è stato contestato nulla di simile.
Più che sui motivi dell’espulsione (rispetto alla quale Claudio poteva tentare di fare appello), l’indagine si concentra sul trattamento del ragazzo nei tre giorni in cui è rimasto in isolamento. In genere in questi casi l’alunno viene separato dai compagni: lascia la stanza che divide con uno o due altri studenti e finisce in una camera isolata in un altro edificio. In genere questa specie di detenzione dura poco: il tempo di preparare il viaggio di rientro nel Paese di provenienza. Stavolta è durata più di tre giorni perché erano in arrivo papà Mauro e mamma Elisabetta con le tre sorelline per festeggiare, sabato, il compleanno del primogenito. L’espulsione aveva sconvolto tutto, ma non cambiato i programmi di viaggio.
In quei tre giorni Claudio si deve essere sentito trattato come un criminale: in isolamento, coi pasti lasciati fuori dalla porta. Qualcuno è stato con lui, si è preoccupato della sua fragilità psicologica? Probabilmente le accuse degli avvocati della famiglia si riferiscono a questo. Un ragazzo solare che aveva davanti un futuro di manager al quale voleva prepararsi entrando in una grande università americana, deve essere caduto in depressione dopo un incidente che gli avrebbe probabilmente precluso l’accesso a molte accademie. Disperazione, forse vergogna, certamente solitudine: nella notte tra giovedì e venerdì Claudio si è impiccato. E forse il corpo è stato trovato diverse ore dopo il suicidio. Atterrati a New York, i Mandia hanno trovato in aeroporto un professore italiano dell’Academy. E il sogno americano è diventato incubo.
New York, Claudio temeva l'espulsione dal college per un compito copiato: ipotesi suicidio. Dario del Porto, Paolo Mastrolilli su La Repubblica il 22 febbraio 2022.
La pista della polizia: la scuola avrebbe contestato allo studente un’irregolarità nello svolgimento di una prova. Gli amici di Battipaglia: “Era lì per realizzare i suoi sogni”.
A che cosa si riferisce, la famiglia di Claudio Mandia, quando contesta all'amministrazione del college americano EF Academy di aver sottoposto lo studente di Battipaglia a "trattamenti inimmaginabili" prima della sua tragica morte, avvenuta alla vigilia del suo diciottesimo compleanno? Gli avvocati statunitensi dello studio associato Bochetto-Lentz con sede nel New Jersey che assistono i genitori del ragazzo non entrano nei dettagli in attesa dello sviluppo delle indagini avviate dopo il ritrovamento del corpo senza vita di Claudio nel campus di New York.
Anna Laura De Rosa e Andrea Pellegrino per napoli.repubblica.it il 21 Febbraio 2022.
S'infittisce il mistero che avvolge la morte di Claudio Mandia, lo studente italiano trovato senza vita alla vigilia del 18esimo compleanno nel college che frequentava negli Stati Uniti. I genitori, Elisabetta Benesatto e Mauro Mandia, affidano dure e inquietanti parole all'avvocato George Bochetto: "La famiglia di Claudio è sconvolta e distrutta per la morte insensata del loro amato figlio. Claudio era un giovane allegro, intelligente, che studiava in America alla EF Academy nella contea di West Chester, New York. È stato sottoposto a un trattamento inimmaginabile dall'amministrazione. È in corso un'indagine completa e verranno intraprese tutte le azioni appropriate. La famiglia chiede rispettosamente privacy mentre piange la morte del figlio".
Un messaggio che lancia un'accusa e ipotizza una qualche responsabilità, forse una negligenza del college nella vita dello studente in una vicenda che però è ancora tutta da chiarire.
"Stiamo vivendo qualcosa di allucinante, non ci sono parole - ha detto da oltreoceano la madre del ragazzo contattata da Repubblica - Siamo alle prese con una tragedia enorme in un Paese straniero, è qualcosa di umanamente incomprensibile, non siamo nella condizione in questo momento di dare informazioni. Vi prego di comprendere il nostro dolore".
La voce restituisce la disperazione di un genitore per la perdita inaccettabile di un figlio. L'autopsia sul corpo del ragazzo di Battipaglia è stata eseguita. L'esito sarà comunicato dai genitori, in ogni caso sono escluse la pista dell'omicidio o di altri reati. La salma di Claudio sarà rimpatriata nei prossimi giorni.
Il Consolato italiano a New York sta dando il sostegno necessario alla famiglia Mandia, in contatto con la Farnesina. La sindaca del Comune in provincia di Salerno, Cecilia Francese, ha inviato i documenti per organizzare il rientro del corpo dagli Stati Uniti e i funerali. Per il rimpatrio ci vorrà qualche giorno, non avverrà prima della chiusura delle indagini da parte delle autorità statunitensi.
Il decesso del giovane sarebbe stato provocato da un malore di cui bisogna accertare le cause stando a uno zio, Pietro Benesatto: "Claudio era sanissimo" ha detto. L'esito dell'autopsia restituirà la verità sulla morte. Il ragazzo avrebbe festeggiato il compleanno giovedì sera con gli amici, la polizia sta verificando se si sia trattato effettivamente di un party e se siano circolate droghe: gli agenti hanno ascoltato gli allievi per ricostruire le ultime ore dello studente. Claudio è stato ritrovato senza vita venerdì mattina. Il 18enne da tre anni si era trasferito negli Usa e voleva continuare gli studi universitari in America per diventare manager.
Docenti e allievi hanno ricordato Claudio con una cerimonia sabato pomeriggio, nel giorno del compleanno. Alla celebrazione nell'esclusivo college internazionale frequentato da ragazzi provenienti da tutto il mondo, hanno preso parte anche i genitori che hanno appreso della morte del ragazzo all'arrivo in aeroporto. Sotto shock la comunità del Salernitano dove la coppia di imprenditori è molto conosciuta. L'azienda di famiglia si occupa dell'export di prodotti surgelati, pizze soprattutto negli Usa. Benesatto, inoltre, è una stimata docente di Comunicazione e Formazione, che ha insegnato presso enti, istituzioni e università. Negli ultimi anni ha lavorato al Suor Orsola Benincasa. Il rettore Lucio D'Alessandro ha espresso il suo cordoglio.
Gli amici descrivono Claudio come un ragazzo allegro, vivace e gentile. Il 18enne era tornato a Battipaglia per le vacanze natalizie, aveva raccontato studi e aspirazioni. In paese aveva frequentato il liceo scientifico "Medi", dove è iscritta la sorella più piccola, Martina. Primogenito di una famiglia composta da altre 3 sorelle, lascia un vuoto enorme. In una foto su Instagram è in posa con il mare alle spalle e il post "If not me then who?". Tanti i messaggi di dolore tra i commenti: "Riposa in pace angelo".
Italiano muore al college a poche ore dai 18 anni. Stefano Vladovich il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Claudio Mandia trovato senza vita in camera. I genitori l'avevano raggiunto per il compleanno.
Arrivano in America, trovano il figlio morto. È giallo per la drammatica scomparsa di Claudio Mandia, 18 anni da compiere a ore, trovato senza vita in un college statunitense dai genitori appena atterrati a New York dall'Italia. Mauro Mandia e la moglie Elisabetta Montesatto, sotto choc. A rinvenire il cadavere del ragazzo nella propria stanza gli altri studenti dell'Istituto, uno dei più esclusivi e prestigiosi di Manhattan. Sconvolta la città in cui vive la famiglia Mandia, Battipaglia. «Qui li conoscono tutti» commentano i compagni di scuola della vittima. Le indagini, coordinate dalla polizia newyorkese, sono seguite anche dalla Procura di Salerno e dal Ministero degli Esteri. Secondo una prima ricostruzione Claudio, da qualche mese nella «Grande Mela» per imparare l'inglese, aveva trascorso la serata di giovedì in compagnia degli altri studenti e amici universitari. Poi, a tarda notte, sarebbe rientrato, solo, in camera. Al mattino di venerdì la drammatica scoperta quando gli altri ragazzi lo passano a prendere per andare a lezione. Il ragazzo era riverso a letto e, secondo alcune indiscrezioni, completamente vestito.
Cos'è accaduto? Il 18enne, che avrebbe compiuto gli anni venerdì, non soffriva di alcuna patologia, tanto meno faceva uso di droghe. Il procuratore statunitense che si occupa del caso ha disposto immediatamente l'autopsia e gli esami tossicologici per stabilire se Claudio aveva assunto, o meno, alcol o sostanze psicotrope. Il primo referto del medico legale parlerebbe di arresto cardiocircolatorio. Nessun segno di violenza, la stanza apparentemente in ordine. «È una tragedia immane che ha lasciato impietrita la nostra comunità» commenta la sindaca di Battipaglia, in provincia di Salerno, Cecilia Francese, nel dare la notizia della morte del concittadino. Ad avvertire i genitori, arrivati a new York per festeggiare il figlio, i poliziotti americani.
Claudio era partito la scorsa estate dalla Piana del Sele per ottenere un diploma di scuola superiore dopo aver conseguito la maturità scientifica al liceo Enrico Medi di via Domodossola. «È un dramma per tutta la nostra città - continua il primo cittadino di Battipaglia -. In queste ore in tanti lo stanno ricordando come un ragazzo solare e vivace. Una tragedia del genere colpisce tutti. Pensare che aveva una vita davanti e tante prospettive. E poi dover accettare che sia finito tutto in questo modo è tremendo. La mia vicinanza umana a tutta la famiglia e all'intera comunità». Il giovane era tornato a casa l'ultima volta per le vacanze di Natale.
La sua «passione americana», come ricordano gli ex compagni di scuola, lo aveva riportato negli States. Un mistero, la sua morte. Se non dovessero emergere dati rilevanti dall'esame autoptico il Dipartimento di polizia di New York, è intenzionato a chiudere il caso come «morte naturale». E disporre già da domani, il rientro della salma in patria. Stefano Vladovich
Studente morto nel college: "È stato maltrattato". Redazione il 22 Febbraio 2022 su Il Giornale.
La famiglia di Claudio accusa la direzione della scuola. E spunta l'ipotesi del "gioco estremo".
Si attendono gli esiti dell'autopsia per chiarire il giallo di Claudio Mandia, il giovane di Battipaglia trovato morto alla vigilia del suo diciottesimo compleanno nei dintorni di New York. A gettare un ombra su quanto accaduito nel college della EF Academy a Tarrytown, a una cinquantina di chilometri dalla Grande mela, le accuse rivolte dalla famiglia all'amministrazione della scuola, che parlano di «maltrattamenti inimmaginabili», anche se non è chiaro a cosa si riferiscano causa direttamente, anche se non è chiaro di quali maltrattamenti si sarebbe trattato e per quali motivi.
La madre, Elisabetta Benesatto, docente in un'università di Napoli, chiede il rispetto del dolore della famiglia, ma un comunicato parla di «un inimmaginabile trattamento» al quale il ragazzo sarebbe stato sottoposto da parte della direzione del liceo americano ed aggiunge che l' inchiesta delle autorità statunitensi è in corso e che quella del figlio è «una morte insensata». I genitori di Claudio, che hanno saputo della morte del figlio appena atterrati a New York dove erano giunti per il diciottesimo compleanno del figlio, si sono affidati all'avvocato George Bochetto, dello studio associato Bochetto-Lentz con sede nel New Jersey.«Claudio - dice il sindaco di Battipaglia, Cecilia Francese, che conosce la sua famiglia - si era trasferito negli USA due anni fa, quando aveva 16 anni, per completare il liceo. Poi avrebbe dovuto proseguire gli studi». L'azienda del padre, Mauro, esporta prodotti surgelati negli USA ed in altri Paesi e Claudio era destinato a studiare da manager e ad imparare le lingue per estendere l'attività.
Due sono le ipotesi. Inizialmente si era parlato di un aneurisma ma la polizia americana, che ha ascoltato i compagni di Claudio che avrebbero partecipato alla festa per il suo compleanno, starebbe seguendo anche la pista di un gioco estremo. L'amministrazione della scuola comunque esclude la possibilità che all'interno del college, dove sono ospitati 450 studenti, si stesse svolgendo una festa per Claudio. «Non abbiamo idea di che cosa sia successo - dice il sindaco di Battipaglia - circolano voci, ma nessuna notizia certa, siamo solo addolorati. Claudio era partito con dei sogni per la sua vita, non pensava certo di tornare in una bara». Il rientro della salma del ragazzo dovrebbe avvenire a breve. Al liceo scientifico Enrico Medi di Battipaglia gli ex compagni ricordano Claudio e negano che il ragazzo abusasse di droga o alcol.
Originario di Battipaglia era a New York per studiare. Morto nel sonno al college, il dramma di Claudio: i genitori erano in viaggio per festeggiare i suoi 18 anni. Elena Del Mastro su Il Riformista il 19 Febbraio 2022.
Si è addormentato e non si è più svegliato. Claudio Mandia, 17 anni, fi Battipaglia, viveva in un college di New York negli Stati Uniti quando i suoi compagni lo hanno ritrovato privo di vita. I suoi genitori hanno avuto la drammatica notizia mentre erano in viaggio per andare proprio da lui, per festeggiare i 18 anni che avrebbe compiuto il giorno successivo. Una tragedia che ha sconvolto tutta la comunità, una morte improvvisa che è ancora avvolta dal mistero.
Claudio Mandia, figlio di Mauro Mandia ed Elisabetta Benesatto, noti imprenditori del settore surgelati, è deceduto nella notte fra giovedì e venerdì. L’autopsia sarà svolta in America, la salma sarà poi liberata per far ritorno in Italia, presumibilmente la prossima settimana. Nemmeno la famiglia, a quanto si apprende, è ancora a conoscenza di quanto sia accaduto e di cosa abbia causato il decesso.
Subito sono scattate le indagini per capire cosa sia successo a Claudio. Forse, un malore mentre dormiva non gli avrebbe lasciato scampo e i compagni di stanza si sono accorti troppo tardi di quanto accaduto. Nessuna ipotesi al momento è esclusa.
A Battipaglia aveva frequentato il liceo scientifico, prima di trasferirsi a New York dove stava frequentando il primo anno del college. Aveva il sogno americano e aveva deciso di inseguirlo trasferendosi a New York per imparare bene l’inglese. Quando è tornato a Natale aveva fatto ad amici e parenti racconti entusiasmanti su quella esperienza che stava vivendo.
Tutta la comunità battipagliese è scossa da quel grave e improvviso lutto. “Notizie di questo genere non possono che lasciare una tristezza infinita. Non lo dico da sindaca naturalmente. Si tratta di un ragazzo di appena 18 anni: a quell’età si è pieni di sogni e di progetti per il futuro, tutta una vita da vivere. Un ragazzo vivace, sorridente e pieno di vita. Non posso che essere vicina alla famiglia per questo gravissimo lutto che ha lasciato attonita l’intera città”. Lo ha detto a LaPresse la sindaca di Battipaglia, Cecilia Francese.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Trovato morto nel suo letto il giorno prima di compiere 18 anni. Il mistero della morte di Claudio Mandia, lo zio: “Un malore nella notte, ma era in perfetta salute”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 20 Febbraio 2022.
Quando Mauro Mandia ed Elisabetta Benesatto sono atterrati a New York ad aspettarli c’erano i poliziotti per comunicare loro una terribile notizia: il loro figlio Claudio era stato trovato morto nel suo letto nel college dove studiava. Il giorno dopo avrebbe compiuto 18 anni. La gioia del poter riabbracciare il loro figlio si è trasformata in pochi istati in un dramma enorme.
Era la notte tra giovedì e venerdì. Il sabato Claudio avrebbe compiuto 18 anni. Tutto ferveva per i preparativi dei festeggiamenti. Per l’occasione erano arrivati a New York i suoi genitori che avrebbero spento insieme a lui le candeline. Dopo una tranquilla serata con gli amici Claudio è tornato nella stanza del college ed è andato a dormire senza più svegliarsi. Ad accorgersi della sua morte sono stati i compagni di stanza che hanno subito allertato i soccorsi. Ma a quel punto era già tutti inutile.
“Un malore purtroppo non ha lasciato scampo a Claudio“, ha detto a Il Mattino, Pietro Benesatto, zio del ragazzo. Non è ancora chiaro cosa sia successo ma la macchina delle indagini è già stata messa in moto. Tutto lascia supporre che Claudio sia rimasto vittima di un evento improvviso e imprevedibile. Forse una morte dovuta ad un aneurisma, oppure era affetto senza saperlo da una patologia cardiaca di quelle che spesso si rivelano fatali la prima volta in cui si manifestano. Ma non si possono escludere anche altre ipotesi.
Per questo la morte di Claudio resta un mistero. Per, scioglierlo bisognerà attendere l’esito dell’autopsia. A occuparsi di tutto saranno le autorità americane, perché Claudio non è morto nella sua Battipaglia in provincia di Salerno, ma a New York, dove da alcuni mesi si era trasferito per studiare in un college, dopo aver conseguito l’estate scorsa la maturità classica nel più quotato liceo della sua città. “Nei prossimi giorni sarà effettuata l’autopsia – ha detto Benesatto al Mattino – e saranno chiarite con esattezza le cause del decesso e poi la slama tornerà a Battipaglia per celebrare i funerali“. “Claudio non era malato, era sanissimo – ha detto lo zio – i medici dovranno appurare cosa è accaduto”.
La polizia ha ascoltato i coetanei che alloggiano nel college per ricostruire l’episodio e le ultime ore di vita dello studente. Il giovane ormai da tre anni si era trasferito negli States e aveva in programma di continuare anche gli studi universitari in America. “Il sogno di Claudio – ha affermato ancora lo zio – era quello di diventare un manager e specializzarsi in economia. Poi, però, ogni desiderio di mio nipote, l’atra notte, è stato spazzato via”. Benesatto, evidenzia Il Mattino, ha escluso che il nipote sia stato aggredito o ferito e che quindi il decesso sia riconducibile a cause naturali.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Tanti interrogativi per una morte avvolta nel mistero. Claudio trovato morto nel college, dal rischio espulsione al gioco estremo: tutte le ipotesi al vaglio. Elena Del Mastro su Il Riformista il 22 Febbraio 2022.
In un comunicato la famiglia di Claudio Mandia, il 17enne di Battipaglia trovato morto nel college, ha accusato l’Academy di “trattamenti inimmaginabili”. Cosa è successo al ragazzo che dalla cittadina della provincia di Salerno aveva deciso di studiare a New York? Sulla vicenda c’è ancora molto mistero, in attesa dei risultati dell’autopsia. Ma nuovi dettagli emergono dalle indagini.
La famiglia si è trincerata nel silenzio afflitta dal dolore e gli avvocati dello studio associato Bochetto-Lentz con sede nel New Jersey che assistono i genitori del ragazzo restano cauti. Ma si fa avanti la drammatica ipotesi che Claudio possa essere ricorso a un gesto estremo. Da quanto riportato da alcuni giornali, Claudio sarebbe stato messo in isolamento con la minaccia di espulsione da quella prestigiosa Academy per aver copiato un compito. E potrebbe essere questo il “trattamento inimmaginabile” a cui si potrebbero essere riferiti i genitori del ragazzo.
Ma tanti sono gli interrogativi: perché Claudio avrebbe pensato al gesto estremo proprio nei giorni in cui stavano arrivando i suoi genitori per festeggiare i suoi 18 anni? E perché avrebbe dovuto copiare un compito, lui che invece, da quanto risulta, era molto apprezzato per meriti scolastici? E inoltre, dai racconti che il ragazzo faceva ai suoi amici, quella esperienza nel college americano era per lui molto entusiasmante.
In una nota, l’avvocato Bochetto afferma ufficialmente: “è in corso un’indagine completa” e che “verranno intraprese tutte le azioni appropriate”, come riportato dal Mattino. I genitori, nella stessa nota, dichiarando di essere “scioccati e sconvolti per la morte insensata dell’amato figlio”, un ragazzo “allegro e intelligente” che studiava alla scuola superiore internazionale privata, chiedono anche di rispettare la propria privacy per “piangere”.
Intanto sarebbe stato escluso un abuso di droghe o alcol. Secondo la ricostruzione della polizia riportata dal Mattino, il ragazzo avrebbe organizzato una festa per il suo compleanno. Secondo una prima versione circolata, si sarebbe allontanato prima che il party terminasse per rientrare nella sua camera, dove poi è stato trovato morto. Ma una seconda versione parla invece di una morte in conseguenza di un “gioco estremo” e smentisce lo svolgimento di una festa all’interno del college, dove risiedono circa 450 alunni. Ma di tutto questo ancora non ci sono conferme.
In risposta alle parole degli avvocati della famiglia Mandia, la EF Academy ha emesso un comunicato nel quale scrive: “Siamo profondamente, profondamente addolorati per la tragica scomparsa di Claudio Mandia. I nostri pensieri sono con la sua famiglia e i suoi amici qui a New York e a casa in Italia”, recita la nota riportata da Repubblica.
Quindi l’istituto aggiunge: “La sicurezza della nostra comunità scolastica è sempre la nostra massima priorità. Abbiamo politiche e procedure molto forti per quanto riguarda la salute e il benessere dei giovani che sono lontani dai loro paesi d’origine”. L’Academy sottolinea di essere “in stretto contatto con le autorità locali che stanno indagando sulle circostanze della sua morte. Abbiamo il cuore spezzato e ci siamo offerti di fornire tutto il supporto che la famiglia di Claudio potrebbe richiedere, mobilitando anche consulenti e supporto aggiuntivo per la nostra comunità scolastica più ampia”. Quindi conclude: “In segno di rispetto per la sua famiglia, per gli altri nostri studenti e per le indagini di polizia in corso, ci riserveremo ulteriori commenti”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Claudio Mandia «si è ucciso dopo tre giorni di punizioni primitive»: l’accusa della famiglia alla Ef Academy. Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 22 febbraio 2022.
Il 17enne studente della Ef Academy si sarebbe tolto la vita dopo essere stato tenuto in isolamento «come punizione per il lavoro in classe». Era già stato sospeso dal college l’anno scorso.
Non c’è più alcun mistero sulla morte di Claudio Mandia. In un comunicato la famiglia conferma, come anticipato ieri dal Corriere , che lo studente italiano della EF Academy si è suicidato dopo essere stato tenuto in isolamento, incustodito, per oltre tre giorni «come punizione per il lavoro in classe».
Il comunicato non va oltre ma definisce «primitive» le misure prese nei confronti dello studente.
Come abbiamo già riferito ieri, Claudio era stato espulso lunedì della scorsa settimana dall’istituto per aver copiato un compito importante ai fini del conseguimento del diploma IB, l’International Baccalaureate che gli avrebbe aperto le porte delle migliori università. Ma, più che sui motivi dell’espulsione, ora l’attenzione è concentrata sulle modalità della «detenzione» alla quale è stato sottoposto Claudio in attesa dell’arrivo della sua famiglia dall’Italia, alla quale sarebbe stato riconsegnato.
«Trattamento inimmaginabile»
La famiglia, che da giorni parla di «trattamento inimmaginabile» e ora anche di «misure primitive che sono state la causa diretta del suicidio di Claudio mentre era rinchiuso in isolamento», afferma di voler agire nei confronti della scuola che è frequentata, tra l’altro, anche da una sorella di Claudio. Qui sarà importante l’esito delle indagini della polizia del luogo, anche se gli avvocati dei Mandia precisano che è in corso anche un’indagine di un uno studio legale specializzato.
Quali sarebbero queste «misure primitive»? Sicuramente la famiglia si riferisce all’isolamento. L’Academy isola sempre gli studenti che vengono espulsi o sospesi in attesa di rimandarli alle loro famiglie: li separa dagli altri studenti che condividono con loro le camere dei dormitori. Lo studente punito non può uscire: la porta non viene chiusa a chiave, ma spesso c’è un uomo della security in corridoio.
L’isolamento in genere dura un giorno: il tempo di organizzare il volo di rientro degli studenti alle loro residenze.
Il precedente
Pare che a Claudio fosse già successo l’anno scorso: sospeso ad aprile insieme ad altri compagni sorpresi a far festa in una camera con delle bevande alcoliche. Tutti sospesi, ma non espulsi.
Claudio rimase in isolamento un giorno (come gli altri), poi tornò a casa a Battipaglia dove, comunque, poté completare l’anno scolastico online.
Stavolta, però, la detenzione è durata molto di più e la pressione psicologica dell’espulsione era molto più forte. Agghiacciante, come abbiamo raccontato ieri, anche la modalità di servire i pasti lasciando un vassoio fuori dalla porta, anche se c’è chi sostiene che il personale di servizio ha seguito la stessa procedura adottata per gli studenti messi in isolamento per contagio da coronavirus. Ed è impressionante apprendere da indiscrezioni che, una volta scoperto che Claudio si era ucciso, la scuola avrebbe scelto di mettere in isolamento sua sorella senza dirle nulla fino all’arrivo dei genitori.
La conferma
Ora i detective del distretto di polizia di Mount Pleasant, benché in attesa dei risultati dell’autopsia (il rientro della salma invece è stato intanto autorizzato e i funerali si potrebbero celebrare a Battipaglia nei prossimi giorni), confermano il suicidio e assicurano che andranno a fondo nell’indagine per capire se Claudio è stato in qualche modo indotto a togliersi la vita o ci sono altre responsabilità.
Il distretto di polizia in questi anni si è dovuto occupare più volte di incidenti accaduti nella scuola. Cosa non strana per un istituto che tra studenti, docenti, amministrativi e personale di servizio costituisce una comunità di un migliaio di persone.
Casi di accuse di molestie sessuali, scappatelle non autorizzate di studenti (quasi tutti minorenni), magari colti a combinare guai con alcol o droghe: due anni fa un ragazzo finì in detenzione molto a lungo in attesa di provvedimenti del tribunale dopo che ebbe la pessima idea di inviare via web un’immagine terroristica minacciando di far scoppiare una bomba nel campus dopo 10 minuti. Si rivelò uno scherzo demenziale, ma a scuola scattò l’emergenza: arrivò il team SWAT dell’antiterrorismo con gli elicotteri e la storia finì sui giornali.
Il caso dello studente italiano suicida a New York. Claudio Mandia trovato morto in un’altra stanza del college: “La punizione? Giovani impreparati ai fallimenti”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 23 Febbraio 2022.
Claudio Mandia “non è stato trovato nella sua normale camera del dormitorio dove trascorreva la maggior parte del suo tempo a scuola“. E’ quanto chiarisce la polizia americana sulla morte “per impiccagione” dello studente 17enne, originario di Battipaglia (Salerno), avvenuta nel college di New York. Secondo la ricostruzione del dipartimento di polizia di Mt. Pleasant “la mattina del 17 febbraio” è arrivata una telefonata di emergenza “per una persona che si era suicidata dalla EF Academy, nello stato di New York”.
Nel comunicato si spiega che i genitori di Claudio Mandia “sarebbero arrivati negli Usa dall’Italia per un viaggio programmato intorno alle 15 e sono stati accolti all’aeroporto Jfk di New York da un rappresentante del dipartimento di polizia del Mt. Pleasant e da funzionari dell’EF Academy, che hanno dato notizia della morte del figlio”. L’arrivo poche ore il suicidio del giovane che pochi giorni dopo avrebbe compiuto 18 anni.
“L’autopsia – si legge – è stata eseguita dall’ufficio del medico legale della contea di Westchester e i risultati preliminari sono attesi nei prossimi giorni. È in corso un’indagine completa e approfondita da parte del dipartimento di polizia di Mt. Pleasant, con l’assistenza dell’ufficio del procuratore distrettuale della contea di Westchester e la collaborazione dell’EF Academy e della famiglia Mandia”. Ai microfoni di Sky TG24 Paul Oliva, capo della polizia di Mount Pleasant, ha spiegato: “Stiamo ancora raccogliendo prove. La scuola sta collaborando. In questo momento posso dire che non è stato trovato nella sua normale camera del dormitorio dove trascorreva la maggior parte del suo tempo a scuola”.
Un gesto estremo che sarebbe la conseguenza del trattamento subito dal giovane studente, tenuto in isolamento, incustodito, per oltre tre giorni “come punizione per il lavoro in classe”. Una vicenda questa anticipata nei giorni scorsi del Corriere della Sera, che aveva riportato come Mandia fosse stato espulso dall’esclusivo college americano “per aver copiato un compito importante ai fini del conseguimento del diploma IB, l’International Baccalaureate che gli avrebbe aperto le porte delle migliori università”.
Il comunicato dell’avvocato della famiglia Mandia definisce “primitive” le misure prese nei confronti dello studente, un “trattamento inimmaginabile” che sarebbe stato la causa diretta del suicidio di Claudio “mentre era rinchiuso in isolamento”.
Secondo il Corriere della Sera l’Academy frequentata da Mandia era solita isolare gli studenti espulsi o sospesi, in attesa di essere rimandati dalle loro famiglie. Questi venivano dunque separati dagli altri compagni con cui condividono le stanze nei dormitori nel campus di Thornwood: le stanze non verrebbero chiuse a chiave, ma spesso ci sarebbe un uomo della security in corridoio. Un isolamento che durerebbe un giorno, il tempo di organizzare il volo di rientro, mentre questa volta l’isolamento sarebbe durato molto di più, così come la pressione psicologica.
Sempre il Corsera scrive che vi sarebbe stato anche un precedente con protagonista Claudio, già sospeso (non espulso) lo scorso aprile assieme ad altri compagni perché sorpresi in una camera con delle bevande alcoliche.
Per capire di più sulle “misure primitive” prese dall’EF Acadamy contro Claudio Mandia bisognerà comunque attendere l’esito delle indagini della polizia locale, che dovrà accertare la natura della “detenzione” del giovane studente. Si attende anche il rientro in Italia della salma di Claudio, con l’autopsia già effettuata, per la celebrazione dei funerali.
A tal proposito, pur non volendo entrare nel merito del caso specifico “di cui non conosco i dettagli”, Gustavo Pietropolli Charmet, tra i più autorevoli psichiatri e psicoterapeuti italiani, spiega a LaPresse quali possono essere le dinamiche alla base di un gesto così disperato: quando si arriva al suicidio, spiega, “il castigo è un pretesto, la goccia che fa traboccare il vaso pieno di aspettative infrante e grandiose immagini di sé che si scontrano con la realtà”. I giovani di oggi “soffrono di una fragilità narcisistica, una reazione esageratamente sensibile alle avversità della vita. Una impreparazione ad elaborare la frustrazione, il fallimento. E’ un problema educativo, esasperato anche dal Covid che ha fatto aumentare i casi di suicidio e di tentato suicidio del 120%”.”La società di oggi mette l’accento sul successo, sulla popolarità. Un ideale crudele che si scontra con la realtà in cui, spesso, si deve fare i conti anche con l’umiliazione e la mortificazione”, prosegue lo psichiatra. “Ecco allora che talvolta prevale il desiderio di vendicarsi e, non potendolo fare sugli altri, lo si fa su se stessi”.
Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.
La giusta misura. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 23 Febbraio 2022.
Dovrà pure esistere una Terra di Mezzo tra il polo del lassismo e quello della crudeltà. Il diciottenne Claudio Mandia si è impiccato nella stanza di un college newyorchese che era stata trasformata in una cella. Claudio aveva copiato un compito e alla EF Academy certi errori si pagano con l’espulsione. Ma a peggiorare le cose è stata la decisione incomprensibile di mettere il ragazzo in isolamento per tre giorni, nell’attesa che arrivassero i genitori dall’Italia. Una punizione già adottata in altri casi, ma per un giorno solo, e per trasgressioni che riguardavano l’eccesso di alcol, gli abusi sessuali, addirittura un finto attentato terroristico. Claudio aveva copiato un compito. Era il caso di trattarlo come un reietto? Gli lasciavano il cibo fuori dalla porta. «Lo facevamo anche con i contagiati dal Covid» si sono difesi gli «educatori». Ma di quale contagio era portatore Claudio Mandia, quale virus temevano potesse trasmettere? Se poi risultasse vero che era stata messa in isolamento anche sua sorella, per il puro fatto di essere sua sorella, si comprende perché la famiglia parli di «misure primitive». E così si torna all’inizio. Tra una scuola dove i genitori picchiano il professore che ha osato mettere una nota sul registro ai figli (è appena successo a Napoli) e un’altra che isola gli studenti indisciplinati senza neanche un secondino che ogni tanto si affacci per chiedere loro come stanno, mi chiedo se non sia proprio la Terra di Mezzo, quella del buonsenso, la vera utopia. Il Caffè di Gramellini vi aspetta qui, da martedì a sabato. Chi è abbonato al Corriere ha a disposizione anche «PrimaOra», la newsletter che permette di iniziare al meglio la giornata. Chi non è ancora abbonato, e avere accesso a tutti i contenuti del sito, tutte le newsletter e i podcast, e all’archivio storico del giornale.
· Il mistero di Svetlana Balica.
Svetlana Balica, in Valtellina un femminicidio senza cadavere. Mai ritrovata la donna uccisa dal marito. di Andrea Galli inviato a Morbegno e Barbara Gerosa su Il Corriere della Sera il 23 Febbraio 2022.
Nel 2017, tra Cosio e Morbegno, Nicola Pontiggia strangolò la moglie per poi togliersi la vita inscenando un incidente sul lavoro. Un «delitto perfetto» secondo gli atti dell’inchiesta. Da oltre quattro anni un mistero in cerca di una soluzione.
«La storia di una coppia disfunzionale»
Da quattro anni Svetlana Balica non ha un funerale. Ha sì una tomba, ma nascosta. I suoi resti sono da qualche parte sotto i nostri piedi. Sono forse qui, nei dintorni di via Stelvio, sequenza di capannoni e già sede dell’impresa edile «Castelli» dove l’assassino, suo marito Nicola Pontiggia poi suicida alle 14.25 di giovedì 2 novembre 2017, aveva trascorso 27 anni da operaio adorato anche per la disponibilità extra-professionale: favori, passaggi, cambi di turno. O forse sono qui, vicino all’Adda in secca sulle cui rive quel 55enne sposo in seconde nozze, sfibrato nell’animo dai litigi con la sorella per l’eredità dei genitori, e nel corpo da una malattia conseguenza di un incidente sul lavoro e una trasfusione di sangue infetto, può aver seppellito la donna, emigrante e badante nata nel 1973 a Tescureni, povero villaggio moldavo.
«Sei entrata nel mio cuore e ci resterai per sempre»
Inchiesta basata in prevalenza su ipotesi, non per negligenza dei magistrati e dei carabinieri di Sondrio quanto per l’abilità criminale di Pontiggia, padre e nonno, cercatore di funghi e camminatore sui sentieri montani, che mai nell’esistenza aveva incrociato strateghi del male né praticato azioni violente contro il prossimo, eppure capace di depistare, eludere e imbrogliare quanto un sicario. Nessuna traccia isolata dai Ris nella villetta della stretta via Adda nel confinante paese di Cosio Valtellino; nella baita seconda casa a Bema, ottocento metri d’altezza e ruderi con originali annunci («Palazzo in vendita, il prezzo lo fai tu»); infine nessuna traccia sulla sua Seat Leon nera. A detta degli inquirenti, Pontiggia ha ammazzato Svetlana strangolandola, forse nel sonno, ha conservato e vegliato il corpo per non meno di 24 ore, dove non si sa, ha scavato una buca, ha atteso, e ha trasferito il cadavere coprendolo di terra e di calce per isolarlo dal mondo, costruire un sigillo al riparo da animali che con il saccheggio potessero — possano — rivelare il luogo. E ha, Pontiggia, concluso il delitto, premeditato, concretizzando il post-it scritto su un portafoto in camera, dietro un’immagine da bimbo: «Sei entrata nel mio cuore e ci resterai per sempre». Svetlana voleva lasciarlo, gliel’aveva già comunicato, e il marito non accettava lo scenario. Attingendo all’intera documentazione degli atti in procura, il Corriere può ora ricostruire le ultime ore di vittima e colpevole.
Le liti e la crisi della coppia
A meno di sorprese, Svetlana Balica, che era appena rientrata in Italia (volo Chisinau-Orio al Serio del 27 ottobre), non avrà esequie. Poco cambia che il piano di Pontiggia sia stato per metà smascherato: possedeva alla vigilia la triplice intenzione di far passare l’infortunio mortale per donare alle figlie le polizze assicurative, convincere il paese d’esser caduto sul lavoro anziché per mano propria, e tenere sospesa l’assenza di Svetlana (magari scomparsa di sua iniziativa). Invece, almeno sul suicidio, Pontiggia non ha ingannato gli investigatori.Operaio del resto troppo esperto per finire investito sotto un camion, un Iveco targato CW695AN che aveva senza motivo appesantito con blocchi, e aveva parcheggiato in un preciso punto lontano dalle telecamere e posizionato in folle sull’unico tratto in discesa, così da sdraiarsi e venire travolto dall’asse delle ruote (il decesso era avvenuto per l’urto contro la testa); troppo anomalo quel suo essere in fabbrica in un giorno di festa, appunto il 2 novembre; mentre di contro, nella deposizione del 5 novembre in caserma, per nulla anomali erano stati gli immediati pensieri venuti a una delle figlie di Pontiggia che conosceva le discussioni, la crisi di coppia, il lancio di Svetlana della fede nuziale e dei gioielli ricevuti negli anniversari: ovvero l’ipotesi di un omicidio seguito da un suicidio.
Le ricerche con droni e robot
Hanno cercato Svetlana 150 persone fra poliziotti, alpini, carabinieri, finanzieri, volontari, con elicotteri e droni, con robot teleguidati nelle fogne, con esplorazione di dirupi e tubi da posare nel cantiere stradale della nuova statale 38, con scavi in aree industriali e nei perimetri dei cimiteri. Forse era Svetlana, anzi quel che ormai ne restava, alle 6.27 di quel 2 novembre, nelle immagini al buio «di non elevata qualità e risoluzione» di una telecamera della ditta, quando Pontiggia all’esterno «scaricava dall’auto un qualcosa di non meglio precisato». Pontiggia che subito dopo, a bordo della Fiat Punto della stessa impresa edile, «usciva dal cancello per rientrarvi 13 minuti più tardi». Scaricava dunque il cadavere e utilizzava quei 13 minuti per allontanarsi e occultarlo? Su quella Punto, ugualmente, i Ris non hanno recuperato tracce. Nell’abitazione di Cosio Valtellino, all’interno di una cassaforte coperta da un finto rubinetto, c’erano 81 mila euro in contanti. Nell’area della ditta, in un sacchetto dei rifiuti c’erano oggetti di Svetlana: un anello, un beauty-case, bigodini, braccialetti, un pettine, orecchini, medicinali in italiano e cirillico. Di nuovo nell’abitazione c’era lo scontrino dell’acquisto di un pacchetto di biscotti «Cuor di Mela-Mulino bianco» acquistato all’Iperal di Morbegno, il 31 ottobre, forse l’ultimo giorno in vita di Svetlana. Di nuovo nell’area della ditta c’erano una sua valigia e il suo biglietto aereo. La mattina del 2 novembre, prima di uccidersi, Pontiggia chiamò a ripetizione la moglie, a rotazione sui tre cellulari. Le telefonate confluirono nelle segreterie. Una tentata autodichiarazione di estraneità alla scomparsa. L’ennesima messinscena prima dell’atto finale ma, a distanza di quattro anni, ancora non definitivo: dov’è Svetlana?
· Il mistero Mattei.
Dal caso Mattei a Ustica, quella mano francese dietro i misteri d’Italia. Nuove indagini rivelano l’ombra dei servizi d’oltralpe dietro la morte del fondatore dell’Eni. Mentre nel 1980 il Dc9 sarebbe stato abbattuto dai caccia di Parigi. Che non ha mai chiarito niente. Gigi Riva su L’Espresso il 15 Novembre 2022.
Pronto Parigi? Davvero ancora oggi, trascorse decine di anni, non avete nulla da dirci? Perché vanno bene il trattato del Quirinale per migliorare le nostre relazioni, la simpatia tra i presidenti Sergio Mattarella e Emmanuel Macron, l’incontro informale tra lo stesso Macron e Giorgia Meloni, ma resta irrisolto il ruolo che avete svolto in almeno due tragici misteri italiani in cui al solito muro di gomma italiano si somma, incredibilmente ancora più ermetico, un muro di gomma francese.
La morte di Mattei geniale artefice del «miracolo italiano». La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Ottobre 2022.
Sessant’anni fa moriva Enrico Mattei. «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 30 ottobre 1962 si occupa del caso: tre giorni prima il fondatore e presidente dell’Eni, Ente nazionale idrocarburi, ha perso la vita in un misterioso incidente aereo. Il bimotore Morane Saulnier di Mattei - partito dall’aeroporto Fontanarossa di Catania e diretto a Milano Linate - è precipitato a Bascapè, in provincia di Pavia. La «Gazzetta» segue l’inchiesta e pubblica in prima pagina la foto dell’on. Aldo Moro mentre esprime le sue condoglianze alla vedova. Nato ad ad Acqualagna, nelle Marche, nel 1906, Enrico Mattei inizia giovanissimo a lavorare come operaio; a meno di trent’anni si mette in proprio fondando l’Industria Chimica Lombarda. Nel 1943 si unisce alla Resistenza e nel maggio 1945 sfila accanto a Ferruccio Parri e Luigi Longo nella Milano appena liberata. Nominato commissario liquidatore dell’Agip, riesce a salvare e rilanciare l’azienda, dando nuovo impulso alle perforazioni petrolifere. Si batte per la creazione dell’Eni, di cui nel 1953 viene eletto presidente: opponendosi strenuamente al cartello delle «sette sorelle», Mattei avvia la costruzione di una rete di gasdotti per lo sfruttamento del metano e gestisce con grandi risultati la politica energetica dell’Italia. Sull’incidente aereo si addensano subito molti dubbi. Si legge sulla «Gazzetta»: «Sono proseguiti oggi gli esami della commissione tecnica presieduta dal generale d’aviazione Savi per cercare di stabilire la vera causa della tragica morte di Enrico Mattei: per ora si è sempre costretti a mantenersi nel campo delle ipotesi». Scartata la possibilità che il pilota, considerata la sua esperienza, abbia commesso un errore, restano da seguire poche altre piste: un malore del comandante o forse un guasto a bordo. «Un atto di sabotaggio?» - si chiede ancora il cronista - «qualcuno dei testimoni dice d’aver sentito, prima del boato a terra, il fragore lontano d’una esplosione..». Prende piede, si legge sulla «Gazzetta», un’ultima ipotesi: il simultaneo blocco dei due reattori dell’aereo. «Occorre tenere presente a questo proposito che soltanto venerdì scorso a Parigi un apparecchio del tutto simile a quello dell’ing. Mattei è precipitato con tre alti ufficiali a bordo in seguito al blocco dei reattori». Solo nel 2003 si stabilirà con sicurezza che l’aereo era stato sabotato la sera precedente con una piccola carica di esplosivo. La dinamica è, quindi, ormai chiara, ma - a causa della sistematica attività di depistaggio e occultamento delle prove emersa nel corso delle indagini - resta ancora il mistero sui reali mandanti dell’attentato in cui ha perso la vita uno degli artefici del «miracolo economico» italiano del dopoguerra.
Enrico Mattei, perché all'Italia manca una figura come la sua. Giancarlo Mazzuca su Libero Quotidiano il 29 ottobre 2022
A sessant' anni dalla tragica scomparsa di Enrico Mattei, la figura del rifondatore dell'Eni è sempre più al centro dell'attenzione generale. In un comunicato, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella l'ha definito ieri un uomo delle istituzioni capace di dare grandi benefici all'Italia e, al tempo stesso, in grado di far crescere anche i Paesi produttori di petrolio e gas.
Il capo dello Stato ha aggiunto che l'azione di Mattei «ha contribuito a porre l'Italia al crocevia dei dialoghi di pace e di cooperazione per lo sviluppo». Non solo: secondo il Quirinale, Enrico appartiene a pieno titolo «alla schiera dei costruttori della Repubblica». È proprio il caso di dire che, con la gravissima crisi energetica che ci sta mettendo alle corde, l'esempio dell'imprenditore marchigiano (era nato nel 1906 ad Acqualagna, una delle capitali del tartufo) è al centro dell'attenzione generale.
Sempre ieri il premier Meloni ha, infatti, definito Mattei «un grande italiano che ha contribuito a fare dell'Italia una potenza economica». Ma già martedì scorso, nel suo intervento alla Camera, il presidente del Consiglio l'aveva considerato uno dei maggiori artefici della ricostruzione post-bellica dell'Italia. La neo-premier aveva anche reso nato un suo progetto: il governo dovrebbe farsi promotore di «un piano Mattei» per l'Africa in grado di frenare l'ondata migratoria verso il Belpaese.
Il padre del cane a sei zampe è stato ricordato molto spesso negli ultimi mesi e tanti, a causa dei prezzi del petrolio e del gas sempre più alti per via della guerra in Ucraina, si sono chiesti come lui avrebbe affrontato, se fosse stato ancora vivo, una simile emergenza. Lui si sarebbe certamente stupito nel constatare come l'Italia fosse caduta così in basso sul piano energetico ma poi avrebbe anche indicato la strada giusta per poterci risollevare. È il caso dei rapporti con l'Algeria che l'Eni aveva molto potenziato a cominciare proprio da quel gasdotto che, partendo dal Sahara, si chiama appunto «Enrico Mattei». Rapporti con Algeri molto stretti che, nel corso degli anni, non vennero poi mantenuti tanto che oggi stiamo bussando con il cappello in mano (vedi la recente visita in Africa dell'ex-premier Draghi) per cercare di ottenere un po' di quel greggio che ci manca. Se ci fosse stato ancora Enrico...
A sessant' anni di distanza, quel tragico schianto del bireattore francese Moraner-Saulnier a Bascapé nel Pavese (a bordo, oltre a Mattei, c'erano il pilota Alessio Bertuzzi ed il giornalista americano William McHale) è diventato un "giallo" sempre più intricato tenendo anche conto che alla «cloche» sedeva un pilota molto esperto. Ormai nessuno parla più di un semplice incidente e lo stesso Mattarella ha detto ieri che, sulla morte di Mattei, «grava l'ombra di un criminale attentato». Tra le ipotesi ancora in piedi, quella più accreditata coinvolge i servizi segreti francesi proprio in considerazione del fatto che l'Eni aveva deciso di investire molto sul petrolio algerino. Altri due possibili scenari tirano invece in ballo le "Sette sorelle", le grandi compagnie petrolifere internazionali, ed anche la mafia soprattutto dopo l'omicidio, nel 1970, del giornalista Mauro De Mauro che era stato incaricato di indagare su quel disastro aereo. Tante ipotesi che forse resteranno tali per sempre. A questo punto, una sola cosa è certa: oggi più che mai in Italia manca una figura come Mattei. Sul fronte petrolifero e non solo.
Enrico Mattei, l’uomo che sfidò i giganti del petrolio: un mistero che dura da 60 anni. Massimiliano Jattoni Dall’Asèn su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2022.
E’ la sera del 27 ottobre 1962. Mancano tre minuti alle 19. Un bimotore Paris II, decollato alle 16:57 da Catania e diretto a Milano Linate, sta sorvolando le campagne del Pavese, non lontano da Melegnano. Dalla torre di controllo seguono la manovra a pochi minuti dall’atterraggio, quando il velivolo scompare dal radar. L’allarme è immediato, ma nei campi vicino al paesino di Bascapè, in provincia di Pavia, i soccorritori trovano solo i rottami dell’aereo. E i resti, sparsi un po’ ovunque, dei tre uomini che si trovavano a bordo: Enrico Mattei, presidente dell’Eni, il pilota Imerio Bertuzzi e il giornalista americano William McHale, della testata Time–Life, incaricato di scrivere un articolo su di lui. Nel giro di 24 ore la notizia fa il giro del mondo. Inizia così uno dei tanti misteri irrisolti d’Italia.
Le origini
A 60 anni esatti dalla morte, il «caso Mattei» è un cold case. Il velivolo precipitò a causa di un malore del pilota? O fu un attentato? Certo è che il biplano Paris II aveva già subito un sabotaggio in passato e Mattei era un uomo molto discusso, che aveva diviso con la sua spregiudicatezza l’opinione pubblica. Nato ad Acqualagna il 29 aprile 1906 in una famiglia di modesta estrazione, Enrico Mattei inizia a lavorare come operaio in una conceria a Roma, ma è cosa di breve durata: nel giro di breve ne diventa direttore. Quando si trasferisce a Milano si reinventa rappresentante di commercio per l’azienda di vernici Max Meyer, ma soli trent’anni avvia una sua attività, l’Industria chimica lombarda. Ma ad animare Mattei non sono solo ambizione e un incredibile fiuto: il figlio del brigadiere Antonio vuole meritarsi quello che ha e in quegli anni torna a studiare per diplomarsi come ragioniere («Mio padre diceva che è brutto essere poveri, perché non si può studiare e senza titolo di studio non si può fare strada», ricorderà molti anni dopo durante il discorso per il conferimento della laurea honoris causa all’Università di Camerino) . Ma i venti di guerra spirano sull’Italia e sui sogni del giovane Mattei. Il conflitto è una parentesi che lo vede comandante del Corpo volontari per la libertà come partigiano “bianco”, per la sua estrazione cattolica. Dopo la liberazione di Milano, sfila in testa al corteo del 6 maggio 1945 a fianco di Luigi Longo, Ferruccio Parri e Raffaele Cadorna. Tre giorni dopo viene nominato commissario liquidatore della Snam e dell’Agip, l’azienda statale per il petrolio fondata da Mussolini nel 1926.
Il petrolio
Invece di seguire le istruzioni del nuovo Governo repubblicano, intravedendo i possibili sviluppi, Mattei decide di non chiudere «il carrozzone statale» e riprende le trivellazioni abbandonate durante il conflitto. Ed è un successo: a Caviaga, in Val Padana, trova il metano, mentre nel 1949, con un vero e proprio colpo di scena, da un pozzo a Cortemaggiore zampilla improvvisamente l’oro nero. «L’Italia ha il petrolio. Ne ha tanto da bastare a se stessa — è l’annuncio entusiasta sul Corriere della Sera dell’epoca — e forse potrà entrare in concorrenza con le altre Potenze produttrici». Ma la gestione disinvolta delle risorse dello Stato da parte dell’imprenditore e neoeletto nelle fila della Democrazia Cristiana accende un forte dibattito in Parlamento. Nulla che comunque lo fermi. Mentre costruisce l’architettura della sua creatura, spaziando dalle pompe di benzina, ai gasdotti, ai moderni Motel Agip, Mattei non ha tempo di andare per il sottile. Nella costruzione del polo petrolchimico di Ravenna si vanterà lui stesso d’aver violato più di 8mila leggi e ordinanze. E così all’accusa di dare quattrini ai partiti in cambio di favori e di finanziare anche i fascisti del Movimento sociale italiano, Mattei risponde senza nascondersi: «Io uso i partiti come un taxi. Salgo, pago la corsa e scendo».
Gli appoggi (trasversali) della politica
Grazie alla Dc, ma anche a una maggioranza politica trasversale a tutto il Parlamento, Mattei si affaccia sul palcoscenico internazionale: acquista petrolio dall’Urss, stipula un accordo con lo scià di Persia offrendogli il 75% degli utili, cerca petrolio in Libia, Egitto, Giordania, pestando i piedi al cartello anglo-americano delle Sette Sorelle. Mentre in Tunisia, Marocco e Algeria, Mattei arriva a intromettersi negli affari interni attirandosi molte antipatie, e nell’agosto del 1961 gli arriva una lettera minatoria dall’O.A.S., l’associazione terroristica dell’estrema destra francese, contraria all’indipendenza algerina.
L’ostilità francese
Ma Mattei non cerca volutamente nemici. «In qualche momento della presidenza Mattei — racconta il suo successore all’Eni, Eugenio Cefis a Dario Di Vico, in un’intervista pubblicata sul Corriere il 6 dicembre 2002 — forse poteva anche prevalere la logica di “molti nemici, molto onore” e con il senno di poi si può sicuramente dire che c’era della mitologia». «Francamente non penso che qualcuno si potesse illudere che ammazzando Mattei si potesse distruggere l’Eni. Nessuno lo poteva pensare... Se devo ragionare in termini di fantapolitica, allora più che a un sabotaggio americano penserei a un attentato di ostilità francese. Avevano ancora il dente avvelenato per i nostri rapporti con l’Algeria».
La versione di Vincenzo Calia
Trascorrono i decenni e le ipotesi sulla morte di Enrico Mattei si accumulano. Le indagini sulla morte si scontrarono con gravi depistaggi. Sul banco degli imputati ci sono l’Oas, l’organizzazione di estrema destra francese, l’intelligence francese, la Cia, la mafia. Ssi pensa che anche il giornalista Mauro De Mauro sia stato ucciso dalla mafia mentre stava per divulgare quanto aveva scoperto sulla morte di Mattei, mentre per altri Pier Paolo Pasolini sarebbe stato assassinato perché aveva iniziato anche lui ad indagare sulla morte del presidente dell’Eni. Le prime inchieste dell’aeronautica militare e della magistratura chiudono però le indagini come disastro accidentale. Per rimettere tutto in discussione bisognerà attendere il 1994, quando un magistrato di Pavia, Vincenzo Calia, decide di riaprire le indagini colpito dalle rivelazioni del boss Tommaso Buscetta che aveva collegato l’incidente di Bascapè e la morte del giornalista Mauro De Mauro che indagava sull’incidente dell’imprenditore per conto del regista Francesco Rosi, alle prese con il film Il caso Mattei. «Il magistrato Calia — scrive Dario Di Vico sul Corriere della Sera del 7 marzo 2003 — ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta ma ha vigorosamente argomentato come, a suo giudizio, Mattei sia stato vittima di un attentato i cui mandanti vanno cercati in Italia...».
Sessant'anni dal caso. Chi era Enrico Mattei: la storia del Presidente dell’ENI e del più grande mistero della storia d’Italia. Antonio Lamorte su Il Riformista il 27 Ottobre 2022
Enrico Mattei è stato imprenditore, partigiano, editore, dirigente pubblico, fautore di una politica estera alternativa, protagonista del boom economico e vittima di quello che è spesso definito il più grande giallo della storia della Repubblica italiana: il mistero del suo aereo che precipitò a Bascapè, in provincia di Pavia, il 27 ottobre del 1962, dopo l’esplosione di una bomba sul velivolo. A sessant’anni dalla morte il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha ricordato per come “mise a disposizione la sua esperienza di dirigente industriale dando impulso alla ricostruzione con una forza e una capacità di leadership che lo hanno reso una personalità simbolo della ripresa produttiva del Paese nel dopoguerra. La sua azione ha contribuito a porre l’Italia al crocevia dei dialoghi di pace e cooperazione per lo sviluppo. Con coraggio ha proseguito nella sua opera, pur conoscendo bene quali poteri e quali interessi gli erano avversi. Il suo esempio e la sua figura appartengono a pieno titolo alla schiera dei costruttori della Repubblica”.
Enrico Mattei era nato ad Acqualagna, oggi provincia di Pesaro e Urbino, il 29 aprile 1906. Primo di cinque fratelli, il padre era sott’ufficiale dei carabinieri, la madre casalinga. A 13 anni cominciò a lavorare come verniciatore, poi come garzone in una conceria a Matelica di cui sarebbe diventato direttore nel giro di poco, a soli vent’anni. Quando nel 1929 si trasferì a Milano fondò una propria azienda nel settore chimico. Era iscritto al partito fascista e nel 1936 sposò la ballerina austriaca Margherita Paulus.
Quando nel 1943 lasciò la guida dell’azienda a due suoi fratelli, si unì alla Resistenza ed entrò a far parte del comando militare del Comitato di Liberazione Nazionale, in rappresentanza della Democrazia Cristiana. Il 29 aprile 1945 sfilò a Milano alla testa delle formazioni partigiane, fu insignito della Medaglia d’oro della Resistenza e della Bronze Star dell’esercito americano. Subito dopo la guerra fu incaricato di liquidare l’Agip, l’Azienda Generale Italiana Petroli, nata durante il fascismo e soprannominata “Associazione gerarchi in pensione” per gli scarsi risultati ottenuti.
Lui decise di rilanciarla, convinto che un’impresa nazionale potesse rappresentare la strada principale per l’indipendenza energetica dell’Italia. Da un’ex dirigente allontanato dall’azienda venne a sapere di un giacimento di petrolio a Caviaga, nel lodigiano. C’era metano, non petrolio, che in compenso cominciò a essere estratto a Cortemaggiore, in provincia di Piacenza. Le attività di estrazione continuarono veloci e numerose in Pianura Padana, così come vennero realizzati gasdotti che collegarono tutto il Paese. A Ravenna venne fondato uno dei primi poli petrolchimici. Enrico Mattei fondò nel 1953 l’ENI, Ente Nazionale Idrocarburi, che andò a incorporare la vecchia Agip. Per simbolo venne scelto l’iconico cane a sei zampe che sputa fuoco, “il miglior amico dell’italiano a quattro ruote”.
Le stazioni di servizio con i gabinetti, la pulitura dei vetri gratis, il controllo di olio e pneumatici furono altre trovate di Mattei che intanto finanziava partiti, correnti e giornali. Mattei nel 1956 contribuì alla nascita del quotidiano Il Giorno, che sosteneva le imprese dell’Eni e la linea della sinistra democristiana di Amintore Fanfani. Per sopperire alla penuria di risorse energetiche Mattei uscì dai canali ufficiali, controllati dagli Stati Uniti, per recuperare fonti cominciò a trattare direttamente con Paesi ricchi di petrolio come Libia, Marocco, Iran ed Egitto. Gli accordi con questi Paesi prevedevano la cessione agli stessi del 75% dei profitti, il coinvolgimento di questi nel processo produttivo e la qualificazione della forza lavoro locale. Si parlava all’epoca in Italia di “neoatlantismo”: una politica inserita nel Patto ma aperta a collaborazioni con i Paesi non allineati.
Il successo di Mattei entrò però in conflitto con le grandi compagnie petrolifere, per lo più statunitensi, che definiva ironicamente “le sette sorelle” (Exxon, Mobil, Texaco, Standard oil of California, Gulf oil, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell e la britannica British Petroleum) che ai Paesi del Medioriente offrivano al massimo i 50% dei profitti. “Gli obiettivi di Mattei in Italia ed all’estero dovrebbero destare preoccupazioni. Mattei rappresenta una minaccia per gli obiettivi della politica che gli Stati Uniti intendono perseguire in Italia”, si leggeva in un rapporto del Dipartimento di Stato americano del settembre 1957.
Questo successo suscitò preoccupazione e contrasti anche nella stessa Italia dove pure ambienti politici e industriali erano sostenuti dai finanziamenti di Washington. Mattei nel 1960 concluse anche un accordo con l’Unione Sovietica che prevedeva il rifornimento di petrolio in cambio di merci italiane. Una specie di linea rossa. Mattei si schierò inoltre per l’indipendenza dell’Algeria (ricca di petrolio) dalla Francia. Dopo questa iniziativa ricevette le minacce dell’Organisation de l’Armée Secrète, un’organizzazione di estrema destra francese. A Mattei è stato intitolato un giardino nel centro di Algeri che porta il suo nome così come il gasdotto che tramite la Tunisia collega l’Algeria in Italia.
Mattei aveva una guardia personale, composta da ex partigiani. Stava concludendo un accordo con l’Algeria quando morì. Erano le 18:40 del 27 ottobre del 1962 quando il bireattore Morane-Saulnier, su cui stava viaggiando da Catania a Milano, precipitò in discesa verso l’aeroporto di Linate. A Bascapè, in provincia di Pavia. A bordo con lui c’erano Irnerio Bertuzzi, ex pilota dell’aeronautica militare, e il giornalista di Life William McHale. La prima inchiesta sullo schianto si concluse nel 1966 con il “non doversi procedere in ordine ai reati rubricati a opera di ignoti perché i fatti relativi non sussistono”.
Si parlò di una manovra mal eseguita e perfino di suicidio da parte del pilota. Una commissione di inchiesta ipotizzò un’avaria. Alcuni testimoni, contadini di Bascapè, avevano però raccontato, nelle ore successive all’incidente, di aver visto l’aereo incendiarsi in volo. La tesi dell’attentato travisato da incidente venne avanzata dal celebre film del 1972 Il caso Mattei diretto dal regista Francesco Rosi e interpretato dall’attore Gian Maria Volontè.
Fanfani nel 1986 parlò del caso Mattei come del primo gesto terroristico in Italia. Il pentito di Mafia Tommaso Buscetta raccontò ai magistrati che “il primo delitto ‘eccellente’ di carattere politico ordinato dalla Commissione di Cosa Nostra, costituita subito dopo il 1957, fu quello del presidente dell’Eni Enrico Mattei. In effetti fu Cosa Nostra a deliberare la morte di Mattei, secondo quanto mi riferirono alcuni dei miei amici che componevano quella Commissione”. Una richiesta secondo il collaboratore di giustizia arrivata dalla mafia americana. L’inchiesta aperta nel 1996 a Pavia e chiusa sette anni dopo, con dodici perizie e 612 testimonianze, portarono alla conclusione: sull’aereo era esplosa una bomba.
I mandanti dell’attentato non furono mai individuati: le ipotesi più accreditate rimandano proprio a mafiosi italiani su mandato della mafia italoamericana. Al caso di Mattei è collegata la scomparsa del giornalista de L’Ora di Palermo Mauro De Mauro: il cronista era stato incaricato dal regista Rosi di raccogliere elementi per il suo film. De Mauro scomparve nel nulla, e non fu mai più ritrovato, il 16 settembre del 1970. Il processo per la sparizione si è concluso nel 2011. La Corte di Assise di Palermo confermò che la Mafia voleva coprire i mandanti dell’attentato di Bascapè. I giudici aggiunsero nella sentenza che la morte di Mattei fu un attentato eseguito “su input di una parte del mondo politico”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Matteo Sacchi per “il Giornale” il 26 ottobre 2022.
La parabola di Enrico Mattei (1906-1962) si è conclusa nei cieli sopra Bascapè quando il Morane-Saulnier MS.760, con cui stava tornando a Milano da Catania, precipitò nelle campagne pavesi, dopo essere esploso in volo, mentre era in fase di avvicinamento all'aeroporto di Linate. Si chiudeva così, con la morte del suo inventore, un tentativo di indipendenza energetica che nel mondo non aveva eguali e aveva fatto del cane a sei zampe un simbolo.
Quanto potesse essere pericoloso muoversi nell'ambito della guerra energetica che caratterizzava quegli anni può illustrarlo un altro episodio mai completamente risolto e, guarda caso, legato ad un incidente aereo. Nel 1961, l'anno precedente alla morte di Mattei, Dag Hammarskjöld, il secondo Segretario generale delle Nazioni Unite moriva a bordo di un Douglas DC-6 dell'Onu.
Si era in piena crisi del Congo, uno dei principali fornitori mondiali di uranio. Il clima mondiale era quello, una guerra fredda dell'energia e del petrolio e, forse, vedendo le attuali guerre dell'energia e del gas, non è cambiato, anzi.
Non stupisce quindi che il caso Mattei su cui si è giunti ad una tardiva verità giudiziaria, che però non porta verso colpevoli certi, abbia attirato l'attenzione sia di storici e giornalisti che di romanzieri. È di oggi l'uscita, per i tipi di Feltrinelli, di L'Italia nel Petrolio (pagg. 544, euro 25) a firma di Riccardo Antoniani (ricercatore alla Sorbone Nouvelle) e di Giuseppe Oddo (giornalista d'inchiesta).
Il volume prende in considerazione un gran numero di documenti e nella parte iniziale si dedica ad evidenziare un dato fattuale: la differenza di visione strategica tra Enrico Mattei e il suo numero due Eugenio Cefis (1921 - 2004). Negli ultimi mesi di vita, Mattei stava lavorando a un'intesa triangolare fra Italia, Francia e Algeria per la posa di un metanodotto transmediterraneo che avrebbe dovuto far affluire in Europa il gas estratto nel Sahara.
A differenza di Cefis, che operò per riequilibrare i rapporti fra l'Eni e le sette sorelle e per ricondurre la politica petrolifera italiana nel perimetro, angusto ma sicuro, degli interessi economici e militari dell'Alleanza atlantica, Mattei si impegnò fino alla fine per attuare il suo progetto di indipendenza energetica che avrebbe potuto accelerare il processo di unificazione dell'Europa e trasformare l'Italia in una potenza industriale avanzata.
Dopo la morte di Mattei le cose presero un'altra piega. Un percorso ricostruito anche da Paolo Morando in Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (Laterza 2021) che invece smonta molti dei pezzi della leggenda nera su Cefis. Soprattutto per quanto riguarda la sua ricchezza. In questa intricata vicenda non esistono pistole fumanti...
Forse anche per questo dal punto di vista letterario quello di Mattei in Italia è diventato il giallo dei gialli.
A partire dal citatissimo romanzo, mai ultimato, di Pasolini: Petrolio (la nuova edizione curata da Walter Siti è uscita nell'aprile del 2022). Nella primavera-estate del 1972, si fece strada in Pasolini l'idea di scrivere il romanzo: divenne poi il progetto più importante sulla scrivania fino all'assassinio del 2 novembre 1975.
In Petrolio, Pasolini voleva fare i nomi, o almeno provarci, del nuovo Potere, solo all'apparenza senza volto, che stava provocando un profondissimo cambiamento antropologico (noi ora lo chiameremmo globalizzazione e turbo capitalismo). Pasolini intuì che il potere si sarebbe fatto globale e sarebbe uscito dai parlamenti per entrare nei board di un nuovo tipo di Stato: l'azienda multinazionale. L'opera è un non finito, composto di capitoli mobili, che Pasolini chiamava «Appunti».
Al di là delle difficoltà enormi per i critici che si sono avventurati in questo infinito/non finito, dal materiale dai suoi lampi sull'Eni - veri, presunti, mancanti - escono fondamentalmente due ipotesi. La prima. Mattei sarebbe stato eliminato dalla mafia su commissione di americani e francesi, infastiditi, come dicevamo, dall'attivismo di Mattei in Africa e in Medio Oriente.
La seconda. Il colpevole sarebbe Eugenio Cefis, manager legato alla corrente democristiana di Amintore Fanfani e con precise idee politiche.
Il teorema pasoliniano ha influenzato giornalisti e scrittori. Giusto per citare l'ultimo romanzo, in ordine di tempo: Ho ucciso Enrico Mattei di Federico Mosso, pubblicato per i tipi di Gog nel 2021, mescola con abilità realtà e finzione.
Nelle pagine ci sono Mattei e Cefis ma anche spie senza nome, che muovono segretamente le ruote della Storia. E un agente è dunque il protagonista del libro, l'uomo che ha manomesso l'aereo sul quale viaggia Mattei. La morte del giornalista Mauro De Mauro e del poeta Pier Paolo Pasolini sono legate a quel primo omicidio, Mattei, del quale forse avevano scoperto troppo? Ho ucciso Enrico Mattei prova a immaginare una risposta.
L'ultima intervista a Francesco Forte: "Mattei? Attentato premeditato". Francesco Forte (Busto Arsizio, 11 febbraio 1929 - Torino, 1º gennaio 2022) è stato uno dei più importanti studiosi, accademici e politici italiani. La sua lunga vita, è scomparso all’età di 93 anni, incrocia i passaggi più delicati e difficili della Prima Repubblica. Federico Bini il 27 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Esclusiva
Nel luglio del 2021 avevo iniziato a scrivere un libro sui tanti incontri che ho avuto con i grandi personaggi del '900 italiano. E dopo una bella collaborazione, con una preziosa introduzione al mio libro Un passo dietro Craxi (Edizioni We), chiesi al professore e senatore Francesco Forte di potergli fare alcune domande su un uomo che aveva conosciuto da vicino e che ancora oggi continua a lasciare non solo un grande mistero sulla sua morte ma anche una grande eredità economica e politica. Il riferimento è ovviamente a Enrico Mattei, fondatore dell’Eni, citato anche nel discorso di insediamento dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Il professor Forte, con la gentilezza che lo contraddistingueva, non esitò a rispondere alle mie domande. Alla sua improvvisa scomparsa, avevo deciso di lasciare questa inedita intervista nel cassetto in attesa della futura pubblicazione. Ma il ritrovato interesse su una figura chiave della nostra nazione, mi ha convinto ad anticiparla, e a farla uscire oggi 27 ottobre 2022 a sessant’anni esatti dal tragico “incidente” aereo di Bascapè. Mi sia pertanto concesso di mandare un pensiero affettuoso a Francesco Forte, una mente lucida e brillante che manca all’Italia.
Professor Forte, come si diventa Enrico Mattei?
“Serve capacità imprenditoriale, che Mattei si è creato partendo da una piccola impresa marchigiana, e molta tenacia”.
È stato talmente spregiudicato nel suo modo di condurre gli affari tanto da portarlo non vicino ma direttamente alla morte?
“Mattei è stato vittima di un attentato premeditato, attuato dall’OAS, servizio segreto deviato franco-algerino, allo scopo di impedire all’Eni di operare in Algeria, con un accordo globale, riguardante il gas algerino”.
L’Italia del dopoguerra aveva intuito la sua lungimiranza?
“La lungimiranza di Mattei e la modernità dell’Eni - di cui io sono stato consulente economico dalla fondazione in poi, Gino Giugni era l’esperto per la formazione del personale - era ben nota e gli ha creato molti avversari politici e molte denigrazioni, mentre era stata capita dalle grandi multinazionali americane, che avevano deciso di allearsi con l’Eni. Sull’aereo in cui perì, vi era solo un giornalista americano, che lo intervistava in relazione agli accordi che Mattei avrebbe fatto con le sette sorelle del petrolio. Nessun dirigente dell’Eni era su quell’aereo, perché tutti sapevamo che partendo dalla Sicilia la mafia avrebbe potuto sabotarlo. Così tutti quelli che vi erano saliti all’andata, da San Donato Mianese, per l’inaugurazione della nuova e moderna raffineria Eni nel porto siculo, rimasero con un pretesto o l’altro in Sicilia e poi tornarono con aerei di linea”.
Quali erano i rapporti tra De Gasperi e Mattei? E come rimase legato politicamente alla Dc dopo la scomparsa dello statista trentino?
“Mattei aveva un rapporto particolare con Ezio Vanoni, che, a sua volta, De Gasperi aveva scelto come suo ministro per le Finanze e l’Economia, avendolo conosciuto nel 1943, quando fu fatto il Codice di Camaldoli. Io fui assunto come esperto economico, nonostante i miei 25 anni, sia perché avevo scritto saggi sulla tassazione della benzina, del gasolio, dei lubrificanti, del bollo auto come prezzo ombra per l’uso delle strade e sui pedaggi per l’uso delle autostrade, sia perché allievo e supplente di Vanoni alla sua cattedra di Scienza delle Finanze all’Università di Milano. Mattei era stato capo dei partigiani democristiani in Val d’Ossola ed era il rappresentante della Dc, nei cinque capi partigiani, che sfilarono a Milano il 25 aprile, con Pertini per i socialisti, Longo per i comunisti, il generale Cadorna per l’esercito del Regno di Italia, il cui governo provvisorio era allora a Bari”.
Montanelli lo definì come “colui che aveva legalizzato la tangente”.
“Il termine è esatto, ma con un gioco di parole, fa supporre che si tratti della illegalità diventata costume politico. Invece l’Eni faceva regolari contratti con i rappresentanti legali dei paesi petroliferi per l’uso dei loro pozzi e l’esplorazione del territorio. Solitamente costavano il 3% ed erano denunciati all’Ufficio Italiano Cambi per consentire l’esportazione legale dei capitali. Per il gas russo negli anni ‘70, l’Eni pagò una % maggiore, perché una quota andava al Pci e ci fu un condono che ne sanò l’irregolarità”.
Dalla liquidazione dell’Agip inventò l’Eni e si mise a fare concorrenza ai grandi del settore.
“L’Agip, quando Mattei la prese, aveva le piantine con i risultati delle esplorazioni petrolifere, che aveva fatto, in Libia (senza successo), in Croazia e dintorni con successo limitato, ma foriero di sviluppo, e nelle montagne di Edolo ove si era trovata la cosiddetta carbonella, che è catrame secco, indizio di petrolio, che faceva supporre che ci fosse petrolio nel Nord Italia. Gli esperti del petrolio ne erano a conoscenza e Mattei aveva chiesto di fare il capo dell’Agip perché lo sapeva, mentre gli altri pensavano che lo avesse fatto perché aveva la rete di distribuzione di benzina e gasolio. Le trivellazioni portarono alla luce poco petrolio, a Cortemaggiore e una enorme riserva di gas in Val Padana e petrolio nell’area di Novara, sotto le Alpi".
Tra le celebri battute di Mattei ce n’era una straordinaria: “Non mi entusiasma entrare in una bottega per tirare giù la saracinesca”.
“Che significava che lui era un manager innovatore, come i tanti che allora sorsero in Italia. Mattei si era iscritto all’Università Cattolica, Facoltà di Economia, con preside Marcello Boldrini, illustre statistico, nato come Mattei a Matelica, nelle Marche. E Mattei, che aveva il culto dei professori di materie economiche mise a capo dell’Agip il professor Boldrini”.
In che modo la grande finanza, dagli Agnelli, Falck a Pirelli guardavano Mattei?
“Gianni Agnelli, che io ho conosciuto personalmente lo ammirava e lo considerava un alleato per il made in Italy dell’auto. In genere invece i capi delle imprese elettriche e di quelle chimiche, che erano importanti nella finanza lo osteggiavano, come pericoloso rivale”.
L’ostilità della politica italiana, così come lo fu con tanti grandi del capitalismo lo portò a prendersi un “pezzo” di Dc e a fondare un giornale, Il Giorno, guidato da Baldacci.
“Poiché tutte le grandi imprese private avevano un giornale, Mattei fece altrettanto, per difendersi, e scelse Gaetano Baldacci, giornalista innovatore”.
Quale ritratto fa di Gaetano Baldacci? E in che modo Il Giorno dal 21 aprile 1956 rivoluzionò il giornalismo?
“Baldacci aveva un oscuro passato politico, ma poteva fare giornali di ogni indirizzo. Grazie a una équipe di eccezione, che era selezionata dall’amministratore delegato. Lanciò il primo giornale di stile americano, mettendo insieme un gruppo di giornalisti innovatori, a partire da Gianni Brera per lo Sport a Giancarlo Fusco per l’umorismo a Umberto Segre per gli Esteri. Il Giorno aveva anche la 'pagina economica' novità assoluta per l’Italia. Non trovarono nessun giornalista economico. Una settimana prima di uscire in edicola presero me, come supplente part-time, in quanto scrivevo sul settimanale Il Mercurio, articoli con la rubrica Alice nel paese dei bilanci. Segre che faceva la rubrica Esteri mi chiese di dare una mano provvisoriamente e anche l’ENI me lo chiese, riducendomi gli altri impegni. Il Giorno era di centro sinistra, io ero socialdemocratico già da studente universitario. Dopo tre mesi, non trovando un giornalista economico adeguato mi chiesero di restare. Nel frattempo Massimo Fabbri, giornalista professionista che faceva le rubriche di Borsa, aveva imparato a fare la pagina a economica e ne divenne direttore, io facevo solo il fondo. Baldacci pare facesse affari pubblicando articoli di gruppi di interesse, in cambio di soldi e fu sostituito da Italo Pietra, giornalista professionista che diede lui l’indirizzo alla parte economica”.
Come mai nei progetti industriali di Mattei molta resistenza più che all’estero la trovò in Sicilia? La politica locale e l’ombra di Cosa Nostra si misero di traverso ai suoi piani di espansione?
“A mio parere e negli ambienti dei vari settori Eni con cui avevo contatto, si aveva l’impressione che ci fosse un intreccio fra i politici locali, la mafia e interessi di ambienti francesi. Non necessariamente controllati dal governo francese, che condizionavano i nostri referenti in Sicilia nella politica e nei giornali locali e di cui si capiva solo che l’Eni era osteggiato da Cosa Nostra, ma con legami con interessi sconosciuti, non certo le multinazionali americane, con cui l’Eni aveva ormai un compromesso”.
L’intuizione di Mattei per il nucleare?
“Dopo la morte di Mattei, l’Eni si era reso conto che il nucleare non avrebbe sostituito il petrolio e la petrolchimica e che vi erano energie alternative. Per cui l’economicità del nucleare appariva sempre più dubbia mentre si ingigantiva il problema delle scorie radioattive e l’Eni divenne contrario al nucleare mentre l’Enel e gli altri lo sostenevano dicendo che esso era ostacolato dall’Eni, in cui io ormai studiavo tutte le energie alternative, compresi gli scisti bituminosi, da cui ora gli Usa ricavano gran parte del gas”.
Quali erano i legami tra l’Eni e i paesi del Medio Oriente?
“Con i paesi del Medio Oriente vi erano rapporti alterni, dipendenti dal gruppo che era al potere e dal fatto che Iran e Iraq erano rivali e che l’Eni aveva trovato petrolio in Egitto e in una zona contesa da Israele. In genere l’Eni aveva ottimi rapporti con i paesi petroliferi piccoli, come il Kuwait. La formula Eni fifty-fifty in cui la metà è di una società petrolifera Eni insieme a una società petrolifera locale in minoranza, agevolava la persistenza dei rapporti di collaborazione”.
In che modo la CIA guardava all’attivismo di Mattei?
“Per quel che ne so io, alla CIA Mattei era gradito in Africa e in Medio Oriente e in particolare in Libia e in Tunisia. Non era gradito in Russia dato che ciò creava una dipendenza dall’Urss e finanziava il Pci. Ma sulla Russia la CIA, dall’epoca del comunismo asiatico faceva il doppio gioco”.
Lei ha conosciuto privatamente e istituzionalmente figure del calibro di Craxi, Andreotti, Fanfani ecc… come definirebbe Mattei?
“Un imprenditore innovatore che amava l’Italia, ma anche i paesi poveri del terzo mondo, e concepiva l’impresa pubblica come un’impresa di mercato”.
Quel “Piano Mattei” per tornare grandi nel Mediterraneo. Emanuele Beluffi su CULTURAIDENTITA’ il 27 Ottobre 2022
Nel suo discorso programmatico per la fiducia al Governo alla Camera dei Deputati il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha voluto citare Enrico Mattei, di cui ricorre oggi il sessantesimo anniversario della morte: lo ha fatto per confermare l’obiettivo di far tornare grande l’Italia nel Mediterraneo, per ragioni geografiche, economiche e politiche – anche di politica internazionale, essendo il nostro Paese il fronte sud della NATO.
Queste le parole con cui la premier ha menzionato il fondatore dell’Eni: ” […] Un grande italiano che fu tra gli artefici della ricostruzione post bellica, capace di stringere accordi di reciproca convenienza con nazioni di tutto il mondo […] Credo che l’Italia debba farsi promotrice di un piano Mattei per Africa, un modello virtuoso di collaborazione e crescita tra Unione Europea e nazioni africane, anche per contrastare il preoccupante dilagare del radicalismo islamista, soprattutto nell’area sub sahariana. Ci piacerebbe così recuperare il nostro ruolo strategico nel Mediterraneo”.
Mattei infatti voleva sviluppare il potenziale africano invitando i paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente a ribellarsi alla povertà e a quello che potremmo definire l’aiuto non richiesto per farsi spiegare come sfruttare il loro potenziale di crescita economica. Tu chiamalo sovranismo se vuoi: economico ma anche energetico. Sappiamo come è andata a finire: oggi 27 ottobre scorso sono passati 60 anni dalla sua misteriosissima morte.
Messi alle strette dalle sanzioni energetiche alla Russia siamo alla ricerca di canali di approvvigionamento alternativi a quelli che fino a ieri ci forniva l’Orso bianco. Adesso Eni diversifica le importazioni, in Algeria, Congo e Nigeria, trattando anche con Gerusalemme per il gas (soluzione ideale: il gasdotto Eastmed che da Israele arriva in Puglia passando per Cipro e Grecia).
Però, però: 73 anni fa veniva scoperto a Cortemaggiore in Emilia il primo giacimento di metano e petrolio in Europa. A Cortemaggiore, vicino a Piacenza, in una perforazione di quell’ENI allora presieduta da Enrico Mattei, si scoprì il primo giacimento profondo di metano contenente petrolio dell’Europa. Grazie all’abilità di quel manager, la scoperta ebbe un grande impatto mediatico e Cortemaggiore si ritrovò sotto l’attenzione di tutti i giornali, mentre il petrolio estratto venne utilizzato per produrre una benzina chiamata appunto Supercortemaggiore.
La scoperta del “petrolio made in Italy” (per sostenere la sua politica imprenditoriale finanziò l’apertura di un quotidiano allora assolutamente innovativo, Il Giorno) spinse Mattei a lavorare per un grande obiettivo politico ed economico, che oggi a distanza di settant’anni suona drammaticamente attualissimo: l’autonomia energetica dell’Italia.
Ma le “sette sorelle”, come Mattei chiamò quelle compagnie petrolifere mondiali (Exxon, Mobil, Texaco, Standard oil of California, Gulf, Shell e British petroleum) che avrebbero dominato per fatturato la produzione petrolifera mondiale almeno fino alla crisi del 1973, non presero affatto bene questo modo di autonomia energetica dell’Italia.
Ma una notte la storia ebbe fine, quando l’aereo privato di Mattei esplose nel cielo sopra Bescapé in provincia di Pavia. Il velivolo del manager era partito da Catania con Mattei, il pilota Imerio Bertuzzi e il giornalista americano William McHale per arrivare a Milano, ma prossimo a Linate precipitò: i testimoni parlarono di “una fiammata improvvisa”.
Parve fin da subito evidente che quell’incidente non fosse un incidente ma un attentato, che tra l’altro impedì a Mattei di chiudere un accordo di produzione con l’Algeria contrastante con gli interessi delle “sette sorelle”.
Qual è la verità del caso Mattei? Pasolini, forse, nella finzione narrativa del suo romanzo incompiuto “Petrolio”, ce ne lasciò una indicando… “casa nostra”, mentre oggi il collaboratore di giustizia Maurizio Avola avrebbe svelato che a mettere la bomba sull’aereo di Mattei sarebbe stata Cosa Nostra (americana).
Di certo, con la sua politica autonoma nell’ENI Enrico Mattei aveva dato fastidio alle suddette “sette sorelle” e pure all’OAS (Organisation de l’Armée Secrète) per il sostegno all’indipendenza algerina (e ora sappiamo perché). Leggete il romanzo di Frederick Forsyth “Il giorno dello sciacallo”, pubblicato nel 1971 e da cui due anni dopo Fred Zinnemann trasse un bellissimo film.
E a proposito di film, una possibile verità, fra le tante verità, ce la diede Francesco Rosi con “Il caso Mattei” del 1972. Mentre due anni fa Federico Mosso (GOG) ci diede un suo contributo con il libro “Ho ucciso Enrico Mattei”.
Sia come sia, il padre dell’ENI ci aveva giusto. Idem per il progetto di sviluppo del continente africano, quel “Piano Mattei” citato dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni con cui ha voluto auspicare un progetto di crescita per l’Africa con effetti economici anche per l’Italia (leggi: stabilizzazione dei flussi migratori ed energetici).
Un risultato che poteva essere raggiunto anche quando il Cav siglò col raìs Gheddafi sotto la tenda del Colonnello a Bengasi il trattato di «amicizia, partenariato e cooperazione» tra Italia e Libia per ridurre il numero dei clandestini che giungevano sulle nostre coste e disporre anche di «maggiori quantità di gas e di petrolio libico, che è della migliore qualità». Poi sappiamo come andò a finire. Ma oggi il Cav ha ripreso un discorso interrotto 10 anni fa rivendicando gli accordi di Pratica di Mare con cui mise allo stesso tavolo USA e Russia, Bush e Putin. Anche questa sembra attualità.
Un'Italia del futuro fra libertà, giustizia e progresso grazie all'energia: il sogno di Enrico Mattei è tutt'altro che realtà. A sessant'anni dalla morte dell'imprenditore, il 27 ottobre del '62, il progetto di Eni e di rendere il nostro Paese indipendente sul fronte delle risorse è sempre più attuale. Francesco Giubilei il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Se Enrico Mattei fosse ancora in vita, non crederebbe ai propri occhi osservando la situazione energetica in cui si trova l'Italia tra caro bollette, rischio di razionamenti e assenza di una propria autonomia. Soprattutto il fondatore di Eni, scomparso il 27 ottobre 1962 a causa della caduta del suo aereo in seguito a un sabotaggio, rimarrebbe attonito per la mancanza di una prospettiva a medio lungo termine per il nostro Paese su un tema cruciale per l'interesse e la sicurezza nazionale come l'energia.
A distanza di sessant'anni dalla morte, colpiscono l'attualità della sua visione e la capacità di dar vita, in un momento storico molto complesso dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, a un colosso come l'Eni, determinante per rendere l'Italia una potenza industriale e portare la nostra nazione tra i grandi del pianeta. Secondo Alessandro Aresu, Mattei «non accettava l'idea che un popolo sconfitto dalla guerra fosse destinato a un ruolo subordinato, incapace di scelte politiche ed economiche autonome. Non sopportava che all'Italia fosse preclusa la grande organizzazione industriale che genera potere».
Non a caso lo stesso Mattei scriveva: «noi italiani dobbiamo toglierci di dosso questo complesso di inferiorità che ci avevano insegnato, che gli italiani sono bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente, ma non hanno le capacità della grande organizzazione industriale. Ricordatevi, amici di altri Paesi: sono cose che hanno fatto credere a noi e che ora insegnano anche a voi. Tutto ciò è falso e noi ne siamo un esempio. Dovete avere fiducia in voi stessi, nelle vostre possibilità, nel vostro domani; dovete formarvelo da soli questo domani».
Tutta la sua attività è stata portata avanti promuovendo l'interesse nazionale italiano come scrive Nico Perrone, autore della biografia Enrico Mattei edita da Il Mulino: «Aveva a cuore soprattutto gli interessi del suo Paese è il riconoscimento che venne al presidente dell'Ente nazionale idrocarburi da un suo avversario, William R. Stott, vicepresidente esecutivo della Standard Oil Company of New Jersey, la maggiore società petrolifera del mondo».
Per raggiungere l'obiettivo di un'Italia forte sul piano economico e industriale, comprese la necessità di realizzare un'autonomia energetica sin dal '45-'46 intuendo che per l'Italia il motore della ricostruzione sarebbe derivato dalla possibilità di avere energia in abbondanza e a costi competitivi. Occorreva perciò ottenere quanti più fornitori possibile e, pur mantenendo il posizionamento atlantico, riuscì a stringere accordi con paesi africani, mediorientali, con la Russia e la Cina. Proprio questa capacità di muoversi al di fuori delle alleanze occidentali e oltre la cortina di ferro, lo portò a numerosi attriti con gli Stati Uniti. Per mitigare gli effetti delle sue aperture terzomondiste e mantenere un legame con l'alleato americano, venne così coniata la nuova visione del neoatlantismo in cui l'Italia assunse il ruolo di «intermediario internazionale non richiesto».
Facendo sponda con la Democrazia cristiana, Mattei riuscì non solo a impedire la messa in liquidazione dell'Agip nel primo dopoguerra ma a realizzare una strategia per la produzione di petrolio italiano attraverso le perforazioni a cominciare dalla Val Padana. L'unico modo affinché l'Italia si affermasse come potenza industriale, poteva derivare a suo giudizio dalla realizzazione di una sovranità energetica. La scoperta di un giacimento di petrolio a Cortemaggiore in Emilia, il primo in Europa, ebbe un grande impatto anche da un punto di vista mediatico e contribuì a rendere più solido il ruolo dell'Eni nell'immaginario degli italiani, complice la celebre benzina Supercortemaggiore.
Un attivismo che non poteva essere giudicato positivamente dalle «Sette sorelle», le compagnie petrolifere americane, inglesi e anglo-olandesi unite in un cartello che controllava oltre il 90% delle riserve petrolifere al di fuori degli Stati Uniti da cui Mattei cercò di affrancarsi concependo l'Ente nazionale idrocarburi non come una semplice azienda ma come parte di un insieme più ampio sinergico al sistema paese.
Per lui l'Eni doveva essere un tassello fondamentale nella politica estera italiana: «noi crediamo nell'avvenire del nostro Paese; abbiamo fede nelle sue possibilità di miglioramento, nelle sue capacità di sviluppo e di progresso; sentiamo il dovere di lavorare, in tutta la misura delle nostre forze, per costruire giorno per giorno l'edificio della libertà e della giustizia in cui vogliamo vivere in pace e che soprattutto vogliamo preparare per le nuove generazioni».
Mattei immaginò l'Eni come una grande realtà energetica a sostegno dell'interesse nazionale italiano; per raggiungere questo obiettivo creò l'Agi, agenzia stampa di proprietà dell'azienda e fondò il quotidiano Il Giorno, due strumenti a servizio della rete internazionale che aveva saputo tessere. Tutta la sua attività è stata animata dalla volontà di superare quel «complesso di inferiorità nazionale» che troppo spesso ha rappresentato un tratto antropologico degli italiani precludendo al nostro Paese, specie in politica estera, spazi poi occupati da altri.
Secondo Francesco Cossiga «Mattei è l'ultimo italiano che tenta la sfida di rifare gli italiani», mentre Leonardo Giordano nel libro Enrico Mattei. Costruire la sovranità energetica: dal gattino impaurito al cane a sei zampe ricorda come Mattei si sia «inventato qualcosa che in Italia non abbiamo, la politica energetica». Una politica energetica che si è interrotta quel tragico 27 ottobre 1962 a Bascapè ma che oggi dobbiamo riscoprire e di cui non possiamo più fare a meno non solo ricordando ma attualizzando la lezione del padre dell'Eni. Al contrario, negli ultimi anni ci si è allontanati dai suoi insegnamenti illudendosi di poter dipendere solo dall'estero per la produzione di energia, dismettendo l'estrazione nazionale di gas e affidandoci eccessivamente a un unico fornitore, un errore che Mattei non avrebbe mai compiuto.
Oltre che un visionario, Mattei è stato un patriota e l'emblema di una storia italiana di successo; nato ad Acqualagna, un piccolo paese marchigiano, pur avendo raggiunto i vertici dello Stato, non ha mai dimenticato le sue origini come ebbe a dire poco prima della sua morte: «sono semplicemente un uomo che, di fronte alle necessità in cui si è venuta a trovare l'Italia, ha fatto tutto quello che era possibile per raggiungere gli attuali traguardi». La sua è stata prima di tutto una grande storia italiana.
Enrico Mattei, il sovranista energetico che sfidò il mondo e per questo morì. Gianluca Mazzini su Libero Quotidiano il 26 ottobre 2022
Nel 60° anniversario dell'attentato che pose fine alla vita e alla parabola imprenditoriale di Enrico Mattei, esce per le edizioni Byoblu il libro di Gianfranco Peroncini "Veni Vidi Eni" (volume 2) dedicato alla biografia dell'uomo e al suo sovranismo energetico. Il sottotitolo precisa l'oggetto dello studio: "L'attentato di Bascapè. Sette mandanti per sette sorelle: un delitto abissale...". Mattei morì insieme al pilota Irnerio Bertuzzi e al giornalista americano William McHale il 27 ottobre 1962 nei cieli di Linate, quando il suo aereo esplose in volo sopra il Comune di Bascapè. Spiega l'autore: «Già il fatto che un tenace magistrato (Vincenzo Calia) sia riuscito ad accertare a decenni di distanza, nell'arco di un'inchiesta durata dal 1994 al 2003, che la morte di Mattei è da attribuire ad un congegno esplosivo collocato sul suo aereo, dev' essere considerato un successo formidabile. Oltre queste colonne d'Ercole, ovvero individuare esecutori e mandanti non è possibile avventurarsi. Fondamentale, però, inquadrare l'attentato di Bescapè nella sua cornice storico-politica».
Lei scrive che nell'immediata vigilia dell'attentato, contro il fondatore dell'Eni si fossero addensate le condizioni di una "tempesta perfetta".
«Guerra Fredda, tensioni mediorientali, forniture di greggio sovietico, futuro europeo della formula pilota italiana del centrosinistra, pervicace inserimento dell'Italia in zone nevralgiche ed esplosive dello scacchiere internazionale. Non ultimo la sintonia con la nuova amministrazione Usa di J.F.
Kennedy. Un filo rosso che accomuna i due personaggi è l'ostilità della Cia, soprattutto dei suoi handler di massimo livello, ambienti che non possono vedere Mattei e che non amano, per così dire, il primo presidente cattolico degli Stati Uniti.
La guerra tra Mattei e le compagnie petrolifere americane ha il suo culmine alla fine degli anni '50 ma parte da lontano...
«Nel 1946 Mattei viene indicato come liquidatore di Agip, azienda di Stato fondata nel 1926 allo scopo di garantire le necessarie forniture di petrolio all'Italia. Anziché smobilitare, Mattei continua invece le ricerche finché, nel marzo 1946, trova il metano nello storico pozzo di Caviaga 2 nel Lodigiano. È l'oro bianco che sarà il motore del "miracolo economico" italiano.
Mattei si comportò in maniera diametralmente opposta a Romano Prodi, al quale decenni dopo fu affidato il compito di liquidare l'Iri, compito che gestirà con impegno alacre sino ad arrivare alla presidenza del Consiglio a Roma e a quella della Commissione europea a Bruxelles. Mattei, invece, fu l'uomo che osò sfidare il mondo in nome dello strategico sovranismo energetico nazionale. Ne avrebbe pagato il prezzo».
È questa la chiave dell'attentato di Bascapè?
«Mattei ripeteva sempre che non esiste indipendenza politica senza indipendenza economica, avendo compreso che un'ampia disponibilità di energia a prezzi accessibili era condizione necessaria perla ricostruzione del Paese distrutto dalla guerra. Tra il 1954 e il 1955 l'Eni comincia la sua crociata mediorientale fuori dal controllo dei grandi gruppi petroliferi. In Egitto, in Persia in Libia... A Teheran firma un accordo rivoluzionario (75% del ricavato al produttore e 25% all'estrattore contro la tradizionale formula angloamericana del fifty/fifty). Sino al capolavoro in odore di "eresia atlantica": dall'Unione Sovietica, in piena Guerra Fredda, ottiene forniture di greggio in cambio di merci prodotte in Italia, sgravando così la bilancia dei pagamenti nazionale. Poi punta sull'Algeria, appena indipendente, per replicare il modello persiano».
È paradossale che il "petroliere senza petrolio" muoia proprio mentre sembra sul punto di siglare una pace con Washington grazie all'amministrazione Kennedy.
«Mattei muore poco prima di firmare con l'Algeria e la Francia un accordo straordinario per il rifornimento di metano e petrolio e prima del viaggio negli Stati Uniti che avrebbe sancito il suo trionfo definitivo, benedetto dalla Casa Bianca. Sul suo assassinio non ci sono certezze ma con ogni evidenza, date le ripercussioni a cascata prodotte dalla sua scomparsa, non poteva che essere deciso molto in alto. Da "profondità abissali", per così dire, e con il concorso locale dei comprimari necessari. Con ogni probabilità gli stessi mandanti che avrebbero replicato lo stesso copione a Dallas, il 22 novembre 1963. Un anno dopo Bascapè».
Dall’omicidio Mattei a Eugenio Cefis: così l’Italia ha perso la corsa al gas e petrolio. L’attentato che ha ucciso il fondatore dell’Eni, l’ascesa del suo ex vice, la scalata alla Montedison. I fondi neri ai partiti. Il romanzo-choc di Pasolini rimasto incompiuto. Un libro-inchiesta documenta come e perché è finito il sogno tricolore dell’indipendenza energetica. Paolo Biondani su L'Espresso il 24 Ottobre 2022.
Un'Italia che conquista l'indipendenza energetica: si libera dal giogo delle multinazionali, esplora e sfrutta al meglio le proprie risorse, stringe accordi privilegiati con le nazioni emergenti che hanno bisogno di tecnici e strutture per produrre gas e petrolio, dall'Egitto all'Iran, dalla Libia al Marocco. Una strategia che stava cambiando l'economia e la politica internazionale del nostro Paese, ma è stata fermata con una bomba: l'attentato che 60 anni fa, la sera del 27 ottobre 1962, ha ucciso il fondatore dell'Eni, Enrico Mattei, con altre due vittime, sull'aereo aziendale partito nel pomeriggio dalla Sicilia, esploso in volo mentre il pilota iniziava la manovra per atterrare a Milano Linate.
Una strage rimasta impunita. Che mai come oggi, nei mesi della crisi del gas scatenata dalla guerra russa in Ucraina, rivela la sua portata storica di svolta violenta, di passaggio traumatico per la democrazia in Italia. Dopo l'omicidio di Mattei, che fu negato per decenni, facendolo passare per incidente aereo, al vertice dell'Eni è asceso il suo ex direttore generale, Eugenio Cefis. Che in pochi mesi ha rovesciato la politica energetica dell'azienda nazionale. Ha ridotto gli acquisti e limitato gli accordi societari con le nazioni emergenti. E ha ripristinato e aumentato la dipendenza italiana da multinazionali anglo-americane del calibro di Esso e Shell. Dopo aver normalizzato l'Eni, Cefis ha poi scalato segretamente la Montedison, con fondi dell'azienda statale, diventando negli anni Settanta il numero uno del primo gruppo chimico privato, che era stato il suo principale concorrente. E che già allora, come l'Eni, distribuiva fiumi di tangenti ai partiti di governo.
A quegli anni cruciali, che hanno inciso la matrice della struttura produttiva italiana, è dedicato un libro-inchiesta, «L’Italia nel petrolio. Mattei, Cefis, Pasolini e il sogno infranto dell’indipendenza energetica», frutto di anni di ricerche di Giuseppe Oddo, giornalista economico che scrive anche per L'Espresso, e Riccardo Antoniani, professore di letteratura italiana a Parigi. Il saggio viene pubblicato da Feltrinelli nei giorni dell'anniversario della morte di Mattei e nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, che fu ucciso nel novembre 1975 mentre stava lavorando a un romanzo clamoroso su Cefis, intitolato Petrolio, rimasto incompiuto.
La prima parte del volume, quella economica firmata da Oddo, è la cronistoria di una sorta di golpe applicato all'industria: si parte dall'Eni di Mattei e si arriva alla Montedison di Cefis. Grazie un imponente documentazione recuperata negli archivi storici e a molte carte e testimonianze inedite, il saggio dimostra che Mattei, come rivendicò egli stesso in discorsi pubblici, aveva rivoluzionato il mercato mondiale dell'energia, stipulando accordi alla pari con i Paesi emergenti.
Nelle ex colonie francesi e inglesi che conquistavano l'indipendenza, l'Eni entrava in società con le aziende petrolifere nazionali, che per la prima volta potevano sfruttare e rivendere il proprio gas e petrolio, insieme agli italiani. La rottura del monopolio delle multinazionali, unita ai primi accordi tra l'Eni e l'Unione sovietica per le importazioni di greggio, provocò reazioni allarmatissime nel blocco occidentale. Nel saggio c'è una lettera inedita di Raffaele Matteoli a Nelson Rockefeller: il banchiere italiano chiedeva al miliardario statunitense, già nel 1957, di favorire un incontro pacificatorio tra Mattei e i capi dei colossi petroliferi americani. Ma ci sono anche verbali della Nato, del Dipartimento di Stato e delle multinazionali più ostili a Mattei, che fu contrastato anche da politici e soprattutto da aziende francesi e inglesi. Il fondatore dell'Eni fu accusato di fare da emissario commerciale dei comunisti sovietici in Europa e di sostenere il processo di decolonizzazione in Paesi come l'Algeria, mettendo in discussione il vecchio ordine petrolifero mondiale, fondato su un accordo monopolistico di “cartello” tra le maggiori compagnie anglo-americane, le cosiddette “sette sorelle”.
Nei suoi ultimi mesi di vita, Mattei stava lavorando al maxi-progetto Eurafrigas: un accordo dell'Eni con Algeria e Francia, per estrarre gas nel Sahara e trasportarlo con un colossale metanodotto da Gibilterra alla Spagna fino in Italia e Belgio. Le carte documentano che, dopo la sua morte, Cefis fece fallire le trattative.
L'omicidio di Mattei viene ricostruito dal magistrato Vincenzo Calia: furono le sue indagini a dimostrare che l'aereo Morane-Saulnier 760 fu fatto esplodere in volo con una carica di esplosivo nascosta nel vano anteriore del velivolo e collegata al carrello di atterraggio. Una bomba ad effetto limitato, per simulare un incidente. L'ex procuratore di Pavia, nell'intervista, rivela un dato finora trascurato: l’avvocato Vito Guarrasi, eminenza grigia della Dc siciliana, ha testimoniato sotto giuramento al processo Andreotti, nel 1998, che aveva incontrato Cefis a Palermo il giorno prima della morte di Mattei. Finora si ignorava che nei due giorni in cui veniva preparato l'attentato contro il fondatore dell'Eni, il suo successore potesse essere in Sicilia. Che Mattei sia stato ucciso, ormai lo conferma anche la sentenza sul sequestro e omicidio del giornalista Mauro De Mauro, che stava ricostruendo per il regista Francesco Rosi il suo fatale viaggio in Sicilia. E prima di scomparire, nel settembre 1970, parlò di uno scoop, che non riuscì a pubblicare.
Tutta questa catena di delitti è rimasta senza colpevoli. Anche grazie a continui depistaggi. E alla sistematica distruzione di prove. Come i resti dell’aereo di Mattei, fatti fondere da Cefis dopo la prima archiviazione del caso come incidente. L'indagine dell'ex procuratore Calia, condotta molti anni dopo, non è riuscita a identificare gli autori dell'attentato. E lo stesso magistrato chiarisce che «non sono emersi indizi a carico di Cefis», che è morto nel 2004 in Svizzera, dopo aver rilasciato l'unica intervista della sua vita, proprio per negare qualsiasi responsabilità nella morte del fondatore dell'Eni.
Pasolini, nelle bozze di Petrolio, denuncia che Mattei fu assassinato. Lo scrittore si spinge ad accusare Aldo Troya, il personaggio ispirato a Cefis, di essere il mandante e il beneficiario dell'attentato. Il testo di Pasolini viene analizzato nella seconda parte del saggio, curata dal professor Antoniani, che ne identifica le fonti. Tra quelle scritte spiccano interi paragrafi di un pamphlet, «Questo è Cefis», che la Montedison fece sparire dal mercato: ne risulta autore, sotto pseudonimo, un giornalista lombardo con un passato all'Eni, Luigi Castoldi, reclutato dal politico Gaetano Verzotto, che fu tra gli organizzatori del viaggio di Mattei in Sicilia. Pasolini lavorava su Mattei e Cefis fin dal 1972. E per la sua inchiesta ha incontrato molte persone: manager come Mario Reali, ex Montedison passato all'Eni, e politici come Giulio Andreotti, che aveva sempre negato di aver visto lo scrittore, ma è smentito da un suo stesso appunto. Pasolini collega Cefis anche alla strategia della tensione, facendone una sorta di precursore dell'ancora sconosciuta loggia P2.
Cefis, riservatissimo, ha parlato di soldi ai politici solo nel 1993, al culmine di Mani Pulite, in un interrogatorio pubblicato integralmente da L'Espresso. Davanti ai magistrati, l'ex presidente ammette che l'Eni finanziava i partiti di governo, dalla Dc al Psi, e singoli politici. Ma minimizza il proprio ruolo: sostiene di aver ereditato «un sistema creato da Mattei»; e giura di non sapere i nomi dei beneficiari delle tangenti, dichiarando che era il banchiere Arcaini dell'Italcasse a gestire la distribuzione dei fondi neri. Sulla Montedison, non dice nulla. Anche se proprio quel colosso chimico, nell'era successiva Gardini-Ferruzzi, è stato al centro del processo Enimont, che fece emergere la cosiddetta «madre di tutte le tangenti».
Nel saggio c'è un paragrafo, intitolato con ironia «le nonne di tutte le tangenti», con un verbale del sindacato azionario che controllava la Montedison ai tempi di Cefis. È l'unico con la dicitura «riservatissimo» in caratteri rossi. Alla riunione partecipa il gotha del capitalismo italiano: Agnelli, Pirelli, Cuccia e altri, insieme a Cefis. Gli azionisti pubblici e privati votano per limitare le «erogazioni a fini sovventori»: fondi neri della Montedison, in precedenza distribuiti senza limiti dall’allora presidente Giorgio Valerio. Quindi basta soldi ai politici? Ma no: dall'anno successivo, si legge nel verbale, il capo della Montedison dovrà farsi autorizzare le «erogazioni» e rispettare «un budget massimo».
A Milano, nell'interrogatorio sulle tangenti anonime, Cefis si era descritto come un manager aziendalista che «disprezzava» la classe politica. Nel libro-inchiesta vengono però pubblicate carte che comprovano un rapporto strettissimo con diversi capicorrente della Dc. In particolare i diari di Ettore Bernabei, che fu consigliere politico di Amintore Fanfani oltre che direttore generale della Rai e presidente dell'Italstat del gruppo Iri, documentano che Cefis era alla costante ricerca di finanziamenti statali e coperture politiche. Pressioni e manovre culminate, dopo la sconfitta di Fanfani al referendum sul divorzio, nel tentativo fallito di ottenere l'appoggio dell'ex nemico Andreotti, che però aveva già altri gruppi chimici da favorire, come la Sir di Nino Rovelli.
Una parabola economica che si riassume in un dato finale: nel 1977, quando Cefis ha lasciato l'Italia e si è ritirato in Svizzera («per paura», secondo una laconica nota dei servizi segreti), la sua Montedison era ridotta «in stato prefallimentare», come documenta il saggio, con «un indebitamento finanziario pari a sedici volte il capitale netto».
Il libro è ricchissimo di documenti. Un carteggio riservato, ritrovato nell'archivio storico dell'Eni, offusca anche il mito di Indro Montanelli, il più importante giornalista italiano, che firmò due famose sequenze di articoli, la prima contro Mattei, la seconda a favore di Cefis. Nel 2001 Montanelli smentì di aver mai ottenuto finanziamenti da Cefis, quando lasciò il Corriere, nel 1974 (accusando l’allora direttore Piero Ottone di appoggiare la sinistra), per fondare il Giornale nuovo, poi acquistato dalla famiglia Berlusconi. «Non avevamo un finanziatore», ha scritto Montanelli, «né una banca, né un'azienda pubblicitaria, finché non ce ne venne in soccorso una svizzera, la Spi, che poi fu comprata dalla Montedison, la quale si affrettò a rescindere il contratto».
In realtà la Spi era fin dall'origine una controllata svizzera del gruppo di Cefis. E finanziò la nascita del Giornale anticipando due anni di «minimo garantito»: incassi futuri della pubblicità, coperti proprio dalla Montedison. Il libro ora rivela anche come nacque quel rapporto tra il giornalista e il manager petrolchimico. A documentarlo è una lettera dello stesso Montanelli, che chiede un incontro privato a Cefis per preparare una serie di articoli sull'Eni. Il giornalista ricorda i suoi precedenti attacchi a Mattei. E prende due «impegni» con Cefis: «primo: a non sollecitare altre fonti d’informazione se lei mi apre le sue»; «secondo: a sottoporre alla sua approvazione e revisione i miei articoli prima che siano pubblicati». I tre servizi per il Corriere escono nell'aprile 1965, firmati da Montanelli, che non dichiara la sua unica fonte e non attribuisce neppure un virgolettato a Cefis.
La nave scomparsa e il mistero dell’Heida all’ombra della morte di Mattei. Inside Over il 20 marzo 2022.
14 marzo 1962, Mediterraneo occidentale. La motonave Heida, un vecchio cargo di 2300 tonnellate battente bandiera liberiana, arranca nel mare in tempesta. A bordo venti marinai di cui 19 italiani — veneti, triestini, marchigiani, siciliani, pugliesi —e un gallese. Alle 10 di mattina, all’altezza dell’isola tunisina di La Galite, il comandante Federico Agostinelli contatta, a Venezia, l’agente marittimo Giuseppe Patella (verosimilmente il vero armatore della nave) per confermare rotta e tempi di navigazione. Tutto bene, stop. Poi il silenzio. Totale. La Heida scompare nel nulla. Per sei giorni nessuno sembra accorgersene e solo il 20 marzo — sei giorni dopo — iniziano le ricerche. Senza successo. Nessun superstite, nessun corpo, nessun rottame, nessuna chiazza di nafta. L’ennesima tragedia del mare. O forse no.
Andiamo con ordine. In quell’ultimo scorcio di quel lontano inverno si stava consumando l’ultimo atto della guerra d’Algeria. Un conflitto durissimo tra la Francia e gli indipendentisti arabi, uno scontro iniziato nell’autunno 1954 e protrattosi, tra massacri e attentati, per quasi otto anni. Poi, dopo lungo meditare il presidente Charles de Gaulle, sfidando l’opposizione di gran parte dell’esercito e del popolo dei coloni (i pieds noires), decise infine di “girare la pagina” e concedere gradualmente l’indipendenza. Gli accordi di Evian del 19 marzo 1962, un azzardo politico su cui ancor oggi la Francia si dilania e si incattivisce.
Di certo vi è un dato storico, fisso e inoppugnabile: sino all’indomani della proclamazione del cessate il fuoco l’intero dispositivo militare transalpino rimase pienamente operativo e in special modo la Marina, impegnata a vigilare sul traffico d’armi alimentato da vecchi cargo, navi scassate e spendibili (come l’Heida, appunto), e destinato ai combattenti del Fronte di Liberazione Nazionale. Un grande affare.
A rifornire i ribelli erano in molti: mercanti d’armi d’ogni nazionalità, satelliti del blocco sovietico, Jugoslavia titoista, Egitto nasseriano ma anche l’Italia, o meglio l’Eni di Enrico Mattei, presidente dell’Eni e campione della stagione del “neo-atlantismo”, una delle fasi più vivaci e contradditorie della politica estera italiana cui s’intrecciavano disorganicamente più fattori: “nazionalismo mediterraneo”, cripto neutralismo, atmosfere risorgimentali ed echi mussoliniani. Convinti di poter recuperare all’Italia una centralità nel Mare Interno, Mattei e i principali protagonisti del tempo — il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, il segretario della Dc Amintore Fanfani, il sindaco di Firenze Giorgio La Pira — decisero di giocare, in chiave anti britannica e anti francese, la carta del movimento anticolonialista arabo. Dall’Egitto all’Algeria. Da Suez al Sahara.
Una storia romanzesca. Casualmente, nel dicembre 1958, Mattei incontrò, tornando dalla Cina via Unione Sovietica, una delegazione del GPRA (Governo provvisorio repubblica algerina). L’aereo su cui viaggiavano ambedue le missioni fu costretto per le pessime condizioni atmosferiche ad una lunga sosta a Omsk in Siberia; in quei noiosi giorni di attesa forzata il presidente del “Cane a sei zampe”, fiutando l’odore del petrolio e del gas algerino, simpatizzò con gli indipendentisti e assicurò loro, con l’appoggio felpato del governo di Roma, una robusta solidarietà: fondi, appoggio mediatico, rifugi sicuri, addestramento militare e armi, tante armi. Una circostanza che irritò fortemente i francesi e i loro servizi segreti. Da qui l’inizio di una parallela, silenziosa ma letale guerra segreta tra Parigi, Roma e l’Eni. Un duello che si concluse soltanto con la ancora molto, molto misteriosa morte di Mattei nel cielo di Bascapè il 27 ottobre 1962.
Ma torniamo all’Heida e ai suoi marinai. Sfortunatamente, proprio a pochi giorni prima della tregua, la nave si ritrovò nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Il bastimento, come nel tempo hanno ricostruito Accursio Graffeo, caparbio nipote di uno degli scomparsi, e il giornalista Nicola papa —autori di un libro inchiesta Heida, ultimo messaggio 10.00 N807 — qualcosa andò storto. All’insaputa dell’equipaggio (sul comandante e l’armatore rimane un punto di domanda) la nave era uno dei trasporti utilizzati per il traffico d’armi dall’Italia al Nord Africa e molto probabilmente l’Heida e i suoi uomini furono fermati, sequestrati e fatti scomparire “dalle autorità francesi come messaggio occulto, ma inequivocabile, allo Stato Italiano perché si attivasse nel far desistere la sua compagnia petrolifera dal fornire armi agli insorti. A suffragare questa ipotesi è stata riportata la testimonianza di un triestino, padre di uno dei marinai scomparsi, il quale disse all’epoca di aver parlato con un suo conoscente giovane ufficiale della Marina Militare di nome Fulvio Martini il quale prestava allora servizio presso il S.I.O.S. Marina e che divenne in seguito capo del S.I.S.MI. Sempre secondo quanto detto dal signore triestino, l’ufficiale gli confidò che l’equipaggio era salvo, ma che per “gravi motivi di sicurezza” non poteva fare il nome del luogo in cui si trovava, confermando inoltre che il figlio del conoscente era salvo”.
Speranze, illusioni e poi ancora una volta il nulla. I naufraghi, nonostante qualche flebile indizio, furono evaporati, sparirono. Della nave (ancor oggi) non vi è nessun ritrovamento, nessuna traccia sui fondali. Di certo vi è solo il silenzio tombale dello Stato italiano. Nell’estate del ’63 il Presidente del Consiglio Amintore Fanfani, a margine di un incontro con i parenti dei marittimi scomparsi, rispose con una criptica frase: “Per venti persone non si può fare una guerra”. Segreti di Stato. Sipario. Dopo sessant’anni vi sono dei marinai italiani che chiedono ancora giustizia.
· Il caso di Benno Neumair.
Sentenza Benno Neumair: è ergastolo. La sorella Madè: «Oggi non ha vinto nessuno». Chiara Currò Dossi e Luigi Ruggera su Il Corriere della Sera il 20 Novembre 2022.
Il processo per l’omicidio dei genitori Peter e Laura. Accolte le richieste dei pm, comminato anche l’isolamento diurno per un anno. Non sono state riconosciute né la seminfermità mentale né le attenuanti generiche. La difesa farà ricorso
Condannato all’ergastolo per l’omicidio del padre Peter e della madre Laura, con isolamento diurno di un anno. Condannato inoltre a tre anni per la soppressione dei cadaveri. La Corte d’assise di Bolzano ha accolto in pieno le richieste dei sostituti procuratori Federica Iovene ed Igor Secco nel processo a carico di Benno Neumair, assente ieri in aula, al quale non sono state riconosciute né la seminfermità mentale né le attenuanti generiche, come aveva chiesto in mattinata la difesa al termine delle arringhe.
Dopo una ventina di udienze, l’audizione di quasi cento testimoni e una camera di consiglio durata poco più di cinque ore, il presidente Carlo Busato ha letto alle 17.30 il dispositivo della sentenza del processo di primo grado a carico di Benno, che il 4 gennaio 2021 uccise entrambi i genitori strangolandoli con un cordino e gettando poi i loro cadaveri nell’Adige. Benno è stato inoltre «interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante l’esecuzione della pena» dalla Corte d’assise che ha anche «ordinato la pubblicazione della sentenza mediante affissione nel comune di Bolzano e la pubblicazione sul sito del ministero della Giustizia per 15 giorni». La sentenza condanna inoltre Benno a pagare alle parti civili una provvisionale di 200 mila euro alla sorella Madè e di 80 mila euro alla zia Carla, oltre alle spese legali.
Gli avvocati difensori, Flavio Moccia ed Angelo Polo, hanno annunciato ricorso. Nessun commento da parte della Procura, che ha visto riconosciute tutte le proprie richieste. La Corte ha infatti sposato l’impostazione della pubblica accusa che aveva chiesto di riconoscere Benno completamente capace di intendere e di volere in entrambi gli omicidi, a differenza di quanto era stato sostenuto dai tre periti del gip. Secondo questi ultimi, Benno sarebbe stato seminfermo di mente nell’omicidio del padre Peter, in quanto il presunto litigio descritto dallo stesso imputato in fase di confessione avrebbe innescato il discontrollo delle proprie azioni.
La lettura della sentenza è durata poco più di due minuti, durante i quali lo sguardo di Madè, l’altra figlia della coppia, è rimasto fisso sui giudici, mentre la zia, Carla Perselli, sorella di Laura, stringeva la mano dell’avvocato Elena Valenti. Poi il lungo abbraccio, Madè con l’avvocato Carlo Bertacchi e zia Carla con Valenti. E poi con gli zii Gianni, marito di Carla; Ganesh, fratello di Peter; e Michaela, sua sorella. Tutti vestiti di nero, a lutto. «Perché oggi non ha vinto nessuno» spiegano. «È la fine di un capitolo — commenta Madè —. Non finisce quello che ci è stato tolto il 4 gennaio, però finisce una gran parte di quello che è ancora, a volte, un brutto incubo. Volevo dare voce ai miei genitori, e penso, forse, di esserci riuscita». Per Carla, quella dei giudici è stata «una scelta logica e razionale. La verità è la verità, non la puoi nascondere. Quando il giudice ha letto la sentenza, il mio primo pensiero è stato il corpo di mia sorella nell’obitorio. Ogni tanto mi chiedo cosa avrebbe fatto lei, se fosse sopravvissuta e avesse trovato il corpo senza vita di Peter. Conoscendola, sarebbe andata fino in fondo. Anche se (l’imputato, ndr) era suo figlio. Poi si sarebbe ammalata, e sarebbe morta di dolore».
Come Carla, anche Gianni è convinto che la verità non sia ancora uscita. E distingue tra quella processuale e quella storica. «Benno — sostiene — aveva premeditato anche l’omicidio del papà. Aspettava solo il momento opportuno. Ma questo lo sa solo lui, e non lo dirà mai». Eppure, la speranza è che prima o poi lo faccia, che il nipote «si illumini». Ora, per lo meno, si è chiuso un capitolo. «Si guarda avanti, alla vita che è lunga e piena di cose belle. Spero lo sia soprattutto per Madè». Che però, inevitabilmente, dovrà portarsi dietro «questo segno indelebile». Per Michaela, la sentenza ha portato «sollievo, ma anche dolore. Benno è mio nipote, e credo che non si sia ancora pentito. Spero possa farlo. Se vuole, può fare ancora qualcosa di buono».
Il processo per il duplice omicidio dei genitori. Benno Neumair, la carta della difesa in aula: “Affetto da disturbo della personalità, nel cervello manca parte di materia grigia”. Redazione su Il Riformista il 13 Settembre 2022
Benno Neumair, il 31enne di Bolzano a processo da reo confesso per il duplice omicidio dei genitori Laura Perselli e Peter Neumair, uccisi e poi fatti sparire, sarebbe affetto da “un grave disturbo della personalità, di tipo narcisistico, antisociale”.
A dirlo nel corso della nuova udienza del processo tenuta oggi nell’aula della Corte d’Assise del tribunale di Bolzano sono stati i consulenti di parte nominati dalla difesa dello stesso imputato, che chiedono di riconoscere l’incapacità di intendere e di volere del giovane al momento dei fatti avvenuti il 4 gennaio 2021.
Benno, secondo l’analisi presentata in aula dagli psicologi Giuseppe Sartori e Cristina Scarpazza, e dallo psichiatra Pietro Pietrini, sarebbe malato e socialmente pericoloso. Il 31enne “è affetto da un grave disturbo della personalità, di tipo narcisistico, antisociale“, disturbi nati durante la sua infanzia e gradualmente peggiorati nel corso degli anni, fino all’esplosione al momento del duplice omicidio, come ‘reazione’ al litigio avvenuto col padre Peter per questioni economiche, ovvero la richiesta da parte del genitore di versare più soldi per restare a casa assieme a loro. Lite di cui comunque non vi è alcuna prova certa, essendo una circostanza riferita solo dallo stesso Benno.
Reazione violenta dovuta anche un difetto a livello cerebrale dell’imputato, cioè la mancanza di un pezzo di ippocampo: una condizione riscontrabile anche in altri casi simili di disturbo della personalità. Nella sua relazione in tribunale, la psicologa forense Cristina Scarpazza ha spiegato infatti che “nella zona destra dell’ippocampo manca la materia grigia”.
“I cambiamenti anatomici nel cervello non possono essere visti ad occhio nudo ma nel cervello di Benno Neumair si possono notare ad occhio nudo – ha spiegato Scarpazza in aula, come riferisce l’Agi -. La lesione in quel punto del cervello è stata trovata anche in altri pazienti con il corrispondente disturbo della personalità. La massa grigia degenera quando gli steroidi anabolizzanti vengono assunti per molto tempo. Inoltre, i pazienti con un ippocampo danneggiato tendono a non essere in grado di controllare la propria aggressività e non possono controllare le proprie emozioni”.
Nel corso dell’udienza odierna è stata resa nota la circostanza di una presunta aggressione da parte di Benno ad un compagno di cella, avvenuta lo scorso 17 agosto, quando il 31enne lo avrebbe colpito con un pugno al viso. Gli avvocati della difesa hanno chiesto di depositare gli atti del procedimento disciplinare che è stato instaurato presso il carcere di Bolzano: lo stesso Benno Neumair, però, ha negato tale comportamento e sono ancora in corso accertamenti sulla vicenda.
Domenico Zurlo per leggo.it il 14 settembre 2022.
Benno Neumair è malato e pericoloso, e per questo motivo non può stare in carcere. Può sembrare paradossale, ma è quanto emerge dalla perizia della difesa del 31enne bolzanino reo confesso dell'uccisione e dell'occultamento di cadavere dei suoi genitori, Peter e Laura.
I consulenti della difesa sono gli psicologi Giuseppe Sartori e Cristina Scarpazza, e lo psichiatra e neuroscienziato Pietro Pietrini: questa mattina hanno sostenuto che Benno soffrirebbe di un grave disturbo narcisistico della personalità che ha origine dalla sua infanzia e che con il passare degli anni peggiorerebbe. Benno sarebbe incapace di controllarsi: il litigio con il padre, hanno affermato i consulenti, avrebbe fatto da detonatore della sua rabbia distruttiva, portando all'omicidio.
Benno, scrivono i consulenti nominati dagli avvocati difensori, «ha un grave disturbo di personalità a causa del quale era incapace di intendere e di volere sia nel momento in cui uccise suo padre Peter sia quando strangolò sua madre Laura. Anche attualmente è malato e socialmente pericoloso», le conclusioni dei periti, che stanno riferendo oggi davanti alla Corte d'assise di Bolzano, nel processo a carico del giovane.
Del presunto litigio che ha poi portato al delitto, comunque, non c'è una prova certa, essendo una circostanza riferita solo dallo stesso imputato. «Ma Benno non ha motivo di mentire sul litigio», sostengono al riguardo i consulenti, secondo i quali Benno avrebbe anche un difetto cerebrale caratterizzante la sua patologia e riscontrabile attraverso la risonanza magnetica.
Infine, è emerso che Benno lo scorso 17 agosto in carcere sferrò un pugno ad un nuovo compagno di cella, durante una lite. Per quell'episodio, nei suoi confronti è stato preso un nuovo provvedimento disciplinare da parte dell'amministrazione penitenziaria. In precedenza Benno aveva aggredito anche un altro detenuto.
«Benno Neumair è malato e va trattato come tale». Alle battute finali il processo a carico del giovane reo confesso dell’omicidio del padre Peter e della madre Laura Perselli e dell’occultamento dei loro corpi. Secondo lo psichiatra Petrini, il ragazzo «ha un grave disturbo della personalità». Valentina Stella il 15 Settembre 2022 su Il Dubbio.
È alle battute finali il processo a carico di Benno Neumair, reo confesso dell’omicidio del padre Peter e della madre Laura Perselli e dell’occultamento dei loro corpi, avvenuti il 4 gennaio 2021 a Bolzano. Dopo diciotto udienze, il 27 settembre sarà ascoltato l’ultimo teste della difesa e a metà novembre ci saranno le discussioni finali, seguite dalla sentenza. La difesa sarebbe indirizzata a chiedere l’assoluzione per il primo delitto, essendo Benno, a loro parere, totalmente incapace di intendere e volere, e l’attenuante della seminfermità per il secondo. L’accusa potrebbe puntare invece all’ergastolo.
C’è molta attesa per la decisione della Corte che dovrà decidere sostanzialmente se il futuro di Benno è in carcere o in una Rems. Come ci racconta il legale del ragazzo, l’avvocato Flavio Moccia, «si è modificato molto il quadro. Inizialmente era molto negativo nei confronti dell’imputato, anche a causa della narrazione fatta dai mass media, attraverso cui Benno appariva come un mostro criminale. L’aspetto psichiatrico sembrava solo uno strumento al servizio della strategia difensiva. Invece nel corso delle udienze, soprattutto nelle ultime, si è modificato il contesto storico ed è venuto fuori che la famiglia del ragazzo non era quella del Mulino Bianco e il mio assistito aveva sofferto moltissimo nel corso degli anni, soprattutto per la preferenza dei genitori verso la perfetta sorella Madè, con la quale lo mettevano spesso a paragone. Questo è emerso anche dalla testimonianza della maestra di infanzia e persino dalla zia, la sorella della madre di Benno, l’unica ad essere rimasta vicina al ragazzo. Questa condizione familiare, gli ultimi avvenimenti nell’anno precedente alla tragedia, i litigi, la patologia rilevata dai consulenti hanno creato lo scompenso omicidiario».
Proprio l’insegnante della scuola d’infanzia aveva detto in aula: «Benno era un bambino con dei problemi ed io lo dissi a sua mamma Laura. Lei però rispose che lo aveva portato da una sorta di stregone, durante le loro vacanze a Bali, per togliere a Benno gli “spiritelli maligni”». Tutto ruota insomma sulle perizie dei consulenti che hanno scandagliato la mente di Benno. Il professor Pietro Pietrini, psichiatra di fama internazionale e direttore del Molecular Mind Lab presso la Scuola Imt Alti Studi Lucca, consulente della difesa insieme al professor Giuseppe Sartori, Ordinario di neuropsicologia forense, e alla dottoressa Cristina Scarpazza, psicologa, entrambi dell’Università di Padova, ci spiega: «Benno ha un grave disturbo della personalità, con aspetti narcisistici, antisociali, istrionici e passivo-aggressivi. Su questa patologia psichiatrica grave, che è in nesso di causa con gli atti omicidiari, c’è concordanza tra periti e consulenti, benché qualcuno abbia fatto una distinzione tra gravità clinica e gravità forense. Il litigio col padre, che precede dunque il primo omicidio, mette in discussione quell’equilibrio precario che Benno aveva faticosamente ritrovato: una sua stanza, benché avesse una porta scorrevole grazie alla quale i genitori potevano piombargli dentro quando volevano, una quota di 300 euro per l’affitto, l’uso indipendente della cucina. Il padre però poi gli dice che deve sborsare 700 euro, perché erano in tre in casa e la somma totale era circa di 2000 euro. Quello è stato l’elemento scatenante».
Il neuroscienziato prosegue: «Ho usato l’espressione utilizzata in verità dai periti del giudice che hanno sostenuto che quell’episodio è stato come “girare la chiavetta in un motore di una macchina”. La patologia di Benno è la camera di compressione, quella che fa detonare la miscela come in una automobile. Dopo di che il comportamento del ragazzo diventa sostanzialmente simile a quello del pistone nel motore, non può far altro che mettersi in moto. Come ho risposto a chi me lo ha chiesto in Aula, se Benno non avesse avuto questa patologia non ci sarebbe stata metaforicamente quella detonazione». Benno pertanto «avrebbe avuto una discussione con il padre, forse sarebbe arrivato anche a spintonarlo, a spaccare qualcosa, a sbattere le porte ma la probabilità che commettesse l’omicidio sarebbe stata identica a quella di chiunque altro». La tesi è chiara: «È la patologia che annulla la sua capacità di poter fare altrimenti, siamo in presenza di un vizio totale della capacità di volere, è un reato d’impeto che va ad iscriversi su una condizione morbosa grave. Dopo di che si innesca uno stato di alterata coscienza all’interno del quale Benno compie il secondo omicidio, quello della madre. Non essendoci in questo caso l’elemento scatenante acuto del primo omicidio, concludiamo che per il persistere di uno stato mentale alterato Benno ha commesso il secondo omicidio con una capacità perlomeno grandemente scemata».
Ha fatto scalpore il fatto che sia stato detto che nel cervello di Benno manchi materia grigia: «La stampa – chiarisce Pietrini – ha dato molto risalto a questo aspetto che però noi non abbiamo fatto emergere come primo punto a sostegno della nostra tesi. Il pm ha cercato di conferirgli un valore deterministico con l’intento poi di demolire questa ipotesi. È chiaro che non siamo in presenza di un elemento deterministico. In psichiatria manca la possibilità di avere riscontri oggettivi ad una ipotesi diagnostica, tuttavia studi degli ultimi anni indicano che ci possono essere condizioni alle quali si trovano associate alterazioni a livello del sistema nervoso centrale. L’atrofia della zona destra dell’ippocampo che noi abbiamo rilevato tramite risonanza magnetica nel cervello di Benno è coerente con l’assunzione cronica di anabolizzanti. Ciò va ulteriormente a suffragare la nostra conclusione diagnostica. L’ippocampo fa parte di un circuito cruciale per le emozioni e il controllo del comportamento». Ma quindi Benno va tenuto in carcere o va curato? «L’imputato è una persona gravemente malata, pericolosa in virtù della sua patologia. Se vogliamo pienamente attuare l’articolo 27 della Costituzione – conclude Pietrini – Benno deve essere curato. In inglese c’è la distinzione tra bad or mad, cattivi per scelta o perché malati. Non vi è dubbio che Benno è un mad, è un malato che come tale dovrebbe essere trattato».
L'omicidio di Laura Perselli e Peter Neumair. Benno Neumair, la sorella Madè: “Lo sogno, sono incubi in cui vuole uccidere me o uccide mamma e papà”. Vito Califano su Il Riformista il 6 Ottobre 2022
Benno Neumair non ha mai provato a scrivere né a telefonare alla sorella Madè. “Semplicemente non penso a lui, anche se a volte lo sogno. Sono incubi. Sogno che vuole uccidere anche me oppure lo vedo che uccide loro…”. Madè Neumair lavora all’ospedale di Monaco di Baviera, il München Klinik Schwabingnel, reparto di ortopedia e traumatologia. Per la prima volta ha rilasciato un’intervista, a Il Corriere della Sera, sulla vicenda che ha travolto e distrutto la sua famiglia di Bolzano: il padre Peter Neumair e la madre Laura Perselli erano spariti nel nulla a inizio gennaio 2021, erano stati uccisi dal fratello, classe 1990, detenuto in carcere. I corpi erano stati ripescati dalle acque del fiume Adige.
“A casa mia avevo ospite un’amica, quella sera – ha ricordato la ragazza – Abbiamo fatto una fotografia e l’ho mandata a mamma. Lei non l’ha visualizzata e mi sembrava strano ma ho pensato: sarà crollata dalla stanchezza. Il mattino dopo però c’era ancora una sola spunta di whatsapp. Allora ho scritto a papà: tutto bene? Quando ho visto che anche lui non rispondeva ho cominciato a chiamare tutti. Ho chiamato anche Benno, mi ha detto che era fuori col cane a camminare… Sa quando si conosce bene una persona e si capisce che sta mentendo?”.
Le ultime udienze del processo di primo grado si terranno a fine novembre. Madè Neumair ha negato quelle versioni fornite in udienza secondo le quali i genitori avevano portato il fratello da un santone a Bali, che erano ostili agli psicologi, che trattavano lei come figlia di Serie A e Benno come il figlio di serie B, che il fratello aveva provato a ucciderla quando entrambi erano bambini. “Alcuni testimoni sono venuti a sbranare e infangare il loro ricordo… il ricordo di due persone morte che non si possono difendere”.
La giovane ha ricordato il fratello da piccolo, un bambino tenace, ambizioso, curioso, allegro. “Ha sempre avuto un carattere complicato, era difficile vederlo soddisfatto. Io stessa lo percepivo. Era tornato a casa a Bolzano a luglio, dopo i fatti di Ulm (minacce con il coltello alla sua fidanzata, ndr). Sapevo che aveva passato una notte passata nell’ospedale psichiatrico ed ero preoccupata per la diagnosi che mi era stata riferita da mia madre: schizofrenia paranoide. Ora so che non è quanto diagnosticato effettivamente dai medici ma allora avevo manifestato i miei timori a mamma e papà che invece lo avevano accolto con amore, come sempre. Dopo poco tempo però si era normalizzato tutto. Benno a settembre aveva iniziato a insegnare. Ho un ricordo di famiglia bellissimo a novembre 2020, un mese e mezzo prima dei fatti”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
La sorella di Benno Neumair: «È il mio incubo, in sogno vuole uccidermi». Il Corriere della Sera il 6 Ottobre 2022. Il Corriere della Sera e il sito Corriere.it oggi e domani escono senza le firme dei giornalisti per un’agitazione sindacale.
Madè Neumair, la sorella dell’omicida dei genitori Laura Perselli e Peter Neumair ora in carcere: «Non ho l’odio dentro di me, non penso a lui ma a volte lo sogno. Da piccolo era molto ambizioso. E terrò gli album delle foto»
«Io non ho l’odio dentro di me, non ho la rabbia. Non penso a lui, anche se a volte lo sogno. Sono incubi. Sogno che vuole uccidere anche me o lo vedo che uccide loro...».
Benno ha mai provato a scriverle o a telefonarle da quando è in carcere?
«Mai».
Hanno dissequestrato la casa. E adesso?
«Era in affitto, quella casa. Eravamo andati lì che avevo 9 anni, Benno ne aveva 13. Adesso andrò a svuotarla e so già che sarà un passaggio doloroso. C’è ancora l’albero di Natale montato, ci sono i biscotti che avevo fatto io per Natale, i pigiami, le pantofole... è tutto lì come lo hanno lasciato mamma e papà, anche se Benno ci ha vissuto quasi tre settimane dopo averli uccisi. Tornarci adesso a liberare, impacchettare e salutare quel pezzo di vita... non sarà facile. Finora c’è sempre stato uno spazio fisico legato a loro. Chiudere tutto in un certo senso è come farli morire di nuovo».
La dottoressa Madè Neumair ha appena finito il suo turno in ortopedia e traumatologia al München Klinik Schwabingnel, l’ospedale di Monaco di Baviera, città dove vive e lavora da quattro anni. «Mi pare di avere non malati ma pazienti rotti che riparo», sorride mentre dice che la «chirurgia è gratificante perché vedi subito il risultato». Un modo per rompere il ghiaccio prima di parlare di lui, di loro.
Sceglie le parole con cura, Madè. Si racconta e racconta di suo fratello Benno, classe 1990, che proprio in quella casa di Bolzano, ha ucciso i genitori — Peter Neumair e Laura Perselli — e ha buttato i loro corpi nelle acque gelide dell’Adige. È stato il 4 gennaio del 2021. E noi torniamo a quel giorno.
Quando ha sentito sua madre l’ultima volta?
«Pochi minuti prima che entrasse in casa. Sono stata l’ultima persona con la quale ha parlato. Era molto stanca. Le ho detto: dai, fatti preparare qualcosa di buono da papà. E lei: sarà ancora fuori perché è un po’ che non lo sento. Invece era già morto».
Quando ha capito che era successo qualcosa?
«Ho mandato a mamma una foto. Non l’ha visualizzata e mi sembrava strano ma ho pensato: sarà crollata dalla stanchezza. Il mattino dopo però c’era ancora una sola spunta di WhatsApp. Allora ho scritto a papà: tutto bene? Quando ho visto che anche lui non rispondeva ho cominciato a chiamare tutti. Ho chiamato Benno, mi ha detto che era fuori con il cane a camminare... Sa quando si conosce bene una persona e si capisce che sta mentendo?».
Ha capito che mentiva.
«C’erano troppe cose che non tornavano... Come primo pensiero mi sono detta: non sono più vivi. Poi ho pensato: li sento vicinissimi, ovunque. E infine ho detto a me stessa che per 26 anni avevo avuto i migliori genitori del mondo. Era il mio modo di prendere coscienza di quello che probabilmente era successo. Non dovevo crollare perché se fossi crollata in quel momento non mi sarei più rialzata».
Lei ha seguito tutte le udienze del processo.
«Per me esserci è un dovere nei confronti della mamma e del papà. Penso a difendere la loro memoria».
Difenderla da cosa?
«Alcuni testimoni sono venuti a sbranare e infangare il loro ricordo... il ricordo di due persone morte che non si possono difendere».
Parla di sua zia Elisabetta, la sorella di sua madre?
«Non soltanto di lei. Ho visto e sentito persone giurare di dire la verità e poi inventarsi cose che non esistono, anche sul mio conto».
Tipo che lei era la figlia di serie A e Benno di serie B?
«Anche quello, sì. Una falsità. I miei genitori hanno dato a Benno tutto l’amore possibile. Soprattutto mia madre. Sempre. E Benno lo sa bene».
È vero che da ragazzino tentò di uccidere anche lei?
«A me questa storia non è mai stata raccontata. E poi le voci sul fatto che mamma e papà fossero ostili verso gli psicologi per mio fratello...».
Appunto. È vero che sua madre portò Benno da un santone a Bali invece che da uno psicologo?
«Ma no! Andavamo a Bali tutti gli anni e lì c’era una persona che insegnava yoga e faceva un sacco di altre cose di quel genere, diciamo, spirituale. Vedeva Benno spericolato che continuava a tagliarsi o rompersi qualcosa e allora una volta ha detto: vi faccio la benedizione balinese anti-incidente così non si fa più male. Tutto qui».
Dopo le minacce alla fidanzata e una notte all’ospedale psichiatrico era tornato a casa a Bolzano...
«Era tornato a luglio. Dopo poco tempo però si era normalizzato tutto. A settembre aveva iniziato a insegnare. Ho un ricordo di famiglia bellissimo che risale a un mese e mezzo prima dei fatti».
Quale ricordo?
«C’era il lockdown, io avevo ferie e sono stata a casa a Bolzano per tre settimane con mamma, papà e lui. Sono stati giorni pacifici, di sole e passeggiate. Una sera abbiamo visto tutti e quattro assieme le diapositive dei loro viaggi prima che noi nascessimo. È stato bello, Benno era curioso, molto allegro».
Che fratellino è stato?
«Abbiamo giocato tantissimo. Era molto ambizioso, tenace. Quando voleva fare una cosa ci riusciva sempre e io ero affascinata da questa sua capacità. Volevo fare sempre quello che faceva lui: i compiti, pescare... Non ho brutti ricordi dell’infanzia con lui. Terrò gli album delle foto».
Il primo ricordo che le viene in mente di sua madre?
«Tanti, tutti assieme. La vedo radiosa, entusiasta, sfrecciare sulla sua bicicletta. Sento la sua voce, ricordo i baci della buonanotte. Il rapporto fra me e lei era davvero il meglio che io potessi mai desiderare. Lei e papà si sono dedicati con tutto il cuore, sempre, alla famiglia. Siamo stati fortunati ad averli accanto e spero tanto che quel che ho avuto da loro sia il motore per andare avanti».
Benno Neumair, la maestra d'asilo: «Andava curato da piccolo e la madre lo portò da uno stregone». Doriana Baracca durante il processo sul duplice omicidio: «Aveva dei problemi da bambino e lo aveva portato a farsi toglie gli "spiritelli maligni"». Luigi Ruggera su Il Corriere della Sera il 6 Settembre 2022.
«Benno era un bambino con dei problemi ed io lo dissi a sua mamma Laura. Lei però rispose che lo aveva portato da una sorta di stregone, durante le loro vacanze a Bali, per togliere a Benno gli “spiritelli maligni”, così disse, visto che una notte lo avevano sorpreso con un coltello in mano di fronte alla sorellina Madè. Io rimasi shoccata da quella risposta. Mi disse anche che il suo ex marito, morto suicida anni prima, era proprio uno psicologo: io compresi allora che lei non avrebbe mai portato suo figlio Benno da uno psicologo». Lo ha riferito, martedì pomeriggio davanti alla Corte d’assise di Bolzano nel processo sul duplice omicidio di Laura Perselli e Peter Neumair, l’insegnante della scuola d’infanzia Doriana Baracca che fu per tre anni la maestra di Benno all’asilo «Hansel e Gretel» di Bolzano.
«Introverso e isolato»
«Benno era estremamente introverso ed isolato, non si entusiasmava mai di nulla, nemmeno dei giochi, ma era anche intelligente ed ubbidiente: un “soldatino” che a noi insegnanti — ha ricordato la signora Baracca — non dava mai problemi ma che, al tempo stesso, dimostrava di avere bisogno di un aiuto psicologico che sua madre non gli diede. Mi dispiace dirlo ora che la madre è morta ma credo che ci siano delle responsabilità che rimangono».
«Occhi da squalo»
Oltre all’insegnante della scuola d’infanzia, ha deposto in aula una seconda testimone della difesa: Elisabetta Perselli, la zia più vicina a Benno (l’unica parente ad essere andata a trovarlo in carcere dopo il suo arresto). Elisabetta ha raccontato il suo rapporto, spesso conflittuale, con la sorella Laura, criticandone apertamente il «carattere difficile». Ha anche affermato di non avere mai sospettato di Benno come responsabile del duplice delitto, almeno fino al momento del suo arresto, anche se quando lo incontrò alcuni giorni prima – quando erano in corso le ricerche di Laura e Peter - lei notò che suo nipote aveva degli «occhi da squalo: immobili e inespressivi, non trasmettevano alcuna emozione. Secondo me era, ed è ancora, un uomo disperato».
Luigi Ruggera per il corriere.it il 15 giugno 2022.
Circa un anno fa, nel luglio scorso, Benno Neumair cercò di strangolare un suo compagno di cella, un detenuto straniero del carcere di Bolzano, nel corso di un litigio per futili motivi. Per fortuna intervennero immediatamente le guardie carcerarie e la vicenda si risolse senza conseguenze per il detenuto aggredito.
Nei confronti di Benno, proprio a causa di quella vicenda, furono presi dei provvedimenti disciplinari da parte dell’amministrazione penitenziaria (in questi casi possono venire ad esempio limitate le ore d’aria), contro la quale gli avvocati di Benno avrebbero poi fatto ricorso al tribunale di sorveglianza.
Le udienze
Nelle prossime udienze del processo a carico di Benno - accusato dell’omicidio e dell’occultamento di cadavere dei suoi genitori, Laura e Peter - l’aneddoto potrebbe venire ripercorso proprio in aula. La grave aggressione, dalla modalità simile a quella dell’uccisione dei genitori da parte di Benno, potrebbe anche venire sfruttata dalla difesa come dimostrazione della presunta malattia mentale del giovane, che non sarebbe in grado di controllarsi al punto da reagire, in occasione di violenti litigi, mettendo le mani al collo di chi lo contraddice.
Proprio come fece il 4 gennaio del 2021 quando, in seguito ad un litigio con il padre Peter, Benno prese un cordino e lo strangolò. La circostanza del litigio con Peter, però, è priva di riscontri oggettivi, nel senso che è stata riferita solo dallo stesso imputato, ma la versione del delitto d’impeto non viene creduta né dalla Procura né dagli avvocati di parte civile, per i quali si trattò invece di un omicidio premeditato.
Anche per la psichiatra padovana Anna Palleschi, perito di parte civile che ha deposto martedì in aula durante l’udienza del processo, a Benno non sarebbe servito alcun presunto litigio per poter uccidere il padre.
«Disturbo narcisistico»
La perizia realizzata dalla consulente di parte civile non coincide con quella svolta dai tre periti nominati dal giudice per le indagini preliminari. Va ricordato che secondo questi ultimi, Benno sarebbe stato incapace di intendere e di volere in occasione del primo omicidio, quello ai danni del padre, in quanto il litigio tra i due avrebbe scatenato la furia omicida di Benno.
Secondo la psichiatra Palleschi, invece, Benno non avrebbe affatto agito in seguito ad un discontrollo degli impulsi, anzi: per lui l’uccisione sarebbe «un’azione di ritorsione, un tentativo disperato di prendere il controllo e proteggere la propria autostima». Benno sapeva, quindi, quello che faceva, secondo la consulente di parte civile.
«Benno ha un disturbo narcisistico di personalità - ha spiegato la psichiatra - ma che non incide sulla sua capacità di intendere e di volere. Lui era lucido quando uccise i genitori. Per molti sarebbe rassicurante pensare che chiunque commetta delitti efferati soffra sempre di disturbi mentali, ma non è così: può uccidere anche chi non ha delle patologie, come in questo caso. Anche nei test psichiatrici cui era stato sottoposto nella perizia, Benno dimostrò di controllare adeguatamente i propri impulsi».
Alla domanda se Benno sia socialmente pericoloso, la consulente ha risposto spiegando che «se non c’è un disturbo non c’è nemmeno pericolosità. Se questi due omicidi fossero l’espressione di un disturbo psichiatrico, ma così non è stato, allora Benno sarebbe pericoloso anche adesso, in primis per sua sorella».
Nessun pentimento
La psichiatra si è poi detta convinta che Benno non sia pentito: «Preoccuparsi delle conseguenze per gli altri delle sue azioni non fa parte del suo modo di stare al mondo. Lui pensa solo alle conseguenze per sé stesso, come si è notato anche durante la perizia quando dimostrava molta preoccupazione per il proprio futuro in carcere ma non per la morte dei genitori. È poi capace di simulare emozioni, pur di raggiungere uno scopo: in una circostanza riferì la falsa notizia del suicidio di una sua fidanzata, mostrandosi molto triste, ma era tutto falso e serviva solo ad ottenere un permesso dal lavoro».
In tal senso Benno potrebbe aver cercato di manipolare perfino i periti durante l’incidente probatorio, mostrandosi come una sorta di vittima di presunte ingiustizie nei suoi confronti in ambito familiare, e di avere poi perso il controllo. Infine, proprio ieri Laura Perselli, la madre uccisa da Benno, avrebbe compiuto 70 anni. «Ho pensato a lei tutta la notte» ha rivelato commossa la figlia Madè.
(ANSA il 18 maggio 2022) - "Benno è sempre stato pieno di buone intenzioni e poi c'è questa bestia in lui che lo fa andare così. Vediamo se si riesce con calma, per il suo bene, a metterlo in una comunità terapeutica". La voce è quella di Laura Perselli, in un messaggio vocale che aveva inviato nel luglio 2020 ad una sua amica. La donna è stata ascoltata come testimone in Corte d'Assise nel processo a Benno Neumair, il trentunenne bolzanino che il 4 gennaio 2021 aveva ucciso i genitori, Laura e Peter.
In aula sono stati fatti ascoltare i messaggi vocali che Laura Perselli aveva inviato all'amica spiegandole che Benno era stato ricoverato in psichiatria in Germania dopo aver inscenato una finta aggressione contro di lui. Nei messaggi vocali, Laura raccontava tutta la sua preoccupazione per le condizioni di salute mentale del figlio.
"Ho paura a vivere con un ragazzo così. Abbiamo nascosto i coltelli in casa" aveva aggiunto Laura. Nel corso dell'udienza sono state ascoltate, tra le altre, anche due testimonianze della scuola media in lingua tedesca di Bolzano, dove Benno lavorava come insegnante supplente di matematica. Una dirigente scolastica ha ricordato vari fatti dai quali emerge come Benno fosse un insegnante poco affidabile, anche in termini di puntualità. La seconda testimone, un'insegnate di sostegno, ha invece raccontato di aver subito un'aggressione verbale da parte di Benno, durante una lezione.
Benno Neumair, gli audio della madre a un’amica: «C’è una bestia in lui che lo fa impazzire». In udienza sono stati fatti ascoltare una serie di messaggi di Laura Perselli uccisa, insieme al marito, dal figlio: «Ho nascosto i coltelli in cucina e dormo con la camera chiusa a chiave». Andrea Pistore e Luigi Ruggera su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.
Nuova udienza in Corte d’Assise nel processo a Benno Neumair, il trentunenne bolzanino che il 4 gennaio 2021 ha ucciso i genitori (Laura Perselli e Peter Neumair) e si è sbarazzato dei corpi gettandoli nel fiume Adige. In aula sono stati fatti ascoltare diversi audio che la madre Laura Perselli ha spedito a un’amica nei mesi prima che lei e il marito fossero assassinati. Dai vocali si percepisce la situazione di tensione emotiva che il figlio provocava da tempo a entrambi i genitori.
Nessuna ambulanza
Nel primo si sente raccontare a Patricia (amica storica di Laura): «È (Benno, ndr) sempre stato pieno di buone intenzioni e poi c’è questa bestia in lui che lo fa andare così. Vediamo se si riesce con calma, per il suo bene, a metterlo in una comunità terapeutica. La diagnosi dei medici tedeschi è che soffre di schizofrenia paranoide con disturbo della personalità e aggressività. Avevo chiesto di mandarlo con un’ambulanza a Bolzano ma è impossibile, per loro deve andare per conto proprio. Cose folli, sarebbe da denunciarli» E ancora: «Io ho paura a vivere con un ragazzo così. Ho contattato il primario di psichiatria che è molto bravo e vediamo se si riesce con calma a convincerlo a metterlo in una comunità terapeutica. Siamo stanchi»
Va un po’ meglio
Perselli in un altro audio spiega che con il ritorno del figlio a casa (stava rientrando col padre dalla Germania) lei avrebbe preferito dormire chiusa a chiave in camera: «Abbiamo nascosto e messo via i coltelli ma se vuole una forbice in giro la trova». La donna in un altro audio racconta invece di presunti miglioramenti del figlio: «Direi che va meglio anche se ogni tanto ci sono delle brusche frenate. Poi riprende. Per la prima volta è Peter (il marito, ndr) che si sta occupando di Benno, ho scaricato tutto su di lui e sta facendo un ottimo lavoro. Prima ero solo io che raddrizzavo tutto».
Ci vorrebbe un esperto che lo aiuti
In un quarto messaggio la mamma del presunto omicida sembra più serena: «Ci sono momento in cui è difficile per noi, non si sa che pesci pigliare. Non si riesce spesso a gestire la situazione, c’è sempre qualche imprevisto. Indubbiamente sta meglio rispetto al mese di luglio però basta anche poco per destabilizzarlo: si arrabbia, si chiude in se stesso. Dice che vuole andarsene ma non si sa dove né a fare che cosa». Poi prosegue: «Vediamo in questi giorni, lavora intanto in una scuola media. Non ha ancora contattato la psichiatra che gli era stata assegnata. L’ha chiamata per disdire l’appuntamento dicendo che si sarebbe rifatto vivo. Ma poi non ha mai richiamato per fissarlo. Quando gli parliamo della psicoterapia, anzi, cerchiamo di non usare la parola terapia ma facciamo riferimento al coaching psicologico che potrebbe aiutarlo e Benno ci dice: “Sì lo so ma non adesso perché ho altre cose per la mente”. Questo è il senso della telefonata. Dove noi possiamo rivolgerci per avere un sostegno anche con un paio di incontri». Nel lungo messaggio la donna conclude: «Lo avevamo fatto 5 o 6 anni fa quando Benno era in piena crisi. Ci vorrebbe un esperto che aiuti Benno perché noi appena spingiamo un po’ lui si chiude e quindi evitiamo di parlarne. E quando gliene parliamo troviamo un muro. Dopo il primo colloquio in ospedale lui poi non è più andato».
«Triste sentire la voce di mamma»
La sorella di Benno, Madè, che sta assistendo a tutte le udienze del processo (a differenza di Benno, assente in aula) ha ascoltato i messaggi vocali di sua mamma Laura risuonare in aula, con la testa tra le mani, commossa. Al termine dell’udienza, Madè ha poi dichiarato: «Risentire la voce di mia mamma da un lato è stato bello, perché per un attimo mi è sembrato che lei fosse ancora viva. Ma d’altro lato è stato molto triste».
Benno Neumair, battaglia sulle perizie. «Era incapace quando uccise il padre». La sorella: no, non è vero. Bolzano, i periti incaricati dal gip sostengono che fosse lucido solo nel delitto della madre. Si salverebbe dall’ergastolo. Ma quelli della Procura dicono il contrario. Lo psichiatra: «Già a 7 anni la preside consigliò di farlo visitare da uno specialista». Luigi Ruggera su Il Corriere della Sera il 5 Maggio 2022.
Il destino di Benno Neumair dipenderà dalla perizia psichiatrica. Giovedì 5 maggio, in tribunale a Bolzano, nel corso di una nuova udienza del processo, i periti del gip e quelli della Procura sono arrivati a conclusioni diverse, dalle quali deriverebbero di conseguenza due differenti calcoli della pena: il trentunenne bolzanino che il 4 gennaio 2021 uccise i suoi genitori (Laura Perselli e Peter Neumair, i cui corpi vennero recuperati nel fiume Adige solo settimane dopo), otterrebbe una riduzione della pena nel caso in cui la Corte d’assise dovesse dar credito alle conclusioni dei periti che erano stati nominati dal giudice per le indagini preliminari. Secondo loro — si tratta dello psichiatra Edoardo Mancioppi, dello psicologo Marco Samory e della criminologa Isabella Merzagora — Benno sarebbe stato seminfermo di mente, anche se solo in occasione dell’omicidio della madre e non in quello del padre Peter. «C’era una patologia pregressa — spiega Mancioppi — questo è un dato incontrovertibile: i primi segnali avvengono quando, a soli 7 anni, il preside della scuola frequentata da Benno consigliò ai suoi genitori di farlo visitare da uno specialista.Il giorno del delitto poi c’è stato un “trigger” che ha scatenato quel litigio con il padre Peter».
La sorella Madè: «Perizia contraddittoria»
Questa conclusione è stata però contestata in aula sia dalla Procura che dagli avvocati di parte civile: hanno entrambi evidenziato come la circostanza del litigio tra Benno e suo padre Peter sia stata riferita solo dallo stesso imputato, e tra l’altro solo nel suo secondo interrogatorio mentre nel primo, quando confessò il duplice delitto in lacrime, non ne fece nemmeno menzione. A margine dell’udienza, anche la sorella di Benno, Madè, ha commentato: «L’esito di questa perizia mi ha stupito. Da un lato i periti credono a Benno quando racconta che ci sarebbe stato un improvviso litigio con nostro padre, scatenando la sua reazione omicida, ma poi gli stessi periti lo definiscono un mentitore seriale e quindi un testimone inattendibile». La stessa Madè aveva confidato di aver consigliato la madre di non andare in auto con lui e di avere paura del suo ritorno.
I consulenti della Procura: «Era capace di intendere e volere»
In aula oggi sono stati poi sentiti i consulenti della Procura: Ilaria Rossetto, medico psichiatra presso l’ospedale psichiatrico giudiziario di Padova, Stefano Zago, neuropsicologo dell’Università di Milano, e Renato Ariatti, neuropsicologo dell’Università di Bologna. Secondo i tre consulenti, Benno sarebbe stato capace di intendere e di volere in entrambi i delitti: se la Corte d’assise dovesse accogliere questa conclusione, Benno verrebbe condannato all’ergastolo. «Secondo noi è capace di intendere e di volere — sintetizza il professor Ariatti — perché i disturbi di personalità di Benno, che pure ci sono, non sono di una gravità tale da poter configurare una caduta della sua capacità di intendere e di inibire le sue pulsioni al punto tale da configurare un vizio di mente». Ilaria Rossetto sottolinea poi come sia, a loro avviso, impossibile che Benno fosse seminfermo di mente nell’uccidere il padre e perfettamente lucido nemmeno un’ora più tardi, quando strangolò la madre.
Il duplice omicidio
Il duplice omicidio avvenne il 4 gennaio 2021 quando Benno strangolò con un cordino, nella casa di famiglia, prima il padre Peter e poi la madre Laura, gettando infine i loro corpi nel fiume Adige. Per giorni negò depistando le indagini — chiese anche alla ex fidanzata di inventarsi una bugia — prima di crollare con gli indizi a suo carico che andavano ad accumularsi. Subito additato dalla sorella come possibile responsabile della sparizione dei genitori, Benno le aveva mandato un messaggio minaccioso.
IL PROCESSO. Benno Neumair, l’ex fidanzata lo accusa: «Mi chiese di dire che avevamo fumato marjiuana». Bolzano, le deposizioni in aula: le bugie e i depistaggi alle donne che frequentava quando uccise i genitori. Disse: «Non voglio essere accusato ingiustamente». Luigi Ruggera su Il Corriere della Sera il 19 Marzo 2022.
Un depistaggio dietro l’altro, una lunga serie di bugie alle donne che frequentava, un affannato quanto maldestro tentativo di nascondere le tracce del duplice delitto: il comportamento di Benno Neumair nelle ore e nei giorni immediatamente successivi a quel tragico pomeriggio del 4 gennaio, quando uccise i suoi genitori Laura e Peter e gettò i loro cadaveri nel fiume, è emerso ieri dalle parole dei primi testimoni che hanno iniziato a deporre in aula nel corso del processo davanti alla Corte d’assise.
La ex: «Mi disse di mentire ai carabinieri»
In mattinata, in particolare, è stata ascoltata la donna di Ora, Martina, con la quale Benno aveva una relazione proprio in quel periodo: fu proprio da lei che Benno si recò la sera stessa del delitto. La donna, in fase d’indagine, era stata inizialmente anche indagata con l’ipotesi di favoreggiamento ma poi venne scagionata, in quanto sarebbe stata all’oscuro del duplice delitto commesso da Benno. Ieri Martina ha svelato in aula che Benno, nei giorni successivi alla sparizione di Laura e Peter, la invitò a mentire agli inquirenti: «Se i carabinieri ti chiedono cosa abbiamo fatto la sera del 4 gennaio (quella del delitto, ndr), tu devi raccontare che noi abbiamo fumato insieme della marijuana» le disse Benno. La donna replicò che si trattava di una falsità e che non capiva perché avrebbe dovuto dire quella bugia agli inquirenti. Si trattava, evidentemente, di un primo tentativo di depistaggio da parte di Benno, che infatti in quei giorni raccontò agli inquirenti di essersi recato a ponte Roma per acquistare della droga leggera, mentre invece si scoprì che da quel punto aveva gettato nel fiume il cellulare di sua mamma Laura (altro depistaggio per far credere che la povera donna fossa sparita in quella zona). Martina ha anche ricordato che Benno, nei giorni precedenti, piangeva con lei al telefono, diceva di stare male in famiglia e di sentirsi meno amato rispetto a sua sorella. La notte del delitto, invece, sembrava più felice.
Le altre donne con cui ha avuto relazioni
Nel corso dell’udienza sono state raccolte le testimonianze anche delle altre due donne che Benno frequentava in quel periodo: prima la giovane Jasmin, che lui coinvolse nella pulizia ossessiva dell’abitazione dalle tracce dell’omicidio, riuscendo a convincerla che le macchie sul pavimento sarebbero state causate dal vomito del cane (erano invece alcune tracce biologiche delle due povere vittime). A Jasmin lui comunicò anche una parola in codice da usare in caso di necessità: olio di canapa. «Se ti scrivo questo in un messaggio — disse Benno alla ragazza — vieni al parcheggio della funivia del Colle, perché lì non ci sono telecamere e possiamo parlare. Non voglio venire accusato ingiustamente di omicidio». È stata poi sentita Daniela, che non esitò ad ospitare in casa Benno nonostante lui fosse già indagato e il suo appartamento sotto sequestro. «Lo avevo invitato a cena a casa mia e lui si presentò con un trolley, chiedendomi di poter restare alcuni giorni» ha spiegato ieri. E infatti Benno fu ospite della donna per una decina di giorni, fino all’arresto dell’uomo. Tutte le tre donne, in quel periodo, avevano una relazione con Benno.
I vicini
In aula è stata sentita anche l’estetista alla quale Benno si rivolse poco prima di venire arrestato: le chiese di sottoporsi ad un trattamento ai capelli. E le spiegò di avere urgenza, in quanto poi avrebbe dovuto trasferirsi, senza spiegarle a cosa si riferiva. Infine, sono stati sentiti i vicini di casa: Gabriele, l’inquilino al piano terra che incrociò Benno davanti a casa proprio la sera del delitto, notò che stranamente non si erano accese le luci del vialetto, nonostante i sensori automatici. Un’altra vicina, Jessica, ha invece spiegato che quel giorno dalla casa dei Neumair non sentì alcun litigio, nonostante lei riuscisse ad avvertire ogni rumore, in quanto la porta di casa sua non era ben isolata. Prossima udienza il 29 marzo.
Chiara Currò Dossi per corriere.it il 13 aprile 2022.
«Mi ha scritto un’e-mail, dicendo di aver capito perché fosse così malato: aveva il verme solitario, preso in Indonesia, che gli aveva pervaso il cervello. Allegando i risultati degli esami del sangue e il referto di una Tac, a nome di “Benedetto Perselli Neumair”. Quello, mi ha detto, era il suo vero nome». A parlare, davanti ai giudici della Corte d’Assise di Bolzano, è Nadine, infermiera di 33 anni ed ex fidanzata di Benno Neumair, il 31enne bolzanino che il 4 gennaio 2021 ha ucciso i genitori (Laura Perselli e Peter Neumair) e si è sbarazzato dei corpi gettandoli nel fiume Adige. Nadine ha raccontato dei sette mesi di convivenza, a Neu-Ulm, conclusi con il ricovero coatto in psichiatria di Benno.
La relazione nel 2019 e la crisi: «Mi rubò il bancomat»
Nadine e Benno si conoscono via Tinder, nel settembre del 2019. Tre mesi dopo, Benno, da Innsbruck, si trasferisce da lei. «Siamo stati bene le prime otto settimane. Poi, la nostra relazione si è incrinata». Cominciano gli sbalzi d’umore, i disturbi del sonno e quelli legati all’alimentazione. «A marzo ha digiunato per nove giorni. Beveva solo the e acqua. Poi mangiava solo broccoli e miglio». Finché Nadine non si accorge di strani movimenti di denaro sul suo conto corrente, di spese in un negozio di alimentari biologici fatte col suo bancomat. Benno dice di non saperne nulla, ma la donna trova, nascoste in soffitta, delle scorte di cibo: scatta la denuncia «contro ignoti», la lite, «ma alla fine abbiamo deciso di riprovarci».
I colpi autoinflitti e il ricovero coatto
Appena due giorni dopo, Benno le telefona, dicendo di essere stato aggredito da un amico di lei. Nadine chiama l’amico, che nega, e poi Laura, la madre di Benno. «Mi ha detto di non tornare a casa da sola, ma di chiamare la polizia e l’ambulanza. Io, però, sono tornata a casa da sola, parcheggiando la macchina in un posto auto che non era il mio, per avere la scusa di scendere a spostarla». Benno è in bagno, con un coltello «per sfilettare il pesce» in mano, all’altezza del viso, puntato verso l’alto. «Aveva delle ferite puntiformi in viso.
Era molto nervoso, continuava a dirmi di essere stato picchiato dal mio amico. Gli ho fatto credere che gli credessi, l’ho fatto parlare. Ho portato il coltello in cucina, ci siamo seduti sul pavimento e gli ho fatto delle foto. Gli ho detto sarebbero servite per sporgere denuncia per l’aggressione. Mi ha lasciato fare e dopo un po’ sì è calmato. A quel punto, gli ho detto che dovevo spostare la macchina perché l’avevo parcheggiata male. Lui ha controllato dal balcone e mi ha lasciata scendere». Nadine richiama Laura Perselli e poi la polizia che arriva con un’unità speciale: Benno viene sottoposto a un ricovero coatto in psichiatria. «Lì, ammette ai medici come si è procurato le ferite. Si è prelevato del sangue, iniettandoselo nell’angolo dell’occhio e della bocca, abradendosi la pelle con carta smerigliatrice».
La paura e il ritorno a casa
Il giorno dopo la donna viene avvisata delle dimissioni imminenti di Benno. «Ho telefonato a Laura, chiedendo che venissero a prenderlo. Che non mi sarei mai messa in macchina con lui perché avevo paura. Mi ha detto che anche lei ne aveva, e ne aveva anche per Madè. Allora ho organizzato a Benno un viaggio in treno fino a Innsbruck, dove sarebbe andato a prenderlo Peter. L’ho fatto salire su un taxi, io l’ho seguito in macchina fino in stazione.
Lì c’era molta gente, mi sentivo sicura. Abbiamo aspettato il treno, ma a tre minuti alla partenza Benno ha iniziato a urlare, minacciandomi che non avrei potuto dormire con la finestra aperta. Era già successo che fosse entrato in casa così, una volta che aveva dimenticato le chiavi». Il viaggio è un tormento. Benno tempesta Nadine di telefonate «attribuendo a me la colpa di tutto e, parallelamente, chiedendomi scusa». I contatti continuano anche nei mesi successivi, nonostante i tentativi di Nadine di chiuderli. Fino alla mail del 28 luglio, nella quale parla del verme solitario e annuncia di aver deciso di sottoporsi a delle cure.
«Ho paura di lui»
Il 15 gennaio, a undici giorni dall’omicidio dei genitori, l’ultimo contatto: Benno manda una mail a Nadine. «Mi ha chiesto di telefonargli, gli ho detto che volevo avere contatti solo via e-mail. Avevo dato il mio nuovo numero solo a Laura: lui mi ha detto di averlo, ma che non mi avrebbe chiamata solo come gesto di gentilezza nei miei confronti. Adesso ho paura di lui».
Uccise i genitori, processo a Benno Neumair. La sorella Madè: “È un bugiardo seriale”. La Stampa il 5 aprile 2022.
«Benno ha sempre raccontato bugie, sin da bambino: è un tratto del suo carattere. In famiglia lo sapevamo tutti. E purtroppo ho capito che mi stava mentendo anche subito dopo la sparizione dei nostri genitori, il 4 gennaio. Ma lui negava, diceva che non dovevo prendermela con lui, sostenendo che non sapeva cos'era successo ai nostri genitori e che lui non c'entrava nulla». Madè Neumair, sorella del trentunenne accusato del duplice omicidio e dell'occultamento dei cadaveri di Laura e Peter, è stata ieri la principale testimone dell'udienza davanti alla Corte d'assise di Bolzano, alla presenza dello stesso fratello, imputato reo confesso, che lei ha cercato di non guardare mai in faccia. Durante la sua lunga testimonianza Madè ha risposto alle domande dei pm, ma dovrà tornare in aula il 12 aprile per rispondere anche a quelle della difesa e del suo stesso avvocato di parte civile. All'inizio della testimonianza, il giudice Carlo Busato le ha chiesto se volesse un separé per separarla da Benno, seduto a pochi metri di distanza. La giovane donna, che lavora come medico a Monaco di Baviera, ha però spiegato che non era necessario ed ha poi risposto, con calma e dovizia di particolari, a tutte le domande dei sostituti procuratori. In particolare, ha spiegato che suo padre Peter era una persona molto mite, che evitava i litigi, al punto che alcuni parenti lo avevano soprannominato "il mansueto biologo". Una descrizione che contrasta con quella fornita da Benno nella sua confessione, nella quale sostiene che sarebbe stato proprio suo padre Peter ad innescare un litigio con Benno, che reagì uccidendolo. Nel corso dell'udienza sono state fatte sentire le registrazioni delle telefonate tra Madè e Benno prima della confessione di quest'ultimo: lei registrava le telefonate proprio perché sospettava di lui. Benno reagiva addirittura colpevolizzandola: «Sono triste - disse Benno a Madè in un messaggio vocale fatto sentire in aula - perché non posso contare su mia sorella e il tuo atteggiamento non ci aiuta a trovare mamma e papà. Faresti meglio a pensare cosa può essere successo ai nostri genitori, a cercare la verità. Il tuo atteggiamento invece sparge solo fango. Pensaci bene a come mi tratti».
Benno Neumair raccontato dalla sorella Madé, al processo: «Continue bugie fin dall’infanzia, scatti d’ira, ricoveri in psichiatria». Silvia Senette su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2022.
Il processo per il delitto dei coniugi Neumair: ascoltati gli audio dei colloqui dei figli dopo la scomparsa dei genitori. Udienza aggiornata alla prossima settimana.
Mai uno sguardo. Nelle tre ore di udienza in cui, ha dovuto ricostruire le ultime ore di vita dei genitori, le parole scambiate al telefono con la madre poco prima che fosse assassinata, il panico seguito alla doppia scomparsa e le settimane in cui l’angoscia per Laura e Peter conviveva con la paura di un fratello ancora a piede libero che mentiva di continuo, Madé Neumair non ha mai ceduto alla tentazione di guardare Benno negli occhi. Eppure, per l’intera durata dell’audizione, la giovane donna ha ripetuto infinite volte il nome del fratello, seduto a un paio di metri da lei, stretto tra i suoi due avvocati difensori e gli agenti di polizia penitenziaria che lo hanno in custodia da 14 mesi. Da quel 29 gennaio 2021 in cui il trentenne bolzanino è stato arrestato con l’accusa del duplice omicidio e dell’occultamento dei due cadaveri di Laura Perselli e Peter Neumair, strangolati e gettati nelle acque gelide dell’Adige la notte del 4 gennaio, fratello e sorella non hanno più avuto contatti. «Mi fa sentire più tranquilla non interagire con lui — ammetterà Madé al termine della deposizione —. Anche perché ho smesso di sperare in un gesto di pentimento da parte sua».
E infatti Benno non cede. Lo sguardo è come assente, sotto gli zoom delle telecamere: non c’è reazione mentre per ore si parla in sua presenza di lui, dei suoi «immotivati scatti d’ira», delle «continue bugie fin dall’infanzia», dei «tentativi di depistaggio», dei suoi «rapporti burrascosi» con la madre, della sua disinvoltura nel «somministrarsi sostanze dopanti» o dei «ricoveri in psichiatria dopo aver simulato aggressioni mai avvenute». Nessun cenno di stizza o di sorpresa neppure quanto, incalzata dai pm Federica Iovene e Igor Secco, Madé commenta gli audio di conversazioni con il fratello che lei stessa ha registrato a sua insaputa e che, in aula, prendono in contropiede anche la difesa. Già il 10 gennaio 2021, quando da cinque giorni non si avevano notizie di Laura e Peter, Madé è talmente convinta che Benno stia fingendo per mascherare la sua colpevolezza da decidere spontaneamente di aiutare gli inquirenti documentando ogni scambio con lui. Telefonate, il messaggio vocale che lui le invia al termine del loro primo incontro nella casa di via Castel Roncolo in cui è avvenuto il duplice delitto, persino un’intercettazione ambientale che, con il cellulare nascosto in tasca, la ragazza ha registrato a insaputa del fratello.
In aula risuonano le parole tra i due, nei giorni in cui Madé cerca ostinatamente la verità e Benno tenta maldestramente di nasconderla. «Se gli hanno fatto qualcosa prima o poi li trovano — dichiara candidamente Benno solo cinque giorni dopo aver ucciso i genitori —. Adesso è inverno, fa freddo e se li trovano sono congelati, preservati». «Scusa, posso chiederti una cosa della mamma e del papà? — esordisce Benno in una seconda telefonata — Secondo te sono nel fiume?». «No, non penso», risponde lei. «Anch’io non penso, avrebbero trovato qualche indizio», conclude Benno rassicurato.
Il compassato parricida e matricida perde però le staffe quando, in preda a quella che la sorella definisce «una crisi isterica senza lacrime», la accusa di nutrire sospetti nei suoi confronti e la invita a «cambiare atteggiamento» e ad abbandonare «modi che non aiutano a trovare la verità ma anzi, ci mettono su un po’ di fango». «Io non ho niente a che vedere con questa storia — spergiura —. Tutti vogliono sapere la verità, ma io te lo dico per l’ultima volta: non c’entra la verità con i rapporti tra me e te». Madé, allora, gli chiede di giurare la sua estraneità ai fatti. «Prometti che non sai cos’è successo a mamma e papà?», chiede disperata. «Io ti prometto che non ho nessuna idea, neanche la più piccola», giura Benno. Terminata l’audizione, l’udienza è stata riaggiornata. Madé tornerà in aula martedì, questa volta per rispondere alle domande dei suoi avvocati e di quelli della difesa.
· Il mistero del delitto di via Poma.
Estratto dell’articolo di Giacomo Galanti per “la Repubblica - Edizione Roma” il 6 dicembre 2022.
«Nell'ufficio degli Ostelli c'è una persona deceduta». Dopo più di 32 anni un'intercettazione perduta getta una nuova ombra sul delitto di via Poma. Più di una persona, infatti, tra il pomeriggio e la sera del 7 agosto 1990, sapeva che la ventenne segretaria Simonetta Cesaroni era stata uccisa con 29 coltellate nell'ufficio degli Ostelli dove lavorava. Ore prima della scoperta ufficiale del cadavere. A scriverlo, in una relazione di 32 pagine sul caso firmata e proposta dalla deputata Stefania Ascari, è la Commissione Antimafia.
A cambiare la storia del celebre giallo romano ancora irrisolto è una conversazione rimasta inedita fino a oggi e risalente al 30 marzo 2008. Epoca dell'inchiesta che porterà al processo contro l'ex fidanzato di Simonetta, Raniero Busco. […]
A essere intercettati sono la moglie di Mario Macinati - factotum del controverso avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, presidente regionale degli Ostelli e datore di lavoro della vittima - e suo figlio Giuseppe. L'avvocato era nella sua tenuta fuori Roma, a Tarano, e per essere contattato aveva lasciato il numero di Macinati. Nell'intercettazione la moglie di Macinati dice di aver ricevuto il giorno del delitto «non una, ma più telefonate» da un uomo che diceva di chiamare «dagli ostelli».
La prima volta questa persona chiede di «mettersi in contatto con Caracciolo», in una seconda telefonata, la voce al telefono fa espressa menzione della notizia «di una persona deceduta». Ci sarebbe poi una terza telefonata dello stesso tenore. Per la Commissione è certo «che la notizia poteva essere fornita soltanto da una persona che si fosse introdotta nell'appartamento scoprendo il cadavere e che avesse deliberatamente deciso di non dare l'allarme e rendere noto il fatto alle forze dell'ordine, ma di informare per primo il Caracciolo».
Inoltre, dopo l'esame di nuovi elementi portati dalla famiglia Cesaroni e dallo scrittore Igor Patruno, per la Commissione «la persona che originariamente scoprì il cadavere non può che essere stato proprio Vanacore». Ovvero il portiere di via Poma che si tolse la vita pochi giorni prima di andare a testimoniare al processo contro l'ex di Simonetta.
Ma c'è di più. Il figlio del factotum di Caracciolo, Giuseppe Macinati, ha affermato di recente che quelle telefonate non arrivarono tra le 20 e le 23, ma nel tardo pomeriggio. E si è detto pronto a collaborare anche «in sedi diverse». […] Materiale che verrà girato alla Procura di Roma che ha aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio volontario.
"Ecco chi sapeva della sua morte". Mistero di via Poma, un’intercettazione riapre il caso sull’omicidio di Simonetta Cesaroni. Riccardo Annibali su Il Riformista il 6 Dicembre 2022
Una relazione di 32 pagine, a 32 anni dalla morte di Simonetta Cesaroni, riapre il caso del delitto di via Poma. In un’intercettazione perduta più di una persona, tra il pomeriggio e la sera del 7 agosto 1990, sapeva che la ventenne segretaria Simonetta Cesaroni era stata uccisa con 29 coltellate nell’ufficio degli Ostelli dove lavorava. Diverse ore prima della scoperta ufficiale del cadavere. A firmare il rapporto proposto dalla deputata Stefania Ascari, è stata la commissione Antimafia.
La conversazione rimasta inedita fino ad oggi e risalente al 30 marzo 2008, potrebbe cambiare le carte in tavola del celebre giallo romano. Per la Commissione “costituisce il definitivo suggello circa l’intervento, nell’appartamento teatro del delitto, di una o più persone, nei momenti o nelle ore successive alla consumazione del crimine”.
“Nell’ufficio degli Ostelli c’è una persona deceduta”. A essere intercettati sono la moglie di Mario Macinati – factotum del controverso avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, presidente regionale degli Ostelli e datore di lavoro della vittima – e suo figlio Giuseppe. L’avvocato era nella sua tenuta fuori Roma, a Tarano, e per essere contattato aveva lasciato il numero di Macinati. Nell’intercettazione la moglie di Macinati dice di aver ricevuto il giorno del delitto “non una, ma più telefonate” da un uomo che diceva di chiamare “dagli ostelli”. La prima volta questa persona chiede “di mettersi in contatto con Caracciolo”, in una seconda telefonata, la voce al telefono fa espressa menzione della notizia “di una persona deceduta””. Ci sarebbe poi anche una terza telefonata.
La notizia, secondo la relazione della Commissione, “poteva essere fornita soltanto da una persona che si fosse introdotta nell’appartamento scoprendo il cadavere e che avesse deliberatamente deciso di non dare l’allarme e rendere noto il fatto alle forze dell’ordine, ma di informare per primo il Caracciolo”. La persona che originariamente scoprì il cadavere, quindi, “non può che essere stato proprio Pietrino Vanacore“, il portiere dello stabile di via Poma che si tolse la vita pochi giorni prima di andare a testimoniare al processo contro l’ex di Simonetta.
Quelle telefonate, come ha affermato recentemente il figlio del factotum di Caracciolo, Giuseppe Macinati che si è detto pronto a collaborare anche “in sedi diverse”, “non arrivarono tra le 20 e le 23, ma nel tardo pomeriggio”. Dalla relazione emergerebbero pressioni e depistaggi per indirizzare l’inchiesta su Vanacore fino allo sviamento messo in atto da Roland Voller contro Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare Valle e unico presente in quell’ala dello stabile, dove risiedeva, la sera dell’omicidio.
Vi fu un’attività “post delictum, intesa ad occultare il fatto omicidiario o quantomeno a differirne la scoperta, oppure persino ad attuare un qualche proposito di spostamento della salma dal luogo in cui fu poi rinvenuta”. È quanto si legge nelle risultanze dell’attività di indagine e acquisizione documentale svolta nella scorsa legislatura. Nell’atto si afferma, inoltre, che “resta ragionevole credere che l’omicida fu persona che aveva un notevole livello di dimestichezza con lo stabile, se non proprio con l’appartamento. Si deve essere trattato di persona che poteva contare su un rapporto di confidenza con la vittima o che era in grado di approfittare della fiducia di Simonetta o quantomeno, in via subordinata, di non indurla in sospetto o in allarme, trovandosi a tu per tu, in situazione di isolamento”.
Per la Commissione “rimane estremamente probabile che l’omicida sia di gruppo sanguigno A, perché sarebbe altrimenti poco spiegabile che a tale gruppo sanguigno debbano essere ricondotte le macchie ematiche rinvenute su interno, esterno e maniglia della porta della stanza dove venne ritrovato il cadavere”. Delle molte ipotesi “avanzate per spiegare questa risultanza degli esami sui reperti ematici, tutte comunque risultano conducenti nell’identificare il sangue repertato nell’appartamento come quello dell’omicida, magari anche frammisto a quello della vittima. Appare altamente probabile che l’aggressore si sia ferito nella colluttazione e nella ancor più feroce e violenta dinamica omicidiaria”.
Tra i vari spunti che l’Antimafia offre agli inquirenti c’è anche quello legato al colpo al caveau del Tribunale di Roma nel luglio del 1999 compiuto, tra gli altri, dall’ex Nar Massimo Carminati. “Delle 900 cassette di sicurezza presenti nel caveau della banca ne vennero aperte soltanto 147, a riprova dell’interesse non tanto per i valori contenuti, ma per i documenti ivi conservati. Una delle cassette il cui contenuto fu sottratto era intestata proprio a Francesco Caracciolo di Sarno”, ora deceduto. Che tra le 147 persone “che furono oggetto mirato del furto del caveau a Piazzale Clodio, vi fosse, quale titolare di una cassetta di sicurezza, proprio Francesco Caracciolo di Sarno, è un fatto che, se da un lato rende utile tentare di accertare quale fosse il contenuto sottratto da Carminati, dall’altro, induce a ritenere che Caracciolo di Sarno avesse un ruolo di potere ed una riserva di influenza tutt’altro che trascurabili quando, nel 1990, fu perpetrato il tragico delitto di Simonetta Cesaroni”.
Stefania Ascari, deputata M5s e prima firmataria della relazione, ha commentato: “Nel lavoro svolto dall’Antimafia in questi ultimi mesi sono emerse troppe ombre riguardo il delitto di Simonetta Cesaroni. Quindi non ci si può fermare adesso ed è necessaria una commissione d’inchiesta sul caso”. Riccardo Annibali
Giacomo Galanti per “la Repubblica – Roma” il 9 settembre 2022.
Nuovi sospetti, alibi falsi, orari che cambiano e un'intervista televisiva a un misterioso professionista che getta l'ennesima ombra sulle vecchie indagini. È quanto emerge a proposito del giallo di via Poma nella relazione finale della commissione Antimafia approvata all'unanimità. E tra i tanti misteri italiani passati sotto la lente d'ingrandimento dei parlamentari riuniti a Palazzo San Macuto, ci sono anche una ventina di pagine sull'omicidio di Simonetta Cesaroni: la ventenne segretaria romana uccisa con 29 coltellate il 7 agosto 1990 nell'ufficio regionale degli Ostelli della gioventù (Aiag) in via Poma 2.
L'obiettivo dell'Antimafia è fornire alla Procura di Roma, che ha aperto pochi mesi fa un fascicolo contro ignoti per omicidio volontario, nuovi spunti investigativi per provare a trovare il colpevole. Dopo aver ascoltato, con il coordinamento della deputata Stefania Ascari, la sorella della vittima, Paola Cesaroni, l'avvocato della famiglia, Federica Mondani e lo scrittore Igor Patruno, a Palazzo San Macuto si è giunti ad alcune importanti conclusioni. Conclusioni che mettono in luce alcuni elementi rimasti nell'ombra e lontani dai tre grandi sospettati di questa vicenda: Pietrino Vanacore, Federico Valle e Raniero Busco.
Nella sua relazione la commissione sottolinea che l'assassino è da ricercare tra chi « aveva la possibilità di ottenere un comodo punto di appoggio nel palazzo o in aree limitrofe, tanto da trovarvi riparo immediatamente dopo il delitto e verosimilmente » un soggetto «di gruppo sanguigno di tipo A» . E a proposito di questo profilo, nella relazione si fa sapere che è stata acquisita « l'integrale di una puntata dedicata, dalla nota trasmissione televisiva Chi l'ha visto?, al caso di Via Poma». La puntata è stata caratterizzata da un'intervista piuttosto significativa ad una persona che dice inoltre di avere sangue di gruppo A positivo.
Un altro nodo importante sul giorno del delitto è quello di una serie di telefonate che fino a oggi hanno sempre posizionato la morte di Simonetta dopo le 17.30. Ora, alla luce del lavoro svolto dalla Commissione, le dinamiche sembrano cambiare e adesso le telefonate, attraverso una nuova testimonianza, sono da spostare a prima, a meta pomeriggio. Si è sempre sospettato, anche durante il processo Busco, che le telefonate fossero state fatte da una persona ( i sospetti principali erano sul portiere Pietrino Vanacore) che, scoperto il cadavere prima del ritrovamento ufficiale, invece di avvertire la polizia " preferì chiedere istruzioni al presidente dell'Aiag piuttosto che dare subito l'allarme". Fino a oggi quelle due telefonate sono sempre state collocate intorno alle 20 e alle 23.
Delitto di via Poma, Simonetta Cesaroni e il mistero mai risolto delle 29 coltellate. Laura Martellini su Il Corriere della Sera il 7 Agosto 2022.
Il fidanzato Raniero Busco condannato nel 2011, in primo grado, a 24 anni di reclusione, e assolto nel processo di appello. La Cassazione confermò l’assoluzione nel 2014. La Procura di Roma ha avviato un nuovo procedimento dopo una nuova denuncia dei familiari di Simonetta
Il 7 agosto 1990 la morte di Simonetta: il cadavere fu trovato dalla sorella
Simonetta Cesaroni, 20 anni, era segretaria presso l’Associazione italiana alberghi della gioventù). Fu trovata senza vita, con numerose ferite di arma da taglio su tutto il corpo, all’interno di uno stabile in via Carlo Poma 2, a Prati, dove faceva la contabile, il 7 agosto 1990. L’ultimo contatto di quel giorno risale alle 17.30, quando effettuò una telefonata a Luigia Berrettini. Alle 18.30 avrebbe dovuto chiamare il proprio datore di lavoro, Salvatore Volponi, ma la telefonata non fu mai effettuata. I familiari cominciarono a cercarla intorno alle 21.30. La sorella Paola con il suo compagno, accompagnati da Volponi, si recarono nell’ufficio di via Poma. Chiesero alla moglie del portiere Pietrino Vanacore di farsi aprire la porta e trovarono il cadavere alle 23.30.
Colpita con ventinove colpi di arma da taglio, forse un tagliacarte
Già al ritrovamento del cadavere emergono elementi che si riveleranno poi importanti nel processo, ma non tali da portare a una soluzione. Il corpo presentava molti segni di arma da taglio, e un morso su un capezzolo. La donna fu colpita 29 volte, in diverse parti, probabilmente con un tagliacarte. Alcuni indumenti e gioielli erano stati portati via: Simonetta era nuda, con il reggiseno allacciato ma calato sul torace e il top appoggiato sul ventre. Al polso le era rimasto l’orologio. Ai piedi i calzini bianchi corti. Le scarpe da ginnastica erano riposte ordinatamente vicino alla porta. Le chiavi dell’ufficio, che aveva nella borsa, non furono mai più ritrovate.
Pietrino Vanacore, da indagato a suicida «per 20 anni di sospetti»
Fra i primi indiziati del delitto fu il portiere dello stabile di via Poma, Pietrino Vanacore, che trascorse solo 26 giorni in carcere: il suo avvocato riuscì a farlo scagionare per l’assenza di tracce del suo Dna nel sangue ritrovato sulla maniglia della porta della stanza dove fu rinvenuto il corpo di Simonetta. Altre ombre pesavano sul portiere: la sua assenza dal cortile dello stabile nell’orario in cui si sarebbe compiuto il delitto (tra le 17.30 e le 18.30). Alle 22.30 Vanacore si recò a casa dell’architetto Cesare Valle, l’unico presente nella scala B del condominio di via Poma oltre a Simonetta. Nessun altro estraneo fu visto entrare o uscire dallo stabile. Il 26 aprile 1991 le accuse contro Vanacore e altre cinque persone indiziate sono state archiviate. Nel 1995 la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’appello di Roma di non rinviarlo a giudizio per favoreggiamento. Vanacore fu poi coinvolto in una seconda indagine, tesa a capire se qualcuno si fosse introdotto nello studio, inquinando le prove. Il 9 marzo 2010 Vanacore si è suicidato, annegato con indosso un cartello («20 anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio») tre giorni prima di deporre in tribunale al processo a carico del fidanzato di Simonetta, ha visto imputato Raniero Busco.
Il fidanzato Raniero Busco condannato a 24 anni nel 2011, assolto l’anno dopo
Nel gennaio 2007 il colpo di scena: il Ris di Parma trova una corrispondenza fra le tracce di Dna riconducibili a Raniero Busco, fidanzato all’epoca di Simonetta, e reperti biologici rinvenuti sul corpo della vittima. Le tracce di saliva trovate sul corpetto e sul reggiseno in quel maledetto giorno corrispondevano al Dna di Busco. Il suo profilo genetico emerse sei volte su corpetto e reggiseno. Egli fu quindi ufficialmente indiziato per il delitto. Nel settembre 2007 venne iscritto nel registro degli indagati, con l’ipotesi di omicidio volontario. Sul sangue presente sulla porta dell’ufficio, appartenente a Simonetta ma anche all’assassino, vennero isolate inoltre otto sequenze coincidenti con il Dna di Busco misto a quello della ragazza. Rinviato a giudizio, il meccanico Alitalia venne condannato nel 2011, in primo grado, a 24 anni di reclusione. Nel processo di appello, concluso un anno dopo, fu invece assolto. Una sentenza confermata dalla Cassazione nel 2014. «Vi è una mancanza di prova che fa cadere la certezza della presenza dell’imputato sul luogo del delitto al momento del suo compiersi» è scritto nelle motivazioni della suprema corte. In particolare si sottolineano i dubbi sulle tracce di Dna e sulla compatibilità del morso, riferibile anche ad altre conformazioni della bocca.
Gli indagati della prima ora: Federico Valle
Tra gli indagati per l’omicidio anche Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare Valle unico presente in quell’ala dello stabile, dove risiedeva, la sera dell’omicidio. Entrò nelle indagini a causa di una testimonianza fornita dall’austriaco Roland Voller, che riferì di essere entrato in contatto con Giuliana Valle, ex moglie di Raniero, il figlio dell’architetto. Giuliana avrebbe rivelato a Voller che suo figlio Federico, in quel tragico 7 agosto 1990, sarebbe tornato a casa sporco di sangue. Il movente dell’omicidio sarebbe consistito nella gelosia di Federico per la presunta relazione amorosa tra suo padre e la vittima. Ma l’austriaco non venne ritenuto attendibile. E da una perizia svolta sul corpo di Federico Valle fu esclusa la presenza di cicatrici o altri eventuali segni di colluttazione con Simonetta. Il 16 giugno 1993 il gip prosciolse Valle per non aver commesso il fatto.
Gli indagati della prima ora: il datore di lavoro, Salvatore Volponi
Tra gli indagati per l’omicidio, nei primi mesi dopo la morte di Simonetta Cesaroni, c’era anche Salvatore Volponi, il suo datore di lavoro, la cui posizione fu però chiarita dopo alcuni mesi. Il gruppo sanguigno del commercialista, infatti, risultò diverso da quello appartenente alla persona, quasi sicuramente l’ assassino, che il 7 agosto scorso aveva lasciato alcune tracce sulla porta della stanza dell’ appartamento di via Poma dove fu assassinata Simonetta Cesaroni. Quelle tracce rispondevano al gruppo A Rh, quello di Volponi era diverso. A fornire la prova liberatoria al magistrato i difensori di Volponi, gli avvocati Giuseppe Gianzi e Riccardo Olivo.
La riapertura delle indagini
Indagini, processi e un infinito numero di piste investigative non sono riusciti a dare un nome a chi uccise l’allora ventenne Simonetta. Ora la Procura di Roma ci sta riprova con un nuovo procedimento avviato da qualche mese, dopo una denuncia presentata dai familiari della ragazza. Il fascicolo in una prima fase è stato aperto come modello 45, ossia senza indagati o ipotesi di reato, poi è stato incardinato contro ignoti per omicidio volontario. Sono state svolte una serie di audizioni dalle forze dell’ordine a cui i pm di piazzale Clodio hanno affidato le indagini. Ad essere ascoltate anche persone entrate in contatto, in passato, con personaggi lambiti della indagini. Al centro degli accertamenti un sospettato che già all’epoca finì nel mirino. Al momento però non sarebbe emerso nulla di nuovo e rilevante. . Chi indaga ha ascoltato anche l’allora dirigente della Squadra Mobile, Antonio Del Greco, mentre è aperta un’istruttoria per depistaggi presso la commissione parlamentare antimafia.
Via Poma
Intanto, a 32 anni al delitto, il Campidoglio «su proposta del consigliere Antonio Stampete ha deciso di intitolare a Simonetta Cesaroni una strada: largo Gancia. Un luogo chiave di questa assurda storia». È quanto annuncia il parlamentare del Pd, Roberto Morassut proprio nel giorno della ricorrenza. Largo Gancia è a poche centinaia di metri dal luogo dove venne trovata uccisa la 21enne romana. «Il 7 agosto del 1990, nelle prime ore del pomeriggio, fu uccisa Simonetta negli uffici dell’Aiag di Via Carlo Poma - scrive in un post Morassut -. Un femminicidio sulle cui indagini vi furono troppi errori e evidenti depistaggi. Per questo ho proposto che il Parlamento se ne occupasse con una commissione d’inchiesta. In quell’ufficio o in quel palazzo c’era qualcosa che doveva restare coperto o qualcuno che doveva restare fuori dai riflettori. Forse a distanza di tanti anni qualche nuovo documento e nuovi approfondimenti del giornalista e scrittore Igor Patruno consentono di tornare indietro nel tempo e rileggere meglio quella vicenda».
Via Poma, una nuova indagine 32 anni dopo. Verifiche sugli alibi e sull'orario della morte. La commissione antimafia esamina le indagini. Un fascicolo in Procura. Stefano Vladovich il 7 Agosto 2022 su Il Giornale.
Roma. Via Poma: 32 anni senza un colpevole. Adesso la Commissione parlamentare antimafia vuole acquisire gli elementi trascurati da chi indagava, mentre la Procura di Roma apre un nuovo fascicolo, contro ignoti, per omicidio volontario. Un atto necessario per ascoltare nuovi e vecchi testimoni. Fra questi l'allora capo della squadra mobile, Antonio Del Greco, che si era presentato a piazzale Clodio con nuove prove su un vecchio sospetto. È il terzo uomo, dopo le accuse cadute nel vuoto a Pietro Vanacore, il portiere dello stabile nel quartiere Prati dove viene assassinata Simonetta Cesaroni, e Raniero Busco, il fidanzato della vittima assolto in secondo e terzo grado. Una donna smentirebbe l'alibi fornito a suo tempo dal personaggio misterioso il cui ruolo era stato archiviato.
Ma da marzo, quando Del Greco si presenta in Procura, a oggi i magistrati non avrebbero trovato elementi utili per credere al nuovo teste. Si riparte da zero? Non si direbbe stando ad altri indizi, tutti basati sugli orari messi agli atti e che oggi risulterebbero «sballati». A cominciare dall'ora della morte, tra le 17,30 e le 18,30 di quel maledetto pomeriggio del 7 agosto 90, quando la Cesaroni viene uccisa con 29 coltellate. Finora le indagini ruotavano su un punto fermo: alle 17,15 Simonetta riceve una telefonata. Alle 17,30 è ancora viva per la polizia e, probabilmente, non è sola in ufficio. Con lei c'è il suo assassino. Una persona conosciuta dalla donna, che vuole violentarla ma non ci riesce, la immobilizza e la massacra di coltellate.
Gli orari che non quadrano sono anche la condanna per Pierino Vanacore, costretto al suicidio nel 2010, nonostante fosse stato da tempo scagionato. È la prima vittima del giallo, dopo la Cesaroni. Vanacore non era assieme agli altri portieri nel cortile dell'edificio fra le 17,30 e le 18,30, l'ora che si crede del delitto. Alle 17,25, poco prima, l'uomo era in una ferramenta vicina ad acquistare una smerigliatrice, un frullino. La sera Vanacore è a casa dell'architetto Valle: Vanacore sostiene alle 22,30, Valle alle 23. Uno scarto che alimenta i sospetti della polizia. La scientifica, inoltre, trova nei suoi calzoni tracce di sangue e senza attendere l'esame di laboratorio lo ammanetta. È lui l'assassino di Simonetta, almeno è quello che credono gli uomini di Del Greco. Vanacore trascorre 26 giorni in carcere prima di essere scagionato. Il sangue è il suo, soffriva di emorroidi, e sui suoi vestiti, indossati per tre giorni di seguito, non c'è il Dna della Cesaroni.
Trentadue anni di indagini, errori giudiziari a valanga (l'arma del delitto non venne mai trovata perché non si svuotarono i cassonetti della spazzatura), decine di piste per quello che passerà alla storia come il delitto perfetto. Un caso in cui si intrecciano trame oscure, servizi deviati e criminalità organizzata, come la Banda della Magliana. Dentro la società che lavorava con l'Associazione Alberghi della Gioventù le prove di favori fatti alla banda di Abbatino con il benestare del Vaticano e la complicità dei servizi segreti che avrebbero avuto una sede nello stesso edificio. Documenti mai trovati.
C'è poi il depistaggio di un informatore austriaco, un oscuro personaggio, Roland Voller, che accusa del delitto Federico Valle, nipote dell'architetto. Lo scenario più accattivante? L'intreccio di affari illeciti scoperti dalla Cesaroni dei servizi, affari sporchi connessi con programmi di cooperazione e sviluppo della Somalia. Tanto da mettere in collegamento la sua morte con il suicidio nel '95 del colonnello del Sismi Mario Ferraro.
Delitto di via Poma, l'ultimo mistero: la serratura fu cambiata con l'ufficio sotto sequestro. Giacomo Galanti su La Repubblica il 28 Luglio 2022.
Le anomalie nell'omicidio di Simonetta Cesaroni. Ora la commissione Antimafia ha aperto un'istruttoria sul caso.
La serratura è stata cambiata pochi giorni dopo il delitto. Con tutta probabilità quando l'ufficio regionale degli Ostelli di via Poma era ancora sotto sequestro. Al suo interno, il 7 agosto 1990, era stata uccisa la giovane segretaria Simonetta Cesaroni. E anche su questa anomalia la commissione Antimafia, che ha aperto un'istruttoria sul caso, vuole vederci chiaro.
Giacomo Galanti per la Repubblica il 15 luglio 2022.
Se le lancette dell'orologio fossero spostate indietro, la storia del delitto di via Poma cambierebbe molto. Se invece delle 17.30 o giù di lì del 7 agosto 1990, la ventenne Simonetta Cesaroni fosse stata uccisa un'ora prima, appena arrivata nell'ufficio degli Ostelli dove lavorava come segretaria, si sgretolerebbero gli alibi di molti protagonisti di questo caso. Con nuove piste tutte da percorrere.
Anche di questo si è parlato nella lunga audizione di ieri davanti alla commissione Antimafia che ha deciso di occuparsi del misterioso omicidio di via Poma, a oggi ancora irrisolto. Presente a Palazzo San Macuto la sorella della vittima, Paola Cesaroni che a Repubblica commenta: «Siamo davanti a un'occasione unica che non deve essere sprecata.
Dalla collaborazione tra commissione e Procura infatti sono fiduciosa che, anche 32 anni dopo, si possa arrivare finalmente alla verità sul delitto e avere giustizia per Simonetta». Sono stati ascoltati anche l'avvocato della famiglia Cesaroni, Federica Mondani, e lo scrittore Igor Patruno, autore di due libri sul caso, La ragazza con l'ombrellino rosa e Il delitto di via Poma 30 anni dopo. «Siamo molto soddisfatti di questo primo incontro - spiega Mondani a Repubblica - . Abbiamo portato numerosi documenti e fornito alcuni elementi inediti, conseguenza anche del lavoro di approfondimento, durato anni, da parte di Patruno. Ci sono dei particolari che se dimostrati possono aprire scenari mai percorsi nelle precedenti inchieste. In particolare sul momento in cui Simonetta è stata uccisa».
Elementi che ora sono stati secretati e devono essere valutati in vista di una nuova audizione. Perché l'intenzione della commissione è quella di andare avanti e raccogliere il maggior numero di informazioni. Ad ascoltare la relazione della famiglia anche il magistrato Guido Salvini e un colonnello della Dia.
«Non ho potuto fare a meno di evidenziare - afferma l'avvocato Mondani - che in questo delitto ci sono degli elementi che ricordano metodi omertosi, metodi di coperture reciproche e metodi di condizionamento territoriali e ambientali. E non a caso siamo davanti a questa commissione che vogliamo ringraziare».
Giacomo Galanti per roma.repubblica.it il 28 marzo 2022.
"Sono convinto che tanto prima o poi finiscono con incastrà l'avvocato Caracciolo ". Supposizioni, frasi buttate là senza alcun valore, in cui però l'argomento della conversazione telefonica è chiaro: si parla del delitto di via Poma e del presidente regionale degli Ostelli di allora, Francesco Caracciolo di Sarno.
È quanto emerge da un'intercettazione telefonica datata 16 marzo 2003. A pronunciare queste parole è un soggetto chiamato " Professore". Mentre dall'altra parte della cornetta c'è colui che nell'estate del 1990 ha fatto da tutor a Simonetta Cesaroni nell'ufficio di via Poma prima di essere uccisa con 29 coltellate il 7 agosto, mentre inseriva i dati della contabilità nel computer. In quel periodo i magistrati romani hanno da poco ricominciato a indagare sul celebre cold case della Capitale. Sono ripartiti da capo, rileggendo tutte le carte e interrogando ogni protagonista della vicenda.
L'obiettivo è indagare a 360 gradi senza escludere nessuno. In questa conversazione anche l'ex tutor di Simonetta risulta preoccupato. In riferimento agli interrogatori a cui è stato sottoposto dice: "Sto a diventa' fifone (...). A ristamo da capo a dodici professò".
Da quel maledetto 7 agosto 1990 che le indagini vengono ciclicamente riaperte, percorrendo nuove piste. Così il " Professore" fa questa considerazione. Ovvero che secondo lui " prima o poi finiscono con incastrà l'avvocato Caracciolo, guarda...".
L'impiegato degli Ostelli gli fa poi sapere che i magistrati hanno sentito anche sua moglie "io quasi due ore e quaranta...lei uguale " , spiega. " E da sua moglie che volevano sapé...?". La risposta è evasiva: "E volevano sapere alcuni indizi e poi so' cose che preferisco dirglie a voce e non per telefono..."
La conversazione si conclude così, senza valore penale. Ma mostra come questo caso sia diventato un incubo. Si tratta di soggetti che ogni volta devono ripresentarsi davanti ai giudici e ricordare le loro abitudini, gli spostamenti e i rapporti dell'estate del ' 90.
Per Caracciolo però se si mettono in fila tutte le dichiarazioni rilasciate, per esempio, dai dipendenti dell'ufficio, dai datori di lavoro di Simonetta fino ai soliti portieri, qualcosa cambia sempre, o non torna, rispetto alle parole precedenti. Per non parlare degli orari, con le lancette dell'orologio che impazziscono e si spostano velocemente di mezz'ora in ora a ogni nuovo interrogatorio. E tutto si ingarbuglia
Giacomo Galanti per “la Repubblica – ed. Roma” il 27 marzo 2022.
È stato il presidente Francesco Caracciolo di Sarno a ordinare che un esterno all'ufficio regionale degli Ostelli di via Poma andasse a inserire i dati della contabilità nel computer dopo il licenziamento di un ragioniere. Anche se non serviva.
E in quelle stanze Simonetta Cesaroni, mandata da una piccola e oscura società di amici dello stesso Caracciolo, troverà la morte il 7 agosto 1990. La società in questione è la Reli e i due titolari erano Ermanno Bizzocchi e Salvatore Volponi. Sulla presenza non indispensabile di Simonetta in via Poma, un'impiegata amministrativa degli Ostelli, nel 2007, spiega ai magistrati che c'era un altro dipendente che «seguiva la contabilità, quindi non c'era grande urgenza di mettere lì una persona. Comunque lui (Caraccio ndr) ha insistito».
Insomma, l'impiegata della sede nazionale aveva trovato come soluzione quella di mandare un ragioniere dell'ufficio centrale per due pomeriggi a settimana. Il suo compito poi sarebbe stato di addestrare un'altra impiegata del regionale.
«Io mi ricordo - continua - che all'epoca suggerii a Caracciolo di fare addestrare un collega che aveva un diploma di ragioneria, senonché lui non volle. Anzi mi ricordo che mi prese a improperi telefonicamente perché secondo lui avevo fatto una proposta stupida. Vabbè punti di vista».
Certo che Caracciolo non era nuovo a sfuriate. Sempre nello stesso verbale, e lo ribadirà anche a processo, l'impiegata afferma: «La ragazza all'inizio fu affiancata da un ragionier il quale mi disse che la ragazza era molto sveglia e preparata. Proprio per tale motivo dopo un po' suggerii all'avvocato Caracciolo di assumere direttamente la Cesaroni. L'avvocato mi rispose in maniera irripetibile che la ragazza non avrebbe mai accettato di lavorare» per gli Ostelli «visto lo stipendio favoloso che aveva presso la Reli».
Peccato che la Reli fosse una piccola società che pagava poco e in nero Simonetta e utilizzava come ufficio il tinello della casa della madre di uno dei due soci e che avrebbe chiuso i battenti pochi anni dopo.
E anche se nelle tante deposizioni il presidente afferma che non si interessava della gestione degli Ostelli e che delegava sempre, da questi verbali sembra proprio il contrario. Per esempio è interessante, a proposito delle ferie del tutor di Simonetta, la risposta che l'impiegata amministrativa dà all'avvocato di Raniero Busco, Paolo Loria, quando a processo le chiede: «Chi decide che (Simonetta ndr) deve continuare il pomeriggio da sola?». «L'avvocato Caracciolo», risponde.
Ecco, il presidente si occupava eccome della gestione dell'ufficio regionale degli Ostelli, tanto da aver chiesto espressamente di spostarli dal Foro Italico a via Poma, a due passi da casa sua, facendo così spendere più soldi all’associazione.
E proprio questo suo fare disinvolto, e forse anche l'eco mediatico del delitto, porteranno l'Associazione nazionale degli Ostelli a commissariare il comitato regionale e a estromettere, nel gennaio '92, Caracciolo dalla presidenza, come risulta da un lungo documento che abbiamo potuto visionare.
L'impiegata, sempre nello stesso verbale, afferma che gli Ostelli regionali furono commissariati «perché la gestione (di Caracciolo ndr) non era in linea con le direttive» del Comitato nazionale. Confermando che si trattava di una gestione «un po' clientelare».
Giacomo Galanti e Andrea Ossino per “la Repubblica - Roma” il 25 marzo 2022.
Tra le ombre di via Poma c'è anche il colpo messo in atto da Massimo Carminati, detto "Er Cecato", al caveau della banca di Roma dentro alla città giudiziaria. Sì, perché nella lista delle cassette di sicurezza da svaligiare c'era anche il nome dell'avvocato dei misteri, Francesco Caracciolo di Sarno.
Di cassette ce ne sono ben 900, ma Carminati, orchestratore dell'operazione datata 16 luglio 1999, ordina ai complici di forzarne 147. Tra i proprietari ci sono magistrati, cancellieri, avvocati, notai e altri nomi di alto profilo del mondo giudiziario. Alcuni legati a doppio filo ai più grandi misteri d'Italia. La storia è nota: "Er Cecato" avrebbe architettato quello che alcuni definiscono «il colpo del secolo» per poter ricattare i soggetti a cui avrebbe trafugato documenti scottanti.
Cosa custodisse la cassetta di Caracciolo non è dato sapere. Di certo, dopo le ultime indiscrezioni sul delitto di Simonetta Cesaroni, avvenuto il 7 agosto 1990 nell'ufficio regionale degli Ostelli in via Poma di cui l'avvocato era presidente, sarebbe interessante saperlo. Indiscrezioni che mettono in crisi l'alibi di Caracciolo e sottolineano la stranezza di alcuni suoi comportamenti dopo il delitto. Forse c'entrava qualcosa con l'omicidio della giovane segretaria. Oppure si era adoperato affinché occhi indiscreti non guardassero troppo tra i suoi affari, compresi quello dell'ufficio di via Poma.
Di sicuro la procura, che ha aperto un fascicolo per omicidio volontario contro ignoti, starà facendo i suoi accertamenti. Ma il tema appare più nelle corde della Commissione parlamentare d'inchiesta che dovrebbe partire entro maggio. Commissione che non avrà davanti a sé un lavoro semplice. Dal 7 agosto 1990 infatti, quando Simonetta viene massacrata con 29 coltellate, le carte dell'inchiesta sono cresciute a dismisura, riempiendo una decina di faldoni. Si tratta di migliaia di verbali, appunti, informative, intercettazioni che per certi versi contengono tutto e il contrario di tutto.
E che con gli anni hanno così ingarbugliato il caso. Già la notte in cui viene ritrovato il cadavere di Simonetta succede qualcosa di inconsueto. Tra i tanti agenti che corrono a bordo delle loro gazzelle davanti al palazzone di via Poma c'è anche Sergio Costa. Si tratta di un agente dei servizi segreti ed è il genero di Vincenzo Parisi, l'allora capo della Polizia di Stato. In quel momento Costa, come spiegherà lui stesso, era stato distaccato dal Sisde alla sala operativa della Questura di Roma.
E quella sera era di turno, tutto qua. La circostanza rimane tuttavia controversa. Infatti nei rapporti delle varie volanti presentati al magistrato e inseriti nel fascicolo dell'inchiesta il nome di Costa all'inizio non si trova. Ma intanto, nei mesi a seguire, l'agente continuerà a informarsi con gli investigatori sull'andamento delle indagini. In particolare sulla posizione del portiere Pietrino Vanacore. Per poi ritornare nell'ombra e far perdere le proprie tracce. Il palazzo Il condominio di via Poma 2 dove è stata assassinata Simonetta Cesaroni.
Giallo di via Poma, le accuse al presidente degli Ostelli nell'informativa ignorata dalla Digos. Giacomo Galanti, Andrea Ossino su La Repubblica il 23 Marzo 2022.
La relazione sarà acquisita dalla nuove Commissione d'Inchiesta sull'omicidio di Simonetta Cesaroni.
Un verbale vecchio di trent'anni e una testimonianza appena arrivata alle orecchie della Procura di Roma. Due elementi diversi che fanno traballare antichi alibi di un mistero mai risolto: il delitto di via Poma, uno dei casi più intricati della cronaca italiana su cui ora indagano per l'ennesima volta i magistrati romani, e che presto arriverà anche alla Camera dei deputati con una commissione d'inchiesta aperta a distanza di 32 anni dall'omicidio di Simonetta Cesaroni.
L'omicidio di Simonetta Cesaroni, i segreti di via Poma nelle mani di Carminati. Giacomo Galanti, Andrea Ossino La Repubblica il 25 Marzo 2022.
La cassetta di sicurezza di Caracciolo di Sarno venne razziata nel colpo del 1999 orchestrato dal Cecato. Il fascicolo aperto dalla Procura per omicidio volontario e la commissione parlamentare sull'omicidio della 19enne puntano a fare chiarezza anche su questo.
Tra le ombre di via Poma c'è anche il colpo messo in atto da Massimo Carminati, detto "Er Cecato", al caveau della banca di Roma dentro alla città giudiziaria. Sì, perché nella lista delle cassette di sicurezza da svaligiare c'era anche il nome dell'avvocato dei misteri, Francesco Caracciolo di Sarno. Di cassette ce ne sono ben 900, ma Carminati, orchestratore dell'operazione datata 16 luglio 1999, ordina ai complici di forzarne 147.
Giacomo Galanti e Andrea Ossino per “la Repubblica - ed. Roma” il 24 marzo 2022.
Per quasi trentadue anni non ha detto nulla. Poi avrebbe deciso di parlare, raccontando il suo segreto a un ex poliziotto che a sua volta lo ha riferito alla famiglia della ventenne uccisa il 7 agosto del 1990. È nata così la nuova indagine sul delitto di via Poma. Un'inchiesta scaturita dopo l'esposto della famiglia di Simonetta Cesaroni e approdata sul tavolo dei magistrati romani con un obiettivo ambizioso, svelato dal reato ipotizzato dagli investigatori: "omicidio volontario".
Le parole di una collaboratrice dell'avvocato Francesco Caracciolo di Sarno scalfiscono l'alibi dell'allora presidente regionale degli Ostelli della Gioventù, nei cui uffici è stato ritrovato il corpo di Simonetta Cesaroni, martoriato da 29 coltellate sferrate al volto, all'addome e al pube. Sulla figura dell'uomo, scomparso da ormai 6 anni, ci sarebbero diverse ombre, già emerse in verbali datati 1992.
Si tratta di rivelazioni che sono arrivate alle orecchie dell'ex funzionario della mobile Antonio Del Greco dopo la pubblicazione di un romanzo sul caso. Tra le numerose farneticazioni, una segnalazione è stata considerata dall'ex poliziotto «molto verosimile» . «È una fonte attendibile » ha spiegato.
E ancora: «La testimonianza riguarda un alibi che non è più così ferreo come era prima, un alibi di una persona che era già stata sentita». Il riferimento è a una collaboratrice dell'avvocato Caracciolo di Sarno. La donna dunque avrebbe raccontato all'ex poliziotto che l'alibi del presidente regionale degli Ostelli della Gioventù potrebbe essere falso. L'avvocato, interrogato e chiamato in aula a testimoniare, ha sempre raccontato di essere uscito di casa per accompagnare la figlia e le amiche in aeroporto, una circostanza confermata anche dalla figlia dell'uomo.
Un alibi perfetto e verificato. Che però adesso sarebbe stato messo in discussione. Convinto della possibile veridicità delle parole della donna, Del Greco avrebbe raccontato questa e altre testimonianze alla famiglia Cesaroni. I parenti della vittima hanno quindi deciso di mettere a conoscenza di questi fatti la procura di Roma. E lo scorso autunno hanno formalizzato tutto in un esposto con un obiettivo ben preciso: verificare se le segnalazioni sono veritiere, non lasciare nulla di intentato. E con lo stesso scopo la procura di Roma ha aperto un fascicolo.
Inizialmente senza ipotesi di reato né indagati. Adesso è stato fatto un passo avanti: è stata ipotizzata un'accusa, omicidio volontario, che consente di procedere a controlli più approfonditi e di sopravvivere al tempo, visto che si indaga su un fatto accaduto 32 anni fa. Le indagini sono state delegate alle forze dell'ordine, che si occuperanno di fare una serie di accertamenti.
Mentre in procura sono state ascoltate diverse persone che potrebbero essere a conoscenza dei fatti, o quantomeno che potrebbero confermare quanto riferito nell'esposto. Nuove testimonianze che hanno destato anche l'interesse del Parlamento. A maggio la Camera dei Deputati darà il via a una commissione d'inchiesta parlamentare.
Giacomo Galanti e Andrea Ossino per “la Repubblica - ed. Roma” il 24 marzo 2022.
Ombre e misteri hanno gravitato da sempre intorno a Francesco Caracciolo di Sarno. Mai indagato, nessuna denuncia. L'avvocato si era ritirato in una fattoria nella Bassa Sabina, a Tarano, prima di morire. È la stessa campagna dove ha affermato di essere stato quel 7 agosto del 1990, quando Simonetta Cesaroni è stata uccisa con 29 coltellate, mentre era negli uffici di via Poma degli Ostelli della Gioventù, di cui Caracciolo era il presidente regionale.
A processo ha affermato di non aver mai conosciuto Simonetta Cesaroni, di non avere idea del perché da via Poma partirono due chiamate verso la sua tenuta proprio il 7 agosto. « Vidi l'avvocato rientrare intorno alle 18 in compagnia di un altro uomo che non avevo mai visto prima non ho avuto più modo di vedere l'avvocato ma non escludo che lo stesso possa essere uscito senza che io lo abbia visto», ha detto di lui, nel 2005, la portiera dello stabile romano dove viveva l'avvocato, a pochi metri da via Poma. E poi c'è la collega di Simonetta, che nel 2010 ha giurato di aver sentito da Caracciolo queste parole: «Quando tutto sarà finito ti dirò come sono andati i fatti».
L'avvocato, scomparso sei anni fa, a processo ha minimizzato: « È una frase che io posso avere benissimo detto, questo è il punto, soltanto mi riferivo a una ovvietà, a una situazione che è una deduzione che che era ovvia data la rilevanza che era stata data a tutto quel processo » . E poi: « Io non so se l'ho detta».
Nel 1996, seduto in procura davanti al procuratore aggiunto Italo Ormanni e il pm Settembrino Nebbioso, Caracciolo racconta di essersi rivolto ai titolari della ditta Re.Li, dove lavorava Simonetta e di aver chiesto se c'era una persona disposta a ricoprire un incarico temporaneo, per gestire la contabilità degli Ostelli: « Mi venne comunicato che quell'impegno poteva essere assunto dato che era stata individuata una ragazza che seppur non molto pratica del settore avrebbe potuto seguire quel tipo di lavoro » , spiega ai magistrati dicendo di non sapere altro, «neppure in quanti e quali giorni questa ragazza andasse negli uffici di via Poma e se vi andasse il pomeriggio » e di avere saputo dell'omicidio solo la mattina seguente.
Nel 1996 ha anche detto: «Non ebbi mai occasione di conoscere la Cesaroni » . E lo ha ribadito più volte. Anche se alcuni impiegati dell'ufficio nelle loro deposizioni lo smentiscono. Adesso però una nuova testimonianza scalfisce il suo alibi. E un documento datato 1992 lo descrive così: «Sarebbe noto fra gli amici per la dubbia moralità e le reiterate molestie arrecate a giovani ragazze, episodi che seppure a conoscenza di molti non sarebbero mai stati denunciati grazie anche alle 'amicizie influenti' dallo stesso vantate".
A scriverlo è un poliziotto che riassume ciò che ha sentito alla Digos: "il giorno del delitto, pressappoco nell'ora riportata dai media come quella presunta dell'omicidio, l'avvocato sarebbe rientrato affannato e con un pacco mal avvolto presso la propria abitazione » , per poi uscire con una " grossa borsa". Dopo la riapertura del caso era «oltremodo agitato e preoccupato, tanto da assumere atteggiamenti maniacali».
La svolta nell'omicidio di Simonetta Cesaroni, una segretaria accusa l'avvocato dei misteri. Giacomo Galanti e Andrea Ossino su La Repubblica il 24 Marzo 2022.
I nuovi accertamenti su Francesco Caracciolo di Sarno scattati dalle rivelazioni rilasciate, 32 anni dopo, da una ex collaboratrice che ha smentito l'alibi del presidente degli Ostelli della Gioventù dove lavorava la dicianovenne. L’inchiesta riaperta per omicidio volontario. Ma l'uomo al centro dei sospetti è morto sei anni fa.
Per quasi trentadue anni non ha detto nulla. Poi avrebbe deciso di parlare, raccontando il suo segreto a un ex poliziotto che a sua volta lo ha riferito alla famiglia della diciannovenne uccisa il 7 agosto del 1990. È nata così la nuova indagine sul delitto di via Poma. Un'inchiesta scaturita dopo l'esposto della famiglia di Simonetta Cesaroni e approdata sul tavolo dei magistrati romani con un obiettivo ambizioso, svelato dal reato ipotizzato dagli investigatori: "omicidio volontario".
Morassut: «Superficialità investigative e bugie: ecco perché voglio la verità su via Poma». Intervista al deputato dem Roberto Morassut, che ha chiesto l'istituzione di una commissione di inchiesta per fare luce sull'omicidio di Simonetta Cesaroni. Il Dubbio il 26 marzo 2022.
L’onorevole del Partito Democratico Roberto Morassut è il primo firmatario di una proposta per l’ “Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sull’omicidio di Simonetta Cesaroni”. Con lui i colleghi dem Michele Bordo e Walter Verini. È stata presentata il 29 giugno 2021 ma i lavori ancora non sono partiti. È questo il momento giusto?
Onorevole Morassut, tra i tanti casi irrisolti perché una commissione proprio sul delitto di via Poma?
La storia di Roma è piena di casi irrisolti. Chi uccise Romolo? E chi Cola di Rienzo? Tutti i papi sono morti di morte naturale? Fiammetta Michaelis, amante di cardinali e porporati, morì davvero per morte naturale? Perché scomparve la sua sepoltura? E per li rami arriviamo ai nostri anni, al dopoguerra, così pieno di casi irrisolti. Mi sono interessato a diversi di questi. Roma è una città dove il potere abita da sempre, un potere verticale, assoluto…Se qualcuno viene ucciso è assai facile che la Roma eterna dei poteri verticali, così impastata alla Roma “normale” e quotidiana possa essere parte del fatto e allora possono sollevarsi tanti ostacoli. Non è dietrologia, è un aspetto della profondità di questa città. Il caso di Simonetta Cesaroni è un caso di femminicidio che per qualche motivo mai illuminato si è perso nella nebbia. Ma è un caso che ha colpito in profondità più di altri la coscienza nazionale e popolare e che ci racconta i limiti e le manchevolezze di uno Stato che deve assicurare alla giustizia degli assassini. Quindi ha caratteri che vanno oltre il caso di cronaca ed è simbolico. Oltre ad avere, secondo me, un carattere sociale, direi quasi di classe.
I lavori della Commissione quando partiranno?
Non saprei. Io ho avanzato questa proposta di legge a giugno del 2021 a seguito di una serie di colloqui e letture che mi hanno convinto di tentare questa strada per vedere se ci fosse lo spazio per rimettere in fila tanti pezzi sparsi del mosaico. In questi giorni la questione ha assunto un rilievo esterno del tutto indipendente dalla proposta di legge che in tutti questi mesi ho sempre tenuto riservata anche per rispetto dei familiari e dei loro legali che comunque la condividono. Ad aprile verrà posta all’ordine dei lavori della Commissione Giustizia e poi dovranno svolgersi altri adempimenti formali. Mi auguro che si possa partire prima dell’estate. Se così fosse avremmo sei o sette mesi di lavoro, visti i tempi ormai scarni del fine legislatura. Non sono molti ma nemmeno pochi. Diversamente se ne dovrà parlare nella successiva legislatura.
Che idea si è fatto del caso? Nella relazione introduttiva scrivete di “forze oscure, personaggi ambigui, depistaggi, incongruenze inspiegabili delle indagini”. Ci spiega meglio?
Come dicevo poc’anzi le indagini sono state segnate da tutta una serie di incongruenze che possono andare da semplici superficialità investigative, a vere e proprie deviazioni. Tra queste ultime vi è sicuramente il caso del finto “super testimone” Roland Voller che per diversi mesi impegnò la polizia a seguire una pista evidentemente costruita artificialmente. Potrei citare un’altra circostanza: quella relativa alla mancata verifica della temperatura corporea della ragazza nei primissimi momenti dopo la scoperta del cadavere; cosa che avrebbe consentito di fissare con più precisione l’ora del delitto e quindi della morte. Fino ad arrivare alla frettolosa dismissione dell’appartamento e del mobilio nelle settimane se non nei giorni successivi al fatto. Tanti aspetti che lasciano perplessi oggi come allora.
La famiglia attende la verità da 32 anni. Cosa ne pensa di quanto trapelato in questi giorni?
Non penso nulla. Avanzare ipotesi non spetta a nessuno se non alle autorità inquirenti sulla base di solidi riscontri se emergeranno. Non siamo in un film giallo. Abbiamo a che fare con una tragedia. Bisogna andare cauti con le parole. La magistratura ha sempre lavorato, in tutti questi anni, con rigore, scrupolo e con enorme fatica. Non ha mai mollato e vedo che ancora è disponibile quantomeno a riflettere. L’azione dei magistrati e della polizia giudiziaria è stata estesa ma si è confrontata evidentemente con qualcosa di sotterraneo e di sfuggente che ha impedito di arrivare alla verità. Non sto evocando il solito fantasma dei servizi segreti o di altro ancora. Forse la verità è più semplice di quanto si può pensare ma il responsabile o i responsabili non sono degli sprovveduti. Inoltre va detto che a 32 anni di distanza bisogna mettere nel conto che qualcuno non sia più in vita. Insomma siamo davvero alle ultime possibilità.
Diverse le donne uccise nella capitale che non hanno avuto giustizia. Otello Lupacchini e Max Parisi hanno scritto il libro “Dodici donne un solo assassino” ipotizzando la presenza di un serial killer a Roma. Potrebbe essere?
Non ho letto il libro, lo farò perché stimo molto gli autori. In questo caso però di una cosa mi sono convinto e non da solo: che il responsabile sia un “territoriale”. Una persona che conosceva il luogo, l’edificio, le sue vie di fuga e forse persino l’ufficio con i suoi orari e movimenti. Posso sbagliare ma non credo… ci ho riflettuto molto…e se fu un “territoriale” risulta più agevole immaginare un campo di protezioni e addirittura complicità che possa averlo protetto. Ma, come ripeto, da qui a dare un volto all’assassino ce ne corre. Per questo la Commissione può essere di aiuto, nel rispetto delle sue funzioni, al ruolo autonomo della magistratura inquirente. Aggiungo che qualora vi fosse un formale nuovo avvio delle indagini, la costituzione di una commissione parlamentare perderebbe le sue motivazioni e non avrebbe senso costituirla. La proposta era nata a giugno con l’idea di favorire una ricomposizione quasi storica della vicenda. Ma forse non siamo ancora nella storia ma ancora nella cronaca.
Delitto di via Poma, "riaperte le indagini" 32 anni dopo sulla morte di Simonetta Cesaroni. C'è un nuovo sospettato. La Repubblica il 19 Marzo 2022. La pm Ilaria Calò avrebbe ascoltato una persona che potrebbe essere coinvolta nell'uccisione della 20enne avvenuta nel 1990.
La Procura di Roma "riapre le indagini" sul delitto di via Poma. La pm Ilaria Calò avrebbe ascoltato un nuovo sospettato dell'efferato delitto di Simonetta Cesaroni, la ragazza di 20 anni, massacrata il 7 agosto del 1990 con 29 pugnalate, mentre lavorava negli uffici dell'Aiag nel quartiere Prati di Roma.
Michela Allegri per “il Messaggero” il 22 marzo 2022.
Un nuovo fascicolo della Procura di Roma e anche una commissione parlamentare d'inchiesta per cercare di risolvere uno dei cold case più famosi della Capitale: il delitto di via Poma, l'omicidio di Simonetta Cesaroni, uccisa a soli 20 anni con ventinove coltellate nell'agosto del 1990, nel quartiere Prati.
Sul fronte giudiziario la novità è una testimonianza inedita, riportata ai familiari della Cesaroni da uno degli investigatori che, all'epoca, coordinava gli accertamenti: Antonio Del Greco, che è stato sentito in Procura per oltre quattro ore dal procuratore aggiunto Ilaria Calò, lo stesso magistrato che ha seguito il caso fin dall'inizio. Nelle scorse settimane sono stati ascoltati anche altri testimoni.
Del Greco ha raccontato che, dopo aver pubblicato un libro sul delitto, ha ricevuto diverse segnalazioni, «una in particolare era molto verosimile, sia per la fonte autorevole sia per i contenuti», ha raccontato l'ex funzionario della Mobile. Da qui, la comunicazione alla famiglia e l'esposto in Procura. Ma questo non è l'unico fronte dal quale potrebbe arrivare una svolta sul caso che 32 anni fa sconvolse la Capitale.
Il deputato del Pd, Roberto Morassut, ha presentato una proposta di legge per la costituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta, che andrà in approvazione in aprile. Significa che, salvo imprevisti, i lavori inizieranno nel mese di maggio.
«È uno strumento parlamentare che non sostituisce il ruolo della magistratura inquirente, che può decidere sulla base delle più opportune valutazioni se riaprire o no una certa inchiesta. Ma la Commissione, con le sue prerogative, può contribuire a raccogliere e mettere in fila elementi utili, e trasmetterli alle autorità, su una vicenda che evidentemente va ben oltre il caso di cronaca in sé - ha dichiarato Morassut - Si tratta di un caso irrisolto, un femminicidio che ha inciso sulla memoria popolare e nazionale. In un certo senso è un risvolto dei vari lati sommersi della vita repubblicana.
Sulla verità dei fatti nessuno può avere delle tesi e sarebbe assurdo averle. Si è molto insistito per esempio sul carattere territoriale del responsabile o dei responsabili dell'omicidio. Forse questo è uno degli aspetti meno illuminati della vicenda. Vedremo il tempo che avremo a disposizione anche in relazione ai pochi mesi residui della legislatura. In ogni caso penso che tutto ciò possa aiutare a non lasciar cadere nell'oblio una vicenda che, nonostante il tempo trascorso, può forse ancora essere restituita alla giustizia».
Gli accertamenti, quindi, correranno paralleli a quelli della Procura. Al centro del nuovo fascicolo aperto a piazzale Clodio ci sarebbe uno dei primi sospettati, ascoltato all'inizio dell'inchiesta nel 1990: secondo la testimonianza raccolta da Del Greco potrebbe avere fornito un alibi falso. Questa persona era già finita nel mirino degli inquirenti poco dopo il delitto, ma la sua posizione era stata archiviata. Ora il suo alibi, a distanza di oltre trent' anni, potrebbe essere smentito.
Ma ecco i fatti. Estate 1990, Simonetta Cesaroni non è ancora andata in vacanza, ma è rimasta a Roma a lavorare: fa la segretaria negli uffici dell'Aiag, al civico numero 2 di via Poma, a pochi passi da piazza Mazzini. Il suo ufficio si raggiunge dalla scala B: il portiere responsabile è Pietro Vanacore, detto Pietrino. La giovane non rientra a casa e non risponde al telefono. La sorella, quindi, chiama il capo di Simonetta, Salvatore Volponi, e insieme vanno a cercarla. La porta è chiusa a chiave. Il cadavere di Simonetta, svestito, è in terra, trafitto da 29 coltellate.
Le chiavi della ragazza sono sparite, come l'arma del delitto. Nel corso degli anni ci sono stati diversi sospettati: da Vanacore - morto suicida nel 2010 - a Volponi, da Federico Valle - il padre aveva uno studio nello stabile - a Raniero Busco, fidanzato della vittima. Busco è stato rinviato a giudizio e processato: nel 2011 è stato condannato in primo grado a 24 anni di reclusione, sentenza ribaltata nel corso dell'appello, che si è chiuso con un'assoluzione confermata dalla Cassazione nel 2014.
Emilio Radice per “la Repubblica - ed. Roma” il 22 marzo 2022.
Troppe stranezze hanno avvelenato le indagini sull'omicidio di Simonetta Cesaroni, fin dal primo minuto. E alcune non sono mai state narrate, anche perché - anche ora - farlo non è semplicissimo. Una su tutte: la confidenza di un magistrato che, preso il cronista sotto braccio, già nell'autunno del 1990 gli sussurrò: « Devo dirglielo. è una inchiesta pilotata dall'alto, ci sono state pressioni Chiaramente io non le ho mai detto nulla».
E, anomalia su anomalia, il grande giallo è andato avanti così, al punto che a diventare sovrana è stata la più semplice delle domande: perché? Per quali interessi, in un delitto che ha avuto come vittima una ragazza di borgata, si sono mosse persone tanto importanti? Perché e come tanti avvocati di grido? Perché tante disattenzioni investigative da una parte e tanta premura, dall'altra, a mettere al sicuro da chiacchiere e da sospetti alcune persone e altre no?
Ad esempio: mai venne detto che nel palazzo abitava il presidente della Corte di Appello, Mario Delli Priscoli (poi diventato Procuratore Generale di Cassazione) col figlio Lorenzo oggi magistrato a sua volta nonché autore di una bella canzone che potete andare a sentire su Youtube: "Direzione Anagnina".
Che Simonetta Cesaroni venisse a lavorare in Prati venendo col metrò proprio dalla direzione Anagnina è una ovvia coincidenza e sicuramente l'alto magistrato e suo figlio non c'entrano assolutamente nulla con il delitto. Solo che allora i giornalisti sapevano tutto di tutti e venivano informati anche di supposte relazioni segrete, incestuose talvolta, di questo e di quello. Di Vanacore venne detto, dalla polizia, che aveva staccato la testa di un gatto con le mani. E noi ad accertarci che fosse vero.
È il nostro lavoro: ricevere una informazione e verificarla. Dunque scoprire - a distanza di anni dai fatti - che in mezzo a quella tempesta di piste e sospetti qualcuno avesse avuto la delicatezza di aprire un ombrello per proteggere un nome, come dire?, fa effetto.
Ma accennavamo prima all'incontro con un altro magistrato, quello della " confidenza". Avvenne nel Palazzo di Giustizia la mattina in cui il Tribunale della Libertà doveva decidere sul ricorso del portiere, Pietro Vanacore, contro il suo arresto. Il magistrato - mai conosciuto prima - prese chi scrive sotto il braccio e, allontanandolo dal gruppo dei giornalisti gli disse: « Vedrà, Vanacore sarà rimesso subito in libertà.
Non c'è una sola prova contro di lui » . Il cronista gli rispose: « Ma come? Siete stati voi a convalidarne il fermo». E lui: «Sa ha telefonato sua eccellenza e ha detto che bisognava dargli più carcere preventivo che fosse possibile. Era stato raggiunto a sua volta da una telefonata più in alto». Al tentativo del cronista di saperne di più - « È stato il ministro? » - il magistrato mise un dito sulle labbra e si congedò.
Ecco una delle ragioni per cui " La Repubblica" è stata critica fin dall'inizio sullo svolgimento delle indagini. Ma ce ne sono state anche altre, come tracce di sangue ignorate e false piste pompate, che hanno reso sempre " anomalo" il caso di via Poma. Che qualcuno decida di far luce sul perché di tante stranezze sarebbe sacrosanto.
"Quel 'morso' sul corpo a Via Poma. Così faccio 'parlare' i cadaveri". Sofia Dinolfo il 12 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il professor Emilio Nuzzolese spiega a IlGiornale.it come un odontologo forense può ricostruire l'identità di un cadavere in avanzato stato di decomposizione ma anche le dinamiche di una violenza.
Nel rinvenimento di un cadavere la figura dell'odontologo forense è di fondamentale importanza. La sua presenza è infatti necessaria quando, soprattutto di fronte a un corpo in avanzato stato di decomposizione, è necessario definirne il profilo biologico, come genere ed età, per poi risalire pian piano alla sua identità. Non solo: questo professionista interviene anche per valutare i maltrattamenti, i traumi ai tessuti orali e le lesioni da morso umano a scopo investigativo e, naturalmente, è al fianco del medico legale per valutare casi di malpractice.
Nel caso del ritrovamento di resti scheletrici il suo ruolo diviene molto particolare: il Dna che si trova nei denti resiste per tanti anni e anche ad alte temperature. Ma come opera questo professionista? "L’odontologo forense - spiega a IlGiornale.it il professor Emilio Nuzzolese - da solo oppure al fianco del medico legale, svolge attività peritali, didattiche e di ricerca nell’odontologia legale e forense". Emilio Nuzzolese è un odontoiatra forense e associato di Medicina Legale all’Università di Torino nonché consulente in diverse procure italiane. La perizia da lui emessa nel 2009 è stata determinante per l’assoluzione dell’unico imputato al processo per il noto e irrisolto caso del delitto di via Poma.
Chi è l’odontologo forense?
"L’odontologo forense è un odontoiatra con esperienza clinica che ha acquisito competenze e conoscenza in medicina legale, diritto e scienze forensi attraverso percorsi formativi mirati, come dottorati di ricerca, master e corsi di perfezionamento. L’odontologo forense, da solo oppure al fianco del medico legale, svolge attività peritali, didattiche e di ricerca nell’odontologia legale e forense. Questa studia i rapporti dell’odontoiatria con il Diritto e le evidenze dentali per finalità di giustizia, sia civile che penale. Una delle attività prevalenti dell’odontologo forense è l’identificazione personale di resti umani e soggetti deceduti non più riconoscibili visivamente".
Come avviene il processo di identificazione di un corpo in avanzato stato di decomposizione non più riconoscibile?
"L’identificazione umana forense è un complesso processo multidisciplinare che prevede tre fasi: raccolta di informazioni individualizzanti durante l’autopsia (impronte digitali, prelievo di Dna, informazioni dentali utili alla definizione del profilo generico del soggetto, e ogni altra peculiarità); raccolta di informazioni delle persone scomparse (dati antropometrici, odontoiatrici, radiografie, campioni di Dna, caratteri personali come cicatrici, tatuaggi, piercing e fotoritratti); la comparazione di queste informazioni per escludere i profili non compatibili e individuare la corrispondenza con quelli compatibili. L’autopsia orale, da non confondere con l’esame dentale, consente di pervenire alla preliminare identificazione ricostruttiva del corpo senza nome. La sua odontobiografia permette di individuare sesso, intervallo di età, origine geografica, abitudini voluttuarie e altre caratteristiche antropologiche dei denti e del cranio. Con l’identificazione ricostruttiva si riduce la lista delle persone scomparse compatibili per poi identificare definitivamente la salma, anche avvalendosi della corrispondenza dei dati dentali".
Per chiarezza, l’esame dentale cos’è invece?
"La differenza tra esame dentale e autopsia orale è nell’analisi e traduzione delle informazioni dentali. L’esame dentale rappresenta solo una raccolta di informazioni sui denti presenti, assenti, curati. Nell’autopsia orale invece, i dati sono raccolti anche attraverso rilievi radiografici e poi tradotti in un profilo biologico generico, quanto prima definivo anche odontobiografia, che rappresenta il punto di partenza per iniziare il processo identificativo. Solo un odontologo forense è abilitato all’esecuzione di rilievi autoptici odontoiatrici e di radiologia dentale".
Il suo intervento, attraverso l’analisi dei segni di morsicatura, permette di riscontrare reati sul corpo della vittima, quali violenza, abuso sessuale, maltrattamenti e anche omicidi. Ci può spiegare?
"Un altro coinvolgimento dell’odontologo forense è rappresentato dall’esame di evidenze da morsicature nei crimini. I morsi umani sono frequentemente riscontrati nelle vittime di violenza sessuale, maltrattamenti e omicidi. Si tratta di lesioni che presentano alcune caratteristiche dei denti dell’aggressore che, in qualche caso, consentono di eseguire analisi comparative con i soggetti sospettati. Il fine è quello di fornire elementi complementari circa la compatibilità tra le arcate dentarie dei vari sospettati e la lesione da morsicatura. Il morso umano inferto per aggredire non è infatti importante ai fini di un’impronta dei denti, ma può contenere informazioni dentali che insieme all’esame del patologo forense e a tracce di Dna, può permettere di integrare elementi probatori con il fine di individuare l’aggressore. Si tratta di un’analisi con rischi di errori di valutazione, se eseguita senza un’elevata specializzazione dell’odontologo forense".
Parlando di segni da morsicatura, c’è un noto caso processuale in cui il suo intervento è stato determinante ai fini dell’assoluzione dell’unico imputato. Parlo del delitto di via Poma a Roma. Ci può raccontare?
"Sono stato il perito odontoiatra in tutti i gradi di giudizio nella difesa dell’unico imputato, ovvero Raniero Busco, per l’omicidio di Simonetta Cesaroni. Tra le numerose lesioni rilevate sul corpo della vittima anche un’ecchimosi sul seno identificata dal medico legale nel 1990 come un morso inferto dall’aggressore durante l’azione omicidiaria. Riaprendo il caso giudiziario nel 2007 gli inquirenti hanno richiesto nuovi accertamenti tecnico-forensi che hanno portato a concludere si trattasse del morso dell’imputato. La lesione, studiata a distanza di 18 anni e sulle fotografie del 1990, è così diventata la prova regina che ha contribuito a condannare Busco a 24 anni in primo grado. Di contro, in secondo grado il parere del collegio dei periti nominati dalla Corte ha portato all’assoluzione, confermando quanto avevo già dimostrato circa l’insufficiente qualità delle fotografie e l’impossibilità di poter imputare la lesione univocamente a una causa. Inoltre da un punto di vista odontologico-forense, anche se si fosse trattato di un morso laterale, non era possibile collegarlo alla dentatura di Raniero Busco che, a sua volta, avrebbe lasciato tracce diverse rispetto a quelle analizzate".
E cosa accadde alla fine?
"Pertanto, contrariamente a quanto sosteneva l’accusa e persino il perito odontoiatra della parte civile, la lesione poteva non essere secondaria all’azione dei denti, ma alla lesività del fermacapelli trovato rotto accanto alla vittima. Il delitto di Via Poma è rimasto un caso irrisolto che ha aperto una riflessione sulla validità delle prove scientifiche e in particolare sull’analisi forense del morso umano. In futuro il mio auspicio è la creazione di un albo nazionale di periti odontoiatri esperti nell’odontologia forense a disposizione dell’autorità giudiziaria, con il fine di fare giustizia e prevenire errori giudiziari e improvvisazioni da parte di odontoiatri privi di specializzazione tecnico-forense".
Il suo ruolo è fondamentale anche per il riconoscimento delle vittime dei disastri. Ci spiega il perché e come opera in questi casi?
"I dati dentali consentono un’identificazione efficace e tempestiva in media nel 70% dei casi se l’autopsia orale è eseguita da esperti nell’odontologia forense. Questo include anche l’attività di identificazione delle vittime di disastri. Incidenti e catastrofi naturali purtroppo causano feriti e vittime. L’intervento di ricerca e recupero delle vittime, la raccolta di eventuali prove in caso di incidenti non accidentali e la messa in sicurezza dell’intero scenario, rappresentano una imponente operazione ‘multi-agenzia’ che ormai è sempre più spesso multinazionale".
Come funziona?
"Le perdite umane possono essere molto elevate e con caratteristiche diverse a seconda della tipologia di disastro. Molto diverse, ad esempio, le vittime di un incidente aereo, solitamente frammentate, rispetto alle vittime di un maremoto che restano intere ma subiscono altre alterazioni post mortali. In tutti i casi il processo di identificazione è codificato da procedure che prevedono sempre il coinvolgimento di operatori forensi, esperti nella raccolta e analisi di dati individualizzanti. Oltre a odontoiatri forensi, sono coinvolti medici legali, biologici forensi, antropologi forensi e tecnici delle impronte digitali. Il gruppo di tecnici interviene anche nella traduzione in codici universali delle informazioni delle persone coinvolte nel disastro, e nella comparazione dei dati fino a raggiungere una corrispondenza ed una certezza anche esaminando, eventualmente, elementi identificativi secondari, come tatuaggi, cicatrici, oggetti personali".
Lei è il responsabile del Laboratorio di Identificazione Personale della Medicina Legale dell’Università di Torino. Durante la pandemia ha ideato l’autopsia orale a distanza, coniandolo con il termine virdentopsy. Può descriverci il processo?
"La pandemia da Covid-19 ci ha permesso di sperimentare l’utilizzo del teleconsulto anche nell’odontoiatria forense e, in particolare, nell’autopsia orale a distanza ai fini di una identificazione personale. Se l’identificazione di un corpo senza nome non può prescindere dal coinvolgimento di uno o più odontoiatri forense, l’autopsia orale virtuale, che abbiamo denominato virdentopsy (virtualdentalautopsy), permette di conservare le migliori pratiche tecnico-forensi, anche in un impiego umanitario, grazie all’invio di riprese video e radiografie e alla diretta streaming e realtà aumentata. Il Laboratorio di Identificazione Personale e Odontologia Forense sta sperimentando il processo della virdentopsy con colleghi dell’India, Nepal, Pakistan, Perù, Siria e Sudan. Lo abbiamo già presentato in numerose conferenze, tra le quali l’incontro 2021 Interpol sulla identificazione delle vittime di disastri e il congresso internazionale dell’American Academy of ForensicSciences di febbraio 2022".
Lei è stato uno dei primi operatori forensi a sottolineare l’importanza dei diritti umani dei corpi senza nome, evidenziando la necessità di non dimenticare le famiglie delle persone scomparse. Come nasce questo coinvolgimento?
"Ho sviluppato l’interesse nella medicina legale e nel diritto già dal 1995, iscrivendomi all’albo dei consulenti tecnici presso il Tribunale di Bari, ma la passione per l’odontologia forense deriva dall’incontro, poi diventato profonda amicizia, con il professor John Clement dell’Università di Melbourne in Australia, nel 2003. I nostri numerosi confronti sul possibile futuro dell’odontologia forense, soprattutto nell’ambito dell’identificazione, ci ha portato a fare riflessioni sul significato dell’autopsia orale e sull’importanza di restituire un’identità a un cadavere, rispettando i diritti umani della famiglia di poter elaborare il lutto e, per la salma, di ricevere un funerale nel rispetto del suo credo religioso. È quanto provo a trasmettere nei corsi che organizziamo nella sezione di medicina legale dell’Università di Torino".
È d'aiuto per chi resta.
"Non a caso, dalla collaborazione con l’associazione Penelope Italia, che sostiene le famiglie delle persone scomparse, abbiamo anche sviluppato l’odontologia forense umanitaria, fino alla creazione di periti volontari che intervengono gratuitamente quando vengono ritrovati resti umani. E colgo l’occasione per ringraziare tutti i miei colleghi della rete internazionale di esperti chiamata Odontologia Forense per i Diritti Umani (Forensic Odontology for Human Rights), di cui sono orgoglioso fondatore, per il loro impegno nelle scienze forensi umanitarie".
Qual è il suo auspicio?
"L’elevato numero di corpi senza nome, solo in Italia sono oltre 2600, è oggetto di confronto in diversi tavoli tecnici di esperti e l’odontoiatra forense dovrebbe trovare una più giusta collocazione, proprio perché risorsa insostituibile nell’identificazione. La passione e il dovere morale di continuare a occuparmi di odontologia forense e di odontoiatria sociale, ha l’obiettivo di ampliare la tutela dei diritti umani delle persone vulnerabili e dei morti, attraverso collaborazioni e applicazioni delle nuove tecnologie".
Delitto di via Poma, "riaperte le indagini" 32 anni dopo sulla morte di Simonetta Cesaroni. C'è un nuovo sospettato. La pm Ilaria Calò avrebbe ascoltato una persona che potrebbe essere coinvolta nell'uccisione della 20enne avvenuta nel 1990. La Repubblica il 19 marzo 2022.
La Procura di Roma "riapre le indagini" sul delitto di via Poma. La pm Ilaria Calò avrebbe ascoltato un nuovo sospettato dell'efferato delitto di Simonetta Cesaroni, la ragazza di 20 anni, massacrata il 7 agosto del 1990 con 29 pugnalate, mentre lavorava negli uffici dell'Aiag nel quartiere Prati di Roma.
Lo riferisce il Foglio. Un delitto, ancora senza colpevoli, che scolvolse l'Italia facendo della povera Simonetta uno dei simboli dei misteri italiani. Calò è la stessa pm che sostenne l'accusa contro Raniero Busco, l'ex fidanzato della vittima, condannato a 24 anni e assolto nei successivi due gradi di giudizio.
Ora, secondo alcune indiscrezioni la Procura avrebbe riavviato l'attività istruttoria ascoltando testimoni dell'epoca tra cui l'allora dirigente della Squadra mobile di Roma, Antonio Del Greco. Le nuove indagini,sempre come riferisce il quotidiano, riguarderebbero un sospettato che già all'epoca dei fatti finì nel mirino degli investigatori. Il suo alibi, a distanza di 32 anni, potrebbe essere smentito da nuovi elementi.
La nuova pista, darebbe per assodata la complicità di Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile dove avvenne il delitto, arrestato subito dopo e scarcerato dopo 24 giorni di detenzione. L'uomo è morto suicida nel 2010, proprio alla vigilia di una sua deposizione in Corte d'Assise. Ora però, sostiene qualcuno, potrebbe aprirsi una nuova fase. Sarà la fine di un incubo?
Si riapre il giallo di Simonetta Cesaroni. Nuovo testimone porta a un sospettato. Stefano Vladovich il 20 Marzo 2022 su Il Giornale.
La Procura di Roma torna a cercare l'assassino della giovane segretaria uccisa nel 1990. La svolta arriva da un ex poliziotto.
Roma. Il giallo di via Poma. A trentadue anni dalla morte di Simonetta Cesaroni spunta un terzo uomo. Dopo i primi sospetti su Pietro Vanacore, il portiere dello stabile nel quartiere Prati dove viene assassinata la 21enne segretaria romana, l'arresto e il processo al fidanzato Raniero Busco, assolto definitivamente, la Procura di Roma riapre il caso. Con un vecchio indagato e nuovi elementi.
È un testimone chiave a smentire il vecchio alibi. Oltre 20 anni di indagini, errori investigativi (non venne cercata l'arma nei cassonetti, tanto per dirne uno) e giudiziari a valanga, i magistrati ripartono da zero mettendo a verbale la testimonianza dell'allora dirigente della squadra mobile romana Antonio del Greco. Top secret su quanto l'ex poliziotto avrebbe detto ai pm sul personaggio già indagato a suo tempo dalla polizia. E se nel '90 a far abbandonare i sospetti su di lui era stato un vuoto temporale del custode dello stabile proprio nell'ora del delitto, tra le 17,30 e le 18,30 del 7 agosto 1990, oggi sarebbero emerse nuove prove per un avviso di garanzia. È la soluzione del caso? Un delitto che diventa un affare nazionale quando si intrecciano trame oscure di servizi deviati e criminalità organizzata (Banda della Magliana). La pista più accattivante, poi abbandonata per mancanza di prove, vedeva la Cesaroni coinvolta, suo malgrado, in importanti segreti contenuti nell'archivio della società per cui lavorava, prove di favori fatti dalla stessa alla banda di Abbatino e compagni con il benestare del Vaticano e la complicità dei servizi italiani. Ma i documenti non sono stati mai trovati e anche questa pista viene abbandonata.
Sull'omicidio resta per anni l'ombra dei servizi italiani che avrebbero avuto una sede di copertura nello stesso stabile in cui la ragazza di Cinecittà viene uccisa con 29 colpi inferti, probabilmente, con un tagliacarte. Chi era entrato al numero 2 di via Carlo Poma in un afoso pomeriggio di agosto con l'intenzione di violentare Simonetta e poi, non riuscendoci, ucciderla a stilettate? Un giallo caratterizzato persino da false testimonianze, come quella di Roland Voller, un austriaco informatore della polizia che accusa del delitto Federico Valle. E di strani suicidi, come quello dello stesso Vanacore che nel 2010 si uccide gettandosi in mare «per le sofferenze subite in 20 anni» come scrive in una lettera. Un filone porta addirittura a un intreccio di affari illeciti scoperti dalla Cesaroni di personaggi dei servizi, affari sporchi connessi con dei programmi di cooperazione e sviluppo della Somalia. Tanto da mettere in collegamento la sua morte con il suicidio nel '95 del colonnello del Sismi Mario Ferraro. Tutte piste che, però, non portano a nulla. Ma alla sbarra ci finisce Busco, condannato in primo grado nel 2010 a 24 anni di carcere, prosciolto in appello nel 2012 e dichiarato non colpevole in via definitiva dalla Cassazione del 2014. Per i giudici della III Corte d'Assise a inchiodare Busco è una sola perizia, quella di un pool di consulenti. Per gli esperti i segni lasciati sul capezzolo sinistro della vittima sarebbero appartenuti a lui. Ma non è vero e la I Sezione d'Appello lo proscioglie con formula piena.
«Il nome dell’assassino di Simonetta Cesaroni è nelle carte». Il professore Carmelo Lavorino ha scritto un libro sul delitto di Simonetta Cesaroni ed è convinto che il nome dell’assassino sia nelle carte processuali. Valentina Stella su Il Dubbio il 20 marzo 2022.
Il 7 agosto 1990 la giovane Simonetta Cesaroni veniva uccisa in un appartamento al terzo piano del complesso di via Carlo Poma n. 2 a Roma. Il caso rimane irrisolto. Oltre trent’anni sono trascorsi da quel giorno: diverse piste, nessun colpevole, un mistero italiano forse secondo solo a quello del mostro di Firenze. Da qualche giorno è uscito un nuovo libro sul caso: Via Poma – Inganno Strutturale tre, scritto dal criminologo Carmelo Lavorino, edito dal CESCRIN (Centro Studi Investigazione Criminale). Il professore si è interessato professionalmente ad oltre duecento casi d’omicidio, fra cui appunto il delitto di Via Poma, come consulente dell’indagato Federico Valle e dell’imputato Raniero Busco.
Professor Lavorino come mai a tanti anni di distanza un nuovo libro sul delitto di via Poma?
Ho scritto il libro per diversi motivi. Innanzitutto come contributo all’individuazione del colpevole e per fare chiarezza sul marasma di notizie imprecise che girano attorno al caso. Ecco perché invito il lettore a infilarsi anima, mente, occhi e spirito critico nel fatto criminoso- giudiziario, per analizzare, indagare, comprendere e collaborare alla soluzione del caso con idee, suggerimenti, quesiti e ipotesi serie. Sicuramente l’ho scritto per definire il punto della situazione e lo stato dell’arte, per confutare i metodi di soluzione del caso adottati sinora e che hanno portato a ben poco, per esporre e riproporre il metodo di analisi investigativa criminale sistemica e di soluzione dei casi basato sull’interconnessione, l’armonia e l’interazione delle scienze criminologiche, criminalistiche, investigative e di intelligence.
Il titolo è “Inganno strutturale tre” perché è la terza volta che mi immergo nel labirinto enigmatico di Via Poma dove ho individuato l’errore- inganno a tre facce battezzato “Inganno strutturale. Tale definizione nel nostro caso significa “L’induzione in errore di chi cerca la verità ottenuta tramite l’inserimento, all’interno della struttura dell’enigma e degli elementi che la compongono, di falsi indizi, di falsi elementi, di falsi indicatori del crimine”. L’inganno strutturale è stato gestito abilmente da “qualcuno” non per coprire il colpevole, ma per salvare l’immagine e i segreti di qualche dipendente dell’AIAG ( Associazione italiana alberghi gioventù) dove lavorava saltuariamente dal 20 giugno 1990 Simonetta Cesaroni. Anzi, questo “qualcuno” era superconvinto che l’assassino fosse proprio il portiere Pietrino Vanacore.
Chi è questo qualcuno?
Non è certamente l’assassino e non protegge l’assassino. Nel libro ne parlo in modo esaustivo. È un gruppo di specialisti che ha surclassato e depistato anche i vertici della Polizia, un gruppo coordinato che indico come “Burattinaio Invisibile + Manina Manigolda”, una combinazione che ha creato e fatto prosperare l’inganno strutturale e depistato anche il Pm. In seguito il Pm, incanalato nell’alveo scavato e forte del proprio potere di coordinamento delle indagini e decisionale, ha commesso una serie di errori, sino a puntare l’innocente Federico Valle e non comprendere che il sangue sul telefono fosse proprio dell’assassino e non della vittima, che l’orario della morte di Simonetta poteva essere anticipato alle ore 16: 30- 17, che la questione delle telefonate fra una donna che diceva di essere Simonetta con altre persone era oscura e ingarbugliata.
È ancora possibile risolvere il caso di via Poma? E se sì, come?
Il caso può essere risolto se e solo se: si seguono le indicazioni investigative che fornisco nel libro; si evita di personalizzare l’indagine continuando a coprire chi ha sbagliato e/ o barato. Occorre essere umili, corretti, onesti e freddi.
Parlerei di tre profili, perché in Via Poma vi sono stati tre comportamenti criminali: I) quello dell’assassino, un comportamento del tipo disorganizzato, compulsivo ed espressivo di distruttività, rabbia e over killing; II) quello della combinazione pulitrice complice dell’assassino, mirato ad alterare la scena, a depistare, a fuorviare i sospetti, a cancellare le tracce e fare sparire le prove se non, addirittura, il cadavere; III) quello della combinazione (alias “qualcuno”) che ha coperto i segreti, le attività, la posizione e la figura di alcuni soggetti dell’Aiag e che aveva il convincimento che l’assassino fosse proprio il portiere.
Il combinato disposto di questi tre comportamenti ha impedito la soluzione del caso. L’assassino ha prodotto le ecchimosi, le ferite, la morte, le macchie di sangue sul pavimento, sul corpo, sulla porta e sul telefono; il complice ha cancellato molte tracce con l’opera di pulizia; un gruppo di specialisti ha poi nascosto, omesso, fuorviato e inquinato.
Comunque, il profilo dell’assassino è il seguente: ha l’uso naturale ed efficiente della mano sinistra, ne ha tendenza all’uso; è un impulsivo, con una fortissima autostima, non ammette di essere contraddetto e/ o rifiutato; si presenta come gentile e cordiale, ma è sempre vigile e attento, pronto alla iperdifesa ed allo scontro; aveva le chiavi dell’AIAG per motivi propri, di occasionalità pregressa o per attività di qualche suo familiare o conoscente; non ha alibi fra le 16: 00 e le 17: 00, oppure il suo alibi non è stato descritto e/ o controllato a dovere; è privo di empatia; ha goduto di complicità e di copertura; il suo gruppo sanguigno è A DQAlfa 4/ 4, si è ferito ( molto probabilmente è stato ferito da Simonetta proprio col tagliacarte che poi diviene l’arma del delitto), ha sporcato di sangue il telefono della stanza n° 3. Giusto per chiarezza, l’assassino non è il portiere Pietrino Vanacore.
Potrebbe avere ucciso altre volte?
Chi uccide una volta per perdita del controllo in un contesto di aggressione sessuale può avere la c. d. “coazione a ripetere”. Quindi, è probabile che abbia ucciso qualche prostituta, ma con un altro modus operandi.
Invece qual è il profilo della vittima?
Era una ragazza a basso rischio, intelligente, cordiale, bella, che era molto osservata dagli uomini. Conosceva la vittima? In che rapporti era con Lei? Sicuramente l’assassino godeva della fiducia della vittima per una serie di motivi che ho enunciato nel libro.
Qual è il movente dell’omicidio?
Tutto nasce dalla situazione: l’assassino è di fronte a Simonetta, pronto all’aggressione sessuale. Simonetta resiste, si oppone, molto probabilmente afferra il tagliacarte e ferisce l’aggressore, oppure, col suo comportamento e con le sue parole ferisce l’uomo in modo profondo, umiliante e devastante: la rabbia del soggetto ignoto sale da zero a mille. La colpisce alla tempia con uno schiaffo inferto con la mano sinistra, Simonetta sviene. L’assassino la spoglia, poi il suo pensiero va al peggio: quando la ragazza si riprenderà lo denuncerà e lui non può permetterselo. Si scopriranno troppi altarini: avrebbe troppo da rimetterci. Esplode il suo Es, selvaggio ed arcaico, contenitore delle sue pulsioni indicibili: autoconservazione e istinto di sopravvivenza, egoismo, punizione e volontà distruttiva. È sull’orlo del precipizio, sulla via del non ritorno. Prende il tagliacarte e dà il via al rito appetitivo della 29 pugnalate, cambiando zona di appoggio e zone del corpo.
Si tratta quindi di omicidio strumentale per tacitazione testimoniale e per vendicarsi dell’insulto subito. Il contesto è nell’ambito dell’aggressione sessuale e del litigio.
Qual è l’arma del delitto?
È un tagliacarte, ed è il tagliacarte rinvenuto dalla Polizia nella stanza n° 3, sul tavolino di lavoro della dipendente AIAG Maria Luisa Sibilia. Questo tagliacarte la mattina del 7 agosto, sino alle ore 15 era introvabile, poi è stato usato per uccidere Simonetta e, infine, dopo l’attività di lavaggio è stato disposto sul tavolinetto della stanza di Maria Luisa Sibilia: è ovvio che solo il soggetto ignoto ( l’assassino o il rassettatore) ha potuto disporre il tagliacarte sul tavolinetto della Sibilia: questo significa che sapeva che era di Maria Luisa Sibilia ma non che la mattina era stato cercato dalla proprietaria e non trovato.
L’assassino è ancora vivo secondo Lei? Fu interrogato ai tempi del delitto?
Il nome dell’assassino è nelle carte.
Aveva un complice?
Come ho già detto il complice è il soggetto pulitore-rassettatore, colui il quale ha pulito l’ambiente ed ha lavato il tagliacarte per poi rimetterlo a posto, sul tavolino di lavoro della dipendente AIAG Maria Luisa Sibilia.
Quali sono stati i maggiori errori investigativi?
Tanti. Ne elenco alcuni: puntare solo sul portiere; il sopralluogo incompleto, inadeguato e arruffato; le fotografie scattate in numero minimo e nessuna documentazione per ogni stanza; il computer su cui lavorava Simonetta messo sotto controllo tardivamente; le sviste e le omissioni del medico legale (non prendere le temperature cadaveriche ed ambientali ogni dieci minuti; non comprendere che l’assassino avesse usato la mano sinistra; non analizzare il contenuto gastrico; non tamponare le ecchimosi e i graffi della vittima per la ricerca di saliva; non consegnare i reperti “calzini, reggiseno e top di pizzo sangallo della vittima alla Polizia scientifica); l’appartamento dissequestrato dopo solo sei giorni; la scomparsa delle scarpe della vittima non analizzate e della cartellina di lavoro della stessa; la mancata individuazione e la non consapevolezza che il sangue sul telefono fosse gruppo A DQAlfa 4/ 4, quindi dell’assassino; non valutare che l’orario del delitto potesse essere prima delle ore 17 e che la famosa telefonata delle ore 17: 05 di Simonetta alla Berrettini poteva essere stata fatta un’ora prima e/ o che fosse un bluff magistrale.
Senza questi errori quindi forse sarebbe stato catturato?
Sicuramente sì!
Molto mistero ruota ancora intorno alla morte di Peppino Vanacore. Lei che idea si è fatto di quest’uomo, della sua condotta dopo il delitto e della sua morte?
Non ritengo che sia l’assassino, sicuramente sapeva qualcosa e, come disse il capo della squadra mobile Nicola Cavaliere “Di dritto o di rovescio doveva entrarci”. Vanacore si è suicidato, può essere suicidio per depressione, per perdita dei meccanismi di autodifesa, per protesta; per una specie di sindrome di Beck allargata: sfiducia nel futuro, in se stesso, negli altri, nel mondo e nella giustizia. Può essere suicidio per autotacitazione testimoniale, quindi a favore delle persone che in via ipotetica avrebbe potuto danneggiare con le proprie rivelazioni; per rimorso se avesse egli taciuto in parte o totalmente la terribile verità di cui era custode geloso, così impedendo l’accertamento dei fatti e quindi l’individuazione del colpevole. La logica induce a ritenere che Vanacore si sia assunto responsabilità altrui e che abbia voluto pagare per tutti.
· Il Mistero di Mattia Mingarelli.
Barbara Gerosa per corriere.it il 30 gennaio 2022.
Come è morto Mattia Mingarelli? L’esito dell’autopsia parla di «fratture occipitali e orbitali compatibili con una caduta contro una roccia o un oggetto contundente, che insieme allo stato di assideramento ne hanno provocato il decesso».
Ma anche di un ematoma sotto un occhio, che potrebbe far pensare a un colpo ricevuto. Per la Procura di Sondrio, che per due volte ha chiesto l’archiviazione del fascicolo ancora aperto per omicidio a carico di ignoti, segni provocati da una scivolata sul sentiero impervio.
«Non è stato un’incidente. Non siamo noi a dire che non può essere caduto da solo nel bosco, rimanendo lì per 17 giorni senza essere trovato da chi lo ha cercato anche in quel punto, sono gli atti di indagine a parlare».
Ne è convinta la sorella Elisa che non arretra di un passo e chiede che si continui ancora ad indagare: «non cerchiamo un colpevole a tutti i costi, ma solo una spiegazione logica e coerente che ci dica cosa è davvero successo a mio fratello». Mattia Mingarelli, 30 anni, agente di commercio in un’azienda vinicola, viveva a Albavilla.
A tre anni di distanza la sua morte resta un mistero. Scomparso la sera del 7 dicembre 2018 mentre era in vacanza nella baita di famiglia in località Barchi, 1700 metri di quota, a Chiesa in Valmalenco. Ritrovato cadavere la vigilia di Natale in un bosco accanto alle piste da sci. Il colpo mortale alla nuca, l’ematoma al volto, una scarpa poco più in alto.
Il 2 febbraio si terrà l’udienza davanti al giudice per le indagini preliminari di Sondrio che dovrà decidere in merito alla nuova opposizione all’archiviazione presentata, tramite i legali, da papà Luca, mamma Monica e le sorelle Elisa e Chiara.
La sera della scomparsa Mattia era atteso a cena in un locale a venti metri dalla sua abitazione. Non arriverà mai. L’ultimo a vederlo un rifugista della zona, Giorgio Del Zoppo, interrogato a lungo e mai indagato.
Non sono amici, si conoscono a malapena. «Abbiamo bevuto un bicchiere insieme e mangiato un tagliere di salumi, poi se n’è andato», racconta. Sarà lui il giorno dopo a trovare nella neve il cellulare del ragazzo: inserisce la sim e chiama il padre del trentenne.
Diciassette giorni di buio fino al ritrovamento del corpo in un punto battuto dalle ricerche: i soccorritori erano passati a sette metri di distanza, lo dicono i tracciati del gps. Stefania Amato e Paolo Camporini, avvocati della famiglia, ora chiedono nuove indagini e svelano particolari inediti. «C’era un terzo uomo quella sera nel rifugio. Una persona che agli inquirenti ha reso dichiarazioni, poi ritrattate, sul presunto coinvolgimento di Del Zoppo nella scomparsa di Mattia. Non solo. La baita è stata posta sotto sequestro, ma i sigilli sarebbero stati violati e la cantina si è allagata poche ore prima dell’arrivo dei Ris.
All’interno sono state trovate tracce ematiche appartenenti al rifugista e Dante, il cane da cui Mattia non si separava mai, invece di seguire il padrone, la notte della scomparsa è entrato nell’abitazione di Del Zoppo.
Abbiamo depositato consulenze che avanzano ipotesi alternative all’incidente, a partire dal fatto che il corpo sarebbe stato portato solo successivamente nel luogo dove è stato trovato». Mattia si sarebbe sentito male.
Nel sangue sono state trovate tracce di alcol e droghe leggere. Secondo i pm si sarebbe incamminato lungo il sentiero fino alla caduta fatale. «Quantità minime, tali da non comprometterne la lucidità — ribatte Elisa —, lo dice l’esame tossicologico. Devono spiegarci perché mio fratello si sia avventurato da solo nel bosco, senza telefono, senza torcia, con un abbigliamento inadatto».
«La Procura generale alla quale è stata chiesta l’avocazione delle indagini, non ha ritenuto di concederla, giudicando il nostro operato consono — dice il procuratore facente funzioni di Sondrio Elvira Antonelli —. Tutti i campi sono stati esaminati, nulla è stato tralasciato. Non sono emersi elementi che possano suffragare, la tesi dell’omicidio. Ora spetta al Gip decidere».
Mattia Mingarelli, un terzo uomo nella baita prima della morte e il cellulare del testimone gettato nel fuoco. Barbara Gerosa su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.
L’agente di commercio di Albavilla, scomparso il 7 dicembre 2018 a Barchi a Chiesa in Valmalenco (Sondrio), venne ritrovato morto alla vigilia di Natale. La Procura ha chiesto per due volte l’archiviazione: «Caduta accidentale». I famigliari si oppongono.
C’era un terzo uomo quella sera nella baita dove Mattia è stato visto l’ultima volta. Una persona del posto, che agli inquirenti avrebbe reso dichiarazioni in merito a sue presunte supposizioni su chi avrebbe potuto fare del male al giovane comasco. A rivelarlo i legali dei genitori e delle due sorelle di Mattia Mingarelli, 30 anni, agente di commercio, casa ad Albavilla, scomparso il 7 dicembre 2018 in località Barchi a Chiesa in Valmalenco (Sondrio) e ritrovato cadavere 17 giorni dopo, la vigilia di Natale, in un bosco della zona.
Il fascicolo per omicidio
In vista dell’udienza il prossimo 2 febbraio davanti al gip del tribunale di Sondrio che dovrà decidere sulla nuova istanza di opposizione all’archiviazione del fascicolo, ancora aperto per omicidio a carico di ignoti, gli avvocati Stefania Amato e Paolo Camporini hanno elencato i punti da approfondire con nuovi accertamenti tecnici. Secondo la Procura, che per due volte ha chiesto l’archiviazione, il giovane sarebbe morto a causa di una caduta, non così per i famigliari.
Il testimone
L’ultimo a vedere Mattia un rifugista della zona, Giorgio Del Zoppo, interrogato a lungo, mai indagato. «Ma non erano soli — spiegano i legali — e l’uomo che era con loro avrebbe avanzato supposizioni, poi ritrattate, sul ruolo di Del Zoppo. La stessa persona che alla richiesta degli inquirenti di visionare il suo cellulare ha dichiarato di averlo gettato nel fuoco». Agli elementi si aggiungono « la cantina del rifugio allagata pochi giorni prima dell’arrivo dei Ris e le tracce ematiche appartenenti a Del Zoppo rinvenute nella baita. Il gip che lo scorso anno aveva rigettato la prima richiesta di archiviazione non aveva escluso ipotesi alternative alla caduta, chiedendo accertamenti specifici sulla terrazza del rifugio». Mattia aveva assunto droghe leggere, ma non in quantità tali da provocare uno stato confusionale come emerso dagli esami tossicologici. «Era lucido quando senza telefono, senza torcia, senza il suo cane, senza abbigliamento idoneo, secondo gli inquirenti si sarebbe inoltrato da solo di sera nel bosco, scivolando dove è stato ritrovato 17 giorni dopo in un punto già battuto nelle ricerche. Troppe incongruenze su cui familiari attendono risposte».
· Il mistero di Michele Merlo.
Perizia choc su Michele Merlo. "Salvo con la diagnosi giusta". Il cantante ucciso da una leucemia, ma il medico non riconobbe i sintomi. Ora è indagato per omicidio colposo. Tiziana Paolocci l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.
Il cantante vicentino Michele Merlo si poteva salvare. L'ex concorrente di Amici e X Factor, deceduto a soli 28 anni il 6 giugno del 2021 nell'ospedale di Bologna per una leucemia fulminante, probabilmente sarebbe sopravvissuto, se il medico di base al quale si era rivolto non avesse sottovalutato quell'ematoma che aveva all'interno della coscia sinistra, sottovalutando il problema e scambiando per uno strappo muscolare.
A questo risultato è arrivata la nuova super-perizia disposta dal gip di Vicenza nell'ambito dell'inchiesta per omicidio colposo che vede indagato il dottor Pantaleo Vitaliano, medico di base con studio a Rosà, dal quale l'artista era andato a farsi vedere il 26 maggio dello scorso anno. Quel livido era comparso una settimana prima sulla gamba e preoccupava Merlo. Ma il medico sostenne che si trattava di strappo muscolare e gli prescrisse solo un bendaggio allo zinco da tenere per 4 o 5 giorni.
Il 2 giugno, poi, un altro specialista visitò il cantante nell'ambulatorio di Continuità assistenziale di Vergato (in Emilia Romagna) diagnosticandogli una tonsillite, senza rendersi conto a sua volta che aveva davanti uno dei primi segnali di quel tumore, che stava intaccando le cellule del sangue del cantante.
Una precedente perizia disposta dalla procura di Bologna, ha però scagionato quest'ultimo medico perché per salvare il 28enne era già troppo tardi: «Nessuna terapia somministrata quel giorno gli avrebbe evitato il decesso».
Al contrario la nuova perizia evidenzia, e ne è convinta la famiglia della vittima tutelata dall'avvocato Marco Dal Ben, che se il dottor Vitaliano avesse disposto le analisi del sangue, per scoprire il motivo di quell'ematoma, avrebbe scoperto subito che Merlo aveva la leucemia: «Qualora la terapia corretta fosse stata somministrata a partire dal 27-28 maggio (...) avrebbe avuto una probabilità di sopravvivenza compresa tra il 79 e l'87 per cento».
Il medico indagato ha sempre respinto l'addebito, sostenendo che fu il ragazzo a trarlo in inganno, affermando di essersi fatto male alla coscia durante un trasloco. «Gli ho detto di tornare da me il 31 maggio ma non l'ho più visto» ha dichiarato Vitaliano, il cui operato non è stato contestato dagli ispettori inviati dalla Regione per accertare l'accaduto.
«Non emergono rilievi particolari sulla gestione del paziente - avevano sottolineato - soprattutto in considerazione che il signor Merlo non si è presentato al controllo suggerito».
La relazione firmata dal medico legale Antonello Cirnelli e dall'oncologo Valter Bortolussi e già stata depositata in Tribunale, dove verrà discussa il 29 settembre. In quell'occasione il gip Nicolò Gianesini dovrà soppesare le percentuali di sopravvivenza che avrebbe avuto il 28enne con il fatto che, secondo gli esperti, le cure contro la leucemia non avrebbero effetto immediato e nei giorni successivi si sarebbero potute verificare delle emorragie, anche letali. Questo determinerà o meno il rinvio a giudizio del medico per omicidio colposo.
Michela Allegri per “Il Messaggero” il 16 febbraio 2022.
Sarebbe potuto sopravvivere. Se avesse iniziato presto la terapia, Michele Merlo, il cantante ed ex concorrente di «X Factor» e «Amici» morto a 28 anni il 6 giugno scorso, non è detto che sarebbe guarito, ma, probabilmente, avrebbe avuto ancora diversi anni da vivere. Invece, nonostante si fosse rivolto al suo medico e fosse andato diverse volte in ospedale, la diagnosi di leucemia fulminante era stata fatta solo quando ormai non c'era più nulla da fare.
Anche se Michele aveva ematomi enormi sulle gambe che andavano e venivano, anche se aveva detto ai dottori di avere febbre, placche, mal gola. La malattia era stata trattata prima come uno strappo muscolare e poi come una tonsillite. Una serie di negligenze che hanno portato la Procura di Vicenza a iscrivere sul registro degli indagati il medico di base di Merlo, Pantaleo Vitaliano, con studio a Rosà. Ma nell'informativa dei carabinieri del Nas emerge che anche un altro dottore avrebbe trattato il paziente con superficialità. L'inchiesta era stata inizialmente aperta a Bologna, dove il ragazzo è deceduto.
LE MAIL Ma andiamo con ordine. Il 26 maggio, Michele contatta il suo medico. È preoccupato, ha un ematoma enorme sulla gamba che si estende dall'inguine al ginocchio e non ha idea di come se lo sia procurato. Ha avuto altri strani lividi in precedenza e si agita: manda una mail al dottore, allegando la foto, e chiedendo un «appuntamento urgente ho dolore forte sottocutaneo in presenza di un grumo solido, come una ciste». Ecco la risposta: «La mail è unicamente per la richiesta di terapia cronica. Per qualsiasi altro motivo chiamare in segreteria. Inoltre chiediamo di non inviare foto».
Il giovane va quindi al pronto soccorso, «riferisce ematoma alla coscia, da circa una settimana» e «nega traumi» - si legge negli atti - e gli viene assegnato un codice bianco. L'attesa è lunga, ci sono troppi pazienti da visitare. Michele se ne va. Il 26 maggio, si fa visitare in ambulatorio da Vitaliano, che tratta l'ematoma come uno strappo e applica una benda allo zinco da tenere per qualche giorno. Il dottore si è poi giustificato dicendo che il giovane gli aveva riferito di essersi fatto male durante un trasloco e che il paziente si sarebbe dovuto ripresentare in ambulatorio alla fine del mese. Il 3 giugno, il dottore riceve una nuova mail: Merlo ha male alla gola e ha la febbre. Gli viene consigliato un antibiotico e di contattare la guardia medica.
GLI ISPETTORI Secondo gli ispettori inviati dalla Regione per fare luce sulla vicenda, il camice bianco avrebbe agito nel modo corretto. Ma i Nas non la pensano così e mettono in dubbio anche la correttezza dell'operato di un secondo medico, che ha visitato il giovane a Bologna il 2 giugno, diagnosticandogli una tonsillite. Non è stato indagato perché in quella data le condizioni del cantante, per l'accusa, erano già disperate.
Per i Nas, comunque, i due dottori, «trattando con superficialità i sintomi suggestivi di leucemia, ne ritardavano la diagnosi compromettendo l'esito delle cure». Secondo i consulenti della Procura di Bologna, se la terapia corretta fosse stata somministrata a partire dal 27-28 maggio, il giovane avrebbe avuto «una probabilità di morte precoce pari a 5-10 per cento».
L'indagine sulla morte del cantante. Morte Michele Merlo, medici “superficiali” e cure “compromesse”: le accuse dei Nas per la scomparsa del cantante. Fabio Calcagni su Il Riformista il 15 Febbraio 2022.
Foto, email, cartelle cliniche, testimonianze. È il materiale raccolto dagli investigatori che stanno indagano sulla morte di Michele Merlo, il cantante vicentino già concorrente di Amici e X-Factor, morto per una leucemia fulminante all’ospedale di Bologna il 6 giugno dello scorso anno.
Per il decesso di Michele è aperto a Vicenza un fascicolo d’inchiesta con l’ipotesi di reato di omicidio colposo: l’unico iscritto nel registro degli indagati è Pantaleo Vitaliano, medico di base con studio a Rosà (Vicenza) che il 26 maggio 2021 visitò il cantante 28enne, che secondo l’ipotesi dei pm avrebbe dovuto accorgersi dell’infezione in atto ordinando degli esami del sangue. Così Merlo, secondo quanto riportano i periti, “avrebbe avuto una probabilità di sopravvivenza compresa il 79 e l’87 per cento”. Inchiesta che ormai è praticamente chiusa: manca infatti l’incidente probatorio il prossimo 2 marzo per consentire così anche consulenti della difesa di ridiscutere le conclusioni della perizia.
La ricostruzione
Tutto ruota, come riporta il Corriere della Sera, attorno all’impressionante ematoma comparso sulla coscia sinistra. La tumefazione compare il 16 maggio, preceduta il 7 dello stesso mese da ecchimosi su schiena e avambraccio destro. Il 26 maggio il cantante scrive al medico di base allegando la foto dell’ematoma alla gamba, che nel frattempo si è allargato estendendosi dall’inguine al ginocchio: Michele chiede “un appuntamento urgente” perché prova “dolore forte sottocutaneo in presenza di un grumo solido, come una ciste”. La risposta arriva dopo pochi minuti: “La mail è unicamente per la richiesta di terapia cronica. Per qualsiasi altro motivo chiamare in segreteria. Inoltre chiediamo di non inviare foto”.
Nello stesso giorno, poco dopo le 14, Michele Merlo si reca al pronto soccorso di Cittadella dove gli viene assegnato un codice bianco: nella scheda del triage il personale sanitario scrive che il paziente “riferisce ematoma alla coscia, da circa una settimana (…) Nega traumi”.
Un riferimento fondamentale quest’ultimo, perché dopo un paio d’ore il cantante, stanco di aspettare, lascia l’ospedale e si fa accompagnare dalla fidanzata nello studio di Vitaliano, che tratta l’ecchimosi sulla coscia come uno strappo muscolare. “Mi riferì di essersi procurato l’ematoma durante un trasloco. Gli ho detto di tornare da me il 31 maggio ma non si è più presentato”, spiegherà successivamente.
Cosa non torna
Un punto che non quadra. Michele Merlo poche ore prima non indica ai medici del pronto soccorso di aver subito un trauma, poi direbbe l’opposto al suo medico di base. Agli ispettori della Regione Vitaliano spiegherà anche il 3 giugno riceverà da Merlo una nuova mail in cui scrive di essere “molto dolorante in gola e ho la febbre costante che sale e scende”. Il medico propone di cambiare antibiotico e di rivolgersi a una guardia medica, secondo gli ispettori di Azienda Zero, struttura di vertice della sanità veneta, il suo comportamento è corretto: “Non emergono rilievi particolari sulla gestione del paziente — si legge nella relazione finita in Procura — soprattutto in considerazione che il sig. Merlo non si è presentato al controllo suggerito”.
Di diverso avviso è la relazione dei consulenti della Procura di Vicenza, che in 52 pagine contestato a Vitaliano che “con elevata probabilità non ha valutato con sufficiente attenzione l’ematoma (…) non sono stati considerati in maniera adeguata i pregressi ematomi (…) Tali errori possono aver determinato un ritardo nella diagnosi”.
Pur non escludendo che il cantante potesse morire lo stesso, i consulenti spiegano che “qualora la terapia corretta fosse stata somministrata a partire dal 27-28 maggio, avrebbe avuto una probabilità di morte precoce pari a 5-10 per cento”.
Il secondo medico (non indagato)
Ma dalle carte dell’inchiesta emerge anche il ruolo di un secondo medico, Enrico Giannini, che visitò Merlo il 2 giugno nell’ambulatorio di Continuità assistenziale di Vergato, dove il giovane era ospite della fidanzata in Emilia in quei giorni, diagnosticandogli una tonsillite. Tuttavia, si legge nella perizia, “nessuna terapia somministrata il 2 giugno avrebbe evitato il decesso” e per questo il medico di Vergato non è stato indagato.
Secondo i periti la condotta di Giannini “non ha incluso un’attenta anamnesi e un esame obiettivo completo”, anche se il suo lavoro è stato complicato dal fatto che Michele non aveva segnalato emorragie e altri sintomi.
Sono state invece responsabilità dai medici del pronto soccorso di Cittadella e dell’ospedale di Bologna che prenderanno in cura Michele il 3 giugno, quando arriva ormai privo di sensi dopo essere svenuto davanti alla fidanzata. Saranno quest’ultimi a scoprire, ormai troppo tardi, la leucemia che costerà la vita al cantante 28enne.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
· Il Giallo di Federica Farinella.
La scomparsa, il canneto "raso al suolo", la morte: "La verità su Federica". Rosa Scognamiglio il15 Marzo 2022 su Il Giornale.
Federica Farinella scomparve da Chiusano d'Asti nel settembre del 2001. I suoi resti sono stati ritrovati in un bosco 19 anni dopo. I familiari non credono all'ipotesi dell'allontanamento volontario.
"Io non ci credo che mia figlia si sia allontanata volontariamente". Non si dà pace Francesco, il papà di Federica Farinella, la modella trentenne che scomparve una domenica di settembre del lontano 2001 da Chiusano d'Asti. I suoi resti sono stati ritrovati nell'ottobre 2020 in prossimità di un canneto distante, in linea d'area, circa 500 metri dall'abitazione dove avrebbe trascorso i suoi ultimi istanti di vita. E il condizionale in questo caso è d'obbligo, poiché le circostanze della scomparsa di Federica non sono mai state chiarite. Ma non è tutto.
C'è un giallo nel giallo in questa storia. "Il canneto in cui sono stati trovati i resti di Federica è stato completamente raso al suolo mentre erano in corso i sopralluoghi e nonostante l'area fosse stata delimitata con un nastro di avvertenza. Chi può averlo fatto? Forse qualcuno che c'entra con la morte della ragazza?", si interroga con nostra redazione il criminologo e antropologo forense Fabrizio Pace, presidente di Penelope Piemonte, l'associazione di volontari che si occupa della ricerca di persone scomparse.
Chi era Federica Farinella
Federica Farinella nacque il 2 marzo 1971 a Rivoli, in provincia di Torino, città dove visse fino al diploma. Sin da bambina trascorse i fine settimana a Chiusano d'Asti, una località sulle colline verdeggianti dell'Astigiano, dove i genitori sono proprietari di un piccolo podere. All'età di 20 anni, conclusi gli studi, decise di trasferirsi a Roma per intraprende la carriera nel mondo dello spettacolo. È cresciuta guardando "Non è la Rai" e sognava di fare di la modella. Del resto era una ragazza bellissima: alta, con occhi azzurri e lunghi capelli castani. Così un giorno salì su un treno diretto verso la Capitale con una valigia carica di speranze. A Cinecittà conobbe persone in vista, agenti e volti del piccolo schermo. Riuscì a entrare nel cast di "Bravissima", un talent show degli anni '90. Dopo cinque anni di provini e set fotografici, Federica era a un passo dal successo. Ma poi, decise di far ritorno a Rivoli.
"Federica era rimasta molto delusa dal mondo dello spettacolo. - racconta alla redazione de ilGiornale.it Francesco Farinella, il papà di Federica nonché vicepresidente dell'associazione Penelope Piemonte - Dopo cinque anni a Roma, era ritornata a casa. Successivamente aveva trovato un impiego come centralinista in un call center rimettendosi, pian piano, di nuovo in carreggiata. Era seguita da una psicologa, perché chiaramente aveva subito una grossa delusione, ma non era una ragazza 'problematica'. Anzi. Dopo la scomparsa la psicologa confermò che non avrebbe mai lasciato la famiglia. E questo è uno dei motivi per cui nutro forti dubbi che possa essersi allontanata volontariamente".
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La scomparsa
Era il 2 settembre del 2001, pressappoco all'ora di pranzo. Come ogni fine settimana, la famiglia Farinella si era riunita nella casa di campagna a Chiusano d'Asti. Federica era seduta su una sdraio in giardino intenta a sfogliare una rivista. Poco distante c'era papà Francesco mentre la mamma era affaccendata in cucina. "Eravamo in giardino - ricorda Francesco - Federica stava sfogliando una rivista che le avevo portato dalla Sicilia. Sollecitato da mia moglie, mi spostai nell'aia per andare a controllare la gallina che aveva appena covato. Trascorsero una manciata di minuti e quando feci per tornare indietro col cestino delle uova da mostrare a Federica, lei non c'era più".
Tre minuti e mezzo. Sarebbe questo, secondo i calcoli di Francesco, l'arco temporale in cui Federica è scomparsa. "Con un mio amico carabiniere - spiega - abbiamo cronometrato il tempo che ho impiegato per andare e venire dal giardino. Dalla simulazione è risultato che ci avrò messo non più di 3 minuti e 40/50 secondi. Come è possibile che una persona sparisca nel nulla, per giunta dal giardino di casa, dove tutt'attorno c'è una vegetazione incolta, in così poco tempo?".
Le ricerche
Dopo aver accertato che Federica non fosse né in casa né nei paraggi del podere, i familiari decisero di denunciarne la scomparsa ai carabinieri. "Al tempo non c'era ancora la legge 203 sulle disposizioni per la ricerca delle persone scomparse – precisa Francesco – Dunque, trattandosi di una persona adulta, i carabinieri ci dissero che non potevano fare molto. Telefonai anche ai vigili del fuoco e alla protezione civile per ricevere supporto nelle operazioni di ricerca. Perlustrammo la zona palmo a palmo, ci attrezzammo persino con gli elicotteri ma di Federica non ci fu ombra".
Le ricerche procedettero a ritmi serratissimi per giorni ma della bellissima trentenne non c'era traccia. "La cercammo ovunque – continua il papà di Federica – intervennero persino le unità cinofile ma fu tutto inutile".
Il ritrovamento dei resti
Per ben 19 anni Francesco, che intanto si è stabilito nella casa di campagna, attende il ritorno di Federica. Le sue speranze si infrangono quando, nell'ottobre del 2020, vengono ritrovati dei resti umani nei boschi di Chiusano d'Asti, a circa 500 metri - in linea d'aria - dall'abitazione dei Farinella, al confine con la frazione di Montechiaro. È un cacciatore della zona a segnalare la presenza di frammenti ossei tra i canneti del luogo. Gli esami comparativi del Dna accerteranno che si tratta della bellissima modella astigiana.
"Il 29 dicembre del 2020 - spiega ancora Francesco - ho ricevuto una telefonata dal maresciallo dei carabinieri che mi comunicava questa drammatica notizia. Avevano aspettato a dirmelo fino a quando non hanno avuto la certezza che si trattasse di Federica. Se da un lato mi sono sentito 'sollevato' dal fatto di poter dare a mia figlia una degna sepoltura, di poterla omaggiare con un fiore, dall'altro mi si è spezzato il cuore perché ho avuto la conferma definitiva che non fosse più in vita. Ho perduto ogni speranza di poterla riabbracciare".
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Un giallo nel giallo
Dopo il ritrovamento dei resti, la procura di Asti ha deciso di chiudere il fascicolo sulla scomparsa di Federica senza notizia di reato (modello 45). non ravvisando elementi di rilevanza penale tali da dare seguito a eventuali indagini. Da qui la scelta della famiglia di procedere autonomamente con ulteriori approfondimenti e accertamenti tecnici del caso. "Nell'ottobre del 2020 sono stati rinvenuti i resti di Federica - il cranio e una tibia, per la precisione - e a seguito di sopralluogo da parte delle forze di polizia, non essendo emersi altri resti, la procura ha ritenuto inopportuno aprire un procedimento con notizia di reato - spiega il criminologo e antropologo forense Fabrizio Pace - Dunque, di nostra iniziativa, non soddisfatti dei risultati raggiunti, abbiamo organizzato due sopralluoghi nella zona del ritrovamento recuperando gli altri frammenti ossei. Mi è stato trasmesso dalla dottoressa Cristina Cattaneo, nota antropologa, che ogni frammento è parte integrante di quell’individuo".
E qui il mistero s'infittisce. Il canneto dove erano state rinvenute le spoglie di Federica viene raso al suolo proprio mentre sono in corso le ispezioni dei periti ingaggiati dalla famiglia Farinella. "L'area era stata delimitata con un nastro di avvertenza per consentire lo svolgimento delle attività - prosegue l'esperto - Durante le due settimane in cui abbiamo lavorato al recupero dei resti però, qualcuno ha raso completamente al suolo la zona nonostante fosse pur non essendo sotto sequestro il luogo, vietato l'accesso al terreno. Perché? La logica suggerisce che la persona intervenuta in quei luoghi c'entri qualcosa con la morte di Federica. Non è un posto raggiungibile agevolmente, non vi si accede dalle vie principali, e bisogna andarci di proposito. La mia impressione è che qualcuno abbia voluto eliminare eventuali tracce che potessero alimentare sospetti legati alla morte di Federica. Non vedo altra spiegazione. È un giallo nel giallo".
Le ipotesi
Allontanamento volontario? Rapimento? Le ipotesi sulla scomparsa di Federica, oggi più di ieri, aprono scenari ben più complessi e articolati rispetto a quelli formulati prima del ritrovamento dei resti. "Federica non si è allontanata volontariamente - afferma con tono deciso papà Francesco - Anzitutto perché era impossibile che attraversasse il bosco, spingendosi oltre una collinetta ripida e piena di insidie, con ai piedi un paio di infradito da casa, una maglietta e un pantaloncino. Poi ha lasciato in giardino il pacchetto di sigarette con dentro anche l'accendino oltre alle due stecche stipate in camera. E mia figlia era una fumatrice incallita, non si sarebbe mai spostata senza portare con sé le sigarette. Inoltre mi sembra alquanto strano che una persona decida di andarsene senza un soldo in tasca. Nel suo cassetto c'erano 270mila lire, tutto ciò che aveva".
Dello stesso avviso è anche Fabrizio Pace. "Non si è trattato di un suicidio - dice - Non è possibile che nella zona del ritrovamento dei resti non sia stato rinvenuto alcun effetto personale della ragazza. Né un orecchino, né un monile o semplicemente il laccio dei pantaloncini e neppure le ciabattine di plastica che indossava quel giorno. Ed è ancora più assurdo che nessuno si sia preoccupato di approfondire le ricerche dopo aver recuperato i primi frammenti ossei lasciando il caso a un modello 45, senza ipotesi di reato. Lo abbiamo fatto noi, a nostre spese, ma avrebbe dovuto occuparsene chi di dovere".
Cosa è successo a Federica?
Restano tante, troppe domande irrisolte sulla misteriosa scomparsa della modella astigiana. Si è trattato davvero di un allontanamento volontario? Come è morta Federica? Il cadavere è rimasto nel bosco per 19 anni? Ma soprattutto, chi ha raso al suolo il canneto e perché lo ha fatto? "Federica era sicuramente una ragazza con delle fragilità ma questo esula dal contesto dei fatti - precisa il criminologo - Sarebbe stato importante approfondire le indagini sui resti perché si sarebbero potute chiarire le circostanze del decesso che, a parer mio, restano ambigue. A tal proposito non mi fermerò, continuerò a cercare la verità per Federica, che a seconda della nostra età anagrafica potrebbe esserci madre, sorella, figlia, nipote, amica. Glielo dobbiamo".
Francesco, che oggi ha 84 anni, non intende darsi per vinto. "Io non so cosa o chi c'è dietro la scomparsa di mia figlia - conclude - Ma una persona non svanisce nel nulla in tre minuti e mezzo".
La morte di Mauro, il carabiniere assolto e quel teste ignorato che riapre il caso. Luigi Manconi su La Repubblica il 15 febbraio 2022.
Nel filmato trasmesso da “Chi l’ha visto?” i carabinieri cercano di convincere Guerra ad andare in ospedale: poi la situazione precipita. Ucciso sei anni fa, l’altra verità di un maresciallo.
Un giovane uomo fugge lungo i campi nei pressi della propria abitazione, a Carmignano di Sant'Urbano, una località tra Padova e Rovigo. È a piedi nudi e indossa solo un paio di boxer. È il 29 luglio del 2015 e Mauro Guerra, questo è il suo nome, morirà a trentadue anni in quel pomeriggio afoso. A ucciderlo è un colpo di pistola che gli trafigge l'addome, esploso da uno dei carabinieri che lo inseguono.
Omicidio di Mauro Guerra, l’intervista che può cambiare le cose. Riccardo Noury su Il Corriere della Sera il 13 Febbraio 2022.
A due settimane dall’annunciata chiusura del processo d’appello in sede civile per l’omicidio di Mauro Guerra, avvenuto il 29 luglio 2015 a Carmignano di Sant’Urbano, un’intervista può cambiare completamente le cose.
Su una delle più assurdamente tragiche violazioni dei diritti umani accadute negli ultimi anni in Italia, mai diventata popolare a causa del luogo estremamente periferico in cui si svolse, hanno cercato di tenere i riflettori accesi le organizzazioni Amnesty International e A Buon Diritto e una manciata di giornalisti.
Uno di loro, Ivan Grozny Compasso, ha intervistato una persona più che interessata ai fatti, su cui ricordiamo che nel dicembre 2018 è stata pronunciata una sentenza di assoluzione.
Il maresciallo dei carabinieri Filippo Billeci non è proprio una figura di secondo piano: nel 2011 ha diretto un’operazione anti-camorra e sette anni dopo è stato nominato Cavaliere al merito della Repubblica italiana.
Nel 2015 Billeci è il comandante della stazione dei carabinieri di Battaglia Terme. Fino a poco tempo prima era stato comandante proprio della stazione di Carmignano di Sant’Urbano. Il 29 luglio i suoi colleghi gli chiedono di recarsi lì, dove c’è da fare un Tso a una persona recalcitrante.
Billeci scoprirà solo dopo che non era stato autorizzato alcun Tso e si renderà invece subito conto che la persona che doveva subirlo era sì, giustamente, recalcitrante ma non pericolosa. Del resto, Billeci e Guerra si conoscono.
Dall’intervista emergono particolari sconcertanti, soprattutto quando Billeci è chiamato a commentare le dichiarazioni fatte sotto giuramento da un suo collega, il brigadiere Stefano Sarto, colui che l’ha chiamato a Carmignano di Sant’Urbano.
Billeci, che a sua volta ha perso un figlio in circostanze tragiche nel 2021, ricorda che con Guerra “c’era un rapporto particolare, ci capivamo”. È tormentato dal fatto che “c’era il mondo attorno a quella casa” [della famiglia Guerra] e che “la situazione è sfuggita di mano a tutti”.
Billeci smentisce le affermazioni di Sarto, il quale ha sostenuto che di fatto fosse stato proprio Billeci ad assumere il controllo della situazione e avesse dato il comando di catturare Guerra, dando vita a un folle inseguimento nei campi. Ricordiamo: un uomo in preda al panico, a piedi nudi e in mutande, inseguito da carabinieri armati.
Come poteva una persona, per quanto agitata, costituire un pericolo? La risposta di Billeci è importante, poiché è proprio sull’elemento della pericolosità di Guerra che si è basata la sentenza assolutoria del 2018. La risposta è questa:
“Lo sappiamo benissimo, non credo fosse pericoloso. Se lo fosse stato non sarei stato in casa da solo un’ora con lui. Per me Mauro non era pericoloso, con me non c’erano mai stati problemi in tanti anni (…) Prima che arrivassi io era abbastanza alterato, poi quando sono arrivato io si è calmato. Quando si è messo a correre lungo la strada non ha fatto nulla a nessuno”.
Perché Billeci non sia mai stato chiamato a testimoniare, rimane un enorme mistero di una delle ennesime storie italiane in cui una famiglia chiede giustizia e rischia di non riceverla dalle istituzioni cui si affida.
Monica Ricci Sargentini.
Ho cominciato a fare la giornalista nel 1989 in contemporanea con il crollo del muro di Berlino e da 18 anni seguo i maggiori avvenimenti internazionali. Dal 2004 lavoro nella redazione Esteri del Corriere della Sera.
Riccardo Noury.
Faccio parte dal 1980 di Amnesty International, di cui sono portavoce e direttore della comunicazione per l'Italia. Da trent'anni cerco di raccontare, con la parola scritta e con la voce, storie di diritti umani, violati ma anche difesi, spesso con grande successo.
La storia. La morte di Mauro Guerra, ucciso da un carabiniere per un Tso: un testimone ‘dimenticato’ può riaprire il caso. Fabio Calcagni su Il Riformista il 15 Febbraio 2022.
C’è un teste ignorato in tribunale che potrebbe riaprire il caso della morte di Mauro Guerra? A sostenerlo è un articolo a firma Luigi Manconi su Repubblica, che torna sul caso del 32enne ucciso il 29 luglio del 2015 a Carmignano di Sant’Urbano, in provincia di Padova, per un colpo d’arma da fuoco nell’addome esploso da un carabiniere.
In quel pomeriggio caldo e afoso Guerra è inseguito da Marco Pegoraro, nuovo comandante della locale Stazione, e da altri militari, che vogliono sottoporlo a Tso, il trattamento sanitario obbligatorio. Mauro, che corre seminudo vestito solo con dei boxer, viene ‘placcato’ dai carabinieri che gli mettono le manette a un polso, quindi il 32enne riesce a divincolarsi e a reagire colpendo un carabiniere, fino al colpo di pistola che lo raggiunge all’addome. Le procedure di rianimazione iniziano solo 40 minuti più tardi, all’arrivo dell’elisoccorso, ma Mauro viene dichiarato morto un’ora e mezza più tardi, senza alcun ritrovamento di sostanze psicotrope nel sangue.
Per capire l’epilogo di questo caso bisogna fare un passo indietro. Mauro Guerra, laureato in Economia e in procinto di diventare commercialista grazie a un tirocinio professionale che stava svolgendo, qualche giorno prima della sua morte si reca nella caserma dei carabinieri distanti poche centinaia di metri dalla sua abitazione per comunicare l’intenzione di organizzare una manifestazione pubblica. In caserma trova Marco Pegoraro, il nuovo comandante, e gli lascia dei disegni di “ispirazione mistica”.
Per Pegoraro i disegni e le parole pronunciate da Guerra bastano per considerarlo una persona pericolosa e per questo decide di sottoporlo a Tso, anche se non vi sono ragioni oggettive ed il provvedimento va autorizzato dai sanitari e dal sindaco del Comune di appartenenza del destinatario. Quando i carabinieri, assistiti da un’ambulanza, si recano a casa di Mauro, questo prima fa finta di dire sì al ricovero e poi scappa, fino al tragico epilogo.
Per questo vicenda il maresciallo Pegoraro, a processo per omicidio colposo, è stato assolto nel dicembre 2018 con motivazioni contradditorie rispetto all’esito del processo, fa notare Manconi. “È da ritenere che tutto l’inseguimento per i campi, nonché i tentativi di immobilizzazione della persona offesa, siano state condotte del tutto arbitrarie e illegittime”, è un passaggio riportato dall’ex parlamentare, che evidenzia come sia stato realizzato anche un “grave tentativo di stordimento del Guerra (in quel momento libero cittadino), attraverso la somministrazione occulta di una dose di tranquillante”. Nonostante ciò, il maresciallo Pegoraro viene assolto definitivamente, perché la stessa Procura non fa ricorso in Appello, avendo chiesto l’assoluzione di Pegoraro.
Il processo civile invece va avanti in Appello e potrebbe contare su delle novità importanti per stabilire la verità. A rivelarle al sito Padovaoggi.it è il maresciallo Filippo Billeci, comandante della stazione dei carabinieri di Carmignano fino a tre mesi prima dei tragici fatti. Quel 29 luglio 2015 Billeci viene chiamato a svolgere un’azione di mediazione, nella convinzione che si potesse indurre Guerra ad accettare il Tso, un trattamento che “dopo ho scoperto non c’era”, spiega l’ex comandante di Carmignano.
La versione dei fatti di Billeci è diversa da quella emersa nel processo e smentisce anche la presunta pericolosità sociale di Guerra. “Per me Mauro non era pericoloso, con me non c’erano mai stati problemi in tanti anni”; e “se fosse stato pericoloso, non sarei stato in casa da solo un’ora con lui“. La situazione precipita, racconta ancora Billeci, quando il 32enne “ha visto che non c’era il documento che certificava il TSO, ha detto che lo si poteva lasciare stare e ha preso la strada per i campi” e “quando si è messo a correre lungo la strada non ha fatto nulla a nessuno“. Quindi la colluttazione “con il carabiniere Sarto, poi il collega che è intervenuto, Pegoraro, ha deciso di operare in quella maniera. E quando si opera in quella maniera…”.
Una testimonianza, quella dell’ex comandante della Stazione di Carmignano, che era stata acquisita agli atti del processo ma il carabiniere non è mai stato ascoltato in dibattito perché “nessuno ha chiesto la mia versione. Da parte di un tribunale non credo sia la cosa più opportuna”.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
· Il caso di Giuseppe Lo Cicero.
Il Valium, l'asfissia e i colpi: gli "amanti diabolici" dietro all'omicidio. Francesca Bernasconi il 22 Marzo 2022 su Il Giornale.
Giuseppe Lo Cicero venne ucciso nel 2004. Per la sua morte vennero condannati la moglie Elena e Gianfilippo Marotta.
Prima il Valium, poi il pesticida e il sacchetto di plastica attorno al volto. Infine la cintura dell'accappatoio stretta al collo e i colpi alla testa con una statuetta, usata come un martello. Venne ucciso così Giuseppe Lo Cicero, imprenditore palermitano, ritrovato senza vita nella notte tra il 14 e il 15 aprile 2004. Condannati per omicidio la moglie Elena Smeraldi e Gianfilippo Marotta, tuttofare nella cooperativa gestita dai coniugi: gli "amanti diabolici", come li ribattezzò la stampa del tempo, anche se la presunta relazione tra i due venne smentita successivamente.
Elena, Giuseppe e Gianfilippo
Era il 1980 quando Elena Smeraldi, di origini siciliane ma trasferitasi a Roma, conobbe Giuseppe Lo Cicero, un imprenditore di edilizia cimiteriale, e se ne innamorò. "Un amore con la A maiuscola - dichiarò anni dopo a Franca Leosini, che la intervistò per il programma Storie Maledette - l'amore della vita, quello che trovi una volta sola". Elena, che aveva alle spalle un precedente matrimonio ormai finito, decise di andare a vivere insieme all'uomo di cui si era innamorata. Tempo dopo ebbero un bambino e, successivamente, decisero di sposarsi. Solo in seguito, per motivi personali e lavorativi, Elena e Giuseppe tornarono in Sicilia con il figlio e si stabilirono a Palermo, dove la donna assunse l'amministrazione della cooperativa Sicilia, che si occupava di servizi di pulizia per enti pubblici.
Fu proprio la cooperativa il luogo in cui Elena Smeraldi incontrò, nel 2001, Gianfilippo Marotta, quando l'uomo divenne dipendente della cooperativa con le mansioni di tuttofare. Marotta, raccontò la donna a Storie Maledette, faceva da autista, faceva la spesa e andava anche a prendere il figlio della coppia a scuola. Frequentava spesso la casa dei coniugi Lo Cicero e aveva iniziato ad accompagnare Giuseppe in ospedale, dove doveva effettuare gli esami e le visite necessarie per tenere sotto controllo la cirrosi epatica, che affliggeva l'uomo da qualche tempo.
Le attenzioni di Marotta non erano rivolte solamente alla famiglia Lo Cicero ma, secondo quanto rivelò lui stesso, erano indirizzate soprattutto a Elena Smeraldi, per la quale l'uomo aveva perso la testa. Quando venne arrestato, Gianfilippo dichiarò ai carabinieri di essere l'amante di Elena da 16 mesi. Per questo la stampa ribattezzò i due "gli amanti diabolici", intendendo la possibilità che Lo Cicero fosse stato ucciso da Elena e Gianfilippo, che avrebbero così potuto vivere la loro relazione senza impedimenti. In realtà l'esistenza di un legame amoroso, sempre negato dalla Smeraldi, venne smentito in sede processuale: "Non poteva ritenersi provata la sussistenza di una relazione sentimentale con la Smeraldi". L'uomo però, come confermato anche dalla Corte di Cassazione, "era perdutamente innamorato anzi 'infatuato' perché non corrisposto".
L'omicidio
Il 15 aprile 2004 alle 3.50 del mattino i carabinieri vennero chiamati dal personale del 118, che era intervenuto in una villetta a Palermo. Quando entrarono in casa, videro Giuseppe Lo Cicero "supino sul pavimento della camera da letto in una pozza di sangue". Sul volto e sulla testa vennero individuate numerose lesioni, mentre vicino al corpo giacevano una statuetta di ceramica, ormai rotta, e "a 28 centimetri un grosso coltello da cucina".
L'autopsia rivelò "lesioni da corpo contundente e di tipo asfittico", le prime causate da un oggetto esterno, le seconde riconducibili a soffocamento o strangolamento. Sul collo inoltre era presente "una ecchimosi nastriforme", verosimilmente provocata da una cintura di accappatoio, mentre sul gluteo sinistro c'erano segni di agopuntura.
Successivamente vennero effettuate le analisi delle urine, in base alle quali vennero rilevati "principi di benzodiazepine e pesticida". Si concluse quindi che la morte di Giuseppe Lo Cicero era avvenuta tra la mezzanotte e le 2 della notte tra il 14 e il 15 aprile 2004, a causa di un "arresto cardio-circolatorio seguente alle lesioni da corpo contundente". I colpi al capo erano stati quelli decisivi, che avevano portato alla morte del Lo Cicero, dopo che l'assassino aveva cercato di strangolarlo e di ucciderlo con i pesticidi, forse per farla sembrare una morte naturale.
Prima l'omicida aveva iniettato alla vittima una dose massiccia di Valium, somministrato in tre soluzioni, poi gli aveva praticato un'iniezione di una miscela di pesticida e acqua. Successivamente il killer aveva stretto un sacchetto di plastica attorno alla testa della vittima e aveva preso dei cuscini, con i quali aveva fatto pressione sul volto di Lo Cicero, "il tutto al fine di soffocarlo", secondo quanto si legge nella sentenza di Cassazione. Ma l'uomo era ancora vivo.
Per questo, l'assassino aveva stretto una cintura di accappatoio attorno al collo della vittima e gli aveva ripetutamente colpito la testa con la statuetta di legno e ceramica ritrovata vicino al corpo, fino al punto di "fracassargli la scatola cranica e cagionando perciò le lesioni mortali".
Gli inquirenti ricostruirono i fatti della sera precedente l'omicidio. Il 14 aprile 2004, a casa dei Lo Cicero si era tenuta una cena, alla quale avevano partecipato anche i coniugi Vaccaro, amici di famiglia. Quella sera però la vittima non aveva cenato insieme agli ospiti, per un malessere causato dalla cirrosi epatica. Da due anni Giuseppe soffriva di questa patologia, che comportava diverse visite in ospedale e continue cure. "Nel corso della serata - si legge nella sentenza di Cassazione - era stato concordato che il figlio dei Lo Cicero, Adriano, sarebbe andato a dormire a casa del Vaccaro, come in altre occasioni era avvenuto, dato che i ragazzi erano amici. Erano tutti andati via intorno alle h.23".
Elena Smeraldi, quella notte, fece diverse telefonate e chiamò il Vaccaro due volte: la prima per chiedergli se aveva già raggiunto la sua abitazione, la seconda per chiedergli aiuto perché il marito stava male. Ma, quando l'uomo era tornato alla villetta dei Lo Cicero alle 2.45, la donna "aveva subito detto di avere ucciso il marito per difendersi dalla minaccia, da quello portata con un coltello mentre erano a letto". Con la Smeraldi c'era anche Gianfilippo Marotta, che sostenne subito la tesi della donna, dicendo di essere stato chiamato anche lui a causa di un malessere di Lo Cicero.
Una morte, molte versioni
La tesi riferita immediatamente dopo il delitto però resse per poco tempo. I carabinieri infatti notarono una ferita al dito mignolo della mano di Marotta. Ferita che lui inizialmente attribuì al morso di un cane. Successivamente però Gianfilippo ammise di essere stato chiamato dalla Smeraldi alle 23.30 della sera del 14 aprile 2004, perché la donna voleva parlargli, dato che il giorno stesso l'uomo era stato allontanato dalla cooperativa, perché "teneva un atteggiamento lavorativo invadente".
A quella decisione il Marotta aveva risposto con la frase "non uno, ma due funerali ci saranno". Quella sera Gianfilippo arrivò alla villetta alle 23.45 e disse di "essere stato minacciato con un coltello dal Lo Cicero, che l'aveva sorpreso mentre in cucina dava un bacio 'sulla fronte' della donna, con la quale aveva una relazione da sedici mesi". A quel punto, la Smeraldi "aveva colpito il marito con la statuetta fino ad ucciderlo". Secondo questa prima versione, quindi, l'omicidio sarebbe stato compiuto allo scopo di difendersi.
Il giorno dopo però Marotta modificò il suo racconto, sostenendo di essere stato chiamato da Elena, che gli avrebbe detto di aver litigato con il marito, perché lui continuava a chiederle di avere rapporti sessuali. Allora, per liberare la donna di cui era innamorato dalla situazione, Gianfilippo disse di aver fatto a Lo Cicero tre iniezioni di Valium e una di insetticida diluito in acqua, composto dalla Smeraldi, e di aver poi "tentato di soffocare la vittima con un sacchetto di plastica e con due cuscini sul viso, mentre la donna teneva ferme le gambe del marito".
Non riuscendovi, l'uomo rivelò di aver stretto il collo della vittima prima con le mani, poi con una cintura e, successivamente, di essersi fatto passare da Elena la statuina con cui aveva ucciso Giuseppe, colpendolo alla nuca diverse volte. Solo dopo l'omicidio, i due avevano preso il coltello, deponendolo accanto al corpo, per far pensare a una colluttazione. Infatti la sentenza di Cassazione specificò che "palesemente incongrua appariva la presenza del coltello".
Fu il pm Maurizio Bonaccorso, durante il processo in Corte d'Assise di Palermo, a ricostruire le versioni rese fino a quel momento da Marotta riguardanti i fatti di quella notte. Dopo aver praticato le iniezioni di Valium e il miscuglio di pesticida e acqua, "il Marotta, forse per accelerare quello che è il progetto omicidiario, si reca nella camera da letto e tenta di soffocare Lo Cicero, mettendogli un sacchetto sulla testa e poi aiutandosi con i cuscini. Nel frattempo il Lo Cicero si sveglia e riconosce il Marotta tanto da pronunciare quella famosa frase 'cornuto e sbirro' e inizia una colluttazione nella quale il Marotta ha la peggio".
Per questo l'uomo avrebbe chiesto alla Smeraldi "di passargli qualche cosa e lei gli passa la statuetta di porcellana che viene rinvenuta". È proprio con la statuetta che il Marotta iniziò a colpire la vittima. Stando alle diverse fasi con cui Elena e Gianfilippo si sarebbero accaniti su Lo Cicero, emerse un piano omicidiario che vedeva il tentativo di far passare il delitto come morte naturale, dato che la vittima soffriva già di patologie al fegato. Ma il marito si era improvvisamente svegliato, costringendo gli assassini a usare un'altra modalità.
Successivamente, come riportato dalla sentenza di Cassazione, Marotta cambiò nuovamente versione, svelando la complicità di Elena Smeraldi come sempre più presente nel progetto omicidiario, affermando di essersi preso tutta la responsabilità "per sollevare da ogni conseguenza la donna della quale era perdutamente innamorato".
Dal canto suo, la donna, dopo la prima ammissione, negò la propria responsabilità nell'omicidio del marito. Riferì che il Marotta "con il quale aveva una frequentazione quotidiana per ragioni di lavoro, aveva 'perso la testa' per lei, ma escludeva di avere intrattenuto con lo stesso una relazione sentimentale". Elena riferì che, dopo aver allontanato Gianfilippo dalla cooperativa, aveva avuto un ripensamento, rendendosi conto che l'uomo sarebbe rimasto senza lavoro, e per questo la sera del 14 aprile gli aveva telefonato e lo aveva convocato a casa sua. Poi si era addormentata "per l'effetto di alcool e tranquillanti assunti" ed era stata svegliata dal Marotta che "le aveva detto di avere già ucciso il marito colpendolo con la statuetta".
Al tempo del delitto, sostenne successivamente Elena, aveva rivelato di aver ucciso lei il marito "perché così le aveva imposto il Marotta, sotto minaccia di uccidere il figlio Adriano". E, per lo stesso motivo, aveva aspettato un anno, prima di ritrattare la sua confessione e dare una diversa versione dei fatti, che vedeva Marotta come unico artefice del delitto.
Le condanne
Per l'omicidio di Giuseppe Lo Cicero vennero condannati Elena Smeraldi e Gianfilippo Marotta. L'uomo venne processato con il rito abbreviato e condannato a 15 anni di reclusione nel 2010. Diversa la sorte della donna, che non richiese il rito abbreviato e il 21 luglio 2010 venne giudicata dalla Corte d'Assise di Palermo, che dichiarò la Smeraldi colpevole, condannandola "alla pena dell'ergastolo". L'accusa era quella di aver ucciso il marito in complicità con il Marotta.
Il 4 novembre 2011 la Corte di Assise d'Appello di Palermo riformò la sentenza di primo grado in merito all'entità della pena, riducendola dall'ergastolo a 24 anni di carcere. La Corte escluse l'aggravante della premeditazione e applicò le "attenuanti generiche, ritenute equivalenti a tutte le residue circostanze aggravanti".
Secondo la sentenza di Cassazione, i giudici di merito identificarono il movente nella "crescente insofferenza della ricorrente al vincolo matrimoniale". La Cassazione, con la sentenza dell'aprile del 2013, rigettò il ricorso presentato da Elena Smeraldi, confermando in via definita la sentenza di Appello e condannando la donna "al pagamento delle spese processuali, nonché alla refusione delle spese sostenute in questo giudizio dalla parte civile".
I giudici di merito, spiega la Cassazione, "hanno considerato la versione del Marotta attendibile, coerente e provvista di sufficienti riscontri oggettivi. Questi era certo psicologicamente fragile ed affetto da 'disturbo dipendente della personalità' (consulenza dott. Giordano), ma non da 'psicosi cronica delirante' (consulenze difesa), per cui non poteva dubitarsi della piena consapevolezza delle dichiarazioni", per lo meno "in ordine alla dinamica dell'omicidio". I giudici ammisero che "non poteva ritenersi provata la sussistenza di una relazione sentimentale con la Smeraldi", ma allo stesso tempo"appariva verosimile che come tale egli l'avesse intesa in forza di un amore, divenuto delirante al punto da fargli confondere la realtà con l'oggetto e la intensità dei suoi sentimenti".
· Il Mistero di Marco Pantani.
Cosimo Cito per repubblica.it il 9 dicembre 2022.
“Sono possibili altre ipotesi sul decesso di Marco Pantani”. La relazione della Commissione parlamentare antimafia squarcia un nuovo velo sulle possibilità di giungere alla verità nella vicenda che da 18 anni continua a non avere una parola fine. La famiglia non ha mai creduto all’ipotesi del suicidio o della morte per overdose da consumo di cocaina del Pirata.
La Commissione guidata da Nicola Morra ha approfondito il caso: “Gli elementi emersi dall’istruttoria consentono di affermare che una diversa ricostruzione delle cause della morte dell’atleta non costituisca una mera possibilità astratta e devono indurre chi indaga a scrutare ogni aspetto della vicenda senza tralasciare l’eventualità che non tutto sia stato doverosamente approfondito, ricercandone, eventualmente le ragioni”.
Pantani, la mafia dietro l'esclusione dal Giro del '99?
L’indagine, soprattutto nella parte riguardante i fatti di Madonna di Campiglio (l'esclusione di Pantani dal Giro 1999 per ematocrito oltre i limiti consentiti a due tappe dalla fine, quando ormai il Pirata era certo di vincere la Corsa rosa) si è svolta anche attraverso il IV Comitato "Influenza e controllo criminali sulle attività connesse al gioco nelle sue varie forme", coordinato dal senatore di Forza Italia Giovanni Endrizzi.
L'avvocato di Tonina Pantani: "La Procura vada fino in fondo, Marco fu ucciso"
L’avvocato di Tonina Pantani, Fiorenzo Alessi, grandissimo appassionato di ciclismo, commenta così. “La Procura di Rimini, nella persona del sostituto procuratore Luca Bertuzzi, ha aperto un nuovo fascicolo, al momento contro ignoti, sulla morte di Marco Pantani. Leggendo l’enorme mole di documenti, abbiamo scoperto alcuni elementi trascurati dalle precedenti indagini, dei buchi, dei vuoti.
Ci conforta sapere che anche la Commissione antimafia abbia trovato nuovi elementi e confidiamo nel fatto che abbia trasmesso gli stessi alla Procura. Il caso Pantani è avuto tanti passaggi, tanti salti in avanti e ritorni indietro. Ora crediamo di avere in mano delle carte molto buone per arrivare a una verità processuale e restituire a Marco e alla sua famiglia, alla signora Tonina in particolare, verità e giustizia”.
Pantani, le prove che sostengono l'ipotesi dell'omicidio
L’avvocato Alessi segue le vicende della famiglia Pantani da poco più di un anno: “La Commissione antimafia ha scritto anche di irregolarità nel controllo di Madonna di Campiglio, della provetta, dell’errore nella trascrizione dell’orario, nella presenza di personaggi estranei nella stanza alle normali procedure Uci. Tutte cose sacrosante, che purtroppo però, per il genere di reato ipotizzato, si scontrano con l’avvenuta prescrizione e anche con i principi della riforma Cartabia. Sull’omicidio di Marco, perché noi di omicidio siamo convinti si tratti, invece si può andare fino in fondo. E così faremo”.
La morte di Pantani e le inchieste
Marco Pantani morì in una stanza del residence Le Rose di Rimini il 14 febbraio 2004. Sul caso è stata aperta una nuova inchiesta, la terza, per omicidio, dopo le dichiarazioni in commissione parlamentare antimafia del suo pusher, Fabio Miradossa: “La verità non la volevano, hanno beccato me ma io già 16 anni fa dicevo che Marco è stato ucciso, non è morto per droga, lui ne usava quantità esagerate e quella volta ha avuto una quantità minima di cocaina rispetto a quello a cui era abituato e l’ha avuta 5 giorni prima della morte. Qualsiasi drogato usa subito la droga”.
Alessandro Fulloni per corriere.it l’8 dicembre 2022.
«La morte di Marco Pantani? Chiedevo in giro delle informazioni che potessero essere utili... ero sempre in giro in macchina a chiedere a tutti. A Rimini indagavo molto in quel periodo. Quel poliziotto? Un giorno di primavera, prima che aprissimo l’albergo, c’era anche mia moglie, viene a casa mia e ci dice: “Smettete di indagare perché avete rotto le p...” . Testuali parole: “Fate la fine di Marco. Dì a tua zia che fate tutti la fine di Marco”». È puntuale e dettagliata, la relazione della Commissione parlamentare Antimafia su Marco Pantani, trovato morto il giorno di San Valentino, nel 2004.
Nelle 48 pagine dell’inchiesta coordinata dall’ex senatore M5S Giovanni Endrici compaiono anche testimonianze inedite, tra cui quella di Maurizio O., marito di una nipote di mamma Tonina, ascoltato il 18 novembre 2020. L’uomo, che all’epoca era un ultrà del Cesena calcio, racconta che anche in questo «mondo ci eravamo coalizzati chiedendo agli spacciatori che lo frequentavano di non dargli la droga. Quel mondo aveva risposto molto bene. Non solo molti della zona non gli davano la droga ma gli volevano molto bene, lo proteggevano. Ma avendo molta disponibilità di soldi, Marco ci scavalcava rivolgendosi a soggetti esterni e per questo ha incontrato Miradossa — lo spacciatore poi assolto in Cassazione, ndr — e altri».
Il pomeriggio di quel 14 febbraio Maurizio viene allertato da un suo amico poliziotto, Giuseppe T., che morirà due anni dopo — «morte sospetta», preciserà il nipote di Tonina in commissione — in un incidente in moto. L’agente — in servizio all’antidroga della questura di Rimini — gli dice che a Marco è successo qualcosa di grave, «senza specificare altro».
Il familiare del campione corre al residence “le Rose” dove il Pirata fu trovato morto. Qui «gli viene impedito di salire nella stanza» occupata da Marco e lui allora, «accortosi di un secondo accesso», riesce a salire lo stesso «senza incontrare ostacoli». «La porta era leggermente aperta — è il resoconto della relazione — e l’accesso alla camera era interdetto con il nastro tipico utilizzato dalle forze dell’ordine, posto in diagonale».
Sporgendosi all’interno senza entrare, aveva visto il bagno al piano inferiore dell’appartamento. «Nel visionare la documentazione fotografica mostratagli nel corso dell’audizione», l’uomo «ha affermato con sicurezza che la scena da lui vista non corrispondeva a quella rappresentata nelle fotografie. In particolare, nel guardare una foto, ha chiarito: “Questo è il bagno ma non era così quando l’ho visto io », precisando che lo specchio rotto «si trovava appoggiato alla parete posta a destra dell’ingresso del bagno, in una posizione diversa da quella rappresentata nelle fotografie».
L’uomo ha poi affermato di non essere mai stato sentito, sino al giorno dell’audizione, dagli inquirenti e di non aver ritenuto di presentarsi spontaneamente per riferire quanto a sua conoscenza anche perché, avendo cercato di indagare sulla morte del cugino, era stato destinatario di minacce riportategli dall’agente. Appunto: «Comincio a indagare come pian piano farà poi la sua mamma. E il poliziotto, un giorno di primavera, prima che aprissimo l’albergo viene a casa mia e ci dice: “Smettete di indagare perché avete rotto le palle”». Testuali parole: «“Fate la fine di Marco. Dì a tua zia che fate tutti la fine di Marco”».
Il familiare del Pirata e l’agente dell’antidroga si conoscevano da tempo, erano amici,e l’investigatore «gli aveva detto di essere stato mandato a riferirgli quelle minacce, senza precisare da chi provenissero». Addirittura «per un breve periodo si era mostrato arrabbiato» nei suoi confronti «quasi per dirgli che lo stava mettendo nei guai ».
Ma dell’incidente al poliziotto cosa si sa? L’Antimafia non ha effettuato approfondimenti. L’agente, che aveva 35 anni e che oltre a sapere della tossicodipendenza del ciclista «conosceva le dinamiche e gli equilibri sul territorio relativi al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti», fu trovato di notte privo di vita dopo una rotonda sulla via Emilia, non lontano da casa. Le cronache cittadine raccontano che , forse «per l’asfalto reso viscido dalla pioggia», in quella notte tra l’11 e il 12 luglio 2006 perse il controllo della sua Harley Davidson, schiantadosi. Nient’altro.
Con quella di Marco, quella del poliziotto sarebbe la terza morte «sospetta» in questa vicenda che ha scosso l’Italia. L’altra è quella di Wim Jeremiasse, commissario Uci e istituzione al Tour, alla Vuelta e alla corsa rosa, responsabile del prelievo ematico condotto su Pantani prima della tappa di Madonna di Campiglio in cui venne fermato.
«Oggi il ciclismo è morto» disse in lacrime poche ore dopo il test, la mattina del 5 giugno 1999. Impossibile che il commissario Uci potesse spiegare altro: sei mesi dopo morì - «in circostanze non proprio chiare», scrissero i carabinieri dei Nas - in un incidente in Austria. Dov’era andato per fare da giudice in una gara di pattinatori su ghiaccio. Sprofondò con l’auto in un lago ghiacciato, il Weissensee, su cui stava spostandosi alla testa di un piccolo corteo di macchine. La sua auto giù per 35 metri nell’acqua gelida, inghiottita dal cedimento improvviso della superficie: Wim venne trovato cadavere dai sommozzatori che lo recuperarono circa un’ora dopo. La donna che era con lui, Rommy van der Wal, sopravvisse miracolosamente dopo avere cercato invano di estrarlo dall’abitacolo.
Da sportmediaset.mediaset.it il 7 Dicembre 2022.
E' stata resa pubblica la relazione della Commissione Antimafia sulla morte di Marco Pantani, secondo cui "sono possibili altre ipotesi sul decesso dell'ex campione di ciclismo anche considerando un eventuale ruolo della criminalità organizzata e di quegli ambienti ai quali purtroppo egli si rivolgeva a causa della dipendenza di cui era vittima".
La Commissione sottolinea anche che "diverse sono le scelte e i comportamenti posti in essere dagli inquirenti che appaiono discutibili".
Inoltre sulla vicenda che portò all'esclusione del Pirata dal Giro 1999 "diverse e gravi furono le violazioni alle regole stabilite affinché i controlli eseguiti sui corridori fossero genuini e il più possibile esenti dal rischio di alterazioni".
La Commissione Antimafia guidata da Nicola Morra nella XVIII legislatura ha approfondito il caso anche attraverso il IV Comitato ‘Influenza e controllo criminali sulle attività connesse al gioco nelle sue varie forme’, coordinato dal senatore Giovanni Endrizzi che ha proposto la relazione finale.
“L’inchiesta condotta dal IV Comitato ha fatto affiorare singolari e significative circostanze che rendono possibili altre ipotesi sulla morte” di Marco Pantani “anche considerando un eventuale ruolo della criminalità organizzata e di quegli ambienti ai quali purtroppo egli si rivolgeva a causa della dipendenza di cui era vittima”.
E’ quanto sottolinea la Commissione parlamentare Antimafia nella relazione contenente le “Risultanze relative alla morte dello sportivo Marco Pantani ed eventuali elementi connessi alla criminalità organizzata che ne determinarono la squalifica nel 1999″, approvata sul finire della scorsa legislatura e ora resa pubblica.
“Resta aperto l’interrogativo che da anni la famiglia del corridore pone: è davvero certo che Marco Pantani sia deceduto per assunzione volontaria o accidentale di dosi letali di cocaina, connessa all’assunzione anche di psicofarmaci?”, si chiede la Commissione.
“Gli elementi emersi dall’istruttoria svolta da questa Commissione parlamentare – si sottolinea nella relazione – consentono di affermare che una diversa ricostruzione delle cause della morte dell’atleta non costituisca una mera possibilità astratta che possa essere ipotizzata in letteratura e in articoli di cronaca giornalistica e devono indurre chi indaga a scrutare ogni aspetto della vicenda senza tralasciare l’eventualità che non tutto sia stato doverosamente approfondito, ricercandone, eventualmente le ragioni”.
"La vicenda di Marco Pantani ha scosso le coscienze di tutti e non soltanto di coloro che ne hanno apprezzato le gesta atletiche nelle salite più impervie, frutto della stessa tenacia con la quale oggi la signora Pantani invoca giustizia per il proprio figliolo.
Nell’opinione pubblica, dopo un primo momento di incertezza dovuta, forse, anche a un’informazione che, nei giorni immediatamente successivi alla squalifica, lo aveva condannato senza possibilità di appello, è stata sempre diffusa la convinzione che qualcosa di anomalo fosse accaduto sia a Madonna di Campiglio che a Rimini nella tragica sera di San Valentino del 2004. Questa Commissione ritiene che i numerosi elementi dubbi che sono emersi nel corso dell’istruttoria siano di tale rilievo da meritare un attento approfondimento: le ipotesi fondate su quegli elementi non possono essere ridotte a mere possibilità astratte oggetto di discussione in servizi televisivi o su articoli stampa” sottolinea la Commissione parlamentare Antimafia nella relazione.
Morte Pantani, la Commissione antimafia: "Anomalie su esclusione dal Giro". La Repubblica il 7 Dicembre 2022
Secondo la relazione presentata dal presidente uscente Nicola Morra "diverse e gravi" furono le violazioni alle regole stabilite affinché i controlli eseguiti sui corridori fossero genuini e il più possibile esenti dal rischio di alterazioni
Nel giugno 1999 al Giro d'Italia a Madonna di Campiglio, "diverse e gravi" furono le violazioni alle regole stabilite affinché i controlli eseguiti sui corridori fossero genuini e il più possibile esenti dal rischio di alterazioni: lo afferma il presidente uscente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra, presentando il lavoro svolto dall'Antimafia, e in particolare dal Comitato coordinato dal senatore Endrizzi, su quelle che vengono definite le "numerose anomalie" che contrassegnarono la vicenda che portò all'esclusione di Marco Pantani dal Giro d'Italia.
Nello specifico, nell'effettuare i controlli sugli atleti - spiega Morra - non venne rispettato il Protocollo siglato dall'UCI con l'ospedale incaricato di eseguirli. Dal lavoro della Commissione, è emerso che nell'apporre l'etichetta sulla provetta che conteneva il campione ematico di Marco Pantani non vennero seguite le regole imposte per garantirne l'anonimato, essendo presenti altri soggetti, diversi dall'ispettore dell'UCI che avrebbe dovuto essere l'unico a conoscere il numero che contrassegnava la provetta.
"E' stato inoltre accertato - puntualizza Morra - che il prelievo di sangue sul campione di Cesenatico venne effettuato alle ore 7.46 e non già alle ore 8.50, come invece indicato nel processo che egli dovette subire per 'frode sportiva': questa grossolana difformità, piuttosto singolare escluse la possibilità che in quel processo fosse valutata l'ipotesi della manipolazione mediante 'deplasmazione' del campione ematico".
A conclusione delle indagini portate avanti, l'Antimafia afferma nella relazione che: "Contrariamente a quanto affermato in sede giudiziaria, l'ipotesi della manomissione del campione ematico, oltre che fornire una valida spiegazione scientifica agli esiti degli esami ematologici, risulta compatibile con il dato temporale accertato dall'inchiesta della Commissione: collocando correttamente l'orario del prelievo a Marco Pantani alle ore 7.46, quindi più di un'ora prima rispetto a quanto sino ad oggi ritenuto, risulta possibile un intervento di manipolazione della provetta".
E l'ipotesi, per Morra, è ancor più plausibile alla luce delle informazioni fornite da Renato Vallanzasca - confermate dagli altri elementi acquisiti dall'organismo di inchiesta parlamentare - che rivelano i forti interessi della camorra sull'evento sportivo, oggetto di scommesse clandestine, e l'intervento della stessa camorra per ribaltarne il risultato tramite l'esclusione di Pantani, del quale era ormai pressoché certa la vittoria.
L'inchiesta della Commissione si è anche soffermata su alcune anomalie verificatesi nel corso delle indagini svolte sulla morte del corridore. "L'Autorità giudiziaria accolse immediatamente l'ipotesi dell'accidentalità del decesso, ricondotto all'autoassunzione di sostanze esogene, escludendo del tutto la possibile riferibilità dello stesso ad un'azione omicidiaria", ricorda Morra. Ma l'Antimafia ha svolto alcune audizioni che sembrano porre in discussione il quadro probatorio che condusse agli esiti giudiziari. Le dichiarazioni rese in Commissione dagli operatori sanitari che intervennero sul luogo del decesso di Pantani, racconta Morra, hanno escluso la presenza del 'bolo di cocaina' rinvenuto poi vicino il cadavere. "La Commissione parlamentare antimafia auspica - conclude Morra - che venga fatta piena luce sugli avvenimenti che videro protagonista il campione di Cesenatico"
"Possibili altre ipotesi sulla sua morte". Si riapre il caso Pantani? La commissione Antimafia ha espresso tutti i suoi dubbi sulle cause che hanno portato alla morte di Marco Pantani il 14 febbraio del 2004. Marco Gentile l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Sono passati quasi 19 anni dalla morte di Marco Pantani, ma ci sono ancora molte ombre sulle cause che hanno portato al decesso del "Pirata" a soli 34 anni. La Commissione Antimafia, infatti, ha riaperto il caso e si stanno vagliando altre possibili cause sulla sua morte. Secondo quanto riportato da Sportmediaset, è stata resa pubblica la relazione della Commissione in merito a quell'increscioso fatto di cronaca avvenuto il 14 febbraio del 2004.
La mamma del "Pirata", si è sempre battuta e si sta battendo per trovare la verità. Recentemente la signora Tonina aveva fatto una dichiarazione choc: "Cercate le due escort che sono salite nella sua stanza la mattina in cui Marco è morto", e ancora: "Voglio, questa verità. Non aiuterà me, perché Marco non me lo restituisce più nessuno. Ma sulla tomba gli ho fatto una promessa. Perché da quando fu squalificato nel 1999 fino a che è morto, lui ha lottato per scoprire chi lo aveva tradito. E non c’è riuscito. Quindi, adesso tocca a me continuare". Marco fu ritrovato morto presso una stanza dell’hotel Le Rose di Rimini forse ucciso da un mix di cocaina e farmaci antidepressivi.
Un caso infinito
Sulla morte di Pantani si è detto e scritto tanto in questi anni ma non si è ancora arrivati ad una certezza sulle cause che hanno portato alla scomparsa del fuoriclasse di Cesenatico. "Sono possibili altre ipotesi sul decesso dell'ex campione di ciclismo anche considerando un eventuale ruolo della criminalità organizzata e di quegli ambienti ai quali purtroppo egli si rivolgeva a causa della dipendenza di cui era vittima", la relazione della Commissione Antimafia che indaga sulla morte del Pirata. Viene inoltre sottolineato come siano diverse le scelte e i comportamenti posti in essere dagli inquirenti che appaiono discutibili.
La Commissione Antimafia è guidata da Nicola Morra che nella XVIII legislatura ha approfondito il caso anche attraverso il IV Comitato coordinato dal senatore Giovanni Endrizzi che ha proposto poi la relazione finale. Inoltre, "L’inchiesta condotta dal IV Comitato ha fatto affiorare singolari e significative circostanze che rendono possibili altre ipotesi sulla morte di Marco Pantani anche considerando un eventuale ruolo della criminalità organizzata e di quegli ambienti ai quali purtroppo egli si rivolgeva a causa della dipendenza di cui era vittima".
Secondo la Commissione Antimafia, inoltre, le "risultanze relative alla morte dello sportivo Marco Pantani ed eventuali elementi connessi alla criminalità organizzata che ne determinarono la squalifica nel 1999. Resta aperto l’interrogativo che da anni la famiglia del corridore pone: è davvero certo che Marco Pantani sia deceduto per assunzione volontaria o accidentale di dosi letali di cocaina, connessa all’assunzione anche di psicofarmaci?", la domanda che si pone la Commissione.
Il caso Pantani è ancora avvolto da tante ombre e non è ancora ben chiaro cosa sia successo a Madonna di Campiglio, a Rimini e nella tragica sera del 14 febbraio del 2004 che portò alla sua morte. I tanti dubbi fatti emergere dalla Commissione Antimafia hanno messo in risalto come questo caso meriti un approfondimento e che le ipotesi fondate su quegli elementi non possono essere ridotte a mere possibilità astratte oggetto di discussione in servizi televisivi o su articoli stampa.
Da gazzetta.it il 17 settembre 2022
“Le verità che ci sono state consegnate non sono soddisfacenti né per quanto riguarda la squalifica al Giro d’Italia né per quanto riguarda le vicende che hanno portato alla morte" del ciclista Marco Pantani. Lo ha detto il senatore Giovanni Endrizzi che ha coordinato il Comitato preposto nell’ambito della Commissione Antimafia, presentando alla stampa la relazione conclusiva della Commissione. "Nel primo caso - ha spiegato Endrizzi - fa specie che nessuno abbia voluto mai considerare le regole per i controlli, Pantani è stato processato per frode sportiva e nessuno ha verificato che cosa dicevano i protocolli delle analisi che noi abbiamo riscontrato essere lacunosi".
"Lamentiamo che alcune verifiche non sono state svolte - ha aggiunto - e oggi non abbiamo la possibilità di produrre questi dati mancanti" relativi ai valori ematici. Su questo la Commissione ha audito Renato Vallanzasca ma "il dubbio che le mafie possano aver infiltrato il Giro d’Italia rimane una ipotesi aperta che non abbiamo potuto chiudere e quindi tantomeno escludere". Sulla morte di Pantani, invece, ha detto ancora Endrizzi, "sono state rilevate incongruenze logiche e metodologiche", "noi abbiamo riscontrato che alcune porte non sono state aperte sull’ipotesi che ci sia stato un contributo di terzi al decesso, non è nostra competenza aprirle ma plaudiamo all’iniziativa della procura di Rimini di aver riaperto le indagini, da parte nostra forniremo ulteriore materiale in un clima i cordiale collaborazione sperando in una verità ultimativa".
Pantani, trovata l’escort dell’ultima mattina. Ma lei smentisce il tassista: «Mai stata con il Pirata». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 29 Maggio 2022.
L’autista raccontò di averla accompagnata insieme a un’altra donna nel residence di Rimini in cui il campione morì il 14 febbraio 2004. Rintracciata dai carabinieri, nega di essere mai salita in quella stanza: «Non lo conoscevo nemmeno». L’amica è morta.
L’indagine va avanti con elementi inediti. Ma sembra di essere in salita. E restano ancora un rebus le ultime ore di Marco Pantani. I carabinieri di Rimini hanno sentito, infatti, una delle due escort che un tassista sostiene di aver accompagnato al residence Le Rose quella mattina del 14 febbraio 2004 in cui il Pirata fu trovato morto. Un collasso dovuto a «un’ingestione abnorme e anomala di farmaci prevalentemente antidepressivi che, assieme a cocaina» provocarono il decesso, hanno stabilito le due inchieste arrivate alla medesima conclusione.
A spingere però per la riapertura di una terza indagine è stata soprattutto la determinazione di Tonina Belletti, la mamma di Pantani che, assistita dagli avvocati Fiorenzo e Alberto Alessi, nei mesi scorsi aveva dichiarato ai carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo di Rimini, delegati per le indagini: «Marco non era solo la notte che è morto, con lui c’erano due escort».
Una convinzione basata sulla testimonianza, prima in un’intervista alle Iene, poi acquisita dai carabinieri, di un tassista di Cesenatico sui cinquant’anni che sostiene di aver accompagnato, quella mattina, due escort nel residence riminese.
I carabinieri, come riporta l’edizione riminese del Resto del Carlino, sono riusciti ad identificarle: si tratta di due ragazze, allora ventenni, che all’epoca lavoravano come cubiste in una discoteca della Riviera e occasionalmente facevano le escort. Una delle due donne — entrambe straniere dell’Est — è stata rintracciata e sentita dai carabinieri, mentre l’altra nel frattempo è morta, stroncata da un male incurabile. Il suo racconto, però, confligge totalmente con quello del tassista, visto che ha negato di aver mai conosciuto Pantani.
L’autista però era stato piuttosto preciso nel suo racconto: «Al mattino ho accompagnato la Dani e la Donni da Marco in hotel», aveva detto alle Iene. Aveva indicato anche un orario: tra le 8 e le 9, vedendole poi salire in albergo. Dopo un po’ di minuti le ragazze sarebbero uscite e tornate in auto con lui: «Avevano un maglione verde e un marsupio». Poi non le ha mai più viste. Pantani – così accertarono le perizie – morì tra le 11,15 e le 12,45 per un mix di cocaina e farmaci antidepressivi. Se il tassista si è deciso a raccontare ciò che vide diciotto anni dopo quel terribile San Valentino e non prima, è stato «perché non volevo problemi in famiglia».
È probabile che la Procura, seguendo anche le indicazioni dei legali della madre del Pirata, nei prossimi giorni senta altri testimoni per capire se il 14 febbraio 2004, quando Pantani morì, c’erano o meno altre persone insieme a lui.
Anticipazione da Oggi il 24 febbraio 2022.
Sono passati 18 anni da quando, il 14 febbraio del 2004, Marco Pantani fu trovato morto nel residence Le Rose di Rimini. La terza inchiesta sulla morte del Pirata prosegue e la mamma del campione, Tonina, in un’intervista ad Andrea Purgatori, pubblicata nel numero di OGGI in edicola da domani, dice: «A me purtroppo sembra sempre il primo giorno. Vado a letto e il pensiero è quello, mi sveglio e il pensiero è quello. Io i primi due anni non ho capito più niente.
Poi mi sono messa alla ricerca della verità. E adesso la voglio, questa verità. Non aiuterà me, perché Marco non me lo restituisce più nessuno. Ma sulla tomba gli ho fatto una promessa. Perché da quando fu squalificato nel 1999 fino a che è morto, lui ha lottato per scoprire chi lo aveva tradito. E non c’è riuscito. Quindi, adesso tocca a me continuare». Mamma Tonina, nell’intervista a OGGI, racconta anche il Pantani privato, di come il campione era cambiato dopo la squalifica per doping e del presentimento che l’aveva assalita prima della sua morte.
Il Corriere della Sera il 14 Febbraio 2022. «Pantani è sempre stato un ragazzo fragile. Noi in Carrera lo proteggevamo come un figlio, dopo, quando se n’è andato, qualcuno gli ha cucito addosso un vestito che non era il suo...». Tito Tacchella si adombra per un attimo, improvvisamente. La consueta giovialità — tratto marcato di un uomo che porta i suoi 81 anni decisamente bene — si spegne solo quando parla di Marco Pantani. Oggi ricorrono i 18 anni da quel maledetto 14 febbraio del 2004, quando fu trovato morto in un residence di Rimini: «Sono già 18 anni...» sospira Tito, con i fratelli Imerio e Domenico fondatore nel 1965 a Stallavena, nel Veronese, della Carrera, l’azienda d’abbigliamento che a fine anni Sessanta produsse il primo jeans interamente italiano. Fu proprio Tito Tacchella, nel 1992, a scoprire e introdurre nel ciclismo professionistico Pantani, allora ambizioso giovane in quella Carrera squadrone dell’epoca (leggi qui l’intervista al suo primo allenatore). «Qualche anno prima, nel 1987, avevamo vinto Giro d’Italia, Tour de France e Mondiale con Roche, nel 1986 il Giro con Visentini. Nei primi anni ‘90 avevamo Chiappucci, ciclista spettacolare, se non ci fosse stato Indurain almeno un Tour lo avrebbe vinto. Pantani, corteggiato da squadre anche più ricche della nostra, voleva venire in Carrera a tutti i costi proprio perché voleva correre con Chiappucci, il suo idolo. Fui io a trattare con lui: ricordo che si accontentò di un ingaggio più basso del suo valore, purché fossero previsti premi alti. Lui era tanto timido e fragile umanamente, quanto sicuro di sé in bicicletta. Sapeva di essere forte».
E lei Tacchella, imprenditore e ciclista per hobby, di talenti se ne intendeva...
«Io avevo un debole per Visentini, secondo me anche più forte di Roche, ma timidissimo e non sicuro di sé, altrimenti avrebbe vinto di più. Chiappucci, per dirle, caratterialmente era all’opposto: lui amava il contatto con i tifosi, dopo una gara usciva dalla roulotte e stava ore a parlare con la gente. Non ne ho visti altri fare così. Ma il demiurgo di quella Carrera era il capo dell’area sportiva, Boifava, e con lui gli altri due diesse che lo coadiuvavano, Quintarelli e Martinelli. Quintarelli in molti lo hanno dimenticato, un uomo rude e semplice, ma intuitivo come nessuno in corsa».
Negli anni ‘80 e primi ‘90 Carrera era una della capofila delle squadre italiane nel ciclismo. Squadre italiane che oggi nei professionisti sono quasi del tutto sparite...
«Non è più sostenibile il ciclismo per un’azienda italiana. Oggi ci sono gli oligarchi dell’est e le multinazionali che mettono 50 milioni di euro all’anno di budget. I campioni prendono come un calciatore, hai 30 ciclisti per squadra e ognuno di loro ha un meccanico personale. Ai nostri tempi pagavi tre-quattro meccanici in tutto. Noi entrammo nel ciclismo dopo le esperienze come sponsor nel basket e nel calcio. Ero un appassionato e fui io a spingere i miei fratelli, ma intuivamo che si sarebbe trattato anche di un investimento redditizio. Grazie alle bici entrammo di prepotenza nei mercati europei, in particolare Francia, Germania e Spagna».
In questo contesto lei ingaggia un giovanissimo Pantani.
«Siamo nel 1991, fine estate, nei giorni che seguono il Mondiale vinto da Bugno. Pantani aveva 21 anni ed era il dilettante più forte in circolazione: voleva assolutamente venire da noi per correre con Chiappucci. Era il suo idolo, ma poco dopo i rapporti si sarebbero affievoliti per la rivalità. Pantani allora però era soprattutto un ragazzo timidissimo, con noi ha cominciato a vincere e a rivelarsi al mondo, ma rimanendo sempre se stesso. Il cambiamento vero lo ha avuto dopo...».
Ricordava prima che gli hanno vestito addosso un vestito non suo. Detto da lei, fratello di un sarto e fondatore di una grossa azienda di abbigliamento, la metafora assume un suo peso...
«Nel 1997 andò alla Mercatone Uno, lo riempirono di soldi, pressioni e aspettative. Noi non potevamo più trattenerlo, non riuscivamo a star dietro a quelle cifre. Ma è chiaro che chi lo ingaggiò doveva rientrare dall’investimento e non solo con le vittorie. E così lo addobbarono e lo trasformarono in un personaggio, in un prodotto di marketing. La bandana, il Pirata e queste cose qui. Tutto bello, ma Pantani non era davvero preparato a recitare quel ruolo, quella visibilità extra-sportiva non era la sua. Eppoi c’era questa ricerca spasmodica di risultati eclatanti, anche quando non serviva. Se hai sette minuti di vantaggio in classifica generale sul secondo, hai già vinto, non serve stravincere andando a prenderti la tappa».
Gli anni ‘90 sono gli anni dell’Epo...
«Che allora era una pratica lecita, non considerata di per sé doping, al limite se ti trovavano con valori superiori venivi sospeso 15 giorni, ma null’altro. Ricordo Marco che a inizio carriera si lamentava perché corridori che aveva sempre battuto nei dilettanti lo superavano. Lui allora era uno di quelli che lo combatteva l’Epo».
Eppure per l’ematocrito alto Pantani viene sospeso nel 1998 a Madonna di Campiglio, terz’ultima tappa di un Giro già vinto. E’ l’inizio della fine.
«Ho sempre sospettato che lì abbia fatto un errore il medico, Pantani quel giorno era in alta quota a duemila metri e non in pianura. Ma, ripeto, lui quel Giro lo aveva già vinto, non occorreva che rincorresse con esasperazione le tappe. Ma l’errore più grave fu compiuto dopo Campiglio».
Cioè?
«Se fosse stato ancora in Carrera, io lo avrei preso di forza e lo avrei isolato per farlo allenare in vista del Tour, che gli avrei fatto correre rabbioso come una tigre. Invece in Mercatone Uno lo hanno assecondato permettendogli di tornare a Cesenatico, in riviera romagnola tra locali notturni, vita e soprattutto amicizie discutibili. Nel mondo del ciclismo tutti sapevano che certe losche figure circondavano Pantani, ma chi doveva non lo ha aiutato. Chi gli voleva bene era la sua ragazza danese (Christina Jonsson, ndr) e Boifava, ma la ragazza qualcuno l’ha osteggiata fino a farla allontanare. Pantani è morto in una solitudine dell’anima profonda, attorno a lui e dentro di lui c’era un vuoto assurdo».
Enea Conti per corrieredibologna.corriere.it il 14 febbraio 2022.
A diciotto anni dalla morte di Marco Pantani prosegue l’inchiesta della procura di Rimini sul decesso del campione di Cesenatico, trovato morto in una stanza del residence Le Rose di Rimini il 14 febbraio del 2004. Alla vigilia dell’anniversario, i carabinieri – che indagano sui fatti – hanno ascoltato un tassista, ritenuto un super testimone, che nel 2017, parlando ai microfoni della trasmissione di Italia Uno «Le Iene» aveva raccontato di aver accompagnato nello stesso residence in cui alloggiava Marco Pantani, Le Rose di Rimini, due escort.
Si tratterebbe di due giovani che – stando a quanto testimoniato – sarebbero entrate e uscite nel motel dopo pochi minuti con un maglione e un marsupio poche ore prima del decesso del ciclista. Su quanto raccontato dal tassista (originario di Cesenatico) ai carabinieri vige il massimo riserbo. Non è stato tuttavia un incontro lampo, ma un’audizione molto lunga, pare addirittura più di tre ore.
Le indicazioni di Tonina Pantani
A prescindere dal racconto fornito dal super testimone ai carabinieri si tratta comunque di un passaggio importante. All’inizio di febbraio Tonina Pantani, la madre del campione di Cesenatico, accompagnata dall’avvocato Florenzo Alessi (nominato legale di famiglia alla fine del 2021) era stata ascoltata dai carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo. In quell’occasione aveva depositato una nuova memoria e fornito nuovi elementi che potrebbero essere utili alle indagini. Con una richiesta particolare, quella di rintracciare le due escort entrate nella stanza del residence le Rose il 14 febbraio del 2004 poche ore prima il decesso del ciclista.
«O è un mitomane o qualcuno sa qualcosa»
I carabinieri hanno quindi dato credito alle indicazioni di Tonina Pantani rintracciando il tassista. Lo stesso avvocato Florenzo Alessi aveva spiegato all’inizio di febbraio che era importante ascoltarlo. “Raccontare di aver accompagnato queste ballerine o escort che fossero è inquietante. O siamo di fronte a un mitomane o di fronte a qualcuno che sa qualcosa”. La stessa madre del Pirata aveva fornito elementi utili a identificare il tassista.
Le inchieste precedenti
Questa è la terza inchiesta sulla morte di Marco Pantani. Nella prima, aperta all’indomani della morte del Pirata, Fabio Miradossa, accusato di aver consegnato a Pantani la dose letale di droga, patteggiò quattro anni e dieci mesi, mentre Ciro Veneruso, che quella dose l’avrebbe procurata, fu condannato a tre anni e dieci mesi. La Cassazione assolse un terzo imputato, Fabio Carlino, che, al contrario di Miradossa, non accettò il patteggiamento.
Fu proprio una dichiarazione di Miradossa, fatta pervenire dalla commissione parlamentare antimafia alla procura di Rimini, a far riaprire la terza inchiesta contro ignoti per l’accusa di omicidio. Miradossa sostenne allora che il Pirata era alla continua ricerca della verità sui fatti di Madonna di Campiglio, quando un controllo antidoping fermò il Pirata che stava per vincere il Giro d’Italia.
Morte Pantani, nuove indagini su richiesta di mamma Tonina: interrogato il tassista che accompagnò due escort. La Stampa il 13 febbraio 2022.
Marco Pantani, terza inchiesta sulla morte a RiminiDomani saranno 18 anni dalla morte di Marco Pantani e mentre Cesenatico si prepara ad una commemorazione in chiesa, organizzata dalla famiglia, la terza indagine sulla fine del 'Pirata' prosegue. È stato infatti interrogato dai Carabinieri di Rimini, nei giorni scorsi, il tassista che asserisce di aver accompagnato due donne al residence 'Le Rose' di Rimini, dove il 14 febbraio 2004 il campione di ciclismo fu trovato senza vita. Il tassista avrebbe confermato l'episodio ma le generalità delle due donne sono ancora tutte da confermare. A spingere per la riapertura di una terza indagine, dopo che le due precedenti avevano archiviato il caso come morte causata da un mix di droga e farmaci, è Tonina Belletti, la mamma di Pantani che, sempre nei giorni scorsi aveva dichiarato ai Carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo di Rimini, «Marco non era solo la notte che è morto, con lui c'erano due escort».
Enea Conti per corrieredibologna.corriere.it il 13 febbraio 2022.
A diciotto anni dalla morte di Marco Pantani prosegue l’inchiesta della procura di Rimini sul decesso del campione di Cesenatico, trovato morto in una stanza del residence Le Rose di Rimini il 14 febbraio del 2004. Alla vigilia dell’anniversario, i carabinieri – che indagano sui fatti – hanno ascoltato un tassista, ritenuto un super testimone, che nel 2017, parlando ai microfoni della trasmissione di Italia Uno «Le Iene» aveva raccontato di aver accompagnato nello stesso residence in cui alloggiava Marco Pantani, Le Rose di Rimini, due escort.
Si tratterebbe di due giovani che – stando a quanto testimoniato – sarebbero entrate e uscite nel motel dopo pochi minuti con un maglione e un marsupio poche ore prima del decesso del ciclista. Su quanto raccontato dal tassista (originario di Cesenatico) ai carabinieri vige il massimo riserbo. Non è stato tuttavia un incontro lampo, ma un’audizione molto lunga, pare addirittura più di tre ore.
Le indicazioni di Tonina Pantani
A prescindere dal racconto fornito dal super testimone ai carabinieri si tratta comunque di un passaggio importante. All’inizio di febbraio Tonina Pantani, la madre del campione di Cesenatico, accompagnata dall’avvocato Florenzo Alessi (nominato legale di famiglia alla fine del 2021) era stata ascoltata dai carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo. In quell’occasione aveva depositato una nuova memoria e fornito nuovi elementi che potrebbero essere utili alle indagini. Con una richiesta particolare, quella di rintracciare le due escort entrate nella stanza del residence le Rose il 14 febbraio del 2004 poche ore prima il decesso del ciclista.
«O è un mitomane o qualcuno sa qualcosa»
I carabinieri hanno quindi dato credito alle indicazioni di Tonina Pantani rintracciando il tassista. Lo stesso avvocato Florenzo Alessi aveva spiegato all’inizio di febbraio che era importante ascoltarlo. “Raccontare di aver accompagnato queste ballerine o escort che fossero è inquietante. O siamo di fronte a un mitomane o di fronte a qualcuno che sa qualcosa”. La stessa madre del Pirata aveva fornito elementi utili a identificare il tassista.
Le inchieste precedenti
Questa è la terza inchiesta sulla morte di Marco Pantani. Nella prima, aperta all’indomani della morte del Pirata, Fabio Miradossa, accusato di aver consegnato a Pantani la dose letale di droga, patteggiò quattro anni e dieci mesi, mentre Ciro Veneruso, che quella dose l’avrebbe procurata, fu condannato a tre anni e dieci mesi. La Cassazione assolse un terzo imputato, Fabio Carlino, che, al contrario di Miradossa, non accettò il patteggiamento.
Fu proprio una dichiarazione di Miradossa, fatta pervenire dalla commissione parlamentare antimafia alla procura di Rimini, a far riaprire la terza inchiesta contro ignoti per l’accusa di omicidio. Miradossa sostenne allora che il Pirata era alla continua ricerca della verità sui fatti di Madonna di Campiglio, quando un controllo antidoping fermò il Pirata che stava per vincere il Giro d’Italia.
Marco Pantani, 18 anni dalla morte. Il primo allenatore: «Gli urlarono drogato e lui segò la bici». Enea Conti su Il Corriere della Sera l'11 febbraio 2022. Da Taccuino Di Verita.it.
Era un talento naturale. Un po’ per merito di mamma a papà, cioè per come era venuto al mondo, un po’ per la sua determinazione e per il suo orgoglio. Pino Roncucci lo conosceva molto bene Marco Pantani. Lo incontrò nel 1989, un anno prima che il Pirata di Cesenatico entrasse nella sua Giacobazzi, la squadra di cui fu uno storico direttore sportivo e con cui Pantani vinse tre Giri D’Italia dilettanti. A 87 anni e a pochi giorni dal diciottesimo anniversario dalla morte Roncucci racconta ancora aneddoti e curiosità sul suo campione. Dai primi test alla Giacobazzi, alla vittoria del primo Giro nel 1992 fino all’approdo tra i professionisti alla Carrera Jeans di Davide Boifava. La tragedia del residence Le Rose? Ognuno cerca la sua verità e speriamo che con queste ultime indagini venga a galla quella definitiva. Non credo che Marco si sia drogato al punto di suicidarsi.
Pino Roncucci, si racconta che per Pantani lei sia stato un mentore se non la persona più importante della sua carriera…lei cosa dice?
Se lo si dice perchè con me cresciuto e maturato. Ci conoscemmo nel 1989, con me partecipò a tre Giri D’Italia, categoria dilettanti. Venne alla Giacobazzi nel 1990 ma già l’anno prima gli feci una serie di test per inquadrarlo. Marco era un talento naturale. Gli ho sempre detto che doveva ringraziare mamma e papà per come era venuto al mondo. E che carattere.. . Fu lui a contattarmi, voleva entrare in squadra. Cos andai a Cesenatico e gli chiesi a bruciapelo perchè volesse unirsi a noi. Rispose che voleva vincere il Giro D’Italia. Io scoprii che aveva davvero tutte le carte in regola per andare anche oltre il Giro dilettanti che vinse nel 1992 dopo essere arrivato terzo nel 1990 e secondo nel 1991.
Ovvero?
Partiamo dal carattere. Era determinato. Disse che voleva vincere il Giro D’Italia dilettanti già prima di averlo corso all’esordio. Il fisico era impressionante. Al mattino all’alba aveva 46 battiti cardiaci al minuto. Incredibile. E pesava 54 chili, un vantaggio a quei tempi in cui le bici poi erano molto più pesanti di allora cos come l’abbigliamento. La sua muscolatura era quella tipica dello scalatore. Una volta, in ritiro, ci capitò un massaggiatore che anni prima massaggi anche Fausto Coppi. Lo guardò e mi disse: “ma dove lo hai preso questo? Non vedi che non c’ha nulla addosso? un pugno di ossa e basta”. Poi dopo che lo massaggi cambi idea tornò da me e mi disse: ‘Oh, Pino questo c’ha i muscoli di Coppi. uno scalatore nato uno scalatore puro.
Dove si allenava a quei tempi Marco Pantani?
Lui si sempre allenato da solo a quei tempi andava ad allenarsi a Castrocaro dove andava in ritiro o sul Monte Fumaiolo vicino alle sorgenti del Tevere dove andava in un alberghetto della zona. Aveva un recupero eccezionale gli bastava poco per tornare in forma sia in allenamento che in corso di gara. Anche perchè solo così poteva essere un ciclista “attaccante” che puntava gli avversari a testa alta.
Marco Pantani, 18 anni dalla morte: le foto inedite
Poi il cambio di squadra e il passaggio alla Carrera…
Davide Boifava, il direttore sportivo lo prese molto felicemente. Posso raccontare un aneddoto a riguardo. Boifava gli sottopose un contratto molto vantaggioso per quella che era l’et che Marco aveva a quei tempi. Gli chiese subito se fosse soddisfatto ma Marco gli rispose che non lo era e senza fronzoli. E perchè? “Perchè mancano tutte le clausole e i premi se vinco la tappa o se vinco il Giro”. Sentite le sue parole con stupore il direttore sportivo and a prendere carta e matita e aggiunse quanto detto da Marco. Poi gli disse: “Pantani, lei ha fatto un affare”. E lui ancora di tutta risposta. “Noi, siete che voi che lo avete fatto, l’affare”.
Ha continuato a vedere e sentire Pantani dopo il passaggio alla Carrera Jeans?
Quando dopo la vittoria del Giro d’Italia dilettanti lo riportai a casa a Cesenatico in macchina, sotto casa mi disse. “Hai visto Pino? Ti avevo promesso di vincere il Giro e ho mantenuto la promessa”. E allora io gli risposi: “ti ho riportato a casa sano, perchè hai vinto ma non ti ho sfinito”. Da quel giorno continuammo a sentirci fino a 30 giorni prima della sua morte. Era il suo compleanno, (il 13 gennaio ndr) gli telefonai per fargli auguri, lui era a Predappio da un amico. Ricordo ancora quella conversazione. “Marco come stai? So che hai qualche problema..” e lui non battè ciglio. “Si ho dei problemi…”. Lo invitai a casa mia ma non riuscì a venire. Trenta giorni dopo seppi della sua morte.
Che cosa ha pensato quando ha saputo della sua morte?
Ho pensato che era morto per la seconda volta. Non l’ha mai accettato quel responso, ovvero la squalifica dal Giro D’Italia. La prima volta Marco Pantani morto a Madonna di Campiglio. Marco era arrabbiatissimo e suscettibile. Al di l della squalifica trova intollerabile che qualcuno pensasse che quanto aveva già vinto era dovuto al doping. Marco aveva un orgoglio viscerale. Una volta and in bici ad allenarsi qui in Romagna. Qualcuno lo riconobbe gli urlò “drughd” che in dialetto significa “drogato”. Quando tornò a casa, segò in due la bici per la rabbia. Poi si lasci andare in un quel tunnel della droga da cui lui riteneva, credendosi padrone di s stesso, di uscire quando voleva. E questo piano piano lo ha distrutto.
Cosa ha pensato quando ha letto della riapertura dell’inchiesta?
Lo so e ho letto negli anni un sacco di cose. Ognuno ha cercato la sua verità e speriamo che questa volta questa verità esca. Io non credo che Marco si sia drogato al punto di suicidarsi. I dubbi sono tanti: ma esistono le indagini, la magistratura, la Polizia. Tocca a loro.
Enea Conti corrieredibologna.corriere.it il 4 febbraio 2022.
Come è noto oramai da qualche mese la Procura di Rimini indaga ancora sulla morte di Marco Pantani. Ed è la terza volta che accade, e la speranza è fare chiarezza in via definitiva sulle ultime ore di vita del Pirata.
L’ipotesi – si procede contro ignoti – è quella di omicidio. L’ultimo capitolo è andato in archivio nelle scorse ore: Tonina Pantani, la madre del campione di Cesenatico, accompagnata dall’avvocato Florenzo Alessi è stata ascoltata dai carabinieri del Nucleo investigativo del reparto operativo.
Come riportano i quotidiani locali ha depositato una nuova memoria e fornito nuovi elementi (su cui vige il massimo riserbo) che potrebbero essere utili alle indagini. Con una richiesta particolare, quella di rintracciare due escort che erano entrate nella stanza del residence le Rose il 14 febbraio del 2004 poche ore prima il decesso del ciclista.
Non è la prima volta che si parla delle due ragazze da rintracciare.
Di queste due figure si incominciò a parlare anni fa. La trasmissione Le Iene mandò in onda il racconto di un autista che aveva spiegato di aver accompagnato due escort al residence le Rose, che sarebbero poi salite in camera di Pantani per poi fare ritorno poco dopo, dopo aver prelevato un maglione e un marsupio.
L’inchiesta attuale prende spunto da un’audizione di Fabio Miradossa, il pusher di Marco Pantani, alla commissione parlamentare antimafia andata in scena il 7 gennaio del 2020. In quell’occasione Miradossa — che nel 2005 patteggiò una pena per spaccio (fu lui a cedere ultima dose a Pantani) — disse: «Marco è stato ucciso, l’ho conosciuto 5-6 mesi prima che morisse e di certo non mi è sembrata una persona che si voleva uccidere. Era perennemente alla ricerca della verità sui fatti di Madonna di Campiglio, ha sempre detto che non si era dopato».
Caso Pantani, la madre in Procura a Rimini: "Non era solo quando morì, c'erano due escort". La donna sentita per tre ore e mezza nell'ambito della nuova inchiesta. La Repubblica il 4 Febbraio 2022.
Fra dieci giorni saranno passati 18 anni dalla triste sera di San Valentino quando in un residence di Rimini fu trovato morto Marco Pantani e il ricordo del grande campione di ciclismo non trova ancora pace. La convinzione della madre Tonina e del padre Giorgio, e con loro di molti tifosi, è che non tutto sia stato detto e non tutto sia stato accertato sulla fine dello scalatore di Cesenatico, morto a 34 anni. Nonostante due inchieste archiviate, l'ultima nel 2016, nonostante i processi agli spacciatori che avrebbero ceduto al 'Pirata' la dose letale, la famiglia non si arrende e continua a chiedere verità.
Mamma Tonina è tornata dai carabinieri, a Rimini, ed è uscita dalla caserma dopo tre ore e mezza. "Marco non era solo la notte che è morto, con lui c'erano due escort", è quello che la donna avrebbe detto ai militari del nucleo investigativo del reparto operativo, che indagano nell'ambito del nuovo fascicolo riaperto recentemente dalla Procura. Un fascicolo che, però, rimane a 'modello 45', anche dopo la nuova testimonianza: non si ipotizzano reati e non ci sono indagati.
A sollecitare in qualche modo la ripresa degli accertamenti era stata la commissione parlamentare antimafia, che ha inviato ai magistrati riminesi una relazione dove c'è, tra l'altro, l'audizione, in parte secretata, di Fabio Miradossa, il pusher che patteggiò nel 2005 una pena per spaccio di cocaina legato alla morte di Pantani. "Marco è stato ucciso, l'ho conosciuto 5-6 mesi prima che morisse e di certo non mi è sembrata una persona che si voleva uccidere. Era perennemente alla ricerca della verità sui fatti di Madonna di Campiglio, ha sempre detto che non si era dopato", le parole di Miradossa, a gennaio 2020.
Il pm riminese Luca Bertuzzi recentemente ha richiesto la registrazione completa della deposizione.
Lo stesso Miradossa, però, già sentito nell'ambito del nuovo fascicolo, non avrebbe aggiunto nulla di rilevante a ciò che la prima e la seconda indagine sulla morte del Pirata avevano appurato. Nell'archiviare, nel 2016, la Procura di Rimini definì fantasiosa e priva di fondamento l'ipotesi di un omicidio e la Cassazione, un anno dopo, rigettò il ricorso della famiglia.
Ma la madre, che nel frattempo si è rivolta a un nuovo legale, l'avvocato Fiorenzo Alessi, non molla ed è stata sentita per l'ennesima volta in Procura, dopo aver consegnato un corposo dossier con documenti e spunti investigativi, e ora anche dai carabinieri.
Finora, anche se varie ricostruzioni giornalistiche hanno adombrato scenari alternativi, le inchieste hanno detto che Pantani morì da solo, in una stanza del residence 'Le Rose', chiusa dall'interno. Per un'azione prevalente di psicofarmaci, così da far pensare più a una condotta suicida, che a un'overdose accidentale. È stata fin qui sempre esclusa l'ipotesi di un'assunzione sotto costrizione. Non hanno portato a risultati neppure gli accertamenti su un presunto intervento della Camorra al Giro d'Italia del 1999, quando Pantani venne escluso per l'ematocrito alto, il 5 giugno. Per il campione quel giorno di giugno a Madonna di Campiglio fu l'inizio della fine.
Una fine tragica e prematura per un grande sportivo, difficile da accettare per tanti appassionati e soprattutto da chi gli voleva bene e che continua a chiedere che sia fatta piena luce.
L'ultima telefonata ai familiari domenica: "Era tranquillo". Il giallo dell’ingegnere Paolo Moroni trovato morto ad Amsterdam: “È stato ucciso”. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 29 Gennaio 2022.
L’ultima telefonata con il fratello e la sorella domenica, poi il silenzio. Fino a venerdì, quando la Farnesina ha comunicato la tremenda notizia alla famiglia.
Paolo Moroni, 42 anni, ingegnere originario di Allumiere, cittadina alle porte di Civitavecchia ma residente da tempo ad Amsterdam, è stato trovato senza vita nella città olandese. Secondo le prime informazioni sarebbe morto di morte violenta: tra le ipotesi principali c’è l’omicidio.
L’uomo era tornato in Olanda, dove lavorava regolarmente da anni, da una decina di giorni dopo aver passato un periodo di smart working nel suo paese natale.
Le indagini
La Polizia olandese sta indagando sulle circostanze della morte di Moroni, mantenendo il massimo riserbo. Non sono stati rivelati al momento ulteriori dettagli su una vicenda che si prefigura come un delitto: il decesso sarebbe avvenuto lo scorso 27 gennaio. Molti gli aspetti oscuri da chiarire: sono in atto delle verifiche sui suoi contatti e sui tabulati telefonici, mentre la Farnesina sta seguendo le indagini attraverso l’ambasciata italiana all’Aja.
Sul caso indagano anche i Carabinieri della Compagnia di Civitavecchia. L’unico particolare finora trapelato è che si sta seguendo una pista italo-olandese. La salma dell’ingegnere si trova nell’obitorio cittadino in attesa dell’autopsia, che dovrebbe essere effettuata non prima di mercoledì o giovedì.
Secondo quanto riportato dal Corriere Moroni, dopo esser rientrato ad Amsterdam dal periodo natalizio trascorso in Italia, sarebbe andato ad abitare fuori città in attesa che fossero terminati i lavori di ristrutturazione nel suo appartamento. L’uomo, dopo il diploma al liceo scientifico e la laurea in ingegneria informatica, si era trasferito in Olanda dove viveva insieme al compagno, lavorando in importanti società.
I familiari: “Era tranquillo”
Il fratello e la sorella di Paolo Moroni avrebbero commentato con gli investigatori l’ultima telefonata avvenuta domenica, dichiarando che l’uomo ‘era tranquillo’.
Durante la chiacchierata avevano parlato di alcune foto scattate la scorsa estate. Il 42enne non aveva lasciato trapelare segnali di preoccupazione. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare una simile tragedia.
“Una vera tragedia”
“Tutta la comunità è distrutta, è stato un fulmine a ciel sereno, una vera tragedia”. Il sindaco di Allumiere, Antonio Pasquini, ha commentato con queste parole la morte di Paolo Moroni. “Ho fatto visita ai familiari e sono distrutti, non riescono ancora a comprendere cosa sia accaduto – racconta -. Sono una famiglia straordinaria, da sempre disponibile nei confronti dei meno fortunati, anche durante il periodo del Covid. Come comunità siamo loro vicino, come loro sono sempre stati vicini alla comunità. Ora tutti vogliamo che si faccia chiarezza, vogliamo sapere cosa è accaduto al nostro concittadino“.
La famiglia Moroni è molto conosciuta in paese: è infatti proprietaria di un noto ristorante. Allo zio della vittima, Cesare Moroni, è stata anche intitolata una piazza dopo essere morto in un incidente di caccia. Mariangela Celiberti
Il giallo dell'ingegnere italiano ucciso ad Amsterdam: in un video gli assassini. Aurelio Petri, Luca Monaco. La Repubblica il 29 gennaio 2022.
Paolo Moroni, 43 anni, di Allumiere, si era trasferito in Olanda nel 2009. Ai genitori aveva lasciato il numero di un amico. Il 31 gennaio ci sarà l’autopsia.
"L'ultima volta l'abbiamo sentito martedì mattina, era sereno, tranquillo - assicura il fratello Ettore, 49 anni - aveva parlato con la madre per aver notizie della zia che ha il Covid, venerdì pomeriggio ci hanno convocati in caserma i carabinieri per darci la notizia della morte. Non sappiamo altro, siamo sconvolti". Poche parole pronunciate sull'uscio della villetta in via Aldo Moro, la strada che conduce al centro di Allumiere, un borgo di tremila anime sui monti della Tolfa, a 90 chilometri da Roma. Era ripartito dal suo paese di origine, per Amsterdam, l'8 gennaio scorso Paolo Moroni, l'ingegnere informatico 43enne che giovedì è stato trovato morto nell'appartamento che aveva comprato da poco sulla banchina del Voc.
Ad allertare la polizia è stato un suo amico americano. Moroni aveva dato il suo numero alla famiglia proprio per eventuali emergenze. La madre Bruna, 72 anni, insieme al padre Enrico, 83 anni, i figli Ettore e Gabriella l'hanno chiamato e gli hanno chiesto notizie del figlio, con il quale da due giorni non riuscivano più a mattersi in contatto. L'uomo è andato a citofonare a casa dell'ingegnere, senza successo. Dopidiché ha allertato la polizia.
Gli investigatori di Amsterdam l'hanno trovato morto nell'appartamento che doveva essere ancora finito di arredare. Il 43enne, un cervello in fuga, "è stato vittima di un crimine - è annotato sulla comunicazione dell'ambasciata italiana a Laia che i carabinieri hanno letto ai fratelli - è morto di una morte violenta". Tra il 31 gennaio e il primo febbraio sarà eseguita l'autopsia, che potrà chiarire meglio i contorni del giallo. Un omicidio ancora senza movente, almeno per i familieri. L'avvocato dei Moroni ha nominato un consulente olandese, anche se per la legge i periti di parte non possono assistere all'autopsia. "Al momento la polizia di Amsterdam non fornisce altre informazioni - dice il penalista - questo significa che hanno una pista e la stanno seguendo". Al momento è l'unico pensiero positivo al quale la famiglia può aggrapparsi.
Gli investigatori hanno già ascoltato l'americano che li ha allertati, forse aveva avuto una relazione con Moroni. Gli agenti hanno acquisito le immagini delle telecamere puntate sull'ingresso del palazzo: potrebbero raccontare chi è stata l'ultima persona a entrare nell'appartamento al quinto piano. L'area circostante è aperta perché sono ancora in costruzione i palazzi vicini, così la polizia ha lanciato un appello alla cittadinanza a inviare loro eventuali video o segnalazioni sulle persone o le macchine sospette che sono state viste vicino al palazzo dell'omicidio.
Ingegnere italiano di 42 anni trovato morto ad Amsterdam: si ipotizza omicidio. Il Fatto Quotidiano il 29 gennaio 2022.
Paolo Moroni lavorava nella capitale olandese da tempo e secondo i familiari nelle scorse settimane "era tranquillo". Non si capisce cosa abbia potuto causare la morte: indagano la polizia olandese e i carabinieri di Civitavecchia.
Paolo Moroni, ingegnere informatico di 42 anni, è stato trovato morto ad Amsterdam, la città olandese dove si era trasferito da anni per lavoro. Ancora non si è capito cosa abbia causato il decesso, anche se dalle prime informazioni si ipotizza una morte violenta, lasciando dunque la pista dell’omicidio come quella più accreditata. I familiari hanno raccontato agli investigatori che fino a una settimana fa, al telefono, “era tranquillo”. Non c’era nulla nel suo atteggiamento che lasciasse presagire timori o preoccupazione. Antonio Pasquini, sindaco di Allumiere, piccolo centro alle porte di Civitavecchia dove la famiglia Moroni è molto conosciuta, ha commentato: “Siamo distrutti, è stato un fulmine a ciel sereno, una vera tragedia”. Sulla vicenda sta indagando la polizia olandese, mentre in Italia l’indagine è stata affidata ai carabinieri di Civitavecchia. Presto dovrebbe anche arrivare un fascicolo sul tavolo della procura di Roma.
Paolo Moroni era tornato ad Amsterdam solo una decina di giorni fa, dopo aver passato le feste ad Allumiere insieme con la famiglia, che gestisce un ristorante molto affermato in paese. “Con le belle giornate lo si vedeva spesso sulle scale con il computer a lavorare in smartworking”, racconta il sindaco. Era partito per l’Olanda dopo la laurea alla Sapienza e il master all’Università della Svizzera italiana. Una carriera da sviluppatore e ingegnere informatico, passando anche per l’azienda di monopattini Dott fino alla startup Hymn, per la quale stava ancora lavorando. Nelle prossime ore la famiglia volerà in Olanda per seguire da vicino le indagini e fornire ulteriori indicazioni agli investigatori. La morte risalirebbe a giovedì, ma la notizia alla famiglia è stata data tramite la Farnesina solo ieri mattina. Non ci sarebbe nulla, nel passato di Moroni, che potesse portare ad una morte violenta, come quella ipotizzata da chi indaga. Nei prossimi giorni dovrebbe essere anche autorizzata l’autopsia che potrebbe cominciare a far luce su una morte considerata da tutti “inspiegabile”. “Come comunità siamo vicino ai familiari, come loro sono sempre stati vicini alla comunità “.
Allumiere, morto ad Amsterdam un ingegnere da anni residente in Olanda. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 29 gennaio 2022.
Un ingegnere di 43 anni, Paolo Moroni, originario del posto ma da anni residente ad Amsterdam, è stato trovato morto nella città olandese nei giorni scorsi ma la notizia è stata comunicata dalla Farnesina soltanto venerdì.
È sotto choc da ieri la comunità di Allumiere, cittadina alle porte di Civitavecchia. Un ingegnere di 43 anni, Paolo Moroni, originario del posto ma da anni residente ad Amsterdam, è stato trovato morto nella città olandese nei giorni scorsi ma la notizia è stata comunicata dalla Farnesina soltanto venerdì ai parenti che non avevano più notizie di lui.
Sul caso indaga la polizia olandese e fra le ipotesi principali c’è proprio quella che l’ingegnere, esperto in matematica, sia stato ucciso. Sulle indagini c’è comunque il massimo riserbo. Secondo una prima ricostruzione dei fatti Moroni era tornato in Olanda da qualche settimana dopo aver trascorso le vacanze di Natale e Capodanno in Italia ma era andato ad abitare fuori città in attesa che venissero conclusi i lavori di ristrutturazione del suo appartamento. Gli accertamenti della polizia olandese si sono concentrati sul suo giro di conoscenze anche se per il momento non sono stati forniti i dettagli sulle modalità di quello che sembrerebbe un delitto. Indagini sono in corso sui suoi contatti e sui tabulati telefonici. I carabinieri di Civitavecchia hanno avvertito i congiunti dell’uomo di quanto accaduto.
Nella piazza di contrada Sant’Antonio, proprio ad Allumiere, c’è una statua che ricorda Cesare Moroni, zio della vittima, morto in un incidente di caccia alcuni anni fa. Una testimonianza di quanto la sua famiglia sia conosciuta e apprezzata nella cittadina dalla quale il futuro ingegnere si spostava a Civitavecchia per frequentare il liceo scientifico Galilei. Successivamente, raccontano i concittadini, si è laureato in ingegneria informatica proprio grazie le sue capacità matematiche e ha trovato lavoro in Olanda presso importanti società.
(ANSA il 30 gennaio 2022) - La polizia olandese ha fermato il presunto killer di Paolo Moroni, l'ingegnere trovato morto giovedì scorso nella sua casa ad Amsterdam. La notizia è stata confermata dall'avvocato della famiglia, Bruno Forestieri. Il presunto assassino è un cittadino nordafricano e avrebbe ucciso l'italiano a coltellate.
Luca Moroni, fermato un nordafricano. Svolta nel caso dell'ingegnere italiano ucciso ad Amsterdam. Il Tempo il 30 gennaio 2022.
Preso il killer di Paolo Moroni, l'ingegnere italiano, originario di Allumiere (Roma), ucciso nella sua casa di Amsterdam. "Ci è stato comunicato poco fa che è stato fermato il presunto assassino. Si tratta di un nordafricano, al momento non abbiamo altri dettagli" ha detto l’avvocato Bruno Forestieri, legale della famiglia del 43enne, , trovato morto nei giorni scorsi nella sua abitazione di Amsterdam. Per il momento non emergono ulteriori elementi, neanche sul movente del delitto.
"È stato sicuramente un omicidio, e lo avvalora anche la riservatezza con cui la polizia olandese sta portando avanti le indagini" aveva detto poco prima l’avvocato Forestieri all'Adnkronos. "L’autopsia dovrebbe essere eseguita tra domani e mercoledì - spiega il legale - e insieme a un collega olandese speriamo di riuscire a ottenere l’autorizzazione per far presenziare all’esame autoptico anche un nostro medico legale".
Martedì, intanto, alcuni familiari di Paolo Moroni, raggiungeranno l’Olanda. "Paolo era stato qui fino all’8 gennaio quando era poi ripartito per Amsterdam, dove lavorava, era un grande lavoratore - ricorda l’avvocato Forestieri - un ragazzo sereno, nessuno poteva immaginare una fine così tragica. La sua famiglia lo aveva sentito per l’ultima volta martedì scorso e poi venerdì tramite la Farnesina è arrivata la notizia del ritrovamento del suo corpo nella casa che aveva comprato e finito di ristrutturare da poco".
Ingegnere ucciso, il killer tradito dal telefonino. L’incontro nell’attico e la rapina finita male. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2022.
Il ragazzo marocchino fermato dalla polizia olandese ha tenuto l’apparecchio per giorni dopo aver svaligiato l’abitazione di Paolo Moroni ad Amsterdam. La chiamata della sorella dalla caserma dei carabinieri e gli squilli a vuoto. Oggi l’autopsia.
Un telefonino, sparito, che squilla a vuoto. Senza risposta; ma attivo per giorni. A fare il primo tentativo è stata la sorella di Paolo Moroni, Gabriella, nella caserma dei carabinieri della compagnia di Civitavecchia. Era venerdì scorso: la famiglia del 43enne ingegnere informatico di Allumiere, dal 2009 residente ad Amsterdam e considerato un mago delle app, era stata appena avvertita dalla Farnesina del ritrovamento del suo corpo. Le autorità olandesi però avevano messo al corrente quelle italiane solo quando erano già trascorse 48 ore dalla scoperta: sul cadavere almeno due coltellate. Ma quegli squilli a vuoto hanno fatto capire ai carabinieri, che si sono messi in contatto con l’ufficiale di collegamento all’Aia, che il telefonino rubato dall’attico di Moroni, nel nuovo ed esclusivo quartiere residenziale sul molo «Voc 84», era probabilmente nelle mani del killer.
Ancora due giorni e la polizia olandese ha così individuato e fermato il presunto assassino dell’ingegnere. Si tratta di un marocchino di 22 anni, con regolare permesso di soggiorno, catturato nei pressi di Amsterdam. È accusato di omicidio e rapina: dall’appartamento che Moroni aveva acquistato qualche tempo fa e che aveva finito di arredare facendosi spedire dai parenti mobili e divani dall’Italia, sono spariti oggetti di valore, effetti personali, ma anche il computer portatile e lo smartphone dell’ingegnere.
E proprio quest’ultimo, non si esclude insieme con alcuni video delle telecamere di sicurezza acquisiti dalla polizia di Amsterdam, ha tradito il giovane rintracciato con il gps. Sulla svolta nelle indagini continua comunque a esserci il massimo riserbo, come conferma l’avvocato della famiglia Moroni, Bruno Forestieri: «Oggi o domani ci sarà l’autopsia, non so ancora se riusciremo a trovare un medico legale di parte che possa assistere all’esame, ma intanto sono in contatto con un collega olandese incaricato di rappresentarci». Nel frattempo sempre oggi alcuni parenti partiranno per l’Olanda, anche per le formalità legate al riconoscimento e al rimpatrio della salma, con l’assistenza dell’ambasciata d’Italia.
«Paolo non aveva nemici, viveva per il suo lavoro, era una persona realizzata. Poi l’acquisto di quella casa, dove aveva appena concluso i lavori per arredarla, l’aveva reso ancora più felice: eravamo andati tutti in Olanda, con mia sorella, mamma e papà, quando ancora era un cantiere. L’aveva scelta lì perché è una zona molto bella e tranquilla», racconta il fratello Ettore, titolare del ristorante «La Tramontana» fra Allumiere e Civitavecchia. «A noi — spiega ancora — dicono poco o nulla. Fino a oggi hanno parlato al massimo di scena del crimine. Di sicuro mia madre l’aveva sentito martedì scorso l’ultima volta per telefono, e stava bene, così come ha lavorato al pc in smart working fino all’1.30 della notte successiva, come ci ha raccontato un suo collega. Poi più niente».
Ecco perché si ritiene che il delitto sia stato commesso nelle ore successive, comunque prima dell’alba. A scoprire il corpo dell’ingegnere è stato un suo ex compagno e collega di lavoro, un cittadino americano che è stato interrogato a lungo dalla polizia, insieme con altri conoscenti di Moroni. Non è chiaro perché il marocchino si trovasse nella sua abitazione: fra le ipotesi quella che potesse trattarsi di un incontro occasionale, ma non si esclude che il 43enne sia stato accoltellato a morte per aver cercato di reagire dopo aver scoperto il giovane a rubare nelle stanze di quella casa che aveva comprato per realizzare il suo sogno.
Stefano Pettinari e Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 31 gennaio 2022.
Ucciso a coltellate nel suo appartamento ad Amsterdam. È morto così Paolo Moroni, 42 anni, ingegnere originario di Allumiere. L'uomo che gli ha tolto la vita è un marocchino. La polizia olandese lo ha arrestato ieri al termine di un'indagine lampo. Il cadavere del professionista italiano è stato trovato mercoledì scorso ma l'omicidio, per chi indaga, si sarebbe consumato domenica 23 gennaio. L'assassinio sarebbe avvenuto al culmine di una lite tra i due uomini. Tra loro c'era, molto probabilmente, una relazione.
Moroni ha scoperto il nordafricano rubare dei soldi in casa mentre lui era in un'altra stanza. L'ingegnere ha reagito al tentativo di furto. Da qui è nata una lite violenta. Il nordafricano, a questo punto, ha impugnato un coltello e ha sferrato diversi fendenti. Il 42enne è crollato in terra agonizzante ed è morto dissanguato mentre il suo assassino è scappato via.
Una fuga, però, che è durata una settimana. Anche perché il marocchino ha portato con sé lo smartphone della vittima che lo ha reso facilmente individuabile da parte degli investigatori olandesi che hanno collaborato con i carabinieri del comando di Civitavecchia, coordinati dal capitano Mattia Bologna.
Intanto anche la procura di Roma ha aperto un fascicolo per omicidio volontario. Moroni era tornato in Olanda ad inizio mese, l'8 gennaio, dopo aver trascorso le feste nel paesino in provincia di Roma. «Spesso lo si vedeva lavorare in smart working qui sulle scale del paese», ha raccontato il sindaco, Antonio Pasquini, che sta attendendo le indicazioni della famiglia per poter rendere omaggio all'informatico.
Ciò che è accaduto ad Amsterdam ha lasciato tutti sbigottiti ad Allumiere, dove la famiglia della vittima - titolare di un noto ristorante - è molto conosciuta. Una piazza del paese è stata intitolata ad uno zio di Paolo, Cesare, morto durante una battuta di caccia. Nessuno si sarebbe aspettato di ricevere una notizia così drammatica.
«Paolo era un lavoratore stimato, con un notevole bagaglio di conoscenze nel suo ambito - lo ricorda l'avvocato Bruno Forestieri -. Nel suo passato non c'è nulla che potesse far pensare alla terribile tragedia».
Il suo corpo senza vita è stato trovato nell'appartamento che aveva appena comprato vicino al porto. La famiglia è stata avvertita venerdì mattina dall'unità di crisi della Farnesina, in collaborazione con i carabinieri.
«Oggi - spiega l'avvocato Forestieri - avrò una call con un collega olandese che si occuperà del caso insieme a noi. Faremo il punto della situazione anche per avere più dettagli possibili sulle indagini. Al momento le uniche notizie che ci arrivano ci vengono riportate dal ministero degli Esteri».
Tra oggi e mercoledì, inoltre, si svolgerà l'autopsia. Martedì i familiari saranno in Olanda per incontrare gli investigatori ma anche gli amici di Paolo, gli stessi che in questi giorni stanno cercando di racimolare informazioni su quanto sia accaduto. La polizia sta ricostruendo il puzzle e non è escluso che per arrivare al fermo dell'uomo sospettato abbiano utilizzato anche un video delle telecamere di sicurezza del palazzo dove Paolo aveva comprato casa recentemente.
L'ingegnere 42enne dopo la laurea alla Sapienza e un master all'Università della Svizzera Italiana, aveva deciso di trovare fortuna all'estero. In paese lo descrivevano come un «cervello in fuga». Qualche anno fa il suo arrivo in Olanda, dove ha collaborato con numerose aziende impegnate sul fronte dell'innovazione tecnologica.
Il delitto in Olanda. Ingegnere ucciso ad Amsterdam, Paolo Moroni ammazzato per pochi euro: il killer sorpreso a rubare nell’appartamento. Redazione su Il Riformista il 31 Gennaio 2022.
È stato fermato il presunto killer di Paolo Moroni, il 43enne informatico italiano trovato morto nel suo appartamento sul Voc, ad Amsterdam, giovedì scorso.
Ad uccidere Moroni, originario di Allumiere, piccolo centro in provincia di Roma sui monti della Tolfa, sarebbe stato un cittadino nordafricano, che lo avrebbe ammazzato a coltellate. A confermarlo è l’avvocato della famiglia, Bruno Forestieri: “È un uomo di origini nordafricane – spiega Forestieri – ci sarà una conferenza stampa in Olanda ci daranno altri dettagli”.
Sulla vicenda però restano ancora tanti interrogativi: entro mercoledì si svolgerà l’autopsia sul corpo dell’informatico, non è ancora se in presenza del medico legale di parte. La famiglia di Paolo, che vive ad Allumiere, martedì sarà ad Amsterdam per parlare con gli inquirenti del caso.
Secondo quanto scrive Repubblica, dietro l’omicidio di Moroni vi sarebbe un tentativo di rapina. Il 43enne ingegnere informatico avrebbe conosciuto il suo killer recentemente e lo avrebbe invitato a casa per trascorrere qualche ora insieme: quando l’uomo ha tentato di rubare qualcosa dall’appartamento, Moroni avrebbe tentato di fermarlo e dalla lite è scaturito l’omicidio a coltellate.
“L’unica cosa che mi conforta – dice il fratello Cesare a Repubblica – è che abbiano trovato il responsabile. Come si fa a uccidere un uomo come lui, un lavoratore, uno studente modello. Che poi la casa la stava ancora finendo di arredare, non aveva neppure il letto. Non c’erano oggetti di valore. Aveva solo i soldi nel portafogli e il cellulare“.
“Domani (oggi, nda) – spiega l’avvocato Forestieri all’Ansa – avrò una call con un collega olandese che abbiamo trovato sul posto. Faremo il punto della situazione anche per avere più informazioni sulle indagini. Al momento le uniche notizie che ci arrivano ci vengono riportate dall’unità di crisi della Farnesina”.
Sul caso, come da prassi, anche la Procura di Roma si è mossa aprendo un fascicolo per omicidio volontario: le indagini però restano guidate dalla polizia olandese. Quanto alle indagini, probabilmente ad incastrare il killer sono stati i video tratti dalle telecamere di sicurezza del palazzo dove Paolo aveva comprato casa recentemente: immagini che avrebbero ripreso il volto del suo killer.
Intanto nel piccolo centro di Allumiere la comunità è sconvolta. Moroni aveva trascorso le feste natalizie nel paesino in provincia di Roma ed era tornato in Olanda l’8 gennaio scorso. “Spesso lo si vedeva lavorare in smart working qui sulle scale del paese“, ha raccontato il sindaco, Antonio Pasquini.
Ad Allumiere la famiglia Moroni gestisce un noto ristorante e la piazza del paese è intitolata ad uno zio di Paolo, Cesare, morto durante una battuta di caccia. Laureato alla Sapienza e con un master all’Università della Svizzera Italiana, Paolo Moroni aveva tentato la fortuna all’estero volando qualche anno fa in Olanda, dove lavorava per aziende impegnate sul fronte dell’innovazione tecnologica.
· Il Mistero di Cori: Elisa Marafini e Patrizio Bovi.
"Duecento coltellate". Quei fidanzatini uccisi e il delitto che sconvolse Cori. Francesca Bernasconi il 17 Maggio 2022 su Il Giornale.
Nel 1997 Elisa Marafini e Patrizio Bovi vennero uccisi a coltellate. Fu ritenuto colpevole del delitto un amico del ragazzo, Marco Canale, condannato a 30 anni di carcere.
Lei aveva solamente 17 anni, lui 23. Ma questo non bastò a fermare la furia omicida della mano che strinse il coltello e sferrò in sequenza decine e decine di colpi. Una violenza cieca che lasciò senza vita Elisa Marafini e Patrizio Bovi e che rese tristemente noto per gli anni a seguire il piccolo paese di Cori, in provincia di Latina, dove le case sono distribuite sia nella parte a valle, che in quella più alta.
Ed è proprio in un appartamento situato in una delle strette stradine in salita che caratterizzano il paese a monte, composto da alcune abitazioni e locali, una piazza, la chiesa e l'antico tempio, che si consumò il duplice omicidio passato alle cronache con il nome di delitto di Cori.
Nel 1997 Elisa Marafini aveva 17 anni, era una studentessa al quarto anno di ragioneria e viveva a Cori con i genitori e il fratello. Patrizio Bovi, che in paese si faceva chiamare Gianni, all'epoca aveva 23 anni, un passato di adozione, lavori saltuari, tra cui tappezziere, falegname e cameriere, e la passione per la musica. Da qualche mese i mondi apparentemente molto distanti di Elisa e Patrizio si erano incontrati e i due ragazzi si erano innamorati.
L'omicidio
Era il 9 marzo del 1997, una domenica. La famiglia di Elisa Marafini la stava aspettando per la cena, prevista come sempre alle 19.30, orario a cui la ragazza, 17 anni, avrebbe dovuto fare ritorno a casa. Quel ritardo sull'ora di cena parve subito strano ai genitori. Il padre Angelo, maresciallo dei carabinieri in pensione, sapeva che, da qualche tempo, la figlia frequentava Patrizio Bovi, un ragazzo di 23 anni, che passava da un lavoro all'altro e aveva avuto a che fare con la droga.
Così, non vedendo rientrare la figlia, uscì insieme al figlio minore e andò a cercarla a Cori Monte, a casa del ragazzo, in via della Fortuna 41. Quando arrivò a casa di Patrizio suonò, ma senza ottenere risposta. Per questo, si recò in campagna dove aveva un terreno e recuperò una scala lunga: l'intenzione era quella di salire e guardare dalla finestra. La paura che potesse essere successo qualcosa a Elisa era già nell'aria, proprio perché la 17enne non era solita fare tardi sull'orario del rientro, per di più senza aver fatto nemmeno una telefonata per avvisare.
Il padre di Elisa chiese aiuto anche a un amico di Patrizio, Massimiliano Placidi. Fu lui a entrare per primo nell'appartamento del 23enne, dopo essersi arrampicato sulla scala. Una volta entrato, il ragazzo aprì la porta anche ai famigliari della ragazza. Al piano terra tutto sembrava in ordine, ma non appena gli uomini salirono i gradini che portavano alla camera da letto, la paura che fosse successo qualcosa di brutto diventò certezza: Elisa e Patrizio erano riversi a terra, lei ai piedi del letto, lui in bagno. I due corpi, ormai senza vita, giacevano in una pozza di sangue. Entrambi avevano schiena, braccia e collo martoriati da decine di coltellate.
L'autopsia rivelò che le centinaia di colpi erano stati inferti con un coltello "da punta e da lama", lungo e molto affilato, di quelli solitamente usati per affettare i prosciutti. In effetti l'arma del delitto, emersa successivamente, corrispondeva a un coltello da cucina, largo e lungo, che l'assassino aveva nascosto nel cassetto delle posate nell'appartamento della strage. Dopo gli omicidi, il killer aveva pulito la lama nel tappetino del bagno.
Il pomeriggio del 9 marzo, stando a quanto venne ricostruito successivamente, Elisa era uscita di casa dopo pranzo, per incontrare Patrizio, a Cori Monte. Intorno alle 16 venne vista in un bar, mentre cercava di telefonare a qualcuno, senza però ottenere risposta, e poco dopo incontrò Patrizio, in compagnia del quale passò il pomeriggio. L'ultima volta che i due ragazzi vennero visti ancora in vita erano le 19.35, davanti a casa di Bovi, mentre armeggiavano con un cellulare.
Tre piste
Fin dall'inizio i carabinieri indagarono in ogni direzione, prendendo in considerazione svariate piste."Non escludiamo nulla, le indagini sono a 360 gradi", avevano riferito gli inquirenti, secondo quanto riportò l'Unità dell'11 marzo 1997. Immediatamente però venne scartata la possibilità che si trattasse di un omicidio-suicidio, dati i molteplici colpi trovati sui corpi delle vittime: 51 su quello del ragazzo e 124 su quello di Elisa. Un numero di coltellate senza precedenti, che mostrava la furia cieca del killer.
Uno dei primi ad arrivare sul luogo del delitto fu il colonnello Ilario Vaccari, che a Blu Notte raccontò: "Quella notte ci siamo trovati di fronte al cadavere di due ragazzi giovanissimi la cui morte appariva inspiegabile. Quindi, per forza di cose, le nostre indagini si sono immediatamente orientate a 360 gradi". Nessuna ipotesi esclusa.
E per il primo mese di indagini furono tre le piste privilegiate: quella passionale, quella legata alla droga e quella familiare. Per cercare di venirne a capo, il centro scientifico dei carabinieri setacciò l'intero appartamento, alla ricerca di qualche impronta o traccia che potessero portare al killer dei due ragazzi.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, il delitto poteva essere avvenuto in due tempi: prima sarebbe stato ucciso Patrizio Bovi e, a seguire, Elisa Marafini. Il 12 marzo del 1997 l'Unità dava già la notizia di un primo arresto. Ma, "nell'ipotesi di accusa non c'è traccia di delitto". A finire nel mirino degli inquirenti fu un 29enne amico di Patrizio, che venne accusato di aver venduto al ragazzo della cocaina. E, in quel momento, la pista della droga sembrò essere quella da ritenere privilegiata.
In realtà i carabinieri non tralasciarono le altre ipotesi e nel registro degli indagati finirono alcuni amici di Patrizio e il padre di Elisa. Il padre della ragazza venne considerato un "indagato tecnico", anche se il comportamento di Angelo Marafini sollevò qualche dubbio, dato da qualche incongruenza negli orari e dal fatto che l'uomo, dopo aver scoperto il corpo della figlia, riportò in campagna la scala usata per salire nell'appartamento.
Finirono nel mirino degli inquirenti anche Massimiliano Placidi, che aveva scoperto i corpi insieme al padre e al fratello di Elisa, Marco Canale, operaio 27enne che viveva nel vicino paese di Cisterna ed era amico di Patrizio, e Piero Agnoni, macellaio di un paese vicino, che conosceva entrambe le vittime.
Un delitto passionale?
Durante alcuni rilievi nello studio di Massimiliano, vennero trovate alcune tracce che parevano poter essere di tipo ematico. Inoltre l'alibi fornito dal ragazzo non convinse gli inquirenti. E il 15 marzo del 1997 Placidi venne arrestato con l'accusa di omicidio plurimo aggravato.
Ma perché avrebbe dovuto uccidere quello che riteneva essere il suo miglior amico e la sua ragazza? La risposta si sarebbe dovuta ricercare in quel rapporto molto stretto che sembrava legare Massimiliano e Patrizio. A spingere Placidi a uccidere sarebbe stata la gelosia nei confronti dell'amico di cui, secondo l'accusa, si era invaghito.
Ma "la crescita di un sentimento d'amore dello stesso Placidi verso Bovi" sarebbe stato "ostacolato dalla presenza della Marafini". Quindi si sarebbe dovuto ricercare il movente nel "mondo sommerso dell'omosessualità", al quale sembrava appartenere Placidi, unito all'assunzione di grandi quantità di cocaina, che avrebbero spinto l'omicida ad alzare la mano e affondare il coltello per quasi duecento volte.
Dopo qualche giorno, durante un interrogatorio, Placidi confessò il delitto. "È stato un raptus - avrebbe detto, secondo quanto riportato al tempo da Repubblica - Non so bene neanche io perché", fose per "paura di perdere un'amicizia". Placidi avrebbe ammesso di aver colpito prima Patrizio nel bagno, poi Elisa, attirata al piano superiore da quegli strani rumori. Ma una volta davanti al procuratore, Massimiliano ritrattò tutto, sostenendo di aver confessato il falso.
Per 24 giorni Placidi rimase in carcere. Poi venne liberato, su decisione del tribunale del riesame, che accolse il ricorso dei difensori dell'uomo, annullando l'ordinanza di custodia cautelare. Come ricorda Agi, le 60 pagine di motivazione parlarono di uno scenario non in grado di "giustificare il giudizio di elevata e qualificata probabilità di colpevolezza a carico di Placidi" e di indizi non idonei "a raggiungere il sensibile livello di gravità richiesto dal legislatore". La procura di Latina fece ricorso contro la sentenza del tribunale del riesame.
Il Dna inchioda uno degli indagati
Meno di un mese dopo la scarcerazione di Massimiliano Placidi, gli inquirenti fermarono un altro degli indagati. Si trattava di Marco Canale, l'operaio di Cisterna di 27 anni, amico di Patrizio. A incastrarlo furono un paio di jeans macchiati, trovati dagli inquirenti in casa del ragazzo all'indomani del delitto e sequestrati, per permettere al Centro di investigazioni scientifiche (Cis) dei carabinieri di analizzarli. Il Cis scoprì che le tracce trovate sui pantaloni erano delle macchie di sangue, compatibili con quello di tutte e due le vittime.
Così, il 26 aprile 1997, Marco Canale finì in carcere. Per spiegare quelle macchie di sangue, Canale ammise di essere stato nell'appartamento in via della Fortuna il pomeriggio del 9 marzo e di aver visto i fidanzatini già morti. Sostenne poi di essere scappato senza dare l'allarme. Le macchie sui pantaloni, a sua detta, se le doveva essere procurate in quell'occasione.
Ma alcuni testimoni avevano visto Elisa e Patrizio ancora vivi fino alle 19.30 di quella domenica. Nemmeno l'alibi fornito dal ragazzo convinse gli inquirenti: "Abbiamo analizzato profondamente l'alibi fornito da Marco Canale - spiegò il colonnello Vaccari a Blu Notte - e abbiamo avuto la capacità e la fortuna di portare alla Corte d’Assise testimonianze ed elementi tali che hanno consentito di appurare che l’alibi fornito da Canale non aveva possibilità di riscontri".
Il 14 dicembre del 1998, la Corte d'Assise di Latina condannò Marco Canale a trent'anni di carcere. Qualche giorno prima, il pm aveva scagionato gli altri imputati. Successivamente la sentenza di primo grado venne confermata dalla Corte d'Assise d'Appello di Roma, nonostante l'insistenza dell'imputato nel proclamarsi innocente. Ma nel 2001 anche la Corte di Cassazione confermò il carcere per Marco Canale, rendendo la condanna definitiva.
Nel 2019 Marco Canale è uscito dal carcere, avendo beneficiato di uno sconto di pena, grazie al "comportamento esemplare" che tenne durante i suoi 22 anni di reclusione. Una volta scontata la sua pena, il comune di Cisterna avviò la procedura per un "tirocinio formativo e di reinserimento sociale", per aiutare Canale a rimettersi in gioco all'interno della società, con la determina dirigenziale del Settore Welfare n.1929.
· Il caso di Alessandro Nasta.
Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 5 marzo 2022.
«Mio figlio è morto dieci anni fa. Le sembra normale che a dieci anni dai fatti e a cinque dall'inizio del processo non siamo arrivati nemmeno a una sentenza di primo grado? Io non ne sapevo niente della giustizia prima che Alessandro morisse, adesso so che finire nell'aula di un tribunale è un po' come giocare al Lotto. Ti devi affidare alla fortuna. E noi finora non siamo stati fortunati».
Marisa Toraldo è «la mamma di Ale» e da dieci anni a questa parte è come se fare «la mamma di Ale» fosse il suo mestiere. Una specie di lavoro «arrivare alla verità e andare un giorno sulla tomba di mio figlio a dirgli che ha avuto giustizia e può finalmente riposare in pace». Alessandro Nasta, suo figlio, morì a 29 anni il 24 maggio del 2012 mentre era in servizio sull'Amerigo Vespucci, nave scuola e veliero più vecchio della marina militare.
Lui era un sottufficiale - nocchiere di terza classe - e quel giorno la Vespucci navigava 40 miglia a Nord di Civitavecchia. Alessandro, nato a cresciuto Brindisi, aveva cominciato a lavorare alle quattro del mattino e quand'era quasi ora di smontare chiesero a lui e alla sua squadra di affiancare quella di turno sull'albero maestro per chiudere le vele. La richiesta, dicono alcuni suoi compagni, era su base volontaria.
L'albero maestro è il più alto, 54 metri. Lui salì, fece quello che doveva fare e cominciò a scendere nel modo in cui aveva sempre fatto e come voleva la tradizione marinaresca, cioè senza imbragature anti-caduta. E questo nonostante fossero in vigore ormai da due anni (per i militari come per i civili) le norme stabilite dal Testo unico sulla sicurezza sui luoghi di lavoro. A essere più precisi: lui era imbragato, sì, ma dalla cosiddetta «cintura di posizionamento», che veniva ancorata alla struttura (con un moschettone a vite) soltanto per il tempo in cui era necessario usare entrambe le mani.
Non per salire e per scendere. Quella mattina il nocchiere finì le operazioni di chiusura delle vele e scese fino alla coffa, una sorta di piattaforma a 15 metri di altezza. Il collega che scendeva dopo di lui sentì una «forte vibrazione», guardò in basso e lo vide cadere; né un lamento, né un urlo né il tentativo di aggrapparsi a qualcosa. Una marionetta senza fili. Morì sull'elicottero che lo portava in ospedale.
Da quel giorno in poi sua madre ha studiato tutto su norme di sicurezza e corsi di formazione che i marinai erano e sono tenuti a seguire, ha scovato in Rete filmati sugli uomini della Vespucci in azione prima e dopo la morte del figlio, ha imparato programmi informatici per trattare video che ora sono agli atti... Dopo il caso Nasta la Marina ha adottato, in sostanza, misure anti-caduta che potevano salvarlo se fossero state applicate quel 24 maggio 2012. E questo indipendentemente dal motivo della caduta.
«Io cerco di onorare la memoria di mio figlio», dice sua madre. «Non voglio un colpevole a ogni costo, vorrei solo che mi dicessero: sì, gli imputati sono responsabili oppure no, le responsabilità sono altrove. Basta che lo facciano, il tempo è diventato stretto». Gli imputati sono l'allora comandante della Vespucci, Domenico La Faia, e tre Capi di Stato Maggiore che erano ai vertici della Marina: gli ammiragli Giuseppe De Giorgi, Bruno Branciforte e Luigi Binelli Mantelli. Dalla prima udienza a oggi il processo è passato di mano quattro volte. Il quarto giudice l'altro.
giorno ha ammesso nuove prove e si è riservato di decidere (il 9 giugno) se rifare daccapo l'attività processuale. E quando la madre di Alessandro dice che «il tempo è stretto» parla della possibilità, non più tanto remota, della prescrizione. La sua avvocata, Alessandra Guarini, lo dice con parole giuridiche: «Il reato di cui parliamo è omicidio colposo, aggravato dalle violazioni delle norme antinfortunistiche. I termini della prescrizione in questo caso raddoppiano, quindi sono 17 anni e mezzo. Ma se pensa che siamo già al decimo senza neanche la prima sentenza...».
Da repubblica.it il 30 settembre 2022.
La corte d'assise di Brescia ha condannato all'ergastolo Giacomo Bozzoli per l'omicidio e la distruzione del cadavere dello zio Mario, l'imprenditore bresciano svanito nel nulla l'8 ottobre 2015 dalla fonderia di Marcheno.
Accolta la richiesta di condanna all'ergastolo avanzata dai pm. La difesa invece aveva chiesto l'assoluzione. La sentenza è stata letta dal presidente della Corte Roberto Spanò dopo oltre 10 ore di camera di consiglio.
Due giorni fa erano stati i pubblici ministeri di Brescia, Silvio Bonfigli e Marco Martani, a chiedere la condanna. "Siamo certi che il corpo di Mario sia stato distrutto nel forno della fonderia" avevano spiegato nella lunga requisitoria. "Gli operai Maggi, Abu e Ghirardini hanno avuto un ruolo attivo nella fase successiva, quando il corpo viene distrutto nei forni e loro erano presenti. Hanno collaborato", è la tesi accusatoria.
Per i pubblici ministeri "Giacomo è un violento e prevaricatore. Odiava lo zio e voleva ucciderlo, pianificava la sua morte da anni nei minimi dettagli. Per noi Mario Bozzoli è stato ucciso oltre ogni ragionevole dubbio dal nipote Giacomo Bozzoli nel forno della fonderia. Ha avuto un movente covato per anni". L'accusa ha chiesto anche la trasmissione degli atti in Procura nei confronti di Oscar Maggi e Abu, i due operai presenti in fonderia la sera dell'omicidio, per i quali si procede per falsa testimonianza.
Bozzoli, la sentenza: ergastolo per il nipote Giacomo, ha ucciso lui lo zio. Mara Rodella su Il Corriere della Sera il 30 settembre 2022.
Dopo sette anni di misteri e colpi di scena, l’unico imputato per l’omicidio di Mario Bozzoli - scomparso nella sua fonderia a Marcheno (Brescia) l’8 ottobre 2015 - è stato ritenuto colpevole in primo grado
La Corte d’Assise di Brescia, dopo una lunga camera di consiglio, ha emesso la sua sentenza: Giacomo Bozzoli è stato condannato in primo grado all’ergastolo per aver ucciso lo zio Mario, nella fonderia di Marcheno, e averne distrutto il cadavere. La difesa chiedeva l’assoluzione totale per mancanza di prove, i giudici hanno invece accolto le richieste dell’accusa che aveva chiesto il massimo della pena per il nipote, unico imputato in questi anni. Giacomo Bozzoli, in aula, visibilmente scosso, è stato sostenuto dal padre Adelio e dal fratello Alex.
Cosa accadde sette anni fa
Mario Bozzoli, 50 anni, imprenditore, scomparve dalla fonderia di Marcheno (Brescia) la sera dell’8 ottobre 2015: alle 19.13 chiamò la moglie Irene – che non immaginava sarebbe stata l’ultima volta in cui gli avrebbe parlato – per dirle di essere in ritardo, che si sarebbe fatto una doccia, cambiato, e l’avrebbe raggiunta in un ristorante sul Garda. Non ci arrivò mai. La sua auto nel parcheggio, i suoi abiti ancora nello spogliatoio, ma di lui nessuna traccia: sparito nel nulla con i vestiti da lavoro e le scarpe antinfortunistiche ancora addosso, niente telefono (non è mai stato trovato) né soldi. L’allarme scattò attorno alle 22, quando preoccupata non vedendolo rientrare, Irene chiese al figlio minore – che viveva in Valtrompia – di fare un salto in fabbrica per capire che fine avesse fatto il padre.
La scomparsa di Giuseppe Ghirardini
Quella sera a Marcheno c’erano altri operai, oltre a Giacomo e Alex Bozzoli, figli di Adelio, fratello di Mario. Sei giorni dopo uno di loro scompare: Giuseppe Ghirardini, coetaneo del titolare Mario, addetto al forno grande della fonderia, chiama un amico per annullare una battuta di caccia causa maltempo e sale in auto, direzione Valcamonica. Viene trovato senza vita il 18 ottobre 2015 nei boschi di Case di Viso: stroncato da una capsula di cianuro rinvenuta nello stomaco. L’inchiesta aperta per istigazione al suicidio a carico di Alex e Giacomo è stata definitivamente archiviata (dopo una proroga di indagini disposta dal gip) nei mesi scorsi. Sul fatto che le due vicende siano strettamente collegate gli inquirenti non hanno mai avuto dubbi.
Per quanto riguarda Mario, si iniziò a indagare ipotizzando un omicidio quasi da subito, nonostante l’azienda sia stata posta sotto sequestro solo una settimana dopo la sua scomparsa. A vario titolo furono indagati (per favoreggiamento) anche alcuni degli operai. Per la procura Mario sarebbe stato ucciso e gettato nel forno: ipotesi, questa, abbandonata negli anni dopo l’avocazione del fascicolo da parte della procura generale e tornata in auge solo la scorsa primavera, dopo l’esperimento giudiziale in scala disposto dalla Corte d’assise – con un maialino di 13,2 chili – per capire, viste le conclusioni divergenti dei consulenti tecnici di parte, cosa sarebbe successo, con quali reazioni e in quali tempi.
Unico imputato: il nipote Giacomo
Perché a quasi sette anni dai fatti, unico a processo con l’accusa di omicidio volontario e premeditato dello zio Mario, oltre che di distruzione del corpo, è il nipote, Giacomo Bozzoli. Che si è sempre detto innocente. Per i sostituti procuratori Silvio Bonfigli e Marco Martani, che a suo carico hanno chiesto l’ergastolo, Giacomo avrebbe aggredito lo zio vicino ai forni, salvo poi affidarne il corpo a Ghirardini, il quale, “dietro compenso” l’avrebbe gettato, appunto, nel forno grande. Avrebbe ucciso spinto da un movente economico, stanco di quello zio che non condivideva la gestione “allegra” dell’azienda da parte del fratello e dei nipoti, pronti a gonfiare fatture, risparmiare sulle leghe e truffare l’assicurazione: non a caso, nell’auto di Mario – ne è certa l’accusa – fu ritrovata una fattura da oltre 46 mila euro di lavori mai eseguiti per aggiustare uno dei forni. In sintesi: un raggiro all’assicurazione.
Di parere opposta la difesa, che per voce dell’avvocato Luigi Frattini ha chiesto l’assoluzione di Giacomo “per assoluta assenza di prove a suo carico”, sostenendo che alle 19.19 di quella sera, quindi un minuto dopo la fumata anomala alla Bozzoli che per l’accusa certificherebbe la morte dell’imprenditore, Mario fosse vivo e a bordo di un muletto avvistato uscire dal magazzino dei pani di ottone. Non solo. Per la difesa non si può nemmeno sostenere con certezza la vittima sia stata fatta sparire nel forno, anzi. L’accusa ha chiesto anche di rinviare gli atti alla procura affinché proceda per favoreggiamento e falsa testimonianza nei confronti di due operai: Abu e Oscar Maggi. Agli atti anche le intercettazioni in cui nell’ottobre 2015 cercano disperatamente di contattare Ghirardini per accordarsi affinché tutti diano agli investigatori la stessa versione. Per gli inquirenti non possono non aver visto o saputo qualcosa.
La decisione dopo 7 anni di misteri e colpi di scena. Omicidio di Mario Bozzoli, ergastolo per il nipote Giacomo: la sentenza sul ‘giallo’ della fonderia. Redazione su Il Riformista il 30 Settembre 2022
Ergastolo per Giacomo Bozzoli. Dopo dieci ore di camera di consiglio è questa la sentenza letta nell’aula della Corte d’Assise di Brescia dal presidente Roberto Spanò nei confronti nel nipote di Mario Bozzoli, imprenditore svanito nel nulla l’8 ottobre 2015 dalla fonderia di sua proprietà a Marcheno.
Una sentenza che ha dunque accolto totalmente la tesi dei pm della Procura locale, che avevano chiesto nei confronti del 35enne unico imputato il massimo della pena. Non accolta dunque la tesi opposta della difesa, che ne chiedeva l’assoluzione.
“Siamo certi che il corpo di Mario sia stato distrutto nel forno della fonderia” avevano spiegato nella lunga requisitoria di due giorni i pubblici ministeri Silvio Bonfigli e Marco Martani, che avevano definito Bozzoli “un violento e un prevaricatore” che “odiava lo zio e voleva ucciderlo, pianificava la sua morte da anni nei minimi dettagli”. Il tutto a causa dei rapporti tesi tra i due per motivi economici.
L’accusa inoltre ha chiesto di rinviare gli atti alla procura affinché proceda per favoreggiamento e falsa testimonianza nei confronti di due operai dell’azienda, Abu e Oscar Maggi.
Un omicidio senza un corpo, mai ritrovato. Secondo la Procura Giacomo Bozzoli avrebbe fatto scomparire il cadavere dello zio gettandolo in uno dei forni dell’azienda: anche per questo il 35enne era a processo per omicidio e distruzione del corpo.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti Giacomo avrebbe aggredito lo zio vicino ai forni ma poi avrebbe affidato il “compito” di gettare il corpo nel forno ad un dipendente dell’azienda, Giuseppe Ghirardini.
Quest’ultimo svanirà nel nulla a sua volta sei giorni dopo la scomparsa/omicidio di Bozzoli. Il corpo senza vita dell’operaio verrà trovato solo il 18 ottobre 2015 nei boschi di Case di Viso, ucciso da una capsula di cianuro rinvenuta nello stomaco. Nei mesi scorsi l’inchiesta per istigazione al suicidio nei confronti di Giacomo e Alex Bozzoli è stata però definitivamente archiviata.
Tutte ricostruzioni ovviamente negate dalla difesa di Giacomo Bozzoli, che si è sempre professato innocente. Per l’avvocato del 35enne, Luigi Frattini, dal processo sarebbe emersa “l’assoluta assenza di prove a suo carico”. In particolare il legale ha sostenuto nel corso del processo che alle 19:19 di quell’8 ottobre, ovvero un minuto dopo fumata anomala alla Bozzoli che per l’accusa certificherebbe la morte dell’imprenditore, Mario fosse vivo e a bordo di un muletto avvistato uscire dal magazzino dei pani di ottone.
Quarto Grado, caso Bozzoli. Parla la ex del nipote Giacomo: “Più volte ripeteva che voleva ucciderlo”. Valentina Mericio il 15/07/2022 su Notizie.it.
"Voleva uccidere lo zio", lo ha rivelato la ex fidanzata del nipote di Mario Bozzoli in un'udienza al centro della puntata di Quarto Grado.
Nella puntata de “Le Storie di Quarto Grado – Estate” è stato dedicato spazio ad uno dei casi più complessi di questi ultimi anni ossia la scomparsa di Mario Bozzoli, imprenditore bresciano scomparso l’8 ottobre del 2015 e il cui corpo non è mai stato ritrovato.
Nella trasmissione è stata mandata in onda la deposizione in aula di Jessica, la ex fidanzata del nipote di Bozzoli e unico imputato secondo gli investigatori.
“Conosco Giacomo nel 2008, io avevo 17 e da lì ci siamo conosciuti. Abbiamo avuto una relazione che è durata fino alla fine del 2011/inizi del 2012”, ha esordito così Jessica.
La giovane ha fornito alla corte un racconto quanto mai preciso e ricco di dettagli: “Mi ha sempre palesato il suo odio nei confronti dello zio tanto che più volte mi ha ripetuto che il suo intento era quello di ucciderlo”.
Ha poi spiegato quale sarebbe stato il piano ipotizzato dall’ex: “Mi ha sempre detto che io avrei dovuto prendere la sua macchina […] e transitare in autostrada e andare a dormire a casa mia mentre lui dove, a detta sua, aspettava lo zio fuori da casa […] si sarebbe procurato degli stivali con un numero più grande, lo avrebbe colpito, non so con che cosa, il giorno dopo mi avrebbe chiamato da una cabina telefonica per andarlo a recuperare, avrebbe dormito nel bosco.
Transitando in macchina in autostrada il telepass avrebbe segnalato il mio passaggio”.
“Una questione di eredità”
Jessica ha proseguito spiegando in aula perché avrebbe voluto uccidere lo zio:
“Palesava il suo odio quasi ogni volta che vedeva lo zio. Era una questione di eredità. Lui e il fratello lavoravano in azienda, mentre i figli di Mario facevano tutt’altro, quindi per lui non era giusto avere un 50%…
Possedeva delle armi da tagli, parecchie […] c’era una pistola a revolver nella camera matrimoniale dei suoi genitori. Ogni tanto si divertiva a prenderla, mettendo un proiettile, tipo roulette e me la puntava alla testa […]”
“Ci ho messo molto tempo a concludere questa storia perché lui mi minacciava che sei io lo lasciavo faceva saltare casa dei miei. Ero dal parrucchiere, mi ha chiamato mia mamma per dirmi che era scomparso il papà di Giacomo […] la prima cosa che ho pensato è che fosse Mario…”.
Caso Bozzoli, dopo l’esperimento con il maialino il pm modifica il capo di imputazione: «Mario ucciso dentro il forno». Wilma Petenzi su Il Corriere della Sera il 30 Giugno 2022.
L’accusa ha sempre sostenuto che Mario Bozzoli fosse stato ucciso all’interno della sua fonderia dal nipote Giacomo: il pm ora è tornato a sostenere l’ipotesi iniziale.
Dopo un anno e mezzo di processo nel quale l’accusa ha portato avanti l’ipotesi che Mario Bozzoli sia stato ucciso all’interno della sua fonderia di Marcheno dal nipote Giacomo Bozzoli, oggi il pubblico ministero in aula Silvio Bonfigli ha modificato il capo di imputazione spiegando che esiste la possibilità che Mario Bozzoli sia stato ucciso dentro il forno della sua fonderia a Marcheno (nelle scorse settimane ha fatto molto discutere l’esperimento con il maiale gettato nel forno) la sera dell’8 ottobre 2015 e non portato fuori dall’azienda dallo stesso nipote sulla sua auto e abbandonato dove non è mai stato trovato.
Mario Bozzoli potrebbe essere stato gettato nel forno della fonderia di Marcheno che gestiva con il fratello Adelio e i nipoti Alex e Giacomo. Il suo corpo, quella sera dell’8 ottobre di sette anni fa, potrebbe non aver mai lasciato l’azienda. O meglio, dall’azienda potrebbe essere uscito qualche frammento osseo, qualche residuo restato dopo quella macabra e improvvisata cremazione. Colpo di scena nel processo a Giacomo Bozzoli per l’omicidio e la distruzione del cadavere dello zio. Ieri il pm Silvio Bonfigli ha modificato il capo di imputazione: «Esiste la possibilità che Mario Bozzoli sia stato ucciso dentro il forno della sua fonderia a Marcheno la sera dell’8 ottobre 2015 e non portato fuori dall’azienda dallo stesso nipote sulla sua auto e abbandonato dove non è mai stato trovato».
Si è quindi tornati ad aggiungere anche quella che è stata l’ipotesi iniziale delle indagini, quando era ancora la procura ordinaria a procedere prima che la procura generale avocasse l’inchiesta arrivando, per l’appunto, alla conclusione che Bozzoli non fosse stato ucciso e gettato nel forno, ma il corpo fosse stato spostato e sepolto in una zona che non è mai stata individuata. «Ho un dovere imposto dalla legge e dal codice di procedura penale» ha detto Bonfigli. «Perché — ha aggiunto — la prova si forma in dibattimento».
A far mutare il capo di imputazione l’esito della perizia disposta da Roberto Spanò, presidente della corte d’assise: un esperimento giudiziale in scala, in un piccolo forno fusorio lo scorso 27 aprile venne gettato il corpo di un maialino, morto di morte naturale. Un esperimento necessario per capire le reazioni per il contatto del corpo con il bagno di metallo fuso, eventuali esplosioni o fumi scatenati dalla combustione. Nel forno della fonderia Gozzini a Navezze di Provaglio venne depositato il corpo del maialino, avvolto in alcune stoffe di cotone per simulare i capi di vestiario indossati da Bozzoli in azienda. In scala, ovviamente, la dimensione del forno e quella del corpo: il piccolo suino pesava 13,2 chilogrammi, mentre Bozzoli superava gli ottanta.
Ieri in aula il medico legale Camilla Tettamanti ha ripercorso le fasi salienti dell’esperimento giudiziale. «Il forno era a una temperatura di 950 gradi — ha ricordato il perito — , quando il maialino è stato deposto non c’è stata alcuna esplosione e si è sviluppata una fumata bianca con una diversa densità a seconda dei momenti. C’è stata dispersione di pulviscolo saponoso, ma non si è depositato nè in terra, nè sugli abiti dei presenti». «È stata netta — ha proseguito il medico legale —la percezione di odore quando calore e fuoco hanno avvolto la carcassa, l’odore di keratina bruciata è stato intenso, ma è durato solo un breve periodo. Per la completa consumazione del corpo sono servite due ore e mezzo».
Da qui la conclusione che per «arrivare alla distruzione completa del cadavere di Mario Bozzoli nel forno grande dell’azienda ci sarebbero volute poche ore». Per il perito eventuali frammenti ossei potrebbero essere stati recuperati e smaltiti: difficilmente riconoscibili e conglobati nei residui di fusione. Per i consulenti della difesa (Giacomo Bozzoli si è sempre dichiarato innocente) per eliminare traccia del corpo nel forno sarebbero servite almeno 16 ore, sei se il corpo fosse stato girato. La fumata che si verificò in azienda quella sera, è stato ribadito dalla difesa, fu generata dai rottami gettati nel forno, e non si sentì alcun odore. Si torna in aula il 7 settembre.
"Bruciato nel forno della sua azienda". Il processo per l'imprenditore sparito. Giuseppe Spatola il 29 Giugno 2022 su Il Giornale.
"Bruciato nel forno della sua azienda". Il processo per l'imprenditore sparito.
A un anno e mezzo dall’inizio del processo a Brescia durante l’ultima udienza in aula il pubblico ministero Silvio Bonfigli ha modificato il capo di imputazione
Per il pm Maruio Bozzoli fu bruciato nel forno della sua azienda
Ucciso e gettato nel forno della fonderia di famiglia. A un anno e mezzo dall’inizio del processo a Brescia, nel quale l'accusa ha portato avanti l'ipotesi che l’imprenditore scomparso Mario Bozzoli sia stato ucciso all'interno della sua azienda dal nipote Giacomo Bozzoli, durante l’ultima udienza in aula il pubblico ministero Silvio Bonfigli ha modificato il capo di imputazione spiegando che esiste la possibilità che l’uomo sia stato ucciso dentro il forno la sera dell'8 ottobre 2015.
Il giallo di Marcheno e le mille ipotesi
Il pm di fatto è tornato a quella che era stata l'ipotesi iniziale. "Ho un dovere imposto dalla legge e dal codice di procedura penale - ha detto Bonfigli -. Perchè la prova si forma in dibattimento". Una linea di fatto confermata dal medico legale Camilla Tettamanti, perito nominato dalla Corte d'Assise. "Per arrivare alla distruzione completa del cadavere di Mario Bozzoli nel forno ci sarebbero volute poche ore", ha detto in aula presentando la relazione in merito all'esperimento dello scorso 27 aprile, quando venne gettato un maialino, già morto per cause naturali, in un forno da fonderia a 950 gradi. Il forno non era esploso e si registrò una fumata.
L'esperimento con il maiale nel forno
L'esperimento era stato voluto dalla Corte d'Assise per capire se Mario Bozzoli la sera della scomparsa possa essere stato buttato nel forno della sua azienda. "C'è stata la netta percezione di odore quando il fuoco ha avvolto i peli della carcassa - hanno detto i periti -, che però è durato per un breve periodo, anche per la presenza della cappa di aspirazione. Non ho mai percepito l'odore di carne bruciata. Non si è mai verificata la situazione che non si potesse stare nel capannone per l'odore". Di più. "In un'ora circa dalla fine dell'esperimento i resti potevano essere maneggiati senza problemi ha proseguito il medico legale -. La letteratura ci dice poi che a quelle temperature è impossibile rilevare dna". A proposito di resti, la dottoressa Camilla Tettamanti ha sostenuto che "alcuni resti, in mezzo a tantissime scorie e resti metallici, erano perfettamente riconoscibili e riconducibili a resti ossei".
Mario Bozzoli, l’imprenditore di Marcheno svanito nel nulla: il principale caso giudiziario d’Italia. Andrea Galli inviato a Marcheno e Mara Rodella su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2022.
La sera dell’8 ottobre 2015 l’ultima telefonata alla moglie, poi la scomparsa. Gettato nel forno della sua fonderia? Da chi? E perché? Sotto processo, a piede libero, il nipote Giacomo. Un caso dove entra un’altra morte: quella di Giuseppe Ghirardelli, operaio alle dipendenze di Bozzoli.
«Un mosaico da ricomporre»
A oggi, il maggior caso investigativo-giudiziario d’Italia. E dunque gli uomini, le donne, i luoghi, le sorti e le parole del caso di Marcheno, 4.300 abitanti in Val Trompia, provincia di Brescia: ai balconi bandiere d’Italia e della pace; ai lati della strada che taglia il paese, armerie, negozi di ferramenta, fabbriche di meccanica di precisione, annunci di magazzini in vendita e di polli alla brace. Un caso, quello di Marcheno, che è anche storia nera di una famiglia dilaniata e insanguinata.
I protagonisti
L’imprenditore Mario Bozzoli, co-titolare dell’omonima fonderia, 50 anni, fu ucciso e fatto sparire giovedì 8 ottobre 2015. Nel dettaglio: tra le 19.13 (l’orario della telefonata alla moglie Irene per avvisarla di un ritardo, prima di cambiarsi, passare a prenderla e cenare sul lago di Garda) e le 19.24 (l’orario codificato dai carabinieri del Ros e secondo la Procura la fascia temporale dove collocare la scomparsa). Dalla fonderia, Bozzoli non era mai uscito. Assassinato e inserito nel forno della ditta. O forse no. Ha detto al termine della perizia l’anatomopatologa Cristina Cattaneo: «Se fosse finito lì ne avremmo trovato traccia». Quel forno scioglieva i metalli a mille gradi. Oltre la temperatura di un forno crematorio. Irene Zubani è la vedova di Mario. L’indomani mattina, denunciò in caserma la sparizione del marito, invano cercato tutta notte, e introdusse i nomi di altri Bozzoli. Parenti. E a suo dire in qualche modo colpevoli: Adelio, Alex e Giacomo. Degli ultimi due, mise a verbale, Mario aveva paura. Di uno (Giacomo), dirà: «È stato lui». Adelio Bozzoli, fratello maggiore di Mario, possedeva la restante metà dell’azienda, che aveva un passivo di due milioni di euro (buco accertato dalla Guardia di finanza). Come Alex, Giacomo è figlio di Adelio nonché l’unico imputato, a piede libero, nel processo a Brescia davanti alla Corte d’assise. Giacomo: 36 anni, «latin-lover delle valli», amante delle Porsche, del denaro, delle vacanze esotiche. Giuseppe Ghirardini, 50 anni, operaio addetto al forno maggiore della fonderia. Sparì sei giorni dopo e venne scoperto senza vita il 18 ottobre 2015. In un prato di Case di Viso, in Valcamonica. Causa del decesso: una fiala di cianuro apertasi nello stomaco (una seconda capsula non si era rotta, il veleno era stato fabbricato in Austria e nell’abitazione di Ghirardini, uno sempre senza soldi secondo le voci di paese, c’erano 4.500 euro in banconote alcune delle quali austriache). Nessun dubbio delle sorelle: «Non si sarebbe mai tolto la vita». Chi ha assassinato Mario Bozzoli? Perché? E com’è davvero morto Giuseppe Ghirardini?
Una famiglia dilaniata
Hanno scritto i giudici nella pratica di scioglimento della fonderia (come da documento acquisito dal Corriere): «In data 21.1.2016 il collegio sindacale non riusciva a deliberare per i dissidi tra Adelio Bozzoli e Irene Zubani… Si procedeva a ulteriore convocazione dell’assemblea con lettera del 24.2.2016… Anche in quella circostanza l’assemblea non deliberava». La successiva nomina di un liquidatore portò alla vendita della ditta per 4 milioni e mezzo di euro. Intanto Adelio aveva aperto una nuova azienda, la «Mettal industrie», che, come letto dal Corriere, registrò la nascita nel settembre 2016 davanti a un notaio di Reggio Emilia, attraverso la «Fiduciaria emiliana» e un anticipo con un assegno di 30 mila euro. Il progetto di divisione aveva innescato precedenti discussioni anzi litigi, per i timori di Mario, vero motore operativo delle fonderie, che i familiari avrebbero potuto impoverire e indebolire la società.
Uno strano suicidio
Ghirardini aveva una moglie in Brasile dalla quale era separato, un figlio che avrebbe rivisto a breve, a Natale; e aveva due cani da caccia dai quali mai si sarebbe diviso. Se insomma se ne andò a Case di Viso per ammazzarsi, con una scusa avrebbe consegnato gli animali alle sorelle affinché se ne occupassero. Parcheggiata la macchina, camminò per cinque chilometri. Sterrato, fango, prati. Ma gli stivali erano puliti. Rubato il cellulare. Non lontano dal cadavere, un casolare. A chi appartiene? Mai accertato. L’autopsia escluse segni di violenza e azioni esterne affinché Ghirardini ingerisse il cianuro. Non risultano evidenze investigative di persone note all’operaio presenti quel giorno, quelle ore, in quella zona. Due gli iscritti nel registro degli indagati per istigazione al suicidio: Giacomo e Alex. E per due volte, chiesta l’archiviazione. Ad aprile nuova udienza.
Accusa e difesa
Gli avvocati di Giacomo poggiano su due punti. Dimostrate che è stato un omicidio. E dimostrate che a uccidere, se di omicidio si tratta, è stato proprio Giacomo. Ci sarebbe un terzo punto: dimostrate che l’eliminazione del corpo è avvenuta nel forno. Ora, se il killer fosse stato Giacomo, avrebbe anche potuto trasferire lontano — a bordo della propria macchina, sulla quale peraltro non sono state isolate tracce utili — il cadavere dello zio e abbandonarlo, o seppellirlo, in un punto qualunque di un bosco lungo il tragitto verso casa, inalterato stando alle indagini, sul Garda. Se così fosse, però, quale l’arma del delitto? E se fosse stato Giacomo, sarebbe da collegare anche alla fine di Ghirardini? A meno che la mano esecutrice contro Mario Bozzoli sia stata quella dello stesso operaio, che poi, devastato dal rimorso, avrebbe preso il veleno oppure, al contrario, potrebbe essere stato indotto a farlo. I due, Bozzoli e Ghirardini, non si piacevano. Altri due operai Oscar Maggi e Abu Akwasi (presenti in ditta la sera della scomparsa), anziché collaborare raccontando, si sono trincerati in testimonianze vuote. Dopodiché, chi e cosa manca? Il super perito e le telecamere. Una data importante, forse decisiva: il 30 marzo. La prossima udienza. Il presidente della Corte d’assise, Roberto Spanò, a causa delle contraddizioni evidenziate dai consulenti di parte, ha nominato un medico legale che con un ingegnere metallurgico dovrà chiarire la compatibilità e le reazioni, soprattutto di carattere termico, di un corpo come quello di Mario immerso nel forno grande della fonderia. Infine le telecamere. Quelle numero 3, 4 e 6. Telecamere installate nella fabbrica. E girate, secondo l’accusa — cioè manomesse in precedenza rispetto al delitto — perché puntassero su obiettivi esterni alla scena del crimine, così che il suo autore o i suoi autori agissero nel buio. La difesa: nessuna mossa strategica, Mario aveva subìto dei furti, l’azione di virare le telecamere era stata sua, per incastrare i ladri. Ma i ladri erano interni alla fonderia di Marcheno? Marcheno: a oggi, il maggior caso investigativo-giudiziario d’Italia.
Morte di Cranio Randagio, due condanne per favoreggiamento e un’assoluzione. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 7 luglio 2022.
Pierfrancesco Bonolis e Jaime Garcia De Vicentiis condannati a due anni al processo per la morte di Vittorio Andrei Boi, il rapper conosciuto come Cranio Randagio. L’accusa era di favoreggiamento e ostacolo alle indagini.
Pierfrancesco Bonolis e Jaime Garcia De Vicentiis sono stati condannati a due anni e sei mesi di carcere al processo per la morte di Vittorio Andrei Boi, il rapper conosciuto come Cranio Randagio. L’accusa era di favoreggiamento e ostacolo alle indagini per non aver riferito alle forze dell’ordine una serie di circostanze utili a individuare il pusher che fornì le sostanze stupefacenti alla vittima.
A rifornire il rapper sarebbe stato, secondo la procura, un terzo amico, Pierfrancesco Manente, accusato di morte come conseguenza di un altro delitto e per il quale il pm ha chiesto l’assoluzione per mancanza di prove. Sempre stando alla ricostruzione del pm lo spacciatore sarebbe stato protetto dagli amici del rapper. Il pm Giovanni Nostro chiedeva tre anni nei confronti degli imputati.
Il giovane morì la notte dell’11 novembre 2016 al termine di una festa a base di alcool e droga in un appartamento nel quartiere Balduina. Nessuno tra i giovani presenti si accorse che stava male e quando la madre Carlotta riuscì a chiedere aiuto era ormai troppo tardi. Proprio lei, la mamma, scrisse poi una lunga e dolorosa lettera per ricordare che «purtroppo a 15 anni con la morte del padre, suicida, qualcosa si è rotto in lui nel profondo della sua anima e anche se apparentemente non si vedeva, piano piano il suo dolore l’ha portato prima a soffrire di anoressia e poi, evidentemente, a cercare nelle sostanze, anche se solo negli ultimi momenti prima della sua scomparsa, una cura per la sua rabbia e il suo dolore. Vittorio era un vulcano, un fiume in piena, intelligente, curioso, vivace, affettuoso e la sua mancanza si sente in qualunque momento ed in ogni cosa». Cranio randagio era diventato famoso grazie alla partecipazione a X Factor ma evidentemente il successo non aveva colmato il suo stato d’animo.
Carlotta Mattiello - madre di Vittorio - a margine della sentenza ha espresso il suo plauso: «La soddisfazione in questi casi non esiste, quello che desideravo da questo processo è che ci fosse una condivisione delle responsabilità, che non era mai emersa. Il fatto che il giudice in qualche modo abbia sottolineato con una pena la responsabilità è importante». La donna non ha apprezzato le reticenze: «Che dopo cinque anni ancora ci fossero i ‘boh, non so’, ‘Vittorio ha preso…Vittorio è andato’, mi chiedo: Vittorio è morto lì, ma voi dove eravate? ». Carlotta Mattiello non riesce a dimenticare gli ultimi istanti di vita del figlio: «Mi rimane sullo stomaco pensare al momento in cui Vittorio stava rantolando, russando, e la gente non se ne è accorta, e non se ne è accorta non perché era cattiva ma probabilmente perché era strafatta, ed è grave che uno si ponga in una condizione da non capire se un amico sta morendo».
Da repubblica.it l'8 luglio 2022.
"La soddisfazione in questi casi non esiste, quello che desideravo da questo processo era che ci fosse una condivisione delle responsabilità, che non era mai emersa. Il fatto che il giudice in qualche modo abbia sottolineato, con una pena, che questa responsabilità esiste è importante".
Dice così Carlotta Mattiello, madre del rapper Vittorio Bos Andrei, conosciuto come Cranio Randagio, trovato senza vita il 12 novembre 2016 dopo una festa in un appartamento a Balduina, Roma, prima di lasciare piazzale Clodio dopo la lettura della sentenza del tribunale monocratico.
"Che dopo cinque anni ancora ci fossero i 'boh, non so', 'Vittorio ha preso,Vittorio è andato', è incredibile. Mi chiedo: Vittorio è morto lì, ma voi dove eravate?", dice ancora. "Io vado nelle scuole a parlare ai giovani su questi temi. Mio figlio non ha avuto questa possibilità, Vittorio ha sbagliato ed è morto: con la droga o ci muori o stai anni in tribunale, o diventi un cretino". Carlotta Mattiello è anche la vicepresidente di Save the Parents, l'associazione di promozione sociale per il sostegno di genitori in lutto.
"Mi rimane sullo stomaco pensare al momento in cui Vittorio stava rantolando, e la gente non se ne è accorta: e non se ne è accorta non perché era cattiva ma probabilmente perché era strafatta, ed è grave che uno si riduca in una condizione tale da non capire se un amico sta morendo".
"Ai due ragazzi condannati mi sento di dire che non si cresce così. E soprattutto dopo che un tuo amico è morto in quel modo, bastava che il giorno dopo venissero da me e dicessero: 'Abbiamo fatto una cavolata, eravamo tutti pieni di roba', ma questo non è successo, ci sono stati invece 5 anni di tribunale" ha concluso.
Ilaria Sacchettoni per corriere.it l'8 luglio 2022.
Pierfrancesco Bonolis e Jaime Garcia De Vicentiis sono stati condannati a due anni e sei mesi di carcere al processo per la morte di Vittorio Andrei Boi, il rapper conosciuto come Cranio Randagio. L’accusa era di favoreggiamento e ostacolo alle indagini per non aver riferito alle forze dell’ordine una serie di circostanze utili a individuare il pusher che fornì le sostanze stupefacenti alla vittima.
A rifornire il rapper sarebbe stato, secondo la procura, un terzo amico, Pierfrancesco Manente, accusato di morte come conseguenza di un altro delitto e per il quale il pm ha chiesto l’assoluzione per mancanza di prove. Sempre stando alla ricostruzione del pm lo spacciatore sarebbe stato protetto dagli amici del rapper. Il pm Giovanni Nostro chiedeva tre anni nei confronti degli imputati.
Pierfrancesco Bonolis e Jaime Garcia De Vicentiis sono stati condannati a due anni e sei mesi di carcere al processo per la morte di Vittorio Andrei Boi, il rapper conosciuto come Cranio Randagio. L’accusa era di favoreggiamento e ostacolo alle indagini per non aver riferito alle forze dell’ordine una serie di circostanze utili a individuare il pusher che fornì le sostanze stupefacenti alla vittima.
A rifornire il rapper sarebbe stato, secondo la procura, un terzo amico, Pierfrancesco Manente, accusato di morte come conseguenza di un altro delitto e per il quale il pm ha chiesto l’assoluzione per mancanza di prove. Sempre stando alla ricostruzione del pm lo spacciatore sarebbe stato protetto dagli amici del rapper. Il pm Giovanni Nostro chiedeva tre anni nei confronti degli imputati.
Cranio Randagio, la fine del rapper: «Lui era morto, organizzammo la serata con alcol e canne». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2022.
Al processo gli amici del cantante, Vittorio Andrei Boi, ricostruiscono la notte fra l’11 e il 12 novembre 2016. Marijuana, coca e altre sostanze: «La serata fu anestetizzante» ammette uno dei testimoni.
C’era la musica ma nessuno ricorda un brano: «Il mio interesse era per la musica, non so chi c’era alla festa...» riferisce in aula Raul Salzano, presente la notte fra l’11 e il 12 novembre 2016 quando morì Vittorio Andrei Boi, il rapper conosciuto come Cranio Randagio. C’era da mangiare ma tutti ricordano altro: «Abbiamo bevuto birra e fumato canne. Ne avevano un po’ tutti. Era una situazione molto comunitaria...» sottolinea Salzano. Gli imputati Pierfrancesco Bonolis, Jaime Garcia De Vincentiis e Francesco Manente, accusati a vario titolo di morte come conseguenza di altro reato e favoreggiamento, passeggiano fuori dall’aula mentre dentro va in onda una narrazione un po’ «Trainspotting» e un po’ «Il grande freddo», tossica e glaciale assieme. «La serata fu anestetizzante» ammette Salzano.
Quindi, gli ultimi momenti di Vittorio: «Io e Virginia — ricostruisce — entrammo in camera e lo trovammo che dormiva e russava. Allo stesso tempo c’era Bonolis (Pierfrancesco Bonolis, l’imputato, ndr) che metteva la musica. Vittorio russava e sembrava andare a tempo con la musica e la cosa faceva ridere, era un momento di leggerezza...». Secondo il medico legale quel sonno caricaturale era un sintomo dell’apnea nella quale stava scivolando il rapper. Nessuno capì. Invece si girò un video, l’ultimo di Cranio Randagio. Quindi è l’avvocato di parte civile, Marco Macchia, a far emergere ciò che accadde in seguito: «Seppi della sua morte il 12 sera — racconta ancora Salzano —. Contattato da un produttore del mio vecchio gruppo, me lo disse senza quasi credere che fosse successo. Quella sera dovevamo suonare assieme e lì per lì non parlammo più di tanto. C’era l’esigenza di capire se suonare o meno. C’erano anche dei fan. Non suonammo, ma andammo da altra parte. Non parlavamo molto. Ci interrogavano su cosa fosse successo a Pierfrancesco (Bonolis, ndr)». La morte dell’amico non sconvolge i progetti del gruppo che continua a organizzarsi per la serata. Salvo ammettere oggi: «È sconvolgente perdere un amico così».
Nella ricostruzione di quell’11 novembre sono ancora molti i vuoti da colmare. Fra tutti quello relativo alle sostanze consumate; agli atti dell’inchiesta c’è un Whatsapp di Manente che si propone di portare «il crack» ma, quasi ci fosse un tacito patto per minimizzare, tutti parlando della sola marijuana. Neppure Simone Saccares, partecipante con un sussulto di preoccupazione — «Me ne andai quando vidi Vittorio inalare cocaina», aveva fatto mettere a verbale a suo tempo salvo rivelarsi laconico in aula — riesce a chiarire chi portò cosa.
Il rapper si allontanò e tornò con birre e coca secondo i pm. Ma chi gliela vendette? Come riuscì a portarla a casa? Di sicuro c’è solo «la ciotola con la marijuana nel salone» dice Saccares e «un trita erba» per confezionare sigarette. Infine il racconto dell’amico capo scout, Mario Deboli: «Mi fu detto che Vittorio si era addormentato dopo una festa senza risvegliarsi. Chiesi cosa fosse successo ma lui non si ricordava. Mi diceva che avevano mangiato salumi e affettati e consumato droghe. Vittorio e un tale Jaime sarebbero andati a prendere la chetamina e poi tramite giri di Jaime a prendere la cocaina».
Michele Galvani per “il Messaggero” l'1 marzo 2022.
Mentre Cranio Randagio era a letto con il respiro agonico i ragazzi «ridevano e scherzavano». Il tutto ripreso da un video: è l'ultima verità sulla tragica fine di Vittorio Bos Andrei, morto nella notte tra l'11 e il 12 novembre 2016 nella casa di un amico, in zona Balduina. Il dettaglio è emerso nell'udienza dibattimentale di venerdì scorso, nella seconda sezione davanti al giudice, la dottoressa Lorenzo.
Per la prima volta infatti, alcuni ragazzi presenti a quel party sono stati chiamati a testimoniare per cercare di far luce sulla morte del rapper, ancora oggi avvolta da troppi misteri.
Durante l'udienza del processo seguito dal pm Giovanni Nostro - è stato anche ascoltato il medico legale Antonio Oliva, che ha confermato la causa del decesso del giovane: «Crisi cardiorespiratoria da intossicazione acuta da stupefacenti». E ha confermato come «possibile che in un quadro del genere si possa manifestare un respiro agonico», che possa essere stato confuso con «un forte russare».
LE TESTIMONIANZE Due in particolare i racconti in aula. Uno, di un ragazzo, che ha tentato di minimizzare l'accaduto: «Quella sera c'è stato un blando uso di canne, cose abbastanza normali»: lo stesso testimone però che, 3 giorni dopo la drammatica fine di Cranio Randagio, fu arrestato in strada perché in possesso di hashish e morfina «a fini di spaccio» scrissero gli agenti.
Ma a confermare il sospetto che nell'appartamento di Pierfrancesco Bonolis (in realtà la casa è dei genitori che la sera stessa erano usciti a cena) girasse ben più di qualche canna, è la testimonianza di Francesca (nome di fantasia): «Sono stati consumati stupefacenti di ogni tipo, c'èra un via-vai di gente nella camera di Bonolis, allestita appositamente per consumare le droghe». Poi, il dettaglio agghiacciante della mattina seguente: verso le 9 furono girati alcuni filmati di Vittorio Bois mentre dormiva. «Il respiro era rumoroso, tipo di uno che stava russando», il racconto della giovane.
Nel video si vedono Bonolis e Jaime Garcia de Vincentiis (l'altro accusato di favoreggiamento) che ridono e scherzano senza aver minimamente compreso la gravità della situazione. Cranio Randagio, forse, poteva essere salvato se qualcuno avesse chiamato un'ambulanza per tempo. Invece solo tra le 13.30 e le 14 i ragazzi - che nel frattempo erano andati a letto - si accorsero del respiro agonico, in termine tecnico detto gasping. Un tipo di respiro introdotto da Marco Macchia, difensore della parte civile (della famiglia). Ma a quel punto Vittorio era già deceduto.
IL CONFRONTO Dal quadro delineato emerge chiaramente che nell'appartamento girava di tutto. Non a caso, la sera del 12 novembre (giorno della morte di Vittorio) ci fu una sorta di confronto tra Bonolis e gli amici più intimi del rapper a piazza Prati Strozzi, in zona Prati. Proprio gli amici di Vittorio, sconvolti, chiesero informazioni dettagliate su cosa fosse realmente accaduto quella notte. Bonolis, che all'inizio del processo negò che ci fosse tutta quella droga in casa sua, quella sera invece raccontò proprio che si erano «fatti di tutto», gettando anche luce su un particolare di cui nessuno sapeva.
Che Bonolis e Vittorio Andrei consumassero molte droghe, diverse e in grandi quantità. Francesco Manente (difeso dall'avvocato Miglio), che è accusato di avere portato alla festa la droga («Io porto il crack», la frase agli atti), insieme a Pierfrancesco Bonolis e Jaime Garcia de Vincentiis (tutelati dal legale Giovanni Maria Giaquinto), sono finiti a giudizio: il primo per «detenzione di droga e morte in conseguenza di altro reato», gli altri due per «favoreggiamento» avendo tentato di coprire l'amico. Il 16 marzo prossimo è previsto un nuovo dibattimento a piazzale Clodio: saranno ascoltati altri ragazzi presenti, una quindicina in tutto, per tentare di far nuovamente luce su questa pagina buia.
· Il Mistero di Saman Abbas.
Le atrocità su Saman: "Fu prima strangolata e forse sepolta viva". L'ipotesi dopo l'autopsia, che esclude il taglio alla gola. "Sul corpo nessuna traccia di sangue". Stefano Vladovich l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Strangolata e poi sepolta. Forse era ancora viva Saman Abbas quando è stata gettata nella fossa che per un anno e mezzo è stata la sua tomba. L'esame autoptico, eseguito nel laboratorio Labanof dell'Università di Milano, escluderebbe ogni altra ipotesi. Nessuna ferita di arma da taglio alla gola, in particolare, visto che sul corpo della 18enne, rimasto sotto tre metri di terra per ben 575 giorni, non c'è traccia di sangue. Uno scollamento dei tessuti all'altezza del collo, sulle prime, fa pensare a una lama che avrebbe reciso la carotide. «Un colpo del genere avrebbe provocato una fuoriuscita di sangue vivo - commentano gli esperti dell'Istituto di Medicina Legale - cosa che non è avvenuta in questo caso. Ferite irrorate di sangue non ce ne sono».
Saman è rimasta interrata per oltre 18 mesi, dal 30 aprile 2021, giorno della sua scomparsa, fino al 18 novembre scorso quando lo zio della ragazza, Danish Hasnain, in carcere assieme ai suoi due figli, Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq, confessa il delitto e indica il luogo dov'è stato occultato il cadavere. I tre, arrestati all'estero ed espatriati, saranno a processo per sequestro di persona, omicidio volontario premeditato in concorso e occultamento di cadavere il 10 febbraio mentre per il padre di Saman, Shabbar Abbas, arrestato in Pakistan, si attende l'estradizione.
Dei cinque indagati solo la madre, Nazia Shaheen, è ancora latitante in patria. Nonostante la confessione di zio e cugini, dal carcere pakistano il padre di Saman insiste: Mia figlia è viva. Eppure sul corpo della 18enne assassinata perché rifiutava nozze combinate, gli abiti sono gli stessi che compaiono su un video girato poco prima della morte. «Saman aveva addosso i jeans da lei sfilacciati sul ginocchio per essere alla moda e la felpa - spiega il legale di parte civile, Barbara Iannuccelli dell'associazione Penelope - I vestiti sembrano proprio quelli ripresi davanti casa. Addosso sono stati trovati anche una cavigliera e un braccialetto, di quelli portafortuna colorati e un paio di orecchini. E la folta chioma di capelli», come quelli della ragazzina pakistana che non voleva lasciare il suo fidanzato e obbedire a mamma e papà.
L'autopsia, durate sette ore, è stata eseguita venerdì nel laboratorio di anatomopatologia forense dai dottori Cristina Cattaneo e Dominic Salsarola, incaricati dalla Corte d'Assise di Reggio Emilia. Esame importante per capire le cause della morte e al tempo stesso incidente probatorio necessario per congelare prove irripetibili. Nonostante il tempo trascorso il cadavere, riesumato grazie alle indicazioni dello zio, è quasi intatto. «Integro ma saponificato - spiega ancora l'avvocato Iannuccelli - Per fortuna, però, i tessuti consentono degli accertamenti. Dall'analisi esterna del corpo sono emersi scollamenti e abrasioni che possono essere causati dall'effetto tappo, essendo stata sottoterra per un anno e mezzo. I tagli alla gola? È fuorviante definirli tali, tanto più ricondurli alla causa della morte. Nessuna certezza che quello visto possa essere un taglio. Potrebbe essere uno scollamento di tessuto post mortem».
Nei prossimi giorni sui resti della ragazza verranno svolti anche gli esami istologici per stabilire se la donna sia morta per asfissia da strangolamento, come ipotizzato dall'autopsia. La prova regina che il cadavere sia quello di Saman, infine, verrà dalla comparazione del Dna con quello rilevato nel casolare degli Abbas a Novellara, nel Reggiano.
Saman, l'autopsia: «Uccisa con modalità atroci, sul corpo il segno di un taglio alla gola». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 9 Dicembre 2022.
I primi risultati sui resti umani trovati nel giardino nei pressi dell’abitazione della diciottenne pakistana uccisa a Novellara
Come fu uccisa Saman in quella notte tra il 30 aprile e il 1 maggio 2021? Ciò che è certo è che «è stata una morte avvenuta con modalità atroci». È visibilmente turbato l’avvocato Riziero Angeletti. Rappresenta l’Unione delle comunità islamiche d’Italia, parte civile al processo che inizierà il 10 febbraio ed è il primo a uscire dall’obitorio dell’Università di Milano dove ieri si è svolta l’autopsia — eseguita dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo — del cadavere della ragazza trovata il 20 novembre, in un casolare diroccato a Novellara. Un grosso edificio a circa 300 metri dalla casa in cui Saman viveva con i genitori Shabbar Abbas (arrestato il 15 novembre in Pakistan) e Nazia, incriminati dell’omicidio assieme allo zio Danish Hasnain e ai cugini Nomanulhaq Nomanulhaq e Ikram Ijaz, in carcere a Reggio Emilia.
Lasciando la morgue, Angeletti si limita a dire che «da questo primo esame, sia pure parziale ma importante, ne deriva la considerazione che l’uccisione della ragazza non è avvenuta come immaginato sino a oggi». Dunque non soffocata da Hasnain, mentre i due cugini la bloccavano per le gambe come si era letto sinora sugli atti giudiziari. Un taglio alla gola, orizzontale, lungo una quindicina di centimetri, dà spazio a un’altra ipotesi, sia pure non confermata da alcun inquirente e perito, avanzata tra mille cautele e in attesa di un’eventuale conferma dell’esame istologico: Saman (sul cui corpo non ci sarebbero fratture) potrebbe essere stata sgozzata.
Il seguito di quella notte è raccontato in un’informativa girata dalla polizia penitenziaria all’Arma e finito negli atti. «In un momento di sconforto» — è la voce rimbalzata da «radiocarcere», per bocca di alcuni pakistani — Ijaz avrebbe confidato che dopo l’omicidio «i partecipanti si sarebbero sbarazzati dei loro indumenti» bruciandoli «nelle stufe a legna presso la casa degli Abbas o in quella di Hasnain». «Questo per far sì — è la nota degli investigatori — che le forze dell’ordine non trovassero tracce di sangue della giovane Saman» uccisa per essersi opposta alle nozze combinate dalla famiglia. Nelle stesse carte si racconta pure che Hasnain e Ijaz avrebbero detto di dover «completare la loro missione uccidendo anche il fidanzato» della 18enne, un coraggioso pakistano 22enne che ora (assistito dall’avvocato Daniele Falleti) vive sotto protezione e che nei giorni successivi al delitto segnalò ai carabinieri, preoccupatissimo, la sparizione della giovane. Intercettati poi, assieme, in carcere, Hasnain e Ijaz hanno peraltro più volte manifestato la volontà di «parlare con un giudice».
Sebbene manchi ancora la conferma del Dna, non v’è alcun dubbio che quel corpo fatto ritrovare proprio da Hasnain il 20 novembre sia quello di Saman: «ciondoli portafortuna, orecchini, collanine e anche i jeans tagliuzzati — racconta l’avvocata Barbara Iannuccelli, parte civile con l’associazione Penelope — sono gli stessi che lei aveva mostrato in un video su TikTok». L’account era quello di italiangirl e Saman camminava in centro a Bologna, libera e felice.
L’autopsia sui resti di Saman: cosa sappiamo e cosa può succedere. Inizia l'autopsia sul corpo che si ritiene appartenere a Saman Abbas: i risultati potrebbero contribuire a dare una svolta al caso e al futuro processo. Angela Leucci il 9 Dicembre 2022 su Il Giornale.
È giunto il momento della verità su Saman Abbas. Oggi, a partire dalle 12, nel laboratorio Labanof a Milano, inizierà l’autopsia sui suoi presunti resti. Tutto si svolgerà alla presenza dei consulenti di parte, gli imputati nel processo che prenderà il via a febbraio 2023, oltre che le parti civili e naturalmente gli esperti, tra cui l’anatomopatologa Cristina Cattaneo.
I resti di Saman
Perché si parla ancora di presunti resti? Perché l’autopsia mira a stabilire non solo come è morta la 18enne, per mano di chi e chi l’ha sepolta in una buca, ma anche se effettivamente si tratta di lei attraverso l’esame del Dna.
Sicuramente suona bizzarro affermare che non si possa trattare di lei: i resti sono stati esumati da un casolare abbandonato a Novellara, la città emiliana in cui gli Abbas vivevano e lavoravano in un’azienda agricola. Il casolare si trova giusto a 700 metri di distanza dalla casa di Saman, e inoltre è stato indicato da Danish Hasnain, una delle 5 persone rinviate a giudizio per sequestro di persona, omicidio e occultamento di cadavere, oltre che zio di Saman.
All’esumazione, i resti della giovane che sono stati trovati indossavano gli stessi abiti che indossava Saman la notte della sua scomparsa, così come sono stati inquadrati dalle telecamere di sorveglianza dell’azienda agricola. Inoltre, alla caviglia, il corpo indossava la stessa cavigliera vista nei video di Italian Girl, l’alias di Saman sui social quando, dopo aver denunciato i genitori, si trovava in una comunità protetta in carico ai servizi sociali italiani.
C’è un altro dettaglio importante. Tra i tanti oggetti repertati dagli inquirenti c’è un giubbotto appartenuto a Danish. Sulla spalla del giubbotto è stata trovata della saliva compatibile con il Dna di Saman. Stando alla testimonianza del fratello della 18enne e ad alcune indiscrezioni dal carcere, gli inquirenti sono stati finora orientati a credere che Danish sia stato l’esecutore materiale del delitto. Seguendo questa ipotesi, si può pensare che Danish abbia caricato il corpo della nipote sulle spalle, per poi dirigersi al casolare. Ma naturalmente sarà tutto da stabilire in fase processuale.
Cosa si sa per certo
Non sono molti i dati certi sul presunto omicidio di Saman. Si sa che la giovane è scomparsa da Novellara nella notte tra il 30 aprile e l’1 maggio 2021. Le telecamere l’hanno inquadrata dirigersi verso le serre con i genitori, ma quegli occhi hanno inquadrato poco dopo il padre Shabbar Abbas rientrare in casa con lo zainetto bianco della figlia in mano.
Le stesse telecamere hanno inquadrato ore prima Danish, con i due cugini Ikram Ijaz e Noumanoulaq Noumanulaq, andare verso le serre con una vanga e quello che sembra essere un piede di porco. Fu in quel momento che avrebbero scavato la buca?
Subito dopo la scomparsa della figlia, Shabbar e la moglie Nazia Shaheen, dopo aver chiamato un tassista abusivo, hanno volato dall’Italia al Pakistan, promettendo di rientrare il 10 giugno successivo, cosa che non è mai accaduta. Shabbar è stato arrestato a Charanwala e al momento si trova a Islamabad, dove pesano sul suo capo le stesse accuse italiane. Ma ancora non si sa se sarà estradato e quando.
Danish, Ikram e Noumanoulaq sono stati arrestati e tradotti in Italia con un mandato di cattura europeo: stavano cercando o erano riusciti a rifugiarsi entro l’area Schengen, ma sono stati trovati. In Italia anche il fratello di Saman che punta il dito contro lo zio: è minorenne ed è in una comunità protetta.
Un’altra cosa certa: Saman si era opposta al matrimonio forzato con un cugino più anziano di 10 anni. Aveva conosciuto sui social Saqib, un quasi coetaneo pakistano residente nel Frusinate. Dopo essersi più volte incontrati di persona, Saman e Saqib si sono innamorati e stavano progettando il loro matrimonio. Avevano comprato già perfino gli abiti: per Saman un vestito rosa da fiaba, per Saqib una giacca cangiante e arabescata da principe azzurro. Purtroppo Saman non ha potuto vivere la sua fiaba d’amore.
Quali sono le prospettive
Molta parte delle prospettive future del caso dipende appunto dall’autopsia. Finora la difesa degli accusati - il padre Shabbar, la madre Nazia, lo zio Danish, i cugini Ikram e Noumanoulaq - si è retta sul fatto che non era mai stato trovato il corpo della ragazza. E quindi ora che Danish ha indicato il luogo di sepoltura, ci si chiede se tornerà a parlare, a dire di più.
C’è un altro dettaglio tutt’altro che di poco conto: intercettazioni telefoniche, intercettazioni ambientali, leak dal carcere in cui ci sono tre degli imputati (Danish, Ikram e Noumanoulaq), testimonianze dirette. Sulle intercettazioni tutto si “giocherà” sulla corretta traduzione: si è parlato in particolare di una telefonata in cui Shabbar avrebbe detto a un fratellastro di aver ucciso la figlia per il proprio onore. Al momento le traduzioni dei brogliacci dei carabinieri e quelle delle trasmissioni televisive corrispondono tra loro, però non è improbabile che la difesa degli imputati spinga sul tasto di una possibile malatraduzione.
I tasselli mancanti
Nel puzzle Saman i tasselli mancanti sono molti, tanto più se si prendono per buone le dichiarazioni di Shabbar, che continua a sostenere che la figlia è viva e che la moglie si trova in Italia. Ma la sua attendibilità è in dubbio per l’opinione pubblica, come ha fatto notare un poliziotto pakistano all’arresto dell’uomo: “Lui dice tante cose”.
Quindi oltre a dover accertare che il corpo appartiene a Saman, perché sia stata uccisa, da chi e chi l’ha sepolta, inquirenti e forze dell’ordine dovranno sbrogliare una grossa matassa: dov’è Nazia? La donna è ancora latitante. Se si trova in Pakistan, come molti ritengono, è possibile che non sia arrestata: seppur le leggi in Pakistan siano dure e sia in vigore la pena di morte, le donne, nei casi di delitto d’onore, godono di speciali privilegi rispetto agli uomini. In altre parole, il fatto che Shabbar sia stato arrestato con quelle accuse non è garanzia che lo sarà anche Nazia se si trova in patria.
"Shabbar è pazzo, non sono coinvolto": spunta un altro zio di Saman. Parla l'interlocutore di Shabbar nella telefonata in cui l'uomo avrebbe affermato di aver ucciso la figlia: si allarga l'inchiesta sull'omicidio di Saman Abbas. Angela Leucci il 3 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Chi sono i 7 a conoscenza dell’omicidio di Saman Abbas? Nella sua telefonata, ormai celeberrima, al fratellastro, Shabbar Abbas dice che sarebbero a conoscenza del presunto delitto d’onore 5 persone (forse i rinviati a giudizio) e altre 2 ignoti su cui la procura di Reggio Emilia sta indagando all’interno di un’inchiesta bis.
Saman è scomparsa da Novellara la notte tra il 30 aprile e l’1 maggio 2021. Per il suo presunto omicidio, legato al fatto che la giovane si era opposta a un matrimonio forzato con un cugino in Pakistan, sono stati rinviati a giudizio il padre Shabbar che è stato arrestato in Pakistan, la madre Nazia Shaheen attualmente ancora latitante, lo zio Danish Hasnain che ha condotto gli inquirenti italiani sul luogo in cui è stato occultato il cadavere, i cugini Ikram Ijaz e Noumanoulaq Noumanulaq.
Non si sa quindi chi siano queste due persone. Nella vicenda spunta più volte il nome di un parente, Irfan, che forse potrebbe aver acquistato uno dei biglietti che ha riportato i coniugi Abbas in Pakistan immediatamente dopo la scomparsa della figlia. C’è chi ha pensato anche che il fratello di Saman, minorenne e ospite di una comunità protetta in Italia, potrebbe essere stato d’accordo, ma non si sa se in effetti si stia indagando su questo.
A Quarto Grado ha parlato invece un fratellastro di Shabbar, Fakhar Zaman, interlocutore dell’uomo in quella telefonata in cui avrebbe affermato di aver ucciso Saman per il proprio onore. “'Io vi uccido tutti’, la mia famiglia: ha detto - ha raccontato Fakhar di Shabbar - Le mie figlie, mio figlio, mia madre, tutti. Era arrabbiato con me, arrabbiato con Irfan. Perché lui è pazzo”. Fakhar ha chiesto ai giornalisti di Rete 4 di non parlare dell’omicidio di Saman: afferma di non essere mai stato coinvolto, proprio come affermava anche Irfan.
Saman, nuova inchiesta: si cercano i complici. Il Dna sugli abiti dello zio
Intanto in Italia c’è grande fermento, sia per l’attesa estradizione di Shabbar, sia per il ritrovamento del corpo di Saman: il cadavere trovato laddove indicato da Danish indossava gli stessi vestiti di Saman inquadrati la notte della scomparsa dalle telecamere dell’azienda agricola di Novellara dove gli Abbas vivevano e lavoravano. In più indossava la cavigliera che si vedeva nei video di Italian Girl, l’alias di Saman sui social. Si attende l’esame del Dna per la conferma, ma chiaramente si tratta della 18enne.
Qual è la posizione di Danish al momento? A parlare per lui alle telecamere di Quarto Grado è stato il suo avvocato Liborio Cataliotti, che ha spiegato: “Non si è accusato proprio di nulla, se non manifestare consapevolezza sul luogo in cui la ragazza era stata sepolta. Presenterà lui la sua versione”.
Saman Abbas, Vittorio Feltri: "Frontiere chiuse ai musulmani irriducibili". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano l’01 dicembre 2022
La tragica e disgustosa vicenda di Saman si avvia a un epilogo che con la giustizia ha poco che fare. Vero che il padre della povera ragazza è stato arrestato in Pakistan, suo paese d'origine, dove si era riparato subito dopo l'atroce delitto per sfuggire ai rigori delle leggi italiane. Tuttavia, conoscendo per esperienza le norme in vigore in certi stati islamici, temo che l'uomo rimarrà nella sua patria, in cui esiste ancora la possibilità di perdonare chi uccide per motivi discutibili di onore. Spero di sbagliare, sono però convinto che l'assassino non sarà giudicato in Italia, bensì nel luogo dove è nato e cresciuto prima di venire da noi onde campare meglio. Ma al di là delle mie convinzioni, che - ripeto - saranno smentite dai fatti, vorrei proporre un ragionamento che con il razzismo non c'entra nulla.
Noi ospitiamo migliaia di extracomunitari, molti dei quali si integrano nella nostra società assimilandone i costumi, le abitudini e perfino la cultura. E fin qui tutto va bene, a parte qualche eccezione. Però, c'è un però. Nella quantità degli immigrati non pochi sono di religione islamica, i quali non solo non rinunciano alle loro tradizioni che confliggono con la nostra mentalità, ma sono fortemente decisi a imporre a noi il loro credo, i cui dettagli contrastano con i nostri principi anche civili. È un fatto che la Costituzione che ci siamo dati a guerra finita prevede per qualsiasi cittadino la possibilità di professare i riti che gli garba. Ma nel caso dei maomettani andrei più cauto, dato che la loro fede non collima con i nostri codici, oltre che con i comportamenti diffusi da queste parti.
In sostanza, dovremmo aprire le frontiere a tutti, tranne a coloro che sono apertamente in antitesi con la civiltà che ci siamo dati. Di conseguenza, se costoro non apprezzano il modello italiano e preferiscono quello di Allah e non intendono rinunciarvi, se ne stiano a casa loro e non vengano qui a sfasciare l'ordine costituito. Teoricamente non esiste alternativa: o lo straniero invasato di islamismo si adatta al nostro modus vivendi, oppure rimanga nella sua terra. Invece l'Italia, e in genere ogni nazione europea, non solo rinuncia alla dignità culturale, ma addirittura, per un malinteso senso di superiorità, offre agli stranieri che non si piegano alla civiltà occidentale la edificazione di moschee che sono laboratori non di spiritualità, bensì di violenza terroristica, come risulta dalle cronache degli ultimi anni. Ribadisco, non si intende fare prediche ostili a chi viene qui per lavorare e guadagnarsi da vivere, ma difendere con orgoglio la nostra civiltà che è cristiana anche per chi è ateo, e non tollera gente che ammazza per antica abitudine, sapendo che massacrare una persona per presunti motivi di onore non sarà lecito ma neanche punibile severamente.
Svegliati UE il multiculturalismo chic loro non lo capiscono. Guido Igliori su Culturaidentota il 30 Novembre 2022
Quanto ci manca Oriana Fallaci. Nel vero senso del termine: quanto manca a noi giornalisticamente e letterariamente. E quanto manca all’Occidente: se non proprio lei, almeno UNA Oriana Fallaci. Era (è) uno dei Profeti inascoltati del 900, di cui si è occupato il nostro mensile e forse mai espressione fu (è) più azzeccata per lei: inascoltata allora, quando scrisse quel suo articolo dal titolo La rabbia e l’orgoglio, con cui la giornalista rompeva il silenzio successivo all’attacco terroristico al World Trade Center che sconquassò il mondo e le Twin Towers crollavano come castelli di carta. In quell’articolo ripercorreva l’orrore e condannava il fondamentalismo islamico, rivolgendo una dura critica all’Occidente per la mancanza di coraggio e passione nel difendere la propria identità e libertà. E inascoltata oggi, dopo che a Bruxelles e in altre città belghe decine di tifosi marocchini dopo la vittoria del Marocco contro il Belgio ai Mondiali in Qatar si sono scontrati con la polizia, distrutto finestre e dato fuoco a motorini e automobili: ci chiediamo che senso abbia il multiculturalismo come lo intende, guarda caso, Bruxelles cioè la UE, cioè il multiculti chic che non ha mai fatto un bagno nella realtà. Sotto le braci dell’integrazione a tutti i costi cova l’odio e quanto accaduto in Belgio e, nel recente passato, nelle banlieu francesi, ne è la dimostrazione. Se basta una partita di calcio a incendiare una città…E infatti massima allerta anche a Parigi, perché oggi si giocherà Tunisia Francia. Ma attenzione: non è, come ha twittato Paolo Gentiloni, il calcio la causa ("Il calcio fa da detonatore", ha scritto sul suo profilo Twitter): no, c’entra niente il calcio con la guerriglia urbana, al massimo può essere l’esempio lampante di quanto siano distanti certi mondi culturali. La UE dei diritti universali, che riprende l’Illuminismo guarda caso francese, considera l’identità una roba vecchia e deteriore. Lo ha detto la stessa Ursula (von del Leyen): "L’identità è passata di moda". Quando invece, a nostro giudizio, è proprio adesso che l’identità e la cultura si devono imporre. Lo dicesse ai vandali che hanno messo a ferro e a fuoco Bruxelles. Sono incidenti etnici, inutile girarci attorno e l’incendio era da tempo lì lì per scoppiare, ricordate Molenbeek? Non è una questione che interessi solo il Belgio o la Francia, interessa tutta l’Europa, anche l’Italia (ben vengano le moschee, c’è libertà religiosa, ma chi sono i finanziatori? E chi sono gli imam che le gestiscono?). La UE deve svegliarsi: avrebbe bisogno di rileggere alcuni passi di quel famoso articolo (e non solo quello) di Oriana Fallaci: in Occidente secondo la UE avere un’identità à sbagliato e fuori moda, ma pare che l’orda che ha bruciato Bruxelles invece l’identità ce l’abbia ben presente…
Da ansa.it il 28 novembre 2022.
"E' emerso un corpo sostanzialmente integro, che si è ben conservato considerata la profondità nella quale è stato interrato per oltre un anno e mezzo. Indossava gli stessi abiti al momento dell'interramento". Sono le parole di Gaetano Calogero Paci, procuratore capo di Reggio Emilia, che ha parlato stamattina a Rai e Telereggio sul ritrovamento del corpo che si presume appartenere a Saman Abbas, la 18enne pachistana scomparsa dal 30 aprile 2021. Qualche elemento consente l'identificazione ma serve l'esame del Dna.
"Ora si tratta di verificare l'integrità degli organi interni - ha continuato il procuratore - perché attraverso e su di essi saranno svolte le indagini di tipo autoptico per capire esattamente l'identità del corpo stesso. Certo è che il contesto in cui il corpo è stato ritrovato e anche qualche elemento peculiare già consentono di formulare una probabilità di identificazione, ma la prova regina è quella del Dna e solo attraverso una comparazione positiva sarà possibile dire che si tratti del corpo di Saman".
Il cadavere - rinvenuto dieci giorni fa in un casolare diroccato a Novellara su indicazione di Danish Hasnain, zio di Saman, uno dei cinque imputati per l'omicidio - è stato dissotterrato ed esumato ieri sera intorno alle 22 per poi essere portato al laboratorio di medicina legale dell'Università di Milano dove verranno svolti gli accertamenti affidati dalla Corte d'Assise del tribunale di Reggio Emilia ai periti Cristina Cattaneo e Dominic Salsarola. Il rudere dov'è stata recuperata la salma, a settecento metri dall'abitazione dove viveva la famiglia Abbas, è ancora sotto sequestro; proseguiranno infatti le operazioni dei periti per prelevare campioni di terreno e altri elementi da analizzare.
(ANSA il 26 novembre 2022) - Il Dna di Saman sugli abiti che lo zio Danish indossava verosimilmente tra il 30 aprile e il primo maggio 2021, la notte del presunto delitto della 18enne pachistana a Novellara, nella Bassa Reggiana.
A confermarlo - come riporta il Resto del Carlino di Reggio Emilia - sono le analisi dei Ris di Parma sui vestiti sequestrati il 5 novembre 2021 dai carabinieri nella casa dove abitava Hasnain, a Campagnola Emilia. Si tratta di un giubbotto felpato nero e grigio con zip, un paio di guanti da lavoro e un paio di ciabatte nere in similpelle.
Nella relazione dei carabinieri del reparto investigazioni scientifiche, datata ottobre 2022 e agli atti del processo, è stato rilevato un alone biancastro sul retro del giubbino, in corrispondenza della spalla sinistra, che sottoposto all'amilasi test, specifico per la ricerca della saliva, ha fornito esito debolmente positivo. Non viene puntualizzato nel dettaglio se questa appartenga alla giovane scomparsa, ma si conferma che "sul giubbotto sono state trovate tracce biologiche riconducibili a Saman".
Da nessun indumento sono emerse invece tracce di sangue umano. E questo ha portato gli investigatori a scartare l'ipotesi che il corpo sia stato smembrato come era emerso da alcune confidenze del cugino Ikram Ijaz in carcere, propendendo quindi per il racconto fatto dal fratello minore di Saman che durante l'incidente probatorio raccontò come lo zio Danish avesse strangolato la sorella. Infine, da un'altra relazione datata marzo 2022, su uno dei 26 prelievi effettuati sul giubbotto di Danish, sono state trovate tracce anche di Ijaz.
Saman, cosa si nasconde dietro la confessione dello zio Danish. Ci sono ancora punti molto oscuri nella vicenda di Saman Abbas. Ne abbiamo parlato con Ebla Ahmed, presidente Nazionale dell’Associazione “Senza Veli Sulla Lingua”. Roberta Damiata su Il Giornale il 25 Novembre 2022.
Il caso di Saman Abbas nei giorni in cui si parla di violenza sulle donne assume un significato ancora più importante. Perché se in alcuni Paesi come il Pakistan rurale questo tipo di omicidio "d'onore" viene giustificato e significa quasi quotidianità, l'omicidio è avvenuto in Italia all'interno di una famiglia che lavorava da tempo nel nostro Paese, lontano migliaia di chilometri da quei centri dove l’ignoranza e la mancanza di conoscenza fanno in modo che i matrimoni combinati siano ancora all’ordine del giorno. Sulla vicenda ci sono ancora molti punti interrogativi, soprattutto ora che è quasi acclarato che quel mucchio di ossa, "buttate" in una buca profonda tre metri, e ricoperte in modo che neanche i cani molecolari potessero rilevarne la presenza, siano di Saman.
Il primo è puramente cronaca, sul perché solo ora è stato rivelato il luogo della sepoltura e su come il Pakistan abbia arrestato da poco il padre di Saman per truffa, pur sapendo da sempre che l’uomo si nascondeva nel Punjab. Il secondo invece apre la strada ad un interrogativo ancora più inquietante, quello dell’integrazione di questo tipo persone, devi veri e proprio clan, nel nostro tessuto culturale. Se la mentalità di un adulto e dedito all’alcol come Shabbar il padre di Saman è più difficile da cambiare, fa molto riflettere il fatto che siano stati i giovani cugini, da anni nel nostro Paese, gli autori del suo assassinio.
Nonostante gli anni di permanenza in Italia, la nostra cultura, il nostro modo di vivere e la nostra libertà, non li hanno minimamente influenzati dal compiere un atto così atroce proprio come se si trovassero in Pakistan. Su questo punto è molto al dentro una giovane donna, Ebla Ahmed, Presidente Nazionale dell’Associazione “Senza Veli Sulla Lingua” che da 10 anni, oltre alla violenza sulle donne e di genere, si batte anche contro questo tipo di violenza ben definito: cioè i matrimoni forzati, e che con la sua associazione si costituirà parte civile nel processo che prenderà il via 10 Febbraio 2023. Con lei abbiamo ricostruito l’intera vicenda.
È passato un anno dalla scomparsa di Saman, perché solo adesso uno dei cugini in carcere ha parlato?
“La famiglia Abbas aveva giurato sul Corano che nessuno di loro avrebbe mai rivelato ciò che avevano fatto a Saman. Giurare sul Corano, libro sacro dei musulmani, come la Bibbia per i cristiani e la Torah per gli ebrei è un atto sacro. E sinceramente un giuramento sul "libro sacro" da questo tipo di persone o meglio criminali, lo vedo ridicolo. Il tipo di mentalità che approva i matrimoni forzati e uccide la donna se non sottostà a questo, non ha niente a che vedere con l’Islam. Questa conferma viene anche dal “lavoro” svolto da un Imam che in carcere ha sicuramente avuto molti incontri con il cugino Danish al punto di fargli capire che quello che hanno fatto non ha niente a che vedere con la religione, portandolo alla convinzione di aver compiuto un crimine, fino fargli rivelare dove si trovasse il corpo di Saman. Voglio sottolineare questo punto, perché da sempre con la mia associazione sostengo il ruolo fondamentale della scuola e dei luoghi di culto per l’integrazione. Sono quelli i posti dove lavorare per scardinare questo tipo di ideologia”.
Tutto però coincide anche con l’arresto del padre in Pakistan.
“La vicenda qui è ancora più complicata. Tutti sapevano che il padre di Saman si trovava nella zona rurale e retrograda del Punjab, dove esiste una grande protezione per questo tipo di crimini. Anche se ufficialmente sono vietate dalla legge, non vengono però considerati un reato. Un po’ come il delitto d’onore che esisteva in Italia fino a 30 anni fa. Il suo arresto per truffa possiamo vederlo come una sorta di escamotage. Dietro c’è stato un grande lavoro dell’Intelligence e della diplomazia italiana".
Ancora però non c’è l’ufficialità dell’estradizione ?
“Non ancora, ma se il corpo è quello di Saman, e non ho dubbi che lo sia, il Pakistan non potrà fare altrimenti. Questa almeno è la nostra speranza”.
È passato un anno dalla scomparsa di Saman perché il lavoro dell’Imam, non è stato fatto prima?
“Al momento non conosciamo le tempistiche. Quello che sappiamo è che lo zio Danish ha parlato con questo Imam che gli ha fatto rivelare il luogo di sepoltura del corpo. Però non possiamo sapere quanto tempo ci sia voluto per farlo. Non è un lavoro semplice, tutti loro avevano giurato sul Corano, e penso che l’Imam che incontrava Danish in carcere ha dovuto fare un lavoro abbastanza lungo per far comprendere che quello che avevano fatto non ha niente a che vedere con l'Islam”.
Quanti dubbi ci sono sul fatto che quello sepolto nel casolare sia il corpo di Saman?
“Nessuno, il posto è stato segnalato da Danish. Lui stesso nelle intercettazioni telefoniche dice alla compagna: ‘Ho fatto un buon lavoro’. Se non avesse confessato, il corpo di Saman non sarebbe mai stato trovato. Anche il luogo scelto è emblematico, al confine con un altro terreno. La cosa più assurda è che nella stessa azienda di frutta dove sia il padre che ì cugini lavoravano, ci sia ancora rimasto un altro cugino, che aveva più volte aggredito e schiaffeggiato Saman, perché non voleva sottostare al matrimonio forzato. Questo particolare era scritto sul diario della ragazza corredato da un foto dove si vedevano chiaramente i segni della violenza del cugino. Sicuramente sarà stato controllato, ma è comunque stato violento con Saman ed è libero".
Perché Shabbar Abbas il padre di Saman, dal carcere in Pakistan continua a dire che la figlia è viva?
“Nel suo paese si sente invincibile, perché sa benissimo che questi tipi di crimini in Pakistan, passano sottogamba. Inoltre penso che non sappia neanche della confessione di Danish. In ogni caso, anche se il corpo non fosse stato ritrovato, Saman non avrebbe avuto scampo in quella situazione e con quella famiglia. Non si può scampare ad un matrimonio forzato in quella cultura. La mia associazione lotta per sollecitare per queste ragazze, e ce ne sono tante in Italia, una rete di protezione. Saman aveva denunciato e si trovava in una Casa protetta, ma quando ha deciso di tornare a casa per riprendere i documenti doveva essere accompagnata da qualcuno e non lasciata sola. Ma non soltanto se fosse passata la proposta della "Legge Saman", Saman avrebbe potuto rifarsi i documenti senza andare incontro alla morte ritornando in quella casa a chiederli. Bastava recarsi alla polizia per chiederli. Dobbiamo sempre ricordare che Il matrimonio forzato è una violenza sia per le donne che per gli uomini perché non hai la libertà di scelta. Però mentre per un uomo in quella cultura c’è il perdono, per le donne no. Se ti rifiuti, come ha fatto Saman c’è la morte”.
All’inizio si era detto che il corpo della ragazza era stato fatto a pezzi e buttato nel Po
“Non sappiamo se in parte è così, ma non credo perché mettere il corpo direttamente nella buca non avrebbe lasciato traccia”
Dov’è Nazia Shaheen la mamma di Saman?
“La madre è in Pakistan, secondo me ancora nella zona del Panjab protetta dal “clan”. È una zona rurale e arretrata, dove tutti la pensano come gli Abbas. Per quella comunità se hanno ucciso la figlia perché non voleva sposarsi, hanno fatto la cosa giusta per l’onore. Non sono visti come criminali”.
Il ruolo della madre sta facendo molto parlare
“In quel tipo di cultura le mamme o le sorelle nei matrimoni forzati, hanno un ruolo importante, perché sono le esche. Mentre alcune di loro hanno fatto da scudo alle figlie o pur di difenderle hanno perso la vita, questo non è successo con Saman. Nazia Shaheen sapeva benissimo che fine avrebbe fatto la figlia quando insieme al padre l’ha consegnata in mano ai cugini. Per me non è assolutamente una vittima, ma è proprio colpevole al pari degli altri. Quello delle “esche” è un campanello d’allarme su cui lavora anche la mia associazione, per allertare le ragazze che si fidano della proprio madre/sorelle. Nazia Shaheen sorrideva mentre portava Saman incontro alla morte”.
Ora che il vaso di Pandora è stato scoperchiato mi sembra che la famiglia si stia dividendo accusandosi l’uno con l’altro
“È un punto molto importante. Questi tipi di cultura sono come i bulli. Quando sono insieme si sentono forti, presi singolarmente no. Fare il lavoro di dividerli è una cosa fondamentale. La mia associazione si costituirà parte civile nel processo che ci sarà Il 10 Febbraio 2023. Queste persone devono avere una pena esemplare, perché deve essere da monito a tutte le altre famiglie come loro presenti in Italia che quello che hanno fatto è un crimine che non puoi sfuggire dalla legge e anche se scappi ti prendono. Proviamo solo a pensare come sia morta questa ragazza, uccisa dalla propria famiglia nel peggiore de modi”.
Saman Abbas, caccia alla madre Nazia: «Le bugie del marito Shabbar, lei è ancora in Pakistan». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 23 Novembre 2022.
È l’unica libera e non si trova in Europa. Cattaneo esaminerà i resti
Braccata dalla polizia federale pakistana in stretto coordinamento con l’Interpol e i carabinieri. Nazia Shaheen, 49 anni, è la sola dei cinque incriminati per l’uccisione della figlia Saman - contraria alle nozze combinate con un cugino - a essere in libertà. Gli altri sono tutti in carcere: i due cugini, il cognato Danish Hasnain (l’uomo che avrebbe materialmente strozzato la 18enne e che venerdì avrebbe indicato agli investigatori il casolare nelle campagne di Novellara in cui è stata seppellita) e il marito Shabbar Abbas. Questi, 46 anni, proprio martedì quando è stato preso dai «federali» di Islamabad nella regione del Punjab da cui proviene, ha detto che la moglie «è rientrata in Europa e io non ne so più niente».
Parole che fanno sorridere uno degli investigatori italiani che ha portato alla sbarra il clan Abbas: «Se avesse davvero lasciato il Pakistan, Nazia sarebbe un pesce fuor d’acqua...». Assai più probabile che sia invece, con le ore contate, nei pressi del villaggio alle porte di Mandi Bahauddin dov’era rintanato Shabbar il quale, peraltro, anche al fratello di Saman (il 17enne che ha incolpato la famiglia con la sua testimonianza) ha ripetuto di non sapere dove stia Nazia. Emerge da una relazione della Asl della Bassa Reggiana, agli atti del processo al via a febbraio, che inquadra la telefonata fatta da Shabbar al figlio per dirgli dell’arresto - settembre 2021 - di Hasnain, a Parigi. «Una buona notizia» per il ragazzino che spera che lo zio «possa confessare il luogo in cui si trova la sorella» perché ciò «gli consentirebbe di andare avanti». Ma quando chiede notizie della madre, Shabbar - ubriaco e che lo insulta per l’aiuto dato all’indagine - lo «gela»: «Non è qui ma nascosta altrove». Risposta che «destabilizza» il ragazzino, si legge, visto il «forte legame» con Nazia.
La Corte d’Assise di Reggio intanto ha fissato per oggi martedì 23 novembre alle 12 il conferimento della perizia tecnica che servirà per rimuovere e identificare il cadavere indicato da Hasnain nella cascina diroccata a 700 metri dal casolare in cui vivevano gli Abbas. Visti «luogo e accurato sotterramento» è «molto probabile» che si tratti di Saman, ha scritto la presidente della Corte Cristina Beretti, che per le analisi forensi ha nominato l’anatomopatologa Cristina Cattaneo - l’esperta dei casi Yara Gambirasio a Stefano Cucchi - e l’archeologo forense Dominic Salsarola.
Dalle carte si scopre inoltre che Hasnain ha incontrato in carcere il cugino Ikram Ijaz. I due non si erano più visti dopo la fuga da Novellara, pochi giorni dopo l’uccisione di Saman, il 1° maggio 2021. Provato dalla detenzione e ignaro di essere intercettato, Ijaz confida: «Parlerò, giuro su Allah, parlerò: da nove mesi sono disonorato...» e asserisce che se non dovesse riuscire più a sentire sua madre, si suiciderà. Hasnain replica così: «Prima avevo paura della prigione in Pakistan» ma adesso che in qualche modo, detenuto a Reggio, gli è passata, ammette di «non aver detto tutto» e potrebbe ripensarci.
Poi un’altra frase di Ijaz, spifferata da«radiocarcere»: «Io la immobilizzavo per le gambe mentre Danish e l’altro cugino la soffocavano».
Saman, quando il padre Shabbar gridò: «Abbiamo giurato sul Corano, chi di voi ha tradito?». Storia di Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 20 Novembre 2022.
«Avevamo giurato sul Corano... Ma chi ha parlato? Chi è quel figlio di un cane che ha parlato?...». Ore 15.32 del 6 giugno 2021. Shabbar Abbas, il padre di Saman, viene intercettato al telefono mentre discute animatamente, minacciandolo, con il fratellastro rimasto a Novellara, Zaman Fahkar. Una telefonata tra urla e insulti. Sui media italiani la notizia dell’indagine sulla scomparsa della figlia è raccontata con puntiglio. Per questo Shabbar ha già ben chiaro che, pur stando nel suo nascondiglio nella regione pachistana del Punjab dove si è rintanato dopo la fuga da Malpensa poche ore dopo il delitto, è un uomo braccato.
Parte della conversazione era nota, contenuta in un «brogliaccio» dei carabinieri, ma ora emergono nuovi particolari grazie alla puntigliosa traduzione dell’audio fatta fare dall’avvocato Riziero Angeletti che tutela l’Ucoii (Unione delle comunità islamiche d’Italia), parte civile nel processo al via a febbraio. Shabbar insiste, vuol sapere chi stia spifferando tutto agli investigatori: «Come è uscita questa cosa? Chi è stato? Sto cercando» urla apostrofando pesantemente la moglie del suo interlocutore. Poi ecco che parla dell’omicidio: «Sapevate voi due —Fahkar e un’altra persona, ndr — e sapevamo noi cinque», tutti gli incriminati: lo stesso Shabbar, la moglie Nazia, il fratellastro Danish Hasnain e i due cugini di Saman, Ikram Ijaz e Nomanulhaq Nomanulhaq. «Avevamo giurato anche sul Corano» sbotta l’uomo, incredulo del fatto che la scomparsa della figlia, anzi l’uccisione, sia diventata una notizia di reato per i carabinieri.
Shabbar è alticcio, il fratellastro prova a placarlo: «Quando tu bevi cominci a sparlare!...». Ma Abbas è una furia. Minaccia: «Se qualcuno ancora parla... non lo lascerò stare». Si mostra senza scrupoli: per scappare «ho lasciato mio figlio lì» in Italia. Infine ammette: « L’ho uccisa io, per la mia dignità, per il mio onore... non m’importa di nessuno» e «se qualcuno non mi conosce ancora ora sapranno tutti chi sono». «Con queste frasi l’islam vero non c’entra nulla» riflette adesso l’avvocato Angeletti che ha fatto tradurre l’audio da persone provenienti dal Punjab «per non avere dubbi su ciò che ha detto il padre di Saman, frasi orribili». Interviene, infine, anche un’altra avvocata, Barbara Iannuccelli, che rappresenta l’associazione Penelope (familiari delle persone scomparse), parte civile al processo: « La fine di Saman? Deve dirci che la voglia di vivere non può essere il motivo di un omicidio».
Estratto dell'articolo di Giuseppe Baldessarro per “la Repubblica” il 21 novembre 2022.
Venerdì ha guidato i carabinieri attraverso i ruderi dell'ex latteria di Novellara fino a una stanza stretta. All'arrivo ha indicato verso la base di un muro per dire: «È lì». È stato Danish Hasnain, lo zio di Saman, accusato di essere l'esecutore materiale del suo omicidio a rivelare il luogo in cui la ragazza è stata seppellita la notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021. I militari hanno così iniziato a scavare e quando i badili si sono impuntati nel telo che avvolgeva il corpo si sono fermati. Sabato mattina lo scavo è andato avanti fino a far riaffiorare la forma dei piedi, delle ginocchia e dei gomiti.
Gli investigatori sono certi che si tratti della 18enne pakistana uccisa per aver rifiutato un matrimonio combinato, ma per avere la conferma ci vorrà l'analisi del Dna. Cosa abbia spinto l'uomo a rivelare la sepoltura a 500 metri dalla casa degli Abbas non è chiaro. Dall'inchiesta emerge che lo zio, i cugini (Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq) e i genitori (Shabbar Abbas e Nazia Shaheen), tutti accusati dell'omicidio, avevano «giurato sul Corano di non parlare mai del delitto».
Lo aveva detto il cugino Ijaz a un compagno di cella che poi lo ha riferito ai magistrati. Eppure, se Hasnain ha infranto il giuramento, qualcosa deve essere cambiato. Alcune fonti dicono che sarebbe stato convinto da un'autorità religiosa dell'Islam, forse un imam, che avrebbe incontrato in carcere. Altre affermano che lo avrebbe fatto solo per ottenere qualche sconto di pena di fronte alla prospettiva di un ergastolo.
Le prove contro di lui sono tante e, secondo il fratello minorenne di Saman (testimone chiave dell'accusa), sarebbe stato lo zio a strangolare Saman, per poi nasconderne il corpo aiutato dai cugini. C'è inoltre una chat in cui, dopo il delitto, Hasnain ha scritto a una donna: «Abbiamo fatto un lavoro fatto bene». [...]
Per avere certezza che si tratti del corpo di Saman ci vorranno alcuni giorni. I resti potranno essere riesumati e analizzati solo con un incidente probatorio per il quale i cinque imputati possono nominare propri consulenti da affiancare a quelli dei magistrati. Un atto che va notificato anche a Shabar Abbas, il padre di Saman, attualmente detenuto a Islamabad. Soltanto dopo, i resti potranno essere disseppelliti per stabilire l'identità e le cause della morte. [....]
Filippo Fiorini per “la Stampa” il 20 Novembre 2022.
Le certezze: venerdì pomeriggio i carabinieri di Novellara hanno trovato dei resti interrati in un fienile diroccato a 485 metri dall'azienda agricola Le Valli, dove la notte del 30 aprile 2021 è scomparsa Saman Abbas. Le ipotesi: quei resti sono umani e appartengono alla 18enne pakistana entrata in scontro con la famiglia dopo essersi sottratta a un matrimonio combinato in patria e aver scelto di vivere liberamente in Italia con il ragazzo che amava.
La versione ufficiale: i carabinieri hanno cercato in modo diverso e in diversi punti tra quei rovi e macerie che avevano già controllato più volte, che un residente aveva aiutato a esplorare, che due trasmissioni Tv avevano chiesto di tornare ad attenzionare, che distano 430 passi dall'ultimo posto in cui Saman è stata ripresa viva dalle telecamere di sicurezza di casa sua. Hanno scavato in un punto preciso e hanno trovato.
Le indiscrezioni: il recente arresto in Pakistan del padre di Saman, Shabbar Abbas, la sua possibile estradizione nel nostro Paese, l'inizio, il prossimo 10 febbraio, di un processo in cui lui, Nazia Shaheen (madre, unica latitante), Danish Hasnain (zio), Noumanoulaq Noumanoulaq e Ikram Ijaz (cugini), sono accusati per l'omicidio della giovane, ha convinto uno di loro a migliorare la propria posizione processuale facendo una soffiata.
In questo momento, i reperti sono ancora interrati lì dove sono stati scoperti senza alcun altro elemento di prova nelle circostanze. Ci vorrà tempo per sapere se si tratta di Saman. Sul luogo del ritrovamento, che ha richiesto l'intervento di due scavatori dei Vigili del fuoco, della medicina legale e del Ris di Parma, il procuratore capo di Reggio Emilia, Gaetano Paci, ha spiegato ieri che «siamo in una fase in cui è stata già esercitata l'azione penale, siamo difronte a una Corte d'assise.
Affinché i resti vengano recuperati e analizzati, occorrono delle forme particolari che già lunedì verranno attivate con la richiesta di incidente probatorio». Il giudice avrà due giorni per decidere. Paci ha garantito che non c'è pericolo di deterioramento: «Sappiamo fare il nostro lavoro e sappiamo come preservare la scena». Poi, ha smentito che la cattura di Shabbar Abbas abbia influito su una scoperta avvenuta a un anno e sette mesi dalla morte presunta della ragazza, periodo caratterizzato nelle prime settimane da ricerche intensissime, apparecchi sofisticati e molto personale: «Non c'entra niente», ha detto.
Sta di fatto, che se quelle ossa sono umane, è molto probabile siano di Saman, ecco perché: alle 19,30 del giorno della scomparsa, zio e cugini sono stati ripresi dalle telecamere dell'azienda agricola incamminarsi con badile, secchio, telo e piede di porco, in una direzione compatibile con questo ex caseificio con fienile, stalla e porcilaia annessa. Lì, le trasmissioni «Quarto Grado» e «Chi l'ha visto» hanno scoperto fossero soliti trovarsi gli Abbas a bere di nascosto.
Poi, c'è il fratello minore di Saman, principale testimone contro una famiglia in cui sono tutti compromessi a vario titolo, che dice: lo zio Danish l'ha strangolata e i cugini l'hanno aiutato a seppellirla tra le serre. Nella primavera 2021, infatti, il posto era circondato dalle serre che avrebbero coperto il trasporto di un cadavere, durante una notte serena, in una zona rurale ma abitata.
Se quelle ossa sono di Saman, i carabinieri e la Procura di Reggio allora hanno colmato in tempo utile la principale lacuna del castello d'accusa. Ieri, Claudio Falleti, avvocato del fidanzato di Saman (Saquib Ayub, non indagato), ha detto all'Ansa: «La mia ipotesi è che sia stato il padre ad indicare il luogo». Finora, però, il più prolifico di notizie tra gli esecutori materiali è stato Ikram Ijaz, che avrebbe tenuto ferma Saman, mentre gli altri la uccidevano.
La soffiata dello zio in cella: così è stata ritrovata Saman. Danish Hasnain ha indicato il luogo agli inquirenti. La comunità pakistana: "Il mandante è il papà". Tiziana Paolocci il 21 Novembre 2022 su Il Giornale.
Ora andrà in scena il capitolo tutti contro tutti. A poche ore di distanza dall'arresto in Pakistan del padre di Saman, Shabbar Abbas, viene meno la coesione tra i parenti della vittima. Danish Hasnain, lo zio accusato di aver ucciso con una corda la diciottenne scomparsa il 30 aprile a Novellara, mentre i nipoti la tenevano ferma, ha iniziato a parlare.
Sarebbe stato proprio lui a portare gli investigatori nel punto dove è stato trovato quel cadavere, in evidente stato di decomposizione, a cinquecento metri dall'azienda agricola «Le Valli» dove lavorava e viveva la famiglia Abbas. Il pachistano indagato, in carcere a Reggio Emilia, venerdì sarebbe stato accompagnato dalla polizia penitenziaria nel casolare a Novellara, una vecchia latteria con mura e tetto diroccati.
Danish era insieme ai carabinieri, titolari delle indagini, quando sono iniziati i lavori di scavo che hanno portato alla luce quel corpo, in posizione supina, avvolto in alcuni teli e calato in quella buca profonda quasi due metri. Una fossa riempita di terra e ricoperta da grosse pietre proprio per celare quel cadavere. Dopo essere stati dissotterrati i piedi e coperti da un telo ginocchia e gomiti, le operazioni si sono interrotte, per darne comunicazione ai giudici della corte d'assise titolari del processo, che dovranno autorizzare l'esumazione alla presenza di un perito e dei consulenti degli imputati. Quindi autorizzerano anche le operazioni, che prevedono l'estrazione del Dna necessario ad avere la conferma che si tratti realmente di Saman.
«Continuiamo a condannare questo gesto criminale figlio di una mentalità retrograda - ha commentato ieri Hasnain Abbas Bhatti, 25 anni, portavoce della comunità pachistana di Novellara -. Vogliamo l'estradizione del padre per fare giustizia. E se il corpo dovesse essere quello di Saman, speriamo di poterle dare una degna sepoltura». La comunità non ha dubbi. «Per noi il mandante dell'omicidio è il padre Shabbar in quanto capofamiglia, con l'appoggio degli altri familiari - continua il portavoce - ma non dimentichiamo anche il ruolo fondamentale della madre Nazia in questa macabra vicenda. La famiglia di Saman era chiusa, non frequentava i nostri centri culturali islamici. Shabbar poi aveva il vizio dell'alcool e per questo non era ben accetto per la nostra religione. Matrimoni combinati? Sono frequenti nella nostra comunità, ma si concretizzano solo quando i due sposi sono consenzienti. Qui stiamo parlando di nozze forzate».
Ieri mattina anche il parroco di Novellara, don Giordano Goccini, ha ricordato la diciottenne nella sua omelia durante la Santa Messa domenicale. «Non ci basta l'alibi della diversità culturale, nel nome della quale sarebbe stato compiuto tutto questo - ha dichiarato -. Per il nostro paese è una ferita aperta».
Quello che era il fidanzato di Saman, Saqib Ayub, oggi 23enne, ancora non riesce a darsi pace e affida la sua riflessione all'avvocato Claudio Falleti. «Sono soddisfatto per l'arresto di Shabbar, ma la notizia del ritrovamento di un corpo vicino a casa di Saman mi riempie di dolore e tristezza - ha detto -. Fino all'ultimo momento ho vissuto con la speranza che fosse ancora viva. Aspettiamo le analisi della polizia scientifica. Se il corpo ritrovato fosse di Saman voglio vederla un'ultima volta e desidererei che avesse una degna sepoltura, è rimasta anche fin troppo tempo in un posto inospitale».
«È molto provato da quando gli ho comunicato la notizia - ha proseguito il suo legale - attendiamo insieme il proseguo, monitorando gli sviluppi della situazione. Attendiamo e speriamo che anche Shabbar possa essere consegnato alla giustizia e che venga sottoposto a un regolare processo in Italia. In egual misura auspico che anche la moglie venga arrestata».
Angela Leucci per ilgiornale.it il 22 novembre 2022.
Ci sono diversi indizi che hanno condotto gli inquirenti a formulare l’accusa di omicidio nei confronti dei parenti di Saman Abbas. Ci sono le testimonianze dirette: quelle del fidanzato Saqib, che ha allertato le forze dell’ordine per via di una richiesta che Saman gli fece prima di scomparire, e quelle del fratellino della giovane, che disse di aver assistito a una riunione di famiglia in cui si progettava il delitto d’onore.
Ma uno degli indizi più sconvolgenti è in un’intercettazione telefonica: il 6 giugno 2021, poco più di un mese dopo che la 18enne non si trovava, il padre Shabbar Abbas, tornato in Pakistan, parlò con un fratellastro che era rimasto a Novellara, la città in Emilia Romagna in cui la famiglia viveva e lavorava.
Nella telefonata Shabbar chiede chi abbia parlato: l’uomo sembra convinto che sia stato un membro della famiglia allargata o della comunità pakistana a rivelare del delitto d’onore. Durante la conversazione, che è stata tra l’altro parzialmente diffusa da Quarto Grado, volano anche le parolacce nei confronti dei supposti delatori. Ma le parole più agghiaccianti sono queste che Shabbar pronuncia con decisione: “Una volta che sei cosciente, pensaci. Io non ho nulla di più importante del mio onore. Ricordalo: prima cosa. Seconda cosa: se qualcuno parla ancora male di me non vi lascio stare, a nessuno. Ho lasciato mio figlio lì, ho anche ucciso mia figlia. Non mi importa di nessuno”.
È possibile che queste intercettazioni non avrebbero avuto la stessa efficacia se il caso della giovane pakistana che si opponeva al matrimonio forzato non fosse giunto a una svolta. Nei giorni scorsi infatti, Shabbar, che era latitante, è stato arrestato in Pakistan: si attende di sapere se sarà estradato per essere giudicato in Italia.
Inoltre per un anno e mezzo non c’è stata prova certa della morte di Saman. Ma adesso, pare su indicazione dello zio Danish Hasnain, ritenuto l’esecutore materiale dell’omicidio, si sta scavando per esumare dei resti umani in un casolare abbandonato di Novellara. Il cadavere della ragazza rappresenterebbe una prova importante per l’intero caso, tanto più che i parenti hanno sempre affermato che Saman fosse fuggita in Belgio.
È ancora latitante, invece, la madre Nazia Shaheen, che con Shabbar aveva lasciato l’Italia alla volta del Pakistan il giorno dopo la scomparsa della figlia. “Per noi rimane importante la mamma di Saman - ha commentato l’avvocato Barbara Iannuccelli a supporto dell’associazione Penelope - lei ne ha decretato la fine. Lei scherzava con la figlia poco prima di accompagnarla dai carnefici. Lei l'ha fatta ritornare a casa. Saman aveva fatto denuncia di smarrimento dei suoi documenti, per cui non aveva alcun motivo per rientrare a casa. Lo ha fatto per la mamma. E lei, parlando con l'altro figlio, voleva convincerlo a desistere da ogni collaborazione. Noi vogliamo Nazia!”.
Saman Abbas, perché il corpo è stato trovato solo ora: agghiacciante. Simona Pletto su Libero Quotidiano il 22 novembre 2022
Dal Pakistan teneva tutti sotto scacco, minacciava i parenti e i loro familiari. E siccome zii e cugini conoscono bene la sua violenza, lo hanno temuto a tal punto da tenere la bocca chiusa, anche a costo di rischiare un ergastolo pur di non tradirlo. Una barriera di ferro, quella alzata da Shabbar Abbas, padre della piccola Saman, che si è sgretolata all'improvviso proprio con il suo recente arresto in Pakistan. Il suo ingresso in carcere ha infatti spinto lo zio di Saman, Danish Hasnain, già rinchiuso in cella a Reggio Emilia con la pesante accusa di aver ucciso la nipote insieme ai cugini della giovane, Ikram e Numanulla, a rivelare il luogo esatto dove è stata sepolta la 18enne Saman Abbas, uccisa - non è da escludere- per mano dello stesso padre. Pochi giorni fa, quindi, lo zio Danish ha chiamato gli agenti di polizia penitenziaria ai quali ha confidato di sapere dove era stata uccisa e sepolta Saman, colpevole - secondo l'accusa di essersi innamorata di un giovane e di aver rifiutato per questo di sposare un cugino scelto dal padre Shabbar. Così si è fatto accompagnare con i carabinieri vicino a un casolare diroccato a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, a neppure 500 metri dall'abitazione dove la vittima viveva con la famiglia.
«Scavate qui», ha detto il detenuto, «il punto dove è sepolta è questo». Dunque così, in quel cortile ai piedi delle vecchie e fredde pietre dimenticate, sabato è stato ritrovato un cadavere chiuso dentro a un sacco nero. La ragazza era supina, gettata senza pietà, come fosse immondizia, a due metri di profondità. Molto probabilmente è Saman. Era lì, a poche decine di metri dalla sua casa, ma nessuno l'aveva vista. Era lì, nonostante quell'area attorno a casa, dalle serre ai campi limitrofi, fosse stata battuta a lungo dai carabinieri e dalle unità cinofile preposte, fin dal giorno della sua sparizione (30 aprile 2021). Insomma, grazie allo zio e alla collegata carcerazione del padre della vittima, il giallo del cadavere è risolto. Inoltre Danish, come gli altri parenti coinvolti, sa che ora può sperare di vedere trasformare la pesante accusa di omicidio mossa nei suoi confronti, in occultamento di cadavere, un reato minore in termini di condanna.
«Io so per certo che quel casolare non è mai stato sondato», spiega l'avvocato bolognese Barbara Iannucelli, parte civile per l'associazione Penelope (aiuta i familiari delle persone scomparse) nel processo per l'omicidio di Saman. «Agli atti non risulta, ci saranno passati con i cani ma senza esito alcuno. Il 6 maggio scorso un giornalista della trasmissione televisiva "Chi l'ha visto" ha inviato una mail alle forze dell'ordine in cui suggeriva di sondare quel casolare abbandonato che in effetti si trova vicinissimo all'allora abitazione degli Abbas. Ma nessuno è andato lì».
La Procura ha sempre sostenuto che Saman è stata uccisa e il suo corpo doveva essere stato sepolto in zona. Questo perché alcune telecamere avevano ripreso il padre, lo zio e i due cugini mentre la accompagnavano fuori casa e poi, più tardi, si vedono gli stessi uomini tornare senza di lei. Un delitto per salvare l'onore. La ragazza, che voleva vivere all'occidentale, aveva rifiutato le nozze combinate che la famiglia aveva imposto con un cugino di undici anni più grande di lei nel Paese di origine. Era scappata di casa, aveva trovato rifugio in comunità, si era fidanzata con un altro ragazzo (minacciato di morte). Fino alla scomparsa, perla quale sono indagate sei persone: lo zio, i due cugini, oggi in carcere, il padre ora in cella e la madre ancora latitante in Pakistan. Ancora non ci sono conferme sull'identificazione del cadavere perché occorre fare tutti gli accertamenti e le analisi.
Come spiegato dal procuratore Gaetano Calogero Paci sarà necessario fare la richiesta di incidente probatorio urgente (fatto sul posto) alla Corte di assise per procedere con una perizia nel contraddittorio delle parti, dal momento che è già fissato il processo. Saranno dunque probabilmente i giudici a nominare un perito per dare il via alle operazioni che prevedono anche l'estrazione del Dna per avere la conferma si tratti di Saman Abbas. «Noi siamo pronti con i nostri periti per l'incidente probatorio», confida l'avvocato Iannocelli, che in qualità di rappresentante dell'associazione Penelope ci conferma essere gli unici ad essersi costituiti parte civile a processo. «I resti ritrovati? Purtroppo appartengono a Saman, senza alcun dubbio. La Procura ha alcuni effetti personali della ragazza, verranno utilizzati per la comparazione del Dna».
Mentre in Italia il ritrovamento del cadavere nelle campagne di Novellara imprime una svolta alla vicenda dell'assassinio di Saman Abbas, in Pakistan il destino del padre della ragazza, accusato di essere il mandante e arrestato giorni fa nel natio Punjab resta ancora incerto. Dopo quella di pochi giorni fa, in cui gli è stata notificata la "red notice" dell'Interpol, che contiene le accuse di omicidio, sequestro di persona e soppressione di cadavere della figlia, il 24 novembre è prevista una seconda udienza davanti al tribunale di Islamabad.
C'è l'ordine di cattura per i genitori di Saman. Chiesta l'estradizione alle autorità pakistane. I due sono latitanti dall'arresto dello zio. Si trovano nel villaggio d'origine. Il padre confessò in una telefonata a un parente nel 2021: "L'ho uccisa io". Chiara Clausi il 13 Novembre 2022 su Il Giornale.
Il Pakistan si fa sentire sul caso di Saman Abbas, la 18enne scomparsa e con tutta probabilità uccisa dallo zio e dai cugini, con la complicità dei genitori. Saman è scomparsa nella notte del 30 aprile 2021 a Novellara di Reggio Emilia, il corpo non è stato mai ritrovato ma ora Islamabad «ha emesso un provvedimento di cattura nazionale» nei confronti dei genitori della giovane. A riferirlo è Maria Josè Falcicchia, direttrice della seconda divisione dell'Interpol, ospite venerdì sera negli studi della trasmissione di Rete 4 Quarto Grado. «Nelle scorse settimane - ha spiegato la dirigente - le autorità del Pakistan hanno recepito la fondatezza delle attività svolte in Italia dai carabinieri di Reggio Emilia e dall'autorità giudiziaria supportata dai servizi di cooperazione di polizia. Dopo una valutazione molto lunga per un caso complicato anche per loro e senza precedenti, hanno deciso di fare propria la red notice, ossia la richiesta di arresto internazionale già nel circuito Interpol, delegando le autorità di polizia del Punjab, regione dalla quale proviene la famiglia di Saman».
Il movente dell'omicidio sarebbe stato il rifiuto della ragazza a un matrimonio combinato in patria con un cugino di 10 anni più vecchio. Il corpo di Saman non è mai stato ritrovato ma uno dei cugini, Ikram Ijaz, ha raccontato che sarebbe stata strangolata con una corda, fatta a pezzi e gettata nel Po. Se così fosse è possibile che Saman non venga mai più ritrovata. La scintilla che alimentò la rabbia dei familiari della giovane sarebbe stata la foto di un bacio tra Saman e il fidanzato per le vie di Bologna. Il momento di intimità tra i due era stato postato da Saman sui social tra la fine del 2020 e l'inizio del 2021. Un cugino, sentito dai carabinieri di Reggio Emilia, ha riferito che il padre Shabbar, la madre Nazia e il fratello «si lamentavano in continuazione di tale situazione». In una intercettazione telefonica il padre l'8 giugno 2021 dice a un parente: «Ho ucciso mia figlia e non me ne frega nulla di nessuno».
Il padre Shabbar e la madre Nazia sono latitanti dopo l'arresto dello zio Danish Hasnain, ritenuto l'esecutore materiale del delitto, e dei cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq, che dopo essere stati arrestati si trovano in carcere a Reggio Emilia. I genitori di Saman erano rientrati in Pakistan pochi giorni dopo il presunto assassinio della figlia e si troverebbero nel loro villaggio di origine, a Charanwala, nella regione rurale del Punjab. Qualora i genitori dovessero venire arrestati si aprirebbero le trattative per l'estradizione. «L'Italia ha già chiesto l'estradizione - ha ricordato la dirigente Falcicchia - Il Pakistan cita un vecchio trattato del 72, ma per noi l'estradizione non è esclusa. Non c'è un attuale trattato firmato da entrambi i Paesi ed esiste l'estradizione di cortesia, una consuetudine internazionale che spesso tanti Paesi adottano.
Siamo molto fiduciosi per la sensibilità che abbiamo riscontrato dalle autorità pachistane, sono stati due anni lunghi ma non privi di impegno e di continue attività svolte dall'Interpol e dal nostro esperto di sicurezza presso l'ambasciata in Pakistan. Recentemente i nostri vertici di cooperazione internazionale, il generale Giampiero Ianni e il prefetto Vittorio Rizzi, hanno incontrato le autorità pakistane a margine di un incontro in India».
Saman Abbas, arrestato il padre in Pakistan: l'esclusiva di "Quarto Grado". Redazione Tgcom24 il 15 novembre 2022.
Svolta nel caso di Saman Abbas, la 18enne pakistana scomparsa - e si presume uccisa - a Novellara di Reggio Emilia, tra il 30 aprile e il 1° maggio 2021. Il padre Shabbar Abbas è stato arrestato in Pakistan per una frode a un connazionale per un valore pari a 20mila dollari. Lo riferisce la trasmissione televisiva di Rete 4 "Quarto Grado". Già a settembre un servizio esclusivo di Anna Boiardi aveva mostrato in diretta l'uomo mentre partecipava a una funzione religiosa nel distretto di Mandi Bahauddin.
Proprio qualche giorno fa il Pakistan ha emesso un ordine di cattura nazionale nei confronti dei genitori della giovane. A rivelarlo è stata Maria Josè Falcicchia, direttrice della seconda divisione dell' Interpol, sempre a "Quarto Grado". Il padre e la madre, Nazia Shaheen, tornati in patria all'indomani della sparizione della figlia, sono latitanti dopo l'arresto dello zio Danish Hasnain, ritenuto l'esecutore materiale del delitto, e dei cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq, che dopo essere stati arrestati si trovano in carcere a Reggio Emilia.
Secondo quanto apprende Quarto Grado da fonti di polizia del Punjab, (regione dove è fuggito e vive Shabbar Abbas con la moglie Nazia) la polizia italiana avrebbe inoltrato richiesta di indagare riguardo al caso della morte in Italia della figlia. Per ora - riferiscono le fonti locali pakistane - nessuna richiesta formale è stata avanzata dall'Italia. Si procede quindi contro Shabbar Abbas solo per frode, ma la polizia pakistana afferma che se ci saranno passi ufficiali da parte dell'Italia, Shabbar Abbas sarà interrogato e accusato anche per la morte della figlia Saman.
Poco più di un mese dopo la scomparsa di Saman, il padre confessò il delitto durante una telefonata a un parente in Italia. "Ho ucciso mia figlia", aveva affermato Shabbar Abbas l'8 giugno 2021, quando ormai era fuggito in Pakistan. La conversazione è agli atti del processo che inizierà a febbraio a carico dei familiari.
Quarto Grado: «Arrestato in Pakistan il padre di Saman». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 15 Novembre 2022.
Per lui c’è il mandato d’arresto internazionale per l’omicidio della figlia, scomparsa da Novellara ad aprile 2021. Ma sarebbe stato bloccato dalla polizia del suo Paese per una frode a un connazionale
Giusto due giorni fa l’Interpol aveva comunicato pubblicamente che anche il Pakistan aveva emesso un ordine di cattura per omicidio a carico di Shabbar Abbas, il papà di Saman, la ragazza scomparsa il 30 aprile del 2021 da Novellara, in provincia di Reggio Emilia: con ogni probabilità uccisa dai suoi parenti, tra cui il padre, e fatta sparire. Ora, nella serata del 15 novembre, Quarto Grado (Mediaset) annuncia che il padre di Saman è stato arrestato, proprio in Pakistan, ma per una frode a carico di un connazionale per circa 20 mila dollari, pari a 5 milioni di rupie pakistane.
Se l’arresto fosse confermato (verifiche sono in corso da parte di Interpol e Farnesina) però, il Pakistan dovrebbe recepire quanto annunciato dall’Interpol due giorni fa: «Nelle scorse settimane le autorità del Pakistan hanno recepito la fondatezza delle attività svolte in Italia dai carabinieri di Reggio Emilia e dall’autorità giudiziaria supportata dai servizi di cooperazione di polizia. Anche loro hanno deciso di fare propria la “red notice”, ossia la richiesta di arresto internazionale già nel circuito Interpol, delegando le autorità di polizia del Punjab, regione dalla quale proviene la famiglia di Saman».
Nei confronti di Shabbar e della moglie Nazia Shaheen c’è una richiesta di estradizione per l’omicidio della 18enne. All’indomani della sparizione, fuggirono precipitosamente in Pakistan, partendo da Malpensa. I due sono stati rinviati a giudizio, anche se latitanti, in concorso con altri tre parenti, uno zio e due cugini della ragazza, arrestati dai carabinieri reggiani per l’accusa di concorso in omicidio volontario. Secondo le indiscrezioni che rimbalzano da Islamabad, la polizia pakistana avrebbe affermato che in caso di passi ufficiali da parte dell’Italia, Abbas potrebbe essere interrogato e accusato anche per la morte di Saman che si era opposta al matrimonio combinato dai genitori con un cugino più grande di lei.
Quello che è certo è che la polizia federale pakistana, che dipende dall’Esercito, da tempo aveva il fiato sul collo di Shabbar, forse protetto dalla polizia locale e che dal fidanzato di Saman era stato descritto come un «mafioso» anche per aver minacciato i suoi genitori, presentandosi a casa loro armato di kalashnikov e spalleggiato da diverse persone. Le insistenze italiane potrebbero aver contribuito allo sviluppo delle indagini su Abbas, che si era trasferito a Novellara per lavorare in un’azienda agricola, quella setacciata palmo a palmo nella ricerca, vana, della giovane.
La richiesta di estradizione era stata firmata un anno fa dalla ex ministra della Giustizia Marta Cartabia. «A titolo di cortesia internazionale e con assicurazione di reciprocità per casi analoghi, in considerazione della delicatezza e gravità di questi fatti, si confida che l’autorità estera risponda positivamente e con celerità alla richiesta della Procura», aveva scritto il 13 settembre 2021 Cartabia all’ambasciata d’Italia a Islamabad girando la rogatoria internazionale della procura di Reggio Emilia. Nel documento, che spunta dagli atti dell’inchiesta, c’era la lista dei testimoni da sentire in Pakistan, primo fra tutti lo stesso promesso sposo di Saman, e poi vari parenti che sarebbero a conoscenza dei fatti. Almeno inizialmente e almeno in apparenza, non v’era stata alcuna risposta. Le autorità di Islamabad avevano istituito una Commissione per deliberare sul caso. Nel frattempo si era mossa naturalmente l’Interpol. E poi l’arresto di Shabbar per frode.
Sulla sua colpevolezza e sulla complicità anche di sua moglie nel nascondere il delitto della figlia, gli inquirenti italiani hanno pochi dubbi: durante l’inchiesta successiva alla scomparsa della ragazza era stata anche captata una conversazione del padre: «Ho ucciso mia figlia e non me ne pento».
Estratto dell'articolo di Giuseppe Baldessarro per “la Repubblica” il 17 novembre 2022.
«Mia moglie non è più in Pakistan, è partita per l'Europa. È inutile che la cercate». Le prime parole dette alla polizia da Shabbar Abbas sono state per proteggere la moglie Nazia Shaheen. Arrestato martedì scorso, non ha quasi aggiunto altro. Solo qualche frase sul «dolore» per la scomparsa della figlia Saman, poi la difesa della compagna (una frase a cui pochi credono), come a volerla salvare dalle accuse mosse dalla Procura di Reggio Emilia.
Shabbar Abbas, accusato assieme a Nazia, al fratello Danish Hasnain e ai nipoti, Ikram Ijaz e Nomanulhaq Nomanulhaq, dell'omicidio della figlia 18enne, avvenuto a Novellara poco dopo la mezzanotte del 30 aprile 2021, si è di fatto consegnato alle autorità pakistane. [...]
La notte precedente alla partenza, secondo gli investigatori, Saman venne assassinata dallo zio, col placet dei genitori e la collaborazione dei cugini. In quelle stesse ore il suo corpo è stato fatto sparire e, prima i genitori e poi gli altri familiari, hanno fatto perdere le proprie tracce per rientrare in patria. [..]
Alla sbarra ci saranno lo zio (arrestato a settembre Parigi) e i cugini (scovati e ammanettati uno in Francia e l'altro in Spagna). Per il procuratore di Reggio Emilia, Gaetano Paci, «si tratta di un risultato importante». E l'auspicio «è che i tempi dell'estradizione siano brevi». Spiega Paci: «I tempi dipendono dai giudici pakistani e dalle valutazioni che faranno sulla nostra richiesta».
La consegna di Shabbar Abbas significa arrivare al processo «con ulteriori elementi di chiarezza». All'uomo gli inquirenti, ad esempio, potrebbero chiedere conto di una telefonata fatta quando era già latitante a un suo parente: «Io ho lasciato mio figlio in Italia (il fratello minorenne di Saman ora affidato a una comunità protetta, ndr ). Ho ucciso mia figlia e sono venuto, non me ne frega nulla di nessuno».
Oggi si svolgerà l'udienza durante la quale ad Abbas saranno contestate le accuse mosse dalla procura di Reggio Emilia. Nel frattempo si cerca la moglie, ultima latitante del gruppo familiare.
Shabbar Abbas, padre di Saman, ora verrà estradato? O il Pakistan può decidere di trattenerlo? Cosa succede adesso. Armando Di Landro su Il Corriere della Sera il 16 Novembre 2022.
Dopo l’arresto provvisorio si va di fronte a un giudice. Con la contestazione di omicidio il Pakistan non dovrebbe porre ostacoli all’estradizione. Ma molto dipenderà anche dalla difesa del padre della ragazza scomparsa
Il padre di Saman, Shabbar Abbas, è stato arrestato martedì 15 novembre in Pakistan con l’accusa di aver ucciso la figlia, scomparsa da Novellara il 30 aprile del 2021 dopo aver rifiutato un matrimonio combinato che i genitori volevano imporle. La fuga di Shabbar Abbas - iniziata il giorno dopo, 1 maggio - è quindi terminata e nell’immediato futuro il papà di Saman verrà processato in Italia? Non è detto che sia così.
Tecnicamente il provvedimento eseguito martedì dalla polizia del Punjab è un arresto internazionale provvisorio, esecuzione di un mandato d’arresto internazionale emesso dall’Italia, passato dall’Interpol e recepito dalla polizia pakistana: significa cioè che le forze investigative dei due Paesi, con l’Interpol a fare da tramite, condividono lo stesso quadro accusatorio, basato sulla contestazione di omicidio. Ma lo stesso termine tecnico del provvedimento indica appunto la «provvisorietà» dell’arresto perché ora la scelta spetta allo Stato del Pakistan, tramite un suo giudice o una sua corte: sarà un magistrato a decidere se le accuse mosse dall’«altro Paese», e cioè l’Italia, siano da ritenere valide e adeguatamente dettagliate, per poter consentire un’estradizione, oppure per negarla.
Sull’eventuale scelta di un giudice la questione si fa ancora più tecnica, ma è riassumibile in modo abbastanza lineare: solitamente (fatti salvi casi specifici oppure vicende più ampie come quella degli ex terroristi italiani riparati in Francia) l’estradizione viene concessa se il reato contestato nel paese che la chiede è riconosciuto e punito anche nel Paese dell’indagato o ricercato internazionale, o comunque nel Paese che lo ospita. Sul caso di omicidio, quindi, non dovrebbero esserci ostacoli, il Pakistan può dire sì all’estradizione.
Molto dipenderà però , anche dalla linea difensiva del padre di Saman, che ha di fronte due strade: tentare di negare gli indizi a suo carico, porre un dubbio quindi di merito al giudice del suo Paese, oppure riconoscere il reato commesso ma, viste alcune caratteristiche della vicenda, scegliere di mettere in luce elementi di carattere socio culturale, in chiave attenuante: ricordando per esempio che sua figlia aveva negato un matrimonio concordato da tutta la famiglia. Pratica aberrante oggi in Italia, molto diffusa invece in Pakistan. Esiste quindi, anche se in minima parte, il rischio che le cause dell’omicidio di Saman diventino un elemento di difesa per suo padre in Pakistan.
(ANSA il 30 settembre 2022) - I parenti di Saman Abbas avrebbero stretto un accordo tra loro, "con giuramento religioso sul Corano", che imponeva il divieto di rivelare ad altri il nome dei partecipanti al delitto e le modalità dell'omicidio della ragazza pachistana, scomparsa da Novellara (Reggio Emilia) dal 30 aprile 2021. La circostanza emerge dagli atti dell'inchiesta dei carabinieri e della Procura reggiana, depositati in vista del processo a cinque familiari, i due genitori, uno zio e due cugini, che prenderà il via a gennaio 2023.
Come riportano Il Resto del Carlino e la Gazzetta di Reggio sarebbe stato uno degli imputati, il cugino Ikram Ijaz, a confidarlo ad altri detenuti nel carcere di Reggio Emilia e a marzo 2022 il racconto è finito in un'annotazione della polizia penitenziaria. Lo stesso Ikram, come già avvenuto in altra occasione, ha detto ai compagni di detenzione di aver partecipato al delitto e ha aggiunto che insieme a Danish Hasnain, zio di Saman pure lui arrestato, avrebbero dovuto assassinare anche il fidanzato della giovane, a completamento della missione. Secondo le indagini Saman, il cui corpo non è mai stato trovato, è stata uccisa perché aveva rifiutato un matrimonio combinato in Pakistan e voleva vivere la propria vita.
Filippo Fiorini per "La Stampa" l'1 ottobre 2022.
Hanno giurato sul Corano di uccidere Saman e occultarne il cadavere. Si sono coperti le spalle per giorni raccontando un'unica versione dei fatti. Si sono ripromessi di uccidere anche Saquib, fidanzato della ragazza ribelle che non accettava il matrimonio combinato con un altro uomo in Pakistan. Poi il patto si è rotto e ora si accusano reciprocamente. Si contraddicono, si ricattano minacciando di rivelare dov' è nascosto il corpo, tirano in ballo nuovi complici, piangono, chiedono della madre e paventano il suicidio.
Tutto, perché si trovano in carcere in attesa che a febbraio il supertestimone dell'accusa sia chiamato a giurare non su un testo sacro, ma sulla propria «responsabilità morale e giuridica», così come previsto dal codice italiano, in un processo per omicidio in cui tre membri della famiglia Abbas saranno alla sbarra come imputati, mentre altri due (i genitori della diciottenne, considerati mandanti) saranno probabilmente giudicati in contumacia, essendo fuggiti in una patria che non collabora sull'estradizione.
Le nuove informazioni riguardo al presunto delitto d'onore consumatosi la notte del 30 aprile 2021 nelle campagne di Novellara, Reggio Emilia, emergono dallo stesso rapporto di polizia giudiziaria del 4 marzo, che ha presentato uno scenario alternativo sul crimine: Ikram Ijaz, cugino di Saman, parla a un compagno di cella che subito riferisce a una guardia e dice di averle bloccato le gambe mentre lo zio, Danish Hasnain, e l'altro cugino, Noumanulhaq Noumanulhaq, l'uccidevano. Poi, i tre avvolgono il corpo in un nylon da serra.
Nella notte e attraverso i campi (con una bici portata a mano) guadano un canale con un metro e mezzo d'acqua, arrivando al Po. Lì, vengono raggiunti da un terzo cugino, Arfan Amjad (non imputato), e mentre Ikram se ne va, gli altri smembrano il cadavere e lo gettano nel fiume.
Questo l'epilogo nei fatti, mentre l'intenzione era quella di far credere che Saman fosse fuggita volontariamente e poi uccidere anche il suo ragazzo, in nome di un giuramento sul Corano fatto per l'onore tradito dal comportamento autonomo di lei. Il 5 maggio, però, i Carabinieri vanno a cercare Saman a casa. Inizialmente, temono che i genitori (volati in Pakistan all'indomani della scomparsa), l'abbiano portata con loro per obbligarla a sposarsi e, quando vedono fuggire anche zio, due cugini e fratello minore, iniziano a sospettarne l'omicidio. Gli stessi militari credono poco anche a quanto detto da Ikram in carcere.
Primo, perché un'informazione riportata va presa con le molle. Secondo, perché questa ricostruzione alleggerisce la sua posizione, rispetto a quanto sostenuto dal fratello adolescente di Saman (catturato e pentito, è lui il superteste), per cui Saman sarebbe stata uccisa vicino a casa da Danish, Ikram e Noumanulhaq, poi sepolta nei pressi. Terzo, perché nelle altre intercettazioni dal penitenziario, questi tre parlano come fossero ascoltati: «Siamo scappati, ma saremmo tornati», oppure, «io mi suicido, giuro su Allah!», e ancora «dirò tutto, lo giuro!».
Di fatto, hanno parlato tra loro e mai con la magistratura. Conversando coi parenti arrestati, Ikram si è anche rivolto indirettamente al minore degli Abbas: «Se mi accusa, rivelo dov' è il corpo», ha detto e questa è suonata come la minaccia di compromettere la posizione del principale punto di forza della Procura, in un processo in cui manca il cadavere, l'arma del delitto e non c'è prova che i genitori in Pakistan abbiano ricevuto notifica dell'imputazione.
L'urlo di Saman contro le nozze forzate: "Ho bisogno di aiuto". E spunta un video del padre in Pakistan. Giuseppe Baldessarro e Rosario Di Raimondo su La Repubblica l'1 Ottobre 2022.
Il padre di Saman in Pakistan in un filmato pubblicato da Quarto Grado
Le parole della ragazza nella relazione dei servizi sociali, che poi la trasferirono in comunità: "Voglio studiare, lavorare, prendere la patente". Un filmato riprende il papà Shabbar, latitante, durante una processione religiosa in Pakistan
"Ciao, sono Saman, ho bisogno del tuo aiuto. Ma non dire niente a mio padre". È il 9 novembre del 2020 e da tempo Saman Abbas è una ragazza in fuga. Scrive di nascosto all’assistente sociale che da qualche giorno segue il caso della famiglia pakistana che viveva a Novellara: "Posso incontrarti? Voglio dirti qualcosa.
"Devo sposare un altro cugino". La disperazione di Saman nelle chat. Secondo quanto emerso da una chat tra Saman e il suo fidanzato, sembra che i suoi familiari cercassero in tutti i modi un parente che volesse prendere in sposa la 18enne. Valentina Dardari l'1 Ottobre 2022 su Il Giornale.
I genitori, e altri parenti di Saman Abbas, volevano che lei sposasse a tutti i costi un parente. Un matrimonio, quello con il cugino in Pakistan più grande di lei di una decina d’anni, la ragazza lo aveva già rifiutato. Ma sembra che non si fossero arresi al suo no perentorio e che stessero cercando altri mariti disposti a prenderla in moglie. Nessuno dei quali poteva andare bene alla giovane, innamorata del suo fidanzato, Ayub Saqib, tanto odiato dalla sua famiglia. Questo è quanto emerso dagli atti giudiziari depositati in vista del processo, che avrà inizio il prossimo febbraio, sulla scomparsa di Saman, la 18enne di Novellara scomparsa nel nulla il 30 aprile 2021. Gli imputati, accusati di omicidio, sono i genitori della giovane, il padre Shabbar Abbas e la madre Nazia Shaeen, entrambi latitanti in Pakistan, lo zio Danish Hasnain e i cugini Ikram Ijaz e Nomanulhaq Nomanulahq.
La chat con il fidanzato
Il 20 aprile del 2021, dopo essere tornata a casa in seguito al periodo trascorso in comunità e ai giorni passati con il suo fidanzato, Saman aveva scritto in chat al suo ragazzo. Quel giorno aveva litigato in modo pesante con il cugino Arfan Amjad, che non risulta imputato, e che lavora nella stessa azienda agricola di Novellara in cui lavora il padre di Saman. Avevano discusso a proposito di un altro parente, Ijaz, anche questo un cugino, che aveva chiesto la mano della 18enne.
Nel luglio del 2021 era stato ascoltato durante l’incidente probatorio anche il fidanzato Saqib, il quale aveva raccontato che “il 24 o 25 aprile 2021 Ikram Ijaz aveva chiamato i propri genitori in Pakistan per poter combinare il suo matrimonio con Saman. In questa circostanza Saman si lamentò e Shabbar (suo padre, ndr) decise che il fidanzamento rimaneva quello con il promesso sposo in Pakistan”. Ijaz aveva poi smentito un suo coinvolgimento ma aveva ribadito il fatto che ci fossero in ballo delle nozze combinate.
Il matrimonio combinato dalle due sorelle
Durante una intercettazione avvenuta in carcere il 29 settembre 2021, in occasione di alcuni colloqui con i propri familiari, il cugino aveva detto “che gli era stato chiesto della proposta di matrimonio”, sottolineando che “anche questa era per il fratello piccolo. Ed era una cosa decisa solo dalle sorelle pochi anni fa”, cioè la madre di Saman e quella di Ijaz. Le donne avevano parlato della possibilità di far sposare la 18enne al fratello minore del giovane. Un detenuto che ebbe modo di parlare con Ijaz rese noto che i familiari avevano stretto un giuramento di silenzio sul Corano riguardo il presunto omicidio di Saman. Sembra che anche l’omicidio del fidanzato della ragazza fosse nei piani dei familiari.
Benedetta Fiorini, deputata leghista, chiede la “massima attenzione su ciò che potrebbe ricapitare, ossia che stranieri commettano delitti efferati in nome della loro religione e delle loro tradizioni infischiandosene delle nostre leggi”. La Fiorini ha inoltre affermato che vi sia la necessità di rivedere i “tanti, costosi e inutili progetti relativi alle politiche sull'integrazione affinché la loro presenza arrivi anche nei territori più periferici”. Intanto, l’Unione Comunità islamiche italiane, che si è costituita parte civile nel processo, ha rivolto un appello alle autorità governative pakistane affinché venga conclusa la procedura di estradizione avanzata dal ministro Marta Cartabia per i genitori di Saman.
Saman, il diario tra botte e fughe «Mio padre mi picchia per ogni cosa». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 26 settembre 2022.
Un anno fa, il 17 novembre 2019, sono andata in Pakistan con mio padre e mia madre per restarvi sino al 14 febbraio del 2020. Il 31 dicembre c’è stato il fidanzamento con mio cugino di 29 anni e il matrimonio era previsto il 22 dicembre 2020. A mio padre, appena ho saputo che voleva che mi sposassi con mio cugino, ho detto che non volevo farlo, sia perché lui era troppo grande sia perché non mi piaceva... E lui mi picchiò».
In queste carte contenute in un’ordinanza del Riesame, Saman racconta la sua vita in prima persona. È quasi un diario: davanti a un carabiniere, spiega perché non vuole saperne di quelle nozze. È il 3 febbraio 2021 e da qualche mese questa diciottenne — Italiangirl sul suo account Instagram — era già ospite di un centro protetto. La ragazza — licenza media e il sogno di continuare gli studi — aveva infatti chiesto aiuto ai Servizi sociali di Novellara, il borgo nel Reggiano in cui viveva con la famiglia in un casolare non lontano dal posto in cui venne uccisa, secondo le accuse, dai genitori — Shabbar e Nazia —, dallo zio e da due cugini. Strangolata e smembrata, il corpo non ancora trovato, sotterrato o forse gettato nel Po.
Carattere ribelle, già nell’estate 2019 Saman fuggì in Belgio per stare con un ragazzo conosciuto in chat. Rintracciata dall’Interpol, al rientro fu picchiata da Shabbar che di quella storia non voleva saperne. Intervennero i carabinieri e i Servizi sociali si adoperarono per proteggerla. Il resto viene dalla bocca di Saman. «Anche mio cugino Rukisar era contrario alle nozze. Con mamma insistevo: “Dai, tu sei una mamma, lui è troppo grande per me, anche lui non vuole sposarsi con me...”». La risposta? «Lei diceva che non era una decisione che spettava a me...». E Shabbar? «Le reazioni di mio padre erano violente a livello fisico. Mi picchiava. Una volta, circa cinque mesi fa, ha lanciato un coltello nella mia direzione, non ha colpito me ma il mio fratellino, ferito a una mano. Nonostante perdesse molto sangue e io avessi detto di volerlo accompagnare al Pronto soccorso, nostro padre ha detto che non era possibile e ha chiuso la porta di casa. Era presente anche mia madre che però non ha detto né fatto niente...».
Il «diario» prosegue: «Spesso è capitato che mio padre cacciasse di casa me, mia madre e mio fratello e andava a finire che dormivamo per strada, sul marciapiede. Ci cacciava dicendo: “Questa è casa mia, andate via!”. Lo diceva sia a me che a mia madre». Si comportava così «perché non volevo sposarmi, ma non solo. Lo faceva anche prima. Spesso era ubriaco e mi picchiava per motivi diversi. Mi picchiava perché io volevo andare a scuola e lui era contrario. Infatti io ho finito la terza media facendo l’esame, ma quando gli ho detto che volevo iscrivermi alle superiori lui ha detto no, picchiandomi». Botte «di continuo, prima del fidanzamento con mio cugino, soprattutto quando beveva». E dopo il fidanzamento «anche se non era ubriaco mi picchiava perché io gli dicevo, anche un po’ arrabbiata, che non volevo sposarmi...».
Un paio di mesi dopo la situazione precipita. Saman vede spesso il suo nuovo fidanzato, Ayub Saqib, 23 anni, «conosciuto su Tiktok». Per incontrarlo è scappata più volte dal centro protetto, è stata anche con lui qualche giorno a Roma. Ormai maggiorenne, Saman rivuole i suoi documenti d’identità, sequestrati dal padre. Per questo lo denuncia, il 22 aprile. Ed ecco cosa dice ai carabinieri: «Dieci giorni fa (l’11 aprile, ndr) ho lasciato volontariamente il centro protetto per tornare a casa, senza preavvisare i genitori».
La speranza è che Shabbar le ridia la carta d’identità con le buone ma lui non lo fa e lei, un pomeriggio e di nascosto, si rivolge all’Arma di Novellara. Racconta che «questa mattina i miei hanno parlato con i genitori di mio cugino e hanno deciso che a giugno andremo in Pakistan per le nozze». Poi aggiunge che, pochi mesi prima, Shabbar, stavolta nel suo Paese, si è presentato «a casa dei genitori del mio fidanzato. Era con altri uomini, erano tutti armati con pistole e hanno sparato in aria. In tutto vi erano sei auto che giravano attorno all’abitazione di Saquib». Alla domanda conclusiva dei carabinieri — «ha altro da aggiungere?» — la risposta è stata questa, netta: «Sono disposta a tornare al centro protetto ma non in Pakistan».
La madre di Saman: "Siamo morti. Ma abbiamo dovuto ucciderla". La donna ha ammesso il delitto in una telefonata con il figlio. Redazione il 26 Settembre 2022 su Il Giornale.
«Noi siamo morti sul posto». Sono parole pronunciate da Nazia Shaheen, madre di Saman Abbas, in una conversazione con l'altro figlio, intercettata a fine agosto 2021.
È la prima volta che spuntano le parole della donna, che in questa occasione parla di sé e del marito, Shabbar Abbas. La telefonata è nel maxi faldone del processo per l'omicidio della diciottenne pachistana, che inizierà a febbraio 2023 a Reggio Emilia. Processo che, dopo indagini dei carabinieri e della pm Laura Galli, vede imputati cinque familiari della vittima, i genitori latitanti in Pakistan, due cugini e uno zio arrestati tra Francia e Spagna.
La frase di Nazia Shaheen è estrapolata da una conversazione via whatsapp del 30 agosto 2021. È il fratello minorenne di Saman, ora affidato a una comunità protetta, chiama l'utenza pachistana usata dai genitori, fuggiti in Pakistan il primo maggio, la mattina dopo il presunto omicidio della figlia avvenuto la notte fra il 30 aprile e il primo maggio, sui quali stanno emergendo nuovi dettagli. In primis la «confessione» del padre che ammette di averla uccisa, devastato anche per aver visto che la figlia postava la foto di un bacio con il fidanzato.
Dettaglio emerso in un'altra intercettazione. Il fratello di Saman è uno dei testimoni chiave: sentito in incidente probatorio il 18 giugno 2021, ha accusato i familiari del delitto, in particolare ha indicato lo zio Danish Hasnain come l'esecutore materiale. In questa telefonata il ragazzo chiama e parla con la madre di altri due familiari, non indagati, che secondo lui avrebbero istigato il padre nell'organizzazione dell'omicidio della sorella. Il giovane è arrabbiato nei confronti dello zio e del cugino, ritenendoli responsabili moralmente per la fine di Saman e lasciando trasparire sentimenti di vendetta. La madre cerca invece di calmarlo chiedendogli di «lasciarli stare».
«Quelli che danno consigli storti, con quelli bisogna fare così», dice il ragazzo. La madre replica: «Lasciali stare, mandali dal diavolo». E ancora, il giovane cita una frase riportata di questi familiari «Se era mia figlia, anch'io facevo così con lei. Io non ho dimenticato niente. Li raddrizzerò questi due». A quel punto la madre ribatte: «Tu non sai di lei?» probabilmente riferendosi ai comportamenti di Saman, «Davanti a te a casa... noi siamo morti sul posto, per questo tuo padre è a letto e anche la madre (parla di sé in terza persona, ndr) a letto», «Anche di lei non è che non sai, da costretti è successo quello che è successo, anche tu lo sai, figlio mio non sei bambino, sei giovane anche e comprendi tutte le cose».
E poi in passaggi seguenti. «Tu sei a conoscenza di tutto - dice lei al figlio - pensa a tutte le cose, i messaggi che ci facevi ascoltare la mattina presto, pensa a quei messaggi, pensa e poi dì se i tuoi genitori sono sbagliati». «Ora mi sto pentendo, perché ho detto», risponde il ragazzo. A vedere la foto che condannò a morte Saman fu proprio il fratello,che la mostrò ai familiari, scatenandone l'ira.
"Quelle intercettazioni su Saman...". Il legale dei genitori insiste: "Innocenti". L'avvocato dei genitori di Saman a ilGiornale.it contesta le intercettazioni. E arriva persino a negare l'omicidio: "Finché non vi è il ritrovamento del corpo non c'è certezza". Rosa Scognamiglio il 30 Settembre 2022 su Il Giornale.
"I miei clienti sono presunti non colpevoli". Lo ribadisce con forza l'avvocato Simone Servillo, legale dei genitori di Saman Abbas, la 18enne pakistana scomparsa da Novellara la notte del 30 aprile 2021 in circostanze ritenute sospette dagli inquirenti che indagano sul caso. La Procura di Reggio Emilia ha aperto un fascicolo d'inchiesta con l'ipotesi di reato per sequestro di persona, omicidio e soppressione di cadavere, rinviando a processo cinque familiari della ragazza: il padre e la madre (Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, due cugini (Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq) e uno zio (Danish Hasnain).
Agli atti del procedimento penale, che inizierà il prossimo febbraio, vi sono le intercettazioni dei genitori di Saman. Una in particolare, che riguarda una telefonata intercorsa da Shabbar Abbas e un parente, ha suscitato grande clamore mediatico in questi giorni. "L'ho uccisa io, per il mio onore", sarebbero state le parole pronunciate dal padre della 18enne. Nonostante gli elementi raccolti dagli investigatori (i video della fuga in aeroporto dei coniugi Abbas e alcune chat degli indagati) fugano quasi ogni dubbio sul delitto d'onore, l'avvocato Servillo insiste con la teoria che i genitori della ragazza siano estranei alla vicenda. "Non è stata 'una confessione', così come hanno scritto alcuni giornali - spiega alla nostra redazione il legale riguardo alla intercettazione di Shabbar - Bisogna valutare i fatti e, a oggi, non vi sono elementi che depongano a sfavore dei miei assistiti". E arriva pure a negare l'omicidio: "Finché non vi è il ritrovamento del corpo non c'è certezza".
La corda e il Po: "Così abbiamo ucciso Saman"
Avvocato Servillo, come commenta le ultime, presunte intercettazioni dei genitori di Saman?
"Anzitutto si tratta di stralci di conversazioni, contenuti in un'informativa dei carabinieri, che i miei assistiti avrebbero intrattenuto l'uno (il padre di Saman, ndr) con un familiare e l'altra (la mamma di Saman, ndr) con il fratello minore delle ragazza. Detto ciò, credo che sarebbe opportuno verificare se la traduzione sia corretta dal momento che gli interlocutori potrebbero aver comunicato, a quanto ne sappiamo, anche in un dialetto pakistano".
La frase che sarebbe stata pronunciata da Shabbar Abbas è: "L'ho uccisa io, per il mio onore".
"Quella frase, con cui si stanno riempiendo pagine e pagine di giornali, è un mero virgolettato emerso da un brogliaccio. Bisognerebbe accertare che il parlante fosse realmente Shabbar Abbas e poi valutare il contesto in cui si presume sia stata pronunciata".
Che intende dire?
"Posto sia stato lui a pronunciarla, non si può escludere un'interpretazione diversa da quella che ne ha dato la stampa".
Quale?
"Potrebbe averlo detto in senso figurativo. Del resto, anche la mamma di Saman ha usato un'espressione analoga: 'Siamo morti lì'. Per quale motivo nel caso di Shabbar Abbas dovrebbe trattarsi di 'una confessione' – come ho letto in questi giorni su alcune pagine di cronaca – e nel caso, invece, di Nazia Shaheen vale un'interpretazione alternativa?".
E quindi qual è la chiave di lettura corretta?
"A parer mio queste due presunte intercettazioni, messe a confronto, rafforzano l'ipotesi che i miei assistiti non ne sappiano nulla di questa storia. Nessuno ha parlato di omicidio".
"Mio padre si ubriaca e mi pesta". Il diario di Saman
Ma lei ha parlato con i genitori di Saman?
"No. Ma spero si facciano vivi attraverso gli appelli che rinnovo attraverso i media: non hanno nulla da temere".
E allora perché non tornano in Italia?
"Non vi è la 'prova provata' che siano a conoscenza del processo. Credo non ne sappiano nulla".
Pare che Shabbar sia protetto al suo villaggio e abbia un'altra identità.
"Per quanto mi riguarda, sono solo chiacchiere. Mi scusi, possibile che si sappia dove si trova Shabbar, che avrebbe addirittura cambiato identità, ma che le forze dell'ordine non riescano a trovarlo? Mi sembra piuttosto paradossale".
Si vocifera che abbia conoscenze tali da garantirsi protezione.
"Su quest'uomo sono state dette molte falsità, è stato accostato addirittura agli ambienti della malavita pakistana. Shabbar era un agricoltore e sua moglie una casalinga. Trovo veramente assurdo che siano state fatte certe illazioni".
La madre di Saman: "Siamo morti. Ma abbiamo dovuto ucciderla"
Nella denuncia risalente a pochi mesi prima della scomparsa, Saman descriveva il padre come un "uomo violento". Cosa ne pensa?
"Bisogna distinguere le due cose. Saman aveva sicuramente un rapporto conflittuale con i genitori ma questo esula dalla circostanza del presunto delitto. Il fatto che vi fossero delle tensioni non costituisce di certo la prova di un eventuale coinvolgimento dei miei clienti nella vicenda".
Uno dei due cugini indagati, Ikram Ijaz, avrebbe confidato a un detenuto i dettagli dell'omicidio. Ritiene possa essere un racconto credibile?
"La storia dei processi giudiziari è piena di 'compagni di cella' che, a un certo punto, riportano alla polizia penitenziaria le confidenze ricevute da un detenuto coinvolto in una vicenda di particolare attenzione mediatica. Non credo si tratti di un racconto attendibile. Del resto mi pare che anche gli inquirenti abbiano dei dubbi al riguardo".
Si è parlato anche di un "uomo incappucciato" intervenuto sulla presunta scena del crimine.
"Un motivo in più per ritenere inverosimile questo racconto. Bisogna valutare i fatti e, al momento, non ci sono elementi che depongano a sfavore dei miei assistiti. Anzi: è proprio il contrario".
Che intende?
"Ci sono molti elementi che bisognerà valutare durante il processo. Per certo, i miei clienti sono presunti non colpevoli e credo che in quanto tali debbano essere trattati. I media li hanno già condannati ma non abbiamo nessuna prova, nemmeno del presunto delitto".
E quindi, secondo lei, a Saman cosa è successo?
"Finché non vi è il ritrovamento del corpo, o altri elementi di prova inconfutabile, non possiamo parlare con certezza di omicidio".
Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 25 settembre 2022.
Shabbar il pakistano, il tradizionalista, l'intransigente. Shabbar che sgobba fra i campi di Novellara per mantenere la famiglia, che vola in Pakistan a combinare le nozze di sua figlia Saman con il cugino, che diventa una furia quando lei si fidanza con un altro, Saqib, postando pure la foto di un bacio. Shabbar che urla, minaccia e, alla fine, secondo gli inquirenti, uccide: «L'ho fatto per la mia dignità, per il mio onore», avrebbe confessato al fratellastro in una conversazione intercettata.
Shabbar Abbas ha 46 anni e arriva dal Punjab pachistano, terra di grandi fiumi, di campi di grano e minareti. «E di delitti d'onore», aggiungono gli investigatori che per capirne di più si sono calati nella realtà di quel mondo. E lì, in un villaggio rurale alle porte di Mandi Bahauddin, forte dell'onore e della dignità preservati, Shabbar è tornato con sua moglie Nazia all'indomani del delitto. «Per sempre», ha previsto Danish, il cattivo di casa intercettato e arrestato come esecutore materiale dell'assassinio.
In carcere sono finiti in tre, mentre i genitori di Saman girano liberi, seppur inseguiti da due mandati di cattura internazionali e da una richiesta di estradizione firmata un anno fa dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. «A titolo di cortesia internazionale e con assicurazione di reciprocità per casi analoghi, in considerazione della delicatezza e gravità di questi fatti, si confida che l'autorità estera risponda positivamente e con celerità alla richiesta della Procura», aveva scritto il 13 settembre 2021 Cartabia all'ambasciata d'Italia a Islamabad girando la rogatoria internazionale della procura di Reggio Emilia.
Nel documento, che spunta dagli atti dell'inchiesta, c'è la lista dei testimoni da sentire in Pakistan, primo fra tutti Akmal, il promesso sposo di Saman, e poi vari parenti che sarebbero a conoscenza dei fatti. Risultato? «Non abbiamo ricevuto alcuna risposta», fanno sapere mestamente dalla Farnesina. Le autorità di Islamabad hanno istituito una Commissione per deliberare sul caso che però non ha ancora detto nulla. «Stiamo facendo di tutto perché vengano individuati ed estradati», assicurano in procura a Reggio.
Nel frattempo si è mossa naturalmente l'Interpol. «Da lì però tutto tace... non vogliono prenderli», si limitano a dire da Roma. Che Shabbar e Nazia siano al loro villaggio lo garantiscono i connazionali rientrati da poco a Novellara dal Punjab. A loro dire abitano proprio nella casa di famiglia, protetti da una rete di conoscenze anche a livello di polizia locale e da un'altra identità. «Io non li ho più sentiti e per quanto mi riguarda non so nemmeno se sono a conoscenza del procedimento in corso, visto che non hanno mai ricevuto una notifica - insorge l'avvocato Simone Servillo, loro difensore -. In ogni caso faccio notare che l'Italia sta chiedendo di estradare due cittadini pakistani per metterli in galera in attesa di giudizio. Voglio dire che non mi stupisce la loro resistenza».
«Io penso invece che il Pakistan dovrebbe fare molto di più, dalle intercettazioni emerge con certezza il coinvolgimento dei genitori in questa vicenda», replica l'avvocato Claudio Falleti che assiste Saqib, il fidanzatino di Saman. Un botta e risposta nel quale si è inserito il Presidente della Federazione pakistana in Italia, Raza Asif: «Alla base dell'uccisione di Saman c'è una mentalità retrograda che riguarda tutta la sua famiglia. Se il padre fosse veramente colpevole, auspico per lui una pena severa». Insomma, è già battaglia giudiziaria. Sulla quale grava un problema di fondo: la diversa sensibilità dei due Paesi rispetto a questo reato.
Nonostante nel 2016 il Pakistan si sia dato una legge che proibisce il delitto d'onore, nelle aree periferiche e rurali sopravvive con forza. La chiamano «kala kili» ed è la legge non scritta che punisce le donne colpevoli di aver disonorato la famiglia. «La tradizione arcaica del delitto d'onore, vecchia migliaia di anni, è stata esportata nei luoghi di emigrazione. Sono considerati inaccettabili i rapporti sessuali prematrimoniali o extraconiugali o rapporti con ragazzi non approvati dalla famiglia», scrivono nell'informativa conclusiva gli uomini del Reparto investigativo di Reggio Emilia, che sul punto hanno incrociato i dossier dei Paesi occidentali nei quali la comunità pakistana è più numerosa.
«Le donne possono essere anche fatte a pezzi con un'ascia, sfregiate con l'acido, uccise con armi da fuoco. E poi seppellite o gettate nel fiume». E Saman pare sia stata strangolata, qualcuno dice fatta a pezzi e buttata nel Po. Dopo la scomparsa, dal suo villaggio del Punjab, Shabbar l'aveva messa così: «È viva, l'ho sentita, si trova in Belgio».
Da Ansa il 23 settembre 2022.
Poco più di un mese dopo la scomparsa di Saman, il padre confessò il delitto durante una telefonata a un parente in Italia. "Ho ucciso mia figlia", diceva Shabbar Abbas l'8 giugno 2021, quando ormai era fuggito in Pakistan. La conversazione è agli atti del processo che inizierà a febbraio a carico dei familiari della diciottenne sparita dalla notte del 30 aprile 2021 da Novellara e che gli inquirenti, Procura e carabinieri di Reggio Emilia, sono sicuri sia stata assassinata, perché rifiutava di sposare un cugino in patria e voleva andarsene di casa.
Il 10 febbraio 2023 andranno a processo a Reggio Emilia i tre familiari di Saman arrestati all'estero, Francia e Spagna, nei mesi scorsi: lo zio Danish Hasnain e i due cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq, oltre ai genitori, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, entrambi ancora latitanti in Pakistan. "Per me la dignità degli altri non è più importante della mia (...) - diceva Shabbar al parente nella telefonata intercettata - Io ho lasciato mio figlio in Italia (il fratello minorenne di Saman ora affidato a una comunità protetta, ndr). Ho ucciso mia figlia e sono venuto, non me ne frega nulla di nessuno".
Lo stesso familiare, sentito dai carabinieri il 25 giugno di quell'anno, ha riferito che il padre di Saman lo aveva chiamato per intimargli di non parlare di lui. "Io sono già rovinato - le parole di Abbas nel racconto del parente - avete parlato di me in giro, non lascerò in pace la vostra famiglia". E ancora: "Io sono già morto, l'ho uccisa io, l'ho uccisa per la mia dignità e per il mio onore. Noi l'abbiamo uccisa", senza fare nomi specifici, ma intendendo con 'noi', ha spiegato sempre il parente ai carabinieri, il contesto familiare.
Saman Abbas, l'intercettazione choc del padre: “L'ho uccisa io”. I motivi. Il Tempo il 23 settembre 2022
Nuova svolta sul caso di Saman Abbas. Era già in Pakistan con la moglie, ma parlando al telefono con un parente avrebbe ammesso di aver ucciso la figlia Saman per tutelare la «dignità» e l’«onore» della famiglia. È quanto emerge dalle indagini della procura di Reggio Emilia, guidata dal procuratore Calogero Gaetano Paci, sulla morte della 18enne che abitava a a Novellara, ma che dalla notte del 30 aprile non aveva fatto più avere notizie di sé. Dopo poco più di un mese, l’8 giugno 2021, il padre parlando con un parente avrebbe ammesso la responsabilità dell’omicidio. «Ho ucciso mia figlia», avrebbe detto l’uomo spiegando che la decisione dolorosa di portare a termine quel gesto così estremo era stata condivisa dagli altri parenti. E che si era resa necessaria per tutelare «la dignità» e «l’onore» degli Abbas dopo che la figlia aveva rifiutato di sposare un cugino in Pakistan. Le nozze, fortemente volute dal padre, erano già state fissate per il 22 dicembre e i biglietti aerei per Karachi erano già stati acquistati per il 17 dicembre.
Saman, invece, a fine ottobre aveva mandato all’aria tutto. Si era rivolta ai Servizi sociali di Novellara per chiedere un aiuto. Ed era stato immediatamente disposto il suo trasferimento in un centro protetto nel Bolognese. L’11 aprile 2021 Saman aveva però lasciato volontariamente il centro e si era recata a casa per recuperare i suoi documenti. I genitori si erano rifiutati di consegnarglieli e la ragazza era tornata nella cascina di famiglia una manciata di giorni dopo, il 30 aprile. Temeva per la sua vita e lo aveva scritto al fidanzato 21enne, anche lui pakistano, che aveva conosciuto sui social. «Se non hai mie notizie per 48 ore, avverti i carabinieri», gli aveva detto al 18enne.
Per i carabinieri, guidati dal maggiore Maurizio Pallante, ci sono pochi dubbi sul fatto che Saman sia stata uccisa dai familiari, anche se il suo corpo non è mai stato ritrovato. Le indagini nei confronti dello zio di Saman, Danish Hasnain, dei cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq, arrestati in Francia e in Spagna, e dei genitori, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, entrambi ancora latitanti in Pakistan si sono chiuse nel mese di maggio. L’intercettazione è depositata agli atti del processo sull’omicidio della ragazza, che si aprirà il prossimo 10 febbraio a Reggio Emilia. La diffusione dell’intercettazione ha indignato l’avvocato Simone Servillo, difensore del padre della 18enne. «È vergognoso far uscire dei virgolettati relativi ad una vicenda così delicata, che non confermo e che possono essere facilmente fraintendibili, anche perché entrambi gli interlocutori non parlavano in italiano», ha detto il legale a LaPresse. «Le intercettazioni - ricorda l’avvocato - spesso si prestano a fraintendimenti e spesso nella nostra storia processuale italiana non sono poi risultate attendibili, portando a cantonate colossali».
Il fidanzato di Saman Abbas: «La nostra ultima chat prima che sparisse, le dissi: “Cancella tutto”». Alessandro Fulloni e Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 24 Settembre 2022.
Ayub Saquib oggi ha 23 anni e vive sotto protezione nel Nord Italia: «Il padre di lei è un uomo pericoloso legato alla mafia pachistana», aveva minacciato anche la sua famiglia
Storia d’amore tratta da un verbale giudiziario. L’approccio su TikTok, nell’agosto 2020, poi le telefonate, il primo incontro a Bologna — il 17 febbraio successivo — e ad aprile una vacanza a Roma. Ayub Saquib, che oggi ha 23 anni e vive in un posto imprecisato nel Nord Italia, ancora sotto la protezione delle forze dell’ordine, era il fidanzato di Saman . Un ragazzo coraggioso: per amore di lei ha sfidato l’ira di Shabbar Abbas, il padre della diciottenne, «un uomo pericoloso, legato alla mafia pachistana». Di quella relazione con sua figlia l’uomo non voleva saperne tanto da andare in Pakistan per «minacciare» i genitori di Ayub intimoriti così: «Se vostro figlio non lascia Saman sterminiamo tutta la famiglia».
Di quel bacio a Bologna — ritratto in una foto su Instagram che ricorda tanto le atmosfere dipinte da Hayez — ora il giovane, anche lui parte civile al processo, non vuole parlare. Chiede «riservatezza» dice Claudio Falleti, l’avvocato che lo assiste e che adesso ragiona a voce alta: «In un bacio tra due ragazzi non c’è nulla di male, il problema è contestualizzarlo in una mentalità arcaica come quella del clan Abbas. Non è stato quello l’evento che ha portato a ciò che poi è accaduto...».
Ascoltato dagli inquirenti, Ayub ha raccontato di quelle chat con Saman — rientrata a casa dopo la fuga dal centro protetto solo per prendere il suo passaporto nascosto da Shabbar — nelle ore precedenti il presunto omicidio.
Per comunicare con lui, lei usa di nascosto il cellulare della madre. È terrorizzata dallo «zio Danish che ha già ucciso in Pakistan», resta allibita quando la madre Nazia riceve un messaggio da tale «zio Mamu» «che indica di uccidere Saman». Ayub, preoccupatissimo, la consiglia: «Cancella tutto». La chat termina alle 23.22 del 30 aprile e il 4 maggio il giovane va dai carabinieri a denunciare la scomparsa di Saman.
Filippo Fiorini per “la Stampa” il 26 settembre 2022.
Saquib risponde al telefono e quando capisce che si parla di Saman, sente tornare la paura. Le parole gli diventano mugugni, forse perché nel 2020 Shabbar Abbas, padre della diciottenne uccisa la notte del 30 aprile 2021 a Novellara, andò personalmente a casa dei suoi genitori in Pakistan accompagnato da altri uomini. Sparò in aria e intimò loro di ordinare al ragazzo di rompere i rapporti che lui e Saman intrattenevano in Italia, disobbedendo al matrimonio combinato con un cugino di dieci anni più vecchio, che lei non amava.
Se gli si legge la frase «noi siamo morti in quel momento», che Nazia Shaheen, madre di Saman, ha scritto in chat con il figlio minore, in riferimento all'attimo in cui lei e il marito Shabbar l'hanno consegnata con l'inganno nelle mani dei cugini e dello zio affinché l'uccidessero, dice: «Ci aveva fatto credere di approvare la nostra relazione», poi riattacca. Lui si è rifatto una vita, si è sposato, ma la sua famiglia è ancora in Pakistan, così come anche Shabbar e Nazia, latitanti dall'indomani del delitto e mai dichiaratisi colpevoli.
Nelle carte che preparano il processo per l'omicidio di una giovane che si era ribellata a un'autorità famigliare guidata dai dettami dell'Islam più intransigente (esercitata da padre e zio, con la complicità di ciascuno degli altri membri del nucleo), la frase che Saquib ha detto al telefono compare in forma più estesa: «Devi dire a Saman di tornare a casa, così che tutti insieme possiamo andare in Pakistan per il vostro matrimonio», gli disse Nazia.
Nelle stesse carte, c'è anche il messaggio whatsapp in cui la donna scrive al figlio oggi affidato a una comunità protetta, che lei e il marito sarebbero spiritualmente morti nell'attimo del delitto. Dai documenti, emerge come entrambi (madre e figlio), in combutta col resto dei parenti, si siano adoperati per mesi allo scopo di riportare Saman nei canoni del loro stile di vita: donne in casa e uomini al lavoro, saltuariamente, ubriachi molesti (il riferimento, dalle carte, è al padre Shabbar).
Per farlo, Nazia e il ragazzo tuttora minorenne hanno ripetutamente fatto ricorso alla persuasione a alle menzogne, mentre gli altri (Shabbar Abbas, Ikram Ijaz, Noumanoulhaq, Noumanoulhaq, considerati complici, e Danish Hasnain, esecutore materiale) usavano anche le minacce: prima priva di una scheda sim e poi priva di un cellulare, Saman chiedeva l'hotspot dati e il telefono al fratellino, che di nascosto faceva da ponte con i restanti membri del clan per mostrare quello che loro consideravano uno scandalo.
Per esempio, la foto di una sera trascorsa con due passi in centro a Bologna e un bacio per strada. Per questo, Saquib, interrogato, disse ai Carabinieri di Reggio Emilia di non fidarsi del fratello minore della fidanzata e riferì che Saman gli aveva detto di non fidarsi di sua madre Nazia.
Gli ultimi tranelli che la donna ha teso alla figlia, precedono di poco la notte in cui la mandò a morire. Tornata a Novellara il 20 aprile per recuperare il proprio permesso di soggiorno (sequestratole dal padre), Saman lesse un messaggio sul cellulare della madre in cui un'utenza salvata come «Zio Mamu», le diceva: «L'unica soluzione è ucciderla». Messa davanti al fatto, Nazia tentò inutilmente di tranquillizzarla dicendole che si parlava di un'altra ragazza.
In tutti gli 11 giorni trascorsi presso l'azienda agricola in cui gli Abbas vivevano, Saman è stata ripresa dalle telecamere di sicurezza vestendo sempre abiti tradizionali. Tutti, tranne l'ultimo, in cui aveva un giubbotto di pelle e un paio di jeans. Il motivo è che, dopo l'ennesima lite, i genitori le avevano fatto credere di potersene andare definitivamente. Si offrirono anche di accompagnarla in stazione, invece la portarono tra le serre dove zio e cugini l'attendevano per immobilizzarla e strangolarla.
Scoppiata a piangere e rientrata a casa prima dell'esecuzione, Nazia non ha mai espresso esplicitamente pentimento e non lo fece nemmeno nella chat col figlio: «Pensa a tutte le cose, pensa ai messaggi che ci facevi ascoltare e poi chiediti se i tuoi genitori hanno sbagliato», gli scrive quando lui protesta per l'intervento di altri due parenti nel decidere la morte di Saman e promette di «fargliela pagare». Questo adolescente sarebbe poi fuggito con zio e cugini e, da quando è stato catturato, è il principale teste dell'accusa.
Saman, l’intercettazione del padre: «L’ho uccisa per il mio onore». Alessandro Fulloni e Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 24 Settembre 2022.
Reggio Emilia, la telefonata a un parente nel giugno del 2021. La conversazione agli atti del processo che comincerà a febbraio a carico dei familiari della ragazza.
«L’ho uccisa io, l’ho uccisa per la mia dignità, per il mio onore». Ore 15.32 del 6 giugno 2021. Shabbar Abbas, il padre di Saman, la diciottenne pachistana scomparsa nel nulla — sarebbe stata strangolata dai familiari, secondo le accuse dei carabinieri — qualche giorno prima, nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio a Novellara, nella Bassa reggiana, viene intercettato al telefono mentre discute animatamente, minacciandolo e insultandolo, con il fratellastro in Italia, Zaman Fahkar.
Al cellulare grida: «Quando tu bevi cominci a sparlare!... Chi è quel bastardo, quel figlio di cagna che parla delle mie cose?». Abbas urla da una località nel Punjab, regione del suo Paese raggiunta dopo la fuga precipitosa da Malpensa, con la moglie Nazia, poche ore dopo — stando alle accuse — aver commesso il delitto. L’uccisione di Saman — contraria a quelle nozze combinate dai genitori con un cugino più vecchio — era stata premeditata, «ordinata» forse in Pakistan da un «jirga», il consiglio degli anziani preoccupato dal comportamento ribelle della ragazza stufa della segregazione in casa e che su Instagram usava questo nick eloquente: «italiangirl».
Suo padre — con l’utenza controllata perché già indagato con Nazia, l’altro fratello di lui Danish Hasnain e due cugini della giovane, Nomanulhaq Nomanulhaq e Ikram Ijiaz (questi ultimi tre in carcere) — al telefono perde le staffe: «Per me la dignità degli altri non è più importante della mia, non mi importa nulla degli altri, non li guardo in faccia... ». E ancora: «Io sono già morto, avete parlato di me in giro, non lascerò in pace la vostra famiglia. Ho ucciso mia figlia e ho lasciato mio figlio in Italia», grida riferendosi al fatto che — dopo aver comperato i biglietti aerei per sé e per Nazia — non ha esitato ad abbandonare il figlio, allora tredicenne, a Novellara, facilitandosi la fuga.
Poi interrogato, Fahkr racconta che il 1° maggio Nazia lo chiama dal Qatar, dove fa scalo. Lui le chiede perché non gli avessero detto nulla della partenza, ma lei tace. Poi, quando apprende che tutto il clan Abbas è sparito, capisce «che a Saman è successo qualcosa di grave». Chiede in giro e fa infuriare Shabbar, che lo viene a sapere. Sui genitori pende un mandato di arresto internazionale inoltrato dalla Farnesina alle autorità pachistane, che hanno istituito una commissione per deliberare sul rilascio. L’avvocato degli Abbas, Simone Servillo, che non ha mai sentito la coppia, non ci sta: «Dagli stralci non si ricava nulla, quella non è una confessione». Il processo ai cinque inizierà il 10 febbraio.
A. Full. A. Pasq. per il “Corriere della Sera” il 24 settembre 2022.
Storia d'amore tratta da un verbale giudiziario. L'approccio su TikTok, nell'agosto 2020, poi le telefonate, il primo incontro a Bologna - il 17 febbraio successivo - e ad aprile una vacanza a Roma. Ayub Saquib, che oggi ha 23 anni e vive in un posto imprecisato nel Nord Italia, ancora sotto la protezione delle forze dell'ordine, era il fidanzato di Saman. Un ragazzo coraggioso: per amore di lei ha sfidato l'ira di Shabbar Abbas, il padre della diciottenne, «un uomo pericoloso, legato alla mafia pachistana».
Di quella relazione con sua figlia l'uomo non voleva saperne tanto da andare in Pakistan per «minacciare» i genitori di Ayub intimoriti così: «Se vostro figlio non lascia Saman sterminiamo tutta la famiglia». Di quel bacio a Bologna - ritratto in una foto su Instagram che ricorda tanto le atmosfere dipinte da Hayez - ora il giovane, anche lui parte civile al processo, non vuole parlare. Chiede «riservatezza» dice Claudio Falleti, l'avvocato che lo assiste e che adesso ragiona a voce alta: «In un bacio tra due ragazzi non c'è nulla di male, il problema è contestualizzarlo in una mentalità arcaica come quella del clan Abbas. Non è stato quello l'evento che ha portato a ciò che poi è accaduto...».
Ascoltato dagli inquirenti, Ayub ha raccontato di quelle chat con Saman - rientrata a casa dopo la fuga dal centro protetto solo per prendere il suo passaporto nascosto da Shabbar - nelle ore precedenti il presunto omicidio. Per comunicare con lui, lei usa di nascosto il cellulare della madre. È terrorizzata dallo «zio Danish che ha già ucciso in Pakistan», resta allibita quando la madre Nazia riceve un messaggio da tale «zio Mamu» «che indica di uccidere Saman». Ayub, preoccupatissimo, la consiglia: «Cancella tutto». La chat termina alle 23.22 del 30 aprile e il 4 maggio il giovane va dai carabinieri a denunciare la scomparsa di Saman.
Caso Saman Abbas, così il padre sfugge a tutti in Pakistan: «Una nuova identità e protetto dalla polizia». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 25 settembre 2022.
Shabbar Abbas è nel Punjab con la moglie, libero ma inseguito da un mandato d’arresto internazionale per l’omicidio della figlia. La Farnesina: non collaborano. Il problema del «delitto d’onore» e il kala kili
Shabbar il pakistano, il tradizionalista, l’intransigente. Shabbar che sgobba fra i campi di Novellara per mantenere la famiglia, che vola in Pakistan a combinare le nozze di sua figlia Saman con il cugino, che diventa una furia quando lei si fidanza con un altro, Saqib, postando pure la foto di un bacio. Shabbar che urla, minaccia e, alla fine, secondo gli inquirenti, uccide: «L’ho fatto per la mia dignità, per il mio onore», avrebbe confessato al fratellastro in una conversazione intercettata.
Terra di delitti d’onore
Shabbar Abbas ha 46 anni e arriva dal Punjab pachistano, terra di grandi fiumi, di campi di grano e minareti. «E di delitti d’onore», aggiungono gli investigatori che per capirne di più si sono calati nella realtà di quel mondo. E lì, in un villaggio rurale alle porte di Mandi Bahauddin, forte dell’onore e della dignità preservati, Shabbar è tornato con sua moglie Nazia all’indomani del delitto. «Per sempre», ha previsto Danish, il cattivo di casa intercettato e arrestato come esecutore materiale dell’assassinio. In carcere sono finiti in tre, mentre i genitori di Saman girano liberi, seppur inseguiti da due mandati di cattura internazionali e da una richiesta di estradizione firmata un anno fa dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia.
Promesso sposo e testimone
«A titolo di cortesia internazionale e con assicurazione di reciprocità per casi analoghi, in considerazione della delicatezza e gravità di questi fatti, si confida che l’autorità estera risponda positivamente e con celerità alla richiesta della Procura», aveva scritto il 13 settembre 2021 Cartabia all’ambasciata d’Italia a Islamabad girando la rogatoria internazionale della procura di Reggio Emilia. Nel documento, che spunta dagli atti dell’inchiesta, c’è la lista dei testimoni da sentire in Pakistan, primo fra tutti Akmal, il promesso sposo di Saman, e poi vari parenti che sarebbero a conoscenza dei fatti. Risultato? «Non abbiamo ricevuto alcuna risposta», fanno sapere mestamente dalla Farnesina. Le autorità di Islamabad hanno istituito una Commissione per deliberare sul caso che però non ha ancora detto nulla. Nel frattempo si è mossa naturalmente l’Interpol. «Tutto tace. Sapranno certamente dove si trovano gli Abbas ma non vogliono prenderli», si limitano a dire da Roma. Mentre la procura di Reggio assicura che sta facendo tutto il possibile per arrivare all’individuazione e all’estradizione.
La rete di conoscenze
Che Shabbar e Nazia siano al loro villaggio lo garantiscono i connazionali rientrati da poco a Novellara dal Punjab. A loro dire abitano proprio nella casa di famiglia, protetti da una rete di conoscenze anche a livello di polizia locale e da un’altra identità. «Io non li ho più sentiti e per quanto mi riguarda non so nemmeno se sono a conoscenza del procedimento in corso, visto che non hanno mai ricevuto una notifica — insorge l’avvocato Simone Servillo, loro difensore —. In ogni caso faccio notare che l’Italia sta chiedendo di estradare due cittadini pakistani per metterli in galera in attesa di giudizio. Voglio dire che non mi stupisco della loro resistenza». «Io penso invece che il Pakistan dovrebbe fare molto di più, dalle intercettazioni emerge con certezza il coinvolgimento dei genitori in questa vicenda», replica l’avvocato Claudio Falleti che assiste Saqib, il fidanzatino di Saman. Un botta e risposta nel quale si è inserito il Presidente della Federazione pakistana in Italia, Raza Asif: «Alla base dell’uccisione di Saman c’è una mentalità retrograda che riguarda tutta la sua famiglia, incapace di vivere in una società civile. Se il padre fosse veramente colpevole, auspico per lui una pena severa».
La legge del kala kili
Insomma, è già battaglia giudiziaria. Sulla quale grava un problema di fondo: la diversa sensibilità dei due Paesi rispetto a questo reato. Nonostante nel 2016 il Pakistan si sia dato una legge che proibisce il delitto d’onore, nelle aree periferiche e rurali sopravvive con forza. Lì, in quell’area, lo chiamano «kala kili» ed è la legge non scritta che punisce le donne colpevoli di aver disonorato la famiglia. «La tradizione arcaica del delitto d’onore, vecchia migliaia di anni, è stata esportata nei luoghi di emigrazione. Sono considerati inaccettabili i rapporti sessuali prematrimoniali o extraconiugali o rapporti con ragazzi non approvati dalla famiglia», scrivono nell’informativa conclusiva gli uomini del Reparto investigativo di Reggio Emilia, che sul punto hanno incrociato i dossier dei Paesi occidentali nei quali la comunità pakistana è più numerosa. «Le donne possono essere anche fatte a pezzi con un’ascia, sfregiate con l’acido, uccise con armi da fuoco. E poi seppellite o gettate nel fiume». E Saman pare sia stata strangolata, qualcuno dice fatta a pezzi e buttata nel Po.
Dopo la scomparsa, dal suo villaggio del Punjab, Shabbar l’aveva messa così: «È viva, l’ho sentita, si trova in Belgio».
Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 24 settembre 2022.
Arfan sapeva tutto di sua cugina Saman: il matrimonio combinato con Akmal in Pakistan, il rifiuto di sposarlo, la fuga in Belgio, il fidanzamento a Bologna con Saqib osteggiato dalla famiglia. «Penso sia stata uccisa per evitare che scappasse un'altra volta», ha sospirato davanti agli inquirenti qualche settimana dopo la scomparsa, nel maggio dello scorso anno.
È stato lui, Arfan Amjad detto Irfan, a raccontare molti retroscena della tragica vicenda della giovane pachistana, come emerge dalla corposa informativa e dagli allegati che i carabinieri di Reggio Emilia hanno consegnato lo scorso 22 marzo in Procura come atto conclusivo della loro indagine. Arfan parla della rabbia del padre di Saman, Shabbar, per quella relazione con Saqib. Soprattutto dopo aver visto la foto in cui i due si baciavano dolcemente per le vie di Bologna. Un momento di intimità postato dalla ragazza su Instagram tra la fine del 2020 e l'inizio del 2021. «I post di Saman venivano visualizzati dal fratello Haider (diventerà il supertestimone del delitto, ndr) che non perdeva occasione di condividerli o mostrarli sia ai genitori che ai connazionali conviventi, come Arfan», scrivono gli investigatori. Sarebbe stata quella la prima scintilla del delitto.
La reazione è stata infatti dura e immediata. «Una volta venuto a conoscenza del rapporto, Shabbar è volato in Pakistan a casa dei genitori di Saqib minacciandoli pesantemente e chiedendo di interrompere tutto perché Saman era stata promessa sposa all'altro pachistano (che lei non voleva), pena l'uccisione di tutti i membri della famiglia».
Ma passano i mesi e i ragazzi non ci pensano proprio a lasciarsi. «Shabbar e Danish (lo zio) parlavano allora dell'uccisione di Saman», ha precisato Arfan. Ma è stata la stessa ragazza a captare una chiacchierata sul come farla fuori: «L'ho sentito con le mie orecchie, ti giuro che stavano parlando di me...», ha scritto allarmata al fidanzato alle 23.30 del 30 aprile, il giorno prima della scomparsa.
A conferma del fatto che quella settimana primaverile era stata molto particolare per la famiglia Abbas, il cugino racconta una stranezza: l'acquisto, datato 28 aprile, di un biglietto di sola andata per il Pakistan a nome di Nazia per un volo del 1° maggio. «L'avevo preso io (Danish aveva preso quello di Shabbar), non era mai successo che partissero da un momento all'altro».
Dopo la sparizione, i depistaggi. «Mia figlia Saman è viva, l'ho sentita l'altro ieri. Il 10 giugno torno in Italia e spiego tutto ai carabinieri», aveva detto il padre al Resto del Carlino dal Pakistan. Non è più tornato. Il 6 maggio era stato il cugino Noumanoulahq (poi arrestato) a provarci. Al lavoro aveva preso in disparte Arfan e glielo aveva detto chiaro: «Se Bartoli (il proprietario dell'azienda) ti chiede qualcosa digli che siamo andati a Milano in ambasciata», mentre erano rimasti tutti casa. Ma è l'intera famiglia a muoversi come un clan nel tentativo di precostituire un alibi ai genitori. Fin dal primo giorno. Alle 23.26 del 1° maggio il fratello di Saman, Haider, riceve questo messaggio vocale dalla zia Batool: «Qualsiasi persona ti chieda qualcosa, figlio mio, devi dire che la mamma stava male e il papà l'ha portata in Pakistan. Non devi dire nient' altro. Anche nella tua testa dev'essere così».
I protagonisti di questa brutta storia lasciano indizi un po' ovunque. Dall'analisi del telefonino di zio Danish, secondo gli investigatori il cattivo del gruppo, emerge una lunga chat del 5 maggio 2021 con sua moglie che si trova in Pakistan: «I genitori domattina arriveranno». «Perché stanno arrivando?». «Stanno andando per sempre in Pakistan». «La gente si chiederà dove sono i figli di Shabbar». «Cancella tutta la chat». «È cancellata». «Abbiamo fatto un lavoro molto bene perciò non preoccuparti».
«L'ha presa Danish» La testimonianza choc è del fratello Haider: «Zio Fahkar e Arfan hanno convinto i miei genitori che Saman doveva essere uccisa per i suoi comportamenti. Aveva avuto un fidanzato in Belgio e poi un ragazzo pachistano di nome Saqib che vive vicino a Roma. Dovevano ucciderla prima che scappasse di casa e dovevano farla a pezzi e Arfan mi aveva detto che lui poteva portarla a Guastalla per gettarla nel fiume...
All'omicidio hanno partecipato zio Danish e altre due persone. Lo zio ha detto: "Ci penso io, eh... voi andate via...". L'ho visto portare via Saman mettendole una mano sulla bocca e una volta rientrato l'ho sentito dire: "L'ho uccisa, non dire niente ai carabinieri"». Haider ha invece raccontato tutto e per Danish e gli altri si sono aperte le porte del carcere. Solo i genitori sono sfuggiti alla cattura.
Da repubblica.it il 24 settembre 2022.
Saman tenuta ferma dai cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq, così da permettere allo zio Danish Hasnain di strangolarla con una corda. La madre, Nazia Shaheen, in preda a una crisi di pianto, allontanata dal marito, Shabbar Abbas. Il contributo di un uomo misterioso che avrebbe aiutato a finirla, infilare il corpo in un sacco, caricarlo su una bici e poi, dopo averlo fatto a pezzi, gettarlo nel Po. Sarebbero le fasi del delitto raccontate da uno degli indagati, Ijaz, a un altro detenuto, che a sua volta lo ha riferito alla polizia penitenziaria. Dichiarazioni che per i carabinieri di Reggio Emilia sono credibili solo in parte.
Le confidenze di Ijaz, arrestato su un autobus in Francia il 31 maggio 2021 - il primo ad essere catturato - sono state fatte in due occasioni e riassunte in annotazioni del 20 e del 29 ottobre di quell'anno. Mentre nel primo caso, in cui il cugino della diciottenne pachistana aveva riferito di non aver preso parte all'omicidio commesso dai parenti, ma di esserne a conoscenza da Nomanhulaq, ci sarebbero elementi non veritieri e depistanti, il secondo racconto è per gli investigatori più realistico, seppur con punti ritenuti fantasiosi. Forse si sarebbe corretto, anche dopo aver letto gli atti del fascicolo giudiziario, nel frattempo tradotti, per aderire il più possibile agli elementi in possesso degli inquirenti così da essere più credibile.
Nel racconto annotato il 29 ottobre Ijaz dice che l'omicidio è stato organizzato dai genitori, in particolare dal padre che non riusciva più a gestire la figlia. La sera del 30 aprile Shabbar avrebbe chiesto alla moglie di fare una camminata con Saman nelle vicinanze della loro casa di Novellara. Lui le avrebbe seguite da vicino e una volta superate le serre - non è chiaro quali visto che nella zona ce ne sono diverse - le due sarebbero state raggiunte dallo zio Danish, dallo stesso Ijaz e dall'altro cugino Nomanhulaq.
Avrebbero bloccato mani e piedi alla ragazza e la madre a quel punto avrebbe iniziato a piangere e così il marito l'avrebbe allontanata. Danish avrebbe strangolato la ragazza con una corda e il padre avrebbe chiamato un altro uomo, con il volto coperto da un passamontagna, che li avrebbe raggiunti in poco tempo, probabilmente già preallertato, e che avrebbe preso le redini delle operazioni. Ijaz ha sostenuto che lui e il padre sarebbero tornati indietro, mentre il personaggio misterioso, Danish e Nomanhulaq si sarebbero occupati di trasportare il corpo verso il fiume, in sella a una bici.
"Condanniamo questo efferato omicidio che ha molto scosso la comunità pakistana in Italia senza se e senza ma. Alla base dell'uccisione di Saman c'è una mentalità retrograda che riguarda tutta la sua famiglia che non ha imparato a vivere in una società civile. Auspico, se il padre fosse veramente colpevole, una pena severa per lui". Lo dice all'Adnkronos Raza Asif, Presidente della Federazione Pakistana in Italia
Il bacio postato sui social che ha condannato Saman. L'intercettazione del padre della 18enne pakistana. La colpa? Un bacio al fidanzato. Maria Sorbi il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.
«L'ho uccisa io. L'ho fatto per il mio onore». Non sa di essere intercettato Shabbar Abbas, il padre di Saman, quando pronuncia a non ci sono più tracce è passato poco più di un mese. E lui si sfoga, senza più filtri: «Per me la dignità degli altri non è più importante della mia».
Quella conversazione è agli atti del processo per omicidio che comincerà a febbraio. Così come agli atti è la foto da cui è scaturita la rabbia omicida contro la ragazza diciottenne: la foto di un bacio scambiato con il fidanzato per le vie di Bologna, un normale momento di intimità tra due giovani postato su Istagram. Quello scatto non fu tollerato non solo dal padre, ma nemmeno dai parenti. In cinque andranno a processo: i genitori, ancora latitanti in Pakistan, lo zio (che finora è stato il principale indiziato) e due cugini, arrestati nei mesi scorsi tra Francia e Spagna.
Saman è sparita dalla notte tra il 30 aprile 2021 e il primo maggio, quando si allontanò dalla sua casa di Novellara, nel Reggiano. Gli investigatori, i carabinieri e la Procura di Reggio Emilia, sono sicuri che Saman sia stata uccisa e che il suo corpo, a lungo cercato senza esito nelle campagne e tra le serre della Bassa, sia stato fatto sparire, probabilmente dopo essere stato smembrato. A sostegno dell'ipotesi accusatoria ora c'è anche l'intercettazione del padre, fuggito in Pakistan lasciando in Italia il figlio minore (ora affidato a una comunità protetta). «Ho ucciso mia figlia e sono venuto, non me ne frega nulla di nessuno» dice Shabbar a un familiare. Lo stesso parente della telefonata, sentito dai carabinieri il 25 giugno 2021, ha dato un ulteriore riscontro, quando ha riferito che in effetti il padre di Saman lo aveva chiamato per intimargli di non parlare di lui: «Io sono già rovinato - le parole di Abbas nel racconto del parente - avete parlato di me in giro, non lascerò in pace la vostra famiglia». E ancora, sempre Shabbar: «Io sono già morto, l'ho uccisa io, l'ho uccisa per la mia dignità e per il mio onore. Noi l'abbiamo uccisa», senza fare nomi specifici, ma intendendo con «noi» ha spiegato lo stesso parente ai carabinieri, il contesto familiare. La confessione, seppur in una conversazione intercettata, è una novità. I tre parenti di Saman arrestati, lo zio Danish Hasnain, considerato l'esecutore materiale dell'omicidio, e i due cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq, suoi complici, fin qui hanno infatti detto di non c'entrare nulla con la scomparsa della ragazza. Mentre i genitori partirono in aereo per il Pakistan il primo maggio, i tre fuggirono insieme verso la Francia tra il 10 e l'11.
Attraversarono il confine in un camion e una volta arrivati a Marsiglia presero un treno per Parigi, dove arrivarono in serata. Qui si divisero: Nomanhulaq andò a Barcellona, dove poi venne preso, ultimo in ordine di tempo, a febbraio 2022. Ikram il 21 maggio fu fermato a pochi chilometri dal confine franco-spagnolo, su un bus. Hasnain è stato raggiunto dalle forze dell'ordine alla periferia di Parigi il 22 settembre 2021.
Secondo i carabinieri, coordinati dalla pm Laura Galli, i tre programmarono ed eseguirono il delitto, di concerto con i genitori. L'obiettivo del gruppo era punire una ragazza che non voleva vivere secondo i dettami tradizionali, che era già scappata, si era rifiutata di sposare un parente in patria con un matrimonio combinato e che ora voleva andarsene di nuovo dopo aver intrapreso una relazione con un giovane connazionale.
"Saman strangolata poi buttata a pezzi nel Po". La ragazza attirata fuori casa dalla madre per una passeggiata. Uccisa da padre, zio e parenti. Tiziana Paolocci il 25 Settembre 2022 su Il Giornale.
Quando ha visto i familiari con quella corda in mano Saman deve aver tremato come una foglia. Avrà intuito subito che si stava materializzando quell'incubo che per anni l'aveva torturata. I parenti, che non erano riusciti a piegarla, stavano per ucciderla.
Il 30 aprile 2021 Shabbar avrebbe chiesto alla moglie di fare una camminata con la figlia vicino casa. Lui le avrebbe seguite e una volta superate le serre - non è chiaro quali - le due sarebbero state raggiunte dallo zio Danish, dal cugino Ijaz e dall'altro Nomanhulaq.
Gli ultimi due hanno tenuto ferma la diciottenne pakistana, che piangeva, mentre lo zio Danish Hasnain la strangolava con una corda. Che dietro la scomparsa di Saman da Novellara non ci fosse un allontanamento volontario ma un omicidio, si era capito subito. Ma la conferma è arrivata quando il padre della vittima, Shabbar Abbas, fuggito in Pakistan, è stato intercettato mentre parlava al telefono con parente italiano confessando il delitto. Adesso la confidenza fatta dal cugino Ijaz, a un altro detenuto, che a sua volta ha riferito tutto alla polizia penitenziaria, fornisce i dettagli della morte della ragazza.
L'uomo ha raccontato che quella notte la madre, Nazia Shaheen, in preda a una crisi di pianto, veniva allontanata dal marito, mentre lo zio di Samanta stringeva quella corda forte al collo della nipote. I cugini la tenevano stretta. L'aiuto di una sesta persona, un uomo con il volto coperto da passamontagna mai menzionato prima, sarebbe stato determinante. Era stato preavvertito e sarebbe intervenuto subito, prendendo in mano le operazioni. Avrebbe aiutando Danish a finire Saman, a infilare il suo corpo in un sacco con gli altri, a caricarlo su una bici e, dopo averlo fatto a pezzi, a gettarlo nel Po.
Ma le dichiarazioni di Ijaz per i carabinieri di Reggio Emilia sono credibili solo in parte. È certo che i familiari della diciottenne fossero esasperati da suo comportamento, che faceva un vanto quasi della sua libertà. A far scattare la furia omicida, in particolare, ci sarebbe la foto condivisa sui social di un suo bacio con il fidanzato.
«L'ho uccisa per la mia dignità e per il mio onore» ribadisce il padre in un'intercettazione agli atti del processo a carico dei cinque familiari, che partirà il prossimo febbraio.
Le confidenze di Ikram Ijaz, arrestato in Francia il 31 maggio 2021, sono state fatte in due occasioni e riassunte in annotazioni del 20 e del 29 ottobre di quell'anno. Nel primo caso, in cui aveva riferito di non aver preso parte all'omicidio commesso dai parenti ma di esserne a conoscenza da Nomanhulaq, ci sarebbero elementi depistanti. Il secondo, racconto invece per gli investigatori, è più realistico.
Sostiene che con e il padre di Saman sarebbe tornato indietro, mentre il personaggio misterioso, Danish e Nomanhulaq si sarebbero occupati di trasportare il cadavere smembrato verso il fiume su una bici, attraverso strade non coperte da telecamere e poco illuminate. Ijaz nel primo racconto parla di un punto sul Po, nella zona di Guastalla, nel secondo genericamente di fiume. Le immagini della videosorveglianza dove si vedono lui, Danish e Nomanhulaq con gli attrezzi in mano il giorno prima della scomparsa di Saman, sarebbero state invece un depistaggio che faceva parte del piano. Di fatto i genitori restano i mandanti, anche se vengono indicati come partecipanti alle fasi esecutive, cosa che non sarebbe confermata dalle immagini delle telecamere.
La conversazione agli atti del processo. Saman Abbas, il padre intercettato al telefono: “Ho ucciso mia figlia per la mia dignità e il mio onore”. Redazione su Il Riformista il 23 Settembre 2022
Shabbar Abbas l’8 giugno del 2021, un mese dopo la scomparsa della figlia Saman, confessa il delitto durante una telefonata ad un parente in Italia: “Ho ucciso mia figlia”. Queste le parole e la conversazione presente tra gli atti del processo che inizierà il prossimo febbraio a carico dei familiari della diciottenne sparita dalla notte del 30 aprile 2021 da Novellara (Reggio Emilia) e che per la Procura e i carabinieri è stata uccisa dai familiari perché rifiutava di sposare un cugino in patria, cercando di andarsene di casa.
La conversazione tra Shabbar Abbas e il parente in Italia avviene quando il padre di Saman è già fuggito, tornato in Pakistan dove si trova attualmente. Nella conversazione, riportata dall’Ansa, il padre della 18enne si esprime così: “Per me la dignità degli altri non è più importante della mia (…) Io ho lasciato mio figlio in Italia (il fratello minorenne di Saman ora affidato a una comunità protetta, ndr). Ho ucciso mia figlia e sono venuto, non me ne frega nulla di nessuno”.
Proprio il familiare presente nella telefonata intercettata, sentito dai carabinieri il 25 giugno dello scorso anno, riferirà che Shabbar Abbas lo aveva chiamato per intimargli di non parlare di lui. “Io sono già rovinato – le parole di Abbas nel racconto del parente – avete parlato di me in giro, non lascerò in pace la vostra famiglia“. E ancora: “Io sono già morto, l’ho uccisa io, l’ho uccisa per la mia dignità e per il mio onore. Noi l’abbiamo uccisa“, senza fare nomi specifici, ma intendendo con ‘noi’, ha spiegato sempre il parente ai carabinieri, il contesto familiare.
Stando a quanto emerso, la scintilla che ha portato all’omicidio della giovane sarebbe stata una foto della ragazza, postata sui social, che la mostrava per le vie di Bologna mentre baciava il suo fidanzato. Lo scatto risale al periodo in cui la ragazza viveva in una comunità protetta. Un cugino, sentito dai carabinieri di Reggio Emilia, ha riferito di aver ricevuto l’immagine e che il padre Shabbar, la madre Nazia e il fratello della diciottenne “si lamentavano in continuazione di tale situazione“.
Quanto agli sviluppi giudiziari dell’inchiesta per la morte della 18enne, il prossimo 10 febbraio 2023 si terrà a Reggio Emilia il processo nei confronti dei tre familiari di Saman arrestati all’estero, tra Spagna e Francia, negli scorsi mesi. Si tratta dello zio Danish Hasnain e i due cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq: i genitori della ragazza, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, sono ancora latitanti in Pakistan.
Il corpo di Saman non è mai stato ritrovato, nonostante mesi di ricerche nell’azienza agricola della famiglia e nei terreni circostanti. Il ruolo chiave nel processo e nelle accuse ai familiari della 18enne è arrivato dalla testimonianza del fratello minore della ragazza che, sentito dai magistrati inquirenti, ha raccontato i retroscena sulla scomparsa della sorella e soprattutto sul ruolo della famiglia, in particolare dello zio Danish Hasnain, che secondo la Proura sarebbe stato l’autore materiale del delitto.
Le immagini di videosorveglianza dell’azienda agricola mostravano, nella notte della scomparsa, Saman allontanarsi coi genitori verso i campi pochi minuti dopo la mezzanotte del 30 aprile: telecamere che nei giorni precedenti avevano registrato anche il via vai dei cugini e dello zio della 18enne con in mano pale e piede di porco. Strumenti che servivano a fare lavoretti nell’orto, si è giustificato Danish Hasnain con i magistrati, mentre per la Procura erano stati utilizzati per seppellire la nipote.
La difesa dei genitori di Saman
Contro la pubblicazione delle intercettazioni si è scagliato Simone Servillo, avvocato dei genitori di Saman. Secondo il legale le parole attribuite a Shabbar Abbas non sarebbero affatto una confessione dell’uomo. “Da quegli stralci non si può ricavare nulla“, ha spiegato Servillo a Fanpage, “addirittura leggo che c’è qualcuno che parla di confessione, ma lì non abbiamo nemmeno contezza effettivamente di chi sia l’interlocutore e gli stralci che sono stati estrapolati possono essere letti anche in chiave figurativa“.
Ma le parole più dure sono per chi ha fatto uscire quelle intercettazioni, presenti negli atti del processo che il prossimo febbraio vedrà protagonisti i tre familiari di Saman arrestati all’estero e i due genitori ancora in Pakistan. “Chi ha fatto uscire quella informativa si è assunto una responsabilità forte: noi avremo un giudice a composizione mista e chiaramente il fatto che si cominci sin da ora a parlare in certi termini non può che avere un effetto negativo sulla serenità e l’imparzialità del giudice“, l’attacco di Servillo. L’avvocato poi su scagia contro la diffusione delle intercettazioni: “I giornalisti fanno il loro mestiere e se hanno una notizia è giusto che la pubblichino, ma qualcun altro forse ha fatto male il suo mestiere: quell’informativa ha la sua sede naturale altrove, sicuramente non sulle pagine di un giornale“.
Caso Saman, un'auto avrebbe potuto salvarla? Angela Leucci il 21 Maggio 2022 su Il Giornale.
Nelle ore precedenti alla scomparsa di Saman Abbas, un'auto si è aggirata attorno all'azienda agricola: intanto ci sono due ruderi inesplorati nei pressi.
Le telecamere di sorveglianza della casa in cui la famiglia di Saman Abbas viveva e lavorava continuano a rivelare dettagli degli ultimi giorni e delle ultime ore di vita della giovane.
La 18enne di origine pakistana, che si era sottratta al matrimonio forzato con un cugino più vecchio di lei, è scomparsa nella notte tra il 30 aprile e il 1 maggio 2021. La famiglia, con l’esclusione del fratello, è stata rinviata a giudizio e l’inizio del processo è previsto per febbraio 2023.
Dopo che in queste settimane le telecamere hanno mostrato le ultime immagini di Saman scortata verso le serre di notte dalla madre Nazia Shaheen, e dopo ave mostrato le due donne e altri membri della famiglia in zona quella notte, ora c’è un’auto che apre alle possibilità delle “sliding doors”: Saman poteva essere salvata? Il presunto piano della famiglia avrebbe potuto saltare? Le accuse rivolte alla famiglia della giovane sono di omicidio e occultamento di cadavere, ma il corpo della ragazza non è mai stato ritrovato. Si dovrà attendere il processo per individuare le eventuali responsabilità.
“Quarto Grado” ha mostrato in esclusiva le immagini relative alle 21.47 del 30 aprile: un’automobile scura fa il giro dell’edificio in cui vivono gli Abbas. Si tratta del padre del titolare dell’azienda agricola, solito a fare queste incursioni “a campione”, casuali, dopo che erano avvenuti alcuni furti nelle loro proprietà. La vettura viene mostrata dirigersi verso le serre e anche nella zona in cui le telecamere avevano già ripreso Danish Hasnain, zio di Saman considerato l’esecutore materiale del delitto, con due cugini della giovane e tutti e gli uomini imbracciavano pala e piede di porco.
Dopo che l’auto è andata via, alle 22.11 si vede Shabbar Abbas, padre di Saman, dirigersi verso le serre e tornare pochi minuti dopo. Sul piazzale di fronte alla casa alle 23.14 appare anche Nazia. Poi ci sono i filmati già resi noti in queste settimane. La mattina dopo le videocamere riprendono gli Abbas lasciare la casa su un taxi abusivo, alla volta di Malpensa per tornare in Pakistan, mentre altri lavoranti partono su mezzi che erano a disposizione dell’azienda agricola. Quest’ultima informazione cozza contro una parte delle informazioni diffuse finora, e cioè che Abbas e parenti non disponessero di mezzi di trasporto se non alcune biciclette, il che avrebbe potuto rendere impossibile il presunto occultamento di cadavere lontano dall’azienda agricola.
Saman Abbas, tutta la famiglia a processo per omicidio
“Quarto Grado” ha puntato l’accendo anche su due luoghi che pare non siano stati presi in considerazione dagli inquirenti. A poca distanza dall’azienda agricola, si trovano infatti due ruderi, un ex casolare e un ex caseificio. A quanto pare, in uno di questi, lo zio e i cugini di Saman si nascondevano per bere durante le pause del lavoro e la sera, ma si tratta di indiscrezioni da verificare.
Non si può invece verificare, allo stato attuale e senza strumentazione, se la terra all’interno di questi ruderi sia stata smossa. Ma è passato anche più di un anno dalla scomparsa di Saman. Ben 386 giorni da quando a piangere la ragazza è rimasto Saqib Ayub, un coetaneo conterraneo residente nel Frusinate che la 18enne aveva deciso di sposare.
"Processo mediatico, vi dico perché i genitori di Saman non c'entrano". Rosa Scognamiglio il 20 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il legale della coppia rinviata a giudizio è certo: "Posizione assolutamente difendibile".
I genitori di Saman Abbas, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, sono stati rinviati a giudizio per il presunto omicidio della 18enne pakistana scomparsa da Novellara, in provincia di Reggio Emilia, nella notte tra il 30 aprile e il 1 maggio 2021. Gli altri tre imputati sono: Danish Hasnain, considerato dagli inquirenti il presunto esecutore materiale del delitto, e i due cugini di Saman, Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq.
"Il processo è ancora da fare e la posizione dei coniugi Abbas è assolutamente difendibile. Sono certo della non colpevolezza", spiega alla nostra redazione l'avvocato Simone Servillo, difensore dei genitori di Saman.
Video e chat: cosa sappiamo di Saman a un anno dalla scomparsa
Avvocato Servillo, cosa ne pensa del rinvio a giudizio dei suoi assistiti?
“Per quel che mi riguarda, il rinvio a giudizio è liberatorio perché si farà il processo vero e proprio. Durante la fase dibattimentale saranno sviscerati tutti gli elementi relativi a questa vicenda e finalmente avrò modo di difendere in maniera piena i miei assistiti. Finora l'approccio è stato preminentemente mediatico e, per giunta, basato su una narrazione frammentaria. Col processo invece ci sarà un confronto tra la parti e quindi la possibilità di fare delle valutazioni più ampie sulle tesi della procura".
Ha avuto modo di parlare con i coniugi Abbas?
“No. Ma francamente dubito che sappiano di essere imputati in un processo per omicidio. In Pakistan questa vicenda non ha avuto lo stesso clamore mediatico dell'Italia”.
Quali sono gli elementi che depongono a favore dei genitori di Saman?
“Molteplici. Ma, per una questione di correttezza nei confronti della corte giudicante, mi riservo di sviscerarli durante il dibattimento. Però posso dirle che ci sono tante altre considerazioni da fare”.
Saman Abbas, l'ombra del cadavere occultato in un pozzo
Del tipo?
“Circa la presunta 'fuga' dei miei assistiti, ad esempio".
Che intende dire?
“Non vi è motivo di ritenere che i miei clienti si siano sottratti volontariamente all'applicazione della misura cautelare prima e al processo poi. Senza contare che alcuni bravissimi giornalisti sono stati in grado di individuare il villaggio in Pakistan dove vivono i coniugi Abbas. Non credo sarebbe stato un problema per le autorità italiane reperire l'indirizzo esatto dell'abitazione e far recapitare ai miei assistiti la notificazione dell'atto giudiziario”.
Secondo lei, per quale motivo non sarebbe stato fatto?
“Anche questo aspetto dovrà essere chiarito in fase dibattimentale. Non vi è alcun motivo o impedimento per cui i miei assistiti debbano essere processati in assenza. Senza contare che, obiettivamente, non c'è alcuna prova del loro presunto coinvolgimento nella vicenda”.
Nel giallo di Saman spunta pure un quad: il video inedito
Ritiene che siano estranei alla vicenda?
“Sono assolutamente convinto che non abbiano posto in essere alcun tipo di reato”.
E quindi cosa ne pensa del video in cui si vede Saman, con in spalla uno zainetto, dirigersi verosimilmente verso i campi in compagnia dei genitori?
“Si tratta di un frame video che non dimostra assolutamente alcunché. Anzi direi che è suscettibile di diverse interpretazioni. A livello mediatico l'intera vicenda è stata raccontata in modo frammentario e con una lettura molto parziale dei fatti”.
La corsa, l'uomo sull'uscio, la calma apparente: l'ultima ora di Saman Abbas
Trova?
“Certo. Ribadisco: tutti gli elementi emersi finora sono suscettibili di una molteplicità di interpretazioni e letture”.
Nei giorni scorsi ha rivolto un appello ai suoi clienti. C'è altro che vuole aggiungere?
“Più che un appello è un invito rivolto ai miei assistiti a non confondere l'opinione pubblica con l'esito del procedimento processuale. Il processo è ancora da fare e la loro posizione è assolutamente difendibile. Sono certo della non colpevolezza dei miei assistiti”.
Federica Zaniboni per "Il Messaggero" il 18 maggio 2022.
Mamma, papà, zio e cugini: un'intera famiglia andrà a processo per l'omicidio di Saman Abbas, la 18enne pakistana scomparsa poco più di un anno fa a Novellara (Reggio Emilia).
Lo ha deciso il giudice Dario De Luca al termine dell'udienza preliminare di ieri, accogliendo la richiesta della procura. Rinviati a giudizio, i parenti della vittima dovranno rispondere delle ipotesi di reato di omicidio, sequestro di persona e soppressione di cadavere. Il padre Shabbar e la madre Nazia sono ancora latitanti, probabilmente in Pakistan, mentre lo zio Danish e i cugini Ikram e Nomanhulaq si trovano già in carcere dopo esser stati arrestati all'estero.
LE INDAGINI Secondo quanto emerso dalle indagini svolte dai carabinieri e coordinate dal sostituto procuratore Laura Galli, i genitori avrebbero consegnato la ragazza allo zio, che avrebbe poi eseguito materialmente l'omicidio e fatto sparire il cadavere con la complicità dei cugini. Il tutto, perché Saman si era ribellata a un matrimonio combinato voluto dai genitori. A conferma di questa ricostruzione dei fatti, non soltanto alcune immagini della videosorveglianza dell'azienda di famiglia - nelle quali sarebbero immortalati i genitori che consegnano la figlia allo zio -, ma anche un'agghiacciante testimonianza del fratello minore che racconta di averli sentiti parlare su come disfarsi del cadavere.
Sì, perché né il corpo di Saman né la presunta arma del delitto sono mai stati trovati. Il 10 febbraio del 2023, quindi, si aprirà il processo a Reggio Emilia, nonostante, al momento, ai genitori della giovane non sia stato notificato alcun atto. Il legale Simone Servillo, aveva chiesto di stralciare la posizione dei suoi assistiti avanzando un'istanza - poi rigettata dal gup - di annullare il decreto di latitanza. «I processi contro chi non sa non andrebbero portati avanti» ha detto ieri fuori dall'aula.
Durante l'udienza preliminare sono state anche costituite le parti civili: tutte e cinque quelle che si erano presentate sono state accolte, tra cui il fratello della vittima, l'associazione Penelope e l'Unione dei Comuni della Bassa Reggiana. Parte civile anche il Comune di Novellana: «Per la comunità è ancora una ferita aperta» ha detto il sindaco Elena Carletti.
"Meglio morta che musulmana". Così Asia Bibi ha sconfitto gli estremisti. Alessandra Benignetti il 18 Maggio 2022 su Il Giornale.
La bracciante cristiana condannata a morte nel 2010 per blasfemia ora vive in una località segreta in Canada. Resta nel mirino dei fondamentalisti ma continua a battersi per le minoranze oppresse.
Legata con un collare e trascinata come un cane al guinzaglio lungo la strada. I vestiti che si stracciano, il sangue che esce dalle ferite che bruciano la pelle. Gli occhi asciutti dei suoi bambini, increduli, che guardano la loro madre portata via a forza dalla loro casa. Sono le ultime ore di libertà di Asia Bibi. È il giugno del 2009 e nel villaggio di Ittan Wali, nel distretto di Nankana, in Pakistan, una folla di persone si è radunata per assistere alla cattura della bracciante cristiana che ha osato offendere Maometto. Qualche giorno prima durante la raccolta delle bacche scoppia una lite con alcune donne musulmane. Asia va ad attingere l’acqua, immerge la sua tazza nel pozzo comune e la offre ad una collega, ma alcune protestano: non può farlo, è "infedele".
Il 19 giugno viene denunciata. Un imam la accusa di aver offeso la loro religione durante il diverbio. Il crimine di cui deve rispondere è quello di blasfemia. Un reato per cui, in Pakistan, si finisce dritti in prigione. E poi sulla forca. I poliziotti la picchiano, abusano di lei. Le offrono addirittura urina al posto dell’acqua quando dopo ore dal suo arresto osa dire "ho sete". Asia, che non sa leggere né scrivere, ma ha una fede incrollabile, sopporterà questo ed altro nel calvario che durerà per nove lunghi anni. Lo stesso numero dei metri quadrati della sua cella. La stessa in cui l’ha immaginata Papa Francesco nei tanti momenti in cui ha pregato per la sua liberazione.
Asia passa un anno rinchiusa lì dentro in attesa della sentenza, isolata e in condizioni al limite. Il verdetto arriva l’11 novembre del 2010. Nonostante non ci fossero prove contro di lei, il giudice del tribunale di Nankana, Naveed Iqbal, decide che la contadina di Ittan Wali deve essere condannata a morte. Sarà la stessa Asia a raccontare, qualche anno più tardi, di aver ricevuto personalmente dal magistrato un salvacondotto: la libertà in cambio della sua conversione all’Islam. Lei non ci pensa neppure un istante. Ringrazia l’uomo che in quel momento ha potere di vita e di morte su di lei e gli dice che preferisce "morire da cristiana" piuttosto che rinnegare il nome di Gesù. Asia resta in prigione nonostante l’anno successivo il suo accusatore, l’imam Qari Salam, confessi di aver portato il caso davanti ai giudici perché spinto dalle "emozioni religiose" e dai "pregiudizi personali" delle colleghe, fra cui sua moglie.
Insomma, contro Asia Bibi non c’è nessuna prova concreta. Salam, però, non ritirerà mai la sua denuncia. A fargli cambiare idea ci sono i gruppi islamici più radicali. Gli stessi fondamentalisti che nel gennaio del 2011 uccidono il governatore del Punjab, Salmaan Taseer, e due mesi dopo il ministro per le minoranze cattolico Shahbaz Bhatti. Entrambi avevano preso le difese di Asia Bibi, chiedendo la revisione delle leggi sulla blasfemia. Sulla testa di Asia i mullah mettono una taglia da 500mila rupie. Il prezzo di una casa ristrutturata e arredata con tutti i confort. Anche se uscirà dal carcere, almeno dieci milioni di pachistani sono pronti ad "ucciderla con le proprie mani". Dalla sua cella continua ad urlare la sua innocenza e presto diventa il simbolo della lotta per i diritti delle minoranze religiose. Lei, mamma di cinque figli, umile lavapiatti e bracciante, mostra al mondo il calvario dei cristiani pachistani, cittadini di serie b, relegati alle mansioni più ingrate, vittime di accuse campate in aria e detenzioni ingiuste.
Per la sua liberazione si spendono le principali organizzazioni per i diritti umani e i due papi, Benedetto e Francesco. L'ultimo che ha incontrato a Roma il marito e due delle sue figlie. "Abbracciandolo mi è sembrato di aver abbracciato mio padre", dirà una di loro, Eisham Ashiq, dopo l'udienza. Gli anni del processo sono contrassegnati da violenze e soprusi e soltanto nel 2018 arriverà la sentenza di assoluzione della Corte Suprema, tra le proteste dei principali partiti islamisti. Asia verrà scarcerata per questo soltanto un mese dopo e trasferita in una località segreta del Pakistan per sfuggire agli estremisti islamici. Nel 2019 è volata in Canada, dove ora vive con la sua famiglia sotto falso nome. Il ricordo di quegli anni è affidato ad un libro dal titolo "Finalmente Libera", scritto a quattro mani con la giornalista francese Anne-Isabelle Tollet ed uscito in Francia nel gennaio del 2020. Anche il presidente francese, Emmanuel Macron, ha voluto incontrarla all'Eliseo.
"La mia fede mi ha permesso di sopportare tutte le prove e mi ha dato la speranza. Senza la fede non sarei potuta rimanere viva”, scrive Asia che ha sempre accusato gli islamisti di essersi "servita di lei" per "seminare il panico in Pakistan". Il suo libro è un tributo a tutti quelli che ancora oggi sono in carcere con la stessa accusa mossa dai musulmani più radicali. Circa ottanta persone secondo la Commissione Usa sulla libertà religiosa nel mondo. Tra loro c’è anche Aneeqa Ateeq, 26 anni. Un’altra giovane donna pachistana imprigionata per aver diffuso vignette blasfeme su una chat di Whatsapp e condannata all’impiccagione da un giudice di Rawalpindi. Asia continua a lottare anche per lei.
Quelle 22 Saman in soli tre anni: "Il problema è l’islam fondamentalista". Francesca Bernasconi il 13 Maggio 2022 su Il Giornale.
Annalisa Chirico presenta a ilGiornale.it il suo ultimo libro, che affronta il tema del fondamentalismo islamico e racconta le storie delle donne che vi si sono ribellate: "Queste ragazze sono le vere paladine della libertà in Occidente".
Picchiata, abusata, segregata e umiliata. Fino al punto di dover subire ispezioni nelle parti intime da parte della madre, che voleva accertarne la verginità. È l'ultimo caso, che questa volta coinvolge una ragazza marocchina, di violenza ai danni di giovani donne, che fanno parte di famiglie musulmane emigrate e vogliono vivere all'occidentale. Ma questa ragazza non è l'unica a dover subire tali trattamenti dalla propria famiglia. Come lei ce ne sono altre. La loro unica colpa? Quella di aver voluto studiare, uscire con gli amici, indossare pantaloni e magliette, come i ragazzi del Paese in cui vivono. Come i giovani italiani.
Si tratta di bambine, ragazze e donne che si sono ribellate ai dettami del fondamentalismo islamico e, per questo, punite. A volte anche a costo della vita. Sono tutte le Saman senza nome che, proprio come la ragazza diciottenne che sarebbe stata uccisa dai famigliari perché voleva ribellarsi al matrimonio combinato, subiscono minacce e violenze da parte di chi dovrebbe proteggerle. A loro ha dato voce la giornalista Annalisa Chirico nel suo ultimo libro, Prigioniere. Saman e le altre (Piemme), che a ilGiornale.it ha spiegato: "Le Saman senza nome sono tante e vanno difese".
Il titolo del libro parla di “prigioniere”. Di chi o di che cosa?
"Sono prigioniere delle loro famiglie e del fondamentalismo islamico. Vivono come anime clandestine nel nostro Paese, spaccate a metà: da un lato c'è quello che vorrebbero essere e che l’Occidente promette loro, dall'altro la canea di proibizioni e divieti che le famiglie impongono loro nel nome di Allah".
Per questo vogliono ribellarsi?
"Queste ragazze sono, oggigiorno, le più tenaci paladine dell’Occidente: hanno una piena consapevolezza di quanto preziose siano le libertà di noi occidentali che forse, per abitudine, tendiamo a darle per scontate. Poter amare la persona che si vuole, indossare un paio di jeans attillati o uscire di casa con le unghie laccate di smalto sono comportamenti per noi finanche banali, eppure per queste giovani donne significa rischiare la vita".
Come Saman...
"Saman è stata una ragazza coraggiosa: sapeva che la famiglia tramava contro di lei, sapeva che tornare sotto lo stesso tetto avrebbe comportato rischi enormi, ma voleva recuperare i propri documenti per tagliare per sempre i ponti con quella realtà familiare che la teneva segregata in casa. Saman non abbiamo saputo difenderla. Se, dopo l’attentato contro la redazione di Charlie Hebdo dicevamo Je suis Charlie, oggi non possiamo che dire Je suis Saman".
Video e chat: cosa sappiamo di Saman a un anno dalla scomparsa
Qual è la colpa attribuita a queste ragazze dalle loro famiglie?
"L’onore perduto, un’onta per l’intero clan familiare. Queste giovani donne hanno la colpa di voler vivere all’occidentale, secondo gli usi e i costumi degli infedeli. Nell’Islam fondamentalista, il mondo è diviso in bene e male, tra chi rispetta l’ortodossia e chi, in quanto infedele, va raddrizzato e punito. Il problema è l’Islam fondamentalista, che considera il corpo delle donne una proprietà e le donne che vogliono vivere all’occidentale come esseri corrotti e ontologicamente inferiori, meritevoli di una punizione esemplare. L’Islam è l’unica religione per cui rischi la vita per apostasia. Se parli male del Dio cristiano o del Buddha non rischi la vita. Se parli male di Allah, finisci sotto protezione".
C’è una differenza con il femminicidio?
"Negli omicidi commessi da uomini abbandonati o malati di gelosia c’è un movente passionale, psicologico. Nel caso della segregazione imposta alle giovani, che talvolta culmina nella violenza e addirittura nell’eliminazione fisica, prevale una componente religiosa. Non agisce un singolo uomo, ma un intero clan familiare che si attiva contro il componente colpevole di aver macchiato l’onore di tutti. C’è una cornice religiosa che, attraverso una interpretazione fondamentalista dei testi sacri, giustifica e addirittura supporta tali scelleratezze. Nei casi come quello di Saman, le madri sono spesso complici del regime di vera e propria prigionia, imposto dal patriarcato islamico".
Oltre alla vicenda di Saman, ci sono altre storie di ragazze uccise?
"Negli ultimi tre anni, 22 ragazze di origine islamica sono state eliminate in contesto familiare. Quante sono le Saman senza nome, che non sanno a chi chiedere aiuto, a chi rivolgersi? C’è una tragedia di cui nessuno parla, anche perché è scomodo farlo".
Perché?
"Nessuno vuole essere accusato di omofobia e razzismo. Ma io ho voluto correre questo rischio, perché penso che si debba strappare il velo dell’ipocrisia e chiamare le cose con il loro nome. L’Islam ha un problema con le donne, punto. Nel nostro Paese, le procure, i centri antiviolenza, le case-famiglia e i servizi sociali hanno a che fare con storie di giovani e giovanissime ragazze che chiedono aiuto. Purtroppo le risorse sono sempre scarse rispetto alla domanda di intervento. Ricordiamoci che, tre anni fa, l’Italia ha dovuto approvare una legge per bandire i matrimoni forzati. Non è certo un problema delle italiane".
Questa reticenza a parlarne può essere anche dovuta al fatto che il tema è spesso percepito come lontano?
"Lo avvertiamo come lontano da noi, perché si tratta di anime clandestine, che vivono rinchiuse nelle loro case e non possono socializzare con nessuno che non sia un membro della famiglia. Talvolta vengono addirittura ritirate dalla scuola".
C’è qualcosa che potrebbe essere fatto per affrontare il problema?
"Da una parte bisognerebbe sostenere le frange modernizzatrici dell’Islam e, da questo punto di vista, aiuterebbe una maggiore trasparenza da parte dei centri di culto. Vuoi pregare? Lo fai in italiano. Dall’altra parte l’integrazione di chi vive in Italia deve essere effettiva. C’è un gigantesco problema con le sacche di immigrazione proveniente dai Paesi arabi che non si integrano e non vogliono integrarsi. Costoro pensano di poter approfittare del nostro Paese, di un’economia più florida e di salari più alti, perpetuando a Milano o a Padova i medesimi costumi dei Paesi di origine. Chi vuole stare in Italia deve rispettare la Costituzione e i suoi valori fondamentali, a partire dalla parità tra uomo e donna, altrimenti va rispedito da dove viene".
Una relazione pacifica tra Islam e Occidente è possibile?
"È possibile. Israele, pur con non poche difficoltà, è un paese multietnico, gli arabi israeliani attualmente sono rappresentati nel governo guidato dal primo ministro Bennett. Con Trump alla Casa Bianca inoltre, il governo israeliano, all’epoca guidato da Netanyahu, ha firmato gli Accordi di Abramo, normalizzando le relazioni con diversi Paesi islamici, a partire dagli Emirati Arabi Uniti. Gli scambi tra le persone, al di là del credo religioso, favoriscono la diffusione di modi di vivere e di agire, di concepire i rapporti tra i sessi e non solo. Bisogna proseguire lungo la strada di dialogo e dell’apertura verso l’altro".
Tornando alle donne in Italia, le parole dell’imprenditrice Elisabetta Franchi dimostrano che neanche per noi le cose sono facilissime.
"Non esiste un aut aut tra l’essere madre e lavoratrice. Non siamo più nell’Età della Pietra, possiamo lavorare e occuparci dei figli, insieme ai padri. La genitorialità va condivisa. I Paesi nordeuropei sono più avanti, l’Italia soffre la carenza di asili nido e di politiche a supporto della natalità. Per il resto mi lasci dire che noi donne siamo notoriamente multitasking, possiamo metter su famiglia e lavorare anche prima degli 'anta'".
Lei però non ha raggiunto gli anta e non ha figli.
"Forse non ho trovato l’uomo giusto, chissà".
(ANSA il 17 maggio 2022) - "Trovo sconcertante che non ci si sia impegnati fino in fondo per fare le notifiche come Dio comanda. Vi è certezza che si trovino nel villaggio di origine in Pakistan". A dirlo è l'avvocato Simone Servillo che difende i rinviati a giudizio Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, i genitori di Saman, la 18enne pachistana scomparsa e mai trovata che si presume essere stata uccisa a Novellara, nel Reggiano.
"Mi pare che ci sia stata collaborazione da parte del Pakistan - ha aggiunto - tanto è vero che vi è contezza da parte degli inquirenti del luogo dove probabilmente si trovano i miei assistiti". E ancora: "Se la trasmissione tv Quarto Grado è riuscita a scoprire il villaggio dove si trovano ci sarà da parte mia il fatto di pretendere che l'autorità inquirente italiana sappia dove si trovano?".
(ANSA il 17 maggio 2022) - "Coloro che non sono presenti in un processo non sono fantasmi e più delle volte sono vittime di un sistema che dà per scontato cose che non dovrebbero esserlo come l'effettiva consapevolezza di un processo a proprio carico".
Non ci sta l'avvocato Simone Servillo che difende Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, i genitori di Saman, la 18enne pachistana scomparsa e mai trovata che si presume essere stata uccisa a Novellara, nel Reggiano. Il giudice ha rigettato la sua richiesta che "venisse dichiarata la nullità del decreto di latitanza - spiega - fondata sull'evidente mancata conoscenza concreta del procedimento.
Non entro nel merito della decisione del gup che rispetto, però rimane il fatto che i processi contro chi non sa, non andrebbero portati avanti. Resta un neo importante di questa esperienza processuale che secondo me costituirà una costante".
Infine l'avvocato lancia un appello: "Non son mai riuscito a entrare in contatto coi miei assistiti, spero leggano o sentano queste mie parole. In tal caso li tranquillizzo perché la loro posizione è difendibile. Quello di oggi è un esito aspettato, che ci darà però occasione di difenderci in maniera sostanziale e spero definitiva nell'ambito di un contesto fondato sul contraddittorio consentendoci una vera difesa".
Da ilmessaggero.it il 17 maggio 2022.
Rinviati a giudizio i familiari di Saman Abbas, la 18enne di origine pachistana scomparsa a Novellese lo scorso 30 aprile 2021. Dopo l'udienza preliminare che si è tenuta oggi, il gup Dario De Luca ha rinviato a giudizio il padre e la madre di Saman, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, oltre che lo zio Danish Hasnain e i due cugini, Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq. Lo zio e i cugini si trovano in carcere a Reggio Emilia dopo essere stati arrestati in Francia e Spagna, dove erano fuggiti, mentre la madre e il padre sono latitanti, presumibilmente in Pakistan.
Le accuse
Saman Abbas aveva 18 anni quando lo scorso 30 aprile 2021 è scomparsa a Novellara, nella Bassa Reggiana. L'ipotesi degli investigatori è che sia stata uccisa dai parenti dopo essersi ribellata a un matrimonio combinato con un parente che si trovava in patria.
Il processo inizierà il 10 febbraio 2023
La prima udienza è fissata il 10 febbraio 2023. Rinviando a giudizio tutti i cinque familiari il gup Dario De Luca ha accolto le richieste del sostituto procuratore di Reggio Emilia titolare dell'inchiesta Laura Galli che ha coordinato le indagini dei carabinieri.
In aula sarà presente anche l'avvocato Simone Servillo per i genitori e l'avvocato Valeria Miari, per il fratello minorenne di Saman, che intende costituirsi parte civile, così come l'associazione Penelope, rappresentata dall'avvocato Barbara Iannuccelli. In tribunale ci sarà anche la sindaca di Novellara, Elena Carletti.
La scomparsa di Saman e l'ultimo video
L'ultimo video in cui si vede la ragazza in vita mostra la giovane uscire di casa accompagnata dai genitori con uno zaino sulle spalle. Pochi minuti dopo, sulla stessa strada compaiono nuovamente la madre e il padre - con lo zainetto della figlia sulle spalle - ma Saman non c'è più. Forse è stata consegnata ai parenti, lo zio e i due cugini, anche loro indagati per la scomparsa. Il corpo non è stato mai ritrovato.
Zio e cugini già arrestati, i genitori sono ricercati in Pakistan. La Repubblica il 22 Aprile 2022.
La Procura di Reggio Emilia, con il pm Laura Galli, ha richiesto il rinvio a giudizio per i cinque pachistani, familiari di Saman Abbas, indagati per omicidio e soppressione di cadavere della 18enne scomparsa da Novellara (Reggio Emilia) dalla sera del 30 aprile di un anno fa. Ora l'ufficio Gip/Gup dovrà fissare l'udienza preliminare.
Le indagini dei carabinieri accusano del delitto lo zio Danish Hasnain, i due cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq, tutti e tre arrestati all'estero dov'erano latitanti; in concorso con loro e ancora ricercati, presumibilmente in Pakistan, ne rispondono anche i genitori Shabbar Abbas e Nazia Shaheen. La richiesta di rinvio a giudizio era prevedibile dopo l'atto di chiusura delle indagini preliminari a carico dei cinque.
Il caso di Novellara. Saman Abbas, le ultime immagini della 18enne sparita nel nulla: “Era con i genitori prima di essere uccisa”. Vito Califano su Il Riformista il 27 Aprile 2022.
Gli ultimi istanti di vita di Saman Abbas, o almeno questo ritiene la Procura di Reggio Emilia. Il telegiornale Regionale Rai Emilia Romagna ha diffuso un video che mostrerebbe le ultime immagini in vita della 18enne di origini pachistane sparita nel nulla quasi un anno fa a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, e mai più ritrovata. Per gli inquirenti sono gli ultimi momenti in vita della ragazzina che aveva rifiutato un matrimonio combinato in patria e perciò sarebbe stata uccisa dai parenti, secondo l’accusa.
Le immagini sono state registrate dalla telecamera di sicurezza posta sopra l’ingresso della casa dove abitava la famiglia. Nove minuti dopo la mezzanotte, è la notte tra il 30 aprile e il primo maggio. Si vede la 18enne uscire di casa con i genitori: scarpette bianche e zainetto chiaro. Il padre a un certo punto si ferma in disparte, sembra avere in mano il telefono. La madre e la figlia invece si allontanano nel buio.
Gli investigatori ritengono che lo zio Danish Hasnain è nascosto nel buio con i due cugini – i tre erano stati immortalati in un altro video mentre uscivano con delle pale in mano, la stessa notte. Un minuto e mezzo dopo i genitori tornano di fretta. Dopo cinque minuti il padre esce di nuovo e torna verso casa con lo zainetto in mano. Per il sostituto procuratore Laura Galli è la prova che la ragazza è stata uccisa. Il video fa parte della richiesta di rinvio a giudizio della procura di Reggio Emilia.
Galli ha chiesto il rinvio a giudizio dei genitori, dello zio Danish e di due cugini – questi ultimi tutti in carcere in Italia, in attesa dell’udienza preliminare, dopo essere stati rintracciati all’estero. I genitori in quei giorni invece sono partiti per il Pakistan e da allora sono scomparsi nel nulla. La ragazza aveva un fidanzato, era tornata da poco tempo a casa da una comunità protetta nel bolognese per recuperare i documenti che aveva il padre. Il fratello minore, ora in un luogo protetto, ha raccontato agli investigatori della ritorsione della famiglia sulla ragazza che non voleva sottostare al matrimonio combinato.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
"Strangolata davanti ai miei occhi". Le ultime immagini di Saman. Angela Leucci il 23 Aprile 2022 su Il Giornale.
Le ultime immagini di Saman Abbas potrebbero rivelare molto circa il presunto omicidio: il fratellino continua a puntare il dito contro lo zio Danish Hasnain.
È quasi un anno che non si sa nulla di Saman Abbas. La 18enne scomparve da Novellara la notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021 e si ritiene che sia stata uccisa dalla sua famiglia perché si opponeva al matrimonio forzato con un cugino più vecchio.
I due genitori sono ancora ricercati e si dovrebbero trovare nel loro paese natale, in Pakistan, mentre sono stati rinviati a giudizio i tre parenti, uno dei quali è considerato l’esecutore materiale del delitto, accusato dal fratello della giovane. Anche i genitori sono stati rinviati a giudizio in contumacia.
Quarto grado ha ascoltato per la prima volta in esclusiva il ragazzino e mostrato le ultime immagini di Saman prima della scomparsa.
Le ultime immagini di Saman
Le telecamere di sorveglianza dell’azienda agricola di Novellara, in cui gli Abbas vivevano e lavoravano, hanno immortalato delle scene che possono essere interpretate dagli inquirenti.
È passata la mezzanotte, è il 1 maggio. A nove minuti dalla mezzanotte, si vedono allontanarsi dalla casa Saman, vestita all’occidentale con jeans, felpa, sneakers e uno zainetto, con il padre Shabbar Abbas e la madre Nazia Shaheen, con addosso il tradizionale jibab.
Due minuti dopo solo i genitori rientrano in casa. Quattordici minuti dopo la mezzanotte, dalla casa esce solo Shabbar, mentre al ventiduesimo minuto l’uomo rientra, con in mano lo zainetto della figlia.
Si può immaginare che nel buio ci fossero i parenti: lo zio Danish Hasnain, considerato appunto l’esecutore materiale del presunto omicidio, i cugini Nomanhulaq Nomanhulaq e Ikram Ijaz. Tutti e tre sono in Italia in stato di fermo, dopo essere stati arrestati in Europa.
Ora parla il fratello
Il fratellino di Saman, minorenne, che si trova in una dimora protetta, non ha mai parlato pubblicamente finora. È stato reso noto che sia stato proprio lui a puntare il dito contro lo zio Danish. “L’ha ammazzata mio zio e poi l’ha strangolata, come ho detto ai carabinieri”, ha dichiarato il ragazzino al telefono con un giornalista di “Quarto grado”.
"I genitori di Saman spariti? Ecco cosa succede in Pakistan"
Gli è stato chiesto se l’accusa mossa a Danish fosse motivata, come lui sostiene, da ragioni ereditarie: ci sono infatti in Pakistan alcuni terreni contesi. “Sì, è tutto falso - ha spiegato il fratello di Saman - perché mio zio ha ucciso mia sorella, perché l’ha presa e l’ha uccisa. Io mi ricordo benissimo perché ho guardato davanti ai miei occhi che la strangolava l’ha portata via poi dalle serre. Io l’ho vista portare, cioè nel senso che l’ha strangolata ma non so dove l’ha portata però. Comunque è a Novellara, non è fuori, no. L’ho detto anche ai carabinieri. Adesso sto piangendo un botto, poi già mi sono inc… per i c… miei per mia sorella”.
Al fratellino di Saman è stato chiesto anche se avesse paura. La sua risposta è stata: “Sì, paura sì. Perché avevo paura prima, però adesso semplicemente no perché lo so che sa vado a Novellara qualcuno mi ammazza, io questo lo so dire perché mio zio ha detto a qualcuno di ammazzarmi”.
Arrivato in Italia uno dei cugini della giovane Saman, arrestato a Barcellona lo scorso febbraio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 23 Marzo 2022.
La consegna odierna conclude una vicenda iniziata il 30 aprile 2021, giorno della scomparsa della giovane Saman, che ha già portato all’arresto in Francia dello zio della ragazza, Hasnahin Danish, e del cugino Ijaz Ikram, entrambi già consegnati alle autorità italiane.
E’terminata nella giornata odierna la latitanza, durata circa 9 mesi, di Nomanulhaq uno dei cugini della giovane Saman Abbas, arrestato lo scorso 14 febbraio a Barcellona a seguito di una attività del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Reggio Emilia, supportati dal Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia (SCIP) del Dipartimento della Pubblica Sicurezza. Nomanulhaq, scortato da personale dello SCIP è arrivato in aereo a Bologna alle 16.00, è stato preso in consegna dai Carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Emilia che lo hanno tradotto presso il carcere del capoluogo emiliano a disposizione dell’Autorità Giudiziaria.
L’uomo è destinatario di un mandato di arresto europeo emesso dai magistrati emiliani in quanto ritenuto responsabile dei reati di sequestro di persona, omicidio volontario e occultamento di cadavere della giovane Saman Abbas in concorso con un cugino e lo zio della ragazza.
La consegna odierna conclude una vicenda iniziata il 30 aprile 2021, giorno della scomparsa della giovane Saman, che ha già portato all’arresto in Francia dello zio della ragazza, Hasnahin Danish, e del cugino Ijaz Ikram, entrambi già consegnati alle autorità italiane. Redazione CdG 1947
(ANSA il 14 febbraio 2022) - In un appartamento del centro di Barcellona è stato arrestato Nomanhulaq Nonamhulaq, cugino di Saman Abbas, latitante e indagato per l'omicidio della 18enne pachistana scomparsa dal 30 aprile 2021 da Novellara (Reggio Emilia).
Il giovane era ricercato nell'ambito dell'indagine dei carabinieri e della Procura di Reggio Emilia.
In precedenza erano stati arrestati all'estero un altro cugino, Ikram Ijaz e lo zio Danish Hasnain, entrambi presi in Francia e nel frattempo estradati in Italia.
Sono ritenuti complici del delitto di Saman che si era ribellata a un matrimonio combinato. Restano latitanti in Pakistan i genitori della 18enne.
Il pachistano, 35 anni, è stato arrestato dalla polizia spagnola, grazie a informazioni condivise dal nucleo investigativo dei carabinieri di Reggio Emilia.
Nomanhulaq fuggì dalla provincia reggiana il 10 maggio con Hasnain e Ijaz.
Con loro c'era anche il fratello minorenne di Saman, che venne bloccato al confine tra Italia e Francia e affidato a una comunità.
Proprio le dichiarazioni del ragazzo, sentito poi anche in incidente probatorio, accusano gli altri familiari del delitto. Il corpo di Saman non è mai stato trovato, nonostante settimane di ricerche intorno al casolare dove la famiglia viveva.
A carico di Nomanhulaq c'è inoltre il video del 29 aprile che lo ritrae con l'altro cugino della ragazza e con lo zio, mentre uscivano dal casolare con attrezzi da lavoro, pala e piede di porco.
L'ipotesi degli inquirenti è che stessero andando a scavare la tomba della giovane, materialmente assassinata dallo zio il giorno dopo, sempre secondo l'accusa.
Arrestati in Francia, Ijaz a fine maggio, Hasnain a settembre e poi consegnati all'Italia. Entrambi si sono detti estranei all'accaduto.
Saman, lo zio Danish Hasnain nega tutto: «Sono stato incastrato. Il video con le pale? Andavamo all’orto». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.
Finito l’interrogatorio dell’uomo sospettato di essere il materiale esecutore del’omicidio della ragazza pakistana sparita nel nulla a Novellara, nel Reggiano.
Lo zio di Saman Abbas avrebbe negato ogni coinvolgimento con la scomparsa della nipote. Nell’interrogatorio di lunedì pomeriggio davanti al Gip Luca Ramponi concluso dopo meno di due ore e mezza, Danish Hasnain, pachistano 34enne, avrebbe sostenuto di essere stato «incastrato» per una questione di soldi e terreni. Carabinieri e Procura di Reggio Emilia lo accusano di essere invece l’autore materiale e l’organizzatore dell’omicidio della ragazza, scomparsa dal 30 aprile da Novellara dopo essersi ribellata a un matrimonio combinato.
L’interrogatorio è avvenuto in videocollegamento dal carcere. Hasnain era stato estradato il 20 gennaio dalla Francia, dove era stato arrestato il 22 settembre. L’uomo è ritenuto l’esecutore materiale del delitto, in concorso con due cugini e i genitori della 18enne. Oltre al gip, ad ascoltare le sue parole c’erano il pm Laura Galli e il maggiore Maurizio Pallante, comandante del nucleo investigativo dei carabinieri reggiani. Hasnain è difeso dall’avvocato Lalla Gherpelli. Anche nelle udienze a Parigi lo zio di Saman ha sempre negato ogni responsabilità.
Fuori dal carcere, proprio la sua legale ha detto che Hasnain «si dichiara all’oscuro di cosa possa essere accaduto a Saman. Proprio in considerazione degli ottimi e affettuosi rapporti che aveva con la nipote ha ritenuto plausibile che si fosse allontanata volontariamente». Questa sarebbe «la versione che ha ricevuto dal fratello Shabbar», cioè dal padre di Saman Abbas «e dal nipote», cioè dal fratello minorenne di lei, attualmente in una struttura protetta. Hasnain «tiene molto a proclamare la propria innocenza attraverso la stampa e i media».
E inoltre, pur senza voler accusare nessuno, «ventila la possibilità» che il fratello di Saman abbia fatto le dichiarazioni a suo carico «spaventato e condizionato dal padre Shabbar, anche in considerazione di un potenziale vantaggio di natura economica che deriverebbe dalla sua condanna. In Pakistan, infatti, i due fratelli sono comproprietari di un terreno e qualora lui fosse condannato spetterebbe di diritto a Shabbar».
Anche per questo l’indagato «ha chiesto aiuto al pm perché appuri, indaghi, chiarisca». Avrebbe risposto a tutte le domande, «con coerenza e tranquillità, senza che mai la sua voce fosse turbata». Anche a quella relativa al video che lo ritrae con pala e piede di porco insieme a due cugini, il 29 aprile, quando secondo gli investigatori andarono a scavare la fossa a Saman: «Ha detto che andarono a fare lavori nell’orto» (guarda il video). Sempre a quel 29, secondo lo zio, risalirebbe l’ultima volta che ha visto la nipote. Per le indagini, invece, la sera del 30 sarebbe stato chiamato dal padre per attendere Saman fuori dalla casa e farla finita.
Lo zio di Saman: "Il video con le pale? Andavo nell'orto". Tiziana Paolocci il 25 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Nell'interrogatorio accusa il fratello: "Io non c'entro, guadagnerebbe da una mia condanna".
Per gli inquirenti è l'autore materiale dell'omicidio della nipote Saman, ma Danish Hasnain, il 34enne pakistano estradato dalla Francia il 20 gennaio, giura di essere stato incastrato.
Ieri videocollegato dal carcere di Reggio Emilia per l'interrogatorio di garanzia, ha risposto per due ore e mezza alle domande del Gip Luca Ramponi, che ha firmato l'ordine di custodia cautelare, dal pm Laura Galli e dal maggiore Maurizio Pallante, comandante del nucleo investigativo dei carabinieri di Reggio Emilia. A difenderlo l'avvocato Lalla Gherpelli.
L'uomo è accusato dell'omicidio d Saman, scomparsa il 30 aprile dalla casa di famiglia a Novellara (Reggio Emilia). La diciottenne voleva rifarsi una sua vita, dopo essersi opposta al matrimonio combinato. Ma lo zio, i genitori e due cugini gliel'hanno impedito uccidendola. Il primo ha sempre negato ogni responsabilità e ieri ha detto di essere stato «incastrato». «Si dichiara all'oscuro di cosa possa essere accaduto a Saman - ha spiegato l'avvocato Gherpelli -. Proprio in considerazione degli ottimi e affettuosi rapporti che aveva con la nipote ha ritenuto plausibile che si fosse allontanata volontariamente. Questa è la versione che ha ricevuto dal fratello Shabbar, cioé dal padre di Saman Abbas e dal nipote, cioè dal fratello minorenne di lei, attualmente in una struttura protetta». «Hasnain tiene molto a proclamare la propria innocenza attraverso la stampa e i media e pur senza voler accusare nessuno, ma ventila la possibilità che il fratello di Saman abbia fatto le dichiarazioni a suo carico spaventato e condizionato dal padre Shabbar, anche in considerazione di un potenziale vantaggio di natura economica che deriverebbe dalla sua condanna», prosegue il legale. In Pakistan, infatti, i due fratelli sono comproprietari di un terreno e qualora lui fosse condannato spetterebbe di diritto a Shabbar. «Anche per questo l'indagato ha chiesto aiuto al pm perché appuri, indaghi, chiarisca», continua il suo difensore, spiegando che Danish Hasnain avrebbe risposto a tutte le domande «con coerenza e tranquillità, senza che mai la sua voce fosse turbata». Gli inquirenti gli hanno anche chiesto del video che lo ritrae con pala e piede di porco insieme a due cugini, il 29 aprile, quando secondo gli investigatori andarono a scavare la fossa a Saman. «Non ha avuto problemi spiegare che andarono a fare lavori nell'orto», conclude l'avvocato Gherpelli. Tiziana Paolocci
Il caso della 18enne scomparsa a Novellara. “Non so niente di Saman, sono stato incastrato. Con le pale andavamo nell’orto”, l’interrogatorio dello zio Danish Hasnain. Vito Califano su Il Riformista il 24 Gennaio 2022.
Danish Hasnain ha detto di non sapere nulla di quello che sia successo a Saman Abbas. La ragazza, sua nipote, 18 anni, è scomparsa lo scorso 30 aprile da Novellara, in provincia di Reggio Emilia. Nessuna traccia dopo la sua ribellione a un matrimonio combinato dalla famiglia in Pakistan. La pista sulla quale si batte da mesi è quella dell’omicidio, un delitto d’onore maturato in famiglia, ma i resti della ragazza non sono mai stati trovati.
Danish Hasnain, 34 anni, è stato arrestato lo scorso 22 settembre in Francia ed estradato il 20 gennaio. È stato interrogato in videocollegamento dal carcere, davanti al gip Luca Ramponi, il pm Laura Galli e il maggiore Maurizio Pallante. L’uomo è accusato dai Carabinieri e dalla Procura di Reggio Emilia di essere l’autore materiale e l’organizzatore dell’omicidio della ragazza. L’interrogatorio è durato circa due ore e mezza.
Hasnain è difeso dall’avvocato Lalla Gherpelli. Nega ogni responsabilità. Ha sostenuto di essere stato incastrato per una questione di soldi e terreni dagli stessi familiari. La sua legale all’esterno del carcere ha riportato che il 34enne “si dichiara all’oscuro di cosa possa essere accaduto a Saman. Proprio in considerazione degli ottimi e affettuosi rapporti che aveva con la nipote ha ritenuto plausibile che si fosse allontanata volontariamente” e che “tiene molto a proclamare la propria innocenza attraverso la stampa e i media”.
Lo zio della 18enne ha detto che stava andando “a fare lavori nell’orto” quando le telecamere lo ripresero, il 29 aprile con pala e piede di porco con due cugini. Per gli inquirenti in quel momento si stava recando a scavare la fossa della ragazza. Hasnain inoltre “ventila la possibilità” che il fratello di Saman, minorenne al momento in una struttura protetta, lo abbia accusato di essere stato l’organizzatore ed esecutore del delitto in quanto “spaventato e condizionato dal padre Shabbar, anche in considerazione di un potenziale vantaggio di natura economica che deriverebbe dalla sua condanna. In Pakistan, infatti, i due fratelli sono comproprietari di un terreno e qualora lui fosse condannato spetterebbe di diritto a Shabbar”.
Lo zio è ritenuto l’esecutore materiale del delitto con due cugini e i genitori della ragazza. Padre e madre, Shabbar Abbas e Nazia Shaeen, sono spariti, ancora ricercati, su di loro pende un ordine di estradizione. Agli assistenti sociali di Novellara Saman aveva raccontato del padre violento, che la picchiava perché voleva andare a scuola. La ragazza nell’estate del 2020 era scappata in Belgio per conoscere un ragazzo e aveva un fidanzato, alla quale raccontava di avere paura, al momento della scomparsa. Le carte giudiziarie hanno parlato di una riunione, “sulle modalità con cui far sparire il corpo, smembrandone il cadavere”, nel pomeriggio del 30 aprile per eliminare Saman e far sparire il corpo. Hasnain era in fuga da cinque mesi quando è stato catturato in un appartamento con altri pakistani a nord di Parigi.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Scomparsa a 18 anni, Basma Afzaal come Saman: l’ipotesi di fuga da un matrimonio combinato. Redazione su Il Riformista il 6 Giugno 2022.
Quello di Basma Afzaal è un nuovo caso Saman? È una delle ipotesi al vaglio della Procura della Repubblica di Padova, che ha aperto un fascicolo di indagine sulla scomparsa della 18enne pakistana di Galliera Veneta, di cui non si hanno notizie dallo scorso 31 maggio.
Come sottolinea l’Ansa, i magistrati padovani hanno avviato l’inchiesta sulla scorta dei risultati condotti dai carabinieri secondo i quali il caso potrebbe essere riconducibile ad un allontanamento volontario della giovane per sottrarsi ad un matrimonio combinato.
Basma, stando a quanto emerso dalle prime indagini, risultava assente già da alcuni giorni dalla scuola alla quale è iscritta, un istituto professionale di Castelfranco Veneto (Treviso). Il 31 maggio avrebbe preso l’autobus per Castelfranco, poi sarebbe stata vista in un bar vicino alla stazione delle corriere, alle 9:30.
Una delle ipotesi è che la giovane possa essere già fuggita all’estero, dove avrebbe raggiunto un contatto conosciuto online. Per questo al momento si tende ad escludere l’ipotesi secondo cui possa esserci stata una forzatura da parte di qualcuno e che la 18enne trovi in una situazione di pericolo.
A denunciarne la scomparsa sono stati i genitori, mentre su Facebook c’è anche un appello del cugino, Shaheer Muhammad in cui scrive: “Aveva uno zaino e indossava scarpe alte e bianche, una maglietta nera con una riga bianca, alta all’incirca 155 cm, di carnagione olivastra scura. Chiunque sappia qualcosa chiami il 112 o le forze dell’ordine”.
Marco Aldighieri, Marina Lucchin per “il Messaggero” il 7 giugno 2022.
Basma Afzaal, la 18enne pakistana residente con la famiglia a Galliera Veneta, sarebbe fuggita in Francia. Il motivo: una fuga da un matrimonio imposto. È la pista che stanno approfondendo i carabinieri mentre la Procura di Padova ha aperto un fascicolo, al momento senza notizie di reato e senza indagati, per indagare sulla sparizione della studentessa dell'istituto professionale Lepido Rocco di Castelfranco Veneto in provincia di Treviso.
La ragazza si è allontanata da casa il 31 maggio, ha spento il telefono cellulare e si è resa irreperibile. L'unica certezza per gli inquirenti, sono le numerose assenze da scuola da parte della giovane inanellate negli ultimi due mesi.
LE AMICHE A raccontare della fuga di Basma ai militari sarebbero state le sue amiche. La diciottenne avrebbe scoperto di essere già destinata in sposa a un uomo, un altro cittadino pakistano, di cui non è per nulla innamorata. Inoltre, ancora secondo quanto dichiarato dalle sue amiche agli inquirenti, avrebbe conosciuto via chat un ragazzo di cui si è invaghita.
Ed ecco la decisione di scappare di casa e di raggiungerlo in Francia. Una versione, ovviamente, tutta da verificare. Al momento l'unica certezza sono le tante assenze da scuola della ragazza negli ultimi due mesi. Un segnale chiaro di qualcosa di anomalo nella vita della studentessa.
L'ALLONTANAMENTO Basma Azfaal mercoledì 31 maggio è partita dalla sua abitazione di Galliera Veneta per recarsi a scuola a Castelfranco Veneto. Maglietta nera con una riga bianca, scarpe alte bianche e lo zainetto sulle spalle. Telefono cellulare, che è spento da quella mattina, e apparentemente non più di 10 euro in tasca.
Solo che invece di andare in aula, la ragazza è entrata al bar Roma dal quale è uscita verso le 9.30: «Dopo aver fatto una o più video chiamate», ha raccontato il titolare agli inquirenti. La traccia telefonica si è interrotta nel centro della città.
LE RICERCHE Una donna trevigiana ha segnalato ai carabinieri di avere visto sul Montello una ragazza simile a Basma, ma per gli investigatori l'avvistamento non sarebbe plausibile. Ha dichiarato: «Martedì e mercoledì pomeriggio c'era una ragazza qui sul Montello che sembra lei, era sola con una bicicletta vecchia, stava ferma con un telefono in mano, aveva pantaloni larghi neri, però poi da mercoledì pomeriggio non l'ho più vista. Si trovava sulla Presa 10 verso il versante della panoramica».
LA FAMIGLIA In Italia è arrivato per primo il padre di Basma, Mohammad Afzaal, che lavora nella distribuzione dei volantini pubblicitari, particolarmente legato al suo Paese e alla sua religione islamica. Nel 2018 è giunto il resto della famiglia. A Galliera Veneta è la giovane a curare negli uffici le varie pratiche o ad accompagnare i familiari, avendo più padronanza della lingua.
E poi c'è quel particolare saltato agli occhi in questi giorni: in paese indossa abiti tradizionali, con il velo, mentre a scuola preferisce portare vestiti occidentali. Sono stati mamma e papà, la sera di martedì scorso a presentare denuncia di scomparsa ai carabinieri.
Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” l’8 novembre 2022.
«La mia infanzia, seppure figlia di due persone separate, è stata felice anche se è durata troppo poco. Mio papà era un uomo che, quando presente, portava una ventata di allegria e di gioia ed io ero felice di poter giocare assieme a lui».
La telefonata con Allegra Gucci, secondogenita di Maurizio Gucci e Patrizia Reggiani, inizia così: una voce posata, la ricerca costante delle parole più appropriate con la capacità di entrare nelle domande di chi non ha paura di affrontare, ancora adesso a ventisette anni dalla morte del padre, un evento così doloroso. Allegra Gucci ha sofferto molto e certamente la sua pacatezza è di chi ha saputo costruire attorno ad un dolore, ad un vuoto, la propria esistenza.
Allegra, quel lunedì 27 marzo 1995, quando suo papà Maurizio Gucci venne ucciso aveva quattordici anni: che cosa ricorda?
«Sicuramente è stato uno dei giorni più bui della mia vita, anche perché fino a quel momento avevo una vita, nonostante la separazione dei miei genitori, spensierata. Ho il ricordo preciso della sensazione fisica in cui mi sono trovata: era come se mi fossi sentita ovattata e prigioniera di una bolla che mi conteneva mentre il mondo esterno andava avanti».
Perché ha sentito il bisogno di scrivere, dopo così tanto tempo, un libro "La fine dei giochi"(Piemme editore) su una storia così dolorosa come la morte di suo padre?
«Sono passati ventisette anni da quel terribile giorno in cui mio padre è stato ucciso e anche se intimamente avevo il desiderio di mettermi alle spalle, in una sorta di "diritto all'oblio", tutto l'accaduto capii che questo non era possibile».
Per quale motivo?
«Tutto accadde in realtà, dopo l'uscita del film "House of Gucci" di Ridley Scott ed è stato in quel momento che ho compreso, ancora una volta, come questa vicenda non potrà mai essere ignorata e farà sempre parte non soltanto del passato ma anche del presente. Inoltre non potevo accettare, soprattutto per i miei figli, che una verità distorta come quella del film divenisse la verità certificata e non contraddetta. Il mio libro è nato con il compito, di raccontare, cosa in realtà è accaduto dalla morte di mio padre, in un dialogo immaginario come se lui fosse ancora, portando la verità dopo tanti annidi bugie, un libro per raccontare e per dare la giusta memoria di mio papà».
Cosa significa quando mi dice che ha sentito il bisogno di raccontare la vera storia di una importante famiglia italiana?
«Il film "House of Gucci" è pieno di stereotipi italiani, spesso non veritieri e superficiali, che sono stati inseriti ed accollati anche alla famiglia Gucci e che non rappresentano minimamente la verità. Nel film in realtà poi il soggetto principale non è la storia di famiglia ma la storia di mio padre e mia madre».
Che rapporto ricorda con sua mamma prima della tragedia?
«Io ho sempre adorato mia mamma da bambina e noi avevamo un bellissimo rapporto. Deve immaginare che mio papà è andato via da casa quando io avevo quattro anni e mia madre, a modo suo, ha sempre cercato di ovviare a quella mancanza riempendo la vita a noi figlie di cose belle. La mamma mi ha sempre voluto bene e voleva farci stare bene».
Invece Allegra che ricordo ha di suo papà?
«Mio papà era un uomo estremamente solare, gioioso e divertente. Certo era spesso assente per lavoro e questa cosa, quando si è piccoli, mal si sopporta e capisce, ma quando arrivava riempiva la casa in modo straordinario. Io ero un po' il maschiaccio della famiglia a cui piaceva intrattenersi con lui giocando a calcio, andando in moto, andando a sciare, e questo ci permetteva di condividere il più possibile il tempo che avevamo assieme».
Allegra lei che bambina era durante la sua infanzia?
«Come le ho detto prima ho sempre coltivato passioni maschili: non amavo particolarmente giocare con le bambole ed invece preferivo giocare a calcio e le motociclette. Sono stata una bambina privilegiata perché circondata da persone che mi amavano e che mi hanno permesso di viaggiare molto e conoscere ancor di più facendo grandi esperienze. Posso però dire, senza possibilità di essere smentita da alcuna persona, che quella bella vita è durata troppo poco. Dapprima la separazione poi il tumore di mia mamma poi ed infine la morte di mio papà e infine l'arresto e la condanna di mia madre: ho iniziato presto ad occuparmi di affrontare i problemi».
Il rapporto con sua mamma, dopo la morte di suo padre, è cambiato?
«In realtà no perché sono sempre stata convinta della sua innocenza. Insieme a mia sorella Alessandra abbiamo fatto un lavoro certosino di raccogliere i pezzi per cercare di ricostruire in modo veritiero ciò che era accaduto. Con mia sorella abbiamo combattuto per nostra madre e sacrificato le nostre vite per lei ma purtroppo tutto questo è servito a poco...».
Perché mi dice questo?
«Perché, ancora una volta, dopo il carcere mia madre ha scelto di frequentare brutte persone, all'apparenza magari più semplici e divertenti, che però l'hanno ancora portata sulla brutta strada».
Parla di Loredana Canò la sua ex compagna di cella a processo con l'accusa di essersi insinuata in maniera inesorabile, al punto di condizionare pienamente sua madre ed il residuo di volontà che la sua malattia le consentiva?
«Sì, parlo di lei e delle persone vicine alla Canò che hanno convinto mia mamma, manipolandola, ad azzerare i rapporti familiari e sociali che aveva impedendoci di avere una normale relazione affettiva».
Dalle relazioni della Procura risulta addirittura che la Canò avrebbe convinto sua madre a fare la guerra a voi sorelle. È vero?
«Questo c'è scritto. Ci sono migliaia di pagine della Guardia di Finanza e della Procura su come si muoveva questa pseudo-amica di mia mamma».
È delusa di questo?
«Sono stata derubata di tempo e di vita ma alla fine cosa importa ciò che penso? L'unica cosa che voglio è che tutto questo, ora che sono madre e moglie, non ricada sulla mia famiglia e sui miei figli».
Nonostante questo lei ha rapporto adesso con sua mamma?
«Certo che sì, è sempre mia madre. C'è stato un momento in cui ho temuto per la sua vita e così ho fatto l'esposto da cui è partito tutto. Oggi mia mamma sta pagando i suoi errori con la solitudine. Mia mamma non ha nessuno, se non noi figlie, accanto».
Nel suo libro "Fine dei giochi" si legge che un giorno vostra madre vi disse che aveva fatto uccidere papà per "il vostro bene": mi racconta come è successo e come avete (lei è sua sorella Alessandra) reagito?
«È stata una frase costruita all'interno di un dialogo ma ha causato uno tsunami di pugnalate ovunque. Mia mamma disse una frase senza senso perché non c'era un motivo al mondo perché papà dilapidasse un patrimonio. Papà era un uomo eccezionale e si sarebbe realizzato comunque».
Lei perdona sua madre?
«Penso che il tumore al cervello, che le ha causato un vero e proprio buco, possa aver peggiorato la sua situazione. Mia mamma è come una falena al contrario ossia è attirata dal buio, dalle tenebre e si mette sempre in situazioni pericolose».
Come è stato l'amore tra sua mamma e suo papà?
«Nel film "house of Gucci" si descrive mio papà come un uomo ingenuo e mia mamma più spregiudicata. Falso. Il loro è stato un amore autentico tra due ragazzi che si sono innamorati. Certamente è stato un amore travolgente durato solo dodici anni. Il film di Ridley Scott ha perso l'occasione per raccontare davvero la storia di una grande famiglia italiana e dello stile italiano. La realtà, se fosse stata raccontata in modo corretto, è di gran lunga più interessante della sceneggiatura del film».
Sempre nel film si narra che il matrimonio tra suo papà e sua mamma è finito a causa della nuova relazione con Paola Franchi. È vero?
«Assolutamente no. I miei genitori si sono lasciati nel 1985 e la relazione iniziò nel 1992: sia mio padre che mia madre avevano già avuto altri amori nel corso di quegli anni».
Che rapporto ha con Paola Franchi?
«Nessuno. È la persona che, dopo la morte di mio padre, ha reso la nostra vita un inferno per motivi economici».
Lei ha due figli. Le ha già raccontato qualcosa di questa triste vicenda?
«No, sono troppo piccoli e penso che sia una verità troppo pesante e li voglio proteggere».
Luigi Ferrarella per corriere.it il 30 maggio 2022.
Un tesoro ambulante ma influenzabile a motivo della «fragilità psichica» indotta dalle conseguenze neurologiche dell’asportazione di un tumore al cervello, insomma una gallina dalle uova ancora d’oro che, anche una volta tornata libera dopo aver scontato i 26 anni di condanna come mandante dell’omicidio del marito stilista Maurizio Gucci, tanti finti amici e consulenti intorno a lei avrebbero in vario modo e in misure diverse «spennato»: è in questa chiave di lettura sulla sorte di Patrizia Reggiani che la Procura di Milano, in un avviso di conclusione delle indagini iniziate dalla Guardia di Finanza un anno fa, ora formula la contestazione dell’ipotesi di reato di concorso in circonvenzione di incapace a 8 persone in teoria molto distanti tra loro, quali la sua ex compagna di cella a San Vittore , Loredana Canò , installatasi a titolo di «assistente» contrattualizzata e convivente nella favolosa villa milanese di Reggiani, infine «sfrattata» dai magistrati.
Poi c’è l’avvocato Daniele Pizzi, legale già alla ribalta delle cronache quale parte civile per la famiglia di Lidia Macchi nei processi per l’assassinio della studentessa 35 anni fa, ma qui indagato quale ex «amministratore di sostegno» nominato dal Tribunale a Patrizia Reggiani nel 2019 su richiesta proprio della madre Silvana Barbieri, timorosa che alla propria morte il proprio patrimonio (tra cui la villa in centro a Milano e un capannone di 10 mila metri quadri in via Mecenate) venisse dissipato dalla figlia erede.
Altri addebiti sono mossi all’avvocato Maurizio Giani, già legale della scomparsa (nel 2019) 92enne madre della Reggiani, poi suo esecutore testamentario, il quale per i pm si sarebbe approfittato appunto di Silvana Barbieri per indicarsi presidente a vita di una Fondazione che il testamento beneficiò di un complesso immobiliare da almeno 14 milioni dietro la Stazione Centrale (130 tra appartamenti e negozi e box affittati) e del diritto a 4 milioni cash (di cui sinora versati 100.000 euro).
Indagati anche il consulente per gli investimenti Marco Chiesa, gli ex vertici di due società immobiliari della Reggiani, Maria Angela Stimoli e Marco Riva, giovane manager dello sport e presidente del Coni Lombardia, e con Pizzi (per l’ipotesi di corruzione nella retrocessione di parte di una parcella) i revisori Mario Wiel Marin e Marco Moroni. L’inchiesta del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e della pm Michela Bordieri era scaturita dalla decisione della giudice tutelare Ilaria Mazzei di disporre verifiche (affidate al nuovo amministratore di sostegno Marco Accolla) sulla congruità dei rendiconti delle uscite per 3 milioni di euro in due anni dal patrimonio di Patrizia Reggiani, e dalla deposizione in Procura di Allegra Gucci, una delle due figlie di Reggiani, alla quale una sentenza della Cassazione del 2020 aveva imposto di corrispondere alla madre (pur mandante dell’omicidio del padre) un vitalizio di 1,1 milioni di franchi l’anno e 35 milioni di arretrati.
Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 31 maggio 2022.
Una gallina dalle uova ancora d'oro che, sfruttabile per la «fragilità psichica» indotta dalle conseguenze neurologiche dell'asportazione di un tumore al cervello, tanti finti amici e consulenti intorno a lei avrebbero in vario modo e in misure diverse «spennato» anche una volta tornata libera dopo aver scontato i 26 anni di condanna come mandante dell'omicidio nel 1995 del marito stilista Maurizio Gucci: è in questa chiave di lettura sulla sorte di Patrizia Reggiani che la Procura di Milano, in un avviso di conclusione delle indagini iniziate dalla Guardia di finanza un anno fa, ora accusa (per ipotesi di reato di concorso in circonvenzione di incapace o peculato o corruzione o induzione indebita) 8 persone in teoria molto distanti tra loro.
A cominciare dall'avvocato Maurizio Giani, già legale della scomparsa 92enne madre della Reggiani, Silvana Barbieri, poi dopo la morte nel 2019 suo esecutore testamentario, in tal veste per i pm approfittatosi in ospedale appunto della già annebbiata novantenne per farsi indicare presidente a vita di una Fondazione beneficiata nel testamento dalle locazioni di un complesso immobiliare da almeno 14 milioni dietro la Stazione Centrale (90 tra case e negozi) e dal diritto a 4 milioni cash (di cui sinora versati 100.000 euro).
«Farla apparire come soggetto debole, circondata da una sorta di "corte dei miracoli" pronta ad approfittare della situazione per proprio tornaconto personale, è uno stucchevole tentativo di rappresentare una realtà assolutamente distorta e lontana anni luce dalla verità storica», ribatte Giani. Il quale, per i pm, seppure all'inizio non la potesse vedere, da un certo momento avrebbe invece «favorito la sempre più ingombrante presenza nella vita della Reggiani» della sua ex compagna di cella a San Vittore, Loredana Canó, installatasi a titolo di «assistente» contrattualizzata e convivente nella favolosa villa milanese di Reggiani, infine «sfrattata» dai magistrati che la accusano anche di averle rubato gioielli.
A sua volta Canò avrebbe introdotto alla tavola imbandita del patrimonio della Reggiani l'avvocato Daniele Pizzi, legale già alla ribalta quale parte civile per la famiglia di Lidia Macchi nei processi per l'assassinio della studentessa 35 anni fa, ma qui indagato quale ex «amministratore di sostegno» nominato dal Tribunale alla Reggiani nel 2019 su richiesta proprio della madre.
A Canò e Pizzi sono contestati anche episodi di peculato e uno di induzione indebita per aver convinto nel luglio 2020 (a detta dei pm) il canale televisivo Discovery+ a pagare in contanti 15.000 euro un'intervista a Patrizia Reggiani.
Pizzi ha anche un'accusa di corruzione, nell'assunto che si sia fatto retrocedere parte di una parcella dai revisori Mario Wiel Marin e Marco Moroni ingaggiati per una stima immobiliare; mentre Marco Chiesa è indiziato di concorso in circonvenzione di incapace per aver (con Canò e Pizzi) «indotto Reggiani a consegnargli la gestione finanziaria» di società affidate come amministratori ai pure indagati Maria Angela Stimoli e Marco Riva, giovane manager dello sport e presidente del Coni Lombardia.
L'inchiesta del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e della pm Michela Bordieri era scaturita dalla decisione della giudice tutelare Ilaria Mazzei di disporre verifiche (affidate al nuovo amministratore di sostegno Marco Accolla) sulla congruità della gestione, e dalla deposizione in Procura di Allegra Gucci, una delle due figlie di Reggiani alle quali una sentenza della Cassazione del 2020 aveva imposto di corrispondere alla madre (pur mandante dell'omicidio del padre) un vitalizio di 1,1 milioni di franchi l'anno e 35 milioni di arretrati.
Assalto "amico" all'eredità di Lady Gucci: 8 indagati. Cristina Bassi il 31 Maggio 2022 su Il Giornale.
Conoscenti, avvocati e consulenti l'hanno "spennata". Per i pm è "circonvenzione d'incapace".
Otto persone, tra cui due avvocati, risultano indagate nell'inchiesta della Procura di Milano sulla gestione del patrimonio, milionario in euro, ereditato da Patrizia Reggiani dalla madre Silvana Barbieri.
I pm indagano per i reati, attribuiti a vario titolo, di circonvenzione di incapace, peculato, furto, corruzione e induzione indebita e hanno notificato ieri l'avviso di conclusione delle indagini. L'atto riporta i nomi dell'ex amministratore di sostegno della vedova Gucci, l'avvocato Daniele Pizzi, della ex compagna di cella di Reggiani, Loredana Canò, dell'avvocato Maurizio Giani, legale di Silvana Barbieri, morta nel 2019, di Marco Chiesa, consulente finanziario sempre della madre della vedova Gucci. Ancora: Marco Riva e Maria Angela Stimoli, presunti «prestanome», e Mario Wiel Marin e Marco Moroni, titolari di una società che ha svolto una perizia sul valore di alcune società immobiliari amministrate da Barbieri. Le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dal pm Michela Bordieri, sono affidate alla Guardia di finanza.
Patrizia Reggiani ha scontato 26 anni di carcere per essere stata la mandante dell'omicidio del marito Maurizio Gucci nel 1995. L'inchiesta sul patrimonio della donna è nata anche da un esposto di Allegra Gucci, una delle due figlie di Maurizio e Patrizia. Il 19 marzo 2021 il giudice tutelare Ilaria Mazzei aveva disposto la sospensione di Pizzi dall'incarico di amministratore di sostegno per verifiche sulle uscite: 3 milioni di euro in due anni. Silvana Barbieri aveva lasciato alla figlia una villa nel cuore di Milano, un capannone di 10mila metri quadrati in via Mecenate e alcune società immobiliari. Poi aveva incaricato Giani di costituire una Fondazione, da lui stesso presieduta a vita, con in pancia tra l'altro un complesso immobiliare da 14 milioni di euro dietro la stazione Centrale. Tra gli episodi finiti sotto la lente dei pm, il pagamento in nero di 15mila euro per un'intervista televisiva rilasciata da Patrizia Reggiani e il furto di alcuni gioielli da parte della sua ex compagna di cella poi diventata «assistente» e «punto riferimento fiduciario». Gli indagati per circonvenzione di incapace avrebbero abusato dello stato di fragilità psichica di Reggiani, «affetta da sindrome post frontale» dopo un tumore al cervello asportato nel 1992. Nel 2018 Canò andò a vivere nella casa della vedova, con «il pieno controllo della gestione domestica» e, secondo i pm, impedendo alle figlie di vederla e convincendola a firmare una polizza vita da 6,6 milioni facendosi indicare tra i beneficiari.
Caso Gucci, tra gogna mediatica e distorsioni della verità. Ruben Razzante il 18 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il caso Gucci, vale a dire l’uccisione, il 27 marzo 1995, di Maurizio Gucci, patron della casa d’alta moda, è una ferita ancora aperta per molti. Come stanno davvero le cose.
Il ruolo dell’informazione nei casi di cronaca nera e di cronaca giudiziaria è delicatissimo. Il diritto-dovere di raccontare la verità dei fatti non deve mai travalicare il limite della dignità delle persone coinvolte. L’applicazione del parametro dell’essenzialità deve ispirare il lavoro del giornalista nella selezione dei particolari da riportare nella narrazione, al fine di renderla bilanciata e rispettosa di tutti i diritti, non solo di quello all’informazione. Questa considerazione suggerisce di rileggere con occhio critico e, se possibile, di riscrivere con equilibrio, serenità e pacatezza pagine cruciali della storia del nostro Paese, anche per risparmiare alle nuove generazioni una loro rappresentazione falsata e fuorviante.
Caso Gucci, una ferita ancora aperta
Il caso Gucci, vale a dire l’uccisione, il 27 marzo 1995, di Maurizio Gucci, patron della casa d’alta moda, è una ferita ancora aperta per molti. Se le ricostruzioni ufficiali appaiono fedelmente riproduttive degli esiti processuali, con l’individuazione dell’esecutore materiale (Benedetto Ceraulo) e l’identificazione della ex moglie Patrizia Reggiani quale mandante dell’omicidio, gli strascichi mediatici della vicenda allungano le loro propaggini fino ai giorni nostri. Sicuramente la morte del padre è una ferita ancora aperta per le sue due figlie, Allegra e Alessandra. La prima ha deciso di dire la sua in un libro uscito in settimana e dal significativo titolo “Fine dei giochi” (ed.Piemme). Potrà stupire che ben 27 anni dopo Allegra abbia sentito il bisogno di far quadrare il puzzle della intricata vicenda, ma a spingerla verso il terreno editoriale ha certamente contribuito la speculazione mediatica della quale l’intera famiglia Gucci è stata vittima per anni e che è culminata nel recentissimo film House Of Gucci, di Ridley Scott.
Un film discutibile, un libro chiarificatore
Con un dolore misto a senso di liberazione, Allegra, figlia di un padre assassinato e di una moglie incarcerata, ha messo nero su bianco le sue riflessioni sulla morte del padre, avvenuta quando lei aveva solo 14 anni, e lo ha fatto anche in prospettiva, affinchè i suoi figli piccoli possano un giorno apprendere i dettagli della tragedia del nonno con una chiara percezione dei contorni e delle responsabilità. A detta di Allegra, il film House of Gucci si basa su una ricostruzione approssimativa e ampiamente imprecisa della controversa vicenda e fornisce un’immagine inattendibile di Maurizio Gucci, <descritto come un debole, un viziato, mentre Papà era luminoso, un grande lavoratore>.
Doveroso l’oblio sulle foto del corpo della vittima
Ma ora, nella vicenda Gucci, per ristabilire il dominio della verità dei fatti e provare a ribilanciare i rapporti di forza tra riservatezza dei protagonisti e morbosità mediatica, sarebbe opportuno inaugurare la stagione dell’oblio su alcuni particolari macabri. Uno su tutti: la foto che ritrae il volto insanguinato di Maurizio Gucci nell’androne di casa e che continua ad essere facilmente reperibile negli archivi web dei principali quotidiani italiani e nei motori di ricerca generalisti. Nel 1995, anno dell’omicidio, la sensibilità deontologica dei giornalisti era decisamente meno spiccata di oggi, non c’era ancora il codice deontologico per la privacy, che raccomanda al mondo dell’informazione una protezione rafforzata per i soggetti deboli e le vittime di violenza. Inoltre non esisteva all’epoca la perenne rintracciabilità di contenuti virali attraverso la Rete. Per rispettare la dignità della memoria di un uomo che non c’è più e per preservare i suoi nipotini dall’impatto traumatico che un giorno potrebbe avere su di essi la visione di quelle immagini, è doveroso renderle inaccessibili nello spazio virtuale, non essendo in alcun modo funzionali alla completezza del racconto.
Allegra Gucci: «Il mio lungo viaggio». Il padre assassinato, la madre incarcerata. Poco più che una bambina, la figlia di Maurizio Gucci e di Patrizia Reggiani 27 anni fa fu travolta dall’onda della tragedia e cercò «una bolla per respirare, anche se hai intorno solo squali». Oggi rompe il silenzio, con un libro sconvolgente. SIMONE MARCHETTI su Vanity Fair il 9 Marzo 2022.
Qui un estratto dell'articolo pubblicato sul numero 11 di Vanity Fair in edicola fino al 14 marzo 2022
Tutte le famiglie felici si somigliano. La famiglia Gucci è stata infelice a modo suo. Attenzione: questo non è l’incipit di Anna Karenina. Questo è solo l’inizio di un dramma dove i fili del destino dei personaggi reali si intrecciano a quelli delle marionette di Hollywood. Benvenuti nello spettacolo che sostituisce il dolore col cabaret e la verità con la banalità. Da una parte ci sono i fatti narrati in un nuovo, sconvolgente libro che ripercorre l’omicidio di Maurizio Gucci, il carcere di Patrizia Reggiani e lo stuolo di «ipocriti, adulatori, ladri, consiglieri fraudolenti e seminatori di discordia». Dall’altra c’è il poliziesco scritto male e recitato peggio che s’intitola House of Gucci, un kolossal che ha portato sotto gli occhi del mondo la tragedia di glamour, gelosia e delitto della famiglia dalla doppia G. Sono passati 27 anni da quella mattina del 27 marzo 1995, giorno della morte dell’erede di Gucci. 27 anni in cui Allegra Gucci, secondogenita di Maurizio e Patrizia, 41 anni appena compiuti, è rimasta in silenzio assistendo alle illazioni, alle bugie, ai titoli sensazionalistici, alle interviste in tivù e agli infiniti attacchi senza proferire parola. Ora, nelle 200 pagine di Fine dei giochi (Edizioni Piemme), racconta tutta la sua verità.
Partiamo da quel giorno, il giorno della morte di suo padre, freddato da quattro colpi di pistola da un sicario nel centro di Milano. Come ha saputo della sua scomparsa?
«Sono nella mia camera, non avevo dormito bene quella notte. Mia madre, Patrizia Reggiani, entra nella stanza e mi dice frettolosamente che papà è morto. Io, 14 anni, mi accovaccio a terra e guardo la vetrata che si affaccia su piazza San Babila. Sotto, i taxi gialli e le persone continuano a muoversi. Ma io sono ferma, come in una bolla, come se la mia vita si fosse fermata».
Quando ha capito che era stato un delitto?
«Poco dopo. L’ho sentito dalla televisione».
Il suo libro vuole mettere in luce le ombre di questa storia e di questi 27 anni. Le prime persone che entrano in scena sono cinque donne: Paola Franchi, compagna di suo padre in quel periodo; Giuseppina Auriemma, da tutti conosciuta come «la maga»; Loredana Canò, compagna di cella di sua madre; Silvana Barbieri Reggiani, sua nonna; e infine Patrizia Reggiani, sua madre. Iniziamo da Paola Franchi, spesso descritta dai giornali come la vittima di questa vicenda.
«La notte di quel 27 marzo, a poche ore dalla morte di mio padre, Paola Franchi organizza un trasloco dall’appartamento di corso Venezia dove viveva con lui, circa 1.000 mq. Lo stesso avviene con la casa di St. Moritz nei giorni seguenti».
Nel film, al contrario, si narra di sua madre che arriva nella casa di corso Venezia per mandarla via...
«Bugie. Mia madre non ci è mai andata. Quello stesso giorno, invece, mia sorella Alessandra si reca all’indirizzo per chiedere qualcosa del padre: voleva respirare ancora il suo odore, abbracciarlo l’ultima volta. Franchi non si presenta, al suo posto la persona che apre la porta dà frettolosamente a mia sorella un golf bianco di papà rimasto su una poltrona. Franchi lascerà la casa a luglio, molti mesi dopo. È tutto agli atti».
Ci sono altre due questioni relative a Franchi e riportate nel libro: un documento nominato «Convenzione di convivenza» e il racconto della causa per ottenere il suo affidamento perché lei era minorenne...
«Il primo documento è importante per due motivi. Primo: è l’evidenza del grande amore intercorso tra mio padre e mia madre, una storia bellissima durata 13 anni e interrotta dalla separazione avvenuta nel 1985. Il loro matrimonio non è finito a causa della Franchi come spesso riportato dai giornali: l’allontanamento risale ad almeno 7 anni prima della loro relazione. Secondo: la Convenzione di convivenza attesta la volontà di mio padre di non volersi sposare più. Lo ripeteva a tutti: non si sarebbe creato mai più una famiglia perché la sua famiglia eravamo noi, io e mia sorella».
«Mi fidavo ciecamente di mia nonna Silvana, ma presto ho capito che per lei esistevano solo il denaro e il potere che ne discende»
E la causa per la sua custodia?
«Franchi non era la moglie di mio padre, non era mia madre né tantomeno era un’amica. Quando nel 1998 mia madre è stata giudicata colpevole, Franchi si è rivolta al Tribunale per i Minorenni indicando che io e il mio patrimonio eravamo “allo sbando” e che lei si offriva per tutelare me e i miei interessi. Un altro schiaffo. Io, figlia di un padre assassinato e di una madre incarcerata, dovevo subire anche questo. E nonostante l’autorità svizzera avesse già nominato di fatto un tutore per legge, quindi non potevo essere di certo allo sbando, in quel momento ho dovuto pensare anche a difendermi, ad andare davanti a un giudice per spiegare cosa provavo, qual era la mia vita, a giustificarmi per evitare un altro attacco. Paola Franchi non ci ha mai dato tregua. E ha continuato. Non capisco come ci si possa scagliare così contro una ragazzina. O forse lo so: era alla ricerca solo di una ricompensa perché le sue azioni vanno contro le sue intenzioni di cura e di amore professate».
(Continua, sul numero 11 di Vanity Fair in edicola fino al 14 marzo 2022)
La copertina del libro Fine dei giochi (Edizioni Piemme, pagg. 201, € 18,50) di Allegra Gucci. L’autrice devolverà i proventi a lei spettanti dalle vendite del libro alla Fondazione Francesca Rava, che si occupa di bambini in difficoltà in Italia e nel mondo e che ora è impegnata nell’emergenza in Ucraina.
Cronaca di una saga
28 ottobre 1972 — Patrizia Reggiani sposa Maurizio Gucci nella chiesa di San Sepolcro a Milano.
28 giugno 1976 — Nasce la primogenita Alessandra Gucci.
27 gennaio 1981 — Nasce la secondogenita Allegra Gucci.
22 marzo 1985 — Maurizio Gucci lascia Patrizia Reggiani.
6 maggio 1992 — Maurizio e Patrizia divorziano in Svizzera.
27 maggio 1992 — Patrizia viene operata per un tumore al cervello. Sua figlia Allegra pensa che l’intervento abbia condizionato i suoi comportamenti.
1993 — Maurizio Gucci comincia una relazione con Paola Franchi.
14 ottobre 1994 — Maurizio e Patrizia divorziano anche in Italia.
27 marzo 1995 — Maurizio Gucci, 46 anni, viene ucciso a Milano nell’ingresso del palazzo di via Palestro 20 dove si trova il suo ufficio.
Allegra Gucci: «Patrizia Reggiani? La credevo innocente, poi mamma disse: quello che ho fatto, l’ho fatto per te». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 9 Marzo 2022.
Per la prima volta parla la figlia dell’imprenditore ucciso nel 1995. Il film di Ridley Scott («Una pessima caricatura»), il rapporto tormentato con la madre, Patrizia Reggiani («È una falena al contrario, attratta dalle ombre»), i due figli e la sua verità sui fatti
Allegra Gucci, suo padre Maurizio è stato ucciso il 27 marzo 1995. Lei non ha mai parlato. Perché lo fa ora?
«Perché sulla mia famiglia sono state dette tante cose non veritiere. E poi è arrivato House of Gucci, il film di Ridley Scott, una pessima caricatura: è stata la molla. Ho voluto dire la mia. Lo devo a mio padre, che non ha più voce, e ai miei due figli: vorrei che, crescendo, attingessero ai fatti raccontati dalla mamma».
Della sua vita si sa poco.
«Riassumo la mia giovinezza? Avevo 11 anni quando mia madre, Patrizia Reggiani, venne operata di tumore al cervello. Ne avevo 14 nel 1995, quando papà venne ucciso a Milano. Due in più quando mia madre venne arrestata e poi condannata come mandante del suo omicidio».
E poi anni di visite al carcere di San Vittore, dove sua madre ha scontato 17 anni.
«La mia vita e quella di mia sorella Alessandra è stata una continua rievocazione di quei fatti. Ogni volta che si parlava di noi, ecco quella orribile fotografia: Maurizio Gucci senza vita, in una pozza di sangue nell’atrio di un palazzo di via Palestro. Nessuno si è mai chiesto che cosa provavamo. E non ho parlato finora perché mi illudevo che un giorno su tutto sarebbe sceso l’oblio e che avrei avuto spazio per me. Oggi, a 40 anni, so che questo non finirà mai. Allora parlo».
È per questo che ha intitolato «Fine dei giochi» il suo memoir, che esce il 15 marzo?
«Sì, ripercorro i nodi di una storia ancora aperta. A cominciare da quel 27 marzo. Non ero andata a scuola, fu mia madre a entrare nella mia stanza e a dirmi “Tuo padre è morto”. Poi se ne andò. Da allora io e la mia famiglia non abbiamo avuto pace. Battaglie legali, ricostruzioni false. Sa perché ho scelto di studiare Legge? Per capirci qualcosa».
Chi era davvero Gucci?
«Il film di Scott lo ha dipinto come un debole, un viziato. Tutto falso. E mia madre era una donna bellissima, corteggiata. Mai si sarebbe imbucata a una festa. Papà era luminoso, un grande lavoratore. Un ricordo: Forte dei Marmi, un fine settimana tutti insieme, partite a calcetto. Come una famiglia normale».
I suoi prima si separeranno e poi divorzieranno.
«Dieci anni prima dell’omicidio. Le battaglie tra gli ex sono dolorose per i figli, mamma erigeva barriere ma io ho ritrovato lettere in cui papà chiede alla mamma di poterci vedere più spesso. E io mi ritagliavo ogni spazio possibile con lui. Altro ricordo: Parigi, io e lui soli. I suoi piedi nudi, grandi. Bizzarri, per me che non vivevo una vera quotidianità con mio padre».
Che cosa ha pensato quando sua madre è stata prima arrestata e poi condannata come mandante?
«Quello che ho continuato a pensare per anni: che fosse innocente. Ero convinta della sua estraneità. È stata questa convinzione ferrea a sostenermi mentre le portavo i pacchi in carcere, anni spesi ad assisterla, a studiare i processi, a cercare di far emergere una volta per tutte la sua innocenza. Lei diceva di essere “non innocente, ma nemmeno colpevole”: parole ambigue, certo. La “non colpevolezza” alludeva alla manipolazione subita da persone che avevano approfittato della sua fragilità, mentre la dichiarazione di “non innocenza” faceva vacillare le mie certezze. Ma era mia madre: si può non avere fede nella propria madre?».
E poi?
«E poi, un giorno, in televisione ha fatto una mezza ammissione. L’ho chiamata, chiedendole spiegazioni. Alla fine, è sbottata: “Insomma, tutto quello che ho fatto, l’ho fatto solo per voi due”. Dunque qualcosa aveva fatto. Ho sentito il vuoto sotto i piedi. Una voragine».
E oggi, che cosa pensa?
«Non ho verità, ma una certezza sì: mia madre è stata una donna buona, eppure molto vulnerabile. Una “falena al contrario”, attratta dalle ombre più che dalla luce. Dopo la separazione si legò a Pina Auriemma, una che l’ha sempre blandita, cosa che piace a tutti; poi in carcere conobbe Loredana Canò, la quale, una volta libera, si insediò a casa con lei. Il resto è cronaca: Auriemma condannata per favoreggiamento nell’omicidio Gucci, Canò di recente è stata allontanata da mia madre con un provvedimento del giudice Gasparini, come ha scritto il Corriere nel 2021. Oggi Patrizia è seguita da Marco Accolla, ottimo amministratore di sostegno. Ci fidiamo di lui».
Pensa che la frase «non sono innocente, ma nemmeno colpevole», sia la formula più vicina alla verità?
«Penso di sì. Non sono una sprovveduta che la assolve da tutto e di certo una delle sue colpe è stata quella di fidarsi di persone poco raccomandabili. Poi c’è quel tumore asportato che, chissà, forse ha alterato il suo senso critico. Oggi stiamo pazientemente ritrovando un dialogo».
L’ha perdonata?
«Il perdono va chiesto. Di certo l’odio logora. Voglio ricostruire, non distruggere».
Ci sono partite aperte.
«Il vitalizio. Quello che mia madre non ha mai chiesto ma che Paola Franchi, la convivente di mio padre, ha combattuto in tribunale per vedere riconosciuto, al fine di essere risarcita, pensi un po’, da Patrizia Reggiani! E la legge ha stabilito che le figlie di un uomo ucciso devono dei soldi alla propria madre (condannata) affinché questa risarcisca la sua ex compagna».
Che cosa sogna oggi?
«La serenità. E che mia madre un giorno mi abbracci e mi dica: “Ti voglio bene”».
Pina Auriemma: «Aiutai Patrizia Reggiani a cercare il killer di Maurizio Gucci: ci penso ogni giorno»
Patrizia Reggiani: «Ho fatto ammazzare Maurizio Gucci per stizza»
la versione di Patrizia Reggiani: «Chiedevo a tutti: c’è qualcuno che ha il coraggio di ammazzare mio marito?»
House of Gucci. Andrea Morante: fu tutta un’altra storia
Allegra Gucci ha scritto «Fine dei giochi», un memoir nel quale rievoca la figura di suo padre e i nodi più intricati della vicenda. Il ricavato delle vendite del libro andrà a sostenere la Fondazione «Francesca Rava»
Le botte e la morte: Dino "fatto uccidere dalla moglie". Rosa Scognamiglio il 25 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Sonia Bracciale è stata condannata a 21 anni e 2 mesi per concorso in omicidio del marito. A dieci dalla condanna, il processo si riapre: "Abbiamo nuovi elementi che provano la sua innocenza", spiega il suo difensore.
Passione, gelosia e vendetta. Sono i sentimenti che animano la relazione tra Dino Reatti e Sonia Bracciale (Sosò per gli amici), i protagonisti di quello che la scrittrice Matilde D'Errico definirebbe un "amore criminale". Una storia buia e maledetta sfociata nel sangue. Buia come la notte del 2012 in cui Dino, un omone grande e grosso, viene ucciso a sprangate nel cortile di casa, un casolare immerso nella campagna silenziosa di Anzola dell'Emilia.
Due uomini, Thomas Sanna e Giuseppe Trombetta, si accaniscono contro di lui con una sbarra di ferro finendo per lasciarlo esanime sull'asfalto. La moglie, Sonia, si precipita a soccorrerlo e allerta i carabinieri. Ma le indagini lampo condotte dai militari dell'Arma aprono a uno scenario ben più sconcertante e drammatico. Per gli inquirenti la 43enne ha ordinato l'omicidio del marito, dal quale era in fase di separazione, avvalendosi di due sicari: l'amante (Sanna) e l'amico (Trombetta). Le condanne, confermate in tre gradi di giudizio, cristallizzano i ruoli degli imputati: 21 anni e 2 mesi alla Bracciale per esser stata la "mandante del delitto"; 9 e 12 anni ai due "esecutori materiali" dell'assassinio.
A dieci anni dalla tragedia, il caso è approdato a una svolta a dir poco clamorosa. L'avvocato Gabriele Magno, legale di Sonia, ha chiesto e ottenuto la revisione del processo in ordine dei "nuovi elementi" – conferma alla nostra redazione – che scagionerebbero definitivamente la sua assistita. "È stata la mandante del delitto, su questo non ci piove. Non lo dico io. C'è una sentenza della Cassazione che ha già stabilito la verità sull'omicidio di mio fratello", spiega a ilGiornale.it Renata Riatti, sorella di Dino.
Sonia e Dino
L'amore tra Sonia e Dino sboccia in una calda estate degli anni '90. I due si conoscono durante una vacanza in Puglia tramite un amico comune. Sonia, originaria di Brindisi, ha poco più di 17 anni quando incontra il suo futuro marito. Lui, Dino, è un ragazzone alto 1 metro e 93 centimetri dagli occhi azzurri, nato e cresciuto a San Giovanni in Persiceto (Bologna). Tra i due scoppia immediatamente la scintilla tanto che, dopo una breve frequentazione, già progettano una famiglia insieme.
Quando Sonia compie 18 anni, Dino le chiede di raggiungerlo in Emilia per provare a costruire il futuro insieme. Giovanissimi e animati da vicendevole passione, decidono di convolare a nozze. Prendono in affitto un casolare ad Anzola dell'Emilia, nel Bolognese, certi che diventerà il loro nido d'amore. Sonia lavora come guardia giurata presso un istituto di vigilanza privata, Dino ripara e vende elettrodomestici. La loro non è certo una vita di agi ma l'amore sembra avere la meglio. Poco importa se a fine mese incombono le scadenze e le bollette, il sentimento che li unisce trionfa su tutto. "Dino era profondamente e sinceramente innamorato di Sonia, avrebbe dato la vita per lei - racconta Renata - L'ha amata dal primo all'ultimo giorno della sua vita".
La crisi coniugale
Per i primi dodici anni, il matrimonio tra Sonia e Dino trascorre abbastanza serenamente. Certo i battibecchi non mancano, ma nulla lascia presagire la tragedia che si consumerà nella maledetta estate del 2012. Col trascorrere del tempo però, la relazione sprofonda in una crisi coniugale irreparabile. I litigi, talvolta dai toni accesi e violenti, diventano una costante nella coppia. Tra le richieste pressanti di Dino, continuamente bisognoso di denaro, e i presunti tradimenti di Sonia, la relazione naufraga in acque torbide.
"Il rapporto tra Sonia e Dino non è mai stato idilliaco - aggiunge Renata - Che mio fratello sperperasse soldi in cene con gli amici è vero ma era un ragazzo buonissimo. Non lo dico perché sono sua sorella ma perché lo dimostrano i fatti. Siamo cresciuti in una famiglia in cui gli equilibri erano molto precari, i nostri genitori litigavano spesso. Ciononostante Dino ha sempre desiderato una famiglia tutta sua. Ed è fuori da ogni dubbio che pensasse di poterla costruire con Sonia. Lui l'amava profondamente e non l'avrebbe mai sfiorata con un dito". Sonia, invece, sostiene di essere stata malmenata dal marito. In una occasione, come risulta agli atti dell'inchiesta per omicidio, lo ha denunciato per lesioni.
Incontri fatali
Siamo verso la fine della prima decade degli anni 2000. Nonostante continuino a vivere sotto lo stesso tetto, Sonia e Dino hanno deciso di separarsi. A gennaio del 2012, la 44enne brindisina conosce un giovane, Thomas Sanna, con il quale intreccia una relazione sentimentale. Sanna è un ragazzo di origini sarde con precedenti penali in Germania, Paese in cui ha vissuto per qualche anno prima di approdare in Emilia. I suoi trascorsi, però, non sembrano interessare alla bella Sosò, intenzionata a gettarsi il passato alle spalle.
In attesa di formalizzare la separazione, i due amanti optano per una soluzione di compromesso decidendo di convivere saltuariamente a casa di un conoscente di Sanna, tal Soccodato. In quella circostanza, Sonia conosce Giuseppe Trombetta, un uomo con evidenti fragilità psichiche, con il quale stringe un'amicizia molto intensa. Confidenziale al punto che, come cristallizza la sentenza della Cassazione, diventerà uno dei due esecutori materiali dell'omicidio di Dino.
Il pestaggio mortale
È pressappoco l'una di notte del 7 giugno 2012. Dino sta rientrando a casa dopo una serata trascorsa al bar con gli amici quando, subito dopo aver posteggiato l'auto, viene aggredito da due sconosciuti. Gli aggressori si accaniscono brutalmente su di lui a suon di sonore sprangate, finendo per lasciarlo quasi esanime sulla ghiaia del cortile. Sonia, che quella sera è in casa, si precipita giù dalle scale per soccorrere il marito. Poi allerta i carabinieri e il 118, mentre sua sorella – ospite per qualche giorno nel casolare – veglia sul cognato. Soccorso con un'ambulanza, Dino viene trasportato in codice rosso all'Ospedale Maggiore di Bologna. A tre ore dal brutale pestaggio, il suo cuore cesserà di battere. "Non ho neanche potuto tenergli la mano in punto di morte - commenta Renata - Abbiamo appreso la notizia quando era già troppo tardi. Dino è stato letteralmente massacrato, al punto da essere irriconoscibile. Per noi è stato un choc, una ferita che non si rimarginerà mai".
Le indagini
In men che non si dica, i carabinieri di Anzola si mettono sulle tracce dei responsabili. Il primo a essere intercettato dai militari dell'Arma è Giuseppe Trombetta: il 48enne si era recato al pronto soccorso per una ferita rimediata durante la colluttazione con la vittima. Poco dopo viene rintracciato Thomas Sanna che, invece, aveva abbandonato la scena del crimine in anticipo rispetto al suo complice. All'alba del giorno successivo anche Sonia Bracciale viene arrestata.
Il legame con i due aguzzini suggerisce agli inquirenti l'ipotesi di un possibile coinvolgimento della 43enne nel delitto. Senza contare che è proprio Trombetta, interrogato nell'immediatezza dei fatti, a tirare in ballo la donna. A dir suo, sarebbe stata Sonia a chiedergli – più o meno esplicitamente – di "dare una sonora mazziata" all'ex coniuge. Una "lezione" sfociata poi nel sanguinario pestaggio perché Dino avrebbe reagito all'aggressione alimentando la furia cieca degli aguzzini.
Ma non è tutto. A inasprire la posizione dell'indagata è una conversazione avvenuta con l'amico prima e con l'amante poi, in una saletta della caserma dove i carabinieri hanno piazzato le microcamere. "È scappato il mong...", racconta Trombetta riferendosi al suo complice. E poi un cenno d'intesa tra Sonia e Sanna nel tentativo di simulare una reazione rabbiosa alla notizia della morte di Dino. "Il montaggio di quel video non segue la cronologia degli eventi - spiega l'avvocato Gabriele Magno, fondatore dell'Associazione Nazionale Vittime Errori Giudiziari alla nostra redazione - Insieme a un team di consulenti esperti lo abbiano riprodotto ristabilendo l'ordine temporale delle varie sequenze. Ne deriva un'interpretazione completamente antitetica rispetto a quella cristallizzata nelle carte dell'inchiesta".
Le condanne
Nonostante Sonia si professi estranea al delitto, i giudici ritengono abbia ordinato l'omicidio del marito. Tra i vari elementi a suffragio della dinamica delittuosa ricostruita dai magistrati, vi è un dettaglio relativo alla fase di pianificazione del pestaggio mortale. Stando alla versione agli atti dell'inchiesta, a 43enne avrebbe suggerito ai due aguzzini di colpire Dino alla gamba destra "quella più debole".
Tale circostanza è stata confermata dall'esito degli accertamenti medico-legali sul cadavere. Dopo la condanna in primo grado a 18 anni di carcere, Sonia Bracciale è stata condannata in via definitiva a 21 anni e 2 mesi di carcere per omicidio volontario in concorso aggravato dalle condizioni di minorata difesa della vittima e del rapporto di coniugio. Thomas Sanna e Giuseppe Trombetta, giudicati in rito abbreviato, hanno incassato rispettivamente 16 e 14 anni in qualità di "esecutori materiali" del delitto.
La revisione del processo
Nel 2020 Sonia Bracciale, tramite il suo avvocato Gabriele Magno, ha chiesto la revisione del processo, istanza che è stata accolta dalla Corte d'Appello di Ancona. "Abbiamo prodotto nuovi elementi che comprovano l'estraneità alla vicenda della signora Bracciale - spiega il legale a ilGiornale.it – Inoltre ci sono due lettere scritte da Trombetta – stiamo parlando di 4 pagine fitte - in cui ritratta le dichiarazioni a scapito della mia assistita assumendosi le responsabilità del tragico accaduto".
La prima udienza del nuovo processo è fissata per il 15 febbraio 2022: "Puntiamo all'assoluzione 'al di là di ogni ragionevole dubbio". Nel corso di un'intervista rilasciata alla giornalista Franca Leosini per una puntata del programma "Storie Maledette" la Bracciale aveva dichiarato: "Voglio uscire da qui dentro (il carcere de La Doccia ndr) a testa alta. Sono innocente". Ma non tutti sono d'accordo. "Se Sonia dovesse farla franca sarebbe un'ingiustizia per mio fratello – afferma Renata Ariatti – significherebbe ucciderlo due volte".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
· Il Caso di Serena Mollicone.
Caso Mollicone, giustizia non vuol dire solo condanna. La nota della procura fa infuriare gli addetti ai lavori. Insulti e minacce contro gli imputati dopo la sentenza di assoluzione. Valentina Stella su Il Dubbio il 19 luglio 2022.
Qualche mese fa durante un convegno il professor Glauco Giostra ha osservato: «Non avete notato che si dice “Giustizia è fatta!” solo quando c’è un verdetto di condanna? Assolvere non equivale mai a fare giustizia». Questa considerazione è attualissima se pensiamo a cosa è accaduto dopo la sentenza di primo grado che venerdì scorso ha assolto l’intera famiglia Mottola dall’accusa di aver ucciso ventuno anni fa la giovane Serena Mollicone.
Appena i giudici della Corte di Assise di Cassino hanno terminato la lettura del dispositivo in Aula si sono udite urla contro i togati – «Vergogna, vergogna» – e contro gli imputati – «Assassini, vergogna, come fate a dormire stanotte?» -, mentre fuori dal Tribunale sia i Mottola che i loro avvocati e consulenti hanno rischiato un vero e proprio linciaggio: sono stati aggrediti dalla folla inferocita con spintoni e sputi e la situazione si è resa talmente incandescente che sono dovute intervenire le forze dell’ordine per creare un cordone intorno a loro per condurli nella sede dove era stata programmata una conferenza stampa.
Come ha detto l’avvocato Francesco Germani, a capo del pool difensivo: «È molto triste vivere in un Paese dove per fare una conferenza stampa bisogna essere scortati dalla polizia, è molto triste ed amaro vivere in un Paese che non rispetta le sentenze dei giudici perché si ritiene da parte dei più che giustizia significhi solo condannare. Giustizia vuol dire riconoscere colpevole chi è colpevole e riconoscere innocente chi è innocente». Il criminologo Carmelo Lavorino ha annunciato che presenteranno «un esposto-querela alla Procura di Cassino con la richiesta di individuare i responsabili e i loro mandanti e di punirli. Questo è il risultato del clima d’odio creato ad arte dal Comitato d’Affari del giallo di Arce e di qualche soggetto nemico della verità e del vivere civile. Altresì denuncio gli insulti, le offese e le intimidazioni rivolte ai Giudici togati e popolari che hanno assolto i cinque imputati, ulteriore esempio del clima di intolleranza, di minaccia e di violenza creato ad arte». Aggiungeremmo anche “esempio di ignoranza” del processo penale. Fin quando non capiremo le sue regole e le sue differenze con la verità storica, da cui talvolta si discosta, troveremmo sempre piazze inferocite contro le sentenze di assoluzione. E in questa partita un ruolo importante lo ha anche la stampa.
Molti colleghi hanno commentato la decisione dei giudici di Cassino con parole simili a quelle delle tricoteuse dei social e della piazza reale che ha inveito contro gli imputati: «Vergogna per una giustizia che non fa giustizia su Serena Mollicone – Serena uccisa una seconda volta – Si fa davvero fatica a credere fino in fondo nella giustizia, dopo una sentenza del genere». Le sentenze si possono certamente criticare e anche chi scrive è rimasto deluso perché quel terribile delitto è rimasto insoluto e forse lo rimarrà per sempre. Però chi nella stampa si occupa di cronaca giudiziaria dovrebbe, prima di esprimere un parere, spiegare ai lettori e al pubblico televisivo quali sono le regole del processo. Evidentemente in questo caso la procura della Repubblica di Cassino non è riuscita a provare la sua tesi di colpevolezza e nel contraddittorio tra le parti ha prevalso la ricostruzione della difesa. Questo è il processo penale che è altra cosa dalla realtà.
Non si possono mandare in carcere persone senza prove ed è inutile gridare allo scandalo: se si sapesse come funziona il processo in Aula non ci si stupirebbe. A non placare gli animi ci ha pensato un comunicato della procura della Repubblica che ha suscitato molte perplessità tra gli addetti ai lavori. Alla luce della norma di recepimento della direttiva sulla presunzione di innocenza ci si chiede se ci sia l’interesse pubblico alla divulgazione. Forse sì, data la rilevanza del caso. Ma il contenuto è appropriato? Molto probabilmente no. La Procura «prende atto della decisione della Corte d’Assise» che «nella sua libertà di determinazione ha scelto». E ci mancherebbe altro. Poi sembra volersi giustificare: «È stato offerto tutto il materiale probatorio che in questi anni tra tante difficoltà è stato raccolto. La procura non poteva fare di più. Gli elementi a sostegno dell’accusa hanno superato l’esame dell’udienza preliminare». Sappiamo bene cosa sia l’udienza davanti al gup, tanto è vero che la riforma Cartabia del processo penale è intervenuta per cambiare la regola di giudizio e rafforzare il potere di filtro del giudice per evitare dibattimenti inutili. Ed infine: «Sarà interessante leggere le motivazioni sulle quali si farà un analitico e scrupoloso esame per proporre le ragioni dell’accusa innanzi al giudice superiore».
I pubblici ministeri sbraitano tanto contro la separazione delle carriere perché essa pregiudicherebbe la comune appartenenza alla cultura della giurisdizione con i giudici, ma questo comunicato conferma che non c’è traccia di tale condivisa cultura: con esso, a prescindere dalle motivazioni, la procura contesta la decisione dei giudici e in un’ottica prettamente di parte processuale annuncia già ricorso in appello.
(ANSA il 15 luglio 2022) - I giudici di Cassino hanno assolti tutti i cinque gli imputati per l'omicidio di Serena Mollicone.
In aula dopo la sentenza grida "vergogna" ma anche lacrime a abbracci. I giudici, dopo circa dieci ore di camera di consiglio hanno fatto cadere le accuse per Marco Mottola, il padre Franco, ex comandante dei carabinieri di Arce e la moglie Anna Maria.
I tre erano accusati dell'omicidio di Serena Mollicone, avvenuta nel paese in provincia di Frosinone nel giugno del 2001. Assolti anche Vincenzo Quatrale, all'epoca vice maresciallo e accusato di concorso esterno in omicidio, e l'appuntato dei carabinieri Francesco Suprano a cui era contestato il favoreggiamento.
"Oggi è uscita fuori la verità, lo abbiamo sempre detto che eravamo innocenti"". Così Franco e Marco Mottola, accusati dell'omicidio di Serena Mollicone, hanno commentato a caldo la decisione della Corte d'Assise di Cassino che li ha assolti assieme alla madre Anna Maria. Dopo la pronuncia fuori dal tribunale ci sono stati momenti di tensione con grida "assassini".
"Questa Procura prende atto della decisione che la Corte di Assise nella sua libertà di determinazione ha scelto. E' stato offerto tutto il materiale probatorio che in questi anni tra tante difficoltà è stato raccolto. La Procura di Cassino non poteva fare di più". Lo afferma l'ufficio giudiziario commentando l'assoluzione per i cinque imputati nel processo legato all'omicidio di Serena Mollicone.
"Gli elementi a sostegno dell'accusa hanno superato l'esame della udienza preliminare. Il contraddittorio tra le parti nel corso delle numerose udienze celebratesi davanti la Corte evidentemente ha convinto giudici circa la non colpevolezza degli imputati. Sarà interessante leggere le motivazioni - prosegue la nota - sulle quali si farà un analitico e scrupoloso esame per proporre le ragioni dell'accusa innanzi al giudice superiore. Questo Procuratore e tutti i Sostituti ringraziano la dr.ssa Siravo per il grande impegno che ha manifestato nel corso delle indagini e la giovane collega Fusco per l'attenta e scrupolosa partecipazione alle udienze".
Serena Mollicone, assolti tutti gli imputati, dal maresciallo Franco Mottola al figlio Marco e alla moglie. Urla in aula: «Assassini». Fulvio Fiano, inviato a Cassino, su Il Corriere della Sera il 15 Luglio 2022.
L’accusa aveva chiesto la condanna a 30 anni per l’ex comandante della stazione di Arce. Gli imputati costretti a rifugiarsi dentro un bar protetti dalle forze dell’ordine.
Processo Mollicone, tutti non colpevoli, l’intera famiglia del maresciallo tira un sospiro di sollievo. Gi imputati per l’omicidio di Serena sono stati assolti dall’accusa di omicidio volontario per non aver commesso il fatto. È la decisione, per certi versi inattesa e clamorosa, della corte d’Assise di Cassino, dopo otto ore di camera di consiglio e una lunga giornata di attesa e di tensione. Immediata tra il pubblico, in aula, lungo i corridoi e all’esterno del palazzo di giustizia, è scoppiata la rivolta. «Vergogna!», hanno urlato molti, mentre i Mottola, padre, figlio e moglie, e gli altri due imputati, venivano portati via, per sottrarli a un possibile linciaggio. Gli ex imputati sono stati costretti a rifugiarsi dentro un bar, protetti dalle forze dell’ordine.
Il caos è scoppiato dopo che la folla inferocita aveva atteso i Mottola all’uscita dal tribunale, nonostante i carabinieri li avessero fatti attendere oltre un quarto d’ora all’interno. Il maresciallo e suo figlio sono stati inseguiti da urla, insulti e minacce, accerchiati e costretti a rifugiarsi in un bar protetti dalle forze dell’ordine: “Assassini, vergogna... Come fate a dormire stanotte?”. Il figlio del brigadiere Tuzi è quasi arrivato alle mani con un avvocato, mentre la sorella Maria inseguiva il brigadiere Suprano: “Diì la verità, come ha fatto mio padre”. In serata la stessa Maria postava su Fb una frase. «Una sentenza non in mio nome e non in nome del popolo italiano».
È l’esito di un processo atteso 21 anni, durato 50 udienze e nel quale sono stati ascoltati 137 testimoni. La procura aveva chiesto 30 anni per Franco Mottola, 24 per il figlio Marco e 21 per la moglie Anna Maria, tutti accusati di omicidio volontario. La richiesta di pena maggiore per il 66enne ex comandante della stazione dei carabinieri era motivata dai suoi «spiccatissimi» obblighi di garanzia che aveva nei confronti della 18enne, non solo perché era in casa sua, ma anche e soprattutto in virtù del suo ruolo di membro delle forze dell’ordine. Alla sola signora Anna Maria, 61 anni, venivano riconosciute le attenuanti generiche che venivano invece escluse per il 40enne Marco.
Ma il verdetto ha ribaltato le previsioni. L’avvocato Dario De Santis, che rappresentava il padre di Serena: «Un momento buio per lo Stato che dopo 21 anni non arriva alla riuscita, un ulteriore patimento per Serena. Solo la morte ha risparmiato a Guglielmo quest’altro dolore”. Soddisfatti e sollevati gli imputati. Il maresciallo Franco Mottola ha commentato: «Abbiamo sempre detto di essere innocenti e oggi a maggior ragione lo ripetiamo». Suo figlio Marco, sulla stessa linea: “La verità è venuta fuori, non spetta a noi dire chi ha ucciso Serena».
In aula c’erano anche i genitori di Marco Vannini, il 21enne di Ladispoli, ferito accidentalmente e lasciato morire in casa dalla famiglia della sua fidanzata nel 2015. Per quella vicenda l’intera famiglia Ciontoli (padre, madre e due figli) è stata condannata in via definitiva: «Era doveroso per noi essere qui, siamo diventati un po’ il simbolo della giustizia italiana perché noi giustizia l’abbiamo avuta e lo stesso meritano Serena e suo padre Guglielmo. I due casi, come detto dal pm, sono simili», ha commentato la mamma , Marina Conte, col marito Valerio.
Secondo la ricostruzione dei pm Beatrice Siravo e Carmen Fusco alla quale la Corte d’Assise non ha creduto, a sbattere la testa di Serena contro una porta dell’alloggio in uso alla famiglia Mottola all’interno della caserma era stato il figlio, mentre il padre aveva diretto le operazioni successive, soffocando la 18enne in agonia da ore e poi commissionando alla moglie il confezionamento minuzioso del suo cadavere. Assieme a lei, era la tesi accusatoria, lo aveva poi portato nel bosco di Anitrella la notte stessa, dedicandosi poi a una meticolosa operazione di depistaggio. Il vice maresciallo Vincenzo Quatrale era a processo per concorso esterno in omicidio perché avrebbe sentito i rumori dell’uccisione senza fare nulla per impedirla e rispondeva inoltre dell’istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi, riqualificato dalla procura in omicidio colposo nel corso della requisitoria (già prescritto): per lui la pena richiesta era di 15 anni. Un altro carabiniere della caserma, Francesco Suprano, rispondeva di favoreggiamento per aver nascosto la porta del delitto (quattro anni la richiesta).
Serena scompare la mattina dell’1 giugno 2001 e viene ritrovata dopo 48 ore in un bosco poco fuori Arce. Si fanno tante ipotesi ma mancano elementi concreti. Nel 2003 viene arrestato il carrozziere Carmine Belli che nel 2004 viene assolto con formula piena in primo e secondo grado. Per anni le indagini restano inconcludenti fino al 2011 quando la procura iscrive formalmente la famiglia Mottola tra gli indagati chiedendone però presto l’archiviazione nel 2015 per mancanza di prove.
È l’opposizione del padre di Serena, Guglielmo, a convincere il gip a disporre nuove indagini, valorizzando la testimonianza di Tuzi sull’ingresso di Serena in caserma quella mattina e nell’ipotesi che proprio lì sia stata uccisa. Nel 2016 venne riesumata la salma per sottoporla a nuovi accertamenti tecnico -scientifici sui quali si basa l’accusa, per la quale anche l’Arma dei carabinieri si è costituita parte civile. Guglielmo Mollicone muore il 31 maggio del 2020 alla vigilia del diciannovesimo anniversario della morte della figlia e due mesi prima del rinvio a giudizio degli imputati. Il processo comincia il 19 marzo di un anno dopo fino all’epilogo di oggi.
Da corriere.it il 16 luglio 2022.
Maria Tuzi, figlia di Santino, il carabiniere morto suicida, insegue il brigadiere Suprano, assolto dall’accusa di favoreggiamento, dopo la sentenza sull’omicidio Mollicone che ha visto assolti tutti gli imputati dal maresciallo Franco Mottola al figlio Marco e alla moglie.
Qualcuno le dice: «Non è un circo». E lei replica. «Certo, non è un circo! Vorrei vedere voi al posto nostro. Dovete dire la verità».
Fulvio Fiano per il corriere.it il 16 luglio 2022.
In attesa delle motivazioni della Corte d’Assise di Cassino che verranno depositate tra 90 giorni, si può provare a ipotizzare, riprendendo i punti cardine della difesa, il ragionamento seguito dai giudici nel decidere l’assoluzione dei tre imputati per l’omicidio di Serena Mollicone, il maresciallo Franco Mottola, suo figlio Marco e la moglie Anna Maria «per non aver commesso il fatto» e quella del vice maresciallo Vincenzo Quatrale (concorso esterno) e dell’appuntato Francesco Suprano (favoreggiamento) «perché il fatto non sussiste». E capire perché la presunta colpevolezza non sarebbe dimostrata «oltre ogni ragionevole dubbio».
Il dna mancante
La prova che più di ogni altra manca è quella che consente di legare i presunti assassini alla vittima. Sul corpo di Serena, sul nastro adesivo che la imbavagliava, sulla porta contro la quale, secondo l’accusa, sarebbe stato sbattuto il suo capo non ci sono tracce biologiche degli imputati.
Come spiegato dal generale Luciano Garofano, ex comandante dei carabinieri del Ris e consulente delle parti civili, la mancanza di impronte potrebbe essere la prova che siano state cancellate. Ma è anche vero che sul nastro un’impronta digitale c’è, non è dei Mottola e non è mai stata attribuita a nessun altro. Secondo il criminologo Carmelo Lavorino, coordinatore del pool difensivo, sarebbe quella del vero assassino.
I frammenti di legno
La riapertura delle indagini e il rinvio a giudizio degli imputati è stato possibile grazie a una consulenza scientifica sofisticatissima affidata al Ris dei carabinieri e alla dottoressa Cristina Cattaneo, direttrice del laboratorio di anatomopatologia forense Labanof di Milano. La frattura cranica di Serena è dovuta, dice lo studio, all’impatto con una superficie liscia e la lesione nella porta è perfettamente compatibile con la forma della testa della ragazza nel punto di urto.
Gli esperimenti condotti hanno rilevato la presenza di 25 frammenti sub-millimetri di legno nei capelli di Serena, compatibili per tipo di materiale con quelli della porta della caserma.
La contro perizia della difesa ha fatto emergere dei punti che confuterebbero questa certezza, perché è vero che la ripetizione dell’esperimento dell’impatto del cranio di Serena ricostruito in 3D contro una porta dello stesso materiale di quella sequestrata produce sempre una quantità simile di frammenti, ma la loro distribuzione andrebbe rilevata su una superficie più ampia di quella della tempia della 18enne.
Senza contare che analoghi frammenti sarebbero presenti sulla parte esterna del nastro che ne avvolgeva il capo, dunque, in ipotesi, provenienti da una fonte diversa. Quanto alla frattura cranica, sarebbe dovuta ad altro oggetto contundente, mentre il buco nella porta sarebbe dovuto a un pugno dei Mottola durante una lite padre-figlio.
Il movente incerto
La spiegazione del perché Serena sarebbe stata aggredita da Marco Mottola in caserma non è stata mai accertata con nettezza. «Solo lei potrebbe dircelo», ha ammesso la procura nella sua requisitoria, escludendo comunque le ragioni passionali («fra i due non c’era nessun legame») e facendola discendere in modo logico dalla lite che vittima e presunto assassino avrebbero avuto poco prima in auto, durante il passaggio che il figlio del maresciallo avrebbe dato a Serena di ritorno da Sora la mattina dell’1 giugno.
L’ipotesi più accreditata è quella sempre sostenuta dal padre di Serena, Guglielmo, secondo il quale la figlia voleva denunciare Marco per la sua attività di spaccio, tanto da avere anche col maresciallo Mottola una discussione in piazza nei giorni precedenti, ma perché — hanno obiettato le difese — Serena avrebbe dovuto denunciare Marco proprio ai carabinieri di Arce rientrando in caserma?
Per la procura Serena sarebbe finita involontariamente in trappola entrando in caserma per prendere i libri di scuola che aveva lasciato nel veicolo. I libri non sono stati mai trovati ma sulle motivazioni della ragazza non si possono avere conferme.
Depistaggi o sciatteria?
Le tante e concordanti azioni sospette con cui Mottola padre avrebbe sviato le indagini, nascosto prove e alterato testimonianze non sono formalmente parte del capo di imputazione ma ne sono il necessario corredo per dimostrare che il maresciallo, esercitando nel proprio interesse la sua funzione, abbia coperto sé stesso e il figlio rispetto a quanto commesso.
Il principale elemento di cui si è dibattuto in aula è l’ordine di servizio di quell’1 giugno in base al quale il comandante, così come Suprano e Quatrale, non sarebbero stati presenti in caserma quella mattina. La procura ha misurato le distanze che la pattuglia avrebbe percorso in relazione ai servizi svolti e sono emerse molte incongruenze. Non di falso si è trattato secondo gli imputati ma di sciatteria. La stessa che avrebbe caratterizzato il resto delle indagini di Mottola.
A partire dall’ «equivoco» sulla segnalazione dell’auto da cercare, non la Autobianchi Y10 bianca del figlio vista dai testimoni con Serena a bordo fuori a un bar ma una Lancia Y rossa. Anche in questo caso per i giudici si tratta di interpretazioni da compiere.
I testimoni reticenti
Quattro secondo i pm hanno mentito, tanto da rinviare gli atti della loro deposizione in aula alla valutazione dei giudici per indagarli. Tra loro l’amico che ha fornito un alibi a Marco Mottola, il vice sindaco di Arce dell’epoca, l’amante del brigadiere Tuzi. Molti altri sono apparsi reticenti, ondivaghi, smemorati. Con ognuno di loro gli imputati avrebbero avuto secondo l’accusa un legame non solo di conoscenza ma quasi di ricatto, senza che sia stato però possibile dimostrarlo.
Il caso Tuzi
«Mio padre ha avuto il coraggio di rompere il muro di omertà, altri continuano a tacere», ripeteva anche ieri Maria Tuzi, figlia del brigadiere morto suicida dopo aver rivelato, a sette anni di distanza, l’ingresso di Serena in caserma. La sua morte aveva inizialmente destato il sospetto di un omicidio per un proiettile mancante dalla sua pistola, una posizione innaturale del cadavere in auto e per le bugie dette da Anna Maria Torriero, con cui aveva una relazione, la quale ha sostenuto l’esistenza di una telefonata disperata del carabiniere dopo che lei lo aveva lasciato.
Di questa telefonata non c’è traccia ma le motivazioni intime di Tuzi restano di fatto imperscrutabili. La sua testimonianza, oltre a non poter essere verificata in aula data la sua morte, è incompleta - e quindi attaccabile - perché il suicidio è avvenuto prima di completare il suo interrogatorio e perché lui stesso si era in parte rimangiato quanto detto, prima di confermarlo di nuovo. Di fatto però le verifiche dal suo punto di osservazione in caserma e i riscontri sulla borsetta mai trovata di Serena sembrano accreditare la sua sincerità.
I misteri del telefono
Scomparso e poi riapparso a distanza di giorni in casa di suo padre, il cellulare della 18enne non ha impronte, il registro delle chiamate è stato cancellato e nella rubrica è comparso un «666» numero del diavolo. Chi lo ha rimesso nel cassetto della sua stanza voleva associare forse Serena ad ambienti pericolosi o provare a incastrare Guglielmo, prelevato durante la veglia funebre e tenuto in caserma 3 ore per il verbale di ritrovamento. «È stato Mottola a metterlo lì durante una finta perquisizione», ha sempre sostenuto il papà di Serena, ma anche su questo non ci sono riscontri inoppugnabili. Così come il maresciallo ha portato alla corte elementi per dire che non dipese da lui la scelta di trattenere Guglielmo.
Il ruolo dei coimputati
«Tra me e Mottola non c’era amicizia e come carabiniere non ne avevo stima», ha detto a voce ferma in aula il vice maresciallo Quatrale. Secondo l’accusa anche lui era presente in caserma e dal suo ufficio non avrebbe potuto non sentire il trambusto del delitto al piano di sopra.
Fatto salvo il discorso già fatto per l’ordine di servizio che si presume falso, per quale motivo, è l’interrogativo sollevato dalle difese, Quatrale avrebbe dovuto obbedire al suo superiore su un omicidio avvenuto in caserma, coprendolo, omettendo di denunciarlo e mentendo sempre in questi anni senza mai averne un ritorno economico o di carriera? Quanto al suicidio di Tuzi, contro Quatrale c’è una intercettazione in cui lo invita a valutare bene le conseguenze della sua denuncia.
Lo stesso Quatrale si era offerto di indagare su di lui per valutarne l’attendibilità e nell’interpretazione del tono di quelle parole potrebbe nascondersi un altro punto a favore della difesa. Discorso in parte simile per Suprano, che si sarebbe prestato a nascondere la porta del delitto sostituendola con una del suo appartamento sfitto Come poteva sapere che era una prova d nascondere? E non sarebbe stato più facile distruggerla?
Serena Mollicone, assolti tutti i 5 imputati: cadute le accuse per i coniugi Mottola e il figlio. Urla in aula: "Assassini". Clemente Pistilli su La Repubblica il 15 Luglio 2022.
I giudici sono stati in camera di consiglio circa otto ore. L'ex comandante dei carabinieri di Arce, il figlio e la moglie erano accusati dell'omicidio di 21 anni fa. Nessuna pena per l'allora vice maresciallo Vincenzo Quatrale e l'appuntato dei carabinieri Francesco Suprano.
I giudici di Cassino hanno assolto tutti i cinque imputati per l'omicidio di Serena Mollicone. Sono passati 21 anni dall'omicidio di Arce. La sentenza è arrivata dopo circa 8 ore di Camera di Consiglio. I giudici hanno lasciato l'aula alle 11,18 e sono usciti con il verdetto alle 19,30.
In aula dopo la sentenza grida "vergogna", "assassini!" ma anche lacrime a abbracci. I giudici, dopo circa dieci ore di camera di consiglio hanno fatto cadere le accuse per Marco Mottola, il padre Franco, ex comandante dei carabinieri di Arce e la moglie Anna Maria.
I tre erano accusati dell'omicidio di Serena Mollicone, avvenuta nel paese in provincia di Frosinone nel giugno del 2001. Assolti anche Vincenzo Quatrale, all'epoca vice maresciallo e accusato di concorso esterno in omicidio, e l'appuntato dei carabinieri Francesco Suprano al quale era contestato il favoreggiamento.
La prima udienza si è celebrata il 19 marzo, giorno della festa del papà, un data simbolica, interpretata da molti come un omaggio a Guglielmo Mollicone, quel padre che ha passato la vita a lottare per la verità ma è morto prima dell'inizio del dibattimento.
"Questa Procura prende atto della decisione che la Corte di Assise nella sua libertà di determinazione ha scelto. È stato offerto tutto il materiale probatorio che in questi anni tra tante difficoltà è stato raccolto. La Procura di Cassino non poteva fare di più".
Franco Mottola: "Sempre detto di essere innocente"
"Una sentenza giusta e appropriata", ha detto Franco Mottola dopo la sentenza. "Ce l'aspettavamo, abbiamo sempre detto di essere innocenti, le proteste delle persone fuori dal tribunale? Chiedetelo a loro. Siamo stati sempre convinti, non abbiamo fatto niente. Chi l'ha uccisa? Chiedete alla procura". Di poche parole anche la moglie: "Non vogliono trovare l'assassino".
"La verità è ben altra, non ci fermeremo di fronte a questa meschinità", ha detto Antonio Mollicone, zio di Serena, dopo la sentenza.
Tentativo di aggressione ad alcuni imputati
Dopo la lettura della sentenza ci sono stati momenti di forte tensione sia nell'aula che all'esterno del palazzo di giustizia, con un tentativo di aggressione nei confronti di alcuni imputati al punto che sono dovute intervenire le forze dell'ordine per riportare la calma.
Le richieste della pm
La pm Maria Beatrice Siravo aveva chiesto 30 anni di reclusione per l'ex maresciallo Franco Mottola, all'epoca dei fatti comandante della stazione di Arce, in provincia di Frosinone, 24 anni per il figlio Marco, 21 anni per la moglie Anna Maria, tutti accusati di omicidio volontario e occultamento di cadavere, 15 anni per il luogotenente Vincenzo Quatrale, accusato di concorso in omicidio volontario, e 4 anni per l’appuntato scelto Francesco Suprano, accusato di favoreggiamento personale in omicidio volontario.
In aula anche i genitori di Marco Vannini
In aula oggi erano presenti anche i genitori di Marco Vannini, Valerio e Marina: "Siamo qui per un atto dovuto nei confronti di un padre coraggio - spiegano il padre e la madre del 19enne ucciso nel 2015 da un colpo di pistola mentre era a Ladispoli nella casa della famiglia Ciontoli, condannata definitivamente in Cassazione -. Noi oggi rappresentiamo Guglielmo, un padre coraggio". Marina Vannini aggiunge: "Ho rivissuto la tragedia di mio figlio, Marco era nella casa dove doveva essere protetto. Serena era in una caserma dove doveva essere protetta anche lei. E invece non è stato così".
Le tappe della vicenda
Secondo gli inquirenti, l'1 giugno 2001, quando Serena Mollicone sparì da Arce, la diciottenne si recò presso la caserma dell'Arma, per recuperare dei libri che aveva lasciato nell’auto di Marco Mottola, dopo che quest’ultimo le aveva dato un passaggio. A quel punto la ragazza avrebbe discusso con il figlio del maresciallo, che le avrebbe fatto battere con violenza la testa contro la porta di un alloggio in disuso interno alla stazione, in uso alla famiglia del maresciallo. Pochi giorni prima, a scuola la 18enne aveva detto che ad Arce il problema della droga non si sarebbe mai risolto, essendo lo stesso Marco uno spacciatore ed essendo per tale ragione tutto coperto dal maresciallo.
Quest'ultimo, incontrando la studentessa, le avrebbe quindi detto che dovevano parlare. Credendo che la ragazza, priva di sensi dopo aver sfondato la porta, fosse morta, i Mottola l’avrebbero portata in un boschetto ad Anitrella, frazione del vicino Monte San Giovanni Campano, dove, resisi conto che era ancora viva, l’avrebbero soffocata, stringendole un sacchetto di plastica attorno al collo.
I depistaggi
Da quel momento sarebbero iniziati i depistaggi, cercando prima di far ricadere i sospetti su papà Guglielmo e poi sul carrozziere Carmine Belli, finito in carcere da innocente. Proprio papà Guglielmo raccolse però delle voci, in base alle quali il brigadiere Santino Tuzi aveva detto di aver visto entrare Serena in caserma il giorno della sua scomparsa e di non averla vista uscire. Riaperte le indagini, Tuzi confermò ma poi, secondo gli inquirenti perché pressato dai colleghi, si tolse la vita.
Omicidio Mollicone, tutti assolti Il grido nell'aula: "Vergogna". Stefano Vladovich il 16 Luglio 2022 su Il Giornale.
Dopo 21 anni ancora nessun colpevole. Prosciolti i Mottola, che rischiano il linciaggio. Lo zio di Serena: non c'è giustizia.
Delitto di Arce: tutti assolti. «Vergogna» grida la folla. Ma anche applausi e pianti di gioia. «Finalmente la verità è venuta a galla», commenta Marco Mottola, l'accusato numero uno. Sentenza choc, al Tribunale di Cassino, al processo di primo grado per l'omicidio di Serena Mollicone avvenuto 21 anni fa. Dieci ore di camera di consiglio poi l'assoluzione della Corte d'Assise per insufficienza di prove per l'allora comandante dei carabinieri Franco Mottola, la moglie Anna Maria, il figlio Marco, il maresciallo Vincenzo Quatrale e l'appuntato Francesco Suprano tutti accusati di omicidio in concorso e istigazione al suicidio (tranne Suprano di favoreggiamento). Nonostante le perizie del Ris, la superperizia dell'anatomopatologa Cristina Cattaneo di Antropologia e Odontologia Forense dell'Università di Milano, la giuria non avrebbe ritenuto sufficienti le prove raccolte. Momenti di grande tensione nella piazza di fronte al Tribunale, dopo la sentenza: la famiglia Mottola ha subito un tentativo di aggressione da parte di decine di persone inferocite al grido di «assassini, assassini» e sono dovute intervenire le forze dell'ordine per allontanare la folla. «La giustizia non esiste, la verità è ben altra, non ci fermeremo», il commento di Antonio Mollicone, zio di Serena. La Procura di Cassino si prepara al ricorso: «Prendiamo atto della decisione, non potevamo fare di più». Sconfortato per le reazioni della gente l'avvocato Francesco Germani, legale dei Mottola. «È triste vivere in paese che non rispetta le sentenze».
Al termine del dibattimento la Procura aveva chiesto 24 anni di carcere per Marco Mottola, 30 per il padre Franco, 21 anni per la moglie Anna Maria, 15 per Quatrale e 4 per Suprano. Un giallo destinato a restare tale, caratterizzato da gravi errori giudiziari. Come l'arresto di Carmine Belli, il carrozziere di 38 anni accusato dell'omicidio nel 2003, rinchiuso in carcere per ben 19 mesi e scagionato in Cassazione. L'uomo avrebbe commesso un solo errore: entrare in quella caserma. Belli, credendo di aiutare nelle ricerche, si presenta dal maresciallo Mottola: «L'ho vista in strada», fa mettere a verbale. Viene indagato, processato e condannato in primo e secondo grado. Nel 2008 tocca al brigadiere Santino Tuzi che si spara alla tempia tre giorni prima di essere interrogato. Prima di morire il carabiniere dichiara che il primo giugno aveva visto una ragazza simile alla vittima entrare in caserma e non uscirne più. Serena si stava preparando per la maturità e in quella caserma non ci sarebbe finita per caso. «Voleva denunciare il figlio del comandante - raccontava il papà Guglielmo Mollicone poco prima di morire -. Ma è finita nella tana del lupo. Serena è stata ammazzata perché voleva far arrestare per spaccio Marco Mottola». Un delitto atroce. Il giallo comincia nel bosco dell'Anitrella, a 8 chilometri da Arce. È il 3 giugno del 2001, Serena è scomparsa da due giorni. Alcuni volontari della protezione civile trovano il cadavere in una zona già battuta dai carabinieri. Il corpo supino, la testa, con una ferita vicino l'occhio sinistro, è avvolta in una busta di plastica, mani e piedi legati con scotch e fil di ferro. Il naso e la bocca avvolti con nastro da pacchi. Nel 2016 il gip chiede la riesumazione della salma. Serena non è morta per lo sfondamento del cranio ma per asfissia. Per l'accusa la porta è quella dell'alloggio di servizio all'interno della stazione dei carabinieri. La controperizia del criminologo Carmelo Lavorino dimostrerebbe l'infondatezza sia della perizia del Ris che di quella della Cattaneo. Per Lavorino l'arma del delitto non può essere la porta della caserma perché la ferita sul sopracciglio sinistro della ragazza è a 146 cm da terra, mentre la frattura sulla porta a 154 cm. Tesi contestata dal fatto che Serena, meno di 50 chili di peso, sarebbe stata sollevata durante la colluttazione. Insomma, la testa della Mollicone è stata sbattuta violentemente contro un oggetto contundente. Il colpo l'avrebbe stordita «poi la morte sarebbe giunta per asfissia».
Delitto Mollicone, la rabbia della famiglia. Ilaria Cucchi: "Non mollate, ma sarà dura". Stefano Vladovich il 17 Luglio 2022 su Il Giornale.
Omicidio di Arce, è mancata la prova regina. Per i pm è stata cancellata.
Giallo di Arce, delitto perfetto? Diciotto anni di indagini, sedici per riesumare il cadavere e disporre nuove perizie, 21 per assolvere tutti e cinque gli imputati. Il giorno dopo la sentenza choc della Corte di Assise di Cassino, restano dubbi e misteri su chi ha ucciso Serena Mollicone. Una ragazza piena di ideali, Serena. Voleva fermare gli spacciatori di droga che stavano uccidendo i suoi compagni di scuola, gli amici. Voleva denunciare il figlio del comandante della stazione dei carabinieri, Marco Mottola. Movente perfetto per un omicidio. E la mattina del primo giugno 2001, dopo essersi sottoposta a un esame clinico a Frosinone, un'ortopanoramica, entra in caserma decisa a tutto. La vede arrivare il brigadiere Santino Tuzzi, verso le 11, e fino a quando rimane in caserma, alle 14,30, non la vede uscire. Tuzzi lo mette a verbale ma tre giorni prima di essere ascoltato in Procura si spara alla tempia. Un suicidio anomalo. Cos'altro sapeva? Per la famiglia Mollicone molte cose. Cinque indagati alla sbarra, l'ex comandante dei carabinieri Franco Mottola, la moglie Anna Maria e il figlio Marco, il maresciallo Vincenzo Quatrale e l'appuntato Francesco Suprano. Tutti assolti. Per la giuria del Tribunale di Cassino manca la prova regina dell'omicidio, il Dna. Sul corpo di Serena, sullo scotch utilizzato per tappargli naso e bocca, sulla busta di plastica che l'ha soffocata non c'è traccia biologica di nessuno dei cinque. Solo un frammento di impronta digitale, pochi punti utili, che non appartiene né alla famiglia Mottola né agli altri carabinieri. Insomma, se effettivamente a provocare la lesione del cranio è stata una porta di legno, compatibile con quella dell'alloggio di servizio del comandante, nessuno può dire con certezza che a uccidere la 18enne siano stati loro. Per l'accusa le tracce, se ci fossero state, sono state cancellate. «A 21 anni dai fatti non c'è giustizia Serena - commenta l'avvocato Dario De Santis, legale della famiglia Mollicone -. Una sconfitta per lo Stato italiano che nella giustizia ha una delle sue funzioni cardine». Da Ilaria Cucchi è arrivato ieri un messaggio di sostegno: «Non mollarte, ma il prezzo sarà alto». A dir poco amareggiato Carmine Belli, il carrozziere di 38 anni arrestato nel 2002, condannato in due gradi di giudizio per l'omicidio e poi assolto in Cassazione dopo 19 mesi in carcere da innocente. «Non è stato mai risarcito né economicamente né moralmente. Dopo Serena e il papà Guglielmo (deceduto nel 2020, ndr). Carmine è la vittima viva di questo torbido giallo», spiega l'avvocato Nicodemo Gentile, legale di Belli. «Carmine - prosegue Gentile - ha vissuto la sentenza come un momento difficile. Gli sono venuti in mente i fantasmi del passato, nei suoi confronti la giustizia ha mostrato un volto duro e ingiusto: i mesi di carcere non si possono dimenticare». L'uomo, convinto di aiutare nelle ricerche, si era presentato in caserma per raccontare di aver visto Serena. Da testimone era diventato l'unico accusato.
Serena Mollicone, la sentenza dopo vent'anni: "Assolti gli imputati". Cadono le accuse per la famiglia Mottola. Il Tempo il 15 luglio 2022
Cadute tutte le accuse. Dopo vent'anni arriva la sentenza sul delitto di Serena Mollicone: i giudici di Cassino hanno assolto tutti gli imputati del processo per l'omicidio di Serena Mollicone. È la decisione dei giudici della Corte d'Assise di Cassino sul caso legato alla morte della diciottenne di Arce, nel 2001. La procura aveva chiesto una condanna a 30 anni di Franco Mottola, ex comandante della caserma dei carabinieri, a 24 anni per il figlio Marco Mottola e 21 anni per la moglie Anna Maria. I tre erano accusati di concorso in omicidio. Assolti anche gli altri due carabinieri coinvolti: Vincenzo Quatrale e Francesco Suprano, per i quali erano stati chieste condanne a 15 e 4 anni di carcere.
Dopo circa dieci ore di camera di consiglio è arrivato il verdetto e in aula la rabbia è esplosa subito: "Vergogna" e "assassini" hanno gridato i familiari e gli amici della vittima mentre Franco Mottola, la moglie Anna Maria e il figlio Marco si sono abbracciati in aula. Fuori non sono mancati attimi di tensione.
Omicidio di Serena Mollicone, l'ora della verità dopo 21 anni di misteri e depistaggi. Le tappe della vicenda. Il Tempo il 15 luglio 2022
È il giorno della verità dopo 21 anni. I giudici della Corte d’Assise del Tribunale di Cassino si sono ritirati in Camera di Consiglio per emettere la sentenza del processo per l’omicidio di Serena Mollicone. Accusati di omicidio volontario ed occultamento di cadavere sono l’ex maresciallo Mottola, la moglie e il figlio. A finire sotto processo anche l’ex vicecomandante Vincenzo Quatrale accusato di concorso esterno in omicidio ed istigazione al suicidio nei confronti di Santino Tuzi, all’epoca dell’omicidio in servizio presso la caserma dei carabinieri di Arce. L’appuntato dei carabinieri Francesco Suprano deve rispondere nel reato di favoreggiamento. La sentenza è attesa nella serata di venerdì 15 luglio.
Le tappe - Una vicenda macchiata da misteri e depistaggi. Serena Mollicone scompare da Arce in provincia di Frosinone il 1 giugno del 2001. Ha 18 anni ed è una studentessa del liceo socio pedagogico di Sora. Il suo corpo viene ritrovato domenica 3 giugno 2001 in località Fonte Cupa, in un bosco situato nel comune di Fontana Liri. Le indagini vengono portate avanti dai carabinieri della compagnia di Pontecorvo e per 45 giorni non porteranno a nessun risultato. Per questo motivo la procura di Cassino affida gli accertamenti alla Polizia di Stato, Unità Analisi Crimine Violento. Per due anni l’inchiesta prosegue nel più assoluto silenzio fino a quando il 6 febbraio del 2003 viene arrestato Carmine Belli, carrozziere di Rocca d’Arce, conoscente della famiglia Mollicone ed accusato del delitto. Il processo in corte d’assise celebrato a Cassino nel 2004 scagiona completamente l’uomo. E lo stesso succederà nel processo d’appello e in quello di Cassazione. Belli trascorrerà dunque 17 mesi in cella di isolamento da innocente. Dal 2004 al 2008 non c’è nessun elemento che consenta la riapertura dell’indagine sull’omicidio della Mollicone.
La svolta arriva l’11 aprile del 2008 quando si toglie la vita il brigadiere Santino Tuzi, all’epoca dell’omicidio in servizio presso la caserma dei carabinieri di Arce. Il sottufficiale pochi giorni prima di spararsi un colpo di pistola al petto racconta ai superiori e al magistrato dell’epoca Maria Perna di aver visto la ragazza entrare nella caserma dei carabinieri di Arce il 1 giugno del 2001 e di non averla più vista uscire. L’accanimento investigativo sulla figura di Tuzi porterà lo stesso alla disperazione ed a commettere l’insano gesto. Nel 2011 a tre anni da questa ulteriore tragedia, la procura di Cassino chiede l’archiviazione delle cinque persone indagate per insufficienza di prove. Si tratta del maresciallo Franco Mottola, ex comandante della caserma di Arce, del figlio Marco, della moglie Anna Maria e dei carabinieri in servizio all’epoca della scomparsa di Serena, Vincenzo Quatrale e Francesco Suprano. La famiglia
Mollicone presenta opposizione alla richiesta di archiviazione e il gip del tribunale di Cassino Angelo Valerio Lanna accoglie questa istanza e rinvia gli atti alla procura chiedendo ulteriori approfondimenti investigativi e scientifici.
Così nel marzo del 2016 si dispone la riesumazione della salma della ragazza, trasferita presso l’Istituto di medicina legale di Milano per essere esaminata, nell’arco di oltre un anno e mezzo, dall’antropologa forense Cristina Cattaneo. I risultati di questa autopsia vengono ritenuti clamorosi e sufficienti dalla procura per poter chiudere le indagini e chiedere il processo per cinque persone: ad essere accusati di omicidio volontario ed occultamento di cadavere sono l’ex maresciallo Mottola, la moglie e il figlio. A finire sotto processo anche l’ex vicecomandante Vincenzo Quatrale accusato di concorso esterno in omicidio ed istigazione al suicidio nei confronti di Tuzi, l’appuntato dei carabinieri Francesco Suprano che deve rispondere nel reato di favoreggiamento. Il processo ha inizio il 19 marzo 2021 in corte d’assise di Cassino. I pubblici ministeri Beatrice Siravo e Maria Carmen Fusco chiedono le condanne di tutti gli imputati: 30 anni per Franco Mottola, 24 per il figlio e 21 per la moglie. E poi 15 anni per Quatrale e 4 anni per Suprano. «La famiglia Mottola è tutta coinvolta nell’omicidio di Serena Mollicone, così come la famiglia Ciontoli lo era nell’omicidio di Marco Vannini», la frase choc pronunciata dai pm.
Omicidio Serena Mollicone, tutti assolti. Ma la famiglia e la procura non ci stanno. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Luglio 2022.
Il processo che ha preso il via il 19 marzo 2021 giunge al termine dopo 16 mesi e oltre 50 udienze, non prive di colpi di scena. La sentenza emessa dalla Corte d'Assise del Tribunale di Cassino è arrivata dopo circa 8 ore di Camera di Consiglio.
Non sono bastati 21 anni dall’omicidio di Serena Mollicone, la giovane di Arce uccisa nel 2001, per fare giustizia ed accertarne le responsabilità. Era giovane Serena, diciotto anni e tutta una vita davanti. Uccisa sbattendo la testa e finita con un sacchetto di plastica per poi essere abbandonata in un bosco vicino casa, nel frusinate. La ragazza a scuola aveva detto che ad Arce il problema della droga non si sarebbe mai risolto, essendo lo stesso Marco Mottola uno spacciatore ed essendo per tale ragione tutto coperto da suo padre che comandava la locale stazione dei Carabinieri, che dopo quell’intervento le avrebbe detto che “dovevano parlare”.
Oggi è arrivata in serata la sentenza della Corte d’Assise del Tribunale di Cassino: il maresciallo Franco Mottola ex comandante della Stazione Carabinieri di Arce , suo figlio Marco, e la moglie Annamaria imputati con l’accusa di concorso nell’omicidio di Serena Mollicone sono stati assolti per insufficienza di prove. I carabinieri Quatrale e Suprano invece con formula piena. Suprano era accusato di istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi mentre nei confronti del carabiniere Suprano l’accusa era favoreggiamento.
Il processo che ha preso il via il 19 marzo 2021 giunge al termine dopo 16 mesi e oltre 50 udienze, non prive di colpi di scena. La sentenza emessa dalla Corte d’Assise del Tribunale di Cassino è arrivata dopo circa 8 ore di Camera di Consiglio.
La prima udienza si è celebrata il 19 marzo, giorno della festa del papà, un data simbolica, interpretata da molti come un omaggio a Guglielmo Mollicone, il padre di Serena, il quale ha passato la vita a lottare per la verità ma è morto prima dell’inizio del dibattimento. Centotrenta i testimoni che hanno sfilato davanti alla Corte. Prima dell’udienza vi è stato l’ abbraccio tra due donne che conoscono il dolore più profondo. E’ arrivata in aula a Cassino nel pomeriggio Valerio e Marina Vannini, i genitori di Marco Vannini il ragazzo di soli 20 anni lasciato morire nel maggio del 2015 in una villetta di Ladispoli dalla famiglia della fidanzata, Martina Ciontoli.
Le parole di Marina Vannini sono state taglienti e commoventi:” Serena, come mio figlio, non è stata protetta. Ho rivissuto la tragedia di mio figlio, racconta, Marco era nella casa dove doveva essere protetto. Serena era in una caserma. E invece non è stato così”. I genitori di Marco Vannini hanno deciso oggi di portare il loro supporto alla famiglia Mollicone ed hanno assistito alla lettura della sentenza.
Alle 10,20 davanti al presidente della Corte d’Assise, Massimo Capurso, sono cominciate le discussioni. La pm Beatrice Siravo ha portato un testimone a sorpresa, il barbiere che ad Arce avrebbe tagliato i capelli a Marco Mottola, due giorni prima del funerale, facendo sparire quelle “meches” bionde, che lo stesso parrucchiere, gli aveva fatto. Un ulteriore elemento di prova per l’accusa: sarebbe stato proprio Marco, dunque, ad essere stato visto con Serena il giorno dell’omicidio in un bar della zona. Ma il giudice Capurso ha accolto l’opposizione della difesa dei Mottola di non ascoltare questo teste.
I giudici avevano lasciato l’aula alle 11.18 e sono usciti dalla lunga camera di consiglio con il verdetto alle 19.30. Dopo la sentenza ci sono stati momenti di caos e forte tensione davanti al tribunale di Cassino. “Bastardi“, “assassini“, gli insulti rivolti al del maresciallo dei carabinieri Franco Mottola, al figlio Marco, ed alla moglie Annamaria mentre lasciavano palazzo di giustizia dai tanti cittadini di Arce che stavano attendendo la decisione della Corte d’Assise. Per sedare gli animi è stato necessario l’intervento dei Carabinieri.
“È uscita la verità”, il commento di Marco Mottola dopo la sentenza, accolta con lacrime e abbracci dagli imputati e dalle loro famiglie. “La verità è ben altra, non ci fermeremo di fronte a questa meschinità”, ha detto dal canto suo Antonio Mollicone, zio di Serena.
I pubblici ministeri Maria Beatrice Siravo e Maria Carmen Fusco al termine di una lunga e circoscritta requisitoria hanno chiesto la condanna a 30 anni per Franco Mottola, 24 per il figlio Marco, 21 anni per la moglie Annamaria, 15 anni per Quatrale e quattro anni per Suprano, tutti accusati di concorso nell’omicidio. Quatrale era accusato inoltre di istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi mentre per Suprano l’accusa era favoreggiamento. Assolti anche l’ex vice comandante Vincenzo Quatrale e l’appuntato Francesco Suprano . Bisognerà attendere le motivazioni della sentenza per capire questa decisione
La tesi accusatoria della procura
Secondo l’impostazione accusatoria, Serena Mollicone sarebbe stata uccisa all’interno della caserma dei carabinieri di Arce il 1 giugno del 2001, sbattuta contro la porta di un alloggio al termine di una colluttazione, intorno alle 11.30 di mattina. Svenuta e con un trauma alla testa importante ma non letale, sarebbe stata successivamente soffocata con un sacchetto di plastica e con un nastro adesivo che le ha avvolto la bocca. Quindi sarebbe morta dopo cinque ore di agonia.
Il corpo sarebbe stato trasferito nella notte tra il 1 e il 2 giugno nel bosco di Fonte Cupa, dove poi venne rinvenuto il 3 giugno. E’ questa la ricostruzione dell’omicidio, sostenuta dalle pm della procura di Cassino, Beatrice Siravo e Carmen Fusco, nel corso del processo davanti alla Corte d’Assise.
Sempre secondo tesi che la procura ha portato avanti nel processo, a compiere il delitto sarebbe stata l’intera famiglia Mottola. Marco Mottola avrebbe spintonato Serena Mollicone contro la porta e poi sarebbero entrati in scena il padre e la madre, che dopo aver aiutato il figlio a portare a termine il delitto, avrebbero occultato il cadavere.
“Il delitto di omicidio accomuna tutti i componenti della famiglia Mottola – hanno sostenuto le pm nel corso della requisitoria – Se immediatamente soccorsa, Serena si sarebbe salvata ma muore per effetto di una condotta attiva, perché i Mottola tutti presenti e tutti concordi sul da farsi, davanti a una ragazza svenuta ma viva, le ostruiscono le vie aree e le chiudono il capo con un sacchetto di plastica e con il nastro adesivo“, aggiungendo che “Marco, Franco e Annamaria non soltanto hanno concorso attivamente a uccidere Serena Mollicone ma sono tutti titolari di una posizione di garanzia” come “i Ciontoli nell’omicidio di Marco Vannini” hanno sostenuto le pm.
Per suffragare la propria ricostruzione e dimostrare in particolare che la porta è l’arma del delitto, la procura di Cassino cita la superperizia di Cristina Cattaneo, medico legale che dirige il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università di Milano, decisiva per la riapertura delle indagini. “Il cranio di Serena Mollicone può aver creato quel buco nella porta? – si è chiesta in aula la Cattaneo – Assolutamente sì. L’arcata zigomatica di Serena combacia molto bene con la rottura nella porta“, ha aggiunto, tanto che “facendo la simulazione con i prototipi il cranio rimane incastrato”. “Dopo aver risposto a questa domanda siamo andati avanti con le nostre analisi per verificare se ci fosse stato uno scambio di materiali tra la testa di Serena Mollicone e la porta” ha spiegato il medico legale.
Sul nastro adesivo che avvolgeva la testa di Serena Mollicone, in base alle attività scientifiche eseguite dal Ris dei Carabinieri di Roma, sono state isolate tracce di legno, resina e vernice. Microframmenti, secondo le analisi, morfologicamente e chimicamente coerenti con il legno della porta e la caldaia sul balcone di un alloggio della caserma di Arce. In sostanza, secondo la Procura, ci sarebbe una “perfetta compatibilità” tra le lesioni riportate dalla vittima e la rottura della porta collocata in caserma e “la perfetta compatibilità” tra i microframmenti rinvenuti sul nastro adesivo che avvolgeva il capo della vittima e il legno di quella porta e con il coperchio di una caldaia della caserma.
Antonio Mollicone come ha fatto per anni suo fratello Guglielmo, morto prima dell’inizio del processo, ha puntato il dito contro i tanti che sapevano e non hanno parlato, ostacolando la ricerca della verità: “Tanta gente sapeva e non ha parlato e ha favorito queste persone“. Le prove c’erano e per lo zio di Serena erano schiaccianti: “Non condivido questa sentenza come cittadino italiano e non solo come familiare: sì, ci sono prove schiaccianti. Non è vero che non c’erano indizi . Lo abbiamo dimostrato con scienziati venuti in Aula a raccontare come sono andate le cose“.
Lo zio di Serena si riferisce agli accertamenti di natura scientifica eseguiti sulla porta dell’alloggio dei Mottola, ritenuta dall’accusa l’arma del delitto. Ma per i giudici, le conclusioni dei consulenti non hanno dimostrato la piena colpevolezza, aggiungendo “Adesso si sono accorti che mancavano dei centimetri, tutto collimava”.
Ma la ricerca di giustizia della famiglia Mollicone non si fermerà con la sentenza di primo grado.
“Andremo avanti, purché la nostra bambina trovi la pace che fino a questo momento le è stata negata“. Antonio Mollicone ha voluto ricordate suo fratello Guglielmo: “Oggi è stata una giornata di attesa con il ricorrente pensiero verso mio fratello, verso Serena e verso sua madre. Se qualcuno pensa che noi ci arrenderemo si sbaglia di grosso, forse altri lo faranno”.
Così in una la nota il Procuratore della Repubblica di Cassino Luciano d’Emmanuele dopo la sentenza: ”Questa Procura prende atto della decisione che la Corte di Assise nella sua libertà di determinazione ha scelto. E’ stato offerto tutto il materiale probatorio che in questi anni tra tante difficoltà è stato raccolto. La Procura di Cassino non poteva fare di più. Gli elementi a sostegno dell’accusa hanno superato l’esame della udienza preliminare. Il contraddittorio tra le parti nel corso delle numerose udienze celebratesi davanti la Corte evidentemente ha convinto i giudici circa la non colpevolezza degli imputati. Sarà interessante leggere le motivazioni sulle quali si farà un analitico e scrupoloso esame per proporre le ragioni dell’accusa innanzi al giudice superiore”. ‘‘Questo Procuratore e tutti i Sostituti ringraziano la dr.ssa Siravo per il grande impegno che ha manifestato nel corso delle indagini e la giovane collega Fusco per l’attenta e scrupolosa partecipazione alle udienze” ha concluso il Procuratore di Cassino. Redazione CdG 1947
Serena Mollicone, assolta famiglia Mottola: dolore e “vergogna” in aula. La solidarietà dei genitori di Marco Vannini. Il Riformista il 15 Luglio 2022.
Lacrime di gioia e di dolore. Assolti i coniugi Mottola e il figlio per l’omicidio di Serena Mollicone, la 18enne ritrovata cadavere il 3 giugno del 2001, 48 ore dopo la sua scomparsa. Dopo 21 anni inchieste, arriva la sentenza dei giudici della Corte d’Assise del tribunale di Cassino che, dopo circa dieci ore di camera di consiglio, hanno assolto tutti e cinque gli imputati per l’omicidio della studentessa di Arce (Frosinone). Franco Mottola, ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce, sua moglie Annamaria e suo figlio Marco, sono stati assolti “per non aver commesso il fatto”. Assolti anche Vincenzo Quatrale, all’epoca vice maresciallo e accusato di concorso esterno in omicidio, e l’appuntato dei carabinieri Francesco Suprano a cui era contestato il favoreggiamento.
“Vergogna”. Con questa parola è stata accolta la sentenza da parte dei familiari di Serena Mollicone. Urla e rabbia sia in aule che fuori. “E’ una meschinità, la verità è un’altra, non ci fermeremo” ha commentato lo zio. “Sentenza incommentabile, non è giustizia” ha dichiarato la figlia del brigadiere Santino Tuzi, morto suicida nel 2008 pochi giorni dopo aver raccontato di aver visto Mollicone entrare nella caserma dei carabinieri.
“Oggi è uscita fuori la verità, lo abbiamo sempre detto che eravamo innocenti””. Cosi Franco e Marco Mottola hanno commentato la decisione dei giudici.
LA STORIA – Il corpo di Serene Mollicone viene ritrovato domenica 3 giugno 2001, 48 ore dopo la scomparsa, in località Fonte Cupa, in un bosco situato nel comune di Fontana Liri. Le indagini vengono portate avanti dai carabinieri della compagnia di Pontecorvo e per 45 giorni non porteranno a nessun risultato. Per questo motivo la procura di Cassino affida gli accertamenti alla Polizia di Stato, Unità Analisi Crimine Violento. Per due anni l’inchiesta prosegue nel più assoluto silenzio fino a quando il 6 febbraio del 2003 viene arrestato Carmine Belli, carrozziere di Rocca d’Arce, conoscente della famiglia Mollicone ed accusato del delitto. Il processo in corte d’assise celebrato a Cassino nel 2004 scagiona completamente l’uomo. E lo stesso succederà nel processo d’appello e in quello di Cassazione. Belli trascorrerà dunque 17 mesi in cella di isolamento da innocente. Dal 2004 al 2008 non c’è nessun elemento che consenta la riapertura dell’indagine sull’omicidio della Mollicone.
LA SVOLTA: SUICIDIO TUZI – La svolta arriva l’11 aprile del 2008 quando si toglie la vita il brigadiere Santino Tuzi, all’epoca dell’omicidio in servizio presso la caserma dei carabinieri di Arce. Il sottufficiale pochi giorni prima di spararsi un colpo di pistola al petto racconta ai superiori e al magistrato dell’epoca Maria Perna di aver visto la ragazza entrare nella caserma dei carabinieri di Arce il 1 giugno del 2001 e di non averla più vista uscire. L’accanimento investigativo sulla figura di Tuzi porterà lo stesso alla disperazione ed a commettere l’insano gesto. Nel 2011 a tre anni da questa ulteriore tragedia, la procura di Cassino chiede l’archiviazione delle cinque persone indagate per insufficienza di prove. Si tratta del maresciallo Franco Mottola, ex comandante della caserma di Arce, del figlio Marco, della moglie Anna Maria e dei carabinieri in servizio all’epoca della scomparsa di Serena, Vincenzo Quatrale e Francesco Suprano. La famiglia Mollicone presenta opposizione alla richiesta di archiviazione e il gip del tribunale di Cassino Angelo Valerio Lanna accoglie questa istanza e rinvia gli atti alla procura chiedendo ulteriori approfondimenti investigativi e scientifici.
Nel marzo del 2016 si dispone la riesumazione della salma della ragazza, trasferita presso l’Istituto di medicina legale di Milano per essere esaminata, nell’arco di oltre un anno e mezzo, dall’antropologa forense Cristina Cattaneo. I risultati di questa autopsia vengono ritenuti clamorosi e sufficienti dalla procura per poter chiudere le indagini e chiedere il processo per cinque persone: ad essere accusati di omicidio volontario ed occultamento di cadavere sono l’ex maresciallo Mottola, la moglie e il figlio. A finire sotto processo anche l’ex vicecomandante Vincenzo Quatrale accusato di concorso esterno in omicidio ed istigazione al suicidio nei confronti di Tuzi, l’appuntato dei carabinieri Francesco Suprano che deve rispondere nel reato di favoreggiamento. Il processo ha inizio il 19 marzo 2021 in corte d’assise di Cassino. I pubblici ministeri Beatrice Siravo e Maria Carmen Fusco chiedono le condanne di tutti gli imputati: 30 anni per Franco Mottola, 24 per il figlio e 21 per la moglie. E poi 15 anni per Quatrale e 4 anni per Suprano. “La famiglia Mottola è tutta coinvolta nell’omicidio di Serena Mollicone, così come la famiglia Ciontoli lo era nell’omicidio di Marco Vannini”, la frase choc pronunciata dai pm.
IN AULA PRESENTE FAMIGLIA VANNINI – “Ho rivissuto la tragedia di mio figlio, Marco era nella casa dove doveva essere protetto. Serena era in una caserma dove doveva essere protetta anche lei. E invece non è stato così”. Sono le parole pronunciate dalla madre di Marco Vannini all’arrivo insieme al marito in Tribunale a Cassino per assistere alla lettura della sentenza del processo sull’omicidio di Serena Mollicone e portare solidarietà alla famiglia della giovane di Arce, uccisa nel 2001.
Le prove mancate che hanno portato all’assoluzione. Serena Mollicone, perché la sentenza ha assolto i Mottola e gli altri imputati: i punti deboli dell’accusa. Redazione su Il Riformista il 16 Luglio 2022.
Il ‘day after’ la sentenza per l’omicidio di Serena Mollicone non si placano le polemiche per la decisione dei giudici della Corte d’Assise del tribunale di Cassino di assolvere tutti gli imputati, i coniugi Franco e Anna Maria Mottola, il figlio Marco (accusati di omicidio e occultamento di cadavere), il vicemaresciallo Vincenzo Quatrale (istigazione al suicidio) e dell’appuntato Francesco Suprano (favoreggiamento).
Una sentenza che ha provocato delusione nella famiglia Mollicone, portando diverse persone a spingersi troppo oltre, col barbaro tentativo di linciare la famiglia Mottola. Il maresciallo Franco e il figlio Marco sono stati insultati, inseguiti e minacciati, costretti a rifugiarsi in un bar protetti dalle forze dell’ordine.
Un clima teso, ma per la famiglia Mollicone quella di ieri non è giustizia. Parla di “sconfitta per lo Stato italiano, che ha nella giustizia una delle sue funzioni cardine”, l’avvocato Dario De Santis, legale del padre della vittima Guglielmo Mollicone, morto nel 2020 dopo due decenni spesi a combattere per trovare la verità sulla morte della figlia.
Quanto alle motivazioni, l’attesa è per l’autunno: i giudici della Corte d’Assise di Cassino si sono presi 90 giorni per il deposito degli atti. “Non commento la sentenza finché non leggerò le motivazioni, ma il dato che emerge oggettivo è che a 21 anni dai fatti non c’è ancora giustizia per Serena“, sottolinea l’avvocato. La morte del padre di Serena, Guglielmo, “gli ha risparmiato questa altra delusione. Ma non ci rassegneremo finché non ci sarà giustizia. Resta il turbamento perché a tanti anni dai tragici fatti lo Stato non è stato capace di fare giustizia“.
I perché dell’assoluzione
In attesa delle motivazioni, a fare un punto sulla sentenza di assoluzione è il Corriere della Sera, che ha ricostruito gli atti a processo e i perché delle assoluzioni della famiglia Mottola “per non aver commesso il fatto” e degli altri due imputati, “perché il fatto non sussiste”.
La prova regina mancante è certamente quella del Dna, che dovrebbe legare gli autori del delitto alla vittima. Sul corpo di Serena (la studentessa di Arce trovata cadavere 3 giugno del 2001, 48 ore dopo la sua scomparsa), sul nastro adesivo che la imbavagliava, sulla porta contro la quale, secondo l’accusa, sarebbe stato sbattuto il suo capo non ci sono tracce biologiche degli imputati. L’unica impronta è quella trovata sul nastro, mai attribuita però ai Mottola.
Altro punto chiave è quello dei frammenti di legno nei capelli di Serena, che per la consulenza di parte dell’accusa, affidata al Riso e alla dottoressa Cristina Cattaneo, erano compatibili per tipo di materiale con quelli della porta della caserma dei carabinieri dove Serena sarebbe stata uccisa, sbattuta contro la porta durante una colluttazione con Marco Mottola. Una contro perizia della difesa ha però smontato tale ipotesi, spingendo probabilmente i giudici a non considerare le indagini dell’accusa come una componente chiave.
Quindi la questione del movente. La stessa procura nella requisitoria ha sottolineato che “solo Serena potrebbe dircelo”. L’ipotesi più accreditata dei familiari e dell’accusa è quella sostenuta dal padre di Serena, Guglielmo, secondo il quale la figlia voleva denunciare Marco per la sua attività di spaccio, tanto da avere anche col maresciallo Mottola una discussione in piazza nei giorni precedenti. Nel corso del processo però la vicenda non è mai stata chiarita.
Infine il suicidio di Santino Tuzi, brigadiere morto suicida nel 2008 dopo aver rivelato, sette anni dopo la morte di Serena, di aver visto l’ingresso della ragazza in caserma il giorno del suo decesso. Una testimonianza però non verificabile: il suicidio di Tuzi è avvenuto prima di completare l’interrogatorio.
Le poesie per Serena Mollicone di papà Guglielmo: «Le gote tue dolci, ti sogno figlia mia». Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 12 luglio 2022.
La figlia uccisa nel 2001 e la lotta del padre per la verità fino all’ultimo giorno della sua vita. Venerdì 15 luglio a Cassino è prevista la sentenza: lui ci sarà idealmente
Lui la sognava ancora bambina, nei sogni l’orrore puoi riuscire a tenerlo fuori: «Contemplo nel muto lettino nascosto, le pieghe d’un tempo, le gote tue dolci...», scriveva il padre pensando alla figlia, facendosi forza col cuore che gli scoppiava. A chi l’andava a trovare, nei pomeriggi su a Rocca d’Arce, dove tira un vento fresco anche d’estate, Guglielmo Mollicone, il padre di Serena, regalava le sue poesie e i suoi sorrisi tristi: «Ti cullo mio angelo dolce, partita per lidi lontani, ti canto le vecchie canzoni, le nenie per farti dormire».
Quei 16 metri di nastro isolante «Ghost»
Tutto si era spezzato ormai molti anni prima, il 3 giugno del 2001, la data del ritrovamento: fosso dell’Anitrella, tra Arce e Isola Liri. Lei era stesa esanime per terra, legata a un albero con del fil di ferro, una busta di plastica in testa, la bocca e gli occhi ricoperti di nastro isolante: 16 metri di nastro di marca Ghost. Ghost in inglese vuol dire «fantasma», com’è stata finora in questi 21 anni la verità.
Cani, pappagalli e canarini per farsi compagnia dopo la tragedia
Le giornate di Guglielmo erano tutte uguali: i cani, i canarini e i pappagalli erano diventati la sua più grande compagnia. «Vedete quanti uccelli che ho? — diceva —. I primi li comprai quando morì mia moglie, Bernardina, nell’89. Per sentirmi meno solo. Poi è stato tutto un susseguirsi di dolore». Nell’arco del giorno, un solo appuntamento non mancava mai: spesso al tramonto, andava al cimitero a trovare moglie e figlia e restava là dei minuti in silenzio. Poi tornava a casa e scriveva: «Dormi, mio angelo biondo, accanto a colei che amo, ricordale tutte le sere i nostri discorsi di vita...». Adesso che è in una tomba accanto a loro, finalmente le ha ritrovate.
Sepolto con moglie e figlia a Rocca d’Arce
Lo incontrammo fuori dal cimitero di Rocca d’Arce una settimana dopo il rinvenimento del cadavere di sua figlia. Era sconvolto: «Sono appena tornato dai carabinieri, mi hanno preso le impronte — ci disse —. Ho la sensazione che qualcuno mi voglia incastrare, qualcuno che l’altra notte durante la veglia in chiesa per Serena si è intrufolato in casa e ha rimesso a posto in un cassetto il telefonino di mia figlia che era scomparso».
La grande umiliazione nel giorno del funerale
Si sentiva umiliato per quel prelievo d’impronte, così come dall’affronto orrendo del giorno del funerale, quando i carabinieri del maresciallo di Arce, Franco Mottola, entrarono in chiesa e si avvicinarono felpati alla prima fila per sussurrargli di alzarsi e seguirli in caserma, con un’ombra inevitabile e gigantesca che subito si posò su di lui, ancora chino sulla bara bianca. Umiliazioni e bocconi amari che non gli hanno mai tolto il sorriso, malgrado tutto, così Guglielmo ha cercato giustizia per Serena fino all’ultimo giorno della sua vita. E il destino, anzi, ora sembra volergli servire sul piatto la rivincita.
Oltre un ventennio d’inchieste: dal carrozziere al maresciallo
L’ex maestro elementare e cartolaio di Arce è morto a 72 anni il 31 maggio del 2020, dopo sei mesi di coma, colpito da un infarto a casa sua, mentre aspettava notizie dal Tribunale di Cassino, dov’era in corso l’udienza preliminare che poi ha mandato a processo gli ultimi 5 accusati per il delitto di Serena, dopo oltre un ventennio attraversato da mille piste, squadre antimostro, errori giudiziari (il carrozziere Carmine Belli, condannato e poi scarcerato nel 2004).
L’ultima arringa prima del verdetto: «Assolvete i Mottola»
Ora alla sbarra c’è proprio l’ex maresciallo di Arce, Franco Mottola, insieme alla moglie Annamaria, al figlio Marco e ad altri due carabinieri della caserma. Il processo è quasi finito, di ieri le ultime arringhe dei difensori che hanno invocato per i Mottola l’assoluzione piena («Dai pm accuse prive di logica») mentre l’accusa ha chiesto di condannare l’ex maresciallo a 30 anni per omicidio e occultamento di cadavere, a 24 suo figlio e a 21 la moglie. La sentenza sarà venerdì. E Guglielmo, sì, ci sarà idealmente anche lui nell’aula della Corte d’Assise di Cassino, nei cuori e nelle menti di chi l’ha conosciuto. Con quei versi scritti su fogli volanti di diario e dedicati a Serena, per sempre: «A te io affido gli sforzi del tempo, i mille pensieri d’un vago futuro».
Serena Mollicone, le richieste del pm: «30 anni per Franco Mottola, 24 per il figlio Marco, 21 per la moglie». Fulvio Fiano, inviato a Cassino su Il Corriere della Sera il 4 luglio 2022.
In corte d’Assise a Cassino la requisitoria della procura: «Serena morta dopo 5 ore di agonia, come per il caso Vannini i padroni di casa scelsero di non soccorrerla, anzi la soffocarono per accelerare il decesso».
Trent’anni per Franco Mottola, 24 per il figlio Marco, 21 per la moglie Anna Maria. Sono le richieste della procura per l’omicidio di Serena Mollicone. I pm sollecitano anche quindici anni per il vice maresciallo Vincenzo Quatrale per il concorso esterno nell’omicidio e quattro per Francesco Suprano accusato di favoreggiamento. Quatrale rispondeva anche dell’istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi, ma il reato è stato derubricato in omicidio colposo ed è quindi prescritto.
«La famiglia Mottola, oltre ad avere avuto un ruolo attivo nell’omicidio, aveva nei confronti di Serena Mollicone un ruolo di garanzia e protezione che non è stato esercitato così come già sanzionato dalla Cassazione nel caso di Marco Vannini a carico della famiglia Ciontoli», sostiene la procura di Cassino paragonando la morte della 18enne di Arce a quella del 21enne di Ladispoli, avvenuta in casa della fidanzata dopo un ferimento in circostanze non chiare e la mancata chiamata al 118 da parte dei familiari della ragazza. «Come per Vannini — dice il pm Carmen Fusco —, i padroni di casa di cui era ospite, ancor più perché all’interno di una caserma, avevano l’obbligo di soccorrerla e invece scelsero di lasciarla morire». Franco Mottola aveva in passato seguito un corso di primo soccorso che avrebbe potuto dunque esercitare con successo, rendendosi conto della situazione della 18enne. Ma il paragone è anche con la vicenda di Stefano Cucchi: «Una pagina nera per l’Arma che altri carabinieri hanno saputo riscattare con le loro indagini»
Nella seconda parte della requisitoria cominciata venerdì, la procura esamina nel dettaglio le posizioni degli imputati: l’ex comandante della caserma dei carabinieri di Arce, Franco Mottola, suo figlio Marco e sua moglie Anna Maria, che rispondono di concorso in omicidio volontario. Il vice maresciallo dell’epoca, Vincenzo Quatrale è imputato per concorso morale esterno al delitto («per non averlo impedito pur avendone la possibilità») e istigazione al suicidio dello stesso Tuzi, mentre il brigadiere Francesco Suprano è accusato di favoreggiamento.
«I Mottola hanno avuto non solo un ruolo attivo nella morte di Serena ma anche omissivo mancando di soccorrerla. Hanno agito in modo freddo e lucido, disinteressandosi della sua sorte. Dopo che Marco ha sbattuto la testa della ragazza contro la porta, Franco e Anna Maria hanno concorso materialmente e moralmente facendolo uscire di casa, istigandolo a recuperare i materiali per legare il corpo, rafforzando il suo progetto criminale occludendo le vie respiratorie di Serena. Franco Mottola capo famiglia e comandante quindi primo incaricato a prevenire il crimine ad Arce e perseguirne i colpevoli aveva una spiccatissima posizione di garanzia nei confronti della ragazza sia come padrone di casa sia come comandante. Non poteva ignorare l’entità del colpo sferrato e non poteva non accorgersi che fosse ancora viva. Invece dirige le operazioni di soffocamento e confezionamento del corpo, portato avanti con accuratezza femminile da Anna Maria Mottola, che sicuramente aveva sentito il rimbombo del tonfo della porta nella casa senza mobilio e poi sotto il ruolo predominante del marito esegue pedissequamente i suoi ordini fino quando quella sera esce con lui a bordo della Lancia K del maresciallo, che nessuno avrebbe fermato a un controllo, e che pur non essendo mai stata rottamata è di fatto sparita». Sul delitto, conclude la procura ci sono anche prove indirette, tanti indizi univoci e concordati e convergenti.
«Consentitemi di spendere una parola su Santino Tuzi — aveva esordito il pm —, è vero che anche lui per anni non ha parlato ma poi ha rotto il muro del silenzio e ha pagato questa scelta con la vita. Santino Tuzi si è suicidato perché è stato lasciato solo da tutti quelli che sapevano, a partire dai colleghi Suprano e Quatrale». La sua testimonianza è credibile, è confermata dalle parole riferite dalla sua amante, Anna Rita Torriero, e dalle confidenze che lei stessa fece ad altre persone con la preghiera di non divulgarle perché altrimenti sarebbe finita nei guai: «Santino si è ucciso per quello che sapeva e perché temeva di essere arrestato». La stessa Torriero è indagata per falsa testimonianza per «aver detto in aula meno di quello che davvero sa», una dei quattro testimoni che rischiano di finire a processo.
Il pm ha poi esaminato un complesso elemento scientifico delle indagini, contenuto nella perizia commissionata sul cadavere della 18enne. «Il corpo di Serena è stato depositato nel bosco di Fonte Cupa la notte dell’1 giugno», dice. Il dato si ricava dai tempi di colonizzazione delle larve degli insetti, la mosca verde tipica di quell’area, sul corpo della ragazza. Un dato di grande importanza perché confermerebbe la ricostruzione della procura secondo cui dopo essere stata tramortita contro la porta della caserma, Serena fu legata e imbavagliata e tenuta nascosta prima su un balcone, come si ricava dalle tracce di vernice di una caldaia, poi presumibilmente nel cofano di un’auto e portata via dalla caserma quella notte stessa da Franco e Anna Maria Mottola tra mezzanotte e l’una. Un dato, questo, desumibile da i tabulati telefonici, dagli ordini di servizio e dalla testimonianza di un carabinieri che vide tornare la coppia nottetempo.
Gli altri esami scientifici rendono possibile fissare l’ora della morte alle 16 circa «dopo cinque ore di agonia — rispetto alla aggressione avvenuta poco dopo le 11 — Era viva e cosciente ma non moriva». «Serena è morta in caserma — ribadisce il pm — Il suo corpo è stato “confezionato” lì e solo successivamente portato nel bosco». Il decesso, spiega l’altro pm Carmen Fusco, avviene per un «soffocamento attivo», ossia le furono volontariamente ostruite le vie respiratore e le fu chiuso il capo in un sacchetto di plastica.
Quanto all’esame reso dagli imputati, «Marco Mottola mente quando dice che il cancello della caserma si poteva aprire col telecomando e non è credibile quando dice che la ragazza con cui è stato visto al bar poche ore prima non era Serena. Quanto alle circostanze della porta rotta con un pugno, Marco non è attendibile quando dice di non ricordare se fu lui o il padre Franco, perché un evento così non si dimentica. Stesso discorso per Anna Maria Mottola per il cancello e quando dice di non aver mai visto la porta rotta come invece aveva confidato a una amica. Anna Maria Mottola mente quando spiega i motivi del trasferimento del marito da Arce e mente quando dice che i suoi problemi psichici sono legati solo allo shock per la morte di Serena e non per il suo coinvolgimento nel delitto».
Il pm smonta la tesi difensiva del buco nella porta causato da un pugno di Marco o Franco perché la forma della frattura non è compatibile con quella di una mano. «Dire che se quella porta fosse stata l’arma del delitto sarebbe stata allora sostituita per nascondere la prova è una spiegazione che non regge, perché se quella porta fosse stata fatta riparare o fosse stata sostituita avrebbe destato attenzione. Si preferì allora cambiarla con quella dell’alloggio di Suprano, all’interno della stessa caserma. Né all’epoca ci si preoccupò più di tanto delle indagini perché non c’erano le conoscenze per effettuare il calco della testa in 3D e simulare l’impatto come fatto ora».
Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 4 luglio 2022.
Antonio Mollicone ha raccolto l'eredità morale di suo fratello Guglielmo nella ricerca della verità per Serena, sua nipote. Venerdì in corte d'assise a Cassino, annuendo spesso, ha riempito di appunti un bloc notes formato grande durante le sei ore di requisitoria del pm Beatrice Siravo, che oggi completerà il suo intervento con le richieste di condanna.
Che cosa ha appuntato tra tutte le parole dette?
«Quello del pm è stato un lavoro meticoloso, certosino, analitico e soprattutto sincero e appassionato: meraviglioso. Io e gli altri familiari ne siamo pienamente soddisfatti e le siamo grati».
È possibile riacciuffare il filo della verità a distanza di 21 anni?
«È come una ricostruzione post bellica. Per 21 anni siamo stati impotenti davanti alle macerie lasciate dalle indagini precedenti, dai depistaggi, da tutte le false verità. Oggi possiamo dire: ecco quello che è successo».
Le difese daranno battaglia sui dati scientifici e sulle testimonianze, come sempre fatto finora. Come fa a essere certo dell'esito di questa vicenda giudiziaria?
«La Procura ha fatto un lavoro di grande qualità scientifica ed etica, ha verificato tutti i fatti, le circostanze, gli orari, le parole dei testimoni con precisione. Non sono indizi ma prove raccolte dopo anni ad annaspare. Cose drammaticamente e tragicamente vere. E noi, come parti civili con i nostri avvocati, daremo il nostro contributo, non di rabbia ma di verità».
Non era mai stato detto con chiarezza che fu Marco Mottola a sbattere la testa di Serena contro una porta della caserma, non era mai stato decritto così nel dettaglio il presunto ruolo dei genitori nel far morire Serena imbavagliandola e nel trasportarla di notte in un bosco. Cosa ha provato a sentirlo dire davanti ai giudici?
«Quello che mi ha reso più contento è stato sentir dire la verità su Serena: che era una ragazza con sogni e progetti, aveva un piano di studi ed era pronta a faticare per completarlo; che non era andata in caserma per provocare, che non aveva altri pensieri per la testa se non quelli di tornare ad Arce dalle amiche dopo aver perso il pullman di ritorno dal dentista da Sora; che - lo dicono gli esami scientifici - non era incinta né aveva assunto sostanze; che non aveva nessun rapporto con Marco Mottola ma ha solo accettato un suo passaggio in auto perché il suo fidanzato, col quale stava da due anni, non era arrivato all'appuntamento».
Il pm ha detto molto anche sui presunti depistaggi del maresciallo Mottola, sempre sostenuti da suo fratello Guglielmo.
«Anche sui depistaggi è stata puntualissima, recuperando dall'oblio tanti elementi che messi in sincronia tra loro rivelano una strategia, combaciano svelando una trama. Mottola indagava "a modo suo" con irregolarità penalmente rilevanti».
E del brigadiere Santino Tuzi, morto suicida dopo aver rivelato a distanza di sette anni di aver visto Serena in caserma la mattina di quel primo giugno, che idea si è fatto?
«Che intanto, come detto dal pm, è tutto provato anche senza la sua testimonianza. Poi, che ha detto la verità come dimostrato dal sopralluogo fatto in caserma (in una delle ultime udienze, ndr ), perché solo dalla sua scrivania poteva vedere quello che ha descritto nei dettagli. Hanno provato a distruggere anche lui, il suicidio dice quali fossero i suoi tormenti. Poteva parlare prima? Dopo 21 anni c'è ancora gente che continua a mentire, non possono essere un problema i sette anni che ha aspettato lui per dire la verità, come non sarà un problema dover attendere un'altra udienza per ascoltare le conclusioni del pm».
Che si aspetta per le richieste di condanna?
«Non penso alle pene, non spetta a noi quantificarle. A noi interessa che sia fatta giustizia e che la verità sia stata finalmente raccontata a tutti».
(ANSA l'1 luglio 2022) - "L'autore dell'omicidio di Serena Mollicone è Marco Mottola". E' quanto ha affermato in un aula il pm di Cassino nel corso della requisitoria nel processo per la morte di Serena Mollicone, assassinata il 1 giugno del 2001 nella caserma dei carabinieri di Arce. Marco Mottola è uno tre imputati accusati di omicidio volontario e occultamento del cadavere assieme al padre, Franco, ex comandante della caserma e alla moglie Anna Maria. Gli altri due imputati sono il luogotenente Vincenzo Quatrale e l'appuntato dei carabinieri, Francesco Suprano.
Da “Le Iene – Mediaset” il 2 luglio 2022.
Domenica 10 luglio, in prima serata su Italia1, lo speciale de “Le Iene” dal titolo “L’omicidio di Serena Mollicone: un mistero lungo 20 anni”, una puntata interamente dedicata alla tragica vicenda che ruota intorno alla morte dell’adolescente di Arce, un paese di poco meno di 6.000 abitanti in provincia di Frosinone.
Nella requisitoria finale del processo per l’omicidio della giovane, il Pm ha dichiarato che “Serena Mollicone è stata uccisa da Marco Mottola nella caserma dei carabinieri”. Nel corso della puntata condotta da Veronica Ruggeri, contenuti inediti, testimonianze di tutti i principali protagonisti, indagini, ricostruzioni e tutti gli aggiornamenti sul caso.
Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 2 luglio 2022.
Tradita dai libri dimenticati nell'auto di Marco Mottola, Serena Mollicone andò incontro al suo assassino per recuperarli nella caserma dei carabinieri di Arce. Qui fu uccisa, il capo sbattuto contro una porta, e il suo corpo fu nascosto dal padre del ragazzo, il comandante di quella stazione, assieme alla moglie.
Sei ore di requisitoria al culmine di 46 udienze e 130 testimonianze non bastano al pm per arrivare a quantificare la pena (lunedì l'appendice) ma dopo 21 anni fissano nuove e ancor più pesanti accuse verso i tre principali imputati nel delitto della 18enne.
L'arma del delitto
«Il cuore del processo è quale sia l'arma del delitto - esordisce il pm Beatrice Siravo -. Quando abbiamo riaperto le indagini con l'ipotesi dell'omicidio avvenuto in caserma avevamo poche speranze su un risveglio delle coscienze. Ma siamo arrivati ad avere una prova scientifica solidissima».
Il pm ripercorre i risultati della perizia affidata al Labanof di Milano e al Ris dei carabinieri. «Analisi scientifiche scrupolosissime su dinamica, materiali, punto di impatto, che escludono ogni ipotesi alternativa alla porta». E invita i giudici della corte d'Assise al «macabro esperimento», di incastrare il calco del capo in 3D nella riproduzione della porta.
La lite in auto
Il pm è certo di aver sciolto il dubbio su chi, in questo omicidio in concorso, spinse Serena con tanta violenza: «L'autore del delitto è Marco Mottola». Il fiume di parole ascoltate in aula (altri due testimoni indagati per falso) viene rimesso in ordine: «Serena fu vista piangere sulla Y10 bianca di Marco "il ragazzo biondo mesciato" al bar Chioppetelle, poi in piazza ad Arce. Si presentò quindi in caserma per riprendere i libri e fu aggredita».
Il movente dell'omicidio sarebbe proprio nel litigio di poco prima: «Non ne conosciamo il contenuto» mai il pm avvalora l'ipotesi del padre di Serena, Guglielmo: lei voleva denunciare Mottola jr per spaccio.
Il corpo nascosto
Il maresciallo Franco Mottola, avvisato, rientrò in caserma e non se ne allontanò più, nonostante quello che riporta un ordine di servizio falsificato «perché era impegnato a far morire Serena (tramortita e in preda ad una agonia durata quattro ore) imbavagliandola e legandola con il nastro adesivo».
Quella notte stessa lui e la moglie, come emergerebbe dai tabulati telefonici, gli ordini di servizio e la testimonianza di un carabiniere che li vide tornare, «uscirono tra mezzanotte e l'1 per far ritrovare il corpo in un punto che allontanava i sospetti da quell'avvistamento al bar». Il primo di tanti depistaggi: «Franco Mottola è una anomalia mondiale, il primo caso di un assassino che indaga su se stesso».
Omertà in caserma
In ultimo, la testimonianza di Santino Tuzi, il brigadiere morto suicida. «Si decise a parlare dopo per il timore di essere implicato. "Mi vogliono mettere le manette per quello che è successo qua" disse alla sua amante».
Un passaggio finora inedito delle sue dichiarazioni ne avvalorerebbe la credibilità: «Serena citofonò in caserma e una voce di uomo giovane, che suppongo fosse Marco perché il maresciallo non c'era, mi disse all'interfono di farla passare». Tuzi ricorda con precisione la «borsa a parallelepipedo con delle frange» descritta dalle amiche di Serena e mai ritrovata. Poi, nella registrazione fuori verbale del suo interrogatorio, si sfoga contro «l'omertà in caserma» e dice: «Se Marco lo schiaffano dentro sono contento».
Serena Mollicone, il pm: «Uccisa da Marco Mottola, la porta della caserma è l’arma del delitto». Fulvio Fiano, inviato a Cassino su Il Corriere della Sera l'1 Luglio 2022.
In corte d’Assise a Cassino la requisitoria della procura per l’omicidio della 18enne di Arce. «L’ex comandante dei carabinieri Franco Mottola e sua moglie nascosero il corpo quella notte per proteggerlo».
Il penultimo atto di una attesa lunga 21 anni, l’ultimo tentativo di arrivare alla verità. In corte d’Assise a Cassino, al termine di un dibattimento durato 46 udienze, parlano i pubblici ministeri che accusano l’ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce, il maresciallo Franco Mottola, suo figlio Marco e sua moglie Anna Maria, assieme al vicemaresciallo Vincenzo Quatrale dell’omicidio di Serena Mollicone, la 18enne sparita l’1 giugno 2001 dal paesino del frusinate e trovata cadavere in un bosco lì vicino 48 ore dopo. Un altro carabinieri, Francesco Suprano, è accusato di favoreggiamento. Tutti gli imputati (escluso Marco Mottola) sono presenti in aula, così come la sorella di Serena, Consuelo, lo zio Antonio e gli altri parenti costituiti parte civile.
«Piena compatibilità con la frattura al capo»
«Il cuore del processo è quale sia l’arma del delitto — esordisce il pm Beatrice Siravo, riferendosi alla porta contro la quale sarebbe stata fatta sbattere la testa della ragazza — Quando abbiamo riaperto le indagini con l’ipotesi dell’omicidio avvenuto in caserma e con la perizia sulla porta avevamo poche speranze su un risveglio delle coscienze. L’unica che potesse dirci chi ha ucciso Serena era Serena stessa ma noi siamo arrivati ad avere una prova scientifica solidissima». Il pm ripercorre poi i passi con i quali si è arrivati a identificare la porta dell’alloggio degli ufficiali, quindi dei Mottola, spostata poi nell’appartamento in uso a Suprano, come arma del delitto. Dalle prime testimonianze sulla sua collocazione fino alle accurate analisi sulla compatibilità della lesione sul capo della vittima con i segni presenti sulla porta. «Analisi scientifiche scrupolosissime - le definisce il pm - che hanno portato a escludere ogni ipotesi alternativa (gli imputati sostengono che quei segni sono dovuti a un non meglio precisato pugno di Marco o Franco Mottola nel corso di una lite familiare, ndr)». Il pm elenca tutti i dati scientifici che sostengono questa «piena compatibilità» e invita i giudici a «un macabro esperimento», provare a incastrare il calco del cranio di Serena ricostruito in 3D con la frattura nel panello della porta. Anche le altre analisi sui frammenti di legno, le tracce di colla e vernice rinvenute sul nastro adesivo con cui è stata imbavagliata e legata Serena e nei suoi capelli sono, secondo l’accusa, univoche nel far ritenere che «l’omicidio è avvenuto all’interno della caserma» e che «la porta è l’arma del delitto oltre ogni ragionevole dubbio».
L’aggressione seguita a una lite
Il pm svela poi la carta tanto attesa: «L’autore del delitto è Marco Mottola e alla sua responsabilità si arriva anche senza tener conto della pur attendibile testimonianza di Santino Tuzi (il brigadiere poi morto suicida dopo aver rivelato di aver visto Serena entrare in caserma, ndr)». La pubblica accusa esamina una alla volta le oltre 130 testimonianze ascoltate in aula sugli oltre 240 testi citati. Ripercorre la mattina di Serena che dopo una visita dal dentista non arrivò mai a scuola, fu vista piangere in auto con un ragazzo dai capelli meschati al bar Chioppetelle e valorizza tutti i ricordi dei testimoni che portano ad identificare la vettura in quella di Mottola jr e in lui la persona che era con la 18enne, a partire da quella di Carmine Belli, primo imputato (poi assolto) del delitto, ed eliminando tutte quelle rivelatesi poi inattendibili. «Sono false le testimonianze di Pier Paolo Tomaselli e Simonetta Bianchi per i suoi tanti “non ricordo”», dice il pm, che chiede la trasmissione degli atti relativi alla loro deposizione per indagarli. «Serena — è la ricostruzione della procura — dopo il dentista a Sora salì nella Y10 bianca di Marco Mottola per un passaggio, si fermò al bar dove fu vista litigare con lui e poi in piazza ad Arce. Si presentò quindi in caserma per riprendere i libri che aveva lasciato sulla vettura e qui fu aggredita». Il movente dell’omicidio sarebbe proprio in quel litigio «anche se non ne conosciamo il contenuto, ma sicuramente non quello sentimentale, dato che Serena era fidanzata e che con Marco non c’era nulla». Il padre di Serena, Guglielmo, ha sempre sostenuto che la figlia volesse denunciare Mottola jr per la sua nota attività di spacciatore, nella quale godeva della immunità garantita dal ruolo del padre (come ribadito da più testimoni). Una ipotesi ripresa anche dal pm, rilanciando una vecchia testimonianza dell’uomo, il quale ricordò come la figlia avesse discusso anche con il maresciallo Mottola proprio su questo punto. Serena e Marco furono visti litigare anche la sera prima della sua scomparsa.
I depistaggi
Il capitolo successivo della sua requisitoria, il pm lo dedica ai depistaggi che il maresciallo Mottola avrebbe messo in atto per proteggere il figlio a partire proprio dalla testimonianza non registrata di Simonetta Bianchi, che disse di aver visto Serena e Marco sulla Y10 bianca. La segnalazione dell’auto fu volutamente alterata, dice l’accusa, né mai fu avviata la ricerca di un ragazzo biondo meschato. «Solo il 27 giugno, con 25 giorni di ritardo, Franco Mottola annotò di aver raccolto quella testimonianza, alterandone però il contenuto». Anche sulla colorazione dei capelli di Marco Mottola tanto contestata dalle difese, la procura di Cassino ritiene di avere le conferme necessarie. Anche la testimonianza di Carmine Belli non fu annotata per prendere tempo. E nascondendo quell’avvistamento, il maresciallo Mottola si arrogò la competenza sulle indagini anche se per territorio sarebbero spettate alla caserma di Isola Liri. «Quella di Franco Mottola è una anomalia su scala mondiale, il primo caso di un assassino che indaga su se stesso, avendo ampia mano per depistare le indagini». La sua, sottolinea la procura, «non era sciatteria ma volontà di allontanare le indagini dal ragazzo biondo meschato sulla Autobianchi Y10 bianca». Anzi, nella sua relazione parlò di una Lancia Y rossa. Proprio in virtù di questi depistaggi, Mottola stava per essere trasferito d’ufficio, ma riuscì ad anticipare l’onta chiedendo lui un’altra destinazione. Il rapporto stilato sul suo operato, letto in aula dal pm, parla di «inconsistente apporto informativo alle indagini», accertamenti «piuttosto lacunosi», per i quali «la ammissione di superficialità è una spiegazione insoddisfacente». «Mottola sapeva che il figlio frequentava pusher e consumava droga — è scritto ancora nella relazione — e questo fa sussistere una incompatibilità ambientale che rende necessari provvedimenti disciplinari (il suo trasferimento, ndr)».
«Il maresciallo e la moglie nascosero il corpo»
Il pm ricostruisce anche altri spostamenti di quella mattina in caserma, dove oltre al figlio era presente la moglie del maresciallo Mottola. Dopo l’aggressione, lui e il figlio si diedero una sorta di cambio. Marco uscì, mentre Franco, rientrato dai preparativi della festa dell’Arma, non se ne allontanò più, al contrario di quello che dice un ordine di servizio falsificato, «perché era impegnato a far morire Serena (tramortita dal trauma cranico ma che si poteva ancora salvare) avvolgendole il corpo con il nastro adesivo». Ma il pm Siravo fa un’altra rivelazione: «I genitori di Marco, il maresciallo Mottola e la moglie Annamaria nascosero il corpo di Serena uscendo quella notte stessa dalla caserma tra la mezzanotte e l’una». La pubblica accusa arriva a questa conclusione dall’esame dei tabulati telefonici, dagli ordini di servizio della caserma e dalla testimonianza di un’altro carabiniere che vide rientrare la signora Mottola in orario notturno negli appartamenti.
Le dichiarazioni di Tuzi
Capitolo successivo dedicato alla testimonianza chiave di Santino Tuzi, il brigadiere morto suicida (Quatrale è imputato per averlo istigato) dopo aver rivelato di aver visto Serena in caserma. «Si decise a parlare dopo sette anni — dice il pm — quando in lui nacque il timore di essere arrestato. Rivelatrice in questo senso la conversazione intercettata con la sua amante, Anna Torriero : «Mi vogliono mettere le manette per quello che è successo qua (in caserma, per quello che è successo con la ragazza», dice il brigadiere mentre è in corso l’interrogatorio del collega Suprano. Ai superiori che indagano si mostra sicuro: «Quella mattina ha citofonato in caserma una ragazza e una voce di uomo giovane, che suppongo fosse Marco, perché il maresciallo Mottola era fuori per servizio, mi disse all’interfono di farla passare». Tuzi è credibile, dice il pm, perché descrive con precisione la borsa a parallelepipedo con delle frange che Serena aveva (come confermano le sue amiche) ma che non fu mai ritrovata». Nella registrazione fuori verbale del suo interrogatorio Tuzi si lascia andare a uno sfogo: «Se Marco lo schiaffano dentro sono contento». La procura ritiene Tuzi pienamente credibile e attribuisce i suoi successivi e parziali ripensamenti alle pressioni ricevute dal collega Quatrale. Il pm dell’epoca descrive Tuzi come uno che si è liberato da un peso e alla domanda se avesse ricevuto pressioni dai Mottola per ritrattare lui dice di no ma descrive il clima in caserma come «omertoso».
Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 3 luglio 2022.
Indagini «lacunose» e «inconsistenti», mosse da una «incompatibilità ambientale» tale da rendere necessario il trasferimento del suo autore. Nel processo per il delitto di Serena Mollicone, spunta una relazione con la quale i superiori dell'ex maresciallo Franco Mottola - all'epoca comandante della stazione dei carabinieri di Arce - bocciavano le sue «indagini» sul caso prima ancora di sapere che il collega ne fosse direttamente coinvolto.
Un giudizio sul piano professionale molto negativo, dunque: Mottola riuscì a evitare l'onta di un trasferimento d'ufficio solo grazie a una furba mossa d'anticipo sui suoi superiori.
«Indagini su sé stesso»
La circostanza è stata rievocata venerdì in corte d'assise a Cassino dal pm Beatrice Siravo. Secondo la Procura, l'omicidio della 18enne avvenne proprio nella caserma diretta da Mottola per mano di suo figlio Marco.
Il maresciallo in prima persona contribuì poi a far morire la ragazza imbavagliandola anziché soccorrerla e ne portò il corpo in un bosco assieme alla moglie Anna Maria. Ebbene, se solo dopo 21 anni si è arrivati a concretizzare l'accusa contro la famiglia Mottola, il motivo risiederebbe proprio nei depistaggi messi in piedi dallo stesso maresciallo, definito dal pm «una anomalia su scala mondiale di un assassino che indaga su sé stesso con ampia mano per depistare le indagini».
L'ordine di servizio
L'elenco è lungo ed è stato ripercorso nella requisitoria durata sei ore e non ancora conclusa. Secondo la Procura, subito dopo aver sbattuto la testa di Serena contro una porta dell'appartamento in uso ai Mottola, Marco fu fatto uscire di casa per farsi vedere in giro. Il padre Franco tornò invece in sede, ma sostenne di essere uscito subito dopo poggiando su un ordine di servizio pieno di incongruenze e imprecisioni, dunque sostanzialmente falso.
Testimoni ignorati
Il maresciallo raccolse il giorno dopo le testimonianze della barista Simonetta Bianchi e del carrozziere Carmine Belli (poi processato e assolto per il delitto) che davano chiare indicazioni sulla presenza di Serena in auto con Marco Mottola quella mattina. Solo dopo 25 giorni le registrò però agli atti e nel frattempo ne alterò il contenuto (anziché una Autobianchi Y10 bianca diramò la segnalazione per una Lancia Y rossa). Nascondendo quell'avvistamento, inoltre, il maresciallo riuscì secondo il pm a tenere ad Arce le indagini anche se per territorio sarebbe stata competente Isola Liri.
Anche la collocazione del corpo nel bosco di Anitrella non fu una scelta casuale ma mossa dall'idea di allontanare l'attenzione da quel passaggio del figlio al bar con la vittima.
Crescendo di coperture Citati nell'informativa del comando provinciale dei carabinieri su cui si regge l'accusa ci sono poi gli episodi del ritrovamento del telefono di Serena a distanza di giorni in casa del padre o quello della nota con l'appuntamento dal dentista dove Serena era stata quella mattina, spuntato nella carrozzeria di Belli.
Molto altro viene aggiunto sul clima di depistaggi che caratterizzavano la gestione della caserma e le prime indagini condotte da Mottola: «Risalta maggiormente il comportamento del padre Franco nei confronti del figlio Marco», scrivono i militari del nucleo investigativo, definendolo «un crescendo di coperture».
In un episodio non collegato all'omicidio, ad esempio, Mottola non registra una segnalazione per droga del figlio, incappato in un controllo stradale dei suoi sottoposti. La stessa droga (hashish) che il 20enne consumava e addirittura custodiva abitualmente in caserma e che sarebbe stata alla base della lite con Serena.
«Incompatibile»
Quando l'indagine sul delitto viene presa in gestione dal comando provinciale emerge per la prima volta il possibile coinvolgimento del comandante della stazione di Arce. Il rapporto stilato sul suo operato, letto in aula dal pm, parla di «inconsistente apporto informativo alle indagini», accertamenti «piuttosto lacunosi», per i quali «la ammissione di superficialità è una spiegazione insoddisfacente».
«Mottola sapeva che il figlio frequentava pusher e consumava droga - è scritto ancora nella relazione - e questo fa sussistere una incompatibilità ambientale che rende necessari provvedimenti disciplinari (il suo trasferimento, ndr )». Il comando provinciale ascrive al maresciallo Mottola la responsabilità diretta di questi «errori». Il comandante, secondo il pm Siravo, fu però informato del provvedimento in arrivo e riuscì a prevenirlo presentando lui in tutta fretta una domanda di trasferimento che fu presto accettata.
Fulvio Fiano per corriere.it il 3 luglio 2022.
Antonio Mollicone ha raccolto l’eredità morale di suo fratello Guglielmo nella ricerca della verità per Serena, sua nipote. Venerdì in corte d’Assise a Cassino ha riempito di appunti un bloc notes formato large durante le sei ore di requisitoria del pm Beatrice Siravo, che domani completerà l’intervento con le richieste di condanna.
Che cosa ha segnato tra tutte le parole dette?
«Quello del pm è stato un lavoro meticoloso, certosino, analitico e soprattutto sincero, appassionato. Meraviglioso, io e gli altri familiari ne siamo pienamente soddisfatti e le siamo grati».
È possibile riacciuffare il filo della verità a distanza di 21 anni?
«Dobbiamo fare un paragone con la ricostruzione post bellica. Per 21 anni siamo stati impotenti davanti alle macerie lasciate dalle indagini precedenti, dai depistaggi, da tutte le false verità. Oggi possiamo dire: ecco quello che è successo».
Le difese daranno battaglia sui dati scientifici e sulle testimonianze, come sempre fatto finora. Come fa a essere certo di essere alla fine di questa vicenda giudiziaria?
«La procura ha fatto un lavoro di grande qualità scientifica ed etica, ha verificato tutti i fatti, le circostanze, gli orari, le parole dei testimoni con precisione. Non sono indizi ma prove raccolte dopo 20 anni ad annaspare. Cose drammaticamente e tragicamente vere. E noi come parti civili, con i nostri avvocati, daremo il nostro contributo non di rabbia ma di verità».
Non era mai stato detto con così tanta chiarezza che fu Marco Mottola a sbattere la testa di Serena contro una porta della caserma, non era mai stato descritto così nel dettaglio il presunto ruolo dei genitori nel far morire Serena imbavagliandola e nel trasportarla di notte nel bosco di Fonte Cupa che oggi si chiama Fonte Serena. Che ha provato a sentirlo dire davanti ai giudici?
«La cosa che mi ha reso più contento è stato sentir dire la verità su Serena, che era una ragazza che aveva sogni e progetti, che aveva un piano di studi ed era pronta a faticare per completarlo, che non era andata in caserma per provocare, che non aveva altri pensieri per la testa se non quelli di tornare ad Arce dalle amiche dopo aver perso il pullman di ritorno dal dentista da Sora, che - lo dicono gli esami scientifici - non era incinta, non aveva assunto sostanze, che non aveva nessun rapporto con Marco Mottola ma ha solo accettato un suo passaggio in auto perché il suo fidanzato col quale stava da due anni non era arrivato all’appuntamento».
Il pm ha detto molto anche sui presunti depistaggi del maresciallo Mottola, sempre sostenuti da suo fratello Guglielmo
«Anche sui depistaggi il pm è stata puntualissima recuperando dall’oblio dove erano finiti tanti elementi che messi in sincronia tra loro rivelano una strategia, combaciano svelando una trama. Mottola indagava “a modo suo” con irregolarità penalmente rilevanti».
E del brigadiere Santino Tuzi, morto suicida dopo aver rivelato a distanza di sette anni di aver visto Serena in caserma la mattina di quell’1 giugno, che idea si è fatto?
«Che intanto, come detto dal pm, è tutto provato anche senza la sua testimonianza. Poi che ha detto la verità come dimostrato dal sopralluogo fatto in caserma (in una delle ultime udienze, ndr), perché solo dalla sua scrivania poteva vedere quello che ha detto e ha descritto nei dettagli la borsa di Serena mai ritrovata.
Hanno provato a distruggere anche lui, il suicidio dice quali fossero i suoi tormenti. Poteva parlare prima? Dopo 21 anni c’è ancora gente che continua a mentire, non possono essere un problema i sette anni che ha aspettato lui per dire la verità, come non sarà un problema dover attendere un’altra udienza per ascoltare le conclusioni del pm».
Che si aspetta per le richieste di condanna?
«Non penso alle pene, non spetta a noi quantificarle. A noi interessa che sia fatta giustizia e che la verità sia stata finalmente raccontata a tutti».
L’omicidio di Serena Mollicone: piste, errori, depistaggi. I tanti colpi di scena nell’inchiesta giudiziaria sulla morte di Serena Mollicone, uccisa ad Arce (Frosinone) nel giugno 2001: dall’arresto di un innocente al suicidio di un brigadiere, fino alle indagini sulla famiglia del comandante della locale stazione dell’Arma. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera l'1 Luglio 2022.
Una brava studentessa con la passione della musica
Serena Mollicone, 18 anni, fidanzata con un giovane di 27, anche lui di Arce (Frosinone), e figlia di Guglielmo, maestro di scuola elementare e gestore di una cartoleria, vedovo da tempo, stava per prendere il diploma. In quel giugno 2001 era chiamata a sostenere l’esame di maturità del liceo socio-psico-pedagogico “Vincenzo Gioberti” di Sora, che aveva frequentato con buon profitto. La ragazza, cresciuta sola in casa con il papà (la sorella maggiore Consuelo si era trasferita al Nord Italia), era appassionata di musica, e suonava il clarinetto nella banda del paese.
Gli spostamenti del giorno della scomparsa
Era uscita da casa attorno alle 9 di mattina (nella foto la sua stanzetta ricavata sotto la scala) per andare da Arce a Isola Liri in pullman, per una visita medica. Poi aveva acquistato quattro pezzi di pizza, come se avesse appuntamento con delle amiche. Ma poco dopo, improvvisa e inspiegabile, la scomparsa. È questa la sequenza dell’ultimo giorno in cui Serena Mollicone fu certamente in vita: era venerdì 1º giugno 2001. La studentessa fu vista rientrare in paese, a metà mattinata, ma da quel momento sparì: non tornò né a casa da papà Guglielmo per pranzo, né incontrò il suo ragazzo.
Il ritrovamento del cadavere nel boschetto
«Serena non se ne sarebbe mai andata volontariamente. Oggi doveva scrivere la tesina per l’esame di maturità». Guglielmo Mollicone si preoccupò immediatamente, conoscendo sua figlia. Le ricerche, partite già nel pomeriggio del 1° giugno, si conclusero drammaticamente a mezzogiorno di domenica 3 giugno: una squadra della Protezione Civile individuò il corpo della ragazza nel boschetto dell’Anitrella (foto), nel territorio di un comune limitrofo, Monte San Giovanni Campano, a pochi chilometri da Arce. Il cadavere era seminascosto da frasche, in posizione supina. Calato sulla testa, un sacchetto di nylon, probabilmente usato per soffocarla. Mani e piedi legati con fil di ferro e scotch, usato anche per tapparle naso e bocca.
La convocazione in caserma del padre durante i funerali
Le indagini della Procura di Cassino si mossero in tutte le direzioni, ma il 9 giugno 2001, giorno dei funerali di Serena Mollicone nella chiesa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, ad Arce, accadde un fatto assolutamente imprevisto: Guglielmo Mollicone, affranto (foto), attorniato dalla figlia rimasta e da altri parenti, fu avvicinato da un paio di carabinieri e invitato a lasciare la funzione religiosa per recarsi in caserma, per un interrogatorio. Una mossa studiata, o forse no. L’effetto fu comunque di insinuare nell’opinione pubblica il dubbio che potesse essersi trattato di un omicidio familiare, con il padre nelle vesti dell’assassino o del complice. Ipotesi basata anche sul ritrovamento del telefonino di Serena in casa (dove non si escluse che qualcuno lo avesse collocato intenzionalmente), ma subito rientrata. In base agli sviluppi successivi, infatti, quell’umiliazione inferta a Guglielmo Mollicone davanti all’intera comunità di Arce faceva parte di un piano di depistaggio.
Arrestato un carrozziere, ma sarà assolto
Alla fine del 2002, quand’era passato oltre un anno dal delitto, nel registro degli indagati presso la Procura di Cassino finì, con gran clamore mediatico, il primo sospettato dell’omicidio di Serena Mollicone: Carmine Belli (foto), carrozziere di Rocca d’Arce. A suo carico la mancanza di un alibi e un biglietto secondo il quale il 1º giugno 2001 doveva incontrarsi con Serena. Il pressing investigativo contro il carrozziere fu notevole: «Mi hanno ascoltato talmente tante volte che a un certo punto non sapevo più quel che dicevo - disse Belli al processo di primo grado, ripetendo tre le lacrime di essere innocente -. Mi mostravano foto, mi pressavano e io cadevo sempre più in confusione». L’esito fu comunque incontrovertibile: il processo (indiziario) davanti alla Corte d’assise si concluse con due assoluzioni in primo e secondo grado, confermate dalla Cassazione.
Lo strano suicidio del brigadiere che sapeva troppo
La prima vera svolta del giallo di Arce arrivò nell’aprile 2008, quando il brigadiere Santino Tuzi (nelle foto, lui e l’auto) si sparò con la pistola d’ordinanza nella sua Fiat Marea, parcheggiata in una radura non distante dal luogo del ritrovamento del corpo di Serena. Un disperato atto d’accusa? La figlia Maria è sempre stata convinta che la motivazione del gesto di suo padre non andasse cercata in ragioni private, sentimentali, ma in quel che sapeva sul caso Mollicone. L’indiscrezione era che alcuni giorni prima del suicidio, ascoltato dalla Procura, il militare avesse dichiarato agli inquirenti che la mattina del 1° giugno nella caserma di Arce era entrata una ragazza. Si trattava di Serena? Il collegamento con la vittima, a lungo dato per probabile ma mai ufficialmente dimostrato, è stato ufficialmente ribadito nell’ultimo procedimento per omicidio contro tre carabinieri. Il giudice ha infatti ammesso come prova d’accusa una dichiarazione fatta ai colleghi dal brigadiere Tuzi. «Ho visto Serena Mollicone entrare in caserma alle 11 del mattino dell’1 giugno 2001 e fino a quando sono rimasto in servizio, erano le 14.30, non l’ho vista uscire».
Colpo di scena: indagata la famiglia del maresciallo
A partire dal 2010, le indagini hanno ripreso vigore. Il maresciallo Franco Mottola, all’epoca dei fatti comandante della stazione dei carabinieri di Arce, è stato indagato assieme alla moglie Anna Maria e al figlio Marco per omicidio volontario e occultamento di cadavere. Secondo la nuova ricostruzione, Serena sarebbe stata colpita negli uffici (sbattendole la testa contro un oggetto) e successivamente portata in campagna, forse ancora in vita, e soffocata con il sacchetto di plastica e il nastro adesivo. Il movente, sempre per l’accusa, era la conseguenza di una preoccupazione: che Serena denunciasse pubblicamente quanto sapeva su un traffico di droga in paese. L’inchiesta è proseguita con gli esami del Dna (compiuti su oltre 250 persone) e con la rivisitazione delle impronte digitali scoperte sulla scena del delitto, mentre i Mottola continuavano a dirsi estranei e innocenti. Nel 2016 il gip di Cassino, Angelo Valerio Lanna, ha respinto la richiesta di archiviazione e ordinato la riesumazione del cadavere.
La nuova autopsia e gli sviluppi d’indagine
Il cadavere di Serena Mollicone è stato riesumato il 22 marzo 2016. I nuovi accertamenti, affidati al Labanof dell’Università di Milano diretto dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo (in foto, nel suo laboratorio), hanno portato al deposito di una perizia di circa 200 pagine nel novembre 2017. Particolare attenzione è stata data alla ferita sul volto della ragazza, in particolare all’arcata sopraccigliare, da mettere in relazione a un segno di rottura su una porta della caserma individuato a 1 metro e 54 centimetri da terra. La lesione sull’arcata di Serena è a 1 metro e 46, circostanza che ha indotto la difesa dei Mottola a obiettare che non vi sarebbe “compatibilità”. Replica dei periti: «Punto d’impatto e altezza della vittima sono coincidenti, in quanto la ragazza indossava scarponcini e quindi l’altezza era maggiore». Inoltre «nei colpi dal basso verso l’alto la vittima avrebbe ricevuto una forza cinetica nel momento dell’aggressione», venendo proiettata qualche centimetro più su.
Mille persone al secondo funerale della ragazza
Nel dicembre 2017, dopo che la salma fu riconsegnata alla famiglia, ad Arce si sono svolte nuove esequie di Serena Mollicone: un secondo funerale a 16 anni dal primo, senza precedenti nella pur ricca storia dei cold case, che si è configurato come una sorta di «risarcimento» per Guglielmo Mollicone, la cui salute nel frattempo si era deteriorata, anche per effetto della tensione e dei tanti dolori (nella foto l’uomo, ormai con i capelli bianchi, bacia la bara della figlia). I resti di Serena si trovano in un loculo del cimitero di Rocca d’Arce.
Tre carabinieri coinvolti, l’Arma parte civile nel processo
Cinque persone coinvolte nell’omicidio di Serena, tre delle quali carabinieri: il maresciallo Franco Mottola, la moglie, il figlio, l’ex luogotenente Vincenzo Quatrale (tutti e quattro chiamati a rispondere di concorso in omicidio, quest’ultimo anche di istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi) e l’appuntato Francesco Suprano (favoreggiamento). Questo il quadro delle accuse, 19 anni dopo l’omicidio. La prima udienza preliminare sul delitto di Arce si è svolta davanti al Gup del tribunale di Cassino (foto) il 15 gennaio 2020 e in quella sede è stata ammessa la costituzione di parte civile sia dell’Arma dei carabinieri (che si è dichiarata parte lesa per la condotta dei suoi militari) sia del ministero della Difesa. Nella successiva udienza del 27 febbraio la pm di Cassino, Beatrice Siravo, ha formalizzato la richiesta dei cinque rinvii a giudizio. I successivi appuntamenti di marzo sono stati rinviati a causa dell’esplosione della pandemia di coronavirus e la decisione se accogliere la richiesta di processo in Corte d’assise è così slittata all’estate 2020.
Addio a Guglielmo, padre-coraggio: «La tua battaglia vivrà»
L’intero paese in piazza per dire addio a Guglielmo Mollicone, padre-coraggio che non è riuscito a vedere l’esito della sua lunga battaglia per la verità e la giustizia. I funerali del papà di Serena si sono svolti martedì 2 giugno 2020 alle 11 nella chiesa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, ad Arce (la stessa chiesa in cui il 9 giugno 2001, durante le esequie della figlia, l’uomo fu prelevato per essere portato in caserma con l’infamante sospetto di essere l’assassino). Un grande striscione sulla piazza principale del piccolo centro ciociaro diceva: «Guglielmo, eroe arcese». Presenti il sindaco, Luigi Germani, tutte le autorità, e Dario De Santis, l’avvocato che è stato sempre al fianco di Guglielmo Mollicone. In lacrime la nipote Gaia ha ricordato che suo zio, maestro elementare per quarant’anni, oltre che gestore di una cartolibreria, è sempre stato per lei non soltanto un familiare stretto ma «un maestro di vita». Gaia tra gli applausi commossi ha così concluso: «Zio, tutto ciò che ci hai lasciato è nel nostro cuore. La tua battaglia non è persa».
Il gup manda in Corte d’assise i tre carabinieri indagati
Il 24 luglio 2020, alla ripresa dopo la pausa provocata dalla pandemia, il Gup del tribunale di Cassino, Domenico Di Croce, ha rinviato a giudizio per l’omicidio di Serena Mollicone i cinque indagati. Davanti alla Corte d’assise il 15 gennaio 2021 dovranno presentarsi l’ex comandante della caserma dei carabinieri di Arce, maresciallo Franco Mottola, la moglie Anna, il figlio Marco, l’ex vicecomandante della stazione, luogotenente Vincenzo Quatrale, e l’appuntato Francesco Soprano. L’accusa è di aver a vario titolo partecipato al delitto, finalizzato a far sparire la ragazza, testimone «scomodo» di un traffico di droga. Accolte le richieste del pm Maria Beatrice Siravo e degli avvocati di parte civile chiamati a rappresentare i familiari di Serena e quelli di Maria Tuzi (nella foto con Guglielmo Mollicone, morto nel giugno 2020), figlia del brigadiere suicida in circostanze sospette.
Omicidio Serena Mollicone, i giudici ispezionano la caserma di Arce. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 10 Giugno 2022.
L’udienza del processo per l’omicidio di Serena Mollicone si sposta «in esterna» per un sopralluogo della corte d’Assise di Cassino nella caserma dei carabinieri di Arce dove la 18enne sarebbe stata vista viva per l’ultima volta l’1 giugno del 2001. Con una decisione del presidente della corte Massimo Capurso, i giudici togati e popolari si sono recati a ispezionare i luoghi dove la 18enne, secondo quanto testimoniato prima di suicidarsi dal brigadiere Santino Tuzi, entrò la mattina in cui scomparve. La «trasferta», svolta nel pomeriggio di venerdì, ha avuto l’obiettivo principale di chiarire visivamente uno dei dubbi intorno al quale ruota il processo a carico di Franco Mottola, ex comandante della stazione, sua moglie Anna Maria e loro figlio Marco, coinvolgendo anche il vice maresciallo Vincenzo Quatrale e l’altro militare Francesco Suprano. Quale percorso avrebbe compiuto quella mattina Serena, che secondo Tuzi citofonò per poi recarsi negli appartamenti degli ufficiali in uso alla famiglia Mottola? È possibile che Quatrale, se davvero fosse stato presente in caserma alle 11 come da lui sostenuto, possa non aver visto passare la ragazza dalla scrivania che occupava? In quella stessa caserma, dopo essere stata tramortita sbattendole la testa contro una porta, la 18enne sarebbe stata legata e imbavagliata prima di essere trascinata e lasciata morire nel bosco di Anitrella. Quatrale esclude che Serena sia entrata in caserma, così come i Mottola respingono le accuse sostenendo che se davvero avessero ucciso loro la ragazza sarebbe stato impossibile farlo senza essere notati o ascoltati nei rumori prodotti dalle urla e dalla aggressione rappresentata dalla procura nella sua accusa. Il processo sta consumando in questi giorni le ultime udienze che lo separano dalla sentenza prevista entro la metà di luglio.
Omicidio di Serena Mollicone, sentito il barista che disse di aver visto una ragazza in lacrime. Sentenza a metà luglio. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 6 giugno 2022.
Ultime battute al processo per l’omicidio di Serena Mollicone. Dopo due settimane di sospensione a causa del legittimo impedimento di un giudice togato nella corte d’Assise di Cassino e la riformulazione del calendario a ritmo serrato (fino a tre udienze a settimana) il dibattimento è ripreso ieri con l’ascolto di alcuni testimoni «minori» ma soprattutto con la calendarizzazione del programma che porterà il 27 giugno alle richieste del pm per arrivare poi alla sentenza entro metà luglio, data quest’ultima tassativamente fissata dal presidente della giuria, Massimo Capurso, che ha ritardato il suo passaggio in pensione proprio per completare questo difficile processo già istruito tra mille difficoltà e ritardi. Imputati per il delitto della 18enne di Arce, sparita l’1 giugno 2001 e ritrovata in un bosco non lontano dal paese del frusinate, sono l’allora comandate dei carabinieri della locale stazione, Franco Mottola, sua moglie Anna Maria e loro figlio Marco. Risponde di omicidio anche il vice maresciallo Vincenzo Quatrale, accusato anche di istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi, mentre l’altro carabiniere, Francesco Suprano, è accusato di favoreggiamento. L’atteso (ma solo in parte compiuto) esame dei tre componenti della famiglia Mottola era stato l’ultimo snodo chiave del processo prima della sospensione. Tra gli altri testimoni ascoltati nell’udienza di lunedì c’è stato Simone Grimaldi, figlio della titolare del bar Chioppetelle dove Serena fu vista la mattina in cui sparì. All’epoca delle indagini il testimone disse di aver visto una ragazza in lacrime nei pressi del bar ma ieri non è stato in grado di confermare la circostanza: «Avevo otto anni, non posso essere sicuro di quello che vidi davvero». La prossima udienza è fissata al 10 giugno, quando verranno ascoltati altri 14 testimoni, in numero ridotto rispetto a quelli presenti nelle liste degli avvocati difensori che vi hanno in parte rinunciato.
Processo per l’omicidio di Serena Mollicone, la difesa di Anna Maria Mottola: «Non era in caserma». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 13 Maggio 2022.
La moglie dell’ex comandante dei carabinieri, a differenza del marito, non rinuncia al suo esame da imputata: «Siamo innocenti, ma la televisione parla sempre di noi».
«Non so perché il brigadiere Tuzi ci ha coinvolto dicendo che Serena è entrata in caserma, quel giorno abbiamo ricevuto tante telefonate, come avremmo potuto uccidere la ragazza? La verità è che se n’è parlato troppo in televisione, ci hanno perseguitati, siamo innocenti». Dopo le polemiche e le divisioni della scorsa udienza, un membro della famiglia Mottola torna a parlare nel processo per la morte di Serena Mollicone. A sottoporsi all’esame nella veste di imputata è la signora Anna Maria, moglie dell’ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce, Franco, e assieme a lui e al loro figlio Marco accusata di omicidio volontario. Rispondendo alle domande del suo avvocato Mauro Marsella, la donna, 62 anni, di Teano, ripete quanto già detto nella precedente udienza dal figlio: «Non siamo stati noi ad ucciderla. Lei e mio figlio frequentavano la stessa comitiva di amici alle medie e spesso con gli altri ragazzi del gruppo venivano negli alloggi della vecchia caserma, ma lei non è mai stata in quella nuova. Poi, col passare degli anni, lei e mio figlio si sono persi un po’ di vista Mio figlio ci ha dato qualche preoccupazione ma non aveva motivi di uccidere Serena».
L’imputata non ha ottenuto dal giudice di non poter ricevere contestazioni per quanto dichiarato nei suoi verbali antecedenti al 2011, perché — come sostenuto dal pool difensivo — era indagabile già da prima di questa data e sarebbe dovuta essere accompagnata da un avvocato. Quei verbali sono invece utilizzabili e Proprio su questo passaggio procedurale si era consumato un duro scontro tra i difensori dei Mottola, la procura e in parte il presidente della corte d’Assise di Cassino che ha ammesso i verbali di Marco fino al 2002 e quelli di Franco fino al 2008, incluso l’ultimo, di poche ore precedenti a quello del brigadiere Santino Tuzi. Questo aveva spinto Marco Mottola a sospendere il proprio esame al momento di rispondere alle contestazioni del pm e suo padre a rinunciare alla sua attesa deposizione. Ieri il maresciallo ha annunciato che renderà dichiarazioni spontanee.
Dopo aver esaminato alcuni passaggi specifici dell’accusa, Anna Maria Mottola si trova infine di fronte al momento in cui potrebbe fornire una spiegazione convincente per la rottura nella porta dei loro alloggi contro la quale, secondo l’accusa, sarebbe stato sbattuto il capo della 18enne: «Non so come si sia rotta, non ci ho mai fatto caso né mi ero accorta della sua sostituzione».
Serena Mollicone, «Falsificato l’ordine di servizio dei carabinieri». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 30 Aprile 2022.
Nel processo in corte d’Assise per l’omicidio della 18enne depone uno degli imputati, il vicecomandante Vincenzo Quatrale, che si sarebbe creato un alibi alterando il documento: «Nessun illecito, solo superficialità del collega Tuzi».
L’accertamento della verità sull’omicidio di Serena Mollicone passa da un apparentemente insignificante verbale dei carabinieri che l’accusa ritiene falso. Poche righe che sarebbero la chiave per accedere al mistero sulla morte della 18enne di Arce. Il documento, che ha lungamente impegnato l’udienza in corte d’Assise a Cassino, è l’ordine di servizio numero 1 del 1 giugno 2001, redatto dal brigadiere Santino Tuzi e chiama in causa uno degli imputati, il vicecomandante dell’epoca Vincenzo Quatrale (co-firmatario), accusato di concorso in omicidio col comandante Franco Mottola e i suoi familiari (il figlio Marco e la moglie Anna Maria) e istigazione al suicidio del collega sette anni dopo. Secondo l’ordine di servizio, Tuzi e Quatrale quella mattina uscirono insieme in pattuglia dalle 11 alle 13,30, una circostanza che in un colpo solo allontanerebbe il vicecomandante dal luogo del delitto (l’accusa è quella di non averlo impedito l’omicidio pur avendone la possibilità) e soprattutto smonterebbe la dichiarazione resa da Tuzi in cui il brigadiere dice di aver visto Serena entrare quella mattina, alle 11, nell’appartamento degli ufficiali e non averla vista uscire finché è rimasto di piantone. Lo stesso Tuzi ha sempre sostenuto che l’ordine di servizio è falso e secondo l’informativa finale dei carabinieri del comando provinciale su cui si basa il processo, il documento presenta «una serie di macroscopici errori ed incongruenze che lasciano pensare che il suddetto servizio non sia mai stato svolto». «Nessun falso, solo qualche superficialità da parte di Tuzi», si è difeso in aula Quatrale alle ripetute contestazioni del pm Beatrice Siravo.
L’oridne di servizio riporta la cronologia dei giri di «vigilanza agli obiettivi sensibili» e il «controllo della circolazione stradale» presso i posti di blocco programmati. Le contestazioni riguardano alcune variazioni nella calligrafia sul documento scritto a mano e soprattutto le presunte incongruenze sugli orari degli spostamenti, segnati sempre con multipli di 5 (12,30, 12,40 etc), corretti successivamente in alcuni punti e generici nell’indicazione dei luoghi. Le distanze percorse secondo queste indicazioni sono incompatibili con gli orari segnati e almeno uno dei posti di blocco sarebbe stato effettuato in un punto che non rientra tra quelli consueti. Secondo l’accusa il turno di pattuglia cominciato alle 7,30 si è in realtà interrotto un’ora dopo per sopraggiunte necessità di servizio in caserma e da questa né Tuzi né Quatrale si sono più allontanati nel corso della mattinata. Il vicecomandante ha provato anche a sgomberare il campo da presunte complicità con il suo superiore: «Con Mottola e gli altri colleghi non c’era un rapporto di amicizia, solo professionale».
La deposizione di Quatrale, che proseguirà nella prossima udienza su altri punti dell’accusa, viene contestata da Maria Tuzi, la figlia del brigadiere: «Mio padre non era un superficiale e se avesse commesso delle irregolarità sarebbe stato richiamato dai superiori. Facile scaricare su chi oggi non può difendersi».
Prima del vice comandante è stato ascoltato l’ex comandante dei carabinieri del Ris, Luciano Garofano, consulente delle parti civili, che ha illustrato le risultanze di un modello matematico applicato, tramite software, ai dati delle indagini: «L’ipotesi che Serena Mollicone fosse in caserma il 1 giugno del 2001 è pressoché certa, sul fatto che sia stata aggredita in caserma abbiamo la certezza al 98%, mentre per l’ipotesi che sia stata aggredita contro la porta dell’alloggio abbiamo una percentuale relativa al 95%».
Serena Mollicone, la teste conferma: «Quella mattina entrò in caserma». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 25 Marzo 2022.
In corte d’Assise a Cassino parla Sonia Da Fonseca, amica della amante del brigadiere suicida Santino Tuzi, che raccolse la confidenza sulla presenza di Serena nella sede dei carabinieri. Il pm apre il caso della testimone ricattata per mentire.
«Anna Rita Torriero era preoccupata, la mattina in cui Santino Tuzi venne trovato morto. Usò il mio telefono per chiamarlo e in quella occasione mi disse di aver visto Serena Mollicone nella caserma dei carabinieri di Arce, dove lei si trovava per essere andata a portare un panino a Tuzi». In corte d’Assise a Cassino parla Sonia De Fonseca, una testimone chiave citata dalle parti civili. È amica della Torriero, la donna che aveva una relazione con il brigadiere morto poi suicida dopo aver rivelato la presenza della 18enne in caserma la mattina in cui scomparve, l’1 giugno 2001. Assieme a Tuzi quella mattina c’era appunto Torriero, che rivelò la presenza della ragazza in caserma, mettendola in relazione al suicidio del carabiniere l’11 aprile 2008. La rivelazione sulla circostanza di cui lei e il brigadiere erano a conoscenza avvenne infatti proprio nella concitazione dei momenti del suicidio mentre Torriero cercava di mettersi in contatto con l’uomo. «Torriero mi disse anche che secondo lei Marco Mottola era coinvolto nel delitto di Serena», dice ancora la testimone su domanda dell’avvocato Dario De Santis, che assiste Guglielmo Mollicone, il padre defunto della 18enne. Sul suicidio di Tuzi, la Da Fonseca dice: «Anna Rita mi disse che Santino si era suicidato perché sapeva del coinvolgimento di Marco Mottola nel delitto di Serena e che Tuzi temeva per sé e la sua famiglia».
L’attendibilità e il rilievo delle parole di Sonia Da Fonseca, vengono riassunte nell’informativa dei carabinieri che raccolsero il suo verbale il 6 ottobre 2008: «Non aveva interessi o implicazioni nella vicenda e di certo non poteva conoscere aspetti molto particolari e circostanziati che non ha vissuto direttamente né potevano essere di dominio pubblico: ne consegue che l’unica fonte da cui la stessa abbia potuto attingerle è davvero la sua amica Anna Rita Torriero, come d’altronde la Da Fonseca ha sempre affermato».
Le difese degli imputati provano a minare proprio questo aspetto, puntando su due elementi. Il primo, relativo ai ricordi labili della Torriero quando è stata sentita in aula, dove si è detta non sicura di aver visto Serena in caserma proprio l’1 giugno e non in altra data. Il secondo, sull’ipotesi adombrata in una intervista in cui Da Fonseca faceva cenno a un’auto regalata da Mottola a Torriero per comprare il suo silenzio, intervista poi non confermata dalla donna. Sulla data dell’1 giugno Da Fonseca non ha però dubbi: «Torriero mi disse: “la mattina in cui Serena è scomparsa l’ho vista in caserma”. Poi mi chiese di non parlarne perché l’avrei messa nei guai». Alla fine della deposizione i legali degli imputati chiedono un confronto tra le due donne.
Ma nell’udienza il pm Beatrice Siravo ha rilanciato anche il caso di un teste che sarebbe stato minacciato e ricattato per mentire. L’episodio riguarda le dichiarazioni rese in aula da Simonetta Bianchi, che la procura chiede di ignorare per acquisire invece quelle da lei fatte nella prima fase delle indagini. Bianchi è la barista del bar Chioppetelle che disse (il 17 aprile 2002) di aver visto Serena litigare con un ragazzo «biondo meshato» alle 10 della mattina in cui poi scomparve. È la stessa descrizione fatta anche da Carmine Belli (poi processato e assolto per l’omicidio) e corrisponde all’aspetto di Marco Mottola, il figlio del comandante della stazione dei carabinieri.
Il 25 luglio 2002, però, chiamata a confermare queste dichiarazioni e il riconoscimento, produsse un certificato medico che attestava lo stress dovuto all’incidente stradale in cui suo padre aveva perso la vita mentre era lei alla guida: «non ricordo più nulla perché sono successe molte cose», disse. La testimone poi in aula ha opposto una serie di «non ricordo». Ma la tesi della perdita di memoria secondo il pm è «illogica» perché prima di quella data di luglio la stessa Bianchi era stata sentita altre sette volte senza mai produrre documentazione medica. La pm Siravo ritiene quindi che «il teste è stato «condizionato e quindi non è attendibile» per quanto detto nel corso del processo. Il suo è stato un «Atteggiamento timoroso dovuto non da interna paura ma da influenza esterna, altrimenti non sarebbe andata a testimoniare già con certificato medico». La spiegazione di questi timori sarebbe nella causa di risarcimento e nel processo penale cominciato il 18 giugno 2002, quindi fra le due testimonianze. In quel processo i carabinieri Mottola e Tuzi erano testimoni per aver redatto il verbale del sinistro e, secondo il pm , l’avrebbero posta sotto «minaccia di esito negati del procedimento a suo carico, facendola oggetto di indebite pressioni».
Va aggiunto che l’incidente in cui morì il padre di Simonetta Bianchi è del 21 novembre 1999 e che mai la donna aveva detto di averne subito lo stress, non chiedendo mai un giorno di assenza dal lavoro. Una richiesta sulla quale la corte si è riservata di decidere e alla quale le difese si sono opposte per questioni di logicità («Se fosse inattendibile lo sarebbe stata già ai tempi della prima testimonianza»), sia per questioni procedurali che infine per questioni di contenuto perché il suo primo riconoscimento del ragazzo che era con Serena non corrisponderebbe all’aspetto di Marco Mottola: «A domande esplicite sul fatto che abbia mai ricevuto minacce, la Bianchi ha sempre detto di no».
Clemente Pistilli per “la Repubblica - Roma” il 21 Febbraio 2022.
Alle accuse di aver ucciso Serena Mollicone e poi nascosto il corpo, per l'ex comandante della stazione dell'Arma di Arce, Franco Mottola, si è aggiunta pure quella di pedopornografia.
La rivelazione shock è stata fatta da un vice brigadiere, Luigi Giobbe, nel corso del processo davanti alla Corte d'Assise del Tribunale di Cassino, in cui a distanza di 21 anni i magistrati stanno cercando di far luce sull'omicidio della studentessa della provincia di Frosinone.
Il militare ha riferito che sul cellulare del maresciallo sono state trovate sia immagini pedopornografiche che di violenze sulle donne ed è emerso che proprio per pedopornografia Mottola è indagato dalla Procura di Napoli.
Elementi che hanno gettato ulteriori ombre sull'uomo che doveva indagare sulla scomparsa della 18enne e che, secondo il pm Maria Beatrice Siravo, sarebbe invece stato tra i responsabili dell'uccisione della ragazza all'interno della caserma che comandava, dell'occultamento del cadavere in un boschetto e dei troppi depistaggi che hanno caratterizzato la vicenda.
Più nello specifico, sul telefonino di Mottola, oltre a immagini pedopornografiche, è stato trovato un video di un uomo che colpisce una donna alla testa e immagini di Yara Gambirasio, la ragazzina di 13 anni uccisa dodici anni fa in provincia di Bergamo. Ma non è questo l'unico aspetto inquietante emerso nell'udienza. Il presidente della Corte d'Assise, Massimo Capurso, ha infatti anche ritenuto falsa la testimonianza dell'attuale vicesindaco di Arce, Sisto Colantonio, e ha chiesto l'invio degli atti alla Procura.
Il politico, amico della famiglia Mottola, ha fornito in aula una versione diversa da quella resa ai carabinieri nel corso delle indagini, relativamente all'alibi di Anna Mottola, la moglie del maresciallo, anche lei imputata, e omesso altri particolari, partendo da quelli sulla porta della caserba contro cui avrebbe battuto la testa Serena Mollicone.
Serena Mollicone sparì da Arce l'1 giugno 2001 e venne trovata senza vita due giorni dopo in un boschetto ad Anitrella, con le mani e i piedi legati e la testa stretta in un sacchetto di plastica. Due anni dopo, accusato di omicidio e occultamento di cadavere, venne arrestato Carmine Belli, poi assolto, un'altra vittima di quella che sarebbe stata una lunga catena di depistaggi. Le indagini ripresero quindi vigore nel 2008 quando, prima di essere interrogato di nuovo dai magistrati, il brigadiere Santino Tuzi si tolse la vita, secondo gli inquirenti perché terrorizzato dal dover parlare e confermare quanto aveva riferito su quel che era realmente accaduto nella stazione dell'Arma di Arce sette anni prima.
Omicidio Mollicone, l'ex maresciallo Mottola indagato per pedopornografia: nel suo telefono anche foto di Yara. Clemente Pistilli su La Repubblica il 19 Febbraio 2022.
La rivelazione shock nel corso del processo davanti alla Corte d'Assise del Tribunale di Cassino, in cui a distanza di 21 anni i magistrati stanno cercando di far luce sulla morte della studentessa. Nell'ultima udienza ritenuta falsa anche la testimonianza dell'attuale vicesindaco di Arce, Sisto Colantonio.
Alle accuse di aver ucciso Serena Mollicone e poi nascosto il corpo, per l'ex comandante della stazione dell'Arma di Arce, Franco Mottola, si è aggiunta pure quella di pedopornografia. La rivelazione shock è stata fatta da un vice brigadiere, Luigi Giobbe, nel corso del processo davanti alla Corte d'Assise del Tribunale di Cassino, in cui a distanza di 21 anni i magistrati stanno cercando di far luce sull'omicidio della studentessa della provincia di Frosinone, diventato uno dei principali cold case.
Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 29 gennaio 2022.
Aver avvolto con sei metri di nastro adesivo il capo di Serena Mollicone, prima di abbandonarne il corpo in un boschetto, può rivelarsi oggi, a 20 anni di distanza, una mossa che si ritorce contro i suoi presunti assassini.
Il nastro ha infatti custodito tra i capelli della 18enne micro frammenti di legno che l'analisi condotta con tecniche all'avanguardia dai carabinieri del Ris di Roma cataloga come «chimicamente, merceologicamente e morfologicamente indistinguibili» rispetto alla porta sequestrata negli alloggi degli ufficiali della caserma dei carabinieri di Arce.
Nella precedente udienza il medico legale Cristina Cattaneo aveva mostrato come la lesione su questa stessa porta sia pienamente riconducibile all'impatto con il capo della ragazza.
A completamento della consulenza chiesta dalla Procura, il maresciallo del Ris Rosario Casamassima spiega quindi alla Corte d'Assise il lavoro fatto per isolare i 28 frammenti (23 di legno, 3 di legno e colla, 2 di resina da vernice, il più piccolo di 0,25 millimetri) sui 139 rinvenuti, fino a suffragarne con metodi empirici e modelli matematici la coerente distribuzione sul cranio della vittima in seguito all'urto.
Ma il Ris individua un altro elemento chiave in due frammenti di vernice bianca, ancora sul nastro, allo stesso modo «perfettamente compatibili», anche in base al tipo di ruggine rinvenuta, con quella di una caldaia presente su un balcone degli alloggi. È la risposta attesa dal pm Beatrice Siravo per sostenere che, dopo essere stata tramortita, Serena fu «nascosta» in caserma dal maresciallo Franco Mottola, con la moglie, il figlio e due carabinieri, in attesa di sbarazzarsi del suo corpo. Altre tracce sui vestiti e la tomaia delle scarpe ne indicano la posizione sdraiata.
Anche il Ris lo conferma: "Serena Mollicone fu uccisa nella caserma di Arce". Clemente Pistilli su La Repubblica il 28 Gennaio 2022.
I carabinieri hanno esaminato ben 139 tracce trovate sulla salma della diciottenne e sui reperti sequestrati nel luogo dove venne ritrovato il cadavere: "La porta della casa in disuso è quella contro cui è stata sbattuta la testa della ragazza".
Il primo giorno di giugno di 21 anni fa Serena Mollicone subì un profondo trauma alla testa all'interno della caserma dei carabinieri di Arce, in provincia di Frosinone, perse conoscenza e il corpo venne trasportato nel boschetto di Anitrella, una frazione del vicino Monte San Giovanni Campano, dove, visto che respirava ancora, venne soffocata.
A confermare la tesi della pm Maria Beatrice Siravo, dopo l'esperta di cold case Cristina Cattaneo, antropologa forense e docente di medicina legale all'Università degli Studi di Milano, dove dirige il Labanof, sono stati i carabinieri del Ris che hanno esaminato ben 139 tracce trovate sulla salma della diciottenne e sui reperti sequestrati nel luogo dove venne ritrovato il cadavere.
Delitto Serena Mollicone, l'anatomopatologa forense: "Colpita alla testa e poi asfissiata". Clemente Pistilli su La Repubblica il 21 gennaio 2022.
La studentessa 18enne sparì da Arce, in provincia di Frosinone, il primo giugno 2001 e venne trovata senza vita due giorni dopo in un boschetto ad Anitrella. Dopo anni di depistaggi, oggi imputati in un processo per far luce sul delitto Franco Mottola, ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce, oltre al figlio Marco e alla moglie e ad altri militari ritenuti complici.
"Il trauma cranico alla fronte sinistra, che ha dato vita ad una violenta emorragia, è stato provocato da un urto contro una superfice piana più grande del cranio e la morte è poi sopraggiunta per asfissia". Con queste parole, davanti alla Corte d'Assise del Tribunale di Cassino, è iniziata la lunga testimonianze dell'anatomopatologa Cristina Cattaneo, docente di medicina legale all'Università degli Studi di Milano, dove dirige il Labanof, il laboratorio di antropologia e odontologia forense, e che è considerata una vera e propria autorità a livello internazionale.
Serena Mollicone, l'ultimo orrore. Gli investigatori: "Alcuni organi spariti ma non c'è dubbio che fu uccisa in caserma". Clemente Pistilli su La Repubblica il 21 gennaio 2022.
A rivelarlo in udienza il colonnello dei carabinieri che ha riaperto le indagini: "La ragazza uccisa in caserma, lesioni sulla porta lo dimostrano chiaramente. Manca una parte inguinale e il sopracciglio". Dopo l'autopsia sono stati fatti sparire gli organi di Serena Mollicone. I depistaggi sull'omicidio della studentessa di Arce sarebbero andati avanti per anni e sarebbero arrivati persino a questo.
Una testimonianza shock quella del colonnello dei Carabinieri, Fabio Imbratta, davanti alla Corte d'Assise del Tribunale di Cassino, nel processo ai cinque imputati per l'uccisione della 18enne, uno dei principali cold case italiani.
La verità sulla fine di Serena Mollicone. "Testa sbattuta sulla porta in caserma". Stefano Vladovich il 22 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Nuovi indizi contro l'ex comandante Mottola e la sua famiglia. «Il cranio di Serena Mollicone ha creato il buco nella porta?». «Assolutamente sì». Venti anni di depistaggi, ieri in aula il rapporto del superperito. Arce, svolta decisiva sul delitto della 18enne trovata senza vita nel bosco delle Anitrelle il primo giugno 2001. È l'anatomopatologa Cristina Cattaneo del Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell'Università di Milano a confermare la perizia del Ris. La testa di Serena è stata sbattuta violentemente contro una porta. Il colpo l'avrebbe stordita «poi la morte sarebbe giunta per asfissia». Le fratture al cranio sarebbero dovute all'urto contro una superficie «ampia e piana» sottolinea la perizia. Non una porta qualsiasi ma quella dell'alloggio di servizio della famiglia Mottola all'interno della stazione dei carabinieri, al termine di una lite violenta. Solo dopo il corpo viene trascinato e portato lontano per inscenare un delitto passionale.
Serena, una ragazza a posto, stava preparando gli esami di maturità. Ma in quella caserma la ragazza non c'era finita per caso. La droga stava uccidendo i suoi amici più cari e lei «era andata a denunciare lo spaccio di roba in paese - raccontava nel 2019 a il Giornale il papà Guglielmo Mollicone, deceduto nel 2020 - Voleva denunciare il figlio del comandante. Non aveva capito che era finita nella tana del lupo. Serena è stata ammazzata perché voleva far arrestare il figlio del maresciallo. È stata portata negli alloggi e lì è stata uccisa».
«L'arcata zigomatica di Serena combacia molto bene con la rottura nella porta - spiega la professoressa Cattaneo -, facendo la simulazione con i prototipi il cranio rimane incastrato. L'incastro replica perfettamente l'arcata sopraccigliare e combacia con la rottura più profonda». Un trauma compatibile, in ogni caso, con colpo su una parete verticale e non con una caduta a terra. Sulla compatibilità tra il buco nella porta e un pugno la Cattaneo ribadisce «anatomicamente è meno calzante del cranio della Mollicone». Serena presenta, inoltre, segni di colluttazione su tutto il corpo, in particolare sulle gambe e sul tronco, riconducibili a uno strattonamento. Insomma, mentre viene trascinata verso la porta Serena prova a difendersi. Poi il colpo letale e la morte.
Alla sbarra, davanti la Corte di Assise di Cassino, l'allora comandante Franco Mottola, la moglie Anna Maria, il figlio Marco e il maresciallo Vincenzo Quatrale, tutti accusati di omicidio in concorso. Quatrale anche di istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi. A coprire per anni il delitto è l'appuntato Francesco Suprano, accusato di favoreggiamento.
Un giallo caratterizzato da gravi errori giudiziari. Come testimonia Carmine Belli, il carrozziere di 38 anni accusato in un primo momento dell'omicidio, rinchiuso in carcere da innocente per ben 19 mesi. Arrestato nel 2003, Belli viene scagionato dopo tre gradi di giudizio. L'uomo fa un solo errore: entrare in quella caserma. Belli, credendo di aiutare nelle ricerche, va dal maresciallo Mottola: «L'ho vista» mette a verbale. Viene indagato, arrestato e processato. Nel 2008 tocca al brigadiere Tuzi: si spara alla tempia tre giorni prima di essere interrogato in Procura. Stefano Vladovich
La ragazza sarebbe poi morta per asfissia. Omicidio Mollicone, la superperizia: “Compatibilità ottimale tra il cranio di Serena e la porta della caserma dei carabinieri di Arce”. Roberta Davi su Il Riformista il 21 Gennaio 2022.
La colluttazione, il trauma cranico, e poi la morte, avvenuta per soffocamento. Al processo per l’omicidio di Serena Mollicone l’anatomopatologa Cristina Cattaneo, del Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università di Milano, ha illustrato davanti alla Corte d’Assise del Tribunale di Cassino i risultati della superperizia decisiva per la riapertura del caso.
Serena potrebbe essere rimasta stordita da un colpo alla testa, ma poi uccisa per asfissia. Ma non solo: secondo la professoressa Cattaneo c’è una “compatibilità ottimale tra il cranio di Serena Mollicone e la porta della caserma dei carabinieri di Arce contro cui sarebbe stata fatta sbattere”.
A distanza di più di vent’anni dal delitto- Serena Mollicone, all’epoca diciottenne, fu trovata morta in un bosco il 3 giugno del 2001 con un sacchetto di plastica in testa- il caso si arricchisce di dettagli inediti e anche di interesse per i giudici, grazie agli esami condotti con tecniche innovative quando il corpo è stato riesumato nel 2016.
La superperizia
Nel processo sono imputati il maresciallo dei carabinieri Franco Mottola, sua moglie Anna Maria e il figlio Marco insieme al maresciallo Vincenzo Quatrale, accusati di concorso nell’omicidio. Quatrale è inoltre accusato di istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi, mentre l’appuntato Francesco Suprano deve rispondere di favoreggiamento. “L’arcata zigomatica di Serena combacia molto bene con la rottura nella porta“, ha spiegato la professoressa Cattaneo: infatti “facendo la simulazione con i prototipi il cranio rimane incastrato“.
Rispondendo alle domande del pm, ha inoltre sottolineato che “l’incastro replica perfettamente l’arcata sopraccigliare e combacia con la rottura più profonda“. La porta a cui si riferisce è quella dell’alloggio dei carabinieri di Arce, in quel periodo in uso alla famiglia Mottola. In ogni caso il trauma di Serena è compatibile con un colpo su una parete verticale, e non con una caduta a terra. “Che il trauma cranico abbia provocato uno stordimento e poi la morte sia sopraggiunta per asfissia è un’ipotesi molto probabile ma non abbiamo gli elementi per dirlo con certezza“, ha sottolineato la professoressa Cattaneo, spiegando che “la morte per asfissia meccanica è una diagnosi che si fa per esclusione, è una causa di morte che lascia pochissimi segni.”
Serena Mollicone si sarebbe difesa prima di essere stordita: sul suo corpo sono stati infatti trovate diverse contusioni, soprattutto sulle gambe e sul tronco.
L’orario dell’aggressione
Un altro elemento emerso nel corso della deposizione è che l’aggressione sarebbe avvenuta tra le 11 e le 11.40 del 1 giugno del 2001. Ossia proprio nel lasso di tempo in cui Serena Mollicone fu vista entrare (ma mai uscire) nella caserma di Arce.
L’ipotesi degli inquirenti è che quel giorno la ragazza fosse andata in caserma per affrontare Marco Mottola, ma tra i due sarebbe scoppiata una lite in cui sarebbero intervenuti i genitori e Quatrale. La ragazza aveva più volte espresso la volontà di denunciare Marco Mottola per droga. Roberta Davi
· Il Caso di Marco Vannini.
Caso Vannini, un nuovo amore e cella con balcone per la ex Martina Ciontoli. Clemente Pistilli su La Repubblica il 6 Ottobre 2022.
La vita in carcere della ragazza condannata, con il resto della famiglia, per l'omicidio del giovane avvenuto a Ladispoli nella notte del 17 maggio 2015
“Fanno tenerezza. Si vogliono bene”. Sono emozionate le detenute di Rebibbia quando parlano di Martina Ciontoli e del suo nuovo fidanzato. Sembrano lontani i tempi in cui, appena entrata nel carcere romano, la 27enne di Ladispoli veniva descritta come disperata e fortemente dimagrita.
La ragazza, condannata in via definitiva per la morte di Marco Vannini e priva della libertà da un anno e mezzo, ha ripreso a studiare, lavora e mantiene un rapporto intenso con il giovane di Ladispoli a cui si è legata dopo la morte di Marco.
Omicidio Vannini, le ultime parole: “Ti prego basta, mi fa male, portami il telefono”. Le iene News il 27 giugno 2020
Un team di tecnici Usa svela le ultime parole di Marco Vannini mentre il padre della fidanzata Antonio Ciontoli sta chiamando il 118. Noi de Le Iene, con Giulio Golia e Francesca Di Stefano, vi abbiamo parlato anche di queste parole ora scientificamente decriptate, raccontandovi da tempo con numerosi servizi e uno speciale tutto quello che ancora non torna nella ricostruzione dell’omicidio di questo ragazzo di 20 anni
“Dov'è il telefono, portamelo, portami il telefono, mi fa male, mi fa male il braccio. Ti prego basta, mi fa male, portami il telefono”. Sarebbero queste le ultime parole pronunciate da Marco Vannini nel salotto dei Ciontoli, secondo quanto l’americano Team Emme ha ricostruito per la trasmissione televisiva Quarto Grado. Parole che si sentono dall’audio della telefonata tra Antonio Ciontoli e il 118 nella notte tra il 17 e il 18 maggio 2015, quando il ragazzo muore ucciso da un colpo di pistola sparatogli mentre si trovava a casa dei genitori della fidanzata Martina. Di questa tragedia e di tutti i suoi misteri e contraddizioni, e di queste parole ora scientificamente decriptate, ci siamo occupati molte volte con Giulio Golia e Francesca De Stefano con i molti servizi che ritrovate raccolti qui in fondo all’articolo e con lo Speciale che potete vedere qui sopra.
Le parole pronunciate da Vannini raccontano l’agonia di quegli interminabili minuti, prima che vengano attivati i soccorsi. Ora il processo deve ripartire dopo la sentenza della Cassazione che ha annullato la condanna a 5 anni per omicidio colposo per Antonio Ciontoli, padre dell’allora fidanzata di Marco, Martina (Ciontoli ha raccontato di aver sparato per errore al ragazzo).
Recentemente vi abbiamo raccontato solo l’ultima delle incredibili storie che ruotano attorno al caso, ovvero di un fascicolo che riguarda una presunta rapina o estorsione che Ciontoli avrebbe fatto nei confronti di due prostitute. Una vicenda di 20 anni fa, mai finita a processo e subito archiviata, che potrebbe aggiungere nuovi elementi sull’uomo condannato per l’omicidio di Marco Vannini. In questi mesi è venuto a mancare intanto anche il brigadiere Manlio Amadori (qui tutta la notizia). Aveva rilasciato una testimonianza clamorosa su Ciontoli. “Era molto preoccupato e intervenne il maresciallo Izzo e lui disse in quel momento ‘Ora metto nei guai mio figlio'”, ha detto in aula Amadori ricostruendo la notte dell’omicidio di Marco. “A quel punto Izzo gli ha chiesto chi aveva esploso il colpo e lui ha detto ‘Sono stato io’”.
Vi abbiamo più volte ricostruito tutto quello che sembra non tornare nelle dichiarazioni dei componenti della famiglia Ciontoli e negli atti del processo. Una cosa è certa per la Cassazione che l’ha messa nero su bianco spiegando che Marco Vannini poteva salvarsi se fosse stato soccorso per tempo, dopo lo sparo partito la sera del 17 maggio 2015. La tragedia per la Suprema Corte è “ascrivibile soltanto ad Antonio Ciontoli: rimase inerte ostacolando i soccorsi”. Lo si legge nelle motivazioni della sentenza dello scorso 7 febbraio, quando la Cassazione ha accolto il ricorso della procura generale e ha annullato il giudizio del secondo grado. Le parole di Marco Vannini appena ricostruite sembrano aumentare la gravità di quei soccorsi inspiegabilmente tardivi.
Il processo d’Appello è ora da rifare per tutti i componenti della famiglia di Antonio Ciontoli. Nel primo Appello il padre della fidanzata di Marco era stato condannato a 5 anni per omicidio colposo, in primo grado a 14 anni per omicidio volontario. In Appello era stata confermata invece la condanna a 3 anni per omicidio colposo per la moglie Maria Pezzillo e i due figli Federico e Martina (fidanzata di Marco).
Per i giudici della prima sezione della Cassazione, Antonio Ciontoli “era consapevole di avere esploso un colpo di pistola, di aver colpito con un proiettile che era rimasto all'interno del corpo della vittima, e rappresentandosi la probabilità della morte, fece di tutto per occultare le proprie responsabilità, prima rifiutandosi di chiamare i soccorsi e poi, a fronte della chiamata fatta dal figlio, rassicurando i soccorritori sul fatto che non serviva un loro intervento”.
Nelle settimane successive alla sentenza della Cassazione è emerso un nuovo clamoroso elemento. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, come vi abbiamo raccontato sempre con Giulio Golia, ha promosso un’azione disciplinare contro Alessandra D’Amore, la pm che ha indagato sull'omicidio del ragazzo morto ad appena 20 anni: secondo il ministero potrebbe aver violato i doveri di diligenza e laboriosità.
Non si è fatta attendere pochi giorni dopo la risposta della procura di Civitavecchia. Con Giulio Golia abbiamo risposto punto per punto a tutti i dubbi attorno alla vicenda. A partire dagli interrogativi attorno al luogo del delitto: perché non è stata sequestrata la villetta? Perché poi Antonio Ciontoli avrebbe accompagnato i carabinieri nel sopralluogo nell’appartamento? E ancora: perché non sono stati sentiti tutti i testimoni e i vicini di casa? (Qui le domande ancora senza risposta). L’8 luglio inizierà il nuovo processo d’Appello per la morte di Marco Vannini a 5 mesi esatti dalla sentenza di Cassazione.
· Il mistero di Paolo Astesana.
Paolo Astesana, la telefonata durante la partita al bar, il riscatto e poi più nulla. Sparito per sempre. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera l'1 Agosto 2022.
Era il 22 settembre del 1986 quando il figlio ventiduenne di un industriale di mangimi disse agi amici: «Scusatemi ma devo andare fino a Cuneo per un impegno, aspettatemi per un’altra partita, torno più tardi».
«Scusatemi ma devo andare fino a Cuneo per un impegno. Però aspettatemi per un’altra partita, torno più tardi». Una frase qualunque di un giorno qualunque, pronunciata da un ragazzo come tanti in un bar di Villafalletto, piccolo comune tra Saluzzo e Fossano. Ma quel 22 settembre del 1986 Paolo Astesana, figlio ventiduenne di un industriale dei mangimi, al bar per un’altra «mano» a carte con gli amici non ci tornò più. E nessuno ha mai saputo che fine abbia fatto. Se non che, con ogni probabilità, venne ucciso poco dopo la sua misteriosa e tuttora inspiegata sparizione.
La famiglia Astesana era nota in provincia: il padre di Paolo, Cesare, con i due fratelli Mario e Gaudenzio aveva fondato l’azienda di famiglia nel 1945. Da minuscolo commercio al dettaglio di mangimi che era, esercitato essenzialmente nel cortile di casa, la Astesana era diventata una società per azioni nel 1980 — e tuttora rappresenta — una realtà florida e lungimirante dell’imprenditoria cuneese, impegnata su vari fronti, dalla zootecnia alle energie rinnovabili.
In quel decennio, in Italia, i rapimenti a scopo di estorsione fioccavano ma nel profondo nordovest non erano avvenimenti usuali, anzi. Eppure accadde. Era un lunedì e Paolo aveva cenato a casa prima di raggiungere gli amici al solito ritrovo, il bar Boomerang, per due chiacchiere e qualche partita a carte. Verso le 22, al telefono del bar giunse una telefonata. Era per Paolo, che rispose e parlò con una persona mai identificata. Si disse una voce di donna ma non è certo. Dopodiché, tornando al tavolo, pare che comunicò agli amici di doversi assentare. Nessuno lo vide né preoccupato, né stranito.
Chi condusse le indagini, difatti, dava per assodato che quell’appuntamento a tradimento gli fosse stato dato da un individuo che conosceva e di cui si fidava perché, diversamente, o non avrebbe accettato oppure avrebbe manifestato qualche perplessità agli astanti del bar. E che quella persona all’altro capo del telefono facesse parte dell’operazione perché, se mai si fosse trattato di un amico ignaro di tutto e Paolo fosse stato rapito nel tragitto tra il bar e l’appuntamento da terzi sconosciuti, costui si sarebbe ben presentato in procura per dare conto di quella circostanza.
Sospetto fu anche il tempo della rivendicazione. Poco prima della mezzanotte di quella stessa sera, nell’appartamento cuneese della famiglia Astesana — che nulla sapeva di quell’impegno improvviso del figlio — giunse una telefonata straziante. Un uomo sconosciuto pronunciò le parole che si sentono nei film di malavita: «Sei Cesare Astesana? Tuo figlio è con noi. Se lo vuoi riavere, inizia a preparare un miliardo (di lire, l’equivalente di cinquecentomila euro) in biglietti da cinquanta e centomila lire. E non avvisare la polizia, altrimenti Paolo non lo rivedrete mai più». Con un’angoscia inimmaginabile, i genitori di Paolo e la sorella avvisarono eccome le forze dell’ordine. Che si mossero alla svelta, nella speranza di cercare le tracce dello scomparso nelle 48 ore di prammatica che, secondo la statistica criminale, rappresentano il tempo utile per dare una direzione alle indagini.
La mattina seguente ritrovarono l’automobile del ragazzo, una Lancia Prisma. Era parcheggiata, con le portiere chiuse, in via Valle Po, frazione Madonna dell’Olmo, a due passi da Cuneo, nei pressi di una cartiera. Ma a quell’inizio promettente non fece seguito alcun progresso significativo nelle indagini: la famiglia, per mezzo della stampa, si disse disposta a versare il riscatto pur di riavere il ragazzo e non poté offrire alcuno spunto al lavoro degli inquirenti: Paolo era incensurato, non aveva mai dato problemi, non si conoscevano suoi lati oscuri. Nessuno si fece vivo per riscuotere il miliardo.
Nel mentre, si appurò che la famiglia era già stata lambita dall’anonima sequestri quando, nel 1977, una banda aveva progettato il prelievo coatto di un parente dello scomparso, ma il piano era andato a monte. Poche settimane dopo i fatti, la procura fermò due sospettati — uno di Busca, l’altro dell’area di Torino — coinvolti in un’indagine per spaccio. C’erano elementi per ritenerli parte del piano ideato per eliminare il ragazzo: tra questi il fatto che uno dei due era solito incontrare i suoi clienti nello stesso spiazzo in cui venne trovata l’automobile di Paolo. L’indagine sfociò in nulla: processo e condanne riguardarono esclusivamente il traffico di droga. Del giovane Astesana non si è mai rinvenuta la più labile delle tracce.
Un anno dopo i fatti, una telefonata anonima indicava il luogo in cui si sarebbe potuto trovare il cadavere in una zona boschiva di Fossano: le ricerche non diedero esito. Si valutò l’errore di persona, financo la simulazione di sequestro per mascherare una volontà omicida rispetto alla quale, però, è sempre mancato un movente attendibile se non quello, rimasto pura presunzione, di una vendetta in seno al mercato degli stupefacenti. Dieci anni dopo la famiglia, sconsolata, presentò istanza per dichiarare la morte presunta di Paolo Astesana.
Ora che di anni ne sono passati trentasei, l’unica speranza di conoscere qualcosa sulla sua sorte è legata alla coscienza dormiente di uno o più tra i suoi conoscenti. Qualcuno che certamente sa dell’appuntamento e che, con ogni probabilità, custodisce il segreto del cosa e del perché sulla tragica fine di un ragazzo che, a stare agli atti, non aveva mai fatto alcunché di male. È vero, intanto il tempo è scivolato via. Chi era giovane nel 1986, ora, è un signore e Paolo Astesana stesso avrebbe quasi sessant’anni. Ma nelle valli cuneesi il calendario scorre più lentamente che altrove: lo spiazzo è sempre lì, pure il bar è ancora lo stesso e non ha neppure cambiato nome, tutti conoscono tutti. E nessuno ha dimenticato una vicenda così dolorosa.
· Il mistero di Vittoria Gabri.
Vittoria Gabri, la donna che nessuno pianse. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera il 25 luglio 2022.
Nata ad Asti, ebbe una figlia. Sognava il cinema, finì a ricevere i clienti in via Saluzzo a Torino. Uno di loro voleva redimerla, la uccise.
Fu tra i funerali più squallidi di cui si sia dato conto nelle cronache ad Asti. Nella vana attesa dell’arrivo di qualcuno a salutare per l’ultima volta Vittoria Gabri, il cappellano provò pure a posticipare la cerimonia. Ma era il 1964 e, a quella funzione, non si presentò nessuno. La gente aveva saputo che la ragazza era stata uccisa e, soprattutto, che a morire era stata una donna che si concedeva per denaro. Una vergogna ingestibile, per i sopravvissuti. Al cimitero, il corteo era aperto dal sacerdote, don Bianco, e mestamente chiuso da cronisti e fotografi che ciaccolavano tra loro. Non un congiunto, non un conoscente. Sulla bara, un solo nastro: «Le amiche di Torino» e un mazzo di garofani. Sulla lapide, accanto alla tomba del padre, due timide iniziali: V. e G.
Vittoria Gabri era nata proprio ad Asti ma la vita della provincia le pareva poco, per le sue aspettative. Sognava il cinema: aveva letto, su un settimanale, che un famoso regista cercava volti nuovi e gli aveva spedito una fotografia in posa, lineamenti dolci e sguardo sognante. Purtroppo, nessuno l’aveva cercata. Impaziente, si era trasferita ad Alessandria dove — vecchia storia — un fidanzato l’aveva indotta a mantenersi con la prostituzione, almeno per il tempo sufficiente a mettere da parte qualche soldo. Nel 1955 le era nata una figlia, Lauretta, ma il ritorno ad Asti per occuparsi della bimba non era stato felice. Tanto che, l’anno successivo, aveva lasciato la piccola alla madre e aveva ritentato la fortuna, quella volta a Torino. Anche nella capitale, spesso, per giovani di bell’aspetto, sole e in cerca di un’esistenza agiata, l’approdo non somigliava neanche un po’ alle gite sulle fuoriserie, alle serate mondane nei locali alla moda e al sogno di una vita adagiata nel lusso. L’unico mestiere che le era stato proposto era stato, ancora una volta, quello della strada. Ad accompagnarla, per così dire, un tale Ugo Margoni, suo sfruttatore ufficiale.
Ormai conosciuta in città, per quel suo angolo in via Saluzzo in cui aspettava i clienti, Vittoria era sparita il 30 giugno 1964, nel pomeriggio, dopo aver preso un taxi da casa in direzione Porta Nuova ed essersi incontrata con Aldo, uno studente che aveva stretto, con lei, un rapporto di autentico affetto.
Convinta a muoversi alla ricerca della ragazza, la famiglia andò a Torino con ritrosia, dopo quasi due mesi dalla sparizione. L’11 agosto 1964 la signora Luigia, la mamma, aprì la porta dell’appartamento al civico 26 di via Napoli, un palazzo rimasto identico a se stesso dopo quasi 60 anni — compresa la ditta al pian terreno — e trovò ciò che restava della figlia. Era stata buttata là sotto un cumulo di abiti, stracci, suppellettili e la rete di un letto. Vittoria era morta il giorno della sparizione, suppergiù.
Pochi giorni dopo le esequie, un giovane di Torino si suicidò per la disperazione. Un altro studente, quel tale Aldo, venne «attenzionato»: il ragazzo si era messo in testa di strapparla a quel mestiere infame e sposarla, nonostante la ritrosia dei genitori. Ma le indagini speravano di trovare elementi sufficienti sul sospettato più banale, Ugo. Benché l’omicidio non fosse, di regola, nell’interesse di un protettore, potevano esserci stati litigi economici, oppure una relazione che, da professionale, era virata al personale. Del resto, Vittoria era stata vista spesso con lividi sospetti, smagrita, nervosa e stranamente ribelle. Forse Ugo la malmenava e, un giorno, la lite era degenerata in omicidio. In realtà, il tizio in questione aveva trascorso le settimane di latitanza della ragazza cercandola, seriamente preoccupato — probabilmente per la fine dei suoi affari. Aveva addirittura pagato un cliente della donna per ottenere informazioni sul suo conto: ventimila lire consegnate a un tale, Giovanni Faga, perché costui sosteneva di sapere qualcosa di utile. Faga, in effetti, consegnò all’uomo un telegramma che recava la scritta «Attendoti giorno 22 alle ore 11 Porta Susa — Vittoria, Courmayeur». Ma la polizia non credeva all’autenticità del documento, anzi, si insospettì proprio per l’atteggiamento di quel signor Faga. Un trentaseienne con famiglia, dal passato travagliato: che, non appena si accorse di essere visto più come indiziato che come testimone, tentò di sparire dalla circolazione. Lo trovarono a Savona a inizio settembre, perché il suo documento era troppo mal fatto per sembrare autentico.
La difesa crollò in breve tempo. Confessò di averla uccisa per passione: «Cercavo di avvicinarla quasi ogni giorno, spendevo con lei tutti i denari che riuscivo a procurarmi. Anche i soldi rubati a mio padre e alla ditta erano finiti nelle sue mani. Volevo redimerla, speravo di allontanarla dal marciapiede e dal Margoni, che la sfruttava. Ma Vittorina non intendeva cambiar vita, mi considerava un cliente come gli altri, forse da tener più da conto perché non lesinava nei compensi». Secondo Faga, la morte era stata — manco a dirlo — preterintenzionale: l’aveva spinta contro un mobile, lei aveva battuto la testa contro uno spigolo. E il telegramma falso, quello, lo aveva concepito per spillare qualche soldo al protettore, utile per coprirsi la fuga in mezza Italia. Al processo, l’accusa chiese l’ergastolo e ottenne vent’anni. Mancando ancora la Cassazione, nel 1970 Faga venne scarcerato per scadenza termini, in attesa che la Corte d’assise decidesse se la sua versione dei fatti fosse attendibile o se Vittoria fosse stata uccisa con dolo, come pareva testimoniare un foulard azzurro dalle fibre stirate, ritrovato nel ripostiglio. Le ultime tracce di Faga si sono perse in un soggiorno obbligato a Minervino Murge, più di cinquant’anni fa. Quelle di Vittoria sono sepolte in un angolo del cimitero di Asti, dove nessuno ricorda più nulla di lei.
Trieste, i silenzi della ragazza contesa e la chiamata dell’omicida: «Tu la devi lasciare stare». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022.
Robert ucciso a 17 anni per gelosia: indagata anche la 19enne. L’accusa per la giovane è di favoreggiamento: incongruenze nei suoi primi racconti.
«In serata avevo ricevuto una telefonata da parte di Robert, mi aveva detto che l’aveva chiamato Alì in lacrime supplicandolo di mettersi da parte e di non venire da me per la notte. Ma Robert voleva venire lo stesso». In questa storiaccia triestina Letizia è la ragazza contesa fra Robert e Alì, due amici diventati in breve tempo nemici per amore di lei. Al punto che Alì, quel venerdì sera, ha ucciso Robert. L’ha atteso sotto il palazzo dove la ragazza aveva preso una stanza proprio per stare con l’altro, e l’ha strangolato. «Gli avevo detto di lasciarla stare, lui mi ha risposto male e mi ha dato anche uno schiaffo, allora l’ho girato e l’ho stretto al collo con il braccio… e poi ho portato il corpo nel sottoscala coprendolo con un materasso che era appoggiato lì vicino», ha confessato Alì Kashim.
L’arresto
Il corpo di Robert è poi rimasto nel sottoscala per un giorno intero senza che nessuno se ne accorgesse. Una stranezza che unita ad alcune incongruenze nel comportamento e nel racconto di Letizia hanno indotto gli inquirenti a iscriverla nel registro degli indagati una decina di giorni fa. Il reato è il favoreggiamento ma si tratta quasi di un atto dovuto più che di un’accusa vera e propria. Nelle ore successive al delitto sia la ragazza che Alì non si sono infatti distinti per chiarezza. Kashim, ventunenne cuoco italiano, madre libica e padre marocchino, forse non avrebbe confessato subito l’omicidio se gli investigatori non avessero bleffato prospettandogli prove schiaccianti contro di lui che non avevano ancora. Il cuoco stava tentando, infatti, un depistaggio. Dopo aver ucciso Robert si era prodigato nelle ricerche dell’amico in giro per Trieste insieme ad altre persone. D’altra parte i due si conoscevano bene e sarebbe risultato sospetto un diverso atteggiamento.
La ragazza contesa
Robert Trajkovic, 17 anni, origini serbe, era di casa dai Kashim, dove aveva legato soprattutto col fratello minore di Alì, suo coetaneo. Tutti amici, fino a che Robert non ha preso una sbandata per Letizia e lei per lui. La ragazza, 19enne triestina, aveva avuto una lunga storia con il cuoco. Erano andati insieme in Germania per un anno. Poi è arrivata la pandemia, la disoccupazione e sono rientrati a Trieste con il morale a terra. Incomprensioni, litigi, insofferenza. La situazione è precipitata quando è scattato qualcosa fra Letizia e Robert. Lei ha lasciato Alì, lui non si è dato pace, i due si sono frequentati ma Letizia voleva Robert ed era corrisposta. Una polveriera. La follia è esplosa venerdì 7 gennaio.
La ricostruzione
Il racconto di quella giornata è della ragazza. Nel tardo pomeriggio incontra Alì in un bar e gli dice che avrebbe trascorso la notte con Robert. Il giovane s’infuria e tira un pugno sul muro del locale. La serata prosegue poi nella stanza di Letizia, dove i due continuano a discutere. Ma lì deve arrivare anche Robert, che nel frattempo chiama la ragazza avvisandola che tarderà. Alle 23, l’ultimo messaggio: «Sto arrivando». Alì non ci vede più. Scende all’ingresso dello stabile e aspetta l’arrivo del rivale. Sarà la tragedia che ha raccontato. «Asfissia da strangolamento con l’utilizzo di un laccio», ha concluso il medico legale Fulvio Costantinides che ha eseguito ieri l’autopsia. Il cuoco non aveva parlato di lacci ma, comunque sia, sempre di strangolamento si tratta. «Lo stato d’animo dell’indagato pare segnato da risentimento, rancore, morbosa gelosia... ma non da fredda risoluzione, quanto, piuttosto da insicurezza e ossessione», lo inquadra il giudice Marco Casavecchia nell’ordinanza che ha disposto il carcere. Per il gip non c’è premeditazione, nonostante il laccio la possa far pensare: «Poco prima del delitto — conclude — sperava ancora di restare con lei quella notte».
(ANSA il 17 gennaio 2022) - E' Rosario Palermo, l'ex convivente della madre della giovane scomparsa di casa il 4 giugno del 2012, l'uomo arrestato dai Carabinieri della compagnia di Acireale per l'omicidio e l'occultamento del cadavere di Agata Scuto, la 22enne il cui corpo non è stato mai trovato.
L'uomo, lo accusa la Procura di Catania, "aveva instaurato un rapporto particolare con la ragazza", "fornito false notizie sui suoi spostamenti" e "cercato di inquinare le prove". Intercettato in auto, mentre parlava da solo, l'uomo avrebbe espresso il timore che il corpo della ragazza, che era stata strangolata e bruciata, potesse essere ritrovato.
Le indagini sulla scomparsa di Agata Scuto erano state avviate dai carabinieri nel 2020 dopo una segnalazione alla trasmissione 'Chi l'ha visto?' di Rai3 sulla presenza del corpo della 22enne, affetta da epilessia e da una menomazione al braccio e alla gamba, nascosto nella cantina della casa della madre. Ma le ricerche hanno avuto esito negativo.
Le attenzioni dei militari dell'Arma si sono concentrate su Rosario Palermo, spiega la Procura di Catania, "in ragione del rapporto particolare che egli aveva instaurato nell'ultimo periodo con la ragazza, la quale non usciva mai di casa da sola, né intratteneva rapporti con altre persone", per "le falsità delle notizie fornite agli inquirenti" sui "suoi spostamenti il giorno della scomparsa di Agata".
L'uomo, infatti, "non si era recato né a raccogliere lumache nella piana di Catania né a raccogliere origano sull'Etna, come dallo stesso sostenuto negli interrogatori". Tra i "gravi indizi di colpevolezza e responsabilità dell'uomo per l'omicidio e l'occultamento del cadavere" è citata una intercettazione ambientale.
"Lo stesso, infatti, parlando da solo all'interno della propria autovettura - scrive la Procura di Catania - spaventato dal suo possibile arresto, manifestava il proprio timore che il corpo di Agata Scuto venisse trovato in un casolare a Pachino e che sì accertasse che la stessa era stata strangolata e bruciata, riflettendo sulla necessità, inoltre, di recarsi sul luogo per verificare cosa fosse rimasto del cadavere".
A fare crescere i sospetti su Palermo anche il fatto che l'uomo "avrebbe cercato di inquinare le prove, non solo ottenendo da dei suoi conoscenti la conferma del suo falso alibi, ma addirittura predisponendo una complessa messa in scena per simulare delle tracce tali da giustificare la ragione per la quale il giorno della scomparsa di Agata si era gravemente ferito ad una gamba" sostenendo che era stato a causa di una caduta in montagna.
"Al fine di inquinare le prove, l'indagato, durante le restrizioni alla libera circolazione dovute alla pandemia, accusa la Procura - avrebbe cercato di nascondere in una località sull'Etna un tondino di ferro intriso del suo sangue, tondino che avrebbe voluto fare ritrovare il giorno del suo arresto al fine di dimostrare il suo alibi e la sua innocenza".
Parlare da soli. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022.
L’ex patrigno della ragazza catanese scomparsa dieci anni fa si è intercettato da solo. Gli inquirenti avevano messo una cimice nella sua auto, pensando che si sarebbe tradito al telefono con qualcuno, e invece hanno captato un monologo a voce alta durante il quale Rosario Palermo esprimeva al proprio specchietto retrovisore la paura che i resti di Agata venissero ritrovati in un casolare.
A memoria è la prima volta che un assassino confessa il delitto nel corso di un dialogo sonoro con sé stesso. Neanche la fantasia dei giallisti si era mai spinta a tanto. Forse perché, fino a qualche tempo fa, parlare da soli veniva ancora considerata una stranezza. Invece la pandemia ha esaltato i guizzi del sistema nervoso e fornito lo strumento ideale per nasconderli in pubblico: la mascherina, dietro alla quale si può fare di tutto — dai comizi alle pernacchie — senza venire, appunto, smascherati.
Sono andato a capo per consentirvi di ricordare l’ultima volta in cui avete parlato da soli, e di che cosa. Per quanto mi riguarda, anche allo scopo di agevolare eventuali investigatori, confesso di infliggermi sproloqui interminabili dietro la mascherina, quasi sempre a tema calcistico, e per questo continuerò a metterla persino quando ci diranno di toglierla. Per strada trovo meno bizzarro conversare da solo che urlare dentro il telefonino. Soltanto se fossi un assassino privilegerei la comunicazione interiore, ma chi può dirlo: a parlare in quell’uomo, forse, è stata la voce della coscienza.
AGATA UCCISA PERCHÉ ERA INCINTA. Valentina Errante per "il Messaggero" il 18 gennaio 2022.
L'avrebbe strangolata e poi avrebbe dato fuoco al cadavere, in un casolare delle campagne di Pachino, nel Siracusano, per impedire che si scoprisse che aveva messo incinta la figlia disabile della sua compagna. Rosario Palermo 61 anni, è stato arrestato solo ieri per il crimine che, per la procura di Catania, avrebbe compiuto nel 2012.
Agata Scuto, 22 anni, era scomparsa da casa, dove si trovava da sola, dal 4 giugno di quell'anno. Le nuove indagini dei carabinieri sono partite nel 2020, dopo una segnalazione anonima alla trasmissione di Raitre Chi l'ha visto?. Qualcuno aveva rivelato che corpo della ragazza si trovava nella cantina della casa della madre. I militari avevano ispezionato i locali e scavato nei terreni adiacenti alla casa senza nessun risultato.
Il corpo non è mai stato ritrovato, ma le indagini si sono concentrate sull'uomo. Perché dalle interviste, sia della mamma della ragazza, che dell'ex compagno era emerso con chiarezza che l'uomo aveva attenzioni particolari per Agata. Palermo, inoltre, dopo la scomparsa aveva convinto la donna di avere visto la ragazza, tanto da farle ritirare la denuncia.
L'alibi di Palermo sui suoi spostamenti il giorno della scomparsa è risultato falso: non era andato né a raccogliere lumache nella piana di Catania né a raccogliere origano sull'Etna, come aveva sostenuto negli interrogatori.
Palermo, che continua a smentire le accuse, avrebbe anche cercato di fare confermare il falso alibi da un testimone, che lo ha invece contraddetto sulla tempistica, collocando la gita sull'Etna nel 2014 e non nel 2012. Ad accusare l'uomo era stata proprio la mamma di Agata, raccontando che la figlia «era gelosa» del suo rapporto con Palermo.
Agata, che era affetta da un ritardo mentale, oltre che fisico, aveva rivelato ai familiari di avere un ritardo nel ciclo. L'ipotesi degli inquirenti e del gip di Catania che ha disposto l'arresto è che la ragazza fosse incinta e l'uomo volesse nascondere la gravidanza. Per questo l'avrebbe uccisa.
«Abbiamo trovato la ragazza, morta! L'abbiamo trovata! La ragazza! L'abbiamo trovata morta nelle campagne di Pachino, morta strangolata, è morta strangolata e bruciata». Palermo si sarebbe autoaccusato inconsapevolmente. I carabinieri lo hanno sentito pronunciare questa frase mentre era da solo in auto, dove avevano piazzato le cimici. E ancora: «la ragazza che dovevo fare sparire, mi spavento se la trovano».
La tensione era cresciuta nell'uomo dopo che i militari gli avevano sequestrato diversi cellulari: per l'accusa temeva si scoprissero le conversazioni avute con la vittima. All'indagato la Procura ha contestato le aggravanti di avere commesso il fatto ai danni di una persona portatrice di handicap e per l'avere agito per motivi abietti, costituiti dall'intento di nascondere la gravidanza di Agata, in modo da continuare la relazione con la madre della ragazza.
Agata Scuto sparita nel nulla a 22 anni, dopo 10 anni arrestato per omicidio l’ex patrigno. Con il fermo dell’uomo potrebbe essere giunto a una svolta l’intricato caso di Agata Scuto che fino al momento della sparizione non era mai uscita di casa da sola. A cura di Antonio Palma su Fanpage.it il 17 gennaio 2022.
A quasi dieci anni dalla sua scomparsa nel nulla potrebbe esserci la svolta dietro la misteriosa sparizione di Agata Scuto, ragazza disabile di Acireale di cui non si sono mai più avute notizie da quel giorno di giugno del 2012. Nelle scorse ore i carabinieri del comando provinciale di Catania hanno tratto in arresto un uomo di sessanta anni, Rosario Palermo, all'epoca dei fatti compagno della madre della giovane, con la pesantissima accusa di omicidio aggravato e occultamento del cadavere della 22enne. Nei suoi confronti la magistratura ha emesso un ordine di custodia cautelare in carcere ritenendo gravi gli elementi a suo carico raccolti dagli investigatori nell’ultimo periodo di indagine sul caso.
Caso Agata Scuto, arrestato ha inquinato le prove
Secondo gli inquirenti, infatti, ci sono gravi indizi di colpevolezza a carico del sessantenne che avrebbe fornito false notizie sui suoi spostamenti durante la scomparsa della ventiduenne con la quale aveva instaurato un rapporto molto stretto, in particolare nel periodo immediatamente precedente alla sua scomparsa. Per gli investigatori, l'indagato addirittura avrebbe cercato di inquinare le prove anche ottenendo da conoscenti la conferma del suo falso alibi. Tutti elementi che hanno spinto la Procura e il giudice a procedere con l’arresto. Con il fermo dell’uomo potrebbe aprirsi finalmente uno spiraglio dietro l’intricato caso della ragazza, mai ritrovata, che fino al momento della sparizione non usciva mai di casa da sola, né intratteneva rapporti con altre persone. Intercettato in auto dagli inquirenti mentre parlava da solo, Rosario Palermo, avrebbe espresso il timore che il corpo della ragazza, che era stata strangolata e bruciata, potesse essere ritrovato.
La scomparsa di Agata Scuto e le indagini sul patrigno
Era il 4 giugno del 2012 quando Agata Scuto scomparve di casa senza alcun motivo. Nella prima denuncia di scomparsa la madre raccontò di averla lasciata a casa da sola quel giorno e di non averla più trovata al ritorno. Poco tempo dopo però la denuncia fu ritirata proprio in base ai racconti del Compagno della madre che rivelò di aver visto più volte la giovane in compagnia di un fantomatico fidanzato biondo, prima in motorino e poi in macchina. Nel 2020, però, dopo che le telecamere di ‘Chi l’ha visto’ hanno acceso i riflettori sulla misteriosa scomparsa della ventiduenne, la procura ha aperto un fascicolo per omicidio. Lo stesso patrigno, ormai ex della madre di Agata, fu subito indagato per omicidio poiché la stessa madre avanzò il sospetto che la figlia, con disabilità cognitive e fisiche, avesse intrattenuto con il patrigno una relazione e che la vittima potesse essere rimasta incinta e per questo uccisa.
Agata Scuto, la svolta 10 anni dopo la scomparsa: arrestato un uomo per omicidio. Redazione Today.it il 17 gennaio 2022.
La ragazza è scomparsa da Acireale, in provincia di Catania, dal giugno del 2012. Secondo l'accusa, l'indagato "avrebbe cercato di inquinare le prove anche ottenendo da conoscenti la conferma del suo falso alibi".
C'è una svolta sul caso di Agata Scuto, la 22enne scomparsa di casa, ad Acireale, dal giugno del 2012 e il cui corpo non è stato mai trovato. Un uomo di 60 anni è stato arrestato dai carabinieri della compagnia di Acireale per l'omicidio e l'occultamento del cadavere della ragazza. Nei confronti dell'uomo è stata eseguita un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Catania su richiesta della procura distrettuale etnea.
Agata Scuto, arrestato un uomo per l'omicidio della 22enne scomparsa
Secondo la tesi dell'accusa, le indagini dei carabinieri sul 'cold case', avviate la dopo denuncia di scomparsa dei familiari della vittima, definita giovane e fragile, hanno "consentito di raccogliere gravi indizi di colpevolezza nei confronti dell'uomo in ragione sia del rapporto particolare che egli aveva instaurato nell'ultimo periodo con la ragazza - la quale non usciva mai di casa da sola, né intratteneva rapporti con altre persone -, sia delle falsità delle notizie fornite agli inquirenti dallo stesso circa i suoi spostamenti il giorno della scomparsa di Agata". In particolare, l'indagato "avrebbe cercato di inquinare le prove anche ottenendo da conoscenti la conferma del suo falso alibi".
La scomparsa misteriosa di Agata Scuto
Dal 4 giugno 2012 la 22enne è sparita misteriosamente. Affetta da disabilità, usciva di rado dalla sua abitazione. Inizialmente la madre raccontò di averla lasciata a casa da sola e di essere andata con l'altro figlio dalla nonna. Ma al suo ritorno disse di non averla più trovata. Così il fratello di Agata qualche giorno dopo denunciò la scomparsa della sorella ai carabinieri. Dopo aver sporto denuncia di scomparsa, la madre Mirella la ritirò. Perché? Il motivo la donna lo ha spiegato qualche mese fa ai microfoni di "Chi l'ha visto?", quando l'inviato del programma di RaiTre ha bussato alla porta di casa per far luce sul caso. Secondo il racconto della donna, Rosario, il suo compagno di allora, le avrebbe detto di aver visto la giovane in giro con un ragazzo. Si ipotizzò, quindi, che il suo fosse un allontanamento volontario.
"Di quattro figli è l'unica che mi ha dato questo dispiacere. Ho fatto denuncia, poi l'ho ritirata perché avevo sentito che l'avevano vista. Abbiamo continuato a prendere noi i soldi perché lei li aveva abbandonati", aveva detto la mamma di Agata, intervenuta durante il programma andato in onda su RaiTre. Agata Scuto percepiva una pensione di invalidità, denaro che da quando è scomparsa sarebbe stato sempre incassato dai suoi familiari. La ragazza manteneva la famiglia con quei 280 euro che percepiva ogni mese e non avrebbe mai prelevato soldi dal suo conto.
Alcuni anni dopo la scomparsa era stato indagato l'ex compagno della madre della giovane, la quale aveva il sospetto che la figlia disabile avesse intrattenuto con il patrigno una relazione e che la vittima potesse essere rimasta incinta. Nel corso delle indagini dei carabinieri era stato sequestrato un pezzo di metallo sporco di sangue dal quale potrebbe essere stato isolato il dna dell'assassino. Oggi, a quasi dieci anni dalla sua scomparsa nel nulla, potrebbe aprirsi uno spiraglio dietro la misteriosa sparizione di Agata Scuto.
Acireale: un arresto per la scomparsa di Agata Scuto nel 2012, è l’ex convivente della madre. Redazione Cronache su Il Corriere della Sera il 17 gennaio 2022.
I Carabinieri hanno fermato l’ex convivente della madre. Il corpo della 22enne non è mai stato trovato.
Agata Scuto, 22 anni, scomparve di casa il 4 giugno 2012. Il suo corpo non è stato mai trovato. Ora i Carabinieri di Acireale hanno arresto Rosario Palermo, ex convivente della madre della ragazza, su ordinanza del gip di Catania su richiesta della Procura distrettuale etnea, con le accuse di omicidio e occultamento di cadavere. Secondo la Procura di Catania, le indagini hanno «consentito di raccogliere gravi indizi di colpevolezza nei confronti dell’uomo in ragione sia del rapporto particolare che egli aveva instaurato nell’ultimo periodo con la ragazza - la quale non usciva mai di casa da sola, né intratteneva rapporti con altre persone - sia delle falsità delle notizie fornite agli inquirenti dallo stesso circa i suoi spostamenti il giorno della scomparsa di Agata». L’indagato «avrebbe cercato di inquinare le prove anche ottenendo da conoscenti la conferma del suo falso alibi». Intercettato in auto, mentre parlava da solo, l’uomo avrebbe espresso il timore che il corpo della ragazza, che era stata strangolata e bruciata, potesse essere ritrovato.
Le indagini
Molti anni dopo la scomparsa di Agata Scuto, venne indagato per omicidio l’ex compagno della madre della giovane, la quale aveva il sospetto che la figlia avesse intrattenuto con lui una relazione e che la vittima potesse essere rimasta incinta. Inizialmente la madre raccontò di averla lasciata a casa da sola e di essere andata con l’altro figlio dalla nonna e al suo ritorno di non averla più trovata. Il fratello qualche giorno dopo denunciò la scomparsa di Agata, ma in seguito la famiglia ritirò la denuncia su suggerimento di Palermo, che raccontò di aver visto più volte la giovane in compagnia di un fidanzato biondo, prima in motorino e poi in macchina. Una versione che non ha convinto i Carabinieri. Agata era una ragazza «fragile» per disabilità sia cognitiva che fisica, per la quale percepiva anche una pensione. Nel corso delle indagini è stato sequestrato un pezzo di metallo sporco di sangue dal quale potrebbe essere stato isolato il dna dell’assassino.
Agata sparita 10 anni fa: in manette l'ex patrigno. Valentina Raffa il 18 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Incastrato dalle microspie in auto. Ha inquinato le prove. Temeva il ritrovamento del cadavere.
Parlava tra sé e sé ad alta voce nella sua auto, spaventato di poter essere scoperto e sbattuto in carcere. Di fatto confessando l'omicidio della figliastra e l'occultamento del suo cadavere.
Sembra surreale, ma è andata proprio così nel cold case della scomparsa della 22enne Agata Scuto, di Acireale (Catania), chiuso dopo 10 anni proprio grazie a questa «confessione» sui generis servita agli inquirenti dall'assassino. A strangolare Agata e a bruciarne il corpo nel tentativo di farla scomparire o renderla irriconoscibile, per poi occultarne i resti, è stato il 60enne Rosario Palermo, ex convivente della madre di Agata, forse lo stesso 4 giugno 2012, giorno della scomparsa della ragazza, il cui corpo non è ancora stato ritrovato. Palermo è accusato di omicidio aggravato e occultamento di cadavere. Le indagini furono riaperte nel 2020 dopo una puntata di «Chi l'ha visto», per via di una segnalazione anonima rimasta non identificata che segnalava il cadavere di Agata nella cantina della casa della madre in cui viveva. Le ricerche non portarono a nulla, ma l'attenzione degli investigatori della Compagnia di Acireale si concentrarono su Palermo. Ripercorrendo le risultanze delle prime indagini, i carabinieri, su delega della procura distrettuale di Catania, sentirono nuovamente testimoni e ricostruirono gli spostamenti dei familiari di Agata. Era una ragazza fragile, affetta da epilessia, con una menomazione a un braccio e a una gamba «che non usciva mai sola da casa, né intratteneva rapporti con altre persone. Eppure Palermo era riuscito a convincere la madre di Agata di averla vista con un fidanzato, con cui Agata si sarebbe potuta allontanare quando la madre era uscita di casa lasciandola sola. La donna aveva persino ritirato la denuncia di scomparsa.
Ma agli investigatori non convinse quel rapporto «particolare» come lo definisce la procura etnea instaurato da Palermo nell'ultimo periodo con Agata. «E non mancarono di saltare agli occhi dei carabinieri le falsità delle notizie fornite agli inquirenti da Palermo scrive il procuratore capo, Carmelo Zuccaro - circa i suoi spostamenti il giorno della scomparsa». In particolare aveva mentito quando aveva dichiarato di essersi recato nella piana di Catania a raccogliere lumache e sull'Etna a raccogliere l'origano e di essersi procurato lì una ferita a una gamba. Il quadro indiziario è stato aggravato dal fatto che l'uomo ha anche predisposto di recente «una complessa messa in scena per simulare delle tracce tali da giustificare la ragione per la quale il giorno della scomparsa si era gravemente ferito». Ha cercato di inquinare le prove nascondendo sull'Etna un tondino di ferro sporco del suo sangue, che avrebbe voluto fare ritrovare il giorno del suo arresto per dimostrare il falso alibi, peraltro confermato agli inquirenti da alcuni conoscenti. Le ricerche di Agata continuano. Secondo la «confessione» non voluta dell'assassino, i resti sono in un casolare a Pachino, dove Palermo pianificava di andare per capire cosa fosse rimasto del corpo. Valentina Raffa
· Il mistero di Arianna Zardi.
Cremona, il mistero di Arianna Zardi: «Da vent’anni solo errori e silenzi. Ditemi come è morta mia sorella». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 17 gennaio 2022.
Cremona, gli errori nelle indagini: le ferite sul corpo, le tracce di Dna maschile sugli slip, portafoglio e telefono cellulare rubati. La sorella della vittima: «Arianna non si è suicidata, chiedo che la Procura non archivi questo caso e faccia nuovi accertamenti».
Investigarono dapprincipio i carabinieri, e investigarono male: a distanza di oltre vent’anni, ancora ignoriamo come domenica 30 settembre 2001 morì Arianna Zardi, impiegata 25enne incuriosita dalle religioni, a tempo perso studentessa universitaria di Teologia e frequentatrice della locale comunità dei Testimoni di Geova. E male investigò la Procura di Cremona che ha l’opportunità, dovendo dare risposta (da mesi) su una seconda possibile archiviazione, di rinviare al contrario la chiusura del fascicolo e ordinare nuovi accertamenti. Si ipotizzò allora, con un esercizio elementare, che Arianna, rinvenuta senza vita all’interno della chiusa di un canale d’irrigazione, fosse deceduta dopo una caduta da otto metri in seguito a suicidio, malore, assassinio. Tre scenari, rimasti immutati, che significano tutto e niente.
La scoperta del corpo
Siamo stati sulla scena (la presunta scena del crimine?) con la 42enne Sara, sorella minore di Arianna che ancor prima di chiedere eventuale giustizia chiede la verità. Sapere cioè la genesi della fine; sapere l’incongruenza delle ferite sul corpo; sapere a chi appartiene il Dna maschile isolato sugli slip di Arianna, scoperta l’indomani da una coppia di zii, non dagli investigatori; sapere le reali azioni di due minorenni, uno dei quali in seguito sparito dall’Italia, che non si capisce perché transitarono in questa zona isolata e che presero dalla borsa di Arianna, nel frattempo già precipitata oppure fatta precipitare, il cellulare e il portafoglio, spendendo i soldi in un bar e bruciando i documenti d’identità. Un ragazzino venne arrestato e scarcerato in assenza di prove. Ma che cosa ci faceva qui Arianna? E ci sarà mai, parimenti al dovere deontologico, qualcuno scosso dalla coscienza che cercherà di appurare quantomeno la reale dinamica del decesso rimediando a errori, silenzi, accertamenti scontati eppure mai avvenuti? Interrogativo, quest’ultimo, più che legittimo, anzi sacrosanto, e posto dal Corriere ancor prima di Sara, donna paziente, determinata, fiduciosa nella giustizia. Dunque il luogo, per cominciare. Località Torricella del Pizzo, 600 abitanti; parte sud-orientale dell’estesa provincia cremonese, il Po non lontano. All’altezza del chilometro «60 + 0,200» arrivando da Casalmaggiore, dove Arianna abitava con la famiglia, una strada sterrata sulla sinistra: a piedi son 274 passi prima d’incontrare il canale sormontato da un ponte e da un muretto, basso, lungo sette passi e largo un piede e mezzo.
L’ultimo messaggio
Quella domenica Arianna era uscita di casa, aveva preso la corriera, era scesa a Cingia de’ Botti, paese di residenza del fidanzato con cui, sembra, stava per terminare la relazione, che durava da un anno. Quello era sì in casa ma non si era fatto sentire al citofono; né, più tardi, aveva risposto al messaggio telefonico, inviato dalla zona del muretto da Arianna che gli domandava dove fosse. Gli inquirenti ritennero il fidanzato estraneo alla vicenda (così come i testimoni di Geova). Poiché a Cingia de’ Botti non passavano più bus, Arianna s’era incamminata verso Torricella del Pizzo, alla ricerca di amici che l’avrebbero accompagnata in auto a Casalmaggiore. Non li individuò e proseguì a piedi. Pesava 45 chilogrammi, aveva assunto degli psicofarmaci per problemi depressivi ma non nei giorni antecedenti e, comunque, la sorella Sara esclude — la escluse da subito — la teoria del suicidio. La mamma era malata, e la diligente, ordinaria e responsabile Arianna, che la sostituiva in casa e accudiva il fratellino, «mai avrebbe d’improvviso scelto di abbandonarci».
Le ipotesi sulla morte
Qualcuno disse: Arianna era sul muretto, ebbe un malore, cadde. Sara: «Ricordo una giornata caldissima. Forse Arianna ebbe dei giramenti di testa, ma se li ebbe durante la camminata sotto il sole, beh, incontrò in precedenza centinaia di punti all’ombra dove sedersi, dove riposarsi, senza deviare in direzione della chiusa… E se davvero non si stava sentendo bene, non si sarebbe posizionata sul muretto col rischio di cadere». Pertanto, l’omicidio. Arianna precipitò sul fianco destro, e infatti riportò fratture sulla parte destra del corpo a cranio, costole, gamba. Ferite compatibili con lo schianto. Ma nelle due autopsie — la prima nell’ottobre 2001, la seconda nel 2016 dopo la riapertura del caso e la riesumazione —, i medici legali non appurarono e nemmeno orientarono sulla rottura del polso e del ginocchio sinistri. Ginocchio sopra cui restò impressa un’impronta, di una scarpa da lavoro o dello pneumatico di un motorino, come se fosse stato un urto a far perdere l’equilibrio ad Arianna, che morì al termine di un’agonia, minuti se non ore; raggiunse strisciando disperata o forse venne trasferita nella chiusa. Giaceva supina, le braccia aperte, vestita, nessun apparente segno di violenza. Le pareti erano sporche di sangue. Il suo sangue o forse non soltanto: più tardi ci sarebbe stato un supplemento di rilievi con l’intervento del Ris. Ma, e risulta elementare anche questo, un canale d’irrigazione ospita l’acqua, e l’acqua cancella le tracce.
La targa per Arianna
Adesso il canale è in secca, il fondo un pantano, la chiusa un deposito di muffa; in cima, la targa in memoria di Arianna si è spezzata per il passaggio e gli urti dei trattori; la sorella Sara, che non visitava da anni questo posto, sfila dalla targa la foto in bianco e nero e la posa in tasca, casomai danneggino anche quella.
· Il Mistero di Simona Floridia.
“Simona, piangendo disse che voleva andarsene da casa!”. Al processo per la scomparsa della ragazza di Caltagirone, a settembre ’92, dopo 30 anni Andrea Bellia rischia l’ergastolo. Ma emergono elementi che aumentano i dubbi sui fatti e la sua responsabilità. Damiano Aliprandi Il Dubbio il 20 gennaio 2022.
«Piangeva. Simona non ha mai pianto nella sua vita. E quel giorno piangeva», tanto che disse di volersene andare via da casa. «Simona mi disse otto giorni prima, nove giorni prima, che poi non ci siamo viste più, perché sono andata fuori, che se ne voleva andare». Si sono aggiunti altri tasselli sulla scomparsa di Simona Floridia avvenuta ufficialmente il 16 settembre del 1992 a Caltagirone, che fanno vacillare ulteriormente l’accusa nei confronti di Andrea Bellia, unico imputato – dopo trent’anni dal fatto – che rischia di essere condannato all’ergastolo senza alcuna prova tangibile, ma solo tramite un unico indizio da ritrovarsi in una intercettazione tra due adolescenti appena 18enni, ripescata dopo più di 20 anni.
Durante la scorsa udienza presso la Corte d’Assise di Catania, sono stati sentiti tre ex compagni di comitiva di Simona Floridia e Andrea Bellia. Emerge che circa una decina di giorni prima della scomparsa, Simona e la madre sono andati a mangiare a casa di una delle testimoni sentite. Fu in quell’occasione che Simona le ha detto che voleva andarsene di casa, visto un evidente rapporto conflittuale con i genitori. «Ricordo che me l’ha detto, che se ne andava. E per un tratto è stata molto arrabbiata, questo sì!», ha deposto la sua ex amica.
L’avvocata Pilar Castiglia le ha domandato: «Ricorda se piangeva?». La testimone: «Piangeva. Simona non ha mai pianto nella sua vita. E quel giorno piangeva». Ma non ricorda altro. A quel punto l’avvocata Castiglia le legge le dichiarazioni che fece all’epoca, quando fu sentita a sommarie informazioni: «Mentre piangeva, fatto strano, perché non l’aveva mai vista piangere, poiché di carattere molto forte, minacciò i suoi genitori di volerli ammazzare, e di volere andare via di casa». Non se lo ricorda più. Ma è fisiologico, perché dopo trent’anni è difficile ricordate fatti e circostanze. Per questo motivo l’avvocata Castiglia ha chiesto l’acquisizione del verbale di sommarie informazioni. Ma il Pm non ha dato il consenso all’acquisizione di atti del suo ufficio. Un’occasione persa, perché evidentemente sarebbero di maggiore aiuto alla ricerca della verità rispetto alle testimonianze, in alcuni casi confuse e approssimative.
Comunque sia, dall’ultima udienza emerge che la 17enne Simona voleva andarsene di casa. Questo fa il paio con l’udienza precedente: è emersa una annotazione di servizio, dove l’assistente capo, addetto alla squadra di polizia giudiziaria, riferisce che il 18 settembre apprende dal padre di Simona Floridia che quest’ultima era stata notata, verso le ore 11 e 30 del mattino stesso, nei pressi della stazione ferroviaria. Un fatto riferitegli da un collega della Polfer. Non è poco. Vuol dire che due giorni dopo la data ufficiale della scomparsa, poi si sarebbe recata alla stazione. Per andare dove? Non lo potremo sapere mai. Anche perché, così è emerso nell’udienza precedente, l’allora uomo della Polfer ha deposto spiegando di non aver accertato se a quell’ora passassero treni e dove andassero. Non è stata nemmeno diramata la foto di Simona alle stazioni collegate con quella di Caltagirone.
Diventa sempre più difficile condannare oltre ogni ragionevole dubbio un uomo, oggi 47enne, che rischia di finire il resto della sua vita in carcere, perché – secondo l’accusa – dopo un giro in vespa avrebbe, al culmine di un litigio, gettato da un dirupo Simona Floridia. Lui stesso, come già testimoniò all’epoca della scomparsa, avrebbe invece, dopo un giro, riaccompagnato la ragazza in centro, vicino ad un bar e poi non l’avrebbe più rivista. Eppure, ora è agli atti una annotazione di servizio dove si scopre che Simona è stata vista alla stazione due giorni dopo il presunto omicidio. Non solo. All’ultima udienza è emerso – grazie alla testimonianza resa da una sua amica – che la ragazza aveva annunciato, piangendo, che voleva andarsene via di casa. Ricordiamo che Floridia era una ragazza suggestionabile e trovava conforto nel mondo dell’occulto, all’epoca un sottobosco molto diffuso nella sua zona in provincia di Catania.
È giallo sulla fine di Vanessa Bruno: l'influencer trovata morta sul divano. Tiziana Paolocci il 18 Gennaio 2022 su Il Giornale.
La 23enne colpita da arresto cardiaco a casa di un conoscente. Sorridente, solare, una vera e propria «trascinatrice». I fan di Vanessa Bruno, nota influencer italo-brasiliana, non si danno pace e da giorni sui social ricorre la stessa domanda: «Come è morta?».
Sul caso il pubblico ministero, Alessandro Block, ha aperto un fascicolo e vuole far luce sulla fine della ragazza, originaria di Alvignano, piccolo centro della provincia di Caserta, che da diverso tempo risiedeva in Veneto. L'influencer è stata trovata senza vita l'8 gennaio scorso in un appartamento di Vicenza, a casa di un conoscente che le dava ospitalità, ma le cause del decesso sono oscure. Sembrerebbe che la morte sia sopraggiunta per arresto cardiaco, ma sarà l'autopsia già disposta sul cadavere, a fare chiarezza, cercando di allontanare le ombre e gli interrogativi che in queste ore devastano il padre Giuseppe, la sorella Vanessa, i suoi amici e i suoi follower.
Sono stati proprio loro a notare per primi l'assenza dell'influencer, molto attiva sui social.
Ad occuparsi del caso, che è stato rivelato per primo dal Giornale di Vicenza, sono gli agenti della squadra mobile locale. Si sa che la 23enne, famosa anche nell'ambiente della musica trap, quel giorno si era presentata in un appartamento in viale Astichello, dove vive R.F., noto alle forze dell'ordine per spaccio di droga.
«È arrivata a casa mia assieme a un mio amico e mi ha chiesto un posto per dormire - ha raccontato l'uomo agli investigatori -. L'avevo vista solamente un'altra volta prima di quel giorno, quando io e questo mio amico eravamo andati a prenderla in stazione perché tornava da una serata trascorsa a Milano».
Ha spiegato che nessuno di loro ha assunto droghe nel corso della giornata e ha detto di aver mangiato una pizza tutti e tre insieme a casa. Poi Vanessa si è messa a dormire sul divano-letto. A quel punto, il padrone di casa sarebbe uscito per andare a mangiare un kebab. «Quando sono rientrato e ho visto che era ancora sdraiata nella stessa posizione, l'ho toccata e ho sentito che era fredda - ha aggiunto -. Io non ho il cellulare e allora ho chiesto al mio amico di chiamare il 118 e lui lo ha fatto. Era già notte».
Ma questo dettaglio non combacia con l'orario del decesso constatato dal medico legale. Il Suem, infatti, avrebbe certificato la morte della ragazza alle 18 e non più tardi e alcuni vicini hanno visto arrivare l'ambulanza e l'automedica molto prima dell'ora di cena.
Non è chiaro, poi, se l'amico che aveva accompagnato Vanessa in viale Astichello fosse ancora lì quando sono arrivate le volanti della polizia. Ma sul corpo della ragazza non sono state riscontrate ferite e gli investigatori della scientifica, che hanno effettuato i rilievi, non hanno trovato al momento tracce di stupefacenti nell'abitazione. Saranno i risultati dei test tossicologici svolti sul corpo dell'influencer a fugare ogni dubbio.
Per ora nel fascicolo aperto dalla Procura vicentina non compaiono indagati. Il padre di Vanessa, che adesso dopo vive ad Alife, nel Casertano, ha organizzato per sabato prossimo una messa in suffragio della figlia che si terrà nella chiesa di San Sebastiano ad Alvignano. Poi arriveranno quelle risposte che ogni genitore deve avere. Tiziana Paolocci
Disposta l'autopsia. Vanessa Bruno, il mistero dell’influencer 23enne trovata morta in casa dell’amico: la Procura apre un’inchiesta. Fabio Calcagni su Il Riformista il 17 Gennaio 2022.
Come è morta Vanessa Bruno? Una risposta sul decesso della 23enne italo-brasiliana, deceduta l’8 gennaio scorso in un appartamento di Vicenza, a casa di un amico che le dava ospitalità, la dovrà dare l’autopsia disposta sul cadavere della giovane dal pubblico ministero di Vicenza Alessandro Block.
Vanessa, originaria di Alvignano, piccolo centro in provincia di Caserta, da tempo viveva nel capoluogo berico assieme alla madre e alla sorella Secondo quanto ricostruito dalle primissime indagini Vanessa, ospitata da un conoscente il giorno della sua morte, è stata trovata morta proprio da quest’ultimo sul divano di casa, dove si era addormentata senza più risvegliarsi.
Forze dell’ordine giunte quando ormai era già troppo tardi, allertate dal proprietario dell’abitazione, noto alle forze dell’ordine per spaccio di droga secondo quanto riporta Il Giornale di Vicenza. Sul corpo di Vanessa, come immediatamente verificato dagli agenti, non c’erano tracce di violenza o ferite.
Una vicenda mai resa nota dalla Procura di Vicenza, nonostante il decesso risalga ormai a giorni fa. Procura vicentina che per ora non ha iscritto nessuno sul registro degli indagati.
Durante l’ispezione del corpo inoltre non sono state trovate tracce di sostanze stupefacenti e l’uomo che le ha dato ospitalità ha confermato che la ragazza non aveva fatto uso di droga.
A Il Giornale di Vicenza il proprietario dell’appartamento ha spiegato infatti che i due avevano mangiato una pizza, poi “lei si è messa a dormire sul divano. Poi sono uscito a prendere un kebab e al mio ritorno era ancora sdraiata nella stessa posizione, l’ho toccata e ho sentito che era fredda”.
Una circostanza questa ancora non chiara: la morte della giovane influencer sarebbe stata dichiarata dal Suem attorno alle 18, ben prima di quanto dichiarato dal proprietario dell’appartamento. Anche qualche vicino ha raccontato di aver visto arrivare l’ambulanza e l’automedica molto prima dell’ora di cena.
Vanessa lascia il padre Giuseppe, la sorella Eleonora e i tanti amici che hanno rilanciato la notizia sui social dove era particolarmente attiva. Proprio il padre Giuseppe, che in prime nozze aveva sposato una donna di Vicenza e che adesso dopo essere convolato a nuove nozze vive ad Alife, sempre nel Casertano, ha organizzato per sabato prossimo una messa in suffragio nella chiesa di San Sebastiano ad Alvignano.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
· Il mistero di Laura Ziliani.
"Così Mirto ha confessato l'omicidio di Laura Ziliani". Sarebbe stato un ex detenuto a far crollare Mirto Milani, accusato con Silvia e Paola Zani, di aver ucciso l'ex vigilessa di Temù. "Insultavano la madre mentre moriva", avrebbe confidato il 28enne. Rosa Scognamiglio su Il Giornale il 25 Novembre 2022.
Sarebbe stato un ex detenuto a ottenere la confessione piena di Mirto Milani, il 27enne di Lecco accusato di aver ucciso Laura Ziliani, in concorso con Silvia e Paola Zani. Stando a quanto scrive la giornalista Beatrice Raspa su Il Giorno, nel giro di poche settimane, l'uomo sarebbe riuscito a conquistare la fiducia dell'ex sopranista. Al punto che il ragazzo si sarebbe lasciato andare a un racconto dettagliato del delitto: "Insultavano la madre mentre moriva", avrebbe confidato l'imputato.
La confessione di Mirto Milani
Un intreccio degno della trama di un film. L'ex detenuto, un imprenditore del Garda incarcerato per via di un presunto furto ai danni di una banca Svizzera (ora è in libertà), aveva condiviso la cella con Milani dall'ottobre del 2021 a metà del 2022. "Dire che tra noi ci fosse un'amicizia è fuori luogo, sono stato piuttosto il confidente di Mirto", ha precisato l'uomo a Il Giorno. Fatto sta che, durante il periodo di convivenza obbligata col ragazzo, è riuscito a farsi raccontare cosa fosse successo quella drammatica notte tra il 7 e l'8 maggio scorso, quando l'ex vigilessa fu uccisa. "Sono stato io ad avvicinarmi a Milani, spinto dalla curiosità. - ha spiegato - In breve abbiamo iniziato a parlare da mattina a sera, anche la notte. Non uscivamo mai dalla cella, lui aveva paura". Alla fine, però, Milani ha vuotato il sacco rivelando che le sorelle Zani insultavano la madre mentre moriva. Confessione del 27enne "alla mano", l'ex detenuto ha chiesto di deporre. Le sue dichiarazioni hanno segnato la svolta nel caso. Dopo il crollo del ragazzo, anche Silvia e Paola Zani, hanno confessato il fatto.
La ricostruzione dell'omicidio
Secondo la ricostruzione degli inquirenti - il caso è approdato davanti alla Corte d'Assise di Brescia - i tre imputati avrebbero agito in concorso e con l'aggravante della premeditazione. Laura Ziliani, un'ex vigilessa di 55 anni, sarebbe stata uccisa tra il 7 e l'8 maggio nella stanza al piano inferiore della sua abitazione di Temù. Successivamente il corpo sarebbe stato trasportato e sotterrato in un argine del fiume Oglio. Due mesi dopo, l'8 agosto, una piena del fiume ha restituito il cadavere. Secondo la relazione medico-legale stilata dal professor Andrea Verzelletti, perito incaricato dalla procura bresciana, la 55enne sarebbe morta per "asfissia meccanica", verosimilmente soffocata con un cuscino e dopo essere stata stordita con le benzodiazepine.
Da ANSA il 20 ottobre 2022.
"Eravamo disperati per i tentativi di mia madre di ucciderci e non sapevamo cosa fare. Secondo la nostra idea mia madre si sentiva bloccata con tre figlie di cui una disabile e l'idea che avevamo era che voleva liberarsi di noi. E già nell'estate del 2020 iniziammo a pensare al modo in cui risolvere il problema: cioè ucciderla". Lo ha detto nella sua confessione Silvia Zani che con la sorella Paola e il fidanzato Mirto Milani hanno ucciso a maggio del 2021 la madre delle due ragazze Laura Ziliani, ex vigilessa di Temù in Vallecamonica nel Brescia.
A una settimana dall'inizio del processo davanti alla Corte d'Assise di Brescia i verbali delle confessioni sono stati pubblicati in esclusiva dal 'Giornale di Brescia'. "Dopo che mia madre aveva mangiato i muffin che le avevamo preparato con dentro benzodiazepine, iniziammo a cercare di capire come proseguire nel nostro progetto. Io ero convinta di quello che volevo fare.
Ero decisa. Sono entrata nella camera da letto di mia madre, ricordo di averle messo le mani attorno al collo, Paola la teneva ferma con il suo peso. Mia madre ha iniziato a rantolare, a quel punto Mirto si è accorto non stava andando come previsto ed è entrato in camera. Ha messo lui le mani sul collo di mia mamma. In un certo senso mi ha dato il cambio", ha raccontato la figlia maggiore della vittima.
Secondo i tre imputati Laura Ziliani avrebbe tentato di ucciderli prima mettendo candeggina nel latte e poi con sostanze caustiche nel sale. I tre avrebbero però distrutto le prove. "Il nostro incubo era quello di essere avvelenati da Laura. Perché non abbiamo denunciato? Dal nostro punto di vista se i carabinieri avessero scoperto che Laura voleva farci del male, poi sarebbero per deduzione risaliti a noi, avendo la prova della nostra colpa", ha fatto mettere a verbale Mirto Milani.
Ex vigilessa uccisa, parla ex compagno di cella di un imputato. ANSA il 2 luglio 2022.
"L'ho fatto per una questione etica, perché quello che hanno commesso è mostruoso". Lo ha detto l'ex compagno di cella di Mirto Milani che aveva raccolto l'ammissione in cella sull'omicidio di Laura Ziliani e che poi ha collaborato favorendo le intercettazioni ambientali in carcere a Brescia che hanno, una volta chiusa l'indagine da parte della Procura, costretto Milani a confessare.
Così come poi hanno fatto anche Paola e Silvia Zani, le due figlie dell'ex vigilessa di Temù uccisa l'otto maggio di un anno fa e poi ritrovata tre mesi più tardi cadavere vicino al fiume Oglio nel paese della Vallecamonica.
"Mirto mi ha raccontato che quella sera lui, Paola e Silvia preparano dei muffin e riempiono quello destinato a Laura di benzodiazepine. Lei lo mangia però non crolla come previsto nei primi 10 minuti: aveva un fisico forte. Alla Ziliani sembra non succedere niente e va a letto. Laura a un certo punto è ormai rintronata e va in cucina per prendere da bere dal frigorifero. A quel punto scatta la furia di Silvia che prende da dietro la madre. Laura cade sulla figlia, le salta sopra Paola per tenerla ferma, ma la mamma non muore. Con Mirto le mettono il sacchetto di plastica sulla testa e lo chiudono con una fettuccia e una porzione di prolunga" racconta al Giornale di Brescia. "Mirto Milani mi ha detto che c'è il dubbio che sia stata seppellita viva, senza che loro ne fossero certi. Laura aveva convulsioni lunghe", ha concluso il detenuto. (ANSA).
Omicidio Laura Ziliani: c'è la svolta. Today.it il 25 maggio 2022. Mirto Milani ha confessato l'omicidio dell'ex vigilessa di Temù, avvenuto l'8 maggio di un anno fa: è in carcere dal 24 settembre scorso così come Paola e Silvia Zani, due delle tre figlie.
C'è una importante svolta nelle indagini sull'omicidio di Laura Ziliani. Mirto Milani ha confessato l'omicidio dell'ex vigilessa di Temù, in provincia di Brescia, avvenuto l'8 maggio di un anno fa. L'ha fatto nel corso di un lungo interrogatorio in carcere. che lo stesso ha chiesto dopo la chiusura delle indagini da parte della Procura. Milani, fidanzato della primogenita di Laura Ziliani, è in carcere dal 24 settembre scorso così come Paola e Silvia Zani, due delle tre figlie della vittima. Anche loro hanno chiesto l'interrogatorio.
Secondo la Procura Laura, 55enne vedova, è stata soffocata e poi seppellita tra la vegetazione vicino al fiume Oglio. Si sono ipotizzati motivi di natura economica.
L'omicidio di Laura Ziliani
Era l'8 maggio 2021 quando la donna svaniva nel nulla. Il 23 maggio, ai piedi di un torrente della zona di Temù, era stata trovata una scarpa da montagna forse appartenuta alla donna, che abitava a Brescia ma che nel fine settimana tornava in Vallecamonica per la grande passione della montagna. Ad agosto un turista aveva avvistato un corpo in mezzo alla vegetazione, vicino al fiume Oglio a circa 500 metri più a sud rispetto a dove, nei pressi del torrente Fumeclo, era invece stata recuperata la scarpa. Il cadavere era in avanzato stato di decomposizione.
La ricostruzione del gip nell’ordinanza di arresto era chiara e denunciava gravi colpe dei tre indagati: "Il proposito omicidiario - si leggeva . è il frutto di una lunga premeditazione e di un piano criminoso che ha consentito loro di celare per lungo tempo la morte e di depistare le indagini". Il giudice aveva poi ipotizzato che il movente fosse di natura economica: "I tre indagati avevano un chiaro interesse a sostituirsi a Laura Ziliani nell’amministrazione di un vasto patrimonio immobiliare al fine di risolvere i rispettivi problemi economici". Mirto Milani e Paola e Silvia Zani erano sempre rimasti in silenzio, fino a poco fa.
Omicidio Ziliani, confessa Mirto (il ragazzo della figlia maggiore): «L’abbiamo uccisa noi». Mara Rodella su Il Corriere della Sera il 25 Maggio 2022.
Dopo mesi di silenzio il crollo con il pm. Interrogatorio anche per le due sorelle.
Laura Ziliani aveva 55 anni
La svolta — inattesa e clamorosa — arriva a pochi giorni dalla notifica della chiusura indagini. A oltre un anno dai fatti e otto mesi dopo l’esecuzione delle misure cautelari in cella: il 24 settembre scorso, con la pesantissima accusa dell’omicidio aggravato e l’occultamento del cadavere di Laura Ziliani — ex vigilessa, 55 anni, impiegata comunale a Roncadelle — furono arrestate le figlie Silvia e Paola Zani, 27 e 19 anni, insieme al fidanzato della maggiore (ma anche amante della minore), Mirto Milani, di casa nella Bergamasca. Secondo la procura, la sera del 7 maggio 2021, cioè il giorno prima della denuncia di scomparsa durante una presunta ma inesistente escursione a Temù, l’avrebbero prima sedata e resa quindi incapace di difendersi con i farmaci ansiolitici a base di benzodiazepine, poi soffocata «in modo non violento» e sepolta in riva al fiume Oglio. La piena la restituì tre mesi dopo. Agli atti, peraltro, la scoperta di una seconda «buca», inutilizzata, ma che sarebbe stata scavata la notte del delitto per seppellirci Laura.
Chiusi nel silenzio ufficiale per mesi, eccezion fatta per le poche dichiarazioni di innocenza affidate ora a internet sotto mentite spoglie, ora al parroco del paese, alla fine, sono crollati. Di sicuro l’ha fatto lui, Mirto, l’unico maschio coinvolto in questa vicenda, dal carcere di Canton Mombello dove nelle ultime ore l’ha raggiunto il pm: «Sì, l’abbiamo uccisa», ha confessato nel corso del lungo interrogatorio chiesto dopo la chiusura dell’inchiesta. Davanti agli inquirenti, avrebbe sostanzialmente confermato l’impianto accusatorio emerso dopo i meticolosi e continuativi accertamenti dei carabinieri, coordinati dalla procura. Secondo la quale il movente è economico: il «trio criminale» — così lo definì il gip Alessandra Sabatucci — avrebbe a lungo pianificato l’omicidio cercando di depistare le indagini e dimostrando «efficienza» e «freddezza non comune» al solo scopo di «appropriarsi in via esclusiva del patrimonio familiare».
Nella tarda serata di mercoledì (al momento di andare in stampa) a Verziano anche Silvia e Paola stavano rispondendo da ore al pm Caty Bressanelli. Verosimilmente, sulla falsariga delle dichiarazioni di Mirto: ma il gioco delle parti, in questa fase, è una linea di demarcazione sottilissima tra chi avrebbe deciso cosa ed eventualmente condizionato gli altri. Congetture. Piangevano, le ragazze, nel maggio di un anno fa: «È uscita per un’escursione. Chiunque sappia qualcosa si faccia vivo vi prego», lanciarono l’appello. Non aveva nè gps né telefono, Laura: non era da lei, così prudente e amante delle «sue» montagne. Il 23 maggio di un anno fa nei boschi fu trovata una delle sue scarpe, l’altra due giorni dopo, lontano. Depistaggi, per chi indaga. Lei, che con le sue figlie avrebbe solo voluto trascorrere la festa della mamma.
Delitto Ziliani, confessano le figlie: «Sì, l’abbiamo uccisa insieme». Mara Rodella su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2022.
Brescia, la svolta dopo l’ammissione del fidanzato di una delle ragazze. Per gli inquirenti avrebbero ucciso per la sete di mettere mano sul patrimonio di Laura, vedova dal 2012. «Ma i soldi non c’entrano».
Non solo lui, Mirto Milani. Il «trio criminale» — così lo definì otto mesi fa il gip nella sua ordinanza di custodia cautelare — si sgretola. Ma nel contempo continua a mantenere la stessa linea. Alla fine, anche Silvia e Paola Zani sono crollate, e hanno confessato l’omicidio della madre Laura Ziliani. Dopo un anno chiusi nel silenzio. Mirto Milani, 27 anni, ex tenore e musicista con una laurea in psicologia in tasca, una casa con i genitori residente nella Bergamasca, è stato il primo, martedì, ad ammettere la sua partecipazione nel delitto di Laura: ex vigile di Temù (Brescia), alta Valcamonica, sparì tra le sue amate montagne la mattina dell’8 maggio 2021.
«Sì, l’abbiamo uccisa noi»
«Sì, l’abbiamo uccisa noi. E lo abbiamo fatto insieme», ha ammesso lui in carcere al pm Caty Bressanelli, senza allontanare da sé le responsabilità. Noi, appunto. E cioè lui, insieme alla fidanzata Silvia, figlia maggiore di Laura, impiegata di 27 anni: mercoledì è crollata anche lei, sotto il macigno di una verità mai detta prima nonostante le tante prove raccolte dagli inquirenti. Ha confermato di aver prima pensato, poi messo in atto il delitto, nitida e piuttosto dettagliata la dinamica. E poi c’è lei, la più giovane e, pare, fragile. Paola, la figlia minore di Laura Ziliani: 20 anni compiuti da tre mesi, studentessa modello iscritta a Economia, quando è stata arrestata, come la sorella e Mirto (che pare fosse pure il suo amante) il 24 settembre scorso. Anche lei ha chiesto di essere sentita dal pubblico ministero dopo la chiusura delle indagini: ha parlato per ultima, ieri, fino a tarda sera, per circa cinque ore. E a sua volta ha confessato.
Il nodo del movente
I verbali di tutti sono stati secretati. Se gli indagati hanno in linea di massima tratteggiato l’impianto accusatorio e fornito versioni sostanzialmente sovrapponibili, su un aspetto, invece, l’hanno contraddetto: il movente. Per gli inquirenti avrebbero ucciso per la sete di mettere mano sul patrimonio di Laura, vedova dal 2012, quando il marito, insegnante di Edolo, fu travolto da una slavina in Val d’Avio. I ragazzi (le sorelle soprattutto) avrebbero invece restituito un racconto diverso, più emotivamente coinvolto, ripercorrendo un contesto familiare fatto di tensioni e visioni molto differenti, forse diventato molto difficile. Paola si sarebbe convinta peraltro solo in un secondo momento, ad aderire al piano criminale non inizialmente quindi condiviso.
Il crollo di Mirto
Pensare che Laura, la sera del 7 maggio, aveva annullato una gita con gli amici proprio per trascorrere la festa della mamma con le figlie. Dopo la morte del marito era diventata ancora più prudente: mai sarebbe uscita per un’escursione senza gps o telefonino. Quella maledetta mattina di maggio sì. Mirto, adesso, è ricoverato in ospedale a Brescia: per precauzione. Dopo la confessione ha accusato un cedimento emotivo tale da fargli esternare, almeno a parole, intenzioni autolesioniste.
Soffocata con un cuscino
Secondo il medico legale Andrea Verzeletti, Laura Ziliani sarebbe stata uccisa dopo il suo arrivo a Temù: stordita con una dose di benzodiazepine e poi soffocata con un cuscino «in modo non violento». Il suo corpo fu ritrovato solo tre mesi dopo, l’8 agosto, tra le sterpaglie e i rovi lungo l’argine del fiume Oglio: indossava solo una canotta e un paio di slip. Ma tracce di Laura, i carabinieri ne avevano già: il 23 maggio fu individuata una scarpa destra da trekking riconosciuta come sua nel letto del torrente Fiumeclo, lungo un tratto teoricamente compatibile con il percorso indicato dalle figlie per l’escursione da cui non sarebbe mai rientrata, ma non con la conformazione del corso d’acqua, peraltro già battuto più volte durante le ricerche. Avrebbero nascosto la sinistra due giorni dopo, Mirto e Paola, in un boschetto isolato tra le ortiche, solo per sbarazzarsene: li vide l’occhio curioso di un residente, però, e chiamò le forze dell’ordine. Ma Mirto, Silvia e Paola avrebbero anche resettato gli smartphone, fingendo di averli venduti, prima di consegnarli ai carabinieri.
Un piano lungo e premeditato
Un delitto «frutto di un piano a lungo premeditato», scrisse il gip, «al fine di appropriarsi del patrimonio familiare» per gestirlo in via esclusiva. Furono proprio le figlie, a denunciare tempestivamente la scomparsa di Laura e a lanciare un appello disperato in tv. Venti giorni dopo, intercettate, si complimentavano per il «denaro facile» che di lì a poco avrebbero incassato, pensando all’anticipo per un’auto nuova e a una vacanza. Mirto arrivò addirittura a insinuare che Laura avesse inscenato la sua morte per «fare la bella vita» altrove.
R.I. per “il Messaggero” il 25 maggio 2022.
Svolta nelle indagini sul delitto di Laura Ziliani. Mirto Milani ha confessato l'omicidio dell'ex vigilessa di Temù, in provincia di Brescia, avvenuto l'8 maggio di un anno fa. Lo ha fatto nel corso di un lungo interrogatorio in carcere che lo stesso ha chiesto dopo la chiusura delle indagini da parte della Procura. Milani, fidanzato della primogenita di Laura Ziliani, è in carcere dal 24 settembre scorso così come Paola e Silvia Zani, due delle tre figlie della vittima. Anche loro hanno chiesto l'interrogatorio.
Il corpo della donna era stato rinvenuto l'8 agosto da un bambino che passeggiava lungo la riva del fiume Oglio. Il corpo, in stato di decomposizione e non riconoscibile in volto, indossava solo una canottiera e degli slip, in contrasto con quanto affermato in precedenza dai tre indagati. Una ciste presente sul piede destro e degli orecchini di oro giallo avevano fatto sospettare gli inquirenti che si trattasse proprio della donna scomparsa.
L'analisi del dna ha poi fornito la conferma definitiva. L'autopsia ha rilevato lesioni interne e l'esame tossicologico ha mostrato la presenza di bromazepam nel corpo della vigilessa, che sarebbe stata avvelenata con una tisana.
Dalle indagini sono successivamente emerse numerose anomalie proprio nel racconto fornito dai tre arrestati, «inducendo i carabinieri e la Procura a ritenere poco credibile la versione dell'infortunio o del malore in montagna» da parte della donna. In realtà, secondo la procura, l'omicidio è stato il «frutto di una lunga premeditazione e di un piano criminoso che ha consentito loro di celare per lungo tempo la morte e di depistare le indagini».
Secondo gli inquirenti il movente era di natura economica: «I tre indagati avevano un chiaro interesse a sostituirsi a Laura Ziliani nell'amministrazione di un vasto patrimonio immobiliare al fine di risolvere i rispettivi problemi economici».
Tanto è vero che un'intercettazione telefonica documentava come le sorelle Silvia e Paola, a venti giorni di distanza dalla scomparsa della madre in circostanze misteriose, già si congratulavano l'un l'altra per i soldi che di lì a breve avrebbero incassato, «riuscendo a dare un anticipo per una nuova vettura e probabilmente e anche ad andare in vacanza». Nell'intercettazione del 26 maggio scorso, la più grande dice alla sorella: «...già soltanto con quella paghiamo l'anticipo per un'auto nuova».
E aggiunge: «quella settimana li poi scappiamo...che possiamo praticamente andare in vacanza». L'intercettazione, per gli inquirenti, dimostra «l'assenza di qualsivoglia turbamento circa le sorti della madre», la loro «unica preoccupazione sembrava rivolta agli aspetti economici della vicenda».
I tre, sempre secondo l'accusa, durante la pianificazione dell'uccisione avrebbero consultati dei siti online per raccogliere informazioni su come procedere nell'omicidio.
Secondo gli inquirenti «nel corso di una conversazione registrata il 7 febbraio tra Paola Zani ed un'amica, la prima, interrogata dalla conoscente circa quello che sarebbe potuto uscire dai computer sequestrati presso la loro abitazione, si mostrava preoccupata in quanto su un canale di crime Mirto ha fatto ricerche su come uccidere la gente, piante velenose, crimini perfetti, serial killer, torture. Asserendo che anche la sorella Silvia e lei stessa risultavano iscritte ad un canale di Youtube denominato troucrime a dire della stessa indagata avente contenuto informativo»
Laura Ziliani «drogata e soffocata»: così le figlie e il loro amante fecero sparire l’ex vigilessa. Wilma Petenzi su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2022.
Brescia, chiusa l’inchiesta: «Trio criminale, tutto premeditato». L’accusa: omicidio volontario aggravato. Il corpo era stato sepolto lungo l’argine del fiume Oglio. Il depistaggio.
Era tornata a casa, a Temù, per la «festa della mamma» da trascorrere con le figlie. Oggi, a un anno di distanza, nella stessa identica ricorrenza, due delle tre figlie sono in carcere con l’accusa di averla uccisa: prima sedata, poi soffocata e sepolta in riva al fiume. E dodici mesi dopo quella notte dell’8 maggio di premeditato orrore le figlie della vittima hanno ricevuto la notifica della chiusura indagini. Per la Procura di Brescia non ci sono dubbi: a uccidere Laura Ziliani, ex vigilessa di 55 anni, sono state la figlia maggior Silvia Zani, insieme alla minore Paola e con l’aiuto di Mirto Milani, fidanzato della prima, ma amante di entrambe.
Il «trio criminale»
Al «trio criminale» (così li definì il gip Alessandra Sabatucci) il sostituto procuratore Cati Bressanelli contesta l’omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e l’occultamento del cadavere.
Non restano dubbi all’accusa sulle modalità dell’omicidio. La ricostruzione è ampiamente supportata dalle 103 pagine della relazione del medico legale Andrea Verzelletti, consulente del pm, che ha effettuato l’autopsia. Gli esami tossicologici hanno evidenziato tracce importanti ma «insufficienti a cagionare il decesso diretto» di ansiolitici: la vittima — questa la ricostruzione dell’accusa — prima è stata stordita con benzodiazepine e poi soffocata. A causa dei farmaci l’ex vigilessa non sarebbe stata in grado di difendersi, sarebbe stata praticamente tramortita quando è stata soffocata «in modo non violento», scrive ancora il medico legale nella sua relazione. L’assenza di fratture o lesioni importanti al volto inducono a pensare che la donna sia stata soffocata con un cuscino. Poi il corpo è stato sepolto lungo l’argine del fiume Oglio. E solo una piena del corso d’acqua ha riportato alla luce il corpo, la mattina dell’8 agosto, tre mesi dopo la denuncia di scomparsa fatta ai carabinieri proprio dalle figlie accusate di averla uccisa.
Era stata cercata a lungo l’ex vigilessa, appassionata di escursioni in montagna, sempre pronta a salire sulle sue amate vette. Ma il giorno della morte aveva disdetto una gita con gli amici perché voleva festeggiare con le sue figliole. Silvia e Paola avevano anche preparato una torta, ma il dolce è rimasto in frigorifero, una sorta di alibi da mostrare a una vicina — ci pensò Mirto — per rafforzare il senso di angosciosa attesa e allontanare qualsiasi possibile sospetto. Avevano anche pianto le figlie chiedendo aiuto: «È uscita per un’escursione, deve esserle capitato qualcosa». Ma Ziliani, sempre prudente nelle sue uscite — soprattutto dopo la morte del marito nel 2012 travolto da una valanga —, non aveva portato né il cellulare né l’orologio con il gps. Il 23 maggio nei boschi fuori Temù, viene trovata una scarpa da trekking dell’ex vigilessa, due giorni dopo il ritrovamento della calzatura gemella, ma un passante riferisce ai carabinieri di aver visto aggirarsi in zona un ragazzo e una ragazza. Ritrovamenti anomali, la Procura comincia a nutrire sospetti sul trio: il passaggio della loro auto è rilevato sia il 23 che il 25 da telecamere poste sulla strada che da Brescia porta all’alta Valcamonica.
«Piano premeditato»
La piena dell’Oglio fa ritrovare il corpo vestito solo con biancheria intima, un abbigliamento decisamente incompatibile con un’escursione in montagna. Tutti gli indizi portano a Silvia e Paola Zani e a Mirto Milani. Un delitto «frutto di un piano a lungo premeditato», scrisse il gip. Per il pm avevano già provato a uccidere la madre, ma senza riuscirci. Un mese dopo il bis. per appropriarsi del patrimonio di famiglia. Ora la Procura è pronta a chiedere il rinvio a giudizio.
Delitto Ziliani, i verbali choc: «Strozzata con le nostre mani». Avevano già provato a ucciderla. Mara Rodella su Il Corriere della Sera il 27 maggio 2022.
Non era soltanto una «prova» di avvelenamento, per testare i dosaggi e gli effetti degli ansiolitici, circa tre settimane prima dall’omicidio. Ma un tentativo vero e proprio di omicidio. L’hanno ammesso, Silvia e Paola Zani, e Mirto Milani (fidanzato della prima e amante della seconda), nei lunghi interrogatori al pm in carcere: «Ad uccidere Laura, ci avevamo già provato, a metà aprile, mettendo i farmaci in una tisana dopo cena». Ma qualcosa è andato storto. Sarebbe stato proprio Mirto, all’epoca il meno convinto, a tirarsi indietro: «Non sono riuscito ad andare fino in fondo, ho avuto paura». Non quella volta, quantomeno. E sempre stando alle confessioni del «trio criminale» — rese in questi giorni dopo la chiusura dell’inchiesta a loro carico — è proprio allora, che hanno «scavato la fossa nel bosco» trovata poi dai carabinieri nel corso delle indagini, a pochi metri dal punto in cui il corpo di Laura Ziliani, ex vigilessa, vedova, e impiegata comunale a Roncadelle (Brescia) fu restituito dalla piena dell’Oglio tra le sterpaglie e i rovi, l’8 agosto di un anno fa. Troppo piccola, poco profonda e difficile da coprire in modo definitivo, però: i ragazzi non l’hanno mai usata.
Un omicidio «a lungo premeditato»
Fu la stessa Laura, in aprile, a raccontare di quella sonnolenza insistente e della spossatezza prolungata per circa 48 ore. Non le era mai capitato prima. Anche il compagno confermò le sue «condizioni del tutto anomale» per due giorni. Non solo «un prodromo», come ipotizzò il pm Caty Bressanelli nella sua richiesta di custodia cautelare, ma un precedente concreto. Sfumato per il mancato coraggio di , ancora in ospedale proprio a seguito di un crollo emotivo dopo la confessione. Lui, l’anello debole, almeno nella prima fase di «progettazione» del piano omicida, che si convincerà però a stretto giro. E di Laura, la più ferma, lucida e determinata, pare: è stata lei, impiegata ed ex fisioterapista, a procurare le benzodiazepine. , studentessa schiva e riservata, inizialmente perplessa, a sua volta non ci avrebbe messo molto a diventare complice attiva.
Strozzata con le mani
Fotocopia del tentativo sfumato, l’omicidio premeditato — per il gip «a lungo pianificato» — i ragazzi lo portarono a termine la sera del 7 maggio, sempre nella casa di Temù. «Le abbiamo dato la tisana», hanno confermato, aggiungendo poi una serie di dettagli (pressoché sovrapponibili nelle tre versioni) crudi e feroci sulla dinamica. Perché Laura Ziliani, secondo la loro versione, non sarebbe stata sedata e soffocata. Una volta resa inerme dagli ansiolitici, «le abbiamo messo un sacchetto in testa e abbiamo provato a strangolarla con una fettuccia in velcro». Ma non ha funzionato. La sete d’aria ha provocato le convulsioni, si agitava, Laura. Non moriva. «»: quelle mani, al collo di Laura Ziliani, dicono di averle strette Silvia e Mirto. Poi, in auto, di notte, l’hanno trasportata lungo l’argine del fiume. Costretti dalle difficoltà a cambiare strategia, non hanno utilizzato quella «buca» precedentemente preparata, ma hanno occultato il corpo di Laura — addosso solo una canotta e un paio di slip — sotto la terra e la fittissima vegetazione.
I rapporti «tesissimi» in famiglia
Non hanno ucciso per soldi, assicurano tutti e tre. Le ragazze raccontano di «rapporti famigliari tesissimi, logori da tempo» e contrapposizioni molto forti con una madre dura, «che ci faceva sentire sbagliate, inadeguate»: che, stando al loro sfogo arrabbiato, le avrebbe perennemente sminuite a fronte, invece, dei tanti risultati che lei aveva ottenuto nel corso della sua vita, della sua posizione, la sua ricchezza, il suo bell’aspetto. A dispetto delle figlie che, al contrario, svogliate e includenti, non si erano ancora «sistemate». Non ce la facevano più, avrebbero detto agli inquirenti. Stando a questa versione — inverosimile per chi indaga — Mirto però non ci avrebbe guadagnato nulla: «L’ho fatto per amore, per Silvia, era la mia ragazza...» ha spiegato in lacrime. Lui, ad oggi, sembra davvero il più provato ed emotivamente distrutto, dopo otto mesi in carcere. Dopo essersi chiusi nel silenzio, hanno deciso di parlare e ammettere le proprie responsabilità a un anno dai fatti e in prossimità della richiesta di rinvio a giudizio. Non è escluso che, a fronte della mole di prove raccolte a carico, si siano davvero sentiti con le spalle al muro.
Omicidio di Laura Ziliani, confessa Mirto Milani: è il fidanzato di una delle figlie dell'ex vigilessa. La Repubblica il 25 Maggio 2022.
Milani, fidanzato della primogenita di Laura Ziliani, è in carcere dal 24 settembre scorso così come Paola e Silvia Zani, due delle tre figlie della vittima. Ha confessato l'omicidio dell'ex vigilessa di Temù, nel Bresciano, avvenuto l'8 maggio di un anno fa.
Svolta nelle indagini sul delitto di Laura Ziliani. Mirto Milani ha confessato l'omicidio dell'ex vigilessa di Temù, in provincia di Brescia, avvenuto l'8 maggio di un anno fa. Lo ha fatto nel corso di un lungo interrogatorio in carcere che lo stesso ha chiesto dopo la chiusura delle indagini da parte della Procura.
Milani, fidanzato della primogenita di Laura Ziliani (ma anche amante dell'altra), è in carcere dal 24 settembre scorso così come Paola e Silvia Zani, due delle tre figlie della vittima. Anche loro hanno chiesto l'interrogatorio.
La confessione arriva dopo mesi di silenzio. Il corpo della donna, irriconoscibile, era stato ritrovato tra la vegetazione vicino al paese della Valcamonica all'inizio di agosto del 2021, in un punto in cui le ricerche si erano concentrate a lungo dopo che Ziliani era stata dichiarata dispersa. Era stato l'esame del Dna a confermare che era lei.
Silvia e Paola Zani, 27 e 19 anni, due delle tre figlie della donna e Mirto Milani a settembre erano stati accusati di omicidio volontario, aggravato dalla relazione di parentela con la vittima, e di occultamento di cadavere.
Fin dall'inizio gli investigatori si erano concentrati sull'ipotesi di un omicidio per soldi. Il "trio criminale", come venne definito nelle carte dell'inchiesta, avrebbe voluto gestire in proprio le proprietà della donna, senza dividerle con la terza sorella Lucia, portatrice di handicap, e con gli altri parenti che ne sospettavano le brame. Un piano "frutto di una lunga premeditazione - scrisse la pm bresciana Alessandra Sabbatucci - che ha permesso ai tre indagati di organizzare un piano criminoso che ha permesso loro di celare per lungo tempo la morte della donna e di depistare le indagini a loro carico".
E ancora: dopo aver ucciso l'ex vigilessa - sedata e quindi soffocata - in una sola notte gli arrestati "si sono liberati del cadavere della vittima e, il mattino successivo, hanno iniziato a chiamare i soccorsi e portato avanti una ricostruzione del tutto alternativa dei fatti, anche a fronte delle indagini dei Carabinieri, dimostrando una non comune freddezza a dispetto della giovane età e dell'incensuratezza".
Luca De Vito per repubblica.it il 26 maggio 2022.
E' lui che ha provato per settimane a depistare le indagini. Un castello di bugie, frasi dette al telefono proprio immaginando di essere intercettato, per ipotizzare uno scenario completamente diverso dalla realtà. Mirto Milani è una figura centrale nell'omicidio di Laura Ziliani, l'ex vigilessa di Temù scomparsa l'8 maggio scorso e ritrovata morta tre mesi dopo in un bosco non lontano da casa sua, in Valcamonica.
Fidanzato della figlia più grande della donna, Silvia Zani, e amante della terza figlia, Paola. Tutti e tre accusati di un omicidio a lungo premeditato, ed è lui il primo ad aver ceduto e confessato coinvolgendo le due sorelle, dopo mesi di carcere - i tre erano stati arrestati a settembre - e dopo che le indagini sono già state chiuse, cristallizzando ruoli e fasi dell'omicidio pensato e voluto per soldi. Anche Silvia è stata interrogata ieri sera tardi e il suo verbale è stato secretato, mentre Paola verrà ascoltata oggi in carcere.
Tra le novità emerse - come riferito dal Giornale di Brescia - c'è anche una fossa trovata a pochi metri di distanza dal luogo dove poi è stato rivenuto il cadavere di Laura Ziliani l'8 agosto scorso e che, secondo gli inquirenti, era stata scavata per contenere in un primo tempo il cadavere.
Mirto Milani, sopranista 28enne nato a Calolziocorte, nel Lecchese, ma residente a Roncola San Bernardo, nella Bergamasca, laurea in Psicologia e studi al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, aveva conosciuto Silvia Zani dieci anni prima durante una vacanza studio nel Regno Unito.
Viene descritto dagli inquirenti come un "manipolatore". Il 31 maggio, quando Laura Ziliani era già morta da settimane, parlando al telefono con un amico ipotizza una fuga volontaria della donna: "Io ci sto pensando ultimamente che magari Laura ha dirottato nel corso del tempo dei soldi su un altro conto e ora si sta facendo la bella vita da qualche parte".
E aggiunge, disegnando una responsabilità della donna, che la fuga fosse legata a questioni economiche: "La situazione era disastrosa, lei spendeva più di quello che prendeva". Con l'offesa finale di un finto dispiacere: "Io alla fine le volevo un gran bene, era una bravissima persona e voleva molto bene alle sue figlie". Tutto falso, tutto costruito per nascondere quanto era accaduto.
Omicidio Laura Ziliani, la denuncia di scomparsa e le prime indagini
Le indagini hanno stabilito che Laura Ziliani, 55enne ex vigilessa amante della montagna, vedova dal 2012 - quando suo marito Enrico Zani muore travolto da una valanga - è stata uccisa la sera del 7 maggio. La mattina successiva alle 12 le due figlie Silvia e Paola - della terza, Lucia, totalmente estranea ai fatti, parleremo dopo - fanno una sollecita denuncia di scomparsa ai carabinieri: raccontano che la madre era uscita presto di mattina per una escursione nei boschi vicini e che avrebbe dovuto rientrare entro le 10 per andare con loro all'isola ecologica a portare dei vecchi mobili. Le due sorelle, 27 e 19 anni, vivevano assieme in un appartamento di Temù, nel Bresciano, mentre la madre viveva con Lucia in un altro. Le due ragazze ipotizzano che la madre abbia avuto un incidente durante l'escursione, così partono le ricerche, i boschi vengono setacciati ma niente. Le due, sui social e in tv, si mostrano disperate e fanno appelli per ritrovare la madre. Agli investigatori, in interrogatori sempre più pieni di incongruenze, raccontano di aver visto la madre parlare al cellulare la mattina alle 7, ma quel cellulare risulta spento dalla sera prima e verrà poi trovato sotto una panca in cantina.
Dopo tre mesi ritrovato il corpo di Laura Ziliani, l'ex vigilessa di Temù
Passano tre mesi, è l'8 agosto - le due figlie e Mirto Milani sono già iscritti nel registro degli indagati - quando una piena del fiume Oglio riporta il corpo di Laura Ziliani, a poche centinaia di metri da casa sua. A trovarlo è un bambino che sta passeggiando con suo padre.
Addosso ha soltanto slip e canottiera, è irriconoscibile se non per gli orecchini e una cisti sotto il piede, bisogna aspettare l'analisi del Dna per la conferma. Il 23 maggio era stata ritrovata una delle scarpe da camminata della donna in un altro punto del bosco, e a inizio giugno i suoi abiti - gli stessi che le figlie avevano descritto - e l'altra scarpa in un altro punto. Ma il 25 maggio un residente di Temù aveva detto ai carabinieri di aver visto Mirto e Silvia addentrarsi nel bosco, proprio dove poi vengono ritrovati i vestiti. Tutti tentativi goffi di depistare le indagini, spostando l'attenzione lontano dal punto dove la donna era stata portata.
Il 22 luglio i tre si presentano in caserma e consegnano i cellulari, che però sono stati resettati alle impostazioni di fabbrica. La scusa data dalla sorella più grande è di non voler mostrare suoi video intimi con il fidanzato e che si scoprisse che si era iscritta a un sito di scambisti, la scusa della minore è di non voler far leggere i messaggi che provano la relazione clandestina con il fidanzato della sorella. Paola, al telefono con una amica, dirà di essere preoccupata da quello che sarebbe potuto saltare fuori dai computer sequestrati, sostenendo che Mirto aveva fatto ricerche su come commettere omicidi e che lei e la sorella si erano iscritte a un canale Youtube chiamato "Truecrime".
Laura Ziliani, ecco come è stata uccisa dalle figlie e da Mirto Milani
Ma come è stata uccisa Laura Ziliani? La ricostruzione fatta dagli inquirenti dice che la sera del 7 maggio la donna viene prima stordita con benzodiazepine probabilmente assunte con una tisana: un flacone pieno per un terzo di tranquillante verrà ritrovato nell'appartamento dove le due ragazze vivono con Mirto Milani.
A procurarsi il farmaco potrebbe essere stata Silvia, dipendente di una casa di riposo. Una vicina di casa racconterà che a metà aprile Laura Ziliani le aveva confidato di essere stata male dopo una cena in famiglia, tanto da dormire per 48 ore consecutive: potrebbe essere stato il primo tentativo di ucciderla. Lo faranno la sera del 7 maggio: quando la donna è ormai priva di sensi viene soffocata.
Perché è stata uccisa? Il movente è economico. Laura Ziliani aveva chiesto alle figlie di investire i 40mila euro ricevuti come eredità dal padre per la ristrutturazione di alcuni appartamenti che aveva dato in affitto. La madre della donna racconterà che la figlia era preoccupata per le continue intromissioni di Mirto e di sua madre nella gestione di questi appartamenti. Il 26 maggio, quando la madre è ufficialmente scomparsa da meno di 20 giorni e le ricerche sono in corso, le due sorelle e Milani concludono la trattativa per affittare un altro appartamento e al telefono le due sorelle si congratulano per i soldi che di lì a breve avrebbero incassato, potendo così dare l'anticipo per l'acquisto di una nuova auto e per andare in vacanza.
Omicidio Laura Ziliani, la terza figlia Lucia è la vittima "collaterale"
"I tre indagati avevano un chiaro interesse a sostituirsi a Laura Ziliani nell'amministrazione di un vasto patrimonio immobiliare al fine di risolvere i rispettivi problemi economici", scriverà la giudice delle indagini preliminari Alessandra Sabatucci nell'ordinanza di arresto. "Il proposito omicidiario è il frutto di una lunga premeditazione che ha permesso ai tre indagati di organizzare un piano criminoso che ha consentito loro di celare per lungo tempo la morte della donna e di depistare le indagini a loro carico".
Mirto Milani, in quelle pagine, viene descritto come il manipolatore delle sorelle che "non riuscendo per motivi caratteriali a contrastare la volontà materna, hanno preferito sopprimere la genitrice piuttosto che dissentire apertamente con lei circa la gestione di un cospicuo patrimonio immobiliare". I tre, si legge ancora, hanno dimostrato una "non comune freddezza a dispetto della giovane età e dell'incensuratezza".
C'è un'altra vittima in questa storia. E' Lucia, la seconda figlia di Laura Ziliani, che ha un lieve ritardo cognitivo e ha sempre vissuto in un legame di stretta dipendenza da sua madre. Agli investigatori racconterà che non si fidava più delle sorelle, che erano cattive con lei, e che Mirto "era un cretino".
La gip scrive su di lei: "La condotta, già di per sé di indicibile gravità, risulta ancor più odiosa ove si ponga mente al fatto che, così agendo, gli indagati hanno privato Zani Lucia, soggetto disabile e in tutto dipendente dalla madre, dell’unico genitore superstite". Lucia Zani, adesso, vive con la nonna materna.
Pierangelo Sapegno per “La Stampa” il 27 maggio 2022.
Prima ha confessato lui, studi al conservatorio, laurea in psicologia e tesi sui disabili, il volto un po' sciupato, barba di tre giorni e sguardo languido, da artista stanco. E poi le due sorelle, che erano la sua fidanzata e la sua amante.
Hanno ucciso loro, tutti insieme, la madre delle ragazze, Laura Ziliani, ex vigilessa, 55 anni, che amava la montagna e il silenzio dei boschi che salgono da Roncadelle, alle porte di Brescia.
Il movente è sempre lo stesso, il danaro, una vita diversa. Non bisogna andar lontano a cercare la banalità del male. La provincia a volte è così crudele che ci appare più diversa di quel che crediamo, con il suo placido e sonnolento consumismo, i suoi peccati nascosti e i suoi triangoli segreti.
Invece, è qui accanto a noi, ci viviamo insieme. E racconta ancora una favola nera come questa. I suoi personaggi sono quasi delle figure anonime che diventano fredde e spietate.
Le due ragazze, Silvia e Paola Zani, hanno facce che si perdono nella folla, così comuni, quasi invisibili.
Lui, Mirto Milani, da bambino faceva il chierichetto. E adesso ogni domenica suonava la chitarra e cantava la Messa nella chiesa di Don Andrea Pedretti. Chi lo conosce dice che non sembrava un cattivo ragazzo, «solo che aveva l'ossessione dei soldi».
Una mattina si era lamentato con don Andrea, perché diceva che sui giornali lo avevano descritto «come un mostro, ma io in questa storia non c'entro niente».
Era cominciata il 7 maggio dell'anno scorso, quando Laura Ziliani era scomparsa.
Il mattino dopo le due figlie erano andate dai carabinieri per fare la denuncia. A casa loro il maresciallo vede una grande torta in cucina: «Mamma doveva tornare ieri sera, l'avevamo preparata per lei», dicono le due.
Silvia ha 27 anni ed è una fisioterapista. L'altra va per i venti e studia economia e commercio. I militari fanno come si fa sempre, si fanno ripetere la storia un mucchio di volte e loro cadono in qualche contraddizione.
E poi i carabinieri sono come i parroci nei paesi, certe cose le annusano. E hanno annusato subito che c'era qualcosa che non quadrava. Mirto, che secondo l'accusa è il regista e «il manipolatore» delle ragazze, continua a ripeter loro di mostrarsi disperate in giro.
Al telefono con un amico inventa una strana trama: «Io ci sto pensando e mi sono quasi convinto che Laura nel tempo ha dirottato dei soldi su un altro conto e ora si sta facendo la bella vita. La sua situazione era disastrosa. Lei spendeva più di quello che prendeva».
Poi fa il bravo ragazzo, che è quello che ha sempre fatto: «Io le volevo un gran bene, era una bravissima persona ed era molto affezionata alle figlie». Paola e Silvia intanto si spendono sui social e in tv, a fare appelli, disperate.
Raccontano che l'ultima volta che hanno visto la mamma, lei stava parlando al telefonino con qualcuno e lo stava facendo quasi di nascosto. È un altro errore: quel cellulare i carabinieri lo ritrovano sotto una panca in cantina, e la sera della scomparsa era spento: nessuna telefonata.
L'8 agosto, la piena del fiume Oglio restituisce da un nascondiglio di foglie e frasche il corpo senza vita di Laura Ziliani, con addosso solo le mutandine e una canottiera. E qualche tempo dopo trovano una sua scarpa abbandonata nel bosco e poi, non troppo distante, degli abiti sotto a dei cespugli. Altra coincidenza: un testimone aveva raccontato di aver visto una sera Mirto e Silvia addentrarsi proprio in quel punto.
Cominciano a essere tanti i tasselli per sospettare di loro. I carabinieri decidono di sequestrare i cellulari. I tre glieli consegnano il 22 luglio, però sono stati resettati. Una, la più grande, dice che l'ha fatto perché c'erano dei video intimi con il suo Mirto e poi non voleva che si scoprisse che si erano iscritti a un sito di scambisti.
L'altra, Paola, per nascondere la relazione clandestina con il fidanzato della sorella. Ma i carabinieri sequestrano anche i computer, e la più piccola si spaventa: al telefono dice di essere preoccupata perché lì dentro Mirto aveva fatto delle ricerche su come commettere degli omicidi cercando di compiere il delitto perfetto.
E lei aveva invece navigato su un canale Youtube chiamato «Truecrime». L'autopsia adesso ha svelato come è stata uccisa la loro madre. Prima è stata stordita con una gran dose di benzodiazepine dentro alla sua tisana, un medicinale che addormenta i sensi e toglie ogni capacità di reagire.
E poi soffocata, forse con un cuscino. La vittima aveva molte proprietà immobiliari e qualcuno dice che Mirto adesso stia cercando di piazzarle. Laura Ziliani, vedova dal 2012, quando il marito Franco Zani era morto sotto una valanga, aveva anche un'altra figlia, Lucia, che è la seconda vittima di questa storia, una ragazza con un lieve ritardo cognitivo, che aveva con la mamma un legame strettissimo perché dipendeva molto da lei. Adesso è rimasta senza.
Quando i carabinieri la ascoltano, dice che non si è mai fidata di «quelle due» e che erano «cattive». Anche Mirto. Lui, poi, era pure «cretino». Il 24 settembre gli inquirenti sono convinti di aver un impianto accusatorio abbastanza solido e di aver chiuso i conti.
I tre vengono arrestati. Lui dopo la confessione ha tentato il suicidio, Silvia e Paola sono entrate nel carcere femminile di Brescia tenendosi per mano. Come due bambine spaventate.
Perché questa è la banalità del male, che non possiede né una profondità, né una dimensione demoniaca, come diceva Hannah Arendt. Sono le azioni che sono mostruose. Chi le compie è pressoché normale, due facce come queste che hai incontrato da qualche parte nell'emporio della vita e che non ricordi nemmeno più. Solo che non c'è un mare per cancellare quello che hanno fatto.
Caso Ziliani, il "trio diabolico" verso il processo. Giuseppe Spatola l'8 Maggio 2022 su Il Giornale.
Da un anno si rincorre la verità sulla scomparsa di Laura Ziliani, l’ex vigilessa bresciana sparita nel nulla l’8 maggio del 2021 e ritrovata cadavere la scorsa estate.
Da un anno si rincorre la verità sulla scomparsa di Laura Ziliani, l’ex vigilessa bresciana sparita nel nulla l’8 maggio del 2021 e ritrovata cadavere la scorsa estate. Entro fine mese due delle tre figlie della donna che viveva a Temù in Valcamonica, e il fidanzato della maggiore potranno finire a processo dopo la chiusura delle indagini da parte della Procura. Gli inquirenti contestano ai tre i reati di omicidio volontario e occultamento di cadavere. Era l'otto maggio infatti quando alle 11.58, Silvia Zani, la figlia maggiore, aveva lanciato l'allarme. "Mamma e' uscita di casa da sola verso le sette circa per andare a fare una passeggiata a Villa Dalegno - aveva fatto mettere a verbale ai Carabinieri -. Non aveva il telefono e sarebbe dovuta rientrare alle dieci perché dovevamo andare insieme alla discarica per smaltire vecchio materiale".
Così è iniziato il giallo e le ricerche proseguite poi per settimane. A Temù nessuno trova traccia della donna e dopo settimane, in cui viene ritrovata vicino al fiume soltanto una scarpa che secondo chi indaga è stata messa per depistare le indagini, Paola e Silvia Zani e Mirto Milani vengono iscritti nel registro degli indagati. Il 24 settembre finiranno poi in carcere visto che l'8 agosto il cadavere di Laura Ziliani viene trovato tra la vegetazione vicino al fiume Oglio vicino al paese della scomparsa. Il medico legale che eseguito l'autopsia ha stabilito che "la causa del decesso è da identificarsi in una asfissia meccanica da chiusura delle aperture aeree in un soggetto sotto l'influenza di benzodiazepine".
Come dire che Laura Ziliani sarebbe quindi stata prima stordita con tranquillanti a base di benzodiazepine e poi soffocata con un oggetto soffice, presumibilmente un cuscino. E infine sepolta. Una tomba in riva al fiume che la siccità della scorsa estate ha portato alla luce. "In prossimità dell'argine del fiume Oglio e - ha sottolineato il medico legale - ricoperta da materiale sabbioso con il disseppellimento del cadavere avvenuto a seguito di un'onda circa tre giorni prima del rinvenimento". Quello che gli inquirenti hanno definito "il trio criminale" avrebbe ucciso Laura Ziliani "per mettere le mani sull'importante patrimonio immobiliare della donna", scrisse il gip nell'ordinanza di custodia cautelare.
Paola e Silvia Zani e Mirto Milnai si sono chiusi nel silenzio, a partire dall'interrogatorio di garanzia quando davanti al gip decisero di avvalersi della facoltà di non rispondere. Ora, dopo la chiusura indagini, avranno 20 giorni di tempo per farsi ascoltare dal pm titolare dell'inchiesta Caty Bressanelli o per presentare memoria scritta. Tutto a un anno dalla scomparsa della donna con i tre accusati che hanno presentato un esposto alla Procura di Venezia per denunciare una presunta fuga di notizie.
Stordita coi farmaci, soffocata e sepolta: così è morta l'ex vigilessa. Giuseppe Spatola il 13 Gennaio 2022 su Il Giornale.
L'autopsia ha consentito di ricostruire la dinamica della morte di Laura Ziliani, l'ex vigilessa scomparsa a maggio e trovata cadavere ad agosto. In carcere da settembre due figlie e il genero accusati di omicidio e occultamento di cadavere.
Soffocata durante il sonno profondo indotto con medicinali quindi sepolta per nascondere le prove del delitto. Il giallo della morte di Laura Ziliani, vigilessa bresciana scomparsa in alta Vallecamonica a maggio e ritrovata cadavere ad agosto, è arrivato a una svolta grazie all'autopsia eseguita dal professor Andrea Verzeletti, direttore della Medicina legale degli Spedali civili di Brescia. Nelle scorse ore Verzelletti avrebbe consegnato il risultato dell'esame autoptico alla pm Caty Bressanelli. La donna scomparve l'8 maggio a Temù, in alta val Camonica, durante una passeggiata e il suo corpo venne ritrovato 3 mesi più tardi. Dal 24 settembre, su ordine del gip di Brescia sono in carcere le due figlie di Ziliani, di 26 e 19 anni, e il fidanzato della sorella maggiore, ritenuto l'ispiratore del delitto. La donna sarebbe stata uccisa per ottenere l'eredità.
L'autopsia risolve la dinamica
Secondo quanto emerso dagli esami e poi ricostruito dagli stessi medici, la vittima prima sarebbe stata stordita con ansiolitici quindi soffocata in “modo non violento“ quando non era in grado di reagire e opporsi. A confermare l’ipotesi investigativa l’alta percentuale di "composto avente azione ansiolitica e ipnoinduttrice" trovato nel corpo della 55enne durante i primi esami autoptici. Non solo. I medici hanno confermato come “la quantità di farmaci, seppur estesa alla maggior parte degli organi, non era sufficiente a provocare la morte“. Tanto ha indotto i medici legali ad escludere che i farmaci da soli “possano avere avuto un ruolo diretto nel determinare l’arresto delle funzioni vitali di Laura Ziliani“. Sul corpo non sono stati evidenziati segni di violenza e neppure fratture e da qui si è ricostruito come la morte sia sopraggiunta per soffocamento.
Il mistero del cadavere conservato
Malgrado fossero passati tre mesi dalla scomparsa, quando il corpo della vittima è stato trovato lungo la pista ciclabile di Temù sepolto sotto un leggero strato di terra era ancora ben conservato. L’analisi dei tessuti prelevati in fase di autopsia ha stabilito, anche grazie ad accertamenti effettuati utilizzando delle larve, che il cadavere sia rimasto sepolto. Particolare che avrebbe contributo alla conservazione dei tessuti. L’omicidio sarebbe avvenuto nella notte tra il sette e l’otto maggio nell’abitazione di via Ballardini a Temù dove Laura Ziliani era arrivata da Brescia il venerdì sera. Adesso, con il deposito della relazione dell’autopsia, i parenti hanno chiesto il dissequestro della salma per poterle dare una degna sepoltura mentre dal 24 settembre scorso due figlie e il genero sono in carcere e dovranno rispondere di omicidio e occultamento di cadavere.
Giuseppe Spatola. Sono nato a Modica (Ragusa) il 28 ottobre 1975 e subito adottato dalla Lombardia dove ho vissuto tra Vallecamonica, Milano, Pavia e lago di Garda bresciano. Giornalista professionista, sono sposato con una collega, Carla Bruni, e ho due figlie, Ginevra e Beatrice, con cui vivo a Desenzano insieme a due cani e quattro gatti. Ho frequentato la facoltà di Scienze Politiche a Pavia e il corso triennale in Sociologia dell'Ateneo di Chieti. Già consigliere nazionale dell'ordine dei giornalisti, segretario della commissione ricorsi, sono stato anche consigliere dell’Associazione Lombarda dei giornalisti e consigliere regionale dell'Ordine. Premio cronista dell'anno con menzione
· Il Caso Teodosio Losito.
Giuseppe Scarpa per "la Repubblica – Roma" il 30 novembre 2022.
Ha falsificato il testamento di Teodosio Losito, 53 anni, produttore televisivo, sceneggiatore e cantante. Si sarebbe impossessato di un patrimonio milionario. Lo avrebbe fatto scrivendo, di suo pugno, l'intero documento dopo la morte tragica del compagno avvenuta l'8 gennaio del 2019.
Questa l'accusa della procura nei confronti di Alberto Tarallo, 69 anni produttore cinematografico. Il pubblico ministero lo mette nel mirino per falsità in testamento olografo e falsità in scrittura privata. Una doppia imputazione per cui è arrivata la chiusura delle indagini. È l'ennesimo colpo di scena di una telenovela giudiziaria.
"L'Ares gate", come è stato ribattezzato il caso, dal nome della casa di produzione che per anni ha dominato il palinsesto dalle reti Mediaset con serie televisive di successo.
Il patron dell'Ares, Tarallo, è uscito indenne dall'indagine madre. Quella che l'avrebbe dovuto portare a processo per istigazione al suicidio. L'inchiesta si è conclusa con un nulla di fatto. La procura ha escluso l'ipotesi peggiore. Tarallo non avrebbe spinto Losito a togliersi la vita. Dopo una sfilza di interrogatori di vip, Adua Del Vesco, Massimiliano Morra, Manuela Arcuri, Barbara D'Urso, Rosalinda Cannavò, Giuliana De Sio, Nancy Brilli, Eva Grimaldi e Gabriel Garko, gli inquirenti si sono decisi a chiedere l'archiviazione del caso.
Ma questo è solo un capitolo. Un pezzo del complicato puzzle su cui hanno lavorato il sostituto procuratore Carlo Villani e la guardia di finanza. Perché, accanto all'ipotesi ( categoricamente esclusa) di aver spinto Losito a farla finita, è rimasta in piedi l'altra accusa. Quella di aver scritto un testamento olografo falso, datato 24 febbraio 2017, con tanto di firma apocrifa. Tarallo avrebbe copiato la calligrafia del suo compagno di vita per oltre vent' anni nonché socio della Ares Film, con cui hanno realizzato decine di fiction di successo. Cosa avrebbe fatto Tarallo secondo i pm? Si sarebbe intestato tutto ciò che apparteneva a Losito. Un patrimonio milionario.
Lo avrebbe fatto depositando un documento contraffatto al notaio Claudio Cerini il 29 gennaio del 2019. Ovvero 21 giorni dopo il più tragico degli epiloghi. Il suicidio di Losito avvenuto nella villa a Zagarolo in cui viveva la coppia.
Adesso, salvo nuovi e clamorosi colpi di scena, si profila all'orizzonte un processo per Tarallo. Ma sarà un dibattimento complicato. In salita per l'accusa. Perché la Cassazione, lo scorso settembre, ha dato ragione ai legali del 69enne produttore cinematografico. I giudici hanno dissequestrato i beni di sua proprietà - per un totale di 5 milioni di euro - smantellando l'ipotesi di falsificazione del testamento dello sceneggiatore Losito. Adesso gli avvocati che difendono Tarallo, Daria Pesce e Franco Coppi (che raggiunto telefonicamente non ha voluto commentare), affilano le armi. Il caso " Ares gate" promette nuove puntate in tribunale.
"Losito costretto a tatuarsi la scritta 'Property of Alberto Tarallo'. L'estetista dei vip rivela le angherie del patron della Ares Film. Andrea Ossino su La Repubblica il 9 Novembre 2022.
Le accuse della beauty coach Brigitte Simona Valesch negli atti del pm: "Nella villa di Zagarolo tutti gli attori venivano trattati come burattini e sottoposti a pressioni psicologiche sull’alimentazione, sull'abbigliamento e lo stile di vita da seguire"
“Property of Alberto Tarallo”. Una scritta tatuata sul corpo di Teodosio Losito rivela il rapporto tra il patron della Ares Film e le persone che lo circondavano negli anni d’oro vissuti dalla casa di produzione cinematografica: “Erano tutti dei burattini di Alberto Tarallo”, spiega ai pm Brigitte Simona Valesch, l’estetista dei vip, raccontando che gli attori della scuderia Ares le avrebbero detto di come “presso la villa di Zagarolo dove vivevano Alberto e Teo c’erano molti ragazzi giovani, aspiranti attori che vivevano lì ed erano sottoposti a un sorta di scuola di recitazione… Vivevano tutti sotto l’egemonia di Alberto Tarallo, il quale esercitava sugli stessi molte pressioni psicologiche, dall’alimentazione allo stile di vita, all’abbigliamento”.
Andrea Ossino per “la Repubblica - Edizione Roma” il 9 novembre 2022.
"Property of Alberto Tarallo". Una scritta tatuata sul corpo di Teodosio Losito rivela il rapporto tra il patron della Ares Film e le persone che lo circondavano negli anni d'oro vissuti dalla casa di produzione cinematografica: «Erano tutti dei burattini di Alberto Tarallo», spiega ai pm Brigitte Simona Valesch, l'estetista dei vip, raccontando che gli attori della scuderia Ares le avrebbero detto di come «presso la villa di Zagarolo dove vivevano Alberto e Teo c'erano molti ragazzi giovani, aspiranti attori che vivevano lì ed erano sottoposti a un sorta di scuola di recitazione. vivevano tutti sotto l'egemonia di Alberto Tarallo, il quale esercitava sugli stessi molte pressioni psicologiche, dall'alimentazione allo stile di vita, all'abbigliamento» . Lo stesso tatuaggio di Losito «fu fatto senza la consapevolezza di Teo, da quanto mi disse Teo, il quale fu invitato da Alberto a farsi tatuare una scritta a sorpresa», dichiara la beauty coach.
Tarallo ha negato quanto raccontato dalla donna, ma la signora Valesch, che vanta esperienze televisive con Ilary Blasi e collaborazioni con marchi del calibro di Chanel e Dior, sapeva che agli investigatori doveva dire la verità.
Interrogata nell'indagine in cui i pm ipotizzano il reato di falso e bancarotta a carico del capo della Ares, ha raccontato della sua amicizia con Teodosio Losito, lo sceneggiatore che si è suicidato nel gennaio 2019 lasciando un'eredità da sei zeri al compagno Alberto Tarallo, la stessa che secondo il pm è stata ottenuta grazie a un testamento falso, un'accusa che la Cassazione ha già parzialmente affossato.
L'indagine comunque va avanti e in questo contesto l'estetista dei vip ha detto di aver conosciuto Losito «tramite il signor Gabriel Garko», in occasione di un intervento estetico al viso. Anche l'attore infatti si sarebbe rivolto alla donna ( diventando poi il suo testimone di nozze) quando «doveva asportare del silicone impiantatogli sul viso dalla sorella di Alberto Tarallo» .
«Gabriel mi riferì che Alberto non voleva che si sapesse che lui era omosessuale mi riferì che Alberto Tarallo più volte nel corso degli anni lo minacciò dicendogli che se avesse lavorato o provato a lavorare con altre società avrebbe riferito il suo orientamento sessuale distruggendolo mediaticamente» , continua la testimonianza in parte confermata dallo stesso Garko.
Anche Rosalinda Cannavò, in arte Adua Del Vesco, era entrata in contatto con lo studio della Valesch «per rifarsi il seno che era stato fatto male in precedenza ». La ragazza verso la fine del 2017 avrebbe affrontato un momento difficile: «cominciò a perdere peso sino a diventare anoressica disse che era colpa di Alberto Tarallo il quale la voleva sempre magra per i ruoli che doveva interpretare nelle fiction mi raccontò di aver subito molte violenze psicologiche da parte di Alberto, in particolare mi raccontava che veniva pesata ogni giorno e che spesso veniva offesa da Alberto che le diceva: 'fai schifo', 'vergognati', 'dimagrisci'» , continua la testimonianza al vaglio dei pm che intendono capire come mai gli attori della Ares abbiano iniziato a puntare il dito sul produttore che li ha resi famosi.
Estratto dell’articolo di Erika Chilelli per “il Messaggero” il 9 novembre 2022.
(…) «Eravamo tutte sue pedine: decideva il bello e cattivo tempo, eravamo sotto ricatto psicologico», aveva riferito Gabriel Garko, sentito dal pm. «Già quando andai da lui, nel 1992, ero gay e Tarallo mi diceva che dovevo nasconderlo assolutamente per la mia carriera. Mi indusse a lasciare il mio compagno (...) Con questa storia dell'omosessualità mi ha sempre avuto in pugno». «Ci voleva a casa tutti insieme - ha raccontato Garko - perché voleva il controllo totale dell'artista. La sua prerogativa era cambiare nome all'artista, decidere tutto».
La casa in questione è la villa di Zagarolo, ribattezzata Zagarholliwood dove avveniva di tutto come confermato dalla beauty-coach dei vip: «Ho saputo per il tramite sia di Gabriel Garko, sia di Adua del Vesco e sia anche di Massimiliano Morra, che all'interno della villa di Zagarolo vi era una sorta di setta- si legge nel verbale - ovvero di un mondo soggetto a molteplici condizionamenti e violenze psicologiche da parte di Alberto Tarallo». (…)
TATUAGGIO E MAGIA NERA Il dominio di Tarallo, però, secondo quanto riferito dalla Valesch si estendeva anche alla vita del suo compagno Teodosio Losito: «Mi ricordo che Teo aveva un tatuaggio all'altezza dell'osso sacro dove c'era scritto Property of Alberto Tarallo, cioè il suo gluteo era di proprietà di Alberto - si legge nel verbale di Brigitte Valesch - Tale tatuaggio fu fatto senza la consapevolezza di Teo, da quanto mi disse, fu invitato da Alberto a farsi tatuare una scritta a sorpresa».
A Brigitte, moglie del chirurgo estetico Raffaele Siniscalco, Losito chiese se la morte di Sergio, il suo ex compagno, potesse essere attribuita a dei rituali di magia nera che Tarallo metteva in atto: «Mi confidò di aver assistito in prima persona a dei rituali di magia nera fatti da Tarallo in giardino nella villa di Zagarolo. In particolare, Teo mi raccontava che Alberto la sera, quando vi era la luna piena spesso si inginocchiava per effettuare delle invocazioni verso di essa».
Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera – ed. Roma” il 4 novembre 2022.
Si arrende Pino Losito, fratello del più celebre Teo, sceneggiatore morto suicida l'8 gennaio del 2019 in una villa (Villa Dafne in provincia di Roma) che rifletteva ego e successi del suo amato compagno Alberto Tarallo, produttore della Ares film. Non si opporrà alla richiesta di archiviazione del pm Carlo Villani che, assieme all'aggiunto Paolo Ielo, ha imposto la fine alla lunga saga (mediatica anche) di Zagarolo proponendo l'archiviazione del reato d'istigazione al suicidio nei confronti dello stesso Tarallo.
«Le cause del disperato gesto di Losito sono verosimilmente attribuibili al precario stato d'animo che lo stesso viveva in quegli anni a causa dei problemi societari legati all'Ares film» è scritto nel decreto parzialmente anticipato da Repubblica.
Soldi. Persi dietro progetti televisivi rivelatisi effimeri. Il denaro più ancora della fama sembra essere il vero motore dell'Ares gate come è stato ribattezzato il presunto scandalo Tarallo. Ma il produttore può tranquillizzarsi, il suo avversario Losito lascerà libero il campo, evitando di presentare ricorso anche in sede civile contro l'attribuzione della polizza da 300mila euro al produttore. Provato e forse riluttante Pino deve pensare a chi è rimasto. Lui, la figlia. Quindi ha dato mandato al suo avvocato, il penalista Stefano De Cesare di fermarsi.
Resta il grumo di dubbi (personali, giudiziari) attorno alla morte per impiccagione dello sceneggiatore e al quieto allestimento della scena di fronte alla quale si sono trovati i carabinieri dell'autorità giudiziaria di Tivoli all'epoca.
Tutto «perfettamente in ordine» con il corpo disteso «sul letto della camera in uso al defunto» pronto per essere cremato «con una non comune rapidità» scrivono i pm. Vivono altri due capitoli giudiziari: il falso ipoteticamente commesso da Tarallo sul testamento Losito (e sulle sue lettere) più la bancarotta nei confronti della Ares, fallita nel 2020 a dispetto dei tanti, melò realizzati e imputata anch' essa al produttore.
Ma allora, di nuovo, dove sono finiti i soldi? «Io - fa mettere a verbale Pino - avevo sentito il giorno prima mio fratello per questioni familiari relative a un conto corrente portoghese intestato a lui per paura del fallimento della Ares film e utile a spostare il denaro in Portogallo ma non aveva lasciato trapelare nulla su quanto poi accaduto» Non si sa ancora se la pista portoghese sia stata esplorata dai pm in relazione alla bancarotta societaria ma intanto il decreto della Procura fotografa un retroscena curioso raccontato ai magistrati da Patrizia Marrocco all'epoca deputata forzista: «Teo ...mi diceva che Alberto voleva far finta di lasciarsi con lui perché l'opinione pubblica doveva ripulire la sua figura fatta con la società Ares». Nulla, si sa, è mai quello che appare.
Giuseppe Scarpa per “la Repubblica – Edizione Roma” il 22 ottobre 2022.
Si chiude un capitolo. La vicenda Alberto Tarallo - Teodosio Losito va verso l'archiviazione. Per il pubblico ministero Carlo Villani non c'è stata nessuna istigazione al suicidio. «Pur avendo accertato che il Tarallo è dotato di una forte personalità prevalente e prevaricatrice rispetto a quella del Losito non sono emersi elementi utili per configurare il delitto ipotizzato».
Insomma ogni sospetto sulla possibilità che Tarallo abbia spinto il suo compagno a togliersi la vita l'8 gennaio 2019 viene cestinata da parte del magistrato. Il caso è quello dell'Ares gate, dei due famosi produttori cinematografici compagni anche nella vita. Uno dei due muore suicida. Losito appunto, nella villa dove vivono. Nascono i primi sospetti che poi sfociano in un'indagine. Un'inchiesta in cui si mette nel mirino proprio Tarallo, accusato anche di aver falsificato il testamento del suo compagno. Accusa non definita e su cui la Cassazione si è espressa a favore di Tarallo.
Nel decreto di archiviazione, però, sono presenti alcune testimonianze singolari che riguardano la cremazione di Losito. A raccontare degli atteggiamenti valutati "singolari" è proprio l'impresari funebre chiamato ad organizzare il funerale di Losito, Antonio Febbo: «Ricordo che subito mi venne detto da (...) Alberto Tarallo che Teodosio doveva essere cremato. Mi è sembrato strano all'inizio perché in tanti anni di lavoro non capita spesso questa situazione. Di solito bisogna riflettere.
Molti mi chiedono consiglio qui sembrava già tutto programmato. A quel punto spiegai che non potevano decidere loro, ma bensì il familiare vivente più stretto a lui. Siccome i genitori erano defunti, l'unico era il fratello il quale mi fu detto era in arrivo da Milano». Il racconto prosegue: «Ricordo che parlai con il fratello di Teodosio solamente la sera del decesso. Gli chiesi se avesse intenzione di cremarlo. Lui all'inizio era titubante e mi disse di aspettare. Poi dopo si allontanò a parlare con Tarallo. Poco dopo mi diede l'autorizzazione a cremarlo».
Marcello Filograsso per tvblog.it il 17 settembre 2022.
Ennesima puntata del caso Ares Gate, legato al suicidio del produttore Teodosio Losito della casa di produzione Ares. La Corte di Cassazione ha bocciato il ricorso della Procura di Roma riguardante proprio Losito e gli ha restituito i cinque milioni di euro sequestrati.
Il motivo? La perizia grafologica è stata giudicata “inattendibile” dai togati, sulla base della quale invece i magistrati romani avevano ottenuto il sequestro dei beni nei suoi confronti. Stando a quando scrive il Corriere della Sera, l’ipotesi era che il produttore della Ares Film, un’azienda partecipata Mediaset, avesse falsificato il testamento e le lettere del suo ex compagno Teodosio Losito, che si è tolto la vita l’8 gennaio 2019.
Intanto il Tribunale civile di Milano ha accordato ad Alberto Tarallo la polizza sulla vita accordata da Losito, che ammonta a circa 300.000 euro.
Per Tarallo e i suoi avvocati si tratta quindi di una seconda vittoria in pochi giorni, al termine di un biennio piuttosto difficile. Tutto era cominciato quando nella casa del Grande Fratello Vip i due concorrenti Adua Del Vesco (ora Rosalinda Cannavò, suo nome all’anagrafe) e l’ex fidanzato Massimiliano Morra si lasciano andare in giardino a confessioni molto strane risalenti al periodo durante il quale entrambi lavoravano per la casa di produzione che ha lanciato fiction come Il bello delle donne e L’Onore e il Rispetto.
Da allora le procure hanno iniziato a voler vederci chiaro, lanciando accuse di istigazione al suicidio, perizie grafologiche fasulle, ma soprattutto una sfilata di personaggi famosi chiamati a testimoniare, dalla conduttrice di Pomeriggio 5 Barbara d’Urso a Gabriel Garko, quest’ultimo star di punta delle produzioni Ares, che solo di recente ha potuto ammettere la sua omosessualità. Nel mirino era finito soprattutto l’ex compagno di Losito, Alberto Tarallo, che ha provato a difendere la sua posizione andando in talk show come Non è L’Arena.
Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della sera – ed. Roma” il 12 settembre 2022.
Lontano dai riflettori, in un'aula qualunque del Tribunale di Milano il produttore Alberto Tarallo guadagna un punto nella (tribolata) contesa sull'eredità di Teo Losito, sceneggiatore scomparso l'8 gennaio 2019 a Zagarolo, nella villa-dimora di attori di fiction e giovani leve della recitazione.
Infatti i giudici della VI sezione civile accordano a Tarallo il beneficio della polizza «Taboo» (Zurigo Assicurazioni), trecentomila euro di fondo post mortem che lo sceneggiatore dirottò sui conti del suo ex compagno dopo averli inizialmente destinati al fratello Giuseppe Losito.
Si ridimensionano, forse, con questa vittoria giudiziaria (e al netto di eventuali ricorsi), i presupposti dell'inchiesta romana che si sforza di far luce sul lascito testamentario di Losito ipotizzando il falso e l'istigazione al suicidio ma indicando anche la strada di una possibile bancarotta per quei conti in rosso della fu Ares film (partecipata da Mediaset).
Non sappiamo se Tarallo, momentaneamente risarcito dal Tribunale del Riesame che ha annullato il sequestro da 5 milioni di euro ottenuto dai pm romani, abbia davvero mentito sull'eredità come la perizia calligrafica su lettere e testamento dello sceneggiatore farebbe supporre, ma intanto, per i giudici milanesi, su quella polizza avrebbe detto il vero.
Le due faccende - il testamento e «Taboo» - sono state trattate separatamente dai giudici. Prima però è opportuno fare un passo indietro all'indomani della morte di Teo Losito. La compagnia di assicurazione, in presenza di due contendenti, fratello ed ex partner, l'uno e l'altro legittimati a pretendere i 300mila, ricorre ai giudici.
In parallelo esplode l'inchiesta penale con le lunghe audizioni di vip protagonisti delle storiche fiction targate Ares, fra i quali Gabriel Garko, Manuela Arcuri, Nancy Brilli, Adua Del Vesco, Eva Grimaldi (ma anche la conduttrice Barbara D'Urso) e i colpi di scena a partire dalla perizia grafologica condotta su lettere e testamento di Losito e che attesta la manipolazione del testo. Scatta il sequestro dei beni di Tarallo ma questi, assistito dai difensori Franco Coppi e Daria Pesce, ricorre e vince (la Cassazione si pronuncerà definitivamente giovedì prossimo).
Quanto all'assicurazione sulla vita i giudici di Milano scrivono che la controversia «ha natura contrattuale», non riguarda cioè in alcun modo il resto della querelle giudiziaria. Pochi dubbi poi sul fatto che il beneficiario della polizza sia l'ex partner, considerato che Losito anticipò con una telefonata al dipendente della compagnia il cambio di destinatario.
Giuseppe Losito, assistito dall'avvocato Stefano De Cesare, aveva sollevato dubbi sulla autenticità della mail utilizzata per comunicare alla Zurigo il nuovo beneficiario? Ebbene ecco la risposta dei giudici: «In merito alla sicurezza della firma attribuita a Teodosio Losito è rilevante notare che il teste Briani (Nicola Briani, ndr ), sentito all'udienza del 28/10/2021, ha dichiarato che, come indicato nella stessa mail, quella comunicazione elettronica è stata preceduta da una telefonata di Teodosio Losito che comunicava la volontà di voler cambiare il beneficiario della polizza in Alberto Tarallo».
Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera – ed. Roma” il 16 settembre 2022.
Ma le indagini? Che ne sarà a questo punto del cosiddetto Ares gate che da circa un anno e mezzo tiene banco su quotidiani, rotocalchi e programmi televisivi? L'inchiesta è destinata a sopravvivere al pronunciamento dei giudici della Cassazione, atteso in giornata.
La vicenda era esplosa nella primavera del 2021, tra audizioni di vip in Procura e botta e risposta appuntiti, fra protagonisti di sceneggiati tivvù, sulle reti televisive (memorabile la puntata che su La Sette ospitò l'autodifesa di Alberto Tarallo con lettura delle lettere autografe di Teodosio Losito). Indagando per l'istigazione al suicidio la Procura aveva acquisito la relazione dell'esperta calligrafa nella quale si sosteneva come testamento e lettere dello sceneggiatore Teo Losito fossero in realtà stati manipolati.
Evidenze di questa falsificazione trasparirebbero da alcune lettere dell'alfabeto dal tratto marcato e le zampette originali. Pronta la replica del produttore della fu Ares film (partecipata da Mediaset) assistito dagli avvocati Franco Coppi e Daria Pesce: «Testamento e lettere sono originali». Era seguito un sequestro di beni del valore di cinque milioni di euro contro il quale Tarallo aveva presentato ricorso, vincendo in sede di Tribunale del Riesame.
Sulla calligrafia di Losito e più in generale sull'affaire Ares si sono scontrati in molti.
Di qua i fedelissimi di Tarallo, come l'attrice Ursula Andress che si era schierata fin dall'inizio al suo fianco, assieme a Manuela Arcuri ad esempio.
Di là gli avversari come l'attrice Adua Del Vesco (alias Rosalinda Cannavò) e Gabriel Garko autori di una narrazione articolata nella quale trovavano spazio anche la descrizione di un Tarallo padre padrone con gli attori e dedito perfino a rituali simbolici. Descrizione che sarà spazzata via dai giudici della Cassazione?
Non completamente se è vero, come affiora tra le pieghe di un'inchiesta ricca di colpi di scena, che i magistrati Paolo Ielo e Carlo Villani potrebbero andare avanti con gli approfondimenti fino a un possibile processo, considerando inoltre che il produttore ha ancora in piedi l'accusa di bancarotta scaturita dal crac della sua società. Tace in tutto questo il fratello di Losito, pronto a ricorrere contro la decisione dei giudici (civili) di Milano che, nei giorni scorsi, avevano, di fatto, assegnato a Tarallo una vittoria importante: il beneficio di una polizza sulla vita da 300mila euro stipulata dal defunto sceneggiatore ed ex compagno del produttore.
La Cassazione contro i pm romani che accusano Alberto Tarallo di falso: «Ricorso infondato». Il Corriere della Sera il 29 Luglio 2022.
La pg Passafiume dà ragione alla difesa del produttore della Ares nel mirino dei pm romani. Giusta la decisione del Riesame di dissequestrare i beni di Tarallo. «Scarsa chiarezza e confusione» del perito grafologico.
Un nuovo punto in favore di Alberto Tarallo, il produttore della Ares (Mediaset) indagato per il suicidio dello sceneggiatore (e suo compagno di una vita) Teodosio Losito e per il presunto falso testamento di quest’ultimo. La pg presso la Cassazione, Sabrina Passafiume, ha smantellato il ricorso presentato dai pm della Procura di Roma, ritenendolo pressoché «infondato». I pm lamentavano una valutazione errata dei giudici del Tribunale del Riesame i quali avevano rivalutato le ragioni di Tarallo e dissequestrato il suo patrimonio, ritenendo autentici sia il testamento dello sceneggiatore suicida che le appassionate lettere indirizzate al produttore da uno smarrito Losito. In estrema sintesi, secondo i magistrati romani, avrebbe ragione la perita grafologa nel sostenere che le lettere (peraltro mostrate durante una memorabile diretta televisiva durante la trasmissione de La Sette “Non è l’arena”) sarebbero state confezionate a tavolino.
Ma se il pm demoliva anche alcune testimonianze clou di attori, collaboratori e amici di Tarallo, la pg lo ridimensiona dando pienamente sostegno ai giudici del Riesame: «Deve escludersi — dice Passafiume— che il tribunale del Riesame abbia travalicato i limiti del potere di cognizione spettanti al giudice del procedimento cautelare reale, essendosi limitato a ritenere non astrattamente configurabile il reato di cui agli articoli 485 e 491 del codice penale (reati di falso e falso in testamento, ndr) alla luce degli elementi investigativi allo stato disponibili e tenuto conto, vieppiù, della inattendibilità dei risultati della consulenza grafologica disposta dal pm».
Convincenti sarebbero anche le motivazioni del Riesame in merito alla «scarsa chiarezza, confusione ed errata metodologia seguita dal consulente del pm» nell’analizzare la calligrafia dello sceneggiatore suicida. Le argomentazioni della Procura appaiono confutate mentre la Cassazione valorizza gli elementi portati dalla difesa di Tarallo (avvocati Franco Coppi e Daria Pesce). A questo punto si attende la camera di consiglio con la decisione finale. Da calendario sono fissati per il 15 settembre prossimo.
Giallo Losito, il pm va in Cassazione: «Il testamento e le lettere di Tarallo sono falsi». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 21 Aprile 2022.
Si allunga la querelle giudiziaria sul suicidio dello sceneggiatore della Ares. Il pm contro i giudici del Riesame: «Troppi dettagli nelle testimonianze della difesa».
Conquistati da testimonianze che abbondano nei dettagli (benché i fatti risalgano a 15 anni fa) i giudici del Tribunale dei Riesame avrebbero trascurato i propri compiti in favore di un giudizio tanto generico quanto precipitoso sulla figura del produttore della ex Ares, Alberto Tarallo, scagionandolo a monte dai fatti sui quali sono in corso approfondimenti investigativi. Così si legge nel ricorso per Cassazione del pm Carlo Villani riguardo ai beni dissequestrati al produttore ed ex compagno dello sceneggiatore suicida Giuseppe Losito.
Alla lunga e sofferta querelle giudiziaria sul presunto falso testamento Losito si aggiunge così un nuovo, importante capitolo. Come decideranno i giudici di piazza Cavour? Volendo semplificare (ma non troppo) da quale lato dei due blocchi contrapposti si collocheranno? Con Gabriel Garko o pro Ursula Andress? Si pronunceranno per la congruità del sequestro da cinque milioni di euro? O come i giudici del Riesame sosterranno che il fumus delicti (l’ipotesi di reato) non è stato provato?
Prima di passare alle argomentazioni un breve riepilogo: dal dicembre 2021 Tarallo è accusato di falso e istigazione al suicidio nei confronti del suo ex compagno Losito, complice una denuncia presentata in Procura dal fratello dello sceneggiatore. Contro di lui più che le sapide testimonianze di attori come Garko, Eva Grimaldi, Massimiliano Morra, Adua Del Vesco e altri, milita l’expertise calligrafico di Maria Caldarazzo che, in sintesi, ritiene apocrifi sia il testamento rinvenuto da Tarallo dopo il suicidio che tre lettere d’addio dello stesso sceneggiatore. In virtù delle sue conclusioni il pm aveva ottenuto dai giudici un sequestro di beni (inclusa l’ormai leggendaria villa di Zagarolo buen retiro dei divi delle fiction) che però non ha retto la prova del Riesame, dove i magistrati han creduto a quattro testimonianze difensive: l’amica di Tarallo Ursula Andress, la commercialista di Losito, Gina Fuochi, l’assistente di Tarallo, Stefania Graziosi, e l’esperta di Tv, Sorrisi e Canzoni, Rosanna Mani. Tutte hanno tirato in ballo il testamento del 2007, quindici anni or sono, nel quale Losito anticipava le sue volontà lasciando i suoi beni al produttore. Che ragione ci sarebbe stata di falsificare il successivo s’interroga la difesa? Non fosse sufficiente, gli avvocati di Tarallo, Franco Coppi e Daria Pesce, hanno presentato una perizia di parte che giudica autentici sia il testamento quanto le lettere.
Il pm, invece, dubita. E contrattacca: «Il convincimento del Tribunale (del Riesame, ndr) è erroneo in fatto perché si basa sulla cosiddetta controperizia prodotta dalla difesa la quale è stata eseguita non sull’originale degli atti che si assumono falsi ma sulla base delle fotocopie dell’elaborato del Ctu (consulente tecnico,ndr) del pm. Orbene tale semplice presupposto è indicativo di un lavoro non attendibile atteso che la procedura d’indagine tecnico grafologica impone...lo studio sugli originali». A breve la Cassazione.
Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 13 aprile 2022.
Unica civetteria di una mise suppergiù claustrale: un paio di fuseaux grigi che fasciano gambe ormai leggendarie. Il resto - una felpona blu, una pashmina in tinta e un berrettino con visiera - è in armonia con il buen retiro , un villino di campagna lungo un magnifico selciato romano al suo inevitabile tramonto urbano.
Poteva restare nell'ombra, dietro la quinta agreste che s'era scelta. Invece no. Ursula Andress, per tutti l'Honey Ryder che esce dalle onde in Licenza di uccidere , ha dismesso il bikini e indossato i panni dell'amica, leale, quasi militante. Sua è la testimonianza, decisiva per i giudici del Tribunale del Riesame, che riabilita Alberto Tarallo, il produttore della fu «Ares film» nei guai per via di un presunto falso testamento e lettere teoricamente apocrife dello sceneggiatore suicida Teodosio Losito.
Lui è ancora indagato per falso: «Alberto? Spero che il fango sul suo conto si sia arrestato. Purtroppo il peggio è fatto. Quando si danneggiano i suoi progetti di lavoro, quando si infanga la sua reputazione...» dice lei, trovando rifugio dietro un paio di lenti hollywoodiane.
La sua testimonianza ha indebolito la versione di un Tarallo egocentrico narrato dal parterre di attori della ex Ares film, come Gabriel Garko, Adua Del Vesco e altri ancora...
«Vi rendete conto che Alberto è stato dipinto come un personaggio dedito alle messe nere? Pensare che sarò sua ospite a pranzo per la domenica di Pasqua... Alberto e Teo (Losito, ndr ) erano una coppia affiatata. Il suicidio di Teo è stato un dramma per lui, è ancora profondamente scosso da quello che è successo. Non ditemi vi prego che credete all'istigazione...».
E lei?
«Losito aveva perso tutto. Sapete qual è l'istinto di una persona che ha perso tutto? La Ares stava fallendo. Molte fiction erano andate in fumo. Era come un capitano d'azienda che ha perso la sua fabbrica. La disperazione fa fare questo genere di cose».
Dall'inchiesta su Tarallo emerge forte la sua testimonianza. Vi conoscete da molto?
«Vent' anni. Ma questo è un mondo che non mi piace. Sono stata fortunata, ho conosciuto questo posto nel 1954 quando mi sono trasferita. Era incantevole. Ora c'è questo ecomostro (indica il parallelepido del centro commerciale di fronte, ndr )».
Come ci si difende, a suo parere, da certi orrori quotidiani?
«Non voglio con me né smartphone né computer. La gente passa più tempo in Rete che ad ascoltare gli altri. Possibile? Mi pare orrido. Leggerei volentieri i vostri articoli ma ha chiuso anche l'ultimo chiosco. Come dite voi? Edicola».
Ci dica ancora di queste attrici che lei ha frequentato e che poi, secondo lei, si sono rivelate sleali nei confronti del loro produttore...
«Adua? Non ha più lavorato. Ora si fa chiamare con il suo vero nome, Rosalinda... Io ho avuto molta fortuna, è vero, ma sono sempre stata una persona molto seria e
professionale. Mai nessuna interferenza fra lavoro e vita privata ad esempio».
E Garko? Anche lui avrebbe scaricato Tarallo...
«Gabriel mi piaceva. Quelle fiction in cui recitava avevano molti spettatori. Possono piacere o non piacere ma il pubblico non gli mancava. Però su Tarallo ha sbagliato».
Passiamo ad altro. Lei resta la prima Bond Girl. Le chiedo: le piace Daniel Craig?
«Un formidabile boxeur sullo schermo, però nessuno ha la classe di Sean (Connery per sette volte nei panni di James Bond, ndr ). Questo comunque è il mio passato...».
Nessuno dimentica il bikini color panna e le conchiglie tra le mani...
«Uno straccetto comprato in una botteguccia nei pressi del set. Guardatele da vicino quelle foto. Si vede benissimo che si trattava di un bikini artigianale. D'altra parte volevano farmi indossare una cosa assurda a base di fiori esotici. Rifiutai. Mi dissero: "Trovati un bikini". Così feci. Sei mesi dopo l'uscita di quel film mi resi conto che quelle inquadrature avevano suscitato scalpore. Io e mio marito andammo a vedere la pellicola in una sala di Los Angeles».
Una foto possiamo fargliela?
«No. Mettete quella con il bikini».
"Testamento redatto da tempo". Annullato il sequestro dei beni per Tarallo. Francesca Galici il 12 Aprile 2022 su Il Giornale.
I giudici del riesame hanno motivato l'annullamento del sequestro di beni per 5 milioni di euro ad Alberto Tarallo. Tra i testi anche Ursula Andress.
Ci sono novità sulle indagini che riguardano la morte di Teodosio Losito e il testamento redatto in favore del suo compagno Alberto Tarallo. I giudici del riesame di Roma, che hanno annullato il sequestro di beni per 5 milioni di euro nei confronti del produttore televisivo, nelle motivazioni hanno spiegato che "le indagini ad oggi complessivamente valutabili consentivano di provare che, diversamente da quello che costituiva motivo di sospetto (quanto al fatto che l'erede fosse Tarallo e non il nipote), Teodosio Losito, da molto tempo, aveva redatto testamento a favore del compagno come confermato anche da alcune persone legate alla coppia".
Alberto Tarallo è attualmente indagato per falsità in testamento olografo e falsità in scrittura privata dalla procura di Roma. Quasi tutte le persone ascoltate dagli inquirenti hanno raccontato che "il rapporto tra Tarallo e Losito era saldo dal punto di vista sentimentale, e che anzi Losito era angosciato per le conseguenze che Tarallo avrebbe potuto subire a causa del fallimento della società". I due, infatti, erano soci della società di produzione Ares, che ha realizzato alcune delle fiction e serie tv di maggior successo dei primi anni Duemila prima di inciampare in problemi che hanno portato al fallimento.
La "solidità dei rapporti", si legge nel provvedimento, è stata ricordata anche da alcune persone sentite dalla difesa, fra cui l'attrice Ursula Andress. La donna ha riferito di essere amica della coppia, anche in virtù della vicinanza abitativa, che l'ha portata in passato a frequentarli stabilmente. Per l'attrice, Tarallo e Losito erano una coppia bellissima e Ursula Andress, stando a quanto si legge nei fogli dei giudici, ha aggiunto che "Tarallo aveva sempre cercato di aiutare il compagno, che forse soffriva per non aver avuto il suo stesso successo".
Le parole dell'attrice, però, sono tendenzialmente diverse rispetto a quelle che sono state riferite da Gabriel Garko, altra figura importante in questo processo, che per molti anni è stato amico della coppia ma anche legato professionalmente a Tarallo e Losito. Nelle carte si legge che stando a quanto raccontato da Gabriel Garko, "Tarallo era una persona che voleva mantenere il controllo su tutti, aggiungendo anche che Losito, nell'ultimo periodo, gli era sembrato molto depresso, avendogli manifestato anche la volontà di andare via da solo".
I giudici del tribunale del riesame di Roma hanno concluso che "La lettura complessiva degli elementi non consente di ritenere provata la consistenza indiziaria del fumus del delitto per come ipotizzato dal pm".
Ilaria Sacchettoni per corriere.it l'11 aprile 2022.
Giù la versione di Gabriel Garko. Su, invece, quella dell’indimenticabile Bond girl, Ursula Andress. Nell’accogliere le ragioni del produttore Alberto Tarallo, i giudici del Tribunale del Riesame, dopo aver disposto il dissequestro dei beni sigillati dalla Procura mesi fa in virtù di un presunto falso testamento a firma Teodosio Losito, argomentano come «venisse erroneamente contestato a Tarallo di aver falsificato il testamento di Teodosio Losito il 24.10.2017, dato temporale che però non trova conferma in alcun elemento di indagine».
L’idea di una manipolazione di testamento e lettere (tre per la precisione) dello sceneggiatore Losito, morto suicida l’8 gennaio 2019, viene smantellata dai giudici dopo che la difesa (avvocati Franco Coppi e Daria Pesce) fa acquisire un originario testamento, identico nel contenuto, depositato nel 2007 presso il notaio romano Claudio Cerini . In quel documento Tarallo era nominato erede universale di Losito.
La stessa Bond girl, Ursula Andress testimonia l’esistenza del documento precedente come scrivono i giudici: «La medesima circostanza — cioè l’esistenza dei due testamenti reciproci redatti anni prima — veniva riferita da Ursula Andress e da Stefania Graziosi (amica del produttore, ndr) la quale aggiungeva come avesse saputo del fatto sin dall’anno 2008». Secondo i giudici l’esistenza di un precedente e identico testamento contrasta con l’eventualità di una falsificazione successiva. Perché manipolare un documento avendo la certezza di essere stati nominati eredi universali? Non avrebbe alcun senso insomma.
Ma non è tutto: il Tribunale ritiene credibili anche le testimonianze della Andress sotto il profilo della solidità della coppia Losito— Tarallo. Scrivono i giudici che la Andress «riferiva di essere amica e vicina di casa dei due che frequentava stabilmente, aggiungendo che erano una coppia bellissima, che si amavano e che Tarallo aveva sempre cercato di aiutare il compagno che forse soffriva per non aver avuto il suo stesso successo».
Cadrebbe dunque la prospettazione dell’accusa riguardo a una crisi profonda della coppia, alimentata da comportamenti poco comprensibili del produttore. «Elementi tendenzialmente diversi venivano riferiti da Gabriel Garko — per molti anni amico, legato anche professionalmente a Tarallo e Losito— che riferiva invece, per quel che qui rileva, che Tarallo era una persona che voleva mantenere il controllo su tutti, aggiungendo anche che Losito, nell’ultimo periodo, gli era sembrato molto depresso avendogli manifestato anche la volontà di andare via da solo».
Infine, riguardo alla perizia calligrafica dell’accusa su testamento e lettere di Losito, i giudici del Riesame parlano di una relazione «di non facile lettura, poco chiara e a tratti confusa. Discutibile la scelta metodologica dell’esperta, secondo il Riesame: «La consulente stessa pur avendo a disposizione delle scritture comparative sicuramente riferibili a Losito, aveva scelto di non usarle per la comparazione, scelta metodologica poco condivisibile e comprensibile».
Ilaria Sacchettoni per corriere.it il 15 marzo 2022.
Alberto Tarallo, patron della Ares film, si aggiudica una vittoria di fronte ai giudici del Tribunale del Riesame, che hanno deciso di annullare il provvedimento di sequestro da cinque milioni di euro nei suoi confronti. La decisione ribalta il tavolo perché Tarallo fino a questo momento era dato per sconfitto.
Iscritto sul registro degli indagati per falso - secondo la Procura avrebbe contraffatto lettere di addio e testamento dello sceneggiatore (e suo compagno di vita) Teodosio Losito, morto suicida l’8 gennaio 2019, per aggiudicarsi l’eredità - ma indagato anche per l’istigazione al suicidio, reato per il quale i magistrati intendono chiedere l’archiviazione in tempi brevi.
Ora Tarallo, assistito dai difensori Daria Pesce e Franco Coppi può affrontare l’inchiesta con buoni margini di successo. Sulla morte di Losito si indaga da un anno. La Procura ha lungamente ascoltato uno stuolo di attori e vip fra cui Gabriel Garko, Eva Grimaldi, Barbara D’Urso, Massimiliano Morra, Rosalinda Cannavò. Tutti sono stati ascoltati sulle dinamiche interne alla Ares e alla Villa di Zagarolo che ospitava attori e vip.
Ma il vero colpo di scena era arrivato assieme alla perizia calligrafica sulle lettere. Secondo l’esperta della Procura si trattava della calligrafia di Tarallo che simulava quella di Losito. Ora la decisione dei giudici ribalta queste conclusioni.
Ilaria Sacchettoni per il Corriere della Sera il 13 marzo 2022.
Più che nel «Peccato e la vergogna», fiction della Ares ai bei tempi, dietro le quinte del suicidio dello sceneggiatore Teodosio Losito, affiorano passioni e rancori, delusioni e malinconie, fragilità e frustrazione. Giovani leve della recitazione, maturi divi del piccolo schermo e officianti del maquillage totale raccontano (e si raccontano) agli investigatori che indagano su Alberto Tarallo, patron della società televisiva e, secondo l'ipotesi di alcuni - ma non i pm che hanno avviato verso l'archiviazione il reato di istigazione al suicidio - con un ruolo "morale" nell'impiccagione di «Teo» l'8 gennaio 2019 nella villa di Zagarolo, fra anelli scomparsi, domestiche indiscrete e molte ambizioni.
Fa mettere a verbale Gabriel Garko, decano degli sceneggiati tivvù: «Noi eravamo tutte pedine di Tarallo, lui decideva il bello e il cattivo tempo e se non si faceva come detto eravamo tutti sotto ricatto psicologico. Voglio precisare che io quando andai da lui già nel 1992 a Roma ero gay e Tarallo mi diceva che dovevo nasconderlo assolutamente per la mia carriera di attore agli inizi. Mi indusse a lasciare un mio compagno dell'epoca senza impormelo ma conducendomi a tale decisione sulla base di quello che mi diceva ogni giorno circa la mia futura carriera. Mi diceva che facendo questo lavoro non potevo dire di essere omosessuale...»
Soffriva e lavorava il bel Garko, che il pm Carlo Villani ha ascoltato per ore. Così come Eva Grimaldi, sua partner per finta e per fiction: «Ho avuto delle restrizioni che, all'epoca, a me non piacevano ma che mi facevano comodo - dice la protagonista di "Abbronzatissimi" -. All'epoca di Zagarolo non potevo conoscere nessuno, ero chiusa come in una gabbia». Fuggita dal recinto per amore, spiega oggi: «Me ne sono andata nel 2011 perché mi sono innamorata di Imma Battaglia... Alberto mi disse che non potevo innamorarmi di Imma perché altrimenti sarei stata attaccata mediaticamente, diciamo screditata, e non avrei più lavorato perché lesbica».
Così i verbali depositati al Tribunale del Riesame che dovrà pronunciarsi sulle presunte false lettere e il testamento olografo di Losito esibiti da Tarallo, raccontano scorciatoie, arbitrii, ipocrisie e rinunce più che reati. Pur di mantenere «il controllo» sugli attori della propria scuderia Tarallo, secondo alcuni che inizialmente si professano seguaci tipo Rosalinda Cannavò (la Adua Del Vesco delle fiction) e Massimiliano Morra, sarebbe arrivato a cupe messinscene e invocazioni lunari. Così riferisce Brigitta Valesch, estetista dei vip: «Ricordo che Teo un giorno mi chiese, in virtù della mia conoscenza dell'argomento (antroposofia, ndr ), se la morte di Sergio (ex fidanzato di Teo, ndr ) potesse essere attribuita a dei riti di magia nera che il signor Tarallo metteva in atto talvolta...
Teo mi confidò che aveva assistito in prima persona a dei "rituali di magia nera" fatti da Tarallo nel giardino nella villa di Zagarolo. In particolare mi raccontava che Tarallo la sera, quando vi era la luna piena, spesso si inginocchiava per effettuare delle invocazioni verso di essa». Parole che fanno sorridere la difesa del patron della Ares - «Ciarpame» dice il legale Daria Pesce- ma non Giuseppe Losito, fratello di Teo, dubbioso e perplesso. Scettico anche Omero Sacco, il medico intervenuto sulla scena del suicidio che parla (ma per sentito dire) «di un termosifone troppo basso per un ipotetico tentativo di impiccagione». Tra tante incertezze la lealtà di Ursula Andress. É lei a dare agli amici la notizia delle lettere ritrovate di Teo e a difendere Tarallo dall'assalto mediatico.
Andrea Ossino per Repubblica - Roma il 13 marzo 2022.
L'omosessualità come un ostacolo alla carriera degli attori, l'anoressia come conseguenza dell'estetica richiesta, gli amori, i rancori e i racconti che assumono connotati inquietanti, con tanto di riti magici e invocazioni alla luna. Tra le memorie affidate dalle star della Ares Film ai pm di Roma che indagano sul suicidio di Teodosio Losito, c'è anche spazio per i sospetti del medico legale presente nella villa di Zagarolo l'8 gennaio del 2019: " il termosifone utilizzato per l'impiccagione da parte di Losito sarebbe un po' troppo basso considerando l'altezza del soggetto", annota la finanza spiegando che i carabinieri non hanno trovato riscontri e "stante la cremazione del corpo, ad oggi non è possibile poter stabilire ulteriori scenari investigativi".
Misteri, racconti e 34 pagine di " omissis". Una narrazione che sembra venir fuori dalle delle serie televisive prodotte dalla stessa società cinematografica finita nel mirino del pm Carlo Villani. A parlare del mondo Ares è stata anche la beauty coach delle star, Brigitte Valesh. Il suo interrogatorio è stato depositato davanti ai giudici del Riesame, in occasione dell'udienza in cui Alberto Tarallo ha chiesto di riavere ciò che la procura ha sequestrato quando ha scoperto che il testamento con cui il suo compagno gli aveva lasciato circa 5 milioni di euro era falso. Esperta in medicina estetica, la Valesh vanta esperienze televisive con Ilari Blasi e collaborazioni con marchi del calibro di Chanel e Dior.
Ha conosciuto Teodosio Losito in occasione di alcuni trattamenti estetici. E ha raccolto le sue confidenze: « Teo mi confidò che aveva assistito in prima persona del rituale di magia nera fatti dal Alberto Tarallo in giardino nella villa di Zagarolo. In particolare Teo mi raccontava che Alberto Tarallo la sera, quando c'era la luna piena spesso si inginocchiava per effettuare delle invocazioni verso di essa», ha detto la beauty coach ai pm. Losito le avrebbe raccontato anche di un suo amore passato che « morì in circostanze misteriose» .
E le chiese, « in virtù della mia conoscenza dell'argomento, se la morte di Sergio potesse essere attribuita dei riti di magia nera che il signor Tarallo metteva in atto talvolta». « Potrebbe essere che Alberto è così potente energicamente da poter aver causato la morte di Sergio? » , avrebbe chiesto Losito alla donna. Una circostanza che non ha riscosso la curiosità dei pm, interessati invece a conoscere il clima che si respirava dentro la villa di Zagarolo.
Mentre alcuni attori hanno spiegato che lo scandalo sarebbe dovuto solo a «rancori contro Tarallo » e a ragioni mediatiche, Gabriel Garko ha spiegato di essere stato « tenuto in pugno » perché omosessuale, Eva Grimaldi si sentiva « chiusa come in una gabbia » e Adua del Vesco, in arte Rosalinda Cannavò, che parlando di una « setta satanica » durante il Gf Vip ha portato all'apertura dell'inchiesta, ha narrato i suoi « incubi dovuti al passato » con la Ares. k Beauty coach Brigitte Valesch, esperta di estetica e riferimento di tanti Vip.
Andrea Ossino per la Repubblica - Roma il 13 marzo 2022.
Un piano ben preciso, ideato appositamente per accaparrarsi «i beni del signor Teodosio Losito». È questo il sospetto dei magistrati che indagano sulla morte dello sceneggiatore suicidatosi nel gennaio 2019. Un'ipotesi supportata, secondo le accuse, da diversi elementi e nata in seguito all'analisi delle chat di Alberto Tarallo. Prima i sospetti del fratello della vittima, poi le parole pronunciate dagli attori della scuderia della Ares Film e infine le chat carpite dal cellulare del patron della casa cinematografica.
Sono diversi gli elementi in mano agli investigatori che hanno sequestrato l'eredità da 5 milioni di euro di cui, secondo le indagini, si sarebbe impadronito Tarallo, falsificando il testamento del suo compagno Teodosio Losito. L'analisi dei messaggi inviati e ricevuti da Tarallo ha permesso alla guardia di finanza di capire che l'indagato era molto interessato ai problemi di salute di Rosalinda Cannavò, in arte Adua del Vesco, che tuttavia accusa Tarallo di essere la causa della sua anoressia.
Le chat ridimensionano anche i timori di Gabriel Garko, che interrogato ha attribuito a Tarallo le ragioni dei dissidi tra lui e Losito. Ma quelle conversazioni che allontanano dall'indagato alcuni sospetti, spingono gli investigatori verso un'accusa ben precisa: « Appare evidente, alla luce delle indagini svolte e degli elementi emersi dalla relazione del consulente tecnico - si legge nell'informativa - come signor Alberto Tarallo, nel corso degli anni, si sia prodigato per mettere in atto l'unico disegno criminoso volte all'acquisizione dei beni del signor Teodosio Losito, al fine di escludere dall'asse ereditario la famiglia del defunto».
I primi sospetti li ha sollevati il fratello della vittima: « Il signor Tarallo, come mi vide il giorno del decesso di mio fratello, mi disse subito di essere l'erede universale e di tale frase ci rimasi male perché lui mi disse ciò senza neanche farmi vedere mio fratello morto», ha raccontato Giuseppe Losito al pm Carlo Villani. Tarallo era molto interessato al denaro.
Lo rivelano le conversazioni tra l'indagato e un numero intestato a un'utenza maltese: «Tarallo, successivamente alla morte del compagno, è stato interessato agli eventuali introiti derivanti dalle attività che Losito aveva messo in piedi durante la sua vita, come nel caso della pubblicazione del romanzo scritto dal defunto quando era ancora in vita oppure dalla possibilità di ottenere guadagno della denuncia per diffamazione effettuata dopo l'uscita dello scandalo mediatico 'Ares Gate'», scrive la finanza ritenendo che le chat sono la « conferma del mero interesse economico da parte del signor Alberto Tarallo».
Tutte accuse che gli avvocati dell'indagato respingono. Per questo motivo, forti di una perizia che confermerebbe l'autenticità del testamento, hanno fatto ricorso al tribunale del Riesame.
Inchiesta Grande Fratello Vip, il giallo del suicidio di Losito. “Nella villa di Zagarolo riti e magia nera”. Andrea Ossino su La Repubblica il 12 marzo 2022.
Tutti i verbali degli artisti della casa di produzione Ares. Le accuse a Tarallo: “Costrizioni e ricatti. L’omosessualità un ostacolo alla carriera degli attori". La relazione del medico legale: il calorifero troppo basso per poter morire impiccato.
L'omosessualità come un ostacolo alla carriera degli attori, l'anoressia come conseguenza dell'estetica richiesta, gli amori, i rancori e i racconti che assumono connotati inquietanti, con tanto di riti magici e invocazioni alla luna. Tra le memorie affidate dalle star della Ares Film ai pm di Roma che indagano sul suicidio di Teodosio Losito, c'è anche spazio per i sospetti del medico legale presente nella villa di Zagarolo l'8 gennaio del 2019: "il termosifone utilizzato per l'impiccagione da parte di Losito sarebbe un po' troppo basso considerando l'altezza del soggetto", annota la finanza spiegando che i carabinieri non hanno trovato riscontri e "stante la cremazione del corpo, ad oggi non è possibile poter stabilire ulteriori scenari investigativi".
Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera - ed. Roma” l'11 marzo 2022.
Una lunga serie di morbide vocali hanno tradito l'ex patron della Ares (Mediaset) Alberto Tarallo, accusano i pm. Niente affatto, ribatte la difesa (avvocati Franco Coppi e Daria Pesce): in realtà quelle lettere manoscritte rivelano appieno la personalità dello sceneggiatore suicida, Teodosio Losito, e dunque vanno considerate autentiche.
Decapitate dall'impossibilità di effettuare esami sul corpo (cremato) di «Teo», le indagini della Procura convergono verso l'unico reato ipotizzabile al momento, quello del falso. Alberto Tarallo, a lungo compagno di vita di Losito, avrebbe falsificato testamento e lettere d'addio del fertile autore Ares che si è impiccato ai primi di gennaio 2019 nella villa di Zagarolo, passerella per attori come Gabriel Garko, Rosalinda Cannavò, Eva Grimaldi, Nancy Brilli, Massimiliano Morra e altri ancora.
Mentendo in sovrappiù a milioni di telespettatori, visto che quelle lettere, divulgate in prima serata (a «Non è l'arena» su La7), erano state presentate da Tarallo come il drammatico congedo di un uomo travolto dai suoi insuccessi.
Così, ieri, davanti ai giudici del Tribunale del riesame, è andata in scena una querelle calligrafica che somiglia da vicino a una guerra di perizie. In discussione le «c» a «conchiglia», le «a» disegnate «con movimento arrotolato» e perfino certe «o», trasformate in appuntito strumento dell'accusa volto a dimostrare che testamento e lettere di «Teo» «sono apocrife», fasulle.
Al netto di inevitabili tecnicismi, la perizia dell'esperta criminologa Maria Caldarazzo, depositata dal pm Carlo Villani, è chiara. Mettendo a confronto una sceneggiatura autografa di Tarallo («L'isola delle farfalle», drammone ambientato alla cupa vigilia della seconda guerra mondiale) e le famose missive verrebbe fuori «L'unica provenienza genografica» (di calligrafia, ndr ) dei testi.
Una stessa mano autrice de«L'isola delle farfalle» e delle lettere testamentarie di «Teo». Al contrario per la grafologa Silvia Passerini le famose «o» rivelano divergenze e asimmetrie. In un caso l'ovale «appare stretto e angoloso», mentre nell'altro «è tondeggiante e schiacciato». A dire che gli scritti appartengono a persone diverse e che, certamente, le lettere sono autentiche. All'orizzonte si profila un'archiviazione per l'ipotesi di istigazione al suicidio, mentre riguardo al falso gli avvocati Pesce e Coppi si dicono «fiduciosi che la documentazione depositata dimostri l'estraneità alle accuse di Tarallo».
Suicidio Losito, il pm vuole riascoltare Gabriel Garko: la sua testimonianza è la più dettagliata. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 19 Gennaio 2022.
L’attore è stato il più dettagliato nella sua testimonianza. Riprende quota l’ipotesi della istigazione al suicidio. Il testamento fasullo anche sul retro: chiesta una consulenza di parte.
Il produttore Alberto Tarallo ancora non sa che il 12 marzo scorso, negli uffici della Procura, l’indimenticato protagonista della fiction «L’onore e il rispetto», Gabriel Garko, ha affidato ai magistrati la testimonianza più severa agli atti dell’inchiesta sul presunto suicidio dello sceneggiatore Teodosio Losito. E infatti, oltre a togliersi qualche sassolino riguardo alla politica della ex Ares film nei confronti degli attori dichiaratamente gay (costretti a quotidiana e, a suo giudizio, «anacronistica» dissimulazione delle proprie inclinazioni sentimentali) Garko avrebbe tratteggiato un profilo di Tarallo che si è dimostrato utile all’accusa.
L’attore è stato l’unico fra i molti sfilati negli uffici della Procura (Eva Grimaldi, Manuela Arcuri, Massimiliano Morra, Nancy Brilli, Giuliana De Sio per citarne alcuni) ad aver anticipato il grado di spregiudicatezza del produttore, ex compagno di Losito. E dunque Viso d’angelo, come è soprannominato Garko dalle ammiratrici, sarà a breve riconvocato dal pm Carlo Villani che indaga sulla vicenda per una nuova e dettagliata audizione in qualità di persona informata sui fatti.
Mentre Rosalinda Cannavò/Adua Del Vesco, grande accusatrice di Tarallo a sua volta, si sarebbe concentrata sul tratto pseudo esoterico della faccenda, evocando una «setta» che avrebbe recluso i suoi adepti, Garko avrebbe fornito più concreti elementi sulla scuderia Ares. Subito ribattezzato «ingrato» dal produttore della fu Ares film, oggi indagato per falso e istigazione al suicidio a seguito della perizia sul testamento e alcune lettere di Losito dell’esperta nominata dalla Procura, Maria Caldarazzo.
Il punto è che, in seguito a quell’expertise molte cose sono cambiate. E perfino la difficile accusa di istigazione al suicidio, ipotizzata con poche speranze d’essere dimostrata, sembra destinata ad una rivalutazione. Le difficoltà di arrivare a prove concrete restano sul tavolo, perché non va dimenticato che il corpo di Teo Losito è stato cremato e dunque non sarà possibile riesumarlo. Ma l’accusa di falso sembra al momento blindata benché la difesa abbia già annunciato il deposito di una consulenza di parte che dimostri l’autenticità del documento.
Un nuovo dettaglio affiora riguardo al testamento sottoposto a perizia da parte della Procura. Il notaio che pubblicò l’atto, Claudio Cerini, deceduto un anno fa (diversamente sarebbe stato ascoltato dagli esperti del nucleo di polizia economico finanziaria cui è affidato l’approfondimento) avrebbe apposto la sua firma per ricezione dell’originale sul retro del foglio. Un improbabile gesto che ora alimenta ulteriori sospetti riguardo alla messa in scena del produttore. Nel frattempo, quest’ultimo, in attesa che il Tribunale di Roma fissi l’udienza del Riesame sul sequestro da cinque milioni eseguito una settimana fa, vara nuove strategie difensive. Sono già in corso contatti con l’autorevole Franco Coppi gradito alla sua storica avvocata, la penalista Daria Pesce in difficoltà a seguire da Milano gli sviluppi di un’inchiesta incardinata a Roma. Accetterà l’incarico?
Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 13 gennaio 2022.
Si annuncia una guerra di zampette e trattini: «Quel testamento è autentico, produrremo una consulenza che lo dimostra» tuona la penalista Daria Pesce che assiste il produttore della ex Ares, Alberto Tarallo e che ieri ha presentato richiesta di accesso al Tribunale del Riesame. Il fatto è che accenti e punteggiatura, in questo calligrafico affaire , possono rivelare molto. A leggere meglio le carte che hanno portato al sequestro di circa 5 milioni di euro tra attici, ville, conti e vetture, il problema è essenzialmente tecnico.
Per l'accusa, il testamento olografo di Teodosio Losito, sceneggiatore, ex compagno di Tarallo, ideatore delle migliori produzioni televisive Ares ( Il bello delle donne , L'onore e il rispetto , Il sangue e la rosa e via di seguito), morto suicida nella villa di Zagarolo l'8 gennaio 2019, è fatto in casa, artigianalmente. Stessa dinamica, stesso stile. «Le grafie presentano afferenti modalità di variazione del calibro, delle modalità degli agganci e degli stacchi interletterali», spiega la perita Maria Caldarazzo nel complesso linguaggio giudiziario.
Stesso respiro fra le lettere dell'alfabeto insomma. E ancora, non bastasse: «Tra le scritture in verifica e le scritture di comparazione di Alberto Tarallo - dice - vengono rilevate importanti e significative convergenze riferibili ad aspetti generali e particolari del fenomeno grafico».
I dubbi sull'autenticità del lascito si estendono alle tre missive d'addio scritte da Losito poco prima del suicidio, e lette (con grande pathos) da Tarallo nel corso di alcune puntate di Non è l'Arena su La7. Gli specialisti del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf ai quali sono delegati gli approfondimenti del pm Carlo Villani avrebbero voluto convocare Claudio Cerini, notaio al quale Tarallo si era rivolto per rendere pubblico il testamento. Ma per uno di quei colpi di scena di cui il giallo Losito sembra traboccante, è deceduto lo scorso anno.
La questione del testamento falso per il quale Tarallo è stato indagato porta alla domanda clou: Losito ha maturato la sua scelta suicida in solitudine o no? Militano in favore dell'istigazione la grande accusatrice di Tarallo, l'attrice Adua Del Vesco (ovvero Rosalinda Cannavò). La prima a descrivere la villa di Zagarolo come location di una sorta di «setta» nella quale si muoveva un innominabile in grado di piegare volontà e coscienze ai suoi precetti.
Quindi si sono aggiunte le testimonianze di Gabriel Garko (a sua volta riluttante a subire i diktat della Ares sulla necessità di non rivelare la sua omosessualità) e, più o meno dello stesso tenore, le parole di Eva Grimaldi. Tarallo, indagato anche per l'istigazione al suicidio, teme poi per la terza puntata dell'inchiesta, quella che riguarda il presunto crac della Ares, travolta nel 2020 da un milione e mezzo di debiti.
Sul sequestro eseguito ieri sulle abitazioni di Tarallo, la deputata forzista Patrizia Marrocco tiene a precisare di non aver abitato l'attico milanese sottoposto a confisca: «Vivo in un'abitazione di mia proprietà dal 2006. Tali affermazioni risultano lesive della mia integrità».
Anticipazione da “Oggi” il 26 gennaio 2022.
Il settimanale OGGI, in edicola da domani, pubblica le 13 righe scritte a mano del testamento dell’autore televisivo Teo Losito, morto suicida. Nel foglio viene nominato erede universale Alberto Tarallo, suo compagno di vita e di lavoro.
Scritto in corsivo a caratteri molto grandi, perfettamente chiari e leggibili, è il controverso documento attorno a cui ruota l'inchiesta sulla casa di produzione Ares, aperta un anno fa dal pubblico ministero romano Carlo Villani.
Testamento e anche alcune lettere, secondo la perizia del pubblico ministero, sarebbero apocrifi. La scrittura non sarebbe di Losito, e presenterebbe alcune analogie con quella di Tarallo. Il Pm ha messo sotto inchiesta per falso il re delle fiction e gli ha sequestrato tutti i beni ereditati.
Daria Pesce, legale di Tarallo, ribatte sostenendo l'assoluta autenticità dell'atto: «Si tratta dello stesso testamento olografo che Losito aveva depositato nel 2007», ha detto a Oggi l'avvocatessa milanese, «e quindi non può essere un falso. Lo dimostreremo davanti al riesame».
Suicidio Teo Losito, il testamento è falsificato: imitate firma e scrittura. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera l'11 gennaio 2022. Nelle ultime volontà lo sceneggiatore lasciava il suo intero patrimonio all’ex compagno Alberto Tarallo, patron dell’Ares, e indagato per falso: sequestrati 5 milioni di euro.
C’è un colpo di scena nella vicenda che riguarda il presunto suicidio dello sceneggiatore Teo Losito morto due anni fa nella villa di Zagarolo del suo ex compagno Alberto Tarallo. Il suo testamento con il quale lasciava l’intero suo patrimonio a Tarallo sarebbe stato falsificato «imitandone la calligrafia e la firma».
Tarallo, indagato per falso è stato ora sottoposto a un sequestro preventivo di cinque milioni di euro, notificato dai finanzieri del nucleo economico finanziario. Il patron della Ares («Il bello delle donne» e altri titoli assai seguiti dal pubblico televisivo) aveva parlato più volte in televisione alla trasmissione Non è l’Arena di Massimo Giletti dichiarandosi estraneo al suicidio di Teo Losito. Il pm Carlo Villani però ha sottoposto a indagine.
Per la vicenda erano sfilati in procura attori come Gabriel Garko, Eva Grimaldi, Manuela Arcuri, Nancy Brilli ed altri, fra cui la grande accusatrice di Tarallo Adua Del Vesco. Il produttore era sotto accusa per i suoi metodi poco ortodossi fra i quali le imposizioni di regole comportamentali al limite della vessazione. La Del Vesco aveva parlato della Ares come di una sorta di setta.
Michela Allegri per “il Messaggero” il 12 gennaio 2022.
Un testamento falso, così come le lettere d'addio lette in diretta tv con la voce rotta dalla commozione. L'inchiesta sull'Ares gate, partito da una puntata del Grande fratello vip e incentrato sul suicidio dello sceneggiatore tv Teodosio Losito, proprietario della società di produzione Ares insieme al compagno Alberto Tarallo, è arrivata a una svolta.
Ieri i finanzieri del Nucleo di polizia economico finanziaria di Roma, coordinati dal pm Carlo Villani, hanno sequestrato proprio a Tarallo beni per 5 milioni di euro: ville, appartamenti, conti correnti, quote societarie, una polizza.
Si tratta dell'eredità di Losito, morto l'8 gennaio 2019. Dopo il decesso, Tarallo si era presentato dal notaio con un testamento, apparentemente redatto dal compagno nel 2017, nel quale lo sceneggiatore lo nominava erede universale.
Ora, però, è emerso che quel documento sarebbe falso. E la stessa cosa vale per le tre lettere d'addio che Tarallo aveva letto davanti a una telecamera per dimostrare l'amore che lo legava a Teo, quando era stato travolto dalle polemiche.
Erano datate 10 dicembre 2018, 18 dicembre 2018 e 8 gennaio 2019, il giorno del suicidio: nulla di vero, secondo chi indaga. Il pm Villani, infatti, ha disposto una perizia grafologica sui documenti. E il consulente sembra non avere dubbi: i testi non sono compatibili con lo stile di scrittura di Losito, ma con quello del compagno.
Tarallo, già sotto inchiesta per istigazione al suicidio, è stato quindi indagato anche per falso in testamento olografo e falso in scrittura privata. Ieri sotto sequestro è finito anche l'appartamento di Milano nel quale viveva Patrizia Marrocco, ex compagna di Paolo Berlusconi ed ex direttrice della Ares film.
A lei Losito avrebbe indirizzato una lettera in cui parlava dei debiti societari. L'inchiesta, che sembra la sceneggiatura di una delle fiction che hanno fatto la fortuna della Ares, è partita dalla denuncia depositata in Procura dal fratello di Losito, Giuseppe.
L'uomo ha raccontato di avere trovato strano il suicidio: con lui, Teo non aveva dato segni di depressione così grave e che potessero fare pensare a un gesto disperato. Nella stessa denuncia, Giuseppe spiegava di essere venuto a conoscenza del testamento solo attraverso il notaio e che, nonostante le sue richieste, non gli era stato concesso di visionarlo per sottoporlo a perizia.
Tarallo, inoltre, aveva avanzato pretese anche su una polizza vita che Losito aveva intestato al nipote. L'inchiesta aveva ripreso quota lo scorso anno, dopo le dichiarazioni fatte nella casa del Grande fratello vip da due concorrenti che avevano parlato dell'esistenza di una specie di setta collegata alla Ares e manovrata da un uomo da loro soprannominato Lucifero.
Nel decreto di sequestro, il gip Maria Paola Tomaselli sottolinea che «emerge con chiara evidenza come l'indagato, approfittando della morte del compagno, abbia messo in atto un disegno criminoso volto all'acquisizione dei beni di Losito al fine di escludere dall'asse ereditario la famiglia del defunto, procurando a sé un ingiusto profitto patrimoniale ed arrecando danni ai legittimi eredi».
Il giudice spiega poi che Tarallo «ha dimostrato, attraverso l'attività di falsificazione posta in essere, una notevole disinvoltura e spregiudicatezza».
Per mesi, il pm Villani ha ascoltato decine di vip che hanno lavorato con la Ares, da Gabriel Garko a Nancy Brilli: le loro testimonianze sono agli atti dell'inchiesta. Lo scorso luglio, inoltre, il magistrato ha interrogato Tarallo. Nel fascicolo ci sono ci sono anche numerosi documenti acquisiti nella villa di Zagarolo, vicino a Roma, dove il produttore viveva con Losito e dove lo sceneggiatore si è tolto la vita. La proprietà ieri è finita sotto sequestro, insieme ad un'Audi A4, all'attico di Milano, a quote societarie e conti correnti da decine di migliaia di euro.
Andrea Ossino per “la Repubblica” il 12 gennaio 2022.
Se non fosse reale, questa storia sarebbe degna della sceneggiatura di una delle fiction che ha prodotto il protagonista dell'inchiesta condotta dalla procura di Roma. Alberto Tarallo, uno degli uomini più potenti dell'industria cinematografica italiana, ha falsificato un testamento per sottrarre l'eredità alla famiglia del suo compagno, Teodosio Losito, sul cui suicidio pende un'altra indagine. Il patron della Ares Film, tramite l'avvocato Daria Pesce, sostiene che sarebbe stato proprio il compagno deceduto a consegnare al notaio le sue ultime volontà.
Ma la circostanza è difficile da appurare, visto che anche il notaio è scomparso. C'è di più: nell'ultimo anno, mentre star dello spettacolo come Gabriel Garko, Eva Grimaldi, Manuela Arcuri, Nancy Brilli, Giuliana De Sio e Barbara D'Urso venivano convocate dal pm Carlo Villani per essere ascoltate come «persone informate sui fatti», Tarallo mostrava in tv le lettere in cui Losito dichiarava i suoi intenti nefasti. Anche alcuni di quei manoscritti, rivela la perizia calligrafica, sono falsi.
Cosi ieri la Finanza di Roma ha sequestrato circa 5 milioni. Il conto corrente della vittima, un'Audi A4, quote di tre società, la polizza assicurativa lasciata dalla vittima al fratello e oggetto di un contenzioso civile. E 21 tra terreni, fabbricati e appartamenti. Anche la villa di Zagarolo che ospitava vip di ogni sorta. E un attico milanese in uso alla deputata di Forza Italia Patrizia Marrocco.
La donna, in passato legata a Paolo Berlusconi, è una dei fondatori della Ares Film di Tarallo e Losito. Era il 2006 e "L'onore e il rispetto" racimolava 7 milioni di telespettatori grazie alla "estetica queer " tanto contestata dai critici. Il tocco vincente è scemato negli anni. E il fallimento dell'azienda, partecipata anche da Rti (controllata Mediaset), era dietro l'angolo. Anche su questa circostanza c'è un'indagine in corso.
Il fallimento, ufficializzato nel dicembre 2020, è avvenuto dopo la morte dell'amministratore e sceneggiatore Teodosio Losito. L'8 gennaio 2019 quell'omone di un metro e 80 si è impiccato nella villa di Zagarolo legando il foulard della madre al termosifone poco più alto di lui. Tarallo e l'attore Andrea Marras hanno provato a soccorrerlo trasportandolo sul letto. Poi hanno chiamato i soccorsi. Nessuna foto, nessuna autopsia. Solo un'indagine per istigazione al suicidio.
Di quella morte hanno parlato anche nella casa del Grande Fratello Vip. «Non ci credo che sia stato un suicidio, sai? Tanto sappiamo bene chi è l'artefice di tutto questo schifo... », aveva detto la concorrente Rosalinda Cannavò, in arte Adua Del Vesco. Poi la denuncia del fratello di Losito. L'uomo nutriva «seri dubbi in ordine alle circostanze in cui si era consumato il suicidio del fratello» e sul comportamento di Tarallo: «Interessato solo ed esclusivamente ad accaparrarsi il denaro».
«Avevamo dei sospetti e ci siamo rivolti alla Procura », dice l'avvocato della famiglia Losito, Stefano De Cesare. I pm hanno risposto: il testamento e le ultime lettere della vittima «appartengono a un'unica mano, ovvero quella di Alberto Tarallo». La difesa contesta: «Vogliamo fare una perizia, il nostro diritto a difenderci è stato leso».
Dopo le rivelazioni del Grande Fratello Vip, sequestrati beni e terreni per 5 milioni di euro ad Alberto Tarallo. “Falso il testamento” di Losito. Il Corriere del Giorno l'11 gennaio 2022.
Sequestrato dalla Guardia di Finanza di Roma ad Alberto Tarallo, il “patron” della società di produzione Ares Film, il cui nome comprare nel registro degli indagati terreni e fabbricati, un patrimonio di poco inferiore al valore di 5 milioni di euro. La perizia calligrafica che dimostrerebbe che i documenti grazie ai quali Tarallo ha ricevuto l’eredità di Losito sono stati falsificati.
L’ipotesi investigativa del sostituto procuratore Carlo Villani della procura di Roma che indaga sulla morte del produttore cinematografico Teodosio Losito, è che il suo testamento e le sue lettere di addio siano falsi , a seguito della perizia calligrafica che dimostrerebbe che i documenti grazie ai quali Tarallo ha ricevuto l’eredità di Losito sono stati falsificati. “Ho difficoltà ad affrontare la tua delusione, il tuo dolore, il tuo smarrimento, le tue reazioni, è come distruggere ciò che hai/abbiamo costruito con le mie mani, è come doverti infilzare un coltello nel petto“, scriveva Losito in una lettera indirizzata a Tarallo: “Mi vergogno troppo per sopravvivere a questa disfatta”. Ma le lettere non sembrerebbero essere originali. Da cui è conseguita l’ipotesi di reato di falso.
“Emerge con chiara evidenza come l’indagato, approfittando della morte del compagno, abbia messo in atto un disegno criminoso volto all’acquisizione dei beni di Teodosio Losito, al fine di escludere dall’asse ereditario la famiglia del defunto, procurando a sé un ingiusto profitto patrimoniale e arrecando danno ai legittimi eredi”, scrive il gip Maria Paola Tomaselli nel decreto di sequestro preventivo. La giudice aggiunge poi che Tarallo “ha dimostrato, attraverso l’attività di falsificazione posta in essere, una notevole disinvoltura e spregiudicatezza”.
Secondo la perizia disposta dai magistrati, la calligrafia sul testamento e su tre lettere datate tra dicembre 2018 e l’8 gennaio 2019 (giorno della sua morte), non sarebbe quella di Losito ma quella di Tarallo. La consulenza grafologica disposta dalla Procura di Roma, oltre che per il testamento, ha confermato anche “i dubbi sull’autenticità delle lettere d’addio di Losito“. Secondo l’accertamento grafologico “gli scritti appartengono ad un’unica mano, ovvero quella di Tarallo“.
L’inchiesta è partita dalla denuncia depositata in Procura dal fratello di Losito, Giuseppe. L’uomo ha raccontato di avere trovato strano il suicidio: con lui, Teo non aveva dato segni di depressione così grave e che potessero fare pensare a un gesto disperato. Nella stessa denuncia, Giuseppe Losito affermava di essere venuto a conoscenza del testamento soltanto attraverso il notaio e che, nonostante le sue richieste, non gli era stato concesso di visionarlo per sottoporlo a perizia.
Una vicenda dolorosa sulla quale è in corso anche un contenzioso giudiziario in sede civile in relazione ad una polizza vita da 300 mila euro reclamata sia da Tarallo che dal fratello di Teodosio Losito, Giuseppe. Nel 1987 Losito aveva partecipato al Festival di Sanremo, nella categoria Nuove Proposte, con il brano “Ma che bella storia…”, senza però ritagliarsi un ruolo significativo all’interno del mercato discografico. Successivamente aveva partecipato al Festivalbar con la canzone “Direttamente al cuore”, scritta da Cristiano Malgioglio. Nel 1995 e nel 1996 aveva infine lavorato come attore di fotoromanzi per il magazine “Grand Hotel“. Poi, dal 2001, la carriera di sceneggiatore di successo delle fiction Mediaset. Una carriera proseguita fino all’anno della sua morte, il 2019.
Sequestrati dalla Guardia di Finanza di Roma ad Alberto Tarallo, il “patron” della società di produzione Ares Film, il cui nome comprare nel registro degli indagati terreni e fabbricati, un patrimonio di poco inferiore al valore di 5 milioni di euro.
Chi è Alberto Tarallo
Tarallo è nato il 23 settembre 1953 a Napoli. Il suo esordio sul grande schermo avviene nel 1973 in Rugantino di Pasquale Festa, dove vestiva i panni di un modello che posava per uno scultore. In seguito diventa popolare grazie al ruolo del travestito, ricoperto in diversi film. Alberto Tarallo ha gestisce per un periodo “L’Alibi” lo storico locale gay di Roma. Negli anni ’80, debutta nel campo dell’editoria per adulti con il settimanale ‘OP’ e in quello della produzione televisiva. Soltanto sul finire del 1980, diventa anche agente di personaggi dello spettacolo.
Ad oggi è noto per essere stato il fondatore della Ares Film, casa di produzione dichiarata fallita dal Tribunale di Roma a febbraio del 2020. Molti titoli di fiction di successo sono legati alla sua azienda, come: “Il Bello delle Donne”, “L’Onore e il Rispetto“, “Il Peccato e la Vergogna”, “Furore: Il vento della speranza” e “Pupetta“.
Nonostante la sua appartenenza al mondo dello spettacolo, le notizie che abbiamo sul suo conto sono quelle di essere stato sempre molto vicino agli “ambienti” berlusconiani, presentando avvenenti donne dello spettacolo diventate amanti, fidanzate ed in qualche caso anche mogli di influenti personaggi dell’ entourage di Silvio Berlusconi. Il fallimento della società Ares Film è avvenuto a febbraio 2020. Dopo che nel 2016, anno delle riprese di “Furore 2“, i lavori della produzione erano già stati interrotti. Successivamente a cavallo tra il 2017 e il 2018, doveva andare in produzione “Donne d’Onore” con Manuela Arcuri, ma tutto finì nel dimenticatoio.
Qualche mese fa la Fiamme Gialle hanno bussato alla porta alla villa di Tarallo a Zagarolo alle porte di Roma, sequestrando numerosi documenti nell’ abitazione in cui il produttore ha vissuto insieme al compagno Teodosio Losito fino al gennaio 2019, quando lo sceneggiatore si è ucciso, morte da cui è nata l’inchiesta della procura di Roma. L’inchiesta, in cui veniva ipotizzato inizialmente il reato di istigazione al suicidio, aveva anche approfondito le dinamiche economiche che ruotavano intorno all’azienda fallita. Alla base del suicidio potrebbero esserci motivi economici.
Le indagini sono iniziate a seguito delle rivelazioni captate nella casa del “Grande Fratello Vip“ il fortunato programma televisivo condotto da Alfonso Signorini su Canale 5. “Se fossi rimasta, avrei fatto la sua fine. Tu non immagini cosa ho passato! Ero veramente sola, con il suo gesto Teo ha liberato anche me, altrimenti oggi non sarei più qui… che poi io non ci credo che sia stato un suicidio, sai? Tanto sappiamo bene chi è l’artefice di tutto questo schifo…”, aveva affermato Rosalinda Cannavò, in arte Adua Del Vesco, concorrente del Grande Fratello Vip e già volto della Ares Film, la società di produzione di Tarallo ormai fallita, mentre l’attrice confabulando con il collega Massimiliano Morra, faceva riferimento a un certo “Lucifero“.
Gli inquirenti avevano così dato corso alle indagini con il sospetto che l’ Ares Film potesse aver interferito in maniera opprimente nella vita privata degli artisti, imponendo loro quelle che sarebbero state le tre regole non scritte della Ares: cambiare il nome, cancellare l’età ed annullare ogni rapporto con la propria famiglia. In procura a Roma, erano stati convocati ed interrogati numerosi volti della Ares: Manuela Arcuri, Nancy Brilli, Giuliana De Sio, Barbara D’Urso, Gabriel Garko, Eva Grimaldi, Francesco Testi, ed anche la parlamentare di Forza Italia Patrizia Marrocco, socia co-fondatrice della Ares Film, che all’epoca dei fatti era legata sentimentalmente a Paolo Berlusconi.
L’attenzione degli investigatori si è focalizzata proprio sui conti della Ares che hanno bloccato parte del patrimonio riconducibile al suo fondatore. L’azienda, fallita nel 2020, già da tempo non navigava in buone acque, dopo aver visto dimezzarsi i precedenti 7 milioni di telespettatori raccolti ai tempi degli esordi della fiction “L’onore e il rispetto“. Il fallimento della società è stato la naturale conseguenza, ma secondo la procura di Roma potrebbe portare alla luce molto altro. Le indagini proseguono.
· Il Mistero della Strage di Erba.
Dagospia il 21 novembre 2022. Da “Cusano Italia TV”
In arrivo nuovi clamorosi sviluppi sulla strage di Erba in provincia di Como, avvenuta l'11 dicembre 2006. Vennero uccisi a colpi di coltello e spranga: Raffaella Castagna, suo figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini.
Il marito di quest'ultima, Mario Frigerio, invece riuscì a salvarsi grazie ad una malformazione congenita alla carotide. Per quella strage sono stati condannati all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi. Nonostante tre gradi di giudizio però i lati oscuri sono ancora molti e gli avvocati dei coniugi Romano insieme ai consulenti di parte, stanno per presentare la richiesta di revisione del processo.
Lo ha rivelato a “Crimini e Criminologia” su Cusano Italia TV, uno dei legali, l’avvocato Fabio Schembri che al microfono di Fabio Camillacci ha detto: “Stiamo lavorando da tempo come collegio difensivo di Olindo Romano e Rosa Bazzi, insieme ai nostri consulenti per presentare una richiesta di revisione del processo.
Ci siamo quasi, la richiesta sta per essere presentata, non so dirvi quanto manca, ma posso dire che non saranno tempi lunghi. La revisione del processo è un istituto estremamente difficile da attivare perché ci vogliono delle prove nuove; quindi, stiamo lavorando per portare prove nuove su ogni singolo elemento.
Si è cercato sempre di annacquare quelli che erano dei dati tecnici, per puntare su un movente flebile come quello delle liti condominiali; invece di puntare su moventi ben più pregnanti quale era il traffico di sostanze stupefacenti che veniva effettuato nell’ambito dell’abitazione di Raffaella Castagna, moglie di Azouz Marzouk che era stato arrestato per droga.
Non a caso all’inizio la Guardia di Finanza cercò di esaminare quella pista, trovando degli elementi di una certa consistenza. Su questo abbiamo un nuovo testimone, il tunisino Abdi Kais, amico di Azouz che era residente proprio in via Armando Diaz a Erba, cioè nell’appartamento della strage.
E questo testimone ha parlato di gravi liti avvenute prima dell’11 dicembre 2006, liti per droga culminate anche con accoltellamenti. Inoltre, ha raccontato che venne accoltellato gravemente anche il fratello di Azouz.
Questo testimone poi ha raccontato di aver ricevuto l’ordine di eliminare alcuni elementi del gruppo rivale e che nell’abitazione di Raffaella Castagna venivano custoditi dei valori provenienti dallo spaccio di droga. L’altro elemento nuovo riguarda le intercettazioni ambientali mancanti e la testimonianza di un carabiniere che all’epoca dei fatti lavorava presso il nucleo operativo di Como per occuparsi proprio di intercettazioni ambientali e telefoniche.
Questo carabiniere ci ha garantito che tutte le operazioni d’intercettazione si svolsero regolarmente; cioè non ci furono interruzioni, altrimenti le avrebbero segnalate.
Quindi questa è un’altra grave anomalia perché mancano anche altre intercettazioni. Evidentemente, qualcuno le ha fatte sparire, forse perché scagionavano i coniugi Romano.
E per anni ci hanno sempre detto, magistrati compresi, che le intercettazioni erano tutte”. L’avvocato Schembri poi ha parlato di Olindo e Rosa: “Olindo è detenuto nel carcere di Opera e Rosa in quello di Bollate, ma da poco hanno ripreso a vedersi quindi a rifare i colloqui dopo il Covid; prima si sentivano solo telefonicamente. Vivono due vite differenti, Rosa si è creata il suo mondo all’interno dell’ambiente carcerario perché è protetta e ha trovato tutto quello che le serve. Olindo invece vive con il pensiero di Rosa e mi dice sempre di fare di tutto per farlo uscire dal carcere per riabbracciare la sua amata moglie. In generale è proprio il loro stato a mantenerli in vita nonostante la condanna all’ergastolo da innocenti. Ed è proprio questa loro condizione psicologica a creare una coperta, una protezione per eventuali gesti insani da parte di entrambi”.
Strage di Erba, l’avvocato di Olindo Romano e Rosa Bazzi annuncia clamorosi sviluppi. L'avvocato Fabio Schembri spiega che chiederà la revisione del processo per i due coniugi condannati al "fine pena mai". Il Dubbio il 21 novembre 2022
In arrivo nuovi clamorosi sviluppi sulla strage di Erba in provincia di Como, avvenuta l’11 dicembre 2006. Vennero uccisi a colpi di coltello e spranga: Raffaella Castagna, suo figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Il marito di quest’ultima, Mario Frigerio, invece riuscì a salvarsi grazie ad una malformazione congenita alla carotide. Per quella strage sono stati condannati all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi.
Nonostante tre gradi di giudizio però, i lati oscuri sono ancora molti e gli avvocati dei coniugi Romano insieme ai consulenti di parte, stanno per presentare la richiesta di revisione del processo. Lo ha rivelato a «Crimini e Criminologia« su Cusano Italia TV, uno dei legali, l’avvocato Fabio Schembri che ha detto: «Stiamo lavorando da tempo come collegio difensivo di Olindo Romano e Rosa Bazzi, insieme ai nostri consulenti per presentare una richiesta di revisione del processo. Ci siamo quasi, la richiesta sta per essere presentata, non so dirvi quanto manca, ma posso dire che non saranno tempi lunghi. La revisione del processo è un istituto estremamente difficile da attivare perché ci vogliono delle prove nuove; quindi, stiamo lavorando per portare prove nuove su ogni singolo elemento. Si è cercato sempre di annacquare quelli che erano dei dati tecnici, per puntare su un movente flebile come quello delle liti condominiali; invece di puntare su moventi ben più pregnanti quale era il traffico di sostanze stupefacenti che veniva effettuato nell’ambito dell’abitazione di Raffaella Castagna, moglie di Azouz Marzouk che era stato arrestato per droga».
«Non a caso all’inizio la Guardia di Finanza cercò di esaminare quella pista, trovando degli elementi di una certa consistenza. Su questo abbiamo un nuovo testimone, il tunisino Abdi Kais, amico di Azouz che era residente proprio in via Armando Diaz a Erba, cioè nell’appartamento della strage. E questo testimone ha parlato di gravi liti avvenute prima dell’11 dicembre 2006, liti per droga culminate anche con accoltellamenti. Inoltre, ha raccontato che venne accoltellato gravemente anche il fratello di Azouz. Questo testimone poi ha raccontato di aver ricevuto l’ordine di eliminare alcuni elementi del gruppo rivale e che nell’abitazione di Raffaella Castagna venivano custoditi dei valori provenienti dallo spaccio di droga».
«L’altro elemento nuovo riguarda le intercettazioni ambientali mancanti e la testimonianza di un carabiniere che all’epoca dei fatti lavorava presso il nucleo operativo di Como per occuparsi proprio di intercettazioni ambientali e telefoniche. Questo carabiniere ci ha garantito che tutte le operazioni d’intercettazione si svolsero regolarmente; cioè non ci furono interruzioni, altrimenti le avrebbero segnalate. Quindi questa è un’altra grave anomalia perché mancano anche altre intercettazioni. Evidentemente, qualcuno le ha fatte sparire, forse perché scagionavano i coniugi Romano. E per anni ci hanno sempre detto, magistrati compresi, che le intercettazioni erano tutte».
L’avvocato Schembri poi ha parlato di Olindo e Rosa: «Olindo è detenuto nel carcere di Opera e Rosa in quello di Bollate, ma da poco hanno ripreso a vedersi quindi a rifare i colloqui dopo il Covid; prima si sentivano solo telefonicamente. Vivono due vite differenti, Rosa si è creata il suo mondo all’interno dell’ambiente carcerario perché è protetta e ha trovato tutto quello che le serve. Olindo invece vive con il pensiero di Rosa e mi dice sempre di fare di tutto per farlo uscire dal carcere per riabbracciare la sua amata moglie. In generale è proprio il loro stato a mantenerli in vita nonostante la condanna all’ergastolo da innocenti. Ed è proprio questa loro condizione psicologica a creare una coperta, una protezione per eventuali gesti insani da parte di entrambi».
Uccisa in casa nel Varesotto, lo strano legame del presunto omicida con Olindo e Rosa (e la strage di Erba). Redazione Web su Il Mattino il 20 agosto 2022.
Un ulteriore mistero nel mistero grava sulla storia di Carmela Fabozzi - uccisa a Malnate (Varese) - e riguarda il suo presunto omicida. L'uomo che, secondo le prime ricostruzioni degli inquirenti, l'avrebbe uccisa nella sua abitazione e poi è partito tranquillamente per le vacanze. Una rapita finita male? No perché Sergio Domenichini, 66 anni, dalla casa dell'anziana ha prelevato solo due telefoni, staccati il giorno del delitto perché, secondo il gip, con «ogni evidenza contenenti messaggi e contatti riconducibili all'aggressore».
Il legame con Olindo e Rosa
Sergio Domenichini, 66 anni, arrestato per l'omicidio della pensionata Carmela Fabozzi, 73 anni - uccisa nella sua casa di Malnate con dei colpi di un vaso per fiori alla testa - aveva deposto nel 2008 davanti alla Corte d'assise di Como nel corso del processo sulla strage di Erba (quattro morti tra cui un bambino di due anni e un ferito grave) che portò alla condanna definitiva dei coniugi Olindo Romano e Rossa Bazzi. «Ero nella cella di fronte - disse allora in aula Domenichini, detenuto per droga - non mi ha mai accennato a quello di cui era accusato, lo seppi dai giornali. Mi disse sempre di essere innocente e che non aveva fatto niente». Domenichini, che aveva conosciuto la pensionata per via della sua attività presso un'associazione di volontariato a favore degli anziani, era partito per le vacanze al mare il giorno stesso del delitto, il 22 luglio, ed era tonato da Lignano Sabbiadoro il 17 agosto, senza pagare il conto dell'albergo. Ora è in attesa dell'interrogatorio di garanzia.
Carmela Fabozzi, tutto quello che sappiamo sull'omicidio
Carmela Fabozzi, 73 anni, vedova da tempo, era «una persona cordiale ma schiva e riservata», aveva «lavorato una vita intera in Svizzera» e percepiva «una pensione che le consentiva di vivere comodamente senza preoccupazioni di carattere economico». Una vita «piccola» la sua, scrive il gip che ha disposto l'arresto del suo presunto omicida, «prevalentemente spesa a Malnate tra i negozi dove faceva i suoi acquisti e le visite quasi quotidiane al cimitero». Perché questa vita «piccola», ordinaria, sia stata stroncata con oltre nove colpi di un corpo contundente alla testa, un vaso di fiori, dovrà spiegarlo Sergio Domenichini, 66 anni con precedenti per reati contro il patrimonio, ricettazioni e truffe anche in danno di persone anziane. Domenichini viveva di espedienti ed è stato arrestato al suo ritorno dalle vacanze, dove era rimasto dal giorno dell'omicidio, lo scorso 22 luglio, fino al 17 agosto lasciando l'albergo in cui si trovava senza pagare il contro. Il movente non è una rapina finita male, Domenichini, dalla casa ha preso solo due telefoni, staccati il giorno del delitto perché, secondo il gip, con «ogni evidenza contenenti messaggi e contatti riconducibili all'aggressore». I carabinieri del Reparto operativo Nucleo investigativo di Varese avevano individuato l'uomo anche sulla scorta delle testimonianze dei vicini della vittima. Era volontario per un'associazione che assiste anziani nei trasporti, nel portare loro cibo o medicinali e Carmela Fabozzi l'aveva già incontrato perché in alcune occasioni, aveva usato questo servizio. Dalle indagini erano emersi altri indizi.
Strage di Erba, i giudici alla difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi: no a nuovi reperti della scena del delitto
La donna era stata uccisa nell'ingresso dell'abitazione, vicino ad un mobile con un pesante vaso di fiori secchi, trovati sotto il corpo della donna, mentre il vaso era al suo posto. Gli accertamenti del Ris di Parma hanno consentito di trovare all'interno del vaso le impronte dell'arrestato, all'esterno tracce di sangue. Il piccolo appartamento appariva in ordine, con letto rifatto, la zona soggiorno sostanzialmente intatta. L'anziana era vestita con cura e aveva indosso anche qualche gioiello. Sulla sedia quasi accanto al punto in cui è stata uccisa, due borsette e sul tavolo un piccolo portafogli con una tessera bancomat e denaro contante. I carabinieri del RIS hanno trovato impronte di sangue, invisibili a occhio nudo, lasciate da scarpe da ginnastica dalla suola molto particolare, del tutto simile a quella indossate dall'uomo nei video delle telecamere intorno all'abitazione della vittima quella mattina. Scarpe trovate nella sua auto e sulle quali vi erano macchie di sangue. ora oggetto di esame. La presenza di Domenichini sul luogo del delitto emerge dalle immagini delle telecamere intorno all'abitazione della vittima che aveva cercato prima al telefono due volte senza ottenere risposta. Nel pomeriggio, a bordo dell'auto che aveva fatto lavare, aveva effettuato continui passaggi nella zona, senza apparente motivo, fino alla sera, quando era partito con la compagna per le vacanze.
Strage di Erba, diffamarono su Facebook la famiglia Castagna: dieci patteggiamenti. Nella querela si faceva riferimento a una serie di commenti e di affermazioni pubblicati sulla pagina Facebook “Olindo Romano e Rosa Bazzi innocenti” contro la famiglia Castagna. Il Dubbio il 21 marzo 2022.
Sono dieci le persone, che attraverso una pagina Facebook avevano diffamato la famiglia Castagna di Erba, che nella giornata del 21 marzo 2022 hanno patteggiato la pena davanti al giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Como, tra i cinque mesi e i 1.400 euro di multa per il reato di diffamazione. L’inchiesta, secondo quanto si apprende, era nata nel 2018 dalla denuncia dei fratelli Beppe e Pietro Castagna.
Per la strage di Erba la giustizia italiana aveva condannato all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi. Nella querela si faceva riferimento a una serie di commenti e di affermazioni pubblicati sulla pagina Facebook “Olindo Romano e Rosa Bazzi innocenti” contro la famiglia Castagna. L’amministratrice della pagina, una donna di Lecco, ha scelto di affrontare il processo, mentre altri due imputati hanno invece estinto il reato dopo avere versato 1.500 euro alla Croce Rossa di Erba prima dell’udienza.
(ANSA l'11 gennaio 2022) - Azouz Marzouk era convinto della "bontà della tesi della difesa Bazzi e Romano" e li ha accusati "di autocalunnia perché personalmente e soggettivamente convinto, seppur a torto", della "falsità delle loro originarie confessioni".
Lo scrive la giudice Daniela Clemente della settima penale del Tribunale di Milano, nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, con la formula "perché il fatto non sussiste", dello scorso 6 ottobre. Marzouk, ex marito di Raffaella Castagna e padre di Youssef, due delle quattro vittime della strage di Erba del dicembre 2006, era accusato di calunnia in relazione a una richiesta di nuove prove, avanzata alla Procura generale milanese, ai fini della revisione del processo che si è chiuso con la condanna all'ergastolo di Olindo Romano e Rosa Bazzi.
Per la giudice, l'accusa a carico dell'uomo "non può ritenersi fondata". Secondo la pm Giancarlo Serafini, che aveva chiesto una condanna a 3 anni e mezzo di reclusione, Marzouk, difeso dagli avvocati Luca D'Auria e Solange Marchignoli, avrebbe fatto tutto questo "per attirare attenzione su di sé" e per proporsi "a trasmissione tv con interviste esclusive e anche per avere corrispettivi economici in cambio".
Inoltre secondo la giudice, Marzouk, che non ha mai "letto personalmente gli atti del processo", è anche "personalmente coinvolto nei fatti relativi alla strage di Erba e quindi anche incapace di operare valutazioni su quella vicenda giudiziaria con il distacco emotivo e la capacità di discernimento propria di un soggetto terzo".
Nella sentenza si legge ancora: "Del resto, se financo parte della stampa ebbe a manifestare delle perplessità sulla colpevolezza dei Romano, non può escludersi che siffatti dubbi possano essere insorti anche nel Marzouk".
La giudice osserva ancora che "non può ignorarsi che il processo sulla strage di Erba fu articolato e complesso" e che i difensori dei Romano "cercarono di confutare strenuamente, nei vari gradi di giudizio, la valenza dei singoli elementi a carico degli imputati, con possibili ricostruzioni alternative e ipotetiche dei fatti da risultare assolutamente sovrapponibili a quelle addotte dal medesimo Marzouk nella sua istanza (alla Procura generale di Milano, ndr) dell'11 aprile 20219". Istanza che era "finalizzata, testualmente, alla proposizione di una futura richiesta di revisione del processo" e che si basava "sul presupposto che il pervenuto non fosse convinto della condivisibilità del giudicato già intervenuto".
· Il caso di Gianluca Bertoni.
Gianluca Bertoni, la verità 30 anni dopo l’omicidio di Somma Lombardo: «Distrutte le tracce degli assassini». Andrea Galli inviato a Varese e Andrea Camurani su Il Corriere della Sera il 7 febbraio 2022.
La sera del 7 dicembre 1990, il 22enne di Somma Lombardo uscì di casa. Doveva raggiungere la fidanzata, ma non arrivò mai dalla ragazza. Ucciso con un colpo in testa, il corpo gettato nel lago. Una sfilza di errori nelle indagini, le prove distrutte: un «cold case» dai contorni misteriosi
Nebbia il venerdì del sequestro e dell’omicidio, neve il sabato delle prime ricerche e della prima scoperta. Nel 1990, a Somma Lombardo moriva Gianluca Bertoni, studente di Veterinaria, figlio unico, amante di jeep e fuoristrada, classico bravo ragazzo laddove la definizione per una volta non risulta scorciatoia giornalistica oppure difesa d’ufficio della famiglia. A fronte di esplorazioni estese e insistite, gli investigatori mai nulla — nulla — di anomalo hanno appurato sul 22enne, ragazzo dunque a siderali distanze dal mondo che lo avrebbe inghiottito: madri e figlie prostitute, sfruttatori, spacciatori e tossici, bulli da night-club, camorristi, scommettitori di cavalli e fantini comprati, banditi e picchiatori, in una provincia varesina marcia, corrotta, omertosa.
Undici sospetti, nessun colpevole
Undici sospettati e nessun colpevole, fascicolo a oggi aperto perché la richiesta d’archiviazione del pm il 29 settembre 2017 non ha avuto risposta dal gip; un fascicolo, come da articolato esame del Corriere di verbali, intercettazioni, analisi della scena del crimine, sopralluoghi e le singole biografie (criminali e non) di quegli undici sospettati, devastato da chi in Tribunale a Varese con sciatteria o mediocrità ha deciso la distruzione dei reperti che adesso, grazie alla tecnologia e agli esami del Dna, avrebbero potuto essere decisivi, nonostante la pesante azione della natura nel così esteso lasso temporale. In ogni modo i sacchi di plastica, il nastro adesivo e il masso mandati al macero erano i sacchi nel quale venne avvolto il cadavere, il nastro adesivo che sigillò quei contenitori, e il masso che trascinò sul fondo del lago Maggiore i resti di Gianluca con l’obiettivo di farli sparire dopo l’uccisione con un colpo alla testa, sembra sferrato da un bastone (l’esito dell’autopsia riportò: «Lesioni cranio encefaliche provocate da un violento colpo»). Non fosse che il cadavere riaffiorò nelle acque aprendo un caso d’assassinio divenuto «cold case».
Le relazioni pericolose
Da oltre un mese, dalla sparizione di Gianluca la sera del 7 dicembre 1990, uscito per raggiungere la casa della fidanzata Barbara (viaggio di 6 minuti di macchina) sempre a Somma Lombardo, e dal rinvenimento l’indomani della sua Opel Rekord bruciata vicino al lago detto dei Margin in località Cadrezzate (a 17 chilometri), papà Gianfranco aveva pensato a un sequestro. Uno dei tanti in quegli anni lombardi. Visse ancorato al divano del soggiorno, di fianco al telefono fisso. Casomai chiamassero i rapitori. Un sequestro, sì: ma non per chiedere un riscatto. Gianluca Bertoni, fermato, fatto scendere e catturato appena uscito dal cancello, trasferito su un’altra macchina (qualcuno si mise al volante della sua, accodandosi) fu portato in un bosco frequentato da eroinomani e ucciso per dare una «lezione», vendetta, punizione in quanto aveva visto o ascoltato azioni e frasi compromettenti. Forse nello stesso maneggio che frequentava per ragioni di studio e passione verso i cavalli, nonché meta abituale del pregiudicato Maurizio Zanni già in galera per omicidio. O forse no, forse quel centro ippico ha soltanto depistato gli inquirenti poiché l’origine del delitto avrebbe rimandato a una relazione (presunta nella misura in cui se ne parlò in paese) oppure a un corteggiamento del giovane con S.C., fidanzata di uno della famiglia degli Scordato che nel Varesotto hanno controllato a lungo il territorio, e che tutto sapevano e sanno. Tutto tranne l’uccisione di Gianluca, che in questo scenario sarebbe stato eliminato in conseguenza di uno «sgarro».
La ragazza del mistero
Bisogna rileggerli, gli interrogatori, con questa sequenza di probabili menzogne, con queste anomalie a cominciare proprio da lei, S.C., la quale dapprima si presentò dai carabinieri per accusare due innocenti fratelli, quindi li discolpò, infine, mostrando un corpo flagellato da ferite, ripeté d’aver agito «costretta da altre persone». Quali persone (e anche quali la causa e gli autori di quei lividi), s’ignora: la donna custodisce il segreto convinta che il tempo abbia coperto d’oblio l’omicidio tant’è che dopo l’allontanamento per trasferirsi in Emilia Romagna è tornata in zona. Ma il tempo non copre niente e non è mai tardi per le rivelazioni. Le sue e quelle della zia la quale era al corrente di parecchio ma finse perfino smarrimento, smentita dalle intercettazioni in macchina, quando un maresciallo le pose il nome di Gianluca Bertoni; le loro rivelazioni o anche quelle degli Scordato, contando sul fatto che a detta di collaboratori di giustizia e confidenti il capofamiglia Giovanni, nel mentre deceduto, una fedina penale piena di addebiti (associazione a delinquere, spaccio, estorsioni, rapine), si vantava d’indossare il montone scamosciato di Gianluca cui per appunto fu tolto l’indumento prima di affondarlo nel laghetto.
Le prove cancellate
La sciagurata eliminazione di quei tre reperti ha ristretto ma non cancellato le tracce se non gli elementi di prova: l’assassino o gli assassini dimenticarono un coltello a scatto di colore nero a bordo della barca di legno utilizzata per trasportare il corpo al largo. Ma ugualmente ci risulta che altri elementi della scena del crimine, stavolta inviati in altre sedi in Italia per approfonditi accertamenti, non ci siano più. Individuarne la reale assenza o al contrario la presenza (e di conseguenza la possibilità di sfruttare gli oggetti a fini investigativi) sarebbe una forma di rispetto nei confronti dei genitori di Gianluca. Quando abbiamo telefonato a casa per le presentazioni e un eventuale incontro, ha risposto papà Gianfranco. Non ha nemmeno fatto finire la frase, chiedendo subito: «Ci sono novità?». Interrogativo alla quale la Procura e i carabinieri di Varese potrebbero ancora dare risposte, coltivando non gli ipotetici rimorsi di coscienza dei sospettati, che finora hanno manifestato disprezzo, menefreghismo e arroganza, bensì le loro stesse deposizioni, gli elementi contraddittori nei racconti, alla ricerca di inediti scenari. Lo stesso Giancarlo e la moglie Laura mai hanno voluto un avvocato. Scelta motivata dalla piena fiducia nelle istituzioni, negli uomini e nelle donne dello Stato.
Il rapimento, il processo, le ricerche: oggi Denise Pipitone avrebbe 22 anni. Oggi Denise Pipitone, la bimba scomparsa a Mazara del Vallo il primo settembre del 2004 avrebbe compiuto 22 anni. Migliaia di messaggi di auguri sui social e il post della famiglia. Dopo 18 anni da quel terribile giorno, si cerca ancora Denise. Emanuele Fragasso il 27 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
La scomparsa di Denise: una ferita che fa ancora male all’Italia
Il processo alla sorellastra
L’avvocato della madre: “Sperare è un diritto”
"Diciotto anni dalla tua assenza, senza coccole e abbracci. Denise sei nel cuore di chi ti ama veramente. Buon Compleanno Denise, ovunque tu sia. Buon compleanno!”. È questo lo straziante messaggio pubblicato questa mattina da Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone, e firmato anche dal papà, Pietro Pulizzi, dal fratello Kevin, dalla moglie Brigitte e dalla piccola Dayana. È questo l’augurio che i parenti hanno dedicato all’ormai 22enne Denise Pipitone, scomparsa a Mazara del Vallo il 1° settembre del 2004, quando aveva solo 4 anni.
La scomparsa di Denise: una ferita che fa ancora male all’Italia
La scomparsa - o forse, sarebbe meglio dire, il rapimento - della piccola Denise Pipitone, rappresenta una delle pagine più oscure della Sicilia e di tutta l’Italia. Da quasi vent’anni la famiglia cerca di trovare l’ormai adulta Denise, senza risultati. Nonostante i continui vicoli ciechi, in molti la speranza di ritrovarla è ancora viva. Nei molti anni di indagini, l’ipotesi più accreditata è sempre stata quella del rapimento, una lunga staffetta fra soggetti - rapitori - senza ancora un volto, iniziata il primo settembre e continuata nei giorni successivi. C’è chi, negli anni ha dichiarato di aver visto una bimba simile a Denise in aeroporto nei giorni seguenti al rapimenti, accompagnata da dei nomadi.
I cani molecolari della squadra investigativa, percepirono l’odore della piccola Denise nelle immediate vicinanze dell’abitazione della sorella di Gaspare Ghaleb, che all’epoca era il fidanzato di Jessica Pulizzi, figlia di figlia di Anna Corona e di Pietro Pulizzi, che è il padre biologico di Denise. La stessa Jessica, al tempo diciassettenne fu una delle maggiori sospettate del rapimento di Denise Pipitone, assieme alla madre.
Il processo alla sorellastra
Pulizzi venne accusata di sequestro di minore. Il processo in primo grado iniziò ufficialmente il 16 marzo 2010 - quasi sei anni dopo la scomparsa della bimba - e durò tre anni. Ai tempi la procura di Marsala chiese per la giovane la condanna a 15 anni di reclusione per sequestro di minore, ritenendola “colpevole senza alcun dubbio”. Anche la madre di Jessica, Anna Corona, sarebbe stata complice della figlia. Il motivo sarebbe "vendetta e gelosia perché Denise e Jessica Pulizzi sono figlie dello stesso padre, Piero Pulizzi".
Secondo l’accusa, la Pulizzi prese Denise e la portò a casa di Piera Maggio per avere conferma che fosse sua figlia, ma non trovandola a casa, la consegnò a persone non ancora identificate. Al termine del processo però, la giovane donna venne assolta dal tribunale di Marsala per insufficienza di prove. Assoluzione confermata poi il 2 ottobre del 2015 dalla Corte d’Appello di Palermo.
L’avvocato della madre: “Sperare è un diritto”
"Sperare è un diritto della gente che cerca giustizia e il diritto è qualcosa di intangibile, dall'altro lato, le istituzioni hanno il dovere di dare risposte ai cittadini che sperano nella giustizia. Il dovere è qualcosa di non derogabile, per cui non si può dire ci pensano loro o ci pensiamo quando avremo tempo, il dovere è connotato da obblighi, se un malato va dal medico è dovere del medico curarlo, se non lo farà risponderà di fronte alla legge. Ecco il senso di giustizia! È quella linea invisibile che lega i diritti ai doveri, facce di una identica medaglia e mancandone una facciata, quella medaglia non vale nulla cosi come la giustizia a metà", ha dichiarato in una nota sui social Giacomo Frazzitta, avvocato di Piera Maggio.
"Vi racconto la mia Denise. Così lotto contro l'oblio". Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone, ha raccontato in un libro la vicenda della figlia scomparsa: nel volume commovente anche la postfazione del figlio Kevin. Angela Leucci il 24 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Una lunghissima sofferenza
9 minuti e 18 anni di dolore (e di speranza di giustizia)
Un processo, una famiglia, tante segnalazioni
Un giovane che rompe il silenzio
La vita è un paradosso temporale dal punto di vista di Piera Maggio. "Per me la vita si divide in due parti: prima e dopo il rapimento di Denise", scrive la donna cui è stata rapita la figlia il 1 settembre 2004 nel suo libro “Denise - Per te, con tutte le mie forze”, pubblicato di recente da Piemme edizioni.
Mamma Piera fa il punto partendo da lontano, raccontando chi è, chi era, chi è sempre stata. Ma nella narrazione si avverte il peso di molte cose: il peso di non conoscere cosa sia accaduto alla figlia, il peso di continuare ancora oggi a difendere la privacy della propria famiglia, il peso di una società che troppo spesso ha puntato il dito contro di lei che, nonostante l’evidente coraggio, ha subito un dolore che non ha nome. Piera continua a cercare quella piccola, che ci si augura sia diventata una donna, il cui nome è noto a tutti gli italiani: Denise Pipitone.
Una lunghissima sofferenza
Quello del rapimento di Denise è uno dei casi italiani irrisolti più celebri. Moltissime persone provano affetto ed empatia per questa bambina di neppure 4 anni, scomparsa dalla sua città, Mazara del Vallo. Le ragioni di questi sentimenti sono tante, ma in particolare madri e padri si sono immedesimati nel dolore provato da Piera e dal marito Piero Pulizzi, oltre che ammirare il loro battagliero legale Giacomo Frazzitta.
Piera Maggio nel suo libro fa ancora di più: porta direttamente il lettore nel suo quotidiano, nello sconforto che talvolta ha provato in questi anni, negli invisibili momenti di cedimento, nella lotta contro pregiudizi e dicerie, in quei ricordi dolci d’infanzia che aveva immaginato identici ed emozionanti per la figlia.
“Un momento prima siamo insieme, un attimo dopo non c’è più. I tanti anni trascorsi da allora sono una veloce corsa all’indietro che mi riporta sempre a quella mattina e alla sera che l’ha preceduta”, scrive mamma Piera prima di ripercorrere una miriade di vicende parallele al rapimento di Denise, alcune più note, altre meno note, ma tutte permeate al tempo stesso dalla sua sofferenza e dalla sua decisione. Piera non smetterà di cercare Denise finché non l’avrà trovata: in tanti continuano a condividere l’age progression realizzato nel 2021, il Qr code che rimanda al sito delle ricerche, in tanti sono dalla sua parte.
9 minuti e 18 anni di dolore (e di speranza di giustizia)
Nel 2022 sono 18 anni dalla scomparsa di Denise. La bambina è stata rapita in una forbice temporale di 9 minuti. Nel libro di Piera Maggio, il nome di Denise viene ripetuto 311 volte. Ma i numeri sono sempre riduttivi per spiegare cosa possa aver provato questa donna.
“Da quando hanno sequestrato Denise, io mi sono sentita spesso un numero. Mia figlia era un numero. Nelle aule di tribunale eravamo nessuno, un puntino in mezzo a un oceano. Una statistica. Lottare contro l’oblio per me significa impegnarsi sempre a dare un volto, un nome e un’identità a questo numero”, scrive ancora mamma Piera.
I numeri sulle scomparse e i sequestri di minori in Italia sono da sempre notevoli. È per questo che Piera Maggio si è impegnata in un lungo iter propositivo in cui ha incontrato politici, si è battuta per una legge che viene chiamata comunemente “legge Denise” e che propone giustizia per tutti i bambini sequestrati.
Un processo, una famiglia, tante segnalazioni
Ci sono due nomi presenti nel libro di Piera Maggio, due nomi che hanno a che fare con le indagini. Sono quelli di Anna Corona e Jessica Pulizzi. La prima, mai rinviata a giudizio, è l’ex moglie di Piero Pulizzi, il papà di Denise. La seconda, assolta in tre gradi di giudizio per insufficienza di prove, è la primogenita di Piero. Le vite di queste persone si sono incrociate in vicende alterne.
Piera racconta della conoscenza con Anna, della frequentazione con lei che percepiva spesso come ingombrante, della rottura di qualunque tipo di rapporto, di quando Piero e Anna si sono lasciati in maniera abbastanza conflittuale - si parla perfino di un coltello per la pulizia del pesce puntato alla gola. E poi delle minacce ricevute, degli insulti proferiti per strada da Jessica, che a Piera forò tutte e quattro le ruote dell’auto, eventualità ammessa anche in sede processuale. Ma contro le tragedie della vita, Piera e Piero sono diventati una famiglia, e l’uomo si costituì parte civile nel processo in cui Jessica era imputata.
Denise Pipitone, i video e la "lingua sconosciuta": rispunta la pista rom
Su Anna e Jessica pesano moltissime accuse mediatiche nonostante l’assoluzione della giovane e nessun rinvio a giudizio per la donna. Pesano per via di tante piccole incongruenze che forse hanno avuto un ruolo nelle indagini: intercettazioni, una firma al lavoro, una certa telefonata partita da un luogo misterioso, il fatto che sia stata perquisita nell’immediatezza del sequestro la casa “sbagliata”.
Negli anni, Piera Maggio ha ricevuto moltissime segnalazioni differenti, alcune più credibili, altre veri e propri buchi nell’acqua fin dall’inizio. Probabilmente la segnalazione più celebre è quella del 2021, quando la giovane Olesya cercò la propria famiglia naturale in un reality della tv russa, una spettacolarizzazione cui la famiglia di Denise si sottrasse, puntando sulle verifiche scientifiche relative al gruppo sanguigno (che non era lo stesso di Denise).
Ma c'è stata anche una segnalazione ben più importante: a un mese dalla scomparsa, la guardia giurata Felice Grieco inquadrò con il telefonino una bimba molto somigliante a Denise a Milano: era con una presunta famiglia rom. Da qui partì la pista più credibile, l'ipotesi più probabile: la bambina era stata rapita ma non era stata uccisa, c'era stato un "passaggio di mano". In altre parole sarebbe stata consegnata a qualcuno, allontanata dopo il sequestro.
Mamma Piera ha incontrato tante bambine e le ricorda tutte: di una in particolare commemora un abbraccio. “La bambina mi buttò le braccia al collo e mi strinse forte. Non so perché lo fece. È stato un suo slancio istintivo, ne rimasi colpita. Nonostante le mie resistenze, quando quella piccola mi abbracciò ruppe la mia corazza e scoppiai a piangere. Piansi per lavare via la delusione, l’amarezza, la nostalgia di Denise”.
Un giovane che rompe il silenzio
Tra le diverse ragioni che rendono il volume scritto da Piera Maggio molto interessante c’è sicuramente la voce di Kevin Pipitone, il primogenito della donna, il fratello di Denise. Molti l’hanno visto per la prima volta nel documentario su Discovery, dato che la madre ha cercato durante la sua infanzia di proteggerne la privacy con tutte le forze. Ma ora, diventato un uomo, Kevin rompe il silenzio nella postfazione e racconta il proprio dolore per il sequestro della sorellina.
“Mi sforzo di ricordare, mi sforzo e allora affiorano dei dettagli di Denise, episodi che all’improvviso sono chiari nella mia mente”, scrive. Come Piera e Piero anche Kevin è stato colpito da questa storia orribile. Ma come Piera e Piero anche Kevin non è una vittima. È un combattente, è un giovane uomo che ha deciso di essere una brava persona, una persona buona, un bravo papà. E che, a propria volta, non smetterà di cercare sua sorella.
"Denise è figlia mia". Tony Pipitone contro Piera Maggio. Tony Pipitone critica Piera Maggio per il suo libro: cosa dice l'uomo sulla famiglia e sulle piste relative alla scomparsa di Denise. Angela Leucci il 21 Ottobre 2022 su Il Giornale.
La scomparsa di Denise
Se il volume di Piera Maggio “Denise - Per te, con tutte le mie forze” ha scatenato sui social network una grande emozione, iniziano anche a sorgere le prime polemiche. A 10 giorni dall’uscita del libro edito da Piemme, Tony Pipitone, ex marito di mamma Piera, si scaglia contro la donna per ribadire la vicinanza ai figli Kevin e Denise Pipitone.
Tony non è però il padre naturale di nessuno dei due, sebbene il suo legale Luisa Caramia abbia specificato che non è stato effettuato un disconoscimento di paternità: Kevin è infatti nato con la procreazione assistita e lo sperma di un donatore anonimo, mentre Denise è figlia naturale di Piero Pulizzi, attuale marito di Piera. "Da almeno un anno ricevo attacchi pesantissimi da lei - dichiara Tony riferendosi all’ex moglie, come riporta Tgcom24 - Attacchi che, a mio avviso, non fanno buona luce neppure a Denise. Nel suo libro ha scritto tante inesattezze e cose non vere che non servono alla ricerca di Denise”. Tony lamenta anche che la donna “ha divulgato sui social e altrove particolari dati personali della nostra vita”.
Cosa ha scritto lei, cosa dice lui
Nel volume che ha scritto, Piera Maggio ripercorre diverse tappe della sua vita, dall’infanzia all’incontro con Tony, fino ai problemi in famiglia, l’incontro con Piero e naturalmente il rapimento della figlia Denise. Nel libro la donna racconta di quello che per lungo tempo è stato un “matrimonio di facciata” e di come la separazione da Tony abbia avuto ripercussioni nel suo rapporto con Kevin, al quale, una volta giunto all’età della ragione, ha raccontato dell’inseminazione artificiale.
“Da quel momento - spiega Tony - è cambiato l'atteggiamento di mio figlio nei miei confronti. Che bisogno c'era di dirglielo? Anche se avevo qualche sospetto, ho saputo che Denise non era mia figlia soltanto dopo il sequestro. A me Piera aveva detto che anche lei era stata concepita a Palermo sempre con inseminazione artificiale quando io ero in Toscana per lavorare e mantenere la famiglia. Per me, però, Denise rimane sempre mia figlia. Fino alla sera prima della scomparsa eravamo nel letto insieme e lei mi diceva 'Papà, ti voglio bene'. Per me è viva e prego ogni notte per lei”.
Tony Pipitone è agguerrito e promette querele contro chi lo insulta sui social: a suo avviso gli insulti sono legati al modo in cui mamma Piera lo ritrae. E a lei Tony promette anche un eventuale confronto pubblico.
Denise Pipitone, i video e la "lingua sconosciuta": rispunta la pista rom
La scomparsa di Denise
Denise Pipitone è stata rapita il 1 settembre 2004. Da allora sono state seguite diverse piste, ma la più plausibile è da sempre quella del passaggio di mano, grazie anche all’eccezionale testimonianza video della guardia giurata Felice Grieco che riprese una bimba molto somigliante a lei in un gruppo di presunti rom a Milano.
Tony afferma di non essersi fatto un’idea: “Io stavo impazzendo, non avevo nemici. Scoprire la verità è compito delle autorità, cui ripongo massima fiducia. Di Anna Corona, Piera mi diceva che era la sua migliore amica. Poi, diventò la sua principale nemica. Ma con questo non voglio assolutamente dire che abbia avuto un ruolo nel sequestro. Non lo so. Io non volevo frequentare i Corona, a differenza di Piera, perché a pelle non mi piacevano”.
Queste dichiarazioni contrastano con quanto sostenuto da sempre da mamma Piera e rincarato nel libro, ossia che per lei Anna Corona, ex moglie di Pulizzi e madre di Jessica, assolta in tre gradi di giudizio a seguito dell'accusa di rapimento, rappresentasse una conoscenza, per di più abbastanza ingombrante.
Lo strano caso di Piera Maggio, Denise e le lacrime del mondo. Attaccata, illusa, estenuata ma con la voglia di non mollare mai: cosa c'è dietro l'empatia collettiva dei pellegrinaggi della mamma della piccola scomparsa. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 19 ottobre 2022
Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...
Nella storia della televisione italiana non c’è stata mai nessuna osmosi più tenace nessun legame più stretto, nessun ossessione più invincibile di quelle che pervadono Milo Infante e il caso di Denise Pipitone.
Da diciotto anni, con tigna direi eroica, Infante crede, come Piera Maggio la madre della bimba scomparsa il 1 dicembre 2004 a Mazara del Vallo, che “Denise è viva”. Più volte ha riaperto il caso, nonostante la disattenzione della politica, l’inerzia degl’inquirenti e la caduta prematura di un governo che ha contribuito a smontare un’apposita Commissione parlamentare su Denise. Che, nel tempo si è trasformata da mistero da cronaca nera in spettro vagolante nella coscienza collettiva, e tra i taccuini dei cronisti alla ricerca di una verità scomoda. Anni fa con l’Italia sul 2, ora con Ore 14 Infante ha riacceso sempre l'interesse quando avvertiva che nadava scemando nell'opinione pubblica; e, così facendo, ha scatenato tra i programmi di genere una narrazione quasi omerica dei fatti.
Ultimamente sta percorrendo la cosiddetta “pista valtellinese” secondo la quale Denise col suo accento e la sua cicatrice sul volto potrebbe essere tal Danas figlia di una tale Shakira emersa da un’enclave kosovara della Valtellina. Ipotesi affascinante, forse velleitaria, ma sicuramente da percorrere. Inoltre, Infante ha mandato in onda una vecchia intervista al giudice Alberto Di Pisa, ex “Corvo di Palermo” che dava alla Maggio della poco di buono ventilandone attività criminose, basandosi su chissà quali documenti passatigli da chissà quale manina. Denise Pipitone è diventata un simbolo, un incitamento a non mollare e, al tempo stesso, un vorace pasto da fornire alla cronaca. Dal Quarto grado di Gigi Nuzzi al Chi l’ha visto della Sciarelli , dalle Storie italiane di Eleonora Daniele a La vita in diretta di Alberto Matano, fino a Verissimo che ha ospitato un’intervista intima e imprevedibilmente commossa alla Maggio fatta da Silvia Toffanin: ogni testata, ogni tv ha raccontato la scomparsa di Denise come la scomparsa delle pietas di una nazione. Vittorio Feltri, nel suo profilo twitter, se n’è occupato nuotando come al solito controcorrente: “La vicenda della piccola Pititone è talmente intricata che ci ha rotto le balle”. Ma, conoscendolo, la pensa esattamente il contrario.
L’altro giorno su Raidue e RaiPlay, nel vis-à –vis con Infante è comparsa con la sua bella faccia carezzata dal tempo e dalle lacrime proprio Piera Maggio. Era la prima volta che entrava negli studi milanesi di Ore 14. L’occasione era presentare il libro Denise con tutte le mie forze (Piemme). Ma l’intervista con Milo, dato il carico emotivo tra i due, era quasi imbarazzata. Dopo aver evocati drammi, misteri, calunnie, attacchi alla sua persona ( è stata accusata di prostituzione, di possesso di droga, di delinquenza varie in un'escalation odioso e innaturale) a parlare della figlia, lo sguardo di Piera si è quasi spento nel ricordo della disperazione. Dev’esser durissima, per una madre.
Poi Milo ha svelato la notizia che Piera sarebbe diventata nonna, dall’altro figlio Kevin. La giostra della vita che riprende a girare, nel vagito di una bambina. Senza essere melodrammatici: nello studio è arrivata una vampata d'emozione, è esploso un applauso e sono fioccati abbracci, sorrisi e affetto de parte degli astanti, giovanissimi compresi, e per una persona che nessuno, lì dentro, aveva mai incontrato prima. Si chiama empatia collettiva. Se Denise fa ancora quest’effetto per chi non l’ha mai conosciuta, perfino in chi non c’era, be’, forse val la pena continuare la battaglia….
Denise Pipitone, il padre contro Piera Maggio: “Ricevo attacchi pesantissimi da lei”. Chiara Nava il 21/10/2022 su Notizie.it.
Il padre di Denise Pipitone ha attaccato Piera Maggio per aver divulgato dettagli personali della loro vita.
Toni Pipitone, padre di Denise Pipitone, ha attaccato Piera Maggio. L’uomo ha spiegato che non avrebbe dovuto divulgare dettagli personali della loro vita sui social e altrove, perché non c’entrano con la scomparsa della piccola.
Denise Pipitone, il padre contro Piera Maggio: “Ricevo attacchi pesantissimi da lei”
Toni Pipitone, padre di Denise Pipitone, scomparsa a Mazara del Vallo l’1 settembre 2004, quando aveva quasi quattro anni, ha attaccato Piera Maggio per aver divulgato sui social e altrove dei particolari personali della loro vita, che non hanno a che fare con il rapimento della bambina. “Non aveva il diritto di farlo” ha dichiarato. “Da almeno un anno ricevo attacchi pesantissimi da lei. Attacchi che, a mio avviso, non fanno buona luce neppure a Denise.
Nel suo libro ha scritto tante inesattezze e cose non vere che non servono alla ricerca di Denise” ha aggiunto l’uomo. Denise è nata dalla relazione tra Piera Maggio e Piero Pulizzi, ma questo è venuto a galla solo dopo il sequestro. “Il signor Pipitone rimane comunque legalmente a tutti gli effetti il padre di Denise. Non è stato, infatti, mai effettuato un disconoscimento di paternità” ha precisato Luisa Calamia, avvocato dell’uomo.
“Piera ha, inoltre, rivelato a nostro figlio Kevin, quando aveva 23 anni, che è stato concepito a Palermo con inseminazione artificiale da donatore anonimo.
E da quel momento è cambiato l’atteggiamento di mio figlio nei miei confronti. Che bisogno c’era di dirglielo? Anche se avevo qualche sospetto, ho saputo che Denise non era mia figlia soltanto dopo il sequestro. A me Piera aveva detto che anche lei era stata concepita a Palermo sempre con inseminazione artificiale quando io ero in Toscana per lavorare e mantenere la famiglia. Per me, però, Denise rimane sempre mia figlia.
Fino alla sera prima della scomparsa eravamo nel letto insieme e lei mi diceva ‘Papà, ti voglio bene’. Per me è viva e prego ogni notte per lei” ha dichiarato Toni Pipitone.
Toni Pipitone: “Piera Maggio mi fa apparire come un padre snaturato”
“Piera Maggio mi fa apparire sui social, dove nei commenti ricevo offese da persone che querelerò, come un padre snaturato che ha abbandonato i figli, non dava soldi e che si è disinteressato della vicenda di Denise. Ma non è così. Io ho sono andato a lavorare in Toscana proprio per non abbandonare i figli, per far star bene la famiglia. Poi, ho sempre seguito indagini e processo tramite il mio legale. E non avevo e non ho le risorse economiche per andare in giro per partecipare alle trasmissioni televisive. Ma adesso sono pronto anche ad un confronto pubblico con lei. Che idea mi sono fatto sul sequestro Denise? Non so cosa dire. Io stavo impazzendo, non avevo nemici. Scoprire la verità è compito delle autorità, cui ripongo massima fiducia. Di Anna Corona, Piera mi diceva che era la sua migliore amica. Poi, diventò la sua principale nemica. Ma con questo non voglio assolutamente dire che abbia avuto un ruolo nel sequestro. Non lo so. Io non volevo frequentare i Corona, a differenza di Piera, perché a pelle non mi piacevano” ha aggiunto Toni Pipitone.
Ore 14, nuove rivelazioni su Denise Pipitone: spunta la pista dei kosovari. Il Tempo il 15 ottobre 2022
Nuova accelerazione nell'ottovolante mediatico sulla scomparsa di Denise Pipitone, la bambina scomparsa all'età di quattro anni da Mazara del Vallo ormai nel lontano 2004. L'ultima rivelazione arriva dal programma di Rai 2 Ore 14, condotto da Milo Infante, che ha indagato a lungo sul caso. Si tratta della cosiddetta "pista valtellinese" confermata durante la trasmissione da un’informatrice. Si basa su quanto asserito in passato da una donna egiziana, oggi scomparsa. Aveva parlato di una bambina che parlava italiano che somigliava alla piccola Denise Pipitone e alla Danas del famoso video girato da una guardia giurata sulla metropolitana.
“Facevo ripetizioni di italiano a Susanna. Un giorno, inaspettatamente, mi chiama a telefono: ‘Stanno parlando tutti di questa bambina scomparsa, penso che sia qui a Castione (in Valtellina, ndr) con un gruppo di kosovari’, spiega oggi l'informatrice intervenuta a Ore 14 secondo cui l'egiziana “spesso aiutava, in cambio di qualche lavoretto, una ragazza kosovara di nome Gijlia. Fino a che, un giorno, la ragazza le ha fatto vedere una fotografia di questa bambina, confidandole che era figlia di Shakira”.
“Susanna vedeva spesso questa donna, ma non ci aveva mai avuto a che fare. Mi diceva spesso: ‘Non sai com’è brutta Shakira’ e l’aveva soprannominata ‘faccia di maiale’" dice la donna che ha poi spiegato che spesso esponenti della comunità kosovara partivano per andare a Bergamo. La pista emerse nel 2005 dopo che Susanna andò dai carabinieri per raccontare quello che aveva visto. Le intercettazioni in dialetto kosovaro, secondo quanto riportato, e alcune operazioni come l’irruzione a una festa di matrimonio non portarono a nulla. Inoltre la kosovara di nome Gijlia tirata in ballo dall'egiziana oggi defunta non sarebbe mai stata cercata nel corso delle indagini.
Verissimo, Piera Maggio: "Il segreto che ho dovuto nascondere". Libero Quotidiano il 09 ottobre 2022
Un momento molto toccante quello andato in onda domenica 9 ottobre a Verissimo. Silvia Toffanin ha avuto ospite su Canale 5 Piera Maggio. La donna, madre di Denise Pipitone, non intende fermarsi nelle ricerche, convinta che "sia ancora viva". Di Denise, sparita nel 2004 da Mazara del Vallo, non si ha traccia eppure Piera non si arrende. In questi anni la Maggio le ha tentate tutte, attraversando situazioni delicatissime. Una tra queste la storia che emerse sul padre della piccola Denise e del figlio Kevin.
Piera si è sposata da giovanissima con Tony Pipitone. La coppia non riusciva ad avere figli e così. Si è scoperta che Piera poteva averne mentre Tony no. La coppia ha così deciso di ricorrere a un’inseminazione artificiale. Kevin dunque non è realmente figlio di Tony e il ragazzo l’ha saputo all’età di 23 anni. "Ho tenuto nascosto il segreto. Sono stata sempre combattuta per il rischio di traumatizzarlo ancora di più. Non volevo caricarlo anche di questa verità". Anche Denise in realtà non è figlia di Pipitone, ma dell'attuale marito Pietro Pulizzi.
Entrambi la cercano ogni giorno di più: "Per me Denise è viva. Io ci credo tantissimo. La paura che abbiano fatto del male a mia figlia c'è, ma io ho sempre detto che la cercherò fino a prova contraria. Smetterò quando ci sarà una prova che lei non ci sia più". Nonostante questo Piera preferisce "rimanere con i piedi per terra. Ma ogni volta è un dolore lancinante per me incontrare quelle bambine. Ho sempre paura che sia traumatico anche per loro e di lasciare in loro un brutto ricordo".
Angela Leucci per ilgiornale.it il 4 ottobre 2022.
Torna dal passato una vecchia pista su Denise Pipitone. La trasmissione “Ore 14” lancia così l’appello per cercare di recuperare delle intercettazioni che potrebbero avvalorare la cosiddetta pista rom, chiudendo finalmente il cerchio e ridando alla famiglia una speranza tangibile per ritrovare la bambina scomparsa da Mazara del Vallo il 1° settembre 2004.
Una nuova pista dal passato
Si è parlato molto di pista rom in questi anni, grazie a un documento davvero importante: si tratta di alcuni frammenti video realizzati con un telefonino dell’epoca da una guardia giurata che operava a Milano. La guardia riprese una bambina che parlava italiano e veniva chiamata Danàs, all’interno di un gruppo di presunti rom.
Il 12 aprile 2005 i carabinieri di Sondrio ricevettero una segnalazione notevole: una donna egiziana aveva riconosciuto Denise in alcuni scatti mostrati da una cittadina kosovara che l’aiutava nelle faccende di casa. La kosovara aveva una zia a Bergamo: con la zia viveva una bambina con una piccola cicatrice sulla guancia, che parlava perfettamente l’italiano e diceva di non avere la mamma. Poco tempo più tardi, l’egiziana con la kosovara e la zia di questa si recò a una festa, alimentando le proprie convinzioni: per l’egiziana si sarebbe trattato proprio di Denise, e la donna con lei sarebbe quella ripresa dalla guardia giurata.
Così i carabinieri di Sondrio si attivarono e fecero irruzione a una festa in cui avrebbero dovuto trovare la piccola e la donna del video, ma, identificati tutti gli astanti, non le trovarono. Ci sono anche delle intercettazioni, che però non sono state prese in considerazione. “Allo stato attuale - si legge in un documento - si sconoscono le risultanze emerse dalle intercettazioni in corso, ritenuto che non è stato ancora possibile all’individuazione di interprete conoscente la lingua da questi parlata”. In altre parole non si sa cosa venga detto nelle intercettazioni perché non fu trovato un interprete: “Ore 14” chiede quindi di poterle riportare all’attenzione degli inquirenti.
Le false ombre e i depistaggi su Piera Maggio
Nei giorni scorsi un post social di Maria Angioni, pm del caso Denise fino al 2005, ha riaperto una vecchia ferita. E gettato una nuova presunta prospettiva sulle indagini. Angioni ha scritto: “Guardate, quando io come pm mi sono occupata di questo caso, i ‘mantra’ che uomini di polizia propinavano ai pm erano 2: 1) che la bimba era sicuramente morta, caduta in qualche pozzo; 2) che Piera Maggio era una persona criticabile. Io di questo’ultimo mantra non ho mai parlato, perché era di per sé offensivo, ma ho detto che la Maggio sta apertamente cercando un ‘dossier’ su quei fatti, quindi ne posso e ne devo parlare. Finché sono stata io pm, dossier del genere non sono mai stati depositati, erano cose che i poliziotti dicevano, e neppure ricordo più dei nomi in particolare. Io comunque le ho sempre ritenute delle dicerie che avevano il solo fine di non farci prestare molta attenzione a questo caso”.
Su queste dicerie si era già pronunciato Alberto Di Pisa, procuratore capo a Marsala dal 2008 al 2015, che in un’intervista a “Chi l’ha visto?” rispose alla giornalista che gli chiedeva se esistessero pregiudizi su mamma Piera: “Su questo preferisco non dire niente, perché pure la Maggio potrebbe anche avere… però indubbiamente c’era qualcosa. Non pregiudizio, dati oggettivi, riferiti dai rapporti di polizia, non è che lo dico io”.
Nel tempo, Piera Maggio è stata accusata a torto di aver girato film porno - il suo legale Giacomo Frazzitta ha ricordato a “Ore 14” il titolo di “Mazara la gonna cala” - ma anche di praticare occultismo e di spacciare droga. In un’altra intervista, Di Pisa, oggi scomparso, disse: “Mi risulta che spacciava droga, non è che è una famiglia… Lei, la Maggio! È un soggetto, non credere che sia… un soggetto… ora si è raffinata. Va a ‘Chi l’ha visto?’ Tutta truccata, capelli… Il soggetto è quello che è… Però a noi risultava. Noi in genere facciamo accertamenti sulla personalità, i precedenti… risultava che non era un soggetto proprio limpido diciamo”.
Queste dichiarazioni hanno suscitato l’indignazione di Frazzitta: “Escludo categoricamente che ci siano mai stati rapporti di polizia che delineavano un profilo opaco di Piera Maggio”. Il sospetto che corre a “Ore 14” è che siano stati creati dossier ad hoc, sottoposti ai magistrati dell’epoca e poi fatti sparire dai documenti ufficiali. “Si rimane basiti a sentire queste dichiarazioni. Dovete immaginare cosa ho subito”, è stata la chiosa in collegamento di mamma Piera.
Dalle querele di Infante, ai blitz di Frazzitta: tutti i misteri di Denise Pipitone. Tra avvocati costretti a blitz internazionali, cronisti querelati e commissioni fantasma: così si chiude uno dei casi di cronaca nera più controversi di sempre (e riapreto dalla tv). Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 26 maggio 2022.
Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...
Piera Maggio è una madre tenace. Si è allenata, negli anni, a trasformare il suo dolore in speranza e, talora, in sorrisi.
Uno dei video più cliccati su Rai Play è il discorso con cui la madre di Denise Pipitone –la bambina scomparsa nel 2004 a Mazara Del Vallo, al centro dei uno dei più controversi casi di cronaca italiana di sempre- ha chiuso il ciclo stagionale di Ore 14. In quei fotogrammi densi di commozione, il conduttore del programma di Raidue, Milo Infante mostra uno sguardo liquido che si incrocia con quello fiero e dignitoso della donna, spiazzata dal fatto che - per qualche misterioso arabesco del destino e soprattutto della politica- la tanto decantata “Commissione parlamentare su Denis Pipitone” non è mai davvero partita. Non si sa come non si sa davvero perché, questioni di equilibrismi tra partiti, dicono. Comunque, è una mazzata. L’ultima mazzata di un oblio indotto che –come dice Infante- “ha relegato Piera Maggio all’ergastolo. Fine pena mai. Non saprà mai che fine ha fatto sua figlia. E’ una condanna feroce”. Di più.
Ogni ulteriore tentativo di cercare la verità su Denise è oramai frutto soltanto della cocciuta iniziativa dei privati. Lo Stato se ne fotte. L’ultimo esempio è quello di Antonia Cerasela, una ragazza rom che era finita sotto l’attenzione dei media per un filmato in cui la si vedeva effettuare una videochiamata con un’amica. Nel corso della conversazione, qualcuno l’aveva chiamata “la Denisa”. La sua somiglianza ha fatto pensare a una Denise cresciuta. Ma è soltanto grazie agli avvocati di Piera Maggio Giacomo Frazzitta e Ottavia Villini che si è potuto accertare che la “Denisa” non era affatto Denise, “oltre ogni ragionevole dubbio”. Il mese scorso, i due legali, assieme a un detective e alla genetista Marina Baldi, hanno seguito una pista investigativa quasi cinematografica. Attraverso un’operazione internazionale sono penetrati in Romania, in un campo Rom, in incognito, e lì hanno prelevato con un blitz sorprendente campioni di dna dalla Cerasela (col suo consenso); e li hanno comparati con quelli dei genitori di Denise Pipitone, Piera Maggio e Pino Pulizzi. Il tutto non senza –pare- essere coinvolti in un inseguimento automobilistico e in una vicenda attraversata da brividi adrenalinici. L’operazione è stata documentata dall’avvocato Frazzitta, vecchia volpe dei processi penali più aggrovigliati (tra i più noti il caso dell’avvocato ligure Corini, la cui sorella venne assolta in appello dopo anni di calvario). Piuttosto curioso che questo blitz rumeno non fosse a carico dello Stato, ma degli avvocati di parte. Ma questo è solo uno dei mille interrogativi che avvolgono le spoglie del caso Denise.
Altra bizzarria è lo spropositato numero di indagati tra i giornalisti che questa assurda vicenda ha prodotto. Milo, che di fatto, ha costretto i pm a riaprire il caso, è indagato per diffamazione aggravata. Assieme a lui almeno una mezza dozzina di colleghi televisivi e di carta stampata, compreso il sottoscritto. Vi assicuro che la cosa è seccante. La querela a seguito di un legittimo diritto di critica e l’indagine non verso ignoti rapitori ma verso noti cronisti, e la successiva richiesta di archiviazione del caso, be', hanno un sapore kafkiano. Idem, date le conseguenze, per i pm che lamentano “l’influenza dei media sul caso”. Ora, è vero che la spettacolarizzazione della cronaca nera è un vecchio vizio della tv, dei “pulicinella televisivi”, li chiama giustamente Milo. Ma qui si parla di una semplice e accurata azione investigativa della libera stampa. La ricerca di una verità perduta nello sguardo di una madre coraggiosa.
A parziale consolazione di Infante, la Rai gli ha concesso uno speciale di prima serata sulla morte di Liliana Resinovich, altro delittazzo il cui racconto farebbe la gioia di giallista ingordo, di un Pinketts o, meglio, di uno Scerbanenco. Ma sono gli occhi di Piera Maggio a rimanere sempre lì, rubati alla telecamera…
"È Denisa...". La prova del dna, poi il buco nell'acqua: cosa è successo. Angela Leucci il 3 Maggio 2022 su Il Giornale.
Nuovo esame del dna su una giovane rom: si continua a cercare Denise Pipitone.
Si continua a sperare di trovare Denise Pipitone, ma un nuovo esame comparativo del dna ha dato esito negativo.
A renderlo noto è Piera Maggio, madre della bambina scomparsa da Mazara del Vallo il 1 settembre 2004 in un giorno di mercato: tempo addietro a “Storie italiane” era spuntato un video su una giovane rom che veniva chiamata Denisa, mentre il suo vero nome è Antonia Cerasela. La donna si è sottoposta volontariamente all’esame del Dna per verificare se avesse dei punti in comune con quelli di mamma Piera e Piero Pulizzi, papà di Denise.
L’operazione non è stata affatto semplice. “Gli avvocati Giacomo Frazzitta e Ottavia Villini […] - si legge sui canali social ufficiali dedicati alla ricerca della bimba siciliana - hanno proceduto, attraverso una operazione internazionale, nell'ambito delle indagini difensive, a prelevare campioni di sostanza biologica alla signora Cerasela con il suo consenso, dopo averne localizzato la posizione nello stato della Romania”.
A Piera Maggio e all'avvocato Frazzitta erano giunte infatti diverse segnalazioni nell’ultimo anno, così come erano giunte, attraverso esposti formali, alla procura di Marsala, ma l’esame è avvenuto appunto su impulso di mamma Piera e del suo team legale.
Gli esami si sono svolti tra lo scorso 30 aprile e ieri: la genetista Marina Baldi ha collaborato per il campionamento e la comparazione delle sostanze biologiche. Ma purtroppo anche questa verifica si è rivelata essere un buco nell’acqua, perché la comparazione “ha dato esito negativo”. “Pertanto può dirsi al di là di ogni ragionevole dubbio che la signora Cerasela non è Denise Pipitone”, conclude la nota di Piera Maggio.
"Indagano chi cerca Denise". Il giornalista Rai contro i pm
Il video al centro di questa nuova operazione di ricerca mostrava dei ragazzi che indicano una coetanea chiamandola “Denisa”, nonostante non sia questo il suo nome. Com’è accaduto in passato per altre ragazze con nomi simili e somiglianze talvolta forzate o talaltra impressionanti, si è voluto scavare per sapere di più.
Ed è continua e incessante la ricerca di mamma Piera, che con la sua famiglia conduce una lotta per la verità, per ottenere una risposta alla domanda: dov’è Denise? Tra le ipotesi che sono state indagate in questi anni c’è la pista rom, una delle più accreditate, secondo cui ci sarebbe stato un rapimento con passaggio di mani della bimba. Per questa ragione si continua a cercare tra le giovani donne di questa etnia. Denise, se ancora in vita come molti sostengono, dovrebbe avere 21 anni oggi.
Milo Infante e il caso Denise Pipitone: «Io querelato per diffamazione, non è così che si cerca Denise». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 19 Aprile 2022.
Il giornalista ha sempre tenuto i fari accesi sulla bambina di quattro anni di Mazara del Vallo sparita il primo settembre del 2004.
«I pm di Marsala hanno presentato una querela per diffamazione aggravata non solo nei miei confronti, ma anche nei confronti di altri colleghi. Penso che sia lecito domandarsi se non farebbero meglio a utilizzare il loro tempo diversamente». L’umore di Milo Infante è tra l’amareggiato, il sorpreso e l’indignato. La presunta diffamazione riguarda il caso di Denise Pipitone, la bambina di quattro anni di Mazara del Vallo sparita il primo settembre del 2004, una vicenda su cui il giornalista ha sempre tenuto i fari accesi (nei mesi scorsi ha condotto anche uno speciale in tre puntate su Rai2).
Per competenza territoriale quando ci sono dei magistrati tra le parti offese o tra gli indagati ad occuparsene è un’altra Procura. In questo caso quella di Caltanissetta. Per questo la Procura di Marsala nega...
«Infatti non ho mai detto di essere indagato dalla Procura di Marsala (Trapani), come ha scritto qualcuno. Io sono stato raggiunto da un avviso di garanzia dalla Procura di Caltanissetta con l’accusa di diffamazione, per giunta aggravata. Quindi, da Marsala non può essere arrivata nessuna smentita, perché io non ho mai detto di essere indagato da quella Procura».
Al netto dei cavilli, cosa è successo?
«Al momento sto aspettando che mi arrivino le carte. Sono sereno e tranquillo di non aver detto niente di diffamatorio; se la diffamazione consiste nel criticare delle indagini aperte e chiuse a tempo di record, allora sono colpevole. Ma lo direi di nuovo».
Perché l’hanno querelata?
«Perché in Italia c’è il reato di lesa maestà. Quando mi rinvieranno a giudizio — e con la querela di un magistrato il rinvio a giudizio è scontato —, quando leggerò le carte, scoprirò cosa ho detto di così diffamatorio nei confronti della procura di Marsala. I giornalisti sono i cani da guardia del potere e la magistratura rappresenta un potere dello Stato. Se volete i giornalisti adoranti e che battono le mani ogni volta che arrestate qualcuno fate pure... Io penso che quando lo Stato fallisce non potete chiederci di dirvi che siete stati bravi».
Lei accusa chi ha indagato...
«È un dato di fatto: le indagini sono state fatte male nel corso degli anni. Gli errori più gravi sono stati commessi nelle prime due settimane. Non tutti sanno che, appena scomparsa Denise, intorno a Mazzara non hanno fatto i posti di blocco per sei giorni: invece di chiudere il paese lo hanno lasciato aperto, poteva entrare e uscire chiunque».
La recente archiviazione disposta dal gip su richiesta della Procura di Marsala invece che significato ha?
«Questa archiviazione significa che lo Stato si è fermato, che Denise è sparita e amen, dobbiamo farcene una ragione. Il caso di Denise Pipitone è uno dei più grandi fallimenti della giustizia italiana, per 17 anni e mezzo hanno fatto finta o cercato male una bambina che è stata rapita. E ora la tua preoccupazione è querelare i giornalisti? Questa è la mia amarezza. Non è così che si cerca Denise».
Lei a ricevuto la solidarietà di Piera Maggio, la mamma di Denise.
«La sua forte sensazione è che ci sia la volontà di far cadere nuovamente tutto nell’oblio. “Coloro che cercano la verità su Denise pare che in qualche modo vengano ostacolati. Mi fanno terra bruciata intorno”, ha detto. E la capisco».
Tra i tanti casi di cronaca, perché ha scelto di occuparsi a fondo di questo?
«Ho seguito questa vicenda fin dal primo giorno, ero in diretta con l’Italia sul 2 e per 17 anni sono stato accanto a Piera Maggio e Piero Pulizzi in questo calvario, in questo ergastolo di dolore in cui sono stati condannati. Denise non è un caso mediatico, è una bambina che è scomparsa. È meglio perdere un figlio e morire di dolore perché tuo figlio non c’è più piuttosto che vivere nel costante pensiero quotidiano della domanda: dove è mia figlia?».
Con Piera Maggio si è creato un legame speciale...
«Nel giorno dello scorso Natale abbiamo pranzato tutti insieme, con le nostre famiglie, c’era anche Kevin, il fratello di Denise. È una vicenda intima che racconto ora solo per far capire il legame che c’è con loro. Pierà è vittima di un’ingiustizia, di uno dei reati più odiosi: andare a letto con il pensiero fiso di non sapere dove è Denise è un dolore che non si attutisce mai. Ma lo Stato italiano non si sente in debito nei confronti di Piera Maggio?».
E ora che farà?
«Io mi occuperò del caso di Denise più di prima. È adesso che si sono spenti i riflettori che Piera Maggio e Piero Pulizzi hanno ancora più bisogno che qualcuno se ne occupi. Perché oggi Denise non la cerca nessuno».
Fabio Amendolara per “La Verità” il 20 aprile 2022.
«In questa storia sulla graticola ci finiscono sempre quelli che Denise Pipitone l'hanno cercata con tutte le forze e mi riferisco a ex pm, giornalisti e non solo», denuncia alla Verità Milo Infante, conduttore della trasmissione Ore 14, che va in onda su Rai 2 e che da tempo si occupa della scomparsa di Denise, la bimba di Mazara del Vallo scomparsa nel 2004. Il giornalista sente di essere finito nel grande calderone degli indagati che, in qualche modo, hanno toccato una delle storie più controverse della cronaca italiana da quando ha ricevuto un avviso di garanzia dalla Procura di Caltanissetta.
E, così, il 16 marzo ha postato sul suo profilo Instagram la foto del documento giudiziario appena notificato, accompagnandola con un post in cui ha ricordato a tutti: «Se qualcuno pensa che sia sufficiente per fermarci sbaglia. Continueremo a cercare Denise [...]. Denise va cercata, non archiviata».
Ieri, deputati e senatori Lega in Vigilanza Rai si sono schierati con il giornalista: «Pur rispettando il lavoro delle Procure, riteniamo che sarebbe più utile indagare sulla scomparsa di Denis Pipitone, piuttosto che sui giornalisti coraggiosi e ostinati che non vogliono lasciare aperta questa drammatica ferita italiana».
E hanno sottolineato che «l'ennesimo procedimento per diffamazione contro i giornalisti rischia solo di essere interpretato come un tentativo di tappare la bocca alla libertà di stampa». Ma la questione si è ingarbugliata ancora di più proprio ieri mattina, quando sulle agenzie di stampa è comparsa la notizia, rilanciata subito dai siti web dei giornali della vulgata, che la Procura di Marsala, titolare dell'inchiesta sulla scomparsa di Denise, smentiva Infante, precisando «di non aver mai inviato alcuna comunicazione giudiziaria» al giornalista.
Cosa c'entra questa smentita della Procura di Marsala?
«Io non ho mai detto o scritto che a indagarmi era la Procura di Marsala. Basta fare questo mestiere da più di tre giorni per capire che, se a indagare è un'altra Procura, è perché chi ha querelato è un magistrato (la Procura di Caltanissetta, infatti, è competente nei procedimenti che coinvolgono i magistrati del distretto della Corte d'appello di Palermo, al quale appartiene la Procura di Marsala, nda). Ai colleghi esperti in veline e copia e incolla mi sento di dire che bastava fare domande per ottenere delle risposte.
Queste sono fake news che non fanno bene al giornalismo. Alcuni colleghi in questa vicenda hanno dato ancora una volta prova di superficialità».
Mettiamo un po' di ordine su come si sono svolti i fatti.
«Il 16 marzo ho reso noto, non in trasmissione, ma in modo privato (tramite il profilo Instagram, nda) di essere indagato. Successivamente, il 29 marzo, durante la trasmissione che conduco, il giornalista Angelo Maria Perrino, che era ospite, ha alzato la mano e ha detto «mi hanno indagato a Caltanissetta per la vicenda di Denise Pipitone».
A quel punto io, ma anche un altro collega che era in studio, abbiamo detto: «Siamo indagati anche noi». Quindi, nessun mistero. E mi sembra tutto anche molto lineare. Nessuno di noi ha mai parlato di Marsala, anche perché non è facile sbagliarsi. È scritto sull'avviso di garanzia che mi è stato notificato che a indagare è Caltanissetta».
Ma visto che sembra tutto così semplice, come si è creato il cortocircuito sulla Procura di Marsala? È una costruzione?
«La notizia della smentita da parte della Procura di Marsala credo sia semplicemente frutto di cattivo giornalismo. Anche perché, non c'è nulla da smentire. Si tratta di una notizia sbagliata e approssimativa».
Per quale reato si procede?
«L'ipotesi è di diffamazione, peraltro aggravata. Detto questo, devo precisare di non avere mai fatto una critica ai magistrati di Marsala. Ho solo chiesto che si occupino di ritrovare la piccola Denise Pipitone».
Chi si è sentito chiamato in causa?
«Diciamo che qualcuno si è sentito toccato, ma d'altra parte è un diritto quello di querelare. Il motivo specifico della querela, al momento, non lo conosco, però posso dire che proprio non riesco a vedere su cosa potrebbe reggersi la diffamazione che mi viene contestata. Bisognerà capire.
Ma, ripeto, ci sono diversi giornalisti, ospiti del mio programma, indagati a Caltanissetta. E resta il fatto che Denise bisognerebbe cercarla invece di utilizzare il tempo delle Procure per denunciare e cercare di colpire chi da sempre tiene un faro acceso».
Quali sono le puntate incriminate? E perché?
«Le trasmissioni sono quelle successive all'ultima richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Marsala. E, appunto, voglio ricordare che proprio quella richiesta di archiviazione, in più di un passaggio, appare come un atto d'accusa nei confronti della stampa.
Questo lo posso affermare a gran voce e nessuno può dire il contrario. Si fa riferimento all'invadenza delle televisioni e all'invasione di campo da parte dei giornali».
I pm, stando a quanto riportano i quotidiani, hanno lamentato che «l'influenza dei media è a tale punto che essi non si limitano a raccontare gli eventi, piuttosto, spesso, in una gara a chi arriva prima tra diverse testate giornalistiche, a provocarli. E tali eventi hanno pure una sgradevole referenza sulle indagini in corso».
«Bisogna cercarla, questa bambina. Se volete la gente che applaude ogni volta che fate degli arresti, questo non è il nostro tipo di giornalismo. Finché non troveranno Denise, noi continueremo a dire che devono cercarla.
Ovviamente non devono dare conto solo a noi, bisogna dare risposte concrete ai genitori, che lottano da soli in questa vicenda. La cosa davvero grave è che Denise non la sta cercando nessuno. In compenso abbiamo i giornalisti querelati per diffamazione». Proprio il 16 marzo, però, avete incassato la solidarietà di Piera Maggio, la mamma di Denise. «Certo, lamentando il sospetto che qualcuno voglia far cadere nuovamente tutto nell'oblio e anche che le stavano facendo terra bruciata intorno».
Denise Pipitone, chi indaga sul giornalista Milo Infante. Lo sfogo sui social: continueremo a cercare. Il Tempo il 19 aprile 2022
Diventa un caso l'indagine a carico di Milo Infante, giornalista e conduttore del programma di Raidue "Ore 14", nell'ambito della storia giudiziaria della sparizione di Denise Pipitone, la bimba di Mazara del Vallo scomparsa nel nulla il primo settembre 2004. Infante su Instagram ha mostrato il dettaglio di un atto giudiziario accusando: "I giudici indagano chi Denise l’ha cercata con tutte le forze. Giornalisti, ex pm, e non solo... Se qualcuno pensa che sia sufficiente per fermarci sbaglia. Continueremo a cercare Denise. Entro la fine della settimana avremo comunque risposte anche sulla Commissione di inchiesta. Denise va cercata, non archiviata".
Infante nel suo post si diceva in attesa delle conclusioni della commissione parlamentare sulla scomparsa di Denise, ma anche in questo caso le notizie non sono confortanti. A quanto risulta l'organismo parlamentare non sarà costituito.
Intanto la madre di Denise Pipitone, Piera Maggio, ha diffuso sui social un codice QR che rimanda direttamente sulla pagina web in cui ci sono tutte le informazioni necessarie che riguardano il caso. "Se vuoi, fai stampare dal tipografo un adesivo oppure un adesivo magnetico da applicare sulla vetrata del tuo esercizio commerciale, sulla porta, sull’auto, sul tuo furgone, camper o camion. Salva l’immagine e diffondila anche attraverso WhatsApp, Telegram etc, anche all’estero", è il messaggio che lancia la donna, aggiungendo: "Coloro che hanno rapito Denise, hanno eluso la giustizia italiana. Alcuni ci sono caduti in pieno inconsapevolmente, altri per volontà propria e altrui. Tutto questo, oltre a noi, rimarrà una vergogna indelebile nella memoria di molti italiani. È dura, ma andremo avanti nella ricerca della verità e giustizia per Denise, come abbiamo sempre fatto!".
La donna si era opposta all’archiviazione della nuova indagine che vedeva indagate quattro persone: l’ex moglie del padre naturale di Denise, Anna Corona, che rispondeva di sequestro di persona; Giuseppe Della Chiave e due testimoni accusati di false informazioni al pm.
Per la prima volta parla Kevin, il fratello di Denise Pipitone. Giampiero Casoni il 20/03/2022 su Notizie.it.
“Ho sempre odiato Piero perché mi dicevano e mi dicevo che lui era il male": per la prima volta parla Kevin, il fratello di Denise Pipitone.
Per la prima volta e senza remora alcuna parla Kevin, in fratello di Denise Pipitone, la bambina scomparsa da Mazara Del Vallo l’1 settembre 2004, e lo fa nella seconda puntata della docu-serie che sta cercando di ricostruire il lungo e difficile mosaico di un giallo terribile.
E le parole di esordio di Kevin sono state sincere e dure, parole su Piero Pulizzi, il padre naturale di Denise: “Ho sempre odiato Piero perché mi dicevano e mi dicevo che lui era il male, era colui che aveva fatto sì che la mia famiglia si distruggesse: a un certo punto sono arrivato ad augurargli anche la morte”. Difficoltà di rapporto, quella con Pulizzi, che Kevin ha avuto anche con la madre, Piera Maggio.
Erano sorte dopo la scoperta della relazione avuta con un uomo che non era suo padre.
Parla Kevin, il fratello di Denise Pipitone
E il secondo episodio della docu-serie dedicata a Denise Pipitone in onda su Canale Nove riporta fedelmente le parole di Piero: “Ti disprezzo per quello che hai fatto, hai tradito questa persona”. E poi: “Lei mi diceva sempre ‘un giorno capirai’ ma a quell’età cosa vuoi capire? Per me c’era solo il tradimento nei confronti di mio padre, perché quando si è piccoli si tende a vedere solo il bianco e il nero ma in realtà ci sono sfaccettature di colori”.
“Capii cosa era giusto e cosa era sbagliato”
Kevin è un uomo schivo e le sole attenzioni che ha ricevuto sono state quelle non richieste emerse dagli interrogatori di prammatica a cui fu sottoposto quando Denise scomparve. E la scomparsa lo condusse prima a prendere le distanze da Piero e Piera, poi a capire: “Vedevo mia madre che soffriva: realizzai che nonostante tutto quella donna mi stava dando la sua vita, capii cosa era giusto e cosa era sbagliato, guardai Piero e capii che quella persona che avevo odiato mi stava vicino, mi dava i soldi per uscire, mi accompagnava a scuola pur sapendo quanto lo disprezzassi”.
"Vi racconto la storia di Denise e perché è difficile parlarne". Angela Leucci il 18 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il regista della docu-serie "Denise" Vittorio Moroni racconta cosa abbia significato trattare una vicenda di cronaca nera mai chiusa.
Quello di Denise Pipitone è un caso che non è ancora chiuso: non c’è una verità che dica cos’è accaduto a quella bambina di Mazara del Vallo scomparsa, rapita il 1 settembre 2004 e mai ritrovata. Però ci sono tante voci, che rappresentano una sorta di mosaico. E queste voci sono confluite in una docu-serie di 4 puntate: “Denise”, in streaming su Discovery+ e in diretta il sabato alle 21.25 su Nove (sabato 19 marzo la seconda puntata).
“Non è mai chiaro dove la storia andrà a finire. Ogni giorno accade qualcosa che riorienta il percorso narrativo”, dice a IlGiornale.it, ricordando le riprese, il regista Vittorio Moroni che ha anche co-sceneggiato con Simona Dolce la docu-serie prodotta da Palomar per Discovery.
Moroni, perché girare una docuserie su Denise a oltre 17 anni dalla scomparsa?
“Perché c’è ancora lo spazio per un racconto diverso su questa vicenda, a condizione di poter entrare in questa storia non solo raccontando i fatti ma anche l’impatto che questi fatti hanno avuto sui protagonisti della vicenda”.
Perché, secondo lei, gli italiani hanno così a cuore Denise e i suoi cari, in particolare mamma Piera Maggio?
“Ci sono probabilmente molte ragioni. Una di queste è il fatto che questa bambina, dopo 17 anni, non si sa se sia viva o se sia morta. Ci sono persone che la stanno cercando e che hanno avuto bisogno di cercare una verità che non si è trovata. È un mistero molto forte e forse tutti noi abbiamo bisogno di poter sperare, identificarci in queste persone che non cessano di poter sperare in qualcosa anche dopo un tempo così lungo”.
In che senso?
“In questi giorni vediamo quanto da un lato ci sia bisogno di speranza, mi riferisco alla pace che l’Europa sembra improvvisamente, di nuovo aver perduto, e di come la speranza di questa pace sia difficilissima. Eppure tutti noi abbiamo un bisogno formidabile di cercarla. Forse Piera Maggio, i genitori di Denise, sono un esempio di persone che, contro tutto e tutti, non hanno mai smesso di coltivare questa speranza”.
Quali sono le principali difficoltà nello sceneggiare e girare un’opera che racconta di un caso di cronaca che non si è mai chiuso?
“È stata una difficoltà enorme, per varie ragioni e su vari livelli. Una difficoltà è stata quella di essere in uno scenario incandescente. Quando ho iniziato a girare la serie era un set a cielo aperto, in cui tutte le trasmissioni televisive ne stavano braccando in qualche modo i protagonisti, cercando di ottenere interviste. Quindi con le persone con le quali cercavo di fare un lavoro un po’ diverso, quello di raccontare tutta intera questa storia, con conversazioni molto lunghe in cui non ci sarebbe stata né una voce fuori campo e nemmeno la presenza delle mie domande nel montaggio, un lavoro di dissodamento paziente della memoria. Era molto difficile da spiegare, di fronte a questa esasperazione, su questo terreno incandescente”.
E poi?
“Dall’altra parte c’era una vicenda che tornava a essere all’attenzione dei media dal punto di vista investigativo, per cui era difficile non solo avere l’accesso alle persone ma anche quale forma dare alla storia. Non è mai chiaro dove la storia andrà a finire. Ogni giorno accade qualcosa che riorienta il percorso narrativo. Dovevamo essere attenti e flessibili alle cose che accadevano”.
Le primissime ricerche di Denise Pipitone
Quali sono i protagonisti che l’hanno colpita di più?
“Sono grato a tutti coloro che hanno accettato di far parte del racconto. Ne abbiamo avuto alcuni esclusivi. Credo che Kevin Pipitone non abbia mai preso la parola in questi anni. Per me è stato importante vedere come anche per lui era arrivato il momento di contribuire a questa memoria famigliare. Spero di aver raccolto tutte le voci, anche quando erano in conflitto tra di loro, di aver rispettato il loro punto di vista e cercato di trasformarlo in narrazione”.
E quindi è stato svolto un lavoro molto complesso.
“Per ognuna delle voci ci sono state decine di ore di memoria: assumersi la responsabilità di trasformare la memoria individuale in una narrazione non è mai facile, però devo dire che i miei collaboratori, la mia co-sceneggiatrice Simona Dolce e anche i montatori sono stati efficacissimi. Abbiamo creato un team che continuamente ha cercato di vigilare sull’equilibrio di ciò che stavamo raccontando. Non volevo giudicare, schierarmi, prendere parte a questa storia, ma raccogliere tutte le voci e lasciare allo spettatore il compito di tirare le fila, di fare una sintesi”.
Denise 17 anni dopo la scomparsa: tutto quello che sappiamo
Il caso di Denise è fortemente mediatico. È possibile che questo abbia potuto influenzare l’opinione pubblica?
“Questo è un grande tema del nostro tempo, uno dei grandi conflitti che stanno dentro a questa storia. Il conflitto è tra il diritto, sacrosanto, costituzionale che hanno i giornalisti di potersi occupare delle vicende giudiziarie e criticare perfino quando ritengono sia necessario, e dall’altra parte l’altrettanto costituzionale sacrosanto diritto che hanno le persone investigate di poter essere interpellate nei luoghi propri della giustizia. Sono due principi importanti della democrazia. Il confine tra questi due principi è labile e ogni volta va ridisegnato. Il rischio è che ci siano processi paralleli e che i processi mediatici possano interferire nei processi della giustizia. Abbiamo provato anche a porre questo problema, astenendoci come sempre dal dare un giudizio”.
Piera Maggio e Giacomo Frazzitta nel 2013, alla fine del processo per il sequestro di Denise
Che idea si è fatto lei del caso?
“Credo di aver avuto a disposizione un anno di lavoro circa. E quattro ore e quaranta minuti di racconto, che non sono pochissime. Ho fatto tutto per tenermi su questa posizione, di ospitalità delle voci e al tempo stesso di astensione dal giudizio. Preferisco sia il film a parlare per me, che sia la serie a creare questo spazio di liberà interpretativa”.
Sempre più spesso la cronaca entra nei cinema e in tv. Accadeva anche in passato ma in questi ultimi anni molto di più. Perché si sente l’urgenza di raccontare queste storie?
“Posso dire perché io ho sentito il bisogno di raccontare questa storia. Questa storia per me ha due nature. Una è crime, noir. L’altra è quella di cui parlavo all’inizio, la saga famigliare ma anche il viaggio esistenziale. Ho cercato di non raccontare solo il crimine, anche se c’è una storia della quale si vuole conoscere la verità, ma al tempo stesso credo che, se c’è una novità, è aver cercato di gettare una sonda che ascoltasse le sfumature più lievi, notasse sguardi, esitazioni, malinconie, nostalgie di chi è stato coinvolto. Sento che abbiamo a che fare con personaggi potentissimi, che hanno fatto un percorso che li ha portati fin qui. Ho cercato di raccontare degli esseri umani che si trovano di fronte a una svolta incredibile della loro vita che cambierà per sempre il loro destino”.
Serie su Denise Pipitone, l’angoscia trasformata in format. Il Corriere della Sera il 13 marzo 2022.
Se mettessimo assieme tutte le ore che la tv ha riservato al caso di Denise Pipitone, avremo la serie più lunga della storia della tv italiana. Adesso, alla vicenda, si aggiunge «Denise», la docu-serie in quattro puntate, prodotta da Palomar DOC per Discovery, diretta da Vittorio Moroni, scritta con Simona Dolce, incentrata sulla storia della bambina scomparsa nel 2004 a Mazara del Vallo.
Ho visto due puntate e non mi pare che ci siano elementi di novità, a meno che intervistare una redattrice di «Chi l’ha visto?», tanto per fare un esempio, non venga considerato un esempio di buon giornalismo. C’è stata negligenza nelle prime indagini? Se sì, quel magistrato è stato sanzionato? Non mi stancherò mai di ripeterlo: serializzare il dramma significa non soltanto riproporre in continuazione un episodio di cronaca nera particolarmente doloroso, significa anche trasformare l’angoscia in un format. E quindi ogni puntata (dove spesso i fatti sono tutti da verificare) serve ad alimentare l’attesa del ritorno di Denise. Suo malgrado (e con tutto il rispetto che si deve a una madre cui è stata rapita la figlia), Piera Maggio è ormai un personaggio televisivo, e con lei il suo avvocato (in alcune immagini di repertorio di «Denise» lo si vede giovanissimo, adesso è un professionista maturo, con tanto di barba). E poi torna sempre la fatale domanda: a chi dobbiamo credere, al Tribunale o alla Televisione?
Due «organi» che operano con intenti differenti, come spiega bene nel suo ultimo libro l’ex procuratore della Repubblica di Milano Edmondo Bruti Liberati, Delitti in prima pagina. La giustizia nella società dell’informazione (Raffaello Cortina ed.). Spesso i programmi tv sulla «cronaca nera» cercano di indirizzare l’opinione pubblica e le verità processuali divengono elementi perfino marginali. Non dimentichiamo mai che ciò che è insufficiente per l’Aula è più che sufficiente per il Video.
Anche una serie tv cerca la verità sul caso di Denise. Pedro Armocida il 12 Marzo 2022 su Il Giornale.
Dal 2004 nessuna certezza sulla sparizione della bambina. Qui parla anche il fratello.
Tutti noi ci ricordiamo di quell'estate del 2004 quando, a Mazara del Vallo in provincia di Trapani, scomparve una bambina, Denise Pipitone. La nonna stava preparando il pranzo, la bimba di quattro anni giocava vicino a lei nel garage di casa adibito a sala da pranzo con cucina. Un istante, uno di quelli fatali lungo all'inverosimile, e Denise scompare nel nulla. La porta finestra è socchiusa e dà sulla strada. Nessuno vede niente e della bimba, ancora oggi, non si sa nulla. È viva o è morta?
Non può rispondere a questa domanda nemmeno la docu-serie Denise diretta da Vittorio Moroni e scritta con Simona Dolce, da stasera alle 21,25 in prima tv sul canale Nove e già disponibile sulla piattaforma streaming discovery+. «Qui non solo c'è una bambina che non è mai stata ritrovata, ma nemmeno una spiegazione minima di ciò che è accaduto. Piera Maggio è una madre che da 17 anni si chiede dove sia la sua bambina e non ha neanche una tomba per piangerla», dice il regista che si avvale, per le efficaci musiche, dello storico collaboratore Mario Mariani. Ma le quattro puntate di questa serie, prodotta per Discovery da Palomar DOC, divisione della Palomar fondata da Carlo Degli Esposti dedicata ai documentari con Andrea Romeo produttore creativo, più che inseguire piste impossibili si attiene ai fatti e, soprattutto, riesce a districarsi in vicende familiari particolarmente ingarbugliate: «È una storia - racconta il regista che ha esordito nel lungometraggio nel 2005 con il delicato Tu devi essere il lupo, proprio sul rapporto tra genitori e figli - abitata da personaggi e conflitti talmente potenti da ricordare una tragedia greca che si celebra però in una sorta di Truman Show».
In effetti l'impatto mediatico della vicenda è stato incredibile, in un Paese già scosso, due anni prima, dal delitto di Cogne. «Mi sono avvicinato a questa storia con il timore di poter essere assordato dal fracasso roboante che la vicenda è ancora in grado di provocare e mi sono convinto che narrare ancora una volta questa vicenda fosse importante, a condizione di ricavare uno spazio che ospitasse la moltitudine dei punti di vista antagonisti e che mi permettesse di restituire il riverbero interiore che questi avvenimenti e questi anni hanno generato nell'animo delle persone coinvolte», conclude il regista.
La serie ricorda uno degli snodi fondamentali che contribuirono ad alimentare l'interesse, come sempre un po' morboso, della cronaca dei giornali e delle tv, ossia la confessione della mamma di Denise, Piera Maggio, sul fatto che il padre biologico della piccola non fosse il marito, ma il suo amante, Piero Pulizzi, che aveva due figlie allora adolescenti. Così ai primi falsi avvistamenti (non ultima la recente vicenda della ragazza russa che si credeva Denise), ad avvocati star, a investigatori privati, a telefonate anonime a Chi l'ha visto?, a sedute spiritiche con medium venuti dal Giappone, si aggiunge una saga familiare che vedrà sul banco degli imputati una delle sorellastre di Denise, difesa da uno dei principi del foro, Gioacchino Sbacchi che difese anche il magistrato Alberto Di Pisa, procuratore della Repubblica a Marsala nei primi anni delle indagini, quando nel 1993 venne assolto definitivamente «per non aver commesso il fatto» nella vicenda del «Corvo di Palermo».
La serie Denise, che si avvale di un eccellente montaggio firmato da Corrado Iuvara e Alessandra Carchedi e di materiali d'archivio frutto di una imponente ricerca coordinata da Guglielmo Parisani, ha, tra le varie interviste esclusive (alla nonna Francesca, ai due padri Toni Pipitone e Piero Pulizzi), anche quella al fratello di Denise, Kevin Pipitone, oggi trentenne, che parla per la prima volta mentre si alternano le immagini di quando aveva 11 anni e il sostituto procuratore gli chiedeva a bruciapelo: «Sicuro che non le hai fatto qualcosa tu?».
Denise Pipitone, "sono sicuro: che fine ha fatto". Per la prima volta parla il fratello Tony: una teoria drammatica. Libero Quotidiano l'08 marzo 2022
Ancora oggi la scomparsa di Denise Pipitone è un mistero. Sparita da Mazara del Vallo 17 anni fa, la bambina che all'epoca aveva quattro anni non è mai stata trovata. Tanti i sospetti e gli intrecci, molti dei quali spiegati nell'ultima docuserie disponibile su Discovery+ e in arrivo il 12 marzo sul canale Nove. Prodotta da Palomar Doc e diretta da Vittorio Moroni, il documentario intitolato Denise ripercorre i giorni dopo la tragedia. Quando è stata scoperta la vera identità del padre della piccola, ossia l'allora amante della madre Piera Maggio, oggi suo marito.
A parlare per la prima volta anche Kevin Pipitone, figlio di Piera e Tony Pipitone. Il fratello di Denise si dice "sicuro che quello di mia sorella è un rapimento non una scomparsa". L'obiettivo del regista è quello di raccontare ancora una storia senza fine, "a condizione di ricavare uno spazio che ospitasse la moltitudine dei punti di vista". "Nessuno - è il suo ragionamento - aveva mai osservato davvero i conflitti interiori dei suoi protagonisti. Qui non solo c'è una bambina che non è mai stata ritrovata, ma anche una madre che da 17 anni si chiede dove sia la figlia e non ha neanche una tomba per piangerla".
La stessa Maggio - prosegue Moroni - non aveva alcuna intenzione di ripercorrere quei dolorosi momenti, ma "ho insistito per farle capire che il nostro sguardo sarebbe stato diverso. Ci ha raccontato come una parte di lei sia morta per sempre quel giorno e un'altra vada avanti come una sopravvissuta". Sempre nella speranza di riabbracciare la figlia.
Denise Pipitone, bomba sui giudici: "Dietro c'è un magistrato", chi e perché vuole insabbiare il caso. Libero Quotidiano il 24 novembre 2021
Un'ultima, sconvolgente, rivelazione sul caso di Denise Pipitone. Un nuovo tassello, messo nel corso di Ore14, la trasmissione di Rai 2 condotta da Milo Infante, durante la quale è intervenuto il direttore di affaritaliani.it, Angelo Maria Perrino, che ha dato la sua versione dei fatti sul giallo di Mazara del Vallo, sulla scomparsa della bambina che ormai risale al lontanissimo 2004.
E quelle sganciate da Perrino, come riporta iltempo.it, sono vere e proprie bombe: "Secondo una nostra fonte romana, la chiave di questo giallo sta nelle intercettazioni, che però non si vogliono rendere pubbliche perché sarebbero compromettenti per alcuni personaggi noti, magistrati e politici", ha spiegato il direttore.
E ancora, Perrino a lanciato un suo personalissimo appello alla politica affinché il parlamento si decida a creare una commissione che vada a chiarire i dettagli oscuri della vicenda, che aumentano con il passare del tempo. "Può arrivare la spinta giusta per risolvere finalmente questo caso", ha affermato Perrino.
La madre di Denise Pipitone, da par suo, non si vuole arrendere. "Mia figlia va cercata, non archiviata", ha ribadito Piera Maggio nei giorni scorsi, successivamente alla richiesta di archiviazione della procura di Marsala sulla nuova inchiesta, riaperta nei mesi scorsi. In segno di protesta, Piera Maggio aveva anche lanciato una manifestazione per tenere viva l'attenzione su sua figlia Denise, manifestazione che si è poi tenuta lo scorso 14 novembre.
Denise Pipitone, 14 testimoni per l’ex pm Maria Angioni: “Intervennero i servizi segreti”. Chiara Nava su Notizie.it. Sono 14 i testimoni chiave chiamati dall'ex pm Maria Angioni, a processo per falsa testimonianza sulla vicenda della scomparsa di Denise Pipitone.
Sono 14 i testimoni chiave chiamati dall’ex pm Maria Angioni, a processo per falsa testimonianza sulla vicenda della scomparsa di Denise Pipitone.
Maria Angioni, ex pm che si era occupata della scomparsa di Denise Pipitone, è stata chiamata a processo per false dichiarazioni in merito alla vicenda.
La Angioni si è occupata delle indagini sul rapimento fino al luglio 2005. Per lei è stato disposto il giudizio immediato il 23 dicembre davanti al giudice monocratico del Tribunale di Marsala. I legali dell’ex pm hanno fornito una lista di 14 testimoni chiave, che parteciperanno all’udienza del 10 gennaio 2022. In aula saranno presenti anche le telecamere della trasmissione Quarto Grado, inizialmente respinte dalla Procura e poi autorizzate dal giudice, che ha ritenuto il processo di interesse pubblico.
Nella lista dei testimoni chiave richiesti dalla pm Angioni ci sono diversi nomi importanti, come Antonio Sfamemi, all’epoca dei fatti dirigente del commissariato di Mazara del Vallo, Stefania Letterato, fidanzata e in seguito moglie di Sfamemi, e Gioacchino Genchi, consulente informatico della Procura di Marsala. Ai tempi delle indagini, secondo l’ex pm, era in corso un conflitto di interessi dovuto al fatto che la Letterato aveva intrattenuto uno scambio telefonico frequente con Anna Corona.
La compagna di Sfamemi aveva un rapporto di amicizia con una delle principali iniziate per il rapimento di Denise. I contatti telefonici erano stati interrotti dopo il fatto di cronaca. Genchi ha riferito che l’insuccesso delle indagini era ricollegabile all’amicizia tra la Letterato e la Corona.
A testimoniare è stato chiamato anche Giovanni Caravelli, attuale direttore dei servi segreti dell’Aise.
Secondo l’ex pm, infatti, all’epoca delle indagini era stato necessario anche “l’intervento dei servizi segreti“. Richiesta la presenza in aula anche per Antonino Silvio Sciuto, ex procuratore capo di Marsala, e Luigi Boccia, ex sostituto procuratore. “Nella veste di imputata devo difendermi ma allo stesso tempo posso capire anche nel dettaglio cosa è successo. Sentirò le parole dei testimoni e ho la possibilità di far emergere la verità per rendere giustizia a Denise e ai suoi genitori” ha dichiarato la Angioni.
· Il Mistero dei coniugi Aversa.
Trent'anni fa l'omicidio dei coniugi Aversa, resta il ricordo. Il Quotidiano del Sud il 4 Gennaio 2022. Sono passati esattamente 30 anni, ma a Lamezia Terme sono ancora in tanti a ricordare Salvatore Aversa, sovrintendente capo della Polizia di Stato, e la moglie, Lucia Precenzano, uccisi in un agguato di ‘ndrangheta in una via del centro cittadino. Aversa, 59 anni, era un poliziotto di grande esperienza, memoria storica del Commissariato di Lamezia Terme.
Le cosche locali lo temevano perchè aveva una profonda conoscenza della criminalità organizzata locale.
Lucia Precenzano era un’insegnante di scuola media. Una donna gentile e riservata che viveva per il marito ed i tre figli, Walter, Paolo e Giulia. Quella sera qualcuno ha voluto spegnere per sempre la voce di Salvatore Aversa, trascinando inspiegabilmente nello stesso destino la moglie del sovrintendente, la cui unica colpa è stata quella di trovarsi insieme a lui nel momento in cui è stato messo in atto l’agguato.
Stamattina il sacrificio di Aversa e della moglie è stato ricordato nel corso di una messa, presente il questore vicario di Catanzaro, Renato Panvino, anche lui poliziotto di grande esperienza. C’erano i tre figli dei coniugi Aversa e, accanto a loro, il Procuratore della Repubblica di Lamezia, Salvatore Curcio, ed il sindaco, Paolo Mascaro. Walter Aversa, figlio maggiore dei coniugi assassinati, ha detto che «è un peccato che sull’omicidio di un uomo di punta della Polizia, come viene sempre ricordato mio padre dai vertici dello Stato, e di mia madre, si sia innescata una vicenda giudiziaria così contorta e difficile. Un servitore delle istituzioni avrebbe meritato una risposta più chiara e immediata da parte degli apparati della sicurezza dello Stato».
Il Capo della Polizia, Lamberto Giannini, ha inviato un messaggio in cui, parlando di «ricordo sempre vivo di Salvatore Aversa e della moglie», ha rinnovato ai loro familiari «sentimenti di profonda partecipazione e riconoscenza. La loro memoria ed il loro estremo sacrificio – ha aggiunto il prefetto Giannini – possano continuare a orientare le scelte che ciascuno di noi è chiamato a fare, ogni giorno, per garantire la sicurezza delle nostre comunità, onorando la dedizione e il coraggio con cui Salvatore svolgeva il suo lavoro al servizio dei cittadini».
Per l’assassinio di Aversa e della moglie é stato condannato definitivamente a 30 anni di reclusione, nel 2010, il boss della ‘ndrangheta Francesco Giampà, detto «il professore», e, rispettivamente, a 10 e 8 anni i collaboratori di giustizia Stefano Speciale e Giuseppe Chirico, pugliesi, già esponenti della Sacra corona unita, autoaccusatisi dell’esecuzione materiale del duplice omicidio. Ma in precedenza le indagini avevano puntato, come esecutori del duplice omicidio, su due esponenti della criminalità lametina, Giuseppe Rizzardi e Renato Molinaro, assolti, dopo essere stati in un primo tempo condannati, perchè la loro accusatrice, Rosetta Cerminara, si rivelò una millantatrice, tanto da essere condannata per calunnia e truffa aggravata ai danni dello Stato.
(ANSA il 4 Gennaio 2022.) "E' un peccato che sull'omicidio di un uomo di punta della Polizia, come viene sempre ricordato dai vertici dello Stato, e di mia madre, si sia innescata una vicenda giudiziaria così contorta e difficile". Lo ha detto all'ANSA Walter Aversa, uno dei tre figli dell'ispettore della Polizia di Stato Salvatore Aversa, e della moglie, Lucia Precenzano, di cui ricorre oggi il trentennale dell'assassinio, avvenuto a Lamezia Terme. "Un servitore delle istituzioni - ha aggiunto Walter Aversa - avrebbe meritato una risposta più chiara e immediata da parte degli apparati della sicurezza dello Stato. Cionondimeno, noi familiari accettiamo con serenità l'epilogo giudiziario cui, in maniera sia pure tardiva, si è giunti". Per l'assassinio di Aversa e della moglie é stato condannato definitivamente a 30 anni di reclusione nel 2010 Francesco Giampà, ritenuto un boss della 'ndrangheta, e, rispettivamente, a 10 e 8 anni i collaboratori di giustizia Stefano Speciale e Giuseppe Chirico, pugliesi, già esponenti della Sacra corona unita, autoaccusatisi dell'esecuzione materiale del duplice omicidio. Stamattina, su iniziativa della Questura di Catanzaro, l'omicidio dell'ispettore Aversa e della moglie è stato ricordato con una messa svoltasi nel Duomo di Lamezia Terme e la deposizione di una corona di fiori alla base della lapide collocata nel punto in cui avvenne il duplice assassinio. Erano presenti i figli dei coniugi Aversa, Paolo e Giulia, insieme a Walter; il Procuratore della Repubblica di Lamezia, Salvatore Curcio; il sindaco, Paolo Mascaro, ed il vicario della Questura di Catanzaro, Renato Panvino. (ANSA).
Da tgcom24.mediaset.it il 12 ottobre 2022.
La quinta Corte d'Appello di Milano ha accolto l'istanza di riparazione per ingiusta detenzione e ha liquidato oltre 303mila euro a Stefano Binda, il 53enne assolto nel gennaio 2021 in via definitiva dall'accusa di avere ucciso la studentessa Lidia Macchi. L'uomo è stato in carcere tre anni e mezzo, tra il 2016 e il 2019. A maggio, in aula, aveva chiesto un "indennizzo" di oltre 350mila euro.
Stefano Binda nel gennaio del 2021 era stato assolto definitivamente dall'accusa di aver ucciso Lidia Macchi, la giovane studentessa trovata morta con 29 coltellate nel gennaio 1987 in un bosco a Cittiglio, nel Varesotto. Un caso rimasto irrisolto da allora.
In primo grado Binda era stato condannato all'ergastolo e poi prosciolto in appello dalla Corte di Assise di appello di Milano. L'inchiesta, avocata dalla Procura generale di Milano, il 15 gennaio del 2016 aveva portato in cella Binda. L'uomo venne scarcerato il 24 luglio 2019, in seguito all'assoluzione in secondo grado poi confermata dalla Cassazione.
Ora la quinta Corte d'Appello, come è stato comunicato con una nota, ha depositato l'ordinanza riconoscendo l'ingiusta detenzione e liquidando immediatamente 303.277,38 euro a titolo di indennizzo.
Delitto Lidia Macchi, dopo l'assoluzione a Stefano Binda 303mila euro per ingiusta detenzione. La Repubblica il 12 Ottobre 2022.
Il 53enne era stato assolto in via definitiva nel gennaio 2021 per l'omicidio della studentessa di Varese. Lo scorso maggio aveva chiesto 350 mila euro come 'indennizzo' per i 1.286 giorni in carcere
Paola Bettoni ha sempre detto che, dopo 35 anni passati a chiedere giustizia per sua figlia, "l'ergastolo lo hanno dato" a lei. Ancora adesso, l'omicidio di Lidia Macchi, la studentessa di Varese uccisa con ventinove coltellate il 5 gennaio 1987, su una collinetta di Cittiglio (Varese), il Sass Pinì, non ha un colpevole. Non solo.
Oggi, la quinta Corte d'Appello di Milano ha accolto l'istanza di riparazione per "ingiusta detenzione" e ha liquidato oltre 303 mila euro a Stefano Binda, il 53enne assolto nel gennaio 2021 in via definitiva dall'accusa di avere ucciso la studentessa. Il motivo: l'uomo è stato in carcere 3 anni e mezzo, tra il 2016 e il 2019, e lo scorso maggio, in aula, aveva chiesto un "indennizzo" di oltre 350mila euro per quei 1.286 giorni di prigione.
Delito Macchi, come è stato calcolato l'indennizzo per Stefano Binda
I 303.277,38 euro riconosciuti, si legge nel provvedimento depositato stamane, sono stati calcolati moltiplicando 235,83 euro per ciascuno dei 1.286 giorni che Stefano Binda ha trascorso in carcere. A questi si aggiungono 1.500 euro di spese che saranno versati dal ministero dell'Economia e delle Finanze. "Ovviamente è contento ma, essendo di poche parole, quando gli ho riferito l'esito della decisione non ha detto altro" ha spiegato l'avvocata Patrizia Esposito che con il collega Sergio Martelli assiste Binda.
Ora bisogna attendere che il provvedimento diventi definitivo e poi attivare le procedure per riscuotere la somma calcolata in base alle tabelle previste dalla norma. Somma che non comprende però la richiesta avanzata dai difensori di rifusione anche del danno subito dalla madre e dalla sorella dell'uomo, per via dell'"impatto emotivo" e dell'"alone di discredito sociale" dovuto al suo arresto.
Il delitto di Lidia Macchi dopo 35 anni rimane irrisolto
Il caso ancora irrisolto di Lidia Macchi, uccisa con 29 coltellate nel gennaio 1987 e ritrovata morta in un bosco a Cittiglio nel Varesotto venne riaperto 7 anni fa dalla Procura generale di Milano che aveva avocato a sé l'inchiesta di competenza della magistratura di Varese. Per per quel 'cold case' di quasi trent'anni prima, Binda finì in cella il 15 gennaio del 2016 e rimase fino al 24 luglio 2019, quando in secondo grado venne cancellato l'ergastolo inflitto dalla Corte d'Assise varesina. Quando poi l' assoluzione venne confermata dalla Cassazione, l'uomo chiese i danni allo Stato per essere rimasto in prigione nonostante, come lui stesso ha sempre rivendicato, la sua innocenza.
La sua estraneità al delitto è stata ribadita ancora una volta nelle 22 pagine depositate oggi e scritte dal giudice Micaela Curami laddove si puntualizza come la "sentenza assolutoria" di secondo grado "non abbia accertato alcun fatto che (...) attestasse comunque un comportamento gravemente colposo da parte sua, tale da lasciare supporre agli inquirenti che egli fosse coinvolto a pieno titolo (...) e che dovesse essere sottoposto a custodia cautelare" per quell'omicidio che tutt'ora è un mistero.
Omicidio Lidia Macchi, gli incontri segreti dei sacerdoti negli hotel di lusso a Milano: le carte inedite. Andrea Galli inviato a Varese su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2022.
Varese, a 35 anni dall’assassinio della studentessa manca ancora il colpevole. Ma dalle indagini spunta la doppia vita di tanti personaggi sospettati di aver avuto un ruolo nella vicenda. Per la maggior parte si tratta di prelati. E tra gli inquirenti c’è chi scava ancora per arrivare alla verità
«Il killer esorcizzò il senso di colpa»
Nei lounge bar degli hotel di lusso, gli incontri preliminari per conoscersi; in appartamenti di palazzi liberty, il resto delle conversazioni e non soltanto quelle. Sempre in una geografia centralissima di Milano, a ridosso di Brera. Sempre con protagonisti degli uomini, a cominciare da figure religiose, che incontravano altri uomini. Ufficialmente non per questioni di lavoro, affari, operazioni immobiliari, imprenditoriali o finanziarie, quanto per interessi personali. Il Corriere ha visionato verbali di pedinamento e trascrizioni di colloqui intercettati che compongono le «carte segrete», relative agli ultimi anni, dell’inchiesta sull’omicidio irrisolto di Lidia Macchi: era il mese di gennaio del 1987, tra il giorno 5, quando la 21enne sparì uscendo dalla casa di famiglia diretta a visitare un’amica in ospedale, e il giorno 7 quando venne rinvenuta senza vita. Ebbene, queste carte, una parte solo minima del corposo fascicolo, ci dicono per cominciare due cose. La prima: il torbido, o quantomeno il misterioso e denso alone di doppia vita che grava su chi, da allora, è via via entrato nelle indagini, oppure è stato sospettato senza mai divenire indagato, o ancora è stato considerato sicuro depositario di sicuri segreti pur mai scoperti e provati. Uno scenario che sembrerebbe totalmente svincolato rispetto al delitto. Però chi ha «trattato» questo materiale, se ne serve per far capire non la degenerazione umana, individuale, che trasversalmente riguarda categorie e professioni, ma il «sistema» articolato che si protegge a vicenda, i favori reciproci, la cortina quasi impenetrabile di sostegni, coperture, disponibilità di luoghi, le ramificate conoscenze, la convinzione di impunità, insomma l’indubbia capacità di un gruppo di persone di curare ogni personale interesse e non fa uscire il minimo spiffero. Situazione, secondo gli inquirenti, identica a quella che caratterizza l’omicidio di Lidia Macchi.
Pedinamenti e intercettazioni
Dopodiché, secondo elemento. Scorrendo quei verbali di pedinamento e quelle trascrizioni di colloqui intercettati, gli incontri, tra preti e laici, tra anziani e ragazzi, tra presumibili voluttà e peccati, non sono mai sconfinati nel penale. Il corso della giustizia non ha dunque ravvisato illeciti, le azioni sono state (si presume) consenzienti, e non risulta traccia di scambio di denaro. Qualora vi siano state prestazioni sessuali, come alcuni commenti dei protagonisti, ugualmente ascoltati dagli investigatori, lascerebbero intendere, ecco, il fatto non impedisce d’interrogarsi sulla morale di certi preti di provincia — la provincia varesina di Lidia, studentessa di Giurisprudenza e appartenente a Comunione e liberazione —, non fosse che qui il tema uno rimane: chi è il killer? Non è Stefano Binda, arrestato dalla polizia nel gennaio 2016 e, come da sentenza della Cassazione, risultato innocente (martedì 24 maggio in programma l’udienza sulla richiesta di risarcimento danni presentata dai legali del 54enne). E allora dove cercarlo, il killer? Forti certezze riuniscono più di un investigatore, sia i carabinieri che per primi cercarono Lidia dopo la denuncia di scomparsa dei genitori, sia gli agenti della squadra Mobile di Varese i quali per ultimi si sono occupati del delitto: l’assassino oggi è vivo; l’assassino conosceva la ragazza, l’aveva frequentata; l’assassino aveva e ha connessioni con le sfere clericali, gode di una rete di relazioni e di coperture.
Gli alibi
Del resto il primo pm, poi trasferito in altra sede, esplorò gli alibi di sacerdoti, convinto che lì (si) dovesse insistere. E del resto sono dati oggettivi gli improvvisi dirottamenti, negli anni, di religiosi verso differenti mansioni che implicavano l’abbandono di Varese, e ugualmente le assegnazioni in tempo zero, quasi per dire dall’oggi al domani, a missioni umanitarie in terre remotissime dell’Africa e del Sudamerica. Via, sparire, non poter presenziare se chiamati a testimoniare… «Trovate il responsabile», ha ripetuto e ripetuto la mamma di Lidia, che nel dolore più insostenibile, quello di un genitore che perde un figlio, e lo perde così, barbaramente ucciso, mai, proprio mai ha desistito: assistere alle udienze, rispondere ai giornalisti, attendere evoluzioni, chiedere a magistrati, chiedere a carabinieri, chiedere a poliziotti. I delitti perfetti non esistono, ripetono gli esperti di criminologia, poiché un killer lascia una traccia sulla scena del crimine o sopra la sua vittima. A patto di scoprirla. Infatti esistono, queste sì, le indagini imperfette. E quella di Lidia, a sintetizzare trentacinque anni di tentativi, è stata oltremodo imperfetta.
Il caso non è chiuso
Si pensava: quella era un’epoca di semplicità investigativa, nella misura in cui mancavano i mezzi, dominava il «fiuto dello sbirro» e non il rigore scientifico. Si è pensato più di recente: ora che abbiamo il potente sostegno della tecnologia, potremo forse risalire all’assassino, o almeno tracciarne fondamentali coordinate. Eppure non è servita la riesumazione dei resti di Lidia, che in quel bosco di Cittiglio rifugio di tossicodipendenti, prostitute, balordi, tra fango e sporcizia ricevette 29 coltellate da un uomo con il quale aveva un appuntamento o che forse l’aspettava a tradimento. Non fu la degenerazione di una rapina, non un omicidio pianificato pur s’ignora con quale «fine», e non fu l’eliminazione di un testimone sempre non si sa di quale scenario; piuttosto, fu forse la furiosa conseguenza di un rifiuto; o forse una punizione «personale» che attingeva a un’intimità vera o presunta tra l’omicida e la vittima. Se mai nessuno parlerà, nemmeno in punto di morte aspirando a raccomandarsi e mondare l’anima infine confidando il rimorso, mai forse sapremo il nome e il movente del killer. Uno convinto di come e quanto il tempo scorre, le tracce svaniscono, i ricordi si spengono, ed eventuali complici faranno lo stesso: staranno zitti. Se parla uno, cadono tutti. Anche se, in questo preciso momento, nel massimo silenzio, ci sono investigatori che continuano a ragionare, rovistare, ascoltare. Che l’assassino di Lidia Macchi, giovane entusiasta e perbene, di cultura ed educazione, priva di giustizia, non sia in galera, non significa che il caso è chiuso. I casi di omicidio non lo sono mai.
· Il Mistero di Francesco Scieri.
Francesco Moscatelli per “La Stampa” il 5 aprile 2022.
«In questi giorni sono a Siracusa. Rivedendo la nostra casa e ripensando a come eravamo felici non riesco ancora a farmene una ragione. Continuo a chiedermi: come sarebbe la mia vita se Lele fosse ancora qui? E se avesse avuto dei figli? La morte di un ragazzo è sempre una tragedia, ma quello che è successo a noi ha distrutto una famiglia.
Mio padre, che mai avrebbe pensato che suo figlio fosse in pericolo all'interno di una caserma dello Stato italiano, è mancato dieci anni fa senza sapere cosa gli era capitato. Io e mia mamma continuiamo a combattere perché l'assenza di verità è qualcosa di enorme e inaccettabile».
Francesco Scieri, 49 anni, medico in un ospedale lombardo, è il fratello di Emanuele, il parà di 26 anni trovato cadavere la mattina del 16 agosto del 1999 ai piedi di una torretta usata per far asciugare i paracadute nel centro di addestramento della Folgore «Gamerra» di Pisa.
Il «caso Scieri», per anni affiancato nel dibattito pubblico a episodi di nonnismo, da ieri è diventato anche l'argomento di un processo penale davanti ai giudici della corte d'assise di Pisa.
Secondo la procura il giovane sarebbe stato vittima di un'aggressione nella serata del 13 agosto, il suo primo giorno alla «Gamerra», e sarebbe poi precipitato dalla torretta senza ricevere soccorsi.
Due ex caporali, Alessandro Panella (42 anni) e Luigi Zabara (44), sono imputati per omicidio volontario aggravato. Mentre un terzo sottufficiale su cui pesavano le stesse accuse, Andrea Antico (42 anni), tuttora in servizio, ha scelto il rito abbreviato ed è stato assolto dal gup il 29 novembre scorso.
Dottor Scieri, come mai sono dovuti passare 23 anni per la celebrazione di un processo?
«Se non ci fosse stata commissione d'inchiesta parlamentare del 2017 - in cui tutti gli atti sono sempre stati votati all'unanimità al di là delle appartenenze politiche - non saremmo mai arrivati a questo.
Sarebbe già stato tutto archiviato vuoi per omertà, vuoi perché si tratta di fatti accaduti dentro una caserma, vuoi perché molti pensarono a un suicidio. Eppure i pm, quando archiviarono la prima volta le indagini, parlarono di omicidio preterintenzionale ad opera di ignoti.
Il contesto era già chiaro all'epoca: un ambiente impermeabile, la scena del crimine inquinata, nessun Dna, nessun testimone diretto».
Cosa ricorda di quel 16 agosto?
«Emanuele, che aveva 13 mesi meno di me, era partito per il Car il giorno dopo la mia laurea. La sera del 13 agosto ci eravamo sentiti al telefono alle 20,30. Ricordo che la domenica di Ferragosto ero in spiaggia con gli amici ma non riuscivo a divertirmi perché avevo un cattivo presentimento.
Lunedì, tornato a casa, mia madre mi chiese se avevo notizie di Lele perché da due giorni non si faceva sentire. Un fatto insolito, anche perché mio fratello era uno dei pochi ad avere già allora un cellulare. Dopo pranzo arrivarono i carabinieri e ci chiesero se Lele aveva qualche problema, se c'era qualcosa che lo tormentava. Solo dopo ci dissero che era stato trovato morto. Il nostro incubo cominciò così».
Nell'armadietto di suo fratello vennero ritrovati antidepressivi. Perché non avete creduto all'ipotesi del suicidio?
«La confezione di farmaci era integra, mio fratello non era depresso. I medicinali glieli aveva consigliati un medico ma lui non era in terapia. Era un ragazzo pieno di vita: giocava a calcio e a tennis, era circondato dalle ragazze, aveva appena concluso il praticantato per diventare avvocato e aveva progetti chiari.
Il 7 agosto eravamo tutti a Firenze per il suo giuramento e lui stava bene. Qualche mese fa finalmente sono riuscito a vedere con i miei occhi alcune foto scattate al suo corpo: ci sono lesioni non compatibili con la caduta. Qualcuno prima che cadesse l'ha aggredito. Sono un chirurgo ma quelle immagini mi hanno impressionato».
Qualcuno poteva parlare e non l'ha fatto?
«Sicuramente ci sono persone che sanno quello che è successo e non lo vogliono dire. Probabilmente qualcuno è stato protetto perché la verità era scomoda. Ma chi lo ha fatto ha sbagliato due volte perché da vent'anni l'esercito italiano ha addosso una macchia, un'ombra. Se uno pensa al nonnismo, pensa a quello che è successo a Lele».
A novembre i due ex ufficiali che erano accusati di favoreggiamento, il generale Enrico Celentano e il maggiore Salvatore Romondia, sono stati assolti con formula piena.
«Io e mia madre siamo parte civile nel processo. Oggi (ieri, ndr) non ero in aula ma i nostri legali hanno fatto ricorso e lo stesso farà la procura».
Al margine dell'udienza Luigi Zabara, uno dei due imputati, ha affermato: «Posso solo dire che in questi anni nessuno tra i media ha coltivato il dubbio che io possa essere innocente e invece fino a prova contrario io lo sono». Cosa ne pensa?
«Zabara è l'autore del libro "Coscienza di piombo", un romanzo in cui si racconta come un uomo riesca a scendere a patti con la propria coscienza. Non credo di avere altro da aggiungere».
Mistero Vatican Girl, il direttore della fotografia: "Così è nata la serie su Emanuela Orlandi". Ad un mese dall'uscita su Netflix, "Vatican Girl - La scomparsa di Emanuela Orlandi" resta una delle serie tv più viste della piattaforma. Abbiamo raggiunto il direttore alla fotografia Stefano Ferrari, che ci racconta uno dei veri obiettivi del progetto. Davide Bartoccini il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Interviste di questo genere, per norma giornalistica, andrebbero poste sempre prima, non dopo l’uscita di una produzione. Tanto più perché viviamo l’epoca del pericolo spoiler. Ma trattandosi di un mistero italiano - forse tra i maggiori misteri italiani che sono rimasti irrisolti - è sempre il momento, sia prima o sia dopo, di toccare l’argomento e approfondire le ragioni che hanno portato alla produzione di “Vatican Girl - La scomparsa di Emanuela Orlandi”. Miniserie che ha giù riscosso un successo di portata mondiale, ad un mese dal lancio in contemporanea in ben 160 nazioni, resta nella top ten delle serie tv più viste sulla piattaforma Netflix. Per questa ragione, abbiamo raggiunto a New York Stefano Ferrari, giovane e promettente direttore alla fotografia romano, che ci racconta il fine ultimo di un prodotto ponderato e ben confezionato.
Il mistero della scomparsa di Emanuela, una ragazza di 15 anni rapita a Roma il 22 giugno di un lontanissimo 1983. Noi due non eravamo ancora nati, perché ne stiamo ancora parlando?
"Perché la scomparsa di Emanuela Orlandi è ancora un mistero, appunto. E perché è ora che il mondo, non solo l’Italia, sia messo al corrente di questa sparizione: un caso irrisolto dove si intrecciano a più livelli intrighi politici, segreti indicibili e omissioni di una monarchia millenaria, quella del Vaticano, servizi segreti che s’incontrano e scontrano in una terra di mezzo come soltanto l’Italia poteva essere tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, tra Anni di piombo e Guerra fredda. Senza dimenticare la criminalità organizzata...".
Una casa di produzione straniera che torna ad interessarsi di un mistero italiano iniziato 39 anni fa dunque.. non era già stato detto tutto?
"Sì, e no. Alla base della scelta di girare una nuova serie sul caso Orlandi, c’è una missione e una piccola grande svolta nella struggente ricerca della verità. Ma sopratutto, c’è la ferma volontà di riaccendere i riflettori sul caso portandolo al di fuori dei confini italiani (…) Perché vedi, la scomparsa di Emanuela Orlandi, pur trovando collegamenti sufficienti ad essere prove concrete che coinvolgono i servizi segreti italiani, il Kgb, la Cia, la banda della Magliana, il Vaticano e il suo Ior (Istituzione finanziaria pubblica della Città del Vaticano, ndr) è uno mistero molto italiano. Al di fuori dell’Italia - dove comunque molti, sopratutto nelle nuove generazioni, non sanno “tutto” quel che c’è da sapere - nessuno ne sa niente. Ed è molto grave, perché il Vaticano è uno Stato che proietta la sua potenza in tutto il mondo."
Davvero vuoi dirmi che a New York, neanche nei salotti intellettuali che abbiamo idealizzato attraverso gli articoli di Tom Wolfe e i film di Woody Allen.. nessuno conosceva questa storia?
"Assolutamente. A New York come a Londra né la gente comune né i ceti che possiamo concepire come più “colti” o semplicemente più informati conoscevano questa storia. Ho organizzato una visione privata per amici e colleghi qui a Ny; registi, scrittori, addirittura professori appassionati non avevano mai sentito parlare della scomparsa di Emanuela Orlandi e dell’intrigo che potrebbe celarvisi dietro. “Come è possibile che non sapessi nulla si una storia del genere?”, era l’eco alla fine della proiezione. Mentre del caso di Madalein McCann (la bambina inglese scomparsa il 3 maggio del 2007 a Plaia de Luz in Portogallo, ndr), per fare un esempio, tutti sono al corrente, anche noi italiani sappiamo. È qui la differenza. E qui uno degli obiettivi del progetto secondo me: “Portare il caso di Emanuela oltre l’Italia”. Anche se.."
Anche se?
"Anche se il caso Orlandi - non facciamo spoiler ma è necessario dirlo - è un caso che inizia fuori le mura del Vaticano ma ci ha riportato all’interno delle mura del Vaticano nel suo ipotetico epilogo. Dopo aver attraversato i labirinti claustrofobici di una Roma oscura e impenetrabile, si fa tetramente ritorno in quel regno dorato dove nessuno pensava potesse accadere mai nulla di male. Dove forse qualcosa alla fine può essere accaduto. La storia, la ricerca, le nuove testimonianze inedite che sono state raccolte da Chiara Messineo smontano in parte l’idea che ci eravamo fatti. La Famiglia Orlandi compresa. Il fratello di Emanuela, Pietro, protagonista di questa miniserie, e il giornalista investigativo Andrea Purgatori, compresi."
Un direttore alla fotografia romano in una produzione britannica girata a Roma, è un caso?
"Avevo già lavorato con Mark Lewis nella produzione “Don't F**k With Cats: Hunting an Internet Killer”, una serie tetra, lugubre e mortifera. Deve avermi coinvolto di nuovo per questo, oltre a sapere che in quella città ero nato e cresciuto, e potevo dare una visione delle cose convincente a due livelli. Ossia, per due tipi di audience."
Indendi chi era già al corrente del caso, e chi entrava in contatto con la storia per la prima volta?
"Esattamente. Appena ci siamo messi a lavoro mi sono detto "Devo guardare al progetto con gli occhi di un italiano che conosce già ogni dettaglio della storia e catturare la sua attenzione.. se catturo loro, catturerò di riflesso l’audience composta da chi non sapeva nulla di questa vicenda”. Questo era l’obiettivo principale. Il secondo era quello di ricreare una certa atmosfera: l’atmosfera di quegli anni."
Oggi i documentari sono diversi da quelli visti in passato, anche da quelli incentrati sul caso Orlandi, a cosa vi siete ispirati?
"Ho chiesto a Mark se era possibile “Cercare di non investire tutti gli sforzi nella sola ricerca e nel confezionamento di fatti e testimonianze che erano già noti.. ma di esplorare un certo tipo di atmosfera. Per concedere un’immersione completa allo spettatore. Dipingendo Roma come un labirinto dove si può davvero sparire nel nulla. Cercando di portare lo spettatore in un viaggio che inizia nel Vaticano - “un luogo dove nessuno ti poteva toccare” - per dipingere Roma come un luogo dove tutto, in un istante, poteva essere “messo in pericolo”; si trattasse di un terrorista turco che tira fuori una pistola automatica e attenta alla vita del Papa; o di una ragazza, o due ragazze, che in 5 minuti possono sparire nel nulla, per sempre. Ci siamo ispirati ad un stile di trasposizione che definirei Fincheriano."
Come Zodiac?
"Come Zodiac.. e alla struttura del giallo alla Dan Brown. Anche se questo - purtroppo - non è il frutto della fantasia di un romanzo. Stiamo parlando di eventi veri. E la struttura della trama è molto più articolata della struttura di un’opera di fantasia. La realtà spesso è più cruenta e sinistra della finzione."
Siamo nell’epoca dello spoiler ma anche dei commenti degli hater, avete ricevuto critiche?
"Sì, leggendo su Twitter, o sui social in generale ho notato come le poche critiche si siano concentrate sull’ampio spazio concesso alla figura di Matteo Accetti. Ma più dell’identità e del collegamento con i fatti - che comunque viene periziato da esperti - ci interessava tratteggiare un certo tipo figura: ossia l’uomo che ha preso parte attivamente al rapimento. Perché le persone, quali che siano i mandanti e le ragioni, non scompaiono nel nulla; e se vengono rapite, vengono rapite e custodite da qualcuno che sceglie nascondigli, tempi, riscatti e modo di comunicare con la famiglia. Accetti, De Petis, la sua ex amante Sabrina Minardi. Sono figure che ci aiutano a capire il mondo sotterrano di Roma e della Roma collegata al Vaticano.."
Perché esisterebbe anche un mondo sotterraneo in Vaticano? Un altro “mondo di mezzo”?
"Qui negli States lo chiamiamo “The roman underworld”, da non confondere con la mitologia o con le antiche origini etrusche, con la Roma sotterranea delle catacombe che costellano il sottosuolo come un mondo di mezzo. Ma come uno strato sedimentato di segreti, omissioni, fatti taciuti e occultamenti. In America si sta risvegliando un certo interessamento nei confronti del Vaticano che è comunque sempre stato scosso da piccoli scandali. Un interessamento che si è risvegliato soprattutto dopo lo scandalo dei cosiddetti VatiLeaks. Sapevi che la maggior parte delle proprietà immobiliari di New York appartengono al Vaticano? Il concetto espresso dal giornalista Emiliano Fittipaldi nella serie è una sintesi adeguata delle preoccupazioni di una città stato che “Non vuole si sappia quel che accade all’interno”."
Beh, il Vaticano è pur sempre uno Stato sovrano seppure nel cuore di Roma, la capitale di uno Stato sovrano che agirebbe nello stesso modo.. non trovi?
"Certo. Il Vaticano però è visto troppo spesso solo e unicamente come ente religioso e centro della Cristianità. Meno spesso come un ente politico con i suoi interessi e con il suo capo di Stato: il Papa. Al tempo Giovanni Paolo II, oggi beatificato, poteva essere al corrente di alcune informazioni rivelate solo in seguito da documenti ancora al centro dell’inchiesta. Che tu sia cattolico o meno, non puoi non riconoscere l’importanza oserei dire “universale” e il peso a livello internazionale dello Stato Vaticano. Questa Potenza e le sue “costole”, è stata scossa, al pari di altre potenze, da diversi scandali.. basta pensare al caso Spotlight."
Dobbiamo considerarlo come un attacco sofisticato al Vaticano?
"Assolutamente no. Dal punto di vista documentaristico noi vorremmo e dovremmo essere riusciti a risultare “super partes”. Motivo per cui molte teorie e molte informazioni che circolano ma non possono essere confermate, sono state completamente omesse. Non è leale muovere una congettura senza una prova solida in tuo sostegno. Tanto più perché sei in guardato in tutto il mondo."
Avete avuto contatti o diffide dalla Santa Sede?
"Nessuna diffida. Ma anche nessuna partecipazione o risposta. La produzione ha provato sia in maniera ufficiale che non ufficiale a contattare lo Stato del Vaticano per domandare se volessero essere parte attiva della serie. Non abbiamo ricevuto risposta. Solo un messaggio istituzionale, ricevuto molto tempo dopo la comunicazione, di cordoglio per l’accaduto e la speranza che si possa fare luce sulla scomparsa di Emanuela Orlandi."
Una risposta deludente?
Una risposta. Il nostro obiettivo, condiviso da Pietro Orlandi e sostenuto dall’esperienza di Andrea Purgatori, è sempre stato motivato dallo stesso desiderio: portare il caso Orlandi oltre i confini nazionali e sensibilizzare il mondo dalla vicenda che ha visto scomparire una giovane innocente e afflitto una famiglia priva di colpe. La speranza è quella di creare una sorta di pressione mediatica e spronare chiunque sappia qualcosa a parlare. A trovare il coraggio necessario come quello trovato dalla vecchia amica di Emanuela che ha rilasciato una testimonianza importante quanto inedita. Solo così, che venga trattato dalla tasca, da un vecchio magazzino, da una cassaforte o dai ricordi, si potrà entrare in possesso di un tassello decisivo per condurre gli investigatori alla verità.
Chi è il principale nemico della verità in questa storia?
"Il tempo. Il tempo è nemico della verità, e alleato di colui che la nasconde. Come ha detto Purgatori: “Ognuna delle teorie ha un granello di verità”. Ne servono ancora."
Finisce in questo punto la chiacchierata con Ferrari. Forse davvero chi possiede altri di questi granelli potrebbe consegnarli. Adesso è il momento di parlare, se si attende ancora troppo tempo, potrebbe essere troppo tardi. Anche se sono passati 39 anni, il caso non è chiuso. Lo sarà solo ed esclusivamente nel momento in cui sapremo quale è stato il destino di Emanuela e la sua famiglia, come ripete da una vita Pietro Orlandi, potrà posare un fiore sulla sua tomba. Se davvero è “in cielo” come ha asserito Papa Francesco. Sono notizie delle scorse settimane, ad esempio, la morte - naturale - di Giulio Gangi, agente Sisde che partecipò alla prima fase delle indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi prima di essere epurato; pare avesse fissato un appuntamento con un giornalista del Corriere della Sera che purtroppo non potrà essere portata a termine; come l’intenzione di Carlo Calenda - scosso proprio dalla visione della miniserie - di "chiedere al Ministro degli Esteri di attivarsi” per riportare l’attenzione sul caso Orlandi. Il tempo è nemico della verità, la sensibilizazzione alleata della ricerca. Lo abbia detto. Il caso Orlandi può aver l'effetto di una bomba, e come fossimo in una versione non conforme di Tenet di Nolan, nell'epicentro troviamo Pietro Orlandi, avvocati come Laura Sgrò e giornalisti come Emiliano Fittipaldi e Andrea Purgatori. Attori secondari quanto protagonisti di una storia tragica quanto vera, che si sono avvicinati più degli altri alla risoluzione del mistero. Sbattendo e risbattendo su di un muro di gomma che il giornalista conosce bene. Affacciarsi oltre il muro potrebbe equivalere a scoprire non solo chi ha messo la bomba, ma chi ha azionato il detonatore. Forse è tempo di renderlo possibile.
Da roma.repubblica.it il 9 dicembre 2022.
L'obiettivo secondo Marco Accetti, l'uomo che si è autoaccusato del sequestro di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, era far sedere al tavolo delle trattative Santa Sede e Stato Italiano al fine di liberare il terrorista Mehmet Ali Agca che aveva attentato alla vita di Giovanni Paolo II, il 13 maggio 1981.
Per esercitare questa doppia pressione era necessario sequestrare una cittadina vaticana, Orlandi (22 giugno 1983) appunto e una italiana, Gregori (7 maggio 1983). Entrambe le ragazze sarebbero state rapite anche grazie all'intervento, secondo Accetti, di Enrico De Pedis, uno dei boss della Banda della Magliana.
Accetti, è necessario sottolinearlo, non è mai stato considerato attendibile dagli inquirenti. Lo stesso Pietro Orlandi dubita delle sue affermazioni. Secondo diversi investigatori l'uomo è a conoscenza di alcune piccole parti di verità.
Ad ogni modo in un interrogatorio reso in procura meno di 10 anni fa spiega che "a noi serviva una ragazza "vaticana" (Emanuela, figlia del messo pontificio, ndr) e una italiana (Mirella, appunto, ndr)". "Quindi cercammo una ragazza italiana, che non conoscesse la Orlandi né frequentasse lo stesso ambiente, per evitare che si pensasse che tra le ragazze si potesse essere verificata una collusione. Ma per dare un senso di unità tra le due persone la cercammo con le stesse caratteristiche fisiche e la stessa età. Tra molte ragazze individuate scegliemmo la Gregori per l'aspetto finanziario del padre e la temperatura caratteriale della stessa".
"Una persona vicina all'imprenditore De Pedis si occupò autonomamente di soddisfare i bisogni economici del signor Gregori". A quanto pare l'uomo si era indebitato per aprire il locale. Ma non è mai emerso il fatto che si fosse indebitato con De Pedis.
"Noi non avremmo voluto che le due storie, Orlandi e Gregori, potessero assomigliarsi - spiega Accetti - per cui l'una "scappa" per una storia d'amore (Gregori) e l'altra deve aiutare il padre ricattato (Orlandi)".
In pratica Mirella ed Emanuela, secondo la tesi di Accetti, sarebbero state convinte a restare fuori casa qualche giorno per "aiutare" i loro papà dal momento in cui entrambi erano in difficoltà: uno, Paolo Gregori, per i debiti del bar, e l'altro, Ercole Orlandi, per il presunto errore del messo pontifico nel controllare gli accessi alle messe del Papa, a causa del quale Agca si sarebbe avvicinato troppo a Wojtyla nella parrocchia di San Tommaso d'Aquino, solo tre giorni prima dell'attentato del 13 maggio 1981. In entrambi i sequestri sarebbero intervenuti De Pedis e la sua banda.
Il rebus di sangue e segreti. Scomparsa Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, sex-gate nelle stanze di Papa Wojtyla: l’audio inedito dell’ex-socio del boss De Pedis. Nicola Biondo su Il Riformista il 9 Dicembre 2022
Come fossimo al cinema anche qui andrebbe posta una dicitura, “vietato ai deboli di cuore e alle persone facilmente impressionabili”. Perché la finestra che stiamo per aprire va oltre l’immaginazione, è una folle sceneggiatura.
Il plot è quello della scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, le due adolescenti svanite nel nulla a poche settimane di distanza l’una dall’altra nella tarda primavera del 1983. L’ultima incredibile verità viene fuori da alcuni nastri, parte di una lunga intervista, in cui è incisa la voce di un malavitoso romano di spicco, socio in affari del boss della Banda della Magliana Renato De Pedis che in Vaticano aveva (eufemismo) non pochi appigli.
Secondo C.U. – le iniziali sono di fantasia, il Riformista conosce la sua vera identità- le due ragazze frequentavano gli appartamenti più riservati del Vaticano dove avrebbero subito molestie e rapporti sessuali con alti prelati. E’ per questo che dovevano scomparire. Ad avere avuto l’incarico sarebbe stato proprio De Pedis.
“Quando la cosa era diventata una schifezza il Segretario di Stato Casaroli ha deciso di intervenire”, questa è l’esatta trascrizione di uno dei passaggi più importanti di una intervista datata 2009 in cui l’ex-socio di De Pedis rivela il movente della doppia sparizione.
“Con questa verità non ci fate niente” lascia inciso il malavitoso all’autore dell’intervista Alessandro Ambrosini. E c’è un particolare ancora più agghiacciante, importanti uomini di Stato sapevano tutto, informati dallo stesso sodale del boss.
“Nando [nome di un’esponente dei Servizi che sarebbe stato a conoscenza di tutti i particolari] a te ti trasferiscono, a me m’ammazzano”, dice raccontando di un incontro avuto con esponenti degli apparati di sicurezza e aggiunge chiosando, “questo è uno strano Paese, la verità non interessa a nessuno”.
Criminali comuni o terroristi? Se questa fin dall’inizio del mistero è stata la domanda- chi ha rapito Mirella ed Emanuela– la questione vera è sempre stata il movente: perché? Per quale motivo due adolescenti dovevano essere rapite, perché nelle trattative intercorse sono entrati emissari del Vaticano, perché Papa Wojtyla pochi giorni dopo fece un appello per la Orlandi, caso non raro ma unico nella storia del papato?
E perché mai nel corso di queste “trattative” non è mai stata chiesta una prova dell’esistenza in vita delle ragazze rapite?
Oggi questi nastri, testimonianza parziale di oltre quattro ore di intervista proveniente dagli interna corporis del vertice della Magliana, svelano il più incredibile dei moventi: le due ragazze sarebbero state fatte scomparire perché testimoni e protagoniste di un sexgate nelle stanze più riservate del Vaticano, in quel momento abitate da Papa Wojtyla che non sarebbe stato – sempre secondo il “magliaro” C.U. – all’oscuro della vicenda.
Ecco il passaggio preciso del nastro che il Riformista ha potuto ascoltare privo di censure: “Quando la cosa era diventata una schifezza il segretario di Stato [vicario del Papa Agostino Casaroli n.d.r.] ha deciso di intervenire”. “Non direttamente, sempre secondo la testimonianza, ma coinvolgendo “i cappellani del carcere di Regina Coeli”. I nomi di battesimo di questi prelati sono rivelati in chiaro dall’ex-socio di De Pedis e quindi facilmente identificabili. Il Riformista, in accordo con Ambrosini, ha deciso di coprire particolari della vita privata del Pontefice polacco rivelati dall’ex della Magliana: particolari irriferibili ma sempre legati alla sparizione delle due adolescenti.
L’intervento, ossia il rapimento delle due adolescenti, sarebbe stato appaltato proprio a De Pedis. Ecco perché il boss ucciso nel 1990 sarebbe stato seppellito in una famosa basilica.
“De Pedis è sepolto lì per grazia ricevuta”, dice l’ex-socio. Fu una telefonata alla trasmissione “Chi l’ha visto?” a consentire l’apertura della tomba di De Pedis, accanto a cardinali e nobili, alla chiesa di Sant’Apollinare nel cuore di Roma. Sabrina Minardi, amante e sodale del boss, certificò che quella nobile tumulazione era dovuta al rapimento della Orlandi, un favore fatto al Vaticano su richiesta di un altro potente cardinale, Marcinkus, il deus ex-machina delle “sante finanze” Vaticane, legatissimo al Papa polacco. La Minardi, che C.U. non tiene in grande considerazione, interrogata a lungo si è prodotta in una serie di bugie che declassifica la sua testimonianza a poco più di una mezza calunnia.
I nastri
Era il 2008 quando l’ex socio di De Pedis incontra Alessandro Ambrosini rivelando la sua verità sull’intrigo vaticano. Rifiuta di essere ripreso ma la sua voce viene comunque registrata. Ambrosini, una vita spericolata tra il Veneto e la Sicilia, ex-attivista di peso nell’estrema destra e conoscitore dei codici che dai NAR sfociano in Mafia Capitale, diventa cronista di nera e gestisce un blog “Notte criminale” vera bibbia underground per i cultori della materia. Cosa lo ha spinto a tenere inedita per 14 anni questa storia lo spiega al Riformista e in un lungo video pubblicato sul suo sito.
“Dal 2009 è cambiato molto nella comprensione di questa vicenda. Le ultime acquisizioni confermano il contesto che mi è stato raccontato. Non ultima la testimonianza di una amica della Orlandi che ha rivelato le confidenze ricevute direttamente da lei: era stata molestata all’interno del Vaticano”. Ambrosini sostiene anche di averne parlato con Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela che con la sua instancabile attività non ha mai smesso di cercare la verità: “Mi ha ringraziato”, dice Ambrosini. La scelta di non rivelare il nome dell’autore di queste sconvolgenti rivelazioni ha un motivo molto semplice: tutelare il teste, oggi in libertà, e permettere, se ci saranno, possibili indagini. La caratura del personaggio è senza dubbio di “livello”, certamente attendibile quando parla di De Pedis, attendibile quando parla dei suoi rapporti con apparati dello Stato. Tutto il resto sarà materia di indagine.
Il contesto
L’ipotesi che la Orlandi avesse subito molestie all’interno del Vaticano è stata adombrata da più parti, inchieste giornalistiche ma anche da qualche investigatore. Se poi questo fu uno dei tanti motivi che mise sotto ricatto il Vaticano da parte della Magliana ma anche di altri ambienti è troppo presto per dirlo. Di certo è che quelli furono gli anni di piombo della finanza in cui lo IOR vaticano e banchieri di mafia, Sindona e Calvi su tutti, trattavano affari miliardari e contribuivano a scrivere interi capitoli della storia della guerra fredda con i finanziamenti in chiave anti-comunista in Polonia e Sud America. Soldi macchiati di sangue: perché erano della mafia siciliana e della Magliana e chiunque si metteva in testa di svelare la trama affaristica -giornalisti, investigatori, banchieri- diventava un bersaglio da abbattere.
E’ in questo contesto che avvengono i rapimenti di Orlandi e Gregori sui quali il silenzio del Vaticano si perpetua, da Wojtyla a Papa Francesco. E chissà se il Vaticano di fronte a queste sconvolgenti rivelazioni sceglierà ancora una volta la politica della rimozione e dei silenzi, più volte denunciata da Pietro Orlandi, o si aprirà una pagina nuova di questo infinito rebus di sangue e segreti
L’audio editato e pubblicato da Alessandro Ambrosini su “Notte criminale”
PRIMO NASTRO
C.U: De Pedis è sepolto lì per grazia ricevuta, ma no per quello che dice quella pazza della Minardi.
AMBROSINI: Ma quanti soldi gli ha dato De Pedis per farsi…
C.U.: Ma lei sa chi era Casaroli lei? Quello veniva al riformatorio e ci portava la sigarette. Era pure… INCOMPRENSIBILE… il papa Wojtyla…
AMBROSINI: No ma andiamo…
AUDIO
C.U.: Chi gli ha salvato le chiappe è Casaroli. Casaroli non è intervenuto direttamente, ha fatto intervenire gli ex cappellani di Regina Coeli che portavano whisky, lettere, tutto quello che serviva, droga, all’interno del carcere. Quando è servito qualcosa a chi si sono rivolti?
AMBROSINI: Allora, però… facciamo.
C.U.: Wojtyla… AUDIO CENSURATO… pure insieme se le portava a letto, se le portava, non so dove se le portava, all’interno del Vaticano. Quando è diventata una cosa che ormai era diventata una schifezza, il segretario di Stato ha deciso di intervenire. Ma non dicendo a Wojtyla ‘ora le tolgo da mezzo’. Si è rivolto a chi? Lui essendo esperto del carcere perché faceva il cappellano al riformatorio, si è rivolto ai cappellani del carcere.
I cappellani del carcere uno era calabrese, un altro un furbacchione. Un certo Luigi, un certo padre Pietro, non hanno fatto altro che chiamare De Pedis e gli hanno detto ‘sta succedendo questo, ci puoi dare una mano?’. Punto. Il resto so tutte cazzate.
SECONDO NASTRO
C.U.: Ma le cose vere non si possono pubblicare. ADUIO CENSURATO… Il comandante dello… che era compare subalterno del generale del Sismi. Mi hanno portato a pranzo a Fiuggi, hanno tentato di… ‘dicci come stanno le cose’. Ho detto ‘senti Nando’ – si chiamava Nando – ‘che te dico? Se sapete la verità che ci fate? Non ci fate niente. Quella è morta, come la provi una cosa del genere, ti citano pure i danni.
AMBROSINI: Quello sicuramente…
C.U.: Io quando parlai con Nando a Fiuggi dissi ‘Nando non hai capito. A te ti trasferiscono, a me m’ammazzano, lascia perdere’. Purtroppo l’Italia è un paese strano.
Nicola Biondo
Da leggo.it il 5 dicembre 2022.
Il caso di Emanuela Orlandi potrebbe essere riaperto a distanza di quasi 40 anni grazie a un audio. Una registrazione di circa due minuti che risale al 2009 e che potrebbe aggiungere nuovi e decisivi dettagli sulla scomparsa della giovane ragazza avvenuta il 22 giugno del 1983.
Dell'esistenza di questa registrazione effettuata di nascosto durante una conversazione in un luogo pubblico si sapeva già, scrive Il Giornale. L'autore di questa registrazione è Alessandro Ambrosini, il fondatore del blog d'inchiesta Notte Criminale.
Chi parla è invece è rimasto anonimo, ma si pensa che si tratta di un vecchio sodale di Enrico De Pedis, uno dei capi storici della banda della Magliana. L'uomo, riferendosi alle dichiarazioni di Sabrina Minardi, ex compagna di Renatino, che dall'anno precedente aveva iniziato a parlare con i magistrati romani relativamente al caso Orlandi, si sente in dovere di fare alcune precisazioni.
L'audio rubato sarà pubblicato nei prossimi giorni dall'autore della registrazione sul suo blog, ma IlGiornale.it ha avuto modo di ascoltarlo in anteprima. L'ex socio di De Pedis, inconsapevole di essere registrato, si lascia andare senza freni e, relativamente alla scomparsa di Emanuela Orlandi, punta il dito verso una persona in particolare, facendone nome e cognome. L'autore della registrazione, Alessandro Ambrosini, si è detto disposto a rivelare l'identità della fonte qualora fosse l'autorità giudiziaria a chiederglielo.
Da repubblica.it il 7 Dicembre 2022.
"Enrico De Pedis noi lo chiamavamo imprenditore". Nel rapimento di Emanuela Orlandi l'ex boss della Banda della Magliana, ebbe un ruolo di primo piano. E avrebbe nascosto la quindicenne cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno 1983 a Roma, "prima a Villa Lante al Gianicolo e poi dopo qualche giorno in un camper vicino a Villa Streicht".
A sostenerlo, in un verbale finora rimasto inedito, il controverso fotografo Marco Accetti che da tempo afferma di aver avuto un ruolo fondamentale in uno dei misteri più celebri d'Italia. E non solo. Accetti dice di essere stato protagonista anche della sparizione di Mirella Gregori sempre nello stesso anno.
Sentito più volte tra la primavera e l'estate del 2013 in Procura, Accetti definisce De Pedis "imprenditore". "Le due scomparse sono state organizzate nel tempo - viene spiegato nei verbali - selezionando le ragazze, facendole avvicinare da coetanee per conquistarne la fiducia".
Il fotografo, si sottolinea nei verbali, poi "racconta nel dettaglio l'organizzazione della messinscena della sparizione delle ragazze e delle operazioni preliminari in cui erano coinvolte numerose persone, specialmente ragazze di cui si rifiuta di fare il nome coinvolgendo in quella di Emanuela Orlandi anche Enrico De Pedis che lui dice "noi chiamavamo l'imprenditore" e prelati qualificabili come officiali maggiori di seconda classe dei quali lo stesso non intende fare i nomi". [...]
Un altro tassello inedito dunque nel lungo mistero della cittadina vaticana a pochi mesi dal quarantennale della scomparsa. Negli ultimi giorni inoltre si è parlato di un audio shock che sta per essere svelato in cui un socio di De Pedis farebbe nomi e cognomi di persone coinvolte nel caso. E che potrebbero lambire il Vaticano. Tutto materiale che potrebbe controllare e approfondire in una commissione d'inchiesta parlamentare che pare possa essere presto istituita.
Emanuela Orlandi, spunta l'audio rubato: nomi e cognomi, si riapre il caso? Libero Quotidiano il 05 dicembre 2022.
Un audio potrebbe riaprire, dopo 40 anni, il caso di Emanuela Orlandi. Si tratta di una registrazione di circa due minuti che risale al 2009 e che potrebbe aggiungere nuovi e decisivi dettagli sulla scomparsa della giovane ragazza avvenuta in Vaticano il 22 giugno del 1983. Rivela Il Giornale che dell'esistenza di questo audio, registrato durante una conversazione in un luogo pubblico, si sapeva già da tempo. L'autore è Alessandro Ambrosini, fondatore del blog d'inchiesta Notte Criminale. La persona che parla è per ora anonimo ma si crede che possa trattarsi di un vecchio sodale di Enrico De Pedis, uno dei capi storici della banda della Magliana.
L'uomo, riferendosi alle dichiarazioni di Sabrina Minardi, ex compagna di Renatino, che dall'anno precedente aveva iniziato a parlare del caso di Emanuela Orlandi con i magistrati romani, fa delle puntualizzazioni.
Nei prossimi giorni l'audio rubato sarà pubblicato dall'autore della registrazione sul suo blog, ma IlGiornale.it lo ha ascoltato in anteprima. L'ex socio di De Pedis, che non sa di essere registrato, parla apertamente della scomparsa di Emanuela Orlandi e in particolare di una persona, con tanto di nome e cognome. Alessandro Ambrosini ha detto di essere pronto a rivelare l'identità della persona che parla se l'autorità giudiziaria glielo chiedesse.
Emanuela Orlandi e la banda della Magliana. «Così il boss De Pedis partecipò al sequestro». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 6 Dicembre 2022.
Il verbale (inedito) di Marco Accetti sul prelevamento della ragazza davanti al Senato: "De Pedis le mostrò un tascapane con la lettera A di Avon... Poi se ne andò in moto".
Il sequestro di Emanuela Orlandi e la banda della Magliana. In queste ore in cui, grazie alle anticipazioni del blog “Notte criminale”, si è creata una certa attesa sui contenuti di un audio registrato nel 2009 – conversazione “rubata” e non ancora resa nota, nella quale un ex esponente della gang accuserebbe alti prelati – torna in primo piano il ruolo avuto nella vicenda dal boss Enrico De Pedis. Fu l’ex amante Sabrina Minardi, nell’inchiesta aperta nel 2008 dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, la prima a puntare il dito contro “Renatino”, mettendo a verbale di aver accompagnato in macchina “la ragazzina” ai piedi del Gianicolo, dopo aver percorso la “strada delle mille curve”, proprio su richiesta di De Pedis. Era l'estate 1983. La Minardi aggiunse di aver consegnato Emanuela nella piazzola di un benzinaio a un monsignore giunto su una berlina nera che indossava «una tonaca con i bottoncini davanti», e di aver sentito da “Renatino” che il rapimento era stato organizzato per riavere indietro i soldi consegnati al Vaticano attraverso lo Ior di Marcinkus.
Minuto per minuto. Ebbene, questa “verità” (duramente contestata dalla Santa Sede) era nota. Ma negli atti giudiziari non c’è soltanto lei, la femme fatale. Anche un altro indagato dell’inchiesta di Capaldo (chiusa nel 2015 con l’archiviazione voluta dal suo superiore, il procuratore Pignatone) ha attribuito a De Pedis un ruolo operativo molto importante. Marco Accetti, l’uomo che nel 2013 consegnò il flauto riconosciuto dalla famiglia come quello di Emanuela e la cui voce corrisponde a quella di almeno un paio di telefonisti, ha infatti chiamato in causa molte volte “Renatino” nel suo memoriale di autoaccusa, che contiene una ricostruzione minuto per minuto del sequestro di Emanuela davanti al Senato. Si tratta di un documento inedito, tuttora custodito in Procura, che oggi assume interesse anche alla luce della credibilità che si è guadagnata lo stesso Accetti la scorsa estate, allorché il pm Erminio Amelio ha disposto l’apertura della tomba di Katy Skerl (una 17enne assassinata nel 1984, delitto collegato al caso Orlandi) e verificato che effettivamente la bara era stata rubata, così come era stato rivelato con largo anticipo dall’ “uomo del flauto” (peraltro coinvolto anche nella morte di Josè Garramon, qui la recente intervista del Corriere alla mamma del piccolo). Eccolo dunque, il boss De Pedis in azione il 22 giugno 1983, così come descritto da Marco Accetti. Va premesso che il fotografo oggi 67enne si è autoaccusato del sequestro, affermando di essere stato ingaggiato da un gruppo di religiosi (il cosiddetto “ganglio”) interessati da un lato a contrastare la linea fortemente anti-comunista di papa Wojtyla e dall’altro a chiudere con un accordo la partita finanziaria (disastrosa per il Vaticano) legata al crak del Banco Ambrosiano. Il memoriale, prima di illustrare la scena all’uscita dalla scuola di musica di Sant’Apollinare, inquadra il coinvolgimento di “Renatino” nei tragici fatti di quei primi anni Ottanta.
Antefatto: la morte di Calvi. «Dopo la morte del Presidente dell’Ambrosiano Calvi – scrive Accetti nel documento secretato dalla Procura - venne meno la compattezza di quell’ insieme di persone che a lui prestava fondi da destinare a Solidarnosc, e fu quindi agevole convincere il signor De Pedis a collaborare con noi. L’interesse del sig. De Pedis sarebbe stato quello di recuperare quanto prestato al Dott. Calvi, ma a questa operazione si sarebbe opposto Mons. Marcinkus. Questo si fece presente all’imprenditore, che era necessaria la rimozione del Monsignore o la sconfitta della sua linea politica…» Emanuela, in questo scenario, sarebbe stata presa in ostaggio con un movente “multiplo”, nell’ambito delle tensioni sui finanziamenti alla Polonia e la malagestione delle finanze della Santa Sede. Da questo momento Accetti nomina De Pedis con un certo timore reverenziale, definendolo “l’imprenditore”. Ed ecco cosa sarebbe accaduto alla sventurata Emanuela nel pomeriggio del 22 giugno 1983, in due fasi: prima della lezione di musica, attorno alle 16.30, e dopo, dalle 19…
L’amica complice del Convitto. «La partecipazione dell’imprenditore – scrive Accetti - fu compartimentata da ogni ambiente che lo stesso fosse uso frequentare. Gli chiedemmo di usare un numero esiguo di persone a lui vicine… Avevamo già avvicinato la Orlandi ed eravamo d’accordo… Sarebbe dovuta pervenire dal Palazzo di Giustizia, cosa che sorprendentemente non fece, imbattendosi nella compagna dell’Istituto Convitto Nazionale, che stazionava in Corso Rinascimento, la quale la corresse indirizzandola a percorrere l’interno di piazza Navona per poi riprendere Corso Rinascimento dalla parte opposta». Il gruppo di rapitori, quindi, era riuscito a conquistarsi la fiducia di un’amica di scuola? Cosi pare… «La Orlandi si fermò alcuni metri prima del punto prefissato giorni prima per l’appuntamento, al centro della strada che mette in comunicazione Corso Rinascimento con piazza Navona (corsia Agonale, ndr). La Bmw, parcheggiata in doppia fila nel tratto che va dal Senato a Corso Vittorio Emanuele II, e nel vedere la ragazza avanza e sterzando a sinistra va ad accostarsi contromano e in doppia fila al centro della suddetta stradina. Questa manovra, con un’autovettura inconsueta e dal colore sgargiante (verde tundra, secondo le successive testimonianze, ndr), serviva ad attirare l’attenzione di quanti stazionavano innanzi al Senato. La nostra intenzione era che si potesse produrre un identikit al fine di far credere che il sequestro fosse opera della criminalità romana...»
L’incontro e le foto. Il presunto contatto De Pedis-ostaggio è così descritto: «L’imprenditore scende dalla macchina, indirizzandosi verso il marciapiede, e contestualmente la ragazza avanza sul marciapiede verso di lui, ed entrambi simulano un incontro su appuntamento. L’imprenditore le mostra, estraendo dall’interno di un tascapane alcuni prodotti cosmetici avvolti nella loro confezione. Il tascapane azzurro doveva ricordare l’aeronautica italiana, in quanto alcuni membri della stessa collaboravano con la parte a noi avversa. La “A” posta sul tascapane, oltre a ricordare per l’appunto l’Aeronautica, doveva rammentare la società Avon…»
E lui, Accetti? Si posiziona così sulla scena, affermando di essersi vestito e acconciato in modo da somigliare a “Renatino”… «Io ero già posizionato nei pressi di un vestigio – piedritto dello Stadio di Domiziano, e al momento del suddetto incontro fuoriuscii e, simulando di fotografare la ragazza tedesca con la quale ero arrivato, ripresi in realtà la Orlandi e l’imprenditore. Io e la ragazza tedesca eravamo vestiti in guisa di turisti, ma io, sotto un leggero giubbotto, recavo gli stessi abiti indossati dall’imprenditore, ed anche sotto un leggero cappellino a visiera riportavo i capelli con lo stesso taglio e pettinatura del signor De Pedis. Questo per sostituirmi rapidamente a lui nella eventuale necessità che la sua persona potesse essere stata individuata ed in pericolo. Nella stessa misura precauzionale, un motociclista era posizionato circa 50 metri nella direzione di Corso Vittorio Emanuele II e si sarebbe azionato per prelevare l’imprenditore in caso di estrema necessità…». Scattate le foto, Emanuela si dirige verso il complesso di Sant’Apollinare… «Al termine del breve colloquio la ragazza si indirizzò verso la scuola ed anche l’imprenditore percorse la stessa direzione, andandosi a parcheggiare innanzi all’altra piccola strada che collega piazza Navona e la via che conduce verso Palazzo di Giustizia. Consegno il rullino non interamente utilizzato all’imprenditore, che sale a bordo della moto, condotta da colui che in caso di necessità estrema lo avrebbe dovuto prelevare e si allontana…»
Sono quasi le 17: prima fase conclusa. «La Orlandi entrò nella scuola e tutti noi ci allontanammo». La ricostruzione si sposta ora alle 19, ora in cui Emanuela, finite le lezioni di flauto e canto corale, fa l’ultima telefonata a casa, quella in cui racconta di aver ricevuto una proposta di lavoro (da 375 mila lire in un pomeriggio) per la Avon. Accetti insiste nel far notare che quel pomeriggio i genitori di Emanuela non erano a casa (effettivamente si trovavano a Fiumicino, da parenti) non per caso… «Nell’abitazione della Orlandi – prosegue il memoriale - non doveva trovarsi alcun membro della famiglia, ma ci arrivò la segnalazione della ragazza dell’Associazione Cattolica (una seconda amica-complice, ndr) la quale ci avvertiva dell’imprevista presenza nella casa di una delle sorelle. L’assenza dei genitori avrebbe dovuto significare che il padre Ercole aveva accettato la nostra proposta, e non si faceva trovare nell’abitazione per non dover opporre il diniego ad Emanuela quando costei, telefonando, avrebbe fatto presente della sua possibile collaborazione con la Avon. Riuscimmo a comunicare alla Orlandi tramite una compagna di scuola di musica, già in rapporto con noi, di dire alla sorella, che avrebbe risposto al telefono i codici "Avon" e "375"».
I messaggi in codice della telefonata. «Il progetto originale, prevedeva che in casa non vi fosse nessuno e la Emanuela dopo la telefonata avrebbe dovuto comunicare alle compagne che essendo i genitori assenti chiedeva consiglio alle stesse riguardo l’accettare o meno la proposta di lavoro. Per cui i codici sarebbero stati comunicati alle compagne attraverso il racconto dell’incontro con l’uomo Avon. La Orlandi avrebbe dovuto dire alle ragazze di aver già conosciuto nel passato l’uomo Avon presso un defilèe delle Sorelle Fontana tenutosi nella Sala Borromini. E che l’incontro avuto con lui nelle ore precedenti era concordato con appuntamento. La cifra di 375000 lire, che per la sua esagerazione doveva generare un senso di allarme e improbabilità, era, anagrammandola, la data della prima apparizione della Madonna di Fatima: 13-5-1917…»
Entra in gioco il Sismi. I codici, in questo scenario, servivano agli organizzatori del sequestro per "dialogare" sottotraccia con ambienti ecclesiali. Così come lo sarà il 158, codice imposto dai rapitori per le telefonate riservate in Vaticano, e poi spiegato come anagramma di 5-81, data e mese dell’attentato di due anni prima al papa… «Il codice "Sorelle Fontana" della telefonata significava l’abitazione di Mons. Celata posta un portone prima della sede dell’atelier, presso il Collegio San Giuseppe Istituto De Merode (in piazza di Spagna, lo stesso in cui Accetti frequentò le scuole medie, ndr). Questo Monsignore era stato incaricato, con altri, di svolgere alcune iniziative tese ad ottenere l’allontanamento di Mons. Marcinkus dal compito che svolgeva come presidente dell’Istituto Opere di Religione. Tra tali iniziative intraprese vi fu anche quella di ottenere tale risultato attraverso una collaborazione con il Servizio d’Informazione della Sicurezza Militare (Sismi), condotto dall’allora Dott. Santovito, con l’ausilio del Dott. Francesco Pazienza. "Sala Borromini" significava l’abitazione del Dott. Pazienza posta nell’immediata vicinanza di piazza dell’Orologio, laddove si diceva che costui incontrasse persone vicine al signor De Pedis. Per cui il codice composito significava: una sfilata – azione di Mons. Celata con il Dott. Pazienza, nel senso che da questo connubio si otterrà un risultato contro la politica dell’Istituto Opere di Religione…» Passati in rassegna i codici, rieccoci alla scena del 22 giugno…
All’uscita dalla scuola di musica. «L’appuntamento – continua il memoriale - era per le ore 7 pomeridiane nuovamente di fronte al Senato e ci sarebbe dovuto essere l’imprenditore, ma sapevamo a priori della presenza a quell’ora a piazza Navona del commissario Stella, del primo distretto, che ben conosceva il volto del signor De Pedis, per averlo visto, questo a noi risultava ma con beneficio d’inventario, in tempi precedenti a colloquio con l’allora dirigente dello stesso distretto, vicequestore Dott. Pompò. Per cui a prendere la Orlandi si avvicina la sua compagna d’istituto del Convitto (la famosa ragazza con i capelli ricci notata in zona ma mai individuata, ndr), che nel primo incontro del pomeriggio tra la Orlandi e l’imprenditore, doveva mantenersi distante per non vedere in viso l’imprenditore, in quanto sarebbe stata una ulteriore testimone contro il signor De Pedis ed al tempo stesso, nel caso in futuro avesse preso conoscenza della reale identità di quella persona, avrebbe potuto temere per la propria incolumità in quanto testimone. La Orlandi e la compagna si avviano, attraversando Corso Rinascimento, in direzione Corso Vittorio Emanuele II, e si fermano all’imboccatura di una stretta via che immette in piazza Navona (corsia Agonale, ndr). E da questa ne esce una Mercedes, non ricordo se blu scura o nera, con targa posticcia riconducente allo Stato Città del Vaticano...»
Il prelevamento. Suspence. E’ questo, secondo l'autore del memoriale, il momento del prelievo: «Le ragazze salgono a bordo nel sedile posteriore e la macchina si avvia molto lentamente, sfilando innanzi al Senato, con la Orlandi ben visibile al finestrino posteriore, nella speranza che possa essere notata, dal personale che ivi stazionavano. L’autovettura arriva davanti a Porta Sant’Anna, le due ragazze scendono. La Orlandi entra all’interno e la ragazza del Convitto la aspetta all’esterno della stessa porta…» Da questo momento Accetti spiega che Emanuela sarebbe rientrata per qualche minuto in Vaticano, per farsi vedere da qualcuno, e poi, sempre sotto la “scorta” dei suoi rapitori, sarebbe stata condotta in una casa religiosa, Villa Lante della Rovere, ai piedi del Gianicolo, dove avrebbe trascorso la prima notte…
L'intoppo sullo Ior, Emanuela trattenuta. «L’indomani – così si conclude questa parte del memoriale - pur essendo già in possesso della copia della denuncia, ci giunse notizia che la Commissione Bilaterale, voluta dal Segretario di Stato Card. Casaroli e composta anche da personalità appartenenti alla Repubblica Italiana per indagare sulle gravi discrasie economiche verificatesi all’interno dell’Istituto Opere di religione (Ior), non avrebbe consegnato, così come da impegno preso, il proprio parere il 30 giugno 1983. E non si conoscevano le reali motivazioni di tale rinvio. A tal’uopo si decise di trattenere la ragazza, la cui “scomparsa” si poteva “gestire” anche in rapporto a tale possibile necessità…”». Siamo tornati, quindi, al movente "multiplo”… Un sequestro ideato come temporaneo, da far durare pochi giorni e nato come un allontanamento volontario da casa (è indubbio che la ragazza cadde ingenuamente in un tranello), con il precipitare degli eventi crebbe di mese in mese, allarmando l'opinione pubblica mondiale, e si trasformò nell'intrigo più torbido e inquietante di fine Novecento. E questo è un fatto. Le altre verità dell’uomo del flauto, figlio di massone, cresciuto in ambienti di chiesa, frequentatore di estremisti di destra e di ambienti del partito radicale (forse a scopo di copertura), sono contenute negli altri capitoli del memoriale. In tutto 103 mila battute alle quali aggiungere 4 allegati, per un totale di oltre 60 cartelle, tuttora blindate negli armadi di Piazzale Clodio. (fperonaci@rcs.it)
"Contenuto sconvolgente". Emanuela Orlandi, spunta audio segreto di un ex sodale di De Pedis: “Dettagli che possono cambiare tutto”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 5 Dicembre 2022
Una registrazione avvenuta all’insaputa di chi stava parlando e forse proprio per questo una vera e propria confessione con nomi e cognomi fatta da un sodale di Enrico De Pedis (boss della Banda della Magliana) che lancia accuse pesantissime verso il Vaticano. Il racconto catturato da un microfono clandestino da Alessandro Ambrosini, il fondatore del blog d’inchiesta Notte Criminale, potrebbe spalancare una porta nel caso di Emanuela Orlandi, scomparsa quasi 40 anni fa, che ha ritrovato nuovo interesse dopo la chiaccheratissima docu-serie firmata Netflix Vatican girl .
Dell’esistenza di questo nastro alcuni erano già a conoscenza, si tratta di una registrazione effettuata di nascosto durante una conversazione in un luogo pubblico. Ambrosini ha tenuto il suo interlocutore anonimo, ciò che si conosce invece sono i suoi contatti giovanili: si tratta di un vecchio sodale di Enrico De Pedis, uno dei capi storici della banda della Magliana, il ‘Dandy‘ delle trasposizioni film e tv. L’uomo, riferendosi alle dichiarazioni di Sabrina Minardi, ex compagna di ‘Renatino’, che dall’anno precedente aveva iniziato a parlare con i magistrati romani relativamente al caso Orlandi, si sente in dovere di fare alcune precisazioni che però ad oggi ancora non si conoscono.
Il contenuto dell’audio rubato sarà pubblicato nei prossimi giorni sul blog, ma il Giornale ha avuto modo di “ascoltarlo in anteprima” e sul loro sito si legge: “Possiamo affermare che, sebbene le affermazioni registrate in questo audio siano da prendere con le pinze, il contenuto delle stesse è sconvolgente”. L’ex socio di De Pedis, inconsapevole di essere registrato, si sarebbe quindi lasciato andare senza freni con rivelazioni sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, puntando il dito verso una persona in particolare, facendone nome e cognome.
Servizi segreti, la crisi del Banco ambrosiano, sulle ragioni di questa sparizione sono state fatte migliaia di ipotesi. Solo dopo che la vicenda è finita sugli schermi di milioni di persone, in un momento in cui si vocifera della possibilità di istituire una Commissione d’inchiesta parlamentare, la registrazione avvenuta nel 2009 (a distanza di 14 anni) sta per essere resa pubblica da Ambrosini che – riporta il Giornale – promette di fare chiarezza in un video che verrà girato contestualmente alla pubblicazione dell’audio. Quali saranno le reazioni di fronte ad accuse pesantissime anche se tutte da dimostrare, ma che se si rivelassero fondate, genererebbero un terremoto di proporzioni catastrofiche all’interno del Vaticano? Riccardo Annibali
Quell'audio choc su Emanuela Orlandi: perché può cambiare tutto. Gianluca Zanella il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.
In una registrazione del 2009 un sodale di Enrico De Pedis lancia accuse pesantissime verso il Vaticano. L'autore di queste accuse è per ora anonimo, ma qualcuno potrebbe chiedergli conto di queste affermazioni
Da quando la docu-serie Vatican girl è sbarcata su Netflix, un rinnovato interesse si è acceso attorno alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Un interesse in realtà mai sopito, perché - a distanza di quasi 40 anni [Emanuela scompare da casa il 22 giugno del 1983, ndr] - quello della giovane cittadina vaticana è entrato nell'Olimpo dei misteri d'Italia.
Servizi segreti di mezzo mondo, la crisi del Banco ambrosiano, ritorsioni legate a motivazioni indicibili. Sulle ragioni di questa sparizione è stato detto di tutto e di più, ma la verità è che, in tanti anni, tutte le piste si sono risolte in un nulla di fatto. Eppure, in un momento in cui la vicenda è finita sugli schermi di milioni di persone, in un momento in cui si vocifera della possibilità di istituire una Commissione d'inchiesta parlamentare, qualcosa sembra tornare a muoversi. Ed ecco che riaffiora un audio. Una registrazione di circa due minuti che risale al 2009.
Dell'esistenza di questa intervista si sapeva già, ma erano in pochi ad averla ascoltata. Chiamarla intervista è inappropriato, si tratta di una registrazione effettuata di nascosto durante una conversazione in un luogo pubblico. L'autore di questa registrazione è Alessandro Ambrosini, il fondatore del blog d'inchiesta Notte Criminale. Chi parla è invece è rimasto anonimo, ma sappiamo che si tratta di un vecchio sodale di Enrico De Pedis, uno dei capi storici della banda della Magliana. L'uomo, riferendosi alle dichiarazioni di Sabrina Minardi, ex compagna di Renatino, che dall'anno precedente aveva iniziato a parlare con i magistrati romani relativamente al caso Orlandi, si sente in dovere di fare alcune precisazioni.
L'audio rubato sarà pubblicato nei prossimi giorni dall'autore della registrazione sul suo blog, ma IlGiornale.it ha avuto modo di ascoltarlo in anteprima. Senza fare troppe anticipazioni [torneremo a scriverne più approfonditamente dopo la pubblicazione, ndr] possiamo affermare che, sebbene le affermazioni registrate in questo audio siano da prendere con le pinze, il contenuto delle stesse è sconvolgente.
L'ex socio di De Pedis, inconsapevole di essere registrato, si lascia andare senza freni e, relativamente alla scomparsa di Emanuela Orlandi, punta il dito verso una persona in particolare, facendone nome e cognome. Lo ripetiamo, sull'attendibilità della fonte non abbiamo la possibilità di mettere la mano sul fuoco, ma l'autore della registrazione, Alessandro Ambrosini, si è detto disposto a rivelarne l'identità qualora fosse l'autorità giudiziaria a chiederglielo.
Sul perché solamente a distanza di 14 anni abbia deciso di rendere pubblica questa registrazione, Ambrosini promette di fare chiarezza in un video che verrà girato contestualmente alla pubblicazione dell'audio. Non ci resta a questo punto che attendere, curiosi di sapere quali saranno le reazioni di fronte ad accuse pesantissime che, ovviamente, sono tutte da dimostrare, ma che se si rivelassero fondate, genererebbero un terremoto di proporzioni catastrofiche all'interno del Vaticano.
Emanuela Orlandi e il caso Garramon. La madre di Josè: «Mio figlio vittima del Piano Condor». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera l’1 Dicembre 2022
Per la prima volta la mamma del bambino ucciso nella pineta di Castel Fusano nel 1983 indica la pista politica: «Marco Accetti pedina della massoneria. Mio figlio scelto per ritorsione contro me e mio marito»
È uno dei gialli collegati alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Una tragedia ambientata nella pineta di Castel Fusano, pochi mesi dopo la sparizione della «ragazza con la fascetta». Erano le 19 del 20 dicembre 1983 quando Josè Garramon, 12 anni, nazionalità uruguayana, figlio di un funzionario delle Nazioni Unite (morto lo scorso luglio), fu travolto e ucciso da un furgone Ford Transit, nella pineta tra Roma e il mare. L'uomo al volante, Marco Accetti, non spiegherà mai perché era lì. Trent'anni dopo, all'indomani dell'elezione di papa Francesco (2013), si autoaccuserà di aver partecipato al sequestro Orlandi (qui la ricostruzione completa). E adesso, per la prima volta, la mamma di quel bambino bellissimo, Maria Laura Bulanti in Garramon, getta un faro di luce inedita sulla vicenda e, di conseguenza, sui misteri collegati.
Dica, signora.
«La verità è che hanno chiesto a questo Marco Accetti di spaventarci, ma la situazione, da perfetto idiota qual è, gli è sfuggita di mano. Se penso a come è finita, con la morte di mio figlio, mi sale una rabbia... Non mi rassegnerò mai...» Sono parole pesanti, inedite. La madre di Josè non è mai stata tanto netta nell'indicare come movente della tragedia che l'ha colpita la pista politica, legata alle tensioni innescate sullo scacchiere geopolitico dell'epoca dai regimi latinoamericani degli anni Settanta. Una pista che integra quella a sfondo sessuale (l'adescamento di minori da parte dell'investitore, all'epoca 28enne) e potrebbe rivelarsi risolutiva anche per chiarire definitivamente il caso Orlandi.
Signora, spieghi meglio. Da chi sarebbe stato ingaggiato Marco Accetti, l'uomo che provocò la morte di Josè?
«Va fatta una premessa. Il 1983 è stato un periodo terribile nel nostro Paese, l'Uruguay. C'era il Piano Condor, l'alleanza delle polizie segrete delle dittature del Centro e Sud America contro tutti gli oppositori. Io e mio marito Carlos eravamo convintamente democratici, denunciavamo i crimini, ci schieravamo con le vittime perseguitate, gli scomparsi... »
E dunque, signora?
«Hanno chiesto a questo Accetti di spaventarci ma, come prevedibile, dato che era un vero idiota e al tempo stesso depravato, invece di limitarsi a metterci paura la situazione gli è sfuggita di mano. E ha finito per uccidere il mio bambino. Perché Jose era estremamente intelligente e quando ha visto il pericolo è scappato».
Lei dice «hanno chiesto» a Marco Accetti... A chi si riferisce in particolare?
«Alla P2, che è stata protagonista dell'horror. Alla famiglia Ortolani, a Licio Gelli... Accetti era un deficiente nelle mani di suo padre, che faceva parte della massoneria, e dei suoi amici. Mio marito era un giovane promettente nella sua carriera (Carlos lavorava a Roma all'Ifad, agenzia Onu per i progetti agricoli, ndr) ed era molto sensibile, impegnato contro le ingiustizie. Noi ci eravamo trasferiti in Italia negli anni '80, ma tenevamo i contatti con il nostro Paese. Eravamo chiaramente di sinistra, contro i dittatori. Questa la spiegazione. Ho sempre avuto il sospetto che la P2 abbia giocato un ruolo importante e che Accetti sia stato usato come pedina»
La signora si ferma qui. «La mia speranza resta sempre quella di arrivare alla verità. Ci sono molti dettagli da approfondire di cui vorrei parlare a lungo», conclude.
Sono dichiarazioni per certi versi sconvolgenti, che tratteggiano uno scenario nuovo, fondato su non pochi elementi di riscontro. Al di là dell’ipotesi mai dimostrata di un'aggressione sessuale da parte di Accetti, infatti, la fine del dodicenne uruguayano è sempre rimasta oscura. Primo punto: non si è chiarito come Josè fosse finito nella pineta. Quel pomeriggio del 20 dicembre 1983, meno di un'ora prima, il ragazzino era all'Eur, dal barbiere. Fu l'uomo che lo investì (e 30 anni dopo consegnerà il flauto riconosciuto dagli Orlandi come quello di Emanuela) a caricarlo con una scusa e portarlo a Castel Fusano, venti chilometri più giù, verso il mare? La Procura di Roma, pur avendo alla fine prosciolto Accetti sul caso Orlandi, ne è sempre stata convinta. Il mortale investimento, tra l'altro, avvenne a poca distanza dalla casa di un esponente della banda della Magliana. Seconda domanda: perché prendere di mira il ragazzino con i capelli a caschetto? La madre della giovanissima vittima adesso, per la prima volta, parla espressamente di una possibile azione di ritorsione rivolta al marito e a lei «per spaventarci». Un altro dato obiettivo è rappresentato dal fatto che il padre di Marco Accetti, Aldo, fosse effettivamente massone, iscritto alla Loggia mediterranea. I promotori dell'operazione Condor, il coordinamento segreto tra le intelligence delle dittature militari di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay e Uruguay, favorito dalla Cia, avevano "sponde" a Roma e tra queste anche Accetti senior?
Carlos Garramon, inoltre, al processo in Corte d'assise si costituì parte civile, sostenendo l'ipotesi iniziale di omicidio volontario (poi derubricato in colposo, aggravato dall'omissione di soccorso), né va sottovalutato quanto Maria Laura Bulanti qualche anno fa ha raccontato davanti alle telecamere Rai. «A Montevideo avevamo la casa confinante con la villa di Licio Gelli - ha detto - e spesso capitava che José scavalcasse la recinzione per andare a giocare nel giardino vicino, con un amichetto. Una volta lo vidi tornare e gli chiesi perché lo faceva e lui mi rispose: sto cercando il tesoro di Gelli... Mi arrabbiai moltissimo, dissi a mio figlio di non farlo più, perché era pericoloso».
Un "gioco" davvero strano, per un bambino: evidentemente Josè aveva sentito parlare delle famigerate liste del Venerabile in casa, dai suoi genitori convinti democratici e nemici della massoneria. «È un episodio che ho raccontato perché è vero - conferma adesso la donna - noi chiaramente davamo fastidio». Gli indizi che rafforzano il legame del giallo Garramon con il caso Orlandi (e di conseguenza anche con quelli di Mirella Gregori e Katy Skerl), insomma, non mancano. Accetti, le cui frequentazioni di ambienti di destra sono dimostrate, uscendo allo scoperto nel 2013 e dichiarando in Procura di essere stato ingaggiato da un "ganglio" filo comunista, a difesa del dialogo Est-Ovest, compì in realtà un depistaggio? La sua autodenuncia come rapitore della Orlandi (supportata da numerosi indizi) all'indomani dell'elezione di un pontefice non curiale come Bergoglio era finalizzata ad accreditare una matrice dell'azione opposta a quella reale, di marca filo-occidentale? Anche la convinta solidarietà di papa Francesco alla signora Garramon, già ricevuta due volte in udienza privata in Vaticano, alla luce delle novità emerse potrebbe acquisire ulteriore significato. (fperonaci@rcs.it)
Emanuela Orlandi e il giallo di Alessia Rosati, scomparsa nel 1994. L’amica: «Aveva una relazione con “il Bugia”». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 29 Novembre 2022
Nuovi testimoni nell’inchiesta riaperta dalla Procura sulla scomparsa della giovane di Montesacro. La pista dell’estrema sinistra: «Forse si trasferì in Sud America»
C’è una testimonianza che racconta molto sulla scomparsa di Alessia Rosati, la 21enne romana uscita di casa, in via Val di Non, a Montesacro, il 23 luglio 1994, dicendo ai genitori che andava ad assistere all’esame di un’amica e mai più tornata. Uno dei tanti cold case romani senza apparente soluzione, sul quale però dal 2017 la Procura di Roma, nella persona della pm Alessia Miele, è tornata a indagare. Tra gli obiettivi della nuova inchiesta c’è anche la verifica del possibile coinvolgimento di Marco Accetti , l’uomo che si è autoaccusato del sequestro di Emanuela Orlandi (qui la ricostruzione completa) e che nel 2015, all’indomani dell’archiviazione del fascicolo sulla «ragazza con la fascetta», pubblicò una serie di post nel suo blog (uno dal titolo «L’altra Emanuela»), sostenendo di aver conosciuto Alessia e di sapere con certezza che fu «allontanata da casa» allo scopo di «fare pressioni contro elementi del Sisde», all’epoca coinvolti nel maxi-scandalo sui fondi neri.
L’ultima novità è in una deposizione a Piazzale Clodio: la stessa amica che la studentessa di Lettere di Montesacro incontrò prima di dissolversi nel nulla, ha fornito alla Procura numerose indicazioni, nell’ambito della nuova inchiesta, per fare luce sul mistero. E ha indicato anche personaggi precisi. Nel mirino soprattutto gli ambienti dell’estrema sinistra: «Io e Alessia eravamo accomunate da una grande passione per la lettura e la cultura - ha detto - e spesso ho frequentato insieme a lei centri sociali tipo Forte Prenestino e Villaggio Globale. Parlavamo anche di politica, passione più di Alessia, che era attiva in Autonomia Operaia e frequentava le cosiddette Aulette blu all’università La Sapienza...» Rapporti più precisi? Eccone due, mai emersi: «Sicuramente Alessia aveva avuto una relazione sentimentale con tale Bugia, che frequentava gli stessi centri sociali ed era politicamente molto attivo. Ha avuto una storia anche con uno dei componenti della banda Ak47, che spesso suonava al centro sociale di v ia Val Padana». Altra domanda: droghe? «Sicuramente canne. In un’occasione Alessia mi riferì di aver assunto qualcosa di più forte...» Fatti strani o indizi precedenti la scomparsa? «Suo padre mi disse di aver ricevuto una telefonata da un soggetto che gli riferì che Alessia picchiava e faceva picchiare...» Un fatto inedito, che si aggiunge alla telefonata choc arrivata a suo tempo dalla famiglia, da uno sconosciuto secondo il quale la ragazza stava «malissimo».
Ebbene, alcune delle novità sono di non poco conto. Intanto il presunto ruolo della giovane scomparsa in raid o pestaggi, forse legati a una militanza particolarmente vibrante, collocabile in un’area intermedia tra passione politica e illegalità. E poi spuntano possibili testimoni ben informati. In un successivo passaggio della sua deposizione, al momento di ricostruire la mattina della scomparsa e le successive ricerche, la stessa amica ha rivelato: «Ricordo di aver cercato Alessia in via dei Volsci, dove c’era Radio Onda Rossa, e forse anche alle Aulette blu. In un’occasione, sempre dopo la scomparsa, incontrai Il Bugia al centro sociale Brancaleone, gli chiesi se sapesse qualcosa di Alessia ma lui con fare vago si allontanò senza neanche rispondermi». Un’ulteriore possibile pista mai venuta alla luce e ora finita agli atti riguarda la possibile destinazione della scomparsa: «Non posso escludere che Alessia possa aver deciso di allontanarsi da casa senza dire nulla ai genitori per trasferirsi in Sud America, che catturava molto il suo interesse visto che era stata la patria di importanti esponenti politici». Sono dichiarazioni che aprono scenari finora rimasti sottotraccia. La 21enne di Montesacro volatilizzata - e ancora viva - sulle tracce di Che Guevara o Simon Bolivar? Altra domanda: Il Bugia è stato già individuato dalla Procura? Se ascoltato come testimone, potrebbe fornire elementi utili? Ancora: la stessa amica sa forse di più? Va ricordato che, all’epoca della prima inchiesta, fu accusata di «dichiarazioni mendaci a pubblico ufficiale», in quanto non raccontò che il 23 luglio verso mezzogiorno fu lei ad accompagnare Alessia a casa in via Val di Non (notate da un vicino), probabilmente per prendere qualche oggetto.
Nuove piste e tanti approfondimenti, insomma, per una scomparsa tornata d’attualità, così come l’omicidio di Katy Skerl (gennaio 1984), anch’esso collegato al caso Orlandi dopo la sorprendente scoperta, lo scorso luglio, che la bara della ragazza è stata trafugata, probabilmente da finti addetti del cimitero Verano. In tempi recenti, sull’enigma Rosati, è arrivato anche il contributo di una grafologa giudiziaria del tribunale di Roma, Monica Manzini, secondo la quale la lettera che Alessia inviò all’amica subito dopo essere sparita «non fu scritta sotto minaccia», in quanto mancano evidenze come «segni di incertezza o tremori» e piuttosto, al contrario, la grafia evidenza «desiderio di indipendenza e di bruciare le tappe». Verso dove? Una morte ormai messa nel conto dalla famiglia, considerato l’enorme lasso di tempo trascorso senza neppure una telefonata, oppure un’incredibile seconda vita da qualche parte nel mondo?
Giugno 1983, movente multiplo per il sequestro di Emanuela Orlandi, finita nel buco nero dei misteri vaticani. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 19 Novembre 2022.
La figlia quindicenne del messo pontificio un giorno d’estate di quasi 40 anni fa sparì nel nulla. Fu usata per ricatti su più livelli? La docu-serie “Vatican girl” racconta la sequenza di “corvi”, depistaggi e bugie. E un dolore che non è passato
La telecamera in casa Orlandi, dentro il Vaticano, nel palazzo dove vive ancora mamma Maria, si sofferma sui dettagli. Fuori campo la voce di Pietro: «Questa è la cameretta di Emanuela, è rimasta la stessa...». Le pareti foderate di legno chiaro, il letto con la sovraccoperta gialla, le bambole su una mensola, l’enciclopedia che oggi non usa più nessuno... La memoria gioca brutti scherzi, in questo giallo infinito: la sfasatura temporale, il passato-sempre-presente tolgono il fiato. «O ti fai una corazza o non sopravvivi», dice Natalina. Sono entrambi oltre i sessanta, l’unico fratello e la sorella maggiore della sequestrata più famosa del mondo. Hanno una candida chioma bianca e lo sguardo velato di nostalgia. Tutta la vita a cercarla. Un incubo. Credevi di vivere nel posto più sicuro della Terra, sotto la protezione di guardie svizzere e gendarmi, e invece...
Un giorno caldissimo
Sono passati quasi 40 anni da quel caldissimo giugno 1983, ma l’incredulità è immutata: come è stato possibile? Perché proprio a noi? Indagini a vuoto, depistaggi e un forte turbamento dell’opinione pubblica sono stati la costante di un caso che ha trasformato Emanuela Orlandi, un’incolpevole ragazzina di 15 anni, nell’emblema degli intrighi più sordidi. Un giallo al quale in queste settimane anche Netflix sta regalando una platea planetaria, grazie alla docu-serie “Vatican girl”, firmata dal regista Mark Lewis. La ricostruzione in 4 parti, legate dal filo tenuto dal conduttore, il giornalista de La7 Andrea Purgatori, muove proprio dal senso di paura e di intimità violata. Poi si srotolano le domande. Quale la mente criminale e quale il movente? Terrorismo internazionale nell’ambito delle tensioni della Guerra fredda, ricatto economico legato al dissesto della casse papali, torbidi giri sessuali?
Il senso di colpa di Pietro
Era il 22 giugno 1983. Emanuela uscì attorno alle 16.30, dopo aver chiesto al fratello di accompagnarla alla scuola di musica. «Avevo un impegno e le dissi di no. Lei mi mandò a quel paese e sbatté la porta. Mi dispiace tantissimo...». Pietro e il suo senso di colpa. Forse c’è anche questo, alla base della sua irriducibile battaglia per la verità. Dopo la lezione di flauto nel complesso di Sant’Apollinare, vicino piazza Navona, Emanuela telefonò a casa e disse di aver ricevuto una proposta di lavoro, distribuire volantini durante una sfilata (poi rivelatasi inesistente) delle Sorelle Fontana per conto di una ditta di cosmetici, la Avon. «Mi pagano 375 mila lire per un solo pomeriggio», disse la ragazza. Tanto, troppo. Era un primo segnale di messaggi in codice, lasciati sottotraccia. «Aspetta, parla con mamma», le consigliò l’altra sorella, Federica. Ma “Manu”, studentessa di seconda liceo scientifico al Convitto nazionale, rimandata a settembre in latino e francese, tifosissima della Roma fresca vincitrice dello scudetto (nei manifesti non si vede, ma la fascetta tra i capelli è gialla e rossa), a cena non tornò. A Pietro sembra ieri: «Alle 9 e mezza è salito il panico: era un orario fuori dalla normalità di casa Orlandi. Io e mio cugino iniziammo subito le ricerche in moto. Girammo tutta la notte. Ero talmente stanco che mi addormentai sul sellino di dietro».
Il Papa all’Angelus
Le concomitanze sono fondamentali, nella Vatican connection. La mattina seguente papà Ercole, messo pontificio con accesso alle stanze papali, presenta denuncia al I distretto di polizia. Nelle stesse ore Karol Wojtyla rientra dalla Polonia, dove è stato acclamato da folle osannanti per la sua lotta contro il comunismo al fianco del sindacato Solidarnosc, e viene informato non appena tocca terra a Fiumicino. È un altro indizio. La questione è seria: non si disturba Sua Santità per una scappatella. Le prime indagini puntano sui reclutatori di hostess per la Avon e sulla Bmw verde sulla quale è stata vista salire, davanti al Senato, una ragazza somigliante a Emanuela. Al telefono si fanno vivi due giovani dalla parlata romanesca, “Pierluigi” e “Mario”, che danno prova di un contatto. Ma è dal 3 luglio 1983, quando Giovanni Paolo II lancia il primo appello all’Angelus, che il caso deflagra.
La proposta di scambio
Tempo 48 ore e l’Amerikano, così ribattezzato per l’inflessione straniera, chiama gli Orlandi e detta le condizioni: Emanuela sarà liberata in cambio della scarcerazione di Ali Agca, già condannato all’ergastolo per l’attentato del 13 maggio 1981 e, da mesi, grande accusatore del mondo sovietico, indicato come mandante. Il salto di qualità è da brividi. La vita di una ragazzina viene usata nei rapporti di forza sullo scacchiere geopolitico mondiale. Titoli in prima pagina. Barbe finte dell’Est e dell’Ovest in allerta, perché Agca riporta al “crimine del secolo” (come lo definirà il giudice Rosario Priore) e la figura di Wojtyla conduce dritti al cuore della Guerra fredda. La Segreteria di Stato concede ai rapitori un codice, il “158”.
Spunta Mirella: gialli collegati
Il giallo raddoppia. Da agosto un fantomatico “Fronte Turkesh” invia comunicati che dimostrano la conoscenza di dettagli autentici su Emanuela e inserisce nella trattativa anche Mirella Gregori, un’altra quindicenne sparita a maggio. La linea non muta: liberate Agca. Richiesta che a settembre diventa ossessiva, con il ritorno dell’Amerikano, la lettura al telefono (a Filippo, il cognato) della lista degli abiti indossati da Mirella e la conferma (con una perizia grafologica) che almeno due lettere sui casi Orlandi (quella trovata in un furgone Rai a Castel Gandolfo) e Gregori (quella spedita a casa) sono scritte dalla stessa mano. Gialli collegati, dunque. Una misteriosa entità di rara intelligenza politico-criminale, ragionano gli inquirenti, potrebbe aver scelto le due ragazze in base alla nazionalità (una vaticana, per sensibilizzare il Papa, l’altra italiana, per premere sul Quirinale, titolare del potere di grazia), allo scopo di illudere l’ex Lupo grigio, facendogli balenare la scarcerazione, e indurlo così a rimangiarsi le accuse ai bulgari (ed estensivamente a Mosca).
Il gendarme in Procura
Più il tempo passa, però, più l’intrigo si complica. Per quanto la ritrattazione del turco effettivamente arrivi, il 28 giugno 1983, sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela, e sembri confermare tale scenario, la pista internazionale vacilla allorché il processo iniziato nel 1984 contro i tre funzionari di Sofia si chiude con altrettante assoluzioni. Avanti, spuntano nuove tracce. La mamma di Mirella a fine 1985 riconosce in un gendarme alle spalle del Papa (venuto in visita alla sua parrocchia) l’uomo notato nel bar sotto casa, in via Nomentana. La Procura impiega però otto anni a organizzare il faccia a faccia e alla fine la donna, impaurita e malata, non lo riconosce. Siamo nel 1993. La prima inchiesta è di fatto conclusa.
L’indegna sepoltura
Il salto in avanti ci porta al 2008. Da qualche tempo si è tornati a parlare del fatto che a Sant’Apollinare, ultimo luogo in cui fu vista Emanuela, dal 1990 è seppellito, grazie al nulla osta del cardinale Poletti, il boss Enrico De Pedis, detto Renatino. Perché tanto onore al capo della banda della Magliana? C’entra anche lui? Cherchez la femme. Che puntuale arriva. L’ex amante Sabrina Minardi, per quanto cocainomane e imprecisa in taluni passaggi, convince la Procura che il suo racconto è fondato: Renatino nell’estate dell’83 le chiese il favore di “consegnare” una certa ragazza a un monsignore ai piedi del Gianicolo, lei andò all’appuntamento, fece salire in macchina una giovane che riconobbe come la Orlandi e la spinse tra le braccia di un prelato «con il cappello a falde larghe». L’inchiesta si riapre. La donna indica anche il covo dove sarebbe stata tenuta la quindicenne (a Monteverde, in via Pignatelli) e il presunto movente: il sequestro sarebbe servito a De Pedis per recuperare i soldi della malavita versati in Vaticano, mai rientrati e finiti a sovvenzionare la causa polacca. Follow the money, insomma.
L’uomo del flauto
La pista finanziaria pare prevalere su quella internazionale. Arriviamo al 2013. Nuova concomitanza: papa Ratzinger si dimette a marzo e due settimane dopo un ambiguo personaggio, tal Marco Accetti, classe 1955, figlio di massone (il papà Aldo è iscritto alla Loggia mediterranea), cresciuto in scuole cattoliche di prim’ordine, un passato oscillante tra ambienti di estrema destra e frequentazioni (forse di copertura) del Partito radicale, consegna un flauto traverso, subito riconosciuto dalla famiglia Orlandi. L’uomo, premesso di confidare nel “vento nuovo” portato da un Papa “non curiale” come Francesco, si autoaccusa dei sequestri di Emanuela e di Mirella, nell’ambito di un piano ordito a suo dire da tonache “rosse”, vicine al cardinale Casaroli. Non fa però i nomi dei complici. Gli obiettivi principali, oltre alla ritrattazione di Agca, sarebbero stati la chiusura del contenzioso Ior-Ambrosiano (poi avvenuta con l’accordo di Ginevra nel 1984), la cacciata di Marcinkus dalla banca vaticana e un potere di influenza su alcune nomine ecclesiastiche.
Il movente multiplo
Le sventurate quindicenni, in tale quadro, sarebbero state per così dire “multitasking”: vittime di un ricatto multiplo, attuato su più fronti, compresa, alla bisogna, qualche ritorsione contro tonache dedite a perversioni sessuali. Per provare il proprio coinvolgimento, Accetti esibisce il flauto, invita ad ascoltare la sua voce (molto simile a quella di “Mario” e compatibile, secondo i consulenti sentiti da “Vatican girl”, con quella del telefonista in azione dal settembre 1983), chiarisce il significato di numerosi codici (a partire dal “158”, da leggersi come anagramma di “5-81”, mese e anno dell’attentato al Papa) e ricorda che la sua giovanissima moglie, nell’autunno 1983, si trovava a Boston, città dalla quale partirono alcuni comunicati riconosciuti dagli inquirenti come autentici.
L’archiviazione
Svolta vicina? Macché. Nel 2015 anche l’inchiesta-bis si arena. Il procuratore Giuseppe Pignatone, sulla base di una perizia che giudica Accetti affetto da “sindrome narcisistica”, avoca a sé il caso (estromettendo dalle indagini il suo vice, Giancarlo Capaldo) e ottiene l’archiviazione, suggellata nel 2016 dalla Cassazione. Game over. Pignatone tre anni dopo, il 3 ottobre 2019, sarà nominato da papa Bergoglio presidente del Tribunale vaticano.
La pista inglese
Qualsiasi novità successiva avverrà al di fuori di un perimetro investigativo ufficiale: dalla pista innescata nel 2017 dal ritrovamento di una finta nota-spese vaticana da 483 milioni di lire stanziati per tenere in vita l’ostaggio in Inghilterra fino al 1997 (documento fasullo, ma forse diffuso per indicare il trasferimento della ragazza all’estero) al racconto di un’amica sulle molestie subite da Emanuela da parte di un alto prelato, le nuove tracce resteranno sul piano mediatico. Compresa la caccia alle ossa ambientata nel 2018 in via Po, nel cortile della Nunziatura, e poi, l’anno seguente, in due tombe del Cimitero teutonico, nella Città del Vaticano, dopo che un anonimo aveva invitato a scavare “lì dove guarda la statua dell’angelo”. Siamo alle solite: corvi in agguato e macabri depistaggi. L’unica certezza, conclude la docu-serie, è che «tutte le piste portano in Vaticano» e che «prima o poi la verità verrà fuori». Forse. Chissà quando.
Emanuela Orlandi e il giallo del bambino investito in pineta: morto Carlos Garramon, il padre di Josè. di Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 12 Novembre 2022.
Il funzionario delle Nazioni Unite nel 1983 si costituì parte civile nel processo contro l’investitore, Marco Accetti, che in seguito si è autoaccusato dei sequestri Orlandi-Gregori. Chi portò a Castel Fusano il piccolo?
Per quasi 40 anni ha vissuto il suo dolore in maniera riservata, all’altro capo del mondo, senza apparire. Ha preferito che fosse sua moglie Maria Laura, nota in Italia per le apparizioni televisive di qualche anno fa, a battersi con vigore nella ricerca della verità, pur senza farle mai mancare il suo sostegno. Ma alla fine Carlos Juan Garramon, 76 anni, ha perso la sua lunga battaglia personale: il padre di Josè, il 12enne travolto e ucciso a fine 1983 nella pineta di Castel Fusano, è morto in Uruguay al termine di una lunga malattia, lo scorso 13 luglio a Montevideo, e la notizia è trapelata solo negli ultimi giorni. L’ex alto funzionario dell’Ifad, l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata in progetti agricoli, fu protagonista come parte civile del processo per l’omicidio stradale del suo ragazzo più piccolo, avvenuto nel periodo in cui la famiglia si era trasferita a Roma. Un episodio tuttora avvolto nel mistero.
Era la sera del 20 dicembre 1983, pochi mesi dopo la scomparsa della quindicenne Emanuela Orlandi (qui la ricostruzione completa) e della coetanea Mirella Gregori, quando Josè fu trovato morto nella pineta tra Roma e Ostia. Ad accorgersi del corpo sul ciglio della strada fu un autista di bus. Poche ore dopo, l’uomo al volante del furgone Ford Transit che aveva investito Josè fu arrestato: si trattava di Marco Accetti, all’epoca 28enne, figlio di Aldo (massone della Loggia mediterranea), fresco sposa di una ventenne dalla quale si era già separato, arrestato l’anno precedente per il possesso di una pistola e citato per nome e cognome nella famosa lista degli estremisti neri redatta da Valerio Verbano. Sarà lo stesso Accetti (poi condannato a 2 anni e 2 mesi per omicidio colposo e omissione di soccorso di Garramon) ad autoaccusarsi 30 anni dopo, nel 2013, del sequestro Orlandi-Gregori. E ancora Accetti, nel 2015, a riferire che la bara di Katy Skerl (17enne uccisa nel gennaio 1984 a Grottaferrata) era stata trafugata dal cimitero Verano: una circostanza anticipata dal Corriere con un sopralluogo sul posto (qui il video) e poi riscontrata dalla Procura di Roma nel luglio 2022, allorché la tomba è stata aperta e trovata vuota.
Carlos Garramon, ai tempi del processo in Corte d’assise (1984-1986) nel quale gli avvocati di Accetti riuscirono a far derubricare l’accusa da omicidio volontario a colposo, evidenziò il suo punto di vista a più riprese, soprattutto sul punto cruciale: come ci era finito Josè in un posto tanto sperduto, se non a bordo del furgone di Accetti, visto che neanche un’ora prima era all’Eur, a quasi 20 chilometri di distanza? «È mio desiderio ribadirle - scrisse Carlo Garramon al presidente della Corte, Umberto Feliciangeli - che mio figlio non ha mai causato problemi di condotta durante i suoi brevi anni di vita. Mia moglie e io non abbiamo mai avuto da lui una bugia e siamo sempre stati tenuti al corrente, con scrupolosa precisione, dei suoi impegni, delle persone con cui usciva. Fu proprio questo suo carattere che ci ha posto in allarme, il giorno della sua scomparsa, inducendoci a iniziare una disperata ricerca dopo meno di un’ora dall’orario di chiusura del negozio del barbiere dove si era recato. Confido che la sua alta capacità professionale, per il bene di questa società e allo scopo di alleviare il nostro dolore, saprà trovare la ragione che spieghi una così grande e immeritata ingiustizia».
Desiderio vano, purtroppo. Al di là della condanna dell’investitore a una pena esigua (e della scomparsa di alcuni verbali di interrogatorio dal fascicolo, come denunciato dalla famiglia), la ricostruzione dell’accaduto non è mai stata soddisfacente. Marco Accetti disse di non aver visto nulla a causa del buio e di non essersi neanche accorto di aver travolto una persona («Pensai a dei sassi lanciati contro il parabrezza»). Solo dopo essere sceso e aver constatato i danni al Ford Transit, aggiunse, avvistai il corpo del piccolo.
Oggi Maria Laura Bulanti (più volte ricevuta da papa Francesco) conferma le accuse che nel 2015 portarono a una temporanea e improduttiva riapertura delle indagini (un ex poliziotto della Squadra mobile ha anche ipotizzato un ruolo della banda della Magliana) e si limita a dichiarare: «Accetti era un depravato. La situazione gli è sfuggita di mano e ha finito per ucciderlo, perché Josè era estremamente intelligente e quando ha visto il pericolo è scappato. A metà febbraio sarò in Italia con un figlio e due miei nipoti - annuncia la donna al Corriere - e avremo modo di parlarne e di approfondire. Io non mollo, voglio tutta la verità sul mio sventurato e meraviglioso bambino».
Fabrizio Peronaci per corriere.it l’11 novembre 2022.
Quel taglio delle «t» così lungo e netto? Indice di aggressività, ma anche fragilità. Il margine sinistro crescente? Bisogno di evasione. E la tendenza a scrivere fino al margine destro, quasi a voler «sconfinare» con la penna oltre il foglio? Desiderio di indipendenza, di bruciare le tappe. L’assenza di segni di incertezza o tremori, inoltre, porta a escludere uno stato di costrizione...
La grafologia giunge in soccorso di uno dei tanti cold case romani in attesa di soluzione: quello sulla scomparsa della 21enne Alessia Rosati, abitante a Montesacro, mai più ritrovata dopo che uscì di casa in via Val di Non il 23 luglio 1994, dicendo ai genitori che andava ad assistere agli esami di maturità di Claudia, un’amica. L’inchiesta è stata riaperta nel 2019 dalla Procura di Roma (pm Alessia Miele), dopo che erano emersi collegamenti con il caso di Emanuela Orlandi in seguito ad alcune dichiarazione del superteste indagato, Marco Accetti (qui la ricostruzione completa). E oggi emergono due novità.
La prima è un retroscena: la stessa amica durante le prime indagini fu accusata di dichiarazioni mendaci rese a pubblico ufficiale, in quanto non riferì di aver accompagnato a casa Alessia quella stessa mattina, prima di sparire, per pochi minuti, quasi certamente per prendere qualcosa in vista della fuga. Alcuni vicini videro le ragazze insieme, smentendo Claudia. La seconda novità è rappresentata dagli spunti psicologici e comportamentali forniti da una approfondita consulenza grafologica sulla lettera d’addio della giovane studentessa di Lettere. Quale lo stato d’animo di Alessia al momento di scriverla?
Alessia, la lettera con l'errore e gli altri indizi
È stata Monica Manzini, grafologa giudiziaria del tribunale di Roma, a realizzare un’analisi minuziosa (trasposta in un libro romanzato, «Le ali della verità», di recente pubblicazione), dell’unico vero elemento a forte valenza probatoria in possesso degli inquirenti impegnati nel caso Rosati: la lettera che Alessia inviò all’amica Claudia (forse in seguito a un accordo tra loro) era di certo autentica e verosimilmente fu imbucata nell’imminenza della scomparsa (arrivò a Claudia il 26 luglio). Nella missiva la ragazza annunciava la sua decisione di partire improvvisamente, con «un ragazzo che è stato molto importante per me», per andarsene «x l’Europa » senza sapere «quando tornerò».
Finora i genitori Antonio e Anna Rosati (lui all’epoca vigile urbano, lei operaia alla Regione Lazio) avevano pensato che si fosse trattato di una sorta di Sos scritto sotto costrizione, in quanto il testo conteneva un riferimento temporale errato che solo loro avrebbero compreso: Alessia collocava nel lunedì successivo la partenza per il «paese di m...» (in Umbria) dove sarebbe dovuta andare in villeggiatura con la famiglia, quando il giorno esatto era il sabato (giorni in cui sparì). I rapitori o chi per loro l’avevano obbligata a «depistare» e insieme tranquillizzare tutti scrivendo del viaggio in Europa e lei, per mandare un disperato messaggio in bottiglia, aveva inserito un dettaglio palesemente errato che avrebbe posto in allerta la famiglia? Un’ipotesi verosimile, che però adesso vacilla.
Secondo il lavoro di Monica Manzini (che si è occupata tra le altre cose dello scontrino-gate del sindaco Marino, analizzando le ricevute dei ristoranti frequentati dall’ex sindaco di Roma) non esiste infatti «nessun elemento oggettivo che avvalori l’allontanamento volontario oppure il fatto che la lettera sia stata scritta sotto minaccia». Mancano infatti i classici «segni di terrore/paura» come «tremori, stentatezza o angolosità improvvise» nella grafia.
Dalla paginetta in corsivo con un paio di cancellature, tuttavia, alcuni aspetti di «fragilità emotiva» emergono con chiarezza. Vediamoli: i principali sono una componente di «ansia», manifestata dagli accavallamenti delle lettere (vedi le parole «incontrato» o «ragazzo», alla quarta riga) e il «bisogno di evasione/fuga/indipendenza», espresso, spiega la grafologa, dal margine sinistro decrescente e dalla «precipitazione del tracciato verso destra» (contro il margine estremo del foglio). Ravvisabile inoltre anche una certa dose di «agitazione/aggressività», come mostrano le «irregolarità assiali» delle lettere, alcune delle quali più alte delle altre (vedi «viaggiare», in fondo al testo) e il taglio «forte e reciso» delle lettere «t».
Conclusione? «Alessia Rosati nello scrivere quel testo non era terrorizzata, e questo porta a escludere che si trovasse sotto minaccia, ma al tempo stesso manifestava delle evidenti fragilità emotive e psicologiche, come se stesse per lanciarsi in una impresa al di sopra delle proprie possibilità». La grafologa conclude: «L’allontanamento volontario va scartato, nonostante la ragazza esprimesse un desiderio di autonomia. Allo stesso tempo bisogna anche escludere che le ultime parole scritte da Alessia contenessero un messaggio in codice ai genitori, perché sarebbe stato più logico inviare la lettera direttamente a loro. Quindi, si può anche ragionevolmente ipotizzare un nuovo scenario: la ragazza potrebbe aver voluto far credere alle persone da cui stava scappando che andava fuori dall’Italia, per mettersi al riparo da pericoli».
Il trait d’union tra il giallo di Alessia Rosati e quelli di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, scomparse nel 1983, è rappresentato da Marco Accetti, oggi 67enne, un fotografo romano con precedenti penali che nel 2013 si autoaccusò del sequestro delle due quindicenni.
È stato lui, nel 2015, a parlare per primo del giallo Rosati, riferendo di aver conosciuto Alessia, di averla ospitata a dormire a casa sua (abitava nella stessa zona) e di sapere con certezza che fu portata via da ambienti dei servizi segreti, nell’ambito delle tensioni esplose nel Sisde nel 1994, all’indomani dell’esplosione dello scandalo dei fondi neri (una cinquantina di miliardi di lire spariti). Sette anni fa non fu preso sul serio, l’uomo che consegnò il flauto riconosciuto dai familiari di Emanuela (e la cui voce corrisponde a quella di almeno un paio di telefonisti del 1983), tanto che sia lui sia gli altri indagati (Sabrina Minardi, don Pietro Vergari e tre ex banda della Magliana) vennero prosciolti dalla Procura al momento dell’archiviazione. Ma di recente la posizione dell’«uomo del flauto» è mutata, in relazione a un altro cold case tornato d’attualità, il delitto della 17 enne Katy Skerl avvenuto a Grottaferrata nel gennaio 1984.
Accetti, infatti, aveva dichiarato ai giudici che la bara della ragazza era stata rubata, portata via dal cimitero Verano, e nel luglio 2022 tale circostanza è stata effettivamente riscontrata. Dietro la lapide, non c’era nulla. Adesso, grazie alla grafologia, anche il giallo Rosati torna quindi in discussione. Tanto più che , a differenza del caso Orlandi-Gregori, un’inchiesta formalmente aperta esiste. La prossima mossa tocca alla Procura.
Nel cold case entra la grafologa dello 'scontrino-gate' di Ignazio Marino. Scomparsa Alessia Rosati, nuova pista: il ruolo di Marco Accetti e le analogie col caso Emanuela Orlandi. Riccardo Annibali su Il Riformista l’11 Novembre 2022
Alessia Rosati, una ragazza romana di 21 anni, il 23 luglio del 1994 uscì di casa in via Val di Non dicendo ai genitori che andava ad assistere agli esami di maturità di Claudia, una sua amica, ma non fece più ritorno. In uno dei tanti cold case italiani arriva in soccorso la grafologa giudiziaria del tribunale di Roma Monica Manzini. L’inchiesta è stata riaperta nel 2019 dalla pm Alessia Miele della Procura di Roma, dopo che erano emersi collegamenti con il caso di Emanuela Orlandi in seguito ad alcune dichiarazione del superteste indagato, Marco Accetti.
Oggi emergono due novità. La prima è che la stessa amica durante le prime indagini fu accusata di dichiarazioni mendaci rese a pubblico ufficiale, in quanto non riferì di aver accompagnato a casa Alessia quella stessa mattina, prima di sparire. Alcuni vicini di casa videro infatti le ragazze insieme, smentendo la prima testimonianza di Claudia. La seconda novità è emersa dopo un’approfondita consulenza grafologica sulla lettera d’addio della giovane studentessa di Lettere, eseguita dalla dottoressa Manzini.
“Il taglio delle ‘t’ così lungo e netto? Indice di aggressività e fragilità. Il margine sinistro crescente? Bisogno di evasione. E la tendenza a scrivere fino al margine destro a voler ‘sconfinare’ con la penna oltre il foglio? Desiderio di indipendenza, di bruciare le tappe. Ma l’assenza di segni di incertezza o tremori porta a escludere uno stato di costrizione.
L’analisi grafologica di Manzini è stata trasposta nel romanzo ‘Le ali della verità’ pubblicato di recente. E parte dall’esame dell’unico vero elemento a forte valenza probatoria in possesso degli inquirenti impegnati nel caso Rosati: la lettera che Alessia inviò all’amica Claudia. Missiva verosimilmente imbucata nell’imminenza della scomparsa, infatti arrivò a Claudia il 26 luglio, tre giorni dopo la sparizione di Alessia. La ragazza annunciava la sua decisione di partire improvvisamente, con “un ragazzo che è stato molto importante per me”, per andarsene “x l’Europa” senza sapere “quando tornerò”.
I genitori Antonio e Anna, all’epoca lui vigile urbano e lei dipendente della Regione, hanno sempre pensato che si fosse trattato di una sorta di ultimo messaggio scritto sotto minaccia perché il testo conteneva un riferimento temporale errato che solo loro avrebbero compreso. Ovvero Alessia collocava nel lunedì successivo la partenza per il paese in Umbria dove sarebbe dovuta andare in villeggiatura con la famiglia, quando il giorno esatto era invece il sabato, il giorno della sua scomparsa. L’ipotesi verosimile quindi che qualcuno l’avesse obbligata a “depistare”, adesso vacilla.
Manzini, che si è occupata tra le altre cose dello caso dello scontrino del sindaco Marino, sostiene che non esiste “nessun elemento oggettivo che avvalori l’allontanamento volontario oppure il fatto che la lettera sia stata scritta sotto minaccia”. A mancare nella grafia sono i “segni di terrore/paura” come “tremori, stentatezza o angolosità improvvise”. Emergono “con chiarezza” tuttavia alcuni aspetti di “fragilità emotiva”.
“Ansia” manifestata dagli accavallamenti delle lettere e il “bisogno di evasione/fuga/indipendenza”, espresso, spiega la grafologa, “dal margine sinistro decrescente e dalla precipitazione del tracciato verso destra”. Non trascurabile anche una “agitazione/aggressività nel taglio “forte e reciso” delle lettere ‘t’.
La conclusione di Manzini è quindi che “Alessia Rosati nello scrivere quel testo non era terrorizzata, e questo porta a escludere che si trovasse sotto minaccia, ma al tempo stesso manifestava delle evidenti fragilità emotive e psicologiche, come se stesse per lanciarsi in una impresa al di sopra delle proprie possibilità, – e conclude – “l’allontanamento volontario va scartato, nonostante la ragazza esprimesse un desiderio di autonomia. Allo stesso tempo bisogna anche escludere che le ultime parole scritte da Alessia contenessero un messaggio in codice ai genitori, perché sarebbe stato più logico inviare la lettera direttamente a loro. Quindi, si può anche ragionevolmente ipotizzare un nuovo scenario: la ragazza potrebbe aver voluto far credere alle persone da cui stava scappando che andava fuori dall’Italia, per mettersi al riparo da pericoli”.
Il fil rouge tra il cold case di Alessia Rosati con quelli di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori (scomparse però 11 anni prima, nel 1983) è rappresentato da Marco Accetti, oggi 67enne. Romano, fotografo, con precedenti penali, che nel 2013 si autoaccusò del sequestro delle due quindicenni. È stato lui, nel 2015, a parlare per primo del giallo Rosati, riferendo di aver conosciuto Alessia, di averla ospitata a dormire a casa sua e di sapere con certezza che fu portata via da ambienti dei servizi segreti nell’ambito delle tensioni esplose nel Sisde nel 1994, all’indomani dello scandalo dei fondi neri.
Accetti sette anni fa riconsegnò il flauto ai familiari di Emanuela (che riconobbero lo strumento), e la sua voce venne accertata come corrispondente a quella di almeno un paio di telefonisti del 1983, tanto che sia lui sia gli altri indagati (Sabrina Minardi, don Pietro Vergari e tre ex banda della Magliana) vennero prosciolti dalla Procura al momento dell’archiviazione.
Ora la posizione di Accetti è mutata in relazione a un altro cold case tornato d’attualità: il delitto della 17enne Katy Skerl avvenuto a Grottaferrata nel gennaio 1984. Accetti aveva dichiarato ai giudici che la bara della ragazza era stata rubata, portata via dal cimitero Verano, e nel luglio 2022 tale circostanza è stata effettivamente riscontrata. Dietro la lapide, non c’era nulla. Dopo l’indagine grafologica anche il giallo Rosati torna in discussione. Ora la palla passa alla Procura.
«Vatican Girl», il caso Emanuela Orlandi tra racconto e inchiesta. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 4 Novembre 2022
Il documentario si sofferma non poco sul ruolo del Vaticano
Sarebbe interessante calcolare quante ore la tv ha dedicato al caso di Emanuela Orlandi (più il film di Roberto Faenza, La verità sta in cielo), una ragazzina di 15 anni, figlia di un funzionario del Vaticano, rapita il 22 giugno del 1983 e mai più ritrovata. Certo, la storia è drammatica e l’oscurità che l’avvolge angoscia non poco, ancora oggi. Le ipotesi si sprecano: dal Kgb al movimento nazionalista turco dei Lupi grigi di cui faceva parte l’attentatore di Papa Giovanni Paolo II, Ali Agca, alle presunte «attenzioni» dell’allora potente presidente dello Ior Paul Marcinkus. Secondo l’ex giudice Ferdinando Imposimato, Emanuela vivrebbe in Turchia, felice con il suo compagno che è anche uno dei suoi sequestratori. Secondo altri inquirenti, il sequestro sarebbe avvenuto per esercitare pressioni sul Vaticano, cui la Banda della Magliana aveva prestato una grossa somma di denaro da destinare al sindacato polacco Solidarnosc. Su Netflix è da poco approdata una docu-serie destinata a far discutere: Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi.
In quattro puntate, l’autore e regista Mark Lewis mescola racconto e inchiesta, secondo un tratto che la piattaforma da tempo sperimenta anche rispetto a casi di cronaca più recenti. Attraverso la voce delle sorelle e del fratello di Emanuela, di testimoni inquietanti (è il caso di Sabrina Minardi, ex compagna del calciatore Bruno Giordano e del boss della Magliana, Renatino De Pedis), di filmati d’epoca si tenta di mettere assieme i pezzi di un puzzle esiziale. Sulla base di alcune rivelazioni contenute nei cosiddetti VatiLeaks, il documentario si sofferma non poco sul ruolo del Vaticano, tanto che Carlo Calenda, dopo aver visto la serie, ha chiesto che il ministro degli Esteri «pretenda» dal Vaticano la verità sul caso di Emanuela. L’impressione è che coloro che cercano il «mistero» ovunque non vadano necessariamente in fondo alle cose.
Il giusto addio a Emanuela. Adolfo Spezzaferro su L’Identità il 4 Novembre 2022
Mentre imperversano i commenti sulla docuserie Vatican Girl di Netflix, che a 39 anni dalla scomparsa, racconta la vicenda di Emanuela Orlandi, in libreria abbiamo trovato Addio Emanuela. La vera storia del caso Orlandi. Il sequestro, i depistaggi, la soluzione (Piemme, 2022, 208 pagine, 18,90 euro) di Maria Giovanna Maglie. Il libro è di gran lunga superiore al documentario in streaming, pur non avendo nulla da invidiare allo storytelling che appassiona gli spettatori. A ben vedere (anzi, leggere), la struttura della contro-indagine della grande giornalista ricalca in modo efficace quella di una serie tv, con dei riepiloghi (assolutamente necessari) che danno il ritmo e indicano la strada. Come un riassunto delle puntate precedenti, visualizzato nella memoria del lettore. Proprio quando il resoconto dei fatti giunge a una svolta o aggiunge elementi dirimenti c’è la bussola del riepilogo a non far smarrire chi legge. Sì, perché quello che è uno dei misteri più intricati della storia italiana è ancora oggi senza una soluzione ufficiale. Anche se, come scrive la Maglie, “la verità sul terribile caso Orlandi è più dura di quanto si pensasse, ed era già da tempo sotto i nostri occhi”.
La soluzione data dalla ricostruzione della giornalista, che analizza tutti gli elementi, scarta a ragion veduta tutti i depistaggi e le piste sbagliate, mette sotto nuova luce (mettendo finalmente a fuoco) nomi e fatti prima marginali, è terribile. Ma è plausibile, credibile. Alla fine del libro la chiave offerta appare la più logica, nella sua terribile evidenza. D’altronde, l’ultimo (per ora) Papa a confrontarsi con il caso Orlandi, Francesco, ha messo un sigillo incontrovertibile: “Emanuela sta in cielo”. Ma il punto non è se Emanuela sia ancora viva, ma come è morta e dove è sepolta.
La vicenda è nota: la quindicenne cittadina del Vaticano sequestrata nel giugno 1983 non è stata mai ritrovata ed è al centro di una serie di vicende che vanno ben oltre la sua scomparsa. In tutti questi anni sono state seguite piste di ogni genere, spiega la Maglie. “Dal terrorismo internazionale, con il coinvolgimento dell’attentatore di Giovanni Paolo II Alì Agca, a festini pedofili finiti male, dal legame con il crack del Banco Ambrosiano di Calvi alla Banda della Magliana. Per la maggior parte, ricostruzioni fantasiose, talvolta diffuse ad arte per confondere inquirenti e un’opinione pubblica già inquietata dai silenzi del Vaticano, da sospetti su alti prelati, tombe vuote e sepolture inattese, un nastro che registra agghiaccianti torture sessuali”. Con il ritmo e il thrilling di una mystery story dove però purtroppo è tutto vero, l’autrice racconta fatti controversi e spesso gravissimi, con responsabilità evidenti e imperdonabili, sullo sfondo della Guerra fredda. In una spirale in cui troviamo i finanziamenti del Vaticano a Solidarnosc in Polonia, i soldi persi dalla Banda della Magliana, gli intrallazzi di Marcinkus (è lui l’Amerikano delle telefonate alla famiglia Orlandi?), la nota delle spese per la vita segreta a Londra di Emanuela e per la sua morte altrettanto segreta, forse avvenuta in Vaticano. A tutti questi dubbi il libro dà una risposta.
Emanuela Orlandi, morto Giulio Gangi, l’agente Sisde che partecipò alle prime indagini (e poi fu epurato). Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 3 Novembre 2022
L’ex 007 morto in casa, all’Infernetto. Nel 1983 si presentò dagli Orlandi, offrendo un aiuto per trovare la ragazza scomparsa. Stava per incontrare un cronista del «Corriere»
All’epoca in cui finì sui giornali, nel giugno 1983, aveva 23 anni. Un agente del Sisde con ottime coperture politiche, che pareva destinato a una luminosa carriera. Fu lui, tre giorni dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi, a presentarsi a casa della figlia del messo pontificio di Karol Wojtyla, all’interno della Città del Vaticano, offrendo un aiuto. Lui a svolgere i primi accertamenti sul giallo, impegnandosi anche nelle ricerche. E ancora lui, una decina d’anni dopo, a essere messo ai margini del servizio segreto civile per indagini «inopportune». La mattina del 2 novembre 2022, in circostanze non ancora completamente chiare, Giulio Gangi, 63 anni, è stato trovato morto nella sua abitazione al quartiere Infernetto, steso sul suo letto. era spirato da non molto e i disperati tentativi di salvarlo sono risultati vani.
A dare l’allarme è stato un amico discografico, Luigi Piergiovanni, che ospitava «l’uomo dei misteri» del caso Orlandi (qui la ricostruzione completa) in una sua dependance, da quando Gangi aveva perduto l’anziana madre, con la quale aveva vissuto fino alla fine, in una villetta poco distante. «A scoprire il corpo è stata mia moglie, allertata da un amico con il quale Giulio faceva spesso colazione in un bar poco distante, preoccupato perché non rispondeva al telefono - ha raccontato Piergiovanni - La porta era chiusa dall’interno. Era sul letto, agonizzante. Abbiamo chiamato un’ambulanza, i medici hanno tentato di rianimarlo. È stato portato all’ospedale Grassi e deve essere morto durante il tragitto, a ucciderlo forse è stato un ictus». Sarà l’autopsia a chiarire le cause del decesso. Gangi soffriva di periodiche depressioni, era ipocondriaco. «Le disavventure lavorative lo avevano profondamente segnato», ha aggiunto l’amico e padrone di casa, che lo conosceva fin da ragazzo. In tempi recenti, comunque, l’ex 007 sembrava essersi ripreso, aveva smesso di assumere farmaci. Tanto che, in un momento di ritrovata vitalità, giusto lunedì scorso aveva preso appuntamento con un giornalista del Corriere per svolgere «un sopralluogo» e approfondire alcuni aspetti relativi al giallo di Emanuela, che gli era rimasto nel cuore da sempre. «Il giorno prima che decidi di passare chiamami dalle 13.30 in poi, così mi organizzo. Il sopralluogo lo facciamo alle 11.30 poi a magna’ in un posto vicino. Un abbraccio!» Questo il suo ultimo messaggio. «Ok, settimana prossima. Vada per pizza e birretta», era stata la risposta del cronista.
La carriera dell’ex 007 del Sisde si interruppe presto, a metà anni ‘90 - al tempo della cosiddetta trattativa Stato-mafia - quando Gangi fu trasferito d’ufficio dalle fumose stanze delle barbe finte al ministero dell’Economia. «La mia personale epurazione fu causata da un’operazione di Stato, legata a fatti di mafia, ancora più delicata della questione Orlandi», era solito dire, restando sul vago.
All’indomani del 22 giugno 1983, giorno in cui Emanuela sparì, Gangi si presentò a casa in Vaticano, chiedendo di parlare con il papà, il messo pontificio Ercole, non solo in veste di 007 ma anche di amico di Monica Meneguzzi, cugina della scomparsa, conosciuta l’estate precedente a Torano, in provincia di Rieti. La ricostruzione dei tanti guai che gli causò l’intrigo Orlandi, Gangi (che era anche un grande appassionato di cinema, nonché regista indipendente) l’affidò a un’intervista-sfogo concessa al Corriere nel 2014, quando l’inchiesta non era stata ancora archiviata dalla Procura di Roma. «Feci l’errore, e umanamente mi pesa doverlo dire, di appassionarmi per aiutare una famiglia disperata. Una scomparsa così anomala era meritevole d’attenzione, strano fosse una scappatella...» Fu lui a imboccare la pista della Avon, lasciata intravedere dall’ultima telefonata a casa della quindicenne. «Pietro Orlandi mi raccontò dell’uomo della Bmw che aveva proposto alla sorella di pubblicizzare dei prodotti in una sfilata. Contattai una coordinatrice Avon, la quale mi assicurò che non avevano rappresentanti maschi né rapporti con le sorelle Fontana».
Il rapitore che tese un tranello a Emanuela, evidentemente, confidava nel fatto che la ragazza ne avrebbe parlato a casa (e la famiglia alla stampa): il vero obiettivo, dunque, era mandare messaggi in codice alla controparte, in vista del ricatto da attivare tramite il sequestro di una concittadina del Papa. «Alla casa di moda, appresi che altre ragazze si erano rivolte all’atelier perché un uomo sulla trentina le aveva fermate per strada con una proposta simile a quella usata per adescare la Orlandi», aggiunse l’agente, che a quel puntò tentò il colpo grosso. «Mi misi in cerca della Bmw verde tundra segnalata dal poliziotto davanti al Senato e ne trovai una simile. In un’officina mi spiegarono che una donna aveva portato l’auto di un amico con un vetro rotto. Mi disse che albergava al residence Mallia, dove andai e alla reception chiesi della donna. Questa si presentò con un vestitino leggerissimo, trasparente».
Era Sabrina Minardi, l’amante del boss «Renatino» De Pedis che dal 2008 ha innescato la pista della banda della Magliana, poi seguita nel 2013 dall’autodenuncia di Marco Accetti? «Ma no, la Minardi all’epoca aveva poco più di vent’anni. Questa era sulla trentina, bionda, sexy, voce decisa, quasi rauca. Le mostrai il tesserino, ma fu molto arrogante: “A lei non dico niente!”… Fatto è che, tornato in ufficio, il capo mi sollevò letteralmente da terra, la signora doveva avere contatti diretti: prese il numero della targa e in pochi minuti riuscì a farsi sentire. Pensai che fosse l’amante di qualche pezzo grosso, uno dei nostri papaveri...»
Parola di 007 (scomodo). Cacciato, non per caso...
«Puoi praticare tutte le “teorie” del mondo, ma se non hai accanto la fortuna è tutto inutile», è stato l’ultimo post pubblicato il 1° novembre 2022 sul suo profilo Fb da Giulio Gangi, investigatore e aspirante cineasta, persona inquieta e sensibile. Una constatazione amara, scritta di getto, forse in preda alla disperazione, di certo pensando a quella ragazza con la fascetta tra i capelli la cui fine l’aveva tanto turbato. Di lei, Emanuela, aveva parlato fino al giorno prima anche con l’amico cronista. Ripromettendosi, forse, di rivelare qualcosa di inedito.
Caso Orlandi, la vita spericolata dell’ex agente Gangi e la sua ultima pista: «Indaghiamo in pineta, dove è morto Garramon». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 4 Novembre 2022.
Carriera, contatti altolocati e inciampi dell’ex 007 del Sisde. Lo scambio di messaggi con il cronista del Corriere: «La Orlandi presa per ragioni occulte» «La chiave è nell’investimento del piccolo Josè»
Il giorno dopo la scoperta del corpo senza vita di Giulio Gangi, l’ex agente segreto del caso Orlandi (qui la ricostruzione del giallo), che passava le sue giornate ciondolando tra l’edicola di Flavia e «La casa del tramezzino», spesso da solo, l’immancabile sigaretta tra le dita, all’Infernetto e a Casal Palocco non si parla che di lui. «Come è possibile che sia morto proprio adesso che si era ripreso? Giulio di periodi brutti ne aveva avuti, con le sue dipendenze e la tendenza a deprimersi, era stato anche ricoverato per mesi, in cura psicologica, ma ora stava bene. Sì, proprio bene», ripete con convinzione una carissima amica giornalista (in Rai) dell’ex agente del Sisde, quasi a voler esorcizzare l’accaduto. «Era sensibile, ironico, divertente...»
Tra ricordi e nostalgia
«Ricordo quella volta - racconta sorridendo Luigi Piergiovanni, l’amico di una vita che lo ospitava nella dependance della sua villa, dove Gangi è morto la mattina del 2 novembre - che mi citofonò dicendo: Apri? Ti presento Claudio... Claudio chi? E lui: Baglioni... Ed era vero!» Era il periodo pre-barbe finte, primissimi anni Ottanta: un giovanissimo Giulio Gangi, grazie alle sue conoscenze altolocate in politica (ambienti del Partito repubblicano, il sottosegretario Olcese, Mauro Dutto), nel mondo del cinema (il produttore Cristaldi) e in tv (Enzo Trapani, Antonello Falqui ), era più che mai in carriera: quel che toccava diventava oro. A vent’anni assistente di due o tre parlamentari, di casa a Palazzo Chigi e alla Camera dei deputati, nonché responsabile delle Relazioni esterne della Li bero Venturi, la prestigiosa “scuderia” di grandi cantanti italiani. Naturale, con quelle regole d’ingaggio, che gli si offrisse un posto nell’intelligence. Nei ruggenti anni “da bere” funzionava così. E a soli 22 anni Giulio si ritrovò al Sisde. E il 25 giugno 1983, quando si affacciò in casa Orlandi, dentro il Vaticano, proponendosi di dare una mano, senza poterlo immaginare firmò la sua condanna a una vita molto complicata.
Le gaffe al Sisde
Da quei giorni l’agente segreto con simpatie anche nell’estrema destra - sulla cui morte in queste ore si attende il responso dell’autopsia, i medici dell’ambulanza hanno ipotizzato un ictus - cominciò una corsa pazza sulle montagne russe, che spesso l’ha fatto deragliare. Le inchieste importanti, Orlandi, la mafia, la famosa area grigia tra Stato e crimine, ma anche le «lavate di capo» dei superiori per il carattere esuberante, incline a fare di testa sua. Gli allontanamenti e i ritorni. Quella visita al residence Mellia, sull’Aurelia, in cerca della donna della Bmw verde sulla quale era stata vista salire Emanuela, che si rivelò una tremenda gaffe («era l’amante di qualche pezzo grosso»)... L’altra uscita fuori luogo con la famiglia Orlandi nel settembre 1983, allorché si disse certo che Emanuela stava per tornare («Sarà a casa entro il mese»). Fino alla «cacciata» dal servizio segreto civile, nel 1993, sotto forma di trasferimento al ministero dell’Economia. Le cadute. La depressione. L’alcol. Gli amori finiti (Sabrina, Romina). Le macchine di lusso sognate (per un breve periodo girò in Porsche) e i soldi che non bastavano.
Il legame con la mamma
Lo 007 Gangi non si era mai sposato. Fino al 2017 aveva vissuto con l’anziana madre, alla quale era legatissimo. Me ne aveva parlato spesso: «È un grande impegno. Non posso lasciarla sola, non è autosufficiente». Dopo la morte, aveva venduto la villetta (sempre in zona Infernetto) e si era ritrovato in disarmo, disorientato, ospite nella dependance dell’amico in via Ventrella. Alti (pochi) e bassi (numerosi, era senza patente perché sorpreso ubriaco al volante). Ma il pensiero - non c’era niente da fare - tornava sempre lì, al caso Orlandi che aveva sognato di risolvere e invece era diventato un boomerang...
L’ultima investigazione
«Ciao Fabrì, quando capiti dalle mie parti ci facciano un giro dove è stato ritrovato il corpicino di quel ragazzino dal viso di cerbiatto...», è il messaggio inviato al sottoscritto il 18 ottobre 2022. Il primo di una lunga serie, fino all’ultimo, due giorni prima che morisse. Che Giulio si riferisse a Josè Garramon, il 12enne travolto e ucciso nella pineta di Castel Fusano il 21 dicembre 1983, lo vedremo tra un attimo. «Come no - avevo risposto - intanto se passi in centro a Roma prendiamo un caffè». «No. Sono ancora in convalescenza. Poi ti dirò». «Ok, guarisci presto!» E lui: «Un abbraccio!» Evidente che era in ripresa fisica e di umore, l’ex agente segreto andato da anni in pensione anticipata per motivi di salute. Tanto che era stato lui a rifarsi vivo 24 ore dopo: «Vatti a vedere le mie indagini in cui cito le Sorelle Fontana, così ottieni una visione più ampia sulla mie convinzioni». Argomento noto, legato alla telefonata di Emanuela a casa prima di sparire, il 22 giugno 1983, in cui la ragazza comunica che le è stato proposto un lavoro promozionale (per 375 mila lire) a una sfilata della nota casa di moda.
Da Orlandi a Garramon
Era stato Gangi, all’epoca, parlando con la responsabile delle Sorelle Fontana, a scoprire qualcosa di importante, che ora mi aveva ribadito: «Nella capitale si aggira un individuo che adesca giovani ragazze, per scopi occulti, con un’offerta appetibile...» Ok, vai avanti: «Inoltre, va rammentato che nella telefonata di “Mario” (accento romano) alla famiglia l’uomo si preoccupa dei dettagli che riguardano l’adescamento della minore. In buona sostanza, i soggetti da ricercare appartengono alla romanità». Stava facendo un collegamento, Gangi, tra il telefonista che aveva chiamato il 28 giugno 1983 (il secondo, dopo «Pierluigi» e prima del cosiddetto Amerikano) e la sua «romanità». Ora, dalla voce, quel telefonista pare proprio Marco Accetti, romano, «l’uomo del flauto» consegnato alla famiglia nel 2013 (e poi inspiegabilmente distrutto durante gli accertamenti tecnici della Procura) nonché l’investitore del povero Josè pochi mesi dopo il rapimento Orlandi. Un legame che Gangi ora intendeva approfondire...
Il «sopralluogo» e poi una pizza
Nuovo messaggio: «All’epoca indagai da solo fino all’appello di Giovanni Paolo II (3 luglio 1983, ndr), poi con la successiva telefonata dell’Americano (5 luglio) sono entrati in campo tutti, Centri Operativi Sisde, Carabinieri, Polizia, e buonanotte ai suonatori...» Era un battitore libero, lo 007 rimasto «attaccato» per 40 anni alla sua prima, clamorosa indagine. E questo voleva tornare a fare adesso, a 63 anni, andando a cercare nuovi indizi nelle pieghe dei gialli Orlandi-Garramon e dall’analisi della condotta dell’equivoco uomo del flauto, di certo presente sulla scena di quai tragici fatti.
Ore 8.39 di lunedì 31 ottobre 2022, una vibrazione nel taschino del giubbotto. È un «bip» del mio telefonino: «Quando decidi di passare da me, fammi sapere il giorno prima, dalle 13.30 in poi, sul mio cell. Così mi organizzo. Il sopralluogo lo facciamo verso le 11.30 poi a magna’ in un posto vicino. Un abbraccio!» «Ok. Fantastico. Birretta e pizza…!». E lui: «Ahahaha». «Bene, facciamo settimana prox», il mio saluto. Non ne abbiamo avuto il tempo. L’agente segreto Gangi Giulio, lo 007 dell’Infernetto, se ne è andato prima, il 2 novembre 2022, la mattina del Giorno dei morti.
Da “la Repubblica” l'1 novembre 2022.
Tre faldoni top secret del Sismi, i servizi segreti militari, su Emanuela Orlandi e Mirella Gregori spariti nel nulla. Documenti acquisiti dalla procura ma mai consegnati negli atti d'indagine alla famiglia della 15enne scomparsa il 22 giugno del 1983. « Il funzionario del Sismi - si legge nell'atto evidenzia che dall'acclusa documentazione possono essere rilevati dati relativi a talune intelligence estere collegate».
Quattro pagine. Due decreti e molte novità. Intanto si è scoperto che il Sismi aveva indagato su Emanuela e Mirella. Il Sismi oggi non esiste più, sostituito dal 2007 dall'Aise, l'Agenzia informazioni e sicurezza esterna. Quel materiale, invece, esiste ancora anche se non si trova, come spiega Pietro Orlandi. Tre faldoni acquisiti l'undici ottobre del 1993 nella sede dell'Intelligence dal giudice istruttore Adele Rando. Magistrato impegnato a risolvere uno dei più grandi misteri della storia italiana e del Vaticano.
La genesi di questa vicenda porta, però, la data del 16 settembre del 1993. È il giorno in cui il giudice istruttore Rosario Priore, che indaga sui mandanti dell'attentato a Papa Wojtya da parte di Ali Aca, decide di acquisire del materiale nella sede dei servizi militari. Ciò che scoprono i carabinieri di via In Selci è rilevante. Nel senso che il materiale è notevole.
Si contano in tutto 18 faldoni. Tre riguardano le due adolescenti. Gli investigatori annotano per due faldoni il cognome " Orlandi". Per un altro " Orlandi - Gregori". Tutto il resto riguarda la vicenda di Giovanni Paolo II.
Gli investigatori decidono, però, di non portare via i documenti e di prendere in consegna un'intera stanza all'interno della sede del Sismi: «La documentazione sopra allegata - si legge nel decreto - viene custodita presso i locali della 1° Divisione del Sismi, piano 2°, nella stanza numero 212 a disposizione del magistrato. Si fa presente che sulla finestra e sulla porta d'ingresso viene apposta come sigillo una carta intestata del reparto operativo dei carabinieri».
Dopodiché i militari dell'Arma riferiscono al pm di una richiesta che gli rivolge un alto funzionario del Sismi: « si evidenzia che ( dai faldoni acquisiti, ndr) possono essere rilevati dati concernenti persone, strutture ed attività che, per ovvie esigenze funzionali del Servizio, rivestono carattere di riservatezza e devono pertanto essere considerati soggetti al vincolo della vietata divulgazione (...) in particolare per quanto riguarda i rapporti con taluni servizi esteri collegati ». Passa meno di un mese.
Probabilmente Priore avvisa la collega Rando sul fatto che il Sismi ha documenti rilevanti su Orlandi e Gregori. Il magistrato non ci pensa due volte e scrive l'11 ottobre ' 93: « Dispone la consegna immediata da parte del direttore del Sismi della documentazione » . Adesso la famiglia di Emanuela vuole leggere queste carte
Vatican Girl riaccende i riflettori su Emanuela Orlandi. Il fratello: «Il Vaticano non vuole indagare». La docu-serie Netflix su una delle più misteriose pagine della nostra cronaca. Parla Pietro Orlandi: «Non smetteremo mai di cercare la verità». Marco Grieco su La Repubblica il 20 Ottobre 2022
Quello intorno a Emanuela Orlandi, la giovane cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno 1983, è un silenzio che grava da 39 anni. E che, a partire dal 20 ottobre, anche la piattaforma di streaming Netflix illumina con una docu-serie di quattro puntate dal respiro internazionale. “Vatican girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi”, già dal titolo suggerisce la volontà di fare di una delle pagine irrisolte della cronaca italiana una storia collettiva, anche grazie alla copertura che il colosso dello streaming mondiale offre, e che gli ha permesso di lanciarla in 160 paesi. Per questo motivo, è stata prevista una versione totalmente in lingua inglese e una mista, con parti originali in italiano e sottotitolate.
Dopo il successo di serie true crime come “The Keepers”, che racconta la misteriosa morte di suor Cathy Cesnik, l’insegnante di letteratura inglese scomparsa presso la Archbishop Kenough High School di Baltimora nel 1969 e ritrovata morta due mesi dopo, ancora una volta Netflix pesca nelle pagine più irrisolte della cronaca nera, dove la ricerca della verità si scontra col muro di gomma delle gerarchie cattoliche. Stavolta lo fa affidandosi a Mark Lewis, il talentuoso regista britannico vincitore di un Emmy per la docu-serie “Don’t F**k With Cats: Hunting an Internet Killer”. E basterebbe solo questo per distanziare “Vatican girl” dalle serie di successo che pescano nell’immaginario collettivo italiano come SanPa e Wanna, rispettivamente su San Patrignano e Wanna Marchi.
Nella scomparsa di Emanuela Orlandi, lo spacciato politico e sociale italiano si intreccia con l’intenzione di allargare le maglie della cronaca: «Forse per gli italiani che guarderanno la docu-serie molte cose torneranno. Ma per chi nel mondo non conosce la storia di Emanuela, sarà fondamentale» spiega Pietro Orlandi, fratello di Emanuela e indefesso ricercatore della verità su sua sorella: «Si tratta di un documentario cronologico, che percorre tappa per tappa le fasi della scomparsa di Emanuela all’ombra del Vaticano. Per me è come rivivere tutto ancora oggi. Perché la scomparsa di Emanuela è stata per noi una dilatazione del tempo, dove il passato è ancora un presente» spiega.
In 39 anni di ricerca e inquietudine, la famiglia Orlandi ha compreso che c’è un silenzio che può fare ancora rumore. Pietro ne è convinto, mentre beve un caffè a due passi da Porta Sant’Anna, uno degli accessi di città del Vaticano prospiciente la chiesa parrocchiale che ha frequentato anche sua sorella. È proprio lì che, nel 2013, papa Francesco pronunciò quelle parole che riaccesero speranze e allargarono il mistero sulla scomparsa di una ragazza che aveva sempre vissuto il Vaticano come casa sua: «Emanuela è in cielo» disse Francesco ai familiari. Per Pietro quelle parole furono un lampo nel buio: «Dopo gli anni di silenzio di Ratzinger, soltanto sentire il nome di Emanuela pronunciato da un Papa è stata una cosa forte. Pensammo subito che Francesco sarebbe stato disponibile al dialogo. Invece abbiamo poi trovato un muro più alto di prima».
Ancora oggi il nome di Emanuela è tabù in Vaticano, e questo la dice lunga sul peso che la scomparsa di una ragazza ha avuto nel rapporto col mondo circostante: «Noi ci sentivamo i bambini più fortunati del mondo: i Giardini Vaticani erano il nostro giardino di casa. Erano gli anni Settanta e io non vedevo l’ora di varcare quel cancello per trovare la calma. Nei primi giorni dalla scomparsa di Emanuela, la realtà circostante era svanita. Solo il Vaticano era il nostro punto certo».
Ma da nido sicuro per la famiglia Orlandi, il Vaticano diventa con gli anni un luogo di sospetti. In “Vatican girl” questo prende la forma di un filo rosso, lungo cui il nome stesso di Emanuela diventa coordinata e toponimo di un luogo parallelo, finora ignoto anche a Pietro stesso: «Con la chiusura del caso nel 1997, la realtà si fa sempre più pesante intorno a me, sono stato più volte redarguito e mi è stato chiesto di non continuare a indagare. Ma il nostro interesse resta sempre lo stesso: arrivare alla verità».
È in nome della verità che Pietro scrive a papa Francesco, ma senza avere risposte, fino a quella lettera privata scritta di pugno dal Papa e consegnata privatamente, brevi manu: «Ha scritto frasi di circostanza, ha espresso vicinanza e preghiera. Eppure non ci ha mai concesso un incontro privato, nonostante ne avessimo fatto più volte richiesta, anche tramite il suo segretario monsignor Fabián Pedacchio - segretario particolare di papa Francesco dal 2014 al 2019, ndr -. Lo abbiamo chiesto anche tramite il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin. Ma non ci è mai stato concesso». È un Vaticano fatto di porte che si aprono all’esterno e di altre che si chiudono dentro quello raccontato da “Vatican girl”, che secondo Pietro traccia con coerenza la doppia linea della Santa sede sulla faccenda: «Noi abbiamo sempre chiesto riservatezza, ma è stata una scelta del Vaticano dare un’eco mediatica ai passi fatti sul caso di mia sorella. Come quella creata dalla Sala stampa vaticana nel 2019, quando sono state scavate due tombe nel cimitero teutonico». Era il 2019 e, dietro segnalazione anonima, il Vaticano ha scoperchiato due tombe appartenute a due aristocratiche dell’Ottocento, sepolte nello Stato vaticano. Non è stata rinvenuta traccia di Emanuela, ma neppure delle due principesse che sarebbero state lì tumulate. Anzi, la scoperta fortuita di una stanza sotterranea in cemento armato al di sotto delle due tombe, di certo non coeva, ha accresciuto il mistero su quello che era inizialmente apparso come un buco nell’acqua: «Sono state analizzate le ossa rinvenute in un ossario prospiciente: nessuna traccia di Emanuela, malgrado alcuni resti umano siano stati datati persino agli anni Cinquanta» spiega Orlandi.
Ancora oggi Pietro esprime inquietudine di chi non smette di cercare nei gesti. Traccia con ampie falcate il perimetro del Passetto, sbuca a Borgo Pio animata dal vociare dei turisti e dallo svolazzare delle talari nere: «Non mi darò pace fino a quando non saprò qualcosa di più su mia sorella». Pietro sa che, con l’uscita di “Vatican girl”, dovrà anche arginare l’eco di mitomani e 007 improvvisati, come già è accaduto in passato: «Non appena la storia di mia sorella varca i confini dell’Italia, si fanno avanti investigatori alla giornata o semplici curiosi desiderosi di aiutarci. Una volta un gruppo di canadesi mi propose di usare le arti marziali per entrare in Vaticano e parlare direttamente col papa. A volte fanno sorridere, ma ho per tutti un senso di compassione per la vicinanza che dimostrano. Se queste cose non le vivi, è dura immedesimarsi».
E così il rumore mediatico diviene l’altra faccia di un’indagine che per la famiglia Orlandi è una ricerca di resti e di ossa: «Eppure, fino a quando non ne avrò la certezza, per me Emanuela può essere ancora viva!» esclama Pietro. È il paradosso di uno Stato che vive reiterando la venerazione dei resti di un apostolo in un luogo di ritrovamento di duemila anni, ma che non riesce a trovare quelli di una ragazzina risucchiata nel nulla quarant’anni fa. In quel luogo più santo, che tanto Pietro quanto Emanuela pensavano li avesse tenuti al sicuro per sempre, ma che si è poi svelato un altro mondo oltre l’immaginario. Il mondo continua a scorrere qua fuori ma lì, oltre quegli accessi picchettati giorno e notte dalle guardie svizzere, tutto sembra cristallizzarsi nel marmo freddo. Come la storia di Emanuela Orlandi, “Vatican girl” per sempre.
"La 'Vatican girl'? Mia sorella Emanuela. Quelle attenzioni da un prelato...". Al via la miniserie "Vatican girl" dedicata alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Il fratello Pietro a ilGiornale.it: "Era agitata qualche giorno prima del rapimento. Fu avvicinata da un prete". Rosa Scognamiglio su Il Giornale il 21 Ottobre 2022.
È online su piattaforma streaming “Vatican Girl”, la nuova docuserie targata Netflix dedicata alla vicenda di Emanuela Orlandi, la 15enne che scomparve a Roma il 22 giugno 1983. Una storia misteriosa, e dai risvolti inattesi, che ha catalizzato l’attenzione del regista inglese Mark Lewis - già autore di “Giù le mani dai gatti” - al punto da farne un racconto a puntate.
Il filo conduttore del documentario è la presunta correlazione tra il rapimento della ragazza e alcune dinamiche interne al Vaticano. "Emanuela raccontò a un’amica di aver ricevuto attenzioni da un prelato", racconta alla nostra redazione Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, che ha partecipato al cortometraggio.
Pietro Orlandi, cosa racconta "Vatican girl"?
"Racconta l’intera vicenda del rapimento di Emanuela da un punto di vista cronologico, mettendo cioè in successione tutte le varie piste investigative che si sono susseguite nel corso di questi lunghi 39 anni".
Come ha reagito quando le hanno proposto la docuserie?
"Il progetto è nato tre anni fa, prima della pandemia. Ne sono rimasto sorpreso, ma anche molto contento perché è un modo per far conoscere la storia di Emanuela fuori dai confini dell’Italia. Il documentario sarà trasmesso in 160 Paesi del mondo".
Qual è il filo conduttore della storia?
"Come suggerisce il titolo della docuserie, tutto ruota attorno al possibile intreccio tra la scomparsa di mia sorella e il Vaticano".
Pietro Orlandi: "Emanuela? In Vaticano sanno. Lo ammisero, ma poi..."
Nel documentario interverrà, per la prima volta, anche un’amica Emanuela. In che rapporti erano?
"Anzitutto tengo a precisare che è una persona molta pacata e discreta. Peraltro non è mai stata sentita dagli inquirenti perché non è a conoscenza di fatti né in possesso di informazioni. Lei era una ex compagna di scuola di mia sorella, non faceva parte della comitiva del Sant’Anna. Tuttavia erano rimaste in contatto. Tant’è che si sono viste pochi giorni prima del rapimento".
Le ha raccontato qualcosa riguardo a quell’incontro?
"Sì. Come lei stessa racconterà nella docuserie, aveva notato che Emanuela era agitata e sovrappensiero. Quando le ha chiesto quali preoccupazioni avesse, mia sorella le avrebbe detto di aver ricevuto attenzioni da un prelato".
Nello specifico cosa avrebbe detto sua sorella all'amica?
"Che un prete 'vicino al Papa' l’aveva avvicinata nei pressi dei giardini vaticani. ‘C’ha provato’, sarebbero state le sue parole".
Secondo lei, cosa intendeva dire Emanuela con quella espressione?
"Difficile a dirsi. Quella frase potrebbe voler dire tutto o nulla sulla tipologia di approccio da parte di questo prelato. Per certo è l’ennesima conferma che, in un modo o nell’altro, in questa storia c’entra il Vaticano. Il resto sono solo mistificazioni".
"Emanuela rapita da lui". Spunta l'identikit: cosa faceva alla Orlandi
A cosa si riferisce?
"Ai vari tentativi di depistaggio che sono stati attuati nel corso degli anni allo scopo di far deviare le indagini sulle altre piste investigative".
Del tipo?
"Quando si parla ad esempio del venditore di prodotti cosmetici che avrebbe fermato Emanuela all’uscita da scuola per proporle un lavoro. Mi sembra abbastanza palese che sia stato un tentativo di indirizzare le indagini su una pista alternativa a quella del Vaticano. Tant’è che all’inizio gli investigatori avevano ipotizzato che il rapimento fosse opera di un malintenzionato. Quello che oggi definiremmo ‘un predatore’, per intenderci".
Questa estate la vicenda di Emanuela è stata accostata a quella di Katy Skerl. Ci sono dei punti di contatto tra le due storie?
"A parer mio, no. Se non che la scomparsa di Katy Skerl è avvenuta quattro mesi dopo il rapimento di Emanuela. Ma loro due neanche si conoscevano né frequentavano gli stessi luoghi. Sono due storie diverse".
Però anche nel caso della Skerl si è parlato del fotografo Marco Fassoni Accetti (nel 2013 dichiarò di conoscere i dettagli del rapimento di Emanuela).
"Accetti dice tante cose ma non è credibile, almeno per quanto riguarda la vicenda di mia sorella".
Perché?
"In tredici interrogatori non è mai stato in grado di fornire delle prove a sostegno delle sue dichiarazioni. A me, e alla nostra famiglia, interessa conoscere solo la verità su quello che è successo a Emanuela".
In tal senso, la docuserie potrebbe essere d’aiuto?
"L’intento è proprio quello di alzare l’attenzione sulla scomparsa di Emanuela. Spero vivamente che questo documentario possa spingere la ricerca della verità sulla storia di mia sorella. Una cosa è certa: noi non ci arrendiamo".
Fabrizio Accatino per “la Stampa” il 17 ottobre 2022.
«Abbiamo provato a intervistare qualche rappresentante del Vaticano ma nessuno ha accettato. È come se su Emanuela sia stata scelta per sempre la strada del silenzio. Eppure credo che saranno in tanti tra quelle mura a vedere la serie, e siamo sicuri che la apprezzeranno molto». In questo Paese di molti misteri ma nessun segreto (il copyright è di Kissinger), il caso Orlandi non sarà più soltanto una faccenda di casa nostra. Ora se n'è interessata Netflix (International, non Italia), che sul tema ha commissionato alla casa di produzione Raw una docu-serie originale.
Presentata a Roma negli scorsi giorni per il «Mia» (il Mercato Internazionale Audiovisivo), articolata in quattro episodi, Vatican Girl. The Disappearance of Emanuela Orlandi sarà disponibile in tutto il mondo a partire da giovedì. Nell'attesa, in molti Paesi del Nord e Sud America è già in trend sui social network.
«Questo fatto così doloroso credo meritasse l'attenzione di un pubblico globale - racconta Mark Lewis, regista, sceneggiatore e produttore -. Fuori dall'Italia l'informazione l'ha coperto poco, almeno fino al clamoroso episodio del 2019, quando per cercare il corpo di Emanuela gli investigatori hanno scoperchiato due tombe del cimitero Teutonico in Vaticano, trovandole vuote. In questa vicenda s' intrecciano tantissime piste, dalla cospirazione ecclesiastica alle spie bulgare, dai terroristi turchi alla banda della Magliana fino al Kgb. È una storia vera, eppure sembra un thriller politico scritto da Robert Ludlum, Thomas Harris o Dan Brown».
La serie riavvolge il nastro della narrazione ripartendo da zero, esaminando con estremo rigore tutti i tasselli del puzzle investigativo. Un'operazione non nuova per Raw, che con Netflix si è specializzata nel proporre alle platee di tutto il mondo casi locali di cronaca nera. «Abbiamo scavato in tonnellate di documenti d'archivio, foto, articoli di giornale», rivela la produttrice Chiara Messineo, italiana da tempo residente a Londra.
«Credevamo che la famiglia Orlandi non avesse altro, finché un giorno Pietro - l'eroico fratello che da quarant' anni non ha mai smesso di cercare la verità - si è presentato a noi con una borsa di plastica arancione. Dentro c'erano tantissime fotografie e filmini di famiglia mai mostrati prima, con Emanuela a tutte le età. Siamo rimasti a bocca aperta. Li abbiamo portati a Londra per lavorarli, sentendoci addosso una responsabilità enorme, visto il loro valore».
Tenuta insieme dalla voce in inglese di Andrea Purgatori, Vatican Girl contribuisce a dipanare la matassa con testimonianze nuove, a volte esplosive. Come quelle di Marco Fassoni Accetti (il sedicente Amerikano, il telefonista del rapimento), del capo degli investigatori dell'epoca, di chi sa ma ha preferito parlare mantenendo l'anonimato. Oltre all'incredibile racconto a volto scoperto di Sabrina Minardi, al tempo amante del boss della Banda della Magliana Enrico Depedis, che ha ricostruito nel dettaglio il rapimento di Emanuela.
Il fatto che la ragazza non fosse una cittadina italiana si è rivelato un ostacolo per le ricerche. «Il Vaticano è lo stato più piccolo del mondo - spiega Messineo -. Il numero di civili che ci vivono è ridottissimo, meno di duecento. La maggior parte di loro appartengono a famiglie che lavorano per la Santa Sede da generazioni, come gli Orlandi. Il padre Ercole era messo all'anticamera papale, tra i vari incarichi consegnava la posta del mattino a Papa Wojtyia. Lui è morto qualche tempo fa, i figli se ne sono andati, ma a 92 anni la mamma di Emanuela vive ancora in quello stesso appartamento, dove l'abbiamo incontrata».
Nell'approccio visivo, Vatican Girl è molto più cinema che tv. Dopo la visione, allo spettatore resta incollata addosso la Roma lugubre e mortifera pennellata da Stefano Ferrari, il direttore della fotografia. «Ha fatto un lavoro incredibile - si entusiasma il regista -. Prima di iniziare ci siamo incontrati e abbiamo concordato le referenze estetiche, in particolare thriller come Il caso Spotlight e Seven».
Andrea Purgatori per il “Corriere della Sera” il 12 ottobre 2022.
Trentanove anni dopo, il mistero che avvolge la fine di Emanuela Orlandi inquieta e stordisce come fosse trascorso un giorno.
Stordisce una famiglia e inquieta per i possibili risvolti finanziari, criminali, sessuali che la attraversano. Perché questa non è solo la storia drammatica della scomparsa di una ragazza di quindici anni, ma molto di più. E per come si cerchi di scomporlo e ricostruirlo, il mistero che la contiene conduce sempre nello stesso luogo, impenetrabile. Il Vaticano.
Con una costante, che da qualsiasi punto di vista la si voglia affrontare e raccontare è ormai evidente che per arrivare in fondo (possibilmente a ritrovarla, viva o morta come dice con ostinazione e amore suo fratello Pietro Orlandi), è necessario mettere nel conto che questo tempo trascorso nasconde una doppia verità. La prima riguarda il suo destino. La seconda il ricatto imbastito su di lei, viva o morta appunto, per estorcere al Vaticano del denaro. Una montagna di denaro.
Trovare il filo che congiunge queste due verità sta diventando sempre più difficile. Dal pomeriggio del 22 giugno 1983, quando Emanuela uscì dalla scuola di musica dietro Piazza Navona e svanì nel nulla, gran parte delle persone direttamente o indirettamente coinvolte in questa storia sono morte: preti, monsignori, cardinali, criminali, finanzieri.
Anche un Papa: Giovanni Paolo II, poi diventato santo. Ma il tempo in qualche caso aiuta.
Perché un'amica di Emanuela ha deciso per la prima volta di rivelare un segreto di cui lei la mise al corrente e lo ha fatto in Vatican girl, minuziosa docuserie scritta e diretta da Mark Lewis (prodotta da Chiara Messineo con Tom Barry e Dimitri Doganis per Raw) in esclusiva su Netflix dal 20 ottobre. Ebbene, quel segreto ruota intorno all'interesse sessuale di un altissimo prelato, che si manifestò con un approccio all'interno delle Mura vaticane e turbò moltissimo Emanuela proprio alla vigilia della sua scomparsa. È davvero questa la spiegazione del mistero? Una sporca storia di pedofilia?
La docuserie racconta i due tempi in questo giallo. Il primo, che ha a che fare con ciò che accadde il giorno in cui Emanuela non rientrò a casa.
Si fece convincere a salire in macchina da qualcuno che le aveva promesso un lavoro, come sostengono alcuni testimoni? E il secondo tempo. Che coinvolge il Vaticano, il Papa che si appellò dalla finestra del suo appartamento a «coloro i quali» erano responsabili della sua scomparsa (cosa sapeva, cosa gli avevano detto?) e la Terra Sommersa.
Non quella di mezzo di mafia Capitale ma molto più profonda e violenta, in cui la legge era dettata dalla criminalità organizzata, da quella Banda della Magliana che Enrico «Renatino» De Pedis aveva in parte trasformato in una sorta di service a disposizione dei poteri occulti, in grado di ricattare, uccidere e sequestrare. Ed è certamente questa - il legame tra la Terra Sommersa e i traffici dello Ior, la banca del Vaticano allora guidata dallo spregiudicato monsignor Paul Marcinkus - una delle piste principali che si intrecciano con questa storia senza fine.
Perché se quello di Emanuela non fu un rapimento su commissione di un potente pedofilo annidato all'interno del Vaticano, di sicuro la sua scomparsa fu usata come strumento di ricatto da chi (un'organizzazione mafiosa?) pretendeva dallo Ior la restituzione di una montagna di denaro che invece di essere riciclato era sparito nel crac da 1.200 miliardi di lire del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (poi «suicidato» a Londra sotto il Ponte dei Frati Neri), di cui monsignor Marcinkus era corresponsabile. Un ricatto senza mai fornire la prova in vita di Emanuela, ma talmente inconfessabile da costringere il Vaticano a trattare. E così fu.
Con una coda di altri ricatti incrociati, documenti falsificati, intrecci internazionali (il killer mancato del papa Ali Agca, la Polonia di Solidarnosc cara a Giovanni Paolo II), e un silenzio lungo quasi quarant' anni e tre pontificati che ha devastato una famiglia che da lì dove tutto è cominciato attende ancora risposte.
Caso Orlandi, lettera di Andreotti: la richiesta di aiuto di Don Vergari per il boss della Magliana. Chiara Nava il 12/08/2022 su Notizie.it.
Sono emersi scambi epistolari tra Giulio Andreotti e Don Vergari. Il rettore della Basilica di Sant’Apollinare chiese aiuto per il presunto boss.
Sono emerse delle lettere nascoste in cui Giulio Andreotti e Don Vergari comunicavano. Il rettore della Basilica di Sant’Apollinare chiese al capo del governo aiuto per il presunto boss della Banda della Magliana.
Sono emersi scambi epistolari tra Giulio Andreotti e Don Vergari, che mostrano i movimenti di Andreotti, a fine anni ’80, per la famiglia De Pedis, ovvero l’uomo indicato da pentiti e poliziotti come boss della Banda della Magliana, anche se non è mai stato condannato. Nel 1989 il rettore della Basilica di Sant’Apollinare, Don Vergari, ha scritto al capo del governo italiano per chiedergli un favore per il fratello di Enrico De Pedis, alias Renatino, ovvero Marco De Pedis.
“La sera del 18 agosto sono intervenuti nel ristorante per un controllo gli agenti di polizia, stilando un verbale, perché Jean e Taddeo, avevano il certificato di robusta e sana costituzione fisica fatto nella Caritas e secondo gli agenti non era sufficiente. Marco De Pedis, proprietario del locale, avrà dei problemi per questo” si legge. “La pratica è presso il commissariato di Trastevere. Non mi sembra giusto infierire e far avere dei dispiaceri a Marco De Pedis” ha scritto ancora Don Vergari ad Andreotti, come riportato da La Repubblica.
Il sacerdote è stato indagato nel 2021 per la scomparsa della 15enne Emanuela Orlandi, ma l’accusa è stata archiviata.
La risposta di Andreotti
Il 9 ottobre 1989 è arrivata la risposta di Andreotti. “Le assicuro che me ne interesserò nei limiti del possibile” ha scritto. Repubblica ha riportato che a novembre Claudio Vitalone, sottosegretario di stato per gli affari esteri, ha scritto a Carlo Zaccaria, segretario particolare del premier, per informarlo di aver contattato gli organi di polizia che però avevano già trasmesso il verbale, rendendo impossibile qualsiasi intervento.
I rapporti tra Don Vergari e Andreotti erano così buoni da scambiarsi lettere per aiutare il fratello del boss mafioso Renatino. Un elemento che era già emerso durante le indagini sul caso Orlandi, negli interrogatori di Sabrina Minardi, amante del boss, che non venne mai creduta.
Caso Orlandi, la lettera segreta di Andreotti. Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 12 agosto 2022.
Così l'allora presidente del Consiglio si prodigò dopo la richiesta di monsignor Vergari per aiutare il fratello del capo della banda della Magliana, Renatino De Pedis finito poi nell'inchiesta sul rapimento della ragazza. I carteggi vennero sequestrati al prelato indagato per la 15enne sparita e poi scagionato
Giulio Andreotti si interessò in prima persona della famiglia De Pedis, la famiglia dello storico boss della Banda della Magliana. All'epoca, era il 1989, il leader della Dc era il primo ministro. Non si tirò indietro quando Don Piero Vergari, l'allora rettore della Basilica di Sant'Apollinare, gli chiese di intervenire a favore del fratello di "Renatino".
Giuseppe Scarpa per “la Repubblica - Edizione Roma” il 12 agosto 2022.
Giulio Andreotti si interessò in prima persona della famiglia De Pedis, la famiglia dello storico boss della Banda della Magliana. All'epoca, era il 1989, il leader della Dc era il primo ministro. Non si tirò indietro quando Don Vergari, l'allora rettore della Basilica di Sant' Apollinare, gli chiese di intervenire a favore del fratello di "Renatino".
Quel " Renatino" che poi venne tumulato proprio nella Basilica con attestati da " buon cristiano" decantati proprio da Don Vergari. Sacerdote che nel 2012 finì indagato, poi l'accusa venne archiviata, per il caso della scomparsa di Emanuela Orlandi. Un'inchiesta, quella sul rapimento della 15enne figlia di un messo pontificio, che vedeva in alcuni componenti della Banda della Magliana gli esecutori materiali del sequestro.
Lo scambio Vergari - Andreotti è scritto nero su bianco nelle lettere di cui Repubblica è in possesso.
Missive che portano il bollo della presidenza del Consiglio dei ministri. È il 29 agosto del 1989 quando il monsignore scrive al premier: « Mi rivolgo a lei ( Andreotti, ndr) perché possa intervenire nella maniera idonea a risolvermi questo problema. In questo frattempo di agosto ho pregato un mio bravo amico di Trastevere, Marco De Pedis ( fratello di " Renatino", ndr), proprietario del ristorante Popi Popi, perché potesse far fare un pò di lavoro a due» persone, si tratta di due polacchi ospiti a Sant' Apollinare. «Marco mi ha voluto accontentare, ma lo faceva per me e per don Enrico che insieme avevamo benedetto il matrimonio di suo fratello ( Renatino, ndr)».
La lettera prosegue con la richiesta di un favore. «La sera del 18 agosto sono intervenuti nel ristorante per un controllo gli agenti di polizia, stilando un verbale, perché Jean e Taddeo, avevano il certificato di robusta e sana costituzione fisica fatto nella Caritas e secondo gli agenti non era sufficiente. Marco De Pedis, proprietario del locale, avrà dei problemi per questo. La pratica è presso il commissariato di Trastevere. Non mi sembra giusto infierire e far avere dei dispiaceri a Marco De Pedis. La ringrazio per quanto farà in proposito». La risposta del presidente del Consiglio arriva il 9 ottobre 1989.
«Caro Monsignore, ho ricevuto la sua lettera nella quale mi parla del caso del sig. De Pedis. Le assicuro che me ne interesserò nei limiti del possibile». Andreotti sarà di parola. Anche se « il 21 novembre successivo ( 1989, ndr) il sottosegretario di stato per gli affari esteri, Claudio Vitalone, scrive a Carlo Zaccaria, segretario particolare del premier, informandolo di aver contattato gli organi di polizia che però avevano già trasmesso il relativo verbale rendendo impossibile ogni intervento».
Insomma Don Vergari aveva ottimi rapporti con il leader della Dc. Il monsignore li aveva anche con " Renatino", tanto da chiedere un intervento per il fratello del boss ad un primo ministro. Inoltre De Pedis aveva un appartamento con la moglie, alla fine degli anni Ottanta, le cui finestre erano accanto a quelle dell'ufficio di Andreotti nel centro storico di Roma. Durante l'indagine sulla scomparsa dell'Orlandi, Sabrina Minardi amante del criminale, disse più volte che il boss e il politico si conoscevano e si frequentavano.
Quasi tutta la deposizione della Minardi venne però considerata dai magistrati non veritiera. Eppure qualche cosa forse torna. Per Maurizio Abbatino esponente di spicco della Magliana «la Minardi mischia il vero e il falso».
La donna sentita dai pm nel 2008 disse: « Io andai anche a cena a casa di Andreotti, con Renato. - aveva raccontato la donna alla squadra mobile - Ovviamente davanti a me non parlavano due volte ci sono andata Renato ricercato La macchina della scorta sotto casa di Andreotti della polizia Renato ricercato, siamo andati su eh accoglienza al massimo». In un'intervista Andreotti disse: «io non l'ho conosciuto». E poi alla domanda come mai un criminale è stato sepolto in una Basilica? Replico così: « L'unica spiegazione e che fosse un benefattore della chiesa. Ecco, magari non era proprio un benefattore per tutti. Ma per Sant' Apollinare sì».
Giuseppe Scarpa per “la Repubblica - Edizione Roma” l'11 agosto 2022.
«Sul caso Orlandi ora dovrebbe dire la sua il Vaticano». A parlare è Maurizio Abbatino, fondatore della Banda della Magliana assieme a Franco Giuseppucci. Memoria storica della criminalità capitolina in Romanzo Criminale è il Freddo adesso dice la sua sui fatti di quegli anni. Il racconto parte dalla fine della Banda: «La frattura tra le due anime che la componevano fu insanabile».
Da un lato i «testaccini» guidati da Renatino De Pedis, dall'altro i «maglianesi» alla cui testa c'era proprio Abbatino. La contesa deflagra il 27 aprile del 1982, quando Danilo Abbruciati si presenta a Milano per uccidere il vice presidente del Banco Ambrosiano, Roberto Rosone. A morire, però, sarà Abbruciati, ucciso da una guardia giurata. Abbatino e i suoi non erano stati informati del blitz. Un insulto per i «maglianesi», a quel punto pronti a fare la guerra agli ex amici «testaccini».
La Banda, insomma, era ai titoli di coda. Destinata a dissolversi con il suo carico di misteri insoluti. «Loro (i «testaccini», ndr) custodivano una serie di segreti che non condividevano con noi», spiega Abbatino. L'ex boss da anni ha scelto la strada della collaborazione con la giustizia, anche se oggi non gode più della protezione da parte dello Stato.
Uno dei segreti dei "testaccini" riguarda il rapimento di Emanuela Orlandi?
«Non ho informazioni di prima mano su questo. Quello che è a mia diretta conoscenza riguarda i rapporti che De Pedis coltivava con il Vaticano. Erano rapporti solidi, di primo livello. Li aveva ereditati da Franco Giuseppucci (assassinato il 13 settembre 1980, ndr). Sul caso Orlandi ora dovrebbe parlare il Vaticano».
Sta dicendo che eravate in contatto con la Santa Sede?
«Quando la Banda era unita, a fine anni Settanta, organizzammo l'evasione di un ragazzo dal carcere minorile di Casal del Marmo. In realtà ne evasero tre, tra cui Giuseppe Mastini (Johnny lo Zingaro, ndr). Ad ogni modo avevamo potuto contare su un aiuto interno. Quello di Agostino Casaroli futuro segretario di Stato in Vaticano».
Come venne organizzata la fuga?
«La organizzai io in prima persona. Giuseppucci mi mise in contatto con un sacerdote che prestava servizio dentro il penitenziario. Casaroli appunto. Lui mi fece entrare per parlare con il giovane che doveva evadere. Poi, mi pare, il giorno successivo ci fu la fuga a cui si aggiunsero gli altri due minorenni».
Poi cosa accadde?
«Anni dopo morì Giuseppucci e quel pacchetto di conoscenze finì a De Pedis. Casaroli tra la fine degli anni '70 e tutti gli anni '80 fu un uomo potentissimo in Vaticano»
Ci furono altri favori di cui benficiò la Banda?
«De Pedis, sempre su interessamento di Casaroli, venne trasferito in un'ala meno dura di Rebibbia. Comunque già nel 1982 i rapporti tra noi erano deteriorati. Noi stavamo studiando un piano per ucciderli. Oltre al caso di Abbrucciati i "testaccini" non ci avevano detto di essere in rapporti con Cosa Nostra per il rifornimento della droga. Noi (quelli della Magliana, ndr) avevamo scelto la camorra di Cutolo».
Proprio in quel periodo venne rapita Emanuela Orlandi. Per Sabrina Minardi, allora amante di De Pedis, l'esecutore materiale fu Renatino. Mente?
«Secondo me non del tutto. O meglio mischia cose vere e cose false. Furono, comunque, anni folli».
A cosa si riferisce?
«Durante la detenzione succedeva di tutto. C'era un dirigente medico di Rebibbia che scriveva tutte le cartelle cliniche false per farci ricoverare - detenere nel reparto infermiera. Era un reparto più confortevole rispetto alla detenzione ordinaria, ma si trovavano solo detenuti importanti che non avevano nessun problema fisico. Mi ricordo che ci trovai Mehmet Ali Aca e in quel reparto c'erano tutti tranne quelli in cui ne avevano bisogno».
Giuseppe Scarpa per “la Repubblica - Edizione Roma” il 10 agosto 2022.
«Enrico Nicoletti disse che era preoccupato per "quella ragazza" che era seppellita nella costruzione di Torvaianica, "quella ragazza che seppellirono alle nostre spalle", anche se "dovrebbero buttare giù la casa per trovarla"». Sono le parole di Raffaello Fanelli, uomo di fiducia di Enrico Nicoletti, l'ex cassiere della Banda della Magliana.
Fanelli a ottobre del 2008 racconta agli investigatori la sua verità. Non era stato l'unico, però, a riferire agli agenti della squadra mobile che il corpo della 15enne era stato seppellito a Torvaianica. La prima a citare la cittadina sul litorale sud romano era stata Sabrina Minardi, l'amante di De Pedis nei prima anni Ottanta. La donna interrogata dai pm a giugno del 2008, rivelò che Emanuela sarebbe stata uccisa e il suo corpo, rinchiuso dentro un sacco, gettato in una betoniera.
Tuttavia Minardi non riuscì mai ad indicare con precisione il cantiere in cui, secondo la sua versione, venne fatto sparire il cadavere della figlia del messo pontificio.
Ad ogni modo la polizia, a settembre del 2008, si recò nel carcere di Napoli Poggioreale, dove era detenuto Fanelli.
Questo sono alcuni passaggi delle sommarie informazioni: «Poco prima o subito dopo l'omicidio di Renatino De Pedis, all'interno dell'autosalone Tuscolano - raccontò Fanelli - Enrico Nicoletti in mia presenza parlò con suo figlio Toni di una verifica che la Guardia di Finanza stava facendo a una sua società di costruzione, penso si chiamasse Vuma. (...) Nicoletti disse a suo figlio che era preoccupato non per la verifica della Finanza, ma per "quella ragazza" che era seppellita nella costruzione di Torvaianica. Nicoletti disse che si trattava di "quella ragazza che seppellirono alle nostre spalle", intendendo che qualcuno lo fece senza dirgli nulla prima. Comunque, per tranquillizzare il figlio, disse: "Dovrebbero buttare giù la casa per trovarla". Da quello che ho potuto apprendere Emanuela Orlandi morì subito dopo il sequestro per un "incidente" e per questo la Banda della Magliana la seppellì nella costruzione».
L'inchiesta è stata poi archiviata nel 2015. Una richiesta di archiviazione che aveva suscitato una contrapposizione in procura. Da una parte l'allora procuratore capo Pignatone che riteneva legittimo terminare l'indagine che andava avanti da diversi anni. Dall'altro il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo che insisteva per proseguire l'inchiesta.
"Emanuela Orlandi l'ho rapita io": la confessione shock dell'uomo di fiducia del boss della Magliana. Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 6 agosto 2022.
Per il sequestro Marco Sarnataro venne ripagato da Enrico De Pedis, capo della sanguinaria banda, con una Suzuki 1100. Pedinò per alcuni giorni la giovane e poi ebbe il via libera per "prelevarla". La rivelazione nell'interrogatorio del padre.
Il figlio aveva rapito Emanuela Orlandi. Marco Sarnataro, morto nel 2007 a 46 anni, faceva parte del commando che, per conto della Banda della Magliana, aveva prelevato la figlia del messo pontificio il 22 giugno del 1983. Salvatore Sarnataro, classe 1940, padre del sequestratore, con diversi precedenti penali alle spalle, lo aveva confermato alla squadra mobile.
Giuseppe Scarpa per “la Repubbilca - Edizione Roma” il 9 agosto 2022.
«L'ho fatto per soldi». Le parole sono di Sergio Virtù. Non uno qualsiasi nella mala romana. Autista e guardaspalle di Enrico De Pedis, boss della Banda della Magliana. È lui l'uomo indicato da tre diversi testimoni come uno dei protagonisti del rapimento di Emanuela Orlandi. A tutto ciò si aggiunge l'intercettazione tra Virtù e la sua fidanzata dell'epoca.
È il 20 dicembre del 2009. L'uomo di fiducia di De Pedis capisce di essere in quel momento indagato dai pm. La compagna è spaventata lo chiama al cellulare. Teme che lo possano arrestare. Ecco i principali passaggi della loro conversazione: «Di notte - le dice la donna - ti ho mandato un messaggio, visto che abbiamo parlato, io ancora stavo sveglia, non riuscivo a dormire. Ho guardato internet, questa cosa che mi hai detto tu. Questa Olanda, Olinda». «Orlandi, Orlandi», replica Virtù. «C'è qualcosa di concreto per... » , chiede la compagna. «.......(silenzio, sospira) Bè quando ci vediamo a voce te lo dico. Mo l'hai capito perché cambio sempre i numeri (del cellulare, ndr)?».
La conversazione prosegue: «Ti assicuro una cosa - sottolinea la compagna - io ti voglio bene. A me non interessa quello che è successo nel tuo passato, nel tuo presente e che succederà nel tuo futuro, questa cosa non...». «Sì per carità purtroppo quando ero giovane - ammette Virtù - stavo in un ambiente un po’ particolare eravamo tutti scapestrati. Però mica che mi pento di quello che ho fatto. Non me pento, te dico la verità, l'ho fatto per soldi e non me ne frega niente de quello che ho fatto».
Poco dopo l'intercettazione Virtù viene interrogato dalla squadra mobile. Gli agenti gli chiedono conto di quelle parole. Di quel discorso sui soldi, sull'Orlandi, sul fatto che avrebbe raccontato alla sua compagna, in privato, e non al telefonino, tutto quello che sapeva sul caso della 15enne scomparsa il 22 giugno del 1983. Questo è ciò che risponde alla polizia e che gli investigatori sintetizzano così: «Nega di essere lui l'uomo che si sente nella telefonata, nonostante fosse a lui riconducibile l'utenza intercettata». Dopodiché non compare agli atti dell'inchiesta una comparazione della sua voce con quello dell'uomo che parla al cellulare con la donna.
Caso chiuso. Come l'inchiesta nel complesso, di fatto poi archiviata nel 2015, nonostante all'interno della procura - tra procuratore capo e aggiunto - ci fossero opinioni differenti. Radicalmente diverse. Un'indagine che Pietro Orlandi e il suo avvocato Laura Sgrò vorrebbero, adesso, che venisse riaperta.
Ma ecco come Sergio Virtù entra nell'indagine. La prima a parlarne è Sabrina Minardi, amante di De Pedis tra il 1982 e il 1984. La Minardi, in una testimonianza resa il 4 giugno 2008 alla polizia, racconta l'episodio in cui lei, dopo il rapimento dell'Orlandi è incaricata di portare la ragazza in Vaticano. Questa la sintesi dell'interrogatorio: «Minardi si recò insieme a De Pedis al Gianicolo, nei pressi dell'omonimo bar, dove vennero raggiunti da tale Sergio (Virtù. Minardi lo riconoscerà in una foto che le verrà mostrata, ndr) a bordo di un'auto Bmw che recava con sé la ragazza (Orlandi, ndr)».
Dopo la Minardi è la volta di Salvatore Sarnataro, padre di Marco morto nel 2007. Sarnataro senior, il primo ottobre 2008, racconta agli investigatori che il figlio gli confessò il rapimento dell'Orlandi su ordine di De Pedis.
Secondo Sarnataro, il figlio con due complici sequestrò Emanuela, la caricò su un Bmw e poi la consegnò a Virtù ai laghetti dell'Eur. Infine il pedinamento. Un'amica di Emanuela, Gabriella, i primi di settembre del 2008, riconosce in un album fotografico che gli viene mostrato dalla polizia (18 foto) Sergio Virtù come l'uomo che toccò il braccio della 15enne dicendo " eccola", pochi giorni prima del rapimento.
GIUSEPPE SCARPA per la Repubblica - Roma il 6 Agosto 2022.
Il figlio aveva rapito Emanuela Orlandi. Marco Sarnataro, morto nel 2007 a 46 anni, faceva parte del commando che per conto della Banda della Magliana aveva prelevato la figlia del messo pontificio il 22 giugno del 1983. Salvatore Sarnataro, classe 1940, padre del sequestratore, con diversi precedenti penali alle spalle, lo aveva confermato alla squadra mobile. I poliziotti lo avevano sentito come testimone. Gli agenti l'avevano ascoltato dopo che due amici della 15enne rapita avevano riconosciuto senza ombra di dubbio nel figlio Marco (tra numerose foto che gli vennero mostrate) quel giovane che li seguiva da tempo in modo ossessivo salvo poi svanire nel nulla proprio dopo il sequestro.
Sarnataro rappresentava la bassa manovalanza criminale della "Banda" e niente più. Per il rapimento venne ripagato da Enrico De Pedis, il boss, con una Suzuki 1100. Ecco il verbale, inedito, reso nell'ottobre del 2008, durante un'inchiesta della procura di Roma che stava dando i suoi frutti e che forse è stata archiviata troppo frettolosamente come hanno sempre sostenuto i familiari di Emanuela.
«Dopo aver lungamente riflettuto ho deciso di riferire alle signorie vostre - spiega Salvatore Sarnataro ad ottobre del 2008 - quanto appreso da mio figlio Marco alcuni anni fa in relazione alla vicenda di Emanuela Orlandi. Poco tempo dopo il sequestro, ricordo che eravamo Regina Coeli, sia io che mio figlio ( accusati per spaccio e detenzione di armi, ndr). Quest' ultimo durante l'ora d'aria mi confessò di aver partecipato al sequestro dell'Orlandi nei termini seguenti: mi disse che per diversi giorni, sia lui che "Ciletto" (Angelo Cassani, ndr) e "Giggetto" (Gianfranco Cerboni, ndr), pedinarono Orlandi per le vie di Roma su ordine di Renato De Pedis, da loro chiamato il "Presidente" (il boss della Banda della Magliana, ndr). Mio figlio mi disse che dopo averla pedinata per alcuni giorni, ebbero da De Pedis l'ordine di prelevarla.
Marco mi riferì che l'avevano fatta salire su una Bmw berlina a piazza Risorgimento ad una fermata dell'autobus. La ragazza salì sulla macchina senza problemi. Almeno questo mi raccontò Marco. Mio figlio mi disse che erano stati sempre loro a prelevare la ragazzina non mi specificò se erano tutti e tre. Di certo c'era Marco e uno tra "Giggetto" e "Ciletto", però potevano essere anche tutti e tre perché Marco usò l'espressione "l'abbiamo presa". Quindi la condussero al laghetto dell'Eur dove li stava aspettando Sergio, che era l'autista e uomo di fiducia di De Pedis. Stando al racconto di Marco, sia la ragazza che l'autovettura vennero prese in consegna da Sergio. Venni a sapere poi che mio figlio, per questa cortesia, ebbe in regalo una moto Suzuki 1100. Non mi ricordo se Marco mi disse chi gli avesse dato la moto, se Raffaele Pernasetti (esponente di spicco della Banda della Magliana, ndr), oppure un'altra persona. Io non so davvero perché Marco decise di raccontarmi del suo ruolo nel sequestro dell'Orlandi, io compresi subito che stava passando un periodo di paura».
"Emanuela rapita da lui". Spunta l'identikit: cosa faceva alla Orlandi. Due amici di Emanuela riconobbero il presunto rapitore della ragazza: "Le toccò il braccio mentre camminava. Disse 'eccola, è lei'". Rosa Scognamiglio il 7 Agosto 2022 su Il Giornale.
Prima di essere rapita, il 22 giugno 1983, Emanuela Orlandi sarebbe stata pedinata per giorni. Due amici della 15enne, Angelo R. e Paola G., riconobbero in una foto segnaletica il presunto sequestratore. Si trattava di tal Marco Sarnataro, uno degli scagnozzi di Enrico De Pedis, il boss del Magliana. Sarnataro confessò al padre, Salvatore, di aver rapito Emanuela per ordine di Renatino. La confessione fu messa a verbale il 24 settembre del 2008. Ma con l'archiviazione dell'inchiesta, nel 2015, la pista che legava la malavita capitolina alla misteriosa scomparsa della figlia del messo vaticano sfumò rapidamente.
"Ho rapito io Emanuela Orlandi": la confessione choc
I verbali degli amici di Emanuela
La chiave di volta del "giallo" potrebbe essere nei verbali di Angelo e Paola che, il 22 settembre del 2008, furono sentiti in qualità di testimoni dagli agenti della Mobile coordinati da Vittorio Rizzi. I due ragazzi indicarono, tra le 18 fotografie di pregiudicati mostrategli dagli investigatori, proprio Marco Sarnataro. Stando a quanto scrive la Repubblica, Angelo avrebbero ricordato due episodi in particolare. Uno, confermato anche da Paola, è a dir poco rabbrividente. "Il 19 o 20 giugno 1983" la comitiva di amici, tra cui vi era anche Emanuela, venne affiancata da un'auto "in via dei Corridori". A bordo della vettura ci sarebbero stati due giovani; quello al lato del conducente si sarebbe sporto dal finestrino e toccando il braccio della 15enne avrebbe esclamato: "Eccola, è lei".
Pietro Orlandi: "Emanuela? In Vaticano sanno. Lo ammisero, ma poi..."
La rivelazione
Due giorni dopo aver messo nero su bianco le dichiarazioni dei ragazzi, gli agenti della Mobile interrogarono Salvatore Sarnataro, il padre del presunto rapitore, morto all'età di 46 anni nel 2007. Dopo aver indugiato, chiedendo "48 ore per riflettere", Sarnataro decise di raccontare quanto gli avrebbe riferito il figlio durante l'ora d'aria a Regina Coeli (erano entrambi detenuti per spaccio e detenzione illegale di armi ndr). "Mio figlio rapì Orlandi su richiesta di De Pedis. - spiegò agli inquirenti -Mi confessò di aver partecipato al sequestro dell'Orlandi nei termini seguenti: mi disse che per diversi giorni, sia lui che 'Ciletto' (Angelo Cassani, ndr) e 'Giggetto' (Gianfranco Cerboni, ndr), pedinarono Orlandi per le vie di Roma su ordine di Renato De Pedis, da loro chiamato il 'Presidente' (il boss della Banda della Magliana, ndr)".
Il pedinamento
Ad avvalorare il racconto di Sarnataro è il verbale di Angelo che racconta in modo dettagliato e preciso del pedinamento. "Il giorno prima della sua scomparsa ( Emanuela, ndr) c'eravamo dati appuntamento davanti al Vaticano, in via di Porta Angelica, per andare a fare una passeggiata, insieme a noi c'erano altri amici. - spiegò l'amico della 15enne - Da Porta Angelica ci siamo diretti verso via Ottaviano, poi verso viale Giulio Cesare in quanto volevamo andare in una sala giochi. Fin da Porta Angelica ci siamo accorti che un ragazzo di 22 - 23 anni, ci seguiva. Ho avuto l'impressione che si trattasse di un pedinamento: noi camminavamo piano e lui, pur mantenendosi a distanza, adeguava il suo passo al nostro. In viale Giulio Cesare siamo entrati nella sala giochi, ci siamo intrattenuti dieci minuti. Quando siamo usciti il soggetto era fermo davanti alla sala giochi e, non appena abbiamo preso la strada del ritorno verso il Vaticano, lui ha preso a seguirci fino a Porta Sant' Anna. Ricordo che notai che appena Emanuela entrò all'interno del Vaticano, la persona che ci seguiva si dileguò".
Emanuela Orlandi, la svolta-choc: in un documento il nome del rapitore. Libero Quotidiano il 06 agosto 2022.
Il rapitore di Emanuela Orlandi ha un nome e un volto: quello di Marco Sarnataro che, per conto della Banda della Magliana, sequestrò la figlia del messo pontificio il 22 giugno del 1983. Lo rivela Repubblica che ha trovato l'interrogatorio del padre dell'uomo, Salvatore Sarnataro, datato ottobre 2008 (un anno dopo la morte di Marco). Ora a distanza di quasi 15 anni, quel documento spunta fuori da chissà quale cassetto regalando alla cronaca dettagli preziosi. Il verbale, inedito, fa parte dell'inchiesta della procura di Roma che stava dando i suoi frutti sul sequestro e che forse è stata archiviata troppo frettolosamente come hanno sempre sostenuto i familiari di Emanuela.
Dal documento pubblicato su Repubblica risulta che Marco Sarnataro venne ripagato da Enrico De Pedis, boss della banda, con una Suzuki 1100. Sarnataro pedinò per alcuni giorni la giovane e poi ebbe il via libera per "prelevarla". La "confessione" di Marco Sarnataro al padre avvenne durante l'ora d'aria a Regina Coeli (entrambi erano detenuti per spaccio e detenzione di armi): gli disse che per diversi giorni, sia lui che "Ciletto" (Angelo Cassani) e "Giggetto" (Gianfranco Cerboni), pedinarono Emanuela Orlandi per le vie di Roma su ordine di Renato De Pedis, da loro chiamato il "Presidente". "Mio figlio mi disse che dopo averla pedinata per alcuni giorni, ebbero da De Pedis l'ordine di prelevarla. Marco", si legge nel verbale d'interrogatorio, "mi riferì che l'avevano fatta salire su una Bmw berlina a piazza Risorgimento ad una fermata dell'autobus. La ragazza salì sulla macchina senza problemi. Almeno questo mi raccontò Marco. Mio figlio mi disse che erano stati sempre loro a prelevare la ragazzina non mi specificò se erano tutti e tre. Quindi la condussero al laghetto dell'Eur dove li stava aspettando Sergio, che era l'autista e uomo di fiducia di De Pedis. Stando al racconto di Marco, sia la ragazza che l'autovettura vennero prese in consegna da Sergio. Venni a sapere poi che mio figlio, per questa cortesia, ebbe in regalo una moto Suzuki 1100". "Io non so davvero perché Marco decise di raccontarmi del suo ruolo nel sequestro dell'Orlandi", conclude Salavatore Sarnataro, "io compresi subito che stava passando un periodo di grande paura".
L'uomo nero. I delitti e i segreti di Marco Accetti: dalla morte del piccolo Josè al caso Orlandi. Giacomo Galanti, Giuseppe Scarpa. La Repubblica il 28 Luglio 2022.
Il fotografo ha avuto un ruolo in almeno sei casi di cronaca nera della Roma degli anni '80. Oggi è la chiave per il caso di Katty Skerl.
Chi è davvero il fotografo 66enne Marco Fassoni Accetti? L'uomo che il 27 marzo 2013 si è autoaccusato dei sequestri di Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi del 7 maggio e 22 giugno del 1983. Il fotografo che incrocia 6 casi, tra rapimenti e omicidi di ragazzi giovanissimi, all'interno di una lotta intestina in Vaticano. Un modo, secondo Accetti, per lanciarsi messaggi tra due gruppi in feroce lotta, uno che si stringeva attorno a Papa Wojtya e che voleva una politica intransigente contro l'Urss e un altro che, con il blocco comunista, spingeva per una linea meno rigida.
Emanuela Orlandi, la tomba vuota di Katy Skerl e un’etichetta («Frattina») riaprono il giallo. di Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 21 Luglio 2022.
Ispezione nel cimitero Verano: la bara della 17enne uccisa nel 1984 è sparita. Era stato il testimone del caso Orlandi a parlare del furto della cassa e della camicia indossata dalla defunta. Forse recuperata una maniglia d’ottone
Una tomba vuota e un indizio lugubre e sorprendente, che potrebbe contribuire a svelare il mistero Orlandi: l’etichetta applicata sulla camicetta bianca con la quale fu sepolta una ragazza, uccisa alcuni mesi dopo la scomparsa di Emanuela.
A quasi 40 anni di distanza, il giallo della figlia quindicenne del messo pontificio di papa Wojtyla torna d’attualità per gli sviluppi di un altro cold case. La conferma, che ammanta di un velo macabro la vicenda, è arrivata nei giorni scorsi: la tomba di Katy Skerl, la diciassettenne trovata strangolata a Grottaferrata il 21 gennaio 1984, come si sospettava da tempo è vuota. La lapide posta nel Riquadro 115, n° 84 , Fila 2 del Verano, cimitero monumentale di Roma, è stata smurata e la cassa di legno è sparita. Un fatto senza precedenti nella lunga sequenza di delitti e misteri della Roma più nera. Se di furto si è trattato, le indagini ora dovranno accertare anche la probabile complicità di qualche addetto cimiteriale con la banda di criminali necrofori. In ogni caso, anche i gialli di Emanuela Orlandi e della coetanea Mirella Gregori (entrambe sparite nel 1983, la prima il 22 giugno e la seconda il 7 maggio) sembrano riaprirsi.
È stata la Squadra Mobile, su ordine della Procura di Roma, a effettuare il sopralluogo nel settore dov’è sepolta Katy, studentessa di liceo artistico, appassionata di politica (era iscritta alla Fgci), figlia di un regista svedese noto per alcuni film erotici di successo. L’ordine del magistrato era chiaro: togliere la lastra e vedere se la cassa da morto c’era oppure no. Gli investigatori così hanno fatto e, aperto il fornetto, non credevano ai loro occhi: loculo vuoto. La bara era sparita, chissà da quanto tempo. Non è stato confermato, ma pare che all’interno sia stata recuperata una maniglia d’ottone. Sul lato destro c’erano segni di effrazione e di intonacatura, come se qualcuno in precedenza avesse smurato la lapide, salvo poi ricollocarla al suo posto. La tomba è stata recintata da nastri bianchi e rossi e al marmo è stato attaccato un foglio intestato Questura di Roma con su scritto: «Sottoposto a sequestro penale». Di certo l’inchiesta della Procura (procedimento penale n. 94215) è stata aperta di recente, in base a una rivisitazione degli indizi.
Lo stato del sepolcro di Katy al Verano, in effetti, rappresentava da tempo un punto sospeso, uno dei misteri collaterali del giallo della “ragazza con la fascetta”. Nel 2013 fu il fotografo romano e reo confesso del caso Orlandi - quel Marco Accetti che consegnò il flauto, subito riconosciuto dai familiari come quello della loro congiunta - a dichiarare che l’omicidio Skerl andava inquadrato nello stesso contesto. La diciassettenne, a suo dire, era stata uccisa dalla fazione opposta a quella che aveva rapito Emanuela Orlandi: un terribile gioco di ricatti sulla pelle di ragazzine, legati alle forti tensioni di quegli anni all’ombra del Vaticano (scandalo Ior, attentato al Papa, nomine controverse).
A suggello delle sue affermazioni, Accetti ((nel frattempo indagato per sequestro di persona e occultamento di cadavere) mise a verbale che la tomba era vuota, in quanto la bara era stata portata via con l’obiettivo di eliminare una prova del collegamento con la sparizione di Emanuela. Quale? La camicetta bianca indossata dalla defunta, e in particolare l’etichetta «Frattina 1982» applicata sul collo. Si trattava di una parola «non casuale», aveva specificato il supertestimone: in uno dei comunicati di rivendicazione del sequestro Orlandi, giunto nell’estate del 1983, effettivamente appariva, assieme ad altre tracce in codice, la parola «Frattina», mai decrittata dagli inquirenti.
Le rivelazioni di Marco Accetti, oggi 67enne, finirono agli atti dell’inchiesta Orlandi nel periodo in cui fu indagato (2013-2015), e ad esse non fu dato seguito dall’allora procuratore Giuseppe Pignatone, il quale chiese e ottenne dal gip l’archiviazione del fascicolo e il proscioglimento dello stesso fotografo e degli altri cinque indagati (dal sacerdote Pietro Vergari a Sabrina Minardi, ex amante del boss “Renatino” De Pedis). Il titolare delle indagini fin dal 2008, il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, si pronunciò in senso opposto e dovette rinunciare all’inchiesta. Sulla questione-tomba fu anche depositato in Procura un esposto, da parte dell’avvocato Giovanni Luigi Guazzotti, allora difensore di Accetti.
Adesso, a quanto pare, l’orientamento a Piazzale Clodio è mutato. Una novità che potrebbe gettare luce sull’intera filiera della Vatican connection ((il fotografo ha dimostrato di sapere molto anche sulla scomparsa della 21enne Alessia Rosati, nel 1994)) e che, di certo, pone due domande inquietanti. Dove è finita la bara con il corpo della povera Katy? Chi sono i macabri mestatori che si sono intrufolati al Verano?
Fabrizio Peronaci per roma.corriere.it il 23 luglio 2022.
«Una ragazza con funzioni di spia entrò nell’obitorio ...» «Il corpo della Skerl era stato appena deposto...» «La cassa da morto uscì da un cancello controllato, beffando la vigilanza...» È un viaggio macabro e ai confini dell’incredibile quello intrapreso dalla Procura di Roma per fare luce sull’ultimo mistero della Vatican connection: perché la bara di Katy Skerl, la 17enne uccisa nel 1984, è stata rubata?
L’inchiesta giudiziaria per sottrazione di cadavere ha portato la Squadra Mobile al cimitero Verano dove, nel sopralluogo tenuto il 13 luglio, si è avuta l’inquietante conferma: il loculo, così come da «imbeccata» del superteste del caso Orlandi, era vuoto. La cassa di legno è sparita. Dentro, c’era solo una maniglia d’ottone, dettaglio peraltro di cui lo stesso personaggio aveva già parlato. La famiglia di Katy è caduta dalle nuvole: «Non ce l’aspettavamo, è stato un duro colpo», ha detto una cugina. E adesso, per gli investigatori, si profila la sfida più difficile: mettere ordine nell’intrigo, studiare le connessioni con altri misteri, capire perché i resti di una vittima di omicidio, quasi 40 anni dopo, possano ancora «scottare».
La catena è da brividi. Katy Skerl, studentessa del liceo artistico di via Giulio Romano, abitante con la mamma (separata) e il fratello a Montesacro, quel 21 gennaio di 38 anni fa, un sabato, aveva appuntamento alle 19 con un’amica sulla Tuscolana, per andare a sciare insieme a Campo Felice il giorno dopo. Ma non arrivò. Fu trovata strangolata la domenica mattina ai margini di una vigna a Grottaferrata. Un maniaco? Un’oscura vendetta? Omicidio dimenticato fino al 2015, quando Marco Accetti, il fotografo che due anni prima si era autodenunciato del sequestro di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori (scomparse nel 1983), iniziò a parlare anche del giallo Skerl.
È da qui che si deve partire: il personaggio-chiave degli ultimi sviluppi è lui. Fondamentale la cronologia. Nella primavera 2015, dopo 13 interrogatori, gli investigatori concludono che Accetti non abbia fornito elementi di autoaccusa sufficienti: la consegna del flauto riconosciuto dai familiari come quello di Emanuela (compresa una specifica abrasione a un angolo della custodia), la quasi identità tra la sua voce e quella del telefonista soprannominato «l’Amerikano» e la conoscenza di molti dettagli non bastano a considerarlo attendibile. L’allora procuratore Giuseppe Pignatone chiede al gip l’archiviazione. E allora lui che fa? Si «vendica» rendendo pubblici i retroscena del delitto di Grottaferrata. Una sfida per dire: altro che mitomane, state a sentire, così imparate a non credermi sulla Orlandi...
Così nasce l’affaire Skerl. L’indicazione del «cenotafio vuoto» al riquadro 115 fu Accetti a pubblicarla nel suo blog, addirittura l’8 settembre 2015. Ci sono voluti quasi sette anni a scoperchiare quella tomba (ulteriore indice della delicatezza del caso) e adesso, verificato che la bara è stata rubata davvero, torna inevitabilmente alla ribalta l’intero racconto.
La versione dell’«uomo del flauto» (famiglia agiata, infanzia in scuole cattoliche, papà massone, spiccato anticlericalismo) è che Katy sia stata uccisa per una forma di ritorsione della fazione opposta a quella in cui lui fu ingaggiato per compiere il sequestro Orlandi-Gregori (e attivare i conseguenti ricatti all’ombra della Santa Sede, nel periodo dello scandalo Ior e dei veleni seguiti all’attentato al Papa del 1981). Scenario all’apparenza inverosimile, ma una circostanza (scoperta dal Corriere) potrebbe consolidarlo: compagna di classe di Katy al liceo era la figlia di uno dei funzionari bulgari accusati di essere stati complici di Ali Agca.. Le ragazzine si frequentarono anche a casa, di pomeriggio. Katy fu scelta come «bersaglio» per questo?
Chiariti gli antefatti, arriviamo al racconto-choc dell’equivoco personaggio: «Della mia intenzione di presentarmi in Procura (cosa poi avvenuta solo nel 2013, ndr) resi partecipi nell’aprile 2005, dopo la morte di Wojtyla, alcuni sodali con cui condivisi le responsabilità per i fatti degli anni ‘80. Seppi che alcuni di costoro - ricostruisce Accetti - temevano che io potessi fare i nomi dei responsabili dell’omicidio di Catherine Skerl , per cui si adoperarono a sottrarre uno degli elementi che poteva legare il caso della ragazza a quello delle Orlandi- Gregori». I regolamenti di conti, pare di capire, erano alimentati da un timore: finire in galera, visto che il reato di omicidio non si prescrive.
Marco Accetti mostra di sapere molto della sventurata Katy. «Quando la Skerl fu vestita per essere deposta nella bara, era presente una ragazza che, spacciandosi per parente, insistette per assistere alla preparazione del feretro. Costei ravvisò un certo elemento indosso alla Catherine, e tale dettaglio fu usato in un comunicato del 1984, ed attribuito alla Orlandi».
Siamo al passaggio-chiave. In successive rivelazioni l’ex indagato chiarirà che il «dettaglio» altro non era che l’etichetta della camicetta bianca indossata dalla defunta con su scritto «Frattina 1982», dicitura che si ritrova in un comunicato del 22 novembre 1984 di rivendicazione del sequestro Orlandi, a firma «Turkesh», contenente sette particolari (alcuni astrusi, altri no) elencati dai rapitori per dimostrare alla famiglia il possesso di Emanuela. Una sciarada: «È così che all’epoca funzionavano le operazioni coperte: utilizzando dei codici», ha sempre replicato lui, che sulle mancate verifiche fece presentare un esposto a Piazzale Clodio dal suo avvocato.
Ed eccoci al furto della bara di Katy. È mattino presto, al Verano... «Per impossessarsi di tale elemento (la camicetta, ndr) alcune persone organizzarono nel 2005 una fittizia squadra di addetti ai lavori cimiteriali - rievoca Accetti - e, simulando un lavoro di riesumazione, smurarono il fornetto e lo richiusero dopo aver prelevato la bara». Scena giudicata inverosimile. Almeno fino all’altro giorno...
«Tali persone caricarono la cassa su un carro funebre ed uscirono da uno dei cancelli vigilati, come se si trattasse di un’operazione di traslazione. Lasciarono all’interno della tomba una maniglia che svitarono alla stessa cassa. Tale maniglia raffigurava un angelo. Il significato di tale azione era una sorta di codice. Tra i motivi del trafugamento, vi era anche l’intenzione di esercitare alcune pressioni...» Tornano, i ricatti sulla pelle di giovani vittime inconsapevoli e delle loro famiglie. È di certo questa la parte più complessa dell’inchiesta in corso: ricostruire contesto e movente dei fatti.
La conclusione di Accetti, nel post-imbeccata pubblicato nel settembre 2015 sul suo blog, puntava a chiamarsi fuori... «Se poi veramente dovesse risultare la violazione e il trafugamento della salma, non si pensi possa essere opera del sottoscritto. Le mura ed i cancelli del cimitero monumentale e storico del Verano sono alquanto alti, impensabile farne travalicare una bara notte tempo. Inoltre tale azione necessitava in qualunque modo della partecipazione di più persone...»
Già, che sia entrata in azione una gang - per le modalità dell’azione - è fuor di dubbio. E di conseguenza una domanda va aggiunta alle altre: Accetti copre qualcuno? Poi c’è da chiedersi: perché nel 2013 è uscito allo scoperto auto-accusandosi del rapimento di Emanuela, e preoccupandosi molto di essere creduto? Il fotografo oggi 66enne è stato mandato avanti da qualche misterioso «referente», allocato magari in ambienti altolocati?
L’obiettivo (ferma restando la sua presenza in alcuni passaggi delle vicende) è stato forse favorire un ultimo depistaggio sul movente dell’azione-Orlandi, consegnando alla storia una verità diversa da quella reale? L’uomo del flauto, detta in altri termini, «fa comodo» a qualcuno? I misteri restano e fanno girare la testa, in questa lugubre saga noir. Ma paradossalmente quel loculo buio e vuoto al riquadro 115 del Verano potrebbe regalare inattesi spiragli di luce.
L.d'a. e Giu.Sca. per “la Repubblica - Edizione Roma” il 22 luglio 2022.
Dodici donne uccise in dieci anni. La Capitale al centro di una macabra sequenza di femminicidi. Casi eccellenti, morti meno note. Come unica costante Roma, le sue ombre e i poteri che ne regolano il passo.
Per Otello Lupacchini, il giudice che istruì il maxi-processo alla Banda della Magliana, è possibile collegare tutti quei drammi. Al punto da poter immaginare l'esistenza di una regia unica, di una sola mano, dietro l'orrore.
Da Emanuela Orlandi, scomparsa, a Simonetta Cesaroni, uccisa in via Poma, ci sarebbero diversi punti in comune sulle disgrazie dell'Urbe. Così almeno ipotizza Lupacchini, magistrato in pensione che sul tema ha scritto anche un libro con il giornalista Max Parisi. Il titolo è eloquente: Dodici donne, un solo assassino.
I nomi? Sono quelli di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. Poi Rosa Martucci, Augusta Confaloni, Bruna Vettese, Tea Stroppa, Lucia Rosa, Fernanda Durante, Katty Skerl, Cinzia Travaglia, Marcella Gianitti, Giuditta Pennino e Simonetta Cesaroni, quelle assassinate.
«Tra tutti questi casi ci sono profonde analogie, questo si può dire con tranquillità», afferma la toga in congedo.
Dottor Lupacchini, quali similitudini ha individuato?
«Ce ne sono diverse. l cadaveri sono stati spesso trovati denudati, completamente svestiti. O comunque si faceva notare la mancanza di certi indumenti. Poi ci sono la modalità con cui si sono consumati gli omicidi e le caratteristiche fisiche delle vittime. Elementi che, durante un'attività d'indagine, avrebbero dovuto portare gli investigatori ad ipotizzare una stessa tendenza criminosa».
Veniamo al caso di Emanuela Orlandi. che ne pensa?
«La similitudine, in questo caso, riguarda la modalità con cui è stata approcciata. A Emanuela Orlandi è stata fatta un'offerta per lavorare per l'Avon (che poi si era rivelata una scusa, ndr). Tutte le ragazze sono state approcciate con strane richieste o offerte di lavoro che poi non si sono rivelate vere».
Insomma, sta dicendo che in quegli anni c'era un serial killer a Roma che non è mai stato preso?
«Probabilmente sì, ma le mie ovviamente sono solo ipotesi. Di certo si sarebbero dovute fare indagini più approfondite dal momento che non c'è mai stato alcun arresto per questi 12 casi».
C'è una specificità romana in questa catena di assassini e sparizioni, oppure episodi del genere si sarebbero potuti verificare anche altrove?
«Tutto ciò poteva accadere anche altrove. Eppure tutto si è verificato a Roma, tra il 1982 e il 1990, in un periodo storico ben definito e senza mai un colpevole».
Caso Emanuela Orlandi, il fratello: “Siamo a una svolta. Io e il legale abbiamo elementi in mano”. Valentina Mericio il 22/06/2022 su Notizie.it.
Sono passati esattamente 39 anni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi. Il fratello Pietro ha lanciato un appello a quanti sono a conoscenza del fatto.
A 39 anni esatti di distanza, il caso Emanuela Orlandi potrebbe essere arrivato ad una svolta decisiva. Lo ha fatto sapere il fratello Pietro. L’uomo, sentito da Adnkronos, ha spiegato che lui e l’avvocato sono in possesso di elementi chiave sulla vicenda: “Però ci serve la collaborazione di persone anche che lavorano in Vaticano…”, ha precisato.
Emanuela Orlandi, il fratello lancia un appello. Sul Vaticano: “Non vuole ascoltarci”
L’uomo ha proseguito spiegando a tale proposito che ha provato a mettersi in contatto con persone ritenute a conoscenza del fatto come il Cardinal Abril: “Uno di questi elementi consiste in alcuni messaggi Whatsapp tra due persone vicine a Papa Francesco su telefoni riservati della Santa Sede che parlano di movimenti legati a questa vicenda, di documentazioni su Emanuela, e dicono che ne era al corrente Papa Francesco e il cardinal Abril, che all’epoca era il presidente della commissione cardinalizia dello Ior”.
Quest’ultimo – ha precisato – nonostante i diversi tentativi di contattarlo, non ha risposto: “Gli ho scritto un sacco di messaggi, ma non risponde”.
Pietro Orlandi sostiene di non avere ancora spento la speranza e che anzi, nonostante la disillusione non si è arreso: “Questa volta potrebbe essere quella giusta.
Io la speranza la ho da sempre, ogni volta l’illusione si è trasformata in disillusione ma io non demordo, perché non c’è nessun potere che possa fermare la verità, anche se resta una sola persona a volerla e a pretenderla. E siccome in questo momento qui ce ne sono tante di persone, questo mi fa un immenso piacere e mi da speranza perché moltissime di queste nemmeno la conoscevano Emanuela.
E dopo 39 anni, sono tutte qua”.
Emanuela Orlandi, neanche papa Francesco infrange il muro di gomma del Vaticano: la Santa Sede non riceve i familiari della ragazza. Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 9 Giugno 2022.
Nonostante l'interesse del Pontefice, affinché "venga fatta luce sul caso", niente si è mosso. L'ufficio del promotore di giustizia dopo la lettera di Bergoglio, non ha dato risposta. Eppure, ciò che la famiglia vuole comunicare, potrebbe rappresentare una svolta in merito alla scomparsa della ragazza, avvenuta 39 anni fa.
Pietro Orlandi ha nuove importanti rivelazioni sul caso di Emanuela. Il Papa, informato sull'accaduto, ha risposto positivamente all'appello in una missiva inviata lo scorso febbraio all'avvocato Laura Sgrò, che rappresenta la famiglia della 15enne sparita 39 anni fa.
Nonostante l'interesse del Pontefice, affinché "venga fatta luce sul caso", niente si è mosso in Vaticano. L'ufficio del promotore di giustizia a cui è stato chiesto di fissare un incontro da parte della legale, dopo la lettera di Bergoglio, non ha ad oggi dato alcuna risposta.
Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” il 9 giugno 2022.
Pietro Orlandi ha nuove importanti rivelazioni sul caso di Emanuela. Il Papa, informato sull'accaduto, ha risposto positivamente all'appello in una missiva inviata lo scorso febbraio all'avvocato Laura Sgrò, che rappresenta la famiglia della 15enne sparita 39 anni fa. Nonostante l'interesse del Pontefice, affinché «venga fatta luce sul caso» , niente si è mosso in Vaticano.
L'ufficio del promotore di giustizia a cui è stato chiesto di fissare un incontro da parte della legale, dopo la lettera di Bergoglio, non ha ad oggi dato alcuna risposta. Eppure, ciò che la famiglia vuole comunicare, potrebbe rappresentare una svolta in merito alla scomparsa della ragazza, avvenuta ormai 39 anni fa, il 22 giugno del 1983.
Si riapre, perciò, il caso della 15enne svanita nel nulla. Le nuove rivelazioni in possesso del fratello ruotano attorno al cimitero Teutonico. Proprio qui vennero aperte due tombe a luglio del 2019 da parte dei pm della Santa Sede, nonostante la famiglia ne avesse indicato solo una.
Il sepolcro suggerito dalla fonte di Pietro era vuoto. Tuttavia al suo interno la tomba conteneva una sorta di camera segreta, un ampio vano sotterraneo di 4 metri per 3,70 di recente costruzione.
Ma quando l'avvocata Sgrò, dopo la scoperta, chiese informazioni sulla storia di quella stanza, non ricevette alcuna risposta dagli inquirenti del Vaticano. Nel frattempo le indagini dei pm della Santa Sede, si rivolsero ad un ossario alle spalle della tomba indicata dai parenti di Emanuela. Un'operazione di " distrazione di massa", per gli Orlandi, che servì a distogliere l'interesse proprio su quel sepolcro vuoto su cui insiste il fratello della 15enne scomparsa.
Ebbene la fonte degli Orlandi continua a parlare. Le sue rivelazioni puntano sempre quella tomba nel cimitero Teutonico che avrebbe custodito i resti, o qualche oggetto di Emanuela, fino a poco tempo prima dell'apertura dell'11 luglio del 2019. Adesso quei resti si troverebbero da un'altra parte. «Faccio seguito alla lettera del 28 novembre del 2021 - scrive Papa Francesco - con la quale ella informava circa l'attività di indagine svolta su Emanuela e su alcuni nuovi elementi in suo possesso, mai emersi, che potrebbero permettere di accertare la verità.
Il comune interesse di voler fare luce sul caso ha orientato da sempre la nostra azione e pertanto - sottolinea Bergoglio - sarebbe opportuno che tali elementi siano condivisi con il tribunale dello Stato Vaticano ». Laura Sgrò ha chiesto un incontro. Ma pare che anche il Pontefice si scontri contro il muro di gomma della Santa Sede, ad oggi la legale non è stata ancora ricevuta.
Anticipazione da “Oggi” il 29 dicembre 2021. In un’intervista a OGGI, in edicola domani, l’ex pm Giancarlo Capaldo conferma: «Ho incontrato due persone a cui ho proposto una collaborazione per trovare una verità che, a parole, cercavamo noi magistrati romani e, sempre a parole, sembrava interessare anche al Vaticano. L’impressione è che la loro disponibilità fosse autentica. In che cosa potesse poi consistere il loro aiuto non lo abbiamo potuto verificare, perché i rapporti di fatto si sono interrotti e non c’è stata più la possibilità di lavorare». Secondo indiscrezioni, scrive OGGI, i due emissari sarebbero l’ex comandante della Gendarmeria Domenico Giani e il suo vice Costanzo Alessandrini.
Su OGGI Capaldo risponde anche al suo ex capo Giuseppe Pignatone che in una lettera al Corriere lo ha duramente criticato per non avergli mai riferito nulla: «Non posso che prendere le distanze dalle osservazioni del dottor Pignatone, posso solo dire che dal mio punto di vista sono errate, sono molto parziali e non ricostruiscono correttamente quel che è successo».
Ma sapremo mai la verità su Emanuela Orlandi? «Dovrebbe esserci ancora qualcuno che sa come sono andate le cose. Il problema è che la verità interessa a parole. Nei fatti ho potuto riscontrare che, famiglia a parte, non c’è un grande interesse a scoprire questa verità».
"Emanuela Orlandi? In Vaticano sanno. Lo ammisero, ma poi..." Rosa Scognamiglio il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Il fratello di Emanuela Orlandi, Pietro, rivela a ilGiornale.it i dettagli di una trattativa tra l'ex procuratore di Roma e il Vaticano: "Emissari della Santa Sede si resero disponibili a collaborare".
Sono passati quasi 39 anni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi, la 15enne romana di cui si sono perse le tracce dal lontano pomeriggio del 22 giugno 1983. Tra ipotesi, supposizioni e indagini ad ampio raggio, il caso continua a essere tra i più intricati e controversi della cronaca degli ultimi 50 anni.
Le recenti rivelazioni dell'ex procuratore di Roma Giancarlo Capaldo hanno aperto nuovi scenari sulla misteriosa vicenda. "Due 'alte cariche' della Santa Sede si resero disponibili a mettere a disposizione ogni conoscenza e indicazione per farci avere 'i resti' di Emanuela", conferma alla nostra redazione Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela.
Sviste, segreti e silenzi Quel macabro mistero che avvolge il Vaticano
Pietro, lo scrittore Tommaso Nelli ha raccontato che nei diari di scuola di Emanuela figurerebbe il numero telefonico di una persona, tal "Federica", mai identificata. Può confermarlo?
"Si, era in un'agendina".
Di chi si tratta?
"Non saprei, probabilmente un'amica o una compagna di scuola. Chiaramente è impossibile che conoscessi tutte le amicizie di mia sorella".
Accanto al nome compare un'annotazione: "Indovina chi è". Secondo lei, cosa significa?
"Non credo sia un dettaglio rilevante. Bisogna tenere conto che all'epoca Emanuela aveva 15 anni , era poco più che una bambina. Forse - ma è solo un'ipotesi - era qualcuno che le piaceva e ci scherzava su con un'amichetta. Chissà. In ogni caso, nulla di importante".
Esclude che possa entrarci qualcosa con la scomparsa?
"Sì, direi proprio di sì. Così come escludo, in generale, che dei ragazzini - parlo di amici e compagni di scuola di Emanuela - possano entrarci qualcosa con il rapimento di mia sorella".
"Emanuela? Qualcuno sa tutto Una frase sibillina del Papa..."
Di recente è emerso un altro retroscena. Pare che nella primavera del 2012 due emissari di Papa Ratzinger, verosimilmente due "alti prelati", avrebbero dato la disponibilità del Vaticano a far ritrovare "i resti" di Emanuela. Lo conferma?
"Assolutamente sì. Anzi fu prospettata una sorta di trattativa".
Che genere di trattativa?
"Il Vaticano chiese alla Procura di Roma 'un aiuto' per spostare le spoglie di Enrico 'Renatino' De Pedis (ex boss della Banda della Magliana, ndr) dalla Basilica di Sant'Apollinare, dov'era stato sepolto, perché ovviamente creava imbarazzo alla Chiesa. Giancarlo Capaldo, all'epoca procuratore e titolare dell'inchiesta sulla scomparsa di Emanuela, propose una contropartita".
Cioè?
"Il dottor Capaldo chiese in cambio che fossero restituiti 'i resti' di Emanuela alla nostra famiglia".
E quale fu la risposta?
"Ci furono due colloqui tra Capaldo e due emissari della Santa Sede. Durante il primo incontro dissero che 'gli avrebbero fatto sapere' dopo essersi confrontati con altre persone 'più in alto nella gerarchia'. In quello successivo confermarono che il Vaticano era disponibile a mettere a disposizione ogni conoscenza e indicazione per arrivare a questa conclusione".
Lasciarono intendere che avrebbero collaborato o il consenso fu esplicito?
"'Va bene', fu la loro risposta".
"Un ricatto, ora qualcuno parla". L'ipotesi sulla Orlandi
E per quale motivo la trattativa sarebbe sfumata?
"Dopo poco il dottor Giuseppe Pignatone venne nominato capo della procura e chiese l'archiviazione del fascicolo riguardante la scomparsa di mia sorella, che Capaldo rifiutò di firmare. E poi, nel giro di pochi mesi, Papa Ratzinger si dimise".
Quali sono stati i risvolti successivi?
"Lo scorso dicembre, il dottor Capaldo è stato sentito in Procura nell'ambito di un fascicolo aperto a modello 45, quindi senza indagati né ipotesi di reato, dopo che il Consiglio Superiore della Magistratura aveva chiesto informazioni ai magistrati sull'esposto presentato dall'avvocato Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi, sui colloqui intercorsi tra il i magistrati della Procura e il Vaticano".
Cosa è emerso? Ma soprattutto, chi sarebbero i "due emissari" coinvolti nella trattativa?
"Due 'alte cariche' della Santa Fede. Quello che ritengo importante però, al di là delle persone coinvolte, è che per la prima volta il Vaticano abbia ammesso di avere informazioni sulla scomparsa di Emanuela. Lì dentro sanno bene cosa è successo".
Nel corso degli anni sono state formulate molteplici ipotesi sulla scomparsa di Emanuela. A oggi, quale pista scarterebbe?
"Quella dell'allontanamento volontario. Le altre, per una ragione o per un'altra, sono tutte plausibili".
Allora ribaltiamo la domanda: Qual è l'ipotesi più attendibile?
"Emanuela è stata oggetto di un ricatto, qualcosa di grosso. Altrimenti non si spiega perché dopo tutto questo tempo la verità non sia ancora saltata fuori".
Un ricatto tra chi e per cosa poi?
"Per certo non c'entrano i soldi. Un affare, forse uno scambio, in cui sono coinvolti uomini di potere. Quello di mia sorella è stato un rapimento organizzato, su questo non c'è ombra di dubbio".
"È dove guarda l'angelo" La lettera che fa riaprire il caso Emanuela Orlandi
Cosa glielo fa pensare?
"Tante cose. Sin da quella famosa telefonata dopo il rapimento - intendo la prima - in cui Emanuela raccontava di essere una 'ragazza di 15 anni iscritta alla scuola di musica eccetera'. La sensazione è che si trattasse di una registrazione, magari un'intervista che le avevano fatto nei giorni antecedenti alla scomparsa. E poi c'è quella frase di Papa Giovanni Paolo II che non scorderò più: 'Esistono casi di terrorismo internazionale', furono le sue testuali parole quando venne a trovarci per gli auguri di Natale".
Anche il nome dell'ex boss della Banda della Magliana, Enrico "Renatino" De Pedis, torna sempre in questa storia. Secondo lei, perché?
"Penso che abbia avuto un ruolo secondario nella vicenda. Nel senso che è stato impiegato per un lavoro di 'manovalanza', mettiamola così. Ma c'erano - ci sono - poteri ben più consolidati e personalità ricattabili che c'entrano con il rapimento di Emanuela".
Sono 39 anni che si batte per la verità. Dove trova la forza?
"La forza la trovo nell'ingiustizia che Emanuela ha subito e ancora subisce. Lo dico da 39 anni: finché non mi daranno prova del contrario continuerò a inseguire la verità e cercare mia sorella da viva. Emanuela era ed è registrata all'anagrafe come 'cittadina vaticana vivente'".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
· Il mistero di Mirella Gregori.
Mirella ed Emanuela, destini incrociati: "Non è un altro caso Orlandi". Rosa Scognamiglio l'1 Marzo 2022 su Il Giornale.
L'appello di Maria Antonietta, la sorella di Mirella Gregori: "Chi vuole alleggerirsi la coscienza può farlo anche in forma anonima".
"'Torno tra dieci minuti'. Sono passati quattro giorni". Titolava così un articolo del quotidiano Il Tempo pubblicato l'11 maggio del 1983, quattro giorni dopo la scomparsa di Mirella Gregori, 15enne del quartiere romano Porta Pia. Uno sconosciuto, tal "Alessandro", spacciandosi per un ex compagno di scuola, aveva suonato al citofono di casa Gregori convincendo la ragazza a scendere. Da quel pomeriggio sono trascorsi 39 anni: Mirella non è più tornata dalla sua famiglia.
All'epoca le indagini furono frammentarie e, a più riprese, s'intrecciarono con la vicenda di Emanuela Orlandi. Un destino drammatico che unisce ancora oggi la storia delle due ragazzine, coetanee, scomparse a 40 giorni di distanza l'una dall'altra. "L'accostamento tra i due casi è stato mediatico perché, a guardar bene, sembrerebbe che non ci siano dei punti di reale contatto tra le due storie. Il condizionale è d'obbligo dal momento che non abbiamo certezze né per Emanuela né per Mirella", chiarisce a ilGiornale.it e il giornalista e scrittore Mauro Valentini.
I genitori di Mirella, Paolo e Vittoria, morirono di crepacuore dopo aver sperato invano di poter riabbracciare la propria figlia. A farsi carico della battaglia per la ricerca della verità, che ormai dura quasi da un quarantennio, è tutt'oggi Maria Antonietta Gregori, la sorella di Mirella. "Se qualcuno, dopo tutto questo tempo, vuole alleggerirsi la coscienza può farlo anche in forma anonima. Io vorrei solo avere la possibilità di portare un fiore a mia sorella", dice alla nostra redazione.
Chi è Mirella
Nel 1983, l'anno della scomparsa, Mirella Gregori è una ragazzina di 15 anni appena. Vive in via Nomentana, nel quartiere Porta Pia, a Roma. I suoi genitori, Paolo e Vittoria, gestiscono un bar in via Volturno, a poche centinaia di metri da casa. Poi c'è Maria Antonietta, la sorella 17enne, alla quale Mirella è particolarmente affezionata. Sono una famiglia molto unita i Gregori, lavorano sodo tutto il giorno per poi ritrovarsi verso sera riuniti attorno al tavolo del soggiorno a chiacchierare. Mirella studia all'istituto tecnico e, nel tempo libero dalla scuola, si intrattiene con la sua amica del cuore, Sonia, la figlia dei proprietari del bar sotto casa dei Gregori.
"La mia era una famiglia semplice, onesta e lavoratrice – racconta Maria Antonietta – Io e Mirella siamo nate entrambe quando i miei genitori erano già in età matura. Andavamo molto d'accordo, condividevano la camera da letto e la passione per la musica. Mirella era una ragazzina solare, sorridente e piena vita. Aveva questa chioma riccioluta, di color castano chiaro, che le contornava il visino ancora fanciullesco. Perché dopotutto, quando è scomparsa, era ancora una bambina".
La scomparsa
Il 7 maggio del 1983 sembra un giorno come tanti. Mirella rientra a casa da scuola attorno alle ore 14, come da consuetudine. Vittoria le ha tenuto in caldo il pranzo: si accomodano in cucina e, tra una chiacchierata e l'altra, consumano il pasto. Attorno alle ore 15 suona il citofono. Vittoria, impegnata a cucire, chiede a Mirella di rispondere. Crede possa trattarsi del marito che potrebbe essere rincasato prima del solito. La ragazzina si precipita: "Pronto, chi parla?", domanda. Poi s'indispettisce: "Se non mi dici chi sei, non scendo!".
Vittoria è stranita dal tono di voce con cui la figlia si rivolge allo sconosciuto al citofono e, quando riaggancia, le chiede spiegazioni. Mirella dice che è "Alessandro", un compagno di classe delle scuole medie. Racconta di essere stata invitata a una rimpatriata "sotto la statua del bersagliere", a pochi passi da casa. Non ha molta voglia di andarci e assicura alla madre che starà via una manciata di minuti. Si veste in fretta e furia: "Torno tra dieci minuti", ribadisce prima di chiudersi dietro le spalle l'uscio di casa. Da quel momento Mirella svanisce nel nulla.
Le ricerche
Attorno alle ore 17 Vittoria è alla finestra che attende di veder sbucare sua figlia dal fondo di via Nomentana. Sono passate due ore da quando è uscita. Non le ha nemmeno telefonato come fa di solito, ogni qualvolta che si allontana dal perimetro di casa. "Mia madre mi telefonò mentre ero al lavoro – ricorda Maria Antonietta – Era visibilmente in apprensione. Io e Filippo, il mio fidanzato, ci precipitammo a casa. 'È successo qualcosa', ripeteva. Lei 'sentiva' che fosse accaduto qualcosa a Mirella nonostante fossero passate solo due ore da quando era uscita. Era anche scesa in strada a chiedere se qualcuno l'avesse vista passare o ci avesse parlato".
All'imbrunire Maria Antonietta e il fidanzato vanno in cerca di Mirella. Sonia, l'amica della quindicenne, rivela di averci chiacchierato per una manciata di minuti nel primo pomeriggio e che la ragazza le avrebbe confidato di aver un appuntamento. "Mirella avrebbe detto a Sonia che sarebbe andata a Villa Torlonia 'a suonare la chitarra' - continua Maria Antonietta - Questa affermazione mi stranì molto dal momento che mia sorella non suonava la chitarra né mai aveva fatto riferimento ad amici che suonassero uno strumento".
Dopo aver appreso questa informazione, la sorella di Mirella si dirige a villa Torlonia. "Il cancelli erano già chiusi – spiega Maria Antonietta – Caso volle che, proprio in quel momento, passasse una volante della polizia. Spiegammo agli agenti cosa era successo e ci permisero di dare un'occhiata. Fu una perlustrazione veloce e inconcludente". Intanto Vittoria è a casa: continua a fare avanti e indietro tra la porta d'ingresso, il telefono e la finestra. Verso le ore 21 si reca in commissariato per denunciare la scomparsa di Mirella. Gli agenti provano a rassicurarla ritenendo che la ragazzina sia allontanata dal quartiere e abbia poi perso la cognizione del tempo. Ma l'istinto materno non tradisce Vittoria, lei sa che non riabbraccerà più sua figlia. E il tempo le darà drammaticamente ragione.
Le prime ipotesi
La notizia della scomparsa di Mirella non suscita grande attenzione mediatica. Quattro giorni dopo, l'11 maggio 1983, il quotidiano romano Il Tempo dedica un trafiletto alla 15enne di Porta Pia: "'Torno tra dieci minuti'. Sono passati quattro giorni", è il titolo dell'articolo. Poi, per settimane, cala un silenzio tombale sulla vicenda.
"In molti credettero che si fosse trattato di un allontanamento volontario – racconta Maria Antonietta – Gli stessi inquirenti ipotizzarono, o quanto meno lasciarono intendere, che mia sorella si fosse allontanata per scelta. Tant'è che non fu cercata. Ma Mirella non se ne sarebbe mai andata di casa, era molto 'attaccata' ai miei genitori e poi stiamo pur sempre parlando di una minore. Quando usciva, se si spostava anche solo di poche centinaia di metri dal quartiere, era solita avvertire mia madre. Aveva in tasca sempre dei gettoni per telefonare dalla cabina pubblica. Non c'è stato alcuno allontanamento volontario, di questo ne sono certa".
Destini incrociati: Mirella ed Emanuela
Il 22 giugno dello stesso anno un'altra 15enne scompare in circostanze misteriose da piazza Sant'Apollinare, nel cuore di Roma. Si tratta di Emanuela Orlandi, giovane cittadina di Città del Vaticano. La notizia balza tempestivamente ai riflettori della cronaca coinvolgendo personalità di spicco della Santa Sede. Per una lunga e intricata serie di circostanze, alcune delle quali legate all'attentatore di papa Wojtyla, il terrorista turco Ali Ağca, la scomparsa di Emanuela fa capolino financo sui quotidiani d'Oltreoceano.
"La scomparsa di Emanuela suscitò grande interesse per via del presunto coinvolgimento di alcuni esponenti del Vaticano nella vicenda - spiega il giornalista Mauro Valentini – E se da un lato fu positivo che i media si interessassero assiduamente al caso, perseguendo varie ipotesi, dall'altro fu poco proficuo per le indagini sulla scomparsa di Mirella".
Il nome delle due ragazze viene affiancato all'interno di un'inchiesta della rivista Panorama sulla "tratta delle bianche", un giro di prostituzione internazionale che avrebbe riguardato giovani donne occidentali. L'articolo, pubblicato l'1 agosto del 1983 a firma dei giornalisti Marilena Bussoletti e Bruno Ruggiero, compie un excursus sui minori scomparsi in Italia in quell'anno. Tra questi, oltre a Emanuela Orlandi, vi è anche Mirella Gregori. Una foto immortala la ragazza rivolta verso il Papa Giovanni Paolo II durante una visita a Città del Vaticano con la scuola. "Quello scatto fu 'fatale' - chiarisce ancora Mauro Valentini - Nel senso che creò un legame indissolubile, a livello mediatico e investigativo, tra le due ragazze. E per quanto ci fossero delle possibili connessioni tra le due vicende, in realtà, credo si tratti di storie e percorsi completamente diversi. Nel caso di Mirella escluderei la pista internazionale".
Pietro Orlandi: "Emanuela? In Vaticano sanno. Lo ammisero, ma poi..."
Identikit di due sconosciuti
Quando ormai sono passati tre mesi dalla scomparsa di Mirella emerge un altro inquietante retroscena. Vittoria, la madre della ragazza, riconosce nei fotofit pubblicati dai giornali sui possibili rapitori di Emanuela Orlandi dei "brutti ceffi". Si tratta di due ragazzi che, a detta di Vittoria, si sarebbero intrufolati a un piccolo ricevimento nel bar di famiglia il venerdì antecedente alla scomparsa. La donna sostiene che i due avessero adocchiato Mirella: "Avevano fatto un cenno verso mia figlia", racconta in una intervista. Al punto che si era insospettita invitandoli a uscire dal locale.
"Mia madre era convinta che quelle due persone non fossero lì, al bar, per caso - spiega Maria Antonietta - Così come è stata sempre convinta della storia relativa alla 'tratta delle bianche'. Avrà avuto ragione? Chissà. Il punto è che non sono mai state condotte delle indagini approfondite sulla scomparsa di mia sorella. Ancora oggi non mi sento di scartare nessuna ipotesi, non abbiamo alcuna conferma o certezza di niente".
"L'Amerikano"
Nei giorni successivi alla scomparsa, e poi nelle settimane a seguire, al bar dei Gregori giungono delle telefonate sospette. Uno sconosciuto con accento spiccatamente straniero riferisce di avere informazioni su Mirella. Il telefonista, la cui identità non sarà mai accertata, chiede ai Gregori di intercedere per la vicenda di Ali Ağca con l'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini promettendo in cambio "notizie della ragazza". E se "la trattativa" poi sfuma, per certo, una telefonata in particolare riaccende la speranza dei genitori di Mirella.
"In una telefonata questo sconosciuto ci descrive la marca degli abiti e dell'intimo che indossava mia sorella il giorno della scomparsa - ricorda ancora Maria Antonietta - Non so come abbia avuto quelle informazioni ma non mentì al riguardo. Credo che tra le varie telefonate quella fosse l'unica attendibile". Mauro Valentini ha una sua idea al riguardo: "Penso che la storia di Mirella fu usata un po' come 'esca' da chi, in realtà, nulla aveva a che fare con la scomparsa della ragazza. Purtroppo, anche in questo caso, non furono fatti degli approfondimenti. Molte piste, attendibili o meno, sono state trascurate in questa vicenda. Ed è il motivo per cui non si è mai approdati alla verità".
"È dove guarda l'angelo" La lettera che fa riaprire il caso Emanuela Orlandi
Raoul Bonarelli
C'è un altro nome che fa capolino nella vicenda: è quello di Raoul Bonarelli, una delle guardie della gendarmeria vaticana. La madre di Mirella lo riconosce durante un visita di Papa Wojtyla alla chiesa di San Giuseppe, dove i Gregori sono soliti recarsi a messa. Vittoria è certa di aver visto il super poliziotto intrattenersi a parlare con la figlia e l'amica Sonia al bar sotto casa. Ne è talmente convinta da recarsi subito dai carabinieri per verbalizzare aprendo a una nuova pista investigativa. Ma il giudice del caso non ravvede elementi per avviare un'indagine o, come spiega Mauro Valentini nel suo libro-inchiesta sul caso Gregori "Mirella Gregori. Cronaca di una scomparsa", per "giustificare provvedimenti giudiziari".
Di diverso avviso, invece, è il giudice istruttore Adele Rando che decide di approfondire la questione. Ma per una lunga serie di motivi, le indagini incespicano e quando Vittoria viene messa a confronto col super poliziotto, anni dopo, non è più certa si tratti della persona con cui si è intrattenuta a chiacchierare la figlia. L'istruttoria – un procedimento contro ignoti - viene chiusa: Bonarelli è estraneo alla vicenda.
L'appello
Da quel 7 maggio del 1983 sono trascorsi ben 39 anni: "Ma è come se fosse ancora quel giorno, il tempo si è fermato", afferma Maria Antonietta. Non ha mai gettato la spugna e continua a cercare la verità. "L'ho promesso a mia madre in punto di morte – dice – Mi fece promettere che avrei continuato a lottare per avere giustizia. Lo faccio per mia sorella e per i miei genitori". Poi l'appello: "Sono passati 39 anni... Chi vuole alleggerirsi la coscienza può farlo anche in forma anonima. Desidero solo poter piangere mia sorella e portarle un fiore".
· Il giallo del giudice Adinolfi.
Un magistrato scomparso nel nulla e quegli strani giochi di spie. Gianluca Zanella il 12 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Paolo Adinolfi, il magistrato scomparso a Roma nel 1994, e le presenze ambigue che si affollato attorno a questo caso. Tra 007 infedeli, faccendieri e morti sospette.
Fa un caldo infernale a Roma, il 2 luglio 1994. E, come una goccia d’acqua sull’asfalto rovente, Paolo Adinolfi sembra evaporare nel nulla. 52 anni, una moglie, una figlia e un figlio che non smetteranno mai di cercarlo. Adinolfi non è solamente un marito e un padre legatissimo ai propri affetti. Adinolfi – al momento della scomparsa – è giudice da appena un mese presso la IV Sezione Civile della Corte d’Appello. Precedentemente, ha passato dieci anni alla Sezione Fallimentare della Procura di Roma, nota come il “porto delle nebbie”.
E in quelle nebbie Paolo Adinolfi si è occupato di numerosi casi scottanti; fallimenti miliardari dove s’intrecciano nomi eccellenti della malavita romana e dell’alta finanza; un groviglio di fili scoperti dell’alta tensione che hanno polverizzato molte vite e – forse – anche quella del giudice scomparso. Sì, perché se la prima indagine condotta dal magistrato perugino Fausto Cardella [è la procura di Perugia che si occupa di quanto concerne i magistrati romani, ndr] giunge ad archiviazione dopo nemmeno due anni, imputando la scomparsa a un allontanamento volontario, la seconda – partita subito dopo -, sebbene arrivi a una seconda archiviazione, quanto meno fissa un punto fermo: il magistrato Alessandro Cannevale (oggi procuratore capo a Spoleto) ha infatti la certezza che Paolo Adinolfi non si sia allontanato volontariamente. Le conclusioni della seconda inchiesta parlano chiaro: Adinolfi è stato ucciso e il suo corpo occultato a causa del suo lavoro svolto alla Fallimentare.
Ne sono convinti i familiari e, dopo quasi trent’anni di silenzio, ne sono convinti molti magistrati che oggi riscoprono la vicenda del loro collega dimenticato per il tramite di una lodevolissima iniziativa letteraria: è infatti grazie a un libro – La scomparsa di Adinolfi (Castelvecchi) – che il caso è tornato a far rumore. I due autori – il giornalista Alvaro Fiorucci e l’investigatore della procura di Perugia Raffaele Guadagno – hanno avuto il merito di riportare questa storia alla luce del sole, non senza difficoltà.
Andarsi a studiare gli atti delle due inchieste – infatti – è come sporgersi verso un pozzo nero senza fondo. Quando, con tutte le precauzioni possibili, ci si cala in questo pozzo, le sue pareti lisce, quasi completamente prive di appigli, portano ad annaspare nel buio, inghiottiti verso il basso. Ma se non ci si lascia prendere dal panico di fronte alle migliaia di pagine, se si tasta attentamente, ecco spuntare qualche interruttore. La luce fioca, allora, illuminerà persone, fatti e circostanze apparentemente slegate tra loro, ma in realtà unite da un filo rosso che porta a farle convergerle – in un modo o nell’altro – su questa vicenda. Quando poi tutti gli interruttori saranno abbassati, il pozzo sembrerà meno profondo, ma la scomparsa di Paolo Adinolfi si mostrerà per quello che è: l’albero genealogico dei misteri d’Italia.
Quello che maggiormente colpisce di questa vicenda è la massiccia presenza di uomini e donne dei servizi segreti che, per varie ragioni – non necessariamente scollegate tra loro –, si affollano attorno all’ombra del magistrato scomparso. Si parte dagli inquilini della seconda casa della famiglia Adinolfi. Una casa per le vacanze costruita negli anni Settanta in una frazione di Manziana; una casa tranquilla, molto isolata, perfetta per chi cerca relax o discrezione. Una volta cresciuti i figli, il giudice e sua moglie, Nicoletta Grimaldi, decidono di darla in affitto. Attraverso un agente immobiliare della zona, entrano in contatto con un giovane uomo che si presenta come pilota Alitalia. Il giovane uomo è Vincenzo Fenili e quella di pilota è una delle sue tante coperture. Sì, perché Fenili – nome in codice Kasper – è in realtà un agente segreto, ex carabiniere e, come lui stesso si definisce, un contractor del Ros, arruolato giovanissimo in Gladio, protagonista di vicende non sempre chiare che lui stesso ha raccontato in due libri di successo, nei quali non si fa mai menzione del magistrato scomparso.
In questa casa – curiosamente distante molti chilometri sia dall’aeroporto di Fiumicino, che da quello di Ciampino, ma molto vicina a importanti basi militari come quelle di Furbara e Vigna di Valle – Fenili convive con una sua fidanzata dell’epoca, Karie Hamilton, americana, di professione fotografa.
“Ricordo un particolare – ci racconta Lorenzo Adinolfi, figlio del magistrato – una volta sentii mia madre e mio padre commentare un fatto strano: questa ragazza aveva mostrato loro alcuni dei suoi scatti. Molti dei quali ambientati in luoghi difficilmente accessibili a dei civili, come basi aeree o navi militari”.
Incontriamo Vincenzo Fenili/agente Kasper seduti al tavolino di un bar. Risponde gentilmente alle domande e dà la sua versione dei fatti: l’essere finito a casa di un magistrato è stata solo una casualità. Quando gli chiediamo della Hamilton – se veramente fosse una fotografa – esita qualche secondo, ma alla fine risponde: “Si, era veramente una fotografa, ma venne arruolata dal Sismi”.
E non finisce qui. Nel 1992 Fenili lascia l’abitazione, ma prima di trasferirsi presenta ai padroni di casa una sua amica: Marzia Petaccia. La donna si rivela al giudice e sua moglie per quello che è: impiegata presso la Presidenza del Consiglio. Solo alcuni anni dopo si saprà che l’impiego era presso il Sisde, il servizio segreto civile. Anche in questo caso, Lorenzo Adinolfi ricorda un aneddoto curioso: “Una volta mio padre, che era stato a Manziana per qualche motivo che non ricordo, tornò piuttosto sorpreso. In casa, nel soggiorno, aveva visto qualcosa. Gli era sembrato un componente di un lancia missili”. Considerando che sia la Petaccia sia Fenili finiranno implicati – nel 1994, prima della scomparsa di Adinolfi – in quello che viene (da pochi) ricordato come il tentato golpe di Saxa Rubra, dove pare che un manipolo di esaltati volesse attaccare la sede Rai e i palazzi delle istituzioni con elicotteri da guerra e bombe al neutrone, chiediamo a Fenili (che per questa vicenda verrà rinchiuso – ex ordinovista - a Rebibbia nella stessa cella dei brigatisti Germano Maccari e Giovanni Senzani) se il ricordo di Lorenzo sia plausibile: “Non credo fosse un componente di un lancia missili – ci risponde Kasper – piuttosto poteva trattarsi di un componente di un caccia militare, forse un Tank sub-alare... il padre della Petaccia era un ufficiale pilota dell’Aeronautica”.
Spostandoci da Manziana, anche nella casa di Roma, in zona della Farnesina, troviamo una presenza particolare. A farcelo notare è un investigatore della Dia che all’epoca si occupò del caso nell’ambito della seconda inchiesta: “Il portiere del condominio dove vivevano gli Adinolfi era stato un carabiniere”. Fin qui nulla di strano, se non fosse che, poco dopo la scomparsa del giudice, l’uomo viene licenziato: sembra sottraesse la posta di alcuni inquilini, in particolare quella della famiglia Adinolfi. Sempre l’investigatore della Dia: “All’epoca non potemmo fare granché... erano passati già due anni dalla scomparsa, ma certamente se qualcuno legato ai servizi avesse voluto tenere d’occhio il giudice, i suoi orari, i suoi spostamenti e la sua corrispondenza... quale persona migliore di un portiere già membro dell’Arma?”.
A pensar male si fa peccato, ma non siamo i primi.
Nel luglio del 1996 – poco prima che il caso venisse riaperto con ritrovato slancio dopo aver incassato la prima archiviazione – un’agenzia di stampa molto particolare pubblica un articolo altrettanto particolare. L’agenzia è la “Publicondor”, il cui fondatore è il leader di Avanguardia Nazionale Stefano Delle Chiaie. Notoriamente molto vicino agli ambienti opachi dei servizi di quegli anni, Delle Chiaie ospita un articolo dal titolo: “Caso Adinolfi: il giudice fu Sisdemato?”, adombrando – con un gioco di parole per nulla allusivo – un ruolo del Sisde nella scomparsa del magistrato. In questo articolo vengono citati alcuni dei fallimenti eccellenti trattati da Adinolfi, evidenziando in particolare quelli relativi a società di copertura dei servizi. Si parla del crack dell’Ambra assicurazioni (200 miliardi di lire di passivo) e della Fiscom Finanziaria. Ma non solo: “Questi retroscena del caso Adinolfi – si legge – li avrebbe rivelati ai giudici nelle scorse settimane Francesco Elmo, faccendiere siciliano, a suo dire in confidenza con il colonnello del Sismi Mario Ferraro. Anche lui sistemato per le feste? Funebri, naturalmente”.
Ed ecco che la vicenda prende una piega talmente improvvisa da dare il capogiro.
Su Francesco Elmo ci sarebbe molto da dire, ma non è questo il momento. Arrestato nell’ambito dell’inchiesta nata dalla procura di Torre Annunziata e denominata Cheque to cheque, dove i procuratori Paolo Fortuna e Giancarlo Novelli si trovano quasi per caso a dover indagare su un incredibile traffico internazionale di armi, denaro e materiali come l’uranio, Elmo – soprannominato “il cinese” per gli occhi a mandorla – parla e riempie interi verbali, dosando attentamente le cose da dire e i cassetti della memoria da aprire. Sono proprio le sue parole a far ripartire le indagini sulla scomparsa di Adinolfi nel 1996.
Collaboratore sia del Sismi che del Sisde (stando alle sue dichiarazioni, è doveroso precisarlo), Elmo racconta di aver collaborato intensamente, per circa un paio di anni, con Mario Ferraro, il colonnello cui si fa riferimento nell’articolo pubblicato su Publicondor e che viene trovato impiccato nel bagno di casa sua, a Roma, zona Torrino, il 16 luglio 1995. Impiccato a un termosifone con i piedi che toccano terra.
Anche sulla vicenda Ferraro ci sarebbero molte cose da dire, quello che qui è importante sapere è che Elmo racconta agli inquirenti di essersi infiltrato per conto del colonnello all’interno degli uffici di un commercialista svizzero. In questi uffici, Ferraro gli avrebbe chiesto di monitorare – tra le altre cose – qualsiasi riferimento a un tale Mugne e a un nome sinistramente evocativo: Shifco.
Omar Said Mugne è un imprenditore di origine somala, titolare della Shifco, una società di diritto somalo proprietaria di alcune navi, per la precisione pescherecci, donate dal governo italiano al paese africano. Due nomi che rimandano al disastro (leggi anche “strage”) del Moby Prince (10 aprile 1991) e all’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (20 marzo 1994). Fatta questa parentesi, arriviamo al punto: per quale motivo le parole di Elmo ottengono la riapertura del caso Adinolfi?
Il collaboratore di giustizia racconta di un sodalizio alquanto strano (ma non impossibile, stando a quanto ci dicono alcuni addetti ai lavori) tra Sismi e Sisde, rispettivamente rappresentati da un lato da Mario Ferraro (conosciuto da Elmo come “Bobby”) e tale Giuseppe Di Maggio (mai identificato); dall’altro da un pezzo da novanta del servizio segreto civile: Michele Finocchi, conosciuto come “Martinelli”, già implicato nella vicenda della morte della contessa Alberica Filo della Torre e – nel 1993 – tra i protagonisti del cosiddetto “Sisdegate”, lo scandalo che fece tremare le più alte istituzioni dello Stato (ricordate il “non ci sto” dell’allora presidente Scalfaro? Ecco). Non si capisce bene il motivo per cui Ferraro e Finocchi dovessero collaborare, ma se il sodalizio procede sotto il segno di una proficua collaborazione per qualche tempo, a un certo punto tanto Bobby/Ferraro, quanto Di Maggio ammoniscono Elmo: Martinelli/Finocchi è passato “dall’altra parte”. Non specificano “quale” parte, ma gli dicono di stare molto attento e, in caso di avvistamento, di chiamare un tale Carlo, capostruttura del Sisde a Vicenza, città epicentro di un’altra storia al limite del grottesco che coinvolge un inconsapevole esperto di informatica, Carlo Alberto Sartor, e Mario Ferraro, ma anche questa è un’altra storia.
Michele Finocchi, inseguito da un ordine di cattura, sarà latitante in Svizzera per diversi mesi e verrà arrestato il 25 luglio 1994. Secondo il racconto di Elmo, due mesi prima, il 20 maggio (anche se gli inquirenti collocano questo fatto al 23 dello stesso mese), avviene qualcosa.
Il faccendiere siciliano si trova a Roma, presso l’hotel Sheraton in zona Magliana. È in compagnia di altre persone per questioni di affari (sporchi, neanche a dirlo). È seduto nella hall quando vede entrare nell’albergo l’uomo che conosce come Martinelli.
Lo 007 latitante si fa incontro a una persona già presente nella hall e fino a quel momento rimasta in disparte. I due si parlano cordialmente per alcuni minuti prima di separarsi. Dell’ignoto interlocutore di Finocchi, Elmo ricorda gli occhiali da vista – molto grandi – e la calvizie incipiente.
Due mesi dopo, attorno al 20 luglio, il “cinese”, durante un incontro a Roma, relaziona a Bobby/Ferraro dell’avvistamento. Il colonnello del Sismi gli mostra una foto: “È questo l’uomo che hai visto con Finocchi?”. Elmo dice di si, è proprio lui. Ferraro mette via la foto. Gli dice che l’uomo ritratto è Paolo Adinolfi, il magistrato scomparso pochi giorni prima. A questo punto, dice a Elmo di non farsi più vedere nella Capitale. Gli stessi uomini che hanno fatto sparire il giudice – a suo dire appartenenti alla banda della Magliana – potrebbero uccidere anche lui. Questa è l’ultima volta che Elmo e Ferraro s’incontreranno. Ma se il collegamento tra Adinolfi e Ferraro viene accreditato principalmente dalle parole di un collaboratore di giustizia ambiguo, c’è agli atti un’ulteriore traccia. Si tratta di un articolo del settimanale “Avvenimenti” datato 15 maggio 1996. In questo articolo si dice che nel corso della sua attività, il giudice Adinolfi avrebbe omologato il cambio di denominazione di una società di Maria Antonietta Viali, la compagna di Mario Ferraro (sarà proprio lei a rinvenire il cadavere e a raccontare che nelle settimane prima della morte l’agente del Sismi si mostrava preoccupato ai limiti della paranoia). Un indizio? Una suggestione? Difficile dirlo e soprattutto non sta a noi, ma certamente i tasselli di questa storia sembrano incastrarsi tra loro con inquietante facilità.
La carrellata di presenze ambigue a far da corollario a una vicenda ancora più ambigua potrebbe protrarsi all’infinito, ma noi la terminiamo con l’ultima figura sfuggente che fa capolino dalle carte dell’inchiesta.
Il 23 febbraio 1995, il cognato di Adinolfi, magistrato a sua volta, scrive una lettera al procuratore titolare della prima inchiesta, Fausto Cardella, facendo seguito a una precedente telefonata. Pochi giorni prima, il 15 febbraio, un suo collega magistrato gli ha riportato la conversazione avuta con un conoscente, tale Angelo Demarcus, erroneamente indicato nella lettera quale appartenente al Sismi, mentre invece è un capitano di fregata in quiescenza appartenente al Sios Marina. Demarcus – il cui nome compare anche nella vicenda di Ustica - avrebbe raccolto informazioni secondo cui Paolo Adinolfi sarebbe stato ucciso per il suo coinvolgimento professionale nel fallimento della Fiscom. Il cognato di Adinolfi aggiunge che Demarcus avrebbe fatto un collegamento tra la scomparsa del cognato e altre oscure vicende, come il già citato delitto dell’Olgiata, i delitti della Uno Bianca e la morte di Sergio Castellari. Non sappiamo il nome del collega del parente di Adinolfi, né se sia stato sentito, ma sappiamo la versione che dà Demarcus: nessun mistero, nessuna rivelazione. Le sue sarebbero solo congetture sorte per caso mentre si occupava di una truffa ai suoi danni. Lo spiega lui stesso il 10 marzo 1995 di fronte agli inquirenti.
Coinvolto in un’intricata vicenda che vede il coinvolgimento di una cooperativa edilizia, Demarcus si fa investigatore e passa molto tempo a cercare documenti presso la cancelleria del Tribunale Civile di Roma. Tra questo mare di carte, gli capitano in mano quelle dei fallimenti di alcune società il cui titolare risulta Paolo Adinolfi. Di qui alcune ipotesi condivise “con altre persone e con alcuni giornalisti” riguardo la fine del magistrato, ma – neanche a dirlo - nessuna certezza.
Bisogna specificarlo: nulla di quanto fin qui accennato può considerarsi come elemento determinante la scomparsa di Paolo Adinolfi. Certo è che dall’oscurità del pozzo di questa vicenda le sorprese, le incredibili connessioni, i personaggi da film di spionaggio non mancano di certo. Quello che manca, purtroppo, è una tomba su cui piangere per la famiglia. Quello che manca è la verità. Quello che manca è il ricordo di un magistrato dalla schiena dritta che, poco prima di scomparire, confida a un collega di sentirsi spiato e che solo una settimana prima di evaporare come una goccia d’acqua aveva telefonato a Milano, parlando con il collega Carlo Nocerino, che in quel momento si stava occupando di un filone del fallimento di Ambra Assicurazioni. Doveva condividere con lui alcune informazioni che gli sarebbero state utili ai fini dell’indagine. Come sappiamo, non gli è stato permesso.
Gianluca Zanella nasce a Roma. Editor e agente letterario, collabora dal 2015 con alcune tra le principali realtà editoriali italiane. Già collaboratore e inviato per AISE (Agenzia internazionale stampa estera), dal 2021 collabora con il Giornale.it occupandosi di inchieste. È fondatore del format d'inchiesta Dark Side - storia segreta d'Italia.
Il giallo del giudice Adinolfi, scomparso da 27 anni: un libro e il giudice Di Matteo riaprono il caso. PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud il 17 Gennaio 2022.
LE NUOVE monete da due euro ricordano il sacrificio di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, nomi celebri del lungo elenco dei magistrati uccisi dalle mafie e dalla lotta armata politica in Italia, ma in quell’elenco continua ad essere assente il nome di Paolo Adinolfi.
Chi era costui? Un giudice civile, un fantasma della Repubblica, troppo scomodo e ingombrante per essere dichiarato vittima dal Csm o dal Ministero di Grazie Giustizia, men che meno dall’Associazione nazionale magistrati di cui non aveva mai fatto parte. Paolo Adinolfi è stato un giudice civile, che nei meandri molto oscuri del Tribunale di Roma non si è mai voltato dall’altra parte. Isolato dai suoi colleghi e soprattutto non ricercato con la giusta determinazione quando il 2 luglio 1994 esce di casa e non fa più ritorno lasciando nella disperazione la moglie e due giovani figli che da 27 anni cercano una verità e almeno una tomba dove poter deporre un fiore o recitare una preghiera.
Ora un libro, “La scomparsa di Adinolfi” scritto da Alvaro Fiorucci e Raffaele Guadagno, mette finalmente insieme tutti i pezzi di un mosaico complesso che incrocia fallimenti clamorosi e servizi deviati e grazie a documenti e testimonianze inedite fa individuare la pista più probabile. Adinolfi è uno scomparso. Probabilmente fu rapito e ucciso. Il cadavere mai ritrovato.
Ho scoperto la storia di Adinolfi lavorando alla realizzazione di un libro su tutti i magistrati uccisi in Italia, “Toghe rosso sangue”, che mi ha dato molte soddisfazioni. La prima, a pochi giorni dall’uscita in libreria nel 2010. Ricevo la lettera autografa della vedova di Adinolfi, Nicoletta Grimaldi, che mi ringrazia per aver contribuito a far conoscere uno dei più nascosti misteri d’Italia. Il caso Adinolfi, infatti, ha interessato soltanto la cronaca romana più attenta e la trasmissione “Chi l’ha visto” che nel corso del tempo ha anche raccolto qualche indizio utile alle indagini.
Dal libro viene tratto uno spettacolo dal titolo omonimo. In molte repliche a fine rappresentazione, che si conclude proprio con la storia di Adinolfi, sale sul palco il figlio Lorenzo, aveva 16 anni quando è scomparso il padre, 22 la sorella Giovanna, che può raccontare il dramma della sua famiglia.
Adinolfi scompare il 2 luglio 1994. Viene visto in tribunale insieme ad un’altra persona mai identificata, sbriga delle commissioni, incontra un conoscente su un bus, a casa lo aspetta la pasta e fagioli della moglie. Non arriverà mai. Quando scatta l’allarme le ricerche sono disordinate. Ad accreditare l’allontanamento volontario ci pensa un assestato depistaggio che fa ritrovare le chiavi del giudice nella cassetta della posta dell’anziana madre. Ma Adinolfi non aveva doppie vite. Non aveva drammi interiori come Majorana e Caffè. Cattolico integerrimo e praticante, aveva avuto solo problemi al lavoro per la sua ostinata volontà a fare il suo dovere. Lo aveva dimostrato nel fallimento della Casina Valadier di Ciarrapico. Era andato in vacanza e si era trovato il fascicolo sottratto, senza nessun avviso o spiegazione del suo capo.
Il Tribunale di Roma era il porto delle nebbie, anche alla sezione fallimenti. Adinolfi chiede il trasferimento e cerca un magistrato milanese per poter parlare da privato cittadino. Quel colloquio non avverrà mai per la scomparsa del giudice. In lunghi anni emergono pezzi di verità su Adinolfi. Un pentito chiama in causa i servizi e la solita Banda della Magliana. Frammenti di Suburra come li hanno chiamati gli autori del recente e documentato libro. Due inchieste sono state archiviate. La prima si volle lasciare convincere della tesi dell’allontanamento volontario. La seconda ha seguito la circostanza verificata dell’omicidio maturato nel lavoro del giudice Adinolfi. Dopo anni, l’unico riconoscimento alla famiglia che non ha mai smesso di cercare verità e resti del congiunto.
Alla presentazione a Roma del libro “La scomparsa di Adinolfi” è intervenuto il giudice Nino Di Matteo. Finalmente un magistrato prende parola sul collega scomparso e dice la cosa giusta: “Chiederò al Csm di ricordare Paolo Adinolfi. Il suo nome deve essere messo accanto a quello degli altri 28 di magistrati uccisi per il lavoro che stavano svolgendo. Occorre pensare di poter rompere gli argini perché non è detto, qualcuno può sempre parlare”. Sarebbe ora che almeno il Csm riconosca il ruolo di vittima ad Adinolfi.
Nel 2011 quando ho volentieri ceduto contenuti e diritti del mio libro al Csm per redigere il volume “Nel loro segno” in occasione della “Giornata della Memoria” che al Quirinale celebrò tutti i magistrati uccisi quello di Paolo Adinolfi non era stato preso in considerazione.
· Il Mistero del Mostro di Modena.
La "vita", la droga, la morte: quel "mostro" dal mantello cremisi. Laura Lipari il 6 Settembre 2022 su Il Giornale.
Lo chiamano il “Mostro di Modena” ma nessuno conosce i connotati del suo volto. Tra Il 1983 e il 1994, dieci donne vengono assassinate brutalmente. Delitti commessi dalla stessa mano? Ancora oggi la vicenda resta avvolta nel mistero
Gli anni ‘80 rappresentano per Modena il periodo di pole position nera per il consumo di droga e prostituzione. Ai margini sociali e culturali però non si consumano solo sostanze stupefacenti, ma anche omicidi imbevuti di un mistero lungo trentacinque anni.
I primi omicidi
Il 15 novembre 1983 la città si sveglia con una notizia che lascia molti indifferenti. Viene trovato il corpo inerme di Filomena Gnasso. È una donna che lavora per strada e per questo motivo il caso viene ascritto al racket della prostituzione. “Se l’è andata a cercare”, dice chi ha letto le poche righe di cronaca che ne parlavano.
Dopo due anni però, alle porte della città, un cadavere giace vicino a una fornace abbandonata. Appartiene a Giovanna Marchetti e i suoi tratti sono sfigurati. Qualcuno aveva deciso di eliminare per sempre quel viso con una pietra ritrovata vicino al corpo. Anche lei una donna che guadagnava denaro attraverso il suo corpo e lo spendeva per comprare le dosi di eroina.
Scena del docufilm "Il Mostro di Modena"
In un luogo in cui le morti per tossicodipendenza sono quasi quotidiane, l’omicidio di una ragazza che vendeva le sue prestazioni fisiche per droga, non fa molto rumore. Trovare l’assassino non è una priorità. A rilento, le indagini portano erroneamente a un agricoltore, poi rilasciato. Successivamente un altro ipotetico indiziato è il fidanzato di Giovanna, collegato all’omicidio solo a causa del consumo di sostanze stupefacenti, ma il movente cade subito. L’indagine si ferma.
Un’altra donna cui toccò oltre che una vita, anche una morte agli estremi della considerazione umana, è la ventiduenne Donatella Guerra: una coltellata alla carotide e poi al cuore la notte dell’11 settembre 1987. La città fa spallucce, gli inquirenti non tengono conto di due indizi: l’impronta delle ruote di una Fiat 131, mezzo utilizzato spesso dalle forze armate, e quello di una scarpa. Sia il segno dello pneumatico che della suola non verranno mai analizzati.
Questa volta però qualcuno può rivelare dettagli utili. La sera in cui Donatella sale sulla macchina di chi la vedrà per l’ultima volta, si trova assieme a Marina Balboni. Le informazioni che potrebbero risolvere il caso però muoiono insieme alla giovane, strangolata e gettata su una strada. “Devo incontrare una persona importante”, le uniche parole scritte quel giorno sull’agenda che portava con sé.
Di Claudia Santachiara il corpo rinvenuto a due anni dall’ultimo delitto. Al collo ha ancora il cappio che è servito per strangolarla. Stesso stile di vita: prostituta tossicodipendente, medesimo anche il disinteresse a trovare chi è riuscito a mettere fine alla sua vita.
Le indagini private di un giornalista
Nel frattempo Pier Luigi Salinaro, giornalista di cronaca nera, comincia a valutare le correlazioni tra tutte le morti. L’indizio numero uno è il rintocco di paura e violenza scandito ogni due anni. Anche i punti in cui si trovavano le vittime sono stati scelti con cura. Le vittime poi sono legate da un unico ambiente, quello della strada. In ultimo: mancano i documenti e gli effetti personali delle ragazze. Senza alcun dubbio una strategia per prendere tempo.
Salinaro è il primo che parla per la prima volta di “serial killer”, ma le sue parole restano indifferenti alla procura.
L’omicidio che depista le ricerche
Ogni convinzione di Salinaro è annullata da un punto che mette fine al “rituale” biennale. Il punto in questione è Fabiana Zuccarini, trovata “solo” meno di un anno dopo l’ultima follia. Si tratta di una ragazza semplice, non si prostituisce. Il modus operandi del killer seriale vacilla. In realtà, come anche Salinaro afferma, non si differenzia troppo dagli altri casi perché, benché non si prostituisse, assumeva con ogni probabilità sostanze stupefacenti.
"In quella circostanza fu individuata un’auto che, secondo qualcuno, aveva caricato Fabiana Zuccarini nella zona del parco Novi Sad di Modena, vicino la Stazione delle corriere. La stessa autovettura è stata poi individuata vicino a un bar da cui sarebbe scesa la Zuccarini – dichiara a IlGiornale.it Salinaro - Da quel momento le tracce di Fabiana si perdono assieme ai conducenti dell’auto per un lungo periodo. Questa stessa macchina è stata poi sequestrata dai carabinieri e analizzata, facendo sorgere dei sospetti. Il desino ha però voluto che il proprietario dell’auto morisse con un incidente e con lui ogni ipotesi riconducibile al crimine”.
Il caso di Fabiana Zuccarini ha dell'incredibile. Il pm, che avrebbe dovuto recarsi immediatamente sul posto per analizzare la scena del crimine, non si mosse mai dal suo ufficio e dunque: anche questa volta, il delitto fu considerato marginale. Un’altra morte. L’intervallo tra un omicidio e un altro questa volta è di pochi mesi. La settima vittima è un’ennesima donna che vende il suo corpo: Antonietta Sottostanti. Al Windsor Park di Modena i pompieri estraggono il suo cadavere. Non è morta soffocata dal fumo, ma da una calza di nylon premuta sulla sua bocca: qualcuno ha voluto nascondere la causa mortis.
Le ultime vittime: ritorna lo schema del serial killer
Il 4 febbraio 1992, esattamente due anni dopo, Anna Abbruzzese viene ritrovata nelle campagne di San Prospero. È una prostituta ed è stata strangolata. Lo schema di Salinaro sembra combaciare nuovamente e si rivela la pista migliore anche a fronte dell’omicidio successivo: il 26 gennaio 1994 la vittima è Annamaria Palermo trovata a Corlo, vicino a Formigine. Tutto continua a tacere e nessuno o quasi crede in un omicida seriale.
Un anno dopo però una donna che riceveva i suoi clienti nel suo appartamento, si trova riversa sul pavimento, una siringa che perfora il braccio fa intuire subito overdose, l’autopsia invece racconta che è stata soffocata. Il suo nome è Monica Abate. La prima sospettata è la convivente, Laura Bernardi. A incastrarla alcune gocce del suo sangue sul pianerottolo. Durante l’udienza preliminare del 1997 il Gip Caruso proscioglie la donna, mentre in sottofondo si sentono i boati di disaccordo. La ragione sta nel fatto che Caruso non è convinto dell’operato degli inquirenti, sospetta qualche errore fatto di proposito.
Da quel momento la gente si rende conto di quanto la sicurezza in città sia inesistente. Qualcuno tra le forze armate scambia droga per informazioni e bisogni sessuali? Scoppia come una bomba a mano il caos generale. Nasce tra le vie della città un’indignazione che cresce e si sparge. I giornalisti vogliono saperne di più e tirano fuori i nomi dei fratelli Savi, due dei quali agenti di polizia. Passa poco tempo che il confronto con il Dna scagiona tutti. Da quel momento però la scia di sangue cessa.
Ritorna il silenzio disturbato da un sottile ronzio, quello della mamma di Monica. Non crede alla pista del serial killer perché a uccidere quelle ragazze non poteva essere un solo uomo. Ne è convinta. Per questo motivo cerca di spingere chi ha le competenze per farlo a cercare i colpevoli nell’ambiente militare. Il motivo principale sta nel fatto che sua figlia aveva avuto una relazione proprio con un poliziotto poco prima di morire. Nessuno le dà retta. Buio per oltre 20 anni.
Il docufilm e i dubbi sul caso
Nell’estate del 2019 si ritorna a parlare del “Mostro di Modena” grazie al docufilm, disponibile su Sky, del regista Gabriele Veronesi che narra le vicende, senza indizi e indiziati, di una città indifferente.
Ritorna la figura di Pier Luigi Salinaro che questa volta si espone pubblicamente. È uno dei pochi che cerca ancora giustizia per queste ragazze. È fermamente convinto che durante le indagini siano stati fatti degli errori clamorosi che hanno impedito di trovare l’assassino (o gli assassini). Innanzitutto perché la procura non ha mai affidato il caso a un solo magistrato, creando confusione e perdendo tempo prezioso.
Secondo il giornalista si doveva cercare sin da subito il colpevole tra gli abitanti della città: “Si deve considerare una cosa importante: i cadaveri sono stati scaricati tutti in posti raggiungibili solo da chi conosce a memoria Modena e i suoi dintorni. Solo ed esclusivamente determinate persone potevano sapere dove lasciarle a colpo sicuro. Forse si potrebbe parlare di qualcuno che aveva già organizzato la morte di queste ragazze?”.
Tra i depistaggi vi è anche la scomparsa di alcuni documenti, come afferma Salinaro: “A un certo punto un ufficiale dei carabinieri fece un lungo rapporto sulla presunta esistenza di un’organizzazione - tipo “Uno Bianca” - che andava a colpire l’ambiente delle tossicodipendenti che saltuariamente si dedicavano alla prostituzione. Purtroppo quel rapporto è sparito. Non è nei fascicoli. Era stato affidato alla magistratura. Per questo motivo la mia ipotesi è che ci fosse una sorta di organizzazione. Non è escluso che potrebbe essere legata a uomini in divisa che eliminavano queste ragazze”.
Oggi “Mostro di Modena” è una figura che incuriosisce ma non spaventa più. Per molto tempo è stato dimenticato assieme alle sue vittime senza neanche sapere se si tratta di uno o più mostri. Certo è il docufilm di Veronesi ha scosso la coscienza della comunità e dopo la sua uscita il caso è stato affidato a un unico magistrato.
Altre vittime nascoste?
Nell'aprile del 2022 un ritrovamento agghiacciante ha riacceso i riflettori sul Modenese. A ridosso del fiume Tiepido a Torre Maina, Maranello, un uomo intento a raccogliere asparagi selvatici ha scorto un sacco in cellophane dalle forme sospette. Al suo interno, infatti, vi era il cadavere di una donna, poco distanti i brantelli di alcuni vestiti. Dato l'evidente stato di decomposizione del corpo che si trovava all'ultimo stadio, ovvero la scheletrizzazione, si ipotizza che la morte della vittima risalga a molto tempo fa. Ma esattamente di quali anni si tratta? In un periodo che coincilia con i dieci omicidi delle ragazze?
Le risposte a tutti i dubbi arriveranno solo dopo delicate e dettagliate analisi sul Dna, ma sarà necessario attendere. Si presume, dunque, che il tempo per arrivare alla verità sarà ancora inesorabilmente lungo.
· Il Mistero del Mostro di Roma.
"Io stesso temo il mio nome". Il mostro che non fece mai del male. Angela Leucci il 18 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Omicidi, stupri e violenze: la storia del Mostro di Roma e di Gino Girolimoni.
Negli anni ’20 in Italia si intrecciarono due storie ormai quasi dimenticate: quella di cronaca del Mostro di Roma e la vicenda giudiziaria di Gino Girolimoni. Che fu inquisito come Mostro, ma non fu il Mostro. Il quale, in realtà, non fu mai trovato, ma a un certo punto smise di colpire.
Girolimoni, romano classe 1889, di mestiere era un mediatore per infortuni sul lavoro, ma si occupava anche di fotografia. Nel 1927 fu arrestato con l’accusa di diversi omicidi, stupri e una molestia sessuale su una minorenne - quest’ultima fu la causa scatenante della sua identificazione con il Mostro. Ma non aveva mai commesso nulla del genere, anche l’accusa di molestie fu frutto di un’incomprensione: una giovanissima domestica aveva affermato di aver ricevuto da lui proposte oscene, ma in realtà pare che Girolimoni cercasse di approcciarsi alla ben più adulta, sposata e aristocratica signora da cui la ragazza era a servizio.
Gli omicidi e i crimini del Mostro di Roma
Il Mostro di Roma fu un assassino che tra il 1924 e il 1927 commise le violenze sessuali e gli omicidi di cui fu poi accusato Girolimoni. E che, paradossalmente, lasciò di sé numerose, sebbene presunte, tracce che non permisero mai di acciuffare il vero colpevole. Le vittime del Mostro, che subirono violenze sessuali, strangolamenti e soffocamenti, furono diverse. La prima fu Emma Giacomini di 4 anni e mezzo. Fu rapita il 31 marzo ’24 insieme al fratellino che venne ritrovato nei pressi di un cinema. Nelle ore successive venne ritrovata anche lei, con lesioni ai genitali e al collo, come avesse subito un tentativo di violenza e strangolamento.
Poi fu la volta di Bianca Carlieri, detta la Biocchetta, di 3 anni e 8 mesi, che fu rapita e uccisa il 4 giugno ’24. Seguirono Rosina Pelli, 2 anni e mezzo, rapita e uccisa il 24 novembre ’24, Elsa Berni, 6 anni, rapita e uccisa il 30 maggio ’25, Celeste Tagliaferri, 17 mesi, rapita il 26 agosto ’25, Elvira Colitti, 6 anni, rapita il 12 febbraio ’26, e Armanda Leonardi, 5 anni, rapita e uccisa il 12 marzo ’27.
Il caso Girolimoni
L’opinione pubblica fu chiaramente sconvolta da questa spirale di violenza, ma arrivò anche a interrogarsi sulle proprie abitudini: le bambine furono rapite perché giocavano da sole per strada, cosa che i genitori dell’epoca permettevano ampiamente. Ne fecero le spese tre uomini. Il primo fu Francesco Imbardelli detto Giggione, 32enne affetto da una malattia mentale, che si autoaccusò di uno degli omicidi. Giggione però aveva un alibi e fu internato, anche a causa delle varie versioni fornite, al manicomio di Roma. Ci fu poi il caso del vetturino Amedeo Sterbini che, accusato dagli abitanti del quartiere di essere il Mostro, ingerì acido muriatico lasciando due lettere in cui affermava la sua estraneità ai delitti.
E poi c’è naturalmente Girolimoni. Una premessa è d’obbligo per comprendere una delle ragioni per cui l’uomo fu inizialmente inchiodato dagli inquirenti: la criminologia dell’epoca era basata sulle teorie di Cesare Lombroso, oggi ampiamente confutate. Per cui inizialmente la polizia cercò uomini che presentassero deformità o profili che suggerissero problemi di salute mentale, o addirittura cinesi: era impensabile per l’epoca che il colpevole di questi crimini fosse qualcuno dall’apparenza assolutamente normale. O addirittura elegante, come suggerivano alcuni testimoni dei rapimenti.
Girolimoni assommava entrambe le caratteristiche cercate. Era un uomo elegante, che ci teneva al lusso. Possedeva una bella auto, un guardaroba diversificato e in casa sua erano state trovate fotografie che lo ritraevano con diversi travestimenti, oltre che vari scatti di bambine e tante caramelle: tanto bastava a suggerire che in effetti fosse lui il Mostro che cercavano. Alcune coincidenze non mancavano: dei testimoni avevano parlato di un uomo con accento veneto e Girolimoni aveva vissuto in quella regione, era stata trovata in casa sua una foto che ritraeva al contempo il punto esatto di un rapimento e del ritrovamento di una delle vittime, possedeva biancheria con le proprie iniziali, simile a quella trovata sul luogo del delitto (ma le iniziali differivano). In più era di padre ignoto, cosa che per l’epoca equivaleva quasi a un’ammissione di colpa. Tuttavia i giudici demolirono tutte le prove, anche le testimonianze di chi disse di aver riconosciuto Girolimoni forse per intascare la taglia di 50mila lire sul Mostro, e l’8 marzo 1928 il fotografo venne assolto per non aver commesso il fatto.
Chi fu l’assassino?
A credere da sempre all’innocenza di Girolimoni è un funzionario di polizia, Giuseppe Dosi, che puntò il dito su un altro presunto colpevole. Si trattava di Ralph Lyonel Bridges, pastore anglicano che venne fermato a Capri nella primavera del ’27 con l’accusa di atti di libidine su una bimba di 9 anni. Ma Bridges non c’entrava: non parlava così bene l’italiano, avrebbe mai potuto entrare in confidenza e farsi seguire da tutte quelle bimbe romane, anche con la promessa di dolci e caramelle?
In buona sostanza, il Mostro di Roma non è stato mai trovato, ma se ne può stilare un profilo ben preciso, sebbene la descrizione fisica fornita dai testimoni cambi da persona a persona. Si tratta sicuramente di un uomo che all’epoca aveva 35-40 anni, che conosceva il territorio nel quale si muoveva, ossia alcuni vicoli popolari di Roma non distanti da quello che oggi è il Vaticano. È stato un serial killer probabilmente disordinato, anche se è difficile dirlo solo in base ai dettagli ritrovati sulle scene del delitto. È molto probabile che avesse problemi a relazionarsi con le donne: da qui la sua pulsione, la furia violenta e omicida nei confronti delle bimbe.
Sicuramente oggi sarebbe stato fermato molto prima, grazie al tracciamento degli smartphone in possesso anche dei bambini e grazie alle telecamere di sorveglianza che sono in ogni dove. E forse è anche la ragione per cui, dopo di lui, questo tipo di crimini sono stati meno numerosi. In più sono cambiate le abitudini delle persone, dato che le famiglie difficilmente consentono a bambini così piccoli di giocare per strada. Come in una similitudine usata da Andrea G. Pinketts in un suo racconto, i bambini devono essere tutelati dalle automobili e dai “lupi”. Ma naturalmente il Mostro di Roma non era un lupo, era un uomo, anche se ancora senza volto.
Tra libri e film
L’influenza culturale del caso Girolimoni è stata fortissima e rivela perché oggi l’informazione corretta in Italia si fondi su determinati meccanismi come il diritto di rettifica, che deve seguire spazi e regole sulla stampa per essere efficace. Nel caso di Girolimoni non lo fu e potrebbe essere la ragione per cui questo nome è diventato sinonimo di pedofilo, oppure venga usato per definire qualcosa di vago dal punto di vista erotico, come vizioso o dedito a rapporti non eteronormativi. “È arrivato Girolimoni”, dice Alessandro Haber in “Parenti serpenti” (1992) quando rivela ai suoi famigliari di essere omosessuale, cacciando via i nipotini dalla stanza.
Il fenomeno viene rimarcato anche nel film “Girolimoni, il mostro di Roma” con Nino Manfredi nel ruolo del protagonista. Nelle scene in cui il personaggio di Manfredi è ormai fuori dal carcere deve infatti scendere a patti con il fatto che le persone, pur non riconoscendolo per strada, utilizzino il suo nome con un'accezione negativa. Il merito della pellicola, che contiene diverse parti fantasiose, è quella di restituire allo spettatore una parte di verità, dai sospetti sul sacerdote inglese, fino a una consapevolezza che Girolimoni aveva in effetti, come riporta una citazione attribuita all’uomo che si può leggere sul volume “Un mostro chiamato Girolimoni” di Sanvitale e Palmegiani: “Persino io ho paura ancora di pronunciare il mio nome. Ho paura di dire: io sono Girolimoni. Mi fossi almeno chiamato Rossi, Franceschi, De Rosa, Esposito. Ma Girolimoni! Un cognome non comune”.
Il libro di Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani è scritto in forma dialogica, come se i due autori stessero facendo con il lettore un brainstorming sulla possibile soluzione del caso, soluzione che non arriva alla fine, perché non c'è. La vicenda di Girolimoni ha affascinato e spinto a scrivere in molti, da Damiano Damiani che fu il regista del film con Manfredi a Giuseppe Dosi che si occupò delle indagini fino a Federica Sciarelli con Emmanuele Agostini, che ha realizzato un volume la cui scrittura, evocativa e letteraria più che cronachistica, riesce a condurre il lettore mano nella mano con le piccole vittime.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
· Il Mistero del Mostro di Firenze.
Rossella Corazzin, uccisa a 17 anni in Cadore: «É coinvolto il Mostro di Firenze». La relazione della Commissione parlamentare Antimafia riapre il caso: «Sparì in Cadore nel ‘75: tra i responsabili neonazisti, massoni e il serial killer di Firenze». Andrea Priante e Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.
«Rapita in Cadore, violentata nel corso di una cerimonia a sfondo iniziatico ed esoterico e strangolata in una villa vicino al lago Trasimeno di proprietà di Francesco Narducci». Un’anima semplice finita in un vortice nero dove c’è dentro di tutto: logge massoniche, estremismo di destra, una setta dedita ai sacrifici umani e pure questo Narducci, medico perugino affiliato al gruppo della Rosa Rossa e lambito dai delitti del Mostro di Firenze. Così sarebbe morta Rossella Corazzin, 17 anni di San Vito al Tagliamento (Udine) scomparsa un pomeriggio d’estate del 1975 mentre era in villeggiatura con i genitori a Tai, nel Bellunese, dopo aver lasciato delle lettere nelle quali accennava al fatto di aver conosciuto un certo «Gianni».
L’Antimafia e Izzo
Quasi mezzo secolo dopo, la Commissione bicamerale Antimafia ha ripreso e dettagliato la ricostruzione dei fatti fornita sulla vicenda da Angelo Izzo, il «mostro del Circeo», una delle personalità più inquietanti della cronaca nera italiana. Fu lui nel 2016 a riaprire il caso Corazzin, che poi venne archiviato dalla procura di Perugia giudicando la sua versione inattendibile. Ma secondo la bozza della relazione finale della Commissione, della quale è entrato in possesso il Corriere, i fatti raccontati da Izzo non possono essere liquidati come non credibili: «Abbiamo ritenuto utile approfondire, anche in considerazione della divergenza di opinioni tra la procura di Perugia e le riflessioni di un magistrato già procuratore capo di Belluno... Dal racconto emergono elementi che non hanno trovato smentita, specie per quanto riguarda il medico perugino e la sua villa sul Trasimeno». Il riferimento è a Narducci, professore dell’ateneo perugino e gastro-enterologo di fama, scomparso misteriosamente nel lago umbro nel 1985, quando il suo nome cominciò a più riprese a essere associato ai delitti del Mostro di Firenze.
Interrogatori in carcere
Il lavoro d’inchiesta della commissione - che si è sciolta con le Camere ed era presieduta da Nicola Morra mentre la relazione sulla Corazzin è stata coordinata dall’avvocata pentastellata Stefania Ascari - è iniziato interrogando in carcere, nel 2021, il pluriomicida Angelo Izzo, ed è proseguito cercando riscontro alle sue presunte rivelazioni. I parlamentari hanno studiato gli atti giudiziari e ri-sentito ex criminali (come Gianni Guido, altro responsabile del massacro del Circeo, avvenuto meno di un mese dopo il rapimento di Rossella) ma anche investigatori, personaggi della massoneria, e il 90enne ex legionario Giampietro Vigilanti, legato agli ambienti dell’estrema destra.
Pista satanica
Si parte da Izzo, dunque. Ripete che il «Gianni» di cui scriveva Rossella era proprio Gianni Guido (la cui famiglia aveva una casa a Cortina) e che al delitto parteciparono diverse persone, compreso S.D.L. «nome molto noto dell’area dell’eversione neofascista dell’epoca». Si sarebbero alternate per giorni nella villa di San Feliciano di Magione messa a disposizione da Narducci, nella quale la ragazza fu trasferita dopo il rapimento nel Bellunese (e una tappa intermedia a Riccione), sottoposta a un rito satanico, violentata e infine uccisa. «Il suo corpo l’hanno sotterrato in un bosco lì vicino» sostiene Izzo, che aggiunge: il gastro-enterologo è collegato anche al duplice omicidio avvenuto l’anno precedente, il 14 settembre del 1974, di Pasquale Gentilcuore e Stefania Pettini, a Borgo San Lorenzo, in Toscana. La tesi è chiara: c’è un filo rosso che parte dall’uccisione della coppia, prosegue con la morte di Rossella e culmina con le azioni del serial killer di Firenze. E dietro a tutto ci sarebbe sempre Narducci, che secondo Izzo apparteneva al gruppo della «Rosa Rossa» (già affiorato nelle passate inchieste sul «mostro») e a quello satanico-nazista dei «Nove Angoli», dedito ai sacrifici umani.
La Massoneria
Il sospetto è che si tratti solo dei deliri di un criminale che già in passato si è dimostrato inaffidabile. Ma la Commissione scava e trova diversi riscontri. La descrizione che Izzo fa del luogo dell’omicidio della 17enne, innanzitutto: è talmente dettagliato da dimostrare «con ragionevole probabilità che egli si era recato effettivamente nella villa di Narducci». E anche la vicinanza del medico al mondo dell’esoterismo: viene sentito Giuliano Di Bernardo, che è stato Gran Maestro della loggia del Grande Oriente d’Italia dal 1990 al 1993, il quale «ha delineato, in termini di certezza, il complessivo coinvolgimento massonico in tutta la vicenda Narducci». Non solo: Di Bernardo «ricevette continue indiscrezioni circa il coinvolgimento di Narducci nella vicenda dei duplici omicidi di coppie accaduti nelle campagne di Firenze e di Prato».
Quel medico misterioso
La Commissione sembra non avere dubbi: «Francesco Narducci appare “raggiunto” da plurimi elementi indiziari che lo fanno ritenere coinvolto nella serie dei «delitti delle coppie» verificatisi nella provincia fiorentina, dal 1974 al 1985, e ciò depone nel senso sia di una sua possibile partecipazione diretta ad alcuni degli omicidi, sia di una partecipazione realizzatasi come custode dei cosiddetti “feticci”, cioè delle parti asportate ad alcune vittime femminili». Sarebbe lui il «dottore» al quale venivano consegnati i «trofei».
Lo scambio di cadavere
Nella bozza della relazione (che verrà resa pubblica nei prossimi giorni) si ricostruisce anche la grande messinscena che si celerebbe dietro la morte - ufficialmente per suicidio - di Narducci, ripescato cadavere il 13 ottobre 1985. In realtà quel corpo gonfio - incompatibile con i pantaloni stretti scoperti alla riesumazione avvenuta nel 2002 - non era del medico ma di qualcun altro, «forse il corriere della droga messicano Jorge Hernandez Heredia». Per allontanare da Narducci le indagini sul mostro di Firenze, alcuni dei suoi complici ne avrebbero organizzato la fuga, inscenandone il decesso. E qui la Commissione vede due possibili scenari: negli stessi giorni, il medico potrebbe essere stato raggiunto e ammazzato da chi non si fidava a lasciarlo scappare; oppure potrebbe effettivamente essere fuggito per poi morire molto tempo dopo (forse ucciso), con il suo cadavere infilato nella tomba al posto di quello del messicano. Un film.
La casa in Cadore
Tornando a Rossella, c’è un elemento che collega Narducci alle montagne venete: «Una casa di villeggiatura che lui aveva in Cadore, questo significa che bazzicava quelle zone» spiega la deputata Ascari al Corriere. Oltre a Gianni Guido, che in quei giorni si trovava in vacanza a Cortina. «Lui ora vive in un’altra dimensione - prosegue la pentastellata - molto distante dagli ambienti estremisti, e nega tutto. Ma noi non possiamo non notare le similitudini delle due vicende: Corazzin e Circeo, anche solo per la brutalità dei modi».
I riferimenti
Nelle conclusioni della bozza della relazione, si legge che nelle parole di Izzo «emergono riferimenti che non hanno trovato smentita». È pur vero che «anche a proposito del presunto delitto in danno di Rossella Corazzin, non si può certo dargli credito senza riscontri» ma i fatti descritti «presentano la caratteristica di avere avuto, solo a distanza di molti anni, una qualche spiegazione e delle indicazioni puntuali». Toccherà alla futura Commissione antimafia il compito di proseguire il lavoro di indagine, e Ascari si augura che il materiale venga preso in esame anche dalla magistratura che quindi potrebbe riaprire l’inchiesta sulla sparizione della 17enne.
Lo strazio della famiglia
A ricordare cosa significò tutto questo per la famiglia Corazzin, ci pensa la cugina Mara. «Ricordo che la mamma ha vissuto per lei fino alla morte e il padre, che lavorava con il mio, dopo la sparizione si era chiuso in un silenzio assoluto: sedeva in cucina, a capotavola, e stava ore senza aprir bocca». Per Mara le rivelazioni di Izzo, prese in considerazione dall’Antimafia, sono state una botta: «Durissima, penso al male assoluto nel quale è finita l’anima bella di Rossella e quanto avrà sofferto».
Andrea Galli per corriere.it il 4 ottobre 2022.
I sopralluoghi sulla scena del crimine dei duplici omicidi. Le perizie sulle lettere di minacce ai magistrati. Un nastro riproducente una telefonata anonima. E ancora: scatti fotografici, verbali di testimoni, approfondimenti su proiettili, videocassette… Un ampio, variegato e dirimente materiale, relativo alla catena di morte del cosiddetto «mostro di Firenze», che sarebbe sparito.
Perché altrimenti non si spiega il motivo per cui, in Procura a Firenze, con duratura insistenza, con vere «azioni di blocco», con manovre di scaricabarile, viene impedito agli avvocati dei familiari delle vittime di accedere agli atti.
L’esposto
Per cominciare, partirà un esposto diretto al ministero di Giustizia, come anticipa il legale Antonio Mazzeo. Il passo successivo sarà la richiesta di revisione delle sentenze di condanna, poiché, dice l’avvocato Valter Biscotti, «ho avuto incarico di procedere dal nipote di Mario Vanni», ovvero uno degli imputati e peraltro coniatore dell’espressione «compagni di merende» nel corso dei processi per le 14 vittime accertate tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta.
In totale, il materiale mancante, o meglio non fornito dai magistrati, si articola in undici punti, compresi gli approfondimenti di indagine, successivi al giugno 1985, nei confronti di persone sospettate, nonché il fascicolo integrale della testimonianza di un’autostoppista.
La testimonianza
Era diretta verso Borgo San Lorenzo e in seguito riferì che la persona che le aveva dato il passaggio le anticipò la notizia (a quell’epoca ignota) di una lettera contenente reperti organici del cadavere di Nadine Mauriot inviata al magistrato Silvia Della Monica. Come poteva sapere, quell’autostoppista considerato che nessun giornale – nessuno – aveva mai parlato di quella vicenda? Con chi aveva legami? Carnefici oppure inquirenti? Domande di un eterno mistero della storia d’Italia.
Pacciani, i pm e le storture giudiziarie: la "verità" di Sgarbi sul Mostro di Firenze. In un'intervista realizzata da Paolo Cochi, Vittorio Sgarbi torna dopo quasi trent'anni a parlare del mostro di Firenze, scagliandosi contro le storture di una giustizia che troppo spesso si lascia condizionare dall'opinione pubblica. Gianluca Zanella il 18 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Forse non sono in molti a ricordarlo, ma nel 1996 Vittorio Sgarbi, all’interno della sua trasmissione Mediaset Sgarbi Quotidiani, tra i diversi argomenti trattati scelse di affrontare anche uno dei maggiori casi mediatici dell’epoca, quello del processo a Pietro Pacciani, condannato all’ergastolo nel 1994 per essere stato individuato come il mostro di Firenze.
Tra le prove utilizzate per incastrarlo, l’ormai famoso proiettile calibro 22 ritrovato nel suo giardino durante una perquisizione. Una prova considerata schiacciante, in quanto proiettili della stessa tipologia erano stati ritrovati in tutte le scene del crimine, da quella 1968, fino all’ultima del 1985.
Sgarbi colse l’occasione di parlare di questo caso in corrispondenza dell’assoluzione di Pacciani avvenuta il 13 febbraio 1996 a opera della corte d’assise d’appello di Firenze, quando il pm Pietro Tony criticò aspramente l’operato di chi lo aveva preceduto. Vittorio Sgarbi, nello specifico, si scagliava contro i giornali colpevoli di crocifiggere il magistrato Tony per le decisioni prese e di voler trasformare quello del mostro in un caso politico.
Sgarbi – in un’esibizione da manuale di garantismo – non negava la natura perversa di Pacciani, semplicemente conveniva con Tony che non ci fossero gli elementi per considerare il contadino di Mercatale come il mostro di Firenze. Certo, era un mostro, ma non quel mostro.
Il critico d'arte si scagliò contro un altro grande accusatore di Pacciani come il magistrato Pier Luigi Vigna, che aveva aspramente criticato l’operato di Tony, invitandolo a leggere l’Ode del dubbio di Bertolt Brecht. Con la sua inconfondibile verve, Sgarbi andava controcorrente, fregandosene di tutto e tutti e definendo Tony “un eroe perché ha fatto quello che doveva fare”.
La storia di Pacciani la conosciamo. Nel dicembre del 1996 la Cassazione annulla l’assoluzione e dispone un nuovo processo che però non ci sarà mai: Pietro Pacciani muore improvvisamente il 22 febbraio 1998.
A distanza di 26 anni da quella trasmissione, dopo che tre perizie [quella di Paride Minervini e due dei carabinieri del Ris, ndr] hanno decretato la prova regina contro Pacciani – quel proiettile calibro 22 rinvenuto nel giardino – un falso, il documentarista e scrittore Paolo Cochi, che da molti anni segue attentamente gli sviluppi della vicenda legata agli omicidi del mostro di Firenze, è tornato a intervistare Vittorio Sgarbi che, sostanzialmente, non la pensa molto diversamente da come la pensava quasi tre decenni fa, considerando questi sviluppi [che in realtà risalgono al 2019, ndr] come il vero trionfo di un magistrato ingiustamente dimenticato, Pietro Tony, appunto.
Nell’intervista che IlGiornale.it ha potuto ascoltare in anteprima e che sarà trasmessa integralmente mercoledì sera nel corso di una puntata dedicata al mostro di Firenze sul canale YouTube DarkSide – storia segreta d’Italia, Sgarbi punta il dito contro quella giustizia “che segue le mode o le tendenze”.
“C’è il momento di Tangentopoli e ogni politico è colpevole. E ancora oggi si sconta questa violenta azione della magistratura. Poi c’è il momento in cui tutti dicono che Pacciani è colpevole, quindi occorre il colpevole”.
Un discorso vecchio ma che non passa mai di moda: a fronte della necessità che un magistrato o un’intera procura valutino per un caso particolarmente complicato gli elementi a disposizione con neutralità, l’opinione pubblica e la pressione mediatica impongono una distorsione della realtà e, conseguentemente, della giustizia. Ecco allora delle sentenze indecenti e il paradosso che vede i magistrati seri e rigorosi messi all’angolo e, spesso, anche alla gogna.
Nell’intervista realizzata da Cochi, Sgarbi ricorda i processi a Giulio Andreotti, quelli a Bettino Craxi, concludendo amaramente: “La procura di Firenze fu stretta dalla necessità di dare al popolo un colpevole. Tony disse e fece cose corrette in un momento sbagliato”. E a distanza di tanti anni, chissà che non sia arrivato il momento giusto per rendere giustizia alle tante vittime del “mostro” e alle loro famiglie.
Italia 1993, il mostro Pacciani: una crudeltà lucida che mescolava pietà e violenza. Teresa Ciabatti su Il Corriere della Sera il 22 Luglio 2022.
Accusato di essere il violentatore omicida di Firenze, stuprava le figlie di 9 anni e su una parete di casa teneva le foto delle bambine nude accanto a immagini sacre
Come passare l’estate? A riguardare Un giorno in pretura su RaiPlay. Condotto da Roberta Petrelluzzi, non ha niente da invidiare alle docuserie del momento. Non solo per il materiale d’archivio preziosissimo, ma per il montaggio, la consequenzialità narrativa con cui vengono raccontate le vicende giudiziarie e il contrappunto di Petrelluzzi che non giudica mai, riportando alla misura, se non al dubbio. Tra i casi più interessanti il processo a Pietro Pacciani accusato di essere Il Mostro di Firenze. La ricostruzione del processo ha un valore giudiziario, e insieme antropologico. Attraverso i testimoni, attraverso voci ora spavalde, ora impaurite (vedi le figlie di Pacciani), vergognose (vedi le prostitute), si compone uno spaccato della storia del nostro Paese, un documento che racconta chi eravamo trent’anni fa.
Quel mondo che ridacchia in tribunale
Pietro Pacciani, lucidissimo e crudele, violenta le figlie dall’età di nove anni, spiegando loro: «A venire con me non c’è pericolo, con gli altri invece rischiate di rimanere incinte». Nel caso le bambine dovessero rifiutarsi, giù botte. A detta di un testimone, su una parete di casa, mischiate a immagini sacre, Pacciani tiene le foto di donne nude tra cui quelle delle figlie - qui a sottolineare l’assoluta non percezione dell’abominio, finanche l’esibizione presso un mondo che accetta. Lo stesso mondo che in Tribunale ridacchia allorché Pacciani scatta in piedi per replicare alla testimonianza di una donna: «La lasciai per l’odore che aveva lei, puzzava di volpe (...) E lei mi dice che io venni a cercare lei? Se io l’avessi attaccata a un piede, mi taglierei il piede» (frase testuale). È il 1993, l’imputato (già in carcere per aver stuprato le figlie) è accusato di sedici omicidi. Il resto, in una gerarchia naturale di reati, finisce in farsa.
Immagini sacre e incesto
Eppure è proprio questo resto, il carico di dettagli ininfluenti ai fini processuali - scoppi d’ira, insulti, risate - che oggi, a distanza di trent’anni, impressiona. L’ostinazione, quasi la fiducia dei protagonisti che tutto possa stare insieme, perché normale. Così dopo il racconto mostruoso delle figlie sulle violenze subite, Pacciani in lacrime sostiene di aver voluto un gran bene alle bambine. E così, a inizio processo, lui recita una sua poesia: «Se nel mondo esistesse un po’ di bene, se ognuno si considerasse suo fratello, ci sarebbe meno pensieri e meno pene, e il mondo sarebbe assai più bello». La contiguità tra pietà e violenza, tra preghiera e ingiuria, definisce il contesto e il tempo. Come la parete dove sono affiancate immagini sacre e foto di incesto.
Edoardo Montolli per “il Giornale” il 7 Luglio 2022.
Il proiettile ritrovato nell'orto di Pietro Pacciani non fu mai incamerato nella Beretta calibro 22 usata dal mostro di Firenze per uccidere 16 volte. Lo rivela una perizia del Ris che il Giornale ha avuto modo di visionare, depositata negli atti cui i parenti delle vittime hanno finalmente avuto modo di accedere. Di più. Non solo la scalfitura sul proiettile risulta «incompatibile» con quella pistola, ma potrebbe essere stata generata da «un utensile non meglio specificato, estraneo all'estrattore di un arma da fuoco».
Arriva così la più importante delle conferme alla perizia di Paride Minervini che già ipotizzò nel 2019 come il proiettile, unica vera prova contro il contadino di Mercatale, fosse stato artefatto, ovvero, costruito in laboratorio. Il pm Luca Turco ha chiesto l'archiviazione del fascicolo, essendo ormai passato troppo tempo per poter accertare le responsabilità penali di quanto successo. Piccolo paradosso: il reato di depistaggio ha tempi di prescrizione aumentati, decisione dell'ex premier Matteo Renzi su cui indaga lo stesso Turco.
Resta il fondato dubbio che la più lunga inchiesta giudiziaria nella storia italiana sia stata viziata da un immane depistaggio, che portò in cella una lunga serie di innocenti. Prima Pacciani, poi i suoi compagni di merende Mario Vanni e Giancarlo Lotti con le sue deliranti confessioni. Infine, a cascata, le inchieste satelliti di Perugia sui mandanti e sul medico Francesco Narducci, terminate con un nulla di fatto.
E a dirla tutta sarebbe fondamentale accertare chi mise in atto il depistaggio, non solo perché tre duplici delitti sono rimasti irrisolti, ma perché è ora verosimile che nessuna delle coppiette uccise dal 1968 al 1985 abbia ottenuto giustizia. Il documentarista Paolo Cochi, autore di un monumentale libro sulla vicenda e consulente dei parenti di alcune delle vittime, è convinto che all'interno delle carte sul procedimento Pacciani possa nascondersi il nome del vero serial killer.
Come ha dato conto il Giornale lo scorso dicembre, tre sono gli elementi di particolare interesse: il Dna rimasto su tre lettere inviate ad altrettanti magistrati nel 1985, un uomo castano-rossiccio di un metro e ottanta visto da alcuni testimoni prima degli omicidi di Claudio Stefanacci e Pia Rontini del 1984.
Ma soprattutto un dossier dei carabinieri su un furto di cinque Beretta calibro 22 in un'armeria nel 1965. La pistola mai ritrovata delle cinque portava ad un uomo che avrebbe lavorato in ambienti giudiziari nonostante denunce per reati contro la libertà sessuale, truffa e resistenza. Per i carabinieri poteva essere l'assassino.
Ma la Squadra antimostro di Ruggero Perugini, quella che trovò il proiettile nell'orto di Pacciani, non lo mise inspiegabilmente mai tra i sospetti. Cochi aveva avuto accesso a quel dossier come consulente di Rosanna De Nuccio, accesso poi sorprendentemente revocato dalla procura e ora concesso dal gip Silvia Romeo, nonostante il parere contrario di Turco e poco dopo che le parti civili avevano chiesto l'avocazione dell'inchiesta. Ieri il gip Angela Fantechi ha dato il via libera anche agli atti dell'ultima inchiesta, quella sull'ex legionario Giampiero Vigilanti.
Dice Cochi: «Il provvedimento del gip Romeo ribadisce il diritto prevalente dei familiari ad accedere agli atti ed a svolgere indagini difensive, rispetto ad una riservatezza sulle indagini richiamata dal pm, che si opponeva ostinatamente da anni. Parliamo di atti di processi del 1994 con sentenza passata in giudicato. Ora vedremo come gli avvocati si muoveranno materialmente sull'acquisizione. Dopodiché potrò fare i riscontri necessari e poter dare una valutazione sul merito degli atti fino ad ora sconosciuti». La verità sul mistero sul vero Mostro si avvicina, sempre che la Procura di Firenze non si arrenda.
Mostro di Firenze, "bossolo non compatibile": hanno incastrato Pacciani? Libero Quotidiano l'08 luglio 2022
Dubbi e ombre sul mostro di Firenze: una delle ultime scoperte riguarda il proiettile ritrovato nell'orto di Pietro Pacciani, condannato in primo grado a più ergastoli per i duplici omicidi commessi dal 1974 al 1985 e successivamente assolto in appello e morto prima di essere sottoposto a un nuovo processo per appello. Pare, infatti, che quel proiettile non sia mai stato incamerato nella Beretta calibro 22, l'arma usata per uccidere 16 volte. A rivelarlo è stata una perizia del Ris visionata dal Giornale e depositata negli atti.
Dalla perizia è emerso che non solo la scalfitura sul proiettile risulta "incompatibile" con quella pistola, ma anche che potrebbe essere stata causata da "un utensile non meglio specificato, estraneo all'estrattore di un'arma da fuoco". In ogni caso, non è la prima volta che si arriva a una conclusione di questo tipo. Già nel 2019 la perizia di Paride Minervini mise nero su bianco la possibilità che l'unica prova contro Pacciani fosse stata costruita solo per incastrarlo. Che ci sia stato un depistaggio? Il sospetto è che siano finiti in carcere degli innocenti. Non solo Pacciani, ma anche i suoi cosiddetti compagni di merende, Mario Vanni e Giancarlo Lotti.
Se l'ipotesi del depistaggio venisse confermata, però, bisognerebbe accertare il responsabile della situazione. Secondo Paolo Cochi, autore di un libro sulla vicenda e consulente dei parenti di alcune delle vittime, all'interno delle carte sul procedimento Pacciani si nasconde il nome del vero killer. Gli elementi di interesse, come sottolinea il Giornale, sono tre: "Il Dna rimasto su tre lettere inviate ad altrettanti magistrati nel 1985, un uomo castano-rossiccio di un metro e ottanta visto da alcuni testimoni prima degli omicidi di Claudio Stefanacci e Pia Rontini del 1984. Ma soprattutto un dossier dei carabinieri su un furto di cinque Beretta calibro 22 in un'armeria nel 1965". Di queste armi, una avrebbe condotto a un uomo che avrebbe lavorato in ambienti giudiziari nonostante denunce per reati contro la libertà sessuale, truffa e resistenza. La persona in questione però non fu mai messa tra i sospetti.
"Un serial killer solitario". L'ipotesi sul mostro di Firenze. Gianluca Zanella il 5 Luglio 2022 su Il Giornale.
In un’intervista esclusiva, l’avvocato Valter Biscotti ritiene che la svolta per individuare il “mostro di Firenze” possa giungere dall’utilizzo delle nuove tecnologie d’indagine
Giusto pochi giorni fa, l’avvocato Valter Biscotti - che rappresenta Estelle Lanciotti, figlia di Nadine Mauriot, l’ultima vittima femminile del Mostro di Firenze, massacrata insieme al compagno Jean-Michel Kraveichvili nella notte tra l’8 e il 9 settembre 1985 a Scopeti, in provincia di Firenze – aveva chiesto l’avocazione delle indagini sul mostro alla Procura generale di Firenze. Due giorni dopo, il 1 luglio, si viene a sapere che la procura ha chiesto al Gip l’archiviazione di un filone d’inchiesta citato da Biscotti nella sua richiesta di avocazione, ovvero quello riguardante il proiettile ritrovato nel 1992 – dunque nel pieno delle indagini – nel giardino di Pietro Pacciani. Il Gip Silvia Romano si è riservata di decidere sull’archiviazione. Sembra davvero che vecchi fantasmi siano tornati ad agitare i sonni di qualcuno. Dopotutto, come sarebbe possibile dimenticare quella stagione di sangue che ha strappato alla vita sedici persone e terrorizzato un’intera nazione? Come sarebbe possibile se, nonostante le condanne, molti sono i dubbi sulla vera identità del mostro? Probabilmente, il fenomeno “pop” del mostro di Firenze non cesserà mai di esercitare il suo fascino perverso. Almeno fin quando non dovesse uscir fuori qualcosa, un indizio che finalmente possa far scrivere la parola “fine” su questa vicenda. Ne abbiamo parlato con Valter Biscotti, avvocato penalista di lungo corso, che nella sua carriera di casi oscuri ne ha visti non pochi: dal delitto di Meredith Kertcher a quello di Sarah Scazzi; da Salvatore Parolisi al delitto dell’Olgiata. Ecco l’intervista.
Avvocato, in pochi fatti di cronaca nera troviamo un pubblico schierato in quelle che potremmo definire vere e proprie tifoserie come nel caso del Mostro di Firenze, secondo lei per quale ragione?
“Beh, in tutti i casi di cronaca nera attenzionati dai grandi mass media, da sempre si formano delle fazioni che di solito possiamo dividere tra innocentisti e colpevolisti. Un tempo, negli anni ’50, le persone, in occasione dei grandi processi, si raccoglievano nelle piazze antistanti ai tribunali. Oggi ci sono i social che alimentano una discussione non sempre equilibrata”.
Ha parlato di innocentisti e colpevolisti. Nel caso del Mostro di Firenze, però, le piste sono davvero molte. Alcune più solide, altre meno, e allora le chiedo: i colpevolisti a chi attribuiscono la colpa? E gli innocentisti di chi sostengono l’innocenza?”
“Intanto bisogna prendere atto che ci sono stati un processo a Pacciani che non si è concluso per la morte dell’imputato; c’è un altro processo che si è concluso con tre gradi di giudizio con la condanna di Vanni, Lotti, i cosiddetti compagni di merende. Poi ci sono dei procedimenti archiviati dopo indagini e stiamo parlando di quelli contro Giampiero Vigilanti e assoluzioni come quella a Francesco Calamandrei. Il problema qual è? Certi processi possono diventare paradigmatici per un certo modo di condurre e intendere la giustizia. I processi sul Mostro di Firenze sono tra questi. Io sono convinto che la verità non sia quella descritta nelle sentenze che fin ora abbiamo avuto, io credo che il cosiddetto mostro sia un serial killer”.
Quindi possiamo definirla un innocentista?
“No, ma sono convinto che quei processi non sono serviti per accertare tutta la verità. Ci sono delle sentenze che sono quello che sono, sono sentenze passate in giudicato, quindi allo stato attuale quelle fanno testo. Ma le sentenze si possono discutere, si possono opinare, si possono addirittura contrastare, non a caso nel nostro sistema processuale penale, se esiste l’istituto della revisione delle sentenze è proprio per questa ragione. Quando esistono delle prove che lasciano intendere che quel processo è un processo che ha consentito l’emissione di una sentenza sbagliata, si può e si deve mettere tutto in discussione”.
Mi sembra che, più o meno direttamente, lei stia dicendo che c’è stato uno, se non più di uno, errore giudiziario in questo caso. Parliamo di errori fisiologici, come possono esserci in qualunque caso di simile portata, o si tratta di errori in qualche modo strumentali, di macchinazioni?
“Parlare di macchinazioni diventerebbe troppo pesante, io non ho prova di nessun tipo di macchinazione. Io sono convinto invece che si è trattato di un errore commesso da chi ha emesso queste sentenze. Non a caso il dubbio c’è, perché nell’appello del processo a Pacciani un magistrato eccellentissimo e rispettatissimo come il procuratore generale dell’epoca, Piero Tony, ne ha chiesto l’assoluzione in maniera molto determinata e articolata, richiesta accolta dalla Corte d’Assise d’Appello di Firenze presieduta da Francesco Ferri, il quale poi, in un suo libro, è stato molto severo nei confronti di un certo metodo di fare indagini, paragonato a quello della manzoniana colonna infame. Nel processo ai compagni di merende, poi, lo stesso procuratore ne ha chiesto l’assoluzione, quindi sicuramente qualcosa che non torna c’è, nonostante le sentenze di condanna. Ho la netta impressione che quei processi siano stati voluti, uso una parola virgolettata, con una certa ostinazione, il che forse ha complicato l’accertamento della verità”
Sta dicendo che andava trovato un colpevole a tutti i costi?
“In un certo senso si, io sono tanti anni che faccio questo tipo di processi, e non posso non escludere che a volte vi è una certa ostinazione da parte delle procure nel seguire le proprie tesi accusatorie. In quegli anni, e siamo a metà degli anni ‘90, a mio giudizio, anche perché ne sono stato testimone e in qualche modo protagonista, ho la sensazione che vi sia stato un certo tipo di sbandamento in processi importanti, uno sbandamento dovuto a una volontà di voler per forza raggiungere un determinato risultato”.
Si riferisce al processo Pecorelli, cui lei ha preso parte come difensore di uno degli imputati?
“Si, penso proprio a quello”
Lei prima hai parlato di un serial killer. Riepilogando brevemente, per il Mostro di Firenze abbiamo la cosiddetta “pista sarda”, quella dei compagni di merende; abbiamo il filone perugino con il medico Francesco Narducci [ritrovato cadavere nel lago Trasimeno] e poi abbiamo anche un profilo in stile Fbi. Posto che questo profilo portò all’individuazione di Pietro Pacciani, la cui colpevolezza lei mette in discussione, possiamo dire che anche lei propende per una tipologia di assassino seriale, organizzato e, soprattutto, solitario?
“Si, infatti tutta la letteratura sui serial killer lascia intendere che ci troviamo proprio di fronte a un caso simile. Il serial killer solitamente vuole interloquire con gli investigatori. E qui è successo proprio questo. Anzi, penso che occorrerà chiedere di poter avere copia di tutti i messaggi anonimi che sono arrivati agli investigatori e alla procura nel corso degli anni, perché sono certo che oltre alle famose lettere ai tre magistrati, oltre al lembo del seno fatto pervenire al magistrato Silvia Della Monica, ci sono certamente altri elementi dal quale desumere la volontà da parte di questo serial killer di interloquire con i magistrati, questa è la chiave della soluzione di tutto”.
Quindi i cosiddetti compagni di merende hanno avuto un ruolo complementare o di cornice a questi omicidi o proprio non c’entrano nulla?
“Se l’ipotesi del serial killer è fondata, come sono convinto che sia, non hanno nessuna relazione con le dinamiche omicidiarie. Certo, mi si può venire a dire che ci sono delle sentenze passate in giudicato, dove ci sono testimoni, ma io rispondo che ho visto in diversi processi decine di testimoni affermare una cosa poi rivelatasi falsa. Penso soprattutto al caso Tortora, dove c’erano una dozzina di pentiti e testimoni che affermavano fosse uno spacciatore”.
Le richieste di avocazione alla procura generale hanno avuto risposta? Ci sono state reazioni?
“Per ora c’è, da parte della Procura generale, richiesta di ulteriori indicazioni, però è successa una cosa abbastanza importante: il 1 luglio, per la prima volta, arriva un provvedimento con il quale il Gip Silvia Romeo ci concede, contrariamente al parere del pm, l’accesso ad alcuni documenti il cui accesso prima ci era stato negato, proprio nel rispetto del diritto della persona offesa. Io credo che la decisione di questo Gip contro il parere della procura rappresenti un atteggiamento nuovo rispetto a quanto fatto fin ora. Io dico che il Gip ha concesso un’autorizzazione già negata in passato cogliendo forse la sensibilità e la ragionevolezza delle nostre istanze: un segnale che forse qualcosa sta cambiando”.
Sulla base dei suoi elementi, il Mostro di Firenze – dando per buona l’ipotesi del serial killer - potrebbe essere ancora vivo?
“No, probabilmente è morto. Però sono convinto che comunque è un diritto delle persone offese il sapere la verità, anche perché per tre duplici omicidi non c’è né un provvedimento di archiviazione, né una sentenza [il delitto del 1974 e i due delitti del 1981, ndr]”.
Ma lei ha un sospettato?
“Non è questione di avere dei sospettati, è questione di pensare che sia ipotizzabile che nelle carte, sia del processo Pacciani, sia del processo ai compagni di merende, c’è la soluzione del caso. Io ne ho fatti tanti di processi penali: la condanna e l’assoluzione spesso dipendono dai dettagli. Insieme ai miei colleghi sono alla ricerca di questi dettagli che consentano di svelare tutto quello che è successo. Quindi nel rispetto primario della vittima del reato andremo fino in fondo. Non mi fermo solo perché ci sono delle sentenze passate in giudicato”.
Non parliamo del processo, ma degli anni in cui ha operato il mostro. Sono stati anni particolari per l’Italia. L’attività del mostro, come spesso si sente dire, rientra in un quadro di destabilizzazione inquadrabile nell’ampio spettro della strategia della tensione? C’è stato un cordone di impunità intorno al killer per consentirgli di operare?
“Ritengo di no, credo siano tutte dietrologie. Io sono convinto che si tratti di un caso rarissimo, se non unico a livello internazionale, di un serial killer che ammazza otto giovani coppie. Come spesso accade, non viene scoperto perché magari muore prima, ma io sono anche convinto che possa aver lasciato delle tracce per essere addirittura individuato, magari in futuro, come già accaduto in passato per altri crimini dello stesso genere. Eventuali nuove indagini derivano dal fatto che la tecnologia investigativa di 30 anni fa è completamente superata. Non solo il Dna, ma anche altre indagini scientifiche, come lo studio entomologico, diventano determinanti, per esempio per sapere il momento esatto, la data di un determinato omicidio. E nel caso dell’omicidio di Scopeti, diventano nuove indagini con nuove tecnologie di straordinario valore. Ormai la tecnologia scientifica ha fatto passi da gigante e affrontare un’indagine con la tecnologia di adesso, ove si avesse qualche elemento in più, sarebbe non dico risolutivo ma quasi. Insieme ai miei colleghi, gli avvocati Vieri Adriani, Antonio Mazzeo, il consulente Paolo Cochi e altri professionisti, stiamo cercando di fare azioni e istanze per riaprire le indagini e scoprire la verità che manca”.
Parlando di livello internazionale, pochi anni fa è stato fatto un suggestivo accostamento tra il mostro di Firenze e il serial killer americano Zodiac. Anche qui siamo nella dietrologia o nel complottismo?
“Non conosco bene i fatti legati al serial killer Zodiac, però certamente è molto simile. Non dico che sia la stessa persona, però è la stessa tipologia di reati legati a una specifica persona, certamente malata, certamente intelligentissima. Però, ripeto, non conosco gli atti relativi a Zodiac. Lo schema è molto simile, la metodologia usata è la stessa. Io sono convinto che il mostro di Firenze sia un serial killer unico, solitario, intelligentissimo, di un’intelligenza superiore e con una psicologia folle, tale da interloquire, come accade in questi casi, anche con gli investigatori. E io sono sicuro che le tracce ci sono, vanno solo cercate con intuizione e nuovi strumenti d’indagine”.
Quindi una verità è possibile?
“La verità è sempre possibile. E sono convinto che sia nascosta nelle carte delle indagini e soprattutto dei processi che si sono fatti, e ripeto, la verità si scopre soprattutto dal dettaglio. E qui di dettagli ce ne sono stati pochi, e quei pochi fallimentari: uno era il famoso quadro trovato in casa di Pacciani, che addirittura era diventata l’arma vincente da un punto di vista psicologico per descrivere Pacciani come un mostro omicida, senonché quel quadro era di un autore cileno. L’altro dettaglio – fallito - è il famoso bossolo ritrovato nel giardino di Pacciani che adesso scopriamo – e finalmente potremo avere a disposizione la perizia – che è certamente artefatto e non ha nulla a che vedere con l’omicidio. Ora, mettendo lì un bossolo Winchester H, della stessa serie degli altri bossoli, degli altri omicidi, nel giardino di Pacciani in piene indagini...”
Possiamo parlare di depistaggio?
“Quel bossolo ce l’ha messo qualcuno. Ora viene chiesta l’archiviazione, ma bisognerebbe capire perché è stato messo lì. Io sono convinto che sia stato fatto per sostenere il più possibile, così come la tesi del quadro attribuito a Pacciani, tutto l’impianto accusatorio. E chi ha avuto questa idea, ha avuto una pessima idea. Prima o poi lo scopriremo”.
Mostro di Firenze, una nuova richiesta. Il mistero del proiettile nel giardino di Pacciani. Gianluca Zanella il 29 Giugno 2022 su Il Giornale.
L'avvocato Valter Biscotti chiede l'avocazione delle indagini sul Mostro di Firenze alla procura di Firenze e afferma: "Ci vogliono impedire di svolgere le indagini difensive"
L'avvocato Valter Biscotti, difensore di alcuni familiari delle vittime del Mostro di Firenze, ha depositato questa mattina la richiesta di avocazione delle indagini alla Procura Generale di Firenze. Ecco le sue dichiarazioni: "Alla luce di quanto accaduto a seguito di alcune decisioni della procura di Firenze, che di fatto impedisce ai difensori delle persone offese di svolgere indagini difensive relative agli otto duplici omicidi, siamo costretti ad agire di conseguenza".
Come ci spiega l'avvocato, sussistono tutti i requisiti di legge per poter chiedere l’avocazione prevista dall'art. 412 c.p.p., per:
- la fuga di notizie sulle relazioni Minervini
- le mancate risposte alle legittime istanze dei difensori, di accesso agli atti di processi definiti con sentenze dibattimentali da piu di venti anni
- la violazione dei termini di durata previsti dall’art. 407
- la violazione degli adempimenti imposti dall’art. 407 comma 3 bis cpp
- la mancata messa a disposizione della Corte di assise degli atti del fascicolo per il
dibattimento del processo Pacciani nella loro integrità e completezza
Ma entriamo un attimo di più nel dettaglio: Valter Biscotti è il difensore di Estelle Lanciotti, figlia di Nadine Mauriot, uccisa a Scopeti di San Casciano l'8 settembre 1985, in quello che è ufficialmente l'ultimo delitto del Mostro di Firenze. Al punto n° 4 della sua richiesta, si legge: "Inspiegabilmente, e del tutto illegalmente, è stata disattesa la richiesta dei difensori di avere accesso quanto meno agli atti di indagine del delitto del 1985, quello in cui persero la vita i due giovani turisti francesi, Jean-Miche Kraveichvili e Nadine Gisele Mauriot. I familiari, nel gennaio del c.a., hanno conferito espresso mandato a questi difensori per postulare la conoscenza completa degli atti riguardanti le indagini sulla morte dei loro cari. Atti che ancora oggi, nonostante la recente richiesta dei difensori, nuovamente proposta [...] a distanza di quasi 37 anni, non sono ancora stati palesati per intero, ed anzi potrebbero riservare molte sorprese, a cominciare dai 17 fotogrammi della Nikon loro appartenuta, in grado di fornire elementi di interesse investigativo".
Un'altra anomalia segnalata dall'avvocato Biscotti è quella relativa ad alcuni atti mancanti: risale al 2 maggio scorso, infatti, la richiesta di accesso agli atti dibattimentali del processo a Pietro Pacciani, richiesta accolta dal presidente della Corte d'Assise. Peccato che quegli atti, inspiegabilmente a detta di Biscotti, non si trovassero depositati presso la Corte d'Assise, ma presso gli uffici del procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco. "Grande però è stata la sorpresa - si legge al punto n° 5 della richiesta - [...] nel constatare, il giorno 21 giugno scorso, che i faldoni degli atti dibattimentali del processo Pacciani, trasmessi dalla Procura alla Corte d ‘Assise su disposizione della Presidente, si presentavano gravemente lacunosi, perché mancanti di verbali di dibattimento, perizie, sopralluoghi ed atti di istruttoria dibattimentale Su quanto sopra può testimoniare la Dott.ssa Dolfi dirigente della cancelleria della Corte d Assise che era presente al momento dell’apertura dei faldoni".
Mostro di Firenze, rinvenuta un’altra Beretta 22 come quella usata dal killer. Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2022.
La canna era stata rinvenuta in un’abitazione a Firenze, la pistola invece in un casolare nella provincia di Grosseto, nascosta in un cassetto. In passato sono state diverse le pistole dello stesso tipo ritrovate ma nessuna di esse è stata utilizzata dall’assassino seriale. Verrà sottoposta ad analisi.
Eccola ancora, la famigerata Beretta 22, la pistola mai trovata del mostro di Firenze. A 54 anni dal primo delitto (1968) firmato da quell’arma, ne è saltata fuori un’altra, stavolta dimenticata in un casolare della Maremma, non lontano da Grosseto. Come con le altre armi simili rinvenute dagli investigatori in tutti questi anni, anch’essa sarà sottoposta ad analisi. La notizia, anticipata dalla Nazione, è destinata a far tornare alla memoria quegli otto duplici omicidi e quelle terribili mutilazioni che il maniaco assassino seriale compiva sulle giovani vittime. Tutte coppie massacrate nei boschi delle colline toscane.
Anche perché stavolta ci sono delle singolari curiosità. La canna della pistola, infatti, era custodita in un altro luogo, nella casa di una nobildonna fiorentina. È stato il figlio, dopo la scomparsa della madre, a trovarla nella casa dei genitori (il padre, un militare, era morto precedentemente) abbandonata in un cassetto e ne aveva parlato con un poliziotto. Da qui, dopo alcuni accertamenti, il ritrovamento della Beretta in Maremma dell’identica tipologia dell’arma del mostro. Adesso la Beretta ritrovata tornerà a sparare in un poligono di tiro della polizia scientifica. Un esperimento che potrebbe confermare o smentire l’ipotesi che essa sia la pistola del serial killer. Ma c’è anche una seconda arma, anch’essa Beretta, ritrovata e sempre di proprietà del militare scomparso anni fa. Anche questa sarà analizzata e fatta sparare. Gli investigatori non si fanno troppe illusioni, però. In passato sono state diverse le pistole dello stesso tipo ritrovate ma nessuna di esse è stata utilizzata dall’assassino seriale. Così come molti sono state le persone sospettate e indagate per quei delitti poi rivelatesi senza colpe.
Mostro di Firenze, duplice omicidio: chiesta la riapertura del caso. La richiesta del legale di Anne Lanciotti: «Consultare gli atti e i documenti relativi a tutti i procedimenti sinora definiti sulla vicenda dei delitti attribuiti al cosiddetto Mostro di Firenze». Il Dubbio il 6 gennaio 2022. La Procura di Firenze prenda «in considerazione il diritto delle persone offese di consultare gli atti e i documenti relativi a tutti i procedimenti sinora definiti» sulla vicenda dei delitti attribuiti al cosiddetto Mostro di Firenze, «per consentire di argomentare al meglio le proprie future richieste di riapertura delle indagini ai sensi dell’art. 414 Ccp, da intendersi come necessità sia di nuovi accertamenti balistici e genetici, sia di nuove assunzioni testimoniali». È questa la richiesta dell’avvocato Vieri Adriani per conto della sua assistita Anne Lanciotti, figlia di Nadine Mauriot, la donna francese vittima insieme al compagno Jean Michel Kraveichvili dell’ultimo dei duplici omicidi attribuiti al Mostro, avvenuto a Scopeti, frazione del comune di Rufina, l’8 settembre 1985.
Mostro di Firenze, cosa chiede la famiglia di Anne Lanciotti
«La Procura della Repubblica di Firenze ha sinora ignorato le giuste istanze delle persone offese di potere accedere agli atti per tentarne una rilettura completa, l’unica strada idonea a fornire ancora una soluzione al caso – scrive l’avvocato Adriani – Non si comprende davvero quale possa essere, oltretutto a distanza di quasi 37 anni dall’ultimo duplice delitto, l’interesse pubblico a che i familiari delle vittime non debbano avere la possibilità di confrontare le informazioni custodite nei faldoni delle indagini susseguitesi ininterrotte fino alla più recente archiviazione».
L’avvocato Adriani, sempre per conto di Anne Lanciotti, «dice basta al deprecabile mercato costruito sulla morte della madre». «Basta con quei soggetti che, mossi da fini di lucro, organizzano trasmissioni tv oppure rivendicano pubblicamente presunte competenze scientifiche per potere dire la loro sui duplici omicidi attribuiti al cosiddetto Mostro di Firenze senza riscontri documentati e senza comprovate professionalità. Basta con il diniego degli atti dei passati processi che impedisce loro di presentare istanze di riapertura delle indagini ben documentate e ben motivate».
Il legale dei familiari delle vittime francesi censura «i vari documentari andati in onda finora solo per soddisfare le tesi ora di questo, ora di quello». «La mancanza di tali requisiti di obiettività e scientificità connota anche la ricostruzione dell’ultimo delitto in cui persero la vita Nadine Mauriot e Jean-Michel Kraveichvili, fatta nelle conclusioni di un recente documentario – continua il comunicato diffuso dall’avvocato Adriani – Essa, infatti, si contraddistingue per così innumerevoli travisamenti, al punto da svelarne il filo conduttore: richiamare per quanto possibile la pruriginosa curiosità dei telespettatori su una vicenda che è realmente costata la vita a due giovani, alla pari di un film horror».
· Il Caso del Mostro di Marsala.
Il mostro di Marsala: un mistero d’Italia lungo mezzo secolo. Salvatore Maria Righi su L'Indipendente il 22 ottobre 2022.
Il 21 ottobre 1971, come tanti altri giorni, Antonella, Virginia e Ninfa escono tenendosi per mano dalla loro casa alla periferia di Marsala, dirette alla scuola Pestalozzi. Case popolari INA, un pugno di palazzine spoglie e tristi in via Mazara, per giunta iniziate e mai finite, perché nel frattempo la ditta era anche fallita e quindi le ha lasciate così, sospese come le vite di chi ci abitava dentro, tra il nulla e il mare. Casermoni sciatti e scarni come era un po’ tutta la città, nelle foto panoramiche dell’epoca. Lontanissima dai boom che altrove avevano trasformato il Paese, vicina – appena tre anni prima – al terremoto del Belice che si era portato via, oltre ad un numero imprecisato di anime (tutt’ora non c’è una cifra precisa, certamente diverse centinaia), anche le poche certezze di una valle che campava di terra e bestiame. Aziende poche, pochissime. Industrie praticamente zero.
Bimbe con gli occhi adulti
Era un’Italia ancora in bianconero, ma per molti aspetti uguale a quella di oggi. Antonella Valenti, 9 anni, con le cuginette Ninfa e Virginia Marchese (7 e 5 anni), accompagna a scuola la sorella Liliana per la campanella delle 13: già all’epoca, alle elementari c’era sovraffollamento e carenza di aule, i bambini erano costretti ai turni pomeridiani. Tre bambine che nell’unica foto rimasta, scattata in un’aula, sembrano già adulte. Piccole donne con le facce serie, gli occhi severi e penetranti. C’è più consapevolezza che gioco, in quegli sguardi. E in effetti erano molto più che tre bimbe, quando sono uscite di casa quel giorno. Erano la scorta di Liliana, la dolce e rassicurante protezione di chi, pur in età di giochi con le bambole, faceva già le faccende domestiche e passava i pomeriggi a giocare in strada, con pochi giocattoli e molta voglia di immaginarli.
È iniziata così, con una scena quotidiana, la storiaccia del Mostro di Marsala che in Italia è deflagrata con uno scoppio nucleare nell’opinione pubblica, non c’erano i social ma ne parlavano tutti e tutti avevano la loro ipotesi, ed è finita 31 anni dopo, nel 2002. Quando il mostro riconosciuto e condannato per l’omicidio di tre bambine – Michele Vinci – è uscito definitivamente di galera, ed è stato ingoiato dall’oblio di una nuova vita a Viterbo, dove faceva il giostraio e viveva con una fidanzata. Antonella, Ninfa e Virginia infatti, quel giorno, non sono mai rientrate a casa. Ad un certo punto nonno Vito, Vito Impiccichè, ha capito che c’era qualcosa che non andava e ha dato l’allarme. Sono iniziate subito le ricerche, tremila uomini tra poliziotti, carabinieri e volontari. Qualcosa di enorme, per l’epoca e anche per oggi, pensando per esempio a Yara Gambirasio.
Dai Corleonesi a Marsala
Solo che all’epoca, a Marsala, non c’erano mappe satellitari, cani molecolari ed esperti di laboratorio. C’era, appunto, un esercito di gente impegnata a cercarle, c’era una città che mormorava di tutto, dando la colpa a uomini neri o a depravati vari. C’era Cesare Terranova, da poco nominato procuratore di Marsala e da anni magistrato di punta nella lotta alla mafia, dopo i processi di Catanzaro e Bari, quello contro Liggio e i Corleonesi. Quello nel quale Totò Riina fu condannato per il furto di una patente, visto che tutto il resto fu demolito dalla Corte. Terranova guidava le ricerche delle bambine e diceva «sono preoccupato, penso al peggio». Lui, uno dei tanti uomini poi caduti nella lotta a Cosa Nostra che hanno anche, per coincidenza o per destino, incrociato la storia delle tre bambine di Marsala prima di finire col nome scritto sopra ad una lapide, nel cordoglio generale. C’era anche il caso, nella persona che si è imbattuta nel cadavere malridotto di Antonella, nei paraggi di una scuola abbandonata, in contrada Rakalia.
Era il 26 ottobre, cinque giorni dopo la scomparsa delle tre bambine. Il corpo malridotto di Antonella, rinvenuto da Ignazio Passalacqua, era parzialmente carbonizzato, qualcuno ha provato evidentemente a cancellarlo col fuoco. Aveva nastro adesivo sulla bocca, era stata tenuta in vita mangiando scatolette fino alla morte che è dovuta a soffocamento. In città e in Italia, tutti capiscono subito che la tragedia è solo all’inizio, e che nemmeno le altre due bambine sarebbero mai tornate a casa. Un benzinaio di origine tedesca, Hans Hoffman, racconta che nei giorni precedenti ha visto passare una Fiat 500 blu sulla strada per Castelvetrano. Si ricordava, dice, che ha visto volti di bambini dentro l’abitacolo, battevano le mani sui vetri della macchina. Si presenta poi un tale, Giuseppe Li Mandri, racconta che la macchina era sua e che stava andando coi bambini a trovare un parente in ospedale. Sua moglie lo smentisce, da possibile indiziato diventa una specie di mitomane. Trovare le cugine di Antonella sembra più difficile che trovare un ago in un pagliaio.
Il colonnello Dalla Chiesa indaga
Eppure, sono al lavoro fior di uomini. Cesare Terranova è affiancato da Lenin Mancuso, il maresciallo di polizia che lo ha accompagnato come un’ombra per tutta la vita, dal 1963, fino a quel 25 settembre 1979, qualche anno dopo i fatti di Marsala. Quando è andato a prenderlo sotto casa e gli ha ceduto il volante della 131, come Falcone anche a Terranova piaceva guidare l’auto di servizio, costretta poi a bloccarsi per una transenna in una via secondaria di Palermo, mentre spuntava fuori un commando con fucili Winchester e pistole in pugno: una pioggia di colpi, Mancuso ha fatto appena in tempo ad estrarre la Beretta d’ordinanza prima di essere crivellato, il giudice Terranova invece è stato finito con un colpo alla nuca. C’erano tutti e due, a cercare Ninfa e Virginia. E c’era un colonnello dei carabinieri che avrebbe fatto una grande carriera, prima di finire anche lui riverso e sanguinante sul sedile della sua A112, al fianco della moglie. C’era anche Carlo Alberto Dalla Chiesa, a Marsala, in quei giorni.
Le ricerche proseguono senza frutto, il cerchio però si stringe attorno allo zio di Antonella. Si chiama Michele Vinci, ha 31 anni, lavora come fattorino alla Cartotecnica San Giovanni di Marsala. È l’unico cliente della ditta lombarda che produce il nastro adesivo trovato sul cadavere di Antonella, e questo è il primo indizio che inchioda Vinci. Il quale ha una Fiat 500 blu uguale a quella vista dal benzinaio, che nel frattempo è tornato in Germania. E non ha un alibi per il giorno della scomparsa delle tre bambine: sua moglie riferisce che per tutta la giornata non l’ha visto. Vinci viene fermato, interrogato. Barcolla e poi crolla. Confessa tutto. Ammette di aver sequestrato e ucciso le tre bambine, aggiunge che ha perso la testa per Antonella e che quindi ha organizzato tutto, prendendo anche le sue cuginette. Rivela, infine, che i cadaveri delle due bimbe si trovano dentro un pozzo, in una delle cave di tufo, nel terreno di proprietà di Giuseppe Guarrato che in seguito verrà poi sospettato di complicità, arrestato e infine scarcerato.
Due cadaveri nel pozzo
Il sopralluogo conferma tutto, alle 5.45 del mattino, in contrada Amabilina, gli investigatori trovano i corpi senza vita delle due bambine. Trovano lo stesso nastro adesivo sui loro cadaveri, ci sono anche capelli biondi di una donna che non è mai stata identificata e che potrebbe essere stata la loro carceriera. Trovano anche pezzi di unghie nel tufo, il sospetto è che le due bambine siano state uccise altrove e poi buttate in quel pozzo, dentro un cunicolo. Lo strazio della famiglia è anche lo strazio del Paese, l’Italia intera, senza dirette tv o web ma con un’indignazione feroce, assiste ad una vicenda che da tragica diventa torbida, una matassa di ipotesi e dubbi, nonostante la piena confessione di Vinci. Che viene sottoposto a due perizie psichiatriche per accertare la sua capacità di intendere e di volere, con esiti altalenanti, e che da allora in poi sposta il focus su altre persone, accusando mandanti o complici per i tre omicidi.
È il caso di Franco Nania, direttore della Cartotecnica dove lavora Vinci, accusato da questo di essere il mandante del sequestro delle bambine per ritorsione contro la mamma di Antonella, ma che viene poi prosciolto. Oppure di Nicola Di Vita, zio di Ninfa e Virginia. Vinci racconta che è stato proprio Di Vita a invitarlo a bere un bitter, lo chiama in causa senza aggiungere altri particolari. Racconta che ha scritto una lettera ad un religioso, padre Fedele, che sa tutto e che poi morirà per cause naturali, dopo accertamento degli inquirenti, poco tempo dopo. Non pare convinto il pm Ciaccio Montalto che sostiene la pubblica accusa nel processo: proprio lui, il giudice antimafia a Trapani negli anni successivi. Un altro caduto sotto ai colpi dei sicari che per coincidenza o bizzarro scherzo fanno parte di questa storia, come Terranova, come Dalla Chiesa, Mancuso e perfino Borsellino, che nel 1989 ha riaperto (e poi chiuso) il caso del mostro di Marsala, sull’onda emotiva popolare della trasmissione Telefono Giallo che ne aveva parlato.
Marsala, 12 novembre 1971. Nell’ambito delle indagini sul mostro di Marsala, Carabinieri e Vigili del Fuoco ispezionano il pozzo dove pochi giorni prima erano stati rinvenuti i corpi di due delle tre vittime.
L’ipotesi della vendetta mafiosa
Ciaccio Montalto, ucciso a 41 anni da un commando di tre uomini una notte di gennaio del 1983, falciato sotto casa coi vicini che hanno sentito i colpi di mitraglietta e calibro 38 ma pensavano fossero cacciatori di frodo, ucciso senza una scorta a proteggerlo nonostante le minacce ricevute negli anni, era il magistrato che in aula fece condannare Vinci, pensando però che dietro al triplice e terribile delitto ci fosse altro. E cioè una specie di terribile ritorsione da parte di Cosa Nostra contro il padre di Antonella Valenti, per costringerlo a tornare in Sicilia, nel giro della droga dove si ipotizza fosse, dalla Germania dove era emigrato con la moglie per cercare lavoro, come tanti altri da Marsala in quegli anni. Altri, legavano il sequestro e l’uccisione delle bambine al sequestro di Luigi Corleo, capostipite dei potentissimi esattori Nino e Ignazio Salvo. La lunga mano di Cosa Nostra è rimasta come un’ombra fino alla fine della cupa vicenda, e in un certo senso si era stagliata fin dall’inizio, cioè dal giugno 1971, quando la Commissione Parlamentare antimafia si era dilungata sulla figura di Mariano Licari, potente boss della zona di Marsala dagli anni ’50. Non sono mancate nemmeno le morti strane, sospette, in stile Ustica. Giuseppe Li Mandri, il tizio che si era fatto avanti per negare ogni coinvolgimento, poco tempo dopo è caduto da un’impalcatura, lasciandoci la pelle. Morto anche il nipote 18enne di Giuseppe Guarrato, proprietario del fondo dove sono stati trovati i corpi senza di vita di Ninfa e Virginia: il ragazzo viveva proprio davanti al posto dove sono stati trovati i cadaveri delle due bambine, potrebbe aver visto tutto. Ma gli è stata fatale la caduta in un pozzo.
Michele Vinci, unico imputato, viene condannato all’ergastolo nel 1975 dalla Corte di Assise di Trapani, in appello la sentenza viene poi commutata in 29 anni di reclusione, confermati dalla Cassazione nel 1979. Nel carcere di Mistretta, dove lo zio di Antonella viene recluso, dalle guardie arrivano testimonianze inquietanti. Gli agenti della penitenziaria ricevono messaggi anonimi del tipo «o lo ammazzate, o vi ammazziamo noi». Il detenuto vive in pratica in un isolamento blindato e proseguirà a scontare la sua pena fino al 2002, quando appunto è diventato un libero cittadino dal passato inconfessabile e mai più evidentemente mondabile, nonostante l’espiazione. [di Salvatore Maria Righi]
· La misteriosa morte di Gergely Homonnay.
La misteriosa morte di Gergely Homonnay, il corpo senza vita dello scrittore ungherese trovato in un club di Roma. Il Riformista il 3 Gennaio 2022. Trovato nudo, in fin di vita, sul pavimento del bagno turco di un club di San Giovanni. Gergely Homonnay, 52 anni, scrittore di origini ungheresi e influncer su Instagram, è entrato dalla porta del civico 28 di via Pontremoli, a un passo da piazzale Appio, alle cinque del mattino di sabato scorso.
Dopo aver brindato al nuovo anno, ha deciso di scendere la scala a chiocciola del club per soli soci e concludere la serata nel club di riferimento del mondo gay. Alle 12 era ancora vivo quando i titolari hanno chiamato l’ambulanza. Homonnay respirava a fatica, era praticamente incosciente. I medici hanno provato a rianimarlo ma non c’è stato nulla da fare.
L’attivista dei diritti Lgbt – scrive La Repubblica – “aveva molto paura che gli potessero fare del male” racconta sui social una sua amica, la teologa magiara Rita Perintfalvi, che aveva trascorso con lui quattro giorni nella capitale italiana prima di Natale. “Mi si spezza il cuore, non capisco e non ci posso credere”, ha scritto, “Gergely Homonnay è morto. Ho trascorso 4-5 giorni prima di Natale con lui ed Erzsi (un’amica, ndr) a Roma, abbiamo intrecciato molti progetti comuni. Gergely era felice e innamorato, ma aveva molta paura che gli potessero fare del male”.
Homonnay viveva a Roma ed era conosciuto dal 2018 per il suo impegno a favore dei diritti civili e della comunità Lgbt, in polemica con il governo di Viktor Orban di cui era un convinto oppositore. Nelle ultime settimane aveva diffuso sui propri canali social messaggi di critica a Katalin Novak, la ministra della Famiglia candidata da Orban alla presidenza della Repubblica nell’elezione in programma a fine gennaio. Il 2 dicembre era stato condannato in patria per diffamazione proprio per aver definito “un orribile verme nazista” la 44enne, astro nascente del partito conservatore Fidesz.
Michela Allegri per "il Messaggero" il 4 gennaio 2021. È stato trovato senza vita nel bagno turco di un locale a San Giovanni. Sul suo corpo non c'erano segni di aggressione. Ma nello spogliatoio, tra gli indumenti, sono stati trovati un sacchetto di polvere bianca e alcune fiale che, secondo gli inquirenti, contengono Ghb, la droga dello stupro. Gergely Homonnay, scrittore ungherese residente a Roma, di 52 anni, è morto nel club privato di via Pontremoli, il Bananon, e ora gli investigatori, mentre attendono i risultati dell'autopsia effettuata ieri, stanno già cercando il pusher che potrebbe avergli venduto le sostanze.
Gli esami tossicologici e l'analisi degli stupefacenti saranno fondamentali per stabilire se ci siano legami con il decesso, ma il pubblico ministero Luca Guerzoni ha già aperto un fascicolo per morte come conseguenza di un altro reato, cioè l'assunzione di droga. Intanto i carabinieri della compagnia di piazza Dante, che indagano sul caso, stanno ascoltando testimoni e amici dello scrittore per ricostruire le ultime ore di vita di Homonnay, l'1 gennaio.
L'artista è molto conosciuto nel suo Paese, soprattutto per le prese di posizione in difesa dei diritti civili e della comunità gay. A trovarlo, mentre era in fin di vita, i responsabili del locale, che hanno subito chiamato i soccorsi. Erano quasi le 13 quando il personale medico è intervenuto per rianimare Homonnay, ma non c'è stato nulla da fare: l'artista era già agonizzante e la morte è stata dichiarata dopo 17 minuti.
Un'amica racconta che Homonnay «aveva molta paura che gli potessero fare del male». A dirlo in un post sui social è stata la teologa magiara Rita Perintfalvi, che era stata a Roma quattro giorni alla fine di dicembre. «Mi si spezza il cuore, non capisco e non ci posso credere - ha scritto la donna - Gergely Homonnay è morto. Ho trascorso 4-5 giorni prima di Natale con lui ed Erzsi (un'amica) a Roma, abbiamo intrecciato molti progetti comuni.
Gergely era felice e innamorato, ma aveva molta paura che gli potessero fare del male». Il riferimento è, probabilmente, all'impegno a favore della comunità Lgbt, alle polemiche con il governo di Viktor Orban e alle critiche social rivolte a Katalin Novak, la ministra della Famiglia candidata proprio da Orban alla presidenza della Repubblica. Lo scrittore era appena stato condannato per diffamazione in Ungheria per aver definito la politica «un orribile verme nazista».
Le risposte sulla fine dell'artista, comunque, arriveranno dalle analisi. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Homonnay avrebbe festeggiato il Capodanno in un altro locale e poi avrebbe raggiunto il club privato di via Pontremoli alle 5 del mattino dell'1 gennaio.
Gli investigatori stanno cercando di capire se fosse insieme a un uomo, lo stesso che potrebbe avergli venduto sostanze stupefacenti. Nei giorni scorsi i carabinieri hanno contattato l'ex fidanzato romano dello scrittore che, però, non lo frequentava da tempo e non ha saputo fornire dettagli rilevanti. Hommonay abitava a Roma dal 2018. Viveva da solo in un appartamento in zona San Giovanni.
C'è anche chi grida al 'complotto' per le sue posizioni antigovernative. Gergely Homonnay, si indaga sulla morte dello scrittore ungherese: ipotesi mix letale di droghe. Roberta Davi su Il Riformista il 4 Gennaio 2022. Morte come conseguenza di altro reato. Questo il fascicolo aperto dalla Procura in relazione al decesso di Gergely Homonnay, il 52enne scrittore di origini ungheresi e influencer su Instagram, trovato senza vita sabato 1° gennaio in un club privato a San Giovanni.
Migliaia i messaggi di cordoglio sui social, sia sul profilo Facebook di Homonnay- seguito da oltre 34mila follower- che sulla pagina dedicata al suo gatto Erzsi, che conta quasi 82mila fan.
Le indagini
I Carabinieri continuano a indagare sul decesso di Homonnay. Si attendono l’esito dell’autopsia, prevista per oggi al Policlinico Tor Vergata, e gli esami tossicologici. Stando ai primi riscontri, potrebbe essere stato ucciso da un mix letale di droghe. Tra gli effetti personali del 52enne sono stati infatti trovati polvere e liquidi, che potrebbero essere cocaina e Ghb, nota anche come ‘droga dello stupro’.
Intanto si sta procedendo ad analizzare la memoria del telefonino e dei vari supporti informatici intestati allo scrittore ungherese, conosciuto non solo per essere in contrasto con il governo, ma anche per le sue posizioni a favore dei diritti umani e della comunità LGBT. Gli investigatori stanno cercando di ricostruire le ultime ore di vita del 52enne, sottolinea il Corriere. Ossia dove ha trascorso la serata prima di raggiungere il locale, intorno alle 5 del mattino, e le persone che ha incontrato alla vigilia di Capodanno, che potrebbero avergli ceduto le sostanze.
Al vaglio inoltre le immagini di alcune telecamere di sorveglianza. Ma c’è anche chi, dall’Ungheria, parla di ‘complotto’. E così la pagina ‘Erzsi for president’, che lo scrittore aveva dedicato al suo gatto ed era da lui utilizzata per ribadire le sue posizioni contro il governo di Viktor Orban, verrà setacciata alla ricerca di qualche indizio utile.
“Aveva paura che qualcuno potesse fargli del male”
Il giallo sulla morte di Gergely Homonnay inizia alle 12 di sabato 1° gennaio, quando viene trovato agonizzante nel bagno turco del club privato di via Pontremoli a San Giovanni: il personale del 118, subito intervenuto, non riesce a rianimarlo.
Secondo quanto riportato da Repubblica, lo scrittore- che viveva a Roma dal 2018- “aveva molto paura che gli potessero fare del male”. A testimoniarlo sui social una sua amica, la teologa Rita Perintfalvi, che aveva passato con lui quattro giorni nella Capitale prima di Natale.
Nelle ultime settimane Homonnay aveva diffuso sui propri canali social duri messaggi di critica a Katalin Novak, la ministra della Famiglia candidata da Orban alla presidenza della Repubblica nell’elezione in programma a fine gennaio. Roberta Davi
· Il Mistero di Liliana Resinovich.
Liliana Resinovich, la perizia sul giallo di Trieste: «È morta per soffocamento». Secondo i consulenti del pm il decesso risalirebbe tra le 48 e le 60 ore precedenti al ritrovamento del cadavere il 5 gennaio 2022: la donna sparì nel dicembre 2021. Pierfrancesco Carcassi su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2022.
Liliana Resinovich è deceduta per «morte asfittica tipo spazio confinato (plastic bag suffocation), senza importanti legature o emorragie presenti al collo» e il decesso risalirebbe a 48-60 ore circa prima delrinvenimento del cadavere stesso. Sono arrivati a queste conclusioni i consulenti del pubblico ministero, Fulvio Costantinides e Fabio Cavalli, incaricati dalla Procura di Trieste di indicare l’epoca della morte e le cause che l’hanno determinata. La loro consulenza è stata depositata, come ha reso noto in un comunicato la stessa Procura della Repubblica.
La perizia
Liliana Resinovich sparì il 14 dicembre 2021 a Trieste e fu ritrovata morta il 5 gennaio nel boschetto dell’ex ospedale psichiatrico della città. Secondo consulenti del pm, dopo il confronto quelli nominati dalle altre parti, «il cadavere non presenta lesioni traumatiche possibili causa o concausa di morte, con assenza per esempio di solchi e/o emorragie al collo, con assenza di lesioni da difesa, con vesti del tutto integre e normoindossate, senza chiara evidenza di azione di terzi».
La valutazione della Procura
Ora, quindi, si potrebbe avvicinare la conclusione delle indagini. Sarà compito della Procura decidere «se le indagini preliminari possano dirsi completate o se invece siano opportune ulteriori attività onde non lasciare nulla d’intentato per fare piena luce sull’episodio». Nella nota del procuratore capo Antonio De Nicolo, si specifica che per affrontare la valutazione peseranno anche due elementi esterni al procedimento: i cambiamenti che verranno introdotti dalla imminente entrata in vigore della riforma penale, da un lato, e le carenze nell’organico dei magistrati, dall’altro.
I 19 giorni di buio
Le conclusioni messe a fuoco dai medici legali sui momenti della morte di Liliana Resinovich lasciano aperti una serie di interrogativi sul contesto in cui è avvenuta. A partire da quei 19 giorni di buio che sono trascorsi tra la sparizione della donna e il ritrovamento del suo corpo senza vita: nessuno sa dove sia stata in quel periodo, cosa abbia fatto, dove abbia dormito e cosa abbia mangiato. Per le risposte, la palla passa alla Procura.
“Non si è suicidata”. Parla il marito di Liliana Resinovich. Non ci sono certezze sulla morte di Liliana Resinovich. Il marito Sebastiano Visintin: "Ho sentito migliaia di ipotesi in questi mesi. Non so cosa pensare". Angela Leucci il 14 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Quella di Liliana Resinovich è una morte senza un perché. Scomparsa il 14 dicembre 2021 da Trieste, il suo corpo è stato ritrovato 3 settimane più tardi nei pressi dell’ex ospedale psichiatrico. Ma a molti mesi di distanza si continua a indagare e non ci sono certezze di nessun tipo. La procura ha aperto due fascicoli, per suicidio e per sequestro di persona.
Ma chi era Liliana detta Lilly? È plausibile pensare che si sia suicidata? Aveva uno stalker sconosciuto agli amici e alla famiglia? Ne abbiamo parlato con il marito Sabastiano Visintin, ex fotografo che in alcune parole commosse ha ripercorso a IlGiornale.it quotidianità di coppia e aspettative sulla risoluzione del caso.
“In tanti le avevano detto di vederla dappertutto e ha scoperto di avere un paio di sosia a Trieste - ha ricordato - Così, scherzosamente, decise di farsi quel ciuffo biondo tra i capelli. Io e Liliana parlavamo tanto, prendevamo decisioni insieme”. Per Sebastiano, in questo momento, sono le migliaia di fotografie insieme a parlare, a commemorare la moglie che non c'è più: lui e Lilly in vacanza in Grecia, in costume tradizionale tirolese, a cavallo della bicicletta su un ponte, a tavola con uno spritz in mano.
Visintin, cosa ci può raccontare di Liliana, della vostra vita insieme?
“Quando ci siamo conosciuti, Liliana correva le maratone, faceva molto sport. Dobbiamo procedere per gradi. L’ho conosciuta nel 1989 quando ancora lavoravo al Messaggero. Lei lavorava in Regione e mi raggiungeva il sabato e la domenica. Mi occupavo di cronaca e di sport, come la pallacanestro. Lei mi aiutava con una macchina fotografica, specialmente nel basket era molto precisa, tanto che alcune sue foto pubblicate sono state premiate da una società sportiva. Poi avevo delle moto da cross e viaggiavamo tanto: nei boschi, in Slovenia, ne era molto felice. Abbiamo viaggiato spesso anche portandoci dietro le bici, ne comprammo due uguali. Siamo stati ovunque dalle Cinque Terre alla Grecia, anche in Bosnia dove avevamo alcuni amici, o in Francia o sulla Costiera Amalfitana. Abbiamo fatto di tutto e di più".
Come vi siete innamorati?
“Nell’89 ero ancora sposato, con due figli. Facevo delle foto durante alcune mostre. Una sera ero da un amico, Gaspare, che gestiva il Caffè Teatro a Gorizia, dove si svolgevano mostre d’arte periodiche ma anche letture di poesie. Lì scattavo foto e giravo video. Durante una di queste mostre ho incontrato Liliana con delle amiche. L’ho vista e sono rimasto colpito. Purtroppo non ho fatto in tempo ad andare da lei per salutarla, stavo lavorando e in quel momento ho provato un grande rimpianto. Fortunatamente dopo un mese l’ho incontrata di nuovo e mi sono detto: ‘Ora non ti mollo più’. Sono andato da lei e pian piano abbiamo iniziato a conoscerci e a frequentarci. Spesso le facevo qualche ritratto nel mio studio. Ho quindi chiarito con la mia famiglia, con la quale siamo rimasti in buoni rapporti, siamo rimasti vicini”.
In tv ha descritto quella con Lilly come una quotidianità fatta di piccole cose, un rapporto molto moderno, un amore alla pari.
“Quando ci siamo messi insieme, sono andato a vivere con Lilly a Roiano. Mi ha commosso vedere che nella nostra vecchia casa c’è ancora la targhetta con i nomi di entrambi. Abbiamo costruito una quotidianità ritagliandoci il tempo insieme quando liberi dai rispettivi lavori. Avevamo gli stessi gusti, gli stessi interessi, la libertà di parlare di tanti argomenti, di discutere di cose importanti. Negli ultimi anni abbiamo cambiato casa, dopo la morte di sua madre. Qui, dalla casa in cui sono ancora, abbiamo programmato tanti viaggi, macinando chilometri, 8000-9000 all’anno. Lei si occupava anche di tante cose in casa: aveva diverse piante e le curava molto attentamente”.
Ha visto le foto di Liliana con ematomi e sangue. Cosa crede che possa esserle successo, al di là della risposta che le è stata data e cioè che si trattava di un rigurgito?
“Quando hanno trovato il corpo il 5 gennaio, ero sul posto. Non ho avuto il permesso di vedere Liliana, cosa che mi ha ferito molto. Dopo qualche giorno, forse una settimana, sono stato chiamato per il riconoscimento: mi hanno fatto vedere una foto da stampante, molto grezza. Sul viso, con gli occhi chiusi, ho notato una macchia rossa sul mento. Mi hanno detto che era un rigurgito. Non ho mai più visto Liliana. Non mi sono fatto un’idea: mi attengo a quello che mi dicono gli inquirenti, anche perché non l’ho vista”.
Ipotizziamo che sia stato un suicidio. Immagina che Liliana avesse ragioni per farla finita? Aveva mai parlato con lei di questo argomento?
“Assolutamente no. Avevamo perfino in progetto di partire per il Sud America in febbraio. Abbiamo degli amici che vivono a Ubatuba, a 300 chilometri da San Paolo: loro hanno un albergo là e vengono a Trieste ogni estate. Aveva tanta voglia di vivere, faceva tanti progetti. I mobili in casa erano stati comprati da poco. Non riesco a immaginare che Liliana si sia tolta la vita”.
“C’è stata una lite. poi...". Parla l'amico di Liliana Resinovich
E se invece dovesse essersi trattato di un sequestro di persona e forse di un omicidio, cosa potrebbe essere successo?
“Ho sentito migliaia di ipotesi in questi mesi. Non so cosa pensare. Speravo di sapere e di capire qualcosa dai risultati degli esami fatti su Liliana. Abbiamo bisogno di risposte, ma quelle che ora emergono dalle ultime analisi rese note, presentano delle contraddizioni. Certo però, è una bozza, non è definitiva. Però ci speravo”.
Liliana era una donna graziosa, giovanile, molto dolce. E molto riservata. È possibile che avesse uno stalker, un uomo sconosciuto rifiutato, di cui non le ha parlato per non spaventarla o per non addolorarla?
“Ogni tanto mi diceva che qualcuno telefonava. Lei non rispondeva mai. Poi, quando credeva che c’erano troppe chiamate, bloccava il numero. Questo me lo diceva, ma non so altro. Tanto più che lei era molto riservata: era una piccola dolce differenza tra noi, per me che mi chiamava chiacchierone”.
A Quarto Grado ha accennato al fatto che le mancano diverse cose in casa. Crede che possa essere entrato uno sconosciuto, magari con le chiavi di Lilly mai ritrovate?
“Non mancano cose di valore, ma documenti, interi album fotografici. Pero io e Liliana accumulavamo tante cose, tanti oggetti. Per cui magari semplicemente abbiamo smarrito queste cose in casa e un giorno salteranno fuori. Io e Liliana non ricordavamo tutte le cose che avevamo in casa. Per quanto riguarda le chiavi, io non ero al corrente della sparizione. Può darsi che lei le abbia perse nei giorni precedenti alla scomparsa. La polizia mi ha mostrato le chiavi per provarle e mi sono accorto che erano quelle di riserva”.
Cosa le manca di più di Liliana?
“Mi manca tutto. Nel momento in cui entro in camera da letto e spengo la luce, soffro tantissimo. Mi manca lei. Cerco di reagire, di sopravvivere. Voglio continuare a vivere, anche solo per sapere cosa le è successo. Essere a casa e non sentire un rumore, la sua voce, la sua musica… Ogni volta che ascolto Fernando degli Abba, una canzone che le piaceva molto, sto malissimo”.
Da Ansa il 30 Agosto 2022.
La mattina del 14 dicembre, caricata la lavatrice, fatta la colazione e assunti gli integratori, Liliana sarebbe stata "intercettata, accompagnata o comunque sorpresa da una visita da parte di qualcuno che la ben conosceva.
Da qui si sarebbe sviluppata un'accesa discussione, Liliana sarebbe stata percossa e strattonata", forse subìto un'occlusione delle vie respiratorie, magari con una sciarpa, un cappello o un giubbotto, "che ha determinato uno scompenso cardiaco".
Ne sono convinti l'avv. Nicodemo Gentile, che assiste Sergio Resinovich e Gabriella Marano, psicologa consulente della stessa parte che parlano di uno o più aggressori.
Alessandro Fulloni per corriere.it il 22 agosto 2022.
Cinquanta pagine che tratteggiano in modo netto una certezza: ovvero che Liliana Resinovich è morta per soffocamento, togliendosi la vita. Ma c’è anche un dubbio pesantissimo: non si sa cosa abbia fatto la sessantaquattrenne di Trieste nelle circa tre settimane precedenti al ritrovamento del cadavere, nella boscaglia dell’ex ospedale psichiatrico cittadino, il pomeriggio dello scorso 5 gennaio.
Ecco perché, addirittura, nella perizia della Procura sulla morte della donna si adombra un’ipotesi, sia pure «molto remota»: il cadavere di «Lilly» — in pensione, sposata con il fotoreporter Sebastiano Visintin — potrebbe essere stato «congelato» e nascosto da qualche parte prima di essere abbandonato.
Il lavoro del medico legale Fulvio Costantinides e del radiologo Fabio Cavalli — anticipato ieri da Il Piccolo — svela dettagli sul ritrovamento del corpo, l’esito dell’autopsia e i rilievi della Scientifica. Liliana, scomparsa da casa il 14 dicembre, sarebbe morta 48 ore prima del rinvenimento del cadavere, trovato vestito all’interno di due sacchi della spazzatura, uno infilato dall’alto e l’altro dal basso, con due buste di nylon intorno al capo. Netta la conclusione dell’esame autoptico: non c’erano segni di putrefazione.
L’ipotesi della Procura rimane quella del suicidio e la direzione dell’inchiesta sarebbe quella dell’archiviazione. Restano però interrogativi non da poco: cos’ha fatto Liliana dopo la scomparsa? Dove ha dormito? Ha forse vagato senza meta? Assai improbabile: la donna indossava giubbotto, felpa, canottiera, biancheria intima, pantaloni. Indumenti puliti, in ordine. Non solo.
Nessuna traccia di alcol e nemmeno la presenza di Losartan e di amiodarone, farmaci contro l’ipertensione e la tachicardia, che assumeva regolarmente. Nello stomaco unicamente caffeina e uvetta — forse resti, questi, di una fetta di panettone —, tutto compatibile con la sua solita colazione.
E ancora: il corpo, per nulla smagrito, era depilato nella zona ascellare, nel pube e nelle gambe. Curato, insomma. E senza traccia di una normale crescita attesa nella supposizione che Lilly avesse dormito a lungo qua e là, chissà dove. Ma l’indagine è chiara: nessuno l’ha vista in giro per Trieste. E salvo un frame dell’impianto di videosorveglianza della scuola di polizia che la ritrae la mattina della sparizione, non vi sono altre immagini successive a quel 14 dicembre.
Ed ecco il motivo per cui i due specialisti avanzano, pur tra mille cautele, la possibilità del «congelamento». Che aprirebbe altri scenari: omicidio e occultamento di cadavere. In questo caso la morte sarebbe avvenuta «in luogo ignoto e diverso», con il corpo «poi teoricamente congelato» e trasferito, «a gennaio, nel luogo del rinvenimento».
Va detto che i due periti poi chiariscono che «non vi sono, allo stato, elementi specifici per dimostrare un avvenuto congelamento post mortale del cadavere», indicando, tra l’altro, una serie di ostacoli che avrebbe incontrato chi lo avesse maneggiato. In primis le dimensioni del congelatore — «grandi» — e poi la «complessità» nello scongelare il corpo, trascinandolo via «in tempi brevi».
Non c’erano inoltre segni di violenza, né autopsia né Tac hanno individuato altri possibili cause del decesso oltre all’asfissia. Le mani afferravano la cerniera del giubbotto. Testa e viso erano dentro ai due sacchetti di nylon, quelli piccoli per frutta e la verdura, chiusi attorno al collo con un cordino non molto stretto. Resta però questo mistero: cosa ha fatto «Lilly» dal 14 dicembre sino alla morte?
Il corpo di Liliana Resinovich è stato congelato? Il giallo sulle tre settimane prima del ritrovamento. Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 22 Agosto 2022.
La perizia della Procura sulla morte della donna: si sarebbe uccisa. Decesso per asfissia. C’è però anche l’ipotesi «remota» che il suo corpo possa essere stato congelato. E il mistero su cosa ha fatto nelle circa tre settimane che hanno preceduto il suicidio
Cinquanta pagine che tratteggiano in modo netto una certezza: ovvero che Liliana Resinovich è morta per soffocamento, togliendosi la vita. Ma c’è anche un dubbio pesantissimo: non si sa cosa abbia fatto la sessantaquattrenne di Trieste nelle circa tre settimane precedenti al ritrovamento del cadavere, nella boscaglia dell’ex ospedale psichiatrico cittadino, il pomeriggio dello scorso 5 gennaio. Ecco perché, addirittura, nella perizia della Procura sulla morte della donna si adombra un’ipotesi, sia pure «molto remota»: il cadavere di «Lilly» — in pensione, sposata con il fotoreporter Sebastiano Visintin — potrebbe essere stato «congelato» e nascosto da qualche parte prima di essere abbandonato.
Il lavoro del medico legale Fulvio Costantinides e del radiologo Fabio Cavalli — anticipato ieri da Il Piccolo — svela dettagli sul ritrovamento del corpo, l’esito dell’autopsia e i rilievi della Scientifica. Liliana, scomparsa da casa il 14 dicembre, sarebbe morta 48 ore prima del rinvenimento del cadavere, trovato vestito all’interno di due sacchi della spazzatura, uno infilato dall’alto e l’altro dal basso, con due buste di nylon intorno al capo. Netta la conclusione dell’esame autoptico: non c’erano segni di putrefazione. L’ipotesi della Procura rimane quella del suicidio e la direzione dell’inchiesta sarebbe quella dell’archiviazione. Restano però interrogativi non da poco: cos’ha fatto Liliana dopo la scomparsa? Dove ha dormito? Ha forse vagato senza meta? Assai improbabile: la donna indossava giubbotto, felpa, canottiera, biancheria intima, pantaloni. Indumenti puliti, in ordine. Non solo.
Nessuna traccia di alcol e nemmeno la presenza di Losartan e di amiodarone, farmaci contro l’ipertensione e la tachicardia, che assumeva regolarmente. Nello stomaco unicamente caffeina e uvetta — forse resti, questi, di una fetta di panettone — , tutto compatibile con la sua solita colazione. E ancora: il corpo, per nulla smagrito, era depilato nella zona ascellare, nel pube e nelle gambe. Curato, insomma. E senza traccia di una normale crescita attesa nella supposizione che Lilly avesse dormito a lungo qua e là, chissà dove. Ma l’indagine è chiara: nessuno l’ha vista in giro per Trieste. E salvo un frame dell’impianto di videosorveglianza della scuola di polizia che la ritrae la mattina della sparizione, non vi sono altre immagini successive a quel 14 dicembre. Ed ecco il motivo per cui i due specialisti avanzano, pur tra mille cautele, la possibilità del «congelamento». Che aprirebbe altri scenari: omicidio e occultamento di cadavere. In questo caso la morte sarebbe avvenuta «in luogo ignoto e diverso», con il corpo «poi teoricamente congelato» e trasferito, «a gennaio, nel luogo del rinvenimento».
Va detto che i due periti poi chiariscono che «non vi sono, allo stato, elementi specifici per dimostrare un avvenuto congelamento post mortale del cadavere», indicando, tra l’altro, una serie di ostacoli che avrebbe incontrato chi lo avesse maneggiato. In primis le dimensioni del congelatore — «grandi» — e poi la «complessità» nello scongelare il corpo, trascinandolo via «in tempi brevi». Non c’erano inoltre segni di violenza, né autopsia né Tac hanno individuato altri possibili cause del decesso oltre all’asfissia. Le mani afferravano la cerniera del giubbotto. Testa e viso erano dentro ai due sacchetti di nylon, quelli piccoli per frutta e la verdura, chiusi attorno al collo con un cordino non molto stretto. Resta però questo mistero: cosa ha fatto «Lilly» dal 14 dicembre sino alla morte?
Liliana Resinovich, i consulenti del pm: «Si è suicidata poco prima del ritrovamento». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022
La bozza delle conclusioni degli esperti: «Nessun segno compatibile con l’azione di terzi». La donna era scomparsa il 14 dicembre del 2021 ed è stata ritrovata il 5 gennaio. Domanda: dov’è stata per 19 giorni?
Liliana Resinovich si sarebbe suicidata e sarebbe morta due, tre giorni prima del ritrovamento del corpo, il 5 gennaio scorso nel parco dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste. L’anticipazione è dell’Adnkronos che attribuisce la conclusione ai consulenti della procura di Trieste. «Non faccio commenti su un documento che non è ancora stato depositato», taglia corto il procuratore di Trieste, Antonio De Nicolo. Una morte per asfissia che sarebbe sopraggiunta quasi tre settimane dopo la scomparsa della donna, avvenuta il 14 dicembre 2021. Il corpo di Liliana fu trovato vestito all’interno di due sacchi della spazzatura, uno infilato dall’alto e l’altro dal basso, con due buste di nylon intorno al capo.
«Nessuna aggressione»
Un ritrovamento singolare che a lungo aveva fatto pensare all’omicidio. Si tratterebbe di una bozza della relazione firmata dal professore di Medicina legale Fulvio Costantinides e dal medico radiologo Fabio Cavalli, inviata ai consulenti di parte per le loro osservazioni. Gli esperti, incaricati dal sostituto procuratore Maddalena Chergia, riportano i risultati dell’autopsia e degli esami tossicologici, nei quali viene esclusa l’assunzione di droga o farmaci. I sacchi integri che contenevano il corpo della vittima sono considerati «poco compatibili» con un caso di aggressione e con il trasporto del corpo «in ambiente impervio», in più c’è l’assenza di «qualsivoglia segno ragionevolmente riportabile a violenza per mano altrui», la mancanza «di lesioni attribuibili a difesa» e di altre ferite che avrebbero potuto impedirle di reagire a un’aggressione. Il fatto che i sacchetti non sono stati trovati molto stretti al collo «non esclude», a parere dei consulenti, «una morte per una possibile asfissia di questo tipo: se è vero infatti che basta l’inspirio per far aderire il sacchetto agli orifizi del volto cagionando deficit di ossigeno, tale aderenza può essere anche intermittente o addirittura non esserci essendo sufficiente per il soffocamento l’accumulo progressivo di anidride carbonica espirata ed il rapido consumo dell’ossigeno nel poco volume aereo offerto dal sacchetto».
Non c’è la mano di terzi
L’ipotesi di soffocamento appare dunque «plausibile» nel caso specifico, «in assenza di altri segni di asfissia meccanica violenta (strozzamento, strangolamento), non emergendo, inoltre, chiare evidenze oggettive omicidiarie, come pure ipotesi più rare e remote come l’abuso di solventi, le manovre legate ad erotismo con asfissia posta in essere a scopo sessuale». In sostanza, «non emerge» a parere dei consulenti tecnici, «alcunché che concretamente supporti l’intervento di mano altrui nel determinismo del decesso» di Liliana, che si era allontanata da casa senza cellulari e fede nuziale.
Il corpo «non presenta evidenti lesioni traumatiche possibili causa o concausa di morte, con assenza di solchi o emorragie al collo, con assenza di lesioni da difesa, con vesti del tutto integre e normo indossate, senza chiara evidenza di azione di terzi». L’autopsia ipotizza «una morte asfittica tipo spazio confinato («plastic bag suffocation»), senza importanti legature o emorragie presenti al collo».
Dov’è andata per 19 giorni?
Se queste saranno le conclusioni definitive, rimangono sospesi un paio di interrogativi: dov’era Liliana nei 19 giorni che separano il giorno della scomparsa da quello ipotizzato del suicidio? E quei primi risultati attribuiti al medico legale che facevano risalire la morte ai giorni della scomparsa, erano forse sbagliati?
Comunque sia, pare che il caso sia destinato a una richiesta di archiviazione da parte della procura.
Resta il mistero sui giorni tra la scomparsa e la morte. Liliana Resinovich, svolta nel giallo sulla morte: “Si è tolta la vita chiudendosi la testa in due sacchetti”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 9 Agosto 2022.
Svolta sulla morte di Liliana Resinovich. Secondo una perizia della Procura la 63enne si sarebbe tolta la vita. Ma si apre un nuovo giallo: la donna sarebbe morta due o massimo tre giorni prima il suo ritrovamento. Liliana scomparve da casa sua a Trieste, dove viveva con il marito Sebastiano Visintin, il 14 dicembre e fu ritrovata il 5 gennaio successivo nel parco dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste a pochi passi da casa. Dove ha trascorso quei giorni e cosa le è successo? Cosa l’avrebbe spinta a pensare a un gesto estremo?
Il ritrovamento del corpo di Liliana avvenne in una macchia boschiva in condizioni sospette. Aveva due sacchetti di plastica trasparenti uno dentro l’altro intorno alla testa, non troppo stretti alla gola. Tutto il corpo era racchiuso in grandi sacchi della spazzatura, uno infilato dall’alto e uno dal basso. Era rannicchiata con le braccia incrociate sul petto. Secondo i periti è morta “due, massimo tre giorni prima” del suo ritrovamento avvenuto il 5 gennaio scorso nel parco dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste, un decesso per asfissia, una morte probabilmente volontaria.
Sono queste le conclusioni rivelate in esclusiva da Adnkronos a cui sarebbero arrivati i consulenti della procura. Per settimane la Procura ha oscillato tra le ipotesi di suicidio e omicidio. Le nuove rivelazioni porterebbero alla certezza che Liliana abbia deciso di togliersi la vita. Il caso sembrerebbe chiuso, dopo la bozza della relazione firmata dal professore di Medicina legale Fulvio Costantinides e dal medico radiologo Fabio Cavalli e inviata ai consulenti di parte per le loro osservazioni. Nella bozza della relazione di circa 50 pagine gli esperti, incaricati dal sostituto procuratore Maddalena Chergia, mettono nero su bianco i risultati dell’autopsia e degli esami tossicologici (viene esclusa l’assunzione di droga o farmaci) e le deduzioni che lasciano propendere per un gesto che non abbia coinvolto altre persone.
Come ricostruito dall’AdnKronos, i sacchi integri che contenevano il corpo della vittima sono “poco compatibili” con un caso di aggressione e con il trasporto del corpo “in ambiente impervio”. Poi c’è l’assenza di “qualsivoglia segno ragionevolmente riportabile a violenza per mano altrui”, la mancanza “di lesioni attribuibili a difesa” e di altre ferite che potrebbero far pensare a un’aggressione. Il fatto che i sacchetti non sono stati trovati stretti al collo “non esclude”, a parere dei consulenti, “una morte per una possibile asfissia di questo tipo: se è vero infatti che basta l’inspirio per far aderire il sacchetto agli orifizi del volto cagionando deficit di ossigeno, tale aderenza può essere anche intermittente o addirittura non esserci essendo sufficiente per il soffocamento l’accumulo progressivo di anidride carbonica espirata ed il rapido consumo dell’ossigeno nel poco volume aereo offerto dal sacchetto”.
L’ AdnKronos continua citando il parere dei periti: “in assenza di altri segni di asfissia meccanica violenta (strozzamento, strangolamento), non emergendo, inoltre, chiare evidenze oggettive omicidiarie, come pure ipotesi più rare e remote come l’abuso di solventi, le manovre legate ad erotismo con asfissia posta in essere a scopo sessuale”. In sostanza, “non emerge” a parere dei consulenti tecnici, “alcunché che concretamente supporti l’intervento di mano altrui nel determinismo del decesso” di Liliana, la quale si era allontanata da casa senza cellulari e fede nuziale. Le conclusioni, a sette mesi dal giallo della morte sembrano risolutive: il decesso di Liliana può farsi risalire “ragionevolmente a circa 2-3 giorni prima” del ritrovamento del corpo che “non presenta evidenti lesioni traumatiche possibili causa o concausa di morte, con assenza di solchi o emorragie al collo, con assenza di lesioni da difesa, con vesti del tutto integre e normoindossate, senza chiara evidenza di azione di terzi”. L’autopsia suggerisce “una morte asfittica tipo spazio confinato (‘plastic bag suffocation’), senza importanti legature o emorragie presenti al collo” scrivono i consulenti. Tutto questo potrebbe portare la procura di Trieste ad archiviare il caso.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
“C’è stata una lite. poi...". Parla l'amico di Liliana Resinovich. Angela Leucci il 22 Luglio 2022 su Il Giornale.
È ancora un giallo quello della morte di Liliana Resinovich: ora parla l'amico Fulvio Covalero, il quale si è fatto un'idea sulla dinamica della scomparsa.
Che cosa è accaduto a Liliana Resinovich? È una domanda che si pongono in tanti da quel 14 dicembre 2021 in cui la donna è scomparsa, e poi con più forza da quando il suo corpo, ricoperto da sacchi di plastica, è stato ritrovato nei primi giorni di gennaio nei pressi dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste.
Liliana detta Lilly ha un’immagine mediatica impressa negli occhi dello spettatore, quella di una donna tranquilla, appassionata di viaggi e di attività all’aria aperta, dolce e quasi remissiva. Una bella signora insomma con un ottimo carattere, tanto che due uomini dicono di averla amata. Da un lato c’è Sebastiano Visintin, il marito, dall’altro c’è il presunto amante, Claudio Sterpin.
Lilly aveva anche una famiglia d’origine, un fratello, Sergio, e uno stuolo di conoscenti, forse molti amici. Uno di questi amici, un uomo che la conosce da molti anni, è Fulvio Covalero, concittadino e residente nel suo stesso quartiere: dal giorno della scomparsa di Liliana, Covalero è una figura di primo piano, inizialmente nelle ricerche, e poi anche nei suoi post sui social in cui forse sperava che chi fosse a conoscenza avrebbe detto la verità. I suoi aggiornamenti che iniziavano con “Caro conosciuto” ed erano firmati Lilly sono stati molto citati negli approfondimenti televisivi.
Intanto gli inquirenti continuano a lavorare su due fascicoli: uno aperto per suicidio, l’altro per sequestro di persona. Si è indagato sulle scarpe della donna, sul contenuto dei suoi device elettronici e su tanto altro. Ma ancora non si è giunti allo scioglimento di questo mistero. “Secondo me, lei ha subito una violenta aggressione verbale che le ha causato lo scompenso cardiaco”, confida a IlGiornale.it l’amico Fulvio.
Signor Covalero, come mai ha scelto di mettere nella foto del profilo Facebook uno scatto di lei con Liliana?
“È l’unica foto che ho in cui sono assieme a Liliana, non ce ne sono altre. Ce l’ha scattata Sebastiano nel 2015”.
Cosa le manca di più di Lilly?
“Non ci vedevamo spesso, era più una consuetudine casuale, perché abitavamo nello stesso rione da qualche anno. Per esempio, ci si incontrava per caso al supermercato, mentre facevamo la spesa ognun per sé. Quando succedono queste cose, c’è una consapevolezza che mette tristezza. Poteva passare del tempo, prima, senza vedersi: ora so che non la rivedrò mai più. Non ci sarà più modo”.
Come ricorda il carattere di Liliana?
“È stata una ragazza allora e una donna poi sempre molto dolce. Evitava le discussioni. Ho pensato che qualcuno possa essersi approfittato della sua disponibilità. Andava vissuta con cura, sapendo che c’era, senza approfittarsi del suo carattere”.
C’era qualcosa nel carattere di Liliana che avrebbe potuto metterla in pericolo, per esempio la propensione ad aiutare il prossimo?
“Liliana non si approcciava a nessuno che non conoscesse bene, per quanto si possa dire di conoscere le persone fin nei loro lati nascosti. Io ho saputo di Liliana da Facebook: una persona che non conosco, che non so come sia collegata a Liliana, ha messo un post in cui diceva che Lilly era scomparsa da due giorni. Così ho contattato la stampa locale”.
Perché avete pensato di cercare Liliana Resinovich nei pressi dell’ex ospedale psichiatrico?
“Una precisazione: non ho notizie di altri che si sono attivati nelle ricerche personalmente, a parte una ragazza bionda, che poi mi hanno detto essere la nipote, la figlia di Sergio Resinovich. Questa ragazza un giorno girava nel rione San Giovanni con la foto di Lilly”.
I telefoni, il vano coperto, i buchi: cosa non torna nella morte di Liliana Resinovich
Che lei ricordi, quel luogo aveva un particolare significato per Liliana, posto che il marito Sebastiano ha raccontato che a volte ci andavano in maggio per la fioritura delle piante?
“Può essere. Per quello che mi riguarda, è una strada che faccio spesso, quando cerco di tenermi in forma. Vado in autobus fino alla chiesetta, faccio 200-300 metri, prendo un altro autobus e poi torno a piedi camminando o correndo. Intorno al 22-23 dicembre ho pensato di guardare, perché era un luogo in cui passavo spesso”.
L’ha cercata anche in altri luoghi? Dove?
“L'ho cercata anche lungo la ex strada romana, scendendo da monte Spaccato alla strada per Basovizza”.
Cosa pensa sia accaduto a Liliana?
“Secondo me è successo questo, lo dico da mesi. Lilly è arrivata in piazzale Gioberti, è dimostrato: l’ha vista la fruttivendola, è stata ripresa dalle telecamere del bus. Quella mattina a Trieste, sul viale Al Cacciatore, pare sia nata una discussione violenta, tanto che sono stati chiamati anche i carabinieri. Quando sono arrivati però non c’era più nessuno. Secondo me, lei ha subito una violenta aggressione verbale che le ha causato lo scompenso cardiaco. Dopo di che chi era con lei non poteva giustificare di essere lì con lei, l’ha messa nel bagagliaio della macchina e l’ha portata via”.
Quindi potrebbe essere stata portata nei pressi dell’ex ospedale psichiatrico in altra data?
“Non ricordo da chi l’ho sentito: qualcuno ha detto che in quei giorni era caldo per essere dicembre. Penso che chi l’ha presa, potrebbe averla portata sul Carso, magari con una seconda auto, dove fa molto più freddo di 4-5 gradi, per poi portarla nel luogo in cui è stata trovata in un giorno in cui era meno affollato. In un fondone, sarebbe stata al riparo dalla pioggia e dagli animali. Per me non è stato omicidio, credo sia stato un incidente”.
Pare che Liliana abbia fatto delle considerazioni sul suicidio, con i parenti e con Claudio Sterpin. Con lei ne ha mai fatte?
“Non credo al suicidio. A me non ha mai detto niente. Non credo che fosse mentalmente predisposta al suicidio, non ne aveva motivo. Proprio per impostazione mentale, per il modo in cui sentiva la vita. Poi è difficile immaginare che una persona, per suicidarsi, vada in quel luogo, si metta dentro ai sacchi”.
Liliana Resinovich, il dna «scagiona» il marito, l’amico e il vicino di casa. Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 9 Aprile 2022.
Trieste, l’analisi della Scientifica: la traccia genetica trovata sul cordino che stringeva i sacchetti al collo della donna non appartiene ai tre uomini. La comparazione ha dato esito negativo. Per gli inquirenti sale l’ipotesi del suicidio.
Niente da fare: quel dna non è del marito, non è dell’amico e non è del vicino di casa. L’analisi scientifica della traccia biologica maschile trovata sul cordino che stringeva al collo i due sacchetti di nylon nei quali era infilata la testa di Liliana Resinovich ha dato esito negativo. E’ questo il risultato della comparazione del materiale biologico estratto dal reperto con i codici genetici dei tre uomini (nessuno di loro è indagato), ai quali gli inquirenti hanno chiesto il dna per tentare di risolvere il giallo della morte della 63enne triestina, scomparsa da casa il 14 dicembre scorso e ritrovata senza vita il 5 gennaio nel vicino boschetto dell’ex ospedale psichiatrico.
Le ipotesi
Il corpo della donna era stato rinvenuto in posizione fetale all’interno di due sacchi neri della spazzatura, aperti, uno infilato dalla testa e l’altro dai piedi. E con queste due buste di plastica biodegradabili che le coprivano il capo e chiuse dal cordino. Circostanze che avevano indotto i più a pensare a un delitto piuttosto che a un suicidio. Ma la procura non ha mai escluso questa seconda ipotesi, per quanto improbabile possa sembrare. Come ha fatto Liliana a mettersi da sola i sacchi nei quali era avvolto il corpo? «Difficile da immaginare ma non impossibile, bisogna considerare che i sacchi non erano chiusi», sottolinea chi sta indagando. A deporre per il suicidio , la scoperta del dna di Liliana sul cordino, che lei avrebbe usato per soffocarsi. Una traccia nitida ma mista, nel senso che sullo stesso punto è stato individuato anche un dna maschile, questo invece molto debole, al quale gli inquirenti non hanno mai dato molta importanza. «Potrebbe trattarsi di una contaminazione».
I tre dna
Per non lasciare nulla di intentato hanno però deciso di procedere alla comparazione con quello dei soggetti che più degli altri frequentavano Liliana. Primo fra tutti naturalmente il marito, Sebastiano Visintin, un fotoreporter in pensione sul quale si sono addensati subito i sospetti. Poi c’è l’amico del cuore, l’ex maratoneta Claudio Sterpin, ottantaduenne, che aveva ripreso a frequentare Liliana dopo averla conosciuta quarant’anni fa. Il terzo è il vicino di casa, Salvatore Nasti, un carabiniere in pensione che frequentava Liliana e Sebastiano insieme con la moglie. In un’intervista televisiva Nasti aveva segnalato le stranezze del comportamento di Visintin quando si è trattato di denunciare la scomparsa della moglie: «Se ti sparisce la moglie devi fare qualcosa, lui invece voleva aspettare». E sempre Nasti aveva indicato il boschetto dell’ex ospedale psichiatrico come luogo dove cercare il corpo di Liliana quando erano in corso le ricerche: «Ci andava spesso».
Conclusione
Comunque sia, secondo la Scientifica nessuno dei tre ha toccato quel cordino che potrebbe aver soffocato Liliana. Considerato poi che dall’indagine non sono emersi altri elementi concreti contro terze persone, gli inquirenti ritengono sempre più probabile che la soluzione del giallo sia anche la più drammaticamente banale: suicidio.
Andrea Pasqualetto per il "Corriere della sera" il 10 aprile 2022.
Loro, quel cordino, pare non l'abbiano toccato. E siccome potrebbe essere l'arma del delitto, o del suicidio, la conclusione diventa importante per risolvere il giallo di Liliana Resinovich, la 63enne triestina scomparsa lo scorso 14 dicembre e ritrovata senza vita il 5 gennaio.
Loro sono infatti le tre persone che più di tutti la frequentavano: il marito Sebastiano Visintin, settantaduenne fotoreporter in pensione; l'amico Claudio Sterpin, ex maratoneta ottantaduenne che aveva preso a incontrare Liliana dopo quarant' anni; e il vicino di casa Salvatore Nasti, un carabiniere in pensione che vedeva Liliana e Sebastiano insieme con la moglie.
E sono anche i soli tre soggetti ai quali la Procura di Trieste ha chiesto il Dna per poterlo comparare con l'unica traccia di terzi trovata sui reperti portati all'attenzione della Scientifica. La traccia, maschile, è stata scovata sul cordino che stringeva al collo i due sacchetti di nylon nei quali era infilata la testa di Liliana.
Ma i poliziotti in camice bianco, al termine delle analisi consegnate alla Procura proprio in questi giorni, hanno scosso la testa: negativo. Si esclude che quella traccia sia del terzetto in questione.
Domanda: c'è forse l'ipotesi di un quarto uomo? La Procura tende a escluderlo, un po' perché non ci sono altre presenze importanti nella vita della donna e un po' perché il materiale biologico trovato sul cordino non è comunque considerato molto rilevante dagli inquirenti. Si tratta di un Dna debole, «potrebbe trattarsi di una contaminazione» dicono. In definitiva, dalla Scientifica non escono risultati che possano portare a un'incriminazione. Tutt'altro.
Ben più nitido è infatti il Dna di Liliana trovato sullo stesso reperto. Significa che lei sì l'ha toccato. E questo elemento depone per il suicidio, ipotesi mai esclusa dagli inquirenti e avvalorata dalle indagini. In primis dall'autopsia che ha escluso qualsiasi violenza e l'avvelenamento.
Resta in piedi il soffocamento e se Liliana ha toccato il cordino potrebbe anche averlo stretto. Un suicidio anomalo, anche perché il corpo è stato ritrovato all'interno di due sacchi neri. Chi l'ha messa in quei sacchi? «Erano aperti, è possibile che l'abbia fatto lei stessa», precisa chi sta indagando.
E il marito di Liliana, cosa ne pensa? «Mi fa molto male l'idea che Lilly si sia tolta la vita. Non riesco proprio a immaginarlo. Mi chiedo cosa non ho capito, perché l'ha fatto? Se davvero sarà suicidio resta comunque questo mistero. Perché lei non viveva alcun disagio o almeno io non me ne sono accorto. E questo mi distrugge».
Anche lui non crede al quarto uomo: «Non mi sembra possibile». Cosa pensa invece dell'esclusione di Sterpin e Nasti?
«Beh, per me Sterpin rimane il responsabile di tante cose. Mi dicono che sta scrivendo un libro sulla vicenda, è meglio che si faccia curare. Salvatore invece non lo riesco proprio a capire, con quei sospetti lanciati su di me. Lui mi ha ferito. Non ci guardiamo nemmeno più».
Nasti aveva parlato dello strano comportamento di Visintin per non aver denunciato subito la scomparsa. «Ma erano le sette di sera ed era andata via di casa la mattina, poteva essere rimasta fuori per qualche motivo».
E a tutti quelli che l'hanno accusata, come il fratello di Liliana, Sergio, cosa dice? «Li perdono. Perché, vede, io ho un modo di fare che può indurre certi pensieri... Con Sergio eravamo amici, spero di trovare con lui un nuovo equilibrio, quando la procura chiuderà il caso».
Molti parenti e amici si sono allontanati. «Nove su dieci mi hanno abbandonato». Ma Visintin non è rimasto solo: «Ricevo decine di bei messaggi ogni giorno. Di recente ho avuto anche la bella sorpresa di una signora di Zurigo, mai conosciuta prima, che mi ha mandato dei soldi con un bonifico. Altri lo vogliono fare con Postepay. Voglio dire, c'è anche chi crede in me e mi vuole aiutare. Ringrazio tutti, anche se nessuno potrà mai colmare il vuoto di Lilly e togliermi quest'angoscia che ho dentro».
Liliana Resinovich, il marito: «Dna mi scagiona? Tanti mi devono delle scuse. Ma non credo al suicidio». Sebastiano Visintin parla dopo l’esame che ha scagionato lui, il vicino di casa e un amico. «Non è un gesto da Liliana e anche la modalità lascia perplessi. Amareggiato dalle dichiarazioni di Sterpin, con lui non parlo più». Margherita Montanari su Il Corriere della Sera l'11 Aprile 2022.
Ha ancora dubbi, ma ora che le strade della Procura sembrano puntare verso l’ipotesi del suicidio di Liliana Resinovich, anche le sue convinzioni si smorzano. Sebastiano Visintin, marito della 63enne, sparita il 14 dicembre a Trieste e ritrovata morta il 5 gennaio nei giardini dell’ex ospedale psichiatrico della città, continua «a credere difficile che Lilly si sia tolta la vita, e per di più in quel modo». Il corpo di Resinovich era in posizione fetale all’interno di due sacchi neri della spazzatura, uno infilato dalla testa e l’altro dai piedi. A seguito degli esami condotti, le tracce genetiche rinvenute «in gran quantità» sugli involucri e sul cordino stretto intorno al collo sono risultate appartenere proprio alla vittima. Un solo segmento di dna maschile è stato rilevato sul cordino. Ma la sua comparazione con quello del marito, dell’amico 82enne Claudio Sterpin e del vicino di casa, Salvatore Nasti non ha dato esito positivo. Mentre resta in ballo l’ipotesi di un quarto uomo, si consolida l’ipotesi di un gesto estremo compiuto dall’ex dipendente della regione. «Il bisogno di sapere la verità è forte e spero che venga fuori — spiega Visintin — Ma la verità non sarebbe una consolazione, perché la mia compagna ormai non c’è più».
Visintin, come si sente dopo aver conosciuto gli ultimi risvolti investigativi del caso che riguarda le circostanze di morte di sua moglie?
«Sono tranquillo. Mi sono sottoposto all’esame del Dna con la massima disponibilità, perché non ho nulla a che fare con la morte di Liliana. Ormai sono 4 mesi che tutti parlano di ipotesi e storie tranne che di Lilly. È dura. Aspetto risposte dalla Procura, che sta indagando, e spero che arrivi a una verità».
Lei ha detto che è difficile credere al suicidio, però le strade della Procura puntano sempre di più verso questa ipotesi. Sta cambiando idea?
«Continuo a credere difficile che Lilly si sia tolta la vita, è un gesto che non appartiene ai modi della persona che conoscevo e che ho amato per 32 anni. Ma gli elementi che ha la Procura portano in quella direzione».
Si è domandato se Liliana potesse aver dei motivi per prendere una decisione irreversibile?
«Mi sono chiesto più volte che cosa possa avere scatenato una reazione simile, ma non mi è venuto in mente nulla. Come ogni persona, Liliana aveva alti e bassi. Negli ultimi tempi si era un po’ irrigidita. Pensavo che non stesse bene, che avesse qualche malattia di cui non voleva parlarmi. Ma la tac effettuata dai medici ha escluso questa ipotesi».
Liliana è stata ritrovata all’interno di due sacchi dei rifiuti.
«Anche di questo non mi capacito. Non mi sembra possibile che Liliana abbia escogitato un simile sistema per togliersi la vita. Ci sono modi meno clamorosi per farla finita».
L’esame del dna ha scagionato anche Claudio Sterpin e Salvatore Nasti. In questi mesi sono stati lanciati attacchi pesanti nei suoi confronti, a cui anche lei ha risposto. Ha avuto modo di parlare con loro nelle ultime ore?
«I risultati degli esami sono chiari e li accetto. Ma di parlare con Sterpin non ci penso proprio. Credo che molte cose che ha detto su lui e Liliana se le sia immaginato. Ha fatto certe esternazioni vergognose, raccontando di come lei si sedesse sulle sue gambe o dicendo che Liliana mi avrebbe lasciato. Cose che qualsiasi persona umana avrebbe risparmiato di dire, visto che mia moglie non poteva controbattere. Io ho scelto di non rispondere alle sue affermazioni. Quando la vicenda sarà risolta, avremo modo di sentirci e di chiarire».
Quando a Nasti? Aveva definito strana la sua scelta di non denunciare subito la scomparsa di Liliana.
«Eravamo grandi amici, ma sia lui che la moglie sono spariti da dicembre. Mi riempie di dolore».
In tanti hanno sospettato di lei, anche il fratello di Liliana, Sergio. I rapporti si possono ricostruire?
«Sono almeno una decina le persone che hanno detto cose terribili contro di me. Io non voglio neanche commentarle, sono chiacchiere. Qualcuno mi deve delle scuse. So di aver amato mia moglie e di esser stato amato. Aspetto di avere dalla Procura la verità e i risultati di tutti gli esami che sta svolgendo».
Ha mai paura che una verità non si riesca a trovare?
«Il bisogno di sapere la verità è forte e spero che venga fuori. Ma la verità non sarebbe una consolazione. Penso che la mia compagna non c’è più».
Che rapporto aveva con sua moglie?
«Avevamo un modo di vivere tutto nostro. Ciascuno aveva i propri impegni durante la settimana, e nel weekend partivamo, eravamo sempre in giro. Facevamo fino a 12mila chilometri in bicicletta ogni anno. Ci siamo divertiti. Lei mi è sempre stata vicina, anche quando mia figlia è mancata, il momento più duro della mia vita».
Come è cambiata la sua vita da dicembre?
«Il primo mese è stato un fiume in piena, mesi di dolore e pianto. Ho 73 anni, ricominciare è difficile».
Il caso di Trieste. Liliana Resinovich, i dubbi del marito Sebastiano Visintin sul suicidio: “Quell’ultima telefonata con Claudio Sterpin”. Vito Califano su Il Riformista il 15 Marzo 2022.
Il dna di Liliana Resinovich è stato ritrovato in abbondanti quantità sui sacchi neri in cui era stato infilato il suo cadavere, sul sacchetto di nylon che le cingeva la testa e sul cordino intorno alla gola. Il giallo della 63enne, ex dipendente regionale di Trieste, sparita nel nulla a metà dicembre 2021 e ritrovata il 5 gennaio scorso in una macchia boschiva nei pressi dell’ospedale psichiatrico di Trieste, sembra essere arrivato a una svolta. Sicuramente uno snodo, che ormai prende fortemente in considerazione la tesi del suicidio.
La versione era sempre stata respinta e negata dai familiari, compreso Sebastiano Visintin, ex fotoreporter e marito della 63enne, che in questi giorni si è spostato in Austria. Non è mai stato indagato come non è mai stato indagato Claudio Sterpin, l’amico della donna presso il quale Resinovich si stava recando la mattina della scomparsa. Lo aiutava con le faccende domestiche. Quel giorno lo avvisò che avrebbe tardato un po’ in quanto doveva passare da un negozio di telefonia. Da allora più nessuna notizia, fino al ritrovamento del cadavere. Visintin ha sempre detto di non essere a conoscenza di quel rapporto della moglie con Sterpin.
È sconvolto, racconta in un’intervista a Il Corriere della Sera di essere dimagrito drasticamente. Non ha mai avuto nulla da nascondere e per questo non c’è stato alcun problema nel farsi prendere il dna. “Ci sono troppe domande che non tornano. Non ritengo possibile che Lilly da un momento all’altro abbia deciso di farla finita in quel modo. Ma non penso neanche che qualcuno le abbia fatto del male. Siamo sempre lì. Se una persona vuole togliersi la vita a Trieste può farlo in altri mille modi, ci sono decine di ponti da cui buttarsi. Non credo che lei sia stata capace di organizzare un piano così dettagliato ma penso anche che nessuno avesse interesse a ucciderla”.
L’uomo avrà sempre dubbi sulla tesi del suicidio, anche perché nessun segnale aveva fatto presagire un gesto estremo. La polizia non avrebbe rinvenuto sul corpo dei segni di violenza. Altri dubbi su quella ultima telefonata, alle 8:22, con Claudio Sterpin il giorno della scomparsa: “Il contenuto non si riesce a capire. Non vorrei che quella chiamata abbia avuto qualche effetto nella testa di Lilly. Non essendo indagato non sono riuscito neanche ad accedere agli atti giudiziari ma mi piacerebbe sapere davvero cosa si sono detti”.
“Lilly non stava bene con il marito, aveva deciso di lasciarlo e voleva dirglielo il 16 dicembre, il 17 dovevamo fare un weekend insieme. In ogni caso non sono l’amante, come potrei esserlo con tre interventi alla prostata?”, aveva raccontato Sterpin al quotidiano Il Piccolo. “Non sapevo nulla di questa relazione, lui è ignobile, mi ha rovinato la vita, l’ha plagiata, la chiave del mistero è tutta lì”, aveva risposto Visintin negando ogni dissidio, anche le difficoltà economiche che avrebbero esasperato la relazione.
Visintin si è detto infastidito dai molti che hanno dipinto la moglie come “una ‘stupidina’ che non prendeva mai decisioni e si faceva sottomettere, facendo tutto quello che voleva il marito. Non è assolutamente vero”. “Perdere la moglie in quel modo è la peggior cosa che possa capitare dopo 32 anni vissuti insieme. Quindi direi nessun sollievo. Quello che la gente ha detto sono solo chiacchiere di chi non conosce me e Liliana. Eravamo molto riservati quindi in pochi si possono permettere di giudicare”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Da leggo.it il 14 febbraio 2022.
«Mia sorella è stata uccisa. E il movente è economico». Ha pochi dubbi Sergio Resinovich, il fratello della 63enne triestina Liliana. Per lui la sorella è stata assassinata. L'uomo, in una memoria presentata alla procura, fa anche il nome e un cognome della persona che avrebbe ammazzato la sorella. Resinovich ritiene che l'omicida faccia parte della cerchia familiare. Si tratterebbe di un mister x che è rimasto totalmente fuori dai radar mediatici.
L'atto consegnato ai magistrati, attraverso il suo legale Luigi Fadalti, sarà adesso acquisito dal sostituto procuratore Maddalena Chergia, il pm che indaga sul mistero della scomparsa e della morte della 63enne sparita il 14 dicembre trovata senza vita tre settimane dopo, il cinque gennaio.
Il fratello ritiene impossibile che la sorella possa essersi suicidata. E nella memoria presentata alla procura lo spiega. L'uomo ritiene che la sorella non avrebbe avuto nessun motivo per compiere l'estremo gesto. Liliana, sostiene il parente, stava bene da un punto di vista psicologico. Inoltre, nella remota ipotesi che si fosse suicidata, avrebbe lasciato qualcosa di scritto per lui e per la sua nipote a cui era molto legata.
E allora per Sergio lo scenario sarebbe totalmente diverso. Intanto si tratterebbe di un omicidio e non di suicidio e il movente sarebbe economico e non passionale. Quest'ultima è stata la prima pista, mai del tutto abbandonata, da parte degli inquirenti. Ci sarebbero delle ragioni di rivalsa. Qualcuno che, secondo il fratello della vittima, sperava in un sostegno economico mai ottenuto da parte di Lilly. Un prestito economico che poi non avrebbe ricevuto.
Adesso, però, la memoria depositata in procura apre ad una nuova pista mai battuta dagli investigatori. Sergio Resinovich ha richiesto alla procura di controllare l'appartamento di questo mister X.
Intanto gli inquirenti attendono gli esiti dell'esame tossicologico e gli accertamenti di natura biologica che sono stati effettuati su vari reperti tra i quali gli indumenti intimi che indossava la donna al momento del ritrovamento, un guanto nero in tessuto elastico, una mascherina chirurgica, i sacchi neri e i due sacchi in cui la 63enne aveva la testa infilata.
La memoria, che adesso fa parte del fascicolo del pm, segue un analogo documento che nei giorni scorsi era stato depositato da Claudio Sterpin, amico di Liliana. Anche per Sterpin la sessantatreenne non si sarebbe suicidata. Nella missiva l'uomo avrebbe indicato tre nomi di persone che potrebbero essere coinvolte, se non protagonisti, nella morte dell'amica Liliana. «Una ricostruzione personale di come secondo me sono andate le cose», è quanto avrebbe detto Sterpin.
Intanto Sebastiano Visintin, il marito di Liliana, continua a dirsi sereno e tranquillo, perché non ha nulla a che fare con la tragica storia della morte della moglie. Nei giorni scorsi ha detto: «Sono estraneo a questa vicenda», ma «la mia vita è rovinata: non ho più Lilly». «Diverse persone al funerale non mi hanno dato neanche la mano. In tanti si sono rivolti contro di me, mi sono sentito infangato», aveva detto Visintin dopo le esequie della moglie.
Ad oggi per la morte di Liliana non risultano indagati: l'11 gennaio è stata eseguita l'autopsia, sul corpo trovato in due sacchi neri tra la vegetazione del parco dell'ex ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste, che non ha sciolto tutti i nodi relativi alle cause della morte. Inoltre il fascicolo è stato aperto, da parte del sostituto procuratore, per il reato di sequestro di persona e non per omicidio volontario.
Il giallo di Trieste. “Volevano i suoi soldi”, le accuse del fratello di Liliana Resinovich al marito Sebastiano Visintin e al figlio. Vito Califano su Il Riformista il 14 Febbraio 2022.
Questione di soldi, più che di sentimenti. E il caso di Liliana Resinovich – la donna scomparsa il 14 dicembre e ritrovata morta dopo settimane, il 5 gennaio, nella boscaglia nei pressi dell’ex Ospedale Psichiatrico di Trieste, il cadavere in sacchi neri dell’immondizia, la testa in sacchetti di plastica – resta un giallo. A dettare la pista, che pure era stata ventilata all’inizio di questo mistero controverso e ancora irrisolto, è il fratello dell’ex dipendente regionale di Trieste morta in circostanze ancora da chiarire a 63 anni. Sergio Resinovich ha scritto una lettera alla Procura: nella missiva il bisogno di soldi di Sebastiano Visintin e del figlio Piergiorgio. Tutto da confermare, naturalmente, e infatti la controparte ha subito replicato, sdegnata, negando la versione.
Resinovich fratello fa i nomi dei due uomini e li descrive come interessati al denaro della donna, titolare di una buona pensione visto l’impiego svolto. Secondo la versione Piergiorgio chiedeva i soldi al padre e Visintin li chiedeva alla donna che rifiutando avrebbe innescato tensioni e frizioni nella coppia. “Nella lettera io ho esternato i miei dubbi sull’ipotesi del suicidio perché per me non è un suicidio. Sentivo mia sorella ogni giorno, non aveva mai manifestato intenzioni del genere. Stava bene – ha detto Sergio Resinovich a Repubblica – Il marito Sebastiano e suo figlio Piergiorgio avevano di sicuro interessi economici nei suoi confronti. Ma lei non voleva aiutare Piergiorgio…”.
Piergiorgio Visintin si è detto allibito. “Non vedevo Liliana da più di tre anni. Non avevo rapporti con lei e non le ho mai chiesto soldi. Anzi, è proprio Sergio quello che riceveva denaro dalla sorella. Mi risulta che lei gli pagava il mutuo e gli dava una mano. Ripeto, io non frequentavo Liliana e non frequento mio padre Sebastiano da anni. La questione adesso è molto pesante, perché si fanno accuse nei miei confronti. Io non c’entro niente”. Non è chiaro se la lettera diventerà materia d’indagine.
Ha già commentato l’evoluzione, intanto, Claudio Sterpin, 82 anni, l’amico della donna che Resinovich doveva raggiungere a casa la mattina in cui scomparve nel nulla. E che ha sempre sostenuto che Resinovich non stava bene con il marito e aveva deciso di lasciarlo. Ha negato di essere l’amante della donna che andava a trovarlo per aiutarlo in faccende domestiche. “Innanzitutto sapevo che Lilly aiutava economicamente la famiglia del fratello, Sergio. Ma quando si confidava mi riferiva anche che c’erano discussioni con suo marito perché lei non voleva saperne di aiutare il figlio di lui, Piergiorgio. Più volte mi diceva che i litigi tra lei e Sebastiano erano causati da questo. Lei mi diceva “’io con i miei soldi faccio quello che voglio e aiuto mio fratello…’. Ma non so però se poi Sebastiano dava effettivamente soldi al figlio Piergiorgio usando il denaro di Liliana. Ma di sicuro c’erano tensioni per questo”.
Visintin ha detto di non essere al corrente di quell’amicizia della donna. Il corpo della 63enne è stato ritrovato in posizione fetale, in un paio di sacchi neri della spazzatura, aperti, con la testa infilata in due buste di nylon chiuse al collo non strette. Ritrovata sul posto anche una borsetta vuota. Nessun trauma sul corpo. La morte causata da “scompenso cardiaco acuto”. I funerali di Resinovich si sono tenuti il 25 gennaio scorso. “Ho visto la gente dentro, al funerale, e non ti danno neanche la mano. Tante persone si sono rivolte contro di me, mi sono sentito infangato”, aveva detto Visintin in quell’occasione.
Si attendono intanto i risultati dei test tossicologici per capire se la donna ha ingerito farmaci o altro e quelli degli esami biologici sui reperti rinvenuti sul luogo del ritrovamento del cadavere. Non è escluso che delle impronte possano raccontare molto di quello che è successo a Resinovich e risolvere il caso. “Non si può privilegiare l’omicidio rispetto al suicidio”, ha scritto intanto il Procuratore di Trieste Antonio De Nicolo. Al momento non risulta alcun indagato sul caso.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Trieste, cadavere trovato in due sacchi. Il procuratore: «Forse è quello di Liliana Resinovich». Benedetta Moro, Redazione online e Redazione Cronaca su Il Corriere della Sera il 5 Gennaio 2022. La donna è scomparsa il 14 dicembre scorso. Gli occhiali sarebbero gli stessi. Il ritrovamento in un parco non lontano dalla casa in cui abitava la coppia. Un cadavere infilato in due buste nere da spazzatura (una ricopriva i piedi e l’altra il capo) è stato rinvenuto nel primo pomeriggio in un parco a Trieste. Le forze dell’ordine sono sul posto: si sta valutando l’ipotesi che si tratti di Liliana Resinovich, la donna di cui non si hanno notizie dal 14 dicembre dopo che era uscita di casa per incontrare un amico. Gli inquirenti ritengono «molto probabile» che sia lei. In particolare, dice il procuratore Antonio De Nicolo, «corrispondono gli occhiali». Non solo. La morte non risalirebbe a tre settimane fa (dunque non nell’immediatezza della scomparsa), ma — addirittura, stando a un primo sommario esame — sarebbe recente. Non più qualche giorno fa. Difficile stabilire però quando il corpo sia stato portato nell’area verde. O se sia sempre rimasto lì. Non ci sarebbero segni di violenza sul corpo. Per avere la conferma definitiva dell’identificazione, tuttavia, occorrerà attendere il risultato degli esami autoptici che dovrebbero essere incaricati e subito dopo effettuati nei prossimi giorni.
Verso le 17 e 30, sul posto è arrivato il marito, Sebastiano Visintin, ex fotografo di cronaca. Ai cronisti ha detto di essere giunto di sua volontà, non chiamato dall’autorità giudiziaria. «Spero non sia lei», ha aggiunto tra le lacrime . Visintin, in serata, è stato portato all’ospedale di Cattinara per un malore. Liliana, secondo quanto emerso, aveva da qualche tempo una relazione con un altro uomo, con il quale proprio quella mattina avrebbe avuto un appuntamento. Quest’ultimo le aveva inviato una serie di messaggi rimasti senza risposta. I cellulari e la borsetta della donna sono stati ritrovati nella sua abitazione.
quartiere in cui vivevano Liliana e il marito. Appartiene a una donna di corporatura esile infilato in due sacchi di plastica neri. Uno sulla testa e uno sulle gambe. Si intravede un giubbotto grigio. L’ultima persona ad avere visto la donna era stata una verduraia secondo la quale era vestita di scuro. «Liliana ha tanti capi, anche grigi», ha concluso il marito della scomparsa, Sebastiano Visintin, giunto in macchina, accompagnato da un’altra persona. «Se è lei resterà una traccia indelebile nel mio cuore». «Non ho neanche più voglia di vivere», ha aggiunto, in lacrime.
Sempre il marito nei giorni scorsi aveva raccontato di essere uscito quella mattina prima di Liliana per fare un giuro in bicicletta ma solo verso sera si era convinto a denunciarne la scomparsa. Alcuni testimoni hanno raccontato di aver visto la donna uscire di casa da sola la mattina del 14 dicembre: doveva passare da un negozio di telefonia di trieste dove però il titolare non l’ha mai vista arrivare.
Le ricerche della donna nella zona vicina all’ex Ospedale psichiatrico nel di San Giovanni erano cominciate intorno alle 14.30 da parte del gruppo Speleo alpino provinciale. Oltre al pubblico ministero titolare della indagini, Maddalena Chergia, e il medico legale, Fulvio Costantinides, sul posto ci sono anche i vigili del fuoco, Polizia, Carabinieri e Corpo forestale. Le ricerche si erano concentrate in un punto preciso dopo una segnalazione giunta oggi e sulla quale si mantiene riserbo. Sul fronte delle indagini, invece, in Questura è stato ascoltato questa mattina nuovamente Claudio Sterpin, l’amico della donna, così come Sebastiano Visintin, il marito.
Il marito di Liliana Resinovich: «Non so chi possa aver fatto questo schifo». Seduto nell’auto guidata da un amico parla, Sebastiano Visintin, marito della donna scomparsa a Trieste. Alessandro Fulloni su CorriereTv il 5 Gennaio 2022. «Non so chi possa aver fatto tutto questo...». Seduto nell’auto guidata da un amico, Sebastiano Visintin, marito di Liliana Resinovich, la donna scomparsa a Trieste parla con i giornalisti poco dopo il ritrovamento di un cadavere che secondo gli investigatori potrebbe essere proprio quello della moglie. L’uomo, un fotografo di cronaca in pensione, è in lacrime. Quando l’amico dice ai giornalisti che stanno esagerando con l’insistenza delle domande, lui lo ferma con un gesto con la mano: «No, fanno solo il loro dovere. Anche io facevo lo stesso...».
Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” l'8 gennaio 2022. Arriva di corsa con la sua Fiat Alpina, scende vestito da ciclista, ti scruta giusto quei due secondi e passa subito al tu, veloce, gentile, diretto: «Cosa vuoi chiedermi? Andiamo sull'altopiano a farci un giro? Vuoi entrare in casa?». Entriamo in casa, un appartamentino al primo piano di un palazzo popolare del rione San Giovanni, nella Trieste che sale ripida verso il Carso. E qui, in queste stanze, tutto parla di Lilly, le foto, i vestiti, le piante, gli occhiali. Perfino il calendario manuale, fermo alla data del 14 dicembre 2021: il giorno della sua scomparsa. «Lo aggiornava lei, non ho più toccato nulla».
Nessuno al mondo vorrebbe essere oggi Sebastiano Visintin, il fotografo in pensione sul quale grava un pesante sospetto - nonostante non risulti indagato - in relazione alla tragedia della moglie, Liliana Resinovich, ritrovata mercoledì scorso senza vita nella boscaglia del vicino ex Ospedale psichiatrico di San Giovanni. Era rannicchiata all'interno di due sacchi neri dell'immondizia con la testa infilata in una busta di nylon legata al collo. Per gli inquirenti non è ancora certo che sia un omicidio. Lo diranno i medici legali che devono eseguire l'autopsia preceduta da una tac.
Cosa pensa sia successo?
«Che sia stata uccisa e che presto avremmo un colpevole. Liliana comunque non si sarebbe mai suicidata, a me sembrava felice e se non lo era significa che io non ho capito nulla di lei, cosa che escluderei visto che ci conosciamo da più di trent' anni».
Eppure qualcuno l'ha vista cupa negli ultimi tempi. Soprattutto questo amico di vecchia data, Claudio Sterpin, un suo ex oggi ottantaduenne che aveva ripreso a frequentare da alcuni anni. Dice che fra di voi le cose non andavano bene, che lei voleva separarsi, anzi, aveva anche deciso il giorno in cui gliel'avrebbe detto, il 16 dicembre. Le aveva anticipato qualcosa?
«Questa è una cosa ignobile, mi ferisce molto. Primo perché io non sapevo che mia moglie frequentasse un uomo. L'ho scoperto dai messaggi che ho trovato nel cellulare di Lilly dopo la scomparsa. C'era una chat in codice. Te la faccio vedere... eccola qua, questa è del 14 dicembre: "Cambè?" "Spettosempreunsegnal", e tanti altri. Allora io l'ho chiamato e gli ho chiesto conto. E lui: ma dai che mi conosci, sono del marathon, lo sai che Lilly viene a farmi i lavori in casa da anni. No, gli ho detto, non lo sapevo».
Sterpin smentisce che fossero amanti. Parole sue: «Con tre interventi alla prostata che amante sarei?». Dice però che lui e Lilly erano legati da un'affettuosa amicizia e avevano programmato un weekend insieme, proprio quello del 17 dicembre. Come la vede?
«Penso che qui ci sia la chiave del mistero. Secondo me lui l'aveva plagiata, aveva manipolato la sua volontà, riuscendo addirittura a convincerla di lasciarmi. Dopo che lei l'ha chiamato, alle 8.22 del 14 dicembre, io ero già fuori casa, lei è entrata in uno stato di follia. Ha lasciato a casa i documenti, i telefoni, cosa che non aveva mai fatto prima, e se n'è andata chissà dove. La fruttivendola oggi mi ha detto che l'ha vista con gli occhiali, altra stranezza perché Lilly non li usa molto».
Lei dov'era andato?
«Prima a consegnare i coltelli ai clienti. Li affilo io, ho un magazzino giù in città. Poi sono tornato e, senza passare da casa, sono andato a farmi un giro in bici sull'Altopiano. Ho girato anche dei video che ho consegnato alla Questura. Verso le due sono tornato a casa, ho mangiato qualcosina e ho riportato la bici in magazzino tornando su in macchina. Mi sono accorto dei cellulari, ho aspettato qualche ora e poi sono andato a segnalare la cosa in Questura. Io non so come andranno a finire le cose ma non l'ho uccisa io, sono innocente e Lilly mi manca moltissimo. Era molto sensibile...».
Visintin si ferma e gli occhi si inumidiscono. Poi dicono dei soldi, lei non ne ha, Lilly sì...
«Non ne posso più, i soldi non sono mai stati un problema. Io sono stanco, stanco e ho anche paura di dire cose sbagliate. Ho paura di non saper difendermi perché sono sotto pressione... Dovrei lavorare, stasera vado a fare le foto alla compagnia teatrale. Vuoi una pastasciutta? Ma capisci cosa voglio dire? Perché qui va a finire che io andrò in galera e qualcun altro si divertirà».
Giallo di Trieste, trovato un cadavere in un sacco: potrebbe essere il corpo di Liliana Resinovich. Gianpaolo Sarti su La Repubblica il 5 Gennaio 2022. Il ritrovamento è avvenuto all'interno dell'area verde dell'ex ospedale psichiatrico di San Giovanni, a poche centinaia di metri dall'abitazione della donna scomparsa il 14 dicembre. Il marito accompagnato in ospedale in serata. Trovato a Trieste un cadavere avvolto in un sacco nero. Potrebbe trattarsi di Liliana Resinovich, scomparsa lo scorso 14 dicembre. Il corpo è stato rinvenuto nella vegetazione all'interno dell'area verde dell'ex ospedale psichiatrico di San Giovanni. Sul posto polizia, carabinieri, vigili del fuoco. Si tratterebbe di una donna dalla corporatura esile. È avvolta da due sacchi neri. Una parte del corpo sporgeva dall'involucro, da cui si scorgeva un giubbotto grigio scuro. Il cadavere è stato trovato a circa cinquanta metri dalla strada principale del vialetto che attraversa l'ex ospedale, a poche centinaia di metri da dove abita la donna scomparsa.
Dopo il ritrovamento del cadavere, i vigili del fuoco hanno continuato a operare mediante l'utilizzo di fari, al fine di individuare elementi utili a ricostruire quanto accaduto, in attesa di appurare se il cadavere sia quello dell'ex dipendente regionale. Il marito della donna scomparsa, Sebastiano Visintin, appreso del ritrovamento del corpo, è arrivato sul posto, in auto, accompagnato da un'altra persona. "Nessuno mi ha contatto per un eventuale riconoscimento del corpo", ha precisato, spiegando di essere giunto di sua iniziativa. "Spero di non trovare il corpo di Lilly", ha detto. "Se è lei resterà una traccia indelebile nel mio cuore", ha ancora aggiunto. "Non ho neanche più voglia di vivere", ha concluso, in lacrime. E proprio in merito ai particolari del ritrovamento, l'uomo ha precisato che "Liliana ha tanti capi di abbigliamento, anche grigi".
In serata, Visintin, è stato accompagnato in ospedale per dei controlli dopo che un suo amico ha chiamato il 118, preoccupato dal fatto che l'uomo avesse ammesso di non aver più voglia di vivere. Lo scrive il sito TriestePrima.
Benedetta Moro per il “Corriere della Sera” il 6 gennaio 2022. Due sacchi di plastica neri. Uno sulla testa e uno sulle gambe. Il corpo rannicchiato, in posizione fetale. Si intravede un giubbotto grigio. In una zona boschiva del parco di San Giovanni, dove un tempo c'era l'ospedale psichiatrico di Trieste, è stato trovato così, ieri pomeriggio attorno alle 16 dai vigili del fuoco, il corpo di una donna. È quello di Liliana Resinovich, la 63enne di cui non si hanno più notizie dal 14 dicembre? «Probabilmente sì». Perché «la certezza assoluta al momento non c'è», dice a tarda sera il procuratore capo Antonio De Nicolo, dopo che per circa tre ore il medico legale Fulvio Costantinides ha esaminato sul posto il cadavere.
«Tutto fa pensare che sia Liliana Resinovich», in particolare «per un paio di occhiali che indossava e che abbiamo visto essere uguali a quelli delle foto», continua De Nicolo, e poi per le caratteristiche fisiche. Sarà l'autopsia, che verrà eseguita lunedì, a confermare o meno l'ipotesi e a dire a quando risale il decesso. Al momento «per nostra esperienza sembra comunque difficile dire che siano passati venti giorni, parlerei piuttosto di alcuni giorni dalla morte», precisa il procuratore. Il mistero s' infittisce. Bisognerà capire anche come è arrivato il corpo nel parco, che si trova a un chilometro dall'abitazione in cui la donna, ex dipendente regionale in pensione, abitava con il marito, Sebastiano Visintin. Ieri non è stato richiesto il riconoscimento da parte sua.
Deciderà su questo punto il pm titolare del fascicolo. Liliana è stata uccisa? Si è suicidata? «Dove sia morta e come sia morta cercheremo di capirlo dopo l'autopsia, prima è tutto prematuro e congetturale», afferma De Nicolo. Ancora una volta tutte le piste sono aperte. Ciò che è apparso abbastanza chiaro ieri è che non sono stati trovati segni evidenti di violenza sul corpo, abbandonato in una zona alberata e non frequentata del rione popolare di San Giovanni, poco lontano dalla stradina principale che collega i diversi padiglioni dell'ex manicomio che invece è un luogo di passaggio.
Andava lì anche Liliana con suo marito che ieri, una volta appresa la notizia del ritrovamento di un corpo, ha raggiunto il luogo, dove erano presenti polizia, carabinieri e guardia forestale. È giunto in auto, accompagnato da un amico. «Se è lei resterà una traccia indelebile nel mio cuore», ha detto ai giornalisti. «Non ho neanche più voglia di vivere», ha aggiunto, in lacrime. Ieri sera un suo amico, preoccupato da alcuni frasi in cui Visintin accennava al suicidio, ha chiamato il 118 e l'ha fatto visitare per precauzione al Pronto soccorso.
Era stato proprio il marito di Liliana - finito dal primo giorno sotto la lente degli investigatori, che però non hanno registrato comportamenti anomali - a denunciarne la scomparsa dopo che non era tornata a casa, lasciando nell'abitazione i suoi due cellulari, la borsa, il portafoglio. Quella mattina l'attendeva però anche un altro uomo, Claudio Sterpin, 82enne a cui era legata da un'affettuosa amicizia ultradecennale. Andava ogni martedì da lui, incontri di cui Visintin ha detto di non sapere nulla.
Lo ha ripetuto più volte in questi giorni di ricerche, in cui tante ipotesi sono emerse, non solo quella della gelosia ma anche quella economica: Sebastiano aveva una pensione inferiore a quella della moglie. Giorni di accuse. Da parte di Sterpin nei confronti di Visintin e viceversa: secondo l'82enne Liliana era «succube del marito ed era sul punto di lasciarlo». Ieri il prefetto Annunziato Vardè ha rimesso in moto le ricerche per perlustrare da cima a fondo la zona vicino a casa della donna. Liliana era stata vista l'ultima volta poco dopo essere uscita di casa, tra le 8 e le 9, da una verduraia. Nessuna delle telecamere già visionate l'ha ripresa, ma ora dovranno essere esaminate anche le altre della zona.
È di Liliana Resinovich il cadavere ritrovato a Trieste: il riconoscimento compiuto dal marito. Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera l'11 gennaio 2022.
La sessantatreenne triestina era scomparsa il 14 dicembre scorso. Il marito Sebastiano Visintin: «Avrei voluto farle una carezza. L’ho vista serena».
L’autopsia sul corpo di Liliana Resinovich non ha risolto il mistero sulle cause della morte della donna e non chiarisce se si sia trattato di omicidio o di suicidio. Liliana è morta per soffocamento, precisamente per «scompenso cardiaco acuto» si legge nel comunicato del Procuratore Antonio De Nicolo, ma sul suo corpo non sono stati rilevati «traumi da mano altrui atti a giustificare il decesso». Per conoscere con attendibilità l’effettiva causa del decesso, si dovranno attendere gli esiti degli esami tossicologici e altre indagini. Il reato ipotizzato resta dunque sequestro di persona a carico di ignoti.
Il corpo di Resinovich fu ritrovato a Trieste lo scorso 5 gennaio in un’area boschiva nei pressi dell’ex Ospedale psichiatrico di San Giovanni. A riconoscerlo — questa mattina — è stato in Questura il marito Sebastiano Visintin, attraverso delle foto della salma fornite dagli inquirenti. «Avrei voluto farle una carezza, ma avevo solo le foto. Ho riconosciuto Lilly, il suo orologio rosa che le avevo regalato, anche il suo giubbotto», sono le prime parole di Visitin, a Ore 14 su Raidue. «Non ho visto traumi - ha continuato il marito di Liliana Resinovich parlando con i giornalisti - l’ho trovata senza espressione. La polizia mi ha chiesto che farmaci usava. Ma non ne prendeva, solo io per il cuore». «Devo capire cosa è successo - ha aggiunto -: se qualcuno ha fatto qualcosa o se lei ha ritenuto opportuno andarsene... Non escludo il suicidio. Nelle foto l’ho vista serena. Mi hanno solo chiesto se è lei: la cosa più brutta della mia vita. Non ho pace, il mio corpo si ribella, trema, non mi lascia riposare, ma devo dire “basta, non c’è più”».
«Lilly», come era nota la 63enne pensionata, era scomparsa nel nulla il 14 dicembre scorso.
Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” l'11 gennaio 2022.
Potrebbe essere stata stordita e soffocata. Oppure avvelenata. Oppure potrebbe essersi tolta la vita infilando la testa in un sacchetto di nylon e stringendolo al collo fino a non respirare più, ma quest' ultima ipotesi sembra essere molto improbabile, anche se non impossibile. In ogni caso l'autopsia non risolve ancora il mistero della morte di Liliana Resinovich, l'ex dipendente della Regione scomparsa lo scorso 14 dicembre dalla sua casa di Trieste e trovata il 5 gennaio dentro due sacchi neri dell'immondizia con la testa infilata in due buste di nylon strette al collo.
Non chiarisce nemmeno se si tratti di omicidio o suicidio, anche se quei sacchi neri depongono con decisione a favore del delitto. «Allo stato non possiamo dire se il decesso sia avvenuto per mano di altri o per mano propria», conclude alla fine di un'intensa giornata il procuratore di Trieste, Antonio De Nicolo.
Il dottor Fulvio Costantinides, medico legale di lungo corso, che ieri ha eseguito l'esame sul corpo, non ha trovato tracce evidenti di violenza, come se la donna non avesse lottato per difendersi dal suo assassino, sempre che un assassino esista. Ragione per cui la Procura ha disposto degli esami tossicologici finalizzati a capire se sia stata costretta a ingerire qualche sostanza, un farmaco o altro, che le ha impedito di difendersi o che l'abbia portata alla morte.
Comunque sia, vengono escluse le cause più violente: nessuno le ha sparato, nessuno l'ha accoltellata, nessuno l'ha strangolata e anche l'ipotesi che l'assassino l'abbia strozzata sembra difficile. No, è più probabile il soffocamento, sul quale potranno dire qualcosa di più gli accertamenti istologici. Per il momento il referto dell'autopsia si limita a parlare di «scompenso cardiaco acuto» come causa di morte. Il che significa tutto e nulla, è come dire che Liliana è morta per il fatto che il cuore non le batteva più.
Già, ma per quale ragione ha smesso di battere? La domanda rimane senza risposte definitive, ragione per cui il prudente procuratore De Nicolo ha deciso di mantenere inalterata l'accusa con la quale ha aperto il fascicolo dopo la scomparsa: sequestro di persona. Se dalle indagini in corso, che vedono in campo anche la Scientifica, emergeranno responsabilità contro qualcuno, scatterà l'omicidio e l'occultamento di cadavere.
Nel frattempo, il marito di Liliana, Sebastiano Visintin, è stato chiamato ieri in Questura per il riconoscimento fotografico del corpo: «È lei - ha sospirato - avrei voluto darle un'ultima carezza». Poi è tornato a casa e ha ripreso le sue dirette tv: «Cosa faccio senza Lilly? Non ho pace, il mio corpo si ribella, trema, devo dire basta, non c'è più».
Trieste, il giallo di Liliana scomparsa nel nulla il 14 dicembre: le testimonianze, i due telefonini e le versioni del marito. Gianpaolo Sarti su La Repubblica il 4 gennaio 2022. Della donna, ex dipedente regionale di 63 anni, non si hanno più notizie da tre settimane. Una fruttivendola sostiene di averla vista il giorno della scomparsa passare davanti al suo negozio nel quartiere di San Giovanni. Un amico: "Era stufa del marito". Ma lui nega. La borsetta, il portafoglio e i cellulari trovati in casa. Le telecamere che, al momento, non mostrano niente. E un'unica testimonianza, quella di una fruttivendola, che sostiene di aver visto la donna il giorno della scomparsa passare davanti al suo negozio rionale nel quartiere di San Giovanni. Sono trascorse ormai tre settimane, ma di Liliana Resinovich, 63 anni, ex dipendente regionale, non si hanno più notizie.
Giallo di Trieste, la donna trovata nel bosco è stata soffocata con un sacchetto. L'autopsia confermerà se si tratta di Liliana Resinovich. Gianpaolo Sarti su La Repubblica il 6 gennaio 2022. La vittima potrebbe essere stata portata in un secondo momento sul luogo del ritrovamento, avvenuto mercoledì 5 gennaio nel parco dell'ex ospedale psichiatrico della città. La donna trovata morta mercoledì pomeriggio, 5 gennaio, all'interno dell'area boschiva dell'ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste è stata soffocata. Lo si apprende da fonti investigative. La donna è stata uccisa con un sacchetto legato alla gola. Il sacchetto era ancora sulla testa della vittima quando è stato scoperto il cadavere.
La Squadra mobile sta setacciando i palazzi abbandonati del parco. La vittima, infatti, potrebbe essere stata portata in un secondo momento sul luogo del ritrovamento, come si legge sul Piccolo di Trieste.
Secondo la Procura di Trieste, che coordina le indagini, ci sono "elevate probabilità" che si tratti del corpo di Liliana Resinovich. "È certo che Liliana Resinovich si sia allontanata a piedi, per questo ieri le attività di perlustrazione riguardavano la zona raggiungibile a piedi attorno alla sua abitazione". E' una precisazione che ha fatto il prefetto Annunziato Vardè, dopo aver avviato le ricerche del corpo di Liliana Resinovich, la 63enne scomparsa il 14 dicembre. Lo stesso prefetto ieri aveva escluso "elementi per dire che Liliana abbia preso un bus", perché "sono state visionate tutte le immagini delle telecamere e non è stata ripresa la signora né sulla strada che porta verso il capolinea dei bus né dalle telecamere del piazzale dove credo siano presenti". Ieri si era diffusa la notizia, anche per le dichiarazioni del marito di Liliana, Sebastiano Visintin, che le telecamere della Trieste Trasporti avrebbero inquadrato la donna il 14 dicembre.
La Prefettura ha precisato stamani che non è stato l'amico della scomparsa, Claudio Sterpin, di 82 anni, a indicare alla polizia l'area da setacciare dove è stato trovato il corpo. Vardè ha ribadito di aver dato ieri "l'input per pianificare una capillare perlustrazione dell'intera area circostante l'abitazione della donna scomparsa", informando la procura.
Nessun indagato
Non ci sarebbe ancora nessuna persona iscritta nel registro degli indagati né per quanto riguarda la scomparsa di Liliana Resinovich né per quanto riguarda il ritrovamento del corpo nel boschetto, nell'eventualità remota che non si tratti della stessa Resinovich. E, come è stato già annunciato dal procuratore capo di Trieste, Antonio De Nicolo, soltanto l'autopsia potrà chiarire una serie di quesiti al momento senza risposta. "Tutto fa pensare che sia quello di Liliana Resinovich", ha però detto, in particolare, per un paio di occhiali che sono stati trovati e che corrisponderebbero a quelli "visti nelle foto". Inoltre, sono compatibili le caratteristiche fisiche con quelle della donna scomparsa e poi c'è il dato che è Resinovich che manca all'appello. Tuttavia, "la certezza assoluta" che il corpo ritrovato sia quello della 63enne "ancora non c'è".
Per questo bisogna attendere l'autopsia, che potrà dire se il cadavere è stato trasportato nel boschetto o non è mai stato spostato da lì, da quanto tempo si trovava in questo luogo e anche a quando risale la morte. A causa delle condizioni meteorologiche, del freddo in particolare, su questi punti è stato ulteriormente complicato dare una prima indicazione. Sembra comunque "difficile pensare fossero passati venti giorni" dalla morte "ma direi invece alcuni giorni, anche se è sempre l'autopsia che ci potrà dare la conferma". L'incarico verrà affidato venerdì, l'esame verrà eseguito entro lunedì.
Da un primo esame superficiale effettuato sul posto dal medico legale Fulvio Costantinides non risulterebbero tracce di violenza o lotta sul corpo. Questo fa sì che non si possa escludere la pista del suicidio. Il corpo è stato trovato in posizione fetale e in una fase iniziale di decomposizione. Sempre secondo quanto risulterebbe dai primi rilievi, la morte della donna risalirebbe ad alcuni giorni fa.
Giallo di Trieste, il marito della donna scomparsa: “La mia Lilly e l’sms che ha inviato al suo amico. Lui mi definisce un mostro ma non l’ho uccisa io”. Paolo Berizzi su La Repubblica l'8 gennaio 2022. Sebastiano Visintin: "14 dicembre ho trovato nel suo cellulare il messaggio in cui diceva a Sterpin che arrivava da lui in ritardo". "Io ho bisogno di voi". Si congeda così, chinando il capo e la chiosa fa un certo effetto. "Voi" sarebbero i cronisti. Ma la prima cosa che colpisce è il tono del racconto: asciutto, sempre nelle righe, zero cedimenti né emozioni. In quarantacinque minuti di intervista sul divano del salottino di casa in via Verrucchio, intervallati da due telefonate che riceve sul cellulare della moglie, Sebastiano Visintin si copre il volto un paio di volte.
Gianpaolo Sarti per messaggeroveneto.gelocal.it il 6 gennaio 2022. Sebastiano Visintin, marito di Liliana Resinovich, nel pomeriggio di mercoledì 5 gennaio ha saputo della scoperta del corpo mentre si stava accingendo a partecipare all’ennesima trasmissione televisiva: doveva andare in onda con “La vita in diretta”.
Era stato in diretta su Rai 1, a “Storie italiane”, già la mattina. Poi le troupe lo hanno portato in piazza Unità.
«Sono sconvolto... ora ho paura», ha detto, tremando, sedendosi su una sedia, come testimoniano i giornalisti che erano assieme a lui.
Visintin ha poi raggiunto il parco dell’ex Ospedale psichiatrico di San Giovanni dove erano in corso le operazioni di rilievo della salma, accompagnato in automobile da alcuni amici. Il marito non ha potuto avvicinarsi per vedere la salma e fare il riconoscimento.
Ma ha parlato, ancora, ai microfoni dei giornalisti: «Nessuno mi ha contattato per un eventuale riconoscimento del corpo», ha affermato intrattenendosi con i cronisti e spiegando di essere giunto di sua iniziativa dopo che un giornalista lo aveva avvisato del ritrovamento di una persona morta in quella zona del rione di San Giovanni.
«Spero di non trovare il corpo di Lilly – ha aggiunto – è una storia che va avanti e non capisco ancora il perché. Se è lei resterà una traccia indelebile nel mio cuore. Non ho neanche più voglia di vivere» ha affermato, in lacrime.
Da quanto si è appreso il corpo era adagiato a terra con due sacchi neri che coprivano la parte superiore e quella inferiore. Dai sacchi si intravedevano alcuni indumenti, tra cui un giubbotto grigio.
«Liliana ha tanti capi, anche grigi», ha spiegato Visintin, lasciando intendere di non essere in grado di ricordare esattamente quali erano gli indumenti della moglie.
Visintin, 72 anni, ex fotografo in pensione, ha sempre riferito che tra lui e la coniuge i rapporti erano buoni. «Non litigavamo mai», ha ripetuto ai giornalisti che erano a casa sua, a margine delle dirette televisive a cui ha preso parte. «No, non le ho fatto del male».
Durante le trasmissioni, il marito si è soffermato spesso sul rapporto che la moglie aveva con Claudio Sterpin, l’amico di vecchia data che ha confermato di avere avuto una relazione con la donna.
«Secondo me la mattina della scomparsa Lilly è andata in confusione – ha osservato Visintin – perché era in conflitto con questa persona che la ha ossessionata e condizionata. Lui la stava manipolando e Lilly era una persona fragile. Sì, io sto accusando quell’uomo di questo, ne sono consapevole. Ma io non penso che lui le abbia fatto del male.
Comunque – ha raccontato – ho visto sul cellulare che loro due si scambiavano messaggi in codice. Io credo che la risposta a tutto questo stia nei telefoni».
Il marito ha rivelato di aver ricevuto nella notte tra il 4 e il 5 gennaio, alle 2.39, una telefonata. «Avevo il vibro – ha detto – la mattina ho visto quella telefonata. Ho richiamato ma non ha risposto nessuno. Di mattina sono poi andato alla polizia a riferire ciò. Io ora voglio la verità, voglio la verità», ha ripetuto.
Nei prossimi giorni la Procura di Trieste conferirà l’incarico a un medico legale per l’autopsia sul corpo della donna trovata morta. Al momento, come emerso da un primo esame della salma operato dal dottor Fulvio Costantinides, non sono emersi segni di violenza. Non visibili, almeno.
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” l'8 gennaio 2022. «Per me Liliana non si è suicidata. Se così fosse, vuol dire che non ho visto un malessere che lei stava attraversando. Spero che sia ancora viva. Secondo me la polizia chiuderà il cerchio a breve». Sono le parole di Sebastiano Visintin, 72 anni, marito di Liliana Resinovich, 63 anni, la donna scomparsa dal 14 dicembre e il cui cadavere corrisponderebbe a quello trovato mercoledì pomeriggio nel parco dell'ex ospedale psichiatrico a Trieste. Il corpo era avvolto da sacchi neri e aveva una busta sulla testa.
Il marito ha parlato anche dell'amico di Liliana, Claudio Sterpin: «Mi ha disturbato molto questo rapporto occulto, di cui non sapevano nulla nemmeno le sue amiche né suo fratello. Forse lui l'ha plagiata». Inoltre ha detto di voler partecipare a una fiaccolata per Liliana (che si è tenuta ieri sera) «anche se - ha precisato - apprendo dell'iniziativa da voi giornalisti: nessuno mi ha detto nulla, né mi ha telefonato qualcuno per avvisarmi. È comunque un bel gesto per Lilly. Poi alle 19.00 dovrò andare a lavorare: mi attendono a teatro, dove ogni anno faccio un reportage fotografico».
Il 72enne ha riferito ieri di essere stato convocato dalla polizia: «Avevo un appuntamento in Questura ma non mi hanno chiesto nulla di importante». In merito al 14 dicembre, giorno in cui è scomparsa la moglie, Visintin ha spiegato che l'assenza della donna all'ora di pranzo non gli ha fatto strano perché «non mangiavamo mai assieme».
Quanto al fatto che Liliana avesse due cellulari, il marito spiega che ne aveva uno in più perché «le avevo chiesto io di tenere quello che era appartenuto a mia figlia, morta dieci anni fa. Lei lo usava solo per andare sui social. Era la prima volta comunque che lasciava i telefonini a casa, non era mai capitato». Sulle abitudini della moglie poi ha sottolineato: «Liliana non portava sempre gli occhiali e metteva sempre la borsa nell'armadio».
È morta soffocata. È questa l'ipotesi che il medico legale dovrà confermare. La testa della vittima era dentro due sacchetti di plastica. Sul corpo nessun segno apparente di violenza, armi da taglio o fori di proiettile. Il cadavere era avvolto in due grossi sacchi, il capo in due più piccoli. Un elemento che potrebbe far pensare a un decesso per asfissia. Il medico legale dovrà fornire anche un'altra risposta: da quanto tempo il corpo fosse nel boschetto. Anche su questo elemento ci sono più ipotesi. Il cadavere non mostrava le condizioni di un corpo fermo lì da una ventina di giorni, ma le fredde temperature registrate potrebbero aver rallentato la decomposizione.
Non c'è ancora nessuna persona iscritta nel registro degli indagati. Sul fronte dell'inchiesta «è certo che Resinovich si sia allontanata a piedi, per questo mercoledì le attività di perlustrazione riguardavano la zona raggiungibile attorno alla sua abitazione». È una precisazione che, giovedì, ha fatto il prefetto di Trieste Annunziato Vardè, dopo aver avviato le ricerche della Resinovich, escludendo «elementi per dire che Liliana abbia preso un bus».
Una dichiarazione che smentisce le affermazioni del marito di Liliana, il quale aveva reso noto che gli era stato riferito che le telecamere della Trieste Trasporti avrebbero inquadrato la donna il 14 dicembre. Liliana quella mattina avrebbe dovuto recarsi a casa di un suo amico di vecchia data, un'ottantaduenne che vive a Trieste, Sterpin. L'anziano ha spiegato di aver ricevuto una telefonata dalla donna alle 8.22.
«Lilly mi ha chiamato per avvisarmi che sarebbe venuta da me un po' più tardi, attorno alle 10, doveva passare prima al negozio di WindTre. Da qualche mese lei veniva da me per darmi una mano a stirare. Ci conosciamo da quarant' anni e siamo legati da un'amicizia affettuosa». Ma dopo quella telefonata, da quanto risulta Resinovich non è mai arrivata a casa dell'amico. Il marito Visintin ha affermato che sua moglie non lo aveva messo al corrente di questa frequentazione.
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 9 gennaio 2022.
Contraddizioni. Doppie versioni e smentite. Sulla figura del marito di Liliana Resinovich, 63 anni, scomparsa di casa il 14 dicembre, il cui cadavere è stato trovato in un parco vicino all'abitazione mercoledì a Trieste, ci sono diversi interrogativi. Sebastiano Visintin, 72 anni, il compagno di una vita, 30 anni assieme, avrebbe fatto alcune affermazioni sconfessate poi dallo stesso prefetto di Trieste Annunziato Vardè.
Visintin ha spiegato che le telecamere della azienda del trasporto pubblico dei bus della città avevano ripreso sua moglie la mattina del 14 dicembre mentre andava alla fermata. Vardè nei giorni scorsi ha negato categoricamente che questo sia avvenuto. Inoltre il marito ha fornito due versioni su come ha trascorso la mattinata del 14 dicembre.
Inizialmente ha detto di essere uscito in bici per testare una telecamera GoPro; poi ha precisato di aver prima consegnato dei coltelli in alcuni supermercati e pescherie (attività che svolge da pensionato) e di aver usato la bicicletta in tarda mattinata.
Quella mattina dove è andata la donna? Qualcuno forse l'ha avvicinata in auto e fatta salire? E in caso, dove è stata portata? Chi l'ha uccisa e perché? E ancora, è stata assassinata nel parco dell'ex ospedale psichiatrico di San Giovanni oppure è stata portata lì in un secondo momento? Gli investigatori hanno dei dubbi. Il corpo era conservato troppo bene. Dopo 21 giorni all'aria aperta il cadavere si sarebbe dovuto trovare in uno stato di decomposizione più avanzato.
Forse, però, le temperature fredde di questi giorni hanno aiutato la conservazione. Ci sono poi alcuni aspetti poco conosciuti della vita privata di Liliana Resinovich. La 63enne pensionata, ex dipendente regionale, aveva un rapporto molto stretto con un altro uomo Claudio Sterpin, 82 anni. Proprio il giorno in cui è sparita sarebbe dovuta andare a trovarlo. Un rapporto di cui Visintin afferma che non sapeva nulla.
Salvo poi aver ammesso ieri (dai messaggi letti sul telefonino della donna) che qualche cosa effettivamente c'era. Sullo sfondo c'è poi il movente. Anzi i moventi. Quelli su cui si concentra l'attività degli inquirenti sono il sentimentale e l'economico. Per quanto concerne la sfera affettiva la squadra mobile passa al setaccio il rapporto con il marito (alcuni testimoni parlano di tensione nell'ultimo periodo) e quello con l'amico Sterpin.
Poi c'è il versante economico. Il contratto di locazione dell'appartamento di via Verrocchio 2 dove viveva la coppia era intestato a Resinovich, così come le utenze domestiche, l'assicurazione. Insomma il portafoglio, in casa, lo gestiva la signora. Il marito Visintin ha più volte ripercorso con cronisti e investigatori ciò che è successo l'ultima volta che l'ha vista. L'uomo racconta di aver salutato la moglie la mattina del 14 dicembre.
«Abbiamo fatto colazione - ha spiegato - poi lei ha messo su una lavatrice. Io sono uscito di casa alle 7.45 e lei si è affacciata dalla finestra mandandomi un bacio come fa sempre». Liliana quella mattina avrebbe dovuto recarsi a casa di un suo amico di vecchia data.
L'anziano ha spiegato di aver ricevuto una telefonata dalla donna alle 8.22. «Lilly mi ha chiamato per avvisarmi che sarebbe venuta da me un po' più tardi, attorno alle 10, doveva passare prima al negozio di WindTre (in centro città,ndr). Da qualche mese lei veniva da me per darmi una mano a stirare. Ci conosciamo da quarant' anni e siamo legati da un'amicizia affettuosa».
Ma dopo quella telefonata, da quanto risulta Resinovich non è mai arrivata a casa dell'amico. Parenti e amici riferiscono che Liliana aveva ormai intenzione di lasciare il coniuge e che meditava di trovarsi un'altra sistemazione. Ma lui ha smentito: «Io e lei andavamo d'accordo». Ci sono alcuni dettagli su cui gli investigatori si stanno concentrando: il ritrovamento in casa della borsetta, del portafoglio, dei guanti e dei due cellulari che la donna possedeva.
Su uno dei due telefonini risulta un messaggio del fratello di Liliana, Sergio, inviato alle 9.20 di quella mattina. Un messaggio a cui la signora non ha mai risposto.
Gianpaolo Sarti per "la Stampa" il 7 gennaio 2022. La testa infilata dentro a due sacchetti di nylon trasparenti, di quelli che si usano per la frutta e la verdura. I sacchetti erano legati al collo. La donna trovata cadavere mercoledì pomeriggio nella boscaglia del parco dell'ex Ospedale psichiatrico di San Giovanni, a Trieste, potrebbe essere morta soffocata. Ma non è ancora ufficiale che si tratti di Liliana Resinovich, la sessantatreenne triestina scomparsa lo scorso 14 dicembre.
La Procura e la Prefettura di Trieste parlano ancora di «elevata probabilità», in attesa dell'autopsia completa di lunedì affidata al medico legale Fulvio Costantinides. Il corpo, rinvenuto dai soccorritori in posizione fetale, rannicchiato, vestito e in una fase iniziale di decomposizione, fino a quel momento non potrà essere toccato. Tanto meno, affermano gli inquirenti, potranno essere tolti i sacchetti legati al collo per consentire l'identificazione da parte dei familiari: il nylon, la pelle del volto, potrebbero rivelare particolari importanti per l'indagine.
Come ad esempio le tracce del Dna di un eventuale assassino. È per questo motivo che prima di procedere con l'identificazione del corpo, sostengono, è necessaria l'autopsia. Ci sono vari elementi però che portano a ritenere che la donna sia Resinovich: la corporatura esile, innanzitutto, e gli occhiali indossati che corrispondono a quelli visti nelle foto che ritraggono la sessantatreenne. Il caso potrebbe ora imboccare anche la pista dell'omicidio, sebbene il fascicolo di indagine in mano al pm Maddalena Chergia per il momento non contenga ipotesi di reato specifiche né indagati. «Ogni ipotesi rimane aperta - dichiara il procuratore capo Antonio De Nicolo - compresa quella del suicidio». E dal primo esame del cadavere compiuto dal medico legale Costantinides non sono apparsi segni evidenti di violenza. Sembra nemmeno sul collo.
Molto sembra ruotare attorno al particolare dei sacchetti: oltre a quelli di nylon che avvolgono la testa, ci sono anche i due sacchi neri della spazzatura utilizzati per coprire il corpo. Sacchi piuttosto nuovi, stando a quanto trapela dall'indagine, e non usurati dalle intemperie.
Un aspetto, questo, che solleva altri scenari investigativi: è possibile che il cadavere sia stato abbandonato nell'area boschiva dell'ex Ospedale psichiatrico in un momento più recente rispetto alla scomparsa e anche rispetto alla morte. Non si esclude, insomma, che la vittima possa essere stata prima nascosta da qualche parte e poi portata in quel punto dell'ex Opp. Non a caso ieri gli agenti della Squadra mobile hanno perlustrato gli edifici abbandonati che si trovano attorno, alla ricerca di tracce utili a capire cosa è successo. Hanno guardato nei capannoni, ma hanno anche battuto il resto della zona boschiva.
Sarà dunque l'autopsia, programmata per lunedì (e affidata al medico legale già oggi) a fornire risposte decisive: consentirà di capire se la donna è deceduta per soffocamento o altro, innanzitutto. E quando, ovviamente. Chiarirà inoltre se il cadavere è stato trasportato nel bosco o se non è mai stato spostato da lì, da quanto tempo si trovava in quel luogo e anche a quando risale la morte.
«Difficile pensare fossero passati venti giorni - ha rilevato il procuratore -, direi più probabile alcuni giorni, anche se è sempre l'autopsia che ci potrà dare la conferma». Gli investigatori, nel frattempo, stanno studiando gli spostamenti della donna nel giorno in cui è sparita. È ormai certo che Liliana si è allontanata a piedi, per questo mercoledì le attività di perlustrazione riguardavano la zona più vicina all'abitazione della signora, come precisa il prefetto di Trieste Annunziato Vardè, e dove la sessantatreenne è stata vista l'ultima volta la mattina del 14 dicembre; cioè in via San Cilino, a San Giovanni, stando alla segnalazione della fruttivendola del quartiere.
Le tv litigano sul cadavere. Squallido scontro in diretta tra inviati sul caso Resinovich. Pina Sereni su Il Tempo il 06 gennaio 2022. Il corpo di una donna senza vita e due giornaliste che si «litigano» il presunto marito della vittima, davanti al microfono. La brutta pagina di cronaca nera è andata in scena ieri pomeriggio in diretta tv su Raiuno. Scatenando le ire del conduttore de «La vita in diretta», Alberto Matano. L'inviata di Raiuno a Trieste, stava intervistando Sebastiano Visintin, a pochi metri dal ritrovamento di un cadavere, forse di Liliana Resinovich, scomparsa il 14 dicembre scorso. Ma, proprio durante l'intervista Si sentiva distintamente l'inviata di Canale 5, in collegamento con il rotocalco pomeridiano della concorrenza. La voce talmente alta da sovrapporsi al signor Visintin. Così è dovuto intervenire Matano a interrompere quell'assurdo teatrino proprio sul luogo dove si è consumata la tragedia. «Certe cose non dovrebbero succedere», ha detto visibilmente alterato Matano, dopo che praticamente l'intervista esclusiva è stata sfilata sotto il naso alla giornalista di Raiuno dalla collega Mediaset.
Il marito di Liliana Resinovich, Sebastiano Visintin, era giunto da poco, nel tardo pomeriggio al parco dell'ex ospedale psichiatrico di San Giovanni di Trieste, accompagnato in macchina da un'altra persona. In un terreno appartato, verso le 16, era stato rinvenuto il cadavere di una donna peraltro non ancora identificata, ma che potrebbe corrispondere proprio a quello della moglie Liliana di cui non si hanno più notizie da prima di Natale. «Nessuno mi ha contattato per un eventuale riconoscimento del corpo», aveva precisato parlando con i cronisti e spiegando di essere giunto sul posto di sua iniziativa. «Spero di non trovare il corpo di Lillyha aggiunto - è una storia che va avanti e non capisco ancora il perchè. Se è lei resterà una traccia indelebile nel mio cuore. Non ho neanche più voglia di vivere» ha aggiunto, in lacrime.
Il corpo pare fosse adagiato a terra dentro due sacchi neri che coprivano la parte superiore e quella inferiore del cadavere. Si sarebbero intravisti alcuni indumenti, tra cui un giubbotto grigio. «Liliana ha tanti capi, anche grigi» ha detto Visintin. Sul posto sono arrivati i mezzi dei vigili del fuoco per agevolare l'operazione di recupero della salma; poco distanti polizia e carabinieri con il magistrato Maddalena Chergia, titolare del fascicolo.
L’ira di Matano contro la troupe di Canale 5: «Ci ha sottratto l’intervistato». Il conduttore di “La vita in diretta”: «Certe cose non dovrebbero accadere». Ansa/CorriereTv il 5 Gennaio 2022.
Alberto Matano, conduttore de “La vita in diretta” su Rai1, sbotta contro la troupe di Canale 5 dopo che essere stato costretto ad interrompere il collegamento con Sebastiano Visintin, marito della scomparsa Liliana Resinovich: «Il signor Sebastiano era in diretta con noi e la troupe di una trasmissione di Canale 5 ce lo ha sottratto di fatto. Certe cose non dovrebbero accadere»
Alberto Matano perde le staffe in diretta dopo la scorrettezza: ospite sottratto, non dovrebbe succedere. Il Tempo il 05 gennaio 2022. Spiacevole episodio televisivo che ha visto suo malgrado coinvolto Alberto Matano. Il conduttore de La vita in diretta, programma in onda su Rai1, è sbottato per un episodio di scorrettezza giornalistica durante la diretta televisiva. Matano era in collegamento con la sua inviata che stava intervistando Sebastiano Visintin, marito della scomparsa Liliana Resinovich, donna di cui non si hanno notizie dal 14 dicembre dopo che era uscita di casa per incontrare un amico e il cui cadavere è stato probabilmente ritrovato proprio nei momenti precedenti alla diretta televisiva.
Durante l’intervista si sente però una voce di sottofondo e le parole di un’altra giornalista, il che porta Matano ad interrompere la sua inviata: “A chi ci segue dico che ci sono colleghi di altre televisioni, noi stiamo svolgendo il nostro lavoro, quindi ci auguriamo che poi gli altri possano svolgere il loro, con la consueta correttezza che ha contraddistinto i nostri rapporti. Abbiamo Sebastiano in diretta in un momento anche difficile, non so se ti vuoi spostare oppure, visto che non ci sono le condizioni per proseguire… Io voglio rispettare il momento che Sebastiano sta vivendo. Siccome c’era il rientro di una collega mentre eravamo in onda noi assolutamente proseguiamo perché era un racconto di un momento drammatico. Scusatemi, ma tutto accade in diretta”.
Riprende la parola la giornalista sul posto, ma Matano si accorge che c’è qualcosa che non va e va su tutte le furie: “Vedo che Sebastiano non è più con noi. Perdonatemi, è un momento di grande dramma per quest’uomo, che a breve capirà che sua moglie è morta. Il signor Sebastiano era in diretta con noi e la troupe di una trasmissione concorrente, di Canale 5, lo dico, ce lo ha sottratto di fatto in diretta, era con la nostra inviata. Certe cose - chiude stizzito - non dovrebbero accadere”.
La Vita in Diretta, Alberto Matano furioso: “Ospite scippato da Canale 5”, cos'è successo proprio sotto i suoi occhi. Libero Quotidiano il 05 gennaio 2022. Alta tensione tra Alberto Matano e Simona Branchetti. Il conduttore de La Vita in Diretta si è letteralmente infuriato con Pomeriggio Cinque News, che a suo dire avrebbe commesso una grossa scorrettezza per accaparrarsi un ospite chiave in un caso di cronaca fresco. Matano e la sua inviata Filomena Leone avevano raggiunto il signor Sebastiano, marito di Liliana Resinovich, la donna scomparsa a Trieste e che pare sia stata appena ritrovata cadavere in due sacchi. Al rientro in studio, Matano ha però scoperto che l’uomo era stato sottratto da Canale 5: “Dobbiamo dire per chi ci segue, perdonatemi. È un momento di grande dramma per quest’uomo che probabilmente a breve capirà se sua moglie è morta. Avevamo questa persona collegata con noi in diretta, ma la troupe di una trasmissione concorrente, di Canale 5, ha sottratto di fatto Sebastiano che era in questo momento con la nostra inviata. Sono cose che succedono ma che non dovrebbero accadere”. Poco dopo Matano è tornato sulla vicenda: “Visto che no siamo trasparenti e io vi dico tutto, noi avevamo un regolare appuntamento con il signor Sebastiano, che seguiamo da giorni. Naturalmente è una vicenda che ha colpito tutti la scomparsa di questa donna e quindi avevamo un appuntamento con lui per parlare delle novità. Poi avete visto quello che è accaduto in diretta e devo dire che sono momenti che non mi appartengono: non è il mio stile, per fortuna”.
Spunta l'amico di Lilly: "Vi dico cosa so, perché non è un suicidio". Rosa Scognamiglio il 10 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Domani saranno eseguiti gli esami autoptici sul cadavere che sembrerebbe rispondere all'identikit di Liliana Resinovich. "Non si è suicidata", rivela l'amico della 63enne.
È un giallo sempre più fitto e ingarbugliato quello che si sta sviluppando attorno alla misteriosa scomparsa di Liliana Resinovich ("Lilly" per gli amici), la 63enne di cui si sono perse le tracce dallo scorso 14 dicembre. Il 5 gennaio è stato rinvenuto un cadavere nell'area boschiva dell'ex ospedale psichiatrico del capoluogo friulano che sembrerebbe rispondere all'identità della donna anche se per l'ufficialità bisognerà attendere l'esito degli accertamenti autoptici. Intanto, in procura è stato aperto un fascicolo d'indagine sulla vicenda. Le attenzioni degli inquirenti si concentrano su due uomini: Sebastiano Visitin, marito di Liliana, e Claudio Sterpin, amico di vecchia data della 63enne.
La misteriosa scomparsa
Non si hanno più notizie di Liliana Resinovich dal 14 dicembre. L'ultima persona ad averla vista pare sia stata una commerciante di frutta e verdura, tra le 8 e le 9 di quel giorno. A denunciarne la scomparsa è stato Sebastiano Visitin, ex fotografo e marito di Liliana, sollecitato dal fratello della 63enne. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, quella mattina Lilly avrebbe dovuto raggiungere la casa di un amico, Claudio Sterpin, 82 anni. Un rapporto di cui il marito - come egli stesso ha riferito agli investigatori - non era a conoscenza. Liliana aveva chiamato Sterpin alle 8.22 per dirgli che avrebbe ritardato poi, è svanita nel nulla. I due telefoni cellulari e la borsa sono stati trovati nella sua abitazione di via del Verrocchio, la casa coniugale.
Liliana sparita da 21 giorni. Il marito: "Ho paura"
Il ritrovamento del cadavere
La mattina del 5 gennaio, nell'area boschiva dell'ex ospedale psichiatrico del quartiere San Giovanni, è stato ritrovato il corpo senza vita di una donna che risponderebbe all'identikit di Lilly. Il cadavere - di corporatura esile - era infilato in due sacchi neri: uno sulla testa e l'altro attorno alle gambe. Gli investigatori ritengono "molto probabile" che si tratti della 63enne. In particolar modo "corrispondono gli occhiali", ha spiegato il procuratore Antonio De Nicolo senza aggiungere altri dettagli. Sul corpo non ci sarebbero segni di violenza ma per avere certezza dell'identificazione e chiarire le circostanze del decesso bisognerà attendere l'esito degli esami autoptici, in programma martedì 11 gennaio.
I sospetti sul marito di Lilly
I sospetti degli inquirenti si sono addensati sin da subito su Sebastiano Visitin, il marito 72enne di Lilly. I due sono convolati a nozze nel 2005 anche se la loro relazione dura da circa 32 anni. A gettare ombre su Visitin il racconto - a tratti lacunoso e vago - delle ultime ore trascorse con Liliana. Quando la 63enne è scomparsa, Visitin si trovava nel suo magazzino dove tiene l'attrezzatura per affilare le lame e i coltelli che gli affidano i supermercati e le pescherie della zona. È lì che dice di "aver trascorso un paio d'ore" la mattina del 14 dicembre. Infine, alcuni conoscenti della coppia hanno raccontato di un rapporto molto conflittuale tra i due coniugi sfociato, negli ultimi tempi, in una profonda crisi.
Lilli è morta soffocata "Uscita di casa a piedi"
L'amico della 63enne
C'è un altro uomo nella vita di Liliana. Si tratta di Claudio Sterpin, 82 anni, amico di vecchia data della donna. I due erano legati da un'amicizia pluridecennale anche se Visitin pare non fosse a conoscenza della loro relazione. Lilly avrebbe dovuto incontrarlo proprio quella mattina, come era solita fare ogni martedì per aiutarlo nelle faccende domestiche. Tra i due c'è stato uno scambio di sms a poche ore dalla misteriosa scomparsa. La 63enne lo avrebbe informato di un ritardo affermando di dover "passare prima in un negozio Tim". Ma in quel negozio di telefonia, Lilly non vi ha mai messo piede.
Omicidio o suicidio?
Omicidio o suicidio? Al momento, gli inquirenti non escludono nessuna ipotesi anche se sembrerebbero propendere per la circostanza delittuosa. Del resto, perché Lilly è uscita di casa senza cellullare né borsa? Come mai il marito non era a conoscenza dell'amicizia con Sterpin? "C’è una saracinesca chiusa che si deve riaprire quando verrà fuori la verità che io spero prestissimo. Dalle 8.22 di martedì è rimasto tutto chiuso, muto, e non potevo non preoccuparmi, doveva venire e non è arrivata, un perché ci doveva essere, non c’era neanche un messaggio, una risposta né niente", ha detto Claudio Sterpin ai microfoni di "Ore 14", il programma condotto da Milo Infante. Qual è "la verità" sulla scomparsa di Liliana?
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Il caso a Trieste. Liliana Resinovich scomparsa da 20 giorni: il giallo dell’ex dipendente regionale. Vito Califano su Il Riformista il 4 Gennaio 2022. Liliana Resinovich è scomparsa nel nulla da quasi un mese. E nessuno sa niente, nessuno l’ha più vista. Lily, come la chiamavano gli amici, è uscita di casa la mattina del 14 dicembre e da quel momento se ne sono perse le tracce. A indagare sul caso che ha gettato nell’apprensione Trieste è la Squadra Mobile coordinata da Antonio De Nicolo, capo della Procura del capoluogo giuliano che ha aperto un fascicolo e che dice che al momento “tutte le ipotesi sono aperte e al momento non ci sono indagati”. Il caso però è già un giallo tra il marito della donna, forse questioni economiche, un appuntamento mancato, un amico che Lily frequentava abitualmente.
A denunciare la scomparsa della donna è stato Sebastiano Visintin, ex fotoreporter e marito della scomparsa dal 2005. Resinovich ha 63 anni, ex dipendente regionale di Trieste, uscita il 14 dicembre da casa sua nel quartiere popolare di San Giovanni per raggiungere un amico, un uomo di 82 anni, che ogni martedì da circa quattro mesi visitava per aiutarlo nelle faccende domestiche. Quella mattina, secondo quanto ricostruito da Il Corriere della Sera, la donna aveva telefonato all’amico dicendogli che avrebbe tardato un po’ rispetto al solito: doveva passare al negozio della Wind.
La 63enne non è mai arrivata ne al negozio ne a casa dell’amico. L’ultimo avvistamento sarebbe quello di una commerciante di frutta e verdura che avrebbe visto Resinovich di fronte al proprio negozio tra le 8:00 e le 9:00 di quella mattina. La donna ha lasciato i suoi due telefoni cellulari a casa, come la borsa e il portafoglio. Per ritrovarla si è mossa anche la prefettura con il Piano Ricerca Persone Scomparse con i Vigili del Fuoco e gli uomini del Soccorso alpino che hanno setacciato alcune aree boschive con l’aiuto dei cani molecolari. Niente da fare: al momento nessuna traccia.
L’amico che aspettava Lily ha raccontato in un’intervista al quotidiano Il Piccolo che la 63enne da tempo si lamentava del marito, parlava di “sudditanza” e che era “al limite della sopportazione e sull’orlo di lasciarlo”. Il marito, che non era a conoscenza di questa amicizia con l’82enne, respinge ogni sospetto, ha detto che con la moglie “non abbiamo mai litigato”, si dice “tranquillo” anche se “distrutto”, che vuole sapere cosa si siano raccontati i due amici in quattro mesi e che “non ho intenzione di prendere un avvocato e voglio che vengano verificati i miei movimenti di quel giorno. Sono uscito da casa alle 8 meno un quarto e poi sono andato a fare delle consegne”.
In un primo momento infatti Visintin non avrebbe raccontato di una sua attività di affilatura di coltelli perché condotta in nero, per supermercati e altri locali. Il Procuratore ha comunque descritto la coppia “senza particolari problemi: entrambi sono pensionati e facevano diverse attività assieme. Non c’erano discussioni o liti particolarmente chiassose”. Una cugina della donna insiste però sulla pista economica: Visintin le avrebbe confessato di aver trovato in casa in questi giorni un estratto conto della moglie con 100mila euro.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Il giallo della donna scomparsa a metà dicembre. “Temo di non sapermi difendere, alla fine andrò io in galera”, la paura del marito di Liliana Resinovich, Sebastiano Visintin. Vito Califano su Il Riformista l'8 Gennaio 2022.
Sebastiano Visintin non si è mai negato alle interviste. Il fotografo in pensione è il marito di Liliana Resinovich, la donna scomparsa a Trieste dal 14 dicembre. “Sono stanco, stanco e ho anche paura di dire cose sbagliate. Ho paura di non saper difendermi perché sono sotto pressione … Dovrei lavorare, stasera vado a fare le foto alla compagnia teatrale. Vuoi una pastasciutta? Ma capisci cosa voglio dire? Perché qui va a finire che io andrò in galera e qualcun altro si divertirà”, dice in un’intervista a Il Corriere della Sera.
L’autopsia di lunedì 10 gennaio chiarirà se è della 63enne scomparsa il corpo trovato nella boscaglia nei pressi dell’ex Ospedale psichiatrico di San Giovanni. I resti sono stati trovati chiusi all’interno di due sacchi neri dell’immondizia. Il procuratore Antonio De Nicolo ha parlato di “alta probabilità” che quel corpo sia quello di Resinovich. La donna era uscita dalla casa nel quartiere popolare di San Giovanni senza portare con sé i suoi due telefoni cellulari. Doveva raggiungere un amico, un uomo di 82 anni, che ogni martedì da circa quattro mesi visitava per aiutarlo nelle faccende domestiche.
Quella mattina la donna telefonò all’amico per dirgli che avrebbe tardato: perché doveva passare per un negozio di telefonia. Dove però nessuno l’ha vista. Claudio Sterpino, l’amico, 82enne, in un’intervista al quotidiano Il Piccolo ha smentito di essere amante di Resinovich e ha riferito che la donna avrebbe voluto separarsi dal marito. Visintin dice che non era al corrente della relazione della moglie con questo amico di vecchia data. Nessuno risulta indagato al momento per la scomparsa.
A quanto pare i due amici avevano organizzato un weekend insieme il 17 dicembre. “Penso che qui ci sia la chiave del mistero – continua il marito – Secondo me lui l’aveva plagiata, aveva manipolato la sua volontà, riuscendo addirittura a convincerla di lasciarmi. Dopo che lei l’ha chiamato, alle 8.22 del 14 dicembre, io ero già fuori casa, lei è entrata in uno stato di follia. Ha lasciato a casa i documenti, i telefoni, cosa che non aveva mai fatto prima, e se n’è andata chissà dove. La fruttivendola oggi mi ha detto che l’ha vista con gli occhiali, altra stranezza perché Lilly non li usa molto”.
Visentin dice che quella mattina era uscito per consegnare i coltelli che affila ai clienti e dopo per un giro in bicicletta sull’Altopiano. Dopo aver notato i cellulari a casa e aver aspettato qualche ora è andato in Questura. Crede che la moglie “sia stata uccisa e che presto avremmo un colpevole. Liliana comunque non si sarebbe mai suicidata, a me sembrava felice e se non lo era significa che io non ho capito nulla di lei, cosa che escluderei visto che ci conosciamo da più di trent’anni”. La coppia era sposata dal 2005. Non è stata tralasciato l’aspetto economico della vicenda in quanto in un estratto conto della donna sarebbero stati trovati 100mila euro.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Da Ansa il 13 gennaio 2022.
Potrebbe essere stata avvistata il 22 dicembre a Trieste Liliana Resinovich, la donna scomparsa dalla sua abitazione il 14 dicembre, il cui cadavere è stato trovato il 5 gennaio nel parco dell'ex Ospedale psichiatrico di San Giovanni. A riferire l'avvistamento è una testimone, che poi, come ha affermato alle telecamere dell'emittente locale Telequattro, si è rivolta alla Questura.
La donna, ricostruendo i suoi movimenti, spiega che "verso le 8.50-9" del 22 dicembre, mentre stava camminando nei pressi dell'ospedale Maggiore, "questa persona" le è passata accanto. "Era alle mie spalle" e avvicinandosi "ha fatto un verso particolarmente nervoso, forte. Mi sono girata e le ho dato strada. Era da sola, è arrivata all'improvviso in velocità, mi ha superato e ha continuato a camminare. Io mi sono fermata in attesa dell'autobus mentre lei ha proseguito, senza attraversare la strada".
Secondo il racconto della testimone alle telecamere, questa persona indossava "pantaloni neri, un giubbotto corto imbottito, sportivo. Aveva una struttura molto magra e una sacca color tortora scuro a tracolla".
Nei giorni successivi, racconta la testimone, "ho visto le foto di Liliana Resinovich sui social e mi sono resa conto che la donna che avevo visto era lei". "Il 27 dicembre sono quindi andata in Questura". "Ho visto bene in volto la donna perché non indossava la mascherina - conclude - portava gli occhiali e aveva un ciuffo chiaro. Indossava un cappello".
Il corpo dell'ex dipendente regionale è stato ritrovato chiuso in sacchi neri. “Ho visto Liliana Resinovich, faceva un verso nervoso”, la testimonianza a sorpresa sull’ultimo avvistamento della donna scomparsa. Vito Califano su Il Riformista il 14 Gennaio 2022.
Liliana Resinovich avanzava in strada alle sue spalle, ha fatto un verso strano ed è andata avanti senza fermarsi. Sarebbe questo l’ultimo avvistamento della donna scomparsa e ritrovata morta a Trieste, stando a quanto raccontato da una donna, una testimone, che si è rivolta alla Questura. Dell’aneddoto, che potrebbe rivelare dettagli decisivi alla soluzione di un caso che è ancora un giallo, ha parlato alle telecamere dell’emittente locale Telequattro.
L’ultimo avvistamento di Resinovich risaliva al 14 dicembre del 2020. Il giorno della scomparsa. Da allora settimane di ricerche e di apprensione. Il corpo dell’ex dipendente regionale è stato rinvenuto il 5 gennaio nel parco dell’ex Ospedale psichiatrico di San Giovanni. L’autopsia ha confermato che il cadavere, ritrovato in due sacchi neri e la testa avvolta in un sacchetto di plastica, era quello della 63enne. Sul caso è stato aperto un fascicolo, dal procuratore capo di Trieste Antonio De Nicolo, finora a carico di ignoti.
Sul caso indaga la Squadra Mobile della Polizia, coordinata dal pubblico ministero Maddalena Chergia. Secondo le indagini la donna quel giorno si era allontanata da casa, nel quartiere popolare San Giovanni, a piedi. Si stava cercando di capire da quanto tempo il corpo, che non avrebbe presentato segni di violenza, da armi da taglio o proiettili, si trovasse nel punto del ritrovamento anche perché non era nelle condizioni di un cadavere abbandonato nello stesso posto da venti giorni. Tutte le piste restano aperte.
Giallo Liliana Resinovich, è suo il cadavere ritrovato: le ultime ore di vita e le voci sulla separazione
“Temo di non sapermi difendere, alla fine andrò io in galera”, la paura del marito di Liliana Resinovich, Sebastiano Visintin
E adesso le parole della testimone che potrebbero cambiare tutto, almeno da un punto di vista temporale. La donna ha detto di aver visto Resinovich tra le 8:50 e le 9:00 del 22 dicembre nei pressi dell’ospedale Maggiore. “Era alle mie spalle” e avvicinandosi “ha fatto un verso particolarmente nervoso, forte. Mi sono girata e le ho dato strada. Era da sola, è arrivata all’improvviso in velocità, mi ha superato e ha continuato a camminare. Io mi sono fermata in attesa dell’autobus mentre lei ha proseguito, senza attraversare la strada”.
La testimone ha aggiunto che la donna indossava pantoloni neri, un giubbotto corto imbottito sportivo, e che “aveva una struttura molto magra e una sacca color tortora scuro a tracolla”. Quando ha visto le foto di Resinovich sui social network la donna l’ha riconosciuta e il 27 dicembre è andata in Questura. “Ho visto bene in volto la donna perché non indossava la mascherina portava gli occhiali e aveva un ciuffo chiaro. Indossava un cappello”.
L’avvocato dell’avvocato Paolo Bevilacqua, legale del marito di Resinovich, Sebastiano Visintin, si è detto interdetto dalle dichiarazioni della testimone a sorpresa. “Questa nuova testimonianza mi lascia interdetto mi fa ragionare in un altro modo, mi fa chiedere dove la signora sia stata, cosa abbia fatto”. Il marito, ex fotoreporter, ha raccontato ai cronisti di aver visto l’ultima volta la moglie la mattina del 14 dicembre, di aver fatto colazione insieme e di essere uscito di casa alle 7:45. Ha detto di non essere al corrente dell’amicizia della moglie con Claudio Sterpin, 82 anni, che la donna raggiungeva ogni martedì per aiutarlo in faccende domestiche.
Proprio l’anziano ha spiegato di aver ricevuto una telefonata dalla donna alle 8:22 del 14 dicembre. “Lilly mi ha chiamato per avvisarmi che sarebbe venuta da me un po’ più tardi, attorno alle 10:00, doveva passare prima in un negozio. Da qualche mese lei veniva da me per darmi una mano a stirare. Ci conosciamo da quarant’anni e siamo legati da un’amicizia affettuosa”. Resinovich non sarebbe mai arrivata né al negozio né a casa dell’amico.
Sulla relazione tra Resinovic e Visintin sono state adombrate voci su tensioni nella coppia, su questioni economiche e su una presunta intenzione della moglie di lasciare il marito. L’uomo ha negato qualsiasi tensione e ha espresso la paura “di non saper difendermi perché sono sotto pressione” in un’intervista a Il Corriere della Sera “perché qui va a finire che io andrò in galera e qualcun altro si divertirà”. Né lui né l’amico della moglie hanno rilasciato dichiarazioni in questi giorni. Non c’è nessun indagato sul giallo.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Il giallo di Trieste. Liliana Resinovich, le piste del suicidio e dell’avvelenamento: le accuse tra il marito e l’ex. Vito Califano su Il Riformista il 16 Gennaio 2022.
Liliana Resinovich non è stata accoltellata, strangolata o strozzata. È ancora un giallo il caso della 63enne sparita a Trieste a metà dicembre e il cui corpo è stato ritrovato il 5 gennaio nei pressi del boschetto dell’Ospedale Psichiatrico. Non è bastata al momento l’autopsia a sciogliere interrogativi che sembrano al momento ancora lontani dalla soluzione. Gli investigatori non escludono alcuna pista. Non si esclude neanche il suicidio, l’ipotesi considerata fino a pochi giorni fa improbabile.
Quello che si sa: Resinovich, ex dipendente della Regione, è sparita a piedi da casa il 14 dicembre scorso; doveva raggiungere un amico a casa sua, Claudio Sterpin, un 82enne che aiutava da tempo nelle faccende domestiche; il marito, ex fotoreporter Sebastiano Visintin di questo rapporto ha detto di non essere al corrente; la donna quella mattina telefonò all’amico per dirgli che avrebbe tardato perché doveva passare per un negozio di telefonia; la donna non è mai arrivata né al negozio di telefonia né a casa dell’amico; da quel momento è scomparsa fino al ritrovamento; qualche giorno fa la rivelazione di una donna che ha testimoniato di aver visto Resinovich il 22 dicembre: incrociata in strada, faceva un “verso forte”.
Il corpo della 63enne è stato ritrovato in posizione fetale, in un paio di sacchi neri della spazzatura, aperti, con la testa infilata in due buste di nylon chiuse al collo non strette. Ritrovata sul posto anche borsetta vuota. La scientifica sta cercando delle impronte. Nessun trauma sul corpo. La morte causata da “scompenso cardiaco acuto”. Potrebbe essere stata soffocata ma al momento neanche questa pista ha trovato riscontri. Nessuna traccia di asfissia nel referto del consulente della Procura, il medico legale Fulvio Costantinides. Si attendono gli esiti dell’esame istologico. Non si esclude neanche l’assunzione di sostanze letali, farmaci, droghe.
Si dovrà aspettare almeno un mese per i risultati dell’esame tossicologico. “Si pensa a un’ingestione di sostanze, un avvelenamento, o le ha prese lei o qualcuno gliele ha date, la questione è complicata”, ha aggiunto il medico legale Raffaele Barisani, nominato dal marito di Liliana, Visintin, assistito come parte offesa dall’avvocato Paolo Bevilacqua. Stando alla pista del suicidio, Resinovich avrebbe fatto tutto da sola: prendendo dei farmaci, andando nel boschetto, infilandosi nei sacchi neri e infilando la testa in buste di nylon. . “L’ultimo suicida con ‘sacchetto’ che ho visto si era scolato una bottiglia di vodka, se avesse bevuto solo quella si sarebbe salvato”, ha osservato a Il Corriere della Sera Carlo Moreschi, il medico legale che ha partecipato all’autopsia come consulente nominato dal fratello di Liliana, Sergio.
Si è parlato molto in questi giorni della relazione della donna con il marito Visintin e di quella con Sterpin. L’82enne sarebbe secondo Il Corriere l’ex che la donna lasciò per il fotoreporter in pensione. Quest’ultimo ha raccontato che la donna stava pensando di lasciare il marito. “Lilly non stava bene con il marito, aveva deciso di lasciarlo e voleva dirglielo il 16 dicembre, il 17 dovevamo fare un weekend insieme. In ogni caso non sono l’amante, come potrei esserlo con tre interventi alla prostata?”, aveva raccontato al quotidiano Il Piccolo.
“Non sapevo nulla di questa relazione, lui è ignobile, mi ha rovinato la vita, l’ha plagiata, la chiave del mistero è tutta lì”, la risposta al Corriere di Visintin che ha negato ogni dissidio, anche le difficoltà economiche che avrebbero esasperato la relazione, e ha confessato di aver paura di non sapersi difendere, di essere molto stressato. “Non si può privilegiare l’omicidio rispetto al suicidio”, ha scritto intanto il Procuratore di Trieste Antonio De Nicolo.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Il caso della 63enne scomparsa a Trieste. “Mi sono sentito infangato, non mi hanno dato la mano”, il dolore di Sebastiano Visintin al funerale della moglie Liliana Resinovich. Vito Califano su Il Riformista il 25 Gennaio 2022.
Non solo dolore ma anche amarezza per Sebastiano Visintin, oggi al funerale della moglie Liliana Resinovich. La donna di 63 anni era sparita a Trieste a metà dicembre e il corpo era stato ritrovato il 5 gennaio nei pressi del boschetto dell’Ospedale Psichiatrico. I funerali si sono tenuti stamattina in forma strettamente privata con solo una breve cerimonia di sepoltura nel cimitero di Sant’Anna. Accompagnato dal figlio, Visintin ha raccontato di persone che non hanno voluto stringergli la mano o che hanno evitato di guardarlo. Lo scrive il quotidiano Il Piccolo. “Ho visto la gente dentro, al funerale, e non ti danno neanche la mano. Tante persone si sono rivolte contro di me, mi sono sentito infangato”, le parole citate da Il Gazzettino.
La cerimonia dell’ultimo saluto è stata sobria e breve. Una trentina di persone di tutto tra parenti e amici. Al termine della funzione ha preso la parola la cugina della 63enne. Intercettato dai giornalisti del Piccolo Visintin ha descritto come “il peggio che ti possa capitare, non sto neanche in piedi. Non auguro a nessuno di andare al funerale della persona amata e di andarci da principale sospettato. Non mi merito questo calvario. La verità verrà fuori da sola. Ho saputo che sono molto vicini alla verità. Il gesto estremo sarebbe un dolore troppo grande”. Un appello ai giornalisti: “Spero che le vostre testate mi chiedano scusa”. L’uomo ha confermato che la moglie aveva intenzione di cambiare casa con lui, come raccontato anche da un’amica. E che avevano progettato una vacanza in Brasile nei prossimi mesi.
Claudio Sterpin, amico di 82 anni della donna, che la mattina della scomparsa aspettava Resinovich a casa sua, sostiene invece un’altra versione. La donna si recava frequentemente a casa dell’amico per aiutarlo nelle faccende domestiche. L’uomo ha detto che “tra due giorni si saprà tutto” e che “Lilly non stava bene con il marito, aveva deciso di lasciarlo e voleva dirglielo il 16 dicembre, il 17 dovevamo fare un weekend insieme. In ogni caso non sono l’amante, come potrei esserlo con tre interventi alla prostata?”. Per Il Piccolo lo striscione con scritto “Ciao Lilly, Rip” apparso all’esterno del cimitero era invece stato lasciato proprio da Sterpin. Neanche questa versione coincide.
“Non sapevo nulla di questa relazione, lui è ignobile, mi ha rovinato la vita, l’ha plagiata, la chiave del mistero è tutta lì”, la risposta al Corriere della Sera di Visintin che ha negato ogni dissidio, anche le difficoltà economiche che avrebbero esasperato la relazione, e ha confessato di aver paura di non sapersi difendere, di essere molto stressato. “Non si può privilegiare l’omicidio rispetto al suicidio”, ha scritto intanto il Procuratore di Trieste Antonio De Nicolo. Al momento non c’è nessun indagato sul caso.
Il corpo della 63enne è stato ritrovato in posizione fetale, in un paio di sacchi neri della spazzatura, aperti, con la testa infilata in due buste di nylon chiuse al collo non strette. Ritrovata sul posto anche borsetta vuota. La scientifica sta cercando delle impronte. Nessun trauma sul corpo. La morte causata da “scompenso cardiaco acuto”. Potrebbe essere stata soffocata ma al momento neanche questa pista ha trovato riscontri. Nessuna traccia di asfissia nel referto del consulente della Procura, il medico legale Fulvio Costantinides. Si attendono gli esiti dell’esame istologico. Non si esclude neanche l’assunzione di sostanze letali, farmaci, droghe. Dopo l’autopsia si attendono i risultati dell’esame tossicologico per capire se la donna avesse ingerito qualche sostanza.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
· Il Mistero di Denis Bergamini.
La relazione: «Bergamini era già morto quando fu investito». CHIARA FAZIO su Il Quotidiano del Sud il 26 Ottobre 2022
«DENIS Bergamini era già morto o era in limine vitae quando fu investito dal camion?». Alla domanda del pubblico ministero Luca Primicerio, il professor Vittorio Fineschi risponde senza tema di smentita: «Sì, era già morto». Il docente di Medicina legale della “Sapienza”, convocato ieri in qualità di teste nel processo “Bergamini”, non ha dubbi sul punto e motiva la sua tesi con i risultati investigativi ottenuti grazie alla “glicoforina”, la proteina di membrana impiegata nel corso della riesumazione del cadavere del calciatore. «Non si tratta di una sperimentazione – ribadisce più volte Fineschi, pioniere degli studi sulla “vitalità della lesione” – bensì di una tecnica ormai stratificata, in grado di restituire dati di assoluta validità scientifica. Insomma, non si possono ottenere dei “falsi positivi” ed è un’indagine valida anche nei casi di putrefazione».
Nel caso di specie, la glicoforina avrebbe consentito di stabilire che le lesioni rinvenute sul corpo di Denis gli sarebbero state inferte quando era già privo di vita. Si evincerebbe dalle «tracce di vitalità su organi lontani dalle parti attinte, come ad esempio la laringe». Al contrario, non sarebbero emerse lesioni sul volto, «completamente sano e senza alcun osso fratturato», né sul cranio, nessuna alterazione traumatica sul torace e gli arti superiori». Da qui la ricostruzione della dinamica dell’incidente, secondo cui la morte del giovane sarebbe sopraggiunta «a causa di meccanismo asfittico tramite un mezzo soffice, un cuscino o un sacchetto. Al momento dell’investimento – va avanti il prof – il corpo giaceva supino sul selciato stradale; fu prima colpito sul lato destro dalla ruota anteriore destra del camion, trascinato per un breve tratto (alcuni metri), sormontato e poi nuovamente attinto durante la retromarcia. Il che avrebbe prodotto la rotazione del bacino».
E allora – domanda la presidente della Corte Paola Lucente – come spiegare le fratture sulla parte sinistra del corpo, segnalate dal professor Francesco Maria Avato, colui che nel 1990 eseguì la prima autopsia? Per Fineschi si tratta di un «limite osservazionale», dovuto al fatto che la parte bluastra visibile in corrispondenza dell’osso sacro fosse una semplice diffusione emoglobinica, peraltro appartenente a un tessuto di cui non fu mai prelevata né analizzato un campione.
Finaschi, poi, sollecitato dalle domande degli avvocati di parte civile Fabio Anselmo, e di Isabella Internò, Rossana Cribari e Angelo Pugliese, si sofferma ad analizzare le analogie con i casi di Stefano Cucchi e Giulio Regeni, ai quali egli stesso collaborò suggerendo il metodo della glicoforina durante le fasi della riesumazione e dell’analisi delle lesioni, ma anche quello di Valentina Pitzalis, in Sardegna, che però in seguito fu archiviato.
Sul banco dei testimoni, sempre ieri sono comparsi anche i medici legali Roberto Testi e Giorgio Bolino, autori a loro volta di altre tre perizie tra il 2011 e il 2013. Il processo riprende l’8 novembre con la testimonianza dell’ex boss di ‘ndrangheta Franco Pino.
Caso Bergamini, quando Isabella si autoincriminò. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano Del Sud il 4 luglio 2022.
La gelosia ossessiva di Isabella Internò e l’onore ferito dei suoi familiari. È dall’incontro di queste due nevrosi che, secondo la Procura di Castrovillari, fiorisce il movente dell’uccisione di Donato Bergamini, e il processo che si celebra in Corte d’assise, sponda accusa, punta tutto su questa tesi. In aula se n’è avuto, fin qui, un assaggio consistente grazie alle testimonianze succedutesi udienza dopo udienza: da Roberta Alleati – la sposa segreta e sedicente – a Roberta Sacchi – fisioterapista e amante per un giorno – passando per i compagni di squadra Luigi Simoni e Sergio Galeazzi, sono davvero tante le persone che oggi si dicono beninformate sulla morbosità dell’imputata e sul sentimento tossico che la legava a Denis, e a loro si sono aggiunte via via anche diverse adolescenti dell’epoca, ragazze che frequentavano il ritrovo dei calciatori – la villetta di Commenda – amiche o semplici conoscenti del calciatore alle quali lui stesso avrebbe rappresentato più volte il fastidio provocatogli da quella ex fidanzata possessiva e assillante.
L’elenco è destinato a ingrossarsi, dato che all’appello mancano ancora Tiziana Rota – quella del «Meglio morto che di un’altra» – Michele Padovano e, soprattutto Donata Bergamini. Non a caso, è proprio lei a imporre il dato della gelosia folle della Internò, trasformandolo in una verità acquisita, ma solo dal 2010 in poi. In precedenza, infatti, né lei né altri si pronunciano sull’argomento, tant’è che quando nel 2001 esce il libro di Carlo Petrini – oggi vittima di un principio di cancel culture da parte dei suoi stessi sostenitori – il tema della gelosia di Isabella non viene affrontato neanche di striscio.
Di questo aspetto della vicenda non si parla neanche nell’immediatezza, quando i ricordi avrebbero dovuto essere più vividi, ovvero fra il 1989 e il 1991. Nessun accenno da parte dei testimoni interpellati dall’allora pubblico ministero Ottavio Abbate e, successivamente, nulla di significativo al riguardo emerge dal processo per omicidio colposo imbastito contro il camionista Raffaele Pisano. Anzi, in quella sede è il pm d’udienza Maurizio Saso a offrire un assist formidabile alla sorella di Denis chiamata a testimoniare in aula. «Quali furono le cause della rottura?» le chiede a proposito del rapporto sentimentale fra suo fratello e la Internò. «Ma niente – risponde Donata – In un primo momento mi disse perché aveva saputo che era stata con un altro calciatore. E poi dopo, in ottobre, abbiamo avuto l’occasione di parlarne abbastanza bene, e mi disse che non gli piaceva proprio più».
Nessun riferimento alla gelosia, dunque, ma la musica cambia vent’anni più tardi, quando saltano fuori le parole che poco prima di morire Denis avrebbe riferito alla sorella – «Isabella è come l’attack» – e sulle quali si innestano le rivelazioni successive di altri testimoni. Ecco allora che a detta della Rota, la Internò «si appostava sotto casa sua per controllarlo» e «gli annusava i vestiti» per verificare che non fosse andato con altre donne. «Era una stalker» taglierà corto più di recente la Alleati, in precedenza anche lei muta sull’argomento.
Eppure c’è una sola persona che nel 1989 fa accenno alla gelosia di Isabella e, paradosso dei paradossi, è Isabella stessa. «Ero gelosa per il lavoro che faceva, e perché la sua notorietà lo metteva al centro delle attenzioni femminili» spiega la ragazza ad Abbate il 23 novembre di quell’anno durante il suo secondo colloquio in Procura. Trenta e passa anni dopo, proprio questo diventerà il movente dell’omicidio, e piuttosto che tentare di nasconderlo, la diretta interessata cosa fa? Si autoincrimina.
«È stato Denis a volere la fine del nostro rapporto, io avrei fatto qualsiasi cosa perché lo stesso continuasse» aggiunge, quasi un’escalation confessoria, vista con gli occhi degli inquirenti che oggi perseguono l’obiettivo della sua colpevolezza. E invece è molto probabile che quelle dichiarazioni le abbia rese a scopo difensivo. All’epoca, infatti, più d’una fonte indica proprio in Bergamini il geloso della coppia, circostanza che in quei giorni la Internò sminuisce, salvo poi ammettere – al pari di altri testimoni – che il ragazzo era «tormentato» dalle voci sulla presunta relazione tra lei e un altro calciatore, seppur tale flirt fosse addirittura precedente all’arrivo di Denis a Cosenza.
In quelle ore, però, c’è un pensiero che tormenta pure l’allora diciannovenne ragazza di Roges: passare come responsabile morale della morte del fidanzato. Acqua fresca rispetto al calvario che l’attende da lì a vent’anni, ma di questo suo timore, durante il processo contro Pisano se ne accorgeranno tutti, persino la parte civile, tant’è che il pretore Antonino Mirabile che, in seguito, lo scriverà a chiare lettere nella sentenza che assolve il camionista. Quel 23 novembre, però, a cinque giorni dalla tragedia, è lei stessa che non fa nulla per nascondere questa sua preoccupazione, dicendosi «sgomenta per le illazioni giornalistiche prive di ogni fondamento in ordine al fatto che Denis si sarebbe suicidato per amor mio».
Insomma, ha da poco ucciso un uomo, ma ha paura di essere giudicata, di finire nel mirino dei moralisti e più in generale dell’opinione pubblica. Davvero una strana assassina questa Isabella Internò.
Caso Bergamini, l'assassino non è al telefono: i centralinisti smentiscono Padovano. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 25 giugno 2022.
Il processo Bergamini scorre lento fra testimonianze per lo più di contorno, almeno fin qui, che si succedono in ordine sparso senza che, dopo ben diciannove udienze, sia ancora emerso nulla di dirimente in relazione agli eventi tragici del 18 novembre 1989. Ieri, però, agli atti del dibattimento ne sono transitate due molto importanti che risalgono al 29 novembre di quell’anno, undici giorni dopo la tragedia di Roseto Capo Spulico.
Sono quelle dei segretari dell’allora motel Agip di Quattromiglia, struttura in cui i calciatori del Cosenza si radunavano alla vigilia delle partite casalinghe. Purtroppo, i ricordi di Emilio Prezioso e Vincenzo Tucci non potevano essere più rinverditi in aula – il primo è deceduto da tempo, l’altro solo di recente – ragion per cui sono state acquisite le dichiarazioni rese da entrambi all’epoca dei fatti.
Si tratta di racconti che offrono una risposta a un quesito centrale della vicenda: prima di uscire dall’albergo per recarsi al cinema “Garden”, e da lì andare poi incontro al suo destino, Bergamini ricevette davvero, intorno alle tre del pomeriggio, una telefonata in camera così come riferisce il suo compagno Michele Padovano? È un tema importantissimo perché, nella ricostruzione degli eventi proposta dall’accusa, quella telefonata sarebbe stata operata dall’attuale imputata, Isabella Internò, per dare al calciatore l’appuntamento fatale nella piazzola sulla Ss 106, cento chilometri più a nord, il luogo dove in seguito troverà la morte.
In chiave colpevolista è un passaggio quasi obbligato, dato che in un’epoca in cui non esistevano cellulari, chat, social network e altri mezzi di comunicazione, quella telefonata rappresenta l’unico punto di contatto possibile fra i carnefici e la vittima, il solo strumento a loro disposizione per poterlo attirare in trappola. Il punto è che, a sentire Tucci e Prezioso, che quel sabato 18 novembre si alternano alla reception, quella telefonata non esiste, non c’è mai stata. Tutte le chiamate, sia in entrata che in uscita dall’albergo, dovevano passare obbligatoriamente dalla hall, il receptionist di turno collegava poi lo spinotto apposito all’interno desiderato e il gioco era fatto.
Quel giorno, però, nessuno di loro riferisce di aver passato la linea nella stanza di Bergamini, il che complica terribilmente le cose. Perché allora Padovano afferma di aver assistito a quella conversazione, durata solo pochi secondi, durante la quale Denis avrebbe detto all’interlocutore solo «Pronto» e «Ciao» prima di riagganciare, salvo poi «rabbuiarsi» all’improvviso? Sarà lui stesso a chiarirlo quando arriverà il suo turno in aula, ma nell’attesa val la pena ricordare che l’ex attaccante della Juve non fa alcun accenno a questa circostanza il 27 novembre del 1989, nove giorni dopo il dramma, quando viene sentito in Procura dall’allora pm Ottavio Abbate.
In quella sede, riferisce solo di un’altra telefonata che Denis fa dalla cabina dell’albergo poco prima di recarsi al cinema, ed è una circostanza confermata da Tucci e che combacia anche con la versione di Isabella, la quale ha sempre sostenuto di essere stata contattata più volte dal suo ex fidanzato per incontrarsi con lui quel pomeriggio.
A dimostrarlo non c’è solo la telefonata fatta dall’albergo, ma anche quelle che partono dal “Garden”, e se riguardo a quest’ultime gli investigatori tagliano corto – «Bergamini non ha mai telefonato dal cinema» – l’altra chiamata, quella effettuata dal motel, la inquadrano nel contesto più ampio della «farsa» inscenata quel giorno dalla Internò. In sintesi, immaginano che la ragazza abbia dato istruzioni a Denis di simulare la chiamata dalla cabina così da avere poi uno strumento in più per dimostrare che era stato lui a cercare lei e non viceversa.
Davvero ingegnoso, ma torniamo a Padovano, anzi ai familiari di Denis, perché sono loro, nei primi anni Duemila, a riferire di aver ricevuto da Michele questa e altre confidenze: la telefonata in camera sì, ma anche il clima di festa che si respirava in casa Internò dopo il funerale di Bergamini, con tanto di vini e pastarelle ordinate per l’occasione.
In seguito il diretto interessato negherà di aver assistito a questa scena surreale, ma dal 2010 in poi, ventuno anni dopo i fatti, introduce il tema della telefonata in camera. Ne parla prima con l’avvocato Eugenio Gallerani, all’epoca difensore di parte civile della famiglia Bergamini, poi nel 2012 con il procuratore Franco Giacomantonio e nel 2017 con il suo successore Eugenio Facciolla. È a partire da questa data che l’argomento decolla, diventando un cardine della presunta macchinazione assassina. Nessuno ne mette in dubbio l’autenticità, e addirittura, sempre dal 2017 in poi, fioriscono le testimonianze a riscontro.
Secondo un altro calciatore – Sergio Galeazzi – Padovano racconta l’episodio della telefonata in camera al resto della squadra, già poche ore dopo la morte di Denis. Anche il massaggiatore Beppe Maltese, l’ultimo teste interpellato due giorni fa, dice di aver raccolto nell’immediatezza quella voce che, fonte Padovano, circolava nello spogliatoio, e di aver chiesto a un impiegato del motel di mostrargli i tabulati delle telefonate che, purtroppo e «stranamente», erano stati già distrutti.
Va da sé che all’epoca non esisteva alcun tabulato, lo ha confermato un altro centralinista interpellato in aula, spiegando come all’epoca non fosse possibile risalire all’identità dei chiamanti né a quella delle persone chiamate; l’unico dato disponibile era solo quello degli scatti per le chiamate in uscita – duecento lire per le urbane, una cifra più consistente per le extraurbane – che venivano conteggiati a fine serata e addebitati ai calciatori.
Nessun tabulato quindi, ma soprattutto nessuna telefonata in camera, a patto di non voler aggiungere anche i poveri Tucci e Prezioso al novero dei presunti cospiratori. Nessuno ha osato tanto, almeno fin qui, e non è un caso che 48 ore fa la loro verità sia entrata nel processo quasi alla chetichella, facendosi largo nel labirinto di testimonianze ambigue che ingolfano questa vicenda e che, probabilmente, risentono dell’inquinamento generato da oltre un decennio di trasmissioni tv, commenti della domenica e pseudo inchieste giornalistiche sul tema. Una verità “silenziosa” quella dei due centralinisti, che stride anche con il clamore di queste ore. Com’è giusto che sia.
Caso Bergamini, l'editore del libro di Petrini: «Dai nipoti di Denis assurdità offensive». Kaos Edizioni risponde alla lettera diffusa dai parenti dell'ex calciatore del Cosenza: «Neppure il dolore può giustificare quanto hanno scritto». Il Quotidiano del Sud il 27 giugno 2022.
Non si placa la polemica su “Il calciatore suicidato” di Carlo Petrini, nata 21 anni dopo la pubblicazione del libro sulla morte di Denis Bergamini. Dopo l’approdo del testo nelle aule giudiziarie in cui si sta svolgendo il processo e la conseguente lettera diffusa dai nipoti di Bergamini, stavolta è il turno della Kaos Edizioni, la casa editrice che diede alle stampe l’opera.
In una lunga nota definita «di smentita» Kaos Edizioni precisa che il libro «venne redatto nella tarda primavera del 2001 attraverso plurimi colloqui coi familiari di Denis Bergamini: in particolare col padre del calciatore, il signor Domizio Bergamini. La famiglia collaborò anche fornendo la documentazione giudiziaria e l’apparato fotografico. Prima della pubblicazione, il testo del libro fu esaminato in bozza e approvato dallo stesso Domizio Bergamini e dall’allora legale di famiglia.
«Nessuna delle notizie e nessuna delle dichiarazioni riportate nel libro – aggiunge la casa editrice – è mai stata smentita, o rettificata, o negata dagli intervistati, in nessuna sede. Men che meno dal signor Domizio Bergamini (le cui dichiarazioni sono riportate alle pagg. 103-123), il quale anzi, a più riprese negli anni, ha chiesto e ottenuto copie del libro da diffondere, e ha pubblicamente manifestato gratitudine all’autore Carlo Petrini e alla Kaos edizioni. Valga ad esempio quanto dichiarato dallo stesso Domizio Bergamini al quotidiano ‘l’Unità’ il 29-1-2002, richiesto di un parere sul libro: “Petrini ha scritto la verità. Ha fatto ricerche approfondite sulla vicenda di Denis, e mi ha permesso di venire a conoscenza di cose che prima ignoravo…”».
«Nel corso degli anni, la famiglia Bergamini ha sempre manifestato gratitudine a Carlo Petrini, per un libro che di fatto ha strappato il delitto Bergamini dall’oblio. Ne è una riprova – ricorda Kaos Edizioni – quanto dichiarato dalla signora Donata Bergamini in occasione del decesso di Carlo Petrini (16 aprile 2012), e riportato da ‘La Nuova Ferrara’ il 18 aprile 2012: “È stato grazie al libro “Il calciatore suicidato” che è nato il gruppo su Facebook (Verità per Donato Bergamini)… C’è sempre stato un rapporto di amicizia tra Carlo e la nostra famiglia. Ci sentivamo frequentemente al telefono, e varie volte Carlo Petrini è venuto a casa nostra. L’avevamo sentito la settimana scorsa… Questa mattina io, mio padre e i miei figli andremo a Lucca per partecipare ai funerali. È il minimo che possiamo fare per una persona che anche dopo l’uscita del libro non ci ha mai lasciato soli e che ha sempre cercato la verità sulla morte di Denis”».
Per Kaos Edizioni «rientra nel teatro dell’assurdo, dunque, quanto scritto dai nipoti di Denis Bergamini nella pagina Facebook di Donata Bergamini: “… Il libro di Petrini ha arrecato tanto dolore a nonno Domizio e a nostra madre [sic!]… Fango costruito ad arte mescolando cose vere ad altre assolutamente false [sic!]… Una vera e propria operazione di sciacallaggio ai danni di un morto ammazzato e della sua famiglia [sic!]… Un libro denso di falsità e pettegolezzi o, peggio, accuse infamanti [sic!]… La nostra famiglia ha sbagliato a non querelare Petrini, ma non siamo avvocati e non sapevamo che questo avrebbe promosso a verità la menzogna cinica e calcolatrice [sic!]…”».
«La Kaos edizioni e gli eredi Petrini respingono le vere e proprie assurdità, gratuite e offensive, scritte dai nipoti di Denis Bergamini il 24 giugno 2022. Assurdità – concludono – che neppure il dolore connesso a una vicenda drammatica come il delitto Bergamini può giustificare».
Processo Bergamini, galeotto fu il libro. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 23 Giugno 2022.
Più che per la qualità delle testimonianze rese in aula, la diciannovesima udienza del processo Bergamini passerà agli annali della cronaca per le scintille, sempre più incendiarie, tra i difensori di Isabella Internò, in particolare l’avvocato Angelo Pugliese, e il suo collega di parte civile Fabio Anselmo. Quest’ultimo ha lamentato infatti «uno sfregio alla memoria di Denis» che, a suo avviso, si stava consumando in aula; ma l’intervento distensivo del presidente Paola Lucente –
«Questo non lo avremmo mai consentito», seppur tempestivo, non è riuscito a placare gli animi. Per tutta risposta, infatti, Pugliese gli ha urlato contro, accusandolo di istigare l’opinione pubblica contro di lui: «Se succede qualcosa a me o all’avvocato Rossana Cribari – ha affermato testualmente – la colpa è sua». La rabbia è esplosa in modo deflagrante intorno alle 15, mentre era in corso la deposizione di Giuseppe Maltese, già massaggiatore del Cosenza calcio nonché uno dei migliori amici di Denis. Pugliese, in sede di controesame ha chiesto ai giudici di poter leggere al testimone alcuni passi del libro “Il calciatore suicidato” di Carlo Petrini (Kaos ed.), il testo che vent’anni fa riaccese i riflettori sulla vicenda. In quel volume, infatti, c’è un’intervista da lui rilasciata all’autore, un dialogo in cui Maltese, fra le altre cose, traccia un profilo caustico di Bergamini – da lui definito «troppo ingenuo» e per questo preso di mira da alcuni compagni di squadra – e insinua anche sospetti su un suo consumo di spinelli.
Inizialmente il massaggiatore non smentisce queste dichiarazioni, e oggi motiva quella scelta adottata nel 2001 con la volontà di non infierire sullo scrittore già malato (Petrini morirà nel 2012); la sua smentita parte solo nel 2017, in fase d’indagini, e ieri Pugliese ha cercato di metterlo nuovamente a confronto con quei suoi pensieri apocrifi. Anselmo si è opposto, ma il presidente della Corte ha dato via libera alla lettura in aula, tant’è che il diretto interessato ha poi confermato buona parte dell’intervista a eccezione dei passaggi più scabrosi: quello sulla droga e l’altro relativo alla scarsa considerazione che gli altri calciatori avrebbero avuto di Bergamini. Nel bel mezzo, però, è arrivata la reprimenda del patron di parte civile e l’esplosione d’ira del suo avversario processuale che ha paventato denunce contro il collega ferrarese, chiedendo la trasmissione in Procura del verbale d’udienza.
Non si è trattato di una scossa isolata, dal momento che il fuoco cova sotto le ceneri fin dall’inizio del processo. Non a caso, altre fibrillazioni si erano registrate nelle precedenti udienze, con lo stesso Anselmo che, addirittura, aveva reso noto un episodio a dir poco inquietante che lo avrebbe riguardato: «Mi è stato prospettato il rischio che io potessi avere un incidente stradale nelle trasferte in automobile tra Ferrara e Cosenza, aggiungendo che sarei dovuto stare attento, con il relativo commento che non ne sarebbe valsa la pena», aveva dichiarato al giornale “La Nuova Ferrara” lo scorso 19 marzo; parole che, visti i temi del processo in corso, sembrano quasi ammiccare all’esistenza di un metodo tutto cosentino nel travisamento degli omicidi. Non sappiamo se, in quel caso, alla denuncia a mezzo stampa ne abbia fatto seguito pure una a carabinieri o polizia, ma l’episodio conferma comunque come il dibattimento in aula si svolga in un clima tutt’altro che cavalleresco.
Prima di Maltese, sulla scomoda sedia aveva preso posto Francesco Marino, il compagno di squadra di Bergamini al quale la Internò telefonò la sera del 18 novembre. «Mi disse: non sai niente? Denis è morto. Ma non era disperata, non piangeva», ha affermato l’ex terzino rossoblù. Procura e parte civile hanno provato a esplorare il tema dell’apparente distacco emotivo della ragazza che, secondo il calciatore «non era fredda, sembrava volesse raccontarmi solo il fatto». Marino era la quinta persona con cui parlava quella sera. Prima di lui, infatti, si era sfogata con il camionista, con un automobilista di passaggio, con l’allenatore Luigi Simoni e con la propria mamma. Quest’ultima non fa testo, ma tutti gli altri, in tempi e modi diversi, hanno rappresentato lo stato di shock e di prostrazione in cui versava. Prossima udienza l’otto luglio.
Caso Bergamini, tre secondi per la tragedia: la perizia tecnica del 1989. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 15 Giugno 2022.
Uno degli aspetti del caso Bergamini ritenuti più misteriosi, forse il più misterioso, rimanda alla dinamica dei tragici eventi di Roseto Capo Spulico del 18 novembre 1989. Da anni, infatti, i seguaci della tesi del complotto omicida evidenziano a spron battuto l’impossibilità che l’impatto con un camion delle dimensioni di quello guidato da Raffaele Pisano, lasci sulla vittima solo i segni determinati dalla ruota dell’automezzo.
E invece è ciò che sarebbe avvenuto: non un osso rotto, non una ferita significativa refertata su altre parti del cadavere del calciatore, compreso il volto rimasto pressoché intatto, tutti elementi che stridono anche con il dato di un corpo che si vuole trascinato sull’asfalto per almeno 49 metri.
Ecco, la dinamica di ciò che accade quella sera è, a ben vedere, la cifra stessa del mistero per gli inquirenti di oggi. Non lo era, però, per quelli del 1989, che a loro disposizione avevano una perizia redatta da Pasquale Coscarelli, esperto in infortunistica stradale e consulente tecnico nominato dall’allora pm Ottavio Abbate. Si tratta di un atto poco appariscente dal punto di vista mediatico, ma forse determinante per la comprensione dei fatti.
Coscarelli, infatti, si reca sul luogo dell’incidente il 28 novembre, dieci giorni dopo, per documentare lo stato dei luoghi e, aiutandosi con le foto scattate nell’immediatezza, avanza una possibile ricostruzione di ciò che accadde al km 401 della Strada statale 106.
A suo avviso, Bergamini è «in posizione eretta» quando gli piomba addosso il pesante automezzo che procede a una velocità molto ridotta – fra 30 e 35 km all’ora – e in fase di ulteriore decelerazione. Proprio il moto lento del camion fa sì, secondo il perito, che non si verifichino le conseguenze tipiche di un investimento, con il corpo abbattuto al suolo o sbalzato in avanti.
Nulla di tutto ciò invece, con il povero Bergamini che viene letteralmente sollevato da terra, caricato sulla parte frontale del camion e sospinto in avanti «senza proiezione o lancio balistico». A quel punto, però, Pisano ha già il piede sul freno, e così dopo pochi metri – 15 o 18 al massimo – riesce ad arrestare la marcia, è a quel punto che il corpo di Bergamini viene rilasciato al suolo, proprio mentre la ruota anteriore destra compie un mezzo giro in avanti e gli schiaccia l’addome. Tutto si sarebbe consumato nel giro di due secondi, al massimo tre.
«Poteva addirittura salvarsi, poteva anche salvarsi» dirà due anni con tono di rimpianto Antonino Mirabile, pretore nel processo per omicidio colposo contro Raffaele Pisano. Sì, avrebbe potuto, ma purtroppo il destino aveva in serbo un finale diverso. Secondo il perito, dunque, sì spiega così il «sormontamento parziale di un corpo disteso sull’asfalto», e non certo perché quel corpo fosse a terra in quanto già privo di vita. E non solo.
All’epoca, Coscarelli risolve anche l’enigma trascinamento sì, trascinamento no. La risposta è che non vi fu alcun trascinamento. Questo è solo un equivoco generato a caldo da un errore veniale del brigadiere Francesco Barbuscio, che quella sera esegue i primi rilievi del caso su una scena già inquinata, al buio e sotto la pioggia.
Il carabiniere nota sull’asfalto una frenata di 49 metri e l’attribuisce all’incidente appena avvenuto, poi alcune ore più tardi va in caserma con il camionista e compila il suo primo verbale di sommarie informazioni, quello in cui l’allora cinquantenne rosarnese dichiara di aver trascinato il corpo di Denis.
«Mi sono conformato a quello che diceva il brigadiere» spiegherà in seguito Pisano, ma quella strisciata non presenta tracce di sangue, solo di pneumatico. Impossibile che abbia a che fare con la tragedia, Coscarelli lo rappresenta a Barbuscio che, correttamente, conviene e mette a verbale: «Frenata di attribuzione dubbia».
Nel 1991, durante il già citato processo contro Pisano, il consulente di Abbate tornerà poi sul capitolo posizione del corpo: Bergamini era ancora in piedi o già disteso al suolo? La domanda gliela pone proprio in questi termini il difensore del camionista, l’avvocato Giacomo Saccomano, ai tempi in cui nessuno fra giudici, pubblici ministeri e avvocati (anche quelli di parte civile) pensa anche lontanamente che possa essersi trattato di un omicidio.
E quindi Bergamini era già a terra o in posizione eretta? Coscarelli non ha dubbi: era certamente in piedi perché in caso contrario Pisano «non lo avrebbe avvistato in tempo», «non avrebbe avuto la reazione istintiva di frenare e di evitare un investimento», non ne avrebbe avuto «lo spazio né il tempo», morale della favola: «Lo avrebbe travolto». Trent’anni dopo arriverà la medicina legale della dottoressa Carmela Buonomo a mettere in discussione la logica, ma questa è un’altra storia.
Caso Bergamini, la superteste e la paura di "laggiù". MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud l'1 Giugno 2022.
La supertestimone del processo Bergamini che non si presenta in aula perché «ha paura» è uno spettro che si aggira in Corte d’assise dallo scorso gennaio, cioè da dal giorno in cui la programmata audizione di Tiziana Rota, moglie dell’ex calciatore Maurizio Lucchetti, salta ufficialmente per motivi di salute della diretta interessata. In quel caso, a paventare il sospetto che le ragioni della sua assenza siano ben altre, è il pm Luca Primicerio, e da allora quel suo pensiero esternato ad alta voce – «Ritengo abbia paura» – ha continuato ad aleggiare in aula, udienza dopo udienza, fino allo scorso 26 maggio, quando la donna ha marcato nuovamente visita; stavolta, però, allegando una documentazione clinica dal contenuto in apparenza inoppugnabile.
La Rota non sta bene per davvero, come certificano diversi medici, dando atto che è sotto osservazione psichiatrica e in condizioni tali da non poter testimoniare, a loro avviso né ora e né mai.
Ma di chi o di cosa ha paura Tiziana Rota? E perché le sue parole sono ritenute così importanti? Lombarda d’origine e coniugata con l’allora compagno di squadra di Denis, nel suo biennio di permanenza in Calabria sostiene di aver stretto un rapporto confidenziale, se non di amicizia, con l’attuale imputata. A novembre del 1989, lei e suo marito si sono già trasferiti a Salerno, ma in occasione di una loro comparsata in città, qualche giorno prima della data fatidica del 18, Tiziana avrebbe incontrato la Internò davanti a una pasticceria di Rende, raccogliendo il suo sfogo sulla fine della relazione con Bergamini. «Se non può essere mio, meglio che muoia», avrebbe vaticinato Isabella e, al sopraggiungere dei due cugini, sempre lei avrebbe aggiunto: «Zitta, che se sanno che mi ha lasciata lo ammazzano per davvero». Addirittura due possibili moventi in un colpo solo, dunque, confidenze che la moglie di “Lucky gol” tiene segrete per circa vent’anni salvo poi affidarle, nel 2010, all’avvocato Eugenio Gallerani, il vecchio legale della famiglia Bergamini allora impegnato a tentare di far riaprire il caso.
Va da sé che l’allora procuratore di Castrovillari Franco Giacomantonio attribuirà un peso molto relativo a tutte le testimonianze fiorite da 2010 in poi, compreso il discorso della pasticceria, e che le stesse, invece, diventeranno oro colato per i suoi successori; differenze di vedute a parte, un approccio problematico alle affermazioni della signora Lucchetti sembrano consigliarlo anche le intercettazioni più recenti. Proprio lei, infatti, a colloquio con Donata Bergamini nel 2017 le dice di aver pensato «già dal giorno successivo» che a uccidere suo fratello fosse stata Isabella, parole che stridono con le scelte operate nell’immediatezza, a gennaio del 1990, quando lei e suo marito decidono di ospitare la Internò nella loro nuova dimora, a Vietri sul Mare, per «farla distrarre un po’». Strano contegno, visto che la consideravano un’assassina.
A ciò si aggiungono altre captazioni dalle quali affiora il dubbio che la sua «paura», quella a cui in seguito farà riferimento Primicerio, sia anche una suggestione determinata da pregiudizi ancestrali. A colloquio con Sergio Galeazzi, un altro ex calciatore, la Rota sbotta: «Non ho detto tutto. E non dico più niente perché ho paura». Ma paura di che? «Delitto d’onore! Lo sappiamo tutti com’è andata», e aggiunge di aver comunque informato Donata Bergamini delle informazioni inedite in suo possesso. Proprio alla sorella di Denis, Tiziana manifesta i suoi timori in un dialogo successivo: «Paura, insomma, la paura, sapete come vanno le cose giù al Sud», concetto ripreso poi a colloquio con un giornalista che la cerca per una comparsata in tv: «Laggiù avevo paura» dice, rievocando il suo biennio cosentino. «Laggiù mi faceva paura la vita, difatti non so voi con che coraggio ci andate».
Dopo aver preso atto della sua impossibilità a essere presente in aula, sia i giudici che la pubblica accusa hanno convenuto sull’opportunità di mettere Tiziana Rota e Maurizio Lucchetti – il suo caregiver – in coda all’elenco dei testimoni (devono esserne sentiti ancora poco meno di duecento) nella speranza che la salute della donna migliori; in caso contrario, si aprirà una disputa sull’acquisizione delle sue dichiarazioni.
Caso Bergamini, quel “pasticciaccio” all’obitorio: le verità inedite sull’autopsia. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2022.
Ci sono un carabiniere, un medico e un pubblico ministero nella morgue di Trebisacce. Non è l’incipit di una barzelletta lugubre, ma il secondo atto di una tragedia. È il 19 novembre del 1989, e i tre non sono soli in quello stanzone d’ospedale: con loro c’è anche un corpo privo di vita, quello di Donato Bergamini, deceduto la sera prima sulla Ss 106, all’altezza di Roseto Capo Spulico, sotto la ruota anteriore destra di un camion in transito.
La mattina successiva è in corso l’ispezione cadaverica e il dottor Antonio Raimondi detta il referto che il maresciallo Carbone trascrive su carta intestata della Procura sotto la supervisione del pm Ottavio Abbate. Sembra una pratica routinaria, ma trentatré anni dopo si trasforma in un gioco degli equivoci fino a diventare un nuovo capitolo del mistero. Ieri, infatti, Carbone e Raimondi si sono ritrovati in tribunale sulla scena del processo contro Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore oggi accusata di aver inscenato il suo investimento per coprire quello che in realtà è stato un omicidio premeditato. In sintesi, uno strangolamento «soft» mascherato da suicidio.
E secondo la Procura attuale, anche quel documento medico-legale redatto all’indomani della morte dell’atleta può far parte della presunta macchinazione. La sponda l’ha offerta proprio Raimondi nel 2017, perché sentito dalla polizia giudiziaria nega di aver partecipato a quell’accertamento. «Non sono un anatomopatologo, quella che leggo non è una terminologia che mi è propria» disse all’epoca, e lo ha ribadito anche ieri in aula.
All’epoca prestava servizio al Pronto soccorso, un piano in su rispetto all’obitorio, e sostiene di essere stato chiamato da «un inserviente forse» perché «alcune persone importanti» volevano parlare con lui. Bergamini, dice di averlo visto solo di sfuggita, ma di non averlo toccato, né di aver eseguito ispezioni sul suo cadavere. Cosa c’è scritto allora quel verbale di ispezione? Il pm formula dei quesiti relativi al possibile orario della morte nonché alle cause, e il medico risponde: «Arresto cardiocircolatorio» determinato dall’investimento del mezzo pesante. Su quel verbale si da atto poi di aver tastato la mano di Denis – la cosidetta digitopressione – per valutare la natura delle ipostasi e, dopo un accenno alla rigidità degli arti inferiori, si parla della presenza di «politraumi in diverse parti del corpo».
Per Raimondi, nulla di tutto ciò, considerato che lui Bergamini sostiene di averlo visto appena ma di non averlo mai sfiorato. L’audizione di Carbone non ha diradato le ombre, anzi le ha addensate. L’ex comandante della stazione di Trebisacce, interrogato anche lui nel 2017, disse di ricordare che quel giorno, con lui e Abbate, c’era proprio Raimondi, ma ieri non era più così sicuro. «Forse si attendeva l’arrivo di un medico legale da Bari».
È tornato poi alla versione iniziale, ribadendo come anche a suo avviso nessuno dei presenti abbia messo le mani su quel corpo. Il confronto all’americana fra i due, disposto dalla Corte d’assise, non ha risolto il dilemma, ragion per cui su richiesta dei difensori della Internò, i giudici hanno convocato d’urgenza Abbate. «Non comprendo le ragioni per le quali si dovrebbe dubitare dell’autenticità di questo documento» ha detto fra le altre cose, rispondendo alle domande che accusa, difesa e parte civile gli hanno sottoposto a turno.
Nei suoi ricordi, quell’ispezione cadaverica fu disposta per decidere se eseguire in seguito l’autopsia. Il responso fu negativo perché «non c’era alcun elemento per dubitare che i fatti fossero andati diversamente da come li avevano raccontati i testimoni», e a ciò si aggiungevano anche una serie di evidenze, prima fra tutte il corpo di Denis ridotto in quello stato.
L’addome confuso con il torace, traumi descritti come «multipli» che invece erano localizzati solo nel punto in cui la ruota sormontò il corpo, l’assenza della firma di Raimondi sul verbale (erano presenti però tutti i suoi dati anagrafici, indirizzo di residenza incluso): a questi dettagli si sono richiamati accusa e parte civile per metterlo in difficoltà, ma a loro l’ex pm ha ricordato che «un mese dopo – in realtà erano trascorsi solo nove giorni, ndr – diedi disposizioni di effettuare l’autopsia, anche perché l’opinione pubblica si poneva molte domande, la posizione della famiglia Bergamini era mutata, e non volevo che quel mancato accertamento fosse percepito come un intralcio alla giustizia. A garanzia di ulteriore trasparenza, delegai però il pm di Ferrara, luogo di residenza della famiglia Bergamini».
Sarà il Tribunale ferrarese, in seguito, a nominare il consulente medico, e ea da sé che in presenza di un esame autoptico il verbale d’ispezione cadaverica diventi già all’epoca un documento superato; dopo più di trent’anni non è più così. «Ma per quale ragione poi si dovrebbe dubitare della sua autenticità?» ha ribadito Abbate, ed è una domanda alla quale nessuno osa rispondere, soffia ancora in aula e nel vento. E a proposito di autopsia: il testimone ha fatto accenno anche a una conversazione intrattenuta a caldo con Domizio Bergamini, il papà di Denis, che in presenza dell’allora presidente della società del Cosenza, Antonio Serra, gli avrebbe chiesto di non effettuare quell’esame sul corpo di suo figlio.
Una circostanza contestata dall’avvocato Fabio Anselmo: «Non voleva che fosse eseguita a Castrovillari?» ha domandato il legale di parte civile, ma al riguardo Abbate ha citato testualmente le parole dell’ormai defunto genitore: «Dottore, se avete deciso di fare l’autopsia, non fatela. Evitatemi questo strazio». Nel 1989 Ottavio Abbate era l’unico magistrato inquirente in servizio a Castrovillari, città all’epoca orfana di un procuratore della Repubblica. Non ha una scorta, ma ciò non gli impedisce di guidare la prima inchiesta antimafia che porta all’arresto e poi alla condanna di Giuseppe Cirillo, allora boss indiscusso della Sibaritide e collegato alla camorra di Cutolo. In seguito diventerà presidente del tribunale di Sala Consilina e poi di quello del Pollino. È in pensione dal 2016.
Processo Bergamini. Castagnini, i "No" di un capitano. Tirato in ballo da un calciatore nelle intercettazioni, nega di essersi venduto le partite, "Mai fatto, ne vado fiero". MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud 23 Giugno 2022.
Era il capitano di quel Cosenza che in due anni sfiorò il doppio salto dalla serie C alla A e, trenta e passa anni dopo, Renzo Castagnini è dovuto tornare con la memoria a quella stagione calcistica indimenticabile, esplorandone però il capitolo più triste: la morte del suo compagno di squadra Donato Bergamini.
Lo ha fatto da testimone, convocato anche lui sulla scena del processo contro Isabella Internò, l’ex fidanzata di Denis oggi accusata di omicidio premeditato e volontario. Isabella, la ragazza di Rende che piange disperata davanti alla bara del suo amato e che riceve una carezza di conforto proprio da Castagnini; un gesto immortalato dai fotografi dell’epoca, che segna la vicinanza di un momento lontano e irripetibile. Ieri, infatti, i posti in aula assegnati a entrambi dal destino erano molto più distinti e distanti: sul banco dei testimoni lui, su quello degli imputati lei.
«Non frequentavo Bergamini fuori dal campo di gioco – ha ricordato l’ex centromediano oggi 66enne – e più in generale non frequentavo i calciatori scapoli, essendo già sposato e con una figlia. Sapevo che lui e la Internò erano fidanzati, ma non ho mai parlato con loro di questioni relative al loro rapporto. Li vedevo come due ragazzi giovani che stavano insieme e basta».
Gli inquirenti lo hanno sentito una prima volta nel 1989, a ridosso della tragedia; poi nel 2012 e ancora nel 2017, periodo in cui è stato anche intercettato. Sul dramma di Roseto, però, Castagnini ha sempre avuto ben poco da dire, e ieri non ha fatto eccezione alla regola, tanto da sottrarsi persino alla domanda più ricorrente del processo, quella che il pm Luca Primicerio propone a un po’ tutti i testimoni interpellati: «Che idea si è fatto della morte di Bergamini? Ritiene possibile che si sia suicidato?». Risposta: «Non compete a me farmi un’idea, non mi piace giudicare».
Le “chiacchiere dei giornali” però, quelle neanche lui ha potuto ignorarle. E così, nel 2017 a colloquio con gli investigatori, un’idea al riguardo mostra di essersela fatta, un pensiero che ha rinverdito ieri in aula: «Pensai a una disgrazia, a un gesto spericolato di Denis. Ho in mente un giorno trascorso con lui in piscina e ricordo i suoi tuffi molto temerai dal trampolino. Aveva una grande coordinazione, e lo invidiavo per questo».
Il tuffo in piscina che ritorna, la stessa rappresentazione della tragedia di Roseto fatta dalla Internò che, anche per aver sempre evocato questa immagine ritenuta inverosimile, se non impossibile, si ritrova oggi inchiodata alla croce giudiziaria. Isabella ne parlò nell’immediatezza con Castagnini? Interiorizzò questa suggestione? Un tema tralasciato da accusa e difesa che hanno seguito, invece, copioni paralleli durante i rispettivi esami e controesami.
L’aspetto emotivo in primo piano per Primicerio, ovvero l’ultimo allenamento, il giorno della morte: «Era carico e motivato – ha ribadito Castagnini – e spronava me e i compagni a vincere la partita, il giorno successivo, per tirarci fuori da una classifica non buona».
E poi, il calcioscommesse, argomento sul quale l’attuale direttore sportivo del Palermo, con un trascorso da capo scout della Juventus, ha inteso mettere le cose in chiaro: «Sono nel mondo del calcio da 47 anni, e mai nessuno si è avvicinato a me chiedendomi di alterare il risultato di una partita. Ne vado fiero».
Al riguardo, il pubblico ministero l’ha toccata piano; la difesa, invece, ha usato la scimitarra. Non a caso, l’avvocato Angelo Pugliese gli ha letto le intercettazioni di alcuni suoi compagni di squadra – il portiere Luigi Simoni in primis – che gettano sospetti in materia proprio su di lui.
«Ero in attività mentre due grandi inchieste sul Totonero facevano il loro corso senza che io sia mai stato coinvolto in alcun modo» è stata la risposta più articolata. Per il resto, a domande più esplicite, i suoi “No” secchi e ripetuti sono rimbombati più volte nel silenzio della Corte d’assise. Con le sorelle Brunella e Paola Ricci si è cambiato decisamente argomento. Titolari di un ristorante all’epoca molto frequentato da calciatori e dirigenti del Cosenza – lo “Steak house” di Laurignano – ebbero il privilegio di avere Bergamini a cena, due volte a casa e una nel locale.
Quest’ultimo episodio risale all’inizio di novembre del 1989, e il ricordo che specie una delle due sorelle ha di quella sera è di un Bergamini “pensieroso”, “triste”, “con gli occhi bassi”, quasi “assente”. L’anno precedente una di loro ci è uscita insieme un paio di volte, qualche giro in auto a Commenda, ma poi «ho saputo che era fidanzato e la cosa non è andata avanti».
Giuliana Tampieri, invece, è la donna all’epoca ventitreenne che trascorre con lui la notte del 12 novembre 1989, all’hotel Hilton di Milano dopo la trasferta del Cosenza a Monza. «Lo conoscevo da quando avevo diciotto anni, veniva con il padre a mangiare nella trattoria in cui lavoravo come cameriera. Gli piacevo, ma io non ero interessata a lui. L’ho rivisto anni dopo, a settembre del 1989, quando è venuto a trovarmi un po’ a sorpresa. Qualche mese prima era deceduto il mio fidanzatino dell’epoca e probabilmente lui lo aveva saputo».
Denis la invita in Lombardia e poi trascorre la serata con lei, parlano di argomenti leggeri e “banali” e poi prendono due camere separate. «Non ci ha provato, è stato sempre molto rispettoso. Solo dopo la sua morte ho appreso che aveva una fidanzata a Russi, ma se lo avessi saputo prima non sarei neanche andata a Monza».
Infine, Stefano Benanti, oggi finanziere a Rimini ma in quei giorni talento della giovanile del Cosenza a volte aggregato alla prima squadra. Bergamini lo ricorda come un «combattente in campo», ma poco loquace con lui a differenza di altri come Michele Padovano e Claudio Lombardo. A Benanti, Denis darà un passaggio a casa il giorno prima di morire, un viaggio descritto così dal diretto interessato: «Era più taciturno del solito, non scambiammo neanche una parola». Mezza, invece, la scambia con Isabella dopo il fattaccio, dopo averla incontrata casualmente in città: «Mi ripeté in modo succinto che Denis voleva andarsene dall’Italia, che scese dall’abitacolo e si allontanò dall’auto. Non ricordo se mi disse di aver assistito al suo investimento o se lo perse di vista proprio nell’attimo in cui passò il camion».
Caso Bergamini, escono dall'inchiesta il camionista e il marito della Internò. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 15 maggio 2022.
I LORO nomi sono rimasti due anni nel registro degli indagati e per un altro triennio nel limbo, fra coloro i quali son sospesi. Ora, però, Luciano Conte e Raffaele Pisano escono dall’inchiesta sulla morte di Donato Bergamini con un provvedimento d’archiviazione che era già nell’aria da tempo, ma per la cui ufficialità entrambi hanno dovuto attendere un bel po’. Ora però c’è anche quella, perché alla richiesta avanzata lo scorso febbraio dal pm Luca Primicerio si è aggiunto il provvedimento del gip Simone Falerno.
Diverso era il grado di coinvolgimento nella vicenda dei due ex indagati per come ipotizzato dagli inquirenti. Conte, poliziotto in quiescienza, è il marito di Isabella Internò, la donna accusata dell’omicidio del calciatore, e a sua volta era sospettato di favoreggiamento. Nel suo caso, gli investigatori erano andati a ripescare un’intercettazione del 2012, risalente ai tempi della precedente inchiesta poi archiviata. Si tratta di un’ambientale fra lui e la consorte, captata nella sua automobile, di poco precedente all’appuntamento che, in quei giorni, Isabella ha con l’allora procuratore Franco Giacomantonio. Non è ancora formalmente indagata per la morte del suo ex fidanzato e sarà sentita in Procura come semplice testimone; in previsione di quell’evento il marito le dà alcuni suggerimenti sul contegno da tenere durante l’interrogatorio. Le consiglia di abbondare con i «non ricordo» nelle sue risposte, considerato che sono passati 23 anni dalla morte di Bergamini e, probabilmente, da poliziotto, teme che dall’altra parte ci siano persone pronte ad appigliarsi a ogni piccolo dettaglio per poterlo poi utilizzare contro di lei.
Non sarà così, tant’è che gli inquirenti dell’epoca non scorgono la presenza di alcun reato in quella conversazione, a differenza dei loro successori che, nel 2018, procederanno per favoreggiamento. Un’ipotesi di reato già prescritta all’epoca, figuriamoci nel 2022, fatto sta che è proprio all’intervenuta prescrizione che si richiama Primicerio per motivare la richiesta di archiviazione.
Tutt’altro discorso per Pisano. Il camionista che investì Denis era sotto inchiesta per concorso in omicidio; già giudicato (e assolto) nel 1992 quando l’accusa era di omicidio colposo, non avrebbe potuto comunque essere processato una seconda volta per gli stessi fatti. Non è questo, però, il motivo per cui è uscito di scena. Già la polizia giudiziaria, nel 2019, era stata costretta ad ammettere che il suo coinvolgimento nei fatti di Roseto Capo Spulico del 18 novembre 1989 è puramente incidentale: passava di lì per caso.
Primicerio riprende le conclusioni di quell’informativa e propone una formula dubitativa: «I fatti esposti non consentono di sostenere efficacemente in dibattimento l’ipotesi del suo coinvolgimento nell’omicidio», ma i termini utilizzati dal gip per archiviare la sua posizione suonano in modo più netto: «Non si rileva un suo fattivo coinvolgimento nella verosimile messinscena del suicidio del Bergamini». L’uscita di scena del rosarnese pone ora una serie di dubbi procedurali sulla posizione che lo stesso assumerà nel processo in corso contro la Interò. Pisano, infatti, è inserito nella lista dei testimoni di accusa e difesa, e il suo status di persona già imputata in un procedimento connesso, suggerisce che debba essere sentito in aula assistito da un avvocato di fiducia. E soprattutto che gli sia concesso di avvalersi anche della facoltà di non rispondere. Una diversa interpretazione del Codice, rimanda a un’altra possibilità. Il suo “ne bis in idem”, il fatto che non possa essere processato due volte per lo stesso reato, esclude anche l’eventualità di una sua possibile e futura incriminazione, in tal caso da testimone (con o senza avvocato) avrebbe l’obbligo di rispondere.
Un dilemma che sarà risolto quando arriverà il suo turno in aula, appuntamento che la Procura evidentemente non ritiene così urgente nonostante l’uomo abbia già compiuto 84 anni e di tutta la vicenda sia un po’ il testimone chiave. Non a caso, sono state celebrate già sedici udienze del processo e di convocazioni, per lui, ancora neanche l’ombra.
Processo Bergamini: la rivincita del "gruppo Z", sentiti i carabinieri che nel 2011 ipotizzarono il delitto d'onore. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 09 maggio 2022.
All’epoca, Donata Bergamini li ribattezza “Gruppo Z”, nulla a che vedere con Putin, semmai con i cavalieri dell’apocalisse: ritiene, infatti, che quei carabinieri siano gli ultimi che indagheranno sulla morte di suo fratello Denis. Correva l’anno 2011, e in seguito la cronaca le darà torto. L’inchiesta sui fatti del 18 novembre 1989 alla quale partecipa anche il suddetto Gruppo sarà archiviata, ma di lì a poco la palla passerà ad altri investigatori che chiederanno (e otterranno) il rinvio a giudizio di Isabella Internò per l’omicidio volontario dell’allora calciatore del Cosenza. Un delitto che si ritiene maturato per motivi passionali – «l’onore» – nell’alveo della famiglia della ragazza, ex fidanzata della vittima, che a ben vedere era proprio la tesi portata avanti dal cosiddetto “Gruppo Z”.
Anche per questo, stamane sulla scena del processo si è consumata la piccola rivincita di quei carabinieri. Due di loro, il luogotenente Roberto Redavid e il maresciallo Fabio Lupo, sono stati convocati per ripercorrere l’informativa da loro redatta nel 2012, ai tempi in cui agivano su delega del procuratore Franco Giacomantonio.
Il pubblico ministero d’udienza li ha impegnati a ripercorrere un po’ tutti gli accertamenti da loro svolti, ed è venuto fuori come i temi trattati fossero quelli poi ripresi in toto dai loro successori: la gelosia di Isabella, l’aborto della ragazza come spartiacque del rapporto sentimentale fra lei e il calciatore, l’assenza di ragioni valide per cui quest’ultimo potesse togliersi la vita, l’esclusione di piste alternative quali la droga, il calcioscommesse, il crimine organizzato. Va da sé che tra i compiti a loro demandati vi fosse la ricerca di nuove prove, alcune attività intercettive, l’acquisizione di documenti e testimonianze, ma non certo una possibile ricostruzione di dinamica e movente del presunto omicidio, circostanza che porterà poi Giacomantonio a contestare loro di essersi «avventurati in valutazioni che esulavano dalle loro prerogative» o di aver «azzardato congetture articolate su ipotesi di verosimiglianza e plausibilità autoreferenziale».
Acqua passata, perché dieci anni dopo le loro tesi hanno trovato cittadinanza in un’aula di tribunale. Il loro esame è stato lungo e articolato, a tratti ridondante, considerato che sugli stessi temi si erano già espressi i loro successori, autori dell’informativa più recente nel 2017, ma tant’è: quello in corso davanti ai giudici della Corte d’assise presieduta da Paola Lucente (con Marco Bilotta a latere) è anche un processo di logoramento oltre che di trincea.
Non è mancato il momento spettacolo, con la richiesta avanzata dalla Procura di ascoltare in aula un’intercettazione ambientale del 2011 fra Isabella e suo marito Luciano Conte, tentativo poi abortito a causa della pessima qualità dell’audio. In conclusione, Lupo e Redavid hanno sgomberato il campo dalle ombre che aleggiavano da anni sul loro trasferimento decretato proprio dopo la consegna dell’informativa. Nessuno ha voluto fermarli, erano in rotta con la loro scala gerarchica per altri motivi, tant’è che in precedenza avevano persino denunciato i propri superiori, gli stessi che nonostante gli animi tesi li avevano poi messi a indagare sul caso Bergamini. Mercoledì, intanto, si torna in aula.
Processo Bergamini, il Covid blocca le udienze. Anselmo contagiato chiede e ottiene il rinvio, ma i testi erano comunque assenti congedati dalla Procura già prima della decisione del giudice. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 28 aprile 2022.
Il Covid fa capolino sulla scena del processo Bergamini, rallentando così le operazioni in aula. Lo aveva fatto già una volta, a scapito di qualche giudice popolare, ma oggi la storia si è ripetuta.
A essere contagiato, stavolta, è stato l’avvocato Fabio Anselmo, patron di parte civile, e dato che tutti i suoi collaboratori sono finiti in quarantena, nell’impossibilità di nominare sostituti processuali, ieri mattina il legale ferrarese ha inviato in extremis alla Corte d’assise una richiesta di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento.
Stamane i giudici avrebbero dovuto decidere se accogliere o meno l’istanza, e considerato che la presenza in aula della parte civile non è considerata vincolante, l’esito non era poi così scontato. Si è optato poi per un rinvio, ma la singolarità di questa vicenda è che anche in caso di parere contrario dei giudici, la seduta sarebbe saltata lo stesso.
Questo perché, sempre nel pomeriggio di mercoledì, la Procura di Castrovillari ha contattato telefonicamente i testimoni in scaletta, comunicando loro di non presentarsi in aula. «Visto che sono persone un po’ in avanti con l’età», si è giustificato il pubblico ministero d’udienza che, evidentemente, dava per scontato l’esito della querelle.
In tutto ciò la difesa di Isabella Internò ha lamentato di non essere stata messa al corrente delle manovre in atto, ma di averlo appreso solo a babbo morto. In aula non c’erano gli avvocati Angelo Pugliese né Rossana Cribari, messi fuori gioco da impedimenti di natura privata e professionale, ciò nonostante da parte loro non era arrivata alcuna richiesta di rinvio dell’udienza. Pronti a dare battaglia fra i banchi c’erano i loro sostituti Giuseppe Lanzino e Pasquale Marzocchi, e proprio loro hanno rilevato «l’irritualità» delle fasi che hanno portato al rinvio, pretendendo che le loro osservazioni fossero messe a verbale.
È finita lì, senza strascichi ulteriori perché il presidente Paola Lucente ha chiuso la questione, annullando anche l’udienza in programma domani per dare appuntamento a tutti il prossimo 9 maggio. Covid permettendo. Quel giorno, dunque, saranno sentiti i testimoni rimasti in sospeso, tre dei quali ritenuti molto importanti dalla parte civile. Non a caso, le persone convocate in aula da Anselmo dovrebbero introdurre il tema dei «depistaggi» che per l’avvocato della famiglia Bergamini incombono su questa storia.
Il dottor Antonio Raimondi è il medico dell’ospedale di Trebisacce che il 18 novembre del 1989 esegue la ricognizione cadaverica sul corpo di Denis alla presenza dell’allora pm Ottavio Abbate e di un ausiliario dei carabinieri. Nel referto, breve e conciso, parla di «politraumatismi alle parti molli e alle ossa in diverse parti del corpo» e dietro queste parole, messe nero su bianco e in apparenza neutre, secondo Anselmo si cela un depistaggio. Va da sé che, sentito nel 2017 durante le indagini, Raimondi smentisca di aver eseguito quell’accertamento medico legale e di essersi limitato solo a «un’ispezione visiva» del cadavere. Perché nega? Sarà lui stesso a fare chiarezza in aula. Dopo di lui arriverà il momento dei carabinieri del Gruppo Z, così ribattezzati nel 2012 da Donata Bergamini. Confezionano loro l’informativa quando a guidare l’inchiesta c’è Franco Giacomantonio, ed è un documento matrice rispetto a quello che sette anni dopo produrrà l’ispettore Ornella Quintieri.
Non a caso è in quelle pagine che si parla per la prima volta di delitto d’onore e di un Bergamini soffocato e vittima di una cospirazione familiare, tesi all’epoca bollate dal procuratore e dal gip come «mere congetture autoreferenziali», ma che oggi, invece, rappresentano la cifra del processo in corso. Fatto sta che nel 2014, una volta completata l’informativa, il cosiddetto Gruppo Z chiede di operare ulteriori intercettazioni e raccogliere altre testimonianze, ma per Giacomantonio, già orientato ad archiviare l’inchiesta, può bastare così.
Nei giorni successivi, la rete e gli organi d’informazione interpretano così la notizia: «Trasferiti i carabinieri che indagano sul caso Bergamini». Ora se andò davvero così, lo sapremo fra qualche giorno dalla viva voce dei diretti interessati. Gruppo Z a parte, fra i testimoni non ci sarà più un carabiniere in pensione, Iconio Bagnato, che nel 1989 guidava la stazione di Rocca Imperiale. Purtroppo, è deceduto nei giorni scorsi.
Processo Bergamini, "compagni di scuola" della Internò a rischio incriminazione. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 13 Aprile 2022.
Nel film di Verdone si incontrano dopo quindici anni per una rimpatriata che si rivelerà amara. A Cosenza di anni ne passano trentadue, ma stavolta la location prescelta è il palazzo di giustizia perché una di loro è sotto accusa per omicidio volontario, quello di Donato Bergamini.
Compagni di scuola di celluloide nel primo caso, in carne e ossa nel secondo: sono gli ex ragazzi della Ragioneria di Rende, sezione B, quella frequentata negli anni Ottanta da Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore morto il 18 novembre del 1989. È finita male, proprio come al cinema, perché due di loro – Luisa Marsico e Antonio Mazzitelli – rischiano ora l’incriminazione per falsa testimonianza.
A spingere in questa direzione, chiedendo la trasmissione degli atti in Procura, sono stati il pm Luca Primicerio e il patrono di parte civile Fabio Anselmo, con i giudici che si sono riservati una decisione che, verosimilmente, sarà resa nota il 28 aprile alla ripresa dei lavori in aula.
A inguaiare la prima sono stati i tentennamenti rispetto alle dichiarazioni da lei rese prima nel 2012 e poi nel 2017, verbali nei quali la donna riferiva del contegno tenuto dalla Internò nei giorni successivi alla tragedia di Roseto Capo Spulico. “Isabella cambiava continuamente versione – ebbe ad affermare all’epoca – una volta diceva che si era tuffato, un’altra che era scivolato. Ragion per cui non mi sembrò sincera e scadette ai miei occhi come amica”.
Considerazioni personali, in verità pure innocue, che la Marsico fa all’età di diciott’anni e che rinverdisce molti anni più tardi alla polizia giudiziaria, ma che a grandi linee non si è sentita di confermare ieri in aula. “Il punto è – ha spiegato – che ho visto troppe puntate di “Quarto grado” e “Chi l’ha visto” e ho letto troppi giornali, ormai non riesco più a distinguere un ricordo vero da una notizia appresa successivamente”. Apriti cielo. Anselmo ha azzardato l’ipotesi che a condizionarla non siano stati i rotocalchi televisivi, ma “articoli di certa stampa locale”, senza precisare quali articoli. Quale stampa.
E quando poi la testimone aggiunge di aver espresso gli stessi dubbi all’ispettore Ornella Quintieri, colei che la sentì a sommarie informazioni, ecco venire giù il diluvio. “Se l’ha detto, allora perché non è stato verbalizzato?”. Primicerio e poi la parte civile l’hanno ammonita più volte, ricordandole la falsa testimonianza è un reato. “Forse non l’ho detto all’ispettore”, ammetterà alla fine l’ex compagna di Isabella.
È poi uscita in lacrime dall’aula per far posto a Mazzitelli. Prima, però, ha parlato con lui per qualche minuto nel corridoio del tribunale, attirando così le ire sul suo collega di sedia, ieri più scomoda che mai. “Cosa vi siete detti?” lo ha incalzato ancora Anselmo. “Abbiamo parlato di cucina e pulizia della casa” ha risposto prontamente il testimone. “Cerchi di essere più credibile” lo ha redarguito il presidente della Corte.
Il questionario approntato per lui ricalcava a grandi linee quello della Marsico. Isabella era innamorata di Bergamini? E lui di lei? Quando si sono lasciati? Nell’uno e nell’altro caso è emerso che la ragazza non raccontava granché della sua vita privata, ma al netto di qualche dettaglio in più raccontato nei verbali e taciuto in aula, a far scivolare Mazzitelli è stata una fotografia: la Internò e sua madre in chiesa, davanti alla bara di Denis, e alle loro spalle un uomo. “Non so chi sia” ha risposto il testimone. E riapriti cielo.
Perché il 7 dicembre del 2017, a colloquio con la Quintieri e con l’assistente capo Pasquale Pugliese, quella figura, la stessa figura, era da lui indicata come Dino Pippo Internò, il cugino di Isabella. “E quindi come fa oggi a non riconoscerlo?”. La spiegazione è immediata: “Me l’hanno detto i poliziotti che si chiamava così, io lo conoscevo solo di vista, ma trent’anni dopo non ricordavo come fosse fisicamente”.
Anche con lui il pubblico ministero è stato inflessibile. E poco importa che anche stavolta il tema del processo – il presunto delitto d’onore – non sia stato neanche sfiorato. “Chiedo la trasmissione degli atti in Procura” ha concluso Primicerio, un epilogo che ha dato spunto a Mazzitelli per una provocazione: “Sì va bene, lo riconosco. È Dino Pippo Internò”.
A quel punto, però, in aula era piovuto già abbastanza. Nessun rilievo dai difensori Angelo Pugliese e Rossana Cribari che si sono limitati a richiamare, di tanto in tanto, pm e parte civile, invitandoli a “non intimidire i testimoni”. Le parti si sono invertite. Capita spesso, anche nei migliori processi.
Processo Bergamini, in aula la foto di Denis dopo la riesumazione. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud l'8 aprile 2022.
L’immagine del volto di Donato Bergamini, così come si presentava dopo la riesumazione eseguita a 47 giorni dalla sua morte, ha fatto capolino stamane in Corte d’assise, dove si celebra il processo contro Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore oggi accusata di omicidio volontario.
A mostrarlo in aula è stato il pm Luca Primicerio a corredo della testimonianza di Massimiliano De Pasquale, un ultrà del Cosenza che la sera del 18 novembre 1989, dopo aver appreso di quanto avvenuto a Roseto Capo Spulico, si mette in auto e insieme ad altri tifosi raggiunge il luogo della tragedia, cento km più a nord rispetto alla città capoluogo. Fa tappa anche all’ospedale di Trebisacce dove, nel frattempo, è stato trasportato il corpo del calciatore che vede disteso sul tavolaccio e coperto da un lenzuolo. “Aveva un ematoma di forma circolare sulla tempia, non ricordo se a destra o sinistra, ma sembrava una moneta” ha ricordato De Pasquale durante la sua testimonianza.
È una delle tante suggestioni che ruotano attorno alla vicenda. In quelle ore concitate, infatti, a notare la ferita in questione sono i familiari di Denis, il papà Domizio in primis, e sulla stessa scia altre persone trovatesi a passare quella sera dalla morgue di Trebisacce riferiranno in seguito della presenza di quella macchia rossa o rosacea della grandezza di “una nocciolina” sulla tempia della vittima. Alla circostanza hanno dato molto credito anche gli investigatori, tant’è che secondo l’ispettore capo Ornella Quintieri, quel segno rotondo altro non è che la bruciatura provocata “da una pistola” che qualcuno gli avrebbe poggiato sulla tempia a mo’ di minaccia prima di soffocarlo e sdraiarlo sulla carreggiata a coronamento della messinscena.
Il problema, però, è che quell’ematoma non esiste. Non se ne fa alcun accenno nel referto autoptico a firma del professor Francesco Maria Avato, ma a scanso d’equivoci non si vede neanche nella foto mostrata ieri in aula e scattata dallo stesso medico legale prima di eseguire l’autopsia. A tal proposito, poco importa che fosse trascorso ormai un mese e mezzo dal decesso, perché quella ferita, se davvero fosse esistita, avrebbe dovuto essere ancora lì. A quale bruciatura e a quale pistola faceva riferimento allora la Quintieri?
Ne riparleremo, anche perché quella foto, c’è da scommetterci, sarà mostrata nuovamente nel prosieguo del processo e in formato extralarge. Per il momento ha fatto il suo ingresso in aula in modo del tutto incidentale dato che le ragioni per cui è stato convocato De Pasquale erano altre. L’uomo doveva riferire di un colloquio avuto con tale Rita Perna, una conoscente di Bergamini e amica dello stesso testimone. A quest’ultimo, la donna avrebbe confidato di aver assistito a un litigio tra Denis e Isabella davanti al liceo “Scorza” di via Popilia, location insolita considerato che, a quei tempi, la ragazza frequentava un altro istituto scolastico – la Ragioneria di Rende – ma tant’è: già in fase d’indagine la Perna aveva smentito di aver detto quelle cose; avrebbe dovuto essere sentita durante la scorsa udienza, ma ha marcato visita giustificando la propria assenza alla Corte.
Dettagli poco rilevanti comunque, un po’ come quelli riferiti da Carmela Parise e Fabrizia Principe, due ex compagne di classe della Internò. Entrambe hanno ricordato come a scuola un po’ tutti sapessero del suo fidanzamento con il calciatore del Cosenza, ma secondo la Principe la diretta interessa non ostentava quella relazione così importante. “Con noi era rimasta la stessa” ha sottolineato. Primicerio ha posto loro domande del tipo “Ha mai sentito Isabella vantarsi di aver guidato l’auto di Bergamini” oppure “Lei ha mai fatto filone insieme alla Internò?”, poi a mezzogiorno meno un quarto, ne ha avuto abbastanza pure lui.
Mancava l’avvocato Fabio Anselmo, reduce dai trionfi dei processi Cucchi, a riprova del fatto che quella in programma oggi a Cosenza fosse un’udienza tutt’altro che memorabile. La prossima, se vogliamo, sarà addirittura peggio. La Procura, infatti, continua a riservarsi la convocazione dei testimoni chiave della vicenda – saranno in tutto sette o otto su duecentotrenta – e attinge ancora dal fondo della sua lista. Ciò significa che al ritorno in aula, il 13 aprile, toccherà ad altri cinque ex compagni di classe dell’imputata.
Processo Bergamini: prima di morire «aveva la testa altrove, era innamorato». MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 28 Marzo 2022.
Immusonito, assente, su un altro pianeta. «Non era sereno». Così si presenta Donato Bergamini agli occhi di Fabiana Novelli una settimana circa prima della sua morte. È l’ultima volta che la donna vede il calciatore, e proprio lei oggi si è presentata in Corte d’assise per tornare con la memoria a quel meeting avvenuto ad Argenta, in Emilia Romagna, nel negozio della sorella di Denis.
All’epoca Fabiana è fidanzata con Luigi Simoni, il portiere del Cosenza grande amico di Bergamini. I due sono stati anche coinquilini, ma da alcuni mesi il portiere si è trasferito a Pisa, ragion per cui i loro incontri si sono diradati. Quel lunedì avrebbero dovuto riabbracciarsi ancora una volta, ma Denis era taciturno, sbrigativo, restò lì solo pochi minuti. Insomma, «si vedeva che non c’aveva voglia» sottolinea Fabiana.
«Era preoccupato?» le chiede il patrono di parte civile, Fabio Anselmo, ma in realtà «no, aveva la testa altrove». Dove, chi può dirlo. Di Isabella Internò, Fabiana ha pochi ricordi. La vede spesso a casa di Bergamini quando si reca a Cosenza a trovare il suo fidanzato, ma «non parlavamo molto. Io ero lì per Luigi, lei stava lì per Donato. Non eravamo interessate a diventare amiche».
Tre anni prima, a colloquio con la polizia giudiziaria, spiega che la Internò era invisa alle altre mogli dei calciatori, tant’è che non usciva mai con loro, oggi però ha dato un senso diverso a quelle parole: «Noi venivamo da fuori, quindi era naturale che facessimo gruppo. Isabella era del posto, qui aveva le sue amiche, probabilmente non le interessava far parte del gruppo delle mogli e fidanzate». Scherzi della verbalizzazione, non un caso isolato.
Di quella ragazza con i capelli biondi a caschetto Denis «era innamorato», ma si tratta solo di una sua opinione, il pm Luca Primicerio ci tiene a precisarlo prima di sollecitarne un’altra di opinione, con la domanda più ricorrente di questo processo alla quale neanche lei può sottrarsi: «Non ho mai ritenuto possibile che Denis si sia suicidato. Aveva la testa piena di progetti e tanta voglia di vivere».
È stata lei il principale testimone del giorno, il che la dice lunga sulla rilevanza degli altri, tutte donne, convocati in aula per l’occasione. Lucia Cuccaro da Poppi, provincia di Arezzo, lo conosce nell’estate dell’85 quando il Cosenza è in ritiro nel paesino toscano, e da allora mantiene con lui un rapporto epistolare che si protrae fino all’88. La sua audizione si è protratta per circa un’ora.
Dopo di lei arriva il turno di Rossella F., ragazza della villetta di Commenda che tra la fine del 1988 e l’inizio dell’89 frequenta i calciatori del Cosenza, tra cui Bergamini. «Avete avuto rapporti sessuali?» le chiede brutalmente Primicerio. La risposta è «sì». Il presidente della Corte d’assise vuole sapere quante volte, ma lei non ricorda. «Una, dieci?» la incalza in aiuto alla memoria. «Facciamo sei» taglia corto Rossella. Un supplizio durato una mezzoretta.
Quando si lasciano Bergamini e Isabella? È uno dei tormentoni del processo, un quesito al quale fin qui ogni testimone ha associato una risposta diversa. Per la Novelli stavano ancora insieme a giugno del 1989, secondo Rossella si erano lasciati già dall’estate precedente. Quest’ultima è la tesi preferita da Procura e parte civile, considerato che Denis aveva in animo di sposarsi con la Alleati – «Con chi?» si è inserita Fabiana, sinceramente sbigottita – ragion per cui chi frequentasse la Internò a dicembre del 1989, poche settimane dopo la tragedia di Roseto, non dovrebbe avere grande importanza.
E invece a quanto pare importa. L’ultima testimonianza del giorno verte proprio su questo tema. Tiziana De Carlo, all’inizio di quel mese, raccoglie il tam tam diffusosi sul corso di Paola e si mette alla ricerca di Luciano Conte, l’attuale marito di Isabella, avvistato da più persone in compagnia della sua nuova fiamma, «l’ex di Bergamini».
Tiziana li localizza e li descrive «in atteggiamenti intimi», ovvero con la testa di lei poggiata sulla spalla di lui. Stavano insieme già all’epoca? Il pm mostra con enfasi il foglio matricolare del poliziotto Conte, in quei giorni in servizio a Palermo, dal quale risulta una licenza a Paola proprio nel periodo indicato.
A riscontro della De Carlo, ma anche di un’altra evidenza suggerita dal difensore Angelo Pugliese: che il 18 novembre del 1989 Conte si trovava in Sicilia. Nel frattempo domani si torna in aula. Tra gli altri, sarà sentito l’ex procuratore di Bergamini e di altri calciatori, Bruno Carpeggiani.
Processo per la morte di Bergamini, la verità sul “gran rifiuto” al Parma. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 28 Marzo 2022.
«Avrebbe avuto un ingaggio principesco, in una squadra costruita per andare in serie A e, per giunta, a due passi da casa sua. Una prospettiva molto allettante per chiunque, no?». Giovanbattista Pastorello è ancora oggi incredulo quando torna con la memoria all’estate del 1989, al giorno del gran rifiuto di Donato Bergamini. Era lui il direttore sportivo del Parma, la squadra allenata da Nevio Scala che proprio quell’anno inaugura il ciclo che, da lì a poco, la proietterà ai vertici del calcio europeo. Pastorello era l’uomo incaricato di costruire l’organico di quella squadra e, in cima alla sua lista, c’era proprio l’acquisto di Bergamini.
«Era una trattativa chiusa, il calciatore aveva accettato ed era felicissimo di giocare per noi. Poi, nel giro di pochi minuti cambiò idea. Pensi che anche il mio presidente, Ernesto Ceresini, ci restò malissimo». Proprio in extremis Denis sceglie di restare a Cosenza e nel contesto degli eventi che da lì a pochi mesi culmineranno nella tragedia di Roseto, quello del mancato trasferimento al Parma rappresenta ancora oggi uno dei capitoli più oscuri.
«È rimasto giù per lei» ipotizzava il portiere Luigi Simoni in una conversazione intercettata, laddove per lei s’intende Isabella Internò, ma per gli inquirenti che hanno lavorato al caso è una spiegazione inaccettabile, che mette in crisi la rappresentazione di un Bergamini ormai disinnamorato della sua ex e già proteso a sposare un’altra donna.
Non a caso, la polizia giudiziaria individua ben altre ragioni per cui il calciatore avrebbe deciso di restare in Calabria: «Era reduce da un infortunio, altrove avrebbe dovuto conquistarsi il posto mentre a Cosenza era certo di essere titolare», ma è un assunto che Pastorello respinge con forza. Era lui che sceglieva i giocatori – «In sette anni Nevio Scala non mi ha mai suggerito un acquisto» – e Denis non faceva eccezione alla regola: «Cercavamo un giocatore con le sue caratteristiche. Era centrale nel progetto e lui ne era consapevole».
Altro che infortunio insomma, ma tant’è: nell’elenco degli oltre duecento testimoni arruolati dalla Procura di Castrovillari non figura l’ex direttore sportivo del Parma. La sua testimonianza non entrerà nel processo, dunque, e quasi quasi se ne intuisce anche il motivo. E a proposito di testimoni: un’amica di penna del 1987, il medico sociale della squadra, una prof conosciuta in piscina, il suo procuratore dell’epoca e l’ex fidanzata del suo miglior amico.
Sono questi i testimoni che coloreranno le due udienze del processo in programma oggi e domani in Corte d’assise. Testimonianze minori – a eccezione di quella di Bruno Carpeggiani, il procuratore – segno evidente di come la Procura continui a girarci intorno, rimandando l’appuntamento clou con i consulenti medico-legali e, soprattutto, con il camionista Raffaele Pisano. È lui, infatti, il principale teste del processo, depositario della verità sui fatti del 18 novembre 1989, ma per sentirlo in aula è probabile che bisognerà attendere ancora mesi, forse anni. Non a caso, il pm Luca Primicerio pare intenzionato a esplorare prima la personalità del calciatore attraverso i racconti di amici, compagni e conoscenti che, messi insieme, rappresentano almeno due terzi dei testimoni in scaletta.
Racconti marginali rispetto all’economia del processo che mira a dimostrare la tesi dell’omicidio, ma che la pubblica accusa ha scelto di mettere in primo piano con buona pace dell’ultraottantenne Pisano relegato ancora in panchina. Una lunga fase interlocutoria, dunque, che si protrae ormai da ben dodici udienze e che si prolungherà nelle prossime 48 ore.
Processo Bergamini, il giorno di Lombardo: «Isabella non l'aveva dimenticata». MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 17 marzo 2022.
Il suo tiro dal limite che si stampa sul palo durante la partita contro l’Udinese è un ricordo ancora vivo negli occhi di tutti i tifosi perché su quel gol mancato resiste, trentadue anni dopo, il mito della promozione in serie A sfumata al fotofinish. Il nome di Claudio Lombardo, testimone del giorno al processo Bergamini, è associato a quel montante che, dicono i nostalgici, «ancora trema», ma per Cosenza sportiva rappresenta molto di più. «Nervoso e scattante» lo definiva compiaciuto Gianni Di Marzio, il mister, che non a caso ne aveva fatto un atleta multiruolo: terzino goleador – destro o sinistro per lui fa lo stesso – ma anche centrale di difesa, giocava bene pur in mezzo al campo e persino in attacco, tant’è che – per gli amanti delle statistiche – in cinque anni di permanenza in Calabria ha indossato tutte le maglie della squadra, quando i numeri andavano ancora dal due all’undici.
Tanto eclettico era in campo il Lombardo di nome e di nascita (è originario di Voghera) quanto rigido e tutto d’un pezzo si è mostrato ieri nel ruolo per lui inedito di testimone. Davanti ai giudici, infatti, misura i toni, pesa ogni singola parola, ripercorre vecchie e nuove dichiarazioni precisando qui è là: «Questo non ricordavo di averlo detto» e «Qui forse ho esagerato un po’».
Non vuole rendere falsa testimonianza. Se ne guarda bene, lui che di Denis era amico vero. Un partito, quello degli amici, al quale dopo la sua morte si iscriveranno in tanti, ma che all’epoca è circoscritto al portiere Gigi Simoni, all’allenatore in seconda Toni Ferroni. È lo stesso Bergamini, nel suo ultimo giorno di vita, a fare questo elenco al massaggiatore Beppe Maltese, un altro incluso nella lista.
E poi lui, Claudio Lombardo. Anche per questo, la sua testimonianza, ieri, rivestiva particolare importanza. Con Denis parlavano spesso «dei piaceri della vita» o dei progetti calcistici, ma poco o nulla su dettagli intimi e personali del biondo centrocampista perché lui «era schivo». Isabella Internò la conosceva bene, e il suo rapporto con Denis lo definisce prima «felice» poi «tormentato». Un giorno apprende che i due si sono lasciati, ma aggiunge che secondo lui l’amico «non l’aveva dimenticata». Quando i magistrati lo sentono per la prima volta nel 1989, dodici giorni dopo la tragedia di Roseto, dispensa loro un aneddoto: «Denis soffriva per una precedente relazione avuta da Isa. Una volta mi disse, non sai quanto mi dia fastidio che sia stata con qualcun altro prima di me».
Quindi era «geloso» dedurrà in seguito l’avvocato Rossana Cribari dal fronte della difesa, incontrando però l’opposizione di Luca Primicerio: «Ha parlato di fastidio» preciserà il pubblico ministero, giacché quello della gelosa, per giunta ossessiva e anche un po’ assassina, è un ruolo assegnato in esclusiva alla Internò.
Il punto è che di tutto questo Lombardo non sa nulla, al contrario di tanti altri ex compagni di squadra che, dal 2010 in poi, sul tema si mostrano molto beninformati. Claudio, l’amico di Denis, ignora perché la coppia sia poi scoppiata, e non sa nulla neanche dell’aborto di Isabella, a differenza di un Galeazzi qualsiasi che invece – ma solo dal 2018 – sostiene di averlo appreso in tempo reale dal diretto interessato. E non solo. Non ha mai sentito parlare di Roberta Alleati, la fidanzata segreta e promessa sposa, né delle altre donne che, in questi anni, si sono presentate come depositarie di brandelli di confidenze ricevute dal calciatore. Nei suoi ricordi, per quello che vale, per Denis c’era solo Isabella. Primicerio ha provato a farlo scivolare facendo riferimento a due ragazze che, nella Cosenza degli anni Ottanta, erano solite concedersi ai calciatori che, per l’occasione, le avevano ribattezzate «le sorelle Cornacchia», argomento accolto con una certa contrarietà dal presidente della Corte, Paola Lucente: «Erano due prostitute?». Non se n’è capito il motivo, sia del soprannome che di tutto il resto.
L’altro ostacolo era un’intercettazione fra lui e Simoni durante la quale quest’ultimo parla a ruota libera di omicidio collegandolo all’aborto e alla famiglia Internò. In quel colloquio Lombardo sembra dar corda all’interlocutore, ma una volta in aula messo davanti a quelle parole rubate al telefono, non ne ricorda il senso. Primicerio e il legale di parte civile, Fabio Anselmo, tentano in tutti i modi di stimolarne la memoria: leggono e rileggono quella trascrizione, addirittura gli fanno ascoltare la registrazione. Alla fine il testimone conviene sulla possibilità di aver espresso una sua opinione influenzata anche «da situazioni mediatiche». Un’ammissione non da poco, visti i tempi.
Prima di lui sul banco dei testimoni aveva preso posto Massimo Storgato, difensore scuola Juve transitato anche da Cosenza nella stagione calcistica 89/90, l’ultima di Denis. Acquistato al mercato di riparazione, in quel mese di novembre era aggregato alla squadra solo da due settimane e dopo la trasferta di Monza offrì un passaggio in auto a Denis per fare rientro in Calabria. Pochi e sfumati i suoi ricordi relativi a quel viaggio, con un dettaglio però che gli è rimasto impresso da allora: «Mi disse che aveva avuto un rapporto sentimentale con una ragazza cosentina, ma che era finito. E poi che pensava di investire i soldi guadagnati grazie al calcio nell’attività di famiglia, un allevamento di maiali». Prossime udienze il 28 e 29 marzo.
Processo Bergamini, Denis e le ragazze della villetta. In aula alcune compagne di scuola della Internò fra cui anche l’ex di Fabrizio Frizzi. Stefano Ruvolo a Isabella: «Prego per te perché la verità venga fuori». MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 14 Marzo 2022.
Più che a un processo per omicidio, la decima udienza dell’affaire Bergamini somiglia a una puntata di “Piccoli problemi di cuore”. Protagoniste le ragazze della Ragioneria di Rende, la scuola frequentata in gioventù da Isabella Internò, l’imputata. Sul banco dei testimoni c’era quella che, nella ricostruzione della polizia giudiziaria, era una sua rivale: Emilia Graziella De Bonis, che qualche anno dopo farà la corista a “Domenica in”, guadagnandosi anche una certa notorietà per via della sua relazione sentimentale con il compianto Fabrizio Frizzi.
All’epoca, però, Graziella è solo un’aspirante ballerina di sedici anni, anche lei iscritta all’Itc di Quattromiglia, seppur in una classe diversa da quella di Isabella. «Denis aveva un debole per lei» riferiva qualche udienza fa l’ispettrice Ornella Quintieri, dea ex machina dell’inchiesta, ma sul punto è stata proprio la diretta interessata a gettare acqua sul fuoco: «Tra noi c’era una conoscenza superficiale. Quando mi vedeva passare dalla villetta di Rende ci salutavamo e nulla più». Il famoso appuntamento che Denis le avrebbe dato pochi giorni prima di morire in realtà non sarebbe mai esistito. «Non ricordo se lui o Padovano dissero a me e alla mia amica – Elena Tenzi, ndr – che nel caso in cui fossimo stati di nuovo in villetta ci saremmo rivisti domenica dopo la partita, ma non era un vero e proprio appuntamento».
La Procura di Castrovillari la considera importante perché quel giorno, che la De Bonis colloca otto o dieci giorni prima della morte di Bergamini, mentre lei e il calciatore chiacchierano poco lontano dalla villetta, nei pressi di una farmacia, passa da lì Isabella e, stando a ciò che riferisce Graziella, lei e il suo fidanzato (ex?) si scambiano solo un gelido «ciao». L’ipotesi degli inquirenti è che proprio quello sia l’istante in cui la Internò matura la convinzione di aver perso per sempre il suo amore e che, umiliata e sconfitta, abbia messo poi in moto la macchina cospirativa e familiare per ordirne l’omicidio.
A dimostrazione di ciò, ci sarebbero due circostanze narrate sempre dalla De Bonis. La prima è relativa a un biglietto anonimo, recapitatole circa un mese dopo i fatti del 18 novembre nel quale «mi si attribuiva la colpa della morte di Bergamini», l’altro invece riguarda un incontro avuto durante l’orario di lezione le gemelle Teresa e Stefania Libero, entrambe compagne di classe dell’imputata, che con tono minaccioso le avrebbero intimato «di non essere addolorata per la morte di Bergamini perché l’unica titolata a esserlo era Isabella». Sia del biglietto minatorio che del colloquio avuto con le sorelle Libero, la testimone ne parla nel 2010 con l’avvocato Eugenio Gallerani, all’epoca impegnato a raccogliere quanti più indizi e spunti utili per far ripartire le indagini, ma non ne fa accenno nel 2012, quando si tratta di confermare il tutto davanti ai carabinieri. «Forse perché non me l’hanno chiesto» ha tagliato corto l’ex ballerina Rai, specificando poi di non ricordare la forma e il contenuto preciso di quella lettera né dove la stessa le fosse stata recapitata. Dettagli emersi dal controesame degli avvocati Rossana Cribari e Angelo Pugliese che hanno consentito di limitare a circa mezz’ora la presenza in aula della De Bonis.
Più estenuante, poco prima, si era rivelato invece l’esame delle due Libero. Entrambe, infatti, non ricordavano praticamente nulla di quei giorni. Non erano legate a Isabella da particolare amicizia, ma la ricordano «disperata e in lacrime» nei giorni precedenti al funerale di Denis. La De Bonis? Una dice di averne un ricordo vago, l’altra nemmeno quello. Nessuna di loro, poi, sostiene di aver mai parlato con lei di Bergamini.
Il pm Luca Primicerio e i legali di parte civile, Fabio Anselmo e Alessandra Pisa, le hanno incalzate per un’ora abbondante con domande del tipo: «Ha mai visto Isabella andare a scuola in macchina?», «Bergamini è mai passato a prenderla all’uscita?», «Chi erano le compagne di classe più intime della Internò» e altri piccoli problemi di cuore, ma senza grande costrutto: domande neutre, risposte quasi nulle. Isabella la ricordano trentatré anni prima come una ragazza «allegra e socievole», ma dalla fine della scuola in poi non hanno mai più avuto modo di incontrarla o di parlare con lei, sostengono. E per il resto è notte fonda.
Un atteggiamento che Primicerio ha definito «reticente» e il presidente della Corte, Paola Lucente, «rigido», ma tant’è: l’informativa concepita dalla Quintieri sotto le direttive dell’allora procuratore Facciolla, riserva pagine e pagine alle due gemelle, con tanto di fascicolo fotografico annesso. Fotogrammi che le ritraggono insieme all’uscita di scuola e altri, decisamente più sfocati, estratti dai video del funerale celebratosi nella chiesa di Loreto dove, mischiata nella folla, gli investigatori ritengono di intravedere «la carnagione olivastra e le sopracciglia folte» di una delle gemelle, il tutto per dimostrare che non fossero semplici conoscenti di Isabella, bensì una sorta di guardie del corpo.
Sono stati loro i principali testimoni del giorno, seguiti a ruota dalla già citata Tenzi, da Teresa Lopez – un’altra ex studentessa – e il già calciatore Stefano Ruvolo, protagonista di un piccolo colpo di teatro. Alla fine della sua deposizione, infatti, ha chiesto di poter salutare la Internò, permesso accordato dalla Corte. «Prego per te – le ha detto stringendole le mani – e spero che la verità venga fuori presto. Per te». Domani intanto si torna in aula con altri due ex compagni di squadra: Claudio Lombardo e Massimo Storgato.
Morte Denis Bergamini, scontro in aula per la presenza di Nicola Morra. MARCO CRIBARI Il Quotidiano del Sud il 10 Febbraio 2022.
«Lui amava vivere». A ogni domanda dell’avvocato Angelo Pugliese, difensore di Isabella Internò, Bruno Caneo risponde con questo inciso a mo’ di sfida. È il terzo testimone del giorno e siamo alla fine di un’udienza che si è già protratta per otto ore di fila. L’ennesima ad alta tensione.
La scena è quella del processo “Denis Bergamini”, il calciatore del Cosenza morto sotto alle ruote di un camion il 18 novembre del 1989 all’età di 27 anni. Un omicidio secondo la Procura di Castrovillari che, trentadue anni dopo, dopo ripetuti tentativi falliti, ha trascinato a giudizio l’ex fidanzata della vittima, all’epoca diciannovenne.
Nervi ancora a fior di pelle in aula, dicevamo, e in tal senso la prima del nuovo procuratore Alessandro D’Alessio è servita ad abbassare i toni di qualche decibel, senza allentare le tensioni determinate dalla presenza, sul banco degli imputati, di una donna sotto assedio mediatico e giudiziario da quasi tredici anni, ma alla quale è stata data la possibilità di difendersi solo dallo scorso ottobre, data d’inizio del processo. Come e perché Isabella abbia ucciso Denis non è ancora oggetto di dibattimento. La Procura ha preferito partire dalla natura del suo rapporto sentimentale con il calciatore. I testimoni di ieri si inserivano proprio in questo solco.
LA LUPARA DELLA DOTTORESSA
Roberta Sacchi è la fisioterapista di Pavia che aiuta Denis a guarire dalla brutta frattura che lo tiene lontano dai campi da gioco da gennaio ad aprile del 1989. «Mi parlò subito di Isabella, di come lei lo cercava ossessivamente, che se la trovava dappertutto, ma che per lui era diventata come una sorella. Se accettava di stare con lei era solo perché si dispiaceva a vederla così». La dottoressa pavese lo dichiara solo nel 2018, ventinove anni dopo i fatti, e lo ribadisce ieri in aula. «Attento alle lupare» dice a Bergamini nell’aprile di quell’anno, quando il calciatore – con cui nel frattempo ha un flirt – le ribadisce di essersi allontanato dalla Internò.
«I tempi sono cambiati anche al Sud» le risponde lui, ma poi il 12 novembre, sei giorni prima di morire, le confida: «Sai che avevi ragione? Da quelle parti i tempi non sono cambiati». La Sacchi ne parla solo nel 2018 dopo aver consultato alcuni appunti dell’epoca, una sorta di diario in cui annotava i fatti per lei più interessanti. «Le agendine però sono andate smarrite in un trasloco».
L’ABORTO E L’ONORE
Guido Dalle Vacche è il cognato di Bergamini e con la sua testimonianza si torna a parlare dell’aborto affrontato da Isabella a luglio del 1987, quando la ragazza era ancora minorenne. Per la Procura è uno dei possibili moventi dell’omicidio. «Denis mi disse: io non la sposo, al più riconosco il bambino, ma a patto che sia davvero figlio mio».
Delle Vacche viene sentito dagli investigatori nel 1989 e non riferisce nulla di tutto ciò. In quell’anno, diversi compagni di squadra parlano di un Bergamini tormentato da una relazione che la Internò ha avuto con un altro calciatore, addirittura prima del suo arrivo a Cosenza. Nessuno parla della gelosia di Isabella. Quella salterà fuori dai loro ricordi solo a partire dal 2010, e da allora anche suo cognato racconta come nel 1987 Denis arrivi a dubitare platealmente della fedeltà di quella ragazza, decidendo però di restarle al fianco negli anni successivi.
«Fino al novembre del 1988» suggerisce Guido, «luglio 1989» aveva detto in precedenza il portiere Luigi Simoni, il miglior amico di Denis, ma è un’asticella che ognuno muove avanti e indietro nel tempo a proprio piacimento. «Isabella mi sembrò pure d’accordo a non tenere il bambino perché una ragazza madre al Sud sarebbe stata un disonore per la famiglia» aggiunge l’ex marito di Donata Bergamini, aprendo così una finestra sul movente che due anni dopo – perché attendere così tanto? – avrebbe determinato la ragazza a trasformarsi in assassina in società con suoi congiunti non meglio precisati. «Domizio – il papà di Bergamini, ndr – lo capì subito che nell’omicidio non c’entravano la droga, il totonero e la criminalità, ma che c’entrava la famiglia Internò».
LE LACRIME DI CANEO
L’ex centrocampista di Pisa, Genoa e Cosenza, oggi 65enne allenatore della Turris, avrebbe voluto essere sentito subito per tornare al lavoro. D’Alessio lo rintuzza in modo brusco: «Quello che stiamo facendo qui mi sembra più importante». Attenderà sbuffando il suo turno e, una volta preso posto sulla scomoda sedia, precisa di non essere stato amico di Denis, ma «legato a lui solo da ottimi rapporti di spogliatoio». Nel 2018 anche Caneo si lascia andare davanti al magistrato e spiega di aver appreso da Denis che la Internò con lui «era come un martello», ma ieri ha precisato che non si trattava di confidenze raccolte di persona, ma solo «voci di spogliatoio».
L’emozione ha il sopravvento quando gli viene chiesto di rievocare il momento in cui lui e gli altri calciatori apprendono della morte del loro compagno di squadra. Caneo piange a dirotto e da quel momento in poi agita il vessillo della Verità condivisa: «Lui amava vivere».
L’INCURSIONE DI MORRA
L’ultimo acuto, prima del rinvio dei lavori al 25 febbraio, lo regala il senatore Nicola Morra che fa capolino in aula e in una pausa dell’udienza si intrattiene in conversazione con l’avvocato Fabio Anselmo, il patrono di parte civile.
Pugliese insorge e il presidente della commissione Antimafia con scorta al seguito alza il dito per chiedere la parola. Permesso negato dal presidente della Corte d’assise, ma le ragioni del suo blitz in tribunale le spiegherà in seguito a noi: «Dovevo solo presentare ad Anselmo un suo potenziale cliente, un siciliano che mi ha chiesto di poter parlare con lui. E invece di farlo andare fino a Ferrara, ci siamo dati appuntamento a Cosenza, considerato che oggi l’avvocato sarebbe stato qui». Nessuna ombra ulteriore, dunque. Che di quelle ne aleggiano già abbastanza.
Caso Bergamini, parla la fidanzata segreta: "Internò era una stalker, Denis voleva sposarmi". Nel processo in corso a Cosenza, in cui l'ex compagna ufficiale è accusata di omicidio, parla un'altra donna entrata nella vita del calciatore. Alessia Candito su La Repubblica il 15 gennaio 2022.
Una testimonianza importante nel processo sulla morte di Denis Bergamini. In aula a Cosenza ha parlato Roberta Alleati, la donna che avrebbe preso il posto di Isabella Internò nella vita del calciatore. "Avevamo una storia d'amore io e Denis, ero io la sua fidanzata e promessa sposa, non Isabella come tutti pensano", ha detto Roberta Alleati.
Alleati ha parlato del rapporto che Denis aveva con l'ex compagna "ufficiale", Isabella Internò, l'unica imputata nel processo, accusata di aver organizzato l'omicidio per punirlo. "Isabella lo stalkerizzava", ha detto la donna, che ha parlato di una storia terminata per sfinimento, aggiungendo che Bergamini appariva turbato per quello che stava vivendo.
Nell'ultima telefonata, due giorni prima della morte, il calciatore le avrebbe detto che qualcuno non aveva accettato la fine della storia con Isabella. Per anni la morte dell'ex calciatore, avvenuta il 18 novembre 1989, era stata classificata come un suicidio, pur tra mille incongruenze.
L'udienza si è aperta con la lettura di una lettera che Alleati scrisse nel novembre del 1989 alla famiglia Bergamini, per raccontare la relazione. C'era scritto che Denis avrebbe voluto un figlio proprio da lei, conosciuta nel 1983, prima del suo arrivo a Cosenza. Una relazione che sarebbe ripresa nel maggio del 1989.
Il calciatore del Cosenza, squadra che allora come oggi giocava in B, era uno dei beniamini dei tifosi. Per motivi ancora da chiarire, la sera della sua morte ci fu un incontro tra il giovane e la sua ex fidanzata. Lei aveva 19 anni, lui neanche 27. Fra loro un rapporto travagliato, segnato anche da un aborto a Londra.
I due, sull'auto del calciatore, si sarebbero fermati in una piazzola sulla strada statale 106 Jonica. Bergamini, sceso dalla vettura, morì investito da un camion, in quello che fu etichettato come un suicidio. Ma la famiglia ha sempre pensato che si sia trattato di una messa in scena per coprire un omicidio. La prossima udienza è prevista per l'8 febbraio.
Carlo Macrì per il “Corriere della Sera” il 15 gennaio 2022.
Un'altra donna aveva preso il posto di Isabella Internò nella vita di Denis Bergamini quando l'ex calciatore fu trovato morto la sera del 18 novembre 1989 sulla ex statale 106. È per questa donna, conosciuta nel 1983, quando lei aveva 17 anni, che Denis avrebbe lasciato la Internò, oggi sul banco degli imputati per difendersi dall'accusa di concorso nell'omicidio del calciatore.
Un delitto per «punirlo» ipotizza la Procura di Castrovillari che esclude l'ipotesi del suicidio. Denis si era innamorato di quella donna, al punto di chiederle di sposarlo. Il giocatore, però, aveva paura di farsi vedere in sua compagnia a Cosenza quelle poche volte che lei riusciva a raggiungerlo.
«Ti presenterò come un'amica, perché dobbiamo mantenere il nostro segreto» le diceva. I particolari di quella love story nata quando Bergamini giocava nel Russi, paesino in provincia di Ravenna, sono stati raccontati ieri, per la prima volta, dalla stessa protagonista Roberta Alleati, oggi infermiera del 118 a Canazei, davanti ai giudici della Corte d'Assise di Cosenza.
«Mi diceva che mi amava moltissimo, come non aveva mai amato nessuna, che ero la donna della sua vita. E quando mi chiese di sposarlo, una sera a cena a Cervia, era fine agosto del 1989, mi lasciò di stucco, anche perché mi aveva annunciato di volere un figlio, il più grande sogno della sua vita».
Quel che Roberta ha raccontato ieri è quanto lei stessa scrisse in una lettera inviata qualche giorno dopo la morte di Denis alla sua famiglia. Un passaggio di quella missiva potrebbe essere la chiave per capire chi e perché ha ucciso il calciatore del Cosenza. I due parlano al telefono l'ultima volta il 16 novembre 1989, due giorni prima della morte.
«Lo sentii strano e mi disse che non c'era nulla di particolare. Dopo qualche insistenza, mi confessò che c'era qualcuno che gli voleva male». «"La ragione?" chiesi. "L'unico torto che posso aver fatto è quando ho lasciato Isabella. Ricordati che siamo in Meridione e sai come sono! Per qualcuno forse è stato un affronto, lasciarla dopo tre anni" disse. La telefonata si concluse con un "Ti amo tanto"».
«Denis era stalkerizzato da Isabella» ha detto Roberta, davanti ai giudici. «La loro storia finì per sfinimento, perché lei era gelosissima e non lo lasciava vivere».
Processo Bergamini, il calcioscommesse irrompe in aula. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 14 gennaio 2022.
Si è parlato anche di calcioscommesse durante l’udienza di ieri del processo sulla morte di Denis Bergamini. «Eravamo un gruppo unito, come fratelli, mai venduto una partita» ha tuonato Simoni, ammettendo al più qualche pareggio concordato negli ultimi minuti di gioco in nome di un interesse reciproco. È il caso ad esempio della partita promozione tra il Monopoli e il Cosenza del maggio 1988 terminata 0 a 0, ma nulla di più. Al riguardo, però, una contestazione si è levata dai banchi d’accusa.
Il pm Luca Primicerio, infatti, gli ha letto il contenuto di un dialogo fra lui e l’ex attaccante Michele Padovano, successivamente alla Juve e finanche in Nazionale, nella quale i due commentano una partita fra il Cosenza e l’Empoli disputata sempre a maggio ma del 1989, quando le due squadre militavano in serie B. I calabresi vincono per 2 a 0 ma a fine partita si registra un parapiglia innescato dai giocatori toscani, furiosi a loro dire per il mancato rispetto di un accordo che prevedeva un pareggio con risultato a occhiali.
Accordo stipulato da chi? La conversazione fra Simoni e Padovano è criptica, e all’ex portiere il pm ha chiesto di chiarire sul punto. La spiegazione data dal testimone è stata la seguente: due suoi compagni dell’epoca, Renzo Castagnini e Bruno Caneo si erano recati, nei giorni precedenti alla partita, a Coverciano per conseguire il patentino da allenatori, e quella domenica non erano stati schierati come titolari dall’allenatore Bruno Giorgi.
Il sospetto di Simoni era che lo stesso mister li avesse esclusi nel timore che, durante la loro permanenza al Nord, potessero essersi incontrati con qualche emissario empolese. Ambigua l’intercettazione, ancor di più la spiegazione che non ha dissipato le ombre e i dubbi del caso. Anche perché a ben vedere, i due gol della vittoria furono siglati proprio da Caneo subentrato dalla panchina. Delle due l’una insomma: o i sospetti del compianto Giorgi erano infondati, o Simoni e Padovano stavano parlando di altro.
Bergamini: pm, teste ha paura di testimoniare. ANSA il 10 gennaio 2022. La moglie di un ex calciatore del Cosenza avrebbe paura a testimoniare nel processo in corso di svolgimento davanti ai giudici della Corte d'assise di Cosenza, chiamati a fare luce sulla morte del calciatore Donato "Denis" Bergamini avvenuta il 18 novembre 1989 sulla statale 106, nei pressi del Castello di Roseto Capo Spulico (Cosenza). E' quanto emerso nell'udienza di oggi. La donna, Tiziana Rota, è la moglie dell'ex calciatore del Cosenza Maurizio Lucchetti. A riferirlo in aula è stato il pm Luca Primicero che ha dichiarato che la teste - la cui testimonianza è prevista per venerdì prossimo - "sarà assente per motivi di salute ma ritengo, per come si evince dalle intercettazioni, che abbia paura di testimoniare".
La Rota è stata amica di Donato Bergamini e di Isabella Internò, fidanzata all'epoca dei fatti del calciatore rossoblu e unica imputata al processo con l'accusa di omicidio aggravato da premeditazione e dai motivi futili.
Al momento è in corso l'interrogatorio di Sergio Galeazzi, compagno di squadra del centrocampista ferrarese nel Cosenza alla fine degli anni ottanta. (ANSA).
Da tgcom24.mediaset.it il 6 marzo 2022.
Sembrano essere a una svolta le indagini sulla fine di Lucia Raso, 36enne veronese morta il 23 novembre a Landshut, in Germania, precipitando da una finestra mentre era ospite del fidanzato, pizzaiolo nella città tedesca. Sul registro degli indagati della Procura di Verona, con l'accusa di omicidio volontario, è infatti finito proprio il compagno, Christian Treo, 37 anni.
L'uomo ha sempre dichiarato di aver visto la fidanzata cadere da sola dalla finestra del suo appartamento, condiviso con altri due dipendenti del ristorante Osteria Italia, ma a quanto pare il pm Stefano Aresu ha raccolto nei confronti del pizzaiolo gravi indizi, che però sono stati secretati. Il magistrato veronese, prima di chiudere le indagini, sta comunque attendendo l'esito di altri accertamenti effettuati nella città tedesca.
Secondo la famiglia di Lucia Raso, la ricostruzione dell'accaduto fornita dal fidanzato è sempre stata lacunosa: l'uomo aveva raccontato che poco prima della caduta della 36enne era uscito dalla stanza per parlare con alcuni amici, e che al rientro l'aveva vista, carponi sul davanzale, lanciarsi nel vuoto. L'uomo avrebbe anche raccontato che la fidanzata era ubriaca, ma le analisi tossicologiche durante l'autopsia non hanno riscontrato tassi alcolici elevati nel sangue.
Inoltre, secondo i familiari della donna, Treo non li avrebbe nemmeno avvisati dell'accaduto: ad avvertire la famiglia, 20 ore dopo la morte di Lucia, è stata la polizia municipale di Verona. Il pizzaiolo si era quindi giustificato dicendo che il suo cellulare era stato sequestrato dalla polizia tedesca, e che aveva potuto avvertire solo i propri genitori perché erano gli unici dei quali ricordava a memoria il numero di telefono.
Dopo l'iscrizione nel registro degli indagati del pizzaiolo, la madre di Lucia Raso, Xenia Maria Sonato, racconta che "fin da subito avevo capito che c'era qualcosa di strano nella morte di mia figlia". E in un’intervista a L'Arena, quotidiano di Verona, spiega che Treo "dice tante cose senza fondamento", ma che comunque "avrebbe dovuto trovare un modo per avvisarci.
Ha telefonato invece ai suoi genitori, che si sono precipitati in Germania, ma sarebbe toccato a noi correre a Landshut". E al Corriere della Sera dice chiaramente che "io non l'ho mai accusato apertamente di averla uccisa, però non riesco a credere che Lucia si sia lasciata cadere nel vuoto".
· Il Mistero della morte di Mauro Pamiro.
Mauro Pamiro, il mistero della morte del prof di informatica: ancora 90 giorni per scoprire la verità. Andrea Galli e Francesca Morandi su Il Corriere della Sera il 2 Giugno 2022.
Nell’ultimo weekend di giugno 2020 il corpo dell’insegnante viene ritrovato in un cantiere di Crema. Suicidio come dicono gli inquirenti? Omicidio come sostengono le indagini della famiglia? E che ruolo ha avuto la moglie, unica indagata, al termine di una notte di abuso di stupefacenti?
« I dubbi, le incongruenze e gli elementi da approfondire»
Due anni di tutto e niente: ancora non sappiamo come morì l’assai amato professore di informatica alle superiori e musicista Mauro Pamiro, se in seguito a un suicidio oppure a un delitto e, in quest’ultimo caso, per mano di chi e perché. Uno dei maggiori misteri d’Italia. Adesso il Corriere ripercorre tutti i fatti da allora.
Era il 29 giugno 2020, un lunedì, quando gli operai al lavoro in un cantiere edile di Crema ritrovarono il corpo del 44enne. L’indirizzo: via don Primo Mazzolari, a trecento metri dall’abitazione di Pamiro e della moglie Debora Stella, una villetta bifamigliare di due piani in via Biondini.
L’ipotesi gesto volontario
Le condizioni del cadavere erano compatibili con la caduta nella notte tra sabato 27 e domenica 28, quando il cantiere era vuoto: una caduta dalla cima della palazzina in costruzione. Nell’esaminare la scena, la polizia, titolare dell’inchiesta, non rinvenne e dunque escluse tracce di aggressioni, anche se rimane pur vero che, in luogo comunque affollato quale era quello (muratori, elettricisti, idraulici, ingegneri, geometri), abbondavano le impronte e i residui di tracce umane a cominciare dai mozziconi di sigarette come dalle bottigliette d’acqua e dalla carta stagnola che avvolgeva i panini del pranzo. Ma per appunto gli investigatori si convinsero che lì ci fosse stato soltanto Pamiro il quale, per detta della moglie, oggi 40 enne, soffriva di problemi di deambulazione connessi con criticità di natura mentale. Scenario per certi versi compatibile con il suicidio, ovvero con Pamiro che avrebbe vagato forse inseguito e infine braccato dai suoi fantasmi, si sarebbe arrampicato per poi precipitare, perdendo l’equilibrio oppure per precisa volontà di togliersi la vita. Non fosse che la stessa Debora dapprincipio dichiarò d’aver ucciso lei il marito, spingendolo giù con l’aiuto di uomini rimasti ignoti, e presto ritrattò la versione garantendo d’essersi inventata per intero lo scenario del delitto. Datato sabato sera l’allontanamento da casa senza mai ritorno di Pamiro, lei non diede l’allarme, non denunciò la scomparsa: perché lo cercò di persona, camminando per boschi, confusa e sotto l’effetto della droga. Sul profilo Facebook postò una fotografia di alberi e scene di Twin Peaks, la serie tv Usa ideata da David Lynch, appassionato predicatore della meditazione trascendentale.
L’ipotesi assassinio
Le contro-indagini degli avvocati che difendono i genitori del professore hanno però evidenziato un elemento che potrebbe spostare la linea del mistero. Nelle immediate vicinanze del cadavere venne rinvenuto un frammento di tegola, contro la quale il professore potrebbe essere caduto picchiando la testa: ebbene in caso di suicidio, per la congruenza delle ferite riportate al capo, quella tegola doveva essere in posizione verticale, come concluso dagli accertamenti del generale Luciano Garofalo, uno dei consulenti di mamma e papà di Pamiro, e non in posizione orizzontale. Così appunto era, il che spingerebbe a ipotizzare che il frammento sia stato utilizzato come arma del delitto e poi abbandonato. E ancora, altro tema centrale nell’inchiesta per la quale la procura aveva chiesto l’archiviazione non incontrando la risposta del gip, che al contrario ha ordinato ulteriori esami: dato che il professore soffriva anche di distrofia muscolare, difficile credere che sia stato in grado, quella notte, di superare la recinzione del cantiere — ma c’erano comunque dei buchi attraverso i quali infilarsi — e arrampicarsi fino al tetto. O quantomeno, che ci sia riuscito da solo.
Il drammatico interrogatorio
In due anni, un unico indagato: lei, la moglie Debora, che nel mezzo del drammatico interrogatorio, reso con lunghi momenti di completa confusione, venne trasferita in ospedale, reparto di Psichiatria, per un Tso; la degenza non fu breve. Il supplemento d’indagini, che esploreranno anche la villetta di via Biondini e di fatto riguarderanno ex novo la donna, non spaventano l’avvocato di quest’ultima, che anzi ben ha accolto lo scrupolo investigativo, sicuro dell’innocenza dell’assistita. Difficile che nella geografia esterna — senza dimenticare che nel mentre quel cantiere è stato completato ed è sorta una palazzina —, la polizia o gli stessi consulenti della difesa possano rinvenire elementi inediti e di conseguenza dirimenti. I filmati delle telecamere utili, peraltro non molte, hanno restituito l’immagine di Mauro Pamiro che, sabato 27, dopo aver inviato ad amici messaggi di disperazione e morte, che quasi annunciavano l’imminente tragedia, si dirigeva scalzo verso via don Primo Mazzolari. Da solo. Nessuno lo precedeva, nessuno lo seguiva. Ma qualcuno lo attendeva dinanzi al cantiere? Novanta giorni di tempo, per il supplemento d’indagini. L’ultima estate per capire se esistano verità sulla fine del povero professore, oppure se il caso, questa volta per sempre, verrà chiuso e dimenticato.
Mauro Pamiro, il mistero della morte. Nel cantiere di notte, la tegola sporca di sangue: cosa sappiamo. Francesca Morandi su Il Corriere della Sera l'11 Gennaio 2022.
Crema, nuove indagini sulla morte di Mauro Pamiro, il musicista e professore di informatica trovato morto il 29 giugno 2020. La moglie Debora Stella unica indagata. Per la Procura si era lanciato volontariamente dal tetto: «Archiviare». Il gip: avanti con gli accertamenti
Nuove indagini saranno eseguite sulla morte di Mauro Pamiro, 44 anni, musicista e amato professore di informatica all’istituto Galilei di Crema, trovato cadavere la mattina del 29 giugno 2020 nel cantiere edile in via Don Primo Mazzolari. Il gip del tribunale di Cremona, Giulia Masci, non ha archiviato l’indagine aperta nei confronti della moglie Debora Stella, unica indagata con l’ipotesi di accusa di omicidio, e ha dato alla Procura sei mesi di tempo per approfondire gli esami che serviranno a far luce sulle circostanze in cui è avvenuto il decesso del docente che alle due di notte uscì dall’abitazione, una villetta in via Biondini, e si incamminò in via Camporelle verso il cantiere, come risulta da una telecamera.
Suicidio o omicidio?
Per la Procura, Pamiro si arrampicò sul tetto della palazzina in costruzione, prese la rincorsa e si lanciò. Nella caduta, «impattò» contro un frammento di tegola sporco di sangue, trovato accanto al corpo. I genitori del professore, papà Franco e mamma Marisa, non hanno mai creduto alla tesi del suicidio. Nelle quattro pagine di rigetto del decreto di archiviazione, il gip ritiene «opportuno» acquisire il video che la squadra mobile di Cremona girò la mattina nell’abitazione dei coniugi, quando gli investigatori si presentarono dalla moglie. Debora era in stato confusionale, rilasciò dichiarazioni sconclusionate, si accusò del delitto, poi ritrattò. Sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio, fu ricoverata in psichiatria. Ora, dice il giudice delle indagini preliminari cremasco, bisogna visionare quel video «alla luce delle spontanee dichiarazioni rese dalla Stella nell’immediatezza del rinvenimento del cadavere del marito (che si palesano a tratti prive di senso logico e a tratti contraddittorie e confuse laddove la stessa in un primo momento asseriva di essere stata stuprata dal marito, di essersi difesa sferrandogli una bastonata in testa — punto in cui sono state riscontrate lesioni, non mortali, in sede di esame autoptico e poi di averlo ucciso. Quindi immediatamente dopo, affermava di averlo ucciso)» e occorre «valutare compiutamente lo stato psichico dell’indagata definita più volte dagli operanti come instabile e con comportamenti denotanti una problematica psichiatrica». Verranno anche esaminati i tabulati telefonici dell’utenza fissa e del telefonino in uso alla moglie di Pamiro.
Dna e impronte sulla tegola
Nuove verifiche vengono chieste anche sul frammento di tegola «al fine di accertare ovvero escludere» la presenza di impronte o Dna appartenenti a terze persone. Un accertamento, questo, su cui avevano insistito gli avvocati Gian Luigi Tizzoni e Antonino Andronico, legali dei genitori di Pamiro. «Il generale Garofano, nostro consulente, aveva evidenziato l’impossibilità che la tegola fosse il punto di contatto con la fronte di Pamiro, trovandosi piatta a terra, a lato del cadavere — spiega l’avvocato Andronico —. Per essere un suicidio, la tegola doveva essere piantata verticalmente a mo’ di spuntone. La forma suggerisce che qualcuno l’abbia utilizzata a mo’ di martello per dargli un colpo in fronte». Il gip reputa «opportuno» analizzare con il luminol la villetta e l’auto di marito e moglie «previo accertamento della fattibilità scientifica/utilità — osserva, infine — dell’operazione in relazione al tempo trascorso dall’evento» e considerato, anche, che villino e auto nel frattempo sono stati restituiti alla moglie. «Siamo lieti del fatto che sia stata rigettata la richiesta di archiviazione — conclude l’avvocato Andronico — e che, finalmente, si possano fare una serie di accertamenti importanti per stabilire le reali cause del decesso di Mauro Pamiro».
Mauro Pamiro, omicidio o suicidio? Il papà del professore di Crema: «Sulla fine di mio figlio ipotesi fantasiose». Francesca Morandi su Il Corriere della Sera il 12 gennaio 2022.
Mauro Pamiro, 44 anni, venne trovato morto il 29 giugno 2020 in un cantiere di Crema. Unica indagata la moglie Debora. Il padre Franco: «È deceduto, non ce lo rende più nessuno, ma rendergli giustizia è doveroso».
Mauro Pamiro, 44 anni, insegnava Informatica all’istituto Galilei di Crema. Pamiro era anche un apprezzato musicista (Rastelli)
«Mi aspettavo che il gip non archiviasse, perché la ricostruzione che era stata fatta dalla Procura era un po’ surreale. Il corpo di Mauro che cadeva prono dall’impalcatura, poi si ribaltava di 180 gradi». Pesa le parole Franco Pamiro, 80 anni, ingegnere, papà di Mauro, il prof di informatica all’istituito Galilei e appassionato di musica, trovato cadavere la mattina del 29 giugno del 2020 nel cantiere in via don Mazzolari. Per il pm, Mauro si lanciò dal tetto della palazzina in costruzione: un suicidio. Il gip Giulia Masci ha disposto nuove verifiche. «Secondo me, il gip ha letto le carte e si è resa conto che qualcosa non tornava».
Che idea si è fatto?
«Non ho idee preconcette, però bisogna che vi siano degli argomenti credibili, sensati, perché la ricostruzione che è stata fatta mi sembrava un po’ fantasiosa».
Unica indagata con l’ipotesi d’accusa di omicidio è Debora, moglie di Mauro. Quella mattina, alla squadra mobile rilasciò dichiarazioni sconclusionate, confessò, ritrattò, fu ricoverata in Psichiatria. La polizia girò un video. Per il gip è utile visionarlo.
«Non accuso nessuno. Noi vogliamo la verità, vogliamo sapere come è morto nostro figlio, però con delle ricostruzioni comprovate da fatti. Per il resto, non ho nessun problema ad accettare una verità o un’altra».
Anche accettare la tesi del suicidio?
«Posso accettarlo se motivato. Se invece si offrono soluzioni che non mi convincono, non le condivido».
Nel suo intimo, parla con Mauro?
«Sono laureato in Ingegneria, sono un uomo pratico. Non mi lascio andare ai sentimentalismi. Cerco di rendergli giustizia. Sa come?»
Come?
«Leggendo gli atti, vedendo che cosa è stato scritto e che cosa è stato fatto. Agli avvocati Andronico e Tizzoni trasmetto le mie osservazioni, perché loro non hanno il tempo di leggersi 3 mila pagine. Io si. Questo è il mio modo di aiutare Mauro. È deceduto, non ce lo rende più nessuno, ma rendergli giustizia mi pare sia doveroso da parte nostra, da parte mia».
Prof trovato morto in cantiere: caso riaperto. Il giudice: "Bisogna indagare sulla moglie". Tiziana Paolocci l'11 Gennaio 2022 su Il Giornale. Nuovi accertamenti a caccia di Dna sulla tegola rinvenuta vicino al corpo.
Si riapre il caso di Mauro Pamiro, l'insegnante di informatica appassionato di musica amato profondamente dai ragazzi del Galilei di Crema «perché riusciva a non annoiarli mai».
Il cadavere dell'uomo di 44 anni venne ritrovato un anno fa. Era la mattina del 29 giugno quando venne notato quel corpo in un cantiere vicino alla villa con giardino di Crema in cui la vittima viveva con Debora Stella, grafica per la pubblicità di quattro anni più giovane. Il gip di Cremona, dopo una lunga camera di consiglio iniziata il 21 luglio, ha rigettato la richiesta di archiviazione proposta dalla Procura e invitato gli inquirenti a compiere accertamenti su alcuni aspetti dubbi evidenziati dall'avvocato Gian Luigi Tizzoni che assiste Franco Pamiro, il papà del professore. Nel provvedimento il gip chiede approfondimenti sulla «confessione» della donna, che poi aveva ritrattato, ma non era stata ritenuta attendibile. «Alla luce delle spontanee dichiarazioni rese nell'immediatezza del rinvenimento del cadavere del marito - scrive il gip - e al fine di valutare compiutamente lo stato psichico dell'indagata definita più volte dagli operanti come instabile e con comportamenti denotanti una problematica psichiatrica, appare opportuno acquisire il video registrato dagli operanti della squadra mobile di Cremona nell'abitazione della Stella avente a oggetto le dichiarazioni di quest'ultima e altresì acquisire i tabulati telefonici dei coniugi».
Nuove verifiche vengono chieste anche sulla ricostruzione della caduta. «Pamiro aveva un foro nel centro della testa, una lesione non mortale ma importante per capire cos'è successo - la tesi di Tizzoni -. Intanto, ci sembra molto difficile che il professore, affetto da una forma di distrofia muscolare, si sia potuto arrampicare così agevolmente. Poi c'è un'incompatibilità dell'ipotesi del suicidio con la tegola ritrovata accanto al corpo di Mauro sulla quale ci sono delle tracce di sangue. Per questo sarebbero utili nuovi prelievi per verificare la presenza di persone estranee che abbiano potuto maneggiare la tegola per colpirlo».
E il giudice ha accolto in pieno la richiesta. «Al fine di accertare, ovvero escludere la presenza di tracce biologiche/impronte di terzi sulla tegola rinvenuta nei pressi del cadavere - è l'indicazione del giudice - è utile effettuare sul reperto gli opportuni accertamenti tecnici volti ad esaltarne eventuali impronte papillari o dna». Verrà analizzata con la tecnica del luminol anche l'abitazione dei coniugi e la loro auto «previo accertamento della fattibilità scientifica dell'operazione in relazione al tempo trascorso dall'evento». Le indagini dovranno essere effettuate entro sei mesi. Tiziana Paolocci
Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 25 giugno 2022.
«Voi date 350 mila sennò noi iniziare a prendere compagno Katia, sorella Stefania, figli piccolini e uccidere, e fare piccoli pezzi per cibo per maiali». Alle 11 del 13 dicembre 2021, una delle stampanti di una copisteria pavese produsse questo testo destinato alla spedizione alle figlie di Luigi Criscuolo alias «Gigi Bici», in un italiano che voleva evocare una «firma» dell'Est Europa: le minacce erano volte a ottenere un riscatto per il sequestro di un uomo in realtà assassinato da oltre un mese, l'8 novembre.
Ai poliziotti, l'impiegato della copisteria descrisse la cliente, che gli «aveva girato il documento per email». La stampante aveva conservato l'indirizzo. Eccolo: pasetti.barbaramariaatlibero.it. Quella donna era proprio Barbara Maria Pasetti, 44 anni, presunta killer di Criscuolo, meccanico e commerciante di biciclette.
La Procura, le cui «carte» sulle meticolose indagini della squadra Mobile il Corriere ora racconta insieme all'ordinanza del gip, ha «chiuso» il caso. Pasetti dovrà rispondere dell'omicidio di «Gigi Bici». La notifica è avvenuta nel carcere di Vigevano: era già in cella per la tentata estorsione relativa alla simulazione del rapimento per intascare soldi.
Soldi che nonostante la provenienza da una ricca famiglia del settore caseario, Pasetti, sedicente fisioterapista, aveva sempre meno. E sarebbe stato il progetto di accedere, secondo un percorso per nulla scontato, a eredità immobiliari, l'innesco del piano di far assassinare l'ex marito. Sparito lui, Pasetti avrebbe acquisito i suoi futuri appartamenti.
Aveva individuato nel 60enne Criscuolo, con cui aveva un legame, il sicario perfetto. «Gigi Bici» forse aveva accettato l'incarico intascando un anticipo, ma ci aveva ripensato e quell'8 novembre aveva raggiunto il vecchio convento divenuto abitazione della donna, a Calignano, nelle campagne pavesi, a bordo della sua Polo. Entrato nel cortile, aveva abbassato il finestrino e comunicato la decisione, consegnando a Pasetti la pistola che aveva procurato su suo ordine. Afferrata l'arma, Pasetti l'aveva rivolta contro «Gigi Bici» uccidendolo con un colpo alla tempia.
Alle 10.44 una telecamera pubblica in paese aveva ripreso il passaggio della Polo. A bordo, un'unica persona: una guidatrice. Il finestrino lato passeggero era infranto, raggiunto dal proiettile che aveva freddato «Gigi Bici». Schegge del vetro sono state rinvenute all'interno dell'ex convento.
Il Labrador e l'arma Pasetti aveva abbandonato la macchina in un bosco: «Sul volante c'erano le sue impronte». Tornata a piedi, aveva nascosto il corpo nel perimetro della magione, all'aperto, «sotto un cumulo di fusti e rami di lauroceraso che provenivano dalla siepe che circonda una parte della proprietà».
In seguito alla scoperta del cadavere fuori dall'ex convento, il 20 novembre, la polizia scientifica ha isolato macchie ematiche su fusti e rami: «Sangue di Criscuolo». Nella perquisizione del primo febbraio, il Labrador «Cocco» dell'unità cinofila ha puntato con insistenza un vano. Ospitava un revolver: «Compatibile con l'omicidio».
Dall'arresto a gennaio, compreso il nuovo interrogatorio di ieri, Pasetti non ha chiarito gli addebiti. Ha ammesso di aver inviato le minacce alla famiglia Criscuolo «obbligata da una banda straniera» (per il pm inesistente). Tre giorni prima della scoperta del cadavere, che mentendo aveva attribuito al figlioletto mentre giocava, Pasetti aveva telefonato all'ex marito (licenziato dall'azienda di vendita di auto per aver rubato 30 mila euro ai clienti) urlando: «Devo andare all'inferno, ho fatto ammazzare un uomo. Sai che c me ne frega di te e degli altri. Non ho scrupoli io».
Una domanda: la scelta di posizionare all'esterno della magione il corpo di Criscuolo? Era il 20 dicembre, ricordiamolo. Pasetti era attesa a casa del papà per le feste natalizie. Non poteva più custodire il corpo. O forse vegliarlo.
Federica Zaniboni per il Messaggero il 23 giugno 2022.
Era tutto deciso: Luigi Criscuolo, conosciuto a Pavia come Gigi Bici, avrebbe aiutato la fisioterapista Barbara Pasetti ad ammazzare il suo ex marito. Gli era stato promesso un compenso e aveva già con sé la pistola di cui si sarebbe servito per commettere il delitto. Quando ha scelto di tirarsi indietro, però, con quella stessa arma è stato ucciso lui. La morte del commerciante di biciclette, quindi, sarebbe stata una sorta di punizione, un'agghiacciante vendetta per cui la donna ieri è stata arrestata una seconda volta. Già in carcere per tentata estorsione, la 40enne adesso è accusata anche di omicidio aggravato.
GLI ACCORDI Secondo la ricostruzione degli investigatori, arrivata dopo settimane di indagini e accertamenti, il 60enne sarebbe morto lo scorso 8 novembre, lo stesso giorno in cui era stato dichiarato scomparso.
Mesi prima aveva preso accordi con la fisioterapista per aiutarla a fare del male all'ex marito, lei gli aveva prestato una pistola e gli era già stato consegnato anche un anticipo della cifra pattuita. Quel lunedì, però, Gigi Bici si è presentato sotto casa di lei per restituirle il revolver calibro 7.65, dicendole che lui non ci stava più. Non avrebbe ammazzato Gian Andrea Toffano, non sarebbe diventato un assassino.
I due si trovavano nel cortile della villa di Calignano, l'uomo era a bordo della sua auto: ha tirato giù il finestrino e le ha allungato l'arma.
A quel punto Pasetti, indossando un paio di guanti, avrebbe preso la pistola e, senza esitazioni, avrebbe sparato quel colpo a bruciapelo contro la tempia sinistra dell'uomo. Le schegge del vetro del finestrino, che si è frantumato in seguito allo sparo, sono state poi rinvenute in una grata nel cortile dell'abitazione.
Ma la 40enne non si sarebbe premurata soltanto di spazzare via i vetri e di pulire il pavimento dal sangue: avrebbe anche nascosto il cadavere. Il corpo di Gigi Bici è stato rinvenuto lo scorso 20 dicembre, nel retro della villa, ricoperto di sterpaglie: a fare la macabra scoperta era stato il figlio di 8 anni della fisioterapista. Secondo l'accusa, dunque, sarebbe stata lei a spostarlo e occultarlo sotto alcuni arbusti che sono poi risultati provenire proprio dal suo giardino. Un altro indizio contro Pasetti sarebbe emerso dalla pistola, sulla quale erano state applicate due etichette con le istruzioni per la messa in sicurezza dell'arma: sugli adesivi c'era il suo materiale biologico.
Tracce della donna, inoltre, erano presenti anche nella Polo bianca della vittima, trovata abbandonata in una stradina di campagna.
Il proiettile che ha ucciso il 60enne, infine, corrisponderebbe all'arma trovata in casa della donna. Ma la messa in scena dell'indagata non finirebbe qui. Nel gennaio di quest' anno, infatti, è stata arrestata per tentata estorsione dopo che avrebbe cercato di ingannare i familiari del biciclettaio, chiedendo un finto riscatto. Questi ultimi, poco dopo la scomparsa dell'uomo, avevano iniziato a ricevere alcune lettere nelle quali veniva chiesto loro di pagare fino a 390mila euro per liberare Criscuolo da una presunta banda di estorsori dell'Est Europa.
I DEPISTAGGI A rendere le indagini particolarmente lunghe e difficoltose, inoltre, sarebbero state proprio le false piste e i depistaggi della donna. Fin dall'inizio ha dichiarato di non avere mai conosciuto prima Gigi Bici e di avere scoperto chi fosse soltanto dopo le notizie sulla sua tragica morte. Non ci sono stati mai dubbi su un possibile ruolo della donna nel delitto, alimentati anche dalle sue continue contraddizioni. Secondo la procura di Pavia, «nessun elemento può far dubitare sul fatto che Criscuolo sia stato ucciso all'interno della proprietà di Pasetti, che il suo corpo sia stato nascosto dagli arbusti e che nessun terzo soggetto abbia preso parte a tali attività».
"Gigi Bici si rifiutò di uccidere il marito". Nei guai la fisioterapista. Laura Cataldo il 22 Giugno 2022 su Il Giornale.
Svolta nel caso che ha visto vittima Luigi Criscuolo, l'uomo di 60 anni che era sparito per qualche tempo prima di essere trovato morto davanti al cancello di un'abitazione. "Quella donna aveva architettato tutto".
Era stato dichiarato scomparso da Carpignano di Pavia l'8 novembre, ed è stato rinvenuto privo di vita vicino a un ex convento di Calignano (Pavia) lo scorso 20 dicembre. A trovare il corpo di Luigi Criscuolo, detto "Gigi Bici" era stata una donna, Barbara Pasetti, 44 anni. Gli inquirenti avevano capito che qualcosa fosse stato nascosto già dal fatto che il cadavere non era stato visto fino a quel momento e il referto dell'autopsia riteneva che l'uomo fosse deceduto tempo prima. Per questo motivo la donna era finita sotto la lente d'ingrandimento degli inquirenti.
La droga, la pistola, "l'esecuzione": cosa è successo a Gigi Bici
I sospetti sulla fisioterapista
Figlia di un noto imprenditore caseario del Pavese, Pasetti sin da subito è stata l'unica a insospettire gli agenti, per diversi motivi. Primo tra tutti il fatto che il corpo dell'uomo si trovasse a pochi passi dalla sua villa. Inoltre la donna aveva attirato su di sé l'attenzione dei militari e dei media dichiarando di aver trovato nella sua buca delle lettere alcuni fogli scritti a mano. Si trattava di parole intimidatorie rivolte ai familiari di Criscuolo. Nelle poche righe erano stati descritti anche un orologio, un portafoglio nero, le foto della moglie e delle figlie sottratti alla vittima. Non solo, due telefonate anonime a loro rivolte avevano rivelato che dall'altro lato della cornetta ci fosse una donna che camuffava la voce.
Nonostante ciò il giallo si faceva sempre più fitto. Gli agenti non avevano materiale sufficiente per incriminare qualcuno. Finché non sono state trovate delle tracce di sangue nel giardino della fantomatica fisioterapista, la donna infatti non ha alcun titolo che dimostri che lo sia davvero.
Le prime accuse
Mentre la Scientifica procedeva con i rilievi, Barbara Pasetti veniva accusata per tentata estorsione ai danni dei familiari di Gigi Bici. È il 20 gennaio e secondo gli investigatori la donna avrebbe contribuito ad occultare la salma del 60enne, cercando di trarre profitto dal fatto che fosse nascosta vicino alla sua abitazione. In manette, la Pasetti continuava a negare di aver conosciuto Criscuolo.
Nel mesi successivi le indagini continuano, gli esami rivelano tutto quello che si è cercato di nascondere. Il materiale ematico, così come gli altri reperti rinvenuti nell'abitazione della 40enne nel corso dei sopralluoghi precedenti, vengono esaminati dai periti della procura. Tra gli altri elementi al vaglio degli inquirenti ci sono anche la pistola (una vecchia arma di piccolo calibro compatibile con la ferita alla tempia della vittima) trovata in casa della "fisioterapista" e una quantità non definita di polvere vetrosa rinvenuta sul proiettile.
La svolta del caso
Dopo aver analizzato le prove, il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Pavia accusa la Pasetti dell'omicidio del commerciante pavese. Ma cos'è successo davvero quell'8 novembre?
Secondo la procura quel giorno l'uomo sarebbe andato a casa della donna per restituirle la pistola, un revolver calibro 7.65, che gli aveva dato per uccidere il marito. Da giugno, infatti, i due erano rimasti in contatto per portare a termine il delitto dell'ex. La donna quindi doveva essere il mandante e Gigi Bici avrebbe dovuto essere l'esecutore dell'omicidio di Gian Andrea Toffano. Quel giorno, però, per ragioni ancora da accertare, l'uomo avrebbe cambiato idea facendo andare su di giri la donna che avrebbe sparato alcuni colpi uccidendo sul colpo il 60enne.
Le indagini inoltre rivelano che la donna si sarebbe occupata anche dell'occultamento del cadavere: lo avrebbe trascinato sul retro del cascinale e coperto di sterpaglie. Per nascondere le tracce avrebbe lavato il pavimento ed eliminato qualsiasi cosa rimandasse all'uomo. La pistola, invece, l’avrebbe nascosta in un vano scala di casa.
Per depistare le indagini Pasetti avrebbe poi scritto le lettere intimidatorie e alla fine avrebbe finto di trovare per caso il cadavere di Gigi. Secondo la Procura la donna avrebbe agito da sola, senza l'aiuto di nessuno.
Un piano quasi perfetto.
Gravissimi indizi riportano a lei. Omicidio Gigi Bici, la fisioterapista arrestata anche per omicidio: “Si era rifiutato di ‘sistemare’ l’ex marito”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 22 Giugno 2022.
Svolta per le indagini sulla morte di Luigi Criscuolo, 60 anni, conosciuto da tutti a Pavia come Gigi Bici. Barbara Pasetti, 40 anni, la fisioterapista della frazione Calignano di Cura Carpignano (Pavia), già in carcere per tentata estorsione ai danni dei familiari della vittima, è ora accusata anche di omicidio del commerciante pavese. Lo ha stabilito il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Pavia. Sulla donna pesano gravissimi indizi di commissione del reato. Secondo la ricostruzione delle indagini della Procura, sarebbe stata lei ad uccidere Luigi Criscuolo con un colpo alla tempia, proprio l’8 novembre, quando l’uomo era andato da lei per restituirle la pistola che gli avrebbe dato con le istruzioni per “sistemare” il suo ex marito Gian Andrea Toffano. Gigi si era tirato indietro e non voleva portare a termine il compito che gli era stato assegnato. Per questo sarebbe stato eliminato. A renderlo noto, un comunicato della Procura di Pavia firmato dal procuratore Fabio Napoleone.
La Squadra Mobile di Pavia ha eseguito una misura cautelare nei confronti di Barbara Pasetti, proprietaria dell’immobile a ridosso del quale è stato trovato il 20 dicembre dello scorso anno, il corpo esanime di Luigi Criscuolo. L’uomo era scomparso l’8 novembre 2021. Pasetti il 20 gennaio scorso aveva già ricevuto una misura cautelare per tentata estorsione nei confronti della vittima. La donna, da quanto è emerso dalle indagini, fin dal mese di aprile 2021 aveva il proposito di recare nocumento all’ex marito Gian Andrea Toffano, in un primo momento cercando di raggiungere tale obiettivo agendo individualmente. Poi, già nel mese di giugno dello scorso anno avrebbe preso contatti con Gigi Bici, che aveva visto più volte. A Criscuolo la donna aveva promesso un compenso se avesse aggredito l’ex marito. La donna gli ha anche prestato un revolver privo di numero di matricola calibro 7.65, con applicate due etichette adesive per indicare la sicura. L’8 novembre, Luigi Criscuolo ha cambiato idea ed è andato a casa della donna per ridarle l’arma. Era entrato in auto nel cortile della donna e le aveva parlato senza uscire dall’abitacolo ma soltanto abbassando il finestrino lato conducente.
Pochi attimi che sono bastati alla donna, secondo quanto ricostruito dalla procura di Pavia, per afferrare la pistola che Gigi Bici le stava restituendo con dei guanti e fare “fuoco a bruciapelo contro la tempia sinistra” dell’uomo. “Il proiettile ha infranto tra l’altro vetro anteriore del veicolo, quello lato passeggero”, fa notare la procura in una nota firmata dal procuratore Roberto Napoleone. Frammenti di vetro, infatti, sono stati trovati nel cortile della donna. Barbara Pasetti ha poi spostato “il corpo di Luigi Criscuolo fino al retro” della sua proprietà e lo ha messo “nel luogo dove poi sarebbe stato trovato, lo ha coperto con sterpaglie certamente provenienti da vegetazione all’interno del giardino, ha cercato di lavare sia il carrello di metallo che la parte di pavimento ove era colato il sangue della persona offesa, ha spazzato all’interno del canale scolmatore i frammenti di vetro del finestrino lato passeggero” che era stato “infranto dal proiettile che ha attraversato tutto il cranio di Luigi Criscuolo”. La donna ha poi nascosto “l’arma all’interno di un vano posto sulla scala interna che conduce al primo piano dell’abitazione” e ha portato la macchina dell’uomo nel posto in cui è stata trovata. Nel farlo ha lasciato le “proprie ed inequivocabili tracce biologiche all’interno dell’abitacolo della vettura”.
Barbara Pasetti, per la Procura di Pavia, dopo l’omicidio di Gigi Bici avrebbe inscenato “l’improbabile vicenda estorsiva per la quale si trova già sottoposta a regime detentivo ormai da quasi 5 mesi”. La donna avrebbe sparato perché la vittima si rifiutava di fare del male all’ex marito e di restituirle l’acconto già versato. Tutte le prove raccolte, per la procura di Pavia, riconducono indicano Barbara Pasetti come autrice dell’omicidio. Le etichette adesive applicate all’arma sono cosparse – nella loro parte posteriore – di materiale biologico riconducibile a Gigi Bici. Le analisi botaniche non hanno restituito alcun dubbio circa la provenienza degli arbusti utilizzati per coprire il corpo dell’uomo; il carrello metallico e la grata che copre il canale scolmatore si sono rivelati coperti da significative tracce del sangue della vittima. Il cranio dlel’uomo è stato trapassato proprio da un proiettile di calibro identico a quello che la pistola (perfettamente funzionante), nascosta da Barbara Pasetti, era capace di sparare.
Un’ogiva relativa ad un simile proiettile è trovata proprio nella parte di cortile antistante la porta di accesso all’abitazione, dove si è svolto l’omicidio. La donna aveva altri proiettili dello stesso tipo e avrebbe agito da sola. Nel corso delle indagini non sono stati trovati riscontri circa la presunta banda di estorsori provenienti dall’est Europa, di cui la Barbara Pasetti avrebbe parlato agli inquirenti. “Le indagini – sottolinea il procuratore di Pavia – sono state rese ancor più difficoltose sia dalla serie di false piste fornite dall’indagata– ma comunque rese oggetto di verifica e approfondimento – sia dalla proliferazione di errate informazioni pervenute e diffuse alla stampa sia locale che nazionale“.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Omicidio Gigi Bici, la vita in carcere di Barbara Pasetti. «È tranquilla, studia cucito perché vuole lavorare». Andrea Galli e Eleonora Lanzetti su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2022.
La donna, unica indagata per la morte di Luigi Criscuolo, continua a dichiararsi innocente. Il mistero della pistola che ha sparato: è un’arma artigianale costruita oltre mezzo secolo fa, ben conservata e mai registrata. A fine mese la chiusura delle indagini.
«Un delitto con tante ombre»
Per mezzo secolo o forse più, il possessore della pistola che ha ucciso Luigi Criscuolo alias «Gigi Bici», 60 anni ex buttafuori, ha mantenuto l’arma in perfetta funzione. L’ha pulita, oliata, testata. Questa antica pistola — piccola, da custodire in una tasca oppure in una borsetta — non rientra in nessun registro perché, come appreso dal Corriere, è stata fabbricata artigianalmente e, forse, tramandata di generazione in generazione. Fino ad approdare nelle mani di Barbara Pasetti, la 44enne che, secondo l’impianto accusatorio della Procura, avrebbe sparato contro lo stesso Criscuolo, ucciso da un unico proiettile alla tempia nelle ore successive all’8 novembre 2021, il giorno della sua sparizione dalla casa di Pavia.
Le telecamere
Del 20 dicembre il rinvenimento del corpo, in località Calignano, cinquecento abitanti, una frazione del comune di Cura Carpignano; i resti, sui quali si erano accaniti gli animali, i temporali e l’umidità, erano semi-nascosti da rovi e arbusti nel campo incolto che confina con un castello trasformato in residenza di lusso, circondato da un perimetro di mura e soprattutto telecamere di videosorveglianza. Ovvero l’abitazione di Pasetti, figlia di una ricca famiglia di imprenditori nel settore caseario, in carcere con l’accusa di omicidio e occultamento di cadavere; al proposito, nella prigione di Vigevano la donna ha chiesto a ripetizione di poter lavorare, si è fatta portare dei libri di cucito con l’obiettivo non di riempire gli infiniti tempi della vita in cella, quanto di imparare davvero e rendersi utile al resto dei detenuti. Chi ha modo di vederla e incontrarla, ha parlato di una donna «ordinaria» nella gestione della quotidianità, senza degenerazioni di violenza o insofferenza mentale.
La banda dell’Est
Di fatto Pasetti, separata, un figlio di otto anni affidato ai nonni, sedicente fisioterapista — così si annunciava ma non ha mai praticato —, non ha finora parlato del caso e delle colpe che le addossano. O meglio: aveva da subito e ha in seguito insistito sulla storia criminale di una presunta banda dell’Est in qualche modo responsabile del delitto. Storia che da allora, in sette mesi di indagini articolate della Questura di Pavia, non ha cristallizzato un elemento-uno a conferma della tesi. Pura invenzione. A quale pro, non lo si conosce. Forse Pasetti voleva depistare, buttarla sulla generica paura dello straniero che spesso attecchisce nei pensieri del popolo, ed era sicura — sicurissima — di potercela fare. Tacendo, Pasetti non ha in aggiunta risolto i misteri relativi a quella pistola, la cui analisi ha rimandato a lei sia come possesso sia come specifico uso assassino, e che i magistrati non escludono possa esser stata reperita da parte del medesimo «Gigi Bici». Luigi Criscuolo sarebbe insomma stato freddato dall’arma che...
Le lettere anonime
In Procura si ripete che le indagini dovrebbero concludersi entro questo mese. Mancano pochi passaggi, di esclusiva natura scientifica, e sembra necessari non per svelare nuovi particolari bensì per rafforzare gli elementi di prova già in possesso. Vero che la coltivazione del dubbio è comandamento d’ogni inquirente, però le ipotesi iniziali sono procedute in modo lineare durante i numerosi passaggi dell’inchiesta. Si sospettava di Barbara Pasetti e a oggi la si considera protagonista principale della morte di «Gigi Bici», il quale potrebbe aver conosciuto la donna nell’estate del 2021 e anche avviato una relazione. I magistrati non escludono «collaborazioni», ma che nell’eventualità non altererebbero il quadro. In relazione a quella storia dei predoni dell’Est, sarebbe stata sempre Pasetti a scrivere delle lettere, due delle quali con destinatarie le figlie di Criscuolo e inerenti la scomparsa; lettere scritte in maniera sgrammaticata a voler far apparire che dietro ci fosse una mano straniera. Lettere invece composte dal computer della 44enne, di cui nella fase successiva alla scoperta del cadavere, quand’era divenuta una «sorvegliata speciale» dalla polizia con intercettazioni, sopralluoghi e pedinamenti, rimarrà notoria la propensione a fingere di ribellarsi all’assedio dei giornalisti fuori casa volendo invece — si truccava e sceglieva appositi vestiti — comparire dinanzi alle telecamere.
La difesa
Sicché, chi sia sul serio Barbara Pasetti, se una completa innocente anzi una vittima della giustizia come ripetono i famigliari specie il padre, a sua volta collezionista di armi, oppure una figura suo malgrado iconica della criminalistica italiana — una persona complessa e complicata, diabolica e pianificatrice —, è di certo un punto centrale dell’inchiesta e anche della narrazione. Insieme, s’intende, ai motivi che l’avrebbero spinta ad assassinare Criscuolo, forse punito per un rifiuto, un ipotetico sgarro, un’ipotetica mancanza di rispetto nei confronti d’una donna che, per intanto, una cosa ha in testa: lavorare in carcere. Se mai Barbara Pasetti ha fornito particolari dirimenti nei colloqui con l’avvocato, è un segreto professionale della sua legale, impegnata nella contro-indagine per smontare la costruzione dei pm e della polizia; per dimostrare che se anche...
Delitto Gigi Bici, «il proiettile che l’ha ucciso è simile a quello trovato nella villa di Barbara Pasetti». Eleonora Lanzetti su Il Corriere della Sera il 6 Maggio 2022.
Dall’autopsia sulla vittima emerge che il proiettile killer che ha ucciso il commerciante di biciclette combacia con l’ogiva ritrovata dalla polizia nel terreno della villa della fisioterapista. Attesi i risultati della perizia sulla pistola.
Potrebbe esserci una svolta nel caso dell’omicidio di Gigi Bici, il commerciante di biciclette 60enne — all’anagrafe Luigi Criscuolo — trovato cadavere davanti alla villa di Calignano di Barbara Pasetti. Il proiettile che lo ha ucciso è infatti simile a quello trovato durante i sopralluoghi nella magione della sedicente fisioterapista, in carcere a Vigevano per tentata estorsione, e indagata per omicidio e occultamento di cadavere. Dalla autopsia sulla vittima emerge proprio questo: il proiettile killer che ha ucciso Criscuolo combacia con l’ogiva ritrovata dalla polizia nel terreno della villa della Pasetti, al momento unica indagata per il delitto. L’ogiva, inoltre, sarebbe simile agli altri proiettili inesplosi trovati in un sacchetto di plastica, sempre all’interno della casa.
Freddato a bruciapelo
Secondo l’ esame autoptico, Gigi Bici è stato freddato con colpo di pistola calibro 7,65 alla tempia sinistra, a bruciapelo, e ad una distanza molto ravvicinata. La traiettoria del colpo sarebbe dal basso verso l’alto, tutti elementi che portano a confermare l’ipotesi dell’auto. Gigi Bici potrebbe essere stato ucciso mentre si trovava sulla sua Polo Bianca: il vetro rotto e le tracce di sangue ritrovate all’interno dell’abitacolo e sui sedili portano su questa strada.
La perizia sulla pistola
La data della morte combacerebbe con il giorno della scomparsa. L’omicidio, infatti, risalirebbe all’8 novembre, quando il commerciante è sparito dalla sua casa di Cura Carpignano. Il cadavere, tenuto nascosto per oltre un mese e mezzo è stato poi trascinato a terra fuori dalle mura di cinta della grande casa della Pasetti, che lo ha fatto scoprire nel pomeriggio del 20 dicembre, raccontando che il figlioletto di 8 anni l’aveva notato mentre giocava a pallone. Si attendono i risultati di altre perizie che potrebbero aggravare la posizione della Pasetti. Le perizie in corso dovranno ora chiarire se a sparare il colpo che ha ucciso Gigi Bici sia stata la pistola ritrovata in una centralina elettrica della sua villa.
Omicidio Gigi Bici, analisi su parte del proiettile trovato a casa della Pasetti: svolta nelle indagini. I sospetti che quel frammento appartenga al proiettile che la sera di lunedì 8 novembre ha ucciso Gigi Bici: l’esame in programma per lunedì 21 marzo. A cura di Giorgia Venturini su Fanpage.it il 15 marzo 2022.
Potrebbero essere vicine a una svolta le indagini sull'omicidio di Luigi Criscuolo, 60 anni, conosciuto da tutti a Pavia come Gigi Bici perché per anni ha gestito un negozio per la rivendita e la manutenzione delle biciclette. La polizia scientifica di Roma lunedì 21 marzo eseguirà un esame sul frammento di proiettile trovato lo scorso 20 gennaio dagli agenti della Squadra Mobile nella villa di Barbara Pasetti, in carcere ora con l'accusa di omicidio. Forti sono i sospetti che quel frammento appartenga al proiettile che la sera di lunedì 8 novembre ha ucciso Gigi Bici con un colpo alla tempia destra.
Frammenti di vetro sul proiettile
Le speranze di una possibile svolta su questo caso sono legate infatti a questo esame. Perché? Sul frammento del proiettile è stata trovata una polvere vetrosa che potrebbe coincidere con le modalità dell'omicidio. La parte vetrosa potrebbe essere stata prodotta dalla rottura del vetro dell'auto di Gigi Bici, ritrovata vuota e con il finestrino rotto nelle campagne di Calignano. Al momento l'unica certezza arriva dall'esame dell'autopsia che conferma la morte dovuto a un unico colpo di pistola di piccolo calibro alla tempia destra. Saranno ora anche altre perizie a confermare se l'arma del delitto è quella ritrovata nella villa di Barbara Pasetti lo scorso primo febbraio. E il frammento di proiettile trovato dalla polizia scientifica potrebbe appartenere a questa pistola.
Tracce di Dna di due uomini sull'auto di Gigi Bici
Oltre agli esami balistici si attendono anche i risultati delle tracce di Dna di due uomini trovate sull'auto del commerciante di biciclette pavese: le tracce biologiche miste erano in una macchia di sangue trovata sulla Volkswagen Polo. Uno dei due Dna apparterebbe alla vittima, ma l'altro? In questi giorni i periti lo metteranno a confronto con i 3 Dna prelevati nei giorni scorsi da Franco Pasetti, padre di Barbara, Gian Andrea Toffano, ex marito della fisioterapista, e Ramon Pisciotta, il "buttafuori" amico di Gigi Bici. "Mai come in questo momento storico le analisi scientifiche sembrano ricoprire un ruolo dirimente per la risoluzione dei casi di omicidio", aveva scritto su Fanpage.it la criminologa Anna Vagli qualche giorno fa.
Gigi Bici: nel sangue trovato sull'auto dna di due uomini. ANSA il 13 marzo 2022.
E' di due persone il dna presente nelle tracce di sangue trovate sull'auto di Luigi Criscuolo, il sessantenne scomparso l'8 novembre e trovato cadavere il 20 dicembre a Carpignano, nel Pavese. Uno è quello di Gigi, l'altro di un maschio che deve ora essere identificato e che potrebbe avere avuto un ruolo nella sua uccisione. Lo riporta la Provincia Pavese.
Il profilo genetico, che era sulla Polo ritrovata il giorno stesso della scomparsa, sarà confrontato con quello di tre persone legate a Barbara Pasetti, la quarantenne in carcere con l'accusa di tentata estorsione ma indagata anche per omicidio e occultamento di cadavere. Si tratta di Franco Pasetti, il padre di Barbara Pasetti, , l'ex marito della donna Gian Andrea Toffano e Ramon Cristian Pisciotta, il buttafuori amico di Gigi Bici che ha detto di essere stato contattato da lei per 'sistemare' l'ex marito. Il confronto dei profili viene fatto anche con le altre tracce biologiche trovate durante i sopralluoghi nella casa di Pasetti e nella zona circostante, dove è stato trovato il cadavere di Criscuolo.
Si attende intanto il deposito dei risultati dell'autopsia eseguita dal medico legale Yeo Chen mentre la difesa di Barbara Pasetti ha nominato come consulente il biologo Pasquale Linarello, ex ris che era stato anche consulente della difesa di Alberto Stasi. Per l'accertamento, invece, la Procura ha nominato proprio consulente Roberto Giuffrida del gabinetto regionale di polizia scientifica di Milano. (ANSA).
(ANSA il 24 febbraio 2022) - "Mi sono reso conto che l'obiettivo di Barbara era di farmi fuori, in un modo o nell'altro". A dichiararlo oggi, in un'intervista trasmessa nel programma 'La Vita in Diretta' su Raiuno, è stato Gian Andrea Toffano, ex marito di Barbara Pasetti, la fisioterapista 40enne di Calignano, frazione di Cura Carpignano (Pavia), finita in carcere con l'accusa di tentata estorsione nell'ambito dell'inchiesta per l'omicidio di Luigi Criscuolo, 60 anni, conosciuto da tutti a Pavia come Gigi Bici.
"Sto vivendo un incubo, voglio tornare alla mia vita - ha dichiarato Toffano -. Per due volte Barbara ha cercato di avvelenarmi con massicce dosi di sonnifero versate nel caffè". Gli episodi a cui fa riferimento l'uomo sono avvenuti nella scorsa primavera.
"La prima volta Barbara - ha raccontato Toffano - è venuta nella concessionaria in cui lavoravo e mi ha portato il caffè in un bicchierino di carta. Mezz'ora dopo averlo bevuto sono svenuto: se mi fossi messo al volante dell'auto non so che fine avrei fatto. Sono andato in ospedale e nel referto ho letto che mi era stata somministrata una dose pesante di sonnifero. Ho chiesto un chiarimento a Barbara in un luogo neutro: ci siamo visti in un bar, e anche in quel caso dopo aver bevuto il caffè mi sono sentito male. A quel punto ho capito che era stata lei a cercare di avvelenarmi. Alla luce di quanto è successo dopo, mi sono reso conto di aver seriamente rischiato di rimetterci la pelle".
Toffano ha spiegato di non aver denunciato subito quanto gli era accaduto perché temeva di "perdere definitivamente il bambino", rimasto con Barbara dopo la loro separazione. L'ex marito ha raccontato alla polizia i due tentativi di avvelenamento subìti lo scorso 7 febbraio, quando in Questura ha portato anche i referti dell'ospedale.
L'ipotesi sulla quale stanno lavorando gli inquirenti è che Barbara Pasetti (indagata anche per omicidio e occultamento di cadavere per il delitto di Gigi Bici) abbia cercato di eliminare l'ex marito per entrare in possesso del patrimonio (4 appartamenti e 4 garage a Milano, Brescia, Lecco e Finale Ligure) che Toffano ha ereditato dalla madre morta il 4 dicembre 2020. Intanto si è sempre in attesa dell'esito delle perizie disposte dalla Procura di Pavia per far luce sull'omicidio di Criscuolo.
Dall'autopsia (che ha stabilito che Gigi Bici sarebbe stato ucciso l'8 novembre, il giorno in cui era scomparso, con un colpo di pistola di piccolo calibro alla tempia destra) sarebbero emersi segni di trascinamento del cadavere della vittima, ritrovato il pomeriggio di lunedì 20 dicembre in un campo di Calignano, vicino alla villa di Barbara Pasetti.
(ANSA il 7 febbraio 2022) - A Calignano, frazione di Cura Carpignano (Pavia), nella villa di Barbara Pasetti, la fisioterapista 40enne arrestata con l'accusa di tentata estorsione nell'ambito dell'inchiesta sull'omicidio di Luigi Criscuolo, 60 anni, conosciuto da tutti a Pavia come Gigi Bici, è stato trovato anche un sacchetto contenente una ventina di proiettili di piccolo calibro.
La scientifica dovrà ora stabilire se le pallottole sono compatibili con quella che ha ucciso Gigi Bici la mattina di lunedì 8 novembre, il giorno della sua scomparsa. A darne notizia è oggi il quotidiano "La Provincia pavese".
La scoperta dei proiettili è avvenuta durante la perquisizione di giovedì 20 gennaio, il giorno in cui Barbara Pasetti (indagata anche per omicidio e occultamento di cadavere) è stata arrestata.
Nel sopralluogo di martedì primo febbraio la polizia ha ritrovato una vecchia pistola di piccolo calibro: anche in questo caso gli accertamenti tecnici dovranno stabilire se può essere compatibile con quella del delitto. Gli investigatori hanno inoltre trovato nella villa una cassetta degli attrezzi da lavoro di Criscuolo. Il cadavere di Gigi Bici è stato trovato (o fatto trovare) nelle campagne di Calignano, davanti alla villa di Barbara Pasetti, un ex monastero del Seicento, nel pomeriggio di lunedì 20 dicembre.
Gigi Bici, trovata la sua valigetta da lavoro a casa di Barbara Pasetti. Eleonora Lanzetti su Il Corriere della Sera il 5 febbraio 2022.
Si aggravano gli indizi a carico della fisioterapista, nella cui abitazione è stata trovata anche una pistola con la matricola abrasa. Nuovi esami sull’auto della vittima: lunedì gli esiti.
La casa di Barbara Pasetti continua a restituire oggetti rilevanti per la risoluzione del giallo sulla morte di Gigi Bici, il commerciante pavese di 60 anni trovato cadavere fuori dalla grande villa della 40enne di Calignano lo scorso 20 dicembre. Dopo la pistola di piccolo calibro con matricola abrasa, compatibile con quella usata per freddare Luigi Criscuolo e rinvenuta all’interno dell’abitazione, spunta anche la cassetta da lavoro di Gigi Bici. L’uomo, quindi, sarebbe entrato anche in casa della sedicente fisioterapista, dove avrebbe lasciato i suoi attrezzi. La pistola verrà ora sottoposta all’esame della scientifica, che dovrà stabilire se si tratta effettivamente di quella del delitto che corrisponde a una 7,65 o una 22.
La difesa di Pasetti
L’avvocato Irene Valentina Anrò, il legale di Barbara Pasetti, si è recata nei giorni scorsi alla Procura di Pavia per esaminare l’esito dell’ ultimo sopralluogo di martedì 1 febbraio nell’ex convento di proprietà della sua assistita. «Su questa circostanza stiamo lavorando — ha affermato l’avvocato —. Stiamo facendo la nostra attività. Nei prossimi giorni vedrò la mia assistita in carcere». Dal carcere, intanto Pasetti continua a sostenere di «essere stata incastrata», nonostante gli indizi emersi che aggraverebbero ulteriormente la sua posizione.
I controlli sull’auto di Gigi Bici
Nei prossimi giorni verranno passati al setaccio il computer e il cellulare di Barbara Pasetti dal quale, sin dal giorno della scomparsa di Luigi Criscuolo, sono partite numerose chiamate e messaggi destinati alla stessa figlia di Gigi, Katia, e agli amici del commerciante, Mimmo e poi, in seguito, Ramon Pisciotta. Lunedì dovrebbero essere resi noti gli esiti degli esami effettuati sull’auto di Criscuolo, ritrovata nelle campagne di Calignano la sera dell’8 novembre, con un vetro infranto e macchie di sangue all’interno dell’abitacolo. Un giallo dai contorni ancora molto sfumati, e con tanti interrogativi. Chi ha ucciso Gigi? E per quale motivo? Davvero Barbara Pasetti lo aveva ingaggiato per «eliminare l’ex marito», che a suo dire la maltrattava? L’avvocato Marco Biancucci, legale di Gianandrea Toffano, ex marito della 40enne di Calignano, rigetta le accuse. «I due ex coniugi erano in rapporti regolari. Non mi capacito di come si sia potuto affermare che il mio cliente si è reso responsabile di maltrattamenti in famiglia: sono affermazioni contro le quali ci tuteleremo nelle sedi più opportune. Non esiste nessun tipo di coinvolgimento del signor Toffano in questa vicenda».
Omicidio Gigi "bici", una pistola trovata sepolta nel giardino dell'indagata. Redazione Tgcom24 il 3 Febbraio 2022.
Possibile svolta nell'omicidio di Luigi Criscuolo, 60 anni, conosciuto da tutti a Pavia come Gigi Bici per aver gestito a lungo un negozio per la vendita e la manutenzione di biciclette. Una pistola è stata trovata sepolta nel giardino della villa di Barbara Pasetti, la fisioterapista 40enne finita in carcere con l'accusa di tentata estorsione nell'ambito dell'inchiesta. Si ipotizza che si tratti dell'arma del delitto.
A rivelare la notizia è stato il quotidiano "La Provincia pavese" secondo cui l'arma è stata rinvenuta dagli inquirenti durante il sopralluogo effettuato martedì a Calignano, frazione di Cura Carpignano (Pavia) dove si trova l'abitazione di Barbara Pasetti. A trovare la pistola sarebbero stati gli agenti della squadra mobile grazie all'utilizzo di un robot georadar. La pistola verrà ora analizzata dalla scientifica: in particolare si dovrà anche stabilire se è compatibile con il frammento di proiettile ritrovato nell'area dell'abitazione il 20 gennaio, il giorno dell'arresto di Barbara Pasetti.
Dall'autopsia sul corpo di Luigi Criscuolo è emerso che ad ucciderlo è stato un colpo di pistola alla tempia destra, esploso da una calibro 7,65 o una 22. Il sopralluogo di martedì, che oltre alla squadra mobile e alla scientifica ha visto in azione anche le unità cinofile con i cani molecolari, è stato disposto dal sostituto procuratore Andrea Zanoncelli, il magistrato che coordina l'indagine. L'avvocato Irene Valentina Anrò, il legale di Barbara Pasetti, si è recata alla Procura di Pavia per esaminare l'esito dell'ispezione. "Su questa circostanza stiamo lavorando - ha affermato l'avvocato - Stiamo facendo la nostra attività".
Gigi Bici era scomparso da casa la mattina di lunedì 8 novembre, lo stesso giorno nel quale (secondo l'autopsia) è stato ucciso, Il suo cadavere era stato ritrovato il pomeriggio di lunedì 20 dicembre in un campo di Calignano davanti alla villa di Barbara Pasetti.
Omicidio Gigi Bici, spunta un testimone: «Barbara Pasetti chiese anche a me di uccidere l’ex marito». Eleonora Lanzetti su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2022.
A «La Vita in Diretta» si è presentato un conoscente, Ramon Cristian Pisciotta, che ha detto di essere stato contattato dalla donna l’8 novembre: «Mi ha offerto dei soldi».
Barbara Pasetti, la fisioterapista 44enne di Calignano rinchiusa da una settimana nella sezione femminile del carcere Piccolini di Vigevano per estorsione nell’ambito dell’indagine sull’omicidio di Gigi Bici, aveva in mente un piano «luciferino». Ciò che Luigi Criscuolo non aveva portato a termine, ossia il terribile compito di eliminare il marito che, a detta della stessa, era un violento e la picchiava (nel quartiere in cui vive con la nuova compagna viene definito da tutti come una brava persona, tranquilla e riservata), ora spettava a un altro conoscente, Ramon Cristian Pisciotta.
L’uomo, che conosceva Gigi Bici, era stato contattato dalla donna l’8 novembre, il giorno stesso della scomparsa. Barbara aveva detto a Ramon che Criscuolo aveva bisogno di aiuto perché era finito vittima di un violento pestaggio. Poi, però, la Pasetti aveva chiesto un appuntamento al ragazzo nei pressi del cimitero di Pavia per una «questione» da portare avanti.
I due si incontrano, e Barbara Pasetti va subito al sodo: Ramon Cristian Pisciotta avrebbe dovuto proseguire il «lavoro» non portato a termine da Criscuolo, ovvero di «sistemare» il suo ex marito. Lo ha detto chiaramente Pisciotta, questo pomeriggio ai microfoni della trasmissione Rai «La Vita in Diretta»: «Barbara Pasetti mi ha offerto dei soldi e mi ha chiesto anche di andare a casa sua, forse perché lasciassi delle tracce, ma io non ho accettato».
Affermazioni al vaglio degli inquirenti, così come il contenuto delle telefonate e dei messaggi tra la 44enne di Calignano e Ramon, amico di Gigi Bici. Sembra che la sedicente fisioterapista avesse fatto un’offerta di 20 mila euro all’uomo, e poi rilanciato a 30 mila. Non solo, Ramon ha anche avanzato sospetti pesanti sulla donna: «Per come sono andate le cose, potrebbe essere stata lei a uccidere Gigi».
Eleonora Lanzetti per il "Corriere della Sera" il 24 gennaio 2022.
La macchina blindata nel cortile circondato da mura e siepi. Il sistema di videosorveglianza a protezione della sconfinata casa, un ex convento. L'abitudine, quando a passeggio nelle vuote strade di Calignano, frazione di 500 abitanti nelle campagne pavesi, di scrutare intorno ed esaminare i passanti.
Eppure, ossessionata da eventuali pedinatori, sospettosa e guardinga - scoprì subito il Gps installato sull'auto dagli agenti -, sicura d'essere al centro di complotti e sicurissima d'essere più furba degli investigatori, la 44enne Barbara Pasetti avrebbe commesso degli errori, cristallizzando la sua voce in telefonate sotto intercettazione con riferimenti, per nulla giudicati indiretti, alla morte di Luigi Criscuolo, quel «Gigi Bici» possessore di negozi a Pavia, scomparso l'8 novembre e rinvenuto il 20 dicembre. Dove? All'esterno proprio della magione di Pasetti, erede di una ricca famiglia di imprenditori, un figlio di 8 anni affidato ai nonni da giovedì, il giorno dell'arresto per tentata estorsione (Barbara è anche indagata per omicidio e occultamento di cadavere).
Ebbene, in una telefonata all'ex, avrebbe fatto riferimenti alle modalità del delitto quando si ignoravano le cause della fine di Criscuolo in quanto il cadavere non era stato individuato. In un'altra conversazione, sembra da una cabina telefonica e diretta alla figlia di «Gigi Bici», avrebbe invano alterato la propria voce con l'obiettivo di apparire un uomo dell'Est Europa sollecitando un riscatto. E poi: in una lettera scritta al computer e inviata a se medesima, certo spacciandola come missiva spedita da presunti malavitosi russi, aveva parlato di una morte provocata da un proiettile.
Infatti Criscuolo, 60 anni, è stato freddato con un colpo alla tempia, nell'immediatezza della scomparsa; una modalità da esecuzione. Lui e Barbara si erano conosciuti in estate. Il commerciante con ombre nel passato e la fisioterapista - il mestiere dichiarato - che tale non era, una quotidianità tra isterie e debolezza, i perenni ricordi del fratello morto anni fa in un incidente e forse giri strani nei quali avrebbe trascinato «Gigi Bici», forse eliminato proprio da Barbara ma non da sola.
Nelle ore antecedenti la scomparsa c'era un uomo in macchina con Criscuolo - sono stati ripresi da una telecamera -, e indossava dei guanti. I guanti del killer? Il cadavere, che non presentava ferite da aggressione, è rimasto all'aperto per quaranta giorni. Pasetti e Criscuolo avrebbero avuto una relazione, e forse la prima avrebbe manipolato il secondo per assassinare l'ex marito, da punire per imprecisate violenze. Magari Criscuolo dopo un'iniziale adesione si sarebbe rifiutato. O forse no, e oggi nell'interrogatorio Barbara potrebbe raccontare l'intera storia criminale. La sua.
Eleonora Lanzetti per il "Corriere della Sera" il 25 gennaio 2022.
Nebbia nel piccolo bosco di via Vistarino, popolato da gigantesche nutrie, luogo della scoperta della macchina di Luigi Criscuolo detto «Gigi Bici», che qui venne nel suo ultimo giorno in vita, l'8 novembre, forse attirato in trappola e finito con modalità da esecuzione. Nebbia lungo i settecento metri da questo punto all'ex convento residenza di Barbara Pasetti, l'unica persona indagata per omicidio e occultamento di cadavere, e in prigione per tentata estorsione.
Nebbia nei vasti terreni intorno alla medesima magione, compresa la zona vicina al cancello posteriore dove quel cadavere è stato scoperto il 20 dicembre, sepolto da rovi e arbusti, un buco alla tempia destra. Ovvero il foro d'entrata del proiettile letale, forse un calibro 22 esploso nell'abitacolo, dal sedile lato passeggero, e infatti il finestrino alla sinistra di Criscuolo, alla guida, fu bucato. Questa, in località Calignano, frazione di 500 abitanti, l'ancora parziale geografia del gran mistero sulla morte di «Gigi Bici», 60enne non senza ombre, noto commerciante, uomo che conosceva il mondo; ma è anche il mistero di lei, Barbara, da giovedì in carcere, sfibrata ma non travolta dalla detenzione: ha negato dapprincipio e ha negato ieri nell'interrogatorio.
Con la storia sanguinaria, un caso per nulla agevole e condotto di logica e pazienza dalla Squadra Mobile di Pavia, ripete di non avere legami, senza però che abbia confutato le non leggere prove in possesso degli inquirenti. Non è vero che ignorava Criscuolo poiché i due si conobbero in estate forse avviando una relazione.
E non aleggiano dubbi intorno all'autrice delle lettere, delle quali una diretta a se stessa, scritte da Barbara al computer di una copisteria e recapitate alle figlie di «Gigi Bici» le quali, oltre a condannare le bugie di Pasetti («Confessi»), oltre a ripetere che era sua la voce alterata al telefono («Si spacciò per uno straniero dell'Est») nella conversazione in cui chiedeva il riscatto, aggiungono: «Dica il parente che l'ha aiutata». Come da convinzione della Procura, Pasetti potrebbe aver agito da sola ma anche no, e allora, in questa seconda ipotesi, forse il complice sarebbe l'uomo (ignoto) ripreso da una telecamera al volante dell'auto di Criscuolo l'8 novembre, che appunto venne infine abbandonata nel piccolo bosco, in un'area distante dalle case e perfetta per attutire il rumore di uno sparo o collegarlo a quello di un cacciatore.
Sempre dal bosco, Pasetti sarebbe tornata nella magione a piedi lasciandosi dietro il corpo sulla macchina. Corpo che sarebbe presto sparito venendo trasferito all'interno dell'ex convento e custodito all'aperto, fino allo spostamento davanti al cancello, a trentadue passi dalla strada. Ai cronisti della Provincia pavese , il padre di Barbara - la cui collezione di armi è stata sequestrata per esaminare eventuali pistole assenti oppure «calde» -, ha escluso colpe della donna; padre che, imprenditore del settore caseario, nell'immediatezza dell'arresto avrebbe organizzato un frettolosa riunione con l'ex marito di Pasetti, mai amato dai suoceri forse anche per un licenziamento causa presunti ammanchi di soldi sul posto di lavoro, una concessionaria d'auto, che aveva fatto parlare il paese. Dubitare d'ognuno è dovere investigativo, sia pur nel rispetto profondo per un genitore devastato da una tragedia, ed estraneo ad addebiti, e senza dimenticare che sull'ex marito, nei progetti di Barbara condivisi con Criscuolo, gravava il piano di un omicidio come punizione di imprecisate violenze.
Non esistono ulteriori indagati ma questo non esclude, al contrario, l'identificazione del complice o dei complici di Pasetti, descritta quale ossessiva, guardinga e paranoica, la magione riempita di telecamere, la macchina blindata, la capacità di scovare subito il Gps installato dagli agenti, un'esistenza gravata dal decesso del più che adorato fratellino in un incidente che l'aveva scavata dentro.
All'avvocato Irene Anrò, che si batte per i domiciliari, Pasetti ha domandato le condizioni del figlio di 8 anni affidato ai nonni. La strategia difensiva potrebbe puntare sull'infermità mentale di una donna presunta fisioterapista - lo dichiara ma non avrebbe mai esercitato -, che non risulta aver dimestichezza con le pistole nè allenamenti al poligono, ma che a detta di un detective potrebbe trasformarsi in figura iconica della narrazione criminale d'Italia. E dell'ascesa, o del baratro, degli assoluti insospettabili di provincia.
Gigi Bici, l’omicidio: «Barbara Pasetti forse è stata aiutata da un parente». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 24 Gennaio 2022.
Le figlie del 60enne Gigi Bici ucciso: «Dica il parente che l’ha aiutata». Il padre della 44enne Barbara Pasetti ha una collezione di armi. L’uomo con i guanti e il corpo spostato e poi fatto ritrovare. Lei si dice innocente.
Nebbia nel piccolo bosco di via Vistarino, popolato da gigantesche nutrie, luogo della scoperta della macchina di Luigi Criscuolo detto «Gigi Bici», che qui venne nel suo ultimo giorno in vita, l’8 novembre, forse attirato in trappola e finito con modalità da esecuzione. Nebbia lungo i settecento metri da questo punto all’ex convento residenza di Barbara Pasetti, l’unica persona indagata per omicidio e occultamento di cadavere, e in prigione per tentata estorsione. Nebbia nei vasti terreni intorno alla medesima magione, compresa la zona vicina al cancello posteriore dove quel cadavere è stato scoperto il 20 dicembre, sepolto da rovi e arbusti, un buco alla tempia destra. Ovvero il foro d’entrata del proiettile letale, forse un calibro 22 esploso nell’abitacolo, dal sedile lato passeggero, e infatti il finestrino alla sinistra di Criscuolo, alla guida, fu bucato.
Questa, in località Calignano, frazione di 500 abitanti, la ancora parziale geografia del gran mistero sulla morte di «Gigi Bici», 60enne non senza ombre, noto commerciante, uomo che conosceva il mondo; ma è anche il mistero di lei, Barbara, da giovedì in carcere, sfibrata ma non travolta dalla detenzione: ha negato dapprincipio e ha negato ieri nell’interrogatorio. Con la storia sanguinaria, un caso per nulla agevole e condotto di logica e pazienza dalla Squadra Mobile di Pavia, ripete di non avere legami, senza però che abbia confutato le non leggere prove in possesso degli inquirenti. Non è vero che ignorava Criscuolo poiché i due si conobbero in estate forse avviando una relazione. E non aleggiano dubbi intorno all’autrice delle lettere, delle quali una diretta a se stessa, scritte da Barbara al computer di una copisteria e recapitate alle figlie di «Gigi Bici» le quali, oltre a condannare le bugie di Pasetti («Confessi»), oltre a ripetere che era sua la voce alterata al telefono («Si spacciò per uno straniero dell’Est») nella conversazione in cui chiedeva il riscatto, aggiungono: «Dica il parente che l’ha aiutata».
Come da convinzione della Procura, Pasetti potrebbe aver agito da sola ma anche no, e allora, in questa seconda ipotesi, forse il complice sarebbe l’uomo (ignoto) ripreso da una telecamera al volante dell’auto di Criscuolo l’8 novembre, che appunto venne infine abbandonata nel piccolo bosco, in un’area distante dalle case e perfetta per attutire il rumore di uno sparo o collegarlo a quello di un cacciatore. Sempre dal bosco, Pasetti sarebbe tornata nella magione a piedi lasciandosi dietro il corpo sulla macchina. Corpo che sarebbe presto sparito venendo trasferito all’interno dell’ex convento e custodito all’aperto, fino allo spostamento davanti al cancello, a trentadue passi dalla strada.
Ai cronisti della Provincia pavese, il padre di Barbara — la cui collezione di armi è stata sequestrata per esaminare eventuali pistole assenti oppure «calde» —, ha escluso colpe della donna; padre che, imprenditore del settore caseario, nell’immediatezza dell’arresto avrebbe organizzato una frettolosa riunione con l’ex marito di Pasetti, mai amato dai suoceri forse anche per un licenziamento causa presunti ammanchi di soldi sul posto di lavoro, una concessionaria d’auto, che aveva fatto parlare il paese.
Dubitare d’ognuno è dovere investigativo, sia pur nel rispetto profondo per un genitore devastato da una tragedia, ed estraneo ad addebiti, e senza dimenticare che sull’ex marito, nei progetti di Barbara condivisi con Criscuolo, gravava il piano di un omicidio come punizione di imprecisate violenze. Non esistono ulteriori indagati ma questo non esclude, al contrario, l’identificazione del complice o dei complici di Pasetti, descritta quale ossessiva, guardinga e paranoica, la magione riempita di telecamere, la macchina blindata, la capacità di scovare subito il Gps installato dagli agenti, un’esistenza gravata dal decesso del più che amato fratellino in un incidente che l’aveva scavata dentro.
Al legale Irene Anrò, che si batte per i domiciliari, Pasetti ha domandato le condizioni del figlio di 8 anni affidato ai nonni. La strategia difensiva potrebbe anche puntare sull’infermità mentale di una donna presunta fisioterapista — lo dichiara ma non avrebbe mai esercitato —, che non risulta aver dimestichezza con le pistole né allenamenti al poligono, ma che a detta di un detective potrebbe trasformarsi in figura iconica della narrazione criminale d’Italia. E dell’ascesa, o del baratro, degli assoluti insospettabili di provincia. (ha collaborato Eleonora Lanzetti)
Le telecamere di videosorveglianza hanno ripreso gli spostamenti dell’auto. Gigi Bici, il mistero delle lettere e del riscatto chiesto dalla fisioterapista: un altro uomo guidava la sua auto. Elena Del Mastro su Il Riformista il 23 Gennaio 2022.
Il caso della morte di Gigi Bici, come era conosciuto Luigi Criscuolo, 60enne di Pavia, è ancora avvolto nel mistero. Una storia davvero intricata difficile da decifrare. Ma nuovi dettagli emergono dalle indagini come le immagini delle videocamere di sorveglianza della zona di Cura Carpignano (Pavia) che hanno ripreso un uomo con la maglietta rossa e i guanti bianchi alla guida della polo di Criscuolo.
Poi c’è la fisioterapista, Barbara Pasetti, 44 anni, che giovedì scorso è stata arrestata per il reato di tentata estorsione: è accusata di aver chiesto alla famiglia di Criscuolo, attraverso due lettere lasciate in una cabina telefonica e sotto un tappeto di una chiesa di Pavia, un riscatto di 390mila euro per liberare il loro congiunto che in realtà era già stato ucciso. Barbara Pasetti, indagata anche per omicidio e occultamento di cadavere, dalla sezione femminile del carcere dei Piccolini a Vigevano (Pavia) continua a proclamare la sua innocenza e nega di aver mai conosciuto Criscuolo. Facciamo ordine in questa storia.
Dalla scomparsa di Gigi Bici al ritrovamento del cadavere
Gigi Bici è scomparso l’8 novembre scorso. Era uscito di casa in viale Canton Ticino alle 8,40 dopo aver ricevuto una telefonata si è diretto verso Calignano, una frazione di Cura Carpignano. Alle 9,37 la sua auto è passata sotto la telecamera di via De Gasperi, alle 9,39 era a Calignano poi è scomparsa per un’ora e 5 minuti e ricomparsa alle 10,44 all’uscita dalla frazione con l’auto già col finestrino rotto. Le immagini di videosorveglianza hanno ripreso gli spostamenti dell’auto.
Come riportato da Il Giorno è stata la figlia minore di Criscuolo, Stefania, quando le è stata mostrata la sequenza di immagini a notare fin da subito che nel fotogramma delle 10,44 non era suo padre l’uomo alla guida. “Mio papà era uscito con una maglia blu – aveva dichiarato appena dopo la scomparsa – questa persona mi sembra indossasse una maglia rossa, ma non si vede bene”. L’uomo al volente sembrerebbe avere tra i 40 e i 50 anni e indossava guanti bianchi. La sera dell’8 novembre l’auto di Gigi è stata trovata con un vetro rotto e le macchie di sangue nell’abitacolo nelle campagne di Calignano.
Poi di Gigi si sono perse le tracce fino al 20 dicembre, quando il suo corpo è stato trovato davanti al cancello della villa di Barbara Pasetti, 44 anni, fisioterapista, che giovedì scorso è stata arrestata per il reato di tentata estorsione. Dall’autopsia è emerso che Gigi è stato freddato da un proiettile alla tempia e che il suo corpo è rimasto all’aperto finchè non è ricomparso fuori alla villa della Pasetti.
Il ruolo della fisioterapista
Barbara Pasetti è accusata di aver chiesto alla famiglia di Criscuolo un riscatto di 390mila euro per liberare il loro congiunto che in realtà era già stato ucciso, come rilevato dall’autopsia. Lo avrebbe fatto attraverso due lettere lasciate in una cabina telefonica di via Tasso e sotto un tappeto della chiesa di via Ludovico il Moro, scritte in italiano sgrammaticato.
Ma perché una persona che apparentemente non ha problemi economici dovrebbe chiedere una somma così ingente a una famiglia non facoltosa? Barbara Pasetti, indagata anche per omicidio e occultamento di cadavere, dalla sezione femminile del carcere dei Piccolini a Vigevano continua a proclamare la sua innocenza e nega di aver mai conosciuto Gigi Bici e qualunque componente della famiglia Criscuolo. La donna, che sarà interrogata domani, sostiene di essere finita per caso in una storia che le ha cambiato la vita.
Come riportato da Il Giorno, in un confronto con una delle figlie dell’uomo, Katia, Barbara ha ribadito di non riuscire più a tollerare una “persecuzione” fatta di “lettere anonime con particolari raccapriccianti sul delitto” e scampanellate nel cuore della notte che mettevano in allarme lei e il figlio di 8 anni. “Hanno scaricato il cadavere davanti al mio cancello – aveva raccontato Barbara – perché quello è l’unico punto non ripreso dalle telecamere che circondano la mia proprietà e facilmente raggiungibile in auto”. Nell’ultima lettera fatta trovare nella buca delle lettere di Pasetti e Stefania Criscuolo c’era scritto che il cadavere era proprio davanti alla villa, fatto trovare per far passare ai familiari un brutto Natale.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Omicidio Gigi Bici, i ricatti e le ossessioni della fisioterapista Barbara Pasetti. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 22 Gennaio 2022.
Il 60enne ucciso con un unico proiettile alla tempia. La 44enne, in carcere, è indagata per omicidio e occultamento di cadavere. Avrebbe tentato di estorcere un riscatto ai familiari di lui. Lei si difende: «Sono innocente».
Luigi Criscuolo detto «Gigi Bici», 60 anni, e Barbara Pasetti, 44 anni.
Un unico proiettile alla tempia, in uno scenario da esecuzione, da colpo voluto e non casuale per punire uno sgarro, un rifiuto, una promessa non mantenuta. Un unico proiettile come già menzionato in una delle lettere di questo mistero, comprese quelle fatte ritrovare alle figlie del 60enne Luigi Criscuolo, il «Gigi Bici» di Pavia famoso per le officine di riparazione e famoso alle forze dell’ordine per diversi motivi, scomparso l’8 novembre e rinvenuto senza vita il 20 dicembre a ridosso del cancello posteriore di un convento trasformato in magione tra disordine, ante da riparare, un costoso impianto di videosorveglianza e una macchina blindata nel cortile. Un unico proiettile esploso nella coincidenza temporale della sparizione, dunque un cadavere rimasto — all’aperto — per oltre quaranta giorni, infine trovato da Barbara o fatto trovare a Barbara seppur celato sotto rami e rovi come questi, forse proprio gli stessi, ammucchiati a trentadue passi dalla strada, la via Marconi in località Calignano, frazione di Cura Carpignano.
Ovvero lungo il perimetro di quell’ex convento, di quella magione: la residenza di Barbara Pasetti, 44enne figlia di una ricca famiglia di imprenditori nel settore caseario, con lui, il padre, regolare possessore di armi sequestrate dalla polizia alla ricerca di pezzi mancanti o «caldi», e lei, la figlia, indagata per omicidio e occultamento di cadavere, e in cella per tentata estorsione avendo, secondo l’accusa, chiesto ai cari di Criscuolo 290 mila euro per liberare l’ostaggio. Presunto ostaggio poiché «Gigi Bici», come detto, si spense subito, e sembra senza aver ricevuto, prima e dopo la pallottola, violenze con pugni, pietre, bastoni.
Ebbene, in Procura sono convinti che la firmataria delle lettere , quattro in totale con una a se stessa, lettere sgrammaticate con l’intenzione di rimandare a un autore dell’Est Europa, sia stata Passetti, che risulta essere fisioterapista senza esserlo per davvero. E nelle missive, si faceva per appunto riferimento a un unico proiettile. Caso chiuso? Giammai e non solo perché Barbara, che ha conosciuto Criscuolo in estate legandosi forse anche sentimentalmente, si è giurata innocente, a meno che nell’interrogatorio di lunedì muti strategia e parli.
Nella ovvia presunzione d’innocenza, il lavoro della squadra Mobile di Pavia — il metodo empirico, la coltivazione del dubbio — si conferma ostico, specie in quanto l’asse portante è Barbara Pasetti con il suo comportamento contradditorio, lineare e subito dopo caotico, forse in conseguenza di disturbi psicopatologici magari iniziati a manifestarsi anni fa, quando in un incidente le morì il più che amato fratellino, e conclamati negli incontri coi cronisti nelle settimane precedenti l’epilogo: urla e silenzi, minacce e pace, la ricerca delle telecamere e la fuga.
Adesso Katia, una delle figlie di Criscuolo, che non si esclude possa essere entrato o esser stato trascinato in affari loschi, forse di droga e di carichi sottratti, ricorda che Pasetti, con voce mal camuffata e di nuovo aspirando ad apparire uno slavo, un romeno, un russo, «aveva telefonato consigliando come recuperare due lettere», la prima in una cabina telefonica e l’altra davanti a una chiesa.
L’avvocato Irene Anrò ha dialogato con Barbara nel carcere di Vigevano: «Era serena e tranquilla… Si professa estranea ai fatti». Estranea ai fatti ma non a «Gigi Bici», cui avrebbe chiesto di eliminare l’ex marito per punirlo di imprecisati maltrattamenti. Che Barbara abbia manipolato Criscuolo, l’abbia esposto, l’abbia presentato alle persone sbagliate, non è dato sapere; che sullo sfondo vi sia una rapina nell’Oltrepò con Criscuolo a custodire e depredare il bottino, e sono di nuovo circostanze narrate nelle missive, è improbabile: sì, sono avvenute delle rapine, ma non collocabili nell’omicidio di «Gigi Bici», ex buttafuori, uomo di strada, eppure caduto prigioniero in un tranello e assassinato di sorpresa. Ma da chi? Se l’incensurata Barbara, la mamma Barbara — il figlioletto di 8 anni è stato affidato ai nonni —, come si vocifera tra tribunale e questura può divenire una figura iconica della criminalistica italiana, vero è che non dovrebbe aver agito da sola, per il semplice motivo delle manovre di spostamento del cadavere.
Ecco, il cadavere: trasferito fino a questo spiazzo, erba schiacciata e fanghiglia, un vecchio silos più avanti, il muro di cinta dell’ex convento e della magione, al cui interno è escluso possa esser stato custodito il corpo stesso da novembre a dicembre prefigurando una camera degli orrori nelle sconfinate stanze di Barbara, che scoprì in pochi minuti il Gps installato dagli agenti sull’auto. Una non comune ma scontata mossa in un’esistenza pervasa dall’ossessione di essere sorvegliata, d’avere pedinatori e persecutori. Ancor prima, molto prima, d’incrociare Criscuolo. (ha collaborato Eleonora Lanzetti)
Giu.Sca. per "il Messaggero" il 21 gennaio 2022.
È a una svolta l'omicidio di Luigi Criscuolo, 60 anni, noto a tutti a Pavia come Gigi Bici per aver gestito a lungo in città un negozio di rivendita e manutenzione di biciclette. Ieri una donna è stata arrestata per tentata estorsione.
Si tratta di Barbara Pasetti che ha sempre negato di aver conosciuto Criscuolo. Ha continuato a negarlo dal pomeriggio di lunedì 20 dicembre quando il cadavere di Gigi, che mancava da casa da novembre, è stato trovato davanti al cancello di ingresso della sua villa, alla frazione Calignano di Cura Carpignano (Pavia).
LA PERQUISIZIONE Ieri, un mese dopo quel macabro ritrovamento, Pasetti, 44 anni, fisioterapista, è stata arrestata dalla polizia. Con un'accusa precisa. Secondo quanto emerge dalle indagini condotte dalla squadra mobile, e coordinate dalla Procura di Pavia, Pasetti «avrebbe fornito un contributo all'occultamento della salma - come si legge in una nota che porta la firma del procuratore Fabio Napoleone - ed avrebbe cercato di trarre profitto dalla custodia della stessa nei pressi della propria abitazione». Ieri mattina la polizia si è presentata all'alba all'ingresso della villa di Calignano, con un mandato di perquisizione.
Gli agenti della mobile hanno condotto i controlli in collaborazione con la scientifica e con l'ausilio dei cani molecolari; alcuni consulenti botanici hanno inoltre analizzando il terreno dove, nel pomeriggio del 20 dicembre, il figlio della fisioterapista mentre giocava ha ritrovato il corpo di Gigi Bici. Poi la svolta. Mentre era in corso la perquisizione (al termine della quale la casa è stata posta sotto sequestro), la donna è stata accompagna in Questura per essere interrogata. Gli investigatori non si sarebbero limitati ad appuntare l'attenzione su di lei. Infatti sarebbe stato sentito dagli agenti della squadra mobile anche il suo ex marito.
LE VERIFICHE Nel pomeriggio poi è stata arrestata: una svolta che potrebbe essere decisiva nelle indagini sulla morte di Criscuolo, per la quale la Procura ha aperto un fascicolo con le ipotesi di omicidio, sequestro di persona e occultamento di cadavere. «Gli accertamenti della squadra mobile della Questura di Pavia - continua la nota della Procura - sono proseguiti per ricostruire gli ultimi movimenti di Criscuolo sino a quando, a fine novembre, l'obiettivo degli investigatori si è ampliato perché è stata recapitata una prima richiesta estorsiva ai familiari di Criscuolo, nella quale veniva richiesta la somma di 390mila euro in cambio della liberazione del proprio congiunto. La prima richiesta è stata poi seguita da altre che «ad oggi sono state tutte ricondotte all'indagata poi tratta in arresto». Le indagini continuano per trovare gli «autori materiali dell'omicidio».
LA LETTERA In queste settimane non si sono mai interrotti gli accertamenti. La polizia, in particolare, ha cercato di far luce sulle frequentazioni di Criscuolo e sull'attendibilità di una lettera anonima lasciata, insieme alla foto del cadavere della vittima, nella cassetta postale di Pasetti. Una lettera scritta al computer in un italiano sgrammaticato, nella quale si racconta che a Criscuolo era stato affidato il bottino di una rapina effettuata anni fa in Oltrepò Pavese (300mila euro tra contanti e gioielli), che l'uomo non avrebbe restituito nell'appuntamento dell'8 novembre scorso a Calignano. Nella lettera sono descritti alcuni oggetti personali sottratti a Gigi Bici (tra cui un orologio, un portafoglio nero, le foto della moglie e delle figlie) e vengono minacciati anche i familiari dell'uomo, in caso di mancata restituzione del bottino.
Eleonora Lanzetti per corriere.it il 20 gennaio 2022.
Arrestata per tentata estorsione Barbara Pasetti, la fisioterapista 44enne che lo scorso 20 dicembre trovò il cadavere di Gigi Bici. La donna è stata portata nel carcere femminile Piccolini di Vigevano.
La Pasetti, che aveva sempre negato di conoscere Gigi o di essere in qualche modo coinvolta nel caso, ha aperto le porte della propria villa, un ex convento francescano del 1600, alle forze dell’ordine che giovedì 20 gennaio alle luci dell’alba hanno iniziato a perquisire ogni stanza e gli spazi esterni.
Diverse squadre di vigili del fuoco, carabinieri, e polizia sono andate alla ricerca di elementi utili alle indagini nel luogo del rinvenimento del cadavere, e nella casa di Barbara Pasetti, mamma del bambino di 8 anni che ha scoperto il corpo dell’uomo nascosto dalle foglie.
I nodi da sciogliere
Sul posto, per ore, gli uomini della Scientifica e cani molecolari. Nel punto in cui è stato scaricato il corpo di Criscuolo, invece, i consulenti botanici hanno analizzato le tracce nel terreno, transennato da quel lunedì 20 dicembre.
Ancora molti i nodi da sciogliere. Prima di tutto la lettera trovata dalla Passetti nella cassetta della posta: è attendibile o si tratta di un tentativo di depistaggio? In che rapporti erano Gigi Bici e la fisioterapista di Calignano? Gli inquirenti stanno cercando di ricostruire contatti e le frequentazioni della vittima per collegare tutti i pezzi di un puzzle complicato. Nel primo pomeriggio Barbara Pasetti e il suo ex marito erano stati accompagnati in Questura dove hanno risposto alle domande degli investigatori, poi la donna è finita in manette.
ELEONORA LANZETTI per il Corriere della Sera il 29 dicembre 2021. Un delitto senza colpevole. E tanti dettagli che non hanno ancora una spiegazione plausibile. In questura, a Pavia, proseguono gli interrogatori ad amici e parenti di Luigi Criscuolo - noto a tutti come Gigi Bici per essere stato proprietario di due rivendite di biciclette - il 60enne sequestrato e ucciso e il cui cadavere è stato ritrovato lunedì 20 dicembre davanti al cancello di casa di Barbara Pasetti, una fisioterapista di Calignano, frazione nelle campagne pavesi.
Molti i punti oscuri di questa vicenda. Per gli inquirenti, Criscuolo sapeva che quell'8 novembre, giorno della scomparsa, stava andando incontro a qualcosa di pericoloso: aveva appuntamento per la restituzione di un ingente debito con chi poi l'ha sequestrato ed ucciso.
Altrimenti, come testimoniato dal signor Pasqualino e da un altro amico, Gigi non avrebbe chiesto loro di essere accompagnato, e in qualche modo protetto. I due amici non avevano potuto raggiungere Calignano con Criscuolo, che era così salito sulla sua Polo bianca, presentandosi da solo a quell'incontro finto in tragedia.
Le indagini si concentrano anche sul luogo in cui è stato abbandonato il cadavere: è stato scelto in modo casuale, solo perché in una zona defilata e non coperta dalle telecamere? Oppure gli assassini avevano un piano preciso? Il corpo è stato lasciato davanti all'entrata di una cascina in cui vivono alcune famiglie, coperto di foglie e sterpaglie. Poi l'assassino - o chi ha agito per lui - ha suonato al citofono della fisioterapista Pasetti: «Vada a vedere davanti al suo cancello, ci sono delle cose che le possono interessare».
Ma lei, come ha riferito agli investigatori e ai cronisti, all'inizio ha pensato fosse uno scocciatore intento a fare uno scherzo. Poco dopo il figlio della donna, un bimbo di 8 anni, avrebbe fatto la macabra scoperta mentre giocava a pallone. «Non centro nulla con questa storia. Sono terrorizzata, mio figlio ha gli incubi, lasciateci stare», ha ribadito più volte Pasetti. «Gigi Bici non lo conosco, e nemmeno la sua famiglia».
Poi la fisioterapista ha chiuso le serrande e ha lasciato per qualche giorno il paese. Nei giorni successivi al ritrovamento del corpo l'assassino, o più probabilmente i rapitori-assassini di Criscuolo hanno fatto altre mosse.
Prima hanno imbucato nella cassetta delle lettere di Pasetti una foto del cadavere di Gigi Bici, poi le hanno recapitato una lettera anonima - destinata però alla figlia della vittima, Katia - che ora è al vaglio della scientifica e che di fatto conterrebbe il movente dell'omicidio: un debito da 300 mila euro. Criscuolo sarebbe stato ucciso perché colpevole di aver fatto sparire il bottino di una rapina messa a segno in Oltrepò Pavese - a cui lui non aveva partecipato - che avrebbe dovuto custodire, forse occupandosi anche della ricettazione.
La lettera ha toni crudi, diretti, è scritta al computer in un italiano stentato che tradirebbe le origini russe dello scrivente. E se invece quel testo pieno di errori non fosse che una messa in scena per depistare gli inquirenti? Il movente però sembra avere le prime conferme: la vittima sarebbe stata uccisa per una ingente somma che gli era stata data in custodia: più o meno 300 mila euro tra contanti e gioielli. In seguito gli autori della rapina avevano chiesto conto della refurtiva, ma Gigi, stando a quanto accusa l'autore della lettera anonima, si sarebbe intascato tutto.
La mattina della scomparsa la vittima avrebbe incontrato i suoi assassini e avrebbe detto loro di non avere più quei 300 mila euro perché gli erano stati rubati. Gigi, a quel punto, sarebbe stato picchiato a sangue, caricato su un furgone - ma non ci sono immagini delle telecamere che possano confermarlo -, e nascosto in un luogo sconosciuto, sino alla data di restituzione del debito fissata proprio per il 20 dicembre. Il giorno del ritrovamento del cadavere.
«Gigi Bici» sequestrato e ucciso a bastonate: il corpo scaricato nelle campagne pavesi dopo la morte. Eleonora Lanzetti su Il Corriere della Sera il 23 dicembre 2021. Il corpo di Luigi Criscuolo, 60 anni, ritrovato nelle campagne di Calignano (Pavia). Un testimone: pochi giorni prima non c’era. «Colpito ripetutamente alla testa con un bastone o una mazza». Il cadavere ritrovato lunedì nelle campagne di Calignano, nel Pavese, potrebbe essere proprio quello di Luigi Criscuolo, «Gigi Bici», il commerciante 60enne scomparso da casa l’8 novembre scorso. Manca ancora il riconoscimento ufficiale da parte dei famigliari, ma restano pochi dubbi: alcuni indumenti e parti di tatuaggi visibili sul corpo sarebbero riconducibili proprio a lui. L’ipotesi dell’omicidio, dunque, è quella sui cui si stanno concentrando gli inquirenti.
L’indagine
Il fascicolo per il reato di sequestro di persona era già stato aperto, ed il modo in cui è stato ritrovato il cadavere farebbe propendere decisamente per la morte violenta. Oltre al finestrino rotto e le tracce di sangue sul vetro della Polo bianca di Criscuolo, altri due elementi conducono ad una mano assassina: il corpo era coperto da un cumulo di foglie e sterpaglie, e sembra sia stato scaricato proprio lì da pochi giorni. Il luogo del ritrovamento resta ancora un punto interrogativo. Si tratta di un’area di campagna, ma abitata da più famiglie, non isolata. Perché chi avrebbe portato il cadavere ha scelto di lasciarlo proprio in quella stradina che costeggia il muro di cinta di un cascinale?
Le testimonianze
La zona non risulta coperta da telecamere, che invece sono presenti qualche centinaio di metri prima, in paese. Uno dei residenti in quella cascina, sentito dagli investigatori, ha assicurato che nel punto del ritrovamento qualche giorno fa non c’era assolutamente nulla. L’intero territorio comunale era stato battuto dai ricercatori che avevano setacciato campi e aree limitrofe, senza esito.
L’autopsia
Lunedì i rilievi sono proseguiti sino a tarda sera. L’autopsia chiarirà le cause del decesso, anche se da un primo esame sul cadavere non è da escludere che l’uomo sia stato colpito ripetutamente alla testa con un bastone o una mazza, per via di un evidente ematoma. Il movente, i debiti o di altra natura personale, dovrà essere ancora chiarito. Gli uomini della Scientifica hanno cercato tracce sul terreno, segni e impronte utili alla risoluzione del caso che si delinea sempre di più come un regolamento di conti.
· Il Mistero di Anthony Bivona.
Anthony Bivona e il mistero della morte: riesumato il corpo, «non si è ucciso». Riccardo Lo Verso su il Corriere della Sera il 28 dicembre 2021. La Procura di Roma ha disposto l’autopsia per il giovane gommista 24enne che viveva in Germania. La famiglia: «Ferite non compatibili con il suicidio tramite impiccagione».
Il dolore si rinnova nel cimitero di Adrano, in provincia di Catania. La salma di Anthony Bivona viene riesumata. Ad assistere il padre, la madre e le sorelle del giovane trovato morto a Darmstadt, in Germania, lo scorso 18 luglio. Aveva 24 anni. «Suicidio», hanno stabilito le autorità tedesche, senza mai convincere i parenti che versano lacrime sulla bara. È un prezzo altissimo, ma sanno di doverlo pagare perché non c’è pace senza verità. «Me lo hanno restituito dentro un sacco nero», dice la madre Antonina.
Il lavoro regolare e la fidanzata turca
La Procura di Roma, competente quando muore un cittadino italiano all’estero, vuole andare oltre il lavoro degli investigatori tedeschi e ha disposto l’autopsia sul cadavere di Bivona che in Germania faceva il gommista. Un lavoro regolare che gli aveva consentito di prendere in affitto una casa al civico 31 di Gutenbergstrasse, dove viveva assieme alla fidanzata. È qui, la notte del 18 luglio, si sarebbe impiccato con un cintura legata alla ringhiera della tromba delle scale. Un gesto estremo e inaspettato. Era sereno anche la sera prima. Alle 21:40 aveva telefonato alla madre per informala che la fidanzata Ilayda, una ragazza tedesca di origini turche, aveva avuto un piccolo incidente stradale. Al rientro a casa, in taxi con la fidanzata, una videochiamata con la sorella Grazia era stata interrotta dalle parole: «Chiudi, chiudi ora ti richiamo».
Le anomalie presenti sul corpo
Non si è fatto più sentire. All’indomani, dopo 14 ore, la fidanzata ha avvertito i parenti che sono partiti sul primo volo disponibile. All’obitorio dicono di avere notato le prime anomalie. Innanzitutto un graffio sulla fronte di Anthony (aveva litigato?), che non avevano visto durante la video chiamata, e poi un segno nella parte posteriore del collo. Secondo l’avvocato Francesco Messina, che assiste la famiglia, «non è compatibile con un’impiccagione».
I dubbi rimasti aperti
Il legale ha presentato un esposto alla Procura di Catania, che lo ha girato a Roma. Non convincono le parole della fidanzata che ha detto di avere tagliato lei la cintura con cui Anthony si è impiccato, mentre agli atti risulterebbe che sono stati i sanitari in ospedale. Altro dubbio: chi ha trovato per prima il corpo? Ilayda ha riferito di essere uscita sul pianerottolo dopo avere sentito il vicino urlare. Il vicino, al contrario, così si legge nell’esposto, ha detto di essere stato lui a sentire le urla di Ilayda e a tentare di rianimare il ragazzo. Potrebbe essere stata la concitazione del momento a confondere i ricordi.
Il lavoro di scavo dei parenti
In Germania i parenti di Anthony hanno vestito i panni dei detective. Sanno che due amici, di cui fanno i nomi, hanno contatto la fidanzata dopo la morte. Cercavano qualcosa in casa. Forse della droga. I familiari si chiedono perché non siano state acquisite le immagini di una telecamera piazzata all’ingresso della palazzina e come mai l’appartamento non sia stato posto sotto sequestro. I parenti lo hanno trovato a soqquadro. La sigaretta elettronica del figlio in bagno, insieme a un biglietto del tram, delle monete e una mascherina per proteggersi dal Covid: secondo la mamma, c’erano segni di una colluttazione. Sui pantaloni e sulla maglietta di Anthony anche «degli adesivi simili a quelli che si utilizzano per le visite cardiologiche».
La telefonata dopo la morte
E poi c’è il giallo del telefono della vittima da cui all’1:45, sei minuti dopo che il cadavere era stato portato via, è partita una telefonata senza risposta ad un amico italiano. Della telefonata non c’è più traccia nella memoria dell’iPhone. «Dobbiamo arrivare alla verità, qualunque sia», dicono le sorelle Mary e Grazia. Ci vorranno settimane per avere gli esiti dell’autopsia eseguita all’ospedale Cannizzaro di Catania.
Uccide i genitori per soldi: dopo gli omicidi un bonifico. Stefano Vladovich il 17 Marzo 2022 su Il Giornale.
Diego Gugole, 25 anni, spara al padre e alla madre. Voleva 800mila euro per comprarsi una casa e l'auto.
Prima uccide il padre con due colpi calibro 9 alla testa. Mentre aspetta la madre si versa 16mila euro sul proprio conto dall'home banking del genitore. Quando, all'ora di pranzo, la donna rientra, le spara altri 4 colpi di pistola. Vuole ripulire salotto e cucina Diego Gugole, 25 anni, dopo aver sparato a bruciapelo ai genitori, Sergio Gugole, 62 anni, e Lorena Zanin, 59 anni. Esce per comprare sacchi di tela e vernice per imbiancare le pareti imbrattate di sangue. Il piano è di nascondere i corpi nello scantinato di casa, in via Villaggio Marmi, a Chiampo, Vicenza. Va anche da un costruttore a versare l'acconto per l'acquisto di una villa ad Arzignano. Ma una telefonata di un'amica di famiglia, all'ora di cena, lo mette in crisi.
La donna chiede insistentemente al giovane perché padre e madre da ore non rispondono al cellulare e al citofono. Diego tronca la conversazione. Sale in auto, l'assassino, e girovaga per tutta la sera. Alla fine si presenta alla stazione dei carabinieri di Chiampo. Al sostituto procuratore Barbara De Munari confessa senza esitazione: «Li ho ammazzati per i soldi. Mi servivano per pagare la macchina nuova e una casa. Non mi va di lavorare e riempivo i miei vecchi di bugie». Quando i carabinieri entrano in casa, sfondando la porta, è notte. I corpi a terra, un proiettile conficcato nel televisore in camera da pranzo. Insomma, a più di 30 anni dal delitto Maso un'altra tragedia familiare sconvolge il Veneto. Diego, che sul suo profilo Fb scrive «La gente mi fa venire il vomito» e posta meme come «È più facile liberarsi di un cadavere che di un operatore telefonico», sembra solo un ragazzo viziato e annoiato. Sembra. Voglia di lavorare zero nonostante il padre, un'attività di pellami nella valle delle concerie, gli abbia trovato un'occupazione. Lui, però, da un anno si era licenziato. Il suo obiettivo era di andarsene, acquistando un immobile nel paese dove era nato, e una nuova auto. Punta tutto sugli 800mila euro che il padre aveva ottenuto dalla vendita dell'azienda. E pianifica in ogni dettaglio il duplice omicidio.
Un delitto premeditato da almeno un mese confessa ai carabinieri di Vicenza. A cominciare dall'arma, acquistato al mercato nero da un cittadino straniero, «un marocchino a Cologna Veneta» mette a verbale, per 3.800 euro. Una semiautomatica potente di fabbricazione polacca, la nove millimetri, che devasta i corpi dei suoi genitori. Il primo delitto, secondo la ricostruzione degli inquirenti, alle 10.30 di martedì. Il padre è seduto al tavolo della cucina, discute con il figlio sempre per i soldi. Diego «scarrella» la pistola e fa fuoco mirando alla testa. È zuppo di sangue, si fa una doccia, si cambia i vestiti e mentre attende la madre si mette al computer. Ha la password del papà ed emette un bonifico sul proprio conto. I soldi gli servono per la prima rata del villino che ha già fermato. Alle 13.20 uccide la madre con quattro colpi in rapida successione. Un'ora ancora ed esce. «L'ho visto alle 14.30 - racconta ai cronisti un'anziana - davanti al portone. A piedi, capo chino, non mi ha nemmeno salutato come faceva di solito». L'arma era in casa mentre i sacchi di juta, la vernice e i pennelli nell'auto del 25enne. Un ragazzo difficile, da tempo seguito da uno specialista. Libro preferito: Bianca come il Latte, Rossa come il Sangue, Assassin's Creed il suo videogioco, come posta sul suo profilo. L'accusa per Gugole è di duplice omicidio volontario aggravato.
Diego, il denaro e i genitori uccisi come un robot. Vittorino Andreoli su Il Corriere della Sera il 18 Marzo 2022.
«Nel 1991 mi sono occupato del caso di Pietro Maso, in questo delitto vedo analogie e differenze». La personalità multipla è sempre più frequente tra i giovani.
Diego Gugole
Per tentare di analizzare la tragedia che vede un giovane-adulto di 25 anni ammazzare il padre e la madre per entrare in possesso di una eredità consistente, occorre rendersi conto che nel tempo presente il denaro è l’elemento su cui si fondano identità e potere. Si deve aggiungere che sempre nella in-cultura dominante, la morte è stata banalizzata, ridotta a strumento per togliere uno ostacolo o per raggiungere un obiettivo. Sono il risultato di una regressione di civiltà che ha cancellato i comandamenti del «non ammazzare» e dell’«onora il padre e la madre». Non sono espressioni di qualche Dna del nostro bagaglio genetico, ma acquisizioni legate ad un lungo processo che ha portato l’Uomo da una condizione definita selvaggia a quella civile. Una conquista che è possibile perdere rapidamente se non avviene il trasferimento da una generazione a un’altra attraverso l’educazione e la cultura.
Potere e denaro
Se l’uomo viene misurato dal potere e dal denaro, tutto il resto non ha alcun significato, e il rispetto per il padre e la madre non trova alcuna corrispondenza nei desideri e nei bisogni rilevanti per l’esistenza; mentre possedere un’auto particolare, una villa addirittura, dà forza alla propria identità e soddisfa i desideri. È questo il teatro entro cui Diego Gugole avrebbe comperato da uno straniero una pistola e poi ucciso il padre e la madre, che non gli consentivano, nonostante le molte discussioni, di disporre dei risparmi della loro vita mesi da parte lavorando in una conceria.
La mancanza di progetto
Gugole non ha voglia di lavorare poiché sa, con un preciso senso della realtà, che non potrà mai con uno stipendio che supera di poco i mille euro al mese, possedere un’auto importante e lasciare la casa dei genitori in un condominio; quando invece aspira probabilmente a installarsi in un luogo di prestigio, per apparire. Si delinea una «logica» sulla quale fare un progetto e metterlo in pratica. Lui non avverte alcuna difficoltà poiché non ha la percezione del futuro. Vive momento per momento, empiricamente, in tempo reale e non tiene conto di un futuro che forse nemmeno ci sarà. Manca di ogni senso del sapere e del pensare e comunque si convincerebbe che non servono a nulla per possedere denaro, che significa potere: la vera qualità del vivere. Probabilmente non li trova nemmeno in Sergio, il padre, e in Lorena, la madre, ridotti alla dimensione di un buon patrimonio valutabile in 800mila euro, soldi che si possono trasferire sul proprio conto, solo con qualche colpo di pistola.
Comportamento lucido e folle allo stesso tempo
Il comportamento di Gugole non appartiene alla follia: aveva uno scopo e con senso di realtà lo ha portato a «buon fine». Sento anzi il dovere di sottolinearlo a difesa dei miei matti (termine che uso con molto affetto), poiché qui si tratta di un comportamento freddo, lucido, prestabilito, adeguato a raggiungere un obiettivo. Con questo habitus mentale si mettono in atto comportamenti che appaiono totalmente privi di intelligenza, sia pure pratica, poiché Diego non ha mai pensato che esista una polizia che indaghi, delle persone che cerchino i genitori ora defunti.
Da Chiampo a Montecchia di Crosara
Non lontano da Chiampo, geograficamente si trova Montecchia di Crosara dove il 17 Aprile del 1991 Pietro Maso, di anni 18, dunque adolescente, assieme a due compagni uccide madre e padre sempre per ottenerne l’eredità e per comperare un’auto che allora costava 52 milioni di lire. È per me difficile fare un confronto poiché a Pietro Maso avevo dedicato un lungo tempo, su incarico della magistratura per valutarne la personalità, mentre di Diego Gugole conosco solo la cronaca. Mi pare comunque che siano due delitti analoghi per le motivazioni, differenti però sul piano delle dinamiche; non fosse altro perché nel caso di Montecchia l’età era quella adolescenziale, il delitto si era svolto in gruppo, e la tecnica aveva richiesto 53 minuti per portare a morte le vittime.
Un robot con personalità multipla
Nel caso attuale lo strumento è una pistola il cui grilletto viene tirato con la stessa forza necessaria per cliccare su uno smartphone e cancellare dal video qualche cosa che possa essere apparso sgradevole. Trent’anni fa le tecnologie digitali erano meno diffuse, ma soprattutto in Diego manca la tematica adolescenziale alla ricerca di una identità, compiendo gesti che richiamano più l’eroe (sia pure l’eroe del nulla) ma coperto di eccezionalità. Diego sembra un robot che via via compie delle azioni, dei gesti al solo scopo di raggiungere la disponibilità di denaro. Il tema che apre questo caso ha la dimensione dell’etica, non della psicopatologia e della follia. Dal punto di vista della personalità la caratteristica che si manifesta chiaramente è «la personalità multipla», che però è sempre più frequente tra i giovani. Si presentano con apparenze diverse. È superato anche il tema del «doppio» che sulla spinta dell’empirismo e della a-moralità è diventato «multiplo».
Sergio Gugole probabilmente non ha avuto neppure il tempo di capire che suo figlio Diego stava per ucciderlo. Una «premura» che il killer non ha riservato alla madre, Lorena Zanin, che invece si è trovata faccia a faccia con il ragazzo mentre premeva il grilletto della 9 millimetri. In attesa delle autopsie sui pensionati uccisi tre giorni fa a Chiampo (che verranno eseguite mercoledì dal professore Antonello Cirnelli), dai primi rilievi emerge che il 62enne ex imprenditore del settore conciario è stato ucciso da due colpi di pistola a distanza ravvicinata. Una vera e propria esecuzione.
Intorno alle 10 del mattino l’uomo era seduto in cucina intento a leggere dei fogli che i carabinieri hanno rinvenuto ancora sul tavolo. Diego Gugole, 25 anni, gli si è avvicinato e, prima che il padre si voltasse, gli ha sparato alla tempia. L’uomo è quindi caduto a terra, con il volto rivolto al pavimento, e il ragazzo l’ha colpito con un secondo proiettile, stavolta alla nuca. Subito dopo aver ammazzato il padre, così come aveva pianificato da circa un mese, il 25enne ha trasferito 16mila euro dal conto dei genitori al proprio per poi fare un bonifico di diecimila euro a un impresario vicentino: era la caparra per l’appartamento, in fase di costruzione ad Arzignano, che il ragazzo sognava di comprare coi soldi dell’eredità.
Poi è stata la volta della mamma
Tre ore dopo il primo delitto, è rincasata Lorena Zanin, che quella mattina era uscita di buon’ora per accompagnare gli anziani genitori a fare delle commissioni. Il figlio le si è parato davanti e ha premuto il grilletto diverse volte («Circa quattro» ha confessato ai carabinieri) ma pare che un unico proiettile l’abbia raggiunta, in pieno volto.
L’interrogatorio di garanzia
Qualche informazione in più sulla dinamica del duplice omicidio potrebbe emergere dall’interrogatorio di garanzia in programma venerdì in carcere a Vicenza, dove il giovane (difeso dall’avvocato Rachele Nicolin) si trova rinchiuso dalla notte di martedì, quando ha deciso di consegnarsi ai carabinieri.
Il cambio di abiti e poi la puntata dal barbiere
Dopo aver ucciso i genitori, Diego Gugole si è lavato, cambiato d’abiti ed è salito sulla propria auto per andare ad acquistare pennelli e vernici, con i quali aveva in programma di cancellare gli schizzi di sangue in casa. Ha comprato anche dei sacchi di tela. «L’intenzione era di nascondere i corpi, dopo averli risposti nei sacchi, all’interno dell’appartamento al pianterreno del condominio, disabitato da anni dopo la morte nei nonni paterni», ha spiegato il procuratore di Vicenza, Lino Giorgio Bruno. Giovedì è emerso anche un altro dettaglio, che rende ancora più surreale il pomeriggio trascorso dal giovane subito dopo il duplice delitto. Prima di andare al bar «a bere un bicchiere di Coca Cola e guardare un po’ la partita di Champions», come nulla fosse Gugole è andato da un parrucchiere, per farsi tagliare i capelli.
Le indagini proseguono
Intanto proseguono le indagini. Ammesso che esista realmente, gli inquirenti stanno cercando il marocchino residente nei dintorni di Cologna Veneta che, stando alla confessione dell’assassino, gli avrebbe venduto per 3.800 euro la pistola di fabbricazione polacca usata per gli omicidi. Conferme potrebbero arrivare anche dall’analisi del telefonino di Gugole, che è stato sequestrato: un perito avrà il compito di estrarre l’elenco delle chiamate fatte dal ragazzo e il contenuto di chat e messaggini. Si scava anche sul movente. il ragazzo ha confessato di puntare al patrimonio (800mila euro tra depositi e investimenti) di mamma e papà, anche perché, ha detto al pm, «ultimamente non mi piaceva lavorare». Voleva comprare la casa e un’auto nuova. Ma c’è chi dice che Diego spendesse molti soldi anche nel gioco d’azzarzo. Un indizio si ricava dalla sua pagina Instagram, nella quale si definisce «tipster e sport trader», in pratica un esperto di scommesse on line sugli eventi sportivi. Proprio sul profilo social del ragazzo, nelle ultime ore sono piovute centinaia di messaggi di insulti e minacce, anche di morte.
Monica Serra per “La Stampa” il 18 marzo 2022.
Diego Gugole mentiva. Mentiva sempre. Sul lavoro. Sulla sua vita. Sulle compagnie. Diceva bugie a mamma Lorena e papà Sergio, su ogni cosa. Anche banale. Per esempio, ha spiegato nell'interrogatorio di martedì sera, «tornavo a casa con una giacca nuova firmata e dicevo che costava poco».
Mentiva sulle questioni lavorative: «Ultimamente non avevo molta voglia di lavorare». Mentiva anche sulle amicizie che frequentava e su cui ora indagano i carabinieri. La procura, diretta da Lino Giorgio Bruno, vuole capire dove Gugole possa aver preso la pistola polacca calibro nove con cui, martedì mattina, ha ucciso i genitori.
Due colpi a papà Sergio, 62 anni, mentre era seduto al tavolo della cucina. Non alle spalle, davanti. Mentre lo guardava negli occhi. Tre ore più tardi è toccato alla mamma, Lorena Zanin, 59 anni, appena rientrata dalle commissioni coi nonni.
Alla storia dell'arma comprata per 3 mila 800 euro da «un marocchino» a Cologna Veneta, tranquilla cittadina del Veronese a trenta chilometri da Chiampo, nessuno crede. E su questo si concentrano le indagini dei carabinieri di Vicenza.
Non è facile procurare un'arma per un ragazzo di 25 anni fuori dalle dinamiche criminali. Gli investigatori ipotizzano si tratti dell'ennesima bugia. Di quelle che Diego era abituato a dire in questa doppia vita che conduceva, e che aveva spinto i genitori a rivolgersi a uno psicologo per seguirlo.
Mamma Lorena e papà Sergio non erano contrari al fatto che il figlio comprasse una casa tutta sua. Volevano però che prima trovasse un lavoro. Lui che, dopo l'ultimo impiego in conceria, un anno fa, trascorreva le giornate a zonzo, a spendere i loro soldi. Gli stessi per cui dice di averli ammazzati: «Volevo comprare una casa ad Arzignano», dove vivono, ora stretti nel dolore, i nonni materni e la zia.
Con il denaro di mamma e papà, Diego Gugole faceva «la bella vita», tra vestiti griffati e serate in discoteca che metteva in mostra sui suoi profili social, ora pieni di insulti contro di lui.
«A dispetto delle foto che pubblicava, ho sempre pensato fosse un ragazzo molto solo», dice ora Matteo Macilotti, il sindaco di questa cittadina nel Vicentino ancora scossa dall'«enorme tragedia» che riporta tutti indietro di trent'anni, quando il ventenne Pietro Maso uccise i genitori a padellate per l'eredità.
«Succede tutto qui», sospira un anziano che abita nel palazzo di fronte a quello del delitto, al villaggio Marmi. Racconta che per qualche anno aveva lavorato in conceria con papà Sergio, «bravissima persona».
Conosce anche Diego che qualche mese fa si era offerto di sintonizzargli la tv: «Docile e mansueto, ma tanto strano. Non proprio a posto». Dopo la mattanza, Gugole non ha toccato i corpi. Si è lavato, cambiato ed è uscito. È passato anche da un bar a vedere la partita di Champions League. Dopo tre notti in isolamento in carcere, oggi si presenterà davanti al giudice per l'interrogatorio di convalida del fermo.
Monica Serra per “la Stampa” il 17 marzo 2022.
Nell'ultima foto di famiglia pubblicata sui social qualche tempo fa c'è Diego che abbraccia mamma Lorena. Papà Sergio è alle loro spalle. Sembrano felici, sorridono. Tutti e tre insieme, come la gente di Chiampo, dodicimila anime in provincia di Vicenza, era abituata a vederli, a cena al ristorante Al Pellegrino, a due passi da casa, o a fare la passeggiata della domenica in paese. Sembravano così uniti che nessuno avrebbe potuto immaginare quello che martedì mattina è successo.
Diego Gugole, 25 anni vissuti tra qualche lavoro saltuario, pochi amici e tante bugie, ha ammazzato prima papà Sergio, 62 anni, con due colpi di pistola a bruciapelo mentre era seduto al tavolo della cucina. Erano le 10 e mezzo del mattino. Senza fare rumore, senza destare sospetti, ha atteso il rientro della mamma, Lorena Zanin, 59 anni, che era uscita di casa coi nonni. Appena tornata, tre ore più tardi, il venticinquenne ha ucciso anche lei, in salotto. Tre colpi sono andati a segno. Il quarto si è conficcato nella televisione.
Nessuno dei vicini ha sentito. Solo una donna ha notato un rumore confuso tra quelli dei lavori di ristrutturazione nel cantiere di fronte. Anche la signora abita in questa palazzina dai muri segnati dal tempo e dalle finestre verdi, oggi quasi tutte serrate, nel villaggio Marmi, che la famiglia Marzotto costruì a Chiampo negli anni Settanta per i suoi dipendenti, gli operai da un lato della strada, gli impiegati dall'altra, vicino al Santuario della Pieve.
I Gugole vivevano al primo piano, sopra all'appartamento dei nonni paterni, morti da tempo, dove Diego avrebbe voluto nascondere i corpi di mamma e papà, prima di decidere di consegnarsi, in serata, ai carabinieri di Vicenza. Il venticinquenne ha detto di averli ammazzati per i soldi: «Volevo i loro 800 mila euro, per comprare casa ad Arzignano, e cambiare la macchina» ha dichiarato già al piantone della caserma dei carabinieri di Vicenza, dove si è presentato alle 22.30.
Con una strana freddezza, ha raccontato nel dettaglio il suo pomeriggio. Il venticinquenne ha fatto una doccia. Ha cambiato i vestiti sporchi del sangue di mamma e papà. Ha bonificato 16 mila euro dal conto del padre al suo. È uscito di casa. Una vicina lo ha incrociato nell'aiuola: «Non mi ha neanche salutato, era strano, aveva la testa bassa», racconta. È andato dal barbiere a rimettere in ordine i capelli.
Ha portato altri soldi al proprietario della casa che voleva acquistare. Ha girovagato per alcuni paesi della zona a bordo della sua Smart. Si è fermato ad Arzignano per comprare sacchi, vernici, pennelli con cui avrebbe voluto nascondere i corpi e ripulire l'appartamento nel piano omicida che «organizzo da almeno un mese», ha confessato l'altra notte al magistrato della procura diretta da Lino Bruno.
«Ultimamente non mi piaceva lavorare, spesso raccontavo bugie» ha raccontato. Martedì pomeriggio Diego Gugole è anche andato in un bar «a bere qualcosa». Lo hanno incrociato amici e conoscenti, uno si sarebbe fermato a parlare con lui dopo le 17. Nessuno ha notato qualcosa di strano. Ma il suo telefono continuava a squillare. I primi ad allarmarsi erano stati i vicini. Sergio e Lorena non si erano presentati all'assemblea di condominio nel pomeriggio. Troppo strano, non mancavano a un appuntamento. In serata dovevano vedere una coppia di amici, e anche loro si erano messi a cercarli.
A qualcuno il ragazzo ha raccontato che i genitori erano partiti in Slovenia o in Croazia per lavoro o forse per una vacanza. Bugie, tante, che era abituato a dire anche ai genitori in questa storia che ricorda tanto quella dell'allora ventenne Pietro Maso che a tredici chilometri da qui uccise, sempre per soldi, i genitori a padellate nel 1991.
Sono tanti i punti da chiarire in questo omicidio, nelle indagini dei carabinieri del comando provinciale di Vicenza, a partire dall'arma del delitto, una calibro nove semiautomatica polacca, che gli investigatori hanno sequestrato in casa. E che Gugole dice di aver acquistato da «un marocchino», per 3 mila e 800 euro a Cologna Veneta, un paesino vicino. Non si sa se Diego fosse in sé: «Non aveva problemi psichiatrici conclamati», dice il suo avvocato Rachele Nicolin. Ma da qualche tempo i genitori lo avevano spinto a farsi seguire da uno psicologo.
Il 25enne voleva nascondere i cadaveri, ma poi si è costituito. Uccide entrambi i genitori per soldi, voleva acquistare una casa e l’auto: “Non mi piaceva lavorare”. Roberta Davi su Il Riformista il 17 Marzo 2022.
Ha sparato sei colpi di pistola: due contro il padre, mentre era seduto in cucina. Altri quattro contro la madre, che era appena rientrata in casa. Diego Gugole, 25 anni, aveva pianificato la mattanza da un mese: voleva tutti i loro risparmi, circa 800mila euro. Gli servivano per un progetto preciso: acquistare un immobile e un’auto, ma senza la necessità di andare a lavorare.
Dopo il tentativo (fallito) di mascherare il duplice delitto e di sbarazzarsi dei cadaveri, si è però costituito, confessando quanto aveva fatto. È accaduto a Chiampo, comune in provincia di Vicenza, martedì 15 marzo: quasi 31 anni dopo il caso Pietro Maso, che sconvolse l’Italia.
Le fasi del delitto
Il padre Sergio, 62 anni, in pensione dopo una vita trascorsa nella sua conceria, e la madre Lorena Zanin, 59 anni, casalinga, sono stati freddati con una calibro 9 che, come ha poi raccontato i carabinieri l’omicida, aveva acquistato da un cittadino straniero a Cologna Veneta- vicina località in provincia di Verona- per 3.800 euro. Stando alle ricostruzioni degli investigatori, tutto sarebbe accaduto intorno alle 10:30 nell’abitazione di via Villaggio Marmi, dove la famiglia risiedeva. Diego Gugole avrebbe prima ucciso con due colpi di pistola alla testa il padre, mentre era seduto a tavola. Poi avrebbe atteso che la madre rientrasse da una visita ai genitori, alle 13.20 circa, per spararle a bruciapelo. Tra i due delitti, il venticinquenne avrebbe anche eseguito un bonifico di 16 mila euro dal conto corrente del padre a quello personale.
Dopo aver ammazzato la donna, si sarebbe quindi cambiato per portare altro denaro- dopo una prima somma consegnata una settimana prima- all’impresa edile della vicina Arzignano, come anticipo per la casa che aveva scelto per andare a vivere da solo. Sempre ad Arzignano avrebbe anche acquistato alcuni sacchi di tela, vernice e pennelli con l’obiettivo, ha raccontato il giovane al pm, di nascondere i cadaveri dei genitori al piano terra del loro palazzo, ormai vuoto dopo la morte dei nonni paterni.
Dopo aver ricevuto la telefonata di un’amica della madre alle 20:45, che avrebbe dovuto incontrare i genitori e non riusciva a contattarli, forse si è reso conto che il suo piano non fosse poi così infallibile: “Sono partiti per un viaggio” aveva risposto. Ma prima di andare dalle forze dell’ordine a confessare, Diego Gugole ha raccontato di aver trascorso del tempo in un bar: “Ho ordinato una Coca Cola- ha detto.– C’era la televisione, davano la partita e sono rimasto per un po’ lì, a guardare la Champions”.
La confessione
Al magistrato il 25enne ha raccontato che “ultimamente non mi piaceva lavorare” e che “spesso raccontavo bugie ai miei genitori”. Aveva lavorato in alcune concerie della valle del Chiampo, ma era disoccupato da circa un anno. E, su insistenza dei genitori, aveva “intrapreso dei colloqui trattamentali con una specialista psicologa”. Diego avrebbe negato che ci fossero dei litigi in famiglia, scrive il Corriere: ma in paese circolano voci che le richieste di soldi fossero sempre più insistenti.
Al termine della confessione, i carabinieri si sono recati presso l’abitazione di Chiampo, dove sono stati ritrovati i due corpi senza vita e l’arma usata per il delitto. All’interno dell’auto del ragazzo invece, hanno recuperato il materiale per nascondere i cadaveri e ripulire la scena del delitto: i sacchi di tela e il resto del materiale acquistato nel pomeriggio.
I punti da chiarire
Il 25enne si trova ora in carcere con l’accusa di omicidio pluriaggravato premeditato. Si terrà domani mattina l’interrogatorio di convalida.
Intanto la procura di Vicenza ha disposto l’autopsia sui corpi dei genitori, che verrà eseguita nei prossimi giorni. Sotto sequestro, oltre alla casa di Chiampo, anche l’appartamento sfitto dei nonni paterni dove il ragazzo voleva nascondere i due cadaveri. Gli inquirenti stanno inoltre cercando di capire come il 25enne si sia procurato l’arma del delitto. La versione fornita nel corso dell’interrogatorio di martedì notte, ossia che la pistola sia stata acquistata da un cittadino straniero, non convincerebbe gli investigatori. Roberta Davi
· Il Giallo di Antonella Di Veroli.
Uccisa e murata: quel killer nascosto nei doni di Antonella. Rosa Scognamiglio il 29 Dicembre 2021 su Il Giornale. Antonella Di Veroli fu uccisa nell'aprile del 1994. Il killer ripose il cadavere nell'armadio e sigillò l'anta con il mastice. A 27 anni dal delitto, il caso è ancora aperto: c'è un terzo uomo coinvolto?
Ci sono delitti irrisolti, scontornati come una fotografia ingiallita dal tempo. Gli americani li chiamano cold case, omicidi a "pista fredda", casi sospesi in un limbo di ipotesi e incertezze. Come quello di Antonella Di Veroli, la commercialista uccisa a Roma nell'aprile del 1994 da un ignoto killer. Un epilogo tragico per la professionista 47enne, soffocata con un sacchetto di plastica e poi murata nell'armadio della sua camera da letto. Ventisette anni dopo, nessuno ha ancora pagato dazio per la truce esecuzione.
"L'assassino è tra i protagonisti dell'inchiesta": ne è certo il giornalista e scrittore Mauro Valentini, che ha spulciato le carte del fascicolo per omicidio, ricomponendo il puzzle dell'intricata vicenda all'interno del libro-inchiesta "Quaranta passi". "La vittima aveva un rapporto confidenziale col suo assassino ma il movente non è quello passionale", spiega alla redazione de ilGiornale.it la criminologa Imma Giuliani. Ma proviamo a riavvolgere il nastro di questa vicenda tanto amara quanto ingarbugliata.
Chi era Antonella Di Veroli
Nel 1994 Antonella Di Veroli è una donna single di 47 anni. Lavora come commercialista: disbriga pratiche per una cerchia ristretta di clienti, quanto basta a garantirle un tenore di vita modesto. È una persona perbene, riservata e poco incline alla vita mondana. Non ha molti amici ma un ex fidanzato, Umberto Nardilocchi, è diventato il suo più caro confidente dopo la fine della relazione. Si sentono spesso al telefono e, di tanto in tanto, escono a cena. Le giornate di Antonella si dividono tra casa e ufficio, è un tipo metodico e abitudinario.
Di recente, ha acquistato un appartamento al civico 8 di via Oliva, nel quartiere Talenti, a due passi da villa Torlonia. Una vecchia abitazione che la 47enne ha arredato con cura apportando una modifica all'impostazione originaria: un armadio a muro in camera da letto. Lo stesso in cui sarà rinvenuta cadavere nella tarda mattinata del 12 aprile 1994.
Una domenica di aprile
Per poter comprendere cosa sia accaduto ad Antonella bisogna ripercorrerne gli ultimi istanti di vita. È domenica 10 aprile 1994, la 47enne si reca a pranzo da un'amica. Le due trascorrono insieme l'intera giornata fino al tardo pomeriggio, tanto che i genitori della ragazza la invitano a fermarsi anche per cena. Antonella declina l'offerta, dice di voler rincasare per mettersi comoda e sbrigare alcune faccende. L'indomani è un lunedì e dovrà tornare in ufficio.
Dopo essersi accomiatata dall'amica, tira dritta verso casa. Affida le chiavi dell'auto al custode del garage, come fa di solito, affinché posteggi la vettura. Rientrata nell'appartamento ordina i documenti sulla scrivania e poi, attorno alle 22.45, telefona alla madre per un saluto. Si strucca e mette il pigiama, probabilmente intende coricarsi. Ma qualcuno bussa alla sua porta.
La scomparsa
Il mattino successivo, nessuno ha notizie di Antonella. Neanche Ninive, la vicina del piano rialzato, l'ha vista uscire per andare al lavoro. Sua madre e Umberto le lasciano dei messaggi in segreteria telefonica chiedendole di "farsi viva" poiché sono in apprensione. Nel primo pomeriggio di lunedì 11 aprile Carla, la sorella di Antonella, decide di andare a controllare di persona assieme al marito. Suona con insistenza al campanello dell'appartamento ma non riceve alcuna risposta. A quel punto Ninive si propone di aprir loro la porta d'ingresso poiché è provvista di un mazzo di chiavi passepartout. Poco dopo sopraggiungono anche Umberto Nardilocchi, con il figlio e un amico poliziotto.
Una volta dentro l'abitazione, Carla non nota nessuna anomalia: i vestiti sono ripiegati accanto al letto e sul tavolo del soggiorno c'è la solita pila di scartoffie. È tutto più o meno come al solito. Ma Antonella in casa non c'è: dov'è finita? A tarda sera, Nardilocchi ritorna in quell'appartamento ma dell'amica non vi è traccia. È martedì 12 aprile, da circa 48 ore nessuno ha più notizie della 47enne. Carla con il marito, Nardilocchi e l'amico poliziotto, decidono di ispezionare a fondo la casa: tutti indossano un paio di guanti in lattice. Rovistano invano nei cassetti e nelle varie stanze finché notano che un'anta dell'armadio in camera da letto è sigillata con del mastice. Dopo averla forzata, scorgono sul pianale superiore un cuscino insanguinato sormontato da un mucchio di vestiti. Lì sotto giace il corpo senza vita di Antonella.
La scoperta del cadavere
L'orrore. Antonella è rannicchiata in posizione fetale, con le braccia incrociate sul petto e un sacchetto di plastica attorno alla testa, sul ripiano dell'armadio. Qualcuno, per certo un killer spietato, l'ha ammazzata con lucida freddezza. "È stata uccisa barbaramente – spiega alla nostra redazione il giornalista e scrittore Mauro Valentini – Dapprima tramortita con due colpi di pistola alla fronte, poi soffocata con un sacchetto di plastica e infilata nell'armadio". L'assassino ha esploso 2 proiettili con una pistola compatta, verosimilmente una calibro 22 (l'arma del delitto non è mai stata ritrovata) ma i colpi non hanno raggiunto la teca cranica.
L'autopsia chiarirà che la 47enne è morta per soffocamento. Ma perché il killer ha occultato il cadavere nell'armadio? "Era l'unico posto in cui poteva nasconderlo - chiarisce a ilGiornale.it la criminologa Imma Giuliani - Se lo avesse trascinato all'esterno dell'abitazione, per certo non sarebbe passato inosservato. Così facendo l'assassino ha ritardato il ritrovamento del cadavere".
Le indagini
Nessuno ha visto né sentito nulla. Ninive, la vicina di casa, dice di avere udito dei passi attorno alle 23 della domenica sera ma non il boato degli spari. Anche per gli inquirenti è un rebus. L'aggressore non ha lasciato tracce evidenti sulla scena del crimine. C'è solo un bossolo sotto al letto e il tubetto semi utilizzato di mastice per parquet sul comodino. Non risultano segni di effrazione alle finestre né è stato trafugato qualcosa dall'appartamento. Ma allora chi può aver ucciso Antonella?
Le indagini si concentrano su due uomini che orbitano nella vita della commercialista. Il primo è Umberto Nardilocchi, l'altro è Vittorio Biffani, un fotografo sposato con cui la vittima ha avuto una relazione clandestina. A tre giorni dal delitto, i due sospettati vengono interrogati e sottoposti alla prova dello Stub. Il test dà esito positivo rilevando tracce di polvere da sparo sulle mani di entrambi. Ma se Nardilocchi ha un alibi di ferro - frequenta un poligono di tiro - Biffani è meno convincente. Del resto, ragiona la magistratura, gli estremi per ipotizzare un delitto passionale ci sono tutti. La soluzione del giallo sembra a portata di mano.
Il processo a Biffani e il colpo di scena
Alla fine dell'istruttoria, Nardilocchi esce di scena. Le attenzioni degli inquirenti sono rivolte al fotografo. A inasprire i sospetti su Biffani c'è una vecchia storia di soldi, un debito da 42 milioni di lire che ha contratto con Antonella. Il prestito è rimasto insoluto nonostante le richieste pressanti (o ritenute tali) della 47enne nei confronti dell'ex di provvedere al saldo. E poi ci finisce di mezzo anche la moglie di Biffani che, dopo aver scoperto il tradimento del marito, ha tempestato Antonella di telefonate. Insomma, agli occhi della magistratura tutto quadra alla perfezione. Se non fosse che manca la prova regina o, in ogni caso, un elemento comprovante la presunta colpevolezza dell'indagato. La svolta nel procedimento a carico di Biffani arriva col processo d'appello, nel 1996. Più che svolta è un vero e proprio colpo di scena: il Dna dello Stub prelevato durante le indagini non appartiene al fotografo. A quel punto l'assoluzione è inevitabile. Ma resta un atroce dubbio: di chi è quel Dna?
Il movente del delitto
Dunque la pista sentimentale non porta da nessuna parte. Allora, viene da domandarsi, il movente del delitto è economico? Forse una ritorsione? Dal passato di Antonella, per quanto qualcuno abbia provato a gettare ombre sulla donna con ipotesi strampalate e illazioni di cattivo gusto per il fatto che avesse frequentato uomini sposati, non emergono anomalie. Per certo era una donna single e sicuramente in cerca di stabilità affettiva, consultava delle cartomanti ma non fu mai coinvolta in qualche losco affare. Quindi chi l'ha uccisa e perché?
"Antonella aveva un rapporto confidenziale con quello che poi si è rivelato il suo assassino - spiega la dottoressa Giuliani - Lo si evince dal fatto che lo abbia accolto a tarda sera in pigiama e struccata. Escludo si tratti di un amante o che avesse programmato un incontro sentimentale per quella domenica". Potrebbe essere una donna? "No, non credo - continua la criminologa - Così come ritengo inverosimile il movente passionale. Sembrerebbe si sia trattato di un delitto premeditato e comunque l'assassino, per quanto non fosse dotato di 'un'arma da killer', aveva una certa dimestichezza con la pistola".
C'è un terzo uomo?
A 25 anni dal delitto, nel 2019, la procura ha deciso di rimettere mano al fascicolo per omicidio nel tentativo di stabilire la verità. Ci sarebbe un'impronta impressa sull'anta di quel maledetto armadio che potrebbe riaprire le indagini. E il condizionale è d'obbligo in questo caso, dal momento che mancano all'appello dei reperti fondamentali per la risoluzione del giallo. Ad esempio dov'è finito il pianale su cui giaceva il cadavere di Antonella? E il sacchetto con cui il killer l'ha soffocata? Possibile non ci siano tracce dell'assassino sul tubetto di stucco usato per sigillare l'anta?
Domande che restano insolute e infittiscono di dubbi questa macabra vicenda. C'è poi un ultimo dettaglio. Nel febbraio del 1994, due mesi prima della tragedia, Antonella aveva acquistato un orologio e una cintura da uomo in una pelletteria di Roma. Per chi erano quei regali? La 47enne aveva fatto incidere all'interno degli accessori l'iniziale di un nome: "E". Di certo non si trattava né di Umberto Nardilocchi né di Vittorio Biffani. Dunque c'è un terzo uomo? Forse quel "cane sciolto" che la vittima menziona nelle ultime pagine del suo diario? Mauro Valentini è pronto a scommetterci: "L'assassino è nelle carte dell'inchiesta".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
"Suo figlio era il mostro di Foligno, vi racconto la storia di Marisa". Francesca Bernasconi il 25 Dicembre 2021 su Il Giornale. Marisa Rossi era la madre naturale di Luigi Chiatti, noto come il mostro di Foligno. Fu costretta ad affidare il figlio a un istituto perché non poteva mantenerlo: "Era convinta di poterlo riprendere con sé, ma un giorno le dissero che era stato dato in affido", spiega l'avvocato Riziero Angeletti a ilGIornale.it. "Il mostro di Foligno". Venne ribattezzato così Luigi Chiatti, che nel 1993 confessò di aver ucciso Simone e Lorenzo, due bambini di 4 e 13 anni. Per questi due omicidi, l'uomo venne condannato a 30 anni di carcere. Una storia che, al dolore delle famiglie dei piccoli, aggiunse anche quello di una madre che, dopo aver perso i contatti col figlio per anni, si ritrovò a dover testimoniare in un processo che lo vedeva indagato per omicidio.
Si tratta di Marisa Rossi, la madre naturale di Chiatti, che dovette appoggiarsi a un istituto, perché all'epoca non era in grado di mantenere il figlio. All'età di 6 anni però, Luigi venne dato in adozione e Marisa non ebbe più sue notizie. Fino a quando non scoprì che il figlio era stato accusato di omicidio. Nonostante questo, la donna non si tirò indietro e cercò di incontrarlo di nuovo. "Non ci riuscì mai, la sua fu una vita piena di sofferenza", dice al Giornale.it l'avvocato Riziero Angeletti, il legale che affiancò la donna durante il processo a Chiatti.
Avvocato Angeletti, partiamo dall'inizio. Chi era la madre naturale di Chiatti?
"Era una ragazza molto giovane che, subito dopo l'adolescenza, ha vissuto un periodo difficile. Lei veniva da un paesino in provincia di Rieti e si recò a Roma per lavorare come donna di servizio da una famiglia benestante. Io ho rivissuto quel periodo in maniera molto forte nel racconto della signora Rossi. Per quel che mi disse, subì una violenza da parte del titolare e rimase incinta. Quando successe, venne allontanata dal posto di lavoro e abbandonata dalla propria famiglia, perché questi erano i modi di intendere le cose all'epoca. Così rimase sola".
E cosa fece?
"La situazione che si era creata era grave: chi avrebbe preso a lavorare una donna in stato di gravidanza? Era una donna 'finita'. Riuscì comunque a portare avanti la gravidanza, ma poi non sapeva a chi lasciare il bambino. L'unica possibilità che aveva in quel momento, era quella di ottenere il ricovero in un istituto a Narni. Lo lasciò lì, ma lo andava a trovare in maniera costante, in attesa che riuscisse in qualche modo ad affrancarsi dal punto di vista lavorativo e poterlo riprendere e portarlo con sé".
Quindi avrebbe voluto riprendere il figlio con sé?
"Sì, assolutamente. Andava a trovare il figlio, inizialmente con cadenza settimanale, poi un giorno si presentò in orfanotrofio e non lo trovò. Le venne detto che era stato dato in affidamento, per poi essere adottato da una famiglia. Non aveva avuto nessuna avvisaglia, nessuno le aveva detto che il figlio doveva essere adottato: era convinta di riavere il bambino. Lei aveva questa speranza di potersi affrancare e riprendere il figlio con sé, ma non le fu consentito. Sofferenze su sofferenze. La signora Rossi cercò in tutti i modi di riuscire ad avere notizie del bambino, ma non ci fu nulla da fare. Così perse completamente i contatti col bambino".
Come scoprì che il figlio era accusato di omicidio?
"Venne chiamata da una delle parti per partecipare al processo. Ma mi rivelò che ci fu un momento in cui, nel vedere la foto del ragazzo sui giornali, ebbe qualche sospetto. Mi disse che aveva capito che poteva essere lui. Anche perché i giornali avevano raccontato un po' la vita di Luigi Chiatti e, mettendo insieme i dati e il periodo storico, aveva pensato che potesse trattarsi di lui".
"Saluti, al prossimo omicidio". La firma del "mostro" sui bimbi morti
Che ruolo ebbe Marisa Rossi nel processo a Luigi Chiatti?
"Lei fu indicata come testimone da una delle parti del processo, furono loro che riuscirono a rintracciarla. Si rivolse a me per assisterla. Era un'assistenza giuridica, ma essendo una semplice testimone nel processo era più un discorso di assistenza morale e umana. Lei voleva riuscire ad avere un contatto col figlio e chiedemmo un'autorizzazione per poter avere un colloquio con Chiatti. Ma in quel periodo non ci fu concessa. Io accompagnai Marisa Rossi al processo di Perugia dove fu sentita come testimone".
La signora Rossi riuscì mai a rivedere il figlio?
"Mai. Non ci fu più la possibilità. Poi c'era stata questa anticipazione negativa da parte dei giudici, lei era sola e in uno stato di abbandono totale. Sostanzialmente ci fu uno stop anche da parte sua: disse che se quello era il volere del figlio lo avrebbe rispettato nonostante ne soffrisse molto".
Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.