Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LA GIUSTIZIA
OTTAVA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA GIUSTIZIA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)
Una presa per il culo.
Gli altri Cucchi.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Un processo mediatico.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Senza Giustizia.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Qual è la Verità.
SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Parliamo di Bibbiano.
Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.
La Sindrome di Stoccolma.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Giustizia Ingiusta.
La durata delle indagini.
I Consulenti.
Incompatibilità ambientale: questa sconosciuta.
Il Diritto di Difesa vale meno…
Gli Incapaci…
Figli di Trojan.
Le Mie Prigioni.
Le fughe all’estero.
Il 41 bis ed il 4 bis.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Simone Renda spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Angelo Vassallo spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Mario Paciolla spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.
Ingiustizia. L’inchiesta "Why not" spiegata bene.
Ingiustizia. Il caso di Novi Ligure spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Garlasco spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Pietro Maso spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Marcello Pittella spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Angelo Burzi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Cogne spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Ciatti spiegato bene.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il tribunale dei media.
Soliti casi d’Ingiustizia.
Angelo Massaro.
Anna Maria Manna.
Cesare Vincenti.
Daniela Poggiali.
Diego Olivieri.
Edoardo Rixi.
Enrico Coscioni.
Enzo Tortora.
Fausta Bonino.
Francesco Addeo.
Giacomo Seydou Sy.
Giancarlo Benedetti.
Giulia Ligresti.
Giuseppe Gulotta.
Greta Gila.
Mario Tirozzi.
Massimo Garavaglia e Mario Mantovani.
Mauro Vizzino.
Michele Iorio.
Michele Schiano di Visconti.
Monica Busetto.
Nazario Matachione.
Nino Rizzo.
Nunzia De Girolamo.
Piervito Bardi.
Pio Del Gaudio.
Samuele Bertinelli.
Simone Uggetti.
INDICE SESTA PARTE
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Giustizialisti.
I Garantisti.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Cupola.
Gli Impuniti.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.
Palamaragate.
Magistratopoli.
Le toghe politiche.
INDICE NONA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero di piazza della Loggia.
Il Mistero di piazza Fontana.
Il Mistero della Strage di Ustica.
Il mistero della Moby Prince.
I Cold Case italiani.
Il Caso del delitto del Circeo: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez.
La vicenda della Uno Bianca.
Il mistero di Mattia Caruso.
Il caso di Marcello Toscano.
Il caso di Mauro Antonello.
Il caso di Angela Celentano.
Il caso di Tiziana Deserto.
Il mistero di Giorgiana Masi.
Il Giallo di Ponza: Gian Marco Pozzi.
Il caso di Cristina Mazzotti.
Il Caso di Marta Russo.
Il giallo di Polina Kochelenko.
Il Mistero di Martine Beauregard.
Il Caso di Davide Cervia.
Il Mistero di Sonia Di Pinto.
La vicenda di Maria Teresa Novara.
Il Caso di Daniele Gravili.
Il mistero di Giorgio Medaglia.
Il mistero di Eleuterio Codecà.
Il mistero Pecorelli.
Il Caso di Ernesto Picchioni: il primo assassino seriale italiano del '900.
Il Caso Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.
Il Caso Bruno Caccia.
Il mistero di Acca Larentia.
Il mistero di Luca Attanasio.
Il mistero di Evi Rauter.
Il mistero di Marina Di Modica.
Il mistero di Milena Sutter.
Il mistero di Tiziana Cantone.
Il Mistero di Sonia Marra.
Il giallo di Giuseppe Pedrazzini.
Il giallo di Mauro Donato Gadda.
Il giallo di Piazzale Dateo, la strage di Capodanno a Milano.
Il Mistero di Nada Cella.
Il Mistero di Daniela Roveri.
Il caso di Alberto Agazzani.
Il Mistero di Michele Cilli.
Il Caso di Giorgio Medaglia.
Il Caso di Isabella Noventa.
Il caso di Sergio Spada e Salvatore Cairo.
Il caso del serial killer di Mantova.
Il mistero di Andreea Rabciuc.
Il caso di Annamaria Sorrentino.
Il mistero del corpo con i tatuaggi.
Il giallo di Domenico La Duca.
Il mistero di Giacomo Sartori.
Il mistero di Andrea Liponi.
Il mistero di Claudio Mandia.
Il mistero di Svetlana Balica.
Il mistero Mattei.
Il caso di Benno Neumair.
Il mistero del delitto di via Poma.
Il Mistero di Mattia Mingarelli.
Il mistero di Michele Merlo.
Il Giallo di Federica Farinella.
Il mistero di Mauro Guerra.
Il caso di Giuseppe Lo Cicero.
Il Mistero di Marco Pantani.
Il Mistero di Paolo Moroni.
Il Mistero di Cori: Elisa Marafini e Patrizio Bovi.
Il caso di Alessandro Nasta.
Il Caso di Mario Bozzoli.
Il caso di Cranio Randagio.
Il Mistero di Saman Abbas.
Il Caso Gucci.
Il mistero di Dino Reatti.
Il Caso di Serena Mollicone.
Il Caso di Marco Vannini.
Il mistero di Paolo Astesana.
Il mistero di Vittoria Gabri.
Il Delitto di Trieste.
Il Mistero di Agata Scuto.
Il mistero di Arianna Zardi.
Il Mistero di Simona Floridia.
Il giallo di Vanessa Bruno.
Il mistero di Laura Ziliani.
Il Caso Teodosio Losito.
Il Mistero della Strage di Erba.
Il caso di Gianluca Bertoni.
Il caso di Denise Pipitone.
Il mistero di Lidia Macchi.
Il Mistero di Francesco Scieri.
Il Caso Emanuela Orlandi.
Il mistero di Mirella Gregori.
Il giallo del giudice Adinolfi.
Il Mistero del Mostro di Modena.
Il Mistero del Mostro di Roma.
Il Mistero del Mostro di Firenze.
Il Caso del Mostro di Marsala.
La misteriosa morte di Gergely Homonnay.
Il Mistero di Liliana Resinovich.
Il Mistero di Denis Bergamini.
Il Mistero di Lucia Raso.
Il Mistero della morte di Mauro Pamiro.
Il mistero di «Gigi Bici».
Il Mistero di Anthony Bivona.
Il Caso di Diego Gugole.
Il Giallo di Antonella Di Veroli.
Il mostro di Foligno.
INDICE DECIMA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero di Ilaria Alpi.
Il mistero di Luigi Tenco.
Il Caso Elisa Claps.
Il mistero di Unabomber.
Il caso degli "uomini d'oro".
Il mostro di Parma.
Il caso delle prostitute di Roma.
Il caso di Desirée Mariottini.
Il caso di Paolo Stasi.
Il mistero di Alice Neri.
Il Mistero di Matilda Borin.
Il mistero di don Guglielmo.
Il giallo del seggio elettorale.
Il Mistero di Alessia Sbal.
Il caso di Kalinka Bamberski.
Il mistero di Gaia Randazzo.
Il caso di Giovanna Barbero e Maria Teresa Bonaventura.
Il mistero di Giuseppina Arena.
Il Caso di Angelo Bonomelli.
Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.
Il caso di Sabina Badami.
Il caso di Sara Bosco.
Il mistero di Giorgia Padoan.
Il mistero di Silvia Cipriani.
Il Caso di Francesco Virdis.
La vicenda di Massimo Alessio Melluso.
La vicenda di Anna Maria Burrini.
La vicenda di Raffaella Maietta.
Il Caso di Maurizio Minghella.
Il caso di Fatmir Ara.
Il mistero di Katty Skerl.
Il caso Vittone.
Il mistero di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi.
Il Caso di Salvatore Bramucci.
Il Mistero di Simone Mattarelli.
Il mistero di Fausto Gozzini.
Il caso di Franca Demichela.
Il Giallo di Maria Teresa “Sissy” Trovato Mazza.
Il caso di Giovanni Sacchi e Chiara Barale.
Il caso di Luigia Borrelli, detta Antonella.
Il mistero di Antonietta Longo.
Il Mistero di Clotilde Fossati.
Il Mistero di Mario Biondo.
Il mistero di Michele Vinci.
Il Mistero di Adriano Pacifico.
Il giallo di Walter Pappalettera.
Il giallo di Rosario Lamattina e Gianni Valle.
Il mistero di Andrea Mirabile.
Il mistero di Attilio Dutto.
Il mistero del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino.
Il mistero di JonBenet Ramsey.
Il Caso di Luciana Biggi.
Il mistero di Massimo Melis.
Il mistero di Sara Pegoraro.
Il caso di Marianna Cendron.
Il mistero di Franco Severi.
Il mistero di Norma Megardi.
Il caso di Aldo Gioia.
Il mistero di Domenico Manzo.
Il mistero di Maria Maddalena Berruti.
Il mistero di Massimo Bochicchio.
Il mistero della morte di Fausto Iob.
Il Delitto di Ceva: la morte di Ignazio Sedita.
Il caso di Stefano Siringo e di Iendi Iannelli.
Il delitto insoluto di Piera Melania.
Il giallo dell'omicidio di Nevila Pjetri.
Il mistero di Jessica Lesto.
Il mistero di Stefania Elena Carnemolla.
L’omicidio nella villa del Rastel Verd.
Il Delitto Roberto Klinger.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il mistero della strage della Stazione di Bologna: E’ Stato la Mafia.
LA GIUSTIZIA
OTTAVA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.
Nordio: «La legge Severino va cambiata. I condannati in primo grado devono potersi candidare». Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 12 Dicembre 2022.
Il ministro della Giustizia: il traffico d’influenze così non va, è un’intenzione vaga
Lo scandalo di Bruxelles per Paolo Gentiloni è la più drammatica storia di corruzione degli ultimi anni. Carlo Nordio, come ministro della Giustizia, concorda?
«È sicuramente un fatto allarmante. Da autentico garantista attendo l’esito delle indagini. Ma, certo, la flagranza del reato e il possesso di fondi enormi ingiustificati, affievolisce il caposaldo della presunzione di innocenza».
Oltre ai singoli, coinvolge il Parlamento europeo.
«È questa la cosa più brutta. Se verrà accertato occorrerà una riflessione sul modo in cui vengono approvati i provvedimenti. Per capire se è stata un’eccezione o ci sono precedenti nascosti. E far sì che non accada più».
Sì, ma come?
«La ricetta è sempre la stessa: semplificare le procedure e individuare singole competenze e responsabilità. Il groviglio consente a intermediari di intervenire nell’ombra».
Quale lezione possiamo trarre da questa vicenda?
«Che la corruzione c’è da sempre, come narrano Cicerone e Lisia. E dappertutto, come dimostrò la vicenda Lockheed, nata in Olanda».
Ma da noi ce n’è di più?
«In Italia è più diffusa e capillare perché facilitata da un potere diffuso. La discrezione sconfina con l’arbitrio che spinge a oliare serrature altrimenti chiuse. La percezione da noi è 10 volte più alta. Non è un caso. A fronte di una media europea, a spanne, di 25mila leggi ne abbiamo 250.000. Più lo Stato è corrotto più sforna leggi».
Non insegna anche che le intercettazioni servono ed è pericoloso depotenziarle?
«Al netto di quelle per reati di mafia e terrorismo, che non vanno toccate, la norma va modificata: c’è un problema di divulgazione e uno puramente economico, perché vengono spesi centinaia di milioni che potrebbero essere utilizzati per altro, e producono pochi risultati».
La norma è appena stata modificata in modo restrittivo. Perché non basta?
«Se intercettazioni estranee al reato e che coinvolgono fatti privati finiscono sui giornali evidentemente non basta. E poi le intercettazioni devono essere uno strumento di indagine e non una prova».
A Bruxelles sono sui giornali. E non ne è nato un caso. Anzi.
«Per quanto si è capito, lì è esattamente accaduto ciò che è avvenuto a Venezia sul Mose. Anche noi abbiamo utilizzato intercettazioni. Ma la prova erano i soldi trovati».
Ma l’accesso alle notizie è garantito. Qui, dopo la riforma Cartabia, i magistrati rischiano il procedimento disciplinare. Non è eccessivo?
«Non l’abbiamo fatta noi. In effetti il pendolo che ha a lungo oscillato verso la divulgazione forsennata ora è completamente dall’altra parte».
E quindi?
«Va rimodulata la norma per conciliare il diritto all’informazione dei cittadini e quello dei singoli a non veder divulgate notizie segrete e intime che li riguardano. Per ripristinare una par condicio di informazione tra le parti».
Perché non lo fate subito?
«Siamo apertissimi a cercare un punto d’incontro tra diritto all’informazione e limiti alla graticola mediatica. Sono pronto ad aprire un tavolo di confronto tra rappresentanti dell’Anm, dell’avvocatura e del giornalismo, anche domani».
Non è incongruente la stretta sulle intercettazioni e il decreto sui Rave che le prevede per i ragazzi?
«Le intercettazioni non sono obbligatorie. E spero ne facciano poche o affatto».
Non sono troppi sei anni?
«La pena rischiava di essere inferiore a quella per invasione di terreni aggravata. Sarebbe stata una contraddizione».
Con l’allarme appetiti della criminalità sui fondi del Pnrr è il caso di rimettere mano alla legge Severino?
«Abbiamo ricevuto sollecitazione dall’Anci, e l’apertura del Pd, per abolire o modificare radicalmente abuso d’ufficio e traffico di influenze».
Il traffico di influenze non è il primo passo contro la corruzione chiesto dall’Ue?
«Sì, ma l’Ue non ha chiesto una norma inadeguata che manca di tassatività e specificità facendo sì che tutti possano essere indagati ma quasi nessuno condannato. E poi leggendola non si capisce il reato che descrive, c’è solo un’intenzione vaga di punire il lobbismo».
Pensa che invece servirebbe una legge sulle lobby?
«Sì. E poi ci sono altre parti della Severino che non funzionano».
A quali si riferisce?
«Occorre far sì che la norma sull’incandidabilità non venga applicata ai condannati in primo grado».
Cioè tornerebbero candidabili i condannati?
«In primo grado sì. Altrimenti la norma confliggerebbe con la presunzione di innocenza. L’incandidabilita dovrebbe scattare dalla sentenza di appello in poi».
Anche per chi ha commesso reati gravi?
«Su questo si può discutere. Certamente la norma non può essere applicata retroattivamente perché è pur sempre un provvedimento afflittivo, visto che chi è in carica vuole rimanerci. Comunque su questo ci sono idee trasversali diverse. Credo che dobbiamo fare un dibattito trasparente e senza pregiudizi».
Non è stato un errore escludere i reati di corruzione dall’ergastolo ostativo?
«Abbiamo seguito le indicazioni della Corte Costituzionale. In ogni caso una norma così severa va limitata a reati gravissimi».
Lei è tornato a parlare anche di separazione delle carriere. Perché è urgente?
«Non lo è. È un obiettivo a cui tendere. Ma necessita di tempi molto lunghi perché prevede una revisione costituzionale. In questo momento dobbiamo dedicarci a cose meno divisive come l’efficienza della giustizia».
Incontrerà l’Anm che l’ha criticata?
«L’ho già incontrata. Queste riforme erano già state anticipate. È stata trascurata la prima parte della mia relazione, proprio quella relativa all’efficienza della giustizia».
Alla luce delle indagini di Bruxelles è il caso di trattare con Paesi a rischio diritti umani, come il Qatar che, a Priolo, è in corsa con gli Usa per acquistare la Lukoil?
«È un problema politico di livello più alto. Non compete al ministro della giustizia».
Ha annunciato interventi sul carcere. Quali?
«Sto cercando di ottenere parte del tesoretto per devolverlo a polizia penitenziaria e usarlo per i detenuti: l’aiuto psicologico a chi è a rischio suicidio e il lavoro. Serve un intervento sulle strutture anche se le risorse sono scarse».
E allora come?
«Con pochi soldi per la ristrutturazione si possono utilizzare le caserme dismesse per detenuti in attesa di giudizio o con reati minori. La migliore socializzazione è il lavoro».
La vera dichiarazione di Guerra. Il delirio di onnipotenza dei pm che attaccano Nordio: è la democrazia, bellezza. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista l’11 Dicembre 2022
Guardate un po’ cosa succede, in questo nostro sfortunato Paese, se un Ministro di Giustizia si azzarda a compitare alcune basiche proposte di matrice schiettamente liberale. Un putiferio. Una chiamata subitanea alle armi ed ai forconi. Evocazioni addolorate della Costituzione violata e bestemmiata. E soprattutto, quella allarmata ed accorata accusa: è stata dichiarata guerra alla magistratura! La quale ultima accusa è la più esemplare dimostrazione di come, in Italia, i parametri di giudizio riguardo alla politica giudiziaria vengano ormai, da un buon trentennio in particolare, letteralmente sovvertiti. Partiamo proprio da qui, se avrete pazienza di seguirmi.
Carlo Nordio è innanzitutto un parlamentare della Repubblica, da subito indicato agli elettori come futuro Ministro Guardasigilli, in forza esattamente di quelle idee liberali sulla giustizia penale che egli professa, con la parola e con gli scritti, da lunga pezza. Lui viene eletto, e lo schieramento politico che lo candidava a regista della politica giudiziaria del Paese stravince le elezioni e dunque governa il Paese. Non mi sfuggono, sia chiaro, ambiguità e misteriose contraddizioni alla base di quella designazione. Nordio siede, infatti, su un ossimoro esplosivo, che prima o poi detonerà: siamo garantisti sul processo -ama dire la Presidente Meloni, che pure è una donna intelligente- e giustizialisti sulla esecuzione della pena. Questa si, una bestemmia, e staremo a vedere come il nostro Carlo se la sbroglierà.
Ma è la democrazia, bellezza. Si chiama volontà popolare. Non è che l’on. Nordio, inebriato dalla prestigiosa nomina, ha cominciato a sproloquiare idee bizzarre e sconosciute. Ripete quelle per realizzare le quali è stato eletto dalla maggioranza degli elettori. Quindi, la prima domanda, molto semplice, è questa: chi sta dichiarando guerra a chi? Non certo l’on. Nordio. È la Magistratura, sono alcuni giornali, è la opposizione parlamentare ad aver dichiarato guerra a Nordio. Lui, con quelle sue idee, è passato al vaglio democratico del voto popolare, e quel vaglio non solo lo facoltizza, ma anzi gli impone di attuarle. A tutti costoro non piacciono le idee liberali sulla giustizia penale. Le patiscono come l’acqua i gatti. Sono estranei e naturalmente ostili ad esse, educati come sono da sempre a considerarle, nella più generosa delle ipotesi, boutade salottiere, e pigramente abituati a Ministri di Giustizia di tradizioni culturali opposte o comunque lontanissime da esse.
Cosa ha detto di eversivo il nostro scandaloso Ministro? Per esempio che vuole un ordinamento giudiziario a carriere separate tra PM e Giudici. Si tratta, giusto perché non lo si dimentichi, del sistema ordinamentale più diffuso – nelle sue varie, possibili articolazioni- nelle principali democrazie del nostro pianeta. Siamo noi, insieme a Bulgaria, Romania e Turchia, giusto per capirci, ad essere l’eccezione. E la Francia, dove però i P.M. sono sotto il controllo dell’esecutivo. Non mi risulta che negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Portogallo, in Germania, in Canada, e così via discorrendo, i criminali governino quei Paesi e le persone per bene, terrorizzate, vivano chiuse nelle loro case. Siamo noi in ritardo con la Costituzione, dopo la riforma dell’articolo 111 della Carta, che pretende parità tra accusa e difesa e terzietà del giudice.
La magistratura pretende che quella terzietà sia affidata alla virtù del giudice (“cultura della giurisdizione”, viene chiamata nei dibattiti); noi liberali, se non disturba troppo, pensiamo non basti. E con noi, come tutti sanno, la stragrande maggioranza della pubblica opinione. E che dire delle patologie legate all’uso ed al governo incontrollato delle intercettazioni telefoniche? Nordio non ha dettagliato la natura degli interventi che ha in mente, aspettiamo almeno che ce ne possa parlare, senza per questo dover essere accusato di “favorire le mafie” (Cafiero de Raho). E l’obbligatorietà dell’azione penale? Non esiste più, se mai è esistita, tant’è che le leggi prevedono esplicite deroghe.
Sapete quale è la vera partita? Vogliono che le deroghe (si chiamano “priorità”) continuino ad essere insindacabilmente riservate ai Procuratori della Repubblica. Dunque una scelta politica (tale è una scelta di “priorità” dell’azione penale) affidata ad un qualificato burocrate, che però non ne risponde a nessuno. Per carità, sono idee come altre, ognuno difenda le proprie. Ma piantiamola con questa invereconda buffonata della “dichiarazione di guerra alla magistratura”. Ammoniamo piuttosto la Magistratura a restare nel suo proprio ruolo, e a non dichiarare guerra ad un Ministro democraticamente legittimato a proporre e realizzare quel programma di riforme. Torniamo ad una Politica che abbia l’orgoglio della propria funzione: attuare la volontà dei cittadini come democraticamente espressa nelle cabine elettorali. Siano gli altri a non dichiarare guerra alle regole democratiche.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Gogna o strumento d’indagine? È lite sulle intercettazioni. Il no dei magistrati al piano del guardasigilli: «Sono indispensabili». Esultano i penalisti: «Finalmente se ne discute». Valentina Stella Il Dubbio il 9 dicembre 2022.
Il tema delle intercettazioni continua ad essere terreno di scontro tra una parte della politica e la magistratura. Abbiamo raccolto il parere di Rossella Marro, presidente di Unicost: «In materia di intercettazioni va sgomberato il campo da un primo equivoco, ossia che in Italia in modo ingiustificato se ne facciano molte di più che in altri Paesi.
L’Italia infatti ha purtroppo il primato delle organizzazioni criminali di stampo mafioso (ndrangheta, sacra corona unita, camorra, mafia) ed il contrasto alle organizzazioni criminali, così come a qualunque altra forma di reato associativo, è possibile soprattutto grazie alle intercettazioni. Anche il fenomeno della concussione o corruzione assume contorni allarmanti ed anche in questi casi lo strumento delle intercettazioni è indispensabile».
Premesso ciò, Marro prosegue: «Condividiamo pienamente la preoccupazione del ministro per le indebite diffusioni di intercettazioni riguardanti anche aspetti di nessun interesse pubblico che tuttavia stravolgono la vita di persone che fino a prova giudiziaria contraria sono innocenti. La gogna mediatica è un fenomeno da contrastare e, sotto questo profilo, è meritorio mantenere sempre alta l’attenzione». Ma si tratta «di un aspetto diverso che nulla ha a che vedere con la indispensabilità dello strumento investigativo. Sul tema della diffusione peraltro di recente è intervenuta una disciplina molto restrittiva in attuazione di una direttiva della Comunità europea, che ha proprio la finalità di assicurare la riservatezza e la tutela della dignità delle persone coinvolte a vario titolo nelle intercettazioni. Occorre verificare sul campo l’efficacia della nuova normativa». È in ogni caso «ingeneroso» attribuire ai magistrati «la responsabilità della diffusione perché spesso proprio i magistrati “subiscono” le fughe di notizie da altri provocate. Le intercettazioni infatti sono necessariamente nella disponibilità di diverse persone che potrebbero avere interesse ad un eventuale uso strumentale delle stesse».
Altre riflessioni ci arrivano da Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg, a partire dal sostegno di Nordio alle intercettazioni preventive: «Mi pare chiaramente contraddittorio con la sua reclamata appartenenza culturale di tipo liberale perché, in realtà, esse sono sostanzialmente fuori dal circuito giudiziario. Vengono sì autorizzate dal procuratore generale ma, innanzitutto, non c’è una autorizzazione di un giudice come quelle ordinarie. Poi, soprattutto, la grande differenza tra quelle ordinarie e quelle preventive è che queste ultime rimangono per sempre segrete. Neanche l’interessato, ex post, verrà mai a sapere di essere stato intercettato. E non verrà neanche a sapere che quelle intercettazioni contengono elementi della sua vita privata. Invece oggi, grazie alla legge Orlando, si può ottenere, a posteriori, la distruzione delle intercettazioni non rilevanti per le indagini. Mi sembra singolare che il ministro non colga la differenza tra questi due meccanismi, proprio sul piano delle garanzie».
Nordio ha riportato degli esempi di persone, anche magistrati, la cui vita è stata rovinata dalle intercettazioni. «Ma questi episodi fanno parte del secolo scorso», ricorda Albamonte che continua: «Nel frattempo è cambiata la legge. La disciplina Orlando prevede che quelle non rilevanti vengano già controllate e custodite sotto la responsabilità anche disciplinare del procuratore della Repubblica. Quindi non capisco a cosa faccia riferimento Nordio». Per il pubblico ministero, «questo tema, come diversi altri, è trattato dal ministro in modo pretestuoso per solleticare le aspettative di una certa parte della maggioranza politica – mi riferisco a Forza Italia che ne ha sempre fatto un cavallo di battaglia – e di un segmento di opinione pubblica, che teme le intercettazioni». Anche perché, conclude Albamonte, «ho sentito esponenti del Governo sostenere in televisione che le intercettazioni non verranno toccate per i reati di mafia e terrorismo, pedopornografia, prostituzione e tratta di esseri umani. Stringi, stringi a me pare che non si abbia il coraggio di dire chiaramente quale sia l’obiettivo perseguito: eliminare le intercettazioni per i reati di concussione e corruzione».
È «importante» invece per Eriberto Rosso, segretario dell’Unione Camere penali, «che si torni a discutere della disciplina delle intercettazioni ed è un bene che il ministro Nordio abbia riconosciuto come il bilanciamento tra poteri di investigazione e diritti fondamentali della persona nel nostro sistema processuale sia pessimo». Rosso ricorda che «nella scorsa Legislatura si è mandata al macero la riforma Orlando, che pure qualche freno alle intercettazioni e alla loro divulgazione aveva previsto, e si è adottata una disciplina ben poco garantista che prevede il sostanziale via libera all’uso del trojan».
Infine «è utile ricordare a coloro che ancora oggi – sempre con il solito refrain della lotta alla criminalità organizzata – paventano l’impunità per i criminali che, con la legge n. 7 del 2020 e con la foglia di fico di due aggettivi, si sono in un sol colpo superati gli stessi limiti che la Corte di Cassazione aveva individuato prima con le Sezioni Unite Scurato e poi con la sentenza Cavallo. La fotografia dell’oggi sono i fenomeni della cosiddetta “pesca a strascico” per la ricerca del reato e non della prova». Mettere mano alle intercettazioni «servirà finalmente a ribadire che le comunicazioni tra difensore e indagato non debbono essere non solo utilizzate ma neppure ascoltate».
Aggiotaggio giudiziario. Le riforme di Nordio, le indagini sulla Juventus e il problema tutto italiano dell’inquinamento delle informazioni. Cataldo Intrieri su L’Inkiesta il 9 Dicembre 2022.
Le proposte del Guardasigilli, non così garantiste come sembrano, sono state bocciate dal solito circo giornalistico-giudiziario, proprio mentre i giornali riportano intercettazioni sul club bianconero diffondendo solo le tesi dell’accusa. Una vera piaga, mai risolta, della nostra democrazia
Il Guardasigilli Carlo Nordio ha esposto alla Commissione giustizia della Camera una sorta di personale “libro dei sogni” in cui sono contenute quelle “riforme minime” – dalla separazione delle carriere alle intercettazioni, al rispetto concreto ed effettivo del principio di legalità – che sarebbero appunto il “minimo sindacale” per un paese degno di qualificarsi come governato come uno stato di diritto.
Per questo motivo, l’ex magistrato veneziano ha subito il solito trattamento che il partito giornalistico delle procure riserva a chiunque osi mettere sul tavolo questi temi, vale a dire un indifferenziato pestaggio mediatico e la “fatwa” dei giustizialisti nostrani.
Da ultimo, l’immancabile Gustavo Zagrebelsky ha unito in un unico tratto le critiche al presidente della Repubblica, a Bankitalia e alla magistratura come un complessivo disegno d’assalto alle istituzioni di garanzia mosso dalla destra italiana.
Chi scrive ha avuto modo, su questo giornale, di esprimere la personale diffidenza nei confronti del nuovo Guardasigilli, in particolare sottolineando come la sua visione sia sostanzialmente autoritaria perché, a fronte di massime garanzie per i “galantuomini” nel processo, egli sostiene massimo controllo e chiusura nella fase di prevenzione dei crimini e di esecuzione della pena.
Dunque, per Nordio, le intercettazioni sono da restringere come fonte di ricerca della prova durante l’indagine, ma vanno invece abbondantemente usate prima e a prescindere da ogni controllo giudiziario di legalità come strumento di contrasto sociale alla criminalità.
Così il ministro della Giustizia teorizza che le forze di polizia, in segreto e senza controllo della stessa magistratura, e senza mai darne pubblico conto, possano intercettare i sospetti di ipotetiche illecite attività ancora da accertare. Un modello di stampo ungherese da rigettare in toto.
Nessuna misericordia inoltre per i condannati, con qualche rara eccezione per i responsabili di reati minori. In questa visione, come dimostra il recente decreto anti-rave, i “ladri di Stato” corrotti e corruttori sono equiparati a mafiosi e trafficanti, per cui nessuna alternativa vi può essere al marcire nelle più vergognose carceri europee.
Per questa idea di giustizia chi scrive non ha nessuna simpatia, al contrario delle tante cheerleader di Nordio tra insospettabili organi di stampa e politici sedicenti garantisti.
Tuttavia il vero scandalo è lo squadrismo mediatico che si abbatte su chi osa toccare i fili, a partire dalla famosa e “limacciosa” commissione bicamerale di Massimo D’Alema di fine millennio.
In ragione di ciò, a oggi è problematico finanche eleggere i membri laici per il Consiglio superiore della magistratura dove concorrono personaggi che la magistratura non ama come gli avvocati Gaetano Pecorella e Mauro Anetrini, garantisti e pure autorevoli e per questo invisi alle toghe.
Tuttavia il vero problema non è solo una magistratura arroccata sui suoi privilegi, bensì una diffusa sottocultura che la protegge e accompagna nei suoi vizi, magari per interessi di bottega.
Il mercato delle intercettazioni indiscriminatamente pubblicate sulla stampa, ad esempio, non è una fisima di Nordio ma una piaga reale che inquina la democrazia.
Tramite esso si colpisce un principio di civiltà come la presunzione di innocenza vanamente ribadito da una legge di recente introdotta in mezzo agli strepiti del partito filo-procure dei Travaglio, Bianconi, Bonini e Giannini e non se ne abbiano a male alcuni destinatari (“Amicus plato sed magis veritas…”).
La legge impone ai magistrati la prudenza e la riservatezza sulle indagini, una cosa ovvia, ma non impedisce di surrogare le vecchie conferenze stampa di pm e carabinieri con estesi editoriali sui giornali amici. E dunque basta passare le carte per avere le solite vecchie sentenze anticipate di condanna.
Tale sorte accomuna potenti e cittadini comuni, cardinali, imprenditori e vecchi pregiudicati, dagli Agnelli a Massimo Carminati.
Ultimamente è capitato anche ai proprietari di Gedi, il più importante gruppo editoriale italiano, a proposito del procedimento penale che coinvolge una delle loro più rilevanti partecipazioni, la Juventus, di cui va evidenziato un curioso quanto significativo episodio.
Raccontano le cronache che Cristiano Ronaldo, ex calciatore bianconero negli anni oggetto di indagine, abbia fatto richiesta di accesso agli atti del processo che sono stati depositati per le parti al termine delle indagini, quale soggetto interessato.
Richiesta legittimamente respinta perché il contenuto del fascicolo, ancorché non più coperto dal segreto d’indagine, non può comunque essere pubblicato almeno fino al termine dell’udienza preliminare e la copia dei singoli atti addirittura sino al processo vero e proprio a norma dell’articolo 114 del codice di procedure penale.
Il punto è che invece le gazzette hanno riportato pezzi interi di intercettazioni, alcune con soggetti non coinvolti e hanno diffuso le tesi dell’accusa.
Quasi nessuno ha illustrato le ragioni della difesa e ha correttamente spiegato che l’unica volta in cui è intervenuto un giudice “terzo e imparziale” ha dato torto all’accusa non solo respingendo la solita richiesta di misure cautelari ai danni dei principali imputati, ma addirittura ponendo in dubbio la rilevanza penale delle strombazzate plusvalenze che costituiscono la polpa delle accuse di falso in bilancio e aggiotaggio informativo.
Stiamo parlando di una società quotata in Borsa ma lo stesso discorso ormai è ricorrente in svariati casi. L’aggiotaggio e l’inquinamento dell’informazione giudiziaria sono un grosso problema di democrazia non ancora risolto e duro a morire.
"Anm fuori dalla realtà. È cambiato il clima: Nordio non è Mastella". L'ex magistrato: "Il ministro è inattaccabile. E ora tutti censurano le toghe politicizzate". Luca Fazzo l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Il nuovo ministro della Giustizia Carlo Nordio ci ha messo solo quarantadue giorni per scatenare le ire dell'Associazione nazionale magistrati. E adesso cosa accadrà? Cercheranno di silurarlo per via giudiziaria?
«In passato è accaduto spesso - risponde Luca Palamara, che dell'Anm è stato a lungo il potente presidente - che ministri della Giustizia pagassero cara la contrapposizione alle correnti. Basti pensare a quanto accadde al ministro Clemente Mastella. Ma stavolta la vedo dura. Il profilo professionale di Nordio, uno che ha fatto per tutta la vita il pubblico ministero, lo rende difficilmente attaccabile».
Non è paradossale che a entrare quasi immediatamente in rotta di collisione con le correnti delle toghe sia il primo Guardasigilli che viene proprio dalle fila delle Procure?
«Me lo spiego semplicemente col fatto che ormai ci sono problemi divenuti a tal punto patrimonio comune dell'opinione pubblica che non è più possibile nascondersi dietro una foglia di fico. Nordio ha avuto il coraggio di mettere sul tavolo emergenze che, fuori dall'ipocrisia, sono vissute come tali dall'intera società civile italiana. Proprio perché ora provengono da uno che ha fatto per tutta la vita il pm sarebbe il caso che anziché ricorrere alle solite, stereotipate invettive l'Anm affrontasse serenamente i problemi che ha posto. Aggiungo: sarebbe il caso che a rispondere a Nordio fossero persone qualificate e non soggetti che puntano senza titolo a qualificarsi come grandi giuristi. Parlo ovviamente di alcuni giornalisti».
In passato, Cartabia compresa, la scena era sempre la stessa. Arrivava un nuovo ministro, annunciava riforme più o meno epocali, le correnti dei giudici ruggivano e la riforma finiva in niente o quasi. L'Anm di oggi ha ancora il potere di fermare Nordio?
«Tutto quello che è accaduto ha inciso in profondità nel tessuto connettivo della magistratura italiana. La magistratura non è più quella di dieci anni fa, non siamo più all'epoca delle corazzate antiberlusconiane. La politicizzazione della magistratura è vista come un male dalla grande parte della magistratura, anche se l'Anm cerca disperatamente di riproporre le stesse parole d'ordine di sempre. Ancora più incredibile è che a farlo sia l'attuale presidente dell'Associazione, che prima era il capo dell'ufficio legislativo del ministro di centrosinistra e che mischia i due ruoli in maniera clamorosa».
L'altro giorno all'assemblea di Area, la corrente dei giudici di sinistra, si sentivano cose da anni Settanta. Il governo di centrodestra è stato accusato di volere «un ridimensionamento del modello costituzionale di magistrato», di lavorare «all'idea di un pubblico mistero sempre più compresso e sacrificato».
«Ci sono pezzi della magistratura refrattari a qualunque maturazione, decisi a portare avanti fino alla fine l'idea che schierarsi politicamente sia un diritto e anzi un dovere. Sono tagliati fuori dalla realtà».
A mettere Nordio sotto tiro è stato soprattutto il suo annuncio di ridurre l'utilizzo delle intercettazioni. Così si aiutano i criminali, è stato detto. La leader di Area ha definito le intercettazioni «pacificamente indispensabili per le attività di indagine».
«Il problema delle intercettazioni si trascina da vent'anni, l'abuso che ne è stato fatto è perfettamente noto anche a tutti i pubblici ministeri e a tutti i giudici. Oggi si difendono a spada tratta le intercettazioni solo perché sono funzionali a un processo penale utile a interessi diversi da quelli della giustizia: utile ai giornali, utile alle forze politiche per eliminare l'avversario di turno. È un insulto all'intelligenza dei cittadini sostenere che limitare questi abusi vorrebbe dire indebolire la tenuta del processo penale. Nordio non ha nessuna intenzione di indebolire la lotta al crimine, e accusarlo di avere questa intenzione è una clamorosa bugia, una falsità indegna di qualunque magistrato perbene. Ed è grave che venga rilanciata in maniera acritica dai soliti organi di stampa».
Lei sembra convinto che sia la volta buona perché la politica non subisca i diktat delle toghe organizzate.
«Sì. È cambiato il clima, è cambiato l'atteggiamento dell'opinione pubblica. E fortunatamente sono cambiati anche i giudici».
Liana Milella per “la Repubblica” il 9 dicembre 2022.
«Nordio? Non mi piace più come ministro della Giustizia dopo i suoi discorsi in Parlamento». L'ex Guardasigilli ed ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick ripercorre con Repubblica il Nordio pensiero che «rischia di non risolvere i tanti problemi della giustizia».
Tra Senato e Camera Nordio ha distrutto la magistratura. Reati inutili, intercettazioni di fatto illegali, Csm "palamariano", presunzione d'innocenza violata.
Come giudica questa "tabula rasa"?
«Mi lascia perplesso usare questa definizione per una realtà complessa che viene molto semplificata, da un lato con le parole di Nordio, e dall'altro con le critiche che gli si muovono. Preferisco vedere la magistratura nei termini in cui essa è stata richiamata dal capo dello Stato nel giorno del suo insediamento».
Cosa disse che l'ha stupita?
«Sono rimasto colpito dalla distanza tra l'elogio alla magistratura che il presidente aveva fatto nel 2018, e la durezza del quadro che ne ha fatto quest' anno. Necessità di un profondo impegno riformatore, perplessità di fronte a un terreno di scontro che ha fatto perdere di vista gli interessi della collettività, necessità che il Csm corrisponda alle pressanti esigenze di efficienza e credibilità».
Allora lei è un "nordiamo"?
«Per niente. Condivido le censure pesanti che tanti, compreso Nordio, muovono alla dinamica delle intercettazioni e alla loro divulgazione. Non credo però che il rimedio possa essere quello che lui propone, intercettazioni segrete di competenza pressoché esclusiva della polizia, senza un controllo effettivo della magistratura e senza garanzie di conoscenza per chi ne è oggetto».
Nordio ce l'ha con gli ex colleghi?
«In alcuni passaggi ne parla troppo male per non ingenerare il sospetto di un inconscio freudiano e di una latente rivalsa».
Le intercettazioni, Nordio minaccia di dimettersi se non riesce a ridurle e a non farle più uscire.
«Le registrazioni che stanno all'interno del processo e che sono "assolutamente indispensabili" per proseguire le indagini, sono già regolate da una legge precisa e valida, che proposi io 20 anni fa e che ha attuato dopo molte discussioni il Guardasigilli Orlando nel 2017. Il problema è far rispettare questa legge e usare le intercettazioni quando ne ricorrono i presupposti. Ma non è logico contestare un reato con pene alte al solo fine di poter intercettare».
Come altri prima di lui, vedi Berlusconi e Renzi, Nordio agogna una riforma costituzionale.
«Qualche modifica costituzionale può essere necessaria. La prima è riconoscere al capo dello Stato la nomina del suo vice al Csm che oggi è oggetto di una trattativa tra correnti dei togati e laici. Le "porti girevoli" vanno chiuse non solo per chi entra ed esce dalla magistratura per fare politica, ma anche da chi esce dalla politica per andare al Csm. La Costituzione richiede, per i laici, non requisiti di rappresentanza politica, ma di preparazione tecnica».
Un ministro dura in carica, se tutto va bene, 5 anni. Ha senso imbarcarsi in una riforma costituzionale? I precedenti di Berlusconi e Renzi sono fallimentari
«Se si vogliono separare le carriere, obiettivo mitico e storico del contrasto tra giudici e avvocati, e se si vuole eliminare l'obbligatorietà dell'azione penale che da principio di eguaglianza finisce per diventare foglia di fico di una discrezionalità abnorme, occorre la modifica costituzionale. Ma è così necessaria e urgente? A me pare che la concretezza dei problemi della giustizia richieda interventi subito operativi e non anni di attese».
Che garanzie dà la discrezionalità dell'azione penale? Perché invece tutti i reati, grandi e piccoli, non vanno perseguiti?
«Sì, ma solo se è possibile. L'esperienza insegna che i reati sono tanti e per giunta si continua a prevederne altri».
Pensa al decreto Rave?
«Come ha fatto a indovinare?».
Da avvocato vede un connubio "scandaloso" tra pm e giudici?
«Ho visto qualche episodio che mi ha lasciato perplesso, ma non si può generalizzare. Il problema non è quello di separare le carriere, quanto di chiedere ai pm il rispetto rigoroso delle regole».
"Garantisti nel processo, giustizialisti nella pena", dice Meloni.
"È un binomio contrario alla Costituzione, per me inaccettabile, che mi auguro Nordio rettifichi totalmente nel suo "vasto" programma"».
Se serve un pm per regolare i pm. È proprio vero, per rimettere a posto il nostro sistema giudiziario c'era bisogno di un pm. Augusto Minzolini il 9 Dicembre 2022 su Il Giornale.
È proprio vero, per rimettere a posto il nostro sistema giudiziario c'era bisogno di un pm. È il pedigree che differenzia Carlo Nordio dai tanti predecessori che negli ultimi quarant'anni hanno tentato di rimettere ordine invano in un settore in cui da decenni le gerarchie sono saltate, come pure i ruoli, in un meccanismo perverso di bracci di ferro e prove di forza. Il fatto che l'attuale Guardasigilli provenga dalla categoria che più di altre ha esondato dai propri poteri, che ha fatto il bello e cattivo tempo in giustizia come in politica, cioè i pubblici ministeri, è un punto di forza, perché ne conosce limiti, ossessioni e ambizioni. Soprattutto non subisce i timori, le minacce più o meno velate, le intimidazioni che hanno spesso tenuto al guinzaglio il Parlamento e bloccato una riforma degna di questo nome.
Quella del ministro Cartabia, ad esempio, anche se è intervenuta su temi importanti - come l'andirivieni di magistrati tra tribunali, Procure, Camera e Senato - si è tenuta distante dai nodi cruciali, cioè quelli che hanno permesso ai pm di avere il sopravvento sul resto del mondo togato e di condizionare non poco le fasi politiche. Parlo dell'uso smodato delle intercettazioni e della separazione delle carriere fra giudici e pm, questione di cui si parla nei convegni, mai in Parlamento. Sono argomenti che possono determinare una svolta, la fine di un'epoca in cui l'equilibrio dei poteri previsto dalla Costituzione è stato messo a repentaglio senza che nessuno abbia potuto - e saputo - opporsi efficacemente.
Nordio il coraggio lo ha. Lo si comprende dalla chiarezza del suo disegno che non sta appresso alle fumisterie che spesso hanno accompagnato riforme molto declamate ma che non hanno portato risultati. E si arguisce dalla determinazione con cui persegue il suo progetto, che ha messo in allarme tutti quelli che sono interessati a mantenere lo «status quo».
A cominciare dalla corrente dei magistrati di sinistra, le «toghe rosse», che hanno accusato il ministro di volere comprimere il ruolo dei pm. Un altolà preventivo che dimostra l'irrequietezza di chi vede messo in discussione il ruolo di protagonista di cui ha goduto in questi anni. Nei quali, con avvisi di garanzia e indagini basate sul nulla, si facevano saltare governi e si distruggevano carriere politiche o imprenditoriali. O, ancora, ne è prova il nervosismo con cui la sinistra, la parte politica che più è stata favorita da certa magistratura, ha cominciato ad erigere barriere, rifiutandosi di aprire un confronto. Anzi, l'ex responsabile Giustizia del Pd, Walter Verini, si è lasciato andare ad una previsione che non promette niente di buono: «Ricomincerà la guerra tra politica e toghe».
Era prevedibile. È una guerra di potere e ricomporre l'equilibrio non sarà semplice, né indolore. Molto dipenderà dalla capacità della maggioranza di centrodestra di restare unita e magari di coinvolgere una parte dell'opposizione che, non fosse altro per esperienze provate sulla propria pelle (Renzi), è più sensibile a questi temi.
Carlo Nordio monumentale: lezione agli spioni, cosa ha detto. Carlo Nordio su Libero Quotidiano il 10 dicembre 2022.
Nel seguente stralcio, il ministro della Giustizia Carlo Nordio risponde, nel corso di una seduta della Commissione giustizia del Senato in cui lo stesso ministro illustra le linee programmatiche del suo dicastero, a una domanda del senatore Roberto Scarpinato, ex magistrato e attuale senatore del Movimento 5 Stelle, sul rischio - a detta di Scarpinato - di «depotenziamento delle capacità di risposta del sistema penale al fenomeno della corruzione», e questo con particolare riferimento alla «riduzione dell'area di applicazione del reato di abuso di ufficio» e al «taglio alle spese di intercettazioni». Ecco dunque la risposta di Nordio.
Questa valutazione è stata fatta in ambito politico in questi giorni, ed è stata fatta in qua rant' annidi procura della Repubblica, ruolo che ho avuto l'onore di ricoprire prima nel 1982 del indagando sulle Brigate Rosse e ricevendo a casa spesso lettere con la stella a cinque punte; poi indagando sulla Tangentopoli veneta tra il 1992 e il 1996, mandando a giudizio tutti i vertici dell'allora pentapartito - Democrazia Cristiana, Partito Socialista, ministri come De Michelis, Bernini, presidenti di regione; indagando sulla mafia del Brenta, la banda Maniero, indagando su tutti i sequestri di persona che hanno vulnerato la nostra regione negli anni Ottanta e Novanta, e per quanto riguarda la corruzione concludendo la mia carriera coordinando l'inchiesta del Mose, di fronte alla quale la corruzione e gli sprechi di Mani Pulite degli anni Novanta, compresa Milano, impallidiscono, perché corruzione e sprechi del Mose hanno portato a una cifra che grosso modo abbiamo contabilizzato in poco meno di un miliardo di euro. Quindi lei mi consentirà di parlare non ex cattedra, ma con una certa esperienza di questo (argomento).
EFFICACIA PLATONICA
Ho maturato la convinzione prima di tutto che l'intimidazione della norma penale così come è comminata, e che non è quasi mai irrogata, abbia un'efficacia intimidatoria puramente platonica. Va da sé che lo Stato deve prevedere pene molto severe per i gravi reati, va da sé che il giudice le deve irrogare in modo non dico esemplare ma equo, e va da sé che debbano essere eseguite come ho detto prima in modo certo. (Per quanto riguarda il reato di abuso di ufficio) Abbiamo avuto 5.400 procedimenti nell'anno 2021 e si sono conclusi con 9 condanne davanti al Gip e 18 condanne davanti al dibattimento, che significa che a fronte di circa 5.500 indagini abbiamo avuto poco più di una ventina di condanne.
Se noi mettiamo a confronto... Lei mi parla di costi e benefici, lei ha abbastanza esperienza per sapere cosa significa un processo per abuso di atti d'ufficio, significa fare un processo al processo, perché significa ricostruire l'iter amministrativo che ha dato luogo a un atto illegittimo, e significa ricostruire il dolo o il doppio dolo che è stato alla base, o sarebbe stato alla base, di chi ha commesso quell'atto amministrativo. Il costo medio di uno di questi processi è in termini di risorse umane e materiali insostenibile, perché il numero di udienze medie per un reato di abuso di atti di ufficio è di circa tre o quattro, perché ripeto occorre una tale acquisizione di materiale cartaceo e di pareri più o meno interessanti, illuminati, di consulenti e periti, che confondono i magistrati e alla fine si riducono - carta canta, come si dice - in assoluzioni o archiviazioni o non luogo a procedere. Il fatto che si debba avere una prospettiva di 27 condanne a fronte di 5.400 e passa indagini dà già una risposta economica al problema.
Per quanto riguarda le intercettazioni, esse ci costano mediamente 200 milioni l'anno - lei ha posto la domanda in termini economici, io rispondo in termini economici. Nessuno dubita che in certi reati, soprattutto di criminalità organizzata, le intercettazioni siano utili, talvolta indispensabili. Personalmente, credo che le più utili siano quelle preventive, che vengono autorizzate dal pubblico ministero e hanno il vantaggio di rimanere secretate, sotto la responsabilità di chi le ha autorizzate, e con la conseguente individuazione di chi un domani le divulgasse, ne consentisse la diffusione. Premetto subito che su questo punto questo ministro sarà estremamente rigoroso: ogni qualvolta un domani uscissero usciranno violazioni del segreto istruttorio in tema di intercettazioni, la ispezione sarà immediata e rigorosa. Non è più ammissibile che, non si sa da quale parte provenienti, conversazioni che riguardano la vita privata di cittadini che non sono nemmeno indagati e finiscono sui giornali: questo non è tollerabile e non sarà tollerato, almeno nella parte in cui questo ministro ha competenza.
SOLDI PER LE CARCERI
Quindi, il taglio delle intercettazioni: perché? Perché anche qui la montagna ha partorito il topolino. A fronte di duecento milioni l'anno di intercettazioni, quando non abbiamo i soldi per ristrutturare le carceri, dove vengono commessi suicidi perché non c'è l'assistenza psichiatrica, psicologica e medica, l'idea di spendere l'ottanta per cento di questi denari in intercettazioni che sono assolutamente inutili, perché le abbiamo viste, le abbiamo firmate, io stesso le ho firmate a Venezia come procuratore aggiunto, è assolutamente intollerabile.
In definitiva, io sono convinto che la lotta alla delinquenza... Non sono convinto che la magistratura debba lottare, sono convinto che la magistratura debba applicare la legge e che la lotta debba essere fatta dalla politica, dall'educazione, dal senso civico, ma poiché nell'attuale sistema il pubblico ministero è capo della polizia giudiziaria, non trovo improprio che si possa parlare di lotta da parte dei pubblici ministeri nei confronti della criminalità organizzata... Resta il fatto che la sproporzione tra i risultati che sono stati raggiunti da parte di molti pubblici ministeri, dà molte procure della Repubblica, o che non sono stati raggiunti, a fronte di spese enormi e abnormi attraverso le intercettazioni, sono assolutamente incompatibili sia con la civiltà giuridica, con l'articolo 15 della Costituzione che tutela la segretezza delle informazioni, e sia con il momento drammatico economico che stiamo attraversando, che non consente sprechi di risorse.
Da Togliatti a Saragat Il garantismo appartiene al Dna della sinistra. Nordio sta tentando di spostare a destra una tradizione che, prima alla discesa in campo di Berlusconi, le era estranea. Aldo Varano su Il Dubbio il 10 dicembre 2022.
È un errore grave, sarebbe un errore grave, leggere le proposte sulla giustizia del ministro Nordio come lo schema di una strategia politica pronta a rilanciare e diffondere un messaggio di vicinanza alle culture della destra sovran- populista. Tradizioni e conoscenza della storia del nostro paese, casomai, fanno del “Pacchetto Nordio” un messaggio di senso opposto che non ha nulla a che vedere con quelle culture che, perfino nella loro componente liberal- liberista (mi riferisco alla concretezza della storia italiana), non hanno mai avuto cedimenti garantisti.
Per quanto possa suonare curioso e paradossale, delle proposte di Nordio si può dire che sembrano voler recuperare, anche per i cittadini che non sono potenti, una giustizia mite che aiuta e sostiene le ragioni di tutti senza discriminare i più deboli. Con una piccola forzatura si potrebbe sostenere che Nordio sulla giustizia sta tentando di spingere e spostare a destra una tradizione che è stata di parte del centro e della sinistra che ha conosciuto il nostro paese. Nella storia dell’Italia repubblicana il garantismo, per un periodo lungo che va dalla sua nascita agli anni novanta del Novecento, fu infatti la marca esibita soprattutto dalle culture delle aree del centro e delle sinistre.
La prima grande amnistia nell’Italia repubblicana, del resto, fu concepita e varata dall’onorevole Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia, ma prima di tutto, capo del Partito comunista. Non fu un gesto isolato. Con lui concordavano da Alcide De Gasperi (costretto negli anni precedenti a rifugiarsi in Vaticano per sottrarsi alle leggi fasciste che per quelli come De Gasperi prevedevano la galera) a Pietro Nenni, da Giuseppe Saragat a Vittorio Foa (che era finito in carcere perché studente torinese di sinistra e, pericolosa aggravante, ebreo). Per non dire del gruppo dei cattolici fiorentini, ma non solo, legati a Giorgio La Pira.
Il garantismo ha accompagnato sempre le sinistre anche quelle radicali (con l’eccezione della rottura drammatica e feroce del terrorismo, che fu fenomeno anche di destra). Giorgio Amendola e Riccardo Lombardi, Emanuele Macaluso e l’ex “galeotto” Giancarlo Pajetta, fino all’ultima generazione in blocco dei socialisti, da Craxi a Mancini a Martelli, ai socialdemocratici e ai repubblicani di La Malfa, furono fieramente garantisti. Nessuno di loro ebbe cedimenti su questo fronte. E questa fu la cultura del cuore della Democrazia cristiana e della quasi totalità delle sue componenti.
La svolta giustizialista nel nostro paese arrivò dopo. È la Lega a far pendolare il cappio in Parlamento senza che Forza Italia si opponga a quella barbarie a cui, anzi, ammicca. Del resto sarà proprio Forza Italia a unire in un unico schieramento sé stessa con la Lega che fa pendolare un cappio, e la destra fascista, fondata da Almirante e poi ereditata e rivisitata da Fini, dove crescerà e si formerà Giorgia Meloni, che ne dà conto diffusamente nel suo libro Io sono Giorgia.
Debole è, e resterà, la reazione dei comunisti ex, alla svolta leghista. Tra loro giocherà molto la sensazione, che diventerà via via convincimento e poi certezza, che ci sia qualcosa di illegale e di marcio, un vero e proprio trucco nel successo di Berlusconi. Giocherà un peso determinante l’incomprensione del potere di convincimento di una televisione che opera senza alcun vincolo e concorrenti. Nel frattempo Craxi è stato costretto a fuggire in Africa per sottrarsi all’umiliazione, che di certo non merita, del carcere.
I suoi amici e nemici non muoveranno un dito per difenderlo. Anche se è stato Craxi, incontrando nel suo camper D’Alema e Veltroni (siamo nel 1990) ad aprire la strada dell’Internazionale socialista agli eredi del Pci garantendo per il loro ingresso. Il nuovo eroe della politica italiana da lì a poco, per una parte ampia della sinistra, diventerà il magistrato Di Pietro che abbandona la toga per infilarsi in Parlamento con un partito tutto suo (fin dal nome).
Ed è proprio per il convincimento del marcio nel successo berlusconiano (mai dimostrato) che una parte della sinistra italiana si convincerà ad appoggiare la ventata giustizialista, che in realtà saccheggerà a piene mani la tradizione antica e permanente dell’estrema destra italiana.
Nessuno “virò” su Viola ma da quella parola fraintesa nacque il Palamaragate. Fra i tanti casi di “errori giudiziari” dovuti ad intercettazioni telefoniche mal trascritte va senza dubbio annoverato lo scandalo che travolse il Csm all’inizio dell’estate del 2019. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 9 dicembre 2022.
Ma se ci fossero regole diverse sulle intercettazioni telefoniche e sul contrasto alla loro diffusione illecita, come affermato l’altro giorno dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, il Palamaragate sarebbe scoppiato? Fra i tanti casi di “errori giudiziari” dovuti ad intercettazioni telefoniche mal trascritte va senza dubbio annoverato lo scandalo che travolse il Csm all’inizio dell’estate del 2019.
A differenza, però, di quanto accaduto ad esempio ad Angelo Massaro, che per una telefonata distorta scontò da innocente 21 anni di carcere, nel Palamaragate le manette non scattarono: ci si limitò alle dimissioni di sei consiglieri su 16 del Csm e a quelle del procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, oltre allo stop della nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma. Il telefonino dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, come si ricorderà, era stato prima intercettato e poi “infettato” con il famigerato trojan per scoprire se ci fosse corruzione nelle nomine di Procure e Tribunali.
Nella richiesta di archiviazione, per uno dei filoni, firmata dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone e dai pm Mario Formisano e Gemma Miliani il 13 dicembre del 2021, accolta dal gip Piercarlo Frabotta lo scorso 2 febbraio 2022, si è scoperto come iniziò e si sviluppò l’indagine con il ricorso alle intercettazioni che, in realtà, nulla avevano poi rivelato sulla presunta corruzione, limitandosi a dimostrare che tutti si rivolgevano a Palamara per essere nominati nella ambite cariche senza tuttavia corrispondergli alcuna contropartita, se non quella tipica correntizia.
In particolare, l’ex magistrato di Siracusa Giancarlo Longo aveva riferito nell’interrogatorio del 26 aprile 2019 che l’avvocato Giuseppe Calafiore gli aveva confidato di avere consegnato 40mila euro a Palamara per ottenere la nomina dello stesso Longo quale procuratore di Gela, senza che tuttavia si fosse concretizzato nulla, poiché la toga non prese alcun voto al Csm, neppure quello di Palamara. Non solo. Sempre i pm di Perugia scrissero che Calafiore, interrogato il 10 maggio 2019, aveva negato «fermamente di aver dato 40mila euro a Palamara… Io non ho rapporti con lui». Ebbene, ciononostante per questi 40mila euro mai riscontrati Palamara venne intercettato da febbraio 2019 a maggio 2019 e nell’ultimo mese anche con il trojan.
Il 30 maggio successivo la Procura di Perugia eseguì una perquisizione nei confronti di Palamara, che finì su tutti i giornali, contestandogli anche «il reato di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, nel caso specifico per avere ricevuto, quale componente del Csm, la somma pari ad euro 40mila da Calafiore per la nomina di Longo quale procuratore di Gela».
Anche se Calafiore, come detto, aveva smentito Longo 20 giorni prima. Per non farsi mancare nulla, all’ex deputato dem Luca Lotti, uno dei partecipanti al dopo cena presso l’hotel Champagne, registrato con il trojan nel telefono di Palamara, venne messa in bocca la frase cardine di tutta la vicenda: «Si vira su Viola». In realtà quella frase, riportata dal Gico della guardia di finanza e finita anch’essa su tutti i giornali ad indagini in corso, non era stata mai pronunciata. Lotti si limitò ad affermare «si arriverà su Viola».
Non si trattò, quindi, di una “spinta” del parlamentare nei confronti di Viola quanto, invece, di una constatazione. Insomma, non ci fu nessun accordo toghe- politica per pilotare la nomina di un procuratore compiacente a Roma e favorire Lotti, all’epoca imputato proprio nella Capitale. Quando l’errore venne scoperto, dopo oltre un anno, era ormai troppo tardi. L’iniziale clamore mediatico aveva determinato l’immediato azzeramento del voto in Commissione a favore di Viola e la sua estromissione dal concorso.
La stretta di Nordio sulle intercettazioni serve contro il fango giudiziario. Federico Novella su Panorama il 07 Dicembre 2022.
Per anni, forse decenni, certe procure hanno fatto uscire grazie ad una certa stampa complice pezzi di conversazioni inutili ai fini dell'inchiesta ma perfette per rovinare vite. È ora di dire basta
L’Italia è il Paese dove, spesso, il banale è rivoluzionario. Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio stamattina ha ripetuto il concetto: “"La diffusione arbitraria di intercettazioni non è civiltà né libertà" , bensì “una porcheria” e per combatterla "sono pronto a battermi fino alle dimissioni". Al di là del polverone che si è sollevato, sotto sotto sappiamo tutti che l’ex magistrato oggi Guardasigilli ha ragione da vendere: le intercettazioni sono uno strumento utile, che tuttavia in Italia è da anni oggetto di abuso. E una riforma è indispensabile.
Il Ministro, forte della sua esperienza da pm, ha le spalle abbastanza larghe per affrontare l’argomento senza girarci intorno. Ed era prevedibile che le sue parole venissero storpiate dagli avversari. La parte più giustizialista dell’opposizione, con certi giornali in scia, sta raccontando che Nordio vorrebbe abolire le intercettazioni, e alcuni giornalisti suonano l’allarme sulla fine della lotta alla mafia e alla criminalità. Ovviamente non è ciò che ha detto Nordio. Il Ministro ha semplicemente precisato che le intercettazioni, da strumento per ottenere prove, si trasformano troppo spesso nella prova stessa, divenendo in sostanza una trappola mediatica per “delegittimare” gli indagati o gli avversari politici. Allo stesso tempo, Nordio denuncia l’”intollerabile arbitrio” , spesso elevato a sistema, degli stralci di intercettazioni assolutamente estranee alle indagini, che inspiegabilmente filtrano dagli uffici giudiziari sulle prime pagine dei giornali. E anche questo, nessuno può negarlo: il mistero del fango giudiziario trasportato dalle cancellerie dei tribunali alle redazioni è sempre stato un giallo non chiarito della vita pubblica italiana, fin dai tempi di Tangentopoli. Per questo Nordio chiede una profonda revisione di questi istituti. E per l’appunto suona come disperata la risposta di chi, nel Pd, giudica “deludenti le frasi del Ministro”. Mentre truffaldina suona la risposta del manettarismo a cinque stelle, che tuona contro non si sa quale “attacco alla legalità”. E’ paradossale che a farsi paladini della legalità siano gli stessi che, su temi delicati come la sicurezza nelle città e l’immigrazione clandestina, portano avanti da anni la linea più lassista. E più in generale, è fallimentare il tentativo di confondere la legalità con il garantismo. Nessuno vuole eliminare le intercettazioni, ma regolarle è d’obbligo. Qualcun altro vorrebbe invece lasciare tutto così com’è: per poter continuare ad attaccare l’avversario politico tramite vie giudiziarie. O semplicemente per vendere qualche copia in più, sbattendo il mostro indagato in prima pagina, salvo poi dimenticarsene in caso di assoluzione.
Urge la riforma Nordio. Ecco le intercettazioni taroccate da Gratteri e le troppe persone innocenti arrestate. Piero Sansonetti su Il Riformista il 8 Dicembre 2022.
Sono quei casi che un profano potrebbe ritenere rarissimi. Non sono rarissimi. Specialmente non lo sono a Catanzaro. Cosa è successo? Che un signore che si chiama Francesco Pannace, di 35 anni, è stato condannato all’ergastolo perché ritenuto colpevole di un omicidio. Anche particolarmente ignobile. Aveva freddato con la pistola – secondo l’accusa e la Corte – un padre di famiglia che teneva per mano il figlioletto di sei anni. A incastrarlo alcune testimonianze dei pentiti, che però erano in contrasto una con l’altra, e dunque non potevano provare nulla, ma soprattutto una intercettazione, presentata dall’accusa, che era stata interpretata come una specie di confessione.
Pannace avrebbe detto a un amico: “Hai saputo? Mi hanno incastrato per l’omicidio Polito”. Per la verità non sembra una frase così chiara, ma alla Procura di Gratteri e alla Corte era sembrata chiara e inequivocabile. Al processo d’appello però gli avvocati hanno chiesto che si ascoltasse l’originale dell’intercettazione. E si è scoperto che nella trascrizione era stato tagliato un pezzo della frase. Pannace diceva: “Hai saputo cosa si dice in giro?”. Cioè semplicemente riferiva delle voci contro di lui che poi erano le voci che portarono alla sua incriminazione. Nessuna confessione. Anzi. I giudici della Corte d’appello non hanno avuto dubbi e lo hanno assolto.
Dicevamo che taroccare le intercettazioni a Catanzaro non è una cosa rarissima. Recentemente è emersa l’intercettazione taroccata con la quale due anni fa fu incastrato- appunto: incastrato, che non vuol dire “scoperto” – l’avvocato Pittelli. Era la voce di una signora che diceva al marito, considerato dall’accusa un mafioso: “qui abita l’avvocato Pittelli. È mafioso”. Più che sufficiente questa affermazione per spiccare il mandato di cattura. Poi l’intercettazione è stata ascoltata. Era diversa. La moglie chiedeva al marito: “Ma è mafioso?”, col punto interrogativo. Il marito rispondeva: “No: è avvocato”.
Lo show di Gratteri da Lilli Gruber, le bufale del pm: “Io garantista, tra i miei arresti non ce ne è uno infondato”
Pensateci un po’ a questi episodi. Ieri Gratteri ha dichiarato a un giornale che nessuno mai lo farà tacere perché lui è un uomo libero. Va bene: nessuno lo farà tacere. Il problema è se qualcuno gli impedirà di arrestare troppa gente innocente. Che non è libera perché lui, per sbaglio, li ha messi in cella. Magari ci penserà Nordio, se rispetterà la parola e riformerà drasticamente le intercettazioni. Speriamo.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
(ANSA il 7 Dicembre 2022) "Non è vero che ho accusato i pm di aver diffuso le intercettazioni" ma "c'è stato un difetto di vigilanza", "quando usando questo strumento delicatissimo che vulnera, non vigili abbastanza per evitare che persone che non c'entrano nulla con le indagini vengano delegittimate". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, illustrando le linee programmatiche. "Il vulnus non ha colpito solo politici e amministratori, ma anche magistrati", ha ricordato, citando anche Loris D'Ambrosio, deceduto "forse perché coinvolto in questa porcheria di diffusione arbitraria". "Sono disposto a battermi fino alle dimissioni", ha detto.
"Qualcuno ha detto che mi sono scatenato contro i pubblici ministeri, ma figuriamoci se uno che ha fatto il pm per 40 anni può scatenarsi contro i suoi colleghi. Potete immaginare che io possa volere una soggezione del pm al potere esecutivo? E' quasi un insulto. La separazione delle carriere non è soggezione all'esecutivo": questa è una 'speculazione' per non dire che il problema esiste". La ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in audizione alla Commissione della Camera sulle linee programmatiche.
"Reati evanescenti" come l'abuso di ufficio e il traffico d'influenze "vanno rimodulati", e "vi sono delle opzioni che vanno dalla abrogazione, a una maggiore accentuazione della tassatività e della specificità". Così il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in commissione Giustizia. Nordio li ha definiti reati che "rendono i pubblici amministratori inerti, paralizzati" e "non per paura della condanna" ma di "dimissioni, estromissioni, fine delle carriere politiche, per la strumentalizzazione da parte di nemici e, soprattutto, di amici", che chiedono un passo di lato, insomma: "la morta politica di queste persone".
"Non ho mai detto e non dirò mai che le intercettazioni debbano essere eliminate. L'inchiesta che ho coordinato sul Mose ha avuto migliaia di intercettazioni, ma erano mezzi di ricerca della prova, non di prova" e "non è uscita una parola sui giornali, non è uscita una delegittimazione su un cittadino di Venezia o del resto d'Italia. Se si vuole si può, se non avviene vuole dire che c'è una culpa in vigilando". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, rispondendo alle domande dei deputati dell'opposizione in audizione alla Commissione Giustizia.
"Voglio che qualcuno mi dica che è tollerabile che escano sui giornali", ha ribadito, ma "se esiste un modo per coniugare la forza delle indagine e la segretezza delle comunicazioni siamo perfettamente d'accordo". "C'è un rimedio? In parte c'è - secondo Nordio -, sono le intercettazioni preventive. E' vero che negli altri Stati esistono le intercettazioni, ma sono solo quelle che noi chiamiamo preventive: segretissime, servono come spunto di indagine e sono conservate nella cassaforte di chi le ha autorizzate sotto la sua responsabilità". "Non si troverà uno scritto in cui dico che vanno eliminate, vanno regolamentate, e impedito che chi non è direttamente coinvolto possa essere delegittimato", ha concluso.
"Si può immaginare se dopo aver fatto 40 anni di magistratura ho intenzione di attaccarla. E' solo perché sono deluso per il comportamento di alcuni, pochi, magistrati, e per l'amore che ho per la magistratura che mi rifiuto che abbia perso legittimità". Lo ha detto il Guardasigilli Carlo Nordio, rispondendo ai deputati. "Quando facevamo le indagini sulle Brigate rosse, e io ricevevo la stella a 5 punte a casa, la nostra credibilità era all'85%. Sa cosa pensano di noi gli italiani? Meglio non dirlo. E questo è un dolore", ha aggiunto, "se oggi la nostra credibilità è crollata è perché molti di noi hanno contribuito a farla crollare".(ANSA)
DAGONEWS il 7 Dicembre 2022.
Nessun Pm della Procura di Milano è andato ieri sera ad assistere alla prima della Scala con il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nel carcere di San Vittore, come era previsto.
La mancata partecipazione è una reazione, in evidente dissidio, alle affermazioni di Nordio sulle intercettazioni, ritenute gravi. Era prevista la presenza del Procuratore Capo, del Procuratore Generale e di vari Pm aggiunti, ma nessuno si è presentato, lasciando il Ministro con la sola “Mestizia” Moratti.
Vana l’attesa del Direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano che ha fatto rimuovere i posti a sedere dei pm assenti, alcuni dei quali sono andati direttamente al Teatro della Scala a seguire l’opera dal vivo.
Estratto dell’articolo di Paola Di Caro per il “Corriere della Sera” il 7 Dicembre 2022.
Giorgia Meloni approva, Matteo Salvini esulta e Carlo Nordio mette nero su bianco […] il programma del governo per la riforma della giustizia. […] Una «profonda revisione» della disciplina delle intercettazioni, la separazione delle carriere, la fine dell'obbligatorietà dell'azione penale che si è ormai tradotta in «intollerabile arbitrio» e, nella pratica immediata, l'accelerazione della riforma della giustizia civile per non perdere i fondi del Pnrr sono i capisaldi del lavoro che intende fare, con severità nei confronti della magistratura inquirente.
Il tutto nel giorno in cui in commissione Giustizia è stata votata l'abolizione della parificazione dei reati della Pubblica amministrazione con quelli di mafia, ai fini del diritto ai benefici penitenziari, misura - come denuncia il viceministro della Giustizia Francesco Sisto - che era stata voluta «dalla foga giustizialista dei Cinque Stelle: una delle battaglie storiche di Forza Italia si avvia così al successo».
[…] Se Matteo Renzi apprezza ma attende che si passi «dalle parole ai fatti», il Pd con Walter Verini parla di relazione «deludente, contraddittoria, con alcuni contenuti inaccettabili» e il M5S insorge: «Nordio vuole la stretta alle intercettazioni, indebolisce la legalità: la lotta alla corruzione non è una priorità di questo governo». L'Associazione nazionale magistrati reagisce con delusione: «Sulle intercettazioni parole vaghe e ingenerose»
[…] Secondo Nordio la riforma del Codice penale va adeguata al dettato costituzionale. Bisogna intervenire perché la presunzione di innocenza «continua a essere vulnerata in molti modi», perché appunto c'è un uso «eccessivo e strumentale delle intercettazioni», perché «l'azione penale è diventata arbitraria e capricciosa» e la custodia cautelare è usata «come strumento di pressione investigativa». […]
Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 7 Dicembre 2022.
Carriere separate tra pm e giudici, meno intercettazioni, azione penale discrezionale su linee guida politiche, uso massiccio e repentino delle ispezioni nelle Procure: non tradendo attese né biografia, il ministro Carlo Nordio ha declamato in Senato il suo manifesto sulla giustizia. […] marcerà «la profonda revisione dei reati generici che intimoriscono sindaci, assessori e governatori: non solo abuso di ufficio ma anche concussione per induzione e traffico di influenze illecite, «vaghe e proteiformi fattispecie». Cambierà anche la legge Severino che sospende gli amministratori condannati in primo grado: «Applicata retroattivamente è una manifesta iniquità».
[…] Nordio intende spogliare il giudice per l'indagine preliminare della competenza a decidere sulle richieste di arresti cautelari delle Procure, affidandola a collegi di giudici incardinati nelle Corti di appello. Quindi più esperti e anziani, in grado di garantire «maggiore ponderatezza e omogeneità di indirizzo». Ma nulla dice sul fatto che le Corti di appello sono già il collo di bottiglia dell'organizzazione giudiziaria, con durata dei processi di 1167 giorni, dieci volte più che in Europa; che hanno organici sottodimensionati del 20%, con punte del 35%; che i bandi di reclutamento vanno regolarmente deserti.
Nordio vuole limitare le intercettazioni, sia telefoniche che ambientali che telematiche (virus trojan inserito nel cellulare). «Il loro numero è di gran lunga superiore alla media europea, e ancor più rispetto a quello dei paesi anglosassoni». […] Nei Paesi anglosassoni anche organi non giurisdizionali (polizia, autorità di regolamentazione di settore) possono disporre intercettazioni. In Italia no: il pm chiede, il giudice autorizza.
Le statistiche ministeriali dicono che negli ultimi anni le intercettazioni in Italia sono diminuite.
Le utenze-bersaglio (le persone sono meno, circa 65mila, perché in genere ne hanno più di una) erano 141mila nel 2013 (record) e oltre 121mila nel 2019; nel 2021 sono state 109mila (stima su dati del primo semestre). Merito di riforme e sentenze della Cassazione che hanno limitato fortemente in senso garantista le autorizzazioni e il travaso da un processo all'altro. Nordio ha aggiunto: «Gran parte delle intercettazioni si fanno sulla base di semplici sospetti e non concludono nulla. Non si è mai vista una condanna inflitta sulla sola base delle intercettazioni». In realtà, finora le critiche garantiste erano alla dominanza probatoria delle intercettazioni rispetto alle indagini tradizionali soprattutto per reati di mafia, corruzione, droga.
[…] Fioccheranno ispezioni nelle Procure in caso di fughe di notizie segrete. Quanto alla pena, il ministro di una coalizione bicefala prova ad accontentare i forcaioli («pena certa, eseguita e rapida») e i liberali («non significa tuttavia sempre e solo carcere»). Quindi pene alternative per i reati minori, patteggiamenti allargati e giustizia riparativa. Se tutto ciò andrà in porto, la fase due punterà a modificare la Costituzione. […] Csm a cui Nordio vuole cambiare i connotati su nomine e valutazioni professionali e sottrarre i processi disciplinari, affidandoli a un'alta corte di nomina mista (proposta Violante); appellabilità da parte del pm delle sentenze di assoluzione, su cui a suo tempo Berlusconi fu respinto dalla Corte Costituzionale. […]
Estratto dell’articolo di Maria Corbi per “la Stampa” il 7 Dicembre 2022.
È l'avvocato più famoso d'Italia […] il decano dei penalisti che ha difeso da Giulio Andreotti a Silvio Berlusconi […] Franco Coppi sospira quando gli si chiede cosa pensa di questa annunciata riforma della Giustizia firmata Carlo Nordio. […]
Ma partiamo da Nordio, che ha annunciato una revisione della disciplina delle intercettazioni. «Vigileremo in modo rigoroso su ogni diffusione che sia arbitraria e impropria». Soddisfatto?
«Il segreto istruttorio esiste o non esiste […] Occorre rivedere il tema del segreto istruttorio non solo nella prospettiva delle intercettazioni, ma stabilirne i limiti e le sanzioni e come possa essere contemperato con le esigenze dell'informazione. Le intercettazioni sono un mezzo di ricerca della prova che va accettato se disciplinato bene. […]».
[…] Nordio vuole la divisione delle carriere dei magistrati. D'accordo su questo?
«Io affronterei invece il tema dell'immissione dei magistrati in ruolo. Ci si deve chiedere se il sistema sia al passo con i tempi. Si deve cambiare il concorso con forme che garantiscano veramente l'idoneità del candidato al ruolo, al di la delle conoscenze giuridiche. Ricordo una brillante studentessa che mi chiese la tesi; e voleva fare il pm perché "si sentiva giustizialista". Tutti 30 e 30 e lode, ma io non le ho dato la tesi».
Torniamo alla separazione delle carriere.
«Il problema non è la separazione delle carriere, ma separare le persone intelligenti da quelle che non lo sono. Una persona perbene e preparata sa come deve comportarsi da pm e da giudice».
Quale sono i punti della giustizia da riformare secondo lei?
«[…] c'è sicuramente da rivedere l'udienza preliminare, che si è risolta in un fallimento, dove non c'è un effettivo spazio per le difese. Meglio andare direttamente al dibattimento. Oggi a Roma tra udienza preliminare e inizio del processo passa anche un anno. Ad allungare i tempi ci si mette anche il fatto che il giudice del processo non può conoscere gli atti dell'istruttoria».
[…] Abuso di ufficio?
«Reato al limite della costituzionalità per mancanza di tassatività e determinatezza, […] di difficile definizione normativa e riscontrabilità pratica. […]». […]
L'attacco al guardasigilli. L’innocenza dei pm non esiste, le procure insorgono per la riforma Nordio su intercettazioni e separazione carriere. Tiziana Maiolo su Il Riformista l’8 Dicembre 2022
Non se lo aspettavano, che dal bozzolo sarebbe uscita la farfalla. Nella prima riunione del Consiglio di ministri, il neo-guardasigilli Carlo Nordio pareva chiuso in se stesso, passivo, mentre si decidevano cose -il rinvio della riforma Cartabia, il peggioramento della norma sull’ergastolo ostativo, un decreto frettoloso e male scritto sui rave party– che rappresentavano il contrario di quel che lui negli anni aveva detto e scritto.
Si erano rilassati, dalle toghe militanti fino all’avvocato del popolo che sta girando l’Italia, soprattutto del sud, per difendere lo stipendio di Stato a chi non lavora, e anche il suo quotidiano di partito. Ma è stata sufficiente un’audizione in commissione Giustizia del Senato perché saltasse per aria il tavolo del conformismo giudiziario, appiattito da trent’anni sulla sub-cultura di Mani Pulite, nonostante gli sforzi di tanti ministri, ultima Marta Cartabia. Dal bozzolo in cui stava rinchiusa quel 31 ottobre è uscita poco più di un mese dopo la farfalla-Nordio con il suo programma, i suoi cavalli di battaglia, la sua storia. E pareva stesse leggendo uno dei suoi libri, uno dei suoi tanti articoli. Non ha ceduto su nulla. Ha evocato lo spirito di Vassalli e la sua riforma del processo del 1989 con l’introduzione del sistema “tendenzialmente” accusatorio.
Ma ha anche annunciato implicitamente che quell’avverbio che aveva denotato un coraggio a metà, andrebbe abolito per sposare il sistema del common law, che prevede la discrezionalità dell’azione penale e la separazione delle carriere fino a portare il pubblico ministero fuori dallo stesso alveo della magistratura. Il giudice e il pm svolgono ruoli diversi, ha detto il guardasigilli, e non possono percorrere la medesima carriera. Facendo insorgere non solo il sindacato delle toghe, ma anche ex procuratori considerati mostri sacri come Giancarlo Caselli e Armando Spataro. Con argomenti, spiace dirlo, molto banali oltre che scontati e un po’ bugiardi. Come si fa infatti a parlare ancora di “cultura della giurisdizione” del pm, dopo i metodi usati dalla Procura di Milano nelle inchieste di Tangentopoli ma anche nel recente processo Eni, o quelle di Nicola Gratteri in Calabria? E vogliamo parlare dell’obbligo per legge del pm di raccogliere anche le prove a favore dell’indagato?
Naturalmente il ministro sa bene che questo tipo di riforma, di rilievo costituzionale, può essere solo un programma di legislatura, per i tempi tecnici necessari per cambiare la legge delle leggi. Alla Camera sono già pronte le proposte di partiti di governo sulla separazione delle carriere. Ma intanto sarà il lavoro quotidiano della formichina a decidere se davvero quella di Carlo Nordio, prima di arrivare alla rivoluzione copernicana da lui (e da noi) auspicata, sarà la svolta della giustizia che il Presidente delle Camere Penali Giandomenico Caiazza già vede come l’apertura di una “nuova stagione dopo le storture viste in questi decenni”. La custodia cautelare, non solo in carcere, prima di tutto. E la disciplina sulle intercettazioni con la loro divulgazione, quella che ha fatto venire l’orticaria ieri al sindacato dei magistrati, che si è sentito chiamato in causa da quella battuta su ispezioni ministeriali contro “ogni diffusione impropria”.
È vero, come ha ricordato con tono saputello l’Anm, cha esiste già una riforma del 2017 che dovrebbe preservarne la riservatezza, ma è ancor più sacrosanto il fatto che gli atti giudiziari, soprattutto quando riguardano il mondo della politica, sono dei veri colabrodo. E sono armi micidiali contro il principio di non colpevolezza dell’indagato e la sua reputazione. E il pm, che dovrebbe essere il custode sacro della segretezza degli atti, non ne risponde mai quando questa viene violata. E non bisogna dimenticare la necessità di scindere anche la complicità tra magistrati, forze dell’ordine e giornalisti. Ma c’è tutta una lunga meticolosa attività quotidiana di formichina che il ministro di Giustizia, e con lui il Parlamento, può avviare per poi giungere alla rivoluzione copernicana.
Due giorni fa nel pomeriggio per esempio, nella stessa giornata in cui i senatori avevano interloquito al mattino con il guardasigilli, la commissione Giustizia di Palazzo Madama aveva approvato un emendamento del capogruppo di Forza Italia Pierantonio Zanettin di modifica della legge “spazzacorrotti” voluta dal ministro grillino Bonafede. Un emendamento che ha sottratto i reati contro la Pubblica amministrazione all’elenco di quelli “ostativi”, che impediscono la possibilità di accedere ai benefici penitenziari, come accade per la mafia e il terrorismo. Un tentativo già portato avanti in aula nella scorsa legislatura, ma con poca fortuna, dal deputato di più Europa Riccardo Magi.
Un passo in avanti, per il ripristino della civiltà giuridica, votato anche dal senatore Ivan Scalfarotto di Italia Viva. Naturalmente ci sarà da fare i conti con le contraddizioni sempre più convulse degli esponenti del Pd. Che si sono astenuti, ma che hanno già fatto sapere, dalla voce della responsabile giustizia Rossomando, che faranno rientrare negli ostativi l’aggravante associativa. Con il risultato (possibile non lo capiscano?) che il reato associativo sarà contestato più spesso. O qualcuno crede ancora a Babbo natale e all’innocenza di certi pm?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Da Casarini a Gori, i supporter che non t’aspetti per Nordio «garantista». Storia di Lorenzo Salvia Bruxelles su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2022.
«Non sono certo amico di ma non posso che condividere con lui la volontà di mettere un freno a questo strapotere dei magistrati». Ricordate Luca Casarini? Ex capo dei Disobbedienti veneti negli anni ‘90, leader del Movimento no global italiano, oggi vive a Palermo e lavora con una ong che si occupa de i migranti in arrivo dalle coste africane. Una voce di sinistra, sebbene irregolare per definizione e per metodo. Che però appoggia gli interventi annunciati dal ministro della Giustizia, iscrivendosi di diritto al fronte pro Nordio che non t’aspetti.
E sull’eliminazione preventivo sono completamente d’accordo con lui» ha detto ieri al Corriere del Veneto, dopo una discreta serie di post e di interventi vari in cui aveva già messo agli atti la sua posizione. Certo, dietro un ragionamento politico c’è spesso un concreto elemento autobiografico. Forse anche stavolta è così. Casarini è indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, le intercettazioni delle sue telefonate sono state pubblicate facendo scoppiare un caso: «Ma ero contro la diffusione delle intercettazioni ben prima che capitasse a me» assicura lui, che poi chiama in causa addirittura Berlusconi: «L’accanimento giudiziario contro di lui a cosa ha portato? A vent’anni di berlusconismo».
Resta il fatto che quella di Casarini non è l’unica sorpresa tra le voci a sostegno della riforma annunciata dal nuovo ministro della Giustizia. Difficile immaginare una sinistra più lontana da Casarini rispetto a quella rappresentata da Giorgio Gori, sindaco di Bergamo per il Pd. Eppure, il suo tweet pubblicato pochi giorni fa esprime gli stessi concetti: «Il garantismo è il fondamento dello Stato di diritto». E poi: «Le proposte di Nordio — rafforzamento presunzione d’innocenza, separazione carriere tra pm e giudici, stop abuso carcerazione preventiva e intercettazioni — vanno sostenute. Stop al giustizialismo di destra e di sinistra». Tra i commenti sotto il suo post, che naturalmente non costituiscono un campione statisticamente rappresentativo, ci sono tanti complimenti. Ma anche chi gli dice «basta, vai con Renzi».
Ecco, Renzi. alle riforme annunciate dal ministro Nordio non è certo una sorpresa. Resta il fatto che si tratta di un partito che sta all’opposizione, anche se mai dire mai. E che lo stesso Renzi fino al 2017, non una vita fa, era proprio il segretario del Pd.
Nel fronte pro Nordio che non t’aspetti c’è anche Anna Paola Concia, deputata del Pd fino al 2013. Anche lei ha scelto Twitter per sostenere il ministro della Giustizia dopo il suo intervento in Parlamento: «Bravissimo Nordio oggi in commissione Giustizia. Speriamo riesca a fare tutto quello che promette».
Ex di molte cose — tra tutte, consigliere di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi — Claudio Velardi è abituato ad andare controcorrente. A volte anche per il gusto di sparigliare, ma stavolta la questione è seria: «Sulla giustizia —scrive su Twitter — hanno fallito tutti i governati del passato. Se il ministro Nordio fa l’ottima riforma annunciata, avvia a soluzione il principale problema italiano dell’ultimo trentennio». E ancora: «Se ci riuscirà, il governo di Giorgia Meloni acquisirà un merito storico. Se». L’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione, verrebbe quasi da dire.
Il processo a cosa serve? Intercettazioni usate come gossip e materiale scandalistico: la lapidazione vissuta sulla mia pelle. Luca Casarini su Il Riformista l’8 Dicembre 2022
Non so se alla fine Nordio potrà fare quello che dice. Non so quanto sia ostaggio o vera anomalia di questo governo. Da eretico fruitore di “Law and Order”, ho ben presente quale possa essere l’utilità, in termini di immagine e consenso, dei contrasti sbandierati che poi servono solo a “rafforzare” il sistema. La vecchia storia del poliziotto buono e di quello cattivo, insomma. Vedremo.
Certo è che quando il neo ministro dichiara al Senato che le “intercettazioni sono utilizzate per delegittimare politicamente l’avversario”, dice una sacrosanta verità. Lui è al governo con quelli che proprio su questo hanno costruito la loro fortuna politica, con tanto di carriere folgoranti come quella del suo collega Salvini, passato direttamente dalla Ruota della Fortuna a un reddito di cittadinanza a molti zeri da più di vent’anni e a un futuro vitalizio per una serena vecchiaia. Da allora, da quando il suo partito, la Lega, faceva oscillare il cappio in Parlamento al grido di “Di Pietro coraggio c’è ancora il terzo raggio”, l’uso “politico” di spie, microspie, intercettazioni, telecamere nascoste e quant’altro, uso politico e non solo giudiziario, con processi celebrati sui media prima e a volte unicamente, non nei tribunali, ha avuto un crescendo esponenziale.
Questo paese certo, ha conosciuto ben prima di Tangentopoli sia l’abuso del controllo, sia l’utilizzo della carcerazione preventiva come mezzo per far parlare l’indagato. Gli anni 70 e tutta la legislazione di emergenza non sono stati uno scherzo per lo “stato di diritto”. Ma oggi vi è un di più. La “Information Society”, la società dei media, “dello spettacolo” come la descriveva Guy Debord, ma moltiplicato mille. Le tendenze autoritarie, manettare, giustizialiste connaturate fisiologicamente ad ogni democrazia in crisi, si fondono con la mutazione antropologica che ha trasformato i “sapiens” in “Homo Social”. Ne esce un quadro che giustamente Nordio, parlando delle gogne mediatiche imbastite su conversazioni private, manipolate da sapienti “copia incolla” e utilizzate per sbattere il mostro in prima pagina, definisce “inquietante ed inaccettabile”.
Certo, i travagliati apologeti del Minority Report dall’altra parte, dicono che senza intercettazioni a pioggia, non si sarebbero sconfitte mafie e terrorismi. E che questo abdicare al diritto di restare innocente finché un regolare processo non provi il contrario, è un “incidente collaterale” accettabile. Io penso invece a quella mattina, quando mi sono piombati in casa molti poliziotti di varie “specializzazioni”, con un mandato di perquisizione in mano. Mentre stavano facendo il loro lavoro, uscivano già le agenzie con gli stralci delle intercettazioni, che “sapientemente” il pm aveva trascritto sul provvedimento, in modo da non incorrere nel reato di divulgazione di notizie secretate. Non c’è stato bisogno nemmeno delle classiche “veline”: dalla Procura, non saprei dire da dove altro, qualcuno aveva inviato il tutto a giornalisti “amici”, che stavano scrivendo a nove colonne la sentenza.
Io sono stato condannato, e con me i miei coindagati, mentre ancora la polizia stava “cercando”. Le intercettazioni inoltre, non possono certo restituire la complessità di un dialogo, il tono, il contesto, quello che si dice alla fine. Ci vorrebbero giornali di tremila pagine, e poi chi li leggerebbe? Ci vuole un titolo ad effetto, per vendere quella mercanzia. E quindi “frasi”, prese da trascrizioni di mesi ( perché tanto durano le intercettazioni, mica due giorni) e se fai la cazzata di dire una parola sbagliata, o di scherzare troppo al telefono, sei morto. Marchiato dallo stigma. Perché quello che dovrebbe essere parte di una attenta e scrupolosa valutazione degli inquirenti nel segreto delle indagini, diventa gossip, materiale scandalistico, lapidazione pubblica.
Il processo a quel punto a cosa serve? L’obiettivo è già stato raggiunto. Che era sicuramente altro dal “fare giustizia”. Lo so, il fatto che sia capitato a me, e oggi ne scriva, magari non c’entra con il dibattito che si è scatenato nei palazzi dopo le dichiarazioni del Ministro. E forse lui si riferiva ai danni patiti dai potenti, da Renzi, Berlusconi etc. Ma a me non cambia l’opinione questo. Come non sono mai stato un fan di Di Pietro e dei metodi del pool quando erano dei santi intoccabili, allo stesso modo credo che in un paese civile quello che hanno fatto con molti esponenti politici da me lontanissimi e di cui vado fiero di essere avversario radicale, sia vergognoso. E pericoloso per tutti.
Nel frattempo, il solito collega di governo di Nordio, ha in questi giorni montato l’ennesima bufala contro le Ong, addirittura utilizzando “intercettazioni effettuate da un sommergibile”. L’uso politico delle intercettazioni non ha limiti, e chi dovrebbe inabissarsi per quello che ha fatto a donne, uomini e bambini da Ministro, invece emerge. Luca Casarini
Uccisi dalla gogna. Morire di intercettazioni, le storie dei pm D’Ambrosio, Coiro e Misiani: le tre bombe della malagiustizia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Dicembre 2022
Morire di inchiesta giudiziaria, morire di intercettazioni, morire di reputazione distrutta. Lo abbiamo visto accadere troppe volte, soprattutto nel mondo politico o quello delle amministrazioni locali, in terra di mafia. Ma se mettiamo insieme anche la possibilità di “morire di Csm”, ecco che si parla dell’assassinio di magistrati. Morte professionale e toga sporca, locuzione cara a certi giornali.
Il ministro Carlo Nordio ne ha citati tre, di questi magistrati, nel suo discorso di programma alla Camera dei deputati. Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Presidente Giorgio Napolitano, ucciso nel 2019 a 64 anni da un vero infarto giudiziario per un’intercettazione con l’ex ministro Nicola Mancino, nelle indagini nel fallimentare “processo trattativa”. Avrebbe dovuto portare pazienza, potrebbe commentare il cinico, visto che due anni dopo, con l’assoluzione di tutti gli imputati in appello, il processo finì dove avrebbe sempre dovuto stare, nel cestino della carta straccia. E chissà se il senatore Scarpinato, che finalmente può lottare a viso aperto con quel ruolo politico che alle toghe non dovrebbe essere consentito, ogni tanto ripensa al recente passato in cui fu pg nel “processo trattativa” e a quel collega morto di crepacuore all’ombra di quelle inchieste finite con la bocciatura dei giudici di Palermo.
Il secondo nome citato dal Guardasigilli è quello di Michele Coiro, che fu tra i fondatori di Magistratura Democratica, e poi Procuratore capo a Roma verso la fine degli anni novanta, e lui stesso membro di quel Csm che fu covo di serpi nei suoi confronti. E lui c’è morto, di ictus, a 71 anni. E allora, ma solo allora, gli furono tributati i funerali di Stato. I membri del Csm, tranne un paio di amici personali, rimasero a casa, quel giorno. Nel picchetto d’onore alla bara rimase per molte ore un pm che aveva lavorato con lui e che indosserà la toga per l’ultima volta, Francesco “Ciccio” Misiani, travolto insieme al suo capo dalla furia del famoso rito ambrosiano dei tempi di Mani Pulite. Morirà nel 2009, di malattia, un po’ come Enzo Tortora quando disse “mi è scoppiata una bomba dentro”.
La bomba della malagiustizia. Che vedrà questo altro esponente importante di Md tradito dai “compagni” che a Milano avevano saltato il fosso e abbandonato il tradizionale garantismo della corrente, e poi esposto alla gogna peggiore. Con le telecamere in agguato dietro la porta dell’ufficio mentre ancora non sapeva di essere indagato, lui toga rossa, dalle toghe rosse di Milano. In un processo per il quale sarà assolto anni dopo “perché il fatto non sussiste” da un reato di favoreggiamento ormai prescritto, mentre la Procura colse l’occasione per non ricorrere in appello.
Ciccio e Michele erano due amici. Due magistrati democratici e garantisti. Bisognerebbe ricordare che cosa era la corrente di Md della magistratura, in quegli anni precedenti alle inchieste di Tangentopoli e alla nascita di quel mostro che verrà chiamato “rito ambrosiano” che ruppe ogni schema, trasformò gli amici in calunniatori e la logica del sospetto mise sotto la lente di ingrandimento chiunque fosse fuori dal fortino del quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano, uffici della Procura della repubblica. Ciccio Misiani è finito dentro un imbroglio, interrogato due volte dai pm milanesi Gherardo Colombo e Ilda Boccassini sulla base di un’intercettazione che tale non era. Il magistrato romano era stato visto da un poliziotto in un locale, il bar Mandara di Roma, insieme al capo dei gip Renato Squillante, già inquisito per corruzione e che poco dopo sarà arrestato.
L’agente, che evidentemente controllava l’alta toga romana, aveva cercato di origliare e preso appunti su un tovagliolino di carta. Nella relazione aveva aggiunto qualche considerazione personale per far apparire Misiani nella veste di consigliere e complice. Emergerà in seguito che lui, di fronte ai timori del superiore di essere arrestato, visto che ormai giravano voci, si era limitato a dirgli di stare tranquillo e dire la verità ai colleghi, dal momento che Squillante si dichiarava innocente e sosteneva di essere in possesso di denaro vinto in borsa. Ma la graticola del Csm, oltre che, nel caso di Misiani, il processo penale, fu la fine per i due esponenti di Magistratura democratica. Coiro a un certo punto non resse più al sospetto e all’isolamento, dopo aver scoperto che in un altro bar romano frequentato da magistrati, i suoi colleghi milanesi avevano messo una microspia per spiarli tutti. La pratica per il suo trasferimento fu troncata a metà dalla sua decisione di accettare la proposta del ministro Flick di andare a dirigere il Dap. Sarebbe stato un ottimo capo delle carceri, se un ictus non lo avesse fermato pochi mesi dopo.
Ciccio Misiani aveva invece affrontato il procedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale con astuzia politica, oltre che con l’angoscia di chi sente non solo di subire un’ingiustizia ma anche di essere tradito da coloro che considerava i suoi amici e compagni: Gherardo Colombo, Ilda Boccassini e soprattutto Francesco Greco, suo ex uditore, il più “rosso” di tutti, quello che nelle riunioni bisognava sempre trattenere perché il suo dogma era “lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”. Misiani con il suo discorso sincero e appassionato era riuscito a spaccare il Csm e la sinistra. Il ruolo dell’accusatore era svolto dal professor Fiandaca e il vicepresidente era il professor Carlo Federico Grosso, altro insigne giurista, indicato dal Pds. La votazione finì 11 a 11, con il voto favorevole al trasferimento del vicepresidente che valeva doppio.
Così Francesco Misiani fu mandato a Napoli, finché non decise poi di lasciare la magistratura. Solo in seguito fu assolto nel processo milanese di primo grado. Poi la malattia, e il ricordo di quella toga che aveva indossato per tanti anni e che aveva dovuto abbandonare dopo la morte del suo amico Coiro. Che differenza fa? Infarto o ictus o quella bomba che ti scoppia dentro. Questi tre magistrati sono stati uccisi, e Carlo Nordio bene ha fatto a ricordarli. Bravo ministro, te ne siamo grati. Uno dei tre, Ciccio, era mio amico, e quella frase che gli dissi al funerale del suo capo “Ti raccomando non farci scherzi anche tu” e che lui ha citato nel libro “La toga rossa”, significava proprio non lasciarti uccidere. Purtroppo è accaduto.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Carlo Nordio, corruzione: "Impunità se collaborano". Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022.
"Inutili e dannose": così Carlo Nordio ha definito le leggi sulla corruzione, spingendo per una loro revisione o anche per la loro abolizione. Le norme in questione avrebbero puntato sull'inasprimento delle pene nel corso del tempo, cosa che non avrebbe portato risultati. Il ministro della Giustizia, come riporta il Messaggero, ne ha parlato durante un convegno alla Farnesina nella giornata internazionale contro la corruzione. In quell'occasione ha anticipato quella che sarà la sua strategia contro il fenomeno: il suo obiettivo è spezzare il legame tra corrotto e corruttore.
Nordio ha chiarito come la sua riforma riguarderà in primis il reato di corruzione: "Oggi corrotto e corruttore sono tutti e due punibili e quindi hanno interesse a tacere quando vengono interrogati dal magistrato. Bisognerebbe interrompere questa convergenza di interessi e far sì che chi ha pagato sia indotto a collaborare, attraverso l’impunità, o una profonda revisione dello stesso reato di corruzione". Lo scopo è "fare in modo che uno dei due collabori, altrimenti è un reato di cui sapremo mai nulla". Secondo il ministro, però, non può essere "la minaccia della galera a indurre una persona a parlare", altrimenti "cadremmo nella barbarie giuridica".
"In questi 25 anni sono state elaborate varie leggi anticorruzione, sono state inasprite pene, ma non è servito a nulla - ha proseguito il ministro -. La conclusione che ho maturato è che è inutile cercare di intimidire il potenziale corrotto: non lo sarà mai dal numero delle leggi e dall’asprezza delle pene, perché sarà sempre convinto di farla franca". Il problema, secondo Nordio, è rappresentato dall'eccessiva quantità di leggi sulla materia. In Italia, infatti, la produzione normativa è "10 volte superiore alla media europea". Di qui la soluzione, ossia "delegificazione rapida e radicale per ridurre le leggi, individuare bene le competenze e semplificare le procedure".
La magistratura che vuole Nordio: carriere separate, discrezionalità dell’azione penale e test psicoattitudinali. GIULIA MERLO su Il Domani il 06 dicembre 2022.
Nel suo intervento alla commissione Giustizia del Senato, in cui ha presentato le linee guida del suo ministero, è intervenuto in modo pesante contro l’attuale assetto della magistratura. Interviene anche sulla depenalizzazione dei reati e sul carcere e incassa il plauso del Terzo Polo e il prudente e parziale favore del Pd
Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è tornato se stesso nel suo intervento di enunciazione delle linee guida del suo dicastero, che ha concluso dicendo: «Noi siamo garantisti».
Dopo un inizio di legislatura in cui il guardasigilli si era posto in maniera prudente ed era stato anche accusato di aver fatto passi indietro rispetto alle sue posizioni storiche, ora Nordio ha dato risposte di segno opposto, annunciando anche riforme costituzionali.
Tre punti cardine del suo intervento: carcere, depenalizzazione e riforma dell’assetto della magistratura.
I passaggi più duri, però, hanno riguardato la magistratura e l’assetto della categoria di cui lo stesso Nordio ha fatto parte per quarant’anni, da procuratore di Venezia.
LA RIFORMA DEL SISTEMA
«Con l’articolo 101 della Costituzione si è consacrato il rito anglosassone, che ha ispirato il codice Vassalli del 1988, ma il recepimento di questo sistema è stato parziale e con contraddizioni insanabili», è stato il presupposto del ragionamento di Nordio.
Tra le incongruenze, il fatto che sia rimasta l’obbligatorietà dell’azione penale, che «si è tradotta in intollerabile arbitrio a causa della massa di fascicoli. Quindi il pm è costretto a una scelta, può indagare nei confronti di tutti senza rispondere a nessuno e questo favorisce alle ambizioni di pochi magistrati. Anche perchè si agisce in assenza di responsabilità per le proprie azioni, svincolati da controlli che in ogni democrazia limitano l’esercizio di un potere».
Altra modifica che il ministro ha individuato come necessaria è la separazione delle carriere, tra pm e giudici. La separazione, secondo il ministro, non aveva senso con il sistema inquisitorio in cui la polizia giudiziaria indagava in modo autonomo, mentre il codice Vassalli ha posto il pm come capo della polizia giudiziaria e questo lo rende «una parte pubblica, ma pur sempre parte, che non ha senso appartenga allo stesso ordine del giudice, perchè svolge un ruolo diverso».
Nordio ha poi affrontato anche il tema delle modalità di accesso alla magistratura, parlando di profili poco razionali perchè l’esame verifica solo la conoscenza giuridica dei candidati. «Nulla attesta l’attitudine fisio-psichica alla professione, per questo la revisione è ineludibile, con l’aiuto dell’università, degli ordini forensi e della magistratura. Inoltre, per la dirigenza degli uffici ci si basa solo sulla sapienza giuridica, che non coincide con l’attitudine manageriale».
L’ultimo passaggio riguarda un altro aspetto delicato della vita professionale del magistrato: la funzione disciplinare, dal cui giudizio dipende anche la progressione della carriera.
«Il problema è che l’organo giudicante è la sezione disciplinare, con membri eletti tra i togati al Csm con meccanismi correntizi dagli stessi magistrati oggetto di accertamento», ha detto Nordio, auspicando che il parlamento convochi la seduta comune per la nomina dei laici, ad oggi differita sine die.
Poi il colpo che probabilmente provocherà conseguenze polemiche sul fronte della magistratura associatata: «Il disciplinare va spostato davanti a una corte terza e non elettiva, individuata con criteri oggettivi. Non è tollerabile che i giudici siano nominati dai giudicati».
Poi, in una risposta ad una domanda di Roberto Scarpinato sulla depenalizzazione, il ministro ha lanciato l’ultimo affondo alla magistratura sull’abuso di intercettazioni: «Le intercettazioni costano 200 milioni l’anno, nessun dubita che per certi reati siano utili e indispensabili, ma io credo che le più utili siano quelle preventive, autorizzate dal pm con il vantaggio di essere secretate sotto responsabilità di chi le ha disposte. Su questo sarò rigoroso: ogni qualvolta usciranno violazioni del segreto istruttorio su intercettazioni, ci sarà una ispezione immediata e rigorosa».
DEPENALIZZAZIONE
Il secondo punto dell’intervento di Nordio ha riguardato la corruzione e la depenalizzazione. «Le nostre leggi sono troppo numerose e contradditorie per essere applicate. Il loro numero è inversamente proporzionale alla loro efficacia, e l’incertezza è sinonimo di disordine e soprattutto di corruzione».
Secondo il ministro, «I rimedi si sono dimostrati peggiori del male: più pene e nuovi reati, due vaghe fattispecie prive del principio di tassatività (l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze illecite) e la manifesta iniquità della retroattività della legge Severino».
Ha poi snocciolato i dati per l’abuso d’ufficio, con solo il 3 per cento di condanne. Le statistiche parlano di 5400 procedimenti el 2021, conclusi con 9 condanne davanti al gip e 18 in sede di dibattimento.
«L’unica conseguenza è il rischio di essere indagati. I politici temono la bagarre mediatica con spesso l’estromissione dal proprio ruolo, ecco perchè si rifugiano nell’inerzia. Dobbiamo abbandonare l’idea di tutelare il buon andamento della pa con minaccia della pena», ha concluso, ricordando gli appelli dei sindaci di diverse parti politiche in direzione di una riforma di questi reati.
CARCERE
Nordio, che ha iniziato il suo mandato con le visite a Poggioreale a Napoli e Regina Coeli a Roma, ha annunciato implementazione organica alla polizia penitenziaria e interventi di ammodernamento tecnologico delle strutture di sorveglianza.
Per i detenuti, invece, ha parlato di un necessario aumento di tutele per i tossicodipendenti e per chi soffre di disagio psicofisico: «Viviamo con il dolore dei molti suicidi» di quest’anno, ormai quasi 80.
Dopo gli attacchi per i tagli in finanziaria proprio a questo settore, Nordio ha detto che «Il ministero si sta attivando per limitare i tagli della legge di bilancio e devolvere eventuali residue risorse disponibili al sistema carcerario».
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Da lastampa.it il 6 dicembre 2022.
Il ministro di Giustizia Nordio annuncia al Senato l'intenzione del governo di avviare «una riforma del Codice penale», una «riforma garantista e liberale» da realizzare anche con una «revisione della Costituzione». Per il Guardasigilli è necessaria anche «una profonda revisione delle intercettazioni.
Vigileremo in modo rigoroso su ogni diffusione arbitraria e impropria per evitare che la diffusione selezionata e pilotata divenga strumento di delegittimazione personale e spesso politica». La presunzione di innocenza «continua a essere vulnerata in molti modi». Per Nordio, infine, «non ha senso che il pm appartenga al medesimo ordine del giudice perché svolge un ruolo diverso».
Apertura alla separazione delle carriere
Nordio apre inoltre alla separazione delle carriere in magistratura affermando: «Non ha senso che il pm appartenga al medesimo ordine del giudice perché svolge un ruolo diverso». E chiarisce: «Nella gestione di migliaia di fascicoli, il pubblico ministero non è in grado, per carenza di risorse, di occuparsene integralmente, e quindi è costretto a una scelta; non solo, ma può trovare spunti per indagare nei confronti di tutti senza dover rispondere a nessuno.
Un tale sistema conferisce alle iniziative, e talvolta alle ambizioni, individuali di alcuni magistrati, per fortuna pochi, un'egemonia resa più incisiva dall'assenza di responsabilità in caso di mala gestione. Come capo della polizia giudiziaria, il pm ha infatti una reale autorità esecutiva. Ma come magistrato gode delle garanzie dei giudici, e quindi è svincolato da quei controlli che, in ogni democrazia, accompagnano e limitano l'esercizio di un potere».
Nordio sottolinea quindi che l'obbligatorietà dell'azione penale «si è tradotta in un intollerabile arbitrio. Il pm può trovare spunti per indagare nei confronti di tutti senza rispondere a nessuno».
Riforma del Codice penale
Il ministro annuncia inoltre la riforma del Codice penale per adeguarla al dettato costituzionale, e una completa attuazione del codice Vassalli, insieme con una «riforma garantista e liberale» da realizzare anche con una «revisione della Costituzionale. Nordio indica i fronti sui quali intervenire: la presunzione di innocenza che «continua a essere vulnerata in molti modi», l'«uso eccessivo e strumentale delle intercettazioni», l'azione penale che è «diventata arbitraria e capricciosa», la custodia cautelare usata come strumento di pressione investigativa.
La reazione del presidente Anm
Molto dura la reazione di Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm: «Mi sembra un salto indietro di vent’anni, con un linguaggio pesante e pericolose divagazioni. Nordio parla come se fosse seduto in un salotto ai tempi di Mani Pulite».
Carcere: “Assistiamo all'uso e, talvolta abuso della custodia cautelare”
In merito al nodo carcere, spiega poi, davanti alla commissione Giustizia: «Assistiamo all'uso e, talvolta, all'abuso della custodia cautelare come surrogato temporaneo dell'incapacità dell'ordinamento di mantenere i suoi propositi. La benevolenza finale per la quale alla facilità di ingresso in carcere prima della sentenza fa seguito la liberazione dopo la condanna non è una manifestazione di generosità ma di rassegnazione». Quanto al tema della controversia sulla prescrizione, si tratta della «certificazione finale dell'inefficienza dell'ordinamento che, per evitare una prolungata graticola sulla giustizia da parte del cittadino, richiede l'estinzione del reato o l'improcedibilità».
Rivoluzione digitale: “Garantiremo la riservatezza”
Il ministro pensa inoltre a una «rivoluzione tecnologica» per la giustizia, a partire dall'accelerazione della digitalizzazione, e assicura che questa operazione «avverrà sotto lo strettissimo controllo della riservatezza dei dati sensibili presso i rispettivi uffici giudiziari». Un punto «che ci sta molto a cuore - sottolinea davanti alla commissione -. Quando saranno adottate tutte le misure opportune per evitare alterazioni o intromissioni illecite nella consapevolezza che ad ogni avanzamento operativo aumentano i rischi di interferenze interessate».
Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm: “Mi sembra un salto indietro di vent’anni”
«Mi sembra un salto indietro di vent’anni, con un linguaggio pesante e pericolose divagazioni. Nordio parla come se fosse seduto in un salotto ai tempi di Mani Pulite».
Giustizia. Il programma-bomba del ministro Nordio: “Carriere separate, basta abusi dei pm”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Dicembre 2022
Il Guardasigilli ha esposto le linee programmatiche del ministero alla commissione Giustizia del Senato. Sui pubblici ministeri: «L’obbligatorietà dell’azione penale si è tradotta in un intollerabile arbitrio»
Si potrebbe affermare senza ombra di alcun dubbio che il ministro della Giustizia Carlo Nordio, sia tornato quello di sempre nell’illustrare le linee programmatiche del suo dicastero dinanzi alla commissione Giustizia del Senato : un garantista e liberale, scrittore di saggi anticonformisti, presidente del Comitato per il “Sì” ai referendum sulla giustizia giusta del Partito Radicale e della Lega.
Nordio nei suoi due primi mesi alla guida del ministero di via Arenula è stato attaccato soprattutto da chi lo ha accusato di subire la linea intransigente di Fratelli d’Italia senza opporre resistenza e della Lega. Invece Nordio questa mattina ha riproposto tutto il suo repertorio: separazione delle carriere, presunzione di innocenza, abuso delle intercettazioni, misure alternative al carcere, riforma del Csm. Ha disegnato una road map dei prossimi cinque anni da far tremare l’Anm.
La relazione del ministro ha toccato vari aspetti del “pianeta giustizia“, ad esempio la revisione del reato di abuso d’ufficio, chiesta a gran voce dai sindaci e sulla quale anche la premier Meloni si è detta d’accordo: “Sul reato di abuso d’ufficio le statistiche sono a dir poco allarmanti. Su 5.400 procedimenti nel 2021, 9 si sono conclusi con condanne davanti al gip e 18 in dibattimento”. Inoltre, tali procedimenti “hanno un costo medio insostenibile ed occorre acquisire materiale cartaceo e pareri che confondono i magistrati e si riducono in assoluzioni, non luoghi a procedere o archiviazioni“.
“Poiché in questo momento la priorità assoluta – ha esordito il Guardasigilli – è il superamento della crisi economica, le prime iniziative tenderanno a incidere favorevolmente in questa direzione, attraverso la semplificazione della legislazione e dell’organizzazione giudiziaria, attraverso una complessiva rivisitazione della sua geografia e piante organiche di magistratura e personale amministrativo“. Poi ci sarà spazio per le riforme più complesse, quelle che riguarderanno anche la Costituzione: “In un secondo momento saranno elaborate le proposte che incideranno più radicalmente nel sistema complessivo. Il lavoro preliminare è già iniziato, con il progetto di istituire le opportune commissioni e gruppi di lavoro. Ma poiché alcune riforme richiederanno una revisione costituzionale, i tempi saranno meno brevi”.
Riguardo alla giustizia civile, verranno adottati i decreti attuativi “entro il 30 giugno 2023, ma stiamo lavorando per anticipare i tempi. Particolarmente sensibile è, poi, il tema dell’equo compenso“, rispetto al quale è in previsione “la costituzione di un apposito Osservatorio” in linea peraltro con quanto già avvenne, grazie al Cnf, quando a via Arenula c’era Bonafede. E’ sulla riforma del sistema penale che è tornato alla ribalta il Nordio non “amato” a una grande fetta della magistratura, soprattutto requirente: “Occorre una riforma del codice penale, adeguandolo, nei suoi principi, al dettato costituzionale, e una completa attuazione del codice Vassalli. Una riforma garantista e liberale che può essere attuata in parte con leggi ordinarie e, negli aspetti più sensibili, con una revisione della Costituzione.”.
Il primo è la presunzione di innocenza: “Essa è stata e continua a essere vulnerata in molti modi: l’uso eccessivo e strumentale delle intercettazioni, la loro oculata selezione con la diffusione pilotata, l’azione penale diventata arbitraria e quasi capricciosa, l’adozione della custodia cautelare come strumento di pressione investigativa, lo snaturamento dell’informazione di garanzia diventata condanna mediatica anticipata e persino strumento di estromissione degli avversari politici”.
Un’ argomento memorabile per Nordio in cui decisivo è il tema della custodia cautelare. La quale, “proprio perché teoricamente confligge con la presunzione di innocenza, non può essere demandata al vaglio di un giudice singolo”. Per il Guardasigilli sarebbe “più ragionevole spostare la competenza dal gip a una sezione costituita presso la Corte d’Appello, con competenza distrettuale. Avremmo l’enorme vantaggio di una maggiore ponderatezza della decisione e anche di omogeneità di indirizzo” . Puntuale l’ affondo impietoso sul tema delle intercettazioni: “In Italia il numero di intercettazioni telefoniche, ambientali, direzionali, telematiche, fino al trojan e un domani ad altri strumenti, è di gran lunga superiore alla media europea, e ancor più rispetto a quello dei paesi anglosassoni. Il loro costo è elevatissimo, con centinaia di milioni di euro all’anno. Gran parte di queste si fanno sulla base di semplici sospetti, e non concludono nulla”.
Il guardasigilli sulle intercettazioni sostiene che “la loro diffusione, talvolta selezionata e pilotata, costituisce uno strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica. Si tratta di sostanziali violazioni dell’articolo 15 della Costituzione, che fissa la segretezza delle comunicazioni come interfaccia della libertà”. Conseguentemente ha aggiunto Nordio “ne proporremo una profonda revisione, e comunque vigileremo in modo rigoroso su ogni diffusione arbitraria o impropria“.
Nordio ha risposto a Roberto Scarpinato, ex pg di Palermo eletto senatore nel M5S che contestava la razionalizzazione degli ascolti: “Su questo punto il ministro sarà estremamente rigoroso: ogni volta che usciranno sui giornali violazioni del segreto istruttorio in tema di intercettazioni, l’ispezione sarà immediata e rigorosa”.
Un altro capitolo nella riforma della giustizia per il ministro Nordio è la certezza della pena: “Essa dev’essere certa, eseguita, rapida e soprattutto proporzionata al crimine commesso“, ma “certezza e rapidità della pena non significano tuttavia sempre e solo carcere“. Per i “reati minori in termini giuridici e razionali è meglio la concreta esecuzione di una pena alternativa“. In merito ai numerosi suicidi (nel 2022 si è registrato in carcere il tasso più alto di suicidi degli ultimi 10 anni) Nordio ha aggiunto: “Abbiamo vissuto con grande dolore la sequenza di suicidi: anche per questo il ministero si sta attivando con una pressante energia per limitare i tagli previsti dalla legge di Bilancio e per devolvere al settore eventuali risorse disponibili“.
Ma il passaggio più “incendiario” dell’intervento del ministro Nordio al Senato è stato quello sul ruolo del pubblico ministero. Se “nell’ordinamento anglosassone la discrezionalità dell’azione penale è vincolata a criteri oggettivi nel nostro Paese l’obbligatorietà è stata mantenuta e si è convertita in un intollerabile arbitrio”. Secondo Nordio “il pm può trovare spunti per indagare nei confronti di tutti senza dover rispondere a nessuno. Un tale sistema conferisce alle iniziative, e talvolta alle ambizioni, individuali di alcuni magistrati, per fortuna pochi, un’egemonia resa più incisiva dall’assenza di responsabilità in caso di mala gestione“.
Tutto è cambiato con il codice di procedura penale del 1988 . Da qui ha origine l’esigenza di separare le carriere: “Il pm è una parte pubblica a tutti gli effetti, ma è pur sempre una parte. E quindi non ha senso che appartenga in tutto e per tutto al medesimo ordine del giudice” dice Nordio che si è soffermato su un “nodo problematico”: il giudizio disciplinare. I componenti della sezione disciplinare ricorda il Guardasigilli “sono eletti con criteri di appartenenza correntizia da quegli stessi magistrati che vengono poi giudicati“. Un passaggio di “buon senso“, secondo Nordio, “potrebbe essere lo spostamento del giudizio disciplinare dal Csm a una Corte disciplinare terza, non elettiva e individuata con criteri oggettivi, per esempio tra ex presidenti della Cassazione o di alte giurisdizioni o ex giudici della Consulta, nominati dal Capo dello Stato”..
Sempre sul Csm il ministro di Giustizia ha aggiunto: “Trattandosi di un organo costituzionale auspico una rapida convocazione delle Camere per l’elezione dei membri laici che è stata differita sine die” con un passaggio sulla paralisi amministrativa. Mentre per quanto concerne l’abuso di ufficio “le condanne irrogate sono una percentuale minima rispetto al numero di indagine e riguardano episodi di scarso disvalore”. Pertanto, conclude il ministro, “gli appelli continui e pressanti dei pubblici amministratori e in particolare dei sindaci di diverse parti politiche dovrebbero costituire un forte stimolo per rapide conclusioni senza vincoli dogmatici o emotivi“.
“Auspico la rapida convocazione delle Camere per eleggere i membri laici del Csm“. ha concluso il ministro Nordio sottolineando che “un organo costituzionale così delicato non può restare sospeso“. Affermazioni che hanno trovato il totale consenso del premier Giorgia Meloni, che da Tirana ha commentato: “Penso che la riforma della giustizia sia prioritaria e mi sembra che in molti siano d’accordo. L’approccio di Nordio è l’approccio che il governo condivide. Una riforma della giustizia deve avere due grandi obiettivi: garantire il massimo delle garanzie agli indagati e imputati e poi certezza della pena. Mi definisco una garantista nella fase di celebrazione del governo e una giustizialista nella fase di esecuzione della pena. E credo che quello Nordio disegna sia un meccanismo di questo tipo“.
Entusiasmo alle stelle anche dagli ambienti di Forza Italia che con il capogruppo Pierantonio Zanettin subito definisce “una relazione molto coraggiosa”. Tant’è che basta a riassumerne i pilastri principali. A partire anche da una rampogna alla Camere per aver “rinviato sine die” la nomina dei 10 consiglieri togati del Csm. Ma è sui pubblici ministeri e sulle intercettazioni che Nordio fa sfoggio di tutto il suo dichiarato “garantismo“. Redazione CdG 1947
Otto e mezzo, Bocchino fa infuriare Travaglio: scintille sulle intercettazioni. Il Tempo il 06 dicembre 2022
Due visioni opposte, quelle di Marco Travaglio e Italo Bocchino sulla giustizia. Il direttore del Fatto quotidiano e l'ex parlamentare, ora alla guida del Secolo d'Italia, sono intervenuti nella puntata di martedì 6 dicembre di Otto e mezzo, il programma condotto da Lilli Gruber su La7. Travaglio critica le parole sulle intercettazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che vuole intervenire per evitare distorsioni del loro utilizzo. La conduttrice sottolinea come il ministro "ha detto di essere garantista in sede di processo e giustizialista sulla certezza della pena. Ma chi è che non è d'accordo su questo?".
A riguardo, Bocchino ricorda come la premier Giorgia Meloni ponga "due questioni che purtroppo non sono attuate oggi in Italia. Puoi avere l'avvocato, ci sono tre gradi di giudizio ma mentre accade tutto ciò le Procure danno ai giornalisti i fascicoli con le intercettazioni, vengono sparate sui giornali, rovinate delle vite e poi magari vieni assolto". A quel punto il direttore del Fatto sbotta: "Falso, totalmente falso". "Non ci sarà lo stop alle intercettazioni - ricorda Bocchino - Nordio ha detto che non possono essere utilizzate per delegittimare le persone".
L'ex parlamentare di An e di Fli poi racconta una vicenda a cui ha assistito in prima persona: "Sono stato testimone una volta a un processo di una cosa. Ho visto il giudice e il pm arrivare in auto insieme, ditemi voi se è possibile che chi ti accusa e chi ti deve giudicare possano arrivare insieme in auto...". Il direttore del Secolo poi provoca ancora l'ira dell'interlocutore: "Con la scusa dell'obbligatorietà dell'azione penale, un pm che ha cento fascicoli, se il fascicolo di un reato grave non lo fa andare in prima pagina sui giornali lo lascia lì. Se il fascicolo di un reato meno grave lo fa andare in prima pagina lo tira fuori e decide lui. Ed è l'arbitrio di cui parla Nordio". Anche qui, Travaglio protesta seccato: "Ma cosa dice? Ma cosa dice?".
Otto e mezzo, Italo Bocchino: "Cosa ho visto fare a un giudice con un pm". Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022
Vivacissimo scambio di "vedute" a Otto e mezzo, su La7, tra Marco Travaglio e Italo Bocchino sul tema giustizia. Il direttore del Fatto quotidiano critica le parole sulle intercettazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio, mentre la padrona di casa Lilli Gruber critica la premier Giorgia Meloni: "Ha detto di essere garantista in sede di processo e giustizialista sulla certezza della pena. Ma chi è che non è d'accordo su questo?".
"La Meloni pone due questioni che purtroppo non sono attuate oggi in Italia - replica Bocchino -. Puoi avere l'avvocato, ci sono 3 gradi di giudizio ma mentre accade tutto ciò le Procure danno ai giornalisti i fascicoli con le intercettazioni, vengono sparate sui giornali, rovinate delle vite e poi magari vieni assolto". "Falso, totalmente falso", borbotta Travaglio in collegamento. "Nordio ha detto meno intercettazioni e meno fondi", puntualizza la Gruber. "Non ci sarà lo stop alle intercettazioni - replica Bocchino -, Nordio ha detto che non possono essere utilizzate per delegittimare le persone. Sono stato testimone una volta a un processo di una cosa: ho visto il giudice e il pm arrivare in auto insieme, ditemi voi se è possibile che chi ti accusa e chi ti deve giudicare possano arrivare insieme in auto...".
Poi la frase che fa imbestialire Travaglio: "Con la scusa dell'obbligatorietà dell'azione penale, un pm che ha 100 fascicoli, se il fascicolo di un reato grave non lo fa andare in prima pagina sui giornali lo lascia lì. Se il fascicolo di un reato meno grave lo fa andare in prima pagina lo tira fuori e decide lui. Ed è l'arbitrio di cui parla Nordio". "Ma cosa dice? Ma cosa dice?", ripete Travaglio.
Dietrofront del governo. Meloni teme Travaglio e i magistrati: “Assoluzione inappellabile? Non si può”. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Dicembre 2022
“Giorgia Meloni è letteralmente terrorizzata da Marco Travaglio e dai pm di Magistratura democratica. Per evitare qualsiasi incidente di percorso non darà mai il via libera ad una legge che preveda l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione”. A rivelarlo è un parlamentare di Forza Italia, che per ovvi motivi preferisce restare anonimo, commentando con il Riformista la decisione del governo di stoppare l’emendamento presentato dal senatore azzurro Pierantonio Zanettin sull’inappellabilità delle sentenze.
L’emendamento, inizialmente dichiarato ammissibile dalla Commissione giustizia di Palazzo Madama, è stato congelato l’altro giorno dal governo che ha fatto sapere di essere assolutamente contrario. Un dietrofront giustificabile solo con il timore di una possibile campagna stampa orchestrata dal Fatto Quotidiano con il contorno degli strali dei pm di Magistratura democratica che già non perdono occasione per attaccare il governo di destra centro sulla giustizia. Meloni, dopo aver fiutato l’aria, avrebbe preferito glissare, mandando avanti il suo fedelissimo Andrea Del Mastro, sottosegretario alla Giustizia. Doccia fredda per Zanettin che era pronto a portare a casa una storica proposta di Forza Italia.
Nei confronti del senatore vicentino, ex componente laico del Consiglio superiore della magistratura, pare essere scattata in queste ore una moral suasion per fargli ritirare l’emendamento, trasformandolo in un banale ordine del giorno in cui si invita l’esecutivo ad attuare una riforma delle impugnazioni. L’emendamento, comunque, al momento di andare in stampa non è stato ritirato. Ciò che sta accadendo in Senato stride con quanto dichiarato fino a qualche settimana fa dal ministro della Giustizia Carlo Nordio il quale in un’intervista aveva affermato come fosse possibile condannare in appello qualcuno che “è stato già assolto in primo grado”. Un assist all’inappellabilità delle sentenze era arrivato anche dalla Commissione per la riforma penale presieduta dal presidente emerito della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi. Secondo l’ex numero uno della Consulta l’inappellabilità delle sentenze è “compatibile con il quadro costituzionale”. Una copertura giuridica di altissimo livello che avrebbe messo il governo al riparo delle critiche da parte dei giureconsulti del Fatto Quotidiano.
Per FI il ritiro dell’emendamento sarebbe uno smacco clamoroso anche perché l’inappellabilità delle sentenze, oltre ad essere nel programma elettorale, era stata oggetto di una clip di Silvio Berlusconi: “Quando governeremo noi, le sentenze di assoluzione, di primo o di secondo grado, non saranno appellabili. Un cittadino – una volta riconosciuto innocente – ha diritto di non essere perseguitato per sempre”. Forse proprio il timore che questa riforma possa servire all’ex premier ha messo in allerta Meloni. Lo scorso fine settimana, infatti, dalle parti del Fatto avevano già affilato le armi, scrivendo in un articolo che se fosse stata approvata la norma si sarebbe applicata al Ruby ter in corso a Milano. Processo per il quale la sentenza non è stata pronunciata ma che Travaglio e soci ritengono, evidentemente, che possa essere solo di assoluzione.
La decisione di Meloni rischia di rinnegare quanto fatto da An su questo tema. L’onorevole Antonino Caruso, quando venne approvata la legge Pecorella, affermò euforico che da ora in avanti non ci sarebbero più state “persecuzioni giudiziarie a danno di cittadini chiamati a difendersi anche se prosciolti”. E quando la legge Pecorella venne poi bocciata dalla Consulta, Giuseppe Consolo, altro esponente di punta di An, dichiarò che “certamente sarà colpa mia, ma per quanto mi sforzi di comprendere, non so come sia giustificabile tale importante decisione”.
Sarà interessante, allora, sentire cosa dirà questa mattina Nordio in Commissione giustizia al Senato dove è atteso per un intervento sulle “linee programmatiche”. Il condizionamento di Travaglio avrà fatto effetto anche nei suoi confronti? Comunque vada, i primi passi del governo in tema di giustizia non sono entusiasmanti. E che il clima nella maggioranza non sia dei migliori lo dimostra il fatto che il Guardasigilli non ha ancora, a distanza di due mesi dal suo insediamento, assegnato le deleghe al suo vice ministro Francesco Paolo Sisto (FI) e ai sottosegretari Andrea Ostellari (Lega) e Andrea Del Mastro (Fd’I). Paolo Comi
Diffamazione, se la vittima è una toga la vittoria è in tasca. Secondo lo studio di Sammarco e Zeno-Zencovich, i magistrati vincono sette volte su 10. E i risarcimenti valgono il doppio. Un esempio? I quarantamila euro che Maurizio Costanzo dovrà corrispondere al giudice del tribunale di Rimini. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 06 dicembre 2022.
Il maxi risarcimento di quarantamila euro che Maurizio Costanzo dovrà corrispondere al giudice del tribunale di Rimini Vinicio Canterini per avergli detto “complimenti” ha acceso ancora una volta i riflettori sul tema della diffamazione tramite i media.
Nel caso in questione, lo storico giornalista Mediaset, durante una puntata del “Maurizio Costanzo Show” andata in onda il 20 aprile del 2017, aveva ospitato Gessica Notaro, la ragazza di Rimini che era stata sfregiata l’anno prima con l’acido dal suo ex fidanzato Edson Tavares. La ragazza, rispondendo alle domande di Costanzo, aveva ripercorso le tappe della tragedia, affermando di aver denunciato a settembre del 2016 il suo ex che la stava perseguitando da tempo e che il magistrato aveva disposto nei suoi confronti il solo divieto di avvicinamento per tre mesi e mezzo.
Scaduto il divieto Tavares si era appostato sotto casa sua sfregiandola con l’acido e rendendola per sempre cieca ad occhio. Costanzo, senza mai fare il nome di Canterini, gli aveva fatto i “complimenti”, chiedendo all’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando di aprire una inchiesta nei suoi confronti «perché non ha fatto quello che gli ha aveva detto il pm di mettere agli arresti domiciliari» Tavares, poi condannato a 15 anni e 5 mesi. Canterini, sentitosi diffamato dalle parole pronunciate da Costanzo, lo aveva denunciato ottenendo la scorsa settimana di essere risarcito.
Lo studio: diffamazione, le toghe vincono 7 volte su 10
Il settore dei risarcimenti ha confini quanto mail labili ed è sostanzialmente impossibile fare previsioni sul “quantum”. Sul Diritto dell’informazione e dell’informatica, periodico edito da Giuffrè, è stata pubblicata nelle scorse settimane una ricerca sul punto ad opera dei professori di diritto privato comparato Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich. I due docenti hanno analizzato le sentenze per diffamazione, circa 700 depositate negli anni 2015/2020 presso il Tribunale di Roma. Le sentenze sono state acquisite presso il locale ced previamente anonimizzate nella identità delle persone fisiche attrici e convenute. In taluni casi la notorietà delle parti ha reso tale misura superflua. Sono invece rimaste identificate le persone giuridiche.
Il dato che balza subito all’occhio riguarda l’accoglimento: solo in tre casi su dieci. Delle oltre 400 sentenze di rigetto praticamente tutte decidono nel merito negando l’illecito. Vi sono poche decisioni su questioni preliminari, tipicamente per la competenza territoriale, ovvero di inammissibilità del giudizio oppure sulla sua estinzione. Nel caso si tratti di magistrati la domanda viene accolta però in sette casi su dieci. Esattamente il contrario, tre accoglimenti su dieci, quando il denunciante appartiene a qualsiasi altra categoria professionale (giornalista, politico, professore, imprenditore, eccetera).
Per quanto concerne gli importi, la media è 20mila euro, esattamente il doppio per le toghe. Un magistrato, ex pm di Mani pulite, nel quinquennio in questione ha imbastito ben 23 cause con un risarcimento complessivo pari a 578mila euro. Il convenuto, come detto, è solitamente un mezzo di comunicazione di massa, che poi corrisponde l’importo liquidato in quanto debitore di ultima istanza, anche rispetto ai propri giornalisti. Va peraltro segnalata la presenza di non poche decisioni in cui la contesa è fra persone fisiche, generate da offese diffuse attraverso i social media. Tenendo conto della sede di taluni editori a Roma e delle regole sulla competenza territoriale, i dati forniti da Sammarco e Zeno-Zencovich sono meramente indicativi, in quanto non possono tenere conto degli importi liquidati da altri Tribunali, sede della persona giuridica convenuta, ovvero dove uno dei convenuti è residente, ovvero ancora luogo di residenza dell’attore.
E veniamo, infine, ai “parametri” che i giudici dovrebbero tenere in considerazione ai fini del risarcimento. Il primo riguarda la natura del fatto falsamente attribuito alle parti lese. Il secondo l’intensità dell’elemento psicologico dell’autore. Il terzo il mezzo di comunicazione utilizzato per commettere la diffamazione e la diffusività dello stesso sul territorio nazionale. Il quarto il rilievo attribuito dai responsabili al pezzo contenente le notizie diffamatorie all’interno della pubblicazione in cui lo stesso è riportato. Il quinto, infine, l’eco suscitata dalle notizie diffamatorie. Il differente esito processuale, comunque, non può non indurre ad una riflessione sul fatto che esista una “giustizia domestica” fra le toghe per questo genere di cause.
Marcio Vigarani per corriere.it il 3 dicembre 2022.
Gli era costata già una diffida, adesso è arrivata una condanna per Maurizio Costanzo, 84 anni, giornalista e presentatore televisivo, accusato di diffamazione aggravata nei confronti del giudice per le indagini preliminari di Rimini, Vinicio Cantarini, 56 anni, nativo di Loreto (Ancona).
La giudice Maria Elena Cola del Tribunale di Ancona ha inflitto un anno di reclusione, con la sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa. La sentenza è arrivata mercoledì 30 novembre. Trattandosi di un giudice parte offesa, costituito parte civile con l’avvocato Nazzareno Ciucciomei, il processo è stato tenuto in un tribunale diverso da quello dove esercita; per Rimini ha competenza Ancona.
In una puntata del Maurizio Costanzo show, trasmessa il 20 aprile del 2017, Costanzo si era lasciato andare a commenti ritenuti offensivi dell’operato del giudice per una misura cautelare emessa nei confronti diEdson Tavares, ex fidanzato di Gessica Notaro, riminese sfregiata con l’acido il 10 gennaio del 2017. La misura cautelare riguardava episodi di stalking precedenti al fatto dell’acido, il gip aveva disposto il divieto di avvicinamento alla donna mentre la procura aveva chiesto gli arresti domiciliari. «Mi voglio complimentare col gip.
Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo», aveva affermato il giornalista. La difesa di Costanzo ha sostenuto che non c’era alcuna volontà diffamatoria. Ora potrà ricorrere in appello.
Il riferimento al gip
Quel giorno, in trasmissione, c’era anche Gessica Notaro che per la prima volta, dopo tre mesi dai fatti, parlava in pubblico. Costanzo aveva detto «complimenti a questo gip, vogliamo dire il nome del gip che ha fatto questo? Diamo il nome. Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo». Il nome di Cantarini non era stato fatto ma il riferimento era stato chiaro. Costanzo si era rivolto anche al ministro della Giustizia di allora, Orlando, incalzando «faccia un’inchiesta su questo gip perché non ha fatto quello che gli ha chiesto il pm di tenere questo qui agli arresti domiciliari, di dov’è? Di Rimini?».
Secondo la difesa di Costanzo non c’era alcuna volontà diffamatoria. Ora potrà ricorrere in appello. Per l’accusa avrebbe invece offeso la reputazione del giudice lasciando intendere che le conseguenze gravissime derivate alla donna fossero conseguenza dell’atteggiamento inoperoso o superficiale dello stesso giudice che, non era stato sufficientemente vigile nel seguire l’evoluzione della vicenda.
Magistratura solidale…vietato dire “complimenti al gip”? Maurizio Costanzo condannato a 1 anno di carcere. Una vergogna! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Dicembre 2022.
La giudice Maria Elena Cola del Tribunale di Ancona ha inflitto al giornalista un anno di reclusione, con la sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa
Clamoroso, ma vero. E’ vietato dire “complimenti al gip”. A finire nel tritacarne giustizialista è Maurizio Costanzo, 84 anni, giornalista e simbolo della televisione italiana, condannato per diffamazione aggravata nei confronti del giudice per le indagini preliminari di Rimini, Vinicio Cantarini, 56 anni, nato a Loreto, in provincia di Ancona. A condannare Costanzo la giudice Maria Elena Cole del Tribunale di Ancona: un anno di reclusione, con sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa.
Andiamo indietro nel tempo fino al 20 aprile del 2017 per capire cosa è accaduto. Maurizio Costanzo ospitava nel suo noto programma “Maurizio Costanzo show” per la prima volta Gessica Notaro, che appariva in pubblico dopo essere stata sfregiata con l’acido dal suo ex fidanzato. Costanzo criticò (secondo noi e praticamente tutt’ Italia, quella sana…) il gip Cantarini per una misura cautelare emessa nei confronti dello sfregiatore, Edson Tavares, misura che riguardava precedenti episodi di stalking. La procura di Rimini aveva chiesto gli arresti domiciliari, mentre il gip dispose soltanto una misura cautelare, cioè un provvedimento meno restrittivo. E subito dopo, Tavares lasciato libero di imperversare sfregiò la Notaro buttandole l’acido in faccia sfigurandola.
Nel corso della trasmissione incriminata, Costanzo aveva detto: “Mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo”. e senza mai fare il nome di Cantarini. Maurizio Costanzo si era rivolto direttamente all’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando: “Faccia un’inchiesta su questo gip perché non ha fatto quello che gli ha chiesto il pm di tenere questo qui agli arresti domiciliari, di dov’è? Di Rimini?“.
Il gip Vinicio Cantarini ha pensato di querelare Costanzo per diffamazione. Ed una sua collega, incredibile vero un “magistrato donna“, gliel’ha data vinta. Secondo la difesa del conduttore televisivo non vi era alcuna volontà diffamatoria in quelle parole, per l’accusa al contrario avrebbe offeso la reputazione della toga lasciando intendere che Gessica fosse stata sfregiata in seguito alle decisioni del gip. Costanzo ora potrà ricorrere in appello. Per l’accusa Costanzo avrebbe invece offeso la reputazione del giudice lasciando intendere che le conseguenze gravissime derivate alla donna fossero conseguenza dell’atteggiamento inoperoso o superficiale dello stesso giudice che, non era stato sufficientemente vigile nel seguire l’evoluzione della vicenda. In realtà i fatti sembrano provare proprio questo.
Per fortuna esiste anche quella che noi definiamo la “buona Giustizia” con la “G” maiuscola. Edson Tavares 30enne originario di Capo Verde, aggressore di Gessica Notaro che era stato lasciato a piede libero dal Gip di Rimini, è stato condannato in secondo grado nel novembre del 2018 a 15 anni, 5 mesi e venti giorni. Pena lievemente calata, rispetto ai 18 anni del primo grado (10 anni nel processo per l’aggressione e 8 in quello per stalking), ma che sostanzialmente conferma la gravità dei fatti che qualcuno aveva valutato in maniera più superficiale .
L’ avvocata di parte civile Elena Fabbri, aveva commentato duramente: “Per Gessica è un fine pena mai, ogni giorno che si guarderà allo specchio non vedrà più se stessa, ha subìto un omicidio di identità”. Resta da chiedersi cosa avrebbero detto e fatto il Gip Cantarini ed il giudice Maria Elena Cole del Tribunale di Ancona se qualcuno avesse fatto la stessa cosa, cioè sfregiare con l’acido la faccia di una loro moglie, o di una loro figlia. Ce lo chiedono i lettori e noi ci associamo a loro. Chissà cosa ne pensano il ministro di Giustizia, ed il Csm. Chiedere un’opinione è forse diventato un reato ? Redazione CdG 1947
Vietato ironizzare sul gip in televisione. Condanna con risarcimento per Costanzo. Il conduttore si era "complimentato" con la toga che non aveva disposto gli arresti per l'uomo che sfregiò con l'acido Gessica Notaro. Massimo Malpica il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Guai a criticare i magistrati. Chiedere per conferma a Maurizio Costanzo, condannato a un anno di reclusione per sarcasmo. O, per essere precisi, condannato per diffamazione di un Gip, aggravata dal mezzo radiotelevisivo. Il giudice in questione è Vinicio Cantarini, in servizio al tribunale di Rimini. Il caso risale a cinque anni e mezzo fa, aprile 2017. Ospite del salotto tv di Costanzo era Gessica Notaro: la ragazza tre mesi prima, il 10 gennaio, era stata sfregiata con l'acido dal suo ex fidanzato, Edson Tavares, che già prima di quell'ultimo gesto aveva mostrato la sua indole violenta. Proprio Gessica, raccontando la sua terribile esperienza al presentatore, aveva ricordato come fosse stato proprio quel gip, in seguito a una precedente denuncia per stalking contro Tavares, a chiedere per l'uomo il solo divieto di avvicinamento e l'obbligo di dimora notturna e non, come richiesto dal pm, gli arresti domiciliari.
«L'ho denunciato sperando che la facesse finita. Vorrei sapere perché il pm ha deciso che andava arrestato e invece il gip gli ha dato solo gli obblighi domiciliari. Il giudice ha sentito solo la versione di Tavares, non la mia», s'era sfogata la ragazza. Costanzo aveva preso le sue parti attaccando il gip. «Complimenti a questo gip aveva detto vogliamo dire il nome del gip che ha fatto questo? Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm: fate i complimenti da parte mia al gip che ha deciso questo». E aggiungendo, in collegamento telefonico con l'allora Guardasigilli Andrea Orlando, il suggerimento di indagare sul giudice.
Il nome di Cantarini, in realtà, non era stato fatto, anche se il riferimento era inequivocabile. E nemmeno l'arresto almeno dal punto di vista cronologico, e senza considerare l'effetto dissuasorio di una misura più severa - avrebbe cambiato le cose, considerato che Tavares sarebbe tornato libero il 30 dicembre 2016, undici giorni prima del suo attacco con l'acido alla ragazza. Proprio il gip aveva rimarcato questo punto, sottolineato anche nell'alzata di scudi a sua difesa dell'avvocatura riminese e dell'Anm, che oltre a rimarcare la correttezza formale del provvedimento adottato dal gip (Tavares non aveva violato quel divieto di avvicinamento), avevano condannato la «gogna mediatica» contro il collega, risparmiando solo Gessica dalle critiche. Ma all'interessato non era bastata la difesa di casta. Cantarini aveva diffidato Costanzo, e quest'ultimo lo aveva invitato in trasmissione, a maggio 2017, suggerendo di chiudere la questione offrendogli il diritto di replica: «Sono disponibile ad ospitarla per ascoltare la sua versione», aveva spiegato il conduttore. Ma Cantarini aveva in mente una diversa soluzione. Il giudice riminese ha preferito querelare Costanzo per quei «complimenti» sarcastici, e il 30 novembre scorso un altro giudice, Maria Elena Cola del tribunale di Ancona, ha dato ragione al collega. Stabilendo che è stato vittima di diffamazione aggravata, condannando Costanzo - che ha 85 anni - a un anno di reclusione, e infine subordinando la sospensione della pena al pagamento di un risarcimento danni a Cantarini di 40mila euro.
"Giustizia irriformabile. Dopo tanti anni volevo mollare tutto". Il legale: "Processi mediatici e diritti calpestati. La riforma Cartabia? Non cambierà nulla". Felice Manti il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.
«Dopo l'esito del processo di Avetrana celebrato nei confronti di Sabrina Misseri e della sua anziana madre Cosima, ho sentito assai forte la tentazione di abbandonare tutto ciò che fino a quel momento aveva costituito, con l'Università, la ragione della mia vita». È un Franco Coppi durissimo a vergare queste parole nell'introduzione del libro Il delitto di Avetrana (Rino Casazza, Algama editore) in uscita in questi giorni. Al telefono con Il Giornale il legale che in passato ha difeso tra gli altri Silvio Berlusconi e Giulio Andreotti rincara la dose. «La successione ininterrotta di errori, pregiudizi, falsità e di incomprensibili sentenze di condanna avevano generato uno sconforto, uno smarrimento e quasi la paura dell'inutilità e della vanità dell'opera della difesa, mai prima provati tanto intensi e così forti da spingermi all'abbandono».
Queste sono parole sue, le conferma?
«Guardi, ho vinto processi che pensavo di perdere e viceversa. Sono così convinto dell'innocenza di queste due malcapitate che questo processo mi colpisce così dolorosamente per le pressioni mediatiche che hanno portato a una sentenza ingiusta, che non coglie la verità. È vero, la voglia di mandare tutto a quel Paese è stata molto forte».
Eppure, ai più la condanna sembra scritta nel granito. Chiederà la revisione?
«Revisione? Per chiederla è necessario che ci siano nuovi fatti. Se qui non si fa avanti nessuno ad ammettere di aver detto il falso non è possibile. Abbiamo fatto ricorso alla Corte europea, ma è un discorso diverso dalla revisione».
Avetrana è stato un processo mediatico, lo sappiamo. Contro le storture c'è la riforma firmata dall'ex Guardasigilli Cartabia, no?
«Mah, ho molte perplessità. Dopo più di 50 anni passati nei tribunali vedo con preoccupazione il futuro dell'avvocatura, che mi sembra molto sacrificato rispetto ai diritti della difesa in Appello e in Cassazione. Non credo possa contare su contributi significativi alle storture della giustizia, anche perché sono così tante e tali che non si può pensare di risolverli con questo tipo di provvedimento».
Che cosa andrebbe riformato, secondo Lei?
«Per esempio, servirebbe la riforma dell'udienza preliminare ma non un semplice gioco di parole. Bisogna prendere atto che l'istituto è fallito. Bisogna pensare a come sostituirlo, anziché ritoccarlo».
Cosa ne pensa del Guardasigilli Carlo Nordio?
«È un magistrato di grandissima esperienza, so che affronterà il tema della giustizia con cognizione di causa. Posso solo augurargli buon lavoro».
Il prossimo 13 dicembre il Parlamento deciderà i 10 membri laici del Csm. Mai come questa volta il suo peso sarà decisivo per riscrivere le regole del funzionamento della giustizia.
«Il ruolo del Csm è certamente delicatissimo ma io sono convinto che tutto dipenda dalle persone: c'è da sperare che vengano scelte persone che siano in grado di assolvere al loro compito. Credo poco ai pronunciamenti astratti, voglio vederli all'opera».
La magistratura ha gli anticorpi per chiudere i conti con il passato? Penso al caso Palamara, ai casi Davigo-Storari eccetera
«Se penso a tutta una serie di magistrati che ho conosciuto sono ottimista, se penso a un'altra serie di magistrati sono pessimista».
Caiazza: dalle feste illegali all’ergastolo, il decreto lascia al giudice un potere che diventa arbitrio. Nella sua audizione in Senato sul decreto 162, il presidente dei penalisti ha denunciato l’indeterminatezza di gran parte del testo. Il Dubbio il 22 novembre 2022
Riportiamo di seguito un estratto della relazione esposta ieri dal presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza nel corso delle audizioni svolte dalla commissione Giustizia del Senato sul decreto 162.
La considerazione di carattere generale che desta più allarme è la ennesima dimostrazione di una purtroppo ormai consueta attitudine del legislatore a porre in dubbio esso per primo, nei testi legislativi emanati o emanandi, il primato della legge sulla interpretazione giurisprudenziale. Ciò avviene quando il legislatore, per finalità piuttosto mediatiche che di effettiva regolazione di fenomeni sociali, confeziona provvedimenti che sembrano scritti apposta per consentire alla giurisdizione l’esercizio di un potere interpretativo della norma pressoché illimitato ed incontrollabile.
Tanto è infatti inevitabile, quando si introducono nelle leggi – come accade doviziosamente nel presente decreto – concetti di indistinto contenuto precettivo, evocativi di messaggi mediatico-politici forse suggestivi, ma del tutto indeterminati, consegnando in tal modo all’interprete dei fogli in bianco, che ciascun giudice riempirà a proprio piacimento, e secondo le proprie personali sensibilità culturali, giuridiche o politiche.
Si prenda il caso degli articoli che introducono – o pretenderebbero di introdurre, forse è meglio dire – condotte punitive dei cosiddetti rave-party, assurti misteriosamente a prioritaria urgenza del Paese. Il testo, in primo luogo, di tutto parla fuorché dei rave-party, prestandosi a punire qualunque forma di assembramento di più di 50 persone in terreni privati o aperti al pubblico senza l’autorizzazione del proprietario o la comunicazione all’autorità pubblica. Ma soprattutto, la condotta materiale si pretenderebbe connotata dalla contrarietà all’ordine pubblico (limite al diritto di riunione ignoto all’art. 17 della Costituzione) che -come dovrebbe essere noto- è nozione di una straordinaria vastità. (…) Usando con questa approssimazione nozioni tecniche complesse, si attribuisce al giudice la facoltà pressoché illimitata ed incondizionata di definire la liceità o la illiceità dell’evento che si pretenderebbe di punire.
Lo stesso vizio traspare dalla lettura degli articoli dedicati al tema delle ostatività. Qui il legislatore, per raggiungere lo scopo di una regolamentazione più severa del regime delle ostatività, e dunque della possibilità di eluderle in assenza di collaborazione da parte del detenuto, introduce condizioni che, a prescindere ora dal merito, sono costruite su nozioni a dir poco indeterminate. Cosa si pretende debba significare, ad esempio, la nozione di “collegamento con il contesto nel quale il reato è stato commesso”, che il richiedente le misure alternative dovrebbe dimostrare inesistenti sia in termini di attualità, sia in termini di “pericolo di ripristino”? La nozione di “contesto” è già semanticamente nebulosa, figuriamoci cosa potrà accadere in concreto quando il giudice dovrà vagliare collegamenti con un non meglio identificato “contesto nel quale il reato è stato commesso”.
Ancora una volta, per dare corpo al “segnale politico” dell’inasprimento di un istituto normativo, si consegna al giudice un potere interpretativo immenso, illimitato, incontrollabile. Sorprende allora che simili pericolosissime dinamiche di accelerazione del processo degenerativo della tipicità del precetto penale vengano innescate da parte di chi poi, in altri contesti, lamenta (ben giustamente, aggiungo), l’irrimediabile squilibrio tra poteri dello Stato in favore del potere giudiziario. Passo ora a qualche sintetica considerazione di dettaglio.
Sulla proroga della entrata in vigore della riforma Cartabia, ed a prescindere dalle articolate obiezioni di costituzionalità già sollevate dal Tribunale di Siena, occorre che voi, illustri Senatrici e Senatori, sappiate che essa sta già determinando un caos ben superiore a quello che si proponeva di prevenire: e credo avrete motivo di fidarvi di chi può disporre di un osservatorio costituito da 129 Camere Penali distribuite su tutto il territorio nazionale. La ragione è molto semplice ed intuitiva.
Faccio un esempio: se quella legge delega, già in vigore da oltre un anno, ha modificato – e stiamo parlando di una riforma di grande rilievo – la regola di giudizio della udienza preliminare in senso più favorevole agli imputati (altrimenti come sappiamo destinati al rinvio a giudizio nel 97% dei casi) è del tutto ovvio che gli imputati a carico dei quali si devono celebrare udienze preliminari tra ottobre e dicembre del 2022, avranno almeno diritto al rinvio della udienza. Lo stesso vale per quegli imputati nei confronti dei quali il giudice debba pronunciare sentenza, e che avrebbero già beneficiato della modifica del regime di alcuni reati ora perseguibili solo a querela di parte. Ed infatti, è quello che sta accadendo in tutta Italia, con un gran numero di udienze rinviate, che si aggiungono al carico già insopportabile dell’arretrato pendente. (…)
Cannibalismo. L’impossibile riforma della giustizia e la destituzione dello Stato di diritto. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta l'1 Novembre 2022.
È evidente che la magistratura abbia marciato sulle carenze del nostro sistema giuridico, ma non è il punto d’origine di questo sfacelo
Chi si domandasse per quale motivo in Italia è tanto difficile mettere in campo una qualsiasi, seria riforma dell’amministrazione della giustizia, troppo facilmente concluderebbe che a opporvisi e a renderla impossibile è la prepotenza di un mandarinato giudiziario capace di intimidire e ricattare il legislatore riformatore.
Non che questa componente non esista e non abbia efficacia inibitoria, ma la realtà è che quel movimento di interferenza e reazionario sarebbe insufficiente a raggiungere l’obiettivo se non potesse contare su una temperie di disfacimento dello Stato di diritto che vede nel potere giudiziario l’utilizzatore finale, non il motore primigenio.
Un capannello togato che richiama le televisioni per protestare contro l’infamia di una legge sgradita resterebbe quel che è, un disinvolto e solo potenzialmente pericoloso conato di insulto alla legalità repubblicana, se il proclama ribellista che ne viene non ridondasse nel festoso riscontro presso l’informazione e l’opinione pubblica ben disposte ad accreditarne i meriti moralizzatori.
Un leader di procura che si mette a disposizione del presidente della Repubblica in caso di chiamata, come il colonnello in fregola nell’attesa della formazione della junta, rimarrebbe quel che è, un impertinente con poca cautela e molta boria, se non finisse magnificato in eternità equestre sul magazine del primo quotidiano d’Italia.
Un pubblico ministero che indugia sui sensi di colpa dell’indagato che si toglie la vita apparterrebbe al rango meritato, quello di un malvissuto cui non dovrebbe essere consentito di far giustizia sui propri simili, se le sue parole non fossero l’eco della turba che reclama le vie spicce per i corrotti.
La realtà è che la destituzione dello Stato di diritto è avvenuta per cannibalizzazione, e a spacciare il succedaneo non è stata solo la magistratura, anzi questa ha preso semplicemente (non vuol dire incolpevolmente) a valersi di quel prodotto confezionato e reso commerciabile da altri: anche per perpetuare il proprio potere, certo, ma in un clima di acquiescenza quando non di istigazione che rimanda a responsabilità ben più vaste e implicanti.
La verità è che è scritta in italiano comune, non in vernacolo giudiziario, la condanna a morte dello Stato di diritto. E le mancate riforme sono la pena accessoria di quella sentenza, un corollario sottoscritto da molti.
Criticare i magistrati? Un’eresia. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 30 Settembre 2022
Non sempre e non esplicitamente, ma spesso e fondamentalmente la querela del magistrato nei confronti di chi scrive cose che non gli piacciono ha natura antidemocratica. Si basa cioè sulla pretesa autoritaria di veder punito l’autore della critica perché questa attenta non già alla reputazione dell’offeso, sebbene alla tracotanza pomposa del potere in cui egli si identifica.
Egli non amministra giustizia: egli “è” giustizia, di modo che fare le pulci a lui significa bestemmiare la sacertà di una missione incoronata. E vale l’opposto, chiaramente: dir male della giustizia o, peggio che mai, di una delle mostrine sociologico-moraleggianti che ad essa sono affibbiate (“Mani Pulite”, “Antimafia”, eccetera), significa molestare personalmente e intimamente chi rappresenta la cerchia. Significa non pulirsi la bocca quando si parla della Famiglia.
Secondo questa impostazione, che oscuramente quanto efficacemente lavora a eccitare un buon numero delle iniziative di querela da parte dei magistrati, la critica è passibile di inibitoria e di sanzione perché si rivolge a lesione di un bene (la maestà togata) rispetto al quale la libertà di opinione è necessariamente condizionata e recessiva. Tu non hai diritto di affermare (e ovviamente puoi farlo con ragione o no, secondo il giudizio di ciascuno; ovviamente puoi farlo adoperando argomenti condivisibili o no, questa è un’altra faccenda), non hai diritto, dicevo, di affermare che una certa cultura della giurisdizione costituisce una vergogna per la società costretta a subirla e per l’ordinamento che ne è contaminato: perché affermarlo sente di eresia, e fornisce a qualunque magistrato il titolo sufficiente a querelarti.
E si noti come nessun’altra categoria (se non, forse, quella non casualmente assai simile costituita dai giornalisti) osi neppure immaginare per sé stessa qualcosa di simile, cioè sentirsi e pretendersi una cosa sola con il proprio potere trasfigurato in feticcio penalmente presidiato.
Che poi la querela del magistrato sia scritta in vernacolo giudiziario, cioè in una favella direttamente intesa dalla colleganza che si incarica di mandarla avanti, è solo l’ultimo dettaglio – si fa per dire – di questa generale stortura. Iuri Maria Prado
Le riforme legislative e le proposte. L’eclissi lunga e dolorosa della magistratura. Alberto Cisterna su Il Riformista il 30 Settembre 2022
«It’s not dark yet, but it’s getting there» cantava il premio Nobel per la letteratura Bob Dylan. «Non è buio ancora, ma presto lo sarà» sembrano le parole che, a mezza voce e con malcelata preoccupazione, sussurrano le toghe italiane di fronte allo scenario politico inaugurato dalle elezioni del 25 settembre. È vero, non è la prima volta che il centrodestra (Cdx) si aggiudica una competizione elettorale nazionale. È vero, non è la prima volta che quello schieramento annuncia riforme radicali sul versante della giustizia.
Ma è la prima volta che il Cdx mette in campo una strategia a doppia partizione: per un verso ha annunciato in campagna elettorale modifiche legislative ordinarie di un certo peso, per altro pretende una revisione della Costituzione in varie sue parti, senza mai escludere espressamente le norme sul potere giudiziario. Si badi bene. Esclusa qualche scaramuccia periferica sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, mai la Costituzione repubblicana era finita sotto il mirino delle ambizioni costituenti della politica italiana. A nessuno era venuto in mente di modificare l’assetto dell’organizzazione giudiziaria prendendo le distanze dallo statuto della Carta del 1947.
Certo, nel 1999, si erano introdotte nell’articolo 111 le norme sul “giusto processo”, scopiazzandole dalla Cedu, ma gli effetti benefici sul processo penale e civile di quella riscrittura costituzionale sono stati sempre pressoché nulli, dopo qualche iniziale entusiasmo. Anzi. Si è avuto come l’impressione che principi basilari come la ragionevole durata del processo, la terzietà del giudice, la parità delle parti dovessero, essi, adattarsi alla morfologia ambigua della giustizia italiana, perdendo ogni capacità performante e ogni spinta innovatrice. Se davvero il Cdx intende modellare la forma di governo o addirittura di Stato in senso presidenzialista, è evidente che la magistratura ordinaria non potrebbe non subire un pesante contraccolpo da questa riscrittura della Carta.
L’attribuzione della presidenza del Csm a un presidente eletto dal popolo e non più di estrazione parlamentare, altera in modo decisivo l’autogoverno della magistratura dovendosi immaginare che un presidente del Repubblica di diretta derivazione dal voto popolare sarebbe senz’altro propenso a interventi, come dire, ravvicinati sul funzionamento di palazzo dei Marescialli. Senza considerare che sia il presidente che il vicepresidente potrebbero facilmente appartenere alla medesima coalizione politica e derivare dagli esiti della stessa tornata elettorale; circostanza sinora evitata dalla sfasatura tra il settennato quirinalizio e il quadriennio consiliare. Se l’opzione fosse, poi, quella dell’elezione diretta del premier sul modello del cd. sindaco d’Italia, anche questa volta le conseguenze non sarebbero di scarso momento sul funzionamento dell’organizzazione giudiziaria con un gabinetto a palazzo Chigi fortemente legittimato politicamente e poco propenso a mediazioni con la corporazione delle toghe, sempre diffidenti verso governi autorevoli (basti pensare allo scontro con la ministra Cartabia).
Insomma, questa volta la copertura della Costituzione – che tante volte ha dato modo alla Consulta di neutralizzare gli effetti di riforme legislative ordinarie malviste dalle toghe (si pensi alla legge caducata sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione o alla norma cassata sull’obbligo di archiviazione in caso di annullamento di un mandato di cattura) – potrebbe vacillare. Nello schieramento del 25 settembre, soprattutto nei suoi settori più sensibili alle geometrie costituzionali e istituzionali, potrebbe trovar spazio l’idea di un complessivo rimodellamento dell’assetto della giurisdizione irrompendo nella cittadella disegnata nel 1947 attraverso l’escamotage di dare sostanza e forma definitiva a una battaglia tutto sommato ben vista dalla pubblica opinione come quella della separazione delle carriere tra giudici e pm.
Di lì il passaggio verso il doppio Csm sarebbe agevole, come pure ghiotta potrebbe essere l’occasione per sistemare il principio di obbligatorietà dell’azione penale o la disponibilità diretta della polizia giudiziaria da parte dei pm o i poteri del Csm o la creazione dell’Alta Corte disciplinare. Tutte proposte che riscuotono consensi ben oltre gli steccati dell’attuale Cdx e che hanno visto spendersi figure autorevole della politica italiana (primo tra tutti, Luciano Violante). Certo non è ancora buio, ma tra un poco il sole della magistratura italiana rischia un’eclissi lunga e dolorosa cui, francamente, non si è del tutto pronti a reagire con proposte autorevoli. Alberto Cisterna
Elezioni Csm. Vendette, bestemmie e tradimenti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 21 Settembre 2022
Il nuovo Csm sarà impegnato anche sul fronte politico dovendosi occupare dalle riforme penali e civili in fase di attuazione ai conflitti che si proporranno inevitabilmente con la nascitura maggioranza parlamentare, sopratutto se a trazione centrodestra, su dossier come quello della separazione delle carriere e responsabilità civile che comporterebbe la possibilità di maggioranze variabili con i componenti laici.
La campagna elettorale per il rinnovo della componente togata del Consiglio superiore della magistratura, l’organo di rilievo costituzionale presieduto dal capo dello Stato, composto da magistrati eletti da magistrati e da docenti/avvocati eletti dal Parlamento, e competente su vita, morte e miracoli del terzo potere, finalmente da 48ore è finita, e nelle prossime ore si conoscerà l’esito dell’urna. La riforma ha anche aumentato il numero di consiglieri: i togati passano da 16 a 20, i laici (che saranno eletti dal prossimo Parlamento) da 8 a 10.
Una sola cosa è certa: il Csm che si sta per eleggere sarà il più potente della storia. La riforma Cartabia da un lato ha accresciuto le competenze e aumenta il controllo dell’organo di vertice sulla carriera e sul profilo disciplinare dei magistrati, sottoposti a verifiche di ogni tipo (smaltimento arretrato, tempi di deposito atti, formalità di comunicazioni). Dall’altro lato verrà chiamato a gestire i numerosi di procedimenti disciplinari provenienti da controversi casi politici o dalle chat di Luca Palamara, in primo luogo quelli del suo alleato il magistrato in aspettativa Cosimo Ferri successivamente diventato parlamentare.
Il nuovo Csm sarà impegnato anche sul fronte politico dovendosi occupare dalle riforme penali e civili in fase di attuazione ai conflitti che si proporranno inevitabilmente con la nascitura maggioranza parlamentare, sopratutto se a trazione centrodestra, su dossier come quello della separazione delle carriere e responsabilità civile che comporterebbe la possibilità di maggioranze variabili con i componenti laici.
Il nuovo sistema elettorale denominato il” Cartabellum“, è riuscito a fare impallidire il “Rosatellum” licenziato a suo tempo dalle aule parlamentari, a seguito della riforma ha anche aumentato il numero di consiglieri da eleggere: i “togati” (cioè i magistrati) salgono da 16 a 20, i “laici” cioè quelli indicati dai due rami del parlamento che verrà eletti dopo le elezioni del prossimo 25 settembre, che aumentano da 8 a 10. Nella campagna elettorale vi è stato solo un solo dibattito pubblico in Cassazione, peraltro senza contraccolpi. Utilizzate le mailing list, e le chat, al massimo qualche aperitivo (sopratutto con giornalisti “amici” delle Procure. Piccoli gruppi, e poche promesse di voto. In tutto 87 candidati su poco più di 9mila votanti, più del triplo di quattro anni fa.
Una campagna elettorale, come facilmente prevedibile, caotica e dispersiva, in cui soltanto la metà dei candidati è collocabile nel sistema delle correnti organizzate. Con cadute di stile inqualificabile come quella rivelata dal quotidiano Il Foglio ad opera del candidato napoletano di Area, il magistrato Tullio Morello, che in un dibattito online con una trentina di colleghi ha dichiarato, appunto, che “Palamara è stato un grandissimo pezzo di merda e si preannunciano riforme più canaglia della riforma Cartabia“.
I membri “togati” vengono eletti con un sistema prevalentemente maggioritario. Due in Cassazione, come accadeva prima, mentre i pubblici ministeri sono divisi in due maxi collegi nazionali: uno che va lungo la dorsale tirrenica da tutto il Nord sino al Lazio , l’altro invece copre la dorsale adriatica fino alla Sicilia. Ogni collegio elegge i due pm più votati. Un quinto pm viene ripescato come miglior terzo. I giudici di merito, sono suddivisi in quattro collegi di medie dimensioni: anche per loro vengono eletti i primi due in ogni collegio. Gli altri cinque vengono ripescati con un meccanismo a dir poco complesso per favorire il “diritto di tribuna” alle minoranze, consentendo collegamenti formali ai candidati tra diversi collegi, come a riunirsi nei listini.
Mai nella storia delle elezioni del Csm erano state così indecifrabili a seguito dei postumi interni ad una magistratura sempre meno credibile e poco autorevole, a causa sopratutto delle guerre e contrapposizioni nelle correnti; mai si era sentito un candidato in una riunione arrivare a dire “Palamara è un mezzo di merda” dimenticando che quel signore è stato a lungo un suo collega ed il presidente dell’ Associazione Nazionale Magistrati, sino a quando a tutti conveniva.
Gli obiettivi della riforma Cartabia, al di là della volontà di limitare il precedente strapotere delle correnti interne alla magistratura, vogliono incentivare il radicamento territoriale dei candidati, e debellare eventuali maggioranze precostituite e “blindate”, consentendo la possibilità di candidature indipendenti. Il risultato dello scrutinio che comincerà domani pomeriggio dirà se sono stati raggiunti.
Molti prevedono che Unicost la corrente di “sistema” che ha sempre ondeggiato tra chiaro e scuro, dovrebbe uscire fortemente ridimensionata dal voto pagando dazio elettorale per lo scandalo delle intercettazioni e delle chat del gruppo Palamara, che hanno portato a non poche scissioni e guerre interne alla magistratura.
Al contrario Magistratura Indipendente pur essendone pesantemente coinvolta, ha raccolto i migliori frutti dallo scandalo. Le intercettazioni del maggio 2019 delle riunioni notturne all’hotel Champagne di Roma, avevano dimostrato che la corrente era ancora indirizzata e pilotata dal loro leader Cosimo Ferri, passato in politica prima in Forza Italia, poi sottosegretario renziano all’epoca nel Pd , ed adesso in Italia Viva che lo ha candidato in diversi collegi per il Terzo Polo . Non va dimenticato che 3 consiglieri su 5 riuniti in quell’infelice dopocena erano di Magistratura Indipendente e vennero costretti alle dimissioni dal Csm, prima di essere pesantemente condannati dalla sezione disciplinare, ed a breve la Cassazione sarà chiamato a pronunciarsi sul loro ricorso.
Ferri, nonostante sia stato sottoposto a processo disciplinare, dopo aver ripetutamente ricusato tutto il Csm, ha ottenuto dalla Camera lo scudo della inutilizzabilità delle sue intercettazioni. Una questione seria, trattandosi delle garanzie costituzionali di un parlamentare, sulla cui questione adesso dovrà pronunciarsi la Corte Costituzionale. Incredibilmente sono passati tre anni ed il processo è ancora fermo e se la Consulta gli darà ragione, verrà tutto archiviato. Contrariamente, il processo ripartirà, ma davanti al prossimo Csm, che dovrà giudicare Ferri anche per la “grave scorrettezza” contestatagli per aver portato dall’imputato Silvio Berlusconi il suo giudice naturale Amedeo Franco, pronto a rivelare con rivelazioni mai confermate, i sospetti di un complotto politico-giudiziario a monte della condanna di Silvio decadere da senatore lo aveva fatto decadere da senatore in quanto pregiudicato per frode fiscale del 2013 .
Rivelare il contenuto di una camera di consiglio come ben noto è un reato, ma il giudice Franco nel frattempo è deceduto. Ferri che non è mai stato indagato penalmente, ha sempre dichiarato di non aver pressato o istigato né di aver conosciuto il contenuto delle confidenze che Franco intendeva fare a Berlusconi. La Procura generale della Cassazione ha avviato nei suoi confronti l’azione disciplinare, uno degli ultimi processi promossi dal procuratore Giovanni Salvi prima di andare in pensione, il quale nelle settimane successive è stato oggetto di forti polemiche per le sue scelte in materia disciplinare, che hanno portato anche a un’ostile interrogazione parlamentare alla ministra Cartabia, da parte di Italia Viva.
L’attuale leadership di Magistratura Indipendente ha annunciato di volersi “deferrizzare” e ha promosso candidature in discontinuità generando l’effetto è che accanto ai candidati ufficiali si sono proposte candidature autonome di esponenti della stessa corrente. Alcuni formalmente collegati tra loro come il giudice napoletano Giuseppe Cioffi, tempo fa sorpreso ad una convention di Forza Italia mentre ne processava un importante esponente per camorra), altri no. Alcuni notoriamente legati a Ferri da antichi vincoli professionali come ad esempio il giudice romano Leonardo Circelli, e capo della sua segreteria quando era al ministero, altri no. Tutti legati dal proposito di un «ritorno dalle origini». Che tutto questo possa rappresentare una “rifondazione ferriana” che è diventata materia di discussione di campagna elettorale.
Così come le voci su un attivismo dello stesso Ferri nella campagna elettorale, che peraltro si sovrappone alla sua. Certo tra i più ferventi sostenitori del listino di “Rifondazione” compare un ex consigliere del Csm, Luca Forteleoni, vicino a Ferri.
Tra i pm, le candidature indipendenti definite “falsamente”, dai commenti velenosi di Magistratura Indipendente, sono state quelle di Gregorio Capasso procuratore capo di Tempio Pausania , che ha condotto l’indagine per stupro nei confronti del figlio di Beppe Grillo mandandolo a processo, e del procuratore aggiunto di Latina Carlo Lasperanza, che divenne famoso 25 anni fa per il processo sull’omicidio della studentessa della Sapienza, Marta Russo.
Il confronto elettorale in generale è stato duro, con il desiderio di contarsi, conquistare almeno un paio di seggi, per farne perdere due o tre a Magistratura Indipendente, per poi dare battaglia interna al prossimo congresso. Dalla parte opposta, il cosiddetto “campo largo” progressista creatosi dopo il caso Palamara si è sfaldata diventando molto circoscritto e ristretto.
La corrente Autonomia&Indipendenza costituita da Piercamillo Davigo con il gradimento del M5S e del Fatto Quotidiano , si è disunita, perdendo al suo interno la componente meridionale e antimafia composta dai pm Roberto Ardita e Nino Di Matteo. Dopo non poche esitazioni l’unica personalità spendibile, il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, ha deciso di non candidarsi preferendo indirizzare i suoi interessi per candidarsi alla guida della Procura di Napoli. Il pensionamento di Davigo dalla magistratura, con annessi veleni e processi che lo vedono imputato a Brescia sui verbali del “faccendiere” Piero Amara sulla loggia Ungheria, ha dato il colpo di grazia. La corrente si è disunita, ed il risultato elettorale che uscità oggi in Cassazione dallo spoglio delle votazioni dirà qualcosa di più sul suo futuro.
Dall’altro lato, quello progressista, del campo largo sicuramente meglio non va, avendo vissuto il divorzio non consensuale tra le correnti sinistrorse di Area e Magistratura Democratica. Nella scorsa primavera, a maggio si era parlato di un accordo “di desistenza”, per sfruttare le pieghe del sistema elettorale: candidature condivise in Cassazione e tra i pm per non disperdere voti, corse separate tra i giudici per massimizzare i risultati. Ma non si è arrivati ad un accordo e quindi Magistratura Democratica ha lanciato candidature autonome ovunque o addirittura sostenuto altri candidati.
Quindi sono attesi dei risultati imprevedibili, per i quali non si escludono sorprese, e non si può prevedere su quale corrente inciderà di più l’inesorabile astensione. Come sempre, il voto in Cassazione assumerà un rilievo non indifferente dal forte valore e significato politico. Nel 2018 fu clamoroso ed imprevedibile il successo del gruppo guidato da Piercamillo Davigo e la clamorosa sconfitta di Area ed un ridimensionamento di Unicost.
Oggi l’esito dello spoglio delle votazioni dei magistrati è molto incerto. In pole position i candidati di Area e Magistratura Indipendente ma sono considerati forti gli outsider di “Magistratura Democratica” e di «Rifondazione MI». La presenza di molti candidati (nove in tutto) abbassa il quorum di elezione, quindi il risultato finale si giocherà su pochi voti di differenza.
Ma lo spettacolo a cui assisteremo in definitiva è solo politica giudiziaria. Addio giustizia indipendente al di sopra delle parti. Redazione CdG 1947
Elezioni Csm: la sinistra della magistratura “divisa” aiuta la destra a prevalere. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Settembre 2022.
Si è quindi concluso lo spoglio delle schede dei 4 collegi maggioritari per i 13 giudici: risultano eletti i primi due per ciascun collegio, gli altri 5 posti dei togati in rappresentanza dei giudici verranno assegnati con un meccanismo proporzionale su base nazionale. Lo spoglio proseguirà domani per il secondo collegio, che assegnerà altri due seggi.
Arriva anche in questa tornata elettorale per eleggere il nuovo plenum del Csm, la prima dopo la riforma, è arrivato un forte vento di destra , grazie anche alle divisioni a sinistra , che se fosse unita per la somma dei voti avrebbe la maggioranza. Infatti come accade anche nella politica, proprio le divisioni a sinistra a dare più forza alla destra. La riforma Cartabia aveva l’intento di allargare la partecipazione e c’è stato infatti un boom di candidati, 87 in tutto, che non ha paragoni con il passato. Colpisce anche un altro dato, quello relativo alle schede nulle o bianche, quasi 1.000.
E come in politica, anche in magistratura gli esponenti della sinistra di Magistratura Democratica, le storiche “toghe rosse” che per la prima volta dopo anni si è presentata da sola “autonomamente” da Area. Una divisione per niente consensuale, che sa più di rottura che di separazione, e che era già maturata e nota da tempo.
Alla fine a prevalere sono stati i candidati sostenuti dai gruppi maggioritari anche nell’Associazione Nazionale Magistrati e si intravede una vittoria delle “correnti” (che si spacciano per associazioni…) rispetto ai candidati autonomi e non schierati politicamente. Arrivano dalla Suprema Corte di Cassazione i magistrati di legittimità che sono i primi due consiglieri eletti palazzo dei Marescialli.
I segretari delle due correnti di sinistra della magistratura, Eugenio Albamonte di Area e Stefano Musolino di Magistratura Democratica , la pensano diversamente anche nel commentare i primi risultati disponibili . Albamonte si dichiara “soddisfatto per il risultato della Cassazione che, nonostante la scissione di Md, ci consente di riconquistare il seggio dopo quattro anni con un magistrato eccellente” aggiungendo che “è ancora presto per anticipare valutazioni generali su un’elezione i cui esiti rimangono imprevedibili”. Il segretario di Area critica, la decisione di Magistratura Democratica che ha scelto di correre da sola, come del resto aveva fatto anche in passato: “Se avesse fatto scelte diverse il risultato sarebbe più visibile. Sommando i nostri voti con i loro si capisce che è ancora presto per dire che la magistratura sterza verso destra“.
Stefano Musolino segretario di Magistratura Democratica non ha dubbi invece sulla decisione di correre separati: “Il risultato di Lello Magi dice che Md è tornata ad incuriosire la magistratura. Il risultato ci dà entusiasmo per far vivere le nostre idea e la nostra sensibilità culturale. Ottenere oltre il 10% dei voti validi, nel brevissimo tempo concesso dalla campagna elettorale feriale e quando ancora stiamo riorganizzando il gruppo, dopo il recupero di autonomia da Area, è un risultato incoraggiante”.
Il segretario di uno dei gruppi associativi confessa: “Non è superabile con nessun sistema, nemmeno con il sorteggio. Anche il quel caso individueremmo il candidato più vicino alle nostre istanze. Delle correnti si vede la parte peggiore, la struttura di potere, ma noi ci riuniamo attorno a delle idee“.
“Destra e sinistra è una narrazione sbagliata – sostiene Angelo Piraino, segretario di Magistratura
Indipendente il gruppo delle toghe moderate – quello che ci distingue è il da farsi. Noi crediamo nell’indipendenza non solo verso l’esterno ma anche all’interno, nei confronti dei capi degli uffici. E crediamo nei criteri predeterminati, con un punteggio, per assegnare gli incarichi. E sono queste le cose
che ci distinguono, non l’essere di destra o sinistra“.
Si dice moderatamente soddisfatta la presidente di Unicost, Rossella Marro che può contare allo stato su tre seggi. Autonomia e Indipendenza (che nel 2018 aveva 2 seggi) per ora senza Piercamillo Davigo resta fuori e il segretario Guido Marzella riconosce a malincuore che l’assenza ha pesato. Ma il rammarico più grande è che non solo la riforma non ha limitato il peso, ma ha accentuato quello delle correnti più grandi: “Avevamo avvertito di questo rischio forse l’obiettivo era conservare l’esistente“.
l’ex-consigliere del CSM Luca Palamara
L’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara ex membro del plenum di Palazzo dei Marescialli che è stato radiato dalla magistratura dopo lo scandalo delle correnti nel Csm, è sicuro che Magistratura indipendente, con un orientamento di destra, esca “molto rafforzata dalla votazione in Cassazione e dai primi esiti parziali dei giudici di merito”. Ciò determina “un significativo spostamento a destra” e la “divisione interna alla corrente di Area con orientamento di sinistra marca ancor di più questo aspetto”. “È chiaro a tutti”, aggiunge l’ex magistrato, “che la riforma, limitandosi ad ampliare il numero di collegi, non avrebbe potuto risolvere i problemi legati alla correntocrazia come invece sarebbe potuto accadere con il sorteggio temperato”. Cioè con un altro tipo di sistema elettorale.
Oggi il conteggio dei voti è già ripreso con i 13 giudici in Cassazione, che ha allestito un ufficio ad hoc a piazza Cavour dove lo spoglio è stato seguito in presenza per i giornalisti accreditati e presenti.
Lo spoglio relativo al primo collegio per le elezioni dei nuovi togati al Csm in rappresentanza dei giudici del merito, si è concluso in Cassazione . Le più’ votate sono risultate Maria Luisa Mazzola, giudice a Bergamo, candidata con Magistratura Indipendente che ha ottenuto 558 preferenze, e Mariafrancesca Abenavoli, giudice a Torino, candidata con Area che ha raccolto 182 preferenze. In tutto sono 13 i togati che devono essere eletti in rappresentanza dei giudici: si attende ora lo scrutinio relativo agli altri 3 collegi per questa categoria.
Anche nel secondo collegio giudici lo spoglio effettuato in Cassazione ha visto affermarsi i candidati delle due correnti di Magistratura Indipendente ed Area. Sono risultati infatti più votati Bernadette Nicotra di Magistratura Indipendente con 636 voti, e Marcello Basilico, di Area, con 352 voti.
Al termine dello spoglio delle schede per il terzo collegio relativo ai rappresentanti dei giudici del merito nel nuovo Csm il più’ votato è stato ancora un candidato di Magistratura Indipendente, Edoardo Cilenti consigliere della sezione lavoro della Corte d’appello di Napoli (che in passato è stato anche segretario dell’Anm), il quale ha ottenuto 430 voti. Seguito da Roberto D’Auria, giudice del Tribunale di Napoli e candidato per Unicost, con 357 preferenze.
Nello scrutinio per il quarto collegio dei giudici di merito per l’elezione dei togati nel nuovo Csm i più votati, in questo collegio, sono stati Genantonio Chiarelli, originario di Martina Franca (Taranto), attualmente giudice del Tribunale di Brindisi e candidato di Area che ha ricevuto 324 voti ed Antonino Lagana’, consigliere alla Corte d’appello di Reggio Calabria e candidato di Unicost, al quale sono andate 244 preferenze.
Si è quindi concluso lo spoglio delle schede dei 4 collegi maggioritari per i 13 giudici: risultano eletti i primi due per ciascun collegio, gli altri 5 posti dei togati in rappresentanza dei giudici verranno assegnati con un meccanismo proporzionale su base nazionale. I risultati dello spoglio per i magistrati giudicanti di merito consegnano 4 eletti a Magistratura dipendente, la corrente dei conservatori che prende 2115 voti, e altri 4 ad Area, la componente considerata più “sinistrorsa” tra le toghe, seconda a quota 1319. 3 seggi vanno ad Unicost, la corrente moderata che si ferma a 1193, 1 a Magistratura Democratica, la storica sigla di sinistra che a differenza di quanto avvenuto negli ultimi anni ha scelto di correre separata da Area e ha preso 879 voti.
Per la categoria dei pubblici ministeri i primi due eletti del primo dei due collegi previsti per i
magistrati requirenti al Consiglio superiore della magistratura sono Eligio Paolini, sostituto procuratore a Firenze, di Magistratura indipendente che ha ricevuto 986 voti e Roberto Fontana, pm a Milano, candidato indipendente, che ha ottenuto 675 voti . Lo spoglio proseguirà domani per il secondo collegio, che assegnerà altri due seggi.
La commissione elettorale centrale procederà quindi all’assegnazione dei 5 posti rimanenti per i giudici di merito, con un meccanismo proporzionale su base nazionale, e del quinto pm attraverso il ripescaggio del miglior terzo. E così sarà completo il gruppo dei 20 togati al Csm per la prossima consiliatura.
Redazione CdG 1947
Elezioni CSM. Tutti gli eletti (ed i ripescati): ecco come sarà composto il prossimo plenum “togato”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere Del Giorno il 23 Settembre 2022
Un dato incredibile nel secondo collegio dei pm, è stato il numero di schede bianche, 461 e quelle delle schede annullate 104, per un totale di 565 magistrati che hanno così voluto manifestare il proprio disagio e la voglia di contestare e rompere con le logiche correntizie.
Come raccontavamo ieri si è svolto questa mattina lo spoglio per il secondo collegio dei pm, terminato alle h. 11:24 che ha assegnato altri due seggi, che ha visto smentite le previsioni dei soliti giornali “vicini” alla sinistra giudiziarie, che davano per scontata l’elezione dell’attuale procuratore aggiunto di Taranto, Maurizio Carbone esponente di Area nel prossimo plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, che invece è stato il “grande bocciato” riuscendo ad entrare solo come primo dei non eletti. Primo degli eletti nel secondo collegio è stato il pm Marco Bisogni della corrente di Unicost, attualmente in servizio presso la DDA di Catania che ha ricevuto 974 preferenze, seguito dal pm antimafia di Palermo Dario Scaletta, esponente di Magistratura Indipendente, suffragato da 729 preferenze.
Soltanto terzo e primo dei non eletti Maurizio Carbone procuratore aggiunto di Taranto , ex segretario dell’ Anm (presidenza Sabelli), una carriera prevalentemente spesa nell’attivismo correntizio, candidatosi nelle liste di Area, il quale ricevendo 686 preferenze ha prevalso per 65 voti sul collega (e compagno anche di corrente) Mario Palazzi pm della Procura di Roma che ha ricevuto 621 voti , ed è quindi entrato dalla porta di servizio del Csm come primo dei terzi non eletti. Non a caso infatti lo stesso Carbone, si era candidato oltre che al Csm, anche per la guida della procura di Matera.
Un dato incredibile nel secondo collegio dei pm, è stato il numero di schede bianche, 461 e quelle delle schede annullate 104, per un totale di 565 magistrati che hanno così voluto manifestare il proprio disagio e la voglia di contestare e rompere con le logiche correntizie !
La commissione elettorale centrale procederà quindi all’assegnazione dei 5 posti rimanenti per i giudici di merito, con un meccanismo proporzionale su base nazionale, e del quinto pm attraverso il ripescaggio del miglior terzo. Al momento i cinque giudici di merito eletti sono Tullio Morello, giudice a Napoli (Area) artefice dell’esternazione “Palamara è un pezzo di merda…“, Domenica Miele giudice a Napoli (Magistratura Democratica), Maria Vittoria Marchiarò giudice a Crotone (Magistratura Indipendente), Michele Forziati giudice a Roma (Unicost) ed Andrea Mirenda giudice di sorveglianza a Verona (un ex esponente di MD) candidatosi come “indipendente” con Altra proposta, il quale per una strana coincidenza è stato sorteggiato per correre proprio grazie al meccanismo previsto dalla riforma Cartabia per assicurare la parità di genere.
Nei collegi binominali, che eleggevano 8 giudici, sono stati eletti Francesca Abenavoli (giudice del tribunale di Torino), Marcello Basilico (presidente della sezione lavoro al Tribunale di Genova), Genantonio Chiarelli (giudice del tribunale di Brindisi) di Area, Edoardo Cilenti (giudice presso la Corte d’Appello di Napoli) di Magistratura indipendente, Roberto D’Auria (giudice al Tribunale di Napoli) ed Antonino Laganà (giudice in corte d’Appello a Reggio Calabria) entrambi di Unicost, Maria Luisa Mazzola (gip/gup a Bergamo), Bernadette Nicotra (giudice al tribunale di Roma).
Nel parlamento dei togati del nuovo plenum del Csm, la sinistra perde eleggendo solo 6 consiglieri di Area e 2 di Magistratura Democratica per un totale di 8, mentre Magistratura Indipendente elegge 7 consiglieri ed Unicost ne elegge 4 per un totale di 11, oltre ad un indipendente per un totale di 20 consiglieri togati. Ora bisognerà solo aspettare la comunicazione ufficiale dell’ ufficio centrale della Cassazione al Csm che pubblicherà la comunicazione ufficiale. E dopodichè la “palla” passerà alle nuove camere parlamentari che dovranno eleggere i componenti “laici” del Csm, che passano da 8 a 10.
Grandi sconfitti i due “vecchi” (si fa per dire) Piercamillo Davigo e Cosimo Maria Ferri, che non hanno eletto nessun candidato a loro vicino .
Questi i risultati ufficiali pervenuti al Csm
COMPONENTI TOGATI ELETTI
COLLEGIO NAZIONALE
D’OVIDIO Paola COSENTINO Antonello
COLLEGIO 1 PM
PAOLINI Eligio FONTANA Roberto
COLLEGIO 2 PM
BISOGNI Marco SCALETTA Dario ULTERIORE PM ELETTO CARBONE Maurizio
COLLEGIO 1 GIUDICANTI
MAZZOLA Maria Luisa ABENAVOLI Maria Francesca
COLLEGIO 2 GIUDICANTI
NICOTRA Bernadette BASILICO Marcello
COLLEGIO 3 GIUDICANTI
CILENTI Edoardo D’AURIA Roberto
COLLEGIO 4 GIUDICANTI
CHIARELLI Genantonio LAGANA’ Antonio
COLLEGIO UNICO NAZIONALE DI MERITO
MARCHIANO’ Maria Vittoria
FORZIATI Michele
MORELLO Tullio
MIRENDA Andrea
MIELE Domenica
P.S. Permetteteci di ringraziare gli uffici stampa della Corte di Cassazione e del Consiglio Superiore della Magistratura per la preziosa collaborazione prestata per fornire ai lettori un’informazione completa ed autorevole
Redazione CdG 1947
Giacomo Amadori per “la Verità” il 22 settembre 2022.
Alla fine nelle elezioni per la composizione del nuovo Consiglio superiore della magistratura hanno vinto le correnti, con in prima fila quella conservatrice di Magistratura indipendente. Correnti che si sono dimostrate più forti che mai e capaci di sbaragliare il tentativo velleitario di concorrere in autonomia dei numerosi indipendenti. Lo spoglio per i due magistrati con funzioni di legittimità (ovvero di ruolo in Cassazione) ha detto questo, lasciando interdetto chi dopo il terremoto conseguente all'incontro dell'hotel Champagne aveva sognato un cambiamento radicale.
Deluse anche le toghe rosse che si erano augurate la sparizione dei moderati, visto che la riunione nell'albergo romano per discutere di nomine aveva costretto alle dimissioni tre consiglieri di Mi e due di Unicost, tutti presenti all'incontro insieme con Luca Palamara e Cosimo Ferri.
All'epoca quel dopocena venne cavalcato dalla sinistra giudiziaria, convinta di conquistare la maggioranza in Consiglio da lì a chissà quanti anni. Un'operazione che venne benedetta dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che decise di non sciogliere il parlamentino dei giudici come se la cacciata di cinque consiglieri d'area di centro-destra, bollati come poche mele marce, avesse guarito con un colpo di bacchetta magica la cancrena del sistema correntizio.
In questo scrutinio (mancano i risultati delle toghe con funzioni giudicanti e requirenti) per la Cassazione la candidata di Mi, Paola D'Ovidio, ha ottenuto 1860 preferenze (più della collega Loredana Micciché nel 2018) mentre il candidato di Area Dg, Antonello Cosentino, secondo classificato, ha ottenuto 1226 preferenze. Entrambi i candidati sono entrati a Palazzo dei marescialli. Quello della Cassazione è un collegio unico nazionale e quindi i suoi risultati rappresentano meglio delle altre votazioni il peso delle correnti.
E le elezioni generali del Csm del 18 e del 19 settembre hanno confermato la tendenza degli ultimi anni con Mi davanti ad Area Dg. Le elezioni di mid term del resto avevano già delineato questo trend dei magistrati italiani che avevano tributato ampi consensi a Mi facendo eleggere due suoi iscritti: Antonio D'Amato e Tiziana Balduini.
Anche tenendo conto delle scissioni interne il risultato non cambia. Magistratura democratica, il gruppo più a sinistra, che alle precedenti elezioni del 2018 era una costola di Area, con il candidato Raffaello Magi si è, infatti, fermata a 696 voti. Sommando questi voti a quelli di Area si sopravanza di poco quelli ottenuti da Mi che, però, a sua volta, ha subito una spaccatura con la candidatura autonoma di un proprio esponente storico, il consigliere Stefano Guizzi. Quest' ultimo ha racimolato 244 voti che aggiunti a quelli della D'Ovidio superano quelli ottenuti dalla sinistra giudiziaria nel suo insieme.
Il risultato di Area ha comunque retto grazie all'apparente travaso di suffragi degli ex elettori di Autonomia & indipendenza che nel 2018 avevano proiettato Pier Camillo Davigo dentro al Csm sulla scorta di un risultato trionfale, 2522 voti, ben 800 in più della seconda classificata, la Micciché. Sabato e lunedì A&i è letteralmente sparita dai radar dopo essersi proposta come antidoto alle vecchie correnti.
Infine i centristi di Unicost, un tempo guidati da Palamara, sono passati dalle 1714 preferenze di Carmelo Celentano alle 816 di Milena Falaschi. Ottimo risultato per Stanislao De Matteis (780 voti) che si è presentato come indipendente, ma che, in realtà, sembra sia stato sostenuto soprattutto dagli iscritti siciliani e napoletani di Unicost.
De Matteis, nella presentazione della sua candidatura, aveva avuto il coraggio di svelare il segreto di Pulcinella, ovvero che la vicenda dello Champagne non ha scalfito il sistema: «La vicenda emersa è solo la punta di un iceberg di un'attività di spartizione correntizia. A mio avviso il Csm andava sciolto […] infatti non ha abbandonato le logiche che hanno condotto la magistratura al punto più basso; basta guardare all'attività della V commissione per capire come le correnti abbiano continuato a riproporre il solito schema: ogni gruppo si contraddistingue solo per proporre per il posto direttivo o semidirettivo l'appartenente alla propria fazione».
In conclusione la gestione portata avanti dalla sinistra giudiziaria principalmente attraverso le famose circolari dell'ex procuratore generale Giovanni Salvi (che si sono tradotte in una sorta di condono tombale per auto ed eteropromozioni dei magistrati per le nomine) ha avuto come unico effetto quello di polarizzare la contesa elettorale: destra contro sinistra. Quasi spariti tutti gli altri. I tre indipendenti capitanati da Giacomo Rocchi (sostenuto dal cosiddetto gruppo Articolo101) hanno totalizzato 1333 voti su 7911 schede totali (circa il 17 per cento del totale). Unico indizio della disaffezione di alcuni magistrati per questa competizione il gran numero di schede bianche, circa il 10 per cento.
Attenti al partito dei pm. Riformare lo Stato è impossibile, da 30 anni i siluri dei Pm sulla politica. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Settembre 2022
Se il prossimo Parlamento e la maggioranza che governerà il Paese dopo le elezioni pensano a una riforma costituzionale, specie se radicale come l’introduzione del presidenzialismo, facciano attenzione al partito dei pubblici ministeri. Non tanto se pensano di ricorrere a un’assemblea costituente, come ha proposto l’ex pm Carlo Nordio e come ha sempre e invano sollecitato nel passato il presidente Francesco Cossiga. Ma se hanno in mente una Commissione Bicamerale.
Perché in questo caso bisognerebbe non aver più paura dei pubblici ministeri, e per la politica non è facile, neppure nel momento in cui il gradimento dei cittadini nei confronti dell’amministrazione della giustizia è sotto lo zero. Certo, la storia delle Bicamerali e delle loro tristi fini non conforta. Il paradosso è che pare quasi irrilevante quel che di volta in volta le commissioni hanno proposto al Parlamento. Tanto che si ha poca memoria delle modifiche di 44 articoli della Costituzione proposte dai quaranta membri della prima Bicamerale, presieduta dal liberale Aldo Bozzi nel 1983. Perché quel che successe dopo, negli anni novanta, coincide con i giorni in cui il partito dei pm conquistò la propria Bastiglia. E allora cambiò tutto.
La seconda Commissione Bicamerale per la riforma della Costituzione era presieduta da un democristiano tosto, Ciriaco De Mita, uno che non abbandonerà più la politica fino ai suoi ultimi giorni, a 94 anni ancora sindaco della sua cittadina, Nusco. Siamo nel 1992, e non occorre aggiungere altro, per ricordare quel che stava succedendo al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano, e a cascata nelle procure di tutta Italia. I “dipietrini” crescevano come i funghi dopo la pioggia e i principali partiti di governo erano già in rotta. La Bicamerale lavorava con i suoi sessanta membri. Arriverà a 60 sedute complessive e proporrà, alla fine, la modifica di 22 articoli della Costituzione. Ma a lavoro terminato la presidente si chiamerà Nilde Iotti. Che cosa era successo? Il primo tempo ha l’immagine delle manette, quelle con cui fu portato in carcere Michele, fratello del più noto Ciriaco, arrestato all’interno di un’inchiesta sulla ricostruzione post-terremoto in Irpinia. Ordinaria amministrazione, di quei tempi. Così come repentine furono le dimissioni di De Mita dalla presidenza della Bicamerale. Andava così, allora.
È istruttivo, oggi, a trent’anni da quei fatti, rileggere i verbali stenografici delle sedute della commissione, dopo quelle dimissioni e dopo che Mino Martinazzoli, segretario della Dc, propose che venissero respinte. L’ipocrisia si tagliava col coltello, in quella seduta del 3 marzo 1993. Tutti virtuosamente a dichiarare che se i figli non devono pagare le colpe dei padri, figuriamoci quelle dei fratelli. Però una vera difesa dell’innocentissimo Ciriaco che non era Michele, non ci fu, anche se alla fine le dimissioni furono respinte con grande maggioranza. Ma con l’assenza di Occhetto, La Malfa, Bossi, Segni, Pannella, Craxi. Cioè i principali leader. Ma il colpo di scena arriva alle otto di sera quando, con una telefonata al vicepresidente Augusto Barbera, De Mita confermerà le proprie dimissioni. “Irrevocabili”. Da quel momento su quella commissione che avrebbe dovuto traghettare verso la seconda repubblica, calerà un silenzio tombale.
Che cosa era successo in realtà in quei giorni lo racconterà De Mita stesso quattro anni dopo, rivelando di aver ricevuto un fax con le firme dei componenti il pool di Milano in cui il presidente veniva diffidato dal procedere alla separazione delle carriere dei magistrati, che in quei giorni si stava discutendo e che poi sparì dall’ordine del giorno insieme al presidente della commissione. Ricapitolando, dunque. Fase uno, arresto del fratello. Fase due, minaccia sulle riforme. Se non è ancora chiara la pericolosità delle Commissioni Bicamerali per la riforma della Costituzione, sarà bene ripassare il capitolo di quella che, pochi anni dopo, nel 1997 sarà presieduta da Massimo D’Alema. Provvederà il pubblico ministero del pool milanese Gherardo Colombo, con un’intervista al Corriere della sera, nella domenica 22 febbraio 1998, a lanciare il suo petardo: “Le riforme ispirate dalla società del ricatto”. La conclusione fu lapidaria: “La nuova Costituzione può avere come fondamento quel ricatto”.
Le inchieste di Mani Pulite erano teoricamente ormai alle spalle con la loro scia di suicidi. C’era il governo Prodi e il Pci-Pds era stato miracolato dalle procure. Ma penserà quell’intervista a ricordare “noi abbiamo appena inciso la superficie della crosta”, e che “La società del ricatto trova la sua forza, appunto, su ciò che non è stato scoperto”. Così finì che, dopo un iniziale sostegno anche da parte della stampa al guardasigilli Flick che iniziava l’azione disciplinare contro Colombo, alla fine sarà proprio il ministro la vittima sacrificale, il quinto su iniziativa degli uomini di Borrelli. E anche la terza Bicamerale perì, poco dopo. Attenzione, dunque. Non sarà un caso se da quel giorno di Bicamerali per la riforma costituzionale non si parlerà più fino ai giorni nostri.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Storie d’insostenibile illegalità nella Magistratura: il procuratore può legittimamente favorire la nomina di un presidente del tribunale di Crotone.
Sembra quasi che per il Csm la reputazione del giudice e l’indignazione dei cittadini siano perimetrati da insuperabili confini regionali. Rosario Russo su Il Dubbio il 7 settembre 2022.
Anno domini 2017, 24 novembre. Il dott. Alberto Liguori, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Terni, rappresentava, con numerose chat, al dott. L. Palamara, allora influente componente del Consiglio Superiore della Magistratura, la ferma “opposizione” alla nomina del dott. Salvatore Carpino quale Presidente di sezione del Tribunale di Cosenza, preferito dalla competente Commissione del C. S. M. alla dott. sa Paola Lucente. In vista della decisione plenaria del Consiglio, il dott. Liguori protestava con il dott. Palamara intimandogli “così non va” e sottolineando che la sconfitta della dott. ssa Lucente (silente in tutte le chat) avrebbe comportato, per la loro corrente associativa (Unicost), una perdita di almeno 25 voti su 39 nel circondario di Cosenza. Inoltre coinvolgeva altri consiglieri del C. S. M. ( «Esigo, con te me lo posso permettere, Fanfani e la Balducci» ), quasi che avesse il potere di orientare anche i loro voti. Il dott. Liguori non mancava di indirizzare il proprio saluto a Renzi («Così mi piaci, salutami Renzi»).
La disputa si concludeva con una illecita mediazione. Infatti, il dott. Palamara proponeva al dott. Liguori un “accordo” con altra corrente dell’A. N. M., per cui, salva la nomina del dott. Carpino, la dott. ssa Lucente sarebbe stata poi proposta – con garantito successo – ad altro posto vacante di Presidente di sezione del Tribunale di Cosenza. E proprio così è in concreto avvenuto, con il “consenso” del dott. Liguori. Le chat in questione sono interamente leggibili anche sulla testata La Verità e su altri siti.
Di questa vicenda si occupava la Prima Commissione del C. S. M. per accertare se per «qualsiasi causa indipendente da sua colpa» il dott. Liguori non potesse, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità (art. 2 del Regio Decreto Legislativo 31 maggio 1946, n. 511). Si rileva subito che, essendo in ipotesi ravvisabile a colpo d’occhio (non la colpa, ma) il dolo dell’agente, restava precluso il procedimento amministrativo ex art. 2 citato. Comunque, chiamato a discolparsi davanti alla predetta Commissione, il dott. Liguori si difendeva assumendo che il pregresso servizio svolto per tanti anni in Calabria gli consentiva di conoscere personalmente i colleghi aspiranti al posto conteso; e quindi di essere consapevole del fatto che il profilo professionale del dott. Carpino era manchevole di un indicatore richiesto dal Testo unico sulla Dirigenza Giudiziaria. Dunque soltanto per tale ragione, squisitamente tecnica, egli si era indotto a “sollecitare” il dott. Palamara perché invitasse gli altri consiglieri a un ripensamento in Plenum a favore della dott. sa Lucente.
In 13 gennaio 2021 il Plenum del C. S. M. ha approvato, con un emendamento, la proposta di archiviazione della Prima Commissione, motivando infine che: «La propalazione di conversazioni provenienti da un magistrato che lavora in Umbria sulle proposte di nomina di un posto semi-direttivo in Calabria non appare determinare, anche in astratto, un appannamento al corretto esercizio della funzione di Procuratore della Repubblica di Terni. Ferma la rilevanza deontologica della condotta del dott. Liguori e impregiudicata ogni altra valutazione possibile in altre sedi consiliari, per quanto di competenza della Prima commissione essa non appare incidere in alcun modo sull’ufficio che dirige, non potendosi ritenere che tali conversazioni manifestino la velleità di stabilirne l’assetto, scegliendosi i colleghi a lui graditi, o di uffici con i quali si relaziona e, più in generale neppure attiene all’esercizio delle funzioni ricoperte. L’interessamento posto in essere per l’incarico semi-direttivo, d’altro canto, non è risultato in alcun modo legato ad aspirazioni professionali o a interessi privati del dott. Liguori, il quale non opera più nel territorio calabrese da oltre dieci anni e non ha presentato domande per posti direttivi in tale Regione».
La delibera di archiviazione, consultabile sul sito ufficiale del C. S. M., è stata approvata con 21 voti favorevoli (Ardita, Basile, Benedetti, Braggion, Cascini, Celentano, Chinaglia, Ciambellini, Curzio, D’Amato, Dal Moro, Di Matteo, Donati, Gigliotti, Grillo, Lanzi, Marra, Miccichè, Pepe, Suriano, Zaccaro) e 2 astensioni (Cavanna, Salvi), assente il cons. Cerabona. La discussione è stata trasmessa in diretta da Radio Radicale, nel cui sito è ancora udibile. In realtà, senza alcuna concreta motivazione, il Plenum conferisce rilievo liberatorio al fatto – meramente geografico – che, mentre la “raccomandazione” del dott. Liguori aveva per oggetto la copertura di un ufficio ubicato in Calabria, egli esercitava le proprie funzioni in Umbria, quasi che, secondo il C. S. M., la reputazione dei giudici e l’indignazione dei cittadini siano perimetrati da insuperabili confini regionali. Inoltre, per “assolvere” il dott. Liguori, il C. S. M. nega che egli avesse:
a) la velleità di stabilirne l’assetto personale dell’ufficio da lui diretto (la Procura di Terni)
ovvero b) di coltivare ambizioni carrieristiche in terra calabra. Ma si tratta di un duplice «argomento fantoccio» (tipica fallacia logica), perché il dato fattuale non consente minimamente d’ipotizzare tanto a) quanto b)!
È di tutta evidenza, piuttosto che, in primo luogo, il dott. Liguori, soltanto per tutelare e rafforzare comuni interessi elettorali di corrente (Unicost), ha favorito, con la servile complicità del dott. Palamara, la nomina da parte del Plenum della dott. ssa Lucente in danno del dott. Carpino ( già prescelto dalla competente Commissione), così infrangendo le norme che regolano il procedimento concorsuale a tutela dei candidati più meritevoli. Fallito tale tentativo, persistendo nel proprio disegno, il dott. Liguori ha ottenuto altresì che fosse “prenotata” e “riservata” alla dott. ssa Lucente la nomina ad un successivo posto vacante dell’ufficio ambito, con possibile pregiudizio di altri candidati più meritevoli. Tutto qui. Ma non è poco.
Ben vero, astrattamente una condotta come quella vagliata dal C. S. M. potrebbe integrare, innanzi tutto, la fattispecie penale di concorso in abuso d’ufficio, tentato e/ o consumato, ex artt. 110 e 323, 2° c. p., impossibile essendo immaginare una più devastante violazione dei limiti esterni della discrezionalità amministrativa (proprio, in questo senso, Cass. Pen. sent. n. 442 del 2021, pag. 5). Con la duplice conseguenza che: 1) acquisite le chat di Palamara, la Procura competente avrebbe dovuto esperire l’azione penale; 2) i componenti del C. S. M. avrebbero dovuto farne denuncia all’autorità penale competente ( artt. 331 c. p. p. e 361 c. p.).
La stessa condotta, in quanto reiterata e gravissima, astrattamente può rilevare anche come dolosa violazione disciplinare ( art. 2, 1° lett. d del D. lgs. n. 109 del 2006), sicché il P. G. presso la Suprema Corte (cui le chat sono state subito trasmesse) avrebbe dovuto esperire l’azione disciplinare, che preclude il procedimento ex art. 2 sopra citato caratterizzato da una condotta incolpevole. Forse è il caso di rilevare anche il duplice errore del C. S. M. Innanzitutto per avere avviato il meno grave procedimento d’incompatibilità incolpevole, pur in presenza di una così evidente fattispecie di dolosa violazione disciplinare, che (escludendo a priori l’incolpevole incompatibilità locale o funzionale) reclamava da subito soltanto l’attenzione del P. G. o del ministro della Giustizia (nonché della Procura competente in sede penale).
In secondo luogo, e comunque, non si ha notizia che il C. S. M. abbia provveduto a trasmettere, dopo l’archiviazione, gli atti ai titolari dell’azione disciplinare ( come espressamente imposto dalla circolare deliberata dal C. S. M. il 26 luglio 2017). Né emerge dagli atti che il P. G., dottor Giovanni Salvi, partecipando alla votazione come membro di diritto del C. S. M., abbia chiesto la trasmissione degli atti al proprio ufficio.
Per altro, trascorso un anno da quando (13 gennaio 2021) ha avuto circostanziata notizia della condotta sopra descritta, l’attuale P. G. neppure potrà agire in via disciplinare ( art. 15, 1° D. lgs. n. 109 del 2006). Infine, la vestitissima “raccomandazione” in questione rappresenta probabilmente grave violazione del codice etico dei magistrati, vincolante anche per coloro che non siano soci dell’A. N. M.; ma non risulta che il suo Collegio dei Probiviri si sia attivato per l’irrogazione della sanzione statutaria.
In definitiva, la condotta vagliata dal C. S. M. non ha provocato alcuna sanzione, lasciando indifesi tutti i magistrati meritevoli ma “pregiudicati” dalle c. d. “raccomandazioni” (i dottori “Nessuno”), mentre per analoghe condotte spartitorie i professori universitari sono penalmente perseguiti proprio dai magistrati.
L’Utente finale della Giustizia trema al pensiero che questa vicenda sia stata considerata «caso- pilota» dallo stesso Consiglio Superiore della Magistratura. Altro che «caso- pilota» ! Vengono alla mente i versi danteschi: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta…». (*Già sostituto procuratore generale presso la Suprema Corte)
Elezioni al Csm. “Serve un Csm nuovo, basta con le carriere decise solo dalle Lobby”, intervista al giudice Pupo. Viviana Lanza su Il Riformista il 31 Agosto 2022
«Le gravi difficoltà in cui versa la magistratura italiana sono sotto gli occhi di tutti. È indispensabile pertanto che le correnti ritornino ad essere solo espressione di diversità culturali tra i magistrati e non veri e propri centri di potere». Ne è convinta Maria Rosaria Pupo, attuale consigliere dell’ottava sezione civile della Corte d’Appello di Napoli, in passato pm a Sant’Angelo dei Lombardi, prima gip e poi giudice civile a Santa Maria Capua Vetere. È tra i candidati indipendenti al Csm scelti con il meccanismo del sorteggio dal Comitato Altra Proposta.
«Grazie ad un’esperienza così variegata ho potuto maturare una visione complessiva della giurisdizione e dell’ordine giudiziario. Al referendum indetto dall’Anm nella prospettiva della riforma del Csm, ho votato a favore del sistema del sorteggio “temperato” perché sono fermamente convinta che, allo stato, onde ridurre il potere delle correnti (ormai vere e proprie lobby) occorre da un lato consentire a tutti i magistrati di essere candidati (ponendo fine alle nomine correntizie) e dall’altro garantire agli elettori la possibilità di scegliere i candidati con cui hanno comunanza d’idee, di prospettive e di valori». Già, le lobby.
«Nel corso della mia carriera, con grande rammarico, ho assistito impotente allo scemare inesorabile del prestigio della magistratura, all’esaltazione del carrierismo a tutti i costi, favorito dal peso sempre più crescente ed ormai soffocante delle correnti – racconta il giudice Pupo – . Ho visto colleghi bravissimi e stimatissimi surclassati da altri che, ai vari concorsi per incarichi direttivi o semidirettivi avevano come unico titolo preferenziale l’appartenenza alla corrente più forte in quel momento. Ho raccolto la delusione ed il disincanto di colleghi che hanno rinunciato a partecipare al concorso per Presidente o Procuratore, pur di non perdere la propria dignità “questuando” al potente di turno. Ho spesso subito l’ostracismo ed il mobbing solo perché non ero né iscritta né simpatizzavo per la potente corrente di turno. Ma non per questo mi sono arresa. Non ho ceduto a ricatti, dispetti, ritorsioni, né ho lasciato correre, denunciando tutto alla Procura Generale presso la Cassazione ed al Csm e pagandone in prima persona le conseguenze».
Di qui la scelta di accettare la candidatura. «Sono consapevole di partecipare ad un’avventura difficilissima, ma non impossibile, perché la Giustizia è sempre stata uno dei capisaldi del mio credere civile e la speranza che ripongo in una sua rinascita è grande e dura a morire. Il caso Palamara, non ha sconfitto le logiche correntizie che anzi, a mio parere, sono andate consolidandosi sotto forme nuove e “più accorte”». «In questi ultimi anni abbiamo assistito a una deriva clientelare ed autoreferenziale della magistratura generata dalla riforma Mastella/Castelli la quale, ai fini della valutazione dei magistrati per il conferimento degli incarichi direttivi, semidirettivi e di legittimità, ha sostituito il criterio oggettivo dell’anzianità, con quelli “soggettivi” delle specifiche attitudini e del merito. A ben vedere, si tratta di scatole terminologiche vuote, idonee ad essere riempite di qualunque significato a secondo della convenienza. Si è così pervenuti alle “disgraziate” nomine a “pacchetto”, adottate dal Csm all’unanimità (si badi bene) per rispondere a logiche puramente spartitorie».
«Il “carrierismo” – aggiunge – ha infettato la magistratura producendo gli effetti nefasti che ormai a tutti noti. L’incarico al Csm spesso non è altro che il coronamento di una carriera politica iniziata con i Consigli giudiziari, proseguita con gli incarichi extragiudiziari o con le varie deleghe dei capi degli uffici (che in tal modo costruiscono “la carriera” del magistrato appartenente alla loro corrente, assegnandogli quelle che sono definite in gergo “medagliette”, utili ai fini della valutazione delle attitudini specifiche)». Per il giudice Pupo occorre puntare su criteri come l’anzianità, «criterio mai dismesso dalla giustizia amministrativa che infatti non ha vissuto gli scandali che hanno afflitto quella ordinaria». Posto, poi, che la soluzione dei problemi che attanagliano la magistratura passa anche attraverso la razionale distribuzione delle risorse tra Tribunali e Procure, uno dei punti programmatici riguarda gli incarichi extragiudiziari.
«Sottraggono capacità lavorativa ai Tribunali e alle Corti e creano, col sistema attuale del merito e delle specifiche attitudini (interpretati ad arte dalle correnti) corsie preferenziali per avanzamenti di carriera. Vanno drasticamente ridotti disponendo, quale criterio di legittimazione per partecipare a concorsi per posti direttivi, semidirettivi o di legittimità, che al termine dell’incarico extragiudiziario il magistrato debba necessariamente tornare ad esercitare, per un determinato periodo di tempo, le medesime funzioni giurisdizionali svolte in precedenza, onde evitare che detti incarichi costituiscano, come lo sono attualmente, trampolini di lancio per raggiungere in brevissimo tempo le più alte vette della carriera in magistratura».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Parla il senatore di Italia Viva. “Riformare il Csm, inaccettabile che le carriere dei magistrati sia determinata dalle correnti”, intervista a Bonifazi. Paolo Comi su Il Riformista il 31 Agosto 2022
“Non è accettabile che la carriera di un magistrato non sia determinata dal merito, ma dall’iscrizione a una corrente. E non è pensabile che la magistratura agisca guidata dalle convinzioni politiche e non dal diritto”, afferma il senatore di Italia viva Francesco Bonifazi.
Senatore, il ‘Palamaragate’ prima e poi gli impegni presi con Bruxelles per il Pnrr hanno rappresentato una occasione irripetibile per riformare la giustizia. È soddisfatto del risultato ottenuto o pensa si potesse fare di più?
No non sono soddisfatto. La riforma Cartabia è l’unica riforma del governo Draghi su cui ci siamo astenuti. La cosa sorprendente è che in un qualunque Paese democratico che si rispetti, di fronte allo scandalo esploso a seguito del ‘Palamaragate’, ci sarebbe stata una reazione fortissima della politica per fare una vera riforma di sistema: invece è stato approvato un pannicello caldo. La riforma Cartabia ha avuto il solo grande merito di superare l’orrore giuridico della riforma Bonafede, senza però toccare le correnti all’interno del Csm.
Cosa fare allora?
In Aula noi di Italia viva abbiamo condotto una dura battaglia perché si arrivasse al sorteggio dei componenti del Csm: l’unica strada per disarticolare il sistema correntizio.
La magistratura associata ritiene che i problemi di organici negli uffici giudiziari dipenda anche dalla decisione, presa all’epoca dal suo governo, di abbassare drasticamente da 75 a 70 l’età pensionabile delle toghe. Che risponde?
La decisione del governo Renzi fu e resta sacrosanta. Non si risolvono i problemi di organico allungando l’età pensionabile, ma implementandolo con magistrati giovani e appassionati, magari anche limitando il numero spropositato di magistrati collocati fuori ruolo nei ministeri. Sembra che i problemi di organico scompaiano quando c’è da occupare un posto come capo di gabinetto. Fra l’altro, quella riforma parificava semplicemente l’età pensionabile dei magistrati ad altre categorie come i medici e i professori universitari. Ricordo bene le polemiche di allora, come ricordo quando aveva provato ad allungarla Bonafede per salvare il suo amico e ideologo Piercamillo Davigo. Anche pochi mesi fa ci fu un nuovo tentativo di innalzarla a 72 anni a cui ci siamo opposti con durezza. Le regole che riguardano i magistrati devono essere in linea con quelle delle altre categorie, così anche la loro responsabilità nell’esercizio delle loro funzioni.
Il primo provvedimento che andrebbe approvato in tema di giustizia?
Se devo sceglierne uno, è la riforma del Csm, ma il mio faro è il referendum sulla giustizia dello scorso giugno. Sette milioni di italiani, di cittadini, pur sapendo che il quorum non sarebbe stato raggiunto, hanno deciso di recarsi alle urne per esercitare il loro diritto: un numero enorme. Quei SI non possono restare inascoltati. Sono un grido di denuncia forte e consapevole che abbiamo il dovere di fare nostro. Il programma del Terzo Polo sulla giustizia è molto netto e orientato al più assoluto garantismo, che in Italia sembra una posizione radicale, ma non rappresenta altro che il rispetto dei principi costituzionali.
Lei è un tributarista. Questo mese il Parlamento, anche con il voto di Iv, ha approvato la riforma della giustizia tributaria. Una riforma attesa che però contiene un enorme “conflitto d’interessi”, essendo il Mef, da cui dipendono i giudici tributari, anche parte nel processo con l’Agenzia delle entrate. Fd’I ha già fatto sapere che una volta al governo cambierà la legge.
Guardi, lei tocca un tema a me caro conoscendo in prima persona i problemi del processo tributario, quindi la mia visione può differire da alcune decisioni prese. Detto ciò, la sua osservazione è fondata: dovremo prima o poi arrivare a far diventare il giudice tributario un giudice di serie A, il compromesso raggiunto non lo ha consentito. Gli accertamenti tributari hanno un risvolto molto penetrante nella vita delle persone che li subiscono quindi lo Stato deve offrire il massimo della terzierà e della professionalità. Osservo però che Fd’I ha introdotto una modifica estendendo il concorso per i giudici tributari ai laureati in economia, persone degne e preparate, ma non giudici né giuristi, contribuendo a marcare ancora una volta la distinzione tra giudice ordinario e giudice tributario. Inoltre prima o poi dovrà essere introdotto come mezzo di prova la testimonianza orale.
Non posso non farle una domanda sul carcere. Siamo già a 57 suicidi dall’inizio dell’anno…
Il carcere è tutto da riformare, anche a livello infrastrutturale. Non possiamo avere tutti questi suicidi. Il carcere dovrebbe essere l’ultima ratio e soprattutto dovrebbe essere un ambiente di rieducazione, non disumano e degradante. Invece troppo spesso accade che si abusi della carcerazione preventiva anche per quei reati che non destano particolare allarme sociale e in casi in cui si potrebbero tranquillamente applicare misure non così profondamente restrittive della libertà personale, congestionando inutilmente le carceri. Attenzione poi al tema della mediaticità di alcuni arresti preventivi: si rovinano le vite delle persone per visibilità, trascurando – in alcuni casi – situazioni dove davvero è in ballo la sicurezza delle persone. Paolo Comi
Quanto potere nelle loro mani...Politica dominata dalla pubblica accusa, giudici assenti: sono i pm Antimafia le vere star. Gennaro De Falco su Il Riformista il 30 Agosto 2022
Da un’analisi anche superficiale dei contrassegni presentati al Ministero degli Interni per le elezioni politiche del 2022 balza all’occhio un dato che io ritengo assolutamente impressionante e sintomatico dello squilibrio dei poteri e nei poteri dello Stato determinatosi in Italia dagli anni ‘90 in poi. Ebbene, tra i simboli presentati ben due sono direttamente riferibili a Luigi de Magistris, ex pm di Catanzaro e già sindaco di Napoli, vale a dire Unione Popolare con de Magistris e Unione Popolare, insomma un ex pm per ben due liste.
Gli fa concorrenza un altro ex pm, Antonio Ingroia, con Azione Civile, anch’egli su posizioni di sinistra radicale, mentre a destra, almeno secondo quanto da lui dichiarato, ha tentato di collocarsi il celeberrimo ex pm Palamara con la sua lista Oltre il Sistema che però non è stata ammessa. Oltre ai partiti per così dire personali, spicca certamente la candidatura nei 5 Stelle dell’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho che segue in politica i suoi predecessori nella carica di procuratore nazionale antimafia. Non partecipa alla gara Catello Maresca, ex sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Napoli, sfortunato concorrente con una lista personale appoggiata dal centrodestra alla carica di sindaco della città partenopea nelle ultime elezioni amministrative che ha spiegato le ragioni della sua mancata partecipazione alla competizione con una lettera diffusa in rete in cui afferma di non essersi candidato nonostante le sollecitazioni degli aderenti alla sua associazione.
Insomma, in queste elezioni non abbiamo il partito dei magistrati ma addirittura una serie di partiti ma dei pm. Orbene, la prima circostanza che balza agli occhi è che si tratta sempre di pubblici ministeri in ogni possibile articolazione della loro carriera e che non vi sono appartenenti alla magistratura giudicante che appare in netto svantaggio, ed inoltre, con l’eccezione di Luca Palamara che ha una storia del tutto particolare, sono tutti schierati a sinistra e sono tutti di origine meridionale. Inoltre, bene o male, per specificità degli incarichi ricoperti e per provenienza territoriale, si tratta di pm provenienti dall’Antimafia, e questo significa due cose: la prima è che non è affatto vero che al Sud la mafia controlla la politica e la seconda è che il ceto politico non viene ritenuto idoneo ad arginare il fenomeno criminale che, comunque, almeno in termini “organizzati”, attualmente è molto meno incisivo di quanto si dice o si vorrebbe far credere, almeno in ambito politico. Detto ciò, è evidente che quello politico è un “mercato” e come tale soggiace alle sue regole in cui, come in tutti i “mercati”, conta la pubblicità e la “spendibilità” del prodotto”.
In questo i pubblici ministeri sono assolutamente soverchianti anche rispetto ai loro stessi colleghi giudicanti, per non dire rispetto agli avvocati che sono per lo più ridotti al ruolo di mere onnipresenti comparse. Come può parlarsi di principio di parità delle parti del processo fra loro se l’accusa gode di tanto potere su tutto e tutti? Anche per poter solo pensare di organizzare una lista o per essere candidati da un partito occorre un seguito e dei mezzi, in altri termini occorre potere che si trasforma in consenso elettorale. Tutto ciò può sembrare ovvio ma spesso sono proprio le cose ovvie che sfuggono, e allora occorre chiedersi quale sia la fonte di questo potere che risale ad Antonio di Pietro, anche lui ex pm ed alla sua Italia del Valori. In questa sede io non intendo assolutamente contestare il diritto dei pm persone fisiche ad essere presenti in politica ma soltanto analizzare le ragioni della loro oggettiva appetibilità che a me pare evidentissima, cui si è sommata la geniale intuizione di Gianroberto Casaleggio che fu prima al fianco di Antonio di Pietro e che poi, conservandone ampiamente i contenuti insieme a Beppe Grillo, si è per così dire “messo in proprio” ponendo le basi del Movimento Cinque Stelle.
Insomma, anche la politica in Italia è dominata dalla pubblica accusa e, negli ultimi anni, il suo strumento è stata assai spesso la “rete”. Ma quali sono le ragioni della popolarità e, quindi, del potere dei pubblici ministeri? Io credo che la risposta a questo interrogativo sia molteplice. Penso che le masse siano cronicamente affette da una sorta di isteria neo-giacobina e che, per questa ragione, siano sempre alla ricerca di un angelo vendicatore che le difenda da ogni male supposto, reale o anche solo temuto, angelo vendicatore che nell’Italia di oggi ha finito con identificarsi con la pubblica accusa e non, come pure sarebbe naturale, o almeno come accadeva dai tempi della rivoluzione francese nell’avvocatura in cui gli ex pm saltano continuamente a piè pari. È come se nell’Italia degli ultimi decenni si fosse imposto un inedito modello politico di stampo neo-Trotzkista che definirei di rivoluzione giudiziaria permanente, il cui inaspettato strumento è stato il codice di procedura penale del 1989. Il Codice Vassalli, secondo la mia convinzione, con gli amplissimi poteri attribuiti alle Procure, è stato all’origine del radicale mutamento che ha destabilizzato la società sia tra i poteri dello stato che al loro stesso interno.
Basta vedere cosa accade quotidianamente nelle aule di giustizia dove i giudici attendono quietamente l’arrivo degli impegnatissimi pm per iniziare i processi e, per lo più, non considerano minimamente anche la sola presenza degli avvocati, difensori degli imputati o delle parti civili non rileva. Nel codice di procedura penale del 1989, inspiegabilmente tuttora adorato dall’avvocatura, la polizia giudiziaria, quindi il potere amministrativo diretta promanazione di quello politico, è stato messo sotto la direzione del pm, poi si è sommato un rito processuale assolutamente insostenibile per le difese per la sua farraginosità e per la scarsità di mezzi disponibili ed un’evidente rapporto preferenziale tra informazione e Procure. Tutti questi fattori sommati tra loro, unitamente a clamorosi fatti di cronaca che hanno colpito il nostro Paese, hanno determinato la forza e quindi il consenso raccolto dai pm. Insomma, è il “sistema” che ha generato questo stato di cose e non i singoli attori che vi compaiono. In ogni caso un fatto è certo, piaccia o non piaccia, le cose stanno in questo modo e certamente il ceto politico non sembra, almeno per ora, possedere la forza, il coraggio ed i mezzi anche culturali per riequilibrarlo. Gennaro De Falco
Lo strapotere della magistratura e la politica. Politici genuflessi ai magistrati, cosi riformare la giustizia è impossibile. Alberto Cisterna su Il Riformista il 28 Agosto 2022
La questione giustizia lambisce appena una campagna elettorale che, a tutta evidenza, ha grane decisamente più importanti di cui occuparsi di questi tempi. La sortita di Silvio Berlusconi sulla inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pm ha riacceso una polemica che covava sotto le ceneri da parecchi anni e ha riproposto un tema particolarmente avvertito dalle camere penali e dalla magistratura italiana, come ha dimostrato la pronta reazione dell’Anm all’incursione forzista.
Non c’è dubbio che il tema del più complessivo riposizionamento del potere giudiziario nella geometria costituzionale del paese sia una questione importante che non può essere certo risolta a colpi di polemiche o con micro-interventi per appagare le ansie garantiste di questa o quella forza politica. Riposizionamento, si badi bene, che non vuol dire un ridimensionamento della funzione giudiziaria, ma la ricerca di un più corretto riequilibrio tra le varie articolazioni del potere pubblico fra loro e, soprattutto, verso i cittadini.
In questa traiettoria non si deve dimenticare che la riforma più incisiva è venuta dal governo Conte, ossia da quello a trazione pentastellata, che ha praticamente abrogato il vituperato abuso d’ufficio (articolo 323 Cp). Così si è alleviata la posizione di tanti pubblici amministratori sotto processo che o sono stati assolti grazie a quella modifica o, comunque, non subiranno più indagini per quel reato che più di ogni altro costituiva il confine incerto e ondivago dei rapporti tra magistratura e politica. Il tema del controllo giudiziario, nella declinazione cara a molte toghe del cosiddetto controllo di legalità, sta ai margini della contesa elettorale, resta sottotraccia sebbene sia la madre di tutte le battaglie per le parti contrapposte di questa contesa.
Le ragioni che hanno favorito l’espansione di questo controllo in tutti i gangli della vita politica e sociale è questione che non può essere neppure lambita in questa sede. Quel che può farsi è segnalare e mettere sotto osservazione tutti i casi in cui questa preminenza del potere giudiziario sulla politica non è tanto affermata dal primo a colpi di avvisi di garanzia o di arresti, quanto è riconosciuta dalla stessa politica come atto di naturale sottomissione a fronte di una propria crisi cui non riesce a porre rimedio se non genuflettendosi alla pretesa superiorità delle toghe. Stefano Castiglione e Alberto Stancanelli. Due nomi che a tanti dicono poco o nulla. Due stimatissimi magistrati della Corte dei conti di alto livello professionale ed etico ben conosciuti tra gli addetti ai lavori.
Il primo nominato dalla sindaca Raggi capo di gabinetto del comune di Roma qualche tempo or sono, il secondo nominato dal sindaco Gualtieri capo di gabinetto del comune di Roma. Insomma, due magistrati nel posto più importante dell’amministrazione capitolina e in un comune delle dimensioni della Capitale. Un incarico capace di condizionare in modo decisivo la vita di migliaia e migliaia di dipendenti, di decine di società partecipate, di milioni di cittadini. Alberto Stancanelli è stato chiamato a coprire questo posto-chiave il 20 agosto scorso, dopo che la pubblicazione del video della violenta lite di Frosinone aveva costretto alle immediate dimissioni Albino Ruberti, capo di gabinetto del sindaco di Roma.
A fronte di una fibrillazione evidente del sistema amministrativo della Capitale, il sindaco Gualtieri non ha potuto, o saputo, far altro che aprire la cassetta del pronto soccorso politico e tirar fuori il nome di un prestigioso magistrato della Corte dei conti. Tra centinaia di dirigenti comunali e regionali o tra centinaia di funzionari apicali nei ministeri romani – primo tra tutti quello dell’Economia che il sindaco in carica ben conosce per averlo diretto con autorevolezza – la scelta è caduta su una toga. Che si tratti di un giudice contabile o di un giudice amministrativo o ordinario, la questione non cambia. Platealmente e senza alcun tentennamento la politica tutta – stante la risonanza mediatica del minacciato regolamento di conti frusinate («Se devono inginocchia’ e chiede scusa, io li ammazzo» avrebbe detto il reprobo) – ha optato ancora una volta per un giudice.
Il segnale è chiaro: badate bene, purtroppo, moralità e competenza non sono abituali commensali in questo paese e se occorre rassicurare i cittadini elettori in uno snodo così delicato e per un fatto così increscioso è bene appellarsi alla riserva strategica della nazione che sono o i generali o i magistrati. Con la differenza che, mentre i primi sono totalmente alle dipendenze del potere politico per la loro collocazione istituzionale, gli altri costituiscono un ordine autonomo e provvisto di un proprio carisma costituzionale. Accade, quindi, che mentre si schermaglia sulle briciole e sui lembi più marginali della questione giustizia, la politica con solerzia e senza alcuna incertezza proclami, per l’ennesima volta, la propria subalternità a un potere “altro” da sé e, per giunta, per farsi affiancare nell’esercizio di rilevanti prerogative che i cittadini le hanno affidato con il proprio voto.
David Lyon scrisse anni or sono un libro dal titolo struggente e suggestivo (“La società sorvegliata”, Feltrinelli, 2002) che evocava i rischi della diffusione delle tecnologie per il controllo della vita quotidiana dei cittadini, soprattutto dopo l’11 settembre. Esistono altre forme di sorveglianza ovviamente che, tuttavia, come quelle tecnologiche, devono essere contrastate o, almeno, arginate. Ma per farlo è necessario che i poteri sorvegliati non stiano a riconoscere, alla prima crisi, la superiorità etica e di competenza dei sorveglianti i quali – anche i migliori – avvertono la portata politica e istituzionale di queste investiture. E’ proprio di questa legittimazione, invero ulteriore, che profittano le componenti corporative e autoreferenziali del potere giudiziario (complessivamente inteso) per ergersi a una sorta di Camera stellata. Ossia a somiglianza di quella Corte che aveva sede presso il Palazzo di Westminster tra la fine del XV secolo e la metà del XVII secolo e che aveva il compito di giudicare i potenti del tempo. Alberto Cisterna
Quello che le “toghe rosse” non dicono sul Csm…. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 14 Agosto 2022
Necessario far capire alle toghe impegnate nel "sistema" correntizio che i magistrati sono chiamati ad applicare e far rispettare le leggi, e non hanno alcun compito di legiferare o sindacare che è deputato a farla grazie al voto degli italiani. Tutti. Compresi quelli che con le loro tasse contribuiscono a far sì che lo Stato italiano rimborsi milioni e milioni di euro per detenzioni illegittime. O forse una certa magistratura si crede di essere al di sopra delle istituzioni?
La legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, recentemente approvata dal Parlamento, è sicuramente destinata a cambiare in profondità le modalità di attribuzione degli incarichi direttivi e semi-direttivi da parte del Consiglio superiore della magistratura ed è questo il vero motivo per cui esponenti e candidati di Area, la corrente sinistrorsa della magistratura, contestano le innovazioni apportate dalla guardasigilli Cartabia
L’obiettivo principale della riforma è quello di evitare che le nomine possano ancora essere condizionate da logiche di appartenenza “correntizia” dopo gli scandali degli ultimi anni, che è bene ricordare hanno coinvolto tutte le varie correnti della magistratura, da sinistra a destra, passando per il centro. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, ha più volte ricordato e ribadito che in futuro dovrà essere valorizzato il merito dei magistrati, garantendo trasparenza nelle scelte del Csm, e non lo schieramento correntizio.
Sacrosante a nostro parere le modifiche delle procedure propedeutiche alla valutazione della professionalità dei magistrati e della previsione di un fascicolo necessario non soltanto per valutare le capacità del singolo magistrato, ma fondamentali sopratutto quando è il momento dell’assegnazione a funzioni di direzione. E’ altresì fondamentale a nostro parere il coinvolgimento dell’avvocatura, con la possibilità per i componenti laici dei Consigli giudiziari di partecipare alla discussione finalizzata alla formulazione dei pareri necessari per la valutazione di professionalità dei magistrati.
Le modifiche introdotte dalla riforma Cartabia che interessano direttamente le toghe, riguardano in realtà soprattutto alla disciplina del termine di legittimazione per poter presentare domanda. Innovazione questa che ha immediatamente reso necessario dover cambiare i bandi concorsuali da parte del Csm, costretto a riaprire i termini per la presentazione delle domande.
L’effetto ricercato grazie alle modifiche introdotte è stato quello di arrivare ad un importante e necessaria riduzione del numero dei candidati alle funzioni dirigenziali più importanti nella magistratura.
La legge numero 71 del 2022 ha introdotto dei “passaggi” necessari a raggiungere una tendenziale stabilizzazione dei magistrati ai quali sia stato assegnato un incarico dirigenziale, prevedendo un periodo minimo di permanenza nell’ufficio da cui si proviene. Ad esempio per poter aspirare quindi all’incarico di procuratore generale o di procuratore generale aggiunto in Cassazione, sarà necessario aver già ricoperto almeno 4 anni nel precedente incarico e garantirne altri 4 prima della pensione.
Con queste nuove norme disposizioni, quindi, al Csm non avrebbero potuto nominare l’attuale pg di Milano e tanti altri magistrati che oggi ricoprono incarichi di vertice . “La mobilità dei dirigenti si giustifica non solo in un’ottica di salvaguardia della legittima aspirazione del magistrato alla progressione nella carriera ma anche, in un’ottica più complessiva, di salvaguardia della professionalità e delle capacità dei dirigenti degli uffici giudiziari” ha dichiarato al quotidiano Il Dubbio (di proprietà del Consiglio Nazionale Forense) il consigliere togato Antonio D’Amato attuale presidente della Commissione per gli incarichi direttivi del Csm. In poche parole, l’attitudine direttiva del magistrato è destinata ad arricchirsi notevolmente anche grazie alle pregresse esperienze direttive e semi-direttive.
Una riforma importante ed equilibrata quella del guardasigilli Cartabia la quale è bene ricordare, sopratutto a qualche sbadato o distratto… “compagnuccio sinistrorso” sotto le ingannevoli vesti di magistrato, che l’attuale Guardasigilli è stata dal 13 settembre 2011 al 13 settembre 2020 cioè per ben 9 anni giudice della Corte costituzionale, della qualedall’11 dicembre 2019 al 13 settembre 2020 ha ricoperto la carica di Presidente , diventando la prima donna della storia repubblicana a ricoprire tale carica.
Leggere affermazioni ciclostilate, affidate ai soliti giornalisti ventriloqui come: “La riforma Cartabia delinea un modello di magistrato burocrate, timoroso, che tende ad uniformarsi agli indirizzi giurisprudenziali prevalenti, piuttosto che concorrere alla evoluzione del diritto vivente. Sarà compito del prossimo C.S.M. opporsi a questo modello e valorizzare la professionalità e la passione dei tanti magistrati italiani, respingendo il rischio di un approccio difensivo nell’esercizio di una giurisdizione sempre più schiacciata dai numeri e dal timore di sanzioni disciplinari” espresse da un magistrato, tale Maurizio Carbone che ha svolta la sua carriera unicamente presso la Procura di Taranto dove ha trascorso oltre 25 anni occupandosi più di attività corporativa e sindacale che di caccia alla criminalità organizzata ed ai colletti bianchi , e tutto ciò aiuta a capire che la riforma Cartabia è importante.
Sopratutto per far capire alle toghe impegnate nel “sistema” correntizio che i magistrati sono chiamati ad applicare e far rispettare le leggi, e sopratutto che non hanno alcun compito di legiferare o sindacare le leggi votate dalle rispettive Camere Parlamentari , attività che è un compito e potere delegato esclusivamente a chi viene eletto in Parlamento grazie al voto degli italiani. Tutti. Compresi quelli che con le loro tasse contribuiscono a far si che lo Stato italiano rimborsi per detenzione illegittima milioni e milioni di euro a cittadini mandati in carcere seppure innocenti dai soliti magistrati “manettari” e distratti. Un’interessante relazione della riforma, che ha messo a confronto i diversi ordinamenti europei sul tema dell’ingiusta detenzione.
Nella Relazione su “Equa riparazione per ingiusta detenzione ed errori giudiziari”, redatta a settembre 2021, i giudici contabili hanno rilevato, nel triennio 2017-2019, un progressivo aumento della spesa pubblica, in termini di impegni di competenza, nel 2019 la spesa complessiva per le voci legate alla giustizia sfiorava i 50 milioni di euro (48.799.858,00 euro), con un aumento del 27% rispetto a quella registrata nel 2017 (38.287.339,83 euro). La riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione, da parte dello Stato, è prevista dagli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale. La disciplina si applica anche ai casi di errore giudiziario regolati dall’art. 643 del codice di procedura penale.
Dov’era questo magistrato napoletano quando un suo collega della Procura di Bari veniva mandato sotto processo disciplinare dal Csm per non aver iscritto per oltre 5 anni un politico barese nel registro degli indagati, e subito dopo si faceva eleggere dai suoi “compagnucci” al Consiglio Superiore della Magistratura, venendo archiviato dai suoi stessi compagni-colleghi di consiliatura ? E la chiamano persino anche “giustizia”… P.S. l’indagato veniva mandato invece a processo da quel magistrato, ma il Tribunale lo assolveva con formula piena.
O forse una “certa” magistratura si crede di essere intoccabile ed al di sopra delle istituzioni ?
L’anti sistema di Palamara ha vinto e vive: i suoi numerosi correi sono stati “graziati”. Per rifare la “verginità” al Consiglio bisogna tranciare la cinghia di trasmissione tra Anm, partiti e Csm. Rosario Russo, già Sostituto Procuratore generale presso la Suprema Corte, su Il Dubbio il 10 luglio 2022.
I cittadini, soprattutto per tramite dei partiti e dei media, dibattono democraticamente per l’affermazione dei propri ideali e interessi. Il risultato della dialettica parlamentare sono le leggi, che costituiscono il formante legislativo del Sistema. I magistrati sono obbligati a interpretare e applicare le leggi nel rispetto della Costituzione, oggettivamente, cioè in piena indipendenza dalle forze politiche e dalle ideologie che le hanno generate (ben altro sono le rationes legis, le diverse concezioni del diritto, i modelli interpretativi, etc.). Questo è quanto avviene – deve avvenire – in tutti gli uffici giudiziari. Nel giudicare in nome del Popolo Italiano, i magistrati non rappresentano – non possono rappresentare – alcuno schieramento politico, essendo la legge ormai oggettivizzata e incarnata nel suo testo. In una parola il formante giudiziario del Sistema – cioè il proprium dell’attività giudiziaria – è ubicato a valle del dibattito partitico-politico e in buona misura necessariamente ne astrae. Non a caso, a differenza di quanto avviene altrove, il magistrato italiano è nominato in funzione soltanto dei propri saperi tecnico-giuridici, rigorosamente accertati. Dunque egli non decide e non risponde politicamente, pur non essendo stato mai bouche de la loi (bocca della legge) né sordo alle esigenze della Giustizia e del divenire storico.
L’asetticità politica della magistratura, cioè la sua indipendenza, comporta che l’amministrazione dei magistrati e il controllo disciplinare sugli stessi non possa che spettare ad un organo costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, anch’esso necessariamente estraneo al dibattito politico e alla dialettica partitica. Se i magistrati sono tenuti ad applicare oggettivamente le leggi che governano i cittadini, analogo apolitico obbligo incombe sul Csm, con riferimento alle leggi che disciplinano la condotta e la carriera dei magistrati. Anche il formante amministrativo-giudiziario del Csm prescinde necessariamente dal formante politico. In sintesi, tanto l’attività decisoria dei magistrati quanto quella del Consiglio superiore della magistratura è per definizione apolitica, siccome indipendente. Non a caso il Capo dello Stato presiede il Csm e i suoi consiglieri non possono essere rieletti; circostanze entrambe che escludono di per sé la connotazione politica e la connessa tipica responsabilità.
Per conseguenza l’”elezione” dei membri del Csm (come chiamarla altrimenti?), lungi dal trasporre nel Consiglio le forze politiche con il meccanismo della rappresentanza politica o di interessi, seleziona soltanto i soggetti destinati a proteggere, con la propria indipendenza, anche quella dei Magistrati, nell’interesse esclusivo dell’Utente finale della Giustizia. Un compito regolatore tanto difensivo o neutro (di mera interdizione d’interferenze e di scorrettezze, si direbbe), quanto inconciliabile con una “elezione” propriamente politica. Del Csm si dovrebbe cioè parlare come del sommo custode dell’indipendenza giudiziaria, l’incrollabile pietra angolare della separazione dei Poteri. In sé e per sé la scelta di individuare nei magistrati la maggioranza dei componenti del Csm sembra saggia perché, in linea generale, essi sono professionalmente i più politicamente indipendenti (non possono neppure iscriversi ai partiti) e soprattutto hanno (o istituzionalmente avrebbero) precipuo interesse a restare indipendenti, essendo proprio l’indipendenza il “tesoro” loro affidato, la loro stessa ragion d’essere. Mentre la minoritaria componente laica del Consiglio costituisce il vigile «cane da guardia» (watchdog) e il ponte di collegamento alla comunità statale. Questo lucido quadro costituzionale è stato tradito allorché, attraverso le correnti dell’Anm, all’interno del Csm i magistrati si sono fatti invece espressione e complici del potere politico, con l’interessato compiacimento di taluni Partiti. Anche dal punto di vista scenografico, la notte dell’Hotel Champagne, cioè la «notte della magistratura», “fotografa”’ minuziosamente siffatta perversione istituzionale. Nel medesimo tavolo, accanto al Grande Mediatore Palamara, banchettavano e cospiravano consiglieri del Csm, magistrati fuori ruolo (il dott. C. Ferri, oggi parlamentare) e noti parlamentari (il dott. L. Lotti)! Da anni, invece, i membri togati del Csm non sono stati neppure “eletti”. Per lo più sono stati piuttosto “nominati” dalle correnti della magistratura, che agiscono all’interno dell’Anm e del Consiglio, secondo le logiche spartitorie tipiche dei Partiti, inidonee ad assicurare qualunque indipendenza di giudizio. Per rispettare il disegno costituzionale e ricreare la verginità del Csm, bisogna tranciare dunque la cinghia di trasmissione che collega Anm, partiti e Csm. Ma nessuno ha provato a farlo perché nessuno vuole perdere l’enorme potere incostituzionalmente conquistato; tranne il cittadino, che quel potere patisce e vuole soltanto una magistratura e un Csm indipendenti. A differenza dello scandalo di Mani Pulite (originato dalla c.d. corruzione ambientale), quello delle Toghe Sporche (originato dalla maniacale ambizione personale, che corrode l’indipendenza), invece di provocare la rinascita mediante la necessaria epurazione e “vaccinazione”, è stato fin qui sopito e assorbito. La colonna vertebrale dello Stato, cioè la Magistratura, è stata ritenuta troppo importante per soccombere alla propria domestica scelleratezza (too big to fail: troppo grande per crollare). Palamara è stato bandito dalla Magistratura e dalla Anm, ma – ahinoi – il suo Anti Sistema ha vinto e vive perché i suoi numerosi correi sono stati “graziati” (dall’Anm, dal Pg presso la Suprema Corte e dal Consiglio superiore della magistratura) e operano tuttora, nonostante i reiterati appelli del Capo dello Stato. La violazione della Costituzione è ormai conclamata, dando luogo ad un allarmante riassetto materiale dei Poteri e dell’Ordinamento.
Come avviene in tutte le pandemie, sospetto e diffidenza si sono proiettati non solo tra i cittadini, ma anche nei massimi vertici della Giurisdizione, coloro cioè che, come medici e sanitari, dovrebbero contribuire a debellare la diffusione del terribile morbo. È recente e allarmante la notizia per cui il dott. Luigi Riello, Procuratore generale di Napoli, ha impugnato davanti al Giudice amministrativo la nomina del dott. Luigi Salvato a Procuratore generale presso la Suprema Corte, cui concorreva. Il ricorrente ha infatti addotto non solo la mancata considerazione da parte del Consiglio superiore della magistratura del fatto che il dott. Luigi Salvato non ha mai esercitato funzioni penali presso la Suprema Corte, ma anche che egli sarebbe rimasto coinvolto nei «messaggi del dott. Luca Palamara riguardanti il dott. Luigi Salvato», che «sono – indubitabilmente – nella disponibilità del Csm». Non è inconsueto che l’assegnazione ad un’altissima carica giudiziaria sia contestata davanti al Tar. Ma è la prima volta – a quanto sembra – che il Sistema Palamara & Company – che è un Antisistema – proietti la sua mefitica ombra persino sul sommo vertice dei magistrati requirenti, quale che possa essere l’attesa decisione del giudice adito. Magistratura, Giudici e Csm non appaiono più indipendenti… e non lo sono più per fatto proprio! I Partiti, quelli compromessi, lo sanno e, non fidandosi più neppure di magistrati mestatori alla maniera di Palamara, hanno deciso soltanto di “governare” direttamente la loro rassegnata dipendenza. Possiamo ancora raddrizzare il «legno storto della Giustizia»? No, fino a quando molti, proprio tra i Giudici, continuano a volerne ignorarne le cause, addebitando la colpa di delegittimare la Magistratura proprio a coloro che piuttosto ne disvelano le responsabilità! Se – come sembra ai più – abbiano gravemente errato i Magistrati e la loro Associazione, proprio da essi, in primo luogo, dovrebbe provenire il ravvedimento operoso! Da chi altri? E se non ora, quando?
Hic Rhodus, hic salta!
La riforma giustizia. Da destra a sinistra tutti d’accordo: non toccare lo strapotere dei magistrati. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 27 Luglio 2022.
La lotta contro la prepotenza del sistema giudiziario è affidata perlopiù a iniziative individuali anche meritorie, insomma al contributo pur lodevole di questo o quell’esponente – spesso non di prima fila, il che la dice lunga – che da destra o da sinistra si impegna sul fronte di questa causa dimenticata. Ma nessuna forza politica, né di destra né di sinistra, pone al centro della propria azione e sulla cima dei propri programmi non – si badi – la “riforma della giustizia”, che è un semplice modo di dire, ma appunto la necessità di contrastare quel potere usurpato, quel flusso di arbitrio e malversazione che si è immesso illegittimamente nel corso repubblicano facendolo sfociare nella palude cui è ridotto il nostro Stato di diritto.
Nessuna forza politica sente l’urto antidemocratico di quel potere, il quale non si produce per il moltiplicarsi di indagini sbagliate e sentenze discutibili, ma per la pretesa sovraordinata di sorvegliare l’indirizzo generale del Paese rieducandone le propensioni alla corruzione dal pulpito dell’azione penale obbligatoria, dell’infallibilità togata, delle mani pulite certificate via concorso pubblico. È una turbativa che non interferisce con questo o quel governo per il fatto che esso è colorato in un modo o nell’altro, ma con la stessa idea che un governo abbia ambizioni di autonomia da quella sorveglianza: e non sarà un caso se le più scomposte e aggressive reazioni della magistratura militante e corporata si sono registrate a contestazione di un governo partecipato pressoché da tutti.
Perché la cosiddetta “politicizzazione” della magistratura non risiede se non episodicamente nell’atteggiamento di favore verso alcuni o di pregiudizio verso altri, ma nel costituirsi del potere giudiziario in una specie di contro-governo perenne che si giustappone ai poteri legittimi e ne contesta l’esercizio non perché pendono a destra, non perché pendono a sinistra, ma se e perché si azzardano a reclamare il diritto di agire senza pagare il pizzo del benestare giudiziario. Sui motivi per cui nessuna forza politica ritiene di doversi opporre in modo convinto e sistematico a questo andazzo si potrebbe ragionare a lungo, ma non è azzardato osservare che le classi parlamentari e di governo che si sono avvicendate negli ultimi decenni, tutte nessuna esclusa, sono dopotutto il multiforme ma sostanzialmente omogeneo risultato di modellazione del sistema politico secondo lo stampo giudiziario.
Perché anche a destra, davvero non solo a sinistra, riscuoteva consenso la palingenesi repubblicana appaltata al potere della magistratura. Perché nemmeno a destra, esattamente come a sinistra, si comprendeva che nemico di quella magistratura non era il potere precario di uno o dell’altro ma, ben più forte e temibile, il diritto dell’ordinamento democratico. Iuri Maria Prado
La decisione del Csm. Chi è Luigi Salvato, il nuovo procuratore generale della Cassazione. Paolo Comi su Il Riformista il 24 Giugno 2022
Luigi Salvato è il nuovo procuratore generale della Corte di Cassazione, il primo “pm d’Italia”. Lo ha deciso ieri il Plenum del Consiglio superiore della magistratura. Salvato ha battuto lo sfidante Luigi Riello, procuratore generale a Napoli, per 17 voti a 8. Abbondantemente confermate, dunque, le previsioni della vigilia che vedevano in pole l’attuale procuratore generale aggiunto a Piazza Cavour. In Commissione per gli incarichi direttivi, Riello e Salvato avevano preso entrambi due voti: per il primo avevano espresso la preferenza il togato di Magistratura indipendente Antonio D’Amato, poi relatore della proposta di nomina, e il laico in quota Forza Italia Alessio Lanzi.
Per il secondo, invece, avevano votato Michele Ciambellini, togato di Unicost, e Alessandra Dal Moro, togata di Area, la corrente progressista, la stessa di Salvato.
Il dibattito in Plenum, svoltosi alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non è stato particolarmente entusiasmante, segno che i giochi erano già fatti da tempo. Per Salvato, comunque, ha votato compatto l’intero Comitato di presidenza del Csm: il vice presidente David Ermini, il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio ed il pg Giovanni Salvi. Il fatto che quest’ultimo non si sia astenuto ed abbia invece votato per il suo successore sarà certamente oggetto di polemiche.
A favore di Salvato, poi, tutti i togati progressisti, Giuseppe Cascini, Ciccio Zaccaro, Mario Suriano, Elisabetta Chinaglia e Alessandra Dal Moro, i togati ex davighiani Giuseppe Marra ed Ilaria Pepe, i laici pentastellati Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti.
Ha votato per Salvato anche il pm antimafia Sebastiano Ardita che, la scorsa volta, aveva votato per Salvi. Per Riello, invece, hanno votato tutti i togati di Magistratura indipendente, Tiziana Balduini, Paola Maria Braggion, Antonio D’Amato e Loredana Micciche, il pm Nino Di Matteo, i due laici forzisti Alessio Lanzi e Michele Cerabona e quello in quota Lega Emanuele Basile. Astenuto Stefano Cavanna, l’altro laico in quota Lega. Chi si aspettava un intervento di Di Matteo sarà rimasto deluso. Il nome di Salvato è nelle chat di Luca Palamara, non direttamente ma per interposta persona. In casi analoghi Di Matteo aveva sempre preso la parola chiedendo il ritorno in Commissione per esaminare con attenzione i messaggini. Questa volta ha preferito il silenzio.
Chi non ha preferito il silenzio è stato Giuseppe Cascini che, dopo avere ricordato l’operato di Salvi in un momento particolarmente difficile per la magistratura, stigmatizzando anche gli attacchi che sono stati rivolti al pg, “attacchi” che per onore di cronaca sono giunti anche dalle stesse toghe, come nel caso dei magistrati di Articolo 101 che hanno chiesto più volte le sue dimissioni se non avesse chiarito i rapporti con Palamara. Nel suo intervento Cascini ha poi durante criticato la decisione di candidare Riello. “Rammarico per l’incapacità della Commissione di fare una scelta unitaria”, ha detto Cascini, elogiando poi il cv professionale di Salvato, nettamente superiore sotto tutti i profili a quello di Riello. “Salvato è un giurista colto e apprezzato”, e Riello ha “limitate esperienze”.
Nominato Salvato si spera adesso che la Procura generale, se ancora in tempo, faccia chiarezza sui disciplinari aperti nei confronti delle toghe che chattavano con Palamara. Non si ha più notizia, infatti, dei procedimenti, pochi per la verità, che erano stati aperti ed annunciati in una conferenza stampa dallo stesso Salvi all’indomani dello scoppio del Palamaragate. Sarebbe una importante operazione verità per evitare che “passi il messaggio” che l’unico a pagare per il “Sistema” sia stato proprio Luca Palamara. Paolo Comi
Magistratura, mancano i cancellieri: giudici e pm vadano a fare le fotocopie. Iuri Maria Pirado su Libero Quotidiano il 23 giugno 2022.
Pare che in alcuni tribunali manchino i cancellieri, per capirsi quelli che tengono in ordine i fascicoli, aggiornano le agende delle udienze, rilasciano le copie degli atti, insomma fanno andare avanti l'ufficio. Nell'attesa che il problema di organico sia risolto, si potrebbe forse immaginare che il corpo giudiziario contribuisca autonomamente a prestare un po' di servizio supplementare.
Non sarà un dramma né rappresenterebbe una degradazione intollerabile dedicare un'oretta al giorno a fare fotocopie, a sistemare i faldoni e magari perché no, se occorre? - a spolverare le scrivanie e a svuotare i cestini. Al giovane magistrato, vincitore del concorso che gli attribuisce il potere di arrestare la gente, di sequestrare patrimoni e di confiscare i beni altrui, si potrà ben richiedere di fare ciò che in qualunque azienda fa del tutto normalmente persino il titolare, il quale senza tante storie si mette a spostare gli scatoloni quando il magazziniere è in malattia.
Nulla di punitivo, per carità. Il potere di accusare le persone e di scrivere le sentenze non lo toglie nessuno, però accanto a quello si potrebbe prevedere il dovere di rassettare le aule, un po' come al militare si consegna un fucile ma gli si chiede di farsi la branda. Dopotutto l'autonomia e l'indipendenza della magistratura potranno anche realizzarsi nell'uso del toner e dello strofinaccio.
Gli esami di maturità. Altro che Promessi Sposi, per spiegare la giustizia andrebbe spiegato come un magistrato perseguita un uomo. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 23 Giugno 2022.
Nel suo dialogo con Liliana Segre, finito tra gli argomenti d’esame di Maturità e ripubblicato ieri dal Corriere della Sera, Gherardo Colombo dice: “Puoi immaginarti quanto si potrebbe trasmettere ai ragazzi in tema di giustizia illustrando loro I promessi sposi!”. Non c’è dubbio che dalla lettura di quel capolavoro i ragazzi possano ritrarre nobili motivi di meditazione “in tema di giustizia” (magari “tema” d’ora in poi lo aboliamo, che proprio non si può sentire): ma più e meglio si trasmetterebbe ai ragazzi illustrando loro le pagine meno romanzate della giustizia italiana, facendo loro conoscere le colonne infami recanti la lunga teoria dei nomi sconosciuti appartenenti alle vittime della giustizia.
Sarebbe lettura magari più noiosa, ma altrettanto istruttiva, quella che indugiasse sulle lapidi dei suicidi in carcere, i morti di galera imprigionati – spesso inutilmente, sempre ingiustamente – in nome del popolo italiano. Sarebbe conoscenza forse spiacevole, ma assai formativa, quella offerta da una ricognizione della vita negletta delle mogli, dei figli, dei fratelli e delle sorelle, dei genitori di chi senza motivo, senza necessità, senza diritto è stato rinchiuso in una cella. I ragazzi potrebbero imparare da questa storia clandestina come nel loro Paese – non nel secolo decimo settimo, ma in questo – un magistrato possa arrestare la libertà di chiunque, sequestrargli ogni bene e innanzitutto il primo, la vita, e privarlo di tutto, del patrimonio, della casa, della famiglia, del lavoro, della reputazione, della salute, senza risponderne in nessun modo e nemmeno nel caso che quello scempio sia oltretutto avvenuto per trascuratezza, per errore, per abuso.
Imparerebbero, i ragazzi, che tra le disgrazie che possono capitare a un essere umano – proprio come una malattia maledetta che se lo mangia, come un rovescio professionale che lo manda sotto a un ponte, come un’auto impazzita che lo investe – c’è quella di trovarsi soggetto al potere di un magistrato che decide di perseguitarlo, e lo perseguita, prendendo il corso normale della sua vita e stravolgendolo, violentandolo, lo immette con i sigilli di Stato in un buco nero di sopraffazione, di degradazione, di disperazione, mentre nel mondo di fuori risuona il verbo del collega togato che spiega che tutto questo è fisiologico. I ragazzi sarebbero così proficuamente indotti a farsi della giustizia di questo Paese un’idea un po’ più aderente. E a esprimerla, magari, al prossimo esame di Maturità. Iuri Maria Prado
La riforma Cartabia è un’aspirina allo strapotere dei pm. Roberto Cota su Il Riformista il 19 Giugno 2022.
L’altro ieri il Senato ha approvato in via definitiva la cosiddetta riforma Cartabia. Nell’esatto testo già approvato dalla Camera, senza emendamenti. Non si può dire che questa riforma sia negativa. È comunque un miglioramento rispetto all’esistente. Nemmeno, però, si può definirla una rivoluzione, tale da riportare pienamente il nostro sistema nell’alveo dello stato di diritto. Rappresenta un piccolo passo avanti in quanto ci saranno dei cambiamenti in linea con le proposte di riforma che hanno dato la stura al movimento referendario.
Innanzitutto, con riferimento alla separazione delle funzioni tra pm e giudice, sarà possibile un solo passaggio tra funzione inquirente e giudicante, entro i primi 10 anni. Una novità positiva, certo, rispetto alla previsione attuale (che rende possibili quattro passaggi). Inoltre, chi decide di dedicarsi alla politica e viene eletto, non potrà più tornare a fare il giudice. Cosa buona e giusta. Altro aspetto, gli avvocati potranno portare la voce dei rispettivi ordini professionali all’interno dei consigli giudiziari e votare anche quando si tratta di valutare i magistrati. Bene. Inoltre, altro cambiamento positivo è quello relativo ad una maggiore trasparenza introdotta rispetto alla formazione e all’aggiornamento del fascicolo personale del magistrato, alla tempistica delle nomine ed alla valutazione dei curricula per l’assegnazione degli incarichi direttivi. Restano però irrisolte le grandi questioni. Prima di tutto, quello legata allo strapotere delle correnti all’interno del Csm che si manifesta in sede di elezione della componente togata che avviene oggi attraverso liste che si identificano in partiti/correnti.
La riforma Cartabia non ha avuto il coraggio di introdurre il sorteggio; si è preferito modificare il sistema elettorale attuale inserendo dei presunti correttivi. Si tratta di una toppa che oggettivamente è peggio del buco. Il sistema elettorale introdotto è farraginoso e comunque tutto sarà ancora in mano alle correnti, esattamente come prima. Inoltre, non viene affatto affrontato il tema della presunzione di non colpevolezza applicato alle cariche elettive (legge Severino) e nemmeno quello degli abusi di custodia cautelare. Men che meno si toccano gli aspetti legati allo strapotere dei pm nelle indagini prima che nel processo ed alla sistematica compressione dei diritti della difesa, caratteristica delle leggi approvate in questi ultimi anni. La riforma Cartabia rispetto ai mali che affliggono la giustizia è un’aspirina. In questo momento, di più non è possibile ottenere. È evidente che si aspettano tempi migliori. Speriamo arrivino. Roberto Cota
Cuno Tarfusser, l'ex toga: "I magistrati? Camerieri che si sentono re". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 21 giugno 2022.
«Sono tornato dall'Olanda, dopo quasi undici anni alla Corte Penale Internazionale, e mi è sembrato di ripiombare nel Medioevo giudiziario. Nulla era mutato. Immobilismo assoluto. Il cambiamento organizzativo e culturale che avevo avviato è stato fermato non appena coloro che lo avevano promosso e sostenuto erano stati rimossi. Ma mi raccomando, non approfitti di questa chiacchierata per farmi apparire quello che non sono. Io non sono contro i miei colleghi magistrati e non sono catalogabile politicamente. Io sono contro la magistratura associata dominata da quei patogeni chiamati "correnti". Sin da bambino mia mamma mi diceva di non stare nella corrente e io ho sempre seguito questa indicazione. Ecco, io sono estraneo a queste che chiamerei sette piuttosto che correnti, ed è sicuramente per questo che, da quando sono rientrato dall'estero, sono stato violentemente emarginato. Nonostante che io vanti un'esperienza ma soprattutto risultati gestionali come forse nessun altro, il Consiglio superiore della Magistratura non mi ha ritenuto degno nemmeno di un voto in ben nove concorsi per uffici direttivi cui ho partecipato. Troppo autonomo, troppo indipendente e quindi incontrollabile».
Emarginato o perseguitato?
«Entrambi, direi. Sono stato rivoltato come un calzino. Quello che ritenevo impossibile, ovvero la persecuzione giudiziaria, l'ho subita sulla mia pelle. In vista del mio rientro in Italia i miei colleghi hanno aperto un'indagine a mio carico, durata due anni e mezzo, fondata sul nulla che ha prodotto un dossier di undicimila pagine. Le lascio immaginare lo spreco di tempo, risorse e denari del contribuente.
L'unico risultato raggiunto, forse quello perseguito sin dall'inizio, è stato quello di emarginarmi».
I suoi colleghi non la amano perché fa il primo della classe?
«Ma io non ho mai fatto il primo della classe. Mal sopportano chi canta fuori dal coro, chi ha successo per avere capito che fare il magistrato, soprattutto il capo dell'ufficio, significa rendere un servizio più che esercitare un potere».
Sta demolendo il mito della superioritità del magistrato...
«I magistrati sono tendenzialmente convinti di essere una categoria superiore, di avere sempre ragione. Questo perché sono loro che decidono qualsiasi questione sottoposta al loro giudizio. I miei colleghi impazziscono quando io dico che noi siamo al servizio dei cittadini e che, mutuando l'esempio dalla ristorazione, sono questi a essere seduti al tavolo, mentre noi, operatori della giustizia, siamo cuochi, camerieri, lavapiatti e baristi. Quando divenni Procuratore della Repubblica a Bolzano, nel luglio 2001, con l'aiuto dei miei collaboratori applicai queste mie convinzioni, ripensando e riorganizzando i processi lavorativi dell'ufficio. Siamo così riusciti a ridurre le spese giudiziarie del 70% e a portare l'arretrato a un livello fisiologico».
Ma lei, autonomo e non legato ad alcuna corrente, come è riuscito a farsi nominare procuratore?
«Era il 2000, avevo 46 anni e nessuna speranza. Ho fatto domanda per capire come sarei stato giudicato. Poi, nel giro di poche settimane, accaddero fatti del tutto accidentali che hanno fatto pendere l'ago della bilancia dalla mia parte. L'episodio imbarazzante avvenne sulle piste di sci. Parlando con un collega che stava facendo una settimana bianca in Alto Adige e che avevo conosciuto quello stesso giorno, il discorso cadde sulla ormai prossima nomina del Procuratore di Bolzano. Mi interrogò in funivia e arrivati al rifugio fece una telefonata e disse all'interlocutore "Un nome solo: Tarfusser". Solo dopo ho saputo che questo collega aveva una precisa collocazione correntizia e il suo interlocutore era un Consigliere del CSM. Ma si può diventare procuratori così, paracadutati per caso, senza essere sottoposti a test attitudinali o colloqui tecnici? È la prova che il sistema era marcio e che nei successivi vent' anni è peggiorato».
Cuno Tarfusser da Merano, mentalità asburigica e loquacità mediterranea mischia pragmatismo lombardo-veneto e rigore puritano, è indubbiamente il magistrato che più ha provato a curare i mali della giustizia italiana, lavorando dal di dentro. Lo chiamò l'allora Guardasigilli Clemente Mastella per sistemare il carrozzone, impressionato dal suo lavoro a Bolzano. Ma poi ci fu l'inchiesta di De Magistris, gli indagarono la moglie e il ministro fu costretto a dimettersi. Allora fu il nuovo titolare di via Arenula, Angelino Alfano, a fargli squillare il telefono. «Su sua richiesta gli presentai una relazione dettagliata su come migliorare il sistema, però lui era lì per altre ragioni e non se ne fece nulla» racconta Tarfusser.
Quando gli parli, non si capisce se è più divertito o scandalizzato dalle contorsioni dei suoi colleghi, che si agitano perché nulla cambi e scomodano i sacri principi per difendere piccoli interessi personali. «Il nostro sistema» spiega «si basa tutto su Regi Decreti firmati dal Re e da Mussolini. Ma vi pare normale che in quasi ottant' anni di Repubblica questo Paese non sia riuscito a darsi un sistema giudiziario repubblicano?».
Deduco che lei non abbia una grande opinione della riforma Cartabia.
«Come i referendum appena abortiti, la riforma non serve quasi a nulla, se non a ottenere i fondi del PNRR. L'assurdità del dibattito è che ogni cosa viene sempre parametrata sull'eccezione, mai sulla regola. Come in un ospedale non ci sono solo trapianti di cuore, ma la maggior parte del lavoro è di ordinaria amministrazione, così nei tribunali i magistrati non si occupano solo di mafiosi e di politici corrotti come potrebbe sembrare sentendo i dibattiti. Il 95% del lavoro di ogni ufficio giudiziario è di quotidiana ordinarietà ed è su quella che, a mio parere, va perimetrato l'intervento normativo, ma soprattutto quello organizzativo per liberare risorse a favore del 5% di lavoro straordinario. In altre parole, magistratura associata e politica, la prima per spirito di conservazione, la seconda per ignoranza, discutono di improbabili e inutili riforme, quando la quotidianità negli uffici è fatta di riti spesso inutili che, se razionalizzati, costituirebbero di per sé una vera e utile riforma della giustizia».
È favorevole a separare le carriere tra giudici e pubblici ministeri e alla riforma del Consiglio Superiore della Magistratura?
«Innanzitutto lo chiamo Consiglio della Magistratura perché di superiore non vedo nulla. I padri costituenti lo hanno denominato "superiore" perché lo collocavano al di sopra dell'agone politico. Sono sicuro che, se sapessero cosa è diventato, si rivolterebbero nella tomba».
Va bene, ma cosa pensa dei referendum, li ha votati?
«Dei referendum penso che i quesiti erano folli e inutili e che i cittadini, più intelligenti dei promotori e dei politici, hanno capito che li si voleva truffare e sono rimasti a casa. Io invece sono andato a votare ed ho votato No al quesito sulla custodia cautelare, non ho ritirato la scheda per l'abolizione della legge Severino e ho votato Sì alle altre tre domande. Non mi oppongo alla separazione delle carriere, anche perché di fatto c'è già, ma la soluzione di questo problema è un lusso rispetto al disastro attuale».
Parliamo di politica...
«Di quale politica? La situazione drammatica in cui versa la giustizia è la diretta conseguenza della debolezza e pochezza intellettuale della politica. Le pare possibile che il dibattito sulla giustizia ruoti sempre e solo intorno agli stessi argomenti: separazione delle carriere, azione penale discrezionale, divieto per il pm di fare appello, prescrizione, ritorno in ruolo dei magistrati imprestati alla politica. Segno evidente che la politica non conosce i problemi veri e le possibili soluzioni».
Come riformerebbe il Consiglio della Magistratura?
«Lo scrisse, da illuminato qual era, il professor Stefano Zan, nel 2009, sul Corriere della Sera che il Consiglio è composto per due terzi da magistrati relativamente giovani, tutti militarmente "correntizzati", che non hanno mai coperto incarichi direttivi e per l'altro terzo da avvocati, professori o politici disoccupati. Ebbene, questa armata che non ha alcuna competenza gestionale e manageriale - Zan li definiva dilettanti - è chiamata a decidere chi andrà a comandare tribunali e procure, a prendere provvedimenti disciplinari, a valutare la competenza e valutare l'operato di colleghi spesso più autorevoli».
Cosa si può fare per cambiare se la riforma Cartabia è solo un pannicello caldo?
«Il sistema si scardina solo togliendo ai magistrati la maggioranza nel Consiglio. Al topo va sottratta la marmellata. Le toghe devono conservare solo una quota di garanzia, un terzo dei componenti scelti tra magistrati con anzianità e comprovata esperienza. Il terzo rimasto vacante dovrebbe essere coperto da specialisti in materia di organizzazione, gestione di risorse umane e materiali dotati di autonomia, sia verso la politica che verso la magistratura. Tolta alla magistratura la maggioranza in Consiglio si depotenzia automaticamente l'autocrazia, e soprattutto le correnti che non saranno più determinanti».
Ma l'autonomia della magistratura dove la mette?
«Autonomia e indipendenza della magistratura sono sacre! Ma, come sostengo da anni, è la loro interpretazione ad essere distorta e ipertrofica, ad essere uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo del sistema giudiziario verso una cultura dell'organizzazione e della qualità del servizio. Di questa interpretazione si nutrono i magistrati dimenticandosi, specie i dirigenti in gran parte inadeguati, che accanto al principio costituzionale dell'autonomia e indipendenza vi è quello della buona amministrazione. In altri e più chiari termini, l'autonomia e l'indipendenza del magistrato, di ogni magistrato, è sacra solo quando esercita la giurisdizione, ma non lo è affatto nell'ottica dell'appartenenza a un'organizzazione pubblica complessa».
Però i cittadini stanno con i giudici: al referendum non hanno premuto il grilletto...
«Tutt' altro. I cittadini, che non sono stupidi, hanno capito che si trattava del grilletto di una ridicola pistola giocattolo».
Giustizia, tutte le nuove regole della riforma Cartabia approvata in Senato. Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 16 giugno 2022. La riforma votata in Senato.
Separazione più rigida tra giudici e pm. Nuove regole per le elezioni al Consiglio superiore della magistratura che aumenta di 10 componenti. E valutazioni annuali per i magistrati in cui conterà di più il parere del capo dell’ufficio e spunterà anche quello degli avvocati. Tutte le novità della riforma Cartabia
Possibile un solo cambio da pm a giudice. È la parte più dibattuta della riforma Cartabia. La Costituzione prevede carriere uniche per giudici e pm. Nel testo si parla di separazione delle funzioni. Finora i passaggi consentiti dalla funzione requirente a quella giudicante nel penale erano 4. La riforma ne prevede solo uno entro i 10 anni dall’assegnazione della prima sede (escluso quindi il periodo di tirocinio di 18 mesi). Un limite che non è da tenere presente se si vuole passare dal settore penale a quello civile o da quello civile alle funzioni requirenti oppure per il passaggio alla Procura generale presso la Cassazione. L’Anm lamenta una «separazione delle carriere di fatto» e «profili di dubbia costituzionalità».
Pagelle annuali ai togati, c’è il parere degli avvocati. Discreto, buono, ottimo: sono queste le valutazioni che ogni magistrato riceverà ai fini della carriera. Il fascicolo personale verrà aggiornato ogni anno, non più ogni quattro. Con analisi a campione e statistiche dell’attività svolta. Incideranno la «tempestività nell’adozione dei provvedimenti» e «significative anomalie all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o gradi del procedimento e del giudizio»: se troppe richieste o condanne, ad esempio, si trasformano in assoluzioni nei gradi successivi. Conterà di più il giudizio del capo degli uffici. E si introduce il «parere» degli avvocati sulla professionalità dei magistrati: il «voto» solo su segnalazione dei consigli giudiziari.
I giudici eletti in politica non tornano indietro. I magistrati che hanno ricoperto cariche elettive per almeno un anno, al termine del mandato, non possono più tornare a svolgere alcuna funzione giurisdizionale. I magistrati ordinari vengono collocati fuori ruolo presso il ministero di appartenenza o altri ministeri o presso l’Avvocatura dello Stato. I candidati non eletti tornano alle loro funzioni. Ma - solo per tre anni - non nella Regione dove erano candidati né dove lavoravano: non con incarichi direttivi; non come pm, gip o gup. Se hanno svolto per almeno un anno ruoli apicali (capi dipartimento o di gabinetto e segretari generali nei ministeri) devono restare fuori ruolo solo per un anno. Al rientro, per tre anni, non possono ricoprire incarichi direttivi.
Stop nomine a pacchetto, vige l’ordine cronologico. Le nomine si decideranno in base all’ordine cronologico delle «scoperture», per evitare la pratica di «nomine a pacchetto». Una scelta per scongiurare scambi di favori fra correnti, già fatta dall’attuale Csm. I membri della commissione nomine del Csm non potranno coincidere con quelli della Disciplinare per evitare una commistione tra nomine e valutazione di professionalità. Prima e dopo la funzione si dovrà frequentare un corso di formazione. Sul sito del Csm saranno pubblicati tutti i curriculum. Per ogni incarico c’è obbligo di audizione di almeno tre candidati. Si dà modo di partecipare alle scelte su incarichi direttivi e semidirettivi anche ai magistrati dell’ufficio del candidato. Il Csm sale a 33 membri: 10 laici e parità di genere Sale a da 27 a 33 il numero dei componenti del Csm. Passano da 8 a 10 i laici, da 16 a 20 i togati: 2 magistrati di legittimità, 5 pm e 13 giudici. Più i membri di diritto: il presidente della Repubblica, il primo presidente di Cassazione e il procuratore generale di Cassazione. Nessun sorteggio dei candidati. Per evitare lo strapotere delle correnti si è pensato a un sistema elettorale misto: binominale maggioritario, con quota proporzionale (per eleggere 5 dei 13 giudici di merito). Un sistema che secondo l’opposizione «peggiora la situazione». Le candidature saranno individuali, senza liste. Ogni collegio binominale avrà un minimo di 6 candidati, almeno la metà del genere meno rappresentato. Per l’accesso al concorso basterà avere la laurea Cambia l’accesso in magistratura. Al concorso si potrà accedere direttamente dopo la laurea in giurisprudenza. Senza più l’obbligo di aver frequentato le scuole di specializzazione. Il giudizio sarà basato su tre prove scritte e prove orali teoriche. Ci sarà una valorizzazione dei tirocini formativi e del lavoro svolto nell’ufficio per il processo. Si attribuisce alla Scuola superiore della magistratura il compito di organizzare corsi di preparazione al concorso per i tirocinanti e per chi abbia svolto funzioni nell’ufficio per il processo del Pnrr. Con i fondi la ministra Cartabia ha chiamato 8.200 «giuristi» ad affiancare il lavoro di 9 mila toghe. E annuncia l’arrivo di 5400 «figure tecniche».
Piccoli passi. Cosa non cambierà nella giustizia italiana con la riforma Cartabia. Cataldo Intrieri su Il Corriere della Sera il 17 giugno 2022.
Purtroppo né la proposta referendaria appena bocciata, né la nuova legge appena approvata incidono veramente sulla madre di tutte le questioni: l’appartenenza di magistrati inquirenti e giudicanti allo stesso ordine. Ma ci sono alcuni cambiamenti positivi: come le misure per contenere la fuga di notizie dalla procura ai giornali.
Ha una sua forza simbolica il fatto che quattro giorni dopo il disastroso esito del referendum, il Parlamento abbia approvato la Riforma Cartabia: la legge che modifica alcune norme dell’ordinamento giudiziario, alcune delle quali erano stato oggetto proprio della consultazione popolare del 12 giugno.
In particolare la riforma introduce la separazione pressoché totale delle funzioni tra pubblici ministeri e giudici, definita impropriamente come “separazione delle carriere”. Per i magistrati sarà possibile solo una volta optare per un cambio di funzioni di pubblico ministero o di giudice. E nei primi dieci anni di carriera. Prima della riforma i magistrati potevano decidere di cambiare carriera per quattro volte.
Purtroppo né la proposta referendaria né la Riforma Cartabia incidono veramente sulla madre di tutte le questioni: l’appartenenza di magistrati inquirenti e giudicanti allo stesso ordine. E soprattutto la dipendenza dal medesimo Consiglio superiore della magistratura per l’assegnazione degli incarichi direttivi e delle misure disciplinari. Ovvero la condizione che ha portato finora agli intrecci e alle opache commistioni di interessi, mostrate all’opinione pubblica durante la vicenda Palamara.
Se il voto al Csm di un membro della corrente dove milita il procuratore che chiede una condanna. incide sulle legittime aspirazioni di carriera del giudice che deve decidere, questo rapporto ambiguo potrebbe limitare la libertà decisionale del giudice. È inutile negarlo, siamo esseri umani.
In attesa una modifica costituzionale risolva questo nodo principale, la nuova Riforma Cartabia servirà a evitare che la mentalità dei pubblici ministeri si trasferisca nelle sentenze. I magistrati si indignano di fronte a questa osservazione, e in effetti non parliamo di una regola generale, ma qualcuno potrebbe seriamente sostenere che due pm come Nino Di Matteo o Nicola Gratteri si lascerebbero dietro le spalle la loro visione del processo penale come mero strumento di accertamento e ratifica della verità colta nelle indagini? Sia lecito dubitare.
La seconda riforma ha anch’essa un forte valore simbolico perché consente agli avvocati di votare sulla progressione in carriera dei magistrati, su delega del proprio Ordine. Era una delle proposte dello sfortunato referendum ma lo ha realizzato prima la riforma voluta dal governo Draghi con un’ulteriore novità: verrà formato un apposito fascicolo del magistrato che raccoglierà i dati sull’attività precedente svolta dallo stesso.
Si tratta dell’innovazione che l’Associazione Nazionale Magistrati ha cercato di osteggiare in tutti i modi, arrivando a indire dopo 16 anni uno sciopero contro un governo fortemente voluto dal Presidente della Repubblica, lamentando una sorta di schedatura destinata a minare la serenità del magistrato.
Il terzo tema proposto dai referendari e realizzato dalla Riforma Cartabia riguarda la modifica del sistema elettorale e soprattutto della composizione del Csm.
Il quesito referendario si limitava a proporre una sorta di libera candidatura, mentre la nuova organizzazione voluta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia prevede un sistema proporzionale e un numero minimo di candidati per ogni collegio. Il cambiamento più importante tuttavia riguarda l’innalzamento del numero dei componenti, portato a 50. Di questi 50, venti sono togati, a loro volta suddivisi in 13 membri provenienti dall’ufficio giudicante e 7 dalle procure.
Lo scopo è quello di bilanciare le componenti laiche e quelle professionali, ma soprattutto di ridurre la prevalenza dei pm in un organismo così delicato. Il tempo dirà se i cambiamenti saranno efficaci.
Va sottolineato che questa è la prima riforma dell’ordinamento giudiziario in cui l’Associazione nazionale magistrati è stata messa da parte fino a provocarne la stizzita reazione e la proclamazione dello sciopero.
Nella riforma c’è anche la normativa sulla presunzione di innocenza, termine improprio ma che tende a sottolineare come lo scopo sia quello di limitare l’influsso delle procure sulla pubblica opinione tramite i rapporti privilegiati con la stampa. Solo i capi degli uffici inquirenti potranno dare informazioni ai giornalisti, e la violazione di tale prerogativa costituirà un illecito disciplinare.
Il malumore dei magistrati è fortissimo, forse appena attenuato dall’esito dei referendum. Ma altrettanto forti sono le ricadute nel campo dei movimenti e delle associazioni che si rifanno come ispirazione al garantismo.
La Riforma Cartabia è sicuramente ispirata da criteri di difesa e di tutela delle garanzie del cittadino e del corretto esercizio della giurisdizione, ma è stata voluta e realizzata dalla politica, sia pure a guida fortemente tecnocratica.
Una novità enorme che ha avuto fortissimi contraccolpi in due componenti fondamentali dello schieramento garantista: i radicali e gli avvocati.
Il presidente dell’Unione delle camere penali Gian Domenico Caiazza ha scatenato una dura polemica col segretario del Partito radicale a Maurizio Turco, promotore del referendum, rinfacciandogli la responsabilità della sconfitta di un’iniziativa giudicata improvvisata e avventurosa.
L’impressione è che l’indubbio successo del presidente del Consiglio Mario Draghi e di Marta Cartabia debba portare a un cambiamento dell’immagine della politica che ha saputo nell’occasione riguadagnarsi uno spazio di autonomia e a cui i movimenti espressione della società civile e della volontà popolare dovranno guardare con occhi diversi e con ben altra capacità di dialogo.
Il riformismo può funzionare in questo paese. Dunque anche il garantismo deve uscire dalle nebbie di confuse rivendicazioni populiste e diventare lo statuto politico di forze e movimenti che trovino i loro canali e riferimenti dentro le istituzioni.
La riforma Cartabia del Csm è legge: ecco cosa cambia, punto per punto. Simone Alliva su La Repubblica il 16 giugno 2022.
Dalla separazione delle carriere tra giudici e pm alla contestata presunzione di innocenza che frena i rapporti tra magistrati e giornalisti. Vi spieghiamo i cambiamenti che la norma apporta.
La pantomima di Lega con le mani sui fianchi – “o modificate o ce ne andiamo” - è durata meno di ventiquattro ore. “Noi votiamo la riforma, ma è anacronistica”, ha affermato la senatrice e responsabile Giustizia della Lega, Giulia Bongiorno. Forza Italia ha tenuto la barra governista, Italia Viva pure, attraverso l’astensione.
La riforma Cartabia è legge con 173 sì, 37 no. Dopo aver approvato le riforme del processo penale e civile, il Parlamento trasforma l’ordinamento giudiziario e il Consiglio Superiore della Magistratura. In tempo per luglio 2022, data in cui Palazzo Marescialli verrà rinnovato. Delle tre leggi la più tortuosa: il testo base adottato dalla Commissione era stato presentato dall’ex ministro Alfonso Bonafede nel settembre 2020. E la più urgente: invocata più volte dal capo dello Stato Sergio Mattarella, che le ha dedicato un lungo passaggio del suo discorso alle Camere durante la cerimonia di reinsediamento a febbraio 2022.
Dalla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri a un «fascicolo per la valutazione» dei magistrati, dall’assegnazione degli incarichi al sistema del Csm in Commissioni. E poi il divieto di parlare con i giornalisti, anche solo per smentire una notizia. Ecco come cambia l'ordinamento giudiziario italiano:
33 membri al Csm e quote rosa
Il futuro Consiglio superiore della magistratura sarà composto di 33 membri. Tre quelli di diritto: il Presidente della Repubblica; il Primo Presidente di Cassazione; il procuratore generale presso la Cassazione. Dieci i laici eletti dal Parlamento. Venti i togati: 2 in rappresentanza della Cassazione, 5 delle procure; 13 per la magistratura giudicante. I magistrati voteranno in 7 collegi (uno per la Cassazione, due per la magistratura inquirente; quattro per la giudicante). In ciascun collegio si eleggeranno due componenti. Si prevede inoltre per i giudicanti una distribuzione proporzionale di 5 seggi a livello nazionale e per i requirenti il recupero di 1 miglior terzo. Per candidarsi non sono previste le liste; ciascun candidato presenta liberamente la propria candidatura individuale. Devono esserci un minimo di 6 candidati. Se non arrivano candidature spontanee o non si garantisce la parità di genere, si integra con sorteggio.
Le pagelle degli avvocati e lo stop alle nomine pacchetto
Per gli incarichi direttivi e semidirettivi, si decide in base all’ordine cronologico delle scoperture. Si prevedono corsi di formazione per tutti, a cura della Scuola Superiore della Magistratura, sia prima di aver accesso alla funzione che dopo. Si rendono trasparenti le procedure di selezione, con pubblicazione sul sito Intranet del Csm di tutti i dati del procedimento e dei vari curricula, dando modo di partecipare alle scelte su direttivi e semidirettivi anche ai magistrati dell’ufficio del candidato. Si prevede l’obbligo di audizione di non meno di 3 candidati per quel posto. Nell’ambito del Csm, si dovrà individuare un contenuto minimo di criteri di valutazione, per verificare tra l’altro anche le capacità organizzative. Quanto alle valutazioni di professionalità, nei Consigli giudiziari locali ci sarà anche il voto degli avvocati, ma esclusivamente a seguito di un deliberato del consiglio dell’ordine degli avvocati.
Stop alle porte girevoli
Per quanto riguarda le sovrapposizioni tra mandato politico e funzioni giudiziarie, si prevede innanzitutto che non sarà più possibile esercitarli nello stesso tempo, nemmeno in distretti diversi (il caso più celebre è quello di Catello Maresca, giudice a Campobasso e insieme consigliere comunale a Napoli). Per assumere l’incarico, il magistrato dovrà quindi collocarsi in aspettativa. Al termine del mandato elettivo, i magistrati non possono più tornare a svolgere una funzione giurisdizionale. Se si sono candidati ma non sono stati eletti, per tre anni non possono tornare a lavorare nella regione dove si sono candidati né in quella dove lavoravano, né potranno avere incarichi direttivi. Se hanno avuto incarichi apicali in organismi di governo per oltre 12 mesi (tipico il caso di capi di gabinetto), restano per ancora un anno fuori ruolo – ma non in posizioni apicali – e poi rientrano nella funzione d’origine, ma per i tre anni successivi non possono ricoprire incarichi direttivi.
Valutazione annuale dei magistrati
Esiste già un fascicolo personale di ogni magistrato, previsto dal 2006. Attualmente, ad ogni valutazione di professionalità (cioè ogni 4 anni) il magistrato deve presentare al Consiglio giudiziario locale – e poi al Csm - provvedimenti a campione sulla propria attività svolta, e le statistiche relative alle attività proprie e comparate a quelle dell’ufficio di appartenenza. Il fascicolo andrà ora aggiornato annualmente, seguendo l’iter dei vari provvedimenti. Tra gli indicatori da tenere in considerazione da parte del Consiglio, gli eventuali segnali «di grave anomalia».
Limiti territoriali
Arrivano nuovi limiti territoriali per essere eletti: per le cariche elettive nazionali, regionali, province autonome di Trento e Bolzano, Parlamento Europeo, come anche per gli incarichi di assessore e sottosegretario regionale, si prevede che i magistrati non siano eleggibili nella regione in cui è compreso, in tutto o in parte, l’ufficio giudiziario in cui hanno prestato servizio nei precedenti tre anni. Anche per le cariche di sindaco, consigliere o assessore comunale, il magistrato non potrà più candidarsi se presta servizio o ha prestato servizio nei tre anni precedenti la data di accettazione della candidatura presso sedi o uffici giudiziari con competenza ricadente in tutto o in parte nel territorio della provincia in cui è compreso il comune o nelle province limitrofe. Il principio è che non dev’esserci alcun sospetto di un retroscena politico nell’azione del magistrato sul territorio.
Separazione tra le funzioni
Nel settore penale, sarà possibile un solo passaggio tra la funzione requirente e quella giudicante. Attualmente sono possibili fino a 4 passaggi di funzione. La scelta andrà fatta entro 10 anni dall’assegnazione della prima sede. Non ci sarà alcun limite, invece, per il passaggio al settore civile e viceversa, nonché per il passaggio alla Procura generale presso la Cassazione. La possibilità di un solo passaggio tra le due funzioni rasenta la separazione delle carriere, che prevederebbe appunto l’impossibilità di passare da un ramo all’altro della magistratura penale. L’Associazione nazionale magistrati ha parlato di «elusione» dei precetti costituzionali, che prevedono una sola giurisdizione. Secondo i parlamentari di maggioranza, è invece giusto che il magistrato abbia la possibilità di approfondire l’esperienza nel settore dove è capitato con la prima nomina, e che possa però cambiare almeno una volta.
Vietato parlare con la stampa
È una delle norme più contestate della riforma dai giornalisti. L’articolo 11 estende il rilievo disciplinare delle dichiarazioni agli organi di stampa introducendo un nuovo illecito disciplinare per quei magistrati che informano la stampa dei risultati dell'attività di indagine, anche solo per smentire una notizia sbagliata. Gli unici autorizzati a parlare con i giornalisti saranno i Procuratori della Repubblica, ma solo in conferenza stampa ed esclusivamente in casi di rilevanza pubblica. Una norma figlia della 'presunzione di innocenza', entrata in vigore a dicembre scorso con la firma della Guardasigilli e voluta dal deputato di Azione Enrico Costa, su spinta della direttiva europea.
Riforma della giustizia, appena approvata è già corsa a cambiarla. Ecco cosa non va. Dario Martini su Il Tempo il 17 giugno 2022.
Quattro giorni dopo il fallimento del referendum, per mancato raggiungimento del quorum, il Senato approva la legge sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura. La ministra Cartabia e il governo Draghi nel suo complesso possono tirare un sospiro di sollievo dopo mesi e mesi di scontri e una valanga di emendamenti. Alla fine la maggioranza tiene, nonostante Italia viva e cinque leghisti scelgano di astenersi (Calderoli, Ostellari, Pillon, Doria e Bagnai). I sì sono 173, i no 37. A spiegare la posizione di Iv è lo stesso Matteo Renzi nel suo intervento in aula a Palazzo Madama. Poco più di dieci minuti in cui non risparmia critiche a una riforma definita «più inutile che dannosa».
Insomma, secondo il senatore fiorentino questa legge non scioglie i veri nodi che affliggono la giustizia italiana da decenni. «Signora ministra Cartabia noi non voteremo la sua riforma - esordisce Renzi - Una riforma della giustizia e dell’ordinamento giudiziario serve, la sua serve meno di quello che noi speravamo. Non tocca il potere delle correnti, non tocca la responsabilità dei magistrati, e soprattutto lascia un po’ di amaro in bocca per la modalità con cui è arrivata al traguardo. Non voteremo contro, ci asteniamo perché la riforma non fa danni, a differenza di altre scelte del passato. Non è quel passo in avanti che serviva». Il leader di Italia viva ricorda che negli ultimi trent’anni sono finiti in carcere in media tre innocenti al giorno. E i magistrati non pagano mai per i loro errori, se è vero che «ogni anno lo Stato paga danni per 25-30 milioni di euro». Un altro punto su cui non si mette mano, sempre secondo il senatore, è «la presenza massiccia di magistrati negli uffici tecnici dei ministeri che fanno e disfano le leggi». Sarebbero circa duecento secondo le ultime stime. In realtà, il testo approvato ieri al Senato prevede una loro riduzione, ma si tratta solo di un principio contenuto nella delega si stabilirà nei decreti attuativi il nuovo numero limite. Inoltre, i magistrati potranno essere collocati fuori ruolo non prima di 10 anni.
Problemi e sprechi su cui la riforma Cartabia, secondo Renzi, non incide minimamente. Però, almeno, non peggiora la situazione. È all’incirca la stessa valutazione che dà la senatrice leghista Giulia Bongiorno, secondo la quale «questa riforma ha dei profili positivi, una serie di novità positive», come «il miglioramento nella valutazione dei magistrati, insomma ci sono dei piccoli passi avanti. Il problema è un altro: è soltanto un piccolo ritocco e non una trasformazione radicale del sistema». Durante il suo intervento in aula, la senatrice ricorda anche che «questa è una riforma che avviene nel 2022, dopo lo scandalo Palamara. Di fronte a rivelazioni sconvolgenti ci vuole un cambiamento sconvolgente, non ritocchi. Noi della Lega, ma credo che su questo posso dire noi del centrodestra, non crediamo più al fatto che improvvisamente la magistratura si autoriformerà. Noi crediamo fortemente nel fatto che una riforma efficace sia dovere del legislatore, e noi faremo una riforma coraggiosa che cambierà finalmente qualcosa nell’interesse di tutti». Una promessa che guarda al futuro, alle prossime elezioni politiche. Quando la Lega conta di cambiare veramente la giustizia italiana. Non è un caso che il relatore della legge, il leghista Andrea Ostellari, si sia astenuto.
Le dichiarazioni degli esponenti del Carroccio e di Italia viva stridono con quelle di Partito democratico e Cinque stelle, nonostante facciano parte della stessa maggioranza che sostiene Draghi. L’unica cosa che li unisce è la volontà di non far cadere il governo in questo momento. Non bisogna scordare che Enrico Letta nelle settimane scorse ha chiesto esplicitamente ai suoi elettori di disertare le urne per il referendum. Per la capogruppo Dem al Senato, Debora Serracchiani, il Parlamento «ha scritto una buona pagina, che assicura un funzionamento della giustizia sempre più efficace e giusto». Mentre Alessandra Maiorino, che guida i pentastellati in commissione Giustizia a Palazzo Madama, ritiene che «il testo» divenuto legge» sia «di gran lunga migliore di quello che sarebbe uscito dai referendum».
È abbastanza scontato invece il commento a caldo dell’Associazione nazionale magistrati, che a maggio ha pure scioperato un giorno per impedire l’approvazione della legge. «La riforma approvata in via definitiva dal Parlamento in materia di Csm e ordinamento giudiziario «contiene profili di dubbia conformità al disegno costituzionale», afferma il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. «Si tratta di una legge delega, chiederemo che i principi vengano attuati in modo meno impattante, vedremo come sia possibile smussare i profili di maggior attrito costituzionale. Chiederemo al governo di darci l’attenzione finora non dimostrata». Il fatto che il risultato finale non sia ottimale emerge anche dalla valutazione del Consiglio nazionale forense. La presidente dell’organismo che rappresenta gli avvocati italiani, Maria Masi, parla di «passo avanti verso un maggiore equilibrio tra funzioni e poteri degli operatori del diritto», ma ammette: «Non è la riforma migliore possibile». Più critica l’Associazione italiana giovani avvocati: «Considerare quanto legiferato oggi un traguardo sarebbe uno sbaglio, occorre ancora fare molta strada per correggere le tante storture del sistema»
Il via libera alla Riforma Cartabia. Riforma giustizia, anche Morra si sveglia: “I libri di Palamara e Renzi e il trojan spento prima della cena: è normale?” Angela Stella su Il Riformista il 16 Giugno 2022.
Oggi la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario verrà approvata al Senato alla presenza della Ministra Cartabia. Ieri l’Aula ha approvato tutti i 43 articoli della riforma. Ma vi si è arrivati non senza difficoltà. Dopo che la Commissione Giustizia, dopo diversi giorni di tensione, l’altra notte ha approvato il testo nell’identica forma di quello licenziato dalla Camera, ieri pomeriggio è iniziata la discussione generale in Aula, seguita dal voto sugli emendamenti.
La giornata si era aperta con una dichiarazione del segretario del Pd Enrico Letta: «La Lega ha perso il referendum. Sulla riforma della giustizia c’è un accordo di maggioranza e lo ha già votato anche la Lega. Si approvi quindi la riforma ma se l’ostruzionismo della Lega va avanti, allora il governo metta la fiducia al Senato. Far saltare la riforma significa minare le basi della convivenza stessa di governo. E un atteggiamento insostenibile». La Lega comunque in Aula ha fatto il suo gioco. Il relatore del Carroccio Andrea Ostellari avrebbe dovuto illustrare tecnicamente il provvedimento, invece si è lasciato andare a considerazioni di carattere generale: «C’è un gravissimo deficit dei rapporti tra i poteri democratici, la Lega non ce l’ha con i giudici né con il governo, il Pd la smetta di piantare bandierine. Qui si è chiesto di lavorare in Commissione, garantendo lo spazio a beneficio del provvedimento. Il Csm – ha spiegato – è un presidio fondamentale a garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia dell’ordine giudiziario, non per favorire la condizione dei magistrati ma per garantire che non subisca condizionamento, ma il Csm purtroppo è stato travolto dagli scandali». Rispetto a «una giustizia che rappresenta il livello di civiltà di uno Stato, non c’è solo il rischio per una platea di persone di finire in inchieste che portano magari solo all’omicidio politico per chi le subisce. Sia dato – ha concluso – ora ampio spazio al dibattito» in Aula.
È intervenuto poi il capogruppo di Iv in Commissione Giustizia, Giuseppe Cucca: «La nostra responsabilità l’abbiamo confermata ritirando gli emendamenti, anche per il rispetto che dobbiamo al presidente Draghi, per quello che sta facendo e continuerà a fare, e anche per ossequio al presidente Mattarella che aveva sollecitato l’approvazione di questa riforma. Però è doveroso dire una cosa, perché un domani possiamo dire “ve lo avevamo detto”. Ho difficoltà a chiamare questa “riforma Cartabia”, perché è la riscrittura con qualche modifica della riforma Bonafede». Visione paradossalmente diversa invece quella del senatore M5S Marco Pellegrini, capogruppo in commissione Antimafia: «Questa non è la nostra riforma, perché il testo che giunge oggi (ieri, ndr) nell’Aula del Senato segna passi indietro rispetto al più incisivo e coraggioso testo Bonafede. Ma grazie alla caparbietà del M5S, sono presenti aspetti importanti, come lo stop alle cosiddette porte girevoli tra magistratura e politica».
Cauta soddisfazione da parte del senatore Franco Mirabelli, capogruppo Pd in commissione Giustizia: «La Giustizia non funziona e di questo abbiamo provato a farci carico in questa Legislatura. Voglio sottolineare che abbiamo fatto cose concrete: riforme che aggrediscono i nodi veri della giustizia, non chiacchiere. La legge di cui stiamo discutendo è frutto del lavoro del Governo e della maggioranza. Il testo è stato approvato alla Camera dei Deputati con i voti di tutta la maggioranza e l’astensione di Italia Viva. Questa legge non soddisfa tutti, ma è un punto di equilibrio: un punto positivo di equilibrio, che interviene e fa fare un passo avanti, accrescendo le responsabilità della magistratura, riformando il sistema elettorale del CSM, intervenendo sul passaggio di funzioni riducendolo a uno solo, introducendo nuovi criteri di valutazione. È oggettivamente meglio dell’esistente. Sui referendum, alla fine non mi interessa dire chi ha vinto e chi ha perso. Mi interessa il fatto che dal referendum emerge un messaggio chiaro: i cittadini chiedono al Parlamento di fare le riforme».
Intervento accalorato quello del senatore Nicola Morra, ex 5Stelle ora al Misto: «Questo dibattito è segnato da una sostanziale ipocrisia. Chi ha letto il libro di Palamara e sta leggendo quello di Matteo Renzi scopre le tante nefandezze che hanno investito anche il mondo della politica e constata che tanto nulla cambia. E allora vi pare normale che i trojan per quanto siano programmati per rimanere accesi fino alla mezzanotte, vengano a spegnersi prima di una importante cena tra il dottor Palamara e l’allora Procuratore capo della Repubblica di Roma, dottor Pignatone? Vi pare normale?”. Arriva il richiamo della presidente di seduta, la senatrice dem Rossomando: «senatore le ricordo che si assume la responsabilità delle sue affermazioni». Morra: «io ho domandato se è normale che si spenga all’improvviso il trojan. Se per questo devo essere perseguito, perseguitemi».
Dopo la discussione è iniziato il voto sugli emendamenti. Il governo ha dato parere contrario a tutti gli emendamenti. Il relatore, invece, si è rimesso all’aula. Tutti gli emendamenti sono stati bocciati. La presidenza del Senato aveva ammesso anche un emendamento della Lega su cui il partito di Salvini ha chiesto il voto segreto. Non è passato: 136 contrari, 70 favorevoli, 9 astenuti. Si trattava del 6.01 che non riguardava l’ordinamento giudiziario e il Csm bensì la custodia cautelare. Come ha spiegato la senatrice Giulia Bongiorno: «Ripresentiamo il testo che era quello del quesito referendario. Durante la campagna referendaria ho ascoltato affermazioni false. Questo emendamento non riguarda affatto la violenza sulle donne, né lo stalking e – rivolgendosi alla collega del Pd Valente che era intervenuta prima ha aggiunto – è vergognoso dire cose campate in aria». Mentre il senatore di Fratelli d’Italia Ignazio La Russa aveva detto: «Il nostro no viene ribadito con trasparenza», ma «non vogliamo dividere il centrodestra su questo tema. E allora pur essendo assolutamente contrari al testo referendario non partecipiamo al voto». Angela Stella
La sentenza Cavallo ignorata in tanti processi. Intercettazioni a strascico, ecco il metodo Woodcock: il pm le usa o ignora a piacimento. Viviana Lanza su Il Riformista il 16 Giugno 2022.
La notizia dell’archiviazione dell’inchiesta sulle Universiadi a Napoli dell’estate 2019 solleva una riflessione. I motivi sono due: il primo è legato al fatto che l’inchiesta è stata archiviata, su richiesta degli stessi pubblici ministeri, per una questione relativa all’inutilizzabilità delle intercettazioni a strascico e il secondo è legato al fatto che tra i pm che hanno firmato la richiesta di archiviazione c’è il pm Henry John Woodcock. Andiamo al nodo della vicenda. Il pm Woodcock è in vari processi un sostenitore della utilizzabilità delle intercettazioni a strascico.
Dicesi a strascico quelle intercettazioni autorizzate nell’ambito di un procedimento e utilizzate poi come una sorta di esca per agganciare altre persone in relazione a fatti reato diversi. La Corte di Cassazione, con la sentenza Cavallo emessa dalle Sezioni unite a novembre 2019, ha messo dei paletti all’uso di questo metodo di captazione ritenendo di limitarlo a quei reati oggetto di procedimenti diversi ma uniti da una forte connessione, a reati per cui si prevede l’arresto in flagranza, per cui la pena non può essere inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni. Il tema della utilizzabilità o meno delle intercettazioni, anche prima della sentenza Cavallo, è comunque stato sempre molto dibattuto e oggetto di confronti tra accusa e difesa.
Ebbene, il pm Woodcock ne ha sempre sostenuto l’utilizzabilità, tanto che per definire il suo metodo investigativo si è fatto riferimento all’uso del trojan come base di ogni inchiesta, indagini spesso accompagnate tra l’altro da un certo clamore mediatico che trasformava ogni minimo sospetto in una prova, ogni ipotesi di reato in una condanna prima ancora che si arrivasse in tribunale, sicché quando poi il tribunale, quello vero, quello della giustizia reale e non mediatica, si pronunciava, la sentenza, anche se di assoluzione, riscuoteva meno attenzione da parte dei media, tra le macerie di vite e carriere nel frattempo già fatte a pezzi. Colpisce, quindi, che proprio il pm Woodcock, autore di inchieste nate e portate avanti sulla scia di intercettazioni anche a strascico, abbia firmato una richiesta di archiviazione in cui per giustificare la chiusura del caso si fa riferimento indovinate a cosa? All’inutilizzabilità delle intercettazioni a strascico. E in che modo? «Nel caso di specie – scrivono i pm nella richiesta di archiviazione – si pone in primo luogo una questione di ordine processuale che appare decisiva…».
La questione riguarda appunto le intercettazioni. «Ebbene – scrivono ancora – si tratta di una questione che si pone, almeno allo stato (nel senso che altrettanto evidentemente la questione non si poneva al momento in cui tali intercettazioni sono state acquisite e al momento in cui furono delegati i primi approfondimenti investigativi) a seguito della sentenza pronunciata dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione il 28 novembre 2019». Praticamente, dicono che siccome l’inchiesta è nata sulla base di intercettazioni autorizzate in un altro procedimento prima della sentenza Cavallo e siccome per effetto di questa sentenza tali intercettazioni sono da ritenersi inutilizzabili, l’inchiesta non ha più fondamenta ed è dunque da archiviare. E solo in calce alla richiesta, in poche righe, si fa riferimento al fatto che «in relazione a nessuna delle vicende sopra illustrate risulta esaustivamente comprovata la sussistenza di quella relazione sinallagmatica e corrispettiva che caratterizza in particolare qualsivoglia rapporto di natura corruttiva…».
A questo punto viene da pensare: non è che la chiusura del caso sia da attribuire più al fatto che si è indagato a vuoto per tre anni, tenendo per tutto questo tempo professionisti e imprenditori sulla graticola con tutti i danni che ciò comporta? E non è che la questione della utilizzabilità delle intercettazioni a strascico in questo caso sia un altro modo per utilizzarle comunque quelle intercettazioni? Nel senso che nell’archiviazione si usano per chiudere anni di indagini che non hanno prodotto alcuna prova contro nessuno, mentre in tutti gli altri processi le si usano per provare accuse contro qualcuno? Domandare è lecito.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Per il gip era solo una bolla di sapone. Gogna, dimissioni ed ennesimo flop: archiviata inchiesta su Nocera ma Woodcock salva se stesso. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 15 Giugno 2022.
Il nostro articolo sull’incredibile caso del pm John Woodcock che ha indagato chi lo indagava ha creato un po’ di scompiglio. E per fortuna. Abbiamo dato conto dell’esposto presentato dal magistrato Andrea Nocera: da Capo degli Ispettori del Ministero della Giustizia aveva fatto aprire – non sua sponte, ma come procedimento di funzione – una verifica amministrativa sugli uffici di Woodcock. Mal gliene incolse.
Il 13 settembre 2019 viene iscritto nel registro degli indagati proprio dal pm su cui indagava. Le valutazioni dell’Ispettore Capo Nocera sul ricorso proposto da Woodcock contro sentenza di condanna alla sanzione della censura – per uno solo degli illeciti contestati – sono state formulate nel luglio del 2019, si chiudevano con l’indicazione di sollecitare la costituzione nel giudizio di legittimità, a mezzo dell’Avvocatura Generale dello Stato, con deposito di controricorso per chiedere la condanna disciplinare sulle altre contestazioni graziate dal CSM (che aveva deciso dopo il rinvio del Consiglio precedente per via del caso Legnini-Pomicino-Palamara). Con sentenza depositata il 27/11/2019 le Sezioni Unite civili hanno deciso il ricorso annullando con rinvio la decisione impugnata che quindi tornava in prime cure. L’Ispettore Capo Nocera viene costretto a dimettersi guarda caso il 29 novembre 2019, dopo l’apposita visita e richiesta del Procuratore Capo e Generale del 28 Novembre 2019.
Sbarazzatosi di Nocera, il ministero e per l’effetto l’Avvocatura si disinteressato della vicenda. E l’ormai ex Ispettore capo si è trovato tra capo e collo una indagine penale avviata sotto le luci dei fuochi d’artificio: con la convocazione solenne nel novembre 2019 nell’ufficio dell’allora ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che appena informato dalla Procura di Napoli a proposito dell’indagine aperta – e ancora mancante del capo di imputazione – non ha esitato un attimo a prendere posizione e giubilato su due piedi Nocera. Stimatissimo giurista e gran lavoratore, ma pazienza. Che ci volete fare? L’avviso di garanzia è sovrano, nel contesto giustizialista tanto caro ai grillini doc. Così Nocera è dovuto rincasare nei ruoli ordinari della magistratura, mentre le sue verifiche su Woodcock venivano interrotte. Quello che non abbiamo ancora avuto modo di dirvi è che c’è un seguito. Le indagini si indirizzarono su una presunta corruzione e concussione.
Il magistrato venne accusato di avere usato la sua posizione per ottenere i biglietti della partita del Napoli a Torino con la Juventus, disputata il 19 settembre 2018, e la riparazione, sempre gratis, di una barca non di sua proprietà utilizzata per delle gite nel Golfo. Sospetti nati a Woodcock per aver ascoltato e interpretato il captatore (trojan) fatto installare sul telefono dell’armatore Salvatore Di Leva, anche lui indagato insieme all’ex senatore Salvatore Lauro e al giudice Vincenzo D’Onofrio. Un fuoco di fila notevole, quello messo su da Woodcock: un impianto accusatorio importante, quattro indagati nel complesso tra cui due magistrati, un armatore, un ex parlamentare. Eh già. Ma sapete come è finita? Il Gip di Roma, che ha assunto la guida delle verifiche preliminari, riascoltando i nastri e interrogando gli interessati, ha concluso che si è trattato dell’ennesima bolla di sapone.
Di reati, neanche l’ombra. E ha archiviato tutto, un anno dopo: a metà ottobre 2020 l’indagine di Woodcock era già finita idealmente, con il suo mare di carta e di sospetti, nel bidone della spazzatura. Con tante scuse per Nocera e gli altri? Neanche per scherzo. Il danno subìto dalla carriera di Andrea Nocera, letteralmente silurato per una questione di manutenzione alla barca insussistente, è da affondamento. Tiene a precisare il suo ruolo anche Dario Del Porto, l’inviato di Repubblica Napoli che nella nostra ricostruzione ha incontrato Nocera sul treno, rivelandogli di essere stato da tempo a conoscenza dei fatti. “Non ho mai ‘svelato i dettagli dell’inchiesta, con tutti i particolari’, né al dottor Nocera, né a nessun altro. Mi occupo di cronaca giudiziaria da trent’anni. Quello che so lo verifico e poi lo scrivo sul giornale, così ho fatto anche negli articoli che hanno riguardato questa vicenda. Non ho “avuto accesso ai brogliacci delle intercettazioni”, ho lavorato esclusivamente su atti depositati e conoscibili, dunque non coperti da segreto”, precisa il giornalista. “Ho incontrato casualmente in treno il dottor Nocera diversi giorni dopo le sue dimissioni e soprattutto quando i fatti al centro del suo coinvolgimento nelle indagini erano stati già abbondantemente pubblicati sulla stampa, da Repubblica come da altre testate. È sicuramente vero che, ascoltando lo sfogo del dottor Nocera, gli ho espresso la mia vicinanza umana e la convinzione che sarebbe riuscito a superare quel momento per lui così amaro”. Così in effetti è stato: in questo caso la giustizia – come accade quando riguarda i magistrati – è stata veloce e ha accertato l’estraneità dei fatti di Andrea Nocera e degli altri indagati.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Il caso dell'ex ispettore capo di via Arenula. L’incredibile caso di Andrea Nocera: indaga Woodcock che per difendersi lo indaga e lo porta a dimissioni. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 10 Giugno 2022.
Se mi indaghi, ti cancello. Questo potrebbe essere il titolo dell’incredibile vicenda vissuta dall’ex Capo degli Ispettori del Ministero della Giustizia, il giudice Andrea Nocera. Era stato lui, nel 2019, a rilevare delle anomalie a carico degli uffici del pm Henry John Woodcock. E per pura coincidenza sarà proprio Woodcock, insieme con il pm Giuseppe Cimmarotta, a indagare a sua volta Nocera nel dicembre di quello stesso anno. Costringendolo, seduta stante, alle dimissioni. Un testacoda giudiziario che non ha precedenti e che merita di essere conosciuto; anche perché pende ricorso davanti al Csm: il conflitto di attribuzione è evidentissimo. La lenta aporia con cui si è resa irrespirabile l’atmosfera intorno al procedimento parla anche dell’urgenza di riformare i criteri di nomina nell’autogoverno della magistratura, altrimenti condannato alla reiterazione del danno.
Questa storia nasce con il governo Conte I, negli indimenticabili anni in cui è guardasigilli Alfonso Bonafede. Il ministro sceglie Nocera come capo dei suoi ispettori interni, chiamati a vigilare sull’operato dei colleghi. Nocera prende l’incarico sul serio. Forse troppo, a giudicare dalle reazioni. In poco meno di un anno e mezzo istruisce un centinaio di azioni disciplinari e 42 accertamenti preliminari. I malumori sono inevitabili, qualche mal di pancia arriva ai piani alti. In particolare, sarà uno dei procedimenti ispettivi a fare rumore: riguarda l’attività di Nocera nell’occuparsi della procedura disciplinare relativa a Woodcock. Nei confronti del P.m. all’epoca era in corso il giudizio alla Sezione Disciplinare del Csm, definito in maggio con sentenza di condanna alla sanzione della censura per uno degli illeciti contestati a Woodcock. Un procedimento del quale non si ha accesso ai dettagli ma che riguarderebbe “una iniziativa disciplinare assunta dal Ministero della Giustizia”, non meglio conoscibile. Quale che sia, suona come un casus belli. È dopo quella procedura che ai piani alti del Ministero qualcuno fa esplodere una bomba. Metaforica, si intende. Ma non troppo: Andrea Nocera – con la massima urgenza – viene convocato dal Ministro. È la sera del 28 novembre 2019. Si trova a Firenze dove tiene una relazione al corso del Csm, e risponde che andrà l’indomani. La notte trascorre agitata: il tono del Ministro inusuale, la convocazione urgente e perentoria lasciavano presagire brutte sorprese. Il mattino dopo a via Arenula lo attendono, come un plotone di esecuzione, Alfonso Bonafede e il suo Capo di Gabinetto, Fulvio Baldi.
Danno conto di aver ricevuto nelle loro stanze il Procuratore capo di Napoli, Giovanni Melillo e il Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. Il Procuratore di Napoli aveva consegnato al Ministro una nota con la quale si informava di aver iscritto Nocera nel registro degli indagati. Come ormai ci ha abituato la giustizia, la comunicazione non conteneva alcuna indicazione sul reato per il quale risultava indagato. Solo un numero di procedimento, ma tanto bastava. È un attimo, un gioco di sguardi. Forse – noi non c’eravamo – un susseguirsi di sospiri. Si verbalizza: “Ministro e Capo di Gabinetto procedevano, nei termini richiesti dall’Autorità Giudiziaria, all’adempimento della notifica. Andrea Nocera nell’immediatezza ha rassegnato le dimissioni dall’incarico di Capo dell’Ispettorato Generale del Ministero della Giustizia, chiedendo l’immediato rientro in ruolo”. Accordato dal Csm la settimana successiva, sì. Ma un rientro nei ranghi non privo di amare sorprese.
In quel frangente a Nocera viene notificata la fattispecie contestatagli da Woodcock, che per l’occasione si tramuta da indagato a indagatore: corruzione in concorso con l’armatore Salvatore Lauro e l’imprenditore marittimo Salvatore Di Leva, amministratore della società Alilauro Gruson. Parte, prima ancora che il giudice Nocera possa confrontarsi con i suoi legali, la requisitoria del processo mediatico: Il Fatto Quotidiano, Corriere della Sera (in particolare con l’edizione del Mezzogiorno, da Napoli) e Repubblica avrebbero già una mezza idea sulla sentenza: “Accuse pesanti. Fino a oggi il magistrato era sempre stato considerato una persona al di sopra di ogni sospetto dai colleghi”, sintetizza Il Fatto. Nello specifico, Woodcock ha acceso i fari su un presunto incontro che sarebbe avvenuto agli inizi di aprile. Guarda caso, proprio mentre il procedimento disciplinare a suo carico, a via Arenula, veniva istruito da Nocera. All’incontro incriminato avrebbero preso parte, oltre a Nocera, Di Leva, Lauro e il commercialista Alessandro Gelormini. Al magistrato sarebbe stato chiesto di procurarsi “notizie e informazioni” su un’inchiesta per reati societari in cui era coinvolto l’armatore. In cambio a Nocera, che ha una casa a Capri, sarebbero stati forniti “numerosi biglietti e tessere” per gli aliscafi diretti nell’isola e “servizi di manutenzione e rimessaggio” di un gommone nel cantiere di Di Leva.
Non entriamo nel merito dell’inchiesta. Parliamo del metodo, in punta di piedi, con le informazioni che abbiamo. Nocera ha protestato, a dire il vero, l’anomalia gigantesca della coincidente trattazione del procedimento disciplinare e messo in evidenza, in un esposto al Csm, il singolare dato temporale lungo il quale si dipanano i fatti. “La forma dell’esposto – precisa Nocera nella premessa – è l’unica possibile attesa la sostanziale assenza di contraddittorio nel procedimento, definito con una richiesta ed un decreto di archiviazione senza possibilità di interlocuzione difensiva sugli elementi di indagine – salvo l’interrogatorio reso su richiesta della difesa a distanza di circa due anni dall’inizio dell’indagine, senza alcuna formulazione anche sintetica delle ipotesi di accusa – nonostante i temi siano stati oggetto di una lunga ed affannosa “requisitoria” del pubblico ministero, inutilmente sviluppata in oltre 130 cartelle”. Centotrenta cartelle che si alimentano anche di intercettazioni telefoniche, naturalmente distribuite ad un pugno di giornalisti amici mentre l’indagine era strettamente riservata. Al punto che quando, ancora scosso per l’avviso di garanzia ricevuto, Nocera prende il treno per tornare a Napoli, sarà il caporedattore di Repubblica Del Porto – incontrato per caso – a svelargli i dettagli dell’inchiesta, con tutti i particolari.
Aveva avuto accesso ai brogliacci delle intercettazioni già il 4 dicembre, per una inchiesta della massima riservatezza non c’è male. Confidandosi con l’amico Nocera gli assicurerà, peraltro, di non credere alla storia del gommone. Tenuto accuratamente al buio l’interessato, le sue conversazioni erano state misteriosamente – ma meticolosamente – ben distribuite alla stampa, incoraggiata a scrivere. Sono agli atti le strettoie che hanno complicato l’esercizio del diritto di difesa dell’indagato Nocera: dalla notizia della indagine (5/12/2019) alla data dell’interrogatorio (20 settembre 2021), benché sollecitato ripetutamente dagli avvocati dell’Ispettore dimissionato, e ampliamente scaduti tutti i termini di indagine, la Procura di Napoli non ha emesso alcun atto utile a consentire una potenziale ricostruzione dei fatti. “Ciò ha impedito di fatto ogni possibile spazio di dialettica sugli elementi acquisiti – al di là dell’interrogatorio reso su richiesta della difesa – e ogni possibile interlocuzione difensiva anche in relazione alla determinazione raggiunta dall’Ufficio di Procura di definire il procedimento con richiesta di archiviazione”, si legge ancora nell’esposto di Nocera. Un clima di veleni cui il Ministero di Bonafede ha assistito senza colpo ferire, lasciando ancora una volta che il sistema giudiziario cannibalizzasse se stesso.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Toghe e informazione, il bavaglio non esiste. Armando Spataro su Il Corriere del Giorno il 4 Giugno 2022.
Sono preferibili comunicati stampa sobri ed essenziali che hanno il pregio di diffondere parole e notizie precise, senza possibilità di interpretazioni forzate, come accade con i "racconti" a voce. Vanno evitati però eccessi comunicativi anche della polizia giudiziaria (spesso dovuti al fine di acquisire titoli utili per la progressione in carriera, mediante visibilità e impatto mediatico delle proprie attività) o anticipate diffusioni di notizie che possono determinare il rischio di pregiudicare il buon esito delle operazioni.
Il corretto rapporto tra giustizia ed informazione-comunicazione è oggi uno dei pilastri cui si fonda la credibilità dell’amministrazione della giustizia, mentre a comunicazione scorretta ed impropria genera tra i cittadini errate aspettative e distorte visioni della giustizia, così determinando ragioni di sfiducia nei confronti della magistratura. Infatti il CSM ha più volte emanato linee guida per gli uffici giudiziari “ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, anche se quelle determinate in passato da vari magistrati non sono certo le uniche criticità che ormai si manifestano sul terreno dei rapporti tra giustizia ed informazione. L’approvazione del decreto legislativo n.188/2021 ha determinato commenti negativi.
Alcuni a partire da Paolo Colonnello su La Stampa hanno parlato un inaccettabile bavaglio che si vorrebbe imporre al dovere-diritto di informazione su vicende e procedure penali. Non si può ovviamente alcuna forma di censura sulla diffusione di notizie di pubblico interesse per i cittadini, ma non condivido tali critiche le quali, innanzitutto, non considerano che, al di là di marginali aspetti critici, la normativa è imposta da una precisa direttiva europea. E’ innanzitutto corretto che sia vietato per le autorità pubbliche (quindi non solo la magistratura) indicare pubblicamente come colpevoli indagati o imputati non definitivamente condannati, così come correggere la propalazione di notizie inesatte.
Ma l’allarme-bavaglio riguarda soprattutto il divieto di conferenze stampa (salvo eccezionali motivate) in favore della prassi di comunicati. Condivido totalmente questa previsione poiché conferenze stampa teatrali e comunicati stampa per proclami hanno inquinato l’immagine della giustizia e alimentano la creazione di magistrati icone, non caso tra i primi a lamentarsi della scelta legislativa. Sono preferibili comunicati stampa sobri ed essenziali che hanno il pregio di diffondere parole e notizie precise, senza possibilità di interpretazioni forzate, come accade con i “racconti” a voce. Vanno evitati però eccessi comunicativi anche della polizia giudiziaria (spesso dovuti al fine di acquisire titoli utili per la progressione in carriera, mediante visibilità e impatto mediatico delle proprie attività) o anticipate diffusioni di notizie che possono determinare il rischio di pregiudicare il buon esito delle operazioni.
Sono pure condivisibili le disposizioni riguardanti la tecnica di redazione degli atti giudiziari destinati a diventare pubblici, quali decreti di perquisizione, avvisi di garanzia, provvedimenti cautelari, decreti penali e sentenze, che coerentemente non possono essere motivati in modo ultroneo rispetto ai fini cui sono diretti tra i quali non rientra la loro amplificazione mediatica. I protagonisti della comunicazione relativa alla giustizia non sono però solo i magistrati e la polizia giudiziaria ma anche gli avvocati, i politici, ed i giornalisti. e’ virtuoso il protagonismo di magistrati ed avvocati civilmente impegnati a fornire corrette informazioni ai cittadini nell’interesse della amministrazione della giustizia e della sua credibilità, ma non si può tacere in ordine a certi comportamenti di non pochi avvocati che sfruttano la risonanza mediatica delle inchieste in cui sono coinvolti i loro assistiti, ed anzi le amplificano. Anche grazie a tale propensione si afferma il processo mediatico, che – maggiormente deprimente se vi partecipano magistrati diventa spesso più importante ed efficace di quello che si celebra nelle Aule di Giustizia e della sentenza cui è finalizzato.
Quanto al comportamento di alcuni politici, con incarichi governativi o meno, non si può tacere su quanti sono ben attenti a sfruttare le modalità di comunicazione che i tempi moderni hanno imposto, specie a proposito di procedimenti che vedono indagati o imputati coloro che per comune appartenenza partitica o per parentela ed amicizia, sono a loro vicine. Il brand utilizzato continua ad essere sempre eguale: si tratta di processi frutto dell’orientamento politico dei magistrati che non rispettano la legge ! I giornalisti, ovviamente, dovrebbero essere gli osservanti più scrupolosi delle regole della corretta informazione. E fortunatamente molti lo sono. Ma anche per questa categoria la modernità ha imposto “anti-regole” pericolose ed inaccettabili, mentre dovrebbero valere quelle del giornalismo d’inchiesta senza cedimenti alle logiche del captare attenzione e scatenare interesse sulla base di informazione inesatte o superficiali. Condivido, comunque, la necessità di disciplinare legislativamente l’accesso agli atti, per evitare dipendenza da fonti portatrici di interesse e per esaltare la libertà e professionalità dei giornalisti.
Ma è giusto anche che le conferenze stampa siano limitate ai fatti di pubblico interesse e che sia il procuratore a deciderlo: si potrebbe mai operare una simile scelta d’intesa con organismi rappresentativi del giornalismo ? Se tutto avviene correttamente e nello spirito della legge, i giornalisti non vedranno mai depotenziato il loro ruolo e diritto di selezionare le notizie di interesse: le indagini non nascono per tale fine, bensì per accertare i reati consumati e toccherà ai giornalisti ricercare le notizie correttamente, attraverso le fonti possibili.
Infine un’ultima domanda: si continua a denunciare il rischio di bavaglio all’informazione sulla giustizia, ma non rilevo affatto che, dall’entrata in vigore del decreto sulla presunzione d’innocenza, tale informazione abbia patito penalizzazioni di qualsiasi tipo ! O sbaglio ? Riflettiamo tutti insieme, dunque, su informazione e giustizia, tra magistrati, avvocati e giornalisti, cercando di risolvere ogni criticità, ma si eviti per favore di denunciare un’inesistente bavaglio all’informazione come se vivessimo fuori da una democrazia.
Quello che le toghe non vedono. Luca Fazzo il 3 Giugno 2022 su Il Giornale.
Piccola scommessa, vinta in partenza: neanche adesso che glielo dice un organismo europeo al disopra di ogni sospetto, i magistrati italiani si rassegneranno a quel che all'Europa pare ovvio.
Piccola scommessa, vinta in partenza: neanche adesso che glielo dice un organismo europeo al disopra di ogni sospetto, i magistrati italiani si rassegneranno a quel che all'Europa pare ovvio. E cioè che non può funzionare un sistema dove un giudice passa in politica, si schiera con un partito contro altri partiti, se ne sta per un po' in Parlamento o a fare il sindaco, e poi come se nulla fosse torna a indossare la toga e ad amministrare la giustizia in nome del popolo. Un sistema del genere - ovvero quello che regna in Italia - fa sì che la giustizia appaia amministrata in nome non del popolo ma del partito, della fazione, della corrente ideologica di cui - gettando la maschera dell'imparzialità - quel magistrato ha rivelato di fare parte. È un sistema che riverbera l'ombra del dubbio non solo sulle decisioni prese dal magistrato dopo il ritorno in toga, ma anche su tutto il suo lavoro passato, che viene inevitabilmente riletto alla luce delle sue disvelate opinioni politiche. Di casi simili sono pieni gli annali, e coinvolgono indistintamente magistrati di destra, di centro e di sinistra: cosicché le correnti della magistratura sono risultate compatte nel fare barriera (nei fatti, se non a parole) contro qualunque tentativo di riforma. L'esempio più vistoso delle grottesche conseguenze dell'andirivieni tra toga e politica è di appena tre giorni fa, e ne ha ben parlato il consigliere del Csm Nino Di Matteo: la storia di Donatella Ferranti, magistrato, che viene eletto nelle liste del Pd, diventa presidente della commissione Giustizia della Camera, e in questa veste attraverso Luca Palamara cerca di orientare l'esito di due nomine importanti; poi torna come se niente fosse a fare il magistrato in Cassazione ma continua a trattare con l'amico Palamara nomine delicate, mettendo a frutto i contatti acquisiti quando faceva il deputato, salvo poi trincerarsi dietro l'immunità quando saltano fuori le sue chat. Che questo sia il sintomo di un sistema malato è sotto gli occhi di tutti. E ancora più sintomatico è l'ostruzionismo della magistratura organizzata ai tentativi di porre un freno all'andazzo. Appena un mese fa, il 30 aprile, il segretario dell'Anm Salvatore Casciaro accusa la riforma Cartabia - che cerca di bloccare le «porte girevoli» - di «eccesso di irragionevole rigore», ipotizzandone addirittura la incostituzionalità. Mettere un alt all'andirivieni per l'Anm violerebbe i diritti politici dei magistrati, che essendo cittadini come tutti dovrebbero poter fare politica senza venire penalizzati. Ma i magistrati non sono cittadini come tutti, qui sta il problema. Lo erano fin quando non hanno vinto il concorso, che ha dato loro accesso a una carriera di agi, di intangibilità, di avanzamenti automatici di carriera impensabili per chiunque altro. Privilegi che hanno come unico senso liberarli dai condizionamenti che il bisogno reca con sè, consentire loro di esercitare la giustizia seguendo solo la legge. Ma quale condizionamento peggiore c'è della obbedienza di partito, dei lacci che i magistrati si scelgono da soli quando si tolgono la toga, se la rimettono, se la ritolgono? Vogliono essere liberi, ma solo fin quando gli fa comodo.
La Caporetto di tribunali e toghe: due italiani su tre non si fidano del sistema giustizia. Stefano Zurlo il 27 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il rapporto Eurispes evidenzia un quadro impietoso: il 65,9% non crede nell’apparato e tra i giovani si supera il 70%. La conseguenza è che un italiano su 4 non denuncia neppure il reato subìto a causa dei processi-lumaca.
Un italiano su quattro non denuncia il reato appena subito. E due su tre non hanno fiducia nella giustizia. Se non è una Caporetto, poco ci manca. L'Italia si avvicina con passo stanco e distratto all'appuntamento con i referendum, ma sotto la crosta dell'apparente indifferenza covano altri sentimenti: forse la rassegnazione e la disillusione, ma certo i nostri connazionali hanno le idee chiare. Il sistema non funziona e i primi a misurarne e percepirne i limiti sono i giovani che pure dovrebbero essere battezzati nel fonte dell'ottimismo.
Non è così, in ogni caso la diagnosi mette al primo posto la malattia delle malattie: l'esasperante lentezza dei processi, antico e mai risolto male del nostro Paese. Abbiamo perso il conteggio dei proclami di chi prometteva di accorciare sul calendario i rituali e le tappe dei procedimenti, oggi siamo ancora qua, più o meno allo stesso punto, con la foto scattata dal trentaquattresimo Rapporto Italia dell'Eurispes.
Le cifre sono davvero mortificanti e mostrano tutta la distanza che c'è fra i convegni e le interviste delle toghe e la realtà che viene vissuta quotidianamente nei palazzi di giustizia della penisola. Dunque, più di un cittadino su quattro - per la precisione il 27,3 per cento - preferisce non denunciare i gli illeciti. Un dato sconfortante che, fra l'altro, falsa tutte le classifiche e le statistiche sui reati e sul loro andamento. Le ragioni di questo comportamento? Purtroppo non c'è una sola causa: l'11% pensa che i fastidi nell'affrontare un percorso giudiziario siano superiori ai vantaggi; dieci potenziali utenti su 100 non si avventurano perché hanno paura di essere inghiottiti da meccanismi farraginosi che non promettono certezze ma solo spese su spese; un altro 6.2 per cento del campione si trincera dietro uno scudo formato da una sola parola: sfiducia.
Gira e rigira, si torna sempre alla stessa casella: il 65,9 per cento degli intervistati da Eurispes afferma di non fidarsi dell'apparato giudiziario. Naturalmente con diverse gradazioni: il 45,3 per cento concede un piccolo credito ai giudici, contro un 20,6 per cento che ha perso ogni speranza.
E le persone mettono in fila i motivi di questa presa di distanza. Al primo posto c'è, come prevedibile, l'esasperante lentezza dei processi, che viene impietosamente indicata dal 34,1 per cento delle persone ascoltate, mentre in seconda posizione il 19,8 per cento muove una critica più sottile, in qualche modo politica: non tutti sono uguali davanti alla legge e poi un importante 13,6 per cento sottolinea con amarezza che nel nostro Paese non c'è la certezza della pena. Insomma, il catalogo delle criticità è lungo e dovrebbe costringere i poteri dello Stato a una riflessione urgente per sbloccare finalmente le riforme che restano sepolte nell'armadio stracolmo degli annunci.
C'è il testo che porta il nome del Guardasigilli Marta Cartabia, per carità, e si spera che un qualche risultato possa arrivare attraverso la spinta dei referendum, ma il rischio di non raggiungere il quorum del 50 per cento è purtroppo molto alto.
Un altro elemento colpisce e mina drammaticamente la credibilità della magistratura: il 57,8 per cento degli italiani che si sono confessati con Eurispes ritiene che l'azione dei giudici sia condizionata dall'appartenenza politica, dunque dal pensarla in un modo piuttosto che in un altro, mentre il 31,1 per cento è convinto che le cose non stiano così. Se si scorporano i risultati del sondaggio si scopre, forse a sorpresa, che i primi a non scommettere sul buon andamento della macchina giudiziaria, giudicata inaffidabile, sono gli elettori che non si sentono rappresentati (73,4 per cento) e soprattutto quelli Cinque stelle ( 69,7 per cento).
Ma le differenze, rispetto agli altri spicchi dell'emiciclo, sono modeste e nessuno pare più inseguire il sogno di un ordine giudiziario come modello e punto di riferimento per la società.
L'ultima puntura di spillo è quella anagrafica: l'entusiasmo non va a braccetto con l'età, anzi. Sono proprio i ragazzi fra i 18 e i 24 anni ad avere poca (50,9 per cento) o nessuna (22,4 per cento) fiducia nella giustizia. Il 73,3 per cento degli under 24 entra nel mondo adulto osservando con preoccupazione, o peggio con scetticismo, quel che avviene nei tribunali.
Francesco Grignetti per “la Stampa” il 26 maggio 2022.
Al professor Sabino Cassese, eminente giurista ed ex giudice costituzionale, si addice il ruolo del fustigatore. Il suo ultimo libro «Il governo dei giudici» (Laterza) segnala che la grave crisi della giustizia è innanzitutto una divaricazione fortissima tra domanda e risposta del sistema. E i magistrati italiani, secondo lui, non sono affatto esenti da errori. Perciò Cassese è pronto a rovesciare ogni tavolo. «Il referendum - dice - è uno strumento poco adatto alla riforma della giustizia, ma può diventare un mezzo di sollecitazione».
Intanto, professore, i tempi del processo civile si sono allungati ancor di più. Eppure la pandemia c'è stata per tutti. Come se lo spiega?
«I motivi sono numerosi. Innanzitutto, c'è una legislazione che non considera i tempi della giustizia e ignora che una giustizia in ritardo non è giusta. In secondo luogo, vi è un numero di eccessivo di avvocati: l'Italia ha 20 milioni di abitanti in meno della Germania e 100 mila avvocati in più. In terzo luogo, vi è l'organizzazione rudimentale del processo, a cui si sta ponendo mano con il cosiddetto ufficio del processo. Infine, c'è la completa disattenzione, da parte della magistratura, dei tempi della giustizia».
Lei scrive che, anche in Italia, la giustizia acquista sempre maggior peso, solo che da noi il sistema non riesce a stare al passo con questo ruolo crescente. Colpa dei magistrati o colpa del sistema?
«La macchina della giustizia è così complessa e le disfunzioni sono tante, che stabilire imputazioni e attribuire colpe è molto difficile. Vi è un insieme di concause che producono l'attuale situazione, a partire dalla antiquata distribuzione dei tribunali sul territorio fino alla irrazionale assegnazione dei magistrati ai tribunali, passando per la quasi completa assenza di attenzione per gli aspetti che riguardano i tempi e gli impatti delle decisioni sulla domanda di giustizia».
Ritiene che le riforme Cartabia del penale e del civile riusciranno a farci invertire la china?
«Non credo che risolveranno i problemi, ma credo che vadano nella direzione giusta.
L'idea di fondo che la giustizia sia un organismo della cui organizzazione, della cui efficienza, delle cui performance ci si deve interessare, costituisce il punto d'avvio di ogni possibile riforma della giustizia. Purtroppo, tra i magistrati è diffusa un'idea diversa della giustizia, atemporale, incapace di misurare se stessa e i propri effetti, non correlata con la domanda sociale».
Lo sciopero dei magistrati non è andato bene.
«Ho già detto, prima dello svolgimento dello sciopero, che si trattava di un atto suicida. I risultati hanno confermato il giudizio. La motivazione ufficiale era: vogliamo essere sentiti. Di fatto, la motivazione era un'altra: vogliamo decidere noi».
Lei denuncia una «continuità» tra alcune procure, una parte dell'informazione, e pezzi della politica. Ciò creerebbe un vulnus quantomeno culturale nel corpo stesso della magistratura. Se questa è la diagnosi, che cosa pensa del quesito referendario per la separazione assoluta delle funzioni tra inquirente e giudicante?
«Ritengo che sia un dovere di tutti i cittadini partecipare ai referendum ed esprimersi. Ritengo, in secondo luogo, che bisognerà votare a favore di quei quesiti che affrontano problemi che non saranno stati risolti dal Senato nell'ultimo passaggio della riforma Cartabia.
Il referendum è uno strumento poco adatto alla riforma della giustizia, ma può diventare un mezzo di sollecitazione di un Parlamento che non riesce a decidere.
Non credo che la separazione delle carriere sia risolutiva, ma ha acquisito sia nella percezione pubblica, sia nel modo in cui viene considerata dal corpo della magistratura, un significato tale per cui può servire da stimolo per i magistrati assegnati alle funzioni requirenti e inquirenti al rispetto di quell'articolo della Costituzione che prescrive la riservatezza dell'accusa. Detto questo, ritengo che si tratta di due mestieri diversi e che sarà bene reclutare le persone chiamate svolgerli con criteri diversi».
Sugli altri quesiti: quale la sua posizione sul quesito che limita la carcerazione preventiva? E sull'abrogazione della legge Severino, nella parte che colpisce gli amministratori in presenza di sentenze non definitive? Sulla valutazione estesa agli avvocati e professori universitari nei giudizi di professionalità per i magistrati (idea recepita parzialmente anche questa nella riforma in itinere)? «Ripeto: se il Parlamento non decide per tempo, sarà giocoforza rispondere positivamente ai quesiti referendari».
Il tema del Csm è ovviamente centrale in ogni disegno di riforma. Il quesito referendario elimina la raccolta di firme per una candidatura. Il problema è affrontato in maniera simile dal ddl in discussione, ma si intende cambiare anche la legge elettorale dei giudici. Lei pensa che si arriverebbe sul serio a limitare le degenerazioni del correntismo, oppure auspica un intervento più radicale?
«Certamente il problema non sarà risolto. Tuttavia ci si sarà avviati verso una soluzione, da tanto tempo attesa. Per questo motivo, anche i primi passi vanno salutati con favore. Il Csm vedrà la soluzione dei suoi problemi quando la smetterà di ritenersi organo di autogoverno e comincerà a svolgere davvero le funzioni che ad esso assegna la Costituzione. Ben due volte, all'articolo 87 e all'articolo 104, la Costituzione dispone che il presidente della Repubblica presiede il Consiglio superiore della magistratura.
L'articolo 105 definisce chiaramente i compiti del Consiglio: «Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti nei riguardi dei magistrati». Solo queste sono le funzioni e vanno svolte secondo i criteri dettati dalla legge».
Mattarella alle toghe: per essere utili al Paese dovete studiare di più. Sabrina Cottone il 12 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il capo dello Stato sferza i magistrati: sempre maggiore l'esigenza di continuo aggiornamento.
Bastano tre minuti di un discorso pacato, asciutto e apparentemente di circostanza perché Sergio Mattarella ricordi ai magistrati come sia avvertita la sempre maggiore «esigenza di formazione, aggiornamento», di avere «un punto di riferimento», per i «tanti eventi, esigenze e novità che richiedono approfondimento e ampliamento».
Il capo dello Stato e presidente del Consiglio superiore della magistratura non cita nessun fatto in particolare all'inaugurazione romana della Scuola superiore della magistratura, ma il pensiero corre alla riforma della giustizia, ai referendum, agli scandali del sistema Palamara. Sullo sfondo la morte drammatica del magistrato Mario Amato, cui è intitolata la Scuola, nel medesimo anno in cui veniva assassinato anche il fratello del presidente, Piersanti Mattarella.
Il capo dello Stato parla in un lussuoso attico con vista sulla fontana di Trevi, nuova sede della Scuola. Un immobile sottratto alla criminalità organizzata, luogo passato «da ostentazione dell'illegalità a sede dell'organismo che cura la formazione dei magistrati». Schiaffo non solo simbolico.
Mario Amato, che dà il nome alla scuola, sostituto procuratore della Repubblica di Roma, fu assassinato nel giugno 1980, a quarantacinque anni, dall'organizzazione eversiva neofascista dei Nar, sulle cui attività indagava. Una figura modello. «L'operato e l'impegno di Mario Amato, così come quello di tanti magistrati assassinati, costituiscono una lezione di comportamento e di interpretazione del ruolo del magistrato che la Scuola fa proprio e trasmette» dice Mattarella.
Pochi mesi prima della morte di Amato, nel gennaio dello stesso anno, il sanguinoso 1980, era stato assassinato il fratello del futuro presidente della Repubblica, quel Piersanti Mattarella che da presidente della Regione Siciliana aveva combattuto la mafia con i fatti, cercando anche di fare pulizia tra gli appalti e che per questo fu ucciso. La moglie di Piersanti assicurò di aver visto dalla finestra un noto esponente dei Nar ma ciò non bastò perché l'organizzazione eversiva neofascista fosse coinvolta nelle condanne, che si sono limitate a soli esponenti della mafia. La dinamica esatta dell'omicidio rimane una delle pagine inquietanti della storia repubblicana.
Resta da attendere il prossimo discorso di Mattarella, che sarà a Sorrento tra i presenti al meeting «Verso Sud», voluto dal ministro per la Coesione territoriale Mara Carfagna e realizzato da The European House-Ambrosetti, i medesimi organizzatori del forum di Cernobbio.
Riforma giustizia tributaria: cose dell’altro potere (costituzionale o meno). Angelo Lucarella, Giurista e saggista, su Il Riformista il 16 Aprile 2022.
È un mondo, quello della giustizia tributaria, che per riformarlo occorre viverlo. Primo per vestire i panni del difensore dei contribuenti con tutte le implicazioni che ciò comporta. Secondo, non meno importante del primo, per vestire i panni del giudicante con tutte le sue contraddizioni. Terzo, non meno importante del primo e del secondo, per vestire i panni del contribuente con tutte le sue preoccupazioni. Manca un ultimo motivo, certamente, meno importante di tutti gli altri elencati. Tuttavia è, quasi paradossalmente, il più essenziale a rendere l’idea di quale sia lo stato dell’arte (in termini politici e non): vestire i panni del c.d. “visitatore occasionale di cantiere”. Quest’ultimo è, come può immaginarsi, il “chiunque” pieno di indifferenza rispetto a quanto accade in questo mondo. Mondo la cui cornice normativa va adattata ed orientata al costituzionale stando ai tempi ed alla maggior consapevolezza giuridico-sociale maturata sulla problematica.
Un ordine alfabetico minimo di riforma si può ipotizzare. Partiamo dalla lettera A (e per ragioni intuibili non si potrà arrivare alla Z per elencare tutti i problemi da fronteggiare per la giustizia tributaria senza, però, rinunciare a farlo successivamente). “A” come abrogazione: occorre cancellare la norma entrata in vigore a dicembre 2021 che porta il nome di “Emendamento Pittella” (di cui forse quest’ultimo, non essendo un giurista o fiscalista, ha colpe ma non meno importanti dell’intero Parlamento che nulla ha opinato in merito). Per intenderci, detta norma vieta (disorientativamente e discutibilmente) l’ammissibilità dei c.d. “ricorsi al buio” per difendere i contribuenti. La Cassazione guardingamente, poche settimane fa, ha sottolineato come si tratti di una norma non solo di dubbia costituzionalità, ma che espone lo Stato italiano alla violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Come anche un corsista di giurisprudenza al primo anno può facilmente decifrare, quanti contribuenti finiranno sul lastrico finché la Consulta non dichiarerà l’incostituzionalità?
“B” come buona fede (non “Bonafede”) perché è l’idea di riforma che serve per tornare a far maturare la fiducia nella giustizia da parte dei cittadini e da parte dello Stato nei cittadini stessi. Cosa che latita nella mente del legislatore, soprattutto, tenuto conto dell’audizione parlamentare del 7 aprile scorso di Ernesto Maria Ruffini, direttore di Agenzia delle Entrate nonché dell’Agenzia della riscossione nazionale (ex Equitalia per intenderci), che nel rappresentare i dati di affidamento in carico esattoriale ha manifestato, altresì, la preoccupazione in termini di ingolfamento ed intasamento del magazzino fiscale. Dato l’andazzo, chiediamoci francamente, quante occasioni perde lo Stato in ordine al mancato recupero delle persone al lavoro (specie partita iva medio-piccole) se non stabilizza rottamazioni e altri strumenti di pace fiscale anche alla luce della crisi pandemica?
“C” come “contenziosmosi”: conio che in quest’analisi (si spera funzionalmente) serve a rappresentare come il contenzioso influenzi lo sviluppo del Paese. Per questo in relazione al fine della lettera B è necessario recuperare al lavoro quanta più gente possibile (in primis facendo uscire unità anche dal reddito di cittadinanza facendoli tronare contribuenti). Ebbene, utile è anche focalizzarsi su un dato di fatto: metà dei giudizi tributari in Cassazione viene ribaltato a favore dei contribuenti. Delle due l’una: o sbagliano i giudicanti (nei primi due gradi di causa) o sbagliano gli uffici accertatori e/o riscossori (a monte).
“D” come diritto di difesa che deve essere la genesi nonché il fine stesso di una idea di giustizia che si basi su due direttrici insuperabili: parità di trattamento tra pubblico e privato e giusto processo. Due principi, quest’ultimi, che nella Costituzione si legano sinfonicamente come note trine: 3, 24, 111. Allora è qui che occorre pensare, anzitutto, a chi deve fare il giudice tributario spostandoci, ancora una volta, su una domanda sacrosanta. Possibile che l’Italia, culla del diritto, ha un impianto normativo in cui si prevede che un giudice requirente-indagatore (c.d. Procuratore della Repubblica presso l’ufficio di Pubblico Ministero) possa, al contempo, fare il giudicante in sede tributaria? Al netto del fatto che una persona (un giudice requirente) possa essere terza e imparziale nell’animo (e perciò a prescindere dal ruolo lavorativo e di incardinamento nell’amministrazione giudiziaria), si giunge ad una riflessione conclusiva sulla questione.
Quanto esposto in questo passaggio non rappresentata una stortura genetica del nostro diritto che non altro si traduce in una incostituzionalità stessa (non dichiarata sino ad oggi ovviamente) di un impianto giudiziario-tributario pensato male e generato negli anni novanta in un momento storico, aprioristicamente iper-manettaro, di tendenziale considerazione colpevolista del contribuente? Se tentassimo di spiegare ad un piccolo commerciante queste cose ci risponderebbe che si tratta di “cose dell’alto mondo”. Come dargli torto, ma forse meglio dire “cose dell’altro potere”. Quello dell’indifferenza. Un po’ come quel visitatore occasionale di cantiere che si ferma, guarda e passa. Tanto non tocca a lui (pensa).
Politica e magistratura quell'equilibrio precario (e oggi c'è lo sciopero). Più che di una vera e propria riforma dell’ordinamento giudiziario, come enfaticamente qualificata, si tratta di una serie di interventi mirati tesi a risolvere alcune problematiche – e alcune criticità – nell’organizzazione della giustizia italiana e, dunque, nel suo funzionamento. Sergio Lorusso su la Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Maggio 2022.
Era dai tempi di Silvio Berlusconi premier che la magistratura non «scioperava». Il clima politico e sociale è profondamente mutato, perché allora si temeva l’assoggettamento all’esecutivo, in un contesto di profondo scontro tra poteri, mentre oggi si punta l’indice su alcuni contenuti della riforma dell’ordinamento giudiziario ritenuti lesivi del proprio status da parte di una magistratura fortemente delegittimata da vicende come quella dello scandalo Palamara.
Più che di una vera e propria riforma dell’ordinamento giudiziario, come enfaticamente qualificata, si tratta di una serie di interventi mirati tesi a risolvere alcune problematiche – e alcune criticità – nell’organizzazione della giustizia italiana e, dunque, nel suo funzionamento.
In particolare, si è riportato a 30 il numero dei membri elettivi del CSM, introducendo un nuovo sistema elettorale per la componente togata – a dire il vero piuttosto farraginoso – che ridisegna i collegi nella speranza di eliminare (o quanto meno di attenuare) il peso delle correnti. Se la speranza si trasformerà in illusione sarà la prova sul campo a dirlo. Resta il fatto che il fenomeno correntizio resta culturalmente scolpito. Nato nel 1965 a Gardone con tutt’altri fini – rappresentare il dibattito interno alla magistratura e i vari orientamenti in grado di incidere nell’interpretazione della legge in linea con l’attuazione della Costituzione – si è trasformato in uno strumento di potere decisivo nell’assegnazione degli incarichi.
Un altro punto caldo è costituito dal fascicolo per la valutazione del magistrato, che dovrà contenere dati statistici e documentazione necessari per soppesare l’attività svolta annualmente nell’ambito delle periodiche valutazioni di professionalità da parte del CSM. Vissuto come “punitivo” dai futuri destinatari della novella legislativa e come foriero di carrierismi, burocratizzazione e gerarchizzazione, costituisce il tentativo di superare le distorsioni dell’attuale assetto che, spesso traducendosi in automatismi, riduce lo spazio per il merito. L’ottica è quella di ridare efficienza – che è altra cosa dall’efficientismo – a un sistema giudiziario asfittico. La stessa che ispira la riforma Cartabia del processo penale, attualmente in dirittura d’arrivo. Obiettivo imprescindibile in un Paese come il nostro che costituisce il regno della “giustizia lumaca”. L’importante è non trasformare i magistrati in numeri, guardare alla qualità e non soltanto alla quantità (come del resto le norme fanno).
Ragioni concettuali e sistematiche imporrebbero – che piaccia o no – la separazione delle carriere (previa riforma costituzionale). Se è vero che il nostro è un processo di stampo (moderatamente) accusatorio, se abbraccia la logica del «processo di parti», appare improprio invocare la «cultura della giurisdizione» a difesa dell’unicità delle carriere, come ai tempi del codice 1930, quando – in uno scenario assai lontano dall’attuale, a vocazione tendenzialmente inquisitoria e figlio del regime fascista – il pubblico ministero veniva definito con l’ossimoro «parte imparziale» da Giovanni Leone, il quale giustificò la soluzione poi adottata dall’Assemblea costituente con la natura «anfibia» di tale organo. E questo nonostante posizioni radicali come quella di Giuseppe Bettiol, ad avviso del quale le funzioni del pubblico ministero non dovevano essere «incapsulate» in quelle del giudice ma da queste distinte, ritenendo propria dei regimi totalitari la visione del primo quale «organo di giustizia».
Aver adottato forme tipiche degli ordinamenti processuali di common law, ove tale separazione è netta, non deve far apparire come scandaloso lo scindere – anche sotto il profilo delle carriere – la funzione inquirente da quella giudicante. Un tale approccio, anzi, rappresenterebbe il naturale completamento della riforma del 1988, per molti versi incompiuta. Riservando la massima attenzione, ça va sans dire, a meccanismi che tutelino da interferenze esterne la pubblica accusa nell’esercizio della sua attività.
Non si può negare che la magistratura attraversi un periodo di crisi profonda, dovuta non soltanto a scandali e dossier che hanno ferito il CSM, compromettendo il suo ruolo istituzionale, e alla cui base vi è il pernicioso fenomeno delle correnti, ma anche i guasti e la scarsa efficienza complessiva della macchina della giustizia.
La conseguenza?
Una perdita di credibilità crescente e inarrestabile, tanto che gli indici di gradimento della magistratura da parte dell’opinione pubblica sono ormai in caduta verticale ed equiparati a quelli della negletta politica. In questo contesto, più che alimentare sterili contrapposizioni, occorrerebbe potenziare quel precario equilibrio tra funzioni dello Stato.
Sciopero magistrati, l’Anm: “Adesione nazionale al 48%”. La Stampa il 16 maggio 2022.
E' del 48% l'adesione nazionale allo sciopero proclamato dall'Associazione nazionale magistrati contro la riforma del Csm e dell'ordinamento giudiziario. Il dato finale è fornito dalla stessa Anm. Adesioni diverse di regione in regione: a Milano la percentuale sale rispetto alla media al 51%, nelle Marche sfiora addirittura il 67%. L'adesione più alta a Bologna, con il 73%. «In un contesto generale non facile, c'è stato un livello di adesione all'astensione intorno al 50%, comunque importante», ha dichiarato il segretario dell'Anm Salvatore Casciaro. «Il che dimostra come l'Anm si sia fatta interprete autorevole del disagio e della preoccupazione reale di tanti magistrati. Ci sono ancora i tempi e gli spazi per modifiche migliorative del testo e spero ci sia anche la volontà delle forze politiche di confrontarsi per apportare i dovuti correttivi». Gli avvocati«Oggi e' stato solo un giorno triste, l'ennesimo per la giustizia». E' quanto afferma la presidente del Consiglio nazionale forense, Maria Masi, sottolineando che «non poche perplessità e molto sconcerto ha suscitato nell'avvocatura la decisione dell'Associazione nazionale magistrati di scioperare contro la riforma Cartabia dell'ordinamento giudiziario. Fino all'ultimo momento abbiamo confidato in un ripensamento che non c'e' stato. Un'occasione sprecata per dimostrare che, anche di fronte a ipotesi di riforma non del tutto condivisibili, la magistratura italiana, a cui la Costituzione affida il potere e il dovere di applicare la legge e alla quale i giudici sono soggetti, avrebbe potuto scegliere di far prevalere il senso di responsabilità nei confronti dei cittadini e dell'ordinamento e il rispetto nei confronti della sua stessa essenziale funzione».
Giustizia, l'Anm sciopera contro la riforma: "Meno di un magistrato su due". L'adesione al 48%. Il Tempo il 16 maggio 2022.
Dal Palazzo di Giustizia di Milano, simbolo della lotta alla corruzione e di Mani Pulite, l'Associazione nazionale magistrati incrocia le braccia per protestare contro la riforma dell'ordinamento giudiziario voluta dalla ministra Marta Cartabia. Riforma che per le toghe è stata "peggiorata" dai tanti emendamenti proposti e venerdì verrà discussa e votata in Senato dopo aver incassato il via libera della Camera.
Era dal 2010, quando a Palazzo Chigi c'era Silvio Berlusconi, che le toghe non si astenevano dal lavoro per un giorno. La protesta, ha spiegato il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia - nelle intenzioni dei 9mila magistrati che in assemblea l'hanno votata - aveva come obiettivo quello di chiedere alla politica di "correggere" alcuni passaggi delle norme al vaglio del Parlamento, che non sono destinate a migliorare il sistema Giustizia. Al contrario, per Santalucia, rischiano di renderlo più rigido e lento, allontanando ancora di più gli obiettivi richiesti dal Pnrr. Questa riforma, chiarisce Santalucia, "forse risulta compatibile" con il dettato della Costituzione, ma certamente è "poco conforme allo spirito" a cui è ispirata. Tra i nodi più contestati dalle toghe, c'è la separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice e l'introduzione del fascicolo del magistrato. Nella riforma "ci sono dei condizionamenti - chiarisce Santalucia - : si pensa di irrigidire l'organizzazione della magistratura per controllare i magistrati" che "devono essere responsabili" ma "il sistema disciplinare non deve essere una gabbia".
Tutte ragioni che hanno convinto solo in parte i magistrati a scioperare. A livello nazionale l'adesione è stata del 48%. A Milano, ad esempio, ha partecipato il 51% dei magistrati. A Roma, invece, il 38% e tra i magistrati della Cassazione appena il 23%. Maggiore successo ha riscosso l'iniziativa a Palermo, dove ad astenersi dal lavoro è stato il 58% delle toghe. A Napoli ha incrociato le braccia il 53% dei magistrati, mentre a Salerno il 54%. Fanalino di coda Trento, con appena il 25% di adesioni.
"In un contesto generale non facile, c'è stato un livello di adesione all'astensione intorno al 50%, comunque importante", ha fatto notare il segretario generale dell'Anm Salvatore Casciaro. E questo "dimostra come l'Anm si sia fatta interprete autorevole del disagio e della preoccupazione reale di tanti magistrati. È una protesta di contenuti - aggiunge - motivata e capillare, che viene dal basso, intendo dire dai piccoli uffici giudiziari, quelli più esposti sul piano dei carichi di lavoro, e, elemento da sottolineare, dai giovani magistrati che intravedono nelle linee di riforma una mortificazione della loro funzione, e soprattutto un cuneo in grado di incrinare, in prospettiva futura, l'assetto costituzionale della giurisdizione e la qualità del loro lavoro giudiziario.
Il buon senso, soprattutto in una fase in cui si chiede uno sforzo corale al mondo della giustizia per corrispondere ai target del Pnrr, dovrebbe orientare le forze politiche all'ascolto delle ragioni profonde di questa protesta - conclude - . Ci sono ancora i tempi e gli spazi per modifiche migliorative del testo e spero ci sia anche la volontà delle forze politiche di confrontarsi per apportare i dovuti correttivi".
Molto critica, invece, è la voce dell'avvocatura. "Fino all'ultimo momento abbiamo confidato in un ripensamento che non c'è stato - ha fatto sapere la presidente del Consiglio nazionale forense, Maria Masi - . Un'occasione sprecata per dimostrare che, anche di fronte a ipotesi di riforma non del tutto condivisibili, la magistratura italiana, a cui la Costituzione affida il potere e il dovere di applicare la legge e alla quale i giudici sono soggetti, avrebbe potuto scegliere di far prevalere il senso di responsabilità nei confronti dei cittadini e dell'ordinamento e il rispetto nei confronti della sua stessa essenziale funzione". Per la presidente del Cnf "oggi è stato solo un giorno triste, l'ennesimo per la giustizia".
Addio toghe militanti. Lo sciopero fa flop: un magistrato su due non ha seguito l'Anm. Luca Fazzo il 17 Maggio 2022 su Il Giornale.
In Cassazione si astengono appena 2 su 10, a Torino solo 3 su 10, a Milano lavorano 6 su 10. L'agitazione del 2002 fu un plebiscito: 80%. E il sindacato ammette: "È andata male".
Una botta epocale, il segno che qualcosa si è rotto nel corpo profondo della magistratura italiana.
Lo sciopero indetto dall'Associazione nazionale magistrati contro la riforma della giustizia portata in Parlamento dal ministro Marta Cartabia sta tutta nel messaggio che ieri sera, a conti fatti, un esponente di spicco dell'Anm manda sulla chat interna: «È andata male». Anche se il leader delle toghe, Giuseppe Santalucia, parla di adesioni «sopra il 60» per cento, la sostanza è che lo sciopero è fallito. Le parole d'ordine catastrofiste di Santalucia e dei suoi colleghi, che in queste settimane hanno dipinto la timida riforma Cartabia come un attentato alla Costituzione, non hanno fatto breccia. Migliaia di magistrati hanno lavorato senza seguire le indicazioni del sindacato unico delle toghe. Anche se il dato complessivo fornito dall'Anm risultasse corretto (ma una tara storicamente va fatta) il problema è che lo sciopero è fallito platealmente in uffici cruciali del paese. In Cassazione su cinquecento magistrati sciopera solo il 23 per cento. Nel tribunale di Milano lavora più del 60 per cento. Nella procura della stessa Milano, quella che fu la roccaforte del «resistere, resistere, resistere» su 76 magistrati aderiscono in quaranta.
Napoli, che era stata la sede che più fortemente aveva chiamato alla lotta, si ferma al 55 per cento. Disastro a Roma e nel Lazio, dove per la stessa Anm l'adesione si ferma al 38 per cento. Ancora peggio a Torino, col 33 per cento.
Sono dati che rendono impietoso il confronto con l'ultimo sciopero della magistratura, indetto nel 2002 contro la riforma del ministro leghista Roberto Castelli e arrivato a adesioni oltre l'ottanta per cento. E che costringono a interrogarsi su quanto l'Anm, o almeno la sua attuale dirigenza, rappresentino davvero i magistrati italiani. Perché se l'Anm non rappresenta i magistrati allora le sue periodiche incursioni nel dibattito politico andrebbero soppesate diversamente.
Si è trattato d'altronde di uno sciopero deciso in modo singolare, dove non era chiaro se l'obiettivo fosse fermare la riforma presentata dalla Cartabia o un ostruzionismo preventivo agli emendamenti annunciati dal centrodestra. Dubbi sulla sensatezza dello sciopero erano venuti anche dai «duri» di Magistratura democratica, e giudizi pesanti erano piovuti anche da numi tutelari dell'Anm come Edmondo Bruti Liberati. Ma i vertici dell'Associazione hanno voluto andare avanti per la loro strada. E sono andati a sbattere. Il risultato è quasi surreale: per osteggiare una riforma che non riformava nulla, Anm va incontro a una sconfitta che rischia di essere epocale. E che porta a ipotizzare che l'epoca della «magistratura militante» sia ormai da considerare archiviata.
La débâcle è così netta che Eugenio Albamonte, uno dei leader della corrente di sinistra Area, se la deve prendere con una immaginaria campagna di stampa che avrebbe condizionato l'esito dello sciopero: «Tutto sommato, in considerazione anche della grande campagna che è stata fatta contro lo sciopero dei magistrati, che ovviamente colpisce anche gli stessi magistrati, nel senso che leggiamo i giornali, guardiamo la televisione, e così via, direi che è un dato comunque significativo».
Significativo sì, ma di cosa? Ieri, quando ancora le dimensioni della sconfitta non erano chiare, il presidente di Anm Santalucia arrivava a definire lo sciopero un «atto di generosità» dei giudici verso i cittadini, ma ammetteva che è arrivato nel pieno del «periodo di maggiore crisi della immagine della magistratura e della capacità di comunicazione all'esterno». Ma non spiega cosa Anm abbia fatto per migliorare la disastrata immagine della categoria, se non presentare il caso Palamara come un incidente di percorso e il suo protagonista come una pecora nera e continuare a avallare imperterrita la spartizione correntizia delle cariche e il rifiuto di ogni seria valutazione della produttività dei magistrati.
Poi si stupiscono se lo sciopero va male.
Adesione al 48%. Sciopero dei magistrati è un flop, adesione bassa: le toghe scaricano l’Anm. Paolo Comi su Il Riformista il 17 Maggio 2022.
Flop. Percentuali di adesione deprimenti, la media è del 48 percento, per lo sciopero indetto dall’Associazione nazionale magistrati per protestare contro la riforma della giustizia voluta dalla Guardasigilli Marta Cartabia. Un dato fra tutti: a Milano, ufficio giudiziario da sempre in prima linea contro i provvedimenti dell’esecutivo non graditi, vedasi il decreto Biondi nel primo governo Berlusconi, la percentuale delle toghe che ieri ha incrociato le braccia non ha raggiunto il 40 percento. Nel 2010, tanto per fare un confronto, la percentuale era stata più del doppio, il 92 percento.
Tra i 57 magistrati tirocinanti presenti al palazzo di giustizia di Milano, in particolare, hanno aderito allo sciopero appena in nove, pari a poco meno del 16 percento.
Tracollo in Cassazione, ufficio dove prestano servizio i vertici dell’Anm: il presidente Giuseppe Santalucia ed il segretario generale Salvatore Casciaro. A piazza Cavour, dove la percentuale degli scioperanti ha superato di poco il 22 percento, si è già iniziato a discutere delle loro dimissioni. In quasi tutti i grandi distretti la percentuale, comunque, è rimasta sotto il 50 percento: a Firenze il 39, a Venezia il 47 a Genova il 49. Solo a Napoli l’adesione ha raggiunto il 53. La soglia minima per il successo dello sciopero era stata fissata al 65 percento. Adesione più convinta solo nei piccoli tribunali, come quello di Busto Arsizio, dove prestano servizio 30 giudici, con il 90 percento. Fra le toghe contrarie alla protesta, il gup di Milano Guido Salvini secondo il quale quello di ieri è stato uno «sciopero ‘inventato’ che mirava a distrarre dai problemi veri che negli ultimi tempi hanno portato ai minimi storici la credibilità della magistratura: vi sarebbero stati altri temi su cui sollecitare il governo, ma questo è uno sciopero politico che tende ad uno scontro e ad influire, in modo pretestuoso, sull’indirizzo legislativo del Parlamento».
Per Salvini, che ha anche affisso un cartello davanti alla porta dell’ufficio per avvertire che non aderiva, «non possono essere usate come pretesto per lo sciopero le nuove ‘valutazioni’, ancora tutte da sperimentare». Valutazioni, è bene ricordarlo, che si riferiscono a ‘gravi anomalie’ e non al semplice annullamento di un provvedimento. «In realtà potrebbero evitare che gravi disastri processuali, alcuni dei quali, anche a Milano, tutti conosciamo, entrino, come spesso accade, addirittura quale nota di merito nel curriculum di un magistrato», ha puntualizzato Salvini, sottolineando che saranno sempre «altri magistrati, i Consigli giudiziari e il Csm, a redigere le valutazioni e non il ministro o il governo». Il giudice del processo sulla strage di piazza Fontana ha avuto una parola anche per i colleghi che invece hanno aderito allo sciopero: «l’hanno fatto perché è conveniente mostrarsi zelanti per assicurarsi qualche vantaggio futuro e conformisti nei confronti dei capi della magistratura».
Ed a proposito delle riforma e delle tanto temute valutazioni di professionalità, sempre ieri si è tenuta alla Camera una conferenza stampa con Enrico Costa di Azione e Riccardo Magi di +Europa durante la quale è stato distribuito un opuscolo con le 10 ragioni per cui il testo Cartabia è perfettamente in regola. «Dicono che è una riforma contro i magistrati. Ma non è vero. La riforma è per i cittadini, perché limita l’influenza delle correnti, responsabilizza i magistrati, riduce il fenomeno dei fuori ruolo, blocca le porte girevoli tra politica e giustizia, non limita in nessun modo l’indipendenza della magistratura, perché le decisioni sulle carriere dei magistrati e sulle sanzioni disciplinari sono riservate sempre al Csm», hanno sottolineato Costa e Magi.
«Lo sciopero – hanno aggiunto – è motivato soprattutto dall’avversione per l’adozione nella valutazione professionale dei magistrati di criteri oggettivi, per promuovere e valorizzare i bravi magistrati rispetto a quelli meno bravi, un obiettivo che dovrebbe essere condiviso da tutti». «L’Anm invece vuole tutelare un sistema basato su criteri vaghi dove le valutazioni sono ridotte a quasi delle formalità, come se il sistema giudiziario di oggi fosse perfetto e senza difetti. Ma non lo è», hanno quindi concluso i due parlamentari. La giornata di ieri, infine, è stata caratterizzata da diverse assemblee, aperte ai cittadini, agli esponenti politici e anche agli avvocati, per spiegare le ragioni dell’astensione.
Sciopero dei magistrati, Santalucia ammette la debacle: «C’è una spaccatura generazionale». Il Dubbio il 17 maggio 2022.
Il commento del presidente dell'Anm dopo la giornata di astensione dalle udienze e dai provvedimenti giudiziari: «Direi che la magistratura, specie i colleghi più anziani, sono un corpo disilluso. Molti tra loro pensano che poco può cambiare e che sopravvivremo anche a questa»
«Dobbiamo riconoscere che c’è una spaccatura generazionale. I giovani colleghi sono preoccupati. Quelli più anziani mostrano forse un eccesso di disincanto». Lo afferma, in un’intervista a “La Stampa“, il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia sui dati che dicono che appena il 48% dei magistrati ha aderito allo sciopero proclamato dall’Associazione nazionale magistrati contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario.
«Scioperiamo – sottolinea – perché si pensa di controllare e irrigidire l’organizzazione della magistratura, per controllare i magistrati, che devono essere certamente responsabili e devono essere chiamati disciplinarmente a rispondere delle loro responsabilità, ma non con queste modalità. Il sistema disciplinare non deve essere una gabbia». Sulla rottura che si è consumata sul fatto di scioperare o no, Santalucia osserva: «Non so se queste cifre informali saranno confermate. Se così fosse, a titolo personale, mi sento di dire che c’è indubbiamente un momento di grande stanchezza della magistratura. Un forte disincanto. Direi che la magistratura, specie i colleghi più anziani, sono un corpo disilluso. Molti tra loro pensano che poco può cambiare e che sopravvivremo anche a questa. Invece i più giovani sono davvero preoccupati. In molti piccoli tribunali di frontiera c’è stato il 100% di adesioni. E guardi, tra noi potremo anche essere divisi sulle forme di reazione da adottare, ma nella sostanza non troverete quasi nessuno che pensa che questa sia una buona riforma».
Il fronte garantista esulta: "Un boomerang per i giudici". Anna Maria Greco il 17 Maggio 2022 su Il Giornale.
Azione e Più Europa: "Loro temono il cambiamento". Sisto (Fi): "Uno sciopero ingiustificabile nel merito".
Sbagliato, pretestuoso, intempestivo». Ma soprattutto lo sciopero dei magistrati è «senza argomenti», per Enrico Costa (nel tondo). Il vicesegretario di Azione dice che la clamorosa contestazione della riforma Cartabia «rischia di trasformarsi in un boomerang» per le toghe.
Meglio, per l'Anm, visto che l'adesione sembra così bassa da apparire un flop. «Si vuole lo sciopero per compattare i magistrati contro un nemico comune: il legislatore. Ma così dimostra che la magistratura non si fida di sé stessa, ha paura del cambiamento».
Non è solo Costa a dirlo, perché alla conferenza stampa a Montecitorio si schiera il fronte garantista di Azione e Più Europa, favorevole all'accordo raggiunto alla Camera ora all'esame del Senato e pronto alla mobilitazione per i referendum del 12 giugno, con gazebi in tutt' Italia. «Siamo pochi in Parlamento- dicono-, ma abbiamo ottenuto molte vittorie». In particolare, quella sull'emendamento Costa per il fascicolo per la valutazione professionale del magistrato, basato su successi e insuccessi in inchieste, processi, carcerazioni, che è una delle novità più indigeste per le toghe.
Per il presidente di Più Europa Riccardo Magi lo sciopero è «un atto corporativo e irresponsabile, in cui i cittadini non si riconoscono». Perché la riforma Cartabia vuol fare « passi avanti e con i referendum se ne faranno altri. «Non ci nascondiamo la difficoltà di raggiungere il quorum. Pesa la scarsa informazione, in particolare della Rai che, con dolo, relega in orari di basso ascolto i confronti sui quesiti. Poi ci sono le responsabilità dei radicali, che hanno "appaltato" tutto alla Lega, e il sostegno altalenante di questa, forse nel timore di vedersi attribuire un possibile insuccesso. Poi, la Consulta ha cancellato 3 quesiti di richiamo per la popolazione». La riforma, sottolinea il vicesegretario di Azione Andrea Mazziotti, «non è contro i magistrati, ma per i cittadini, ma si vuole imporre lo schema del "noi contro di loro", con il governo e la politica cattivi».
Per il governo parla il sottosegretario alla Giustizia di Fi Francesco Paolo Sisto: «Lo sciopero è una mobilitazione legittima dal punto di vista sindacale, ma del tutto ingiustificabile dal punto di vista del merito. Sono state raccolte istanze importanti dell'Anm. Ed escludo che la riforma sia incostituzionale».
Per Azione, il testo limita l'influenza delle correnti, responsabilizza i magistrati, riduce i fuori ruolo, blocca le porte girevoli, non limita l'indipendenza della magistratura perché su carriere e sanzioni disciplinari decide il Csm. Sono 10 le ragioni per cambiare la giustizia. 1: Le valutazioni di professionalità delle toghe sono positive al 99,2% e tutte le scelte le fanno le correnti. 2: i processi di piazza si fermano con la legge sulla presunzione di innocenza e l'illecito disciplinare connesso. 3:1000 ingiuste detenzioni l'anno costano 900 milioni per indennizzi. 4: Per responsabilità disciplinare l'1,4% di condanne, archiviato il 90% delle denunce, ma ora ci sarebbero sanzioni per pm e giudici responsabili di ingiuste detenzioni. 5: tra il 2015 e il 2021 pagati 644 milioni per irragionevole durata dei processi. 6: 8 condanne di magistrati per responsabilità civile in 12 anni, l'1,2% delle cause. 7: 200 magistrati fuori ruolo ma la riforma li riduce. 8: 4.613.477 processi pendenti, assoluzioni al 50% in primo grado. 9: Il 40% delle prescrizioni nelle indagini preliminari, non per colpa della difesa. 10: 130mila intercettazioni l'anno. Nel 2019 spesi 191 milioni di euro.
Toghe, sciopero flop: si astiene solo il 48% dei magistrati. Un boomerang per l’Anm che parla di «campagna mediatica». Il Cnf: «Ragioni incomprensibili, ha creato solo disagio». Valentina Stella su Il Dubbio il 17 maggio 2022.
Una vera debacle, lo sciopero indetto dall’Anm per la giornata di ieri: neanche la metà dei magistrati ha incrociato le braccia. Secondo i dati ufficiali delle 19.30, la percentuale di adesione è del 48,45 per cento, ossia 4.285 magistrati su 8.844. Il risultato più “raggelante” arriva forse da Roma, che si ferma al 38%. «Il dato statistico non ci accontenta: dobbiamo lavorare per riportare i colleghi negli spazi comuni – ha spiegato il segretario della giunta Anm del Lazio, Emanuela Attura –. A conferma di ciò il fatto che la tavola rotonda aperta che si è svolta oggi (ieri, ndr) è riuscita molto bene, un momento di confronto costruttivo e utile». Vi ha partecipato anche Vincenzo Comi, presidente della Camera penale di Roma, che ha ribadito: «Il metodo del confronto con gli avvocati, che in altri casi è stato attuato e che si è rivelato proficuo, in questa riforma avrebbe contribuito a individuare un percorso più rapido per l’approvazione e per marcare l’effettivo superamento di una crisi della magistratura nell’interesse di tutti i cittadini».
Sciopero dei magistrati, parla Casciaro
Se nel distretto di Milano ha scioperato il 51% delle toghe, a Milano città si è astenuto dall’attività appena il 39% dei magistrati. Pure in quello di Napoli si arriva pelo pelo al 53%. Mentre in Cassazione ha scioperato solo il 23% dei consiglieri. Non c’è dubbio, insomma, che quella di ieri sia stata una giornata nera per l’Anm: si è voluta confrontare con una sfida politica nazionale che è chiaramente andata persa. E qualche magistrato già si interroga sul futuro del presidente Giuseppe Santalucia e sulle sue possibili dimissioni. Eppure il segretario generale dell’associazione, Salvatore Casciaro, prova a ridimensionare la sconfitta: «In un contesto generale non facile c’è stato un livello di adesione all’astensione intorno al 50%, comunque importante. Il che dimostra come l’Anm si sia fatta interprete autorevole del disagio e della preoccupazione reale di tanti magistrati». E infine auspica: «Ci sono ancora i tempi e gli spazi per modifiche migliorative del testo sul Csm, e spero ci sia anche la volontà delle forze politiche di confrontarsi per apportare i dovuti correttivi».
Sciopero dei magistrati, il commento di Albamonte
Ma con questi numeri viene chiaramente spazzata via ogni ipotesi di fare pressione sul Senato. La magistratura ne viene fuori divisa e debole, con una Anm incapace di aggregare i magistrati intorno a una iniziativa che aveva l’ambizione di dare una scossa al Parlamento, di evitare l’approvazione di una riforma definita «punitiva» e che ridurrebbe il magistrato a burocrate. Tuttavia non parla di flop neanche Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg. Sollecitato dall’AdnKronos, punta il dito su una campagna mediatica ostile: «Tutto sommato, in considerazione anche della grande campagna che è stata fatta contro lo sciopero dei magistrati, che ovviamente colpisce anche gli stessi magistrati, nel senso che leggiamo i giornali, guardiamo la televisione, seguiamo le agenzie e così via, direi che è un dato comunque significativo». «Sono convinto – osserva infine il pm di Roma – che il dato da tenere in considerazione siano le quasi 50 iniziative organizzate in giro per l’Italia in altrettanti tribunali, per aprire il dibattito all’opinione pubblica, alla stampa, alla società civile, agli avvocati e agli altri professionisti che lavorano con noi».
Sciopero dei magistrati, le dichiarazioni di Musolino
Chi invece prova a fare autocritica è il segretario di Magistratura democratica, Stefano Musolino, che così commenta al Dubbio: «La stragrande maggioranza della magistratura giudica questa riforma pessima, anche la maggior parte di quelli che non hanno scioperato. L’esito della giornata di astensione è quello di una magistratura apparentemente divisa, ma, in realtà, è anche l’effetto di una proclamazione eccessivamente affrettata. Proprio per questo avevamo richiesto un tempo più lungo per spiegare meglio le ragioni dello sciopero dentro e fuori la magistratura. Non abbiamo avuto la possibilità di costruire una sintonia collettiva interna, né la capacità di trovare interlocutori solidali all’esterno. I nodi nevralgici della crisi pretendono una seria volontà di auto- riforma, capace di coinvolgere tutti gli attori della giurisdizione. Come Anm, sino ad oggi, non siamo stati capaci di farci carico di questo sforzo, e questo ci ha fatto perdere autorevolezza nelle interlocuzioni con il riformatore, ci ha isolato da accademia, avvocatura, sindacati del personale amministrativo e società civile. Restano ferme le buone ragioni dello sciopero ed è necessario partire dai confronti avviati in questi ultimi giorni in tutte le sedi distrettuali, per recuperare un dialogo, finalizzato a migliorare la riforma».
Sciopero dei magistrati, l’intervento del presidente del Cnf
Ha parlato di «giorno triste, l’ennesimo per la giustizia» la presidente del Cnf Maria Masi: «Non poche perplessità e molto sconcerto ha suscitato nell’avvocatura la decisione dell’Anm di scioperare contro la riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario. Fino all’ultimo momento abbiamo confidato in un ripensamento che non c’è stato. Un’occasione sprecata per dimostrare che, anche di fronte a ipotesi di riforma non del tutto condivisibili, la magistratura italiana, a cui la Costituzione affida il potere e il dovere di applicare la legge e alla quale i giudici sono soggetti, avrebbe potuto scegliere di far prevalere il senso di responsabilità nei confronti dei cittadini e dell’ordinamento e il rispetto nei confronti della sua stessa essenziale funzione. Ancor meno si comprendono le dichiarazioni del presidente Anm Santalucia, soprattutto quando si è riferito al “pericolo di un mutamento del modello di magistratura” che avrebbe convinto i giovani magistrati ad aderire allo sciopero. Esiste già il riferimento a una magistratura ‘ modello” ed è a quella che i giovani magistrati dovrebbero guardare, perpetuandone il coraggio e la generosità».
Così finisce l’egemonia dei magistrati. Che rimarrà dello sciopero indetto dall'Anm contro la riforma Cartabia? Questo flop, si spera, ridisegnerà e cambierà i rapporti di forza tra giustizia e politica...Davide Varì su Il Dubbio il 17 maggio 2022.
Che rimarrà di questo sciopero? Prima di tutto rimarrà la hybris di un piccolo gruppo di magistrati che si è scontrata col buon senso e la ragionevolezza della gran parte delle toghe. E rimarrà la cenere di un sindacato, l’Associazione nazionale magistrati, che di fatto è stato sfiduciato dai propri iscritti, trascinati in uno sciopero che non hanno capito e che non volevano.
Intendiamoci, nessuno in questo giornale ha mai negato il diritto all’agibilità politica dei magistrati, né ha mai messo in dubbio la loro legittima soggettività politica, ma è indubbio che in questi mesi abbiamo assistito a un salto di qualità delle loro rivendicazioni che ha sfiorato la legittimità costituzionale. C’è infatti stata una vera e propria discesa in campo, una “chiamata alla battaglia” contro una riforma votata dal Parlamento democraticamente eletto, che ha corroso ancora una volta il fragile equilibrio tra poteri.
Come ha infatti spiegato sul Dubbio il professor Giovanni Guzzetta, le toghe hanno rilanciano la mobilitazione non per tutelare “ le loro posizioni nell’ambito del rapporto di lavoro, ma per rappresentare la loro visione politica”. Il che li ha posti in contrasto diretto col nostro parlamento, col potere legislativo che ha il diritto e il dovere di riformare (anche) la nostra giustizia. Ma non v’è dubbio che questo flop ridisegnerà e cambierà i rapporti di forza tra giustizia e politica, e chiuderà, speriamo per sempre, la stagione dell’egemonia dei magistrati che in questi 30 anni ha destabilizzato l’equilibrio istituzionale.
Stop alle porte girevoli e “pagelle” alle toghe: ecco la riforma del Csm. GIULIA MERLO su Il Domani il 14 aprile 2022
L’esame del testo si è concluso in commissione dopo giorni di scontri e un lavoro proceduto a rilento, ma la maggioranza è riuscita a rispettare la scadenza di calendario fissata per il 19 aprile.
Dopo un iter di approvazione lungo e farraginoso e un ritardo di quattro mesi dalle previsioni del Pnrr, la riforma dell’ordinamento giudiziario arriverà in aula alla Camera.
L’esame del testo si è concluso in commissione dopo giorni di scontri e un lavoro proceduto a rilento, ma la maggioranza è riuscita a rispettare la scadenza di calendario fissata per il 19 aprile.
La riforma, per come è ora formulata, ha trovato il difficile accordo tra tutti i partiti della maggioranza ad eccezione di Italia Viva, che ha annunciato l’astensione. Salvo sorpresa, dunque, non ci dovrebbe essere il rischio di tranelli nel voto d’aula.
La magistratura associata, invece, si sta opponendo fermamente e ormai lo sciopero è quasi certo: era stato così anche nel 2005, alla viglia della precedente riforma dell’ordinamento giudiziario poi approvata nel 2006 dal ministro della Giustizia Roberto Castelli, durante il governo Berlusconi.
Il ddl sull’ordinamento giudiziario contiene una parte di legge delega al governo e un’altra di norme immediatamente applicative.
IL FASCICOLO DEL MAGISTRATO
La riforma ha dato il via libera all’introduzione del fascicolo per la valutazione del magistrato, che contiene “per ogni anno di attività i dati statistici e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell'attività svolta, inclusa quella cautelare, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, la tempestività nell'adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all'esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi di giudizio".
Sulla base di questo fascicolo diventerà uno strumento essenziale sia «ai fini delle valutazioni di professionalità» e quindi gli aumenti progressivi di stipendio, ma anche per «il conferimento degli incarichi» direttivi e semidirettivi da parte del Consiglio superiore della magistratura, ovvero gli scatti di carriera.
LE PORTE GIREVOLI
La riforma prevede il collocamento fuori ruolo di tutti i magistrati che vengono eletti in parlamento o che assumono incarichi di governo, una volta cessati dalla carica.
I magistrati che si candidano ma non vengono eletti non possono esercitare nelle regioni dove si sono candidati.
I magistrati che invece assumono ruoli apicali ma tecnici dentro i ministeri, come i capi di gabinetto, devono rimanere fuori ruolo un anno prima di rientrare in funzione attiva e non potranno avere incarichi direttivi o semidirettivi per i successivi tre anni.
LA SEPARAZIONE DELLE FUNZIONI
Il magistrato potrà passare una sola volta da una funzione all’altra, requirente o giudicante, e la richiesta va fatta entro il termine di 6 anni. Dopo, potrà solo passare da civile a penale e viceversa.
Questa norma è immediatamente applicativa e modifica la norma sottoposta a referendum abrogativo il prossimo 12 giugno.
LA LEGGE ELETTORALE DEL CSM
La legge elettorale sarà di tipo proporzionale con un correttivo maggioritario. Il sorteggio temperato dei candidati è stato escluso, sostituito con il sorteggio invece dei collegi.
Verranno infatti sorteggiate le corti d’appello per formare i collegi in cui i magistrati voteranno per eleggere i togati. In questo modo si dovrebbe disincentivare l’accordo tra i gruppi associativi.
I NUOVI ILLECITI DISCIPLINARI
E’ stato approvato anche l’inserimento di nuovi illeciti disciplinari per i magistrati. Uno riguarda la previsione sul mancato rispetto delle recenti norme approvate nel decreto legislativo sulla presunzione di innocenza.
Un altro, invece, sembra scritto per il caso Palamara: sarà illecito disciplinare "l'adoperarsi per condizionare indebitamente l'esercizio delle funzioni del Csm, al fine di ottenere un ingiusto vantaggio per sè o per altri o di arrecare un danno ingiusto ad altri"; è altresì un illecito disciplinare "l'omissione, da parte di un componente del Csm, della comunicazione agli organi competenti di fatti a lui noti che possono costituire illecito disciplinare".
AVVOCATI NEI CONSIGLI GIUDIZIARI
E’ passato anche l’emendamento che prevede la presenza degli avvocati con diritto di voto sulle carriere dei magistrati nei consigli giudiziari. Il voto, però, sarà unitario “sulla base delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione nel caso in cui il Consiglio dell'ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione".
LE NOMINE
Quanto alle nomine, vengono fissate alcune regole: la pubblicità delle procedure di assegnazione degli incarichi, lo stop alle nomine a pacchetto nel Csm, la procedura comparativa con l'audizione di tutti i candidati da parte della Commissione del Csm.
Inoltre è prevista all’interno del Csm la incompatibilità di sedere sia nella commissione Incarichi direttivi che discute le nomine che nella sezione disciplinare.
GIULIA MERLO
Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Dal fascicolo sui flop alla fine delle porte girevoli: il ddl in pillole. Tra i punti forti della riforma, il voto del Foro nei Consigli giudiziari e l’ingresso di avvocati e professori nell’Ufficio studi del Csm. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 27 aprile 2022.
Dopo mesi di discussioni estenuanti, prima in sede “politica” coi vertici tra ministra e partiti, poi anche in commissione, la Camera ha dato dunque ieri il via libera, senza fiducia, alla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. Si tratta di un provvedimento, a detta di tutti, frutto di un compromesso nella maggioranza. Ma considerate le diverse sensibilità sul tema, è il massimo che si potesse ottenere. Vediamo in sintesi i punti principali e le novità maggiormente significative.
Sistema elettorale del Csm
Archiviato il collegio unico nazionale, si tenta di articolare il voto, almeno per la quota dei magistrati giudicanti, su basi territoriali più ristrette, con 4 collegi che eleggeranno 2 togati ciascuno (con parità di genere). Gli altri 5 consiglieri giudici saranno eletti con recupero proporzionale, per garantire rappresentanza ai gruppi minori. A questi primi 13 togati, si aggiungono i 5 scelti tra i pm e i 2 consiglieri eletti tra i magistrati di legittimità. In tutto i componenti magistrati da eleggere passano dunque da 16 a 20, ai quali si aggiungono non più 8 ma 10 laici, per un totale di 30 consiglieri, Completano il plenum, come sempre, i vertici della Suprema corte.
Nomine
L’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi sarà decisa in base all’ordine cronologico delle scoperture degli uffici, per evitare le famigerate “nomine a pacchetto”, quindi i preventivi accordi tra le varie correnti. Le procedure di selezione saranno improntate alla massima trasparenza, con pubblicazione sul sito del Csm di tutti i dati del procedimento e i curricula degli aspiranti. Diventerà obbligatoria la preventiva audizione del candidato. Una volta deliberato nell’incarico, il neo dirigente dovrà frequentare un apposito corso di formazione. Grande attenzione è riposta nelle capacità organizzative dell’ufficio da parte del magistrato.
Voto del Foro nei Consigli giudiziari
Nei Consigli giudiziari, i “mini Csm locali”, è introdotta la facoltà per gli avvocati ed i professori universitari che ne fanno parte di partecipare alle discussioni sulle valutazioni di professionalità delle toghe. I soli componenti avvocati potranno anche esprimere un voto, unitario, se c’è stata una preventiva segnalazione (anche positiva) sul magistrato deliberata da parte del locale Consiglio dell’ordine. Nel caso in cui i rappresentanti del Foro intendano discostarsi dalla segnalazione, sarà necessaria una nuova determinazione del Coa.
“Porte girevoli”
È introdotto il divieto di esercitare in contemporanea funzioni giurisdizionali e ricoprire incarichi elettivi e governativi. Il divieto vale per le cariche elettive nazionali e locali e per gli incarichi di governo nazionali, regionali e locali. Viene previsto l’obbligo di collocarsi in aspettativa (senza assegni in caso di incarichi locali) prima di assumere l’incarico. Attualmente c’è la possibilità di cumulo di indennità con lo stipendio del magistrato. Non è più possibile essere candidati nella regione in cui è compreso in tutto o in parte l’ufficio giudiziario in cui il magistrato ha prestato servizio negli ultimi tre anni. Terminato il mandato, il magistrato che ha ricoperto una carica elettiva di qualunque tipo non potrà più tornare a svolgere alcuna funzione giurisdizionale. Verrà collocato fuori ruolo presso il ministero della Giustizia, conservando comunque lo stipendio percepito al momento della candidatura a prescindere dalla funzione che andrà a svolgere. Il magistrato che si è candidato e non è stato eletto, per i tre anni successivi non potrà tornare a lavorare nella regione che ricomprendeva la circoscrizione elettorale, né potrà assumere incarichi direttivi e svolgere le funzioni penali più delicate (pm e gip/gup). Se proveniva da un ufficio con competenza nazionale (ad esempio la Cassazione), non potrà svolgere funzioni giurisdizionali per tre anni.
Ricollocamento al termine di incarichi non elettivi
Particolarmente articolata la disciplina per il “rientro” di quelle toghe che assumono incarichi di governo, anche locale (dai ministri e sottosegretari agli assessori regionali) o incarichi “apicali” (dai capi di gabinetto in un dicastero ai capi dipartimento in una giunta locale). Nel primo caso si potrà scegliere tra il “cuscinetto” di un anno da fuori ruolo (al ministero di appartenenza o a Palazzo Chigi) e la definitiva rinuncia a funzioni direttamente giurisdizionali. Nel secondo caso, l’opzione per l’anno fuori ruolo prevede una “decantazione” di ulteriori tre anni in cui il rientro nella giurisdizione avverrà senza che si possano assumere incarichi direttivi o semidirettivi. Il tutto vale solo per le nomine successive all’entrata in vigore della legge, ma in prospettiva limiterà molto l’appetibilità degli incarichi apicali di cui oggi fanno incetta, ad esempio, i presidenti di sezione del Consiglio di Stato.
“Fuori ruolo”
Si prevede di ridurre il numero massimo dei magistrati fuori ruolo, attualmente fissato in 200 unità. La disposizione sarà precisata con i decreti attuativi. Dopo un mandato di almeno un anno, i magistrati resteranno per ancora un anno fuori ruolo, ma non in posizioni apicali, poi rientreranno; per i successivi 3 anni non potranno ricoprire incarichi direttivi.
“Chi giudica non nomina”
I componenti della sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli non potranno far parte anche delle commissioni che decidono su incarichi direttivi, trasferimenti d’ufficio e valutazioni di professionalità delle toghe.
Avvocati e professori nella “stanza dei bottoni” del Csm
Nella segreteria e nell’Ufficio Studi e documentazione del Csm, semaforo verde per gli “esterni alla magistratura” (avvocati, professori universitari, dirigenti amministrativi) previo superamento di un concorso. Ai laici sarà riservata una quota minima garantita, seppur non maggioritaria. Al momento i due uffici sono composti solo da magistrati, spesso con logiche di spartizione correntizia.
Accesso in magistratura
Si torna al passato, con la possibilità di partecipare al concorso direttamente dopo la laurea in Giurisprudenza. Finisce l’obbligo di frequentare le scuole di specializzazione o di aver già conseguito l’abilitazione alla professione forense. Vengono valorizzati, ai fini dei titoli per il concorso, i tirocini formativi e l’aver prestato servizio presso il nuovo Ufficio per il processo. L’esame sarà incentrato sulle prove scritte, tre, con la conseguente riduzione delle materie orali.
Passaggi di funzione. Sarà possibile un solo passaggio tra le funzioni requirente e giudicante penale entro 10 anni dall’assegnazione della prima sede. Tale limite non varrà per il passaggio al settore civile o dal settore civile alle funzioni requirenti, nonché per il passaggio alla Procura generale presso la Cassazione.
Fascicolo di valutazione del magistrato
Si tratta della novità che sembra suscitare i maggiori allarmi nell’Anm. Dovrà raccogliere ogni anno le statistiche relative agli esiti delle decisioni (per i giudici, inclusi i civili) e delle richieste, di rinvio a giudizio o di misure cautelari (per i pm), nelle fasi successive del procedimento, con particolare riguardo a “eventuali gravi anomalie”. Via Arenula ricorda che non saranno inserite valutazioni di merito, dunque giudizi sui singoli provvedimenti, ma solo dati statici aggiornati, e che non si tratterà dunque di “pagelle”. In ogni caso, tali riscontri su eventuali troppo frequenti “insuccessi processuali” degli atti del singolo magistrato peseranno sia sulle valutazioni di professionalità quadriennali che nella corsa a incarichi direttivi o semidirettivi.
La riforma Cartabia. Perché il sorteggio per il Csm è stato cancellato, cosa c’è dietro. Roberto Cota su Il Riformista il 28 Aprile 2022.
La Camera dei Deputati ha approvato il testo della cosiddetta riforma Cartabia che adesso passerà al Senato. Si tratta di un mini intervento che incide principalmente sul sistema di elezione del CSM, oltreché sulla valutazione dei magistrati in vista dell’avanzamento di carriera, sulla impossibilità di ritornare ad avere funzioni giudicanti dopo aver ricoperto incarichi elettivi e sulla limitazione del passaggio tra la funzione inquirente e funzione giudicante e viceversa. Una risposta, certamente, alla spinta di cambiamento che arriva dai referendum dopo quanto emerso con la vicenda Palamara, ma debole, in quanto non incide sull’aspetto correnti /logiche spartitorie legate all’assegnazione degli incarichi direttivi.
La questione è piuttosto semplice: se i capi degli uffici vengono decisi dal CSM ed i componenti togati del CSM vengono eletti come fossero politici con tanto di campagna elettorale, è ovvio che le loro decisioni saranno sempre condizionate da correnti e logiche politiche. L’unico modo per estirpare il correntismo è il sorteggio nella scelta dei rappresentanti dei magistrati al CSM. Francamente, non è comprensibile perché i vertici della magistratura organizzata (molto meno il popolo dei magistrati) siano contro il sorteggio. I potenziali sorteggiati sarebbero magistrati, cioè persone ritenute idonee ad amministrare giustizia, a decidere della vita delle persone. Va da sé che abbiano i requisiti per poter fare le nomine all’interno del CSM! È evidente che c’è dell’altro, cioè una brama di potere, sicuramente patologica in un sistema democratico.
Ugualmente patologico è il tentativo di innalzare l’età pensionabile dei magistrati. Guarda caso, in concomitanza con il prossimo pensionamento di alcune figure apicali molto importanti. Così come patologico è il fatto che l’associazione di categoria, sempre pronta a protestare contro le ipotesi di riforma che arrivano dalla politica, sia stata piuttosto tiepida, per non dire silente, di fronte a questa idea. Di solito i lavoratori cercano di andare in pensione prima e una persona a settant’anni, nel pubblico impiego avrebbe diritto di godersi il meritato riposo… Sullo sfondo, evidentemente, c’è uno scontro di potere. Quello scontro di potere che avvelena da anni la nostra vita democratica. Roberto Cota
Quel vecchio vizio dell’Anm: apparire vittima dei politici per avere consenso. L'Anm dice no al fascicolo di valutazione: eppure nel 2004 la protesta delle toghe ignorò una norma simile. Errico Novi su Il Dubbio l'1 maggio 2022.
Del precedente tentativo di istituire un monitoraggio sui “flop” ( se troppo ricorrenti) dei magistrati, vi abbiamo detto sul Dubbio di martedì scorso. Ci provò Roberto Castelli, il guardasigilli della Lega che dà il nome alla riforma sulla magistratura del 2006. Vi abbiamo raccontato della stroncatura inflitta da Carlo Azeglio Ciampi a quel tentativo: nella lettera alle Camere con cui, il 18 dicembre 2004, il presidente della Repubblica chiese una nuova deliberazione sulla riforma, quell’“Ufficio per il monitoraggio sull’esito dei procedimenti” era il secondo dei punti ritenuti dal Colle manifestamente incostituzionali. Ve ne abbiamo parlato per mostrare quanto rischi di essere sottovalutata la riforma del Csm appena approvata alla Camera: il ddl ripropone appunto un monitoraggio sulla tenuta dei provvedimenti, il “fascicolo di valutazione”. Un atto di coraggio, che in ogni caso indebolisce la tesi di chi liquida il testo Cartabia come inconsistente. Resta, certo, la feroce opposizione dell’Anm, ostile innanzitutto all’istituzione del “fascicolo”.
Tutte le correnti e componenti della magistratura ( tutte o quasi, tra le eccezioni va annoverato il gip Guido Salvini, che ne ha parlato due giorni fa in un’intervista al Dubbio) ritengono il nuovo strumento “lesivo della libertà del magistrato”, perché lo incoraggerebbe ad appiattirsi sulla giurisprudenza dominante e a muoversi in modo da non essere smentito nelle fasi successive o dai gradi superiori di giudizio, con un effetto di “gerarchizzazione verticale” della magistratura.
Quasi esclusivamente di questo si è parlato nell’assemblea generale dell’Anm. Non solo perché il “fascicolo” è lo spauracchio più evocato dalle toghe, tra i presunti disastri della riforma Cartabia, ma anche perché nella riunione plenaria che ha proclamato lo sciopero, erano presenti anche alcuni politici: Giulia Bongiorno ( Lega), Catello Vitiello (Italia Viva), Giulia Sarti (Movimento 5 stelle) e ancora di Enrico Costa (Azione) e Anna Rossomando (Pd). Gli ultimi due sono figure chiave: il primo ha proposto l’emendamento sul fascicolo; la seconda, dopo l’iniziale perplessità dei dem in commissione Giustizia a Montecitorio, ha stabilito con i suoi di approvare la modifica, alla luce della riformulazione suggerita da via Arenula e delle rassicurazioni offerte sempre dal ministero.
Ora, sulla praticabilità dello screening, che dovrà essere informatico, pure abbiamo già scritto ( sul Dubbio del 21 aprile scorso). Giovedì ne ha scritto anche il Corriere della Sera. C’è poco da essere ottimisti: implementare lo strumento telematico sarà un’impresa. Ma non è solo questo il punto. Qui vogliamo segnalarvi un’altra cosa, a proposito del precedente citato all’inizio, la riforma Castelli. Oltre alle obiezioni formali di Ciampi, che costrinse il guardasigilli leghista a seppellire il “monitoraggio dei provvedimenti”, precursore del nuovo “fascicolo”, il ddl aveva suscitato prima di tutto la reazione durissima dell’Anm. Basterà leggere il “comunicato sindacale” con cui il parlamentino delle toghe annunciò lo sciopero il 5 maggio 2004.
Critiche pesantissime sulla «separazione delle carriere», sulla «impostazione eccessivamente gerarchica dell’organizzazione complessiva degli Uffici del pubblico ministero» e persino sulla dialettica tra Castelli e il Csm. Ma non una parola, non una, sull’“Ufficio per il monitoraggio dei provvedimenti”.
Leggere per credere: non è difficile reperire il comunicato Anm in rete.
Possibile che una norma così incisiva, di lì a poco meritevole dell’attenzione e della censura del Quirinale, non suscitò nell’Anm neppure un breve commento? Nulla di nulla. D’altronde si potrebbe ricordare che un principio analogo è già previsto dall’ordinamento giudiziario. Nella romanzesca disciplina delle valutazioni sulla professionalità dei magistrati. Si tratta della circolare 20691 del 2007, che incoraggia ( ma non obbliga a farlo) a monitorare il lavoro delle toghe anche rispetto all’eventuale «significativo rapporto tra i provvedimenti adottati e quelli non confermati». E allora come si spiega il tanto esasperato allarme da parte dell’Anm, che ha criticato questo e altri aspetti della riforma persino con una pagina acquistata a pagamento su alcuni quotidiani? Com’è possibile che un’ipotesi sulla quale nel 2004 non si spese un rigo di comunicato sindacale ora viene rilanciata come l’armageddon che burocratizzerà la giurisdizione? Noi un sospetto ce l’abbiamo: serve a esasperare la “vittimizzazione presuntiva” della magistratura. A rappresentare come carnefici la politica, la ministra Marta Cartabia, il Parlamento, il povero Costa che oggi affronterà la fossa dei leoni dall’assemblea Anm. Ma insinuare intenzioni vendicative nei confronti della magistratura, non è che serve a riproporre un po’ lo schema conflittuale dell’era Berlusconi, e a far uscire, così, le toghe dall’angolo del caso Palamara?
Il sospetto di una strategia politica è difficile da allontanare. Tanto più che sarebbe una strategia funzionale e utile anche per le singole correnti, che hanno tutte un chiaro interesse a ritrovare la fiducia dei colleghi in vista del voto per il nuovo Csm.
Non che si voglia snobbare le critiche avanzate dalla magistratura. Ma forse è giusto pure tentare di osservarle con uno sguardo più disincantato. O altrimenti si rischia di assecondare una rappresentazione un po’ esasperata della riforma Cartabia, che riproporrebbe in modo paradossale un conflitto sulla giustizia già pagato a prezzo troppo caro dal nostro Paese.
Magistrati in sciopero, un comunicato spaventoso: le parole eversive delle toghe. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano l'1 maggio 2022.
Il comunicato con cui l'Anm (Associazione nazionale magistrati) accusa il governo e il parlamento di aver scritto una legge «per intimidire i magistrati», cioè pressappoco di aver confezionato una comminazione mafiosa, snocciola le ragioni per cui la riforma della giustizia sarà dannosa per i cittadini e illustra quelle per cui sarebbe necessaria una riforma diversa: ancora una volta, e naturalmente, nell'interesse di cittadini. Il quale, par di capire, è meritevole di protezione a patto che coincida con quello della magistratura, e può essere invece accantonato se per caso se ne discosta.
Con questo comunicato, pubblicato da importanti quotidiani e scritto in un italiano imperdonabile anche alle elementari, l’Anm imputa al legislatore di aver messo in campo «una riforma sbagliata» e perfino anticostituzionale. Che, per carità, può anche essere: ma fino a prova contraria non è un’associazione di magistrati a deciderlo: e il potere che fa le leggi è pur sempre quello votato dai cittadini, mentre i magistrati non li elegge nessuno (cioè si eleggono tra di loro, nella trasparenza del sistema che abbiamo avuto modo di conoscere).
Scrive l’Anm che i cittadini non meritano una riforma “contro” la magistratura. Ma ciò che meritano i cittadini dovrebbero dirlo i cittadini e quelli che bene o male li rappresentano (che non sono i magistrati): e chissà che non pensino di meritare una magistratura diversa da quella che scrive questi comunicati.
"Siamo uno dei poteri dello Stato. La protesta è quasi eversiva". Stefano Zurlo il 16 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il pg di Milano non aderirà: "Non possiamo metterci di traverso a scelte dell'esecutivo e del Parlamento".
Nel merito e nel metodo. No allo sciopero. Cuno Tarfusser, oggi sostituto procuratore generale a Milano ma in passato giudice della corte penale internazionale all'Aia, non ha paura di andare controcorrente: «Noi non possiamo restare a casa e incrociare le braccia».
E perché, dottor Tarfusser?
«Noi siamo un potere dello Stato. L'ho scritto e lo ripeto: siamo uno dei tre poteri e non possiamo metterci di traverso alle scelte dell'esecutivo e del parlamento. In questo modo si altera un delicato equilibrio».
Ma si contano almeno cinque scioperi negli ultimi vent'anni.
«Lo so, ma per quanto mi riguarda questo è un atteggiamento ai limiti dell'eversivo».
Addirittura?
«Si, noi non siamo come i benzinai, i camionisti o i piloti d'aereo che bloccano il Paese e in questo modo fanno pressione su Palazzo Chigi e le Camere. Noi non possiamo permettercelo perché, mi pare evidente, in questo modo si compromette la grammatica istituzionale. Non possiamo avanzare rivendicazioni come le altre categorie e dobbiamo tenere conto dei contraccolpi delle nostre azioni».
L'Anm la pensa in un altro modo, ma sui contenuti almeno condivide le loro preoccupazioni?
«Mi spiace deluderla, ma c'è una drammatizzazione che non corrisponde alla realtà».
A che cosa si riferisce?
«L'80, forse 90 per cento dell'attività è normale amministrazione. Per rimanere al penale, che conosco meglio, il furto, lo scippo, la piccola rapina, il sequestro di un grammo di droga leggera. Non siamo sempre dentro un'emergenza, ma dobbiamo fronteggiare l'assalto continuo della piccola criminalità cui occorre rispondere con professionalità e celerità».
I giudici ingigantiscono i problemi?
«Per carità, quelli ci sono e sono drammatici ma non sono la routine. Per quella non servono alibi ma solo impegno e dedizione».
A proposito di impegno, si contesta il fascicolo delle performance.
«Noi siamo valutati sette volte nel corso della nostra carriera, ma si tratta di esami all'acqua di rose. Ben vengano pagelle più stringenti, ancorate ai fatti, come capita a tutte le altre professioni».
Csm, “insorgono” i penalisti campani: «La protesta delle toghe ai limiti dell’eversione». Lunedì 16 maggio, in concomitanza con l'astensione proclamata dall'Anm, a Torre Annunziata ci sarà la contromanifestazione organizzata dalle Camere penali campane. Contraria allo sciopero anche l'Associazione nazionale forense. Valentina Stella su Il Dubbio il 14 maggio 2022.
Lunedì 16 maggio le varie giunte esecutive territoriali dell’Anm, in concomitanza con la giornata di astensione dall’attività giudiziaria individuata dall’assemblea straordinaria del 30 aprile per protestare contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario in discussione al Senato, organizzano delle assemblee pubbliche per dibattere insieme alla cittadinanza, al mondo universitario e all’avvocatura le criticità della nuova norma: dalla gerarchizzazione degli uffici giudiziari alla separazione delle funzioni, dal fascicolo di valutazione al conformismo giudiziario.
Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia aprirà i lavori nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Milano, la vice presidente Alessandra Maddalena invece sarà al Tribunale di Napoli dove prenderà la parola anche il presidente dei penalisti napoletani Marco Campora. Mentre a Roma, a partire dalle 11 nell’Aula Europa della Corte di Appello, si alterneranno, tra gli altri, alla tavola rotonda il segretario di AreaDg Eugenio Albamonte e il presidente della Camera Penale di Roma Vincenzo Comi.
Ma è a Torre Annunziata invece che ci sarà la contromanifestazione dei penalisti, organizzata dalle Camere penali di Benevento, Irpina, Napoli Nord, Nocera Inferiore, Nola, Salerno, Santa Maria Capua Vetere, Vallo della Lucania. L’evento inizierà alle 15 e avrà il titolo “La riforma dell’ordinamento giudiziario – Riflessioni sul rapporto tra potere legislativo e ordine giudiziario”. «Abbiamo organizzato questo evento – ci spiega l’avvocato Enrica Paesano – per controbilanciare lo sciopero dell’Anm che a mio parere è illegittimo, forse ai limiti dell’eversione. Per decenni la politica è stata inerte nei confronti della magistratura. Ora che il Parlamento si appresta a varare una riforma, che noi come Ucpi riteniamo comunque blanda e non rispondente alle reali criticità che affliggono l’ordinamento giudiziario, la magistratura associata indice una giornata di astensione dimostrando tutta la propria indisponibilità a qualsivoglia ipotesi di cambiamento».
Interverranno: l’avvocato Renato D’Antuono, presidente della camera penale organizzatrice, il decano degli avvocati campani Nicolas Balzano, il deputato di Azione Enrico Costa, l’avvocato Gaetano Sassanelli, responsabile osservatorio ordinamento giudiziario, Ernesto Aghina, Presidente del Tribunale di Torre Annunziata, Giorgio Varano, responsabile comunicazione Ucpi. Concluderà i lavori il leader dei penalisti italiani, Gian Domenico Caiazza, che dopo il suo intervento all’assemblea dell’Anm, dove non ha lesinato pesanti critiche, sembrerebbe non aver ricevuto inviti a partecipare alle assemblee organizzate dalla magistratura associata.
A prendere posizioni con lo sciopero Anm, anche l’Associazione nazionale forense: «Non uno sciopero illegittimo, ma semplicemente sbagliato. Non una forma di protesta contro la riforma della giustizia, ma un tentativo di difendere posizioni anacronistiche e in generale lo status quo – ha dichiarato il segretario generale Giampaolo Di Marco -. Questa è la realtà dello sciopero proclamato dall’Anm, e l’opinione pubblica ne è consapevole. Dispiace che la rappresentanza della magistratura ritenga che le prerogative di Governo e Parlamento confliggano con i propri desiderata, e che ritenga lesa maestà le valutazioni sul loro operato da parte degli avvocati nei consigli che si occupano di valutare la professionalità dei giudici», ha concluso.
Va in scena la rivolta dei magistrati. Il pm è sacro e intoccabile: per questo le toghe scioperano. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Maggio 2022.
Dunque lo sciopero dei magistrati ci sarà, fra due giorni, in un bel lunedì che si appoggia con facilità al weekend (visto che è improvvisamente scoppiata l’estate) , secondo una certa tradizione dei sindacati quando non si sentono sicuri dell’adesione. Anche se in genere questi preferiscono il venerdì, come del resto anche gli studenti. Vedremo se davvero ci sarà la stessa massiccia adesione dei bei tempi in cui si protestava contro il nemico numero uno, Silvio Berlusconi. Incomprensibile, questa chiamata alle armi da parte del sindacato delle toghe, nei confronti di una riforma, voluta dalla ministra Cartabia, che prima di tutto non esiste, perché è stata approvata da un solo ramo del Parlamento. E poi perché introduce solo piccoli e timidissimi cambiamenti, sia sul Csm che sull’ordinamento giudiziario.
Sembra quasi una questione di principio, quindi politica, quella agitata in queste ultime settimane dai vertici dell’Anm, ma anche dal Csm e da una serie di magistrati molto ascoltati dai quotidiani che vivono in simbiosi con le Procure. Già, proprio l’intoccabile Partito delle procure, proprio la difesa di quel pm battagliero, così potente e irresponsabile nel nostro ordinamento come non è in nessun altro Paese al mondo, è al centro della protesta. Non certo per l’ingarbugliata riforma del sistema elettorale del Csm, i magistrati scendono in piazza, visto che l’unica vera svolta sarebbe stata determinata da quel sorteggio che non hanno voluto neanche il Governo e la gran parte dei partiti. Ma due sono i punti fondamentali di lamentela. Il primo riguarda la riduzione a uno dei passaggi tra la funzione requirente e quella giudicante.
L’ altro è il fascicolo delle performance, che finalmente dovrebbe mettere in luce non solo la produttività, cioè la quantità di provvedimenti adottati da ogni magistrato, ma soprattutto la qualità dell’attività giurisdizionale. Non tanto per dare una bocciatura a chi ha condannato in primo grado imputati che poi sono stati assolti in appello. Ma soprattutto per mettere in luce quel che ormai si sta disvelando quasi ogni giorno, con la grancassa su iniziative che paiono da subito come Grandi: grande blitz, grande inchiesta, grande nomignolo, grande numero di imputati e arrestati, grande dispendio di forze e denaro per intercettazioni. E poi finiscono in nulla, magari dopo anni e anni, con imprese e famiglie andate all’aria, beni confiscati di società ormai fallite, persone distrutte dal carcere e dalla pubblica gogna.
Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, da Milano fino alla Calabria e alla Sicilia, passando per Roma e la vana ricerca di “Mafia Capitale” piuttosto che “ ’Ndrangheta Capitale”. E nessuno ne risponde mai, visto che ogni anno lo Stato deve risarcire le ingiuste detenzioni. Ma la pervicacia pare cucita addosso alle toghe, qualunque ruolo svolgano, perché la casta prevale sempre. Non demorde l’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, pensionato molto vivace, che quando non è intervistato scrive direttamente su diversi quotidiani. È molto sicuro di sé un altro ex procuratore “antimafia”, Nino Di Matteo, oggi membro del Csm di prossima scadenza, che in una lunga e interessante chiacchierata con il sociologo Luigi Manconi su Repubblica, non cede un millimetro di territorio conquistato negli ultimi trent’anni. Anche se su almeno due punti finisce per confermare quanto meno la necessità di un’analisi precisa sui metodi di indagine e di costruzione dei processi, in particolare nelle Regioni del sud e in nome dell’Antimafia militante.
La prima questione è quella di un pm combattente che si presenta armi in pugno sotto l’ombrello del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale (in contrasto palese con il sistema processuale di tipo accusatorio), che finisce con il privilegiare il fenomeno e il contesto rispetto al singolo fatto criminoso. È in questo tipo di cultura che nasce anche la giurisprudenza sul “concorso esterno in associazione mafiosa”. Di Matteo tiene il punto: “È indubbio che lo scopo dell’azione penale debba essere quello di provare i reati. Ma è altrettanto indubbio che alcuni delitti sono espressione di sistemi criminali più complessi”. Ma insomma, resta il fatto che tutto il castello accusatorio, costruito nel corso di anni e anni, che ha portato al processo “Trattativa tra Stato e mafia” è crollato miseramente. E anche se il consigliere Di Matteo, che fu accanito accusatore in quel processo, dice di non sentirsi sconfitto, crediamo sia diritto dei cittadini, nel cui nome si dovrebbe fare giustizia, guardare nel suo fascicolo per sapere come e perché siano stati sperperati tanti soldi e accusati tanti innocenti.
Anche perché, e veniamo al secondo punto inquietante dell’intervista, ci pare che l’ex procuratore, quasi con noncuranza, quasi fosse normale, dice che “la mancata condanna di alcuni imputati non significa che gli alti gradi dei Ros dei carabinieri non siano stati autori di condotte anomale…”. Quindi, se non abbiamo capito male, le “condotte anomale” dei vertici dei carabinieri avrebbero giustificato anni di indagini, carcere e carriere distrutte anche se non erano reati, come ha stabilito una sentenza definitiva? Dottor Di Matteo, le dice niente il nome di Calogero Mannino? Qualcuno gli ha almeno chiesto scusa? L’altra bestia nera della riforma Cartabia è quella di una parziale separazione delle funzioni tra pm e giudici. Un altro affronto che le toghe vogliono cancellare con la manifestazione di lunedi prossimo. Il loro ritornello di sempre è quello della “cultura della giurisdizione”, quella dell’imparzialità che è imposta ai giudici e che apparterrebbe, secondo la vulgata dell’Anm, anche ai pubblici ministeri.
A parte il fatto che nessuno è in grado di citare casi in cui il pm abbia raccolto anche le prove in favore dell’accusato, vogliamo citare qualche esempio? Vogliamo parlare del processo Enel o di Mafia Capitale, piuttosto che del già citato “Trattativa”? Proprio in quest’ultimo, visto che lo stesso pm Di Matteo parla di “condotte anomale” dei dirigenti del Ros, non sarebbe stato suo divere cercare anche qualche indizio della loro innocenza, qualche spiegazione, invece di andare diritto sull’ipotesi che quei comportamenti fossero reati? Non possiamo pensare che separando le carriere, o almeno le funzioni come previsto dal referendum che andremo a votare il 12 giugno, o in subordine almeno quanto previsto dalla piccola riforma Cartabia, la situazione potrebbe essere peggiore di così.
Ve lo immaginate un procuratore “antimafia” che va alla ricerca di indizi o prove che possano scagionare Marcello Dell’Utri dal suo impegno “esterno” a sostegno di Cosa Nostra? O un sostituto dell’ufficio del procuratore Gratteri che si dia da fare in favore di Giancarlo Pittelli? Chiamata alle armi, dunque. Anche un po’ traballante, però, se il Presidente Giuseppe Santalucia e il direttivo del sindacato hanno sentito il bisogno di fare un appello all’unità della categoria nell’astensione dal lavoro. Cosa che in politica – e qui siamo in un contesto politico – significa debolezza e poca sicurezza sul risultato dell’iniziativa. Lunedi vedremo, qualche mormorio di dissenso si è già fatto sentire.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La riforma Cartabia. Lo sciopero dell’Anm è legittimo, ma il controllo sul lavoro dei magistrati non ci sarà mai. Alberto Cisterna su Il Riformista il 12 Maggio 2022.
E che sciopero sia. La decisione dell’Anm di invitare i magistrati ad astenersi dall’attività processuale per protestare contro la riforma dell’ordinamento giudiziario approvata dalla Camera dei deputati non può essere liquidata dall’alto delle contrapposte barricate come eversiva e in contrasto con il principio della separazione dei poteri. Alcune semplici considerazioni escludono che si possa impedire a un’organizzazione di categoria professionale di proclamare uno “sciopero”. L’astensione rientra nello statuto del rapporto di pubblico impiego che, per quanto peculiare, lega ciascun magistrato all’organizzazione giudiziaria cui appartiene. Discutere della legittimità di questo diritto vorrebbe dire collocare i giudici in una sorta di imprecisato e nebuloso empireo che ne dovrebbe mantenere intatta la purezza e renderli “diversi” da ogni altro impiegato dello Stato.
Non è cosi. L’intera magistratura costituisce certamente «un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (articolo 104 Costituzione), ma questo non toglie che la funzione giurisdizionale sia esercitata dai «magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario» (articolo 102). Un conto è la magistratura, intesa come complesso delle attribuzioni giurisdizionali, altro sono i singoli giudici il cui status è regolato da quell’ordinamento giudiziario che, ora, si vuole modificare in parti non marginali. Quindi proclamare un’astensione è del tutto legittimo e non c’è alcuna necessità di gridare allo sbrego costituzionale. Trattandosi, tuttavia, di una decisione “sindacale” i margini di discussione per i magistrati, anziché dilatarsi, si restringono e di molto. Uno sciopero che voglia contrastare questa o quella riforma processuale, questo o quel correttivo in tema di garanzie e di poteri delle parti nel processo non può, effettivamente, ritenersi conforme alle prerogative “sindacali” delle toghe. Non incidendo sul loro status professionale, ma sulle attribuzioni della giurisdizione nel suo complesso, è lecito dubitare che si possa scioperare contro il Parlamento o contro il Governo per iniziative legislative che intendessero assumere sull’assetto del potere giurisdizionale.
Quando, invece, le norme vengono intese come deteriori per le guarentigie e le prerogative professionali dei magistrati, ecco che il diritto di “sciopero” resta pienamente tutelato e si riespande. La distinzione, è chiaro, non ha alcun elemento di novità e trova fondamento – a esempio – nell’antica bipartizione tra scioperi politici e scioperi contrattuali, a secondo che la mobilitazione dei lavoratori contesti scelte generali di ampio respiro, con mere ricadute sulla condizione dei dipendenti, o abbia di mira puntuali rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro. Nel caso del prossimo 16 maggio al centro della contestazione delle toghe vi sono profili che sarebbe ingiusto non considerare come “contrattuali”. Il fascicolo di valutazione immagina di poter giungere a una sorta di controllo minuto e fine sull’attività, praticamente quotidiana, dei magistrati per poterne, poi, trarre giudizi con grande incidenza sulla carriera e sulla stessa progressione economica. Ha ragione chi sostiene che non esiste alcuna organizzazione pubblica o privata che pretenda di giungere a questo livello microscopico di controllo sui propri dipendenti e, quindi, l’Anm ha ben ragione di lamentarsene.
Certo difetta nel dibattito, come spesso accade, un confronto davvero leale e sincero. La magistratura – un plesso di poco più grande di un piccolo comune con qualche migliaio di abitanti – conosce perfettamente al proprio interno chi sono i neghittosi, gli incauti, gli sfaccendati e gli incapaci. Se le disposizioni esistenti in materia di valutazione di professionalità fossero applicate con sufficiente rigore e qualche dirigente di troppo non preferisse il quieto vivere piuttosto che esercitare il dovere di segnalare anomalie e disfunzioni, la bonifica della magistratura italiana dai danni che la affliggono sotto questo versante sarebbe immediata o quasi. Ma prevalgono logiche diverse. La temporaneità degli incarichi di dirigenza in senso lato (4 anni + 4 anni), la prospettiva, quindi, di un ritorno a essere collega tra colleghi, la necessità di evitare che nelle conventicole correntizie si parli male di questo o quel presidente, di questo o quel procuratore per la sua eccessiva severità (sabotando le prospettive di un ulteriore incarico) induce tanti, e non tutti ovvio, a un approccio flow verso queste delicate questioni.
Il punto vero è che in ogni struttura, si pensi a tutta la pubblica amministrazione civile e militare, la dirigenza non condivide con tutti i dipendenti uno statuto di regole comuni. Non esiste lì, come in magistratura, un semplice primus inter pares che attende provvisoriamente alla direzione e al controllo, ma la linea di demarcazione tra un dirigente o un ufficiale e la restante parte del personale è invalicabile ed irreversibile. Tra le toghe, per fortuna, non è così. La Costituzione, per fortuna, vieta gerarchie (articolo 107) perché esse avrebbero una pesante incidenza e influenza sulle decisioni giudiziarie. E, in questo campo vitale, i giudici devono essere soggetti soltanto alla legge (articolo 101). Le norme in approvazione, consapevoli di un certa omertà di casta, prevedono sanzioni e punizioni per i dirigenti che ometteranno, ancora, di segnalare disfunzioni e disservizi. Il nuovo fascicolo professionale dovrebbe, addirittura, bypassare questo intermittente e insufficiente controllo offrendo la possibilità di attingere all’opera omnia dei singoli magistrati che qualche errore e qualche pasticcio lo combinano sempre, spesso per carichi di lavoro insopportabili. E qui la questione si complica.
È lecito avere perplessità sul fatto che una corporazione che – di fatto – ha fallito nel controllo orizzontale rimesso alla dirigenza, possa praticare un esame imparziale e distaccato dell’enorme quantità di dati che si dovrebbero raccogliere ogni anno su ciascuna toga. A parte che non è chiaro chi dovrebbe controllare cosa e con quale autorevolezza e competenza dovrebbe segnalare le devianze nei provvedimenti adottati. A meno di voler presidiare ogni giudice con un poliziotto professionale, si profila il rischio del solito doppio binario di Sistemica memoria per cui si perdona agli amici e ai protetti e si puniscono i nemici e i deboli; e dal calderone dei dati si prende quel che serve o si scarta ciò che nuoce. Alberto Cisterna
Con lo sciopero tutto “politico” l’Anm fa un bel “salto di qualità”. La Consulta ha già “promosso” le norme più criticate dai giudici; che dunque non sono mobilitati per la Costituzione. Giovanni Guzzetta su Il Dubbio il 10 maggio 2022.
I magistrati che scioperano dunque non lo fanno per tutelare le loro posizioni nell’ambito del rapporto di lavoro, ma per rappresentare la loro visione “politica” di ciò che sia meglio per regolare il funzionamento della giurisdizione. E lo fanno altresì in posizione apertamente oppositiva alle scelte che in questi giorni sta facendo il Parlamento: “Proponiamo, pertanto, all’assemblea di proclamare una giornata di astensione, delegando la G. e. c. (Giunta esecutiva centrale, ndr) ad individuare tempestivamente la data (…), tenendo conto dello sviluppo dei lavori parlamentari in corso”.
Lo sciopero, dunque, strettamente collegato all’attività in corso delle Camere, potrà essere replicato qualora ve ne sia ancora la necessità: “ Deleghiamo il Cdc (Comitato direttivo centrale, ndr), qualora non vi fossero modifiche idonee ad elidere le criticità del progetto di riforma, a prevedere tempestivamente nuove forme di protesta, non esclusa l’astensione”, cioè altri scioperi.
Se lo sciopero sia o meno legittimo in base alla lettera e allo spirito della Costituzione è questione certamente importante. Ma, nella circostanza, distrarrebbe rispetto al nodo più profondo della questione. La incanalerebbe sul piano della legittimità, scatenando, com’è prevedibile, le reazioni di chi invocherebbe la presunta minaccia ai diritti costituzionali dei cittadini- magistrati. E il tema della “minaccia” (alla magistratura) è già sufficientemente presente nelle motivazioni utilizzate per sorreggere le giustificazioni dell’iniziativa. Molto più interessante è muoversi nella logica della rivendicazione e condurla fino alle sue estreme e coerenti conseguenze.
L’Anm giunge allo sciopero attraverso due passaggi. Il primo è che la riforma “minaccia” la magistratura (“ cambierà radicalmente la figura del magistrato, in contrasto con quello che prevede la Costituzione”). Il secondo è che lo sciopero non intende essere solo oppositivo, ma si propone anche finalità costruttive, cioè di favorire un dibattito “ per far comprendere, dal nostro punto di vista, di quali riforme della magistratura il Paese ha veramente bisogno”.
Il combinato disposto delle due affermazioni (difesa della Costituzione e proposte alternative) rende palese che il fine dello sciopero non risiede esclusivamente nella pretesa di dire ciò che è costituzionalmente illegittimo, ma anche di indicare quale tra le possibili applicazioni ( legittime) della Costituzione è preferibile dal punto di vista della magistratura, quale interprete dei “bisogni veri del paese”.
Il punto è centrale. I magistrati associati non si fanno solo interpreti della Costituzione, ma si propongono di andare oltre “suggerendo” le riforme migliori. Suggerimenti che la Costituzione lascia alla discrezionalità politica, perché l’attuazione delle sue norme e dei suoi principi non è (sempre) “obbligata”. Insomma, non c’è una sola applicazione possibile di quelle norme e di quei principi. E questo lo dice qualcuno che di interpretazione costituzionale se ne intende: la Corte costituzionale.
Come certamente i magistrati sanno, infatti, nel giudicare l’ammissibilità dei referendum, quindi anche dei referendum sulla giustizia che andranno al voto il 12 giugno, la Corte accerta che i quesiti proposti non riguardino leggi “a contenuto costituzionalmente vincolato”, leggi cioè che costituiscano applicazione “obbligata” della Costituzione.
E proprio a proposito di questi referendum in materia di giustizia, la Consulta, nel dichiararne l’ammissibilità, ha escluso, tra l’altro, che vi sia un impedimento costituzionale alla separazione delle funzioni, che vi sia un ( implicito) divieto costituzionale di far partecipare avvocati e professori alla valutazione dei magistrati, che sia precluso ai singoli magistrati di candidarsi da soli al Consiglio superiore della magistratura.
Su questi punti, almeno su questi punti, abbiamo la certezza, asseverata dall’organo supremo di legalità costituzionale, che le proposte dell’Anm (notoriamente critiche su separazione delle funzioni e partecipazione di avvocati e professori alle valutazioni dei Consigli giudiziari) non si giustificano perché imposte dalla Costituzione, ma siano solo una delle possibili scelte politiche che possono essere fatte sul punto. Del resto interpretare ciò di cui “il paese ha veramente bisogno” cos’è se non il cuore dell’attività politica?
Da quanto detto si possono trarre due conclusioni.
La prima è che, per quanto nobili possano essere le ragioni, almeno sui punti aperti a più soluzioni legislative, lo sciopero dell’Anm è un atto politico che non trova alcuna ragione nella difesa della Costituzione, ma esprime l’opinione di chi ritiene di essere in una posizione (privilegiata?) per interpretare i bisogni del paese. Tanto da interrompere il proprio servizio allo Stato e ai cittadini.
Ciò costituisce un salto di qualità nei rapporti tra magistratura e sovranità popolare, di cui il Parlamento, ci piaccia o no, è rappresentante (a differenza dei magistrati: art. 101 Cost.). Almeno nella Costituzione liberal- democratica vigente.
È un salto di qualità perché “la Magistratura tutta, che si riconosce nell’A. n. m.” (così la mozione sullo sciopero) non si limita ad esprimere opinioni e pareri, ma sceglie uno strumento di lotta politica che, per sua natura, e per espressa dichiarazione dell’Anm stessa, mira a cambiare l’indirizzo legislativo della maggioranza politica.
Cos’altro significa, malgrado l’edulcorazione quasi esoterica del linguaggio, affermare che “qualora non vi fossero modifiche idonee ad elidere le criticità del progetto di riforma” si dovranno prevedere “tempestivamente nuove forme di protesta, non esclusa l’astensione”? La prefigurazione di altri scioperi cos’è se non la conferma che si è entrati deliberatamente sul terreno della lotta politica reiterata nei confronti del Parlamento?
La seconda conclusione è che, in questa cornice, esiste un convitato di pietra: i referendum sulla giustizia, che la delibera sullo sciopero nemmeno menziona benché in esso vi siano soluzioni più radicali, su alcuni aspetti, di quelle che vengono contestate alla riforma Cartabia.
La domanda, che si è implicitamente fatta in altra occasione, rimane la stessa: lo sciopero è anche contro la possibile decisione del popolo nel referendum? Oppure la circostanza che i referendum rischino di non raggiungere il quorum è, per l’Anm, un motivo utile perché la sua interpretazione dei “bisogni veri del paese” venga, in questo caso, tatticamente e, qualcuno potrebbe dire, opportunisticamente taciuta? Domande che non richiedono di scomodare i grandi principi costituzionali. E attendono risposta.
La casta delle toghe. La casta delle toghe dai ricchi stipendi: tenetevi il denaro ma mollate un po’ di potere…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 5 Maggio 2022.
Non c’è niente di male nel puro fatto che i magistrati ricevano un ricco stipendio. Certo, chi reclamasse che nel nostro Paese ci vorrebbe un po’ di giustizia sociale, un po’ di redistribuzione, inevitabilmente darebbe un’occhiata alla busta paga del funzionario in toga, che è la più sontuosa d’Europa e supera di due, di tre, di quattro, di cinque volte quella di qualsiasi pubblico dipendente. Ma lasciamo pur perdere i paragoni, e accantoniamo pure la sperequazione che favorisce in quella misura i nostri magistrati rispetto a tutti i loro colleghi stranieri e ai lavoratori della pubblica amministrazione estranei alla cerchia giudiziaria.
E invece domandiamo: ma un simile privilegio, che qualcuno potrebbe ritenere già in linea di principio ingiustificabile, non dovrebbe almeno essere impetrato e concesso sulla scorta di qualche controllo di professionalità? Non dovrebbe, cioè, almeno escludersi che tanto salario sia riconosciuto solo per appartenenza castale, e cioè solo perché uno è impancato ad arrestare la gente e a giudicarla, senza nessuno scrutinio su come quel lavoro è condotto? Né ancora basta. Perché questa ricchezza è intestata a una categoria che vede associato al proprio privilegio economico un potere incomparabile: due cose che in democrazia, al contrario, non dovrebbero andare di conserva.
E non perché chi ha tanto potere dovrebbe esercitarlo gratis, ma perché prevalere sugli altri in potere e in danaro, per l’esercizio di un ruolo che simultaneamente assicura l’uno e l’altro, produce un rapporto di doppia subordinazione: pressappoco quello che c’è tra il nobilastro che impone al villano non solo la tassa ma anche il rispetto di rango, due cose funzionalmente collegate in reciproca giustificazione. Ci opporremmo con forza, se qualcuno proponesse di ricondurre a giustizia lo stipendio dei magistrati. Piacerebbe tuttavia che essi mostrassero meno resistenza all’idea che la società, lasciandoli ricchi, pretenda però di limitare almeno un pizzico del loro potere. Un po’ come in democrazia si fa appunto coi nobili, cui si lasciano i possedimenti ma non il potere di fare il bello e il cattivo tempo sulla vita degli altri. Iuri Maria Prado
Il dibattito sulla riforma. I magistrati vogliono il potere politico: Mattarella perché resti in silenzio? Riccardo Polidoro su Il Riformista il 5 Maggio 2022.
La struttura democratica del nostro Paese si basa su tre poteri: il legislativo, che compete al Parlamento; l’esecutivo che compete al Governo; quello giudiziario, che spetta alla Magistratura. La loro separazione è elemento essenziale. Ciò garantisce che essi non si concentrino in unica categoria o persona, al fine di scongiurare il pericolo di una dittatura. Tale premessa è di fondamentale importanza nel momento in cui si voglia esaminare quanto sta accadendo in questi giorni in merito alla riforma dell’ordinamento giudiziario, cioè all’introduzione di nuove norme in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura.
I partiti politici hanno assunto varie posizioni e il dibattito ha ridotto di gran lunga le aspettative di un concreto cambiamento e di un’effettiva svolta che potessero effettivamente apportare quelle modifiche di sistema per far riemergere il mondo giudiziario da un abisso mai prima d’ora toccato. Nonostante si prospettino, quindi, piccoli e poco significativi passi in avanti di quel necessario percorso di civiltà giuridica, l’Associazione nazionale magistrati ha ritenuto di annunciare una giornata di sciopero per denunciare all’opinione pubblica che la prospettata riforma non è altro che una legge per intimidire la magistratura. L’Associazione, a cui aderisce circa il 96% dei magistrati e che ha il fine di tutelare i valori costituzionali, l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, ha, nei giorni scorsi, acquistato un’intera pagina dei più importanti quotidiani nazionali per illustrare le ragioni della protesta.
“Una riforma sbagliata” è il titolo che campeggia in alto e subito dopo una serie di affermazioni dell’Anm, che si concludono con il riferimento al rispetto del principio della separazione dei poteri e ricordando che i magistrati sono soggetti soltanto alla legge. Appunto! verrebbe da dire. C’è il potere legislativo che, unitamente a quello esecutivo, sta elaborando una riforma e, proprio nel rispetto della separazione dei poteri, quello giudiziario – che ha tutt’altre prerogative non meno importanti – non dovrebbe entrare a gamba tesa, addirittura minacciando di fermare la propria attività, incrociando le braccia per un giorno. La Costituzione prevede che i magistrati siano soggetti soltanto alla legge, non che debbano scriverle. Tale principio di palmare evidenza, e che non può trovare diversa interpretazione, nel corso degli anni si è del tutto affievolito fino a far dimenticare i limiti delle competenze della magistratura che, pur avendo il delicato ruolo di indagare e giudicare, decidendo quindi delle sorti della vita altrui, non è chiamata a legiferare. Ma la storia, soprattutto recente, ci dice purtroppo che non è così. Con buona pace della separazione dei poteri.
L’attuale presidente dell’Associazione nazionale magistrati è stato capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia dall’ottobre 2015 al febbraio 2018 ed in precedenza, dall’agosto 2013, ha svolto le funzioni di vice capo con compiti di coordinamento del settore penale. Cinque anni presso l’Ufficio legislativo. Del resto è prassi che il capo di Gabinetto del ministro della Giustizia sia un magistrato, mentre possono essere fino a duecento quelli fuori ruolo, la maggior parte dei quali distaccati proprio al ministero della Giustizia che, dunque, è gestito in gran parte dal potere giudiziario. Tale inconcepibile ed innaturale innesto – di cui si auspica la fine al più presto – ha avuto l’effetto di trasformare la cultura dei magistrati, i quali, invece di gestire il loro immenso potere giudiziario, cercando di esercitarlo nel migliore dei modi, vogliono un potere politico non di loro competenza. Nella predetta pagina a pagamento si legge, tra l’altro, che «avremmo voluto una riforma del Csm che riducesse il peso delle correnti..».
Ma le correnti non nascono in seno all’Anm? E non sarebbe opportuno che proprio l’Anm si ponesse finalmente il problema di ridimensionarne il potere, soprattutto alla luce di quanto accaduto negli ultimi anni? Ed ancora si legge: «Quella che si sta materializzando è una riforma che non ha come scopo quello di preservare la qualità delle decisioni dei magistrati…». Affermazione che mette in luce, ancora una volta, che chi giudica gli altri non vuole essere giudicato nemmeno dai propri colleghi – come del resto prevede la riforma – e la volontà di lasciare immutata la situazione attuale, nella quale non esiste alcuna concreta penalità per il magistrato incapace. Al più – e raramente – un trasferimento per fare danni in altri luoghi. Un incomprensibile e deleterio sciopero, dunque, di uno dei tre poteri dello Stato contro gli altri due poteri, nel silenzio – almeno fino ad ora – del Capo dello Stato che è anche capo del Consiglio superiore della magistratura. Riccardo Polidoro
Grazia Longo per “la Stampa” l'1 maggio 2022.
Un giorno di sciopero. Così i magistrati si oppongono alla riforma Cartabia dell'ordinamento giudiziario, approvata alla Camera e ora all'esame del Senato. Lo ha deciso l'assemblea nazionale dell'Anm con 1.081 voti favorevoli, 169 contrari e 13 astenuti. La data verrà fissata dalla giunta esecutiva ma è probabile che cada entro il 20 maggio, a ridosso della votazione in Senato.
«Non scioperiamo per protestare, ma per essere ascoltati - dicono i magistrati nella mozione unitaria e collettiva - non scioperiamo contro le riforme, ma per far comprendere di quali riforme della magistratura il Paese ha veramente bisogno. Per questa idea della magistratura, che non è solo nostra, ma è quella contenuta nella nostra splendida Costituzione». L'Anm ribadisce, inoltre, di non voler ritornare al conflitto tra politica e magistratura «come nella stagione di Mani pulite».
E c'è anche la richiesta di un incontro con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per comunicargli «le profonde inquietudini dei magistrati italiani sul pericolo che la riforma in esame pone al modello costituzionale di ordinamento giudiziario».
Tra le novità della riforma Cartabia più avversate dall'Anm c'è il fascicolo del magistrato bollato come una «pagellina che spegne il suo coraggio». In realtà esiste già un fascicolo personale di ogni magistrato, introdotto nel 2006, che prevede che ad ogni valutazione di professionalità (ogni 4 anni) il magistrato deve presentare al Consiglio giudiziario locale - e poi al Csm - provvedimenti a campione sulla propria attività svolta, e le statistiche relative alle attività proprie e comparate a quelle dell'ufficio di appartenenza.
Con la riforma invece il fascicolo andrà ora aggiornato annualmente, seguendo l'iter dei vari provvedimenti. Tra gli indicatori da tenere in considerazione da parte del Consiglio, gli eventuali segnali «di grave anomalia». Il segretario generale Anm Salvatore Casciaro dichiara: «Si istituisce un fascicolo delle performance che raccoglie lo sviluppo processuale delle pratiche, quasi uno screening periodico.
La logica di fondo, è che il processo sia una "gara" da vincere, che ogni riforma di sentenza, o il rigetto dell'istanza cautelare del pm, valga come una sconfitta, un punto in meno per il magistrato 'sconfessato». Ma il deputato Enrico Costa, di Azione, promotore dell'emendamento sul fascicolo personale replica: «Si potrà distinguere chi è più bravo da chi lo è meno. L'Anm sta drammatizzando una situazione che era prevista già dal 2006, a meno che in realtà non ci siano mai state valutazioni. Non credo che lo sciopero, secondo me sbagliato, inciderà sulla votazione in Senato. Lo sciopero dei magistrati incrina la fiducia dei cittadini nei loro confronti».
Il presidente dell'Anm, Giuseppe Santalucia, auspica invece che «la ministra Cartabia ascolti il nostro dissenso. Noi siamo contro una riforma che non migliora il servizio giudiziario, contro un modello organizzativo che renderà farraginosa la nostra attività di magistrati soggetti a una gerarchia miope. Ipotizziamo, inoltre, ulteriori forme di protesta se non ci saranno aperture».
Salvini: “Sciopero Anm? Ma andassero a lavorare”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Maggio 2022.
Una giornata di sciopero dei magistrati italiani contro la riforma del Csm., che si terrà molto probabilmente a ridosso del voto sulla legge a palazzo Madama. Voto che dovrebbe cadere entro il 20 maggio in modo da poter applicare le nuove disposizioni alle elezioni per il rinnovo della componente togata del prossimo Consiglio che scade a luglio.
Un giudizio sullo sciopero dell’Anm? “Pessimo, lavorassero invece di scioperare” dice il segretario leghista Matteo Salvini, ai microfoni di Isoradio. “Ci sono sei milioni di processi arretrati, milioni di italiani che attendono giustizia… Scioperano per che cosa, perché non vogliono le riforme?”, si chiede Salvini.
Incredibilmente sulle stesse posizioni del leader leghista, l’ altro Matteo. Cioè Renzi, leader di Italia Viva: “Lo sciopero dell’Anm dimostra una volta di più che questi magistrati, o meglio, che l’associazione che li guida è sempre più corporativa e casta. È uno sciopero assurdo e inspiegabile, e lo dice chi quella riforma non la vota, immaginiamoci gli altri” intervistato da Radio Radicale. “La riforma – ha aggiunto – è semplicemente inutile. Non tocca i veri problemi: lo strapotere delle correnti e la mancanza di responsabilità”.
“Non scioperiamo per protestare, ma per essere ascoltati” si legge nel documento sottoscritto da tutti i gruppi, in cui si annunciano anche giornate di studio ad hoc sui futuri effetti della legge. E c’è anche la richiesta di un incontro con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per manifestargli “le profonde inquietudini dei magistrati italiani sul pericolo che la riforma in esame pone al modello costituzionale di ordinamento giudiziario”. Nonché un ulteriore astensione se le risposte del governo non dovessero arrivare in alcun modo.
A votare “sì” allo sciopero dei magistrati, è stata una folta rappresentanza di giudici che si sono ritrovati a Roma, nel complesso di Largo Angelico, dopo una lunga assemblea durata oltre otto ore e moltissimi interventi,. Molti dei quali depositari delle deleghe consegnate dai colleghi durante le assemblee distrettuali che si sono svolte nei giorni scorsi. Complessivamente, circa duemila toghe che hanno espresso la loro volontà non solo di fare sciopero, ma anche di tenere una serie di assemblee per valutare soprattutto gli effetti che potrà avere la legge. Alla fine i voti sono stati 1.081 a favore, 169 contrari e 13 astenuti, su un totale di 1.423 iscritti.
Una vera e propria “casta” che dimentica di non avere alcun potere di rappresentanza popolare ed elettorale, che cerca da decenni di condizionare la politica esercitando “politicamente” il potere giudiziario. Una dei “cancri” della nostra democrazia.
La riforma Cartabia. Sciopero dei magistrati, la rivolta illegittima che calpesta la Costituzione. Salvatore Curreri su Il Riformista il 3 Maggio 2022.
Ma lo sciopero dei magistrati contro la riforma Cartabia di Csm e ordinamento giudiziario è legittimo? La domanda non è affatto oziosa o inutile, almeno per chi non crede che ci troviamo di fronte a una prassi irreversibile (im)posta da un potere dello Stato che non conviene contraddire o inimicarsi. Non solo, infatti, non esiste nessuna disposizione legislativa che attribuisca espressamente ai magistrati il diritto di sciopero ma dalla ricostruzione del quadro istituzionale e costituzionale emergono fondate ragioni per negarlo.
Già oggi vi sono alcune categorie di lavoratori pubblici cui, sebbene svolgano funzioni pubbliche di minor rilievo rispetto a quelle dei magistrati, è vietato scioperare: i militari (art. 1475.4 d.lgs. 66/2010); il personale della polizia di Stato se lo sciopero può pregiudicare “le esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica o le attività di polizia giudiziaria” (art. 84 l. 121/1981); il personale della polizia penitenziaria durante “il servizio di sicurezza degli istituti penitenziari” (art. 19.13 l. 395/1990). Tutti soggetti la cui libertà di associazione sindacale, correlata – anche storicamente – al diritto di sciopero, è parimenti limitata (è già andrebbe discusso sulla natura di fatto sindacale dell’Associazione nazionale magistrati). “Ebbene, si può dire forse che la Magistratura si trovi in una posizione diversa da quella dei menzionati pubblici funzionari?”
Lo sciopero dei magistrati non è espressamente vietato, ma nemmeno, come detto, espressamente previsto. L’unica fonte che l’ammette è il Codice di autoregolamentazione che l’Associazione nazionale magistrati ha (ovviamente) approvato il 5 maggio 2004, le cui modalità di esercizio sono state valutate “idonee” dalla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali ai fini della garanzia delle prestazioni essenziali durante lo sciopero (delibera n. 04/566 del 21 ottobre 2004). Si tratta quindi di un giudizio formulato da un’autorità amministrativa di garanzia in relazione solo alle modalità di esercizio ma non certo alla legittimità di chi lo esercita. Di contro l’unica legge che regolamenta il diritto di sciopero – quella nei servizi pubblici essenziali (l. 146/1990) – espressamente include l’amministrazione della giustizia tra i servizi e le prestazioni indispensabili che devono essere garantiti per consentire il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati, specie ovviamente quando si tratti di provvedimenti cautelari ed urgenti.
In tale quadro d’incertezza normativa, è ai principi costituzionali che bisogna ricorrere. Principi da cui traggo “l’avviso che uno sciopero dei magistrati è giuridicamente inammissibile”. “Lo sciopero è senza dubbio un diritto riconosciuto dalla Costituzione” ma “non è un diritto illimitato” perché, secondo l’art. 40 Cost. “si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. “È vero che questi limiti – la cui precisazione il precetto costituzionale demanda e riserva al legislatore ordinario – non sono stati ancora da quest’ultimo individuati e sanciti, come pur sarebbe stato auspicabile; ma non è men vero che alcuni di essi già esistono, in quanto derivano direttamente e immediatamente da altri principi e precetti della Costituzione, e si devono pertanto considerare operanti anche se non si è ancora avuta la precisazione legislativa di cui poc’anzi ho fatto cenno”. Tali limiti, nel caso dei magistrati, derivano “dalla necessità di contemperare le esigenze dell’autotutela di categoria con le altre discendenti da interessi generali, che trovano diretta protezione in principi consacrati nella stessa Costituzione”.
Da questo punto di vista non c’è dubbio che i magistrati esercitano una funzione essenziale in quanto sono “investiti di una funzione sovrana” “Ed è proprio in considerazione del carattere sovrano della funzione esercitata che la Costituzione assicura ai magistrati speciali guarentigie e uno status particolarissimo, che sarebbe superfluo qui ricordare. Ma a queste guarentigie e a questo status non possono non corrispondere speciali responsabilità, obblighi e doveri, tra i quali quello di assicurare la continuità di una funzione essenziale, sovrana, insuscettibile di interruzione”. Diverse sono le disposizioni costituzionali “da cui chiaramente risulta quella che si potrebbe definire necessaria continuità della funzione”. La Costituzione, infatti, afferma che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi (articolo 24); impone l’obbligo al pubblico ministero di esercitare l’azione penale (articolo 112); pone la polizia giudiziaria – alla quale, come si è visto, non può riconoscersi il diritto di sciopero – a disposizione dell’autorità giudiziaria (articolo 109); infine postula quelle leggi che impongono al magistrato di adottare, entro termini perentori, provvedimenti che riguardano la libertà e gli altri diritti fondamentali dei cittadini.
Si potrebbe obiettare che, al pari di tutti gli altri pubblici impiegati, anche i magistrati potrebbero scioperare per motivi retributivi, ma tale obiezione “non tiene conto che nello stesso rapporto di prestazione d’opera retribuita vi sono anche altre categorie, come si è visto, rispetto alle quali il divieto di sciopero non è contestato. La verità è che nell’ambito del pubblico impiego possono darsi limitazioni di certi diritti fondamentali, in vista dei fini supremi cui tendono i compiti assegnati a certe categorie di pubblici funzionari. Ne è prova la disposizione contenuta nell’articolo 98 della Costituzione, là dove si individuano alcune di queste categorie [tra cui i magistrati], rispetto alle quali può essere stabilito per legge il divieto di iscrizione a partiti politici, che pur è un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione”. Lo sciopero dei magistrati dovrebbe essere dunque una “manifestazione non consona con la posizione costituzionale e con il prestigio della Magistratura” (così il CSM, seduta del 20 dicembre 1963), anziché un diritto che costoro hanno potuto esercitare di fatto, senza subire alcuna sanzione grazie al fatto di essere giudici “in causa propria”.
Per di più quello appena proclamato non è uno sciopero indetto da cittadini-magistrati per finalità economico-retributive. È, piuttosto, uno sciopero indetto da magistrati-cittadini, riuniti in un’associazione di categoria, di natura politica perché diretto a contestare la legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario approvata dalla Camera. Esso ha quindi come fine la tutela di “interessi che possono essere soddisfatti solo con atti di governo o da atti legislativi”. Così l’ha definito (e ammesso) la Corte costituzionale (sentenza n. 290/1974) nel contempo però vietandolo quando “per il suo modo di essere, oltrepassando i limiti di una legittima forma di pressione, si converta in uno strumento diretto ad impedire od ostacolare il libero esercizio di quei diritti e poteri nei quali si esprime direttamente o indirettamente la sovranità popolare”.
Ebbene, siamo di fronte ad uno sciopero di un potere dello Stato (giudiziario) contro un altro potere dello Stato (legislativo) con il quale il primo “per farsi ascoltare” usa uno strumento politico per contrastare una scelta di politica giudiziaria che per Costituzione compete solo al Parlamento, quale sede della rappresentanza politica della sovranità popolare. Se le riforme approvate sono illegittime, perché lesive dell’autonomia e indipendenza della magistratura, sarà la Corte costituzionale a stabilirlo. La scelta dei magistrati di contrastarle non secondo i rimedi previsti dal nostro ordinamento ma sul piano politico è l’ennesima riprova della tendenza dell’ordine giudiziario ad ergersi a potere che vuole condizionare, dal di dentro e dal di fuori, il legislativo e l’esecutivo, in chiara violazione del principio della separazione dei poteri che dai tempi di Locke e Montesquieu fonda le moderne democrazie costituzionali.
P.S. L’attento lettore si sarà chiesto da dove sono tratti i virgolettati riportati nell’articolo. Si tratta del discorso tenuto dal Presidente della Repubblica Saragat al Consiglio superiore della magistratura il 21 febbraio 1967 sullo sciopero dei magistrati, poi ripreso e condiviso dal Presidente Leone il 28 gennaio 1974. Ma questa è una precisazione utile solo per chi fa dipendere la validità degli argomenti dall’autorità di chi li sostiene oppure la ritiene inficiata dal tempo trascorso. Salvatore Curreri
In un appello decine di toghe attaccano l’Anm. Resa dei conti tra toghe, insorgono i dissidenti: “Nè con Cartabia, né con questa Anm”. Paolo Comi su Il Riformista il 3 Maggio 2022.
“Né con la Cartabia, né con questa Anm”, è il titolo di un appello che sta girando da ieri pomeriggio sulle mailing list dell’Associazione nazionale magistrati. “Ci siamo illusi! Quando il ‘Sistema Palamara’ è venuto alla luce attraverso la pubblicazione delle famose chat, disvelando, per l’ennesima volta, come negli ultimi trent’anni, ciò che molti sapevano ma che pochi avevano avuto il coraggio di denunciare pubblicamente, nessuno in magistratura ha potuto continuare ad ignorare e a voltare la faccia dall’altra parte”, esordisce il documento che già dopo poche ore era stato sottoscritto da decine di toghe di diversi uffici giudiziari.
Allo scoppio del ‘Palamaragate’, prosegue “sono seguite dichiarazioni di aperta condanna: sconcertate ed indignate, da parte della “base” più o meno consapevole che si diceva ferita e amareggiata per il discredito che aveva colpito la categoria; altisonanti ed ipocrite, da parte di chi avrebbe dovuto astenersi dal porre in essere certe condotte e invece, dopo aver partecipato alle pratiche spartitorie, aveva approfittato della situazione per marcare differenze e operare distinguo”. “Si era detto con toni ultimativi e perentori – prosegue – che bisognava voltare pagina e che certi comportamenti non sarebbero stati più tollerati, perché altrimenti la politica ci avrebbe “riformato”, e lo avrebbe fatto con spirito di rivalsa e intenti punitivi che avrebbero finito per limitare l’autonomia l’indipendenza che sono riconosciute alla magistratura non come privilegio, ma nell’interesse esclusivo della collettività”.
Cacciato Palamara dalla magistratura, fanno intendere le toghe che hanno aderito all’appello, “l’indignazione generale ha lasciato il posto ad una critica di maniera, fatta di mere affermazioni di principio e di formule vuote, e, dopo una “caccia alle streghe” che ha colpito alcuni e risparmiato tanti altri – complice anche una circolare auto-assolutoria della Procura generale presso la Corte di Cassazione, titolare dell’azione disciplinare -, il “Sistema” ha ripreso a funzionare esattamente come prima”. Il risultato è stato che “i tanti colleghi silenti che dopo lungo tempo si erano finalmente fatti sentire per rivendicare la propria estraneità a certe logiche e la propria voglia di cambiamento, sono tornati nuovamente a ripiegarsi su se stessi”. Per fare un confronto, “la primavera araba” dei magistrati “è finita ben presto”. Se è questo è il quadro “desolante”, l’Anm allora cosa ha fatto?
“Non ha detto una parola per stigmatizzare la circolare della Procura generale in tema di autopromozione, ha professato una fiducia preconcetta nelle capacità taumaturgiche della ministra Cartabia di riformare con la bacchetta magica il processo civile e quello penale, accettando supinamente soluzioni scellerate e rifiutando di indicare rimedi di buon senso che avrebbero potuto accelerare la definizione dei processi, si è guardata dal promuovere il sorteggio temperato per la scelta dei candidati al Csm e la rotazione negli incarichi direttivi e semidirettivi, e una disciplina che ponesse fine ai privilegi (anche economici) dei magistrati fuori ruolo”. In pratica nessuna “seria “autoriforma” che smantellasse realmente il “Sistema” e tutelasse finalmente l’autonomia interna di tutti i magistrati”.
L’Anm si è allora “preoccupata unicamente di “patteggiare” con la politica una legge elettorale per il rinnovo del Csm che consentisse alle correnti di continuare a designare i propri eletti, in modo da poter gestire – con affidamento in house – il governo autonomo della magistratura” e “per salvarsi la faccia con la base elettorale, in vista della imminente campagna elettorale per il rinnovo del Csm, ha inscenato una protesta di maniera, tardiva e disorganizzata, contro una pessima riforma dell’ordinamento giudiziario, concepita in chiave meramente punitiva”. “La magistratura ha il dovere di recuperare l’onore e la credibilitá e, per farlo, deve avere il coraggio di dire la veritá innanzitutto a se stessa”, concludono i firmatari, ricordando il giuramento di fedeltà al Regime imposto nel 1931 ai professori universitari. “Giurarono tutti, meno dodici. Come ricordava Umberto Eco, “quei dodici hanno salvato l’onore dell’Università italiana””. Paolo Comi
L'intervento all'assemblea dell'Anm. “Perché i magistrati hanno paura di loro stessi?”, la riflessione di Gian Domenico Caiazza. Redazione su Il Riformista il 6 Maggio 2022.
Pubblichiamo di seguito l’intervento del presidente dell’Unione camere penali italiane all’Assemblea dell’Associazione nazionale magistrati del 30 aprile scorso.
Ringrazio il Presidente Santalucia e tutti voi per questo invito. Il metodo del confronto è nel nostro DNA. Voglio ricordare, in proposito, quando il Ministro Bonafede ci chiama, ci dice “Voglio ridurre i tempi del processo”. Chiama ANM e UCPI, partivamo dalle posizioni più inconciliabili: voi avevate licenziato quel documento del novembre 2018, se non sbaglio, che prevedeva abolizione del divieto di “reformatio in peius”, letture demolitorie dell’oralità del dibattimento, noi dalle nostre posizioni che vi sono note. Ci siamo guardati in faccia a un tavolo, abbiamo lavorato, abbiamo offerto a quel Ministro un’occasione irripetibile, cioè una proposta comune dopo due mesi di lavoro. Abbiamo detto insieme: volete i tempi rapidi?
Questa è la strada: riti speciali potenziati, tanto abbreviato condizionato, patteggiamento senza limiti di ostatività soggettive e oggettive, potenziamento dell’udienza preliminare, depenalizzazione (con una vostra proposta molto interessante sui reati contravvenzionali). Poi la politica – e devo dire che il Ministro mi è parso il meno colpevole- ha dato prova di tutta la sua mediocrità, e si è persa quella grande occasione. Ma voglio ricordare questo per dire che invece qui, sull’ordinamento giudiziario, si è commesso l’errore contrario. Noi siamo stati totalmente esclusi dalla Commissione ministeriale. Non così era stato per la riforma del processo penale, dove la nostra presenza credo che abbia prodotto un testo non divisivo, con buoni risultati qualitativi. Non dico “avete”, non so chi ha voluto che questa legge fosse scritta senza il confronto con i penalisti italiani. Penso che una legge che si occupa di questi temi senza di noi sarà per forza una legge più debole – scusate la presunzione – ma perché io credo che dal dialogo e dal confronto nascano le soluzioni.
Non sono qui per “captatio benevolentiae”. Noi abbiamo un’idea comunque critica di questa riforma, la consideriamo ancora blanda, lacunosa, ma con dei passi avanti che sono stati importanti e che abbiamo apprezzato. Questo giudizio sicuramente muove da punti di vista diversi, se non opposti ai vostri. Però non posso non rappresentarvi la sensazione della pretestuosità di alcune delle argomentazioni che sento qui più diffusamente proposte sui temi caldi, e che quindi ci fanno sospettare che le ragioni della vostra protesta siano altre. Io non posso sentire un magistrato – oltre che un amico – della qualità intellettuale e professionale di Eugenio Albamonte, portarmi come esempio della possibile distorsione delle nuove valutazioni di professionalità, l’esito del processo di “mafia capitale” per dirne una. O la sezione di Genova di ANM che scrive un documento ricordando le sentenze sul danno biologico della fine degli anni ‘70, sulle quali per di più ho fatto la tesi di laurea con Stefano Rodotà, sentenze che sono state confermate pochi anni dopo dalla Corte di Cassazione, diventando giurisprudenza costante.
Perché pretestuosità? Perché il fascicolo personale del magistrato, che già esiste, come ha ricordato bene l’on. Costa, con quegli stessi criteri (“valutazione degli esiti” significa valutazione di che cosa è successo nei gradi successivi) oggi lo costituite con le cause a campione, o addirittura con quelle proposte da voi, e nella riforma si intende acquisire l’intera attività del giudice. Se si acquisisce l’intera attività del magistrato, la sentenza creativa, le sentenze creative (una, cinque, venti) non vengono nemmeno rilevate dalla statistica. Non è possibile rilevarle. Perché dovete fare – ci chiediamo con franchezza, con amicizia – perché dovete fare questi discorsi pretestuosi? Perché bisogna dire qualcosa che non è? Dobbiamo immaginare – ma questo sarebbe l’ultimo dei consessi dove questo può accadere – che si vogliono delle norme che esistono formalmente ma che non trovano applicazione nel concreto, come quella direttiva CSM del 2007 che prevede le valutazioni ma che, di fatto, consente che non si facciano.
Come potete avere paura del vostro lavoro? Se noi pensiamo a un fascicolo con tutte le vostre sentenze, provvedimenti, ordinanze, come potete avere paura di voi stessi? Perché siete voi che vi giudicate. Io vorrei capire una cosa: noi parliamo qui con l’Associazione nazionale dei magistrati o dobbiamo pensare che parliamo con una parte della magistratura, che ne teme un’altra? Perché i giudizi sul fascicolo, di cui a questo famigerato emendamento che vi ho detto quello che aggiunge – cioè poco, importante ma poco – lo valutate voi. Quando si parla di direttive, state parlando tra di voi, non è che veniamo io e Costa a dare direttive, o a giudicare il vostro fascicolo. Siete voi che ve lo giudicate. Allora qual è il senso? Qual è il senso di questa polemica?
Ed ancora: come mai questo silenzio sul tema dei fuori ruolo? Io vi chiedo: come mai questo vostro silenzio ostinato sul tema dei fuori ruolo? Cioè una unicità mondiale, non esiste nessun altro Paese al mondo nel quale si formi un Governo di qualsiasi colore e duecento magistrati vengono messi fuori ruolo e distaccati presso l’esecutivo. Un’abnormità costituzionale, che difendete con le unghie e con i denti, ma lo fate silenziosamente. Allora prendete la parola e scioperate perché volete continuare a che il capo di Gabinetto del Ministro e il capo del legislativo appartengano alla Magistratura e non al funzionariato di carriera – perché non è che ci voglio andare io.
Questa crisi della giurisdizione è una crisi della democrazia in questo Paese. Di che stiamo parlando qui? Non ci perdiamo dietro la riforma, dietro questo o quell’emendamento. Dopo la crisi della politica, la crisi delle istituzioni principali di questo Paese, oggi ci misuriamo con la crisi della giurisdizione.
È un problema che ci tocca come cittadini, come qualità della nostra vita democratica. Non potete chiudervi in un ragionamento come se qualunque modifica si voglia apportare sia un assalto al fortino che voi difendete. Dobbiamo ragionare insieme. Noi vi ascoltiamo sulle vostre critiche alla separazione delle carriere, alcune delle vostre obiezioni meritano attenzione. Sulla responsabilità civile del magistrato mi avete addirittura convinto (perciò vogliamo piuttosto una vera responsabilità professionale del magistrato). Ma non potete affrontare sempre i nostri punti di vista con il pregiudizio che gli avvocati vogliano indebolire la magistratura. Al contrario! Noi vogliamo un giudice forte! Noi vogliamo entrare in aula temendo la qualità, la severità, l’intransigenza del giudice. Ma come me lo deve temere il Pubblico Ministero. Dobbiamo essere nella stessa misura intimoriti dall’autorevolezza del giudice. Questa è l’idea che noi abbiamo del processo penale.
Vogliamo un Pubblico Ministero indipendente dal potere politico, vogliamo un giudice indipendente dal Pubblico Ministero e dalle Procure. Vogliamo un giudice forte. Questo dovrebbe essere un motivo della vostra riflessione maggioritaria, perché siete l’80% di giudici rispetto al 20% di Pubblici Ministeri. In questo Paese, delle sentenze non importa nulla a nessuno; del vostro giudizio non importa niente a nessuno. Il giudizio della pubblica opinione sulla responsabilità penale si esaurisce nell’incriminazione, nell’indagine, nel rinvio a giudizio. È un problema nostro? Io penso che sia un problema vostro e un problema di tutto il Paese.
L’intervista. Sciopero delle toghe, si spezza il fronte dell’Anm: “Ecco perché non aderisco”. Viviana Lanza su Il Riformista il 6 Maggio 2022.
L’Associazione nazionale magistrati ha scelto il 16 maggio come giorno per lo sciopero (“astensione totale dalle funzioni” hanno deliberato) contro la riforma Cartabia, quindi contro la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura. Una riformina, dopotutto. Che agita fortemente gli animi delle toghe al punto da spingere loro, espressione di un potere dello Stato, a protestare contro un altro potere dello Stato. Agita le toghe, dicevamo, soprattutto quelle legate alle correnti. Per fortuna non tutte.
Fabio Lombardo è giudice per le indagini preliminari al Tribunale di Napoli, iscritto all’Anm, non iscritto ad alcuna corrente. Prima di entrare in magistratura ha fatto per dieci anni l’avvocato penalista: il mondo della giustizia, dunque, ha potuto osservarlo dalle due angolazioni opposte. Il 16 maggio sarà regolarmente a lavoro.
«Non sciopererò – spiega – . Un giorno di astensione dalle udienze non serve a niente e non sarebbe compreso dalla collettività che già, a torto o a ragione, ci accusa di essere “lenti” e di lavorare poco. La contrarietà a questa pessima riforma doveva essere espressa in altro modo, magari di sabato o di domenica, senza rinviare neanche un’udienza».
Questa magistratura vive una fase di crisi di fiducia e di credibilità che ha radici profonde nello scandalo Palamara e in vicende interne alla Anm stessa. Ci si aspettava un cambiamento radicale, invece la categoria continua a non voler affrontare alcun concreto cambiamento, a non volersi mettere in discussione. Perché secondo lei?
«Palamara non ha fatto tutto da solo, ma è stato il capro espiatorio che ha pagato per tutti. Quando il “Sistema” è venuto alla luce, molti, giustamente, si sono detti indignati, ma quella che è mancata è stata una seria autocritica, a cominciare da chi aveva partecipato alle pratiche spartitorie. C’è stata una “caccia alle streghe” che, nel silenzio colpevole dell’Anm, ha colpito alcuni e risparmiato tanti altri. È stata un’occasione persa».
Secondo lei come sarebbe stato più opportuno reagire?
«Avremmo dovuto farci promotori di una serie di proposte concrete che smantellassero realmente il “Sistema” e tutelassero finalmente l’autonomia interna di tutti i magistrati. Il sorteggio temperato per l’elezione dei membri del Csm, a mio avviso, poteva essere una soluzione praticabile, perché avrebbe impedito alle correnti di continuare a designare i propri eletti nel Consiglio Superiore. In alternativa, si sarebbe potuto introdurre primarie vere e obbligatorie tra i candidati, prevedere il voto plurimo e il cosiddetto panachage (che avrebbe consentito all’elettore di scegliere i migliori nelle diverse liste, invece di esprimere un voto di mera appartenenza correntizia). Avremmo dovuto pretendere una disciplina che introducesse delle incompatibilità tra gli incarichi ricoperti nell’Anm e nel Csm, che prevedesse (se non la rotazione, quanto meno) criteri meno arbitrari nel conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi e che ponesse fine ai privilegi (anche economici) dei magistrati fuori ruolo. Come categoria, non abbiamo fatto alcuna proposta concreta. Qui sta la nostra colpa più grande».
E poi c’è la posizione assunta sul tema delle valutazioni professionali. I magistrati hanno paura del proprio lavoro, temono il giudizio dei loro stessi colleghi…
«Il sistema delle valutazioni professionali poteva certamente essere migliorato, ma è assurdo pensare che un gip debba essere valutato non tanto per le ordinanze cautelari che ha emesso e che vengono confermate o annullate dal Tribunale del riesame, ma per il fatto che – a distanza magari di anni e sulla scorta delle prove fornite dalla difesa – l’imputato sarà stato assolto o condannato. Inoltre, sono anni che chiediamo, invano, di poter essere messi in condizione di conoscere gli esiti, in appello, dei nostri processi (senza dover chiedere notizie all’avvocato di turno), ma il sistema – che adesso vuole far dipendere le nostre valutazioni proprio da quegli esiti – non lo consente».
Lungaggini processuali, errori giudiziari, innocenti in carcere: la giustizia è piena di criticità. Come si può migliorare?
«Nel mese di giugno 2021, con alcuni colleghi, avevamo scritto una lettera aperta alla ministra Cartabia per indicare dieci riforme a costo zero che avrebbero ridotto i tempi dei processi penali e contribuito a risolvere alcuni dei problemi endemici della nostra giustizia, ivi compreso il sovraffollamento carcerario. In quella lettera, chiedevamo tra l’altro di introdurre la domiciliazione ex lege dell’imputato presso il difensore di fiducia, come nel processo civile (in modo da non dover più rinviare un processo soltanto per un’omessa notifica); di prevedere il giudizio abbreviato come forma di giudizio ordinario (e il dibattimento a richiesta dell’interessato); di consentire all’imputato di patteggiare senza limiti di pena e di tempo (anche durante il dibattimento); di rivedere il sistema delle pene, consentendo al giudice della cognizione di condannare l’imputato ad eseguire lavori di pubblica utilità o alla detenzione domiciliare (senza dover aspettare il magistrato di Sorveglianza); di abolire il divieto di reformatio in peius che costituisce un incentivo alle impugnazioni meramente dilatorie; di operare una seria depenalizzazione. Niente di tutto questo: per ridurre i tempi dei processi, si è introdotta soltanto l’improcedibilità dell’azione penale in appello».
A breve ci saranno i referendum sulla giustizia. Contengono quesiti di ispirazione garantista e quasi non se ne parla, snobbati dalla politica, eppure toccano temi che sono di grande interesse per tutti. Per quanto riguarda la categoria delle toghe, in particolare, uno dei quesiti riguarda la separazione delle carriere dei magistrati sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti. Cosa ne pensa?
«Non sono pregiudizialmente contrario alla separazione delle carriere, purché si faccia con legge costituzionale, prevedendo due Csm diversi. Ma dubito che il vero problema sia l’unicità delle carriere dei magistrati o la possibilità di passaggio da una funzione all’altra. Ho fatto l’avvocato per quasi dieci anni e penso che essere stato “parte” (pm o difensore) mi aiuti ad essere un giudice super partes».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
«Io non sciopero!», la fronda nell’Anm. All’interno della magistratura cresce il no all’astensione. Lo pronunciano figure di spicco come l’ex presidente Anm Grasso e schiere di giudici che diffondono documenti. Come quello che alcuni propongono di affiggere alla porta del proprio ufficio e dove c’è scritto “io non sciopero”. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 5 maggio 2022.
Scioperare «turandosi il naso». Una frase che riporta subito la memoria alla vigilia delle elezioni politiche 1976, quando il Partito comunista sembrava essere in procinto di sorpassare la Dc e conquistare il potere. “Turatevi il naso ma votate Dc”, scrisse allora Indro Montanelli, invitando così gli italiani a dare la preferenza alla tanto vituperata ‘balena bianca’ piuttosto che al partito di Enrico Berlinguer, in quel momento un potenziale pericolo per la giovane Repubblica italiana.
A distanza di quasi cinquanta anni, sembra essere questo lo stato d’animo maggiormente diffuso fra le toghe in vista della giornata di astensione dalle udienze del prossimo 16 maggio, proclamata da parte dell’Associazione nazionale magistrati per protestare contro la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm voluta dalla guardasigilli Marta Cartabia. «Dovremmo scioperare per una riforma tutto sommato di bandiera» che «non sconquasserà la magistratura» e «quando siamo ai minimi storici di credibilità? Non sono d’accordo», afferma a tal proposito l’ex presidente Anm Pasquale Grasso in una intervista all’AdnKronos.
Si tratta di uno sciopero, prosegue Grasso, «indetto fuori tempo massimo» e che «lascia l’impressione amara di una volontà di mera rappresentazione. Proprio per questo motivo, molti magistrati, aggiunge l’ex capo Anm, sciopereranno «turandosi il naso», avendo «paura di un boomerang da scarsa partecipazione” e perché “non possiamo apparire divisi all’esterno». Grasso, infine, ricorda che lo sciopero si fonda su un casus belli debole. «Scioperiamo perché? Scioperiamo per gli avvocati nelle nostre valutazioni di professionalità? Mi pare ipotesi residualissima e congegnata in maniera che non pare lesiva delle giuste prerogative dei magistrati», puntualizza. Sul punto Grasso ricorda l’approccio dei colleghi progressisti: «La corrente di Area che sciopera per questo motivo mi fa sorridere, visto che la partecipazione degli avvocati alle valutazioni di professionalità è una risalente e reiterata richiesta di quella corrente».
«Mi pare una protesta di mera facciata. Il sistema correntizio è ancora in piedi e si rafforzerà con questa riforma», afferma al Dubbio il giudice di Ragusa Andrea Reale, esponente di Articolo 101, il gruppo “anticorrenti”, che ha già fatto sapere di non aderire allo sciopero. «Ritengo sia una grande ipocrisia protestare soltanto con una giornata di astensione, quando si è rimasti inerti per mesi davanti a modifiche normative che snaturano la giurisdizione oltre che i principi costituzionali che ne costituiscono l’ossatura», aggiunge Reale.
«Condivido l’analisi del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia sulle criticità della riforma ma ho molte perplessità per una iniziativa, lo sciopero, che non verrà certamente compresa dall’opinione pubblica», è il commento rilanciato al Dubbio del consigliere di Cassazione Roberto Conti, direttore editoriale di Giustizia Insieme, la piattaforma online nata come luogo di confronto fra magistrati, avvocati, studiosi del diritto e società civile. Se quindi non si possono fare previsioni sulla partecipazione delle toghe allo sciopero, diversi magistrati, non etichettabili in alcun gruppo associativo, hanno iniziato a diffondere un volantino da apporre sulla porta del proprio ufficio per segnalare alle parti, avvocati e cittadini, che non vi aderiranno. «A tre anni dal disvelamento del “sistema Palamara” nessuna proposta concreta per risolvere i problemi della magistratura è stata avanzata dall’Anm», esordisce il documento. «La vera minaccia all’indipendenza della magistratura – prosegue – è costituita dallo strapotere delle correnti, che hanno condizionato e continuano a condizionare la vita del magistrato, giudicante e requirente. Siamo fermamente contrari a una riforma che NON risolve il nodo centrale del sistema elettorale del Csm, che continuerà ad essere dominato dalle correnti».
Per le toghe promotrici del documento si tratta di «una riforma che, nel complesso, tradisce il suo stesso proposito, finendo, in una sorta di eterogenesi dei fini, per aumentare il potere dei gruppi». «Tuttavia – conclude il volantino – NON possiamo unirci a una forma di protesta che riteniamo solo di facciata, perché indetta da quella stessa Anm che nulla ha fatto per combattere le degenerazioni correntizie e che trarrà solo vantaggi dalla riforma. Chiediamo che si metta mano, una volta per tutte, ai veri problemi della magistratura».
L’iniziativa del volantino segue l’appello “Né con l’Anm, né con la Cartabia” che era stato firmato nei giorni scorsi da una cinquantina di magistrati di diversi uffici giudiziari del Paese. Anche in questo caso si accusavano i vertici dell’Anm di non aver fatto nulla per risolvere il problema del correntismo dopo il Palamaragate. «Dopo una “caccia alle streghe” che ha colpito alcuni e risparmiato tanti altri, complice anche una circolare auto-assolutoria della Procura generale presso la Corte di cassazione, titolare dell’azione disciplinare, il ‘Sistema’ ha ripreso a funzionare esattamente come prima», affermavano i magistrati, auspicando un recupero di credibilità, ormai ai minimi termini.
La riforma giustizia. “Ma quale sciopero, l’Anm deve ringraziare”. intervista al giudice di sorveglianza Andrea Mirenda. Paolo Comi su Il Riformista il 3 Maggio 2022.
«Ho già preparato il cartello da mettere davanti alla porta del mio ufficio. C’è scritto: ‘Questo giudice non sciopera’. Voglio chi sia ben chiaro a tutti, avvocati e cittadini, che non condivido minimamente la protesta dell’Anm». A dirlo è il giudice Andrea Mirenda, magistrato di sorveglianza presso il tribunale di Verona.
Dottor Mirenda, allora non sciopera?
Ma no, ci mancherebbe altro.
L’Anm è preoccupata dei possibili effetti della riforma Cartabia.
Guardi, l’Anm, a cui non sono più iscritto, dovrebbe fare solo una cosa: ringraziare il governo per lo scampato pericolo.
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A cosa si riferisce?
È sparito il sorteggio ‘temperato’ per l’elezione dei componenti togati del Csm. Era l’unica riforma che andava fatta e che avrebbe tolto una volta per tutte il potere alle correnti della magistratura.
I politici hanno avuto paura di mettersi contro i magistrati?
Non so se abbiamo avuto paura o se ci sia stato un accordo. Il risultato finale è il che il solito asse politica-magistratura, quello che spadroneggia nelle procure ‘calde’, ha avuto la meglio e la proposta del sorteggio è stata ritirata.
Torniamo allo sciopero.
Per il sottoscritto si tratta di uno sciopero ‘pro forma’. Non ci sono minacce esterne. Io non vedo tutti questi ‘pericoli’.
I suoi colleghi, invece, dicono che con questa riforma trionferà il ‘conformismo’ giudiziario. I giudici, in altre parole, saranno terrorizzati dallo scrivere una sentenza che possa andare contro l’orientamento prevalente della Cassazione, rischiando così una sanzione perché potrà essere ribaltata nei successivi gradi di giudizio.
Ma quando mai. Voglio vedere chi avrà il coraggio di aprire un procedimento disciplinare ad un giudice che ha redatto una sentenza ben motivata e ben scritta. Anche se va contro quello che dice la Cassazione. Siamo seri, per favore.
Non ha paura delle pagelle?
Altra norma ridicola.
Abbiamo capito che lei non si sente minacciato ed in pericolo.
No, la minaccia al lavoro del magistrato esiste ed è quella delle correnti. Sono loro che gli creano problemi sotto il profilo dell’autonomia e dell’indipendenza.
Lei aveva firmato per i referendum sulla giustizia promossi dal Partito Radicale e dalla Lega.
Si, e lo rivendico. Firmai perché fin da subito avevo capito che la riforma voluta dalla ministra Marta Cartabia, e che doveva essere ‘epocale’, era invece il nulla assoluto. Una riforma che non avrebbe cambiato di una virgola la situazione attuale, continuando a lasciare il potere alle correnti all’interno del Csm per le nomine e gli incarichi. Ed infatti così è successo.
Perché da magistrato ha condiviso il quesito sulla separazione delle funzioni?
La realtà italiana non esiste in nessun altro Paese europeo. Siamo un caso unico. Ritengo che sia necessario un processo riformatore che ci avvicini agli altri Stati, da realizzarsi con una modifica alla Costituzione che preveda un pm soggetto soltanto alle legge e pienamente indipendente.
All’assemblea dell’Anm dello scorso fine settimana, invece, hanno rivendicato la comune “cultura giurisdizionale” fra pm e giudici.
Io dico da sempre che è un alibi, un inganno. Se i pm saranno indipendenti e soggetti solo alla legge non vedo quali problemi ci possano essere se si ‘staccano’ dai giudici.
I pm sono stati quelli che hanno spinto di più per lo sciopero.
I pm da sempre hanno un ruolo di primo piano nella vita associativa della magistratura.
Non è un caso che il presidente dell’Anm sia quasi sempre un pm e non un giudice. E questo anche se numericamente i pm sono molto meno rispetto ai giudici.
Oltre alle correnti, sotto il profilo normativo, che problemi ha la magistratura?
La ‘gerarchizzazione’. I magistrati secondo la Costituzione si distinguono solo per funzioni. Ma oggi non è cosi. Nelle procure c’è il procuratore che ‘comanda’ e i pm che sono sotto di lui. La gerarchizzazione è stata peraltro portata avanti dalla sinistra giudiziaria che per anni ne ha beneficiato. Il rimedio antigerachico è la rotazione degli incarichi direttivi e semi direttivi. E un rimedio rispettoso della dignità dei colleghi. E lo dice uno che è stato iscritto a Magistratura democratica e ha sempre avuto un approccio progressista e riformista. Paolo Comi
Dietro la protesta la paura di essere “normali”. Rivolta delle toghe contro la ‘riformina’ Cartabia: “Solo noi diamo le pagelle”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Maggio 2022.
Il primo maggio dei lavoratori in toga, le braccia incrociate a scioperare contro la Piccola Riforma del governo Draghi e della ministra Cartabia hanno un solo sapore, quello della paura di diventare “normali”. Di essere finalmente impiegati laici vincitori di un concorso, tramite il quale hanno avuto accesso alla gestione di una delle tre funzioni fondamentali dello Stato, quella giudiziaria, separata e complementare dei poteri legislativo e esecutivo. Non tollerano, soprattutto, che qualcuno (che poi sarebbero i loro stessi colleghi del Csm) possa dare la pagella al loro lavoro. La pagella, loro vogliono continuare a darla agli altri, non riceverla.
Niente fascicolo di valutazione dell’attività del magistrato. Non parliamo di separazione delle funzioni tra requirente e giudicante. A quel punto mettono sul tavolo la P38. Un comportamento che ricorda qualcosa e qualcuno, ma con atteggiamento opposto. Qualcuno che ha pagato un prezzo ben più alto. Le premesse però c’erano tutte, la necessità di correggere qualcosa che non andava. Ieri nella Casta dei politici, oggi in quella dei magistrati. Senza rancori né vendette. Quando nel 1993 un Parlamento di politici sconfitti abolì l’immunità, cioè l’unico contrappeso rispetto all’indipendenza della magistratura posto dai Padri Costituenti, grande fu il gaudio generale. Nessuno alzò la voce a ricordare che la separazione dei poteri necessita che ciascuno di essi sia forte nel proprio alveo.
Nessuno imprecò contro quelle toghe sempre più sfacciatamente invadenti nel dare le pagelle alla politica. Era pur vero che, troppe volte, nelle giunte di Camera e Senato, si era invocato il fumus persecutionis con percentuali altissime di parlamentari che venivano “assolti” dai loro colleghi e sottratti all’amministrazione della giustizia anche se avevano picchiato la moglie o rubato al supermercato. Ma era ancor più vero che le pagelle della giustizia, distribuite da soggetti che si facevano chiamare “Mani Pulite”, quasi fossero vindicatores di un mondo politico fatto solo da malfattori, si chiamavano manette. Senza di quelle non possiamo giudicare, dissero, né dare i voti ai politici. Ecco perché i parlamentari devono presentarsi a noi privi di ogni tutela. Devono essere cittadini come gli altri, dissero. Ma gli eletti dal popolo non sono, non possono e soprattutto non devono essere cittadini come gli altri. Proprio come i magistrati. E come gli uomini di governo. Hanno più doveri, ma la loro indipendenza, la loro autonomia e la loro imparzialità (che le toghe non citano mai) sono sacre.
Per trent’anni, da quel Parlamento di sconfitti fino a oggi, la politica è rimasta in balia non solo di una casta ben protetta nella sua cittadella, ma di un sistema giudiziario e mediatico che ne ha messo in ginocchio la reputazione e ne ha impoverito sempre di più la capacità di rigenerazione professionale e culturale. L’incapacità delle Camere ad avere una vita propria, indipendente dal Governo e soprattutto dalle incursioni dei pubblici ministeri ne è la riprova. Qualunque tentativo di riformare la giustizia, di avvicinarsi alla civiltà dell’occidente e dell’Europa è stato preso a pistolettate da una Casta perennemente in armi, sempre pronta ad abbattere il “cinghialone” piuttosto che il “cavaliere nero”. Parlamento ammutolito e Ministri della giustizia caduti come birilli, da Conso a Martelli a Biondi e Mancuso fino a Mastella. Bicamerali annientate, fossero presiedute dal democristiano De Mita piuttosto che dal comunista D’Alema.
Seduti quasi sacralmente sullo scranno più alto, questi uomini del Potere Dominante hanno giudicato e sfornato pagelle per tre decenni. Solo nei confronti di se stessi, dei propri comportamenti, del proprio modo di indagare e poi di valutare, la severità ha lasciato il posto all’indulgenza, le manette ai buffettini sulle guance. Così è che ogni anno il Csm “assolve” il 99% delle toghe “indagate” e ne condanna, spesso alla pena più lieve, il restante uno per cento. Vi ricorda niente, questo comportamento di generale autoassoluzione? Non è un po’ simile a quel che accadeva in Parlamento fino al 1993? Eppure, se vogliamo restare all’interno del paragone, di motivi per un po’ di autoanalisi anche tra le toghe ce ne sarebbero parecchi. Non sono sempre stati i magistrati a dire al mondo della politica che, se non si ha nulla da nascondere, se si è innocenti e puri come agnellini, non si devono temere le intercettazioni, le perquisizioni, le indagini? Le pagelle, in definitiva. Per quale motivo l’attività di un pubblico ministero e di un gip per esempio non possono essere esaminate nel metodo con cui hanno chiesto e deciso la privazione della libertà personale di un cittadino?
Se il Parlamento ha deciso con la votazione della Camera (e in seguito del Senato), di recuperare, sia pur con una Piccola Riforma, un po’ di autonomia perduta nel proprio ruolo di legislatore, è anche perché nel mondo del potere giudiziario si era sbriciolato qualcosa e molti nodi erano venuti al pettine. Accanimento nell’applicazione delle norme processuali sulla custodia cautelare che determinano un affollamento carcerario che non ha paragone in altri Paesi, violazione delle norme sulla competenza territoriale, applicazione “creativa” dell’obbligatorietà dell’azione penale. Sono alcune delle anomalie che un Csm (speriamo) rinnovato e più attento sarà chiamato e verificare. Se non avete nulla da nascondere, di che cosa vi preoccupate?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
L’Anm e quello sciopero sconcertante proclamato solo dal 9 per cento dei magistrati. Se i magistrati sono una casta, come tante volte gli ultimi presidenti della Repubblica hanno ammonito a non sentirsi e tanto meno a essere, i loro rappresentanti sindacali o associativi sono una casta al quadrato, o al cubo. Francesco Damato su il dubbio il 3 maggio 2022.
Ciò che più mi sconcerta dello sciopero dei magistrati deliberato dall’assemblea generale del loro sindacato non è il solito dubbio di costituzionalità, sollevato in qualche sede anche in questa circostanza. E neppure la doppia circostanza scelta per deciderlo: alla vigilia della festa del lavoro, quasi per onorarla con uno sciopero sia pure differito, e in vista del passaggio della contestata riforma della giustizia al Senato, come per diffidarlo dall’approvarla nello stesso testo uscito dalla Camera, intromettendosi così gravemente nell’esercizio della sovranità parlamentare derivante da quella del popolo. “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, dice il primo articolo della Costituzione dopo avere definito l’Italia “una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Neppure mi sconcerta maggiormente, dello sciopero nei tribunali, la bugia con la quale è stato motivato: il mancato “ascolto” dei magistrati da parte del governo proponente la riforma, prima nella versione del guardasigilli grillino Alfonso Bonafede e poi in quella della ministra e già presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, e della Camera che l’ha approvata non certo in pochi giorni, cioè in fretta e furia. Il che ha permesso alla stessa Camera, in varie sedi e in vari modi, di sentire i rappresentanti dei magistrati sette volte. Che si aggiungono alle quattro ricordate dal ministero della Giustizia a proposito degli incontri avuti dalla guardasigilli più o meno in contemporanea con i rappresentanti dei partiti della vasta maggioranza di governo.
Neppure mi sconcerta, infine, l’indifferenza opposta dai dirigenti della rappresentanza sindacale, associativa o comunque vogliamo chiamarla delle toghe alla prudenza consigliata da esponenti assai autorevoli della categoria, in servizio o in pensione, come Nino Di Matteo e Armando Spataro. Che avevano sconsigliato il ricorso allo sciopero, pur dissentendo fortemente nel caso di Di Matteo dalla riforma, perché consapevoli del rischio di fare apparire la difesa di certe posizioni, o semplici abitudini, colpite dalle nuove norme come difesa di privilegi di “casta” avvolti nei principi costituzionali dell’autonomia e indipendenza della magistratura. Cui è delegato un organo apposito di garanzia costituito dal Consiglio Superiore della Magistratura, per non parlare della Corte costituzionale e dello stesso capo dello Stato, che presiede il già ricordato Consiglio Superiore.
Ciò che mi sconcerta maggiormente di questo sciopero ancora da fissare per “almeno” una giornata, se non ho capito male, è la scarsa rappresentatività di chi lo ha deciso, autorizzato, proclamato, come preferite. E non dalla mattina alla sera, con una fretta che potrebbe giustificare o far comprendere certe cose, ma con tutta la calma sufficiente a organizzare le modalità dell’assemblea generale dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, con tutte le maiuscole dovute, svoltasi all’Angelicum. Almeno di nome.
A quest’assemblea – che si è espressa a favore dello sciopero con 1.081 voti favorevoli, 169 contrari e 13 astenuti hanno partecipato 1.400 dei 9.149 iscritti all’Associazione, sempre con la maiuscola, pari quindi al 15 per cento. È come se un Parlamento – l’assemblea generale appunto – fosse stato eletto con l’85 per cento di astensionismo. E a votare a favore dello sciopero è stata una maggioranza pari a meno del 9 per cento della categoria.
Non mi sembra che siano numeri consolanti per i magistrati che dovrebbero sentirsi rappresentati nel loro luogo di lavoro, e comunque nell’esercizio delle loro funzioni, da chi parla, grida, batte i pugni e sciopera a nome loro. Se i magistrati sono una casta, come tante volte gli ultimi presidenti della Repubblica hanno ammonito a non sentirsi e tanto meno a essere, i loro rappresentanti sindacali o associativi sono una casta al quadrato, o al cubo. Una castissima, se si potesse dire.
Il manifesto di attacco alla riforma. Anm contro la riforma Cartabia con un ‘manifesto’ su Repubblica: i giornali inquisiti in aiuto delle toghe. Paolo Comi su Il Riformista il 1 Maggio 2022.
“Una riforma sbagliata”. È il titolo dell’annuncio che l’Associazione nazionale magistrati ha deciso di far pubblicare, a pagamento, questa settimana su alcuni quotidiani.
Lo scopo dell’iniziativa del sindacato delle toghe è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sui “pericoli” della riforma della giustizia, approvata l’altro giorno alla Camera, per l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati. I giornali prescelti, da quanto si è potuto apprendere leggendo il resoconto dell’assemblea sezionale straordinaria di Roma del 27 aprile, sono in prima battuta quelli del gruppo Gedi. Ieri, infatti, l’annuncio prendeva l’intera pagina 15 della Stampa.
La scelta dei quotidiani su cui pubblicare l’annuncio da parte dell’Anm ha destato molta sorpresa per un duplice motivo. Da un lato il “tradimento” nei confronti del Fatto Quotidiano, giornale notoriamente vicino alle Procure e sui cui scrivono molti magistrati; e dall’altro perché la Procura di Roma ha messo da tempo nel mirino proprio i vertici di Gedi. I due pm romani ipotizzano una maxi truffa, circa 40 milioni di euro, nei confronti delle disastrate casse dell’Inps. Il reato sarebbe stato commesso tramite “fittizzi demansionamenti di dirigenti a quadro”, “illeciti riscatti di annualità pregresse”, “utilizzo come collaboratori esterni di dipendenti già posti in prepensionamento”. Le persone iscritte nel registro degli indagati sarebbero un centinaio, ad iniziare dall’ex amministratrice delegata del gruppo Monica Mondarini, ora transitata alla Cir di Carlo De Benedetti.
La Procura di Roma non ha dubbi sulla solidità del quadro accusatorio e nei mesi scorsi ha chiesto ed ottenuto dal gip Andrea Fanelli, in base alla legge 231 del 2001 che disciplina la responsabilità amministrativa delle società, un sequestro preventivo per 30 milioni di euro nei confronti di Gedi. Il rischio concreto è che i giornalisti che hanno beneficiato di trattamenti agevolati siano ora costretti a restituire le somme percepite. Va precisato che l’attuale proprietà di Gedi, la holding Exor di cui è presidente e amministratore delegato John Elkann, è estranea alle contestazioni, trattandosi di fatti avvenuti nella precedente gestione. Exor, comunque, è anche la controllante della società Juventus Football Club, anche lei sotto il tiro dei magistrati. Ad indagare, questa volta, sono i pm torinesi Marco Gianoglio, Mario Bendoni e Ciro Santoriello.
L’inchiesta, denominata “Prisma”, ipotizza per i manager della società sportiva il reato di falso in bilancio, in particolare per gli stipendi percepiti dai calciatori dopo l’accordo post-Covid. Al momento l’Anm non ha comunicato a quale prezzo gli siano state vendute le pagine da Gedi e se siano stati praticati sconti sul listino.
Sconti che potrebbero far sospettare che il trattamento di favore sia dovuto alla complessa situazione penale. La campagna mediatica dell’Anm, definita da molti commentatori, “surreale”, avrà un momento clou questa mattina con l’Assemblea nazionale dell’Anm aperta ai responsabili giustizia dei partiti per coinvolgerli nella discussione sulla riforma.
All’iniziava avevano dato ieri l’adesione la Lega, che parteciperà con Giulia Bongiorno, il Pd con Anna Rossomando, Azione con Enrico Costa. Non parteciperà, invece, Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia alla Camera. Il quale ha dichiarato: “Giudico i contenuti del documento pubblicato sulla Stampa lunari. Le critiche ai principi meritocratici e aziendalisti, che con tanta fatica stiamo tentando di introdurre nel settore giustizia, denotano una insopportabile arretratezza culturale della magistratura organizzata”. Paolo Comi
La mozione decisa dall'assemblea generale. Anm insorge, è sciopero contro la Riforma Cartabia: “Non migliora servizio e non velocizza i tempi della Giustizia”. Angela Stella su Il Riformista il 30 Aprile 2022.
Dopo tanta attesa l’Assemblea Generale dell’Anm ha deliberato oggi, sabato 30 aprile, di indire uno sciopero contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. La data sarà decisa il prima possibile dalla Giunta Esecutiva Centrale ma si punta ad astenersi dai processi il giorno in cui il testo arriverà nell’Aula di Palazzo Madama. Nella mozione unitaria (Area, Mi, Unicost, Md) approvata con 1081 voti favorevoli, 169 contrari, 13 astenuti si specifica che “non scioperiamo per protestare, ma per essere ascoltati, non scioperiamo contro le riforme, ma per far comprendere, dal nostro punto di vista, di quali riforme della magistratura il Paese ha veramente bisogno”.
Non è passata invece la mozione dei 101 che immaginava “almeno tre giorni di astensione periodica fino alla modifica delle disposizioni che attentano all’indipendenza interna ed esterna della Magistratura”, così come è stato respinto l’emendamento di Stefano Celli che chiedeva di prevedere “la possibilità di revoca [dello sciopero] in caso di positivi riscontri” dall’interlocuzione con le forze politiche. Da rilevare una affluenza bassa: 121 delegati, oltre 50 singoli, per un totale di 1423 votanti. Un segno che la base ancora non si è ricompattata al vertice.
La lunga giornata di lavori si era aperta con la relazione del Presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia che era terminata con una standing ovation da parte della platea. “Siamo consapevoli dell’importanza della riforma della giustizia ma vogliamo un’altra riforma” ha esordito Santalucia per poi passare ad elencare gli aspetti più critici della stessa: separazione delle funzioni, disciplinare, valutazioni professionali. “Come ho detto agli amici avvocati, non capisco perché il pm non dovrebbe sperimentare la funzione giudicante. Si va verso un pm isolato, sempre più vicino alle forze di polizia”. E poi: “Non siamo eredi dello scontro politico giudiziario di Mani pulite. Ma vogliamo contribuire al dibattito pubblico e farci ascoltare dalla politica”. E in sala ad ascoltarlo in prima fila c’erano i responsabili giustizia dei partiti: la dem Anna Rossomando, Giulia Sarti del M5S, Enrico Costa di Azione, Catello Vitiello di Italia Viva, Giulia Bongiorno della Lega, ai quali Santalucia si è spesso rivolto direttamente per sottolineare le distorsioni della riforma dal punto di vista delle toghe. Da Forza Italia hanno fatto sapere di non essere stati invitati.
Riforma della Giustizia, primo via libera alla Camera: Italia Viva si astiene
La Ministra Marta Cartabia era stata invitata ma come ha spiegato Santalucia “non sarà presente non per disattenzione né per disinteresse ma per rispetto”, considerato quello che è stata chiamata a decidere l’assemblea, “ma è fortissima la sua disponibilità al dialogo”. “Questa riforma non migliora il servizio e non velocizza i tempi della giustizia. Crea ulteriori adempimenti che saranno inevitabilmente burocratizzati” ha proseguito Santalucia. Si tratta, ha spiegato, di una scelta “inutile e credo anche dannosa. Noi dobbiamo avere coraggio nelle decisioni e con questa riforma si spegne il coraggio”, riferendosi al fatto che nel fascicolo di valutazione verranno inseriti anche gli esiti degli affari. “Vogliamo resistere a un ingabbiamento nelle paure. State attenti, dico alla politica, perché un magistrato impaurito non sarà un miglior giudice. Così si sta solleticando il sentimento impiegatizio dei magistrati“, ha aggiunto Santalucia, tra gli applausi.
Tra gli ospiti anche Gian Domenico Caiazza, Presidente delle Camere Penali italiane, che ha fatto un intervento molto duro: ” Come mai questo silenzio sul tema dei fuori ruolo? Io vi chiedo come mai questo vostro silenzio ostinato sul tema dei fuori ruolo, cioè un’unicità mondiale. Non esiste nessun altro Paese al mondo nel quale si formi un governo di qualsiasi colore e 200 magistrati vanno nell’Esecutivo”. E poi il punto criticato dalla sala: “Non posso non rappresentarvi la sensazione della pretestuosità di alcune delle argomentazioni che sento più diffusamente proposte sui temi caldi e che quindi ci fanno sospettare che le ragioni siano altre. Ma perché pretestuosità? Perché la riforma del fascicolo – ha aggiunto Caiazza -, che per il resto esiste, come ha ricordato bene Costa, con quegli stessi criteri, valutazione degli esiti, significa valutazione di che cosa è successo nei gradi successivi, oggi lo fate con le cause a campione o quelle proposte da voi, e nella riforma si intende acquisire l’intera attività del giudice. Se si acquisisce l’intera attività del magistrato, la sentenza creativa, le sentenze creative, le 20 sentenze creative, ovviamente, non vengono nemmeno rilevate dalla statistica. Non è possibile rilevarle. Perché dovete fare, ci chiediamo con franchezza e con amicizia, questi discorsi pretestuosi? Perché bisogna dire qualcosa che non è? O dobbiamo immaginare, ma questo sarebbe l’ultimo dei consessi dove questo può accadere, che si vogliano delle norme che esistono formalmente ma che non funzionano nel concreto, cioè quella direttiva del 2007 che prevede le valutazioni ma che non le fa”. E ha chiuso: “Come potete avere paura del vostro lavoro? Se noi pensiamo a un fascicolo con tutte le vostre sentenze, i provvedimenti, le ordinanze, come potete avere paura di voi stessi? Perché siete voi che vi giudicate”.
Molto attesi erano gli interventi dei politici per capire se c’era un margine di apertura al dialogo per modificare il testo al Senato, scongiurando così lo sciopero. Il primo parlamentare ad intervenire è stato Catello Vitiello: “Non ho mai demonizzato le correnti e la politica giudiziaria. Ma le riforme non vanno fatte sull’onda della patologia. La magistratura ha un ruolo fondamentale, io credo nella sua indipendenza, ma non nella sua autoreferenzialità. Deve contare il merito, e non l’appartenenza”.
Verso la senatrice Giulia Bongiorno sono arrivati dei buu dalla sala quando ha detto che i suoi clienti le chiedono “se il giudice che mi andrà a giudicare è di destra o di sinistra” per poi aggiungere “questa riforma è blanda, non è incisiva, va migliorata al Senato perché adesso il tema politico è tra chi vuole cambiare la riforma e chi dice di no” e ha concluso: “Mi piacerebbe ricevere da voi idee costruttive. E se ci sono spunti utili sono pronta a portarli nelle sedi opportune”. Le ha risposto il leader di Area Eugenio Albamonte: “qui il tema non è se riaprire o meno il dibattito in vista del Senato, ma chiedersi perché farlo? Per rincarare la dose? Per girare ancora il coltello nella ferita? Questa riforma per evitare l’appiattimento professionale rischia quello culturale”. E ha aggiunto “su di noi ci sono dei cannoni puntati”.
Il vice segretario di Azione Enrico Costa ha preso di petto il tema tanto criticato dai magistrati e che è frutto della sua battaglia parlamentare, ossia il fascicolo di valutazione: “qualcuno sostiene che esso c’era già ma non è vero, c’era la regola ma mancava lo strumento. Mi sarei aspettato la protesta sulle regole. Comunque non si tratta affatto di una schedatura”. E poi “le ingiuste detenzioni non sono fisiologiche, sono una patologia del sistema. Però lo Stato paga gli indennizzi ma non si volta indietro per capirne le cause”. Infine: “Dal 2010 ad oggi, su 644 azioni intraprese per responsabilità indiretta dei magistrati, ci sono state solo 8 condanne in dodici anni. Vi invito dunque a riflettere sulla drammatizzazione degli effetti rispetto alle riforme in campo“. Dopo il voto dell’Anm a favore dell’astensione ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Lo sciopero dei magistrati contro le valutazioni di professionalità è sbagliato e, se possibile, incrina ulteriormente la fiducia dei cittadini nei loro confronti. Era un finale già scritto, evidente di fronte ad una immotivata drammatizzazione quotidiana dei toni. Il Parlamento non si farà condizionare”.
Mentre Anna Rossomando, senatrice e responsabile giustizia del Pd, precisando che “a noi piaceva il testo Cartabia così come approvato in Cdm” , ha assicurato: “Non vedo il pericolo che voi state partecipando ma faremo molta attenzione e vigileremo su decreti attuativi. Chiaro che non si può mantenere l’esistente. Ma un conto è lo scontro, un altro il confronto”. Su una linea molto simile Giulia Sarti, responsabile Giustizia del M5S: “Noi saremmo molto disponibili a riaprire il dibattito ma per i numeri che ci sono lì, ci sarà il tentativo di introdurre la responsabilità diretta dei magistrati e altre misure che finora siamo riusciti a evitare. Qualcuno punterebbe ad annullare qualsiasi passaggio di funzioni”. Si è poi presa l’applauso della sala quando ha detto: “Sull’hotel Champagne la magistratura ha dato le sue risposte, Palamara è fuori dalla magistratura e i consiglieri del Csm si sono dimessi. Ma Cosimo Maria Ferri invece resta al suo posto e il Parlamento ha respinto l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni”.
La protesta contro Cartabia. Magistratura screditata da 30 anni di disastri, con che credibilità indice uno sciopero? Astolfo Di Amato su Il Riformista il 4 Maggio 2022.
L’Anm ha deliberato, a larghissima maggioranza, lo sciopero. Intende, così, contrastare una riforma, che attenterebbe all’autonomia ed all’indipendenza della magistratura, essendo mossa da una visione meramente aziendalistica ed efficientista della giustizia. Sulla inadeguatezza della riforma Cartabia e, in particolare, sulla inadeguatezza delle previsioni in essa contenute a ripristinare un corretto equilibrio tra i poteri dello Stato, si è già scritto molto su questo giornale. Così come si è scritto sulla illegittimità di uno sciopero contro gli altri poteri dello stato proclamato per difendere la propria preminenza.
Vi è, peraltro, un aspetto ulteriore, che, in questa vicenda, merita di essere esaminato: quello della legittimazione della magistratura ad opporsi alla riforma alla luce di quelli che sono stati i risultati della sua attività. In altri termini, ha la magistratura associata l’autorevolezza morale per opporsi alle scelte del Parlamento? Si tratta di un bilancio, che deve necessariamente partire da una valutazione di quello che è accaduto negli ultimi trenta anni. È innegabile, difatti, che la vicenda di Mani Pulite ha costituito un momento di svolta negli equilibri istituzionali di questo Paese ed ha segnato l’acquisizione, da parte del potere giudiziario, di un ruolo preminente su quello di tutti gli altri poteri. Si tratta di un bilancio che può appunto muovere dai risultati di Mani Pulite.
Il cui effetto è stato quello di seppellire la prima Repubblica nel rancore, annichilendo con furore giustizialista una intera classe dirigente, salvo quella del Pci, per avere in cambio: Palazzo Chigi trasformato in una merchant bank (così Guido Rossi commentò nel 1999 la benedizione data dall’allora premier Massimo D’Alema alla scalata a Telecom, cui il gruppo guidato da Roberto Colaninno stava per dare corso), le inadeguatezze del berlusconismo, il celodurismo di Bossi, il Papeete di Salvini, i vaffa del grillismo. Emblematica è la valutazione espressa da Saverio Borrelli, che, come procuratore capo di Milano, guidò quella rivoluzione. Quando era già da tempo in pensione, intervenendo dalla platea durante la presentazione di un libro, chiese “scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”. Era il 2011. Se si lascia, poi, l’orizzonte generale degli assetti istituzionali e politici del paese e si passa a considerare in modo più diretto il bilancio specifico del settore della giustizia, i risultati sono ancora più fallimentari. Sotto tutti gli aspetti.
Da anni Confindustria denuncia che l’inefficienza del sistema giudiziario si traduce in una perdita del prodotto interno lordo. Del resto che la giustizia italiana si contenda l’ultimo posto, in termini di efficienza, con Grecia e Malta è confermato dalle analisi delle istituzioni europee e, in particolare, dai dati della Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (Cepej). Alla inefficienza si accompagna, tuttavia, una “incontrollata discrezionalità processuale” (così in modo assolutamente esplicito la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, 23 febbraio 2017, De Tommaso). La giustizia italiana, dunque, non solo è lenta, ma anche imprevedibile. In questo senso, del resto, va anche interpretato il numero altissimo di ingiuste detenzioni e di assoluzioni in secondo grado o in cassazione, che si deve registrare nell’ambito della giustizia penale.
Dai dati raccolti dal deputato di Azione Enrico Costa, grazie anche al lavoro dell’associazione errori giudiziari, emerge un quadro drammatico relativo all’ingiusta detenzione: circa 46 milioni di euro pagati nel 2020, circa 30.000 innocenti finiti in carcere negli ultimi 30 anni, con oltre 800 milioni di euro pagati dallo Stato italiano. Sono dati semplicemente drammatici, i quali dànno conto di una giustizia che spesso, per i singoli, si traduce in una ingiustificata devastazione della vita familiare, professionale, affettiva. Si aggiunga che sono dati errati per difetto, in quanto non danno conto dell’altissimo numero di richieste di risarcimento respinte con argomenti spesso speciosi (ad esempio essersi avvalsi, nella fase iniziale e cioè quando i contorni altro segnale del pessimo funzionamento della giustizia è offerto dall’altissima percentuale di detenuti in attesa di giudizio, esistente nelle carceri italiane: nel febbraio 2020, secondo le statistiche del Ministero di Grazia e Giustizia, erano circa ventimila su di un totale di sessantamila reclusi e, perciò, circa un terzo.
Il tutto in barba al principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza. Del resto, sono numeri espressivi di un andamento, che trova conferma nel diciottesimo rapporto di Antigone: gli ergastolani sono passati da 408 nel 1992 a 1810 oggi, nonostante il costante calo dei reati, calo che rispetto agli omicidi è stato addirittura dell’80%, A questo quadro, già di per sé desolante, si aggiungono, poi, episodi che sembrano offrire uno spaccato “dal di dentro”, di quali siano i criteri con cui viene amministrata la giustizia. Essi sono tanto più significativi in quanto vengono dagli uffici giudiziari, che, per varie ragioni, hanno assunto un ruolo emblematico. Se fosse vero quanto scritto dal Tribunale di Milano, la Procura della Repubblica presso il capoluogo lombardo avrebbe tenuto per sé prove rilevantissime a favore degli imputati nel processo a carico dei manager Eni in un processo per pretesi fatti di corruzione commessi in Nigeria.
Ancora, sempre con riferimento alla procura di Milano, il principio della obbligatorietà dell’azione penale sarebbe oggetto di una interpretazione quanto meno discutibile se fosse vero l’insabbiamento denunciato dal sostituto Storari in ordine ai verbali di Amara circa la cd. Loggia Ungheria. A sua volta, a Palermo, lo scandalo Sagunto ha dato conto del modo totalmente illecito con cui venivano gestiti i patrimoni sequestrati per ragioni di mafia. Scandalo a cui fa da contrappunto, sottolineandone la assoluta gravità, l’assenza di adeguate garanzie con cui quei sequestri avvengono in virtù di quanto previsto dalla legislazione di prevenzione. Sempre in Sicilia, poi, va registrata la vicenda gravissima del pentito Scarantino, costretto, sembra, da una violenza di Stato a false chiamate in correità rispetto al tragico omicidio di Paolo Borsellino, totalmente e palesemente infondate. La gravità di questa vicenda è pari solo al silenzio assordante, che su di essa mantengono i professionisti dell’antimafia e molti di quegli inquirenti che dell’antimafia hanno fatto la loro ragione di vita.
Si tratta di vicende, tutte, che per la loro rilevanza, per il numero di persone coinvolte, per il livello di omertà che è stato spesso necessario scardinare, non possono essere seriamente archiviate come espressione di singole devianze. Lo sconforto, che può venire dalla considerazione di tutti questi aspetti, è stato da ultimo aggravato dalla vicenda Palamara. Non solo e non tanto per la vicenda in sé, ma ancora di più per come è stata trattata. È emersa l’esistenza di un vero e proprio sistema, capace di inquinare istituzioni ed amministrazione della giustizia. La reazione quale è stata? Chiudere, sopire, dimenticare, tacere. Il Csm e la Anm hanno cacciato Palamara in un battibaleno, impedendo lo svolgimento di qualsiasi attività istruttoria idonea ad individuare ampiezza e profondità del fenomeno. La grande stampa, dal canto suo, ha sostanzialmente ignorato l’argomento.
Ebbene, di fronte a tutto questo diventa davvero difficile capire da dove l’Anm tragga la propria legittimazione, già sul piano morale, a proclamare uno sciopero contro una riforma, che danneggerebbe i cittadini. Una magistratura che non ha avuto l’orgoglio e la dignità di risolvere i gravissimi problemi che le vicende descritte sottendono, pur avendone il potere, appare davvero assai poco credibile quando pretende di ergersi a difensore degli interessi della collettività. Né può invocare, per legittimarsi, il sangue versato dai magistrati caduti per mano dei terroristi o dei mafiosi: quei magistrati erano espressione di un modo totalmente diverso di intendere la funzione giudiziaria. Astolfo Di Amato
Riforma della Giustizia, i magistrati proclamano lo sciopero: “Siamo costretti per essere ascoltati”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Aprile 2022.
Il Presidente dell’Anm (Associazione Nazionale Magistrati) Giuseppe Santalucia ha spiegato che “non siamo contrari alle riforme ma vogliamo una buona legge”. E perciò contro la Riforma della Giustizia della ministra Marta Cartabia i magistrati sciopereranno per un giorno. Il Sì alla giornata di protesta è arrivato oggi dopo il voto dell’assemblea generale dell’Associazione a Roma. I magistrati ci tengono però a precisare che “non scioperiamo per protestare ma per essere ascoltati”. La mozione unitaria è stata approvata a maggioranza da 1.423 votanti. In tutto i magistrati sono poco meno di 10mila, il 96% dei quali iscritti all’ANM.
La riforma dell’ordinamento giudiziario è passata alla Camera e sarà all’esame del Senato. La data dello sciopero sarà decisa dalla giunta esecutiva centrale dell’ANM. L’assemblea è durata otto ore. La mozione unitaria è stata votata da 1.081 voti favorevoli, 169 contrari e 13 astenuti. Non sono escluse ulteriori forme di protesta se non ci saranno aperture alla categoria. L’assemblea delega la Giunta dell’Anm a “individuare tempestivamente la data e le concrete modalità organizzative, tenendo conto dello sviluppo dei lavori parlamentari in corso”. Assente la Guardasigilli Cartabia, presente il suo cabo gabinetto Raffaele Piccirillo.
La mozione
“La Magistratura tutta, che si riconosce nell’Anm vuole denunciare pubblicamente che la riforma in discussione al Parlamento non accorcerà di un giorno la durata dei processi, ma cambierà radicalmente la figura del magistrato, in contrasto con quello che prevede la Costituzione”, si legge nella mozione. Il Paese “ha bisogno di recuperare fiducia nella magistratura, ma per ottenere ciò serve una riforma che attui veramente l’articolo 107 della Costituzione, secondo il quale i magistrati si distinguono fra loro soltanto per le funzioni e che affermi chiaramente che non devono esistere carriere in magistratura. Invece questa riforma, continuando l’opera intrapresa dalla riforma Castelli-Mastella, rende gerarchicamente ordinati anche gli uffici giudicanti, crea una magistratura alta e una bassa, e aumenterà quell’ansia di carriera che tanto danno ha già fatto, e continuerà a fare“. Inoltre, aggiunge l’Anm, “il Paese ha bisogno di magistrati che vengano valutati per la qualità del loro lavoro, e non soltanto per la quantità, di magistrati che si concentrino solo sulle decisioni che devono prendere, non sugli adempimenti burocratici e nemmeno sulle loro carriere, di magistrati liberi di giudicare serenamente, seguendo solo la loro coscienza, non di giudici impauriti delle ripercussioni personali delle loro decisioni”. Quanto ai pm il Paese, si legge nella mozione, “non ha bisogno di avvocati dell’accusa. Non ha bisogno di pubblici ministeri che sentono una condanna come una vittoria e un’assoluzione come una sconfitta, ma di pubblici ministeri che cercano la verità con fatica e umiltà, insieme a tutti gli altri protagonisti del processo”.
Il comitato direttivo centrale viene delegato, “qualora non vi fossero modifiche idonee ad elidere le criticità del progetto di riforma, a prevedere tempestivamente nuove forme di protesta, non esclusa l’astensione“. Durante la giornata di sciopero si terranno “assemblee aperte” a rappresentanti delle istituzioni e ai cittadini. La dichiarazione-manifesto della mobilitazione: “Non scioperiamo per protestare, ma per essere ascoltati, non scioperiamo contro le riforme, ma per far comprendere, dal nostro punto di vista, di quali riforme della magistratura il Paese ha veramente bisogno“. E ancora: “Per questa idea di Paese ci troviamo costretti a scioperare, per questa idea della Magistratura, che non è solo nostra, ma è quella contenuta nella nostra splendida Costituzione”.
Il Presidente Santalucia
Per il Presidente Santalucia lo sciopero “sarà un modo per comunicare le ragioni del dissenso, non un modo per protestare contro una legge in fieri – ha dichiarato a Lapresse – Noi non possiamo pensare che la discussione si sia chiusa. Vogliamo la riforma, si tratta solo di correggere alcune strutture. Lavoreremo per questo e chiediamo al Senato di riflettere su alcuni aspetti. Speriamo ci sia ancora tempo e per questo ci stiamo impegnando”.
“Una riforma permeata da logiche aziendalistiche, che mira all’efficienza e pensa ai tribunali come a catene di montaggio, che forniscono, possibilmente in tempi rapidi, un prodotto, poco importa se sia o meno di qualità”, aveva lamentato nel suo intervento durante l’assemblea il segretario generale Salvatore Casciaro. “Una riforma che altera profondamente il modello costituzionale di giudice. Si istituisce un fascicolo delle performance che raccoglie lo sviluppo processuale delle pratiche, quasi uno screening periodico. La logica di fondo, ben illustrata dal Comitato direttivo centrale del 19 aprile scorso, è che il processo sia una ‘gara’ da vincere, che ogni riforma di sentenza, o il rigetto dell’istanza cautelare del pm, valga come una sconfitta, un punto in meno per il magistrato ‘sconfessato’ che sarà d’ora in poi plausibilmente meno sereno, propenso magari a conformarsi alle decisioni dei giudici dei gradi superiori e maggiormente incline al conformismo giudiziario se non addirittura orientato a ripiegare verso pratiche di giurisprudenza difensiva. Si disegna una rigida separazione delle funzioni che camuffa, a ben vedere, una separazione delle carriere”.
La riforma
Il via libera a Montecitorio era arrivato lo scorso martedì 26 aprile: 328 voti a favore, 41 contrari e 25 astensioni. Astenuti i deputati di Italia Viva. Hanno votato a favore Pd, M5s, Leu, Lega, Forza Italia, Coraggio Italia, Azione-Più Europa e NcI. Hanno votato contro FdI e Alternativa. Astenuta anche Europa verde. La riforma – che contiene le norme per la riorganizzazione, l’eleggibilità, il ricollocamento in ruolo dei magistrati e per il funzionamento del Csm – ora passerà a Palazzo Madama.
Il ddl delega prevede l’aumento a 30 consiglieri (20 togati e 10 laici) con un meccanismo fondamentalmente maggioritario con collegi binominali e un recupero proporzionale che per i giudici prevede una distribuzione proporzionale di 5 seggi a livello nazionale per i pubblici ministeri il recupero di un miglior terzo. I collegi saranno determinati con decreto del ministero della Giustizia.
Non sono ammesse liste: ciascun candidato può presentarsi liberamente anche nel suo distretto. In ogni collegio binominale devono esserci minimo sei candidati, tre del genere meno rappresentato. Se questi requisiti non sono rispettati si può procedere per sorteggio. Per gli incarichi direttivi e semidiretti del Consiglio Superiore si procederà per ordine cronologico. Obbligatorie le audizioni dei candidati per favorire un confronto migliore dei rispettivi profili.
Al debutto un fascicolo personale per valutare l’attività svolta dal magistrato. Introdotto inoltre il divieto di svolgere nello stesso tempo funzioni di giudice o pm e ricoprire cariche elettive, sia locali sia nazionali. E poi lo stop alle porte girevoli. I magistrati che hanno coperto cariche elettive di qualsiasi tipo al termine del mandato non possono più tornare in magistratura: verranno collocati fuori ruolo nelle amministrazioni pubbliche. I magistrati candidati ma non eletti non potranno, per tre anni, tornare a lavorare nella Regione che comprende la circoscrizione elettorale dove si sono presentati né in quella dove si trova il distretto dove prima lavoravano. E in più non possono assumere incarichi direttivi e svolgere le funzioni penali più delicate.
La riforma ha anche anticipato un tema dei referendum in programma a giugno: si ammette solo un passaggio da giudice a pubblico ministero e viceversa, da effettuare entro i dieci anni dall’assegnazione della prima sede. Il limite non è attivo per il passaggio al settore civile e dal settore civile alle funzioni di pubblica accusa. Prevista la riduzione del numero attuale dei magistrati fuori ruolo, attualmente sono 200. Oltre all’obbligo di avere svolto per almeno 10 anni le funzioni giurisdizionali prima di chiedere il collocamento esterno alla magistratura, una durata dell’incarico extra di non più di 7 anni.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Angela Stella
L'ultima anomalia in toga: l'Anm compra una pagina per dire no alla riforma. Luca Fazzo il 30 Aprile 2022 su Il Giornale.
Il testo pubblicato solo su due quotidiani per problemi di budget. E piovono le critiche.
L'obiettivo era portare la protesta dei magistrati sulle pagine di tutti i giornali, ma alla fine le esigenze di budget hanno costretto a scegliere i due quotidiani (appartenenti allo stesso gruppo editoriale) che hanno fatto il prezzo migliore. L'impatto è stato comunque forte, anche se forse non è stato quello che l'Associazione nazionale magistrati si proponeva. Perché sulla pubblicità a pagamento in cui ieri l'Anm annuncia battaglia contro la riforma della giustizia (nella foto) voluta dal ministro Marta Cartabia piovono pochi consensi e molte critiche. L'Anm è un sindacato, ma è il sindacato di un potere dello Stato. E che inviti alla lotta contro quello che altri poteri - prima il governo, poi il Parlamento - stanno decidendo è parso ai più quantomeno anomalo.
I toni sono, come nelle settimane scorse, catastrofisti. Le norme proposte dalla Cartabia alle Camere vengono definite, nel tazebao dell'Anm, «una legge per intimidire i magistrati». Non si salva niente: i criteri di valutazione dell'operato delle toghe per l'Anm rispondono a «logiche di tipo aziendalistico, basate esclusivamente sui numeri e sulla produttività», mentre le timide modifiche al sistema delle nomine «lasciano immutati gli ampi spazi di discrezionalità», mentre i limiti ai cambi di casacca tra pm e giudice aggirerebbero addirittura «le previsioni della Costituzione». Morale: «la Magistratura intende promuovere ogni iniziativa necessaria a sensibilizzare l'opinione pubblica».
La parola «sciopero» non compare. Ma che l'approdo finale possa essere quello lo ha detto apertamente il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia. Da nomi importanti della storia del sindacato delle toghe - come Edmondo Bruti Liberati e Armando Spataro - sono venuti nei giorni scorsi giudizi assai più pacati sulla riforma Cartabia, e inviti alla cautela (Bruti ha definito «senza senso» l'idea dello sciopero). Ma ormai l'Anm sembra decisa a cavalcare il malcontento che serpeggia tra le file dei suoi militanti, soprattutto a sud. Anche se tra i tanti magistrati sgobboni l'idea che finalmente si inizi a distinguere chi lavora tanto e bene da chi produce solo disastri parrebbe non essere tanto impopolare.
L'assemblea nazionale dell'Anm che si tiene oggi a Roma dovrebbe segnare l'apertura ufficiale delle ostilità contro il governo. Per questo la Cartabia si è ben guardata dall'accettare l'invito, accolto invece dai rappresentanti dei partiti: ma il manifesto anti-riforma diffuso ieri rischia di far naufragare in partenza ogni possibilità di trattativa. Enrico Costa di Azione! parla di «una reazione incredibile del potere giudiziario, un attacco al legislatore a mezzo spot"». «Ho accettato l'invito all'assemblea - aggiunge Costa - perché nella lettera spiccavano le parole confronto" e approfondimento": non mi sottraggo, ma è evidente che questa forma di protesta è un'unilaterale chiusura al dialogo». E Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia definisce «la protesta dell'Anm e la minaccia di uno sciopero surreali e fuori dal tempo. La politica non deve accettare veti, né farsi condizionare».
A difendere l'Anm, solo i grilllini.
"Riforma modesta, errore lo sciopero. E il testo Bonafede era sgangherato". Luca Fazzo il 28 Aprile 2022 su Il Giornale.
L'ex procuratore capo di Milano boccia la protesta delle toghe. E sul referendum in un solo giorno: "Se i quesiti sono chiari la gente vota".
Già procuratore della Repubblica a Milano, già leader indiscusso delle «toghe rosse» di Magistratura democratica, Edmondo Bruti Liberati è stato anche presidente dell'Associazione nazionale magistrati: quella Anm che ora prepara lo sciopero contro la riforma della giustizia firmata dal ministro Marta Cartabia. Tanto rumore per nulla, dice Bruti. La riforma è semplicemente «modesta» e lo sciopero dell'Anm «non ha senso».
Cos'è davvero la riforma Cartabia? Un topolino partorito dalla montagna? O un attentato all'autonomia dei giudici, devastante e punitiva come dice Md, la sua vecchia corrente?
«Si partiva dallo sgangherato disegno di legge Bonafede. È stato riscritto dalla Commissione Luciani, ma poi in Commissione giustizia vi sono stati emendamenti ispirati ad un spirito di vendetta e di umiliazione della magistratura. Le punte estreme sono state abbandonate: il risultato è una riforma modesta, ma nulla a che vedere con la riforma Castelli che, quella sì, stravolgeva l'impianto costituzionale. Per questo come presidente dell'Anm ho promosso allora il primo vero sciopero della storia della magistratura. Oggi uno sciopero non ha senso».
I sostenitori dello sciopero sostengono che il fascicolo sulle performance del magistrato bloccherà le sentenze innovative e avanzate. Ma davvero i magistrati sono così pavidi da adeguarsi a sentenze che non condividono per paura di un brutto voto in pagella?
«La giustizia si regge sul presupposto che si può sbagliare e che si possono avere diverse interpretazioni. L'attività dei magistrati, giudici e pm, va valutata nel complesso. Vi è il sistema delle impugnazioni perché le valutazioni possono essere diverse. Se poi un pm avesse il 100% dei successi si direbbe non che quel pm è un genio, ma che i giudici successivi si sono appiattiti sulla prospettazione dell'accusa. Allora stabiliamo un numero diverso? 75%, 80% o 60%? Se andiamo ai numeri entriamo nell'assurdo, che tale rimane anche se si pretende di nobilitarlo con l'inutile anglismo delle performance. Bisogna dire che nel testo poi approvato è stata abbandonata la pretesa di parametri numerici».
Lei ha portato il suo saluto al nuovo procuratore di Milano di cui Magistratura democratica aveva cercato di bloccare la nomina citando l'hotel Champagne. Ritiene che sia arrivato il momento di girare pagina e archiviare il caso Palamara?
«La vicenda dell'hotel Champagne è penosa, ma la magistratura ha dato il segno di voltare pagina: i magistrati a vario titolo coinvolti si sono subito dimessi dal Csm, prima e indipendentemente da procedimenti disciplinari. Questo in un Paese in cui non si dimette mai nessuno».
Il 12 giugno si voterà per i referendum sulla giustizia. Potrebbero smuovere le cose?
«Sì, ma largamente in peggio. Della legge Severino non si abroga solo la sospensione, anche a seguito di una condanna non definitiva (che può essere ragionevole), ma anche tutte le disposizioni sulla incandidabilità di condannati definitivi per reati gravi. Con la limitazione delle misure cautelari capiterà che l'imputato arrestato in flagranza, magari con in tasca un appunto con la programmazione degli obbiettivi successivi, sarà condannato per direttissima e immediatamente scarcerato. Facile immaginare gli attacchi al lassismo della magistratura magari da parte di taluno dei promotori del referendum».
Fissare un solo giorno per il voto non significa puntare al mancato raggiungimento del quorum? Non è interesse anche dei magistrati che il numero più alto possibile di italiani possa dire finalmente come la pensa su questo argomento cruciale?
«La storia del referendum ci insegna che quando le scelte proposte dai quesiti erano chiare e toccavano problemi sentiti gli italiani sono andati a votare».
Se fosse ancora presidente dell'Anm inviterebbe a boicottare il referendum?
«Darei le mie valutazioni sul contenuto dei referendum ma mi guarderei bene dal dare indicazioni ulteriori. Ciascun cittadino magistrato valuterà con la sua testa».
Magistratura morale. Il referendum ha risvegliato il manipulitismo manicheo dei giudici. Iuri Maria Prado Linkiesta il 3 Maggio 2022.
Per opporsi ai quesiti, l’opposizione togata ha scelto di puntare sulla diserzione delle urne.
La magistratura che senza nessuna perplessità, e anzi compiacendosene, assisteva all’accreditarsi della dicitura “Mani Pulite”, evidentemente non avvertiva la portata usurpatrice e gravemente incivile di quel modo di dire. Non comprendeva che il magistrato amministra la giustizia, ma non “è” giustizia, né personalmente la rappresenta. Non comprendeva che quella è una categoria sociologica e moraleggiante, già solo per questo discutibile, che non è nemmeno inopportuno ma proprio sbagliatissimo associare all’immagine e al lavoro di un’amministrazione pubblica. Non comprendeva niente di tutto questo e continua a non comprenderlo, tanto che non solo nel dibattito pubblico ma ormai persino negli atti giudiziari capita di trovare riferimento al “Pool”, o a “Mani Pulite”, appunto, come se si trattasse di realtà con dignità istituzionale.
Ma non è successo, e continua a non succedere, per caso. È successo e continua a succedere perché la cultura che si ispira a quel contrassegno si fonda sul presupposto per cui compito del magistrato è di liberare la società dalla sporcizia (può chiamarsi corruzione, evasione, mafia, malapolitica), mentre in uno Stato di diritto il magistrato non ha per nulla quel compito, che spetta al discorso civile, all’azione collettiva, alle forze dell’ordine, alla scuola. Ed è in forza di quel fraintendimento che un magistrato eminente può lasciarsi andare allo sproposito per cui il suo ruolo è di “far rispettare la legge”, ruolo cui ha più titolo il vigile urbano e persino il controllore del bus: perché il magistrato, della legge, deve fare applicazione, che è cosa completamente diversa.
Ebbene, l’opposizione togata ai prossimi referendum, inqualificabile per il modo intimidatorio che ha assunto e per gli obiettivi impropri che si prefigge (non veder prevalere i “no”, ma veder saltare l’esperimento per diserzione delle urne), condivide la tempra usurpatrice del manipulitismo istituzionalizzato, con la parte di società cattiva (i cittadini che chiedono di poter votare, e le forze referendarie che li istigano a tanto) opposta a quella che avrebbe il compito di sorvegliarne le malefatte, vale a dire quella magistratura moralizzatrice.
Neppure un invito all’astensione...Referendum sulla giustizia, il silenzio dei giornali trucca la partita. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 3 Maggio 2022.
Ricordo una campagna referendaria della fine del secolo scorso (credo fosse il 1997) che si concluse, come tante altre, con il triste nulla di fatto dovuto alla mancanza di quorum. E ricordo il mio disappunto del giorno dopo nel leggere un articolo di Piero Sansonetti il quale, sull’Unità, rivendicò quel risultato come una vittoria. Disappunto perché il sistema dell’informazione, complessivamente avverso ai referendum (anche quella volta c’erano quesiti in materia di giustizia), non lavorò per convincere i cittadini a votare contro, né ancora per indurli a non votare, ma per far sì che essi nemmeno sapessero su cosa si votasse: e persino che si votasse.
In quell’articolo, il direttore di questo giornale fu generoso e anche delicato con Marco Pannella, che aveva promosso quell’iniziativa referendaria, e gli riconobbe il merito di aver condotto una battaglia importante per quanto, a giudizio di Sansonetti, sbagliata. Ma allora come oggi, purtroppo, la battaglia per l’affermazione del diritto al referendum non si combatte neppure sulle ragioni contrapposte dei “no” e dei “sì”, ma sulla stessa possibilità che i referendum si tengano in condizioni minime di accettabilità democratica: e cioè con i cittadini decentemente informati del fatto che possono esprimersi in un modo o nell’altro. Su questi referendum in materia di giustizia, a proposito dei quali i cittadini sono chiamati (sarebbero chiamati, se qualcuno glielo facesse sapere) a esprimersi tra qualche settimana, si sta consumando la pratica tradizionalmente prescelta dagli anti-riformatori, e di cui si avvale il potere esposto a pericolo (questo potere è oggi rappresentato dalla magistratura), per mandarli in vacca: vale a dire la diserzione delle urne.
Un obiettivo cui questa volta non si tende neppure in forza di un invito all’astensione, come quello fatto da Silvio Berlusconi quando sollecitò il suo popolo a non votare per i “referendum comunisti” (anche in quel caso c’erano quesiti in materia di giustizia), ma confidando nel silenzio dell’informazione e nella inevitabile trascuratezza che esso determina presso i cittadini. Ha ragione chi dice che questi referendum sono contro la magistratura. Sono contro la magistratura com’è, e in favore di come dovrebbe essere. E una magistratura diversa non accetterebbe di “vincere” una partita truccata: col popolo italiano – in nome del quale giudica e imprigiona – privato del diritto di conoscere i propri diritti. Iuri Maria Prado
Avanti coi referendum. Riforma della giustizia, il Parlamento si piega alle correnti: resta tutto come prima. Piero Sansonetti su Il Riformista il 27 Aprile 2022.
La riforma della giustizia – diciamo così: la riforma della giustizia – è stata approvata dalla Camera dei deputati con il voto di tutta la maggioranza, salvo i renziani che si sono astenuti. Ora dovrà votare il Senato, ma l’esito è scontato. Cosa cambia da oggi nella macchina della giustizia? Niente. I magistrati si fingono molto arrabbiati, perché dicono che questa riforma è un attacco all’indipendenza della magistratura. I politici si dicono molto soddisfatti, perché dicono che dopo tanti anni sono riusciti finalmente a toccare la macchina della giustizia.
Gli uni e gli altri sanno benissimo che non sono vere nessuna delle due cose. La riforma lascia tutto immutato. Il potere delle Procure resta supremo e intatto. Nulla lo limiterà. L’indipendenza della magistratura non è neppure sfiorata. Il partito dei Pm, che minaccia lo sciopero, considera l’indipendenza della magistratura un meccanismo speciale che rende il potere della magistratura, e del singolo magistrato, assoluto e incontrollabile. In teoria non dovrebbe essere così. La Costituzione prevede l’equilibrio dei poteri e non dice che esiste un potere che dispone di tutti gli altri e che dispone anche, senza doverne rendere conto a nessuno, della vita e della libertà dei cittadini. E dunque, senza sfiorare nemmeno i principi della Costituzione, sarebbe possibile ridurre moltissimo l’attuale grado di incontrollabilità del potere giudiziario. E i magistrati non avrebbero nulla da protestare.
Comunque questa riforma non fa nulla di tutto ciò. Non tocca nessuno degli strumenti che sono nella mani dei magistrati (controllo totale della polizia giudiziaria, uso e abuso a volontà della carcerazione preventiva, non separazione delle carriere e dunque contiguità tra Pm e Gip, impunità, assenza di responsabilità civile, strapotere delle correnti). Il meccanismo di elezione del Csm, che in una prima bozza era stato appena appena modificato di qualche grammo, è tornato quello ben oliato che aveva organizzato Palamara. Le famose pagelle, che dovrebbero in qualche modo rendere valutabile il lavoro dei Pm, sono ampiamente aggirabili. Per il resto, zero assoluto.
I magistrati minacciano di scendere in sciopero per una ragione semplicissima: per dare l’impressione di essere arrabbiati e sostenere in questo modo che ormai una riforma radicale della giustizia è stata realizzata, che il potere della magistratura è azzerato e, quindi, da ora in poi non si tocca più niente. I magistrati sono terrorizzati dall’ipotesi che prima o poi passi una vera riforma della giustizia che ristabilisca i punti fermi dello Stato di diritto.
I politici invece fingono di avere fatto una riforma significativa per la semplice ragione che sanno di non poter andare oltre. Il motivo per il quale non possono andare oltre è oscuro, ma è così da diversi decenni. Probabilmente la ragione del tremebondo atteggiamento della politica è da ricercare nella potenza del gruppo, quasi militarizzato, che protegge le Procure: cioè il gruppo formato dall’alleanza ormai trentennale tra Procure e giornali. È questa l’alleanza che all’inizio dei novanta del secolo scorso spianò la prima repubblica in pochi mesi, mettendo in fuga i suoi massimi rappresentanti e mettendo in mora la democrazia. E ancora oggi è potentissima ed è in grado di sottomettere la grande parte dello schieramento politico. In particolare la sinistra, che da diverso tempo conta molto sulla magistratura.
E quindi? Le possibilità sono due. O ci rassegniamo. Cioè prendiamo atto di vivere in un sistema a democrazia e libertà molto diffusa, ma che accetta un limite invalicabile: lo strapotere di una piccola casta, di poche migliaia di persone, alle quali è assegnato un potere di sopraffazione. E di conseguenza la battaglia per la giustizia diventa la battaglia per ottenere che questa piccola casta sia il più possibile giusta e indulgente. Come quando gli avvocati si appellano alla clemenza della corte. Oppure troviamo vie di battaglia politica che aggirino le maglie strette delle reti del sistema politico. Per ora è stata trovata una sola via di battaglia: i referendum.
La Lega e i radicali sono riusciti a imporre cinque referendum il cui risultato può avere un valore straordinario. Se si ottiene il quorum e se vince il sì l’effetto di scassamento del fortino delle Procure sarà straordinario. E a quel punto, probabilmente, anche una parte della magistratura passerà sul versante dei riformatori. E la politica, inguattata, magari riprenderà coraggio e uscirà a guardar le stelle. È la madre di tutte le battaglie per la giustizia. Abbiamo un mese e tempo per vincerla. Magari non la vinceremo perché il nemico è fortissimo. Almeno combattiamola.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Come curare i mali del sistema. “Senza una volontà riformatrice ci saranno solo riformucole”, parla l’ex pm Carlo Nordio. Viviana Lanza su Il Riformista il 26 Aprile 2022.
«Se non cominciamo a mettere mano seriamente a una volontà riformatrice, avremo sempre riformucole», afferma l’ex pm Carlo Nordio intervenendo a Napoli al convegno organizzata dalla Camera penale pretendo spunto anche dal suo libro “Giustizia ultimo atto, da Tangentopoli al crollo della magistratura”. La riforma è al centro del grande e più attuale dibattito sulla giustizia. «In questa riforma – aggiunge Nordio a proposito della proposta della ministra Marta Cartabia – ci sono anche alcune cose positive, ma finché si approvano riforme che sono pannicelli caldi rispetto alle grandi questioni della giustizia queste non saranno risolte».
Nordio a Napoli cita l’antico filosofo greco Zaleuco per dire che sarebbe il momento di limitare e semplificare le leggi. Zaleuco proponeva che chiunque proponesse una nuova legge lo facesse con una corda intorno al collo in modo che se la legge non fosse stata approvata sarebbe stato impiccato seduta stante. «La ragione era semplice – spiega l’ex pm – Più si corrompe, più si sfornano leggi e più queste leggi sono complicate e contraddittorie e consegnano al pubblico ufficiale una tale discrezionalità che sconfina nell’arbitrio. La produzione normativa andrebbe diminuita, questo avrebbe un impatto sia sull’accelerazione dei processi, ma anche sulle indagini penali, sul problema relativo a discrezionalità e obbligatorietà dell’azione penale». Già, l’azione penale che spesso finisce per diventare arbitraria.
«Non per colpa dei pm – sostiene Nordio – ma perché c’è una tale sproporzione tra i mezzi che abbiamo e i fini che ci proponiamo che alla fine qualcosa resta nel cassetto, qualcosa va in prescrizione, qualcosa no. Depenalizzazione, decriminalizzazione o eliminazione dei reati bagatellari come dir si voglia, sono interventi minimi. La Costituzione deve essere toccata ma da un’altra parte. Ideologicamente, da liberale non amo l’articolo 1 della Costituzione, preferirei che l’Italia fosse una repubblica fondata sulle libertà». L’ex pm affronta quindi le differenze tra la cultura anglosassone e quella italiana in relazione al ruolo e ai poteri del pubblico ministero. «Noi la dobbiamo risolvere questa dicotomia perché non esiste Paese al mondo in cui un pm ha potere sulla polizia giudiziaria e stesse garanzie del giudice. Personalmente sarei per l’esempio britannico: le indagini le fa la polizia e il pm valuta senza avere potere gerarchico e di iniziativa, potere che spesso si risolve in indagini costose, dolorose, infondate, delle quali nessuno rende conto».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Riforma della giustizia: fanno finta di cambiarla? Guido Igliori su culturaidentita.it il 21 Aprile 2022.
Noi di CulturaIdentità ci siamo sempre occupati di Giustizia, dedicandovi un numero del nostro mensile e seguendo best seller editoriali come Il Sistema e Lobby e logge di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, da cui è stata realizzata la versione teatrale in tour per l’Italia, da Edoardo Sylos Labini.
A giorni (il 12 giugno, insieme alle elezioni amministrative) noi cittadini saremo chiamati a rispondere ai cinque quesiti referendari sulla giustizia (ci siamo occupati anche di questi), mentre in queste ultime 24 ore veniamo a sapere che la proposta di legge di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario in discussione alla Camera è andata di nuovo incontro a un cambiamento: un nuovo vertice dei responsabili Giustizia di maggioranza con la ministra Marta Cartabia ha deciso di sopprimere le norme che introducevano il sorteggio dei distretti di Corte d’Appello per formare i collegi per l’elezione dei membri togati del Consiglio. A riguardo, citiamo un lancio d’agenzia (Adnkronos) in cui Luca Palamara, ex membro del Consiglio superiore della magistratura ed ex capo dell’Anm, commenta
l’accordo della maggioranza alla Camera per eliminare dalla riforma il sorteggio dei collegi per l’elezione del Csm: “Non conosco le reali motivazioni. Penso che abbia prevalso la linea di evitare una riforma che sarebbe stata totalmente inutile, anzi, in contrasto con la premessa riformatrice del Ministro Cartabia”. Per Palamara, “il sorteggio dei collegi, più che un’assurdità, era una riforma inutile che in nulla avrebbe modificato il sistema attuale dominato dalle correnti, ma anzi lo avrebbe rafforzato come correttamente è stato evidenziato”. “Non parlerei né di un passo avanti né di un passo indietro – sottolinea Palamara -, ma semplicemente di una mossa gattopardesca. L’ho detto e lo ripeto. Il sistema delle correnti teme una sola riforma: mandare al Csm magistrati eletti con il meccanismo del sorteggio. Alla luce di quello che sta maturando è indubbio invece che il prossimo Csm verrà eletto con i soliti meccanismi e cioè: candidature decise dalle correnti che favoriranno ancor di più scambi elettorali concordati tra i maggiorenti delle correnti, soprattutto quando si tratterà di votare candidati non conosciuti nel territorio ove si svolgono le votazioni”.
Parla l'ex leader dell'Anm. “Questa riforma è finta, peggio di quando c’ero io”, parla Luca Palamara. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Aprile 2022.
«È la classica riforma “Gattopardo”: a parole grandi cambiamenti, nei fatti invece resterà tutto come prima». Luca Palamara, ex zar delle nomine al Consiglio superiore della magistratura, commenta così la riforma della giustizia in via di approvazione questa settimana alla Camera. Una riforma dalla gestazione quanto mai travagliata. È sufficiente ricordare che il testo adesso in discussione era stato presentato nel luglio del 2019 dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5s), all’indomani della pubblicazione sui giornali dei colloqui registrati all’hotel Champagne fra Palamara, i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri, e cinque componenti del Csm, aventi ad oggetto la nomina del nuovo procuratore di Roma.
Tale riforma, anche su sollecitazione del presidente della Repubblica, avrebbe dovuto restituire credibilità alla magistratura, ponendo così fine allo strapotere delle correnti nelle nomine dei capi degli uffici giudiziari. Sergio Mattarella per descrivere questo nominificio correntizio parlò senza mezzi termini di “modestia etica”. A distanza di quasi tre anni, e con il rinnovo del Csm alle porte, la riforma che verrà approvata non sposterà però una virgola, con i gruppi associativi dell’Anm che continueranno a dettare legge indisturbati a Palazzo dei Marescialli.
Dottor Palamara, lei ha certamente un osservatorio privilegiato: ha fatto campagne elettorali sia in prima persona che per i colleghi. Cosa pensa di questa riforma?
Che non ci saranno cambiamenti rispetto a quando c’ero io. Le candidature per le prossime elezioni del Csm saranno decise, come è sempre stato fatto, dai capi delle correnti con i soliti e ben collaudati scambi concordati.
Veramente un bel risultato, si potrebbe dire.
Le prossime elezioni (in programma il prossimo mese di luglio, ndr) saranno il trionfo del voto correntizio. Ed una volta che il ministero della Giustizia avrà stabilito il modo in cui saranno suddivisi i collegi elettorali le saprò dire anche come finirà il voto.
Non pensa proprio che ci potranno essere sorprese?
Assolutamente no. Il sistema previsto, un Mattarellum con correttivo proporzionale, non lascia spazio ad alcuna “alea”, con le correnti che si spenderanno per far votare candidati che non sono conosciuti nei territori dove si svolgono le elezioni. Un film già visto.
Che cosa serviva?
In questo momento?
Sì.
Il sorteggio dei candidati.
Va ricordato, a tal proposito, che si sarebbe trattato di un sorteggio “temperato”. Se i candidati da eleggere sono 20, prima veniva sorteggiato un paniere di circa 200 magistrati e poi si procedeva con il voto.
Esatto. Avrebbe messo fuori gioco le correnti.
La ministra della Giustizia Marta Cartabia non ha voluto sentire ragioni sul punto, facendo intendere ai partiti della maggioranza, ad iniziare da Forza Italia che l’aveva proposto, che fosse incostituzionale e che ci sarebbero stati problemi in sede di promulgazione da parte del capo dello Stato.
Se fosse stato incostituzionale perché l’Anm nelle scorse settimane ha indetto un referendum consultivo sul sorteggio? Parliamo di magistrati, di giuristi, se veramente era incostituzionale avrebbero avallato una consultazione? Non credo. Il sistema delle correnti, lo dico da tempo, ha il terrore del sorteggio che consente di mandare al Csm magistrati che non sono legati ad un gruppo associativo.
Lei è stato per tanti anni esponente di punta di un gruppo associativo. Le sue chat hanno svelato i legami con centinaia di colleghi che si rivolgevano a lei, direttamente o indirettamente, per “autopromuoversi’. Ora questi magistrati sono a capo di procure e di tribunali. Si è pentito?
Il discorso sarebbe lungo. Posso dire comunque che la magistratura ha necessità di una classe dirigente che sia svincolata dalle correnti.
Lo sa cosa ha dichiarato l’altro giorno il giudice Andrea Reale, componente del Comitato direttivo dell’Anm per Articolo 101 (il gruppo ‘anti correnti’, ndr)?
No.
Considerato che questa riforma segna il successo delle correnti, ha proposto a tutti i rappresentanti dell’Anm di andare a fare un brindisi all’hotel Champagne o presso il bar Ungheria. Brindisi da fare nella prossima ‘notte dei legalità’ (evento indetto dall’Anm nei prossimi giorni per protestare contro la riforma, ndr)?
(Ride)
Paolo Comi
Tutto come prima. Trattativa Stato-toghe, vincono i magistrati: la riforma sulla giustizia non c’è più, torna il Sistema Palamara. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Aprile 2022.
La riforma della giustizia slitta. Anche lo sciopero dei magistrati contro la riforma della giustizia slitta. Forse sarà sostituito da una notte bianca durante la quale – si suppone – chi aderirà dovrà stare sveglio fino alle ore piccole. La riforma slitta solo di pochi giorni, ma in questi giorni sarà cassata la norma che prevedeva un minisorteggio tra i meccanismi che avrebbero dovuto regolare l’elezione del Csm. Il minisorteggio è stato valutato, evidentemente come un danno, seppur minuscolo, per le correnti, e le toghe hanno chiesto allo Stato di eliminarlo.
Torna il sistema-Palamara. Lo Stato ha accettato. E così la trattativa Stato-Toghe si è conclusa rapidamente, con la capitolazione dello Stato e la vittoria delle toghe. Ora staremo a vedere se qualcuno vorrà aprire una inchiesta su questa trattativa. Ingroia non può occuparsene perché è diventato avvocato. Di Matteo neppure perché fa parte del Csm. Può darsi che l’inchiesta non ci sarà…
Comunque il risultato è quello. Come in tutte le precedenti occasioni, nelle quali qualche governo tentò di realizzare piccole riforme della giustizia, compresi i governi di Berlusconi e di Prodi, alla fine salta tutto. Le Procure si mettono di traverso, minacciano fuoco e fiamme (e, eventualmente, avvisi di garanzia) e i politici, buoni buoni, si arrendono. Pensate un po’, la riforma partiva dall’idea che siccome in questi 25 anni la magistratura aveva invaso molti campi non suoi e aveva assunto un potere debordante e una capacità devastante di sopraffazione sulla vita delle persone, occorreva correre ai ripari per riportare in funzione lo stato di diritto.
Come? Per esempio con la separazione delle carriere, con la responsabilità civile, con la riforma del Csm, con la riduzione ai minimi termini della detenzione preventiva, con l’autonomia della polizia giudiziaria (che oggi è agli ordini del Pm) e altre cose simili.
Nessuna di queste questioni è stata presa in esame. La riforma è rimasta un fantasma. Nei prossimi giorni andrà ai voti un fantasma e proprio perché è un fantasma riceverà un sacco di voti. L’ultima volta che si provò a riformare la giustizia (il ministro era Mastella) il ministro si beccò un avviso di garanzia e gli arrestarono la moglie. Stavolta lo stop alla riforma è stato meno cruento.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
La riforma che non c'è. Riforma della giustizia, perché le toghe hanno stravinto. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Aprile 2022.
Cominciamo a scriverla tra virgolette, questa “riforma” Cartabia. Altrimenti si dovrebbe chiamarla controriforma. Anche se non piace alle toghe, e non capiamo il perché. Sono tonti o vogliono stravincere? Quel che è certo è che siamo di fronte a un obiettivo mancato. Non la rivalsa, la vendetta per le ferite violente che il Partito dei pm aveva inferto al Parlamento e alla classe politica. Ma l’occasione per ritrovare quella verginità perduta, l’identità e la dignità di una democrazia liberale diventata repubblica giudiziaria. Quindi illiberale e reazionaria, come se improvvisamente avessero assaltato il Palazzo d’inverno uomini in divisa oltre che in toga.
Sarebbe bastata un po’ più di grinta da parte del Parlamento, senza pretendere il coraggio da partiti costretti dal giogo di accordi di governo che tengono insieme le mele con le pere, i Cinque Stelle con Forza Italia e il Pd con la Lega. Ma sta scritto sulle sacre tavole che Enrico Letta debba prendere ordini da Conte e Casalino, dopo aver detto signorsì per trent’anni ai pubblici ministeri, e che Forza Italia non sappia più ritrovare il proprio orizzonte garantista se non per i processi di Berlusconi? Quanto alla Lega, che pure ha fatto il proprio salto di qualità facendosi promotrice dei referendum, sulla giustizia non ha mai avuto le idee molto chiare, fin da quando, nel primo governo Berlusconi, il ministro Maroni non fece il famoso “disconoscimento di paternità” sul decreto Biondi da lui promosso insieme al guardasigilli.
Così, si affida a un piccolo partito corsaro come Italia Viva e al suo spregiudicato segretario il compito di disvelare tutti i passaggi in cui il re è nudo e nessuno glielo dice tranne un birichino coraggioso che -paradosso dei tempi- ha le sembianze di due deputati, Cosimo Ferri e Giusi Bartolozzi, che fino a ieri indossavano la toga da magistrati. A proposito dei quali, i loro ex colleghi, visto che la riforma non c’è, e se c’è è una controriforma, non si capisce se, quanto meno nelle persone dei loro vertici sindacali, siano semplicemente un po’ tonti o se invece vogliano stravincere. Fanno i virtuosi dichiarando, con qualche ragione, che la “riforma” non supera lo scandalo correntizio denunciato da Palamara, anzi rafforza le cricche politiche. Però i vertici della Anm non volevano neanche il sorteggio (anche se duemila magistrati di base avevano detto di sì in un sondaggio interno), pur se temperato, cioè aggiustato in modo da non essere incostituzionale. E in realtà non volevano cambiare proprio niente. Non hanno capito che sono stati accontentati, perché non cambia niente, e che la ministra Cartabia ha solo offerto ai politici lo zuccherino proposto dal deputato più attivo e creativo del Parlamento, Enrico Costa: il fascicolo delle performance.
In verità se ogni sondaggio vede la fiducia dei cittadini nella giustizia sempre a livelli più bassi, uno dei motivi è proprio lo sbilanciamento tra il numero di persone inquisite o addirittura arrestate e proscioglimenti e assoluzioni. E c’è sempre quello scandalo del 90% di toghe che ogni anno passano indenni dal “tribunale” del Csm che, più che assolvere, pare sempre perdonare il magistrato che commette errori o addirittura si accanisce nei confronti di qualche indagato, specie se politico. Ecco perché non di vendetta si tratta, se anche giudici e pubblici ministeri lavoreranno in una vera casa di vetro, in cui la loro attività, il rendimento, la produttività saranno sotto gli occhi di tutti, come è per i parlamentari o per chiunque lavori in azienda. La minaccia di sciopero, che ha al centro proprio l’insofferenza a rendere manifeste le capacità da una parte e la pigrizia dall’altra, ma anche e soprattutto l’osservanza delle regole e le procedure, ha reso palese anche un fatto singolare. E cioè quel che le toghe pensano di se stesse e della categoria. È stupefacente sentir dire che nella prospettiva di esser giudicato nel proprio lavoro, ogni magistrato sarà indotto a fare il minimo, a compiacere il proprio capo, ad abbandonare la “giustizia creativa”.
Ecco, magari questa è una buona notizia. A noi piace di più l’osservanza del codice che non la fantasia di certi pm e giudici che non leggono le carte, che si appiattiscono sulla prima relazione della polizia giudiziaria, che poi capiscono roma per toma nelle trascrizioni delle intercettazioni e “creativamente” infilano manette ai polsi di persone che poi, spesso molto poi, saranno riconosciute estranee ai reati contestati. Diciamo la verità, lo zuccherino del fascicolo delle performance è l’unico risultato della “riforma”. E, se le cose stanno così, se davvero i riformatori del Parlamento portano a casa solo questo, può sembrare una rivalsa della politica sulla magistratura. Perché non si è assolutamente risolto per esempio l’affollamento di toghe in tutte le istituzioni. Possibile che ci siano sempre questi duecento magistrati che non sanno star fermi nel banco e nel loro ruolo di inquirenti o giudicanti? Se la ministra Cartabia continua a muoversi con un codazzo di gente in toga, come potrà assumere provvedimenti senza subirne qualche, pur indiretto condizionamento? E tutti questi capi e capetti, più che gli eletti alle camere, che sono ormai pochi, potranno tornare poi indisturbati a inquisire e giudicare? Non c’è una vera “riforma” su questo andirivieni.
E dovremo aspettare il referendum, e contare non soltanto i partecipanti al voto, ma anche il numero dei “si”, per avvicinarci non alla separazione delle carriere, ma almeno a quella delle funzioni. Che rilevanza ha il fatto che si consenta al pm di diventare giudice (o viceversa) una o due o tre volte nella carriera? Il vero cambiamento sarebbe lo zero assoluto. Quella sarebbe una riforma. E piantiamola con la favoletta della cultura della giurisdizione, per favore! Meglio un pm pistolero piuttosto che un imbroglione, che va a sciacquare i panni in Arno e torna più accanito di prima. Buono sciopero dunque, signori magistrati, dopo l’assemblea sindacale del prossimo 19, quando la “riforma” sbarcherà in Parlamento e voi dichiarerete di aver perso una guerra che avete stravinto.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Le nuove norme dell'ordinamento e del Csm. Riforma Cartabia arriva in aula, i magistrati si ribellano: “La giustizia è cosa nostra”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Aprile 2022.
Oggi è il grande giorno. La riforma Cartabia su Csm e Ordinamento giudiziario approda in aula, dopo un travagliato lavoro in Commissione Giustizia. Ma sono anche le stesse ore in cui i furbini del sindacato delle toghe, la Anm, ha fissato un incontro per decidere lo sciopero e concentrare su di sé l’attenzione dei media. Una dichiarazione di guerra. Un po’ come se, mentre la miss viene incoronata reginetta, una sua concorrente si spogliasse nuda davanti alle telecamere. La giornata è stata preceduta da commenti e interviste da parte dei magistrati più esposti e più esibizionisti, e anche da un vero grido di vittoria. Ci siamo ricompattati, finalmente di nuovo tutti insieme, hanno detto in coro Nino Di Matteo, Sebastiano Ardita, membri del Csm, e lo stesso Giuseppe Santalucia, il capo del sindacato.
Pare non esser successo niente: la riunione dell’hotel Champagne tra toghe ed esponenti politici, il trojan nel telefonino di Luca Palamara, lo scandalo di inchieste penali e le dimissioni a catena dal Csm. E poi punizioni di incolpevoli come il pg Marcello Viola cui fu bloccato l’accesso alla Procura di Roma (e qualcuno voleva impedirgli anche a quello di Milano). E infine il libro “scandaloso” di Sallusti e Palamara, che diventerà subito una sorta di best-seller con il dito puntato contro le toghe, a loro disdoro e vergogna. Così il 19 aprile rischia di diventare una data simbolica, quella in cui il premier Draghi indossa l’abito di Berlusconi e la ministra Cartabia quello del suo ex collega Castelli, ambedue presi di mira da una minaccia di sciopero delle toghe del tutto senza senso. Il consigliere Di Matteo non teme di avanzare il paragone tra i due momenti storici, spiegando che quel governo di centro-destra era più sincero, più esplicito nel proprio progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario e della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Questi qui invece, dice ancora Di Matteo, mi hanno deluso: “È incredibile che quel disegno si stia realizzando in un momento in cui al governo non c’è solo il centro-destra ma una coalizione che arriva fino al Pd e ai Cinquestelle, partiti e movimenti che avevano fatto del contrasto a questo tipo di riforme un loro cavallo di battaglia politica”.
Eccovi ben sistemati cari esponenti del Pd! Arruolati dal pubblico ministero preferito dal Fatto quotidiano (che lo intervista) nello splendido mondo del grillismo contro-riformatore e amico delle forche. In questo mondo vive prima di tutto il disprezzo per il Parlamento, quello strano organismo pieno di furfanti e parassiti che rubano lo stipendio e che avrebbe dovuto, nelle intenzioni, essere aperto come una scatola di tonno. In questo mondo non esiste la divisione dei poteri. E sulla giustizia non c’è libertà per l’esecutivo né per il legislativo, esiste solo la spavalderia di una Casta in toga priva del pudore dei propri limiti e dei propri errori. Il “Sistema” denunciato da Luca Palamara è ormai alle spalle. E in questo clima di guerra, anche le toghe hanno dichiarato guerra al mondo della Politica. Ai partiti, al governo, al Parlamento. Hanno l’atomica -le manette- e la sanno usare. Paiono andare ai matti all’idea che il mondo politico stia “osando” presentare norme, sia pur piccole piccole, che non abbiano ricevuto il loro imprimatur, il loro bollino blu. E, se la riforma Cartabia andrà in porto, se questo pur debolissimo Parlamento troverà in sé la forza, tra mille compromessi e contentini a ogni partito o frazione di esso, di guardare a un futuro in cui non saranno più i Di Matteo e i Santalucia a comandare nelle aule di Montecitorio e Palazzo Madama, allora diremo anche noi “viva la riforma Cartabia”. Anche se riteniamo che le varie norme e deleghe in essa contenute non cambieranno molto. Perché liberarsi, finalmente e dopo trent’anni, dal giogo dei pm è forse oggi la cosa più importante.
Del resto dovrebbe essere sufficiente esaminare punto per punto il modo di ragionare dei capofila della protesta che sfocerà quasi sicuramente nello sciopero delle toghe. Premettiamo che Nino Di Matteo è contrario all’astensione dal lavoro, ma solo perché è uno molto attento alla comunicazione e teme che “lo sciopero sarebbe scambiato per un tentativo per tutelare interessi di casta”. Invece? Risulta per caso a qualcuno, o qualcuno si accorto del fatto che dopo lo scandalo denunciato nel “Sistema” sia stata avviata all’interno della magistratura, del loro sindacato dello stesso Csm una qualche forma di discussione, di autocritica, di progettualità per un futuro diverso? Non risulta. Viene in mente quel detto siciliano che suona più o meno così: calati giunco, che passa la piena. Lasciamo perdere la legge elettorale del Csm, come se bastasse una modifica dei sistemi di votazione per riformare la magistratura. Per lo meno la proposta di sorteggio, che in tempi normali sembrerebbe assurda, avrebbe potuto evitare il trionfo delle correnti e i loro comportamenti a volte peggiori di quelli dei peggiori politici. E magari avremmo avuto nel Csm invece dei vari Davigo e Ardita, qualche signor Rossi o Bianchi, sconosciuti.
Non male, eh? Ma non possiamo lasciar perdere la scandalosa cultura politica che appartiene a certe toghe. Sentiamo ancora Di Matteo, che è uno importante, uno che dovrebbe essere d’esempio per i giovani magistrati che si affacciano alla carriera. Le norme della riforma Cartabia secondo lui manifestano “una voglia di vendetta nei confronti di quella parte della magistratura che è stata capace di portare a processo la politica, la grande finanza, le grandi deviazioni dello Stato”. C’è da sentirsi agghiacciati. Dunque il compito del pubblico ministero non è quello di cercare i responsabili dei reati, ma quello di dare l’assalto al mondo della politica e della finanza? Un dubbio: è quello che il dottor Di Matteo ha tentato nel fallimentare e costoso processo “Trattativa”? Ma lasciamogli rispondere chi ne sa più di noi, il professor Sabino Cassese, intervistato dal Foglio.
“In quella frase ci sono tre errori”, dice Cassese. “Quello di ritenere che una parte della società, la magistratura, possa portare a processo un’altra parte della società, la politica. Quello di pensare che un governo presieduto da Draghi, con Cartabia ministra della giustizia, possa esser animato da un desiderio di ‘vendetta’. Quello di ritenere che un magistrato possa esprimersi in tal modo sugli organi costituzionali della Repubblica”. Il punto è che non solo si permettono. Ma si consentono questo tono e questo linguaggio perché sono abituati a tenere il mondo istituzionale sotto il proprio giogo. Per dire No persino a una riforma piccola piccola che osa affacciarsi all’orizzonte, con una timida separazione delle funzioni (neppure totale), con un assaggio di valutazioni di qualità (e magari produttività) del lavoro di chi è chiamato a giudicare gli altri. Se si chiede di non fare di ogni processo qualcosa di simile a quello della “Trattativa”, è proprio per pensare a una giustizia che sia il contrario di quel che intendono i magistrati alla Di Matteo. Che cosa vuol dire infatti, quando afferma che con la riforma, allora il magistrato “si limiterà a esercitare l’azione penale nei casi di assoluta evidenza della prova”? Non dovrebbe essere sempre così? O facciamo a ripetizione il circo Barnum del processo “Trattativa”? Oggi è il 19 aprile, data simbolica per la giustizia.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana
Le minacce della magistratura. Riforma Cartabia: resistere agli assalti delle toghe, poi farà giustizia il referendum. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Aprile 2022.
Coraggio, che sono tornate le lucciole. Quel che ci vuole ora è l’ardire da parte del Parlamento a tener duro con la sua piccola riforma di giustizia che manda un segnale al Partito dei pm: le leggi sulla giustizia le facciamo noi. Punto. Anche la piccola riforma Cartabia è una lucciola nel buio della Repubblica giudiziaria. E ci vorrà poi, il prossimo 12 giugno, il coraggio dei cittadini ad andare alle urne e mettere una bella croce sul SÌ ai referendum sulla giustizia. E allora le lucciole saranno tante.
Certo, non è e non sarà facile. I bastoni tra le ruote dello Stato di diritto e della stessa democrazia sono molti, e sono in gran parte nelle mani degli uomini in toga, del loro sindacato e dei loro rappresentanti più significativi. Ma non solo.
Che dire del governo che ha fissato in una sola giornata, la domenica, le elezioni amministrative e i referendum sulla giustizia, pur sapendo che in quella data le scuole sono chiuse e per molti sono già cominciate le vacanze? Certo, bisognerebbe esser tutti militanti e appassionati e affamati di diritti civili, per dare la priorità, rispetto ad altre esigenze di tipo familiare, al diritto-dovere di voto. Sappiamo che non è così, e anche che il mondo della politica negli ultimi anni non ha certo dato di sé un’immagine tale da incoraggiare alte percentuali di cittadini a correre festanti alle urne. Possiamo aggiungere che la Corte costituzionale e in particolare il presidente Giuliano Amato, nella decisione dello scorso 15 febbraio, con un’abile operazione di chirurgia politica, hanno disincentivato la corsa al voto, decapitando i quesiti più popolari, quelli non solo di più facile comprensione, ma anche maggiormente oggetto di discussione. Ci si sarebbe divisi tra i SÌ e i NO sull’eutanasia e sulla legalizzazione della cannabis, e persino sulla responsabilità civile dei magistrati che sbagliano, ma ci si sarebbe accaniti dentro alle urne, non fuori, magari su una spiaggia.
Aveva promesso che non avrebbe cercato il pelo nell’uovo nella sua decisione, il presidente Amato. È stato così, infatti l’uovo lo ha buttato via tutto intero. Parliamo dell’omaggio alla Chiesa e al mondo del proibizionismo. Ma soprattutto della responsabilità dei magistrati, esclusa con una motivazione di lana caprina, senza che si sia tenuto conto di quei numeri di ingiustizia da brivido. Soltanto per l’ingiusta detenzione, ogni anno lo Stato risarcisce mille persone con 27 milioni di euro. E, se consideriamo la tirchieria e la pretestuosità con cui tanti che avevano subito ingiustamente la tortura della custodia cautelare in carcere sono stati esclusi dal risarcimento (magari perché nel primo interrogatorio non avevano risposto al giudice), possiamo tranquillamente raddoppiare il numero delle ingiustizie. Ma ancora una volta quelli che indossano la toga dalla parte “giusta”, quelli che troppo spesso hanno l’unico merito di aver vinto un concorso, saranno quelli che non pagano mai per i propri errori. Ammesso che siano sempre e solo errori. Eppure sono gli stessi che si lamentano in continuazione. Non saranno chiamati a rispondere dei propri atti in sede di voto referendario, ma non tollerano neppure di essere giudicati per il loro lavoro.
Così il famoso fascicolo del magistrato previsto dalla riforma Cartabia, quello che darà trasparenza all’attività quotidiana di ogni giudice e pubblico ministero, è visto dalle toghe (e anche da prestigiosi ex procuratori come Giancarlo Caselli) come un insulto, un affronto alla loro dignità. O addirittura una schedatura di polizia, un assalto della Gestapo. Un’offesa è considerato poi anche il solo nominare la possibilità di separare le carriere tra chi accusa e chi giudica. Come se nella gran parte dei Paesi liberali dell’Occidente non fosse già così. Ma neppure la timidissima distinzione tra le funzioni, pur all’interno dello stesso percorso di carriera, va bene. Né quello previsto dalla piccola riforma Cartabia, in discussione in queste ore alla Camera, che consente un solo salto della quaglia nel corso della carriera, né men che meno l’oggetto del referendum, che impone una scelta definitiva di ruolo.
Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, che vuole portare le toghe a scioperare (e magari, perché no, a marciare su Montecitorio in segno di protesta) contro questa minaccia, è arrivato a dire che il giudice più garantista è quello che prima ha fatto il pm. Forse perché è saturo di ingiustizie e nefandezze, dopo averne viste, e magari fatte, così tante. Non manca certo il coraggio, e anche un ben po’ di faccia tosta, dopo lo scandalo del “Sistema”, alle toghe militanti. Anche per questo, adesso il coraggio tocca a noi. A noi che in certi articoli della Costituzione, come quello sul giusto processo, crediamo davvero. E anche nella politica dei piccoli passi, a patto però che abbia dentro di sé le qualità per diventare poi una vera svolta, una rivoluzione. Sarà vero che sono tornate le lucciole?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La conferenza stampa sulle ragioni del No. L’Anm contro la riforma Cartabia, ma ora lo scontro è interno. Angela Stella su Il Riformista il 20 Aprile 2022.
Per ora niente sciopero dell’Associazione Nazionale Magistrati contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. La questione è tutta rimandata: mentre andiamo in stampa il Comitato Direttivo Centrale è ancora in corso ma, da quanto apprendiamo, molto probabilmente rimanderà la decisione all’Assemblea generale del 30 aprile. Ieri però i giornalisti sono stati convocati proprio dall’Anm perché, come ha detto il Presidente Giuseppe Santalucia, «abbiamo bisogno di comunicare e far comprendere all’esterno quali sono le ragioni del disagio della magistratura su alcuni punti della riforma.
Non vogliamo apparire una casta che si chiude al suo interno, che protesta e si oppone alla riforme ma vogliamo che questa conferenza segni una tappa all’interno di un percorso di confronto e di dialogo che abbiamo già iniziato da tempo prima con il Ministro della Giustizia Cartabia, poi con la Commissione giustizia che ci ha sentiti in sede di audizione». L’impressione che abbiamo avuto è che si voglia scongiurare lo strappo tra il potere giudiziario e quello legislativo, in tempi già difficili per il nostro Paese, come emerge ancora dalle parole del Consigliere Santalucia: «Lo sciopero è una delle forme di protesta, una drammatizzazione forte del dissenso ma noi oggi (ieri, ndr) stiamo cercando di comunicare le buone ragioni della nostra protesta. Auspico che non si debba arrivare a questa forma di protesta, ma non sono qui a fare il profeta. Non sono in grado di dire se la decisione arriverà oggi (ieri, ndr) o all’assemblea generale dei soci convocata per il 30 aprile».
Se non si arriverà allo sciopero è perché evidentemente la politica cederà su qualche punto ma tuttavia il timing si presenta sfavorevole a reali possibilità di poter cambiare qualche aspetto della riforma: domani il testo, infatti, dovrebbe essere approvato alla Camera e la partita al Senato si preannuncia abbastanza in discesa. Convocare una conferenza stampa proprio mentre la riforma approda a Montecitorio è sembrata una forma di pressione delle toghe sul Parlamento: «Nessuna pressione, la nostra è una richiesta di ascolto – ha chiarito Santalucia – La nostra linea è e resta quella di sfruttare ogni possibile margine di confronto. Siamo consapevoli della necessità di una riforma, degli ambiziosissimi piani del Pnrr, ma ne serve una diversa rispetto a quella all’esame del Parlamento, questa guarda al passato, crea una struttura sempre più gerarchica, accentra poteri e utilizza l’aspetto disciplinare per controllare i magistrati, impaurirli nel loro delicatissimo compito, relegandoli a un ruolo impiegatizio».
L’aspetto che viene più fortemente criticato è quello relativo al fascicolo personale del magistrato: la riforma prevede l’implementazione annuale – non più quindi ogni 4 anni, in corrispondenza delle valutazioni – con la storia complessiva delle attività svolte.
Esso dovrà contenere dati statistici e documentazione sull’attività svolta (inclusa l’attività cautelare); dati sulla tempestività nell’adozione dei provvedimenti; eventuali anomalie relative all’esito degli affari trattati nelle fasi successive. Per il Segretario dell’Anm Salvatore Casciaro «è la logica di fondo di questa riforma che noi riteniamo sbagliata. Il giudice è soggetto solo alla legge. Questa riforma è incentrata esclusivamente sulle statistiche e questo non va bene. Istituire un fascicolo delle performance è sbagliato, la verità processuale non è precostituita ma si forma faticosamente nella dialettica delle parti». Proprio alle valutazioni di professionalità è dedicato un paragrafo di una dura lettera che Magistratura Democratica ha inviato ieri al Presidente Santalucia proprio mentre era in corso la conferenza: se è vero che da un lato «l’idea di enfatizzare nella valutazione di professionalità il tasso di conferme ottenute dalla decisione nei successivi gradi di giudizio alimenterà il conformismo giudiziario e disegnerà l’immagine di una magistratura piramidale» dall’altro lato, enfatizza il gruppo associativo guidato da Stefano Musolino. «L’azione dell’ANM, nel contesto della riforma, ci è apparsa intempestiva, timida ed incapace di proposte idonee a dimostrare l’assunzione di responsabilità per la crisi, avendo privilegiato la conservazione dell’esistente, senza alcuna apertura al nuovo […] Sulle valutazioni di professionalità, poi, le proposte sono state tutte orientate ad una chiusura corporativa, incapace di una sana autocritica, ma anche di spiegare le ragioni di senso del sistema di valutazione dei magistrati». Insomma l’Anm non sembra uscita dalla crisi tra riforma considerata punitiva, divisioni interne e base, soprattutto tra i giovani magistrati, insoddisfatta della mediazione. Angela Stella
Le minacce dell'Anm. La riforma Cartabia è acqua fresca: non cambia nulla e non tocca i privilegi dei magistrati. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Aprile 2022.
Lo sciopero dei magistrati forse si farà. Forse no. Ieri l’Anm, cioè il partito dei Pm, ha convocato una conferenza stampa per annunciare lo sciopero poi in conferenza stampa ha detto che non si è deciso ancora niente. La verità è che anche l’Anm sa che se lo sciopero verrà proclamato saranno pochini i magistrati che aderiranno. E perché mai dovrebbero aderire ad uno sciopero che forse è anche illegale e comunque è del tutto inutile? Inutile per due ragioni. la prima è che la riformatta Cartabia in ogni caso andrà in porto e sarà approvata, almeno alla Camera, prima dello sciopero. Si tratterebbe di uno sciopero postumo. Sconosciuto nella storia sindacale.
E poi per un’altra ragione: la riforma Cartabia non riforma praticamente nulla e non tocca nessuno dei privilegi dei magistrati. Lascia intatto il loro potere. Non modifica niente nello sciagurato castello fatiscente della nostra giustizia. I magistrati restano intoccabili. Le famose pagelle, per le quali le toghe si lamentano, non ci saranno, o saranno uguali a quelle di prima. Se un Pm si accorge che il suo processo sta andando male, e vuole evitare il giudizio negativo, sa come fare: lo lascia andare in prescrizione (oggi si dice improcedibilità).
E allora perché la protesta? Proprio perché questa riforma piccola piccola piace ai magistrati, e con lo sciopero si vuole certificare l’opposizione a sua maestà. Dire: a noi non piaceva questa riforma, quindi è giusta, quindi ora è fatta e basta riforme. L’obiettivo dello sciopero o del non sciopero è esattamente questo: evitare riforme vere. La vicepresidente del Senato Anna Rossomando ha dichiarato che ora finalmente si avvia l’autoriforma della magistratura. Autoriforma? E che sarebbe? Sarebbe il nulla. Una volta era Breznev che parlava di autoriforme del socialismo. Ecco: con la magistratura siamo a quel punto lì.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 20 aprile 2022.
Il pragmatismo non -politico di Mario Draghi ricorda le inesperienze e ingenuità dei primi governi Berlusconi, quando pensavano davvero che per cambiare una legge bastasse cambiare la legge.
L'apparente soddisfazione di Marta Cartabia, invece, ricorda una certa auto -convinzione piddina di poter davvero «concertare» una riforma con una controparte chiamata Magistratura, trattata come se fosse una parte sociale: l'obiettivo era non farla scendere in piazza.
Ma per dirla male: solo nel giorno in cui la corporazione scendesse davvero in strada ci sarebbe l'indizio (ma non ancora la prova) che qualcosa starebbe cambiando davvero. Questo per anticipare che no, questa riforma della giustizia non pare credibile. Non basta cambiare delle leggi: soprattutto se sono dirette a chi, le stesse leggi, dovrà interpretare e dovrà trasformare in prassi giurisprudenziale.
I magistrati rappresentano i decreti attuativi viventi di ciò che li riguarda: è così che sono state annullate tutte le velleità di riforma tentate negli ultimi decenni. Già il Codice di procedura penale (1989) in teoria conteneva gli anticorpi che dovevano difendere dalle patologie degenerate in seguito: lo strapotere dei pm, la mancata terzietà del giudice, il segreto istruttorio divenuto inesistente, la centralità del processo rispetto alle indagini preliminari e molto altro. È tutto scritto: chi l'ha ribaltato, poi? Non delle leggi, ma delle sentenze. Non delle riforme, ma delle Corti e delle consuetudini.
È impossibile riformare assieme ai magistrati, oggi: in questa fase storica si può solo riformare contro di loro. Alcuni esponenti di Italia Viva hanno detto già molto: che non si può mediare con chi non voleva cambiare assolutamente niente, perché ogni esito ne uscirà annacquato; e non si può cedere posizioni alle ali giustizialiste del Pd o addirittura dei grillini.
Nel frattempo, persino l'Associazione magistrati tutto sommato se n'è restata buona, avendo capito che si conserverà l'esistente; persino la corrente di Magistratura democratica ha capito che la stessa Amn è stata «incapace di proposte idonee a dimostrare l'assunzione di responsabilità per la crisi».
Non vogliamo dire che la commissione Cartabia non abbia lavorato: vogliamo dire che l'ha fatto per niente. Restando alla parte che riguarda il Csm, si è lasciato che il Csm autogovernasse persino la propria riforma. Le doppie indennità per i magistrati dei Ministeri sono ancora lì, il carrierismo pure.
Non si è chiarita neppure la differenza con la riforma dell'ordinamento giudiziario voluta nel 2006 dal guardasigilli leghista Roberto Castelli, che voleva introdurre elementi di meritocrazia in una corporazione dove ogni carriera è soggetta a scatti automatici: ma nei fatti le normative non fecero che accrescere i poteri dei dirigenti degli uffici e sottodimensionare i requisiti dell'anzianità di servizio, il che spianò il terreno ancora di più ai carrierismi, alle spartizioni interne alle correnti, ai privilegi e alle pratiche lottizzatorie poi esplose col caso di Luca Palamara.
Le varie degenerazioni in seno al Csm si sono consolidate a partire da lì, mentre i pochi principi innovativi introdotti ora sulle cosiddette «porte girevoli» (i magistrati fuori ruolo che vanno e vengono) sono poche macchie maculate su una pelliccia spessa come la precedente.
Il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia ha detto che «si sta cambiando l'assetto della Costituzione», il che naturalmente non è vero, ma perlomeno Santalucia ha fatto capire che il cuore del problema è quello, l'assetto della Costituzione. Senza cambiarlo, non cambi niente: puoi solo diversificare le gerarchie, accentrare poteri, far controllare meglio i magistrati da altri magistrati, renderli degli impiegati ai servizio della Corporazione: ma resta una partita di giro.
Il Csm è un meccanismo para-parlamentare che attribuisce i vertici degli uffici sulla base di criteri politici o correntizi, consente incarichi extra-giudiziari e permetterà che molti giudici svolgano compiti da «fuori ruolo» al Ministero e nelle ambasciate, che pure fanno parte dell'esecutivo. Domanda: nella riforma c'è traccia di un qualche cambiamento in questa direzione? Il Csm resterà proprietario della funzione giudiziaria e non riuscirà a valutare i magistrati se non quando avranno fatto i peggiori danni.
Il Csm continuerà a non eccepire circa l'affollamento nelle carceri di cittadini in attesa di giudizio. Il Csm resterà dominato dalle correnti e questo non cambierà, paradossalmente, perché le correnti non sono d'accordo su come farlo. Il Csm da organo che difendeva l'indipendenza della magistratura è divenuto il vertice organizzativo della magistratura, l'ente esponenziale della medesima: sul rischio che potesse diventarlo potete trovare discussioni risalenti ad ancor prima dell'insediamento del primo Consiglio, nel 1956.
Domanda: ora, nella riforma, pensate che vi sia un qualche serio cambiamento in questa direzione? L'articolo 104 della Costituzione dispone che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», e nella discussione all'Assemblea Costituente fu osservato che riconoscere un autogoverno del genere avrebbe significato creare uno Stato nello Stato, una casta chiusa e intangibile: non è forse quello che è successo?
E potete credere che la riforma Cartabia, ora, possa invertire la degenerazione che ne è conseguita, e che peraltro è sotto gli occhi di tutti? Ancora, e infine: l'articolo 105 della Costituzione dispone che «spettano al Csm le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati». Questo era, e questo è. E questo sarà, sinché la Costituzione non verrà cambiata.
Francesco Grignetti per “la Stampa” il 20 aprile 2022.
La riforma del Consiglio superiore della magistratura cammina, anzi vola. Dopo settimane defatiganti, di colpo la strada sembra spalancata.
La maggioranza regge. E oggi la Camera prevede lavori a tappe forzate, notte compresa, per arrivare domani al voto finale. Poi toccherà al Senato. E lì potrebbero esserci sorprese, perché le maggioranze sono variabili.
Se però ci fossero sorprese, saranno nel senso più indigesto per la magistratura, perché si potrebbe coagulare una maggioranza trasversale - tra Lega, Forza Italia, FdI e Italia Viva - a favore della separazione delle carriere.
Tutto questo, però, alla magistratura associata interessa poco, perché è già sulle barricate contro questa riforma. E alcune correnti ipotizzano uno sciopero, su cui dovrà pronunciarsi l'assemblea generale degli iscritti il 30 aprile.
L'Anm però non è compatta. Si cominciano a sentire le prime voci dubbiose su una scelta radicale come lo sciopero, arma particolarmente seria, usata dai magistrati solo nel 2005, contro una riforma dell'ordinamento giudiziario di marca berlusconiana.
«C’è stata una contrazione dei tempi alla Camera - dice intanto il presidente dell'Anm, Giuseppe Santalucia - e speriamo sia funzionale a dare al Senato la possibilità di una discussione più ampia».
La sua speranza, che suona di appello accorato, è che il passaggio al Senato sia «l'occasione perché alcune delle nostre osservazioni critiche siano prese in considerazione. Cerchiamo un dialogo prima di arrivare a forme di proteste radicali. Non intendiamo fare pressione su nessuno, ma trovare il modo perché le nostre critiche siano comprese».
Quali le criticità maggiori? A parte un sistema elettorale che sembra aiutare solo le due correnti maggiori, «abbiamo bisogno - dice Santalucia - di una riforma che non releghi ad un ruolo impiegatizio la magistratura». «L'aspetto legato a una gerarchizzazione forte degli ufficio è molto sentito», sottolinea anche il segretario generale Salvatore Casciaro.
A giudicare da come vanno le cose in Parlamento, però, la loro sembra una speranza irrealizzabile. Anche i partiti che finora erano molto sensibili alla voce dell'Anm, stavolta non stanno cambiando idea.
A parte l'astensione annunciata del M5S sul semi-bocco delle funzioni, e alcuni emendamenti della Lega che ricalcheranno i quesiti dei referendum di giugno («Non possiamo tradire le nostre battaglie», la spiegazione di Giulia Bongiorno), l'esito sembra scritto.
«La scommessa è quella di un sistema giudiziario più rispettoso dei principi costituzionali e di aiutare la Magistratura a rinnovarsi ritrovando credibilità e autorevolezza. Anche per questo, pur se c'è stato e c'è in giro chi avrebbe voglia di assestare colpi all'indipendenza della Magistratura, non condividiamo il dissenso così radicale dell'Anm», dice Walter Verini, Pd. Di fronte a una politica che per una volta non si divide, è l'Anm che traballa.
Il presidente Santalucia è finito sul banco degli accusati per non essere riuscito a indirizzare le cose in un senso più gradito ai magistrati. La sconfessione più forte, a sorpresa, arriva dalla corrente progressista Md. «L'azione dell'Anm - scrivono - nel contesto della riforma ci è apparsa intempestiva, timida ed incapace di proposte idonee a dimostrare l'assunzione di responsabilità per la crisi, avendo privilegiato la conservazione dell'esistente, senza alcuna apertura al nuovo».
La riforma giustizia. Trattativa Stato-magistratura, vincono sempre i Pm. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 19 Aprile 2022.
Non serviva essere lungimiranti per capire che fine avrebbe fatto la “epocale” riforma della giustizia di cui si vagheggiava qualche mese fa: bastava esaminarne il contenuto, che non era epocale manco per niente, e poi assistere a come la classe politica e di governo – salve le solite eccezioni che però ottengono quel che possono, e cioè poco o nulla – rinculava davanti all’offensiva della piovra giudiziaria che mascariava i piccoli tentativi riformatori spiegando che erano regali alla mafia e alla corruzione e, ovviamente, intollerabili attentati all’autonomia e all’indipendenza della magistratura.
Ancora una volta, i destinatari di questa agitazione sostanzialmente eversiva, a cominciare dalla ministra guardasigilli, hanno creduto per buona pace di riproporre il solito atteggiamento abdicatario per cui le riforme possibili sono quelle che ricevono il benestare giudiziario: come se già questo non denunciasse il problema capitale, e cioè il fatto che la magistratura si è costituita in una centrale di usurpazione che ha imposto con la violenza dell’intimidazione, del ricatto, quando non direttamente dell’aggressione penale, il proprio potere intromissivo, assolta da qualsiasi controllo di legalità.
Ma mentre non giova alle riforme, che infatti fan questa fine, l’idea che si debba legiferare in argomento di giustizia per il tramite di una trattativa Stato-Magistratura perpetua i segni della malattia italiana: la quale sta, in primo luogo, nell’incapacità di riconoscerla. Nell’incapacità di riconoscere che una riforma libera dal gradimento preventivo della magistratura non è necessariamente buona, ma è certamente cattiva quella che vi soggiace o, peggio, lo richiede. Iuri Maria Prado
La riforma giustizia e le proteste. Riforma Cartabia, difendiamo lo Stato di diritto contro lo strapotere delle toghe. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 16 Aprile 2022.
Il testo della riforma dell’ordinamento giudiziario ha subito nel tempo numerose modifiche, come è anche naturale attendersi in un percorso così accidentato e con una maggioranza così irrimediabilmente divisa proprio sulle idee di fondo della organizzazione e della amministrazione della giustizia. Al centro della riforma, come sappiamo, il sistema elettorale del Csm. Per noi penalisti si tratta di un vizio originario, bastevole a farci dire dal primo giorno che il percorso di questa riforma era anni luce lontano dalle questioni davvero cruciali che occorre invece affrontare. È pura illusione pensare che un sistema elettorale piuttosto che un altro possa restituire credibilità e forza alla magistratura italiana, considerata la gravità della sua crisi, che è crisi di credibilità della funzione agli occhi del cittadino.
E perciò dal primo giorno indicavamo gli ambiti di intervento invece indispensabili: rafforzamento della terzietà del giudice; responsabilizzazione professionale del magistrato, attraverso giudizi di professionalità finalmente rigorosi e legati innanzitutto a ciò che il singolo magistrato ha fatto nella sua quotidiana attività; eliminazione di ogni assurda commistione tra potere giudiziario e potere esecutivo, ponendo fine allo spostamento di magistrati in ruoli amministrativi nel Governo, che dovrebbero essere naturalmente riservati a funzionari di carriera. Anche il tema delle porte girevoli non ci ha mai scaldato il cuore, non fosse che per la marginale sua rilevanza in termini di numeri.
Dobbiamo pur riconoscere che la nostra forte (ed assolutamente isolata) insistenza, politica e mediatica, su questi tre temi ha in qualche modo fatto breccia nelle attenzioni del Governo e del Parlamento. E così sono comparse successive versioni della legge delega che hanno progressivamente incluso interventi sui fuori ruolo, poi sui criteri delle valutazioni professionali quadriennali, ed anche sulla accentuazione della separazione delle funzioni. Queste novità sono a nostro avviso ancora lontane dalle migliori e più efficaci capacità di incidere in modo risolutivo su quelle questioni, ma almeno quei tre temi sono finalmente presenti nel corpo della legge delega. E non è certo un caso che siano esattamente quelli i temi che hanno scatenato la furibonda reazione della magistratura associata, che aveva mantenuto un atteggiamento molto più controllato, fino a quando la riforma si risolveva grossomodo in alchimie elettoralistiche del Csm. Ora, credetemi: quelle novità, prese in sé sono assai poco rivoluzionarie. Siamo ancora ben al di sotto del minimo necessario per una reale riforma della magistratura italiana, che le restituisca forza, credibilità, affidabilità, autorevolezza.
Eppure è bastato sfiorare quei temi, per scatenare una reazione che non andava in scena da molti lustri, cioè dai tempi dei governi Berlusconi. Ecco allora che bisogna chiedersi perché. Quale può essere la ragione di una reazione così sopra le righe, che fa per esempio gridare alla “schedatura” sol perché il fascicolo personale del magistrato, che già esiste da sempre, verrebbe implementato con i provvedimenti che egli ha adottato nel corso del quadriennio; o fa gridare alla separazione delle carriere (magari!) sol perché si riducono da quattro a due le già ridotte possibilità, in carriera, di passare dalla requirente alla giudicante. Questa è roba che costituisce certo un primo passo avanti verso un ragionamento riformatore di qualche sensatezza, ma è ancora lontanissima dal diventarlo sul serio, e nessuno lo sa meglio di lor signori magistrati.
La cosa che invece li sta facendo impazzire è che Parlamento e Governo, per la prima volta, seppur timidamente e tra mille distinguo, sembrano voler recuperare spazio e prerogative che la Costituzione gli assegna, e che il potere giudiziario ha loro espropriato da trent’anni a questa parte. L’idea che li fa impazzire è che il legislatore pretenda di legiferare ed il Governo di governare sulla organizzazione della macchina giudiziaria e della magistratura, senza il previo consenso della magistratura stessa. L’idea che Governo e Parlamento pensino di potersi assumere la responsabilità politica di disegnare un ordinamento giudiziario nella pienezza della propria autonomia costituzionale, e non sotto dettatura delle toghe, è vissuto dalla magistratura italiana come un sacrilegio, un atto di insubordinazione inconcepibile, una sovversione dell’assetto squilibrato (in favore del giudiziario) dei poteri dello Stato come avveratosi in questi ultimi trent’anni.
Questa è la vera partita in gioco oggi. Io non so come andrà a finire, visto che il percorso parlamentare è tutt’altro che concluso. Ma se davvero lo scontro sarà portato, come sembra, ai suoi estremi, occorre che i liberali di questo Paese e tutti coloro che abbiano a cuore il ripristino della divisione e del rigoroso equilibrio tra poteri dello Stato comprendano con lucidità da che parte stare. Non facciamoci distrarre dalla modestia dei contenuti di quella riforma, che pure ribadiamo con forza. Ora la partita che si è aperta con la minaccia dello sciopero dei magistrati è un’altra, molto ma molto più importante, ed occorre giocarla e vincerla.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione Camere Penali Italiane
Di Matteo boccia la riforma Cartabia: «Ora le toghe saranno attente al gradimento degli avvocati». Il Dubbio il 15 aprile 2022.
Secondo il consigliere togato del Consiglio Superiore della Magistratura, la riforma del ministro della Giustizia è «inutile e dannosa». E sulla legge elettorale dice: «I capi corrente continueranno a designare chi si candiderà».
«I magistrati saranno più attenti ai numeri, alle statistiche, al gradimento degli avvocati piuttosto che a rendere giustizia. E dunque non affronteranno inchieste complesse, diventeranno sempre più impauriti e più soggetti a interferenze esterne». Così Nino Di Matteo, consigliere del Csm, in un’intervista a Il Fatto Quotidiano parlando della riforma Cartabia come appena approvata dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e della norma sul “fascicolo del rendimento del magistrato”.
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Secondo Di Matteo «è gattopardesca» la riforma «sul sistema elettorale del Csm» perché «si dice di voler combattere la patologia dello strapotere delle correnti e invece non si combatte nulla. Anzi da un certo punto di vista si potenzia il sistema delle correnti, che evidentemente fa comodo a tutti, anche alla politica» con «un sistema elettivo in cui continueranno a essere i capi delle correnti a designare chi si candiderà al consiglio. Continueranno a sapere quattro anni prima chi sarà candidato alle elezioni».
Costa: «Finalmente i pm e giudici saranno monitorati per le inchieste flop». Il Dubbio il 14 aprile 2022.
Nella notte è passato un emendamento del deputato di Azione che istituisce il "fascicolo per la valutazione del magistrato".
«Ieri notte è stato approvato in commissione Giustizia il mio emendamento che istituisce il “fascicolo per la valutazione del magistrato”. Un’innovazione di portata storica«. Così Enrico Costa, deputato e vicesegretario di Azione. «Un documento che permetterà finalmente di monitorare le attività del singolo giudice o Pm, le loro performance e i loro meriti, ma anche gli errori, le inchieste flop, le sentenze ribaltate e gli arresti ingiusti. Nessuna schedatura, ma una vera e propria fotografia della carriera di ciascuno. Un’innovazione storica che consentirà a chi è più bravo, a chi lavora silenziosamente senza essere organico alle correnti, di poter fare carriera«, aggiunge Costa.
«La levata di scudi delle correnti, che da giorni minacciano lo sciopero, dimostra chiaramente come temano di perdere il controllo che detengono grazie a quel 99% di valutazioni di professionalità “automaticamente” positive. Con il fascicolo tutta l’attività del magistrato sarà sotto gli occhi di chi deve fare la valutazione, non come oggi che gli atti vengono scelti “a campione”: così si potrà distinguere chi lavora bene e chi lavora meno bene, premiando chi lo merita, anche se non è organico alle correnti», conclude.
Pecorella: «Giusto chiedere alle toghe la responsabilità dei propri errori». Intervista a Gaetano Pecorella: per l’ex capo dei penalisti la riforma è il minimo sindacale per contenere il potere dei magistrati. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 15 aprile 2022.
«Avevamo approvato in Commissione una norma che prevedeva l’esecuzione dei test psicoattitudinali per i magistrati. Poi arrivò Clemente Mastella e decise di cancellare tutto». L’avvocato Gaetano Pecorella è stato presidente della Commissione giustizia della Camera dal 2001 al 2006, gli anni dei governi Berlusconi e dello scontro violentissimo fra toghe e politica. Anche allora si discuteva di riforme della giustizia e l’Associazione nazionale magistrati decise di indire nel 2002, come adesso, uno sciopero per contestare l’operato del governo.
Presidente Pecorella, nulla di nuovo viene da dire?
Da parte dei magistrati no, appena si toccano i loro privilegi partono subito violente reazioni.
Ai suoi tempi l’accusa delle toghe era quella di voler salvare Silvio Berlusconi dai suoi processi. E adesso?
Il premier è un signore che si chiama Mario Draghi e la ministra della Giustizia è Marta Cartabia, ex presidente della Corte Costituzionale, che non ha mai esercitato la professione forense. Una persona di grande sensibilità che non penso possa essere accusata di conflitti d’interesse.
Quindi come si spiega la reazione dei magistrati?
Semplice: i magistrati non vogliono essere considerati dei pubblici funzionari e pertanto soggetti a delle valutazioni.
Si riferisce alle “pagelle”?
Esatto. Non è pensabile che tutti i magistrati italiani abbiano oggi una valutazione altissima e che facciano carriera per logiche di appartenenza correntizia. Abbiamo avuto magistrati eletti in Parlamento che continuavano a progredire in carriera pur non svolgendo alcuna attività giurisdizionale. E’ un sistema che non funziona. Purtroppo da sempre vige questo malinteso secondo il quale è sufficiente aver vinto un concorso per non dover più essere valutati seriamente. Il pilota di un aereo se sbaglia fa al più 200 vittime. Quante vittime, invece, in termini di carriere rovinate, famiglie distrutte, o anche di persone che decidono di togliersi la vita, ha sulla coscienza un magistrato che sbaglia e non viene mai fermato? Un pm che vede sempre archiviati i propri procedimenti, deve per forza continuare a svolgere quella funzione? L’avvocato che sbaglia i processi viene punito dal mercato.
I magistrati affermano che le pagelle saranno fonte di “conformismo” nelle decisioni.
Già adesso ci sono principi sulla certezza del diritto. L’orientamento costante delle sezioni uniti della Cassazione tende ad evitare sobbalzi improvvisi nella giurisprudenza. Il magistrato che sa motivare in maniera intelligente un orientamento diverso sarà sempre molto apprezzato. Non certo quello che si discosta dalla Cassazione solo perché è prevenuto o ha per le mani un imputato eccellente.
Esiste una legge con il suo nome, la numero 46 del 20 febbraio 2006, che prevede l’inappellabilità da parte del pubblico ministero delle sentenze di proscioglimento, introducendo il principio che la sentenza vada pronunciata solo “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Ebbe un iter alquanto travagliato. La legge venne prima rimandata alla Camera dall’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e, una volta approvata, fu poi bocciata dalla Corte Costituzionale che ne evidenziò il carattere incostituzionale in varie parti.
Guardi, ricordo benissimo. Era il tentativo di tagliare le unghie ai pm che oggi, come ieri, possono tenerti sotto processo una vita. La decisione della Corte della Costituzione sul principio di parità di accusa e difesa è uno scherzo. La ministra Cartabia non ha avuto coraggio di riproporla. Sarebbe stata una battaglia di civiltà.
Torniamo al governo Berlusconi. I magistrati le fecero una opposizione ferocissima.
Tutto, come è stato spesso ricordato, iniziò con Mani pulite. Il Pci fu l’unico partito ad essere risparmiato e con il segretario Achille Occhetto era pronto ad andare al governo. Berlusconi fece saltare i piani. La saldatura fra il Pci e Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, ha fatto il resto. La separazione dei poteri non esiste più da allora.
Cosa possono fare i mezzi di informazione?
Devono far capire che serve migliorare la giustizia. Ci sono delle regolale. Autonomia e indipendenza non significa che il magistrato possa fare quello che vuole.
Per concludere, che giudizio si sente di dare sulla riforma Cartabia?
Una riforma che cambia ben poco. Serviva la separazione fra pm e giudici se si voleva cambiare qualcosa. Ed è la Costituzione a dirlo, prevedendo il giudice terzo, che non ha nulla a che vedere con il pm che è parte del processo come l’avvocato. Un giudice che deve anche essere imparziale, quindi senza pregiudizi.
La riforma del Csm. Toghe e sistema, perché l’immunità del Csm è da abolire. Paolo Itri su Il Riformista il 15 Aprile 2022.
Finché c’è morte c’è speranza, scrisse nel lontano 1958 Tomasi di Lampedusa nella sua famosa opera Il Gattopardo. Ma qui, in Italia, quando si parla di giustizia, la speranza sembra ormai un concetto relegato al mondo dell’iperuranio, bandito oltre i confini della Terra, espulso oltre le invalicabili barriere dell’Ade. Perdete ogni speranza o voi ch’entrate nel magico mondo della Riforma Cartabia.
La Commissione di studio Luciani, istituita con d.m. 26 marzo 2021, ha partorito le sue proposte di intervento per le riforme dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della Magistratura. E se c’è una cosa di cui gli autori del lavoro possono andare fieri è quella di essere riusciti nella – invero non facile – opera di non toccare nemmeno uno dei punti nodali del Sistema collaterale di potere così ben descritto dall’ineffabile Palamara. Ma vediamo le cose da vicino. Le norme che regolano le nomine dei direttivi e le progressioni di carriera dei magistrati restano sostanzialmente invariate, tranne qualche piccolo accorgimento più apparente che reale, come ad esempio quello che prevede che, nei procedimenti per la copertura dei posti direttivi, il Csm proceda ad accertare l’avviso dei rappresentanti dell’avvocatura, nonché dei magistrati e dei dirigenti amministrativi assegnati all’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati (una norma invero alquanto demagogica e di difficile applicazione, se solo si pensa che coloro che sono chiamati ad esprimere la loro opinione sono soggetti a loro volta tutti potenzialmente esposti al giudizio e agli strali del futuro dirigente dell’Ufficio).
Ma soprattutto, restano praticamente immutati la sostanziale insindacabilità dei criteri delle nomine e il bizantinismo di fondo che ispira il sistema di pseudo-controlli che già informa l’attuale impianto normativo e regolamentare sulla dirigenza giudiziaria: in una parola, il quadro normativo di riferimento che ha consentito (e che continuerà presumibilmente a consentire) la perpetrazione degli innumerevoli abusi del Sistema di potere correntizio in danno dei magistrati “non allineati” e dei poveri cittadini che avranno la sventura di andare a sbattervi contro. Resta per contro (e non a caso) irrisolto il vero nodo della questione: chi controlla i controllori? Come si fa, a prescindere dal contenuto della riforma – che, si sottolinea, dovrà pur sempre essere interpretata e applicata da magistrati e componenti laici del Csm -, ad evitare che i nuovi eletti al prossimo Consiglio Superiore possano ricadere negli stessi “vizietti” di quelli che lo hanno preceduto?
La risposta è una sola: occorre recidere definitivamente il cordone ombelicale che lega i magistrati designati al Csm alle correnti, che sono il vero e proprio cancro da cui sono poi partite le metastasi delle nomine “eccellenti” pilotate dai vari Palamara e, per il loro tramite, dalla stessa politica. Il nuovo sistema elettorale del Csm, se vorrà realmente incidere su tale situazione, non potrà che basarsi sul sorteggio (seppure “temperato”) dei candidati, che dovranno poi essere eletti dai loro colleghi in maniera indipendente da ogni appartenenza correntizia. Ma vi è un secondo punto di straordinaria importanza, che, stranamente, non è stato nemmeno preso in considerazione né dal progetto di riforma e nemmeno dai quesiti referendari. Ed è quello – verosimilmente poco conosciuto ai più – della immunità (prevista peraltro da una legge ordinaria e non da una norma costituzionale) introdotta nel 1981 dall’art. 32 bis della l. 24 marzo 1958 n. 195, che manda esenti da conseguenze civili e penali i consiglieri del Csm, disponendo che «i componenti del Consiglio superiore non sono punibili per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, e concernenti l’oggetto della discussione».
Un’anacronistica immunità che riguarda ogni tipo di responsabilità, sia essa civile, penale o disciplinare, in base alla quale, si badi, a differenza del lodo Alfano, gli illeciti resteranno impuniti anche dopo la scadenza del mandato di consigliere del Csm. Non sono necessari grandi progetti di riforma. L’abolizione della immunità del Csm, unitamente alla introduzione del sorteggio temperato metterebbero la parola fine a un Sistema di potere che ha negli ultimi decenni condizionato non solo la Magistratura ma anche probabilmente la stessa fisiologia delle dinamiche politiche del nostro Paese. Paolo Itri
Cartabia finisce nel mirino delle toghe che si ribellano: “Nessuno ci può giudicare!” Paolo Comi su Il Riformista il 14 Aprile 2022.
È partito l’assalto al Parlamento da parte dei gruppi della magistratura associata contro la riforma della giustizia voluta dalla Guardasigilli Marta Cartabia. I primi ad indossare l’elmetto sono stati i magistrati progressisti di Area. “La riforma dell’ordinamento giudiziario che il governo ha presentato al Parlamento contiene profili devastanti per l’indipendenza e l’autonomia della magistratura”, esordiscono le ex toghe rosse, sottolineando che quello che le spinge ad intervenire “è la consapevolezza dei danni che questa riforma provocherà ai cittadini che chiedono giustizia”.
Nel mirino le famigerate schede di valutazione professionale, le pagelle, con cui si valuteranno le performance dei pm che arrestano gli innocenti. “Non è vero – proseguono le toghe di Area – che la riforma restituirà efficienza alla giustizia: al contrario, prevedendo la valutazione con imbarazzanti pagelline e l’utilizzazione di standard individuali di produttività determinati dal capo dell’ufficio per ciascun magistrato, indurrà i magistrati ad assumere decisioni frettolose e tendenzialmente uniformi, riproduttive dei precedenti”. Il motivo di questo appiattimento sarebbe dovuto al fatto che “nessun magistrato potrà più dedicarsi a decidere con attenzione le questioni più complesse e, per rispettare la produttività che gli è stata imposta, sarà costretto a prendere la decisione più facile anziché quella più giusta”. E poi: “Non è accettabile che la professionalità del magistrato sia valutata dalla tenuta dei suoi provvedimenti nei gradi successivi di giudizio, perché non c’è alcuna garanzia che la pronuncia successiva sia più giusta di quella precedente”.
L’invito, dunque, è rivolto al vertice dell’Anm affinché indichi “ogni possibile forma di protesta e convochi un’assemblea straordinaria, da tenere contemporaneamente ad una giornata di sciopero, in cui spiegare ai cittadini le plurime aggressioni che questa riforma porta ai loro diritti”. Non poteva mancare una frecciata alla ministra Cartabia: “Abbiamo lealmente offerto il nostro contributo in ogni sede ed abbiamo partecipato a ogni convocazione, ma dobbiamo constatare che chi ci riceveva voleva solo adempiere ad un obbligo formale, senza alcuna reale intenzione di ascoltarci”. “Non è una difesa di corporazione perché non cambierebbe nulla, per noi: ci basterebbe adeguarci al volere dei superiori, con buona pace di chi ci chiede giustizia”, concludono allora le toghe di Area. Oltre alle pagelle lo scontro ha interessato ieri l’ipotesi, a cui stanno lavorando gli uffici di via Arenula, di innalzare l’età pensionabile dei magistrati da 70 a 72 anni, con la motivazione di portate a compimento il Pnrr.
La modifica, sondata dal sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto (FI) e però bocciata da tutti i partiti di centro destra, avrebbe come immediata conseguenza quella di trattenere in servizio i vertici della Corte di Cassazione, il primo presidente Pietro Curzio ed il pg Giovanni Salvi. Quest’ultimo, in particolare, in pensione per raggiunti limiti di età dal prossimo 9 luglio. A salire sulle barricare questa volta le toghe di destra di Magistratura indipendente. “L’età di pensionamento dei magistrati viene utilizzata come una fisarmonica, innalzandola e abbassandola a seconda delle convenienze del caso concreto”, ha affermato il segretario nazionale di Magistratura indipendente, il giudice della Corte d’Appello di Palermo Angelo Piraino.
“Trattenendo in servizio i magistrati più anziani non si risolve il problema dei vuoti di organico della magistratura, perché questi vuoti affliggono soprattutto gli uffici di primo grado e di frontiera, dove sono disposti a lavorare solo magistrati con minore anzianità”. Piraino ha poi fatto un esempio di strategia militare: “Per vincere le battaglie c’è bisogno di più soldati, non di più generali”. Sentendosi tirato in ballo, Salvi, toga progressista, ha preso ieri la parola durante il Plenum del Csm per chiarire la propria posizione. “Non avevo alcuna conoscenza e non ho avuto alcuna interlocuzione, ho saputo da mezzi di stampa. Non ne sapevo nulla e devo dire che non sono nemmeno interessato”, il commento di Salvi, che poi ha aggiunto: “Mi rammarico per il fatto che il dibattito pubblico sulla giustizia sia così povero e rancoroso”. Paolo Comi
Magistrati tra faccia tosta e barbarie. Matilde Siracusano su Il Riformista il 13 Aprile 2022.
Stiamo assistendo a quello che viene comunemente definito paradosso. E cioè, nonostante la tanto attesa riforma del CSM, necessaria come il pane, risulti estremamente moderata a causa dei difficilissimi, quasi impossibili, equilibri di questa maggioranza, che si traducono inevitabilmente in compromessi al ribasso, le toghe si permettono pure di minacciare lo sciopero. C’è da rimanere davvero esterrefatti, mentre ci si rende conto che i magistrati proprio non riescono ad accettare che qualcuno fuori dalla loro ristrettissima cerchia possa mettere il becco sui loro affari.
Quindi, o non hanno compreso quello che è successo nel Paese negli ultimi decenni, vivendo in una realtà parallela, o l’unico loro interesse manifestato ormai senza alcun pudore rimane quello di preservare i privilegi, ma quelli veri e propri delle caste. Evidentemente la prassi di questi ultimi decenni ha generato un po’ di confusione mentale, tanto da far ritenere ai magistrati di essere titolari non solo del potere giudiziario ma anche di quello legislativo, e perché no anche esecutivo, tanto da mostrarsi naturalmente sconvolti nell’assistere all’approvazione di leggi che intaccano, anche se minimamente, il loro sistema. Toccherebbe, invece, organizzare rivoluzioni del buon senso per riaffermare un sacrosanto principio sancito dalla Costituzione e proprio di tutte le democrazie, secondo il quale il potere legislativo è tassativamente separato da quello giudiziario, da cui non può essere condizionato, come invece è accaduto in Italia praticamente di continuo dal ‘92 ad oggi. Per l’appunto, è davvero sconvolgente che l’Anm si ribelli per l’applicazione di qualche criteriuccio anche piuttosto elementare sulle valutazioni di professionalità dei magistrati.
Ci vuole un coraggio barbaro per rivendicare palesemente la pretesa di non essere mai giudicati per i propri errori, anche dopo aver collezionato una serie di insuccessi che hanno determinato la rovina della vita di centinaia di migliaia di persone. Finalmente, oggi qualcuno si è reso conto che le pagelle, sempre e comunque eccellenti (il 99,6%) siano state praticamente una farsa e che l’inserimento di qualche criterio per una valutazione oggettiva sia nell’interesse dei cittadini, ma anche degli stessi magistrati. È vero, le riforme del ministro Cartabia potevano e dovevano forse essere più coraggiose, ma il paradosso al quale stiamo assistendo dimostra che almeno questo governo ha avviato la chiusura della stagione dei veti della magistratura sulle altre istituzioni, veti che hanno causato disastri su disastri, spesso purtroppo irreparabili. Matilde Siracusano
Sabino Cassese per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2022.
Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, scrisse il suo famoso libro nel 1748. Era nato nel 1689 e morì nel 1755. Visse, quindi, per 26 anni sotto il regno del Roi Soleil, Luigi XIV, che durò 72 anni.
In quel tempo si rese conto che chi ha il potere è portato ad abusarne. Nel capitolo 6 del libro XI della sua opera illustrò la separazione dei poteri perché «il potere potesse limitare il potere».
Influenzato da Montesquieu, il costituente americano Alexander Hamilton scrisse che il potere giudiziario è il meno pericoloso perché non controlla le forze armate e il bilancio. Quella separazione dei poteri è ora tradita, come è stato osservato, dall'espansione del potere giudiziario in Italia, «una società amministrata dalla giustizia penale», che ha «l'ambizione alla popolarità» ed è circondata da un «alone mediatico».
Di qui una «crisi di effettività e di autorevolezza della giurisdizione», alimentata anche dal «dato inconfutabile della irragionevole durata del processo italiano», nonché «da deprecabili episodi di illegittima diffusione di dati lesivi della dignità e riservatezza e della presunzione di innocenza della persona».
Dinanzi a questo fenomeno, gli italiani si sono divisi tra i cosiddetti giustizialisti e i cosiddetti garantisti. L'Eurobarometro segnala l'Italia tra i Paesi in cui l'indipendenza del sistema giudiziario è considerata negativamente e indica che il grado di fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario è del 37% mentre per la polizia e l'esercito è al 64%.
Questa analisi ha mostrato che il governo dei giudici in Italia ha assunto caratteristiche diverse rispetto ad altri Paesi perché è più pervasivo. La magistratura è più presente nello spazio pubblico e meno capace di dare giustizia, ma si sente investita della delega sociale al controllo della virtù e si vale di un'opinione pubblica sensibilizzata, per utilizzare il naming and shaming.
Le procure hanno maggiori poteri. Il corpo politico è recessivo, anche se, talora, strumentalizza la magistratura. La macchina della giustizia italiana è inadeguata a far fronte all'esplosione del diritto degli ultimi decenni e lascia la crescente domanda di giustizia insoddisfatta.
Le cause iscritte e quelle pendenti sono troppe. La durata media dei processi è tra le più alte in Europa. Per questo, l'Italia è continuamente sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, la fiducia degli italiani nell'affidabilità del ricorso alla giustizia è nettamente inferiore alla media europea, la maggioranza degli italiani è convinta che i giudici non siano imparziali, molte multinazionali sono restie dall'investire in Italia.
Questa situazione ha gravi conseguenze sull'intero sistema istituzionale e sui rapporti tra Stato e cittadino. Infatti, le norme diventano realtà con l'intervento dei giudici, che sono l'anello che chiude la catena del sistema giuridico.
Sono le corti che debbono assicurare, in ultima istanza, il rispetto del diritto. Ma giustizia ritardata è giustizia negata. Dal che conseguono l'impunità, la fuga dalla giustizia (arbitrati) e l'adattamento all'illegalità (il condominio rinuncia a portare in giudizio il condomino moroso, se sa che occorreranno anni per ottenere giustizia).
Insomma, l'insufficienza grave dell'intera macchina giudiziaria produce effetti che si ripercuotono sull'intero vivere civile, impediscono o rallentano gli investimenti, disabituano a quel severo minimo di governo che è necessario in ogni società, inducono a comportamenti illegali e incentivano la lawlessness.
Un altro paradosso è quello di un corpo giudiziario composto da persone mediamente ben preparate, ma chiuso in sé stesso, corporativo, che non riesce a trovare nella sua esperienza le idee per correggersi e che pare incapace di far maturare proposte di ordinamenti migliori e di dialogare con la cultura, le professioni, il mondo politico.
Il corpo si compone di persone laboriose e di «sfaticati», di pochi ciarlieri e molti silenziosi, di difensori a spada tratta del diritto di non essere né misurati né valutati, e di pragmatici programmatori.
Di qui una grande varietà tra corti e tribunali, anche con molti divari territoriali. Nell'attività rivolta all'esterno sono continue le interferenze della minoranza rumorosa con l'attività normativa dell'altro corpo dello Stato, quello legislativo, interferenze rafforzate da continui «appelli al popolo» in nome dell'onestà e di altre virtù.
Simmetricamente, si registra una progressiva resa dell'autorità politico-legislativa al corpo dei magistrati (specialmente a quelli dell'accusa), resa che si sostanzia nella riduzione del perimetro dell'immunità riservata in origine dalla Costituzione ai parlamentari, in un allargamento legislativo del perimetro del diritto penale (ad esempio, con la creazione di nuove figure di reato) e in una tendenza del potere esecutivo e del presidente della Repubblica a disinteressarsi dell'organizzazione e del funzionamento della magistratura e della gestione del relativo personale.
Quello che la Costituzione definisce «ordine» è divenuto «potere». Al compito di dare giustizia si affianca quello di predicare le virtù. In conclusione, l'ordine giudiziario ha acquisito un ruolo diverso da quello prefigurato nella Costituzione.
Nel 1948, si pensava a un corpo che amministrasse la giustizia, difeso da possibili interventi esterni, grazie alla sua indipendenza. Domanda di giustizia, debolezze del corpo politico, interesse di quest'ultimo a sfruttare l'indipendenza della magistratura, chiusura corporativa hanno, invece, modificato la «Costituzione materiale»: la magistratura ha fatto nello stesso tempo troppo poco e troppo.
Troppo poco per l'enorme domanda di giustizia insoddisfatta e per la fuga dalla giustizia; troppo per la politicizzazione endogena del corpo dei magistrati (o almeno di quelli di essi più attivi) e per il posto nuovo da essi occupato sia nell'opinione pubblica, sia tra le forze politiche: nell'opinione pubblica, nel senso di avere nutrito un'attesa di giustizieri e una delusione di giustizia, nelle forze politiche, nel senso di condizionarne l'agenda.
Il posto, quindi, della magistratura nella Costituzione materiale è ben diverso da quello prefigurato dalla Costituzione formale. In Italia, come in altri Paesi, il potere giudiziario ha acquisito, nel corso della storia repubblicana, un ruolo importante nel sistema politico-costituzionale, a danno degli altri due poteri dello Stato.
Ma il modo in cui questo processo è avvenuto e i risultati prodotti sono diversi. In Italia, più che gli organi giudicanti, hanno guadagnato prominenza quelli dell'accusa, mentre invece, a causa dei loro ritardi, i primi hanno visto arretrare il proprio ruolo (un esempio è la fuga dalla giustizia).
In Italia, la prominenza è avvenuta non grazie alla giudiziarizzazione, ma piuttosto a causa di un diverso meccanismo, che segue una strada diversa e in un certo senso alternativa, quello di naming and shaming. In Italia, la prominenza acquisita dal corpo dei magistrati è andata a discapito della loro indipendenza, a causa della politicizzazione endogena che ha prodotto.
(ANSA l'11 aprile 2022) - "Manteniamo i nostri emendamenti ". Così ha risposto Cosimo Ferri all'Ansa entrando in Commissione Giustizia, rispondendo alla domanda se Iv avrebbe o meno ritirato i propri emendamenti alla riforma del Csm.
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” l'11 aprile 2022.
Al tavolo della riforma del Csm Cosimo Ferri rappresenta Iv per discutere modifiche che dovrebbero servire a superare le «degenerazioni del correntismo» nell'organo di autogoverno delle toghe.
Proprio lui che ne fece parte da leader indiscusso del gruppo conservatore Magistratura indipendente, ruolo che non ha smesso di esercitare nemmeno quando è entrato nel governo Letta nel 2013 (in quota FI) come sottosegretario alla Giustizia e successivamente da parlamentare pd renziano, successivamente transitato in Iv.
Almeno fino al 2019, quando la microspia attivata nel telefono di Luca Palamara l'ha sorpreso a concordare con l'intercettato, l'altro deputato Luca Lotti e alcuni componenti del Csm la nomina del procuratore di Roma.
Vicenda per la quale è tuttora sotto procedimento disciplinare davanti al Csm. Ieri Ferri ha criticato l'intesa raggiunta nella maggioranza perché «mina l'indipendenza interna della magistratura e rafforza il peso delle correnti». Se anche fosse vero, verrebbe da chiedersi inevitabilmente «da che pulpito».
Quando il gruppo delle toghe progressiste di Area ha sottolineato un possibile conflitto d'interessi, ha risposto denunciando la «gravissima interferenza» sulle sue prerogative, chiedendo l'intervento del presidente della Camera.
Tuttavia nessuno mette in dubbio il diritto di un parlamentare a svolgere il proprio lavoro (quale però: l'attuale o il precedente?) come meglio ritiene. È solo questione di credibilità e opportunità. Uno dei paradossi preferiti da Matteo Renzi per stigmatizzare le scelte di persone sbagliate al posto sbagliato (secondo lui) è il paragone con il principe dei vampiri: «È come mettere Dracula alla guida della banca del sangue».
Lo dice spesso, ma c'è da chiedersi perché non gli sia venuto in mente quando ha delegato il giudice-deputato a discutere la riforma. Del resto nel 2014, da sottosegretario confermato da Renzi nel suo governo, Ferri non esitò a fare campagna elettorale per due candidati al Csm della sua corrente. Sul momento l'ex premier commentò che era «indifendibile», poi non accadde nulla. Come oggi.
Nicola Barone per ilsole24ore.com l'11 aprile 2022.
Raggiunta un’intesa “tecnica” di massima grazie al lavoro paziente di mediazione della ministra Cartabia, sulla riforma della giustizia si è aperto lo scontro più strettamente politico. Sono i meccanismi di elezione del Csm e la revisione dei passaggi all’interno dell’ordinamento giudiziario a turbare la navigazione tranquilla della maggioranza ora anche il segretario del Pd mette in guardia dai pericoli che comporta il continuo rialzo dell’asticella da parte di «forze politiche che annusano le elezioni con troppo anticipo».
Da M5S e Pd pressing per chiudere
L’accordo di maggioranza prevede che tutti i partiti ritirino gli emendamenti non concordati e che si voti secondo il parere del governo. Se verranno rispettati i patti la commissione riuscirebbe a concludere il lavoro in tempo per portare il testo in aula il 19 aprile, visto che resterebbero da votare solo gli emendamenti dell’opposizione.
Per ora Italia Viva ha detto che non ritirerà le proprie proposte di modifica, mentre si attende di capire la decisione della Lega. Anche il M5S, dopo settimane di pressione sul governo, ora chiede responsabilità sulla riforma della giustizia. «Noi abbiamo detto alla ministra Cartabia che se questo è l’accordo tecnico sulla riforma noi ci stiamo ma serve un chiarimento politico, altrimenti, se si aprono scenari diversi, la riforma è rischio», avvertiva il relatore pentastellato Eugenio Saitta.
Verso i referendum
Se da parte del governo, assicura il sottosegretario Francesco Paolo Sisto c’è «massima soddisfazione» per l’intesa raggiunta sulla giustizia, anche la Lega appare tuttavia dialogante.
«La riforma Cartabia è un buon punto di mediazione tra partiti che hanno sensibilità assolutamente diverse sulla giustizia» ripete Giulia Bongiorno nel rilanciare però i referendum come la «vera strada del cambiamento».
È quello l’obiettivo più “di bandiera” del Carroccio. «Noi stiamo lavorando anche sulla riforma della giustizia aiutando il ministro Cartabia al meglio per sradicare le correnti, togliere la politica, i partiti, le lottizzazioni dai tribunali. E quindi spero che tutti in Parlamento abbiano la stessa volontà, il 12 giugno c'è un appuntamento importantissimo, quello con i referendum, lì saranno tutti gli italiani a poter cambiare».
Cosa chiedono Lega e Italia Viva
Italia Viva intende infatti discutere le sue proposte in commissione. La questione resta quella del sistema elettorale. L’accordo raggiunto dalla maggioranza prevede un sorteggio delle Corti d’appello per andare a formare i collegi elettorali: il sistema resta maggioritario binominale con un correttivo proporzionale. Ma non basta a Iv che vuole un sistema elettorale a sorteggio temperato.
«È l’ unica strada per un cambio di passo», ha avvertito Cosimo Ferri che nella sostanza rimprovera al governo di non voler risolvere alla radice il nodo delle correnti. Lanciando una proposta alternativa per cercare una «soluzione idonea a rappresentare anche le voci della magistratura silenziose e indipendenti.
E cioè un sistema proporzionale puro». Si tratta di una proposta su cui ci sarebbe anche una certa apertura del M5S. Quanto alla Lega, invece, il problema è sulla separazione delle funzioni. L’ultima versione del testo di riforma prevede che sia possibile solo una volta nella carriera di un magistrato cambiare funzioni da giudice a pm e viceversa. La scelta andrà fatta entro un arco temporale di dieci anni, ma il limite non varrà se le funzioni sono esercitate nel settore civile.
"I magistrati? Sono troppo conservatori". Pasquale Napolitano il 12 Aprile 2022 su Il Giornale.
L'ex presidente della Camera: "Porre la fiducia sulla giustizia è un errore".
L'ex presidente della Camera Luciano Violante, un passato da magistrato, oggi a capo della fondazione Leonardo, va subito al cuore del problema: «Nella magistratura c'è un inaccettabile conservatorismo».
La riforma Cartabia la convince?
«Stimo il ministro, è una giurista eccellente che opera nelle condizioni date. Ma le questioni di fondo riguardano la governance complessiva della istituzione giudiziaria, non gli idoli costruiti da una parte e dall'altra in trent'anni di scontri. Non vedo alcuna utilità, ad esempio, nelle pagelle dei magistrati. Sarei invece per introdurre dopo quattro anni un secondo esame per i magistrati condotto da una commissione esterna al Csm. Basta una legge ordinaria. E che per gli avanzamenti si tenga conto dell'esito dell'esame».
Perché quattro anni?
«In quattro anni si costruisce una personalità professionale; se sei stato serio per quattro anni, non farai il pirla dal quinto anno in poi. Non bisogna affrontare la questione con un approccio vendicativo, punitivo. Il Parlamento perderebbe una grande occasione se non approfittasse per ristrutturare il sistema».
Ora o nella prossima legislatura?
«Ora. Se vogliono, possono farlo. Il Parlamento deve esercitare la propria sovranità per ridisegnare l'assetto della magistratura. Capisco, può sembrare una voce nel deserto. Ma abbiamo tutti il dovere di invitare il Parlamento ad esercitare sovranità».
Sovranità anche rispetto ai referendum del 12 giugno?
«Credo nello strumento del referendum. Ma alcuni quesiti appaiono vendicativi. E per di più sono proposti da partiti che potevano fare la battaglia in Parlamento. Ritengo invece giusto il quesito sulla cosiddetta Legge Severino. Ci sono intelligenze e culture in Parlamento, persone preparate, sanno di cosa parliamo».
E le novità sulla separazione delle carriere?
«In Francia, dove il pubblico ministero dipende dall'esecutivo, è un titolo di merito aver svolto alternativamente funzioni inquirenti e giudicanti. In Germania lo stesso, almeno per i vertici. Persino in paesi in cui il pubblico ministero è vincolato alle direttive dell'esecutivo sono considerati qualificanti i passaggi. L'arricchimento professionale è fondamentale. Proibirlo è sbagliato. Forse dare subito un incarico collegiale sarebbe utile per permettere di imparare i fondamentali della professione dai colleghi più esperti e non sulla pelle dei cittadini».
Sul sorteggio dei collegi?
«Dal 1990 al 2002 c'è già stato. È un favore alle correnti più organizzate e alle grandi corti d'Appello. Se un collegio di Brescia è sorteggiato con quello di Ancona e Reggio Calabria, il candidato di uno di questi collegi come fa a farsi conoscere e votare? Solo attraverso le correnti».
Chi non vuole una vera riforma della giustizia?
«Nella magistratura c'è un inaccettabile conservatorismo, c'è la tendenza a difendere lo status quo. E si finisce con perdere il diritto ad intervenire».
Dunque, bisogna insistere. Da dove partirebbe il presidente Violante?
«Io sono perché il vicepresidente del Csm venga nominato dal capo dello Stato e non eletto».
Perché?
«Oggi lo elegge il Csm, cioè i magistrati, che ne costituiscono i due terzi. Si rende dunque necessaria una contrattazione tra i candidati e le correnti. Se devo essere eletto dai 2/3 è chiaro che parlo con chi mi deve eleggere. Sono loro che decidono. Seconda questione. Occorre un'Alta corte chi sia giudice di ricorso per le sentenze disciplinari e le decisioni amministrative, per tutte le magistrature: ordinaria, amministrativa, contabile, fiscale, militare.
Il governo rischia sulla riforma della giustizia?
«Non credo. Abbiamo una guerra feroce poco lontano da noi. Sarebbe da irresponsabili. I leader giustamente chiedono che non si ponga la fiducia sulla giustizia. È un giusto esigere il rispetto della sovranità Parlamento. Ma questa sovranità non potrebbe essere esercitata ad un livello più alto?».
Secondo lei Draghi è al capolinea. È concreta l'ipotesi che getti la spugna?
«Penso siano chiacchiere».
Dagli incarichi al "fascicolo": ora le toghe contano di meno. Luca Fazzo il 13 Aprile 2022 su Il Giornale.
La riforma Cartabia limita il potere delle correnti e introduce la valutazione. E i magistrati protestano.
E se alla fine a fare paura ai magistrati italiani (o, più precisamente, alle loro correnti organizzate) fosse soprattutto la paura di tornare a fare solo e soltanto i magistrati?
Il dubbio, andando a frugare nel fuoco di fila di polemiche con cui dall'interno dell'Associazione nazionale magistrati viene bersagliata in questi giorni la riforma portata avanti dal ministro Marta Cartabia, nasce spontaneo. A guidare la protesta, ventilando lo sciopero generale come arma finale, sono i due gruppi più radicali dell'Anm, Area (ovvero la sinistra) e Autonomia e Indipendenza, il gruppo di ispirazione travagliesca fondato da Piercamillo Davigo. Ma anche nei settori più moderati, Unicost e Magistratura Indipendente, la fronda contro la riforma Cartabia è esplicita. Nel mirino due norme in particolare, la cosiddetta «gerarchizzazione» delle Procure e il fascicolo di valutazione del magistrato (che il deputato di Azione! Enrico Costa ha efficacemente ribattezzato «fascicolo delle performance»).
Dentro il testo che si avvia (forse) a essere approvato c'è in realtà anche dell'altro: che toglie potere non tanto ai singoli magistrati quanto alle cordate finora hanno spadroneggiato nel Csm, perché prevede che le nomine delle cariche vengano fatte una per una e in rigoroso ordine cronologico, per eliminare la prassi delle nomine «a pacchetto», fatte tutte in una volta con rigorosa spartizione tra le correnti. Non basterà a fare del merito l'unico criterio, ma renderà più difficili gli accordi sottobanco. È questo a fare paura?
Ma lo scontro forse più significativo è sul fascicolo di valutazione del magistrato. Per il ministro servirà non a evidenziare la statistica dei processi vinti e persi, ma solo «significative anomalie». Ripetuti arresti ingiustificati, condanne sistematicamente annullate, insomma. Secondo la sinistra di Area la conseguenza sarà la «burocratizzazione della giustizia», «la giurisprudenza dei gradi inferiori si attesterà su quella dei gradi superiori». In questo modo, dice Area, i giudici non potranno più essere un motore di trasformazione delle norme, dovranno limitarsi per paura di sanzioni a applicarle senza andare oltre di esse con interpretazioni avanzate.
Area fa due esempi, l'utilizzo delle droghe leggere e il suicidio assistito, in cui i magistrati hanno portato a modificare la legge: dando per scontato e meritevole che tra i compiti dei magistrati non ci sia solo applicare le norme ma anche essere motore di trasformazione come meritoriamente accaduto per il riconoscimento del danno biologico (salvo abiurare a questa missione per timore di ripercussioni sulla carriera).
Che una certa riluttanza a stare chiusi nel ruolo sia tra i veri motivi di dissenso lo dicono altre due battaglie condotte in queste ore dalle correnti delle toghe. Una è quella (vincente, a quanto pare) sulla possibilità di accumulare indennità per i doppi incarichi: una battaglia la cui portata si capisce solo sapendo che anche tali ben retribuiti incarichi vengono finora gestiti dalle correnti secondo spartizione precise, generando un sistema di potere e di riconoscenza. L'altra è quella (per ora perdente) contro la norma che consentirebbe nell'arco della carriera lavorativa un solo passaggio dal ruolo di accusatore a quello di giudice, o viceversa. È una norma che per le toghe prefigura la separazione definitiva delle due carriere, che minerebbe la cosiddetta «cultura della giurisdizione». In realtà, come ricordava due giorni fa Gian Domenico Caiazza in una intervista al Riformista, da quando la riforma Castelli ha sancito l'obbligo di cambiare distretto, i casi di passaggio di funzioni si sono ridotti al lumicino: il 2 per cento.
Davanti all'incubo del trasloco, la cultura della giurisdizione può aspettare. Ma alla battaglia di principio l'Anm non rinuncia.
La categoria deve cambiare. Magistrati e correnti: toghe alla resa dei conti. Viviana Lanza su Il Riformista il 26 Aprile 2022.
Riforma della giustizia, crisi della magistratura, correnti e organi di autogoverno, tribunali ingolfati e innocenti in carcere. I temi sono vari e tutti serissimi quando si affronta l’argomento giustizia. La Camera penale di Napoli ha organizzato giorni fa un convegno per discutere, partendo dal libro dell’ex pm Carlo Nordio su “Giustizia, ultimo atto”, di criticità e interventi da adottare. «Oggi la magistratura italiana sta vivendo una profonda crisi di legittimazione, forse la più grave della sua storia – sottolinea l’avvocato Marco Campora, presidente della Camera penale di Napoli – . Lo dico con rispetto per i magistrati ma con profonda preoccupazione. Qui non si tratta del singolo magistrato messo in discussione, ma di un intero ordinamento».
«In Italia – aggiunge – abbiamo problemi seri, ci sono sei milioni di procedure arretrate. Ci dobbiamo confrontare con questi numeri per parlare di riforme, di crisi della magistratura, di crisi del sistema giudiziario nel suo complesso. Basti pensare ai numeri dei procedimenti pendenti dinanzi alla Corte d’appello di Napoli, numeri enormi che danno vita a una profonda ingiustizia, perché ci sono processi fissati a distanza di molti anni e quindi sia in caso di assoluzione sia in caso di condanna si finisce per essere in presenza di ingiustizie. Nel primo caso vi saranno vite spezzate, mentre in caso di condanna si apriranno le porte del carcere per un soggetto che magari è completamente cambiato rispetto al momento della commissione del fatto». Al convegno sono presenti, tra gli altri, il procuratore generale Luigi Riello, e il capo della Procura di Napoli, Gianni Melillo. Riello critica l’atteggiamento ectoplasmatico dell’Anm «che reagisce solo se attaccata ma non costruisce valori» e invoca «una magistratura affrancata da lacci e laccioli e una riforma strutturale della giustizia che non si fa né con interventi punitivi né con sorteggi né con interventi a punti».
Melillo ritiene che non sia questo il clima in cui fare riforme e sottolinea l’importanza di ritrovare valori di coesione e solidarietà: «Battibecchi, contrapposizioni, crisi della magistratura non si possono risolvere con micro interventi spot su singoli frammenti processuali o ordinamenti. Le riforme della giustizia devono farsi tenendo come punto di vista dominante quello del cittadino che esige osservanza di canoni istituzionali che vanno riscoperti e valorizzati, vale a dire efficienza, onore, disciplina, trasparenza». Ma è il presidente dei penalisti napoletani a mettere il dito nelle piaghe più profonde e puntare l’attenzione su poteri e funzioni dei magistrati. «Abbiamo 200 magistrati che continuano ad occupare le stanze dei Ministeri e in particolare le stanze del Ministero della giustizia, con funzioni meramente amministrative. È su questo che le riforme si devono concentrare», afferma Campora. La riforma Cartabia e i referendum in atto sono interventi. «Ma non bastano – aggiunge – per restituire credibilità ai magistrati nei confronti dei cittadini, per restituire credibilità al sistema giustizia».
Qual è il problema più serio? «Il problema è che il giudice terzo si è completamente smarrito – sottolinea il presidente della Camera penale nel suo intervento al convegno – e assistiamo sovente a sentenze di condanna a pene di gran lunga superiori a quelle richieste dalla pubblica accusa. Questo probabilmente perché nel tempo le Procure sono cresciute, anche grazie al confronto dialettico con avvocatura e politica. Il vero tema centrale, quindi, è il giudice preso dall’ansia di smaltire gli arretrati a tutti costi, anche sacrificando garanzie e qualità della giurisdizione». Altro problema i continui cambi di collegio che incidono sui tempi del processo.
«Non è possibile che in processi complessi, con numerose udienze, si assista a mutamenti dei collegi continui per consentire ai magistrati il passaggio da un ruolo all’altro, da una sezione o da una funzione ad un’altra. La riforma dell’ordinamento giudiziario e il problema del sistema elettorale del Csm non sono il tema centrale – conclude Campora – . Per incidere realmente sulla macchina della giustizia bisognerebbe innanzitutto guardare alla terzierà dei giudici perché parliamo di gigantismo dei pm, di strapotere delle Procure della Repubblica. La soluzione per incidere sui tempi del processo è rafforzare il dibattimento e arrivare a sentenza in tempi rapidi così da rendere anche superfluo l’eccessivo utilizzo delle misure cautelari che abbiamo avuto e continuiamo ad avere. Accorciando i tempi del processo si potrebbe pensare anche ad eliminare le misure cautelari. Del resto, l’indagine Eurispes, mai smentita né dalla magistratura né dalla politica, ha confermato che le lungaggini dei processi non dipendono da mezzucci degli avvocati ma da cause legate a motivi e responsabilità dei magistrati». Quindi, per concludere, per la Camera penale la riforma dovrebbe passare per un potenziamento della figura del giudice terzo, una responsabilizzazione dei magistrati attraverso profili valutativi più stringenti e rigidi, abolizione dei magistrati fuori ruolo per evitare confusione di funzioni e colmare i vuoti negli organici dei palazzi di Giustizia.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
La riforma giustizia. Riforma Csm, Di Matteo contro lo sciopero delle toghe: “I cittadini non capirebbero”. Redazione su Il Riformista il 26 Aprile 2022.
«I cittadini non capirebbero lo sciopero: i magistrati devono avere il coraggio di spiegare i profili pericolosi della riforma. Non possiamo scaricare sui cittadini un ulteriore fattore di disservizio». Lo ha dichiarato ieri il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo, in una intervista al GrRadioRai, parlando della riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm che oggi sarà sottoposta al voto dell’Aula della Camera.
«Questa riforma – ha proseguito Di Matteo – ha un aspetto di inutilità e un aspetto di pericoloso ritorno a un passato in cui l’indipendenza e l’autonomia della magistratura non erano valori assoluti». Il sistema, delineato dalla riforma, sulle elezioni dei togati a Palazzo dei Marescialli, ha ribadito Di Matteo, «non elimina quel rischio che siano le correnti della magistratura ad individuare i candidati». Inoltre, ha aggiunto, «mi sembra che questa riforma Cartabia obbedisca alla finalità di fondo di rendere la magistratura sempre più collaterale e servente rispetto agli altri poteri e che auspichi la figura di un magistrato burocrate, attento, più che a fare giustizia, a cercare il gradimento dei propri dirigenti e degli avvocati, a tenere le carte a posto».
Csm, Spataro: «No allo sciopero, ma la riforma non risolve il caso Palamara». Il Dubbio il 27 aprile 2022. L'ex procuratore capo di Torino in un'intervista approva la linea del ministro della Giustizia che non ha accettato compromessi sul sorteggio: «Sarebbe stata una vergogna incostituzionale». E ad Enrico Costa dice: «Forse non conosce a fondo le dinamiche processuali».
«Sono in pensione da tre anni, ma d’accordo con colleghi che stimo, non condivido l’idea di uno sciopero: la riforma Cartabia non ha nulla a che fare con quelle contro cui abbiamo duramente protestato. Serve un confronto forte ma ragionato, ma non parliamo di rischi di rompersi il collo». Lo afferma Armando Spataro, ex procuratore di Torino, in un’intervista al quotidiano La Repubblica.
Spataro ha girato l’Italia contro leggi sbagliate come la riforma costituzionale di Renzi. «Lo sto facendo a sostegno del no ai quesiti referendari di Lega e radicali. Ma questa riforma non mi suggerisce la necessità di impegni “contro”, ma di impegni ‘per far capire’ quanto inutili e dannose siano certe norme ipotizzate – continua Spataro – I compromessi tra opposti schieramenti politici, specie in caso di maggioranze fluttuanti, fanno parte del gioco. Ma non tutto si può accettare, e credo che la coerenza rispetto ai principi dichiarati sia la virtù primaria, anche a costo di perdere pezzi di consenso popolare e populista».
Sulla riforma e il caso Palamara, Spataro dice che «non risolve tutti i problemi emersi con quella vicenda che ha intaccato la credibilità della magistratura». E sulla presenza di Ferri alla trattativa sulla giustizia l’ex procuratore di Torino afferma che «la giudico inaccettabile sul piano politico e dei possibili risultati. Sono anche stupito dal fatto che, mentre i magistrati coinvolti nella vicenda dell’Hotel Champagne, al di là dei procedimenti penali ancora in corso, sono stati sottoposti a procedure disciplinari e alcuni già sanzionati, ciò non è avvenuto per i politici pure presenti a certi incontri. Eppure anche i partiti conoscono codici etici e disciplinari interni». Il sorteggio? «Sarebbe stata solo una vergogna incostituzionale, da chiunque sostenuta. La ministra Cartabia e alcune forze politiche non hanno accettato il dialogo sul punto. Bravi».
Il fascicolo per valutare i magistrati: «Con tutto il rispetto, forse Costa non conosce a fondo le dinamiche processuali e l’organizzazione giudiziaria. Il dissenso e la pluralità di opinioni sono la regola nel nostro sistema che non a caso prevede tre gradi di giudizio». In merito alla separazione delle carriere Spataro spiega che «un solo passaggio finirebbe con l’introdurre una sostanziale separazione delle carriere, peraltro inutile e irrilevante: i dati tra giugno 2016 e 2019 rivelano solo 80 passaggi da pm a giudice e 41 da giudice a pm. Tendenza immutata nel triennio successivo. Forse la norma potrebbe ragionevolmente impedire il noto referendum abrogativo». Mentre le “porte girevoli”: «È una soluzione rigorosa, ma accettabile. Si evita un danno di immagine quanto a indipendenza e imparzialità per l’intera categoria». (adnkronos)
Sicuri che lo sciopero politico dell’Anm sia davvero legittimo? La mobilitazione delle toghe contro le riforme ha dichiaratamente a oggetto la contestazione di un indirizzo di politica giudiziaria. Giovanni Guzzetta su Il Dubbio il 19 aprile 2022.
Il livello di scontro tra magistratura (associata) e politica ha ormai raggiunto livelli drammatici. Da un lato, governo e parlamento, che sulla giustizia si giocano gran parte della propria credibilità interna e europea (la riforma è uno dei capisaldi del PNRR). Dall’altro la magistratura, che si esprime attraverso l’associazione di categoria, rappresentativa – in termini di iscritti – della quasi totalità dei magistrati. Sullo sfondo i referendum sulla giustizia del 12 giugno.
La tensione è così alta che l’Anm minaccia di proclamare uno sciopero, o come si dice, con un’espressione non priva di understatement, un’astensione dall’esercizio dell’attività giurisdizionale. L’inquadramento dello sciopero dei magistrati nella cornice costituzionale ha provocato vivaci dibattiti, non solo tra i costituzionalisti. Fatto sta che ormai da anni accade che scioperi vengano proclamati, tanto che la Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali ha “valutato idoneo” un codice di autoregolamentazione redatto dall’Anm, il quale ne disciplina le modalità di svolgimento, proprio al fine di garantire le prestazioni essenziali anche durante l’astensione. Che, per dirne una, “non è consentita nei procedimenti e processi con imputati detenuti”.
Qualche interrogativo però resta. Non si tratta, infatti, in questo caso dello sciopero in senso classico, inteso come strumento di rivendicazione legato al rapporto di lavoro e ai suoi profili giuridico-economici. E’ sufficiente esaminare le pronunzie dell’Anm o leggere le interviste dei suoi vertici, per comprendere che la mobilitazione di cui si parla ha dichiaratamente a oggetto la contestazione di un indirizzo di politica giudiziaria. Questo è dunque, tecnicamente, uno sciopero politico. Non nel senso partitico, ovviamente, ma nel senso che si contestano delle scelte politiche, proprio in quanto scelte politiche. Le motivazioni di queste contestazioni sono argomentate dall’Anm nei termini di una difesa, se non della lettera, quantomeno dello spirito della Costituzione. Ma le motivazioni, ammesso che siano tutte fondate, non cancellano il fatto che la contestazione avvenga nelle forme di una iniziativa che, in quanto contrapposta a quella politica del governo, assume essa stessa carattere politico.
L’Anm, cioè non si limita a evocare l’incostituzionalità della legge, riservandosi poi di far valere tale incostituzionalità nella sede appropriata, che è quella del giudizio di costituzionalità delle leggi. Né si è limitata ad aderire al parere, articolato, ma essenzialmente critico, espresso dal Csm qualche settimana fa, in forza di un potere consultivo che – pur non previsto espressamente in Costituzione – è stato introdotto dal legislatore allorché ha precisato i compiti del Consiglio superiore. L’Anm, invece, sta valutando di intervenire su di un altro terreno. Quello che fa capo allo sciopero come mezzo per fare pressione sul decisore pubblico affinché non assuma quella decisione politica. E il fatto che l’Anm evochi ragioni di “interesse generale” paventando ad esempio il rischio che “così si trasformerebbe il magistrato in un burocrate” rende ancor più evidente la natura “politica” (sebbene non partitica) della posizione. Perché è evidente che l’interesse generale (cioè non corporativo) evocato dall’Anm è “uguale e contrario” all’interesse generale che, per definizione, il Parlamento esprime allorché assume le proprie scelte legislative. Ogni indirizzo politico è infatti un modo di “interpretare” l’interesse generale. Il quale, com’è noto, non esiste in natura, ma è frutto delle valutazioni di opportunità, cioè politiche, svolte dai soggetti a tal fine preposti. Inquadrare bene i termini della questione è dunque importante, anche qualora non si dubiti in generale della liceità dello sciopero anche politico.
E’ importante, cioè, non dimenticare che in questa vicenda si contrappongono due diversi indirizzi politici in materia di giustizia. Motivati, da entrambi i lati, anche con ragioni legate a una corretta attuazione della Costituzione. Posta così la questione è difficile non rilevare che la vicenda, oltre ad essere una spia molto eloquente del livello di guardia ormai raggiunto dalla crisi del rapporto tra politica e magistratura, pone degli interrogativi sul modo in cui quel rapporto debba ormai essere concepito. La Costituzione, infatti, stabilisce garanzie altissime per l’esercizio della funzione giurisdizionale. Garanzie che inevitabilmente si risolvono in garanzie personali di coloro che quella funzione svolgono. E non potrebbe che essere così. E la Corte costituzionale ha sempre dato prova di una particolare cura per queste tutele del sistema-giustizia e degli individui che vi operano. Nessuno può certo dire che vi sia sottovalutazione o negligenza da parte dell’organo guardiano della costituzionalità.
Nello stesso tempo, però, e non a caso, la Costituzione è molto rigorosa nel voler tenere lontana la magistratura dalle scelte politiche e nell’affermare che chi esercita funzioni giurisdizionali non debba essere (né apparire, aggiunge la Corte dei diritti dell’uomo) portatore di un proprio indirizzo politico, né abbia particolare titolo per valutare le scelte di indirizzo politico, anche in materia di giustizia. Già la previsione di un parere del CSM sui progetti di legge in materia costituisce un’originalità, che viene giustificata in nome della natura “tecnica” del parere (comunque non vincolante). Conosciamo l’obiezione. Nessuno può impedire ai magistrati in quanto cittadini di esprimere la propria opinione. Ci mancherebbe. Ma il problema sta tutto lì.
Lo sciopero ontologicamente non è l’iniziativa di cittadini, quand’anche associati. Lo sciopero è una rivendicazione di una categoria in quanto categoria, non in quanto insieme di cittadini. Qui sta, a mio parere, il corto-circuito. L’Anm non è un’associazione di cittadini che incidentalmente si trovino ad essere anche magistrati. L’Anm è l’associazione di categoria di rappresentanza dei magistrati in quanto magistrati.Né basta dire che si tratti di attività associativa, la quale non intacca l’esercizio delle funzioni, che saranno comunque svolte “in soggezione alla legge” qualunque essa sia. Ci mancherebbe. Intanto però, seppur dall’esterno, le condiziona perché per definizione ne sospende l’esercizio. Ma il punto vero è che, con questo sciopero politico, la sospensione delle funzioni avviene in nome di una visione dell’indirizzo di governo che la magistratura associata, in quanto categoria, vuole contrapporre a quello degli organi che, nella nostra forma di governo, sono costituzionalmente abilitati a stabilirlo.
D’altronde se si accettasse la prospettiva dell’Anm, ci si dovrebbe chiedere per quale motivo, per coerenza, lo sciopero non sia proclamato anche per fare pressione su quel “legislatore”, portatore di indirizzo politico, che è il popolo quando vota il referendum. Ma uno sciopero per far pressione sul popolo non suona proprio benissimo.
Chiusura corporativa. Lo sciopero populista della magistratura contro la riforma della Giustizia. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 16 Aprile 2022.
L’Anm protesterà per l’introduzione di una pagella, cioè di un banale curriculum delle attività svolte dal giudice, che prevede l’applicazione della scienza statistica come criterio di valutazione delle toghe. La manifestazione di categoria è solo una protesta per aver perso centralità politica, come è già successo ai sindacati dei lavoratori.
Martedì 19 aprile la sofferta riforma dell’ordinamento giudiziario arriverà in aula e contemporaneamente il direttivo centrale del sindacato dei magistrati proclamerà uno sciopero, il primo da 16 anni a questa parte, che vorrebbe essere dirompente.
L’ultima volta il bersaglio della protesta è stata la riforma del ministro leghista della giustizia Roberto Castelli (quella che restituì il potere del comando ai capi degli uffici di procura) nel penultimo governo Berlusconi.
Erano i tempi d’acciaio delle leggi ad personam mentre oggi c’è un governo di salute pubblica, siamo nel pieno di una guerra europea, e al posto di un ingegnere brianzolo che sognava la scuola della magistratura divisa in tre (nord, centro e sud) c’è un presidente emerito della Consulta e giurista di vaglia.
Merita tutto questo strepito una riforma che Cosimo Ferri, leader spirituale di Magistratura Indipendente e rappresentante di Italia Viva, al tavolo della giustizia definisce «una riformicchia»?
In effetti a leggere il testo della delega messa faticosamente insieme dopo estenuanti trattative nel cuore della notte, anche l’addetto ai lavori stenta a comprendere le ragioni di tante polemiche. I cambiamenti sono minimi: possiamo dire che l’unica cosa di un certo impatto è il blocco per i magistrati «prestati» alla politica.
Per il resto si vede la paziente opera di ricucitura e (deludente) compromesso: per gli incarichi direttivi si rispolvera oltre ai soliti requisiti di attitudine specifici e generici la loro parte, come criterio dirimente l’anzianità di servizio e udite, udite, la rappresentanza di genere che magari regalerà qualche donna in più ai vertici degli uffici.
Per le elezioni al Consiglio superiore della magistratura il compromesso finale per conciliare i favorevoli e contrari al sorteggio degli eletti togati da inviare al Consiglio (che la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha individuato come unica strada percorribile) è quella di sorteggiare i collegi elettorali da abbinare.
Una trovata che evoca i vecchi compromessi democristiani: nessuno può pensare veramente che l’incertezza sulla composizione dei collegi elettorali stroncherà le intese sottobanco e il potere delle correnti.
E allora di cosa si lagna la magistratura? Dove vuole andare a parare in realtà l’Associazione nazionale magistrati? Apparentemente la levata di scudi ha come bersaglio la famigerata pagella del magistrato. È una sorta di curriculum dei dati salienti della carriera professionale in cui, secondo il testo varato, per ogni anno di attività ci sono «i dati statistici e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell’attività svolta, inclusa quella cautelare, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento e del giudizio, nonché ogni altro elemento richiesto ai fini della valutazione». Ohibò.
Già il lessico lascia intendere quanto sarà difficile orientarsi in un tale ginepraio concepito apposta per eccitare eccezioni e causidiche prassi interpretative che ben difficilmente porteranno a cambiamenti, fatti salvi i casi più eclatanti di ritardi negli adempimenti e di svarioni procedurali che già oggi sarebbero sanzionati.
Ma davvero, gentile presidente Giuseppe Santalucia, vuole armare una rivolta luddista dei magistrati contro l’applicazione della scienza statistica come criterio di valutazione delle toghe?
Ebbene, se così fosse, suggerisco di leggere le stimolanti riflessioni di un Suo illustre predecessore, Edmondo Bruti Liberati, in un importante volume (“Magistratura e società nell’Italia repubblicana”, Laterza, 2020) dedicato alla analisi del rapporto tra magistrati e politica fino alla fine dell’era berlusconiana, la golden age dell’Anm come soggetto politico centrale della scena istituzionale italiana.
Bruti ritiene che uno dei più gravi errori commessi dalla politica associativa sia stata proprio quella di non accogliere le proposte di riforma avanzate dal guardasigilli del primo governo Prodi, Giovanni Maria Flick, tutt’altro che un nemico dei magistrati, e tra esse guarda caso, particolare rimpianto manifesta per l’innovazione già allora avanzata di una “pagella”.
Ricorda Bruti che «sul tema più delicato, quello dei meccanismi di valutazione della professionalità dei magistrati, l’Anm, dopo una iniziale disponibilità espressa in un documento del 15 dicembre 1996, si mostra profondamente divisa. Finisce per prevalere l’atteggiamento di chiusura corporativa contro un equilibrato progetto di valutazioni periodiche sbrigativamente liquidato come “pagelle Flick”».
Lo stesso presidente di Anm dell’epoca Elena Paciotti, poi eletta nelle fila del Partito democratico, osservava al congresso dell’associazione che «è possibile e necessario assicurare un più adeguato controllo professionale sui magistrati, attraverso periodiche e incisive verifiche». Certamente le verifiche sono state periodiche ma non incisive (oltre il 99% di promozioni è una cifra ridicola, da regime sovietico).
Bruti con amarezza sottolinea che «sul tema cruciale e ineludibile delle valutazioni di professionalità dei magistrati è la magistratura (…) che oppone (nel ‘96) un’ottusa chiusura corporativa». Un giudizio che certamente rinnoverebbe anche oggi, temo.
La promozione assicurata è l’equivalente della scala mobile dei lavoratori negli anni ‘80: forse l’Anm farebbe bene a ricordare come finì il referendum sindacale del 1984 per abolire il blocco del punto di contingenza deciso dal governo Craxi: malissimo.
E dunque a cosa serve una sollevazione in piazza? L’idea è che come già successo ai sindacati dei lavoratori alla perdita della centralità politica si cerchi di reagire con una chiusura corporativa e inseguendo il populismo della mitica base.
Di manifestazioni (anche oceaniche come il milione al Circo Massimo) ne abbiamo viste tante in questi anni e nessuna ha cambiato il corso della storia e interrotto il declino dei movimenti incapaci di rinnovarsi. Purtroppo sino a oggi la reazione della magistratura è stata quella di negare ostinatamente l’evidenza di una crisi che non può essere bloccata con un semplice maquillage.
Oggi le correnti di maggioranza come Area non sono più in grado di assicurarsi neanche i vertici dirigenziali degli uffici giudiziari più importanti mentre i processi in corso a Brescia, Milano e Perugia svelano sbalorditivi scenari di lotte intestine, odi e rancori in cui hanno sguazzato con grande facilità faccendieri e uomini di pubbliche relazioni in grado di accedere ai gradi più alti delle istituzioni giudiziaria con una facilità preclusa a ogni onesto avvocato.
E tutto questo oggi non ha prodotto neanche un minimo mea culpa, un segno di contrizione. Anche sotto processo o sul banco scomodo dei testimoni la magistratura ci manda a dire che non intende non dico farsi processare ma neanche mormorare mi dispiace e sottoporsi a un voto in pagella.
Magistrati, gli intoccabili in sciopero: l'ultima folle pretesa delle toghe. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 17 aprile 2022.
Il vero motivo per cui le formazioni militanti della magistratura associata minacciano ora di scioperare non sta in qualche disposizione eventualmente discutibile della riforma della giustizia: sta in una pretesa indebita e in una mistificazione. La pretesa indebita è che la magistratura abbia un titolo speciale- quello che non hanno gli idraulici o i dentisti o i minatori - per mettersi di traverso sulla via di una qualsiasi modifica normativa che intacchi anche lievemente la supremazia della corporazione. E la mistificazione è che tra l'interesse della magistratura corporata e quello della generalità dei cittadini esista una necessaria coincidenza: mentre è pressappoco l'opposto.
Se la fiducia nella magistratura è degradata all'odierno bassissimo livello, ebbene è anche perché da quelle parti ci si è esibiti nella difesa di privilegi camuffati da imperativo pubblico e democratico, tipo i quarantacinque giorni di ferie estive che non si potevano toccare se non attentando alla solita autonomia e indipendenza della magistratura, vale a dire la patacca tradizionalmente adoperata dalla prepotenza giudiziaria per rendersi impermeabile a qualsiasi controllo della cosiddetta società civile: quella che va bene quando sfila sotto ai balconi delle procure chiedendo ai magistrati di far sognare il popolo onesto, ma non quando reclama che quei funzionari pubblici, come tutti gli altri, rendano conto del proprio lavoro e delle proprie mancanze. È lo sciopero con cui si rivendica il diritto acquisito all'intoccabilità.
Magistratura, i privilegi delle toghe non muoiono mai: ora scrivono anche le leggi per loro stessi. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il16 aprile 2022.
Qualunque lavoratore dipendente italiano che ricevesse un incarico ministeriale ben retribuito di alto livello, che lo costringesse a dedicarsi quotidianamente al nuovo compito, dovrebbe andare in aspettativa e rinunciare al proprio stipendio. Se il privilegio toccasse a chi lavora in proprio, il calo delle entrate sarebbe immediata conseguenza del mancato impegno nella vecchia professione. Questo non capita ai magistrati. Come illustrato dal nostro Paolo Ferrari, le toghe in distaccamento cumulano il gettone ministeriale alla lauta busta paga che incassano come magistrati, e questo anche se non fanno neppure un'udienza e non emettono sentenza. Beati loro, certo; ma non è per invidia che contestiamo la pratica, bensì per le conseguenze nefaste, per la giustizia, il governo e i sudditi italiani, che la situazione comporta. Gli incarichi di questo tipo sono a chiamata e il commettente, naturalmente, è un politico. La circostanza crea un'interdipendenza tra magistrati e governanti che sbatte contro il principio di tripartizione del potere statale. Il distaccamento presso il ministero infatti, essendo un ottimo tonico per il reddito del beneficiato, è ambitissimo e il solo modo per ottenerlo da parte della casta in toga è mettersi in evidenza presso la classe politica.
In particolare, siccome, indipendentemente da chi vinca le elezioni, in Italia governa la sinistra, i nostri giudici cercano di andare d'accordo con il Partito Democratico, che bene o male è quello che ha sempre il mazzo in mano. L'effetto è che alle (parecchie) toghe che sono di sinistra per ideologia, si aggiungono quelle che lo diventano per interesse e voglia di far carriera. Non è un'eccezione che talvolta chi ha distrutto la carriera di un politico con accuse e inchieste poi crollate nei processi, sia stato misteriosamente ricompensato con lauti incarichi da qualche rivale del poveretto caduto in disgrazia benché innocente. Già, perché non solo i magistrati non pagano per i propri errori, ma talvolta risultano addirittura premiati per uno sbaglio forse non proprio dovuto a imperizia o errore. Siccome poi il lavoro dei togati al ministero consiste per lo più nello scrivere le leggi, giacché la nostra classe politica non è per la maggior parte all'altezza di farlo, ecco che il loro distaccamento lede pure per quest' altro aspetto il principio di tripartizione dei poteri. Chi è chiamato a far applicare le norme infatti, le redige anche. Forse per questo, malgrado riforme di ogni tipo, in Italia non cambia mai nulla. I magistrati al governo scrivono leggi astruse e incomprensibili per poi, quando devono applicarle in tribunale, avere le mani libere nell'interpretarle a seconda della convenienza del momento o dell'opinione personale del singolo giudicante.
Con queste premesse, ben si capisce perché la categoria si agiti e voglia scioperare contro la nuova riforma della giustizia. Alla casta con il martelletto secca essere sottoposta a una valutazione di efficienza nello svolgere la professione. La pagella sul lavoro fatto introdotta dalla Guardasigilli non è gradita perché, oltre a condizionare le carriere, si riverbera sulla libertà di cooptazione - e di libero scambio, incarichi per servizi- che salda politica e magistratura. Come si farebbe, un domani, a distaccare al ministero una toga con un punteggio basso? Una scelta non corroborata da adeguata quotazione avrebbe il sapore di premio, o prezzo, anziché di necessità di ricorrere a competenza superiori. La meritocrazia è lo spauracchio delle toghe, che la spacciano all'opinione pubblica come una limitazione alla loro libertà giudicante garantita dalla Costituzione, mentre sarebbe viceversa una liberazione per tutti gli italiani dall'arbitrio interessato della parte politicizzata della magistratura.
Csm, mezza magistratura in rivolta: «Ora tutti in piazza». Il costituzionalista Celotto giustifica le barricate contro la riforma Cartabia: «Non si riduca il servizio giustizia a un algoritmo». Simona Musco su Il Dubbio il 12 aprile 2022.
«Mobilitiamoci». Il coro delle toghe di fronte all’accordo sulla riforma del Csm è unanime: con le nuove regole, autonomia e indipendenza verranno spazzate via, a favore di un magistrato «pavido e burocrate, e di una giustizia di tipo difensivo, che pregiudicherà la tutela dei diritti dei cittadini», tuona Mariarosaria Savaglio, segretaria nazionale di Unicost. E grossomodo il timore accomuna tutti, magistrati di “destra”, “sinistra” e di centro, pronti a piantare le tende in piazza pur di evitare quello che già per tutti è uno stravolgimento dei principi costituzionali.
Concetto ribadito a gran voce dall’Anm, che ha convocato per il 19 aprile – giorno in cui la riforma dovrebbe arrivare in Aula – una riunione straordinaria del comitato direttivo centrale per discutere della faccenda. Una data simbolica per condurre una sorta di esame parallelo a quello dell’Aula, il cui prologo è rappresentato dalle parole del segretario Salvatore Casciaro, secondo cui si corre il rischio di «una regressione culturale». A spaventare è soprattutto il fascicolo di performance dei magistrati, che racchiuderà gli esiti delle decisioni giudiziarie: «Attenzione alle statistiche, scrupoloso ossequio alle direttive dei dirigenti e ai precedenti giurisprudenziali guideranno l’attività dei magistrati», con lo scopo di svilire «l’alto senso della funzione», secondo Casciaro. Per il quale tale scelta porterà in dote «atteggiamenti di conformismo giudiziario, se non addirittura difensivistici».
Dal canto suo, Magistratura indipendente ricorda come quella del magistrato sia l’unica categoria del comparto pubblico sottoposta periodicamente a delle valutazioni di idoneità – positive, però, nel 99% dei casi -, «verifiche necessarie per non essere licenziati» che vengono «spacciate per promozioni». Nel fascicolo, ora, rientreranno anche le statistiche sui “successi” dell’attività di giudici (anche civili) e pm. E per “Mi”, ciò provocherà un condizionamento a cascata, facendo così passare il messaggio che esista «una magistratura alta e una bassa», con un conseguente appiattimento dei magistrati «sulle idee di chi sta più in alto». «Il giudice potrà condizionare la carriera del pubblico ministero, il giudice di appello potrà condizionare la carriera di quello di primo grado e a sua volta il giudice di Cassazione potrà condizionare la carriera di tutti quelli dei gradi inferiori», afferma il segretario nazionale della corrente moderata Angelo Piraino.
Da qui la richiesta all’Anm di una mobilitazione, condivisa anche dalle toghe di Autonomia e Indipendenza, che invocano lo sciopero attraverso la voce del coordinatore Guido Marzella. È lui a contestare anche il nuovo sistema elettorale, basato sul sorteggio dei distretti giudiziari in cui si vota: «Si sbandiera che dovrebbe togliere potere alle correnti, ma è una bufala gigantesca: favorisce le più forti». Ma la riforma, secondo Casciaro, ha anche un altro scopo: la separazione delle carriere, anche se ciò non viene dichiarato apertamente. Scopo che verrebbe raggiunto con il limite di un solo passaggio di funzione tra giudice e pm, un modo, prosegue il segretario dell’Anm, per aggirare la Costituzione in tema di unità della giurisdizione, approdando a «una sostanziale incomunicabilità delle funzioni». Insomma, tutti scontenti.
E non poteva essere diversamente, secondo Alfonso Celotto, ordinario di Diritto costituzionale a Roma Tre che, interpellato dal Dubbio, ribadisce la difficoltà nel trovare un equilibrio tra le poste in gioco. E dà ragione alle toghe circa il rischio che si nasconde dietro il fascicolo delle performance. «Non bisogna assolutamente trasformare il servizio della giustizia in un algoritmo che dà i punteggi ai numeri di sentenze o alla produttività – sottolinea -, perché non si tratta di una catena di montaggio per sfornare pezzi. Bisogna trovare un criterio adeguato per valutare il lavoro di una toga, ma la produttività del magistrato è come tutta la produttività della pubblica amministrazione, che da sempre non riesce a individuare un criterio di valutazione. Giudicare un servizio come la giustizia è difficilissimo».
D’altra parte le difficoltà riguardano, secondo Celotto, soprattutto la questione della legge elettorale, primo step, secondo alcuni, per abbattere il correntismo. «Siamo ancora a un punto di grande difficoltà – sottolinea -, perché si tratta comunque di un organo elettivo, nel quale devono essere eletti i rappresentanti di 10mila persone, e non è pensabile che non ci siano liste di candidatura. È naturale. Non è stata trovata una soluzione solida, e ciò è dimostrato dal fatto che nella ricerca del punto di sintesi si sentano scontenti sia i magistrati sia le forze politiche». Quale sarebbe la soluzione per evitare il correntismo e garantire il rispetto del dettato costituzionale? «Il sorteggio non è un criterio valido – aggiunge -, perché in un organo rappresentativo, come da Costituzione, serve necessariamente una rappresentanza. Il vero nodo da sciogliere è quello delle nomine di direttivi e semidirettivi, perché è lì che si giocano le partite più complicate. Noi sappiamo che la magistratura ordinaria usa il criterio del merito, che però spesso fa sì che a una carica di procuratore o presidente si candidino decine di possibili aspiranti, con tutte le polemiche che si susseguono e tutte le questioni di cronaca che abbiamo sentito. Una soluzione potrebbe essere quella di utilizzare, come in passato già avvenuto per le toghe ordinarie, il criterio della magistratura amministrativa, in cui le cariche direttive e semidirettive vengono assegnate per anzianità, salvo demerito. In quel modo diventa meno competitiva l’assegnazione, e ciò rasserena molti rapporti. Ma la rappresentanza è inevitabile che sia legata a correnti, partiti, gruppi».
Anche nel caso in cui si procedesse con un sistema misto – sorteggio più elezione -, le cose cambierebbero ben poco: «È chiaro che per essere votato il singolo magistrato debba rivolgersi a qualcuno. È un’esigenza politica e non può non esserci, anche affinché l’organo sia rappresentativo e di autogoverno. Come ci hanno dimostrato gli scandali degli ultimi mesi, il punto nodale è, da un lato, il funzionamento dei criteri con cui attribuire incarichi direttivi e semidirettivi, dall’altro il grande problema è chi giudica sugli incarichi. È giusto che sia il Tar o serve un’alta Corte? Quella potrebbe essere una strada».
Csm, toghe in rivolta: «Diventeremo burocrati, necessario uno sciopero». I magistrati protestano contro l'accordo sul testo Cartabia. A spaventare è soprattutto il fascicolo di performance. Simona Musco su Il Dubbio l'11 aprile 2022.
«Mobilitiamoci». Il coro delle toghe di fronte all’accordo sulla riforma del Csm è unanime: con le nuove regole autonomia e indipendenza verranno spazzate via, a favore di un magistrato «pavido e burocrate e una giustizia di tipo difensivo, che pregiudicherà la tutela dei diritti dei cittadini», tuona Mariarosaria Savaglio, segretaria nazionale di Unicost.
E grossomodo il timore accomuna tutti, toghe di destra, di sinistra e moderate, pronte a piantare le tende in piazza pur di evitare quello che già per tutti è uno stravolgimento dei principi costituzionali. Concetto ribadito a gran voce dall’Anm, che attraverso il segretario Salvatore Casciaro sottolinea il pericolo di «una regressione culturale» che mira alla separazione delle carriere, anche se ciò non viene dichiarato apertamente. «Per evitare di affrontare il nodo dei principi costituzionali – sottolinea – si addiviene a una sostanziale incomunicabilità delle funzioni».
A spaventare è soprattutto il fascicolo di performance dei magistrati: «Attenzione alle statistiche, scrupoloso ossequio alle direttive dei dirigenti e ai precedenti giurisprudenziali guideranno l’attività dei magistrati», con lo scopo di svilire «l’alto senso della funzione». Scelta che porterà in dote, secondo Casciaro, «atteggiamenti di conformismo giudiziario, se non addirittura difensivistici». Dal canto suo, Magistratura Indipendente ricorda come quella del magistrato sia l’unica categoria del comparto pubblico sottoposta periodicamente a delle valutazioni di idoneità – a dire il vero positive nel 99% dei casi -, «verifiche necessarie per non essere licenziati» che vengono «spacciate per promozioni». Nel fascicolo, ora, rientreranno anche le statistiche sui “successi” dell’attività di giudici e pm. Per MI, ciò provocherà un condizionamento a cascata, facendo così passare il messaggio che esista «una magistratura alta e una bassa», con un conseguente appiattimento dei magistrati «sulle idee di chi sta più in alto».
Da qui la richiesta di una mobilitazione, condivisa anche dalle toghe di Autonomia e Indipendenza, che invocano lo sciopero attraverso la voce del coordinatore Guido Marzella. Che contesta anche il nuovo sistema elettorale. «Si sbandiera che dovrebbe togliere potere alle correnti, ma è una bufala gigantesca: favorisce le più forti».
Magistrati pronti allo sciopero contro la riforma Cartabia. Non succedeva dai tempi di Silvio Berlusconi. Tutte le correnti chiedono all’Anm una protesta contro la legge sulla giustizia. Ma gli scandali hanno indebolito la credibilità delle toghe. E l’opinione pubblica ha smesso di mobilitarsi. Paolo Biondani su L'Espresso il 12 aprile 2022.
Magistrati pronti allo sciopero contro la riforma della giustizia varata dal governo. Non succedeva dai tempi d'oro del premier imputato Silvio Berlusconi, quando le toghe si mobilitarono più volte contro le cosiddette leggi-vergogna, dirette ad abolire i reati dei ricchi (evasione, falso in bilancio), annientare le prove (rogatorie estere, intercettazioni) o fermare i processi a politici e ministri (immunità, lodo, scudo). Anni dopo, tutte le correnti ora tornano a chiedere all'Associazione nazionale magistrati di proclamare lo stato di agitazione e prepararsi a scioperare, dopo Pasqua, contro la riforma Cartabia, intitolata al ministro della giustizia del governo Draghi.
Il testo di legge finale, rielaborato più volte fino alle ultime modifiche di sabato scorso, ha l'appoggio dichiarato di tutto l'ampio schieramento di forze politiche che sostengono il governo, che restano divise solo su qualche possibile emendamento. La riforma in cantiere prevede un nuovo sistema elettorale per il Consiglio superiore della magistratura, di tipo maggioritario, con due posti per ogni collegio, assegnato per sorteggio. Introduce la prima forma di separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, con possibilità di cambiare funzione solo una volta, nei primi dieci anni. E stabilisce che i magistrati vengano giudicati anche in base al risultato finale dei loro processi, con un «fascicolo per la valutazione», affidato ai capi degli uffici, sui provvedimenti confermati o respinti nei successivi gradi di giudizio.
La riforma è stata contestata da tutte le correnti della magistratura, per una volta unite, dai conservatori ai centristi, dagli indipendenti ai progressisti, con critiche severe che investono tutti i punti chiave. I rappresentanti delle toghe hanno spiegato, in particolare, che il maggioritario rischia di rafforzare, anziché indebolire, il potere delle correnti e di personaggi come l'ex magistrato Luca Palamara, indagato e radiato per lo scandalo delle nomine. Mentre certe norme varate in nome del garantismo potrebbero avere effetti controproducenti, con il pm a vita che perde ogni imparzialità e diventa inquisitore, o con il giudice di grado superiore che evita di annullare una condanna sbagliata per non danneggiare un collega amico, magari della stessa corrente.
La riunione del direttivo centrale dell'Anm, che deciderà sullo sciopero o altre forme di agitazione, è fissata per martedì 19 aprile, lo stesso giorno in cui alla Camera è previsto l'avvio dell'esame finale della riforma Cartabia. Ma in questi anni il quadro politico e giudiziario è molto cambiato. In passato le proteste dei magistrati avevano raccolto l'adesione di una parte importante dell'opinione pubblica. Nel luglio 1994 il «decreto salva-ladri», che in piena Tangentopoli prevedeva il divieto di arrestare gli accusati di corruzione, fu ritirato dallo stesso governo Berlusconi, dopo la mobilitazione del «popolo dei fax» e la presa di distanze dell'allora ministro leghista Roberto Maroni. Nel quinquennio 2001-2006 le varie leggi-vergogna, contestate da movimenti di piazza come i girotondi, furono disapplicate nei tribunali e annullate dalla Corte costituzionale. Gli attacchi politici esterni finivano per rafforzare e ricompattare la magistratura. Negli ultimi anni, però, è esplosa una crisi interna, senza precedenti. Il correntismo, gli scandali, l'arretratezza e l'inefficienza del sistema giudiziario hanno corroso a poco a poco la credibilità della magistratura.
Negli anni peggiori della nostra storia, quando l'Italia era dominata da mafia, terrorismo e corruzione, il lavoro dei giudici era molto più difficile e pericoloso di oggi. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tanti altri magistrati, da Palermo a Milano, da Torino a Roma, hanno dovuto sacrificare la vita per la giustizia. E sono diventati un simbolo ideale per una generazione di giovani magistrati e per tutti i cittadini onesti. Oggi come personaggio simbolo della giustizia italiana bisogna rassegnarsi a indicare il magistrato-deputato Cosimo Ferri, il capo-corrente che trattava le nomine giudiziarie con i politici indagati. E ora tratta la riforma della giustizia con il governo. Alle ultime elezioni delle toghe, ha vinto la sua corrente.
La protesta. Anm sul piede di guerra, toghe pronte allo sciopero per difendere la casta. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Aprile 2022.
Le toghe faranno lo sciopero contro la timidissima miniriforma Cartabia? Brr, che paura, vien da dire, parafrasando un ex presidente del consiglio. Ma, nella chiamata alle armi del sindacato, il vero pensiero dell’intera Casta dei magistrati lo manifestano in modo esplicito quelli di sinistra: la politica vuole vendicarsi. E preparano manifestazioni come ai bei tempi andati, quasi Draghi fosse Berlusconi e Marta Cartabia il ministro Roberto Castelli. Altri tempi, altri personaggi. Ma il succo è sempre lo stesso: l’ordinamento giudiziario non si tocca. E il Csm, pur dopo lo sconquasso delle denunce di Luca Palamara, o lo riformiamo noi, o niente. Ma quel che colpisce è l’uso del Termine “vendetta”, come se qualcuno intendesse presentare il conto per quell’assalto alla politica che rese protagonisti alcuni pubblici ministeri a partire dal 1992-1993.
La paura che – pur in presenza di una insufficiente miniriforma che Matteo Renzi, annunciando il voto contrario di IV, ha definito “pannicello tiepido” – il Parlamento possa per una volta decidere senza prendere ordini dalla Anm, sta serpeggiando come un brivido che corre di bocca in bocca, anche negli ambienti dei sindacati più moderati. Ma qualcuno ha la coscienza sporca e butta lì la parola tremenda: vendetta. Perché il mondo politico dovrebbe vendicarsi, se non avesse subito qualche torto? O forse è stato un assalto violento e fino a ora senza ritorno? Non è così difficile andare indietro con la memoria a quel che successe trent’anni fa. Per esempio potrebbe riemergere il ricordo di quel giorno del 1993 in cui il Parlamento perse la verginità e si inginocchiò ai piedi di un gruppo di pm che ebbero l’ardire di definirsi pool “Mani Pulite”, e votò la decapitazione di quell’immunità che i Padri Costituenti avevano voluto come contrappeso dell’indipendenza della magistratura. Da quel giorno non ci fu più divisione dei poteri e il potere fu uno solo, quello delle toghe. Le quali, giorno dopo giorno, hanno dato le pagelle ai politici. Hai l’insufficienza? Galera. Arrivi a malapena al sei? Arresti domiciliari. Per tutti gli altri, diciamo che un’informazione di garanzia non si nega a nessuno.
Ecco svelato il vero motivo per cui oggi l’intera magistratura, compresi due ex procuratori molto diversi tra loro come Giancarlo Caselli e Luciano Violante, non accetta di esser giudicata. Assolutamente. Tanto che il fascicolo per la valutazione del magistrato viene considerata con sprezzo “una schedatura”. Come se si avesse timore di una contaminazione con le stesse forze di polizia con cui si opera quotidianamente. Ma anche come se la vita del magistrato non potesse essere quella casa di vetro che si richiede al politico o all’uomo di governo. La verità è che si teme di perdere quel 99% di valutazioni positive che aprono automaticamente la strada alle carriere, come è la situazione di oggi. Come se gli errori, ma anche le forzature politiche volute nell’applicazione della legge, non fossero sotto gli occhi di tutti. Come se non si sapesse che il 50% dei detenuti in attesa di giudizio sarà assolto. Come se non fosse evidente a tutti, soprattutto, che nessun magistrato paga mai. Che il Presidente della Corte Costituzionale ( e chissà se gli altri membri erano tutti d’accordo) ha cancellato la possibilità di sottoporre a referendum il quesito sulla responsabilità civile diretta. E anche che la totale irresponsabilità del pubblico ministero italiano è un caso unico nel mondo occidentale e democratico.
Alcuni rappresentanti delle correnti sindacali in toga pare non si rendano neanche conto di quel che dicono. Prendiamo la rappresentante di Unicost, Mariarosa Savaglio, la quale prospetta, in caso di approvazione della riforma Cartabia nel punto in cui istituisce il fascicolo delle performance, questo fosco futuro: “Si sta disegnando un magistrato pavido e burocrate e una giustizia di tipo difensivo…”. Questa è dunque l’immagine che la toga dà di se stessa: se qualcuno vuol darmi il voto e giudicare la mia attività, allora io non faccio più niente, mi metto in difesa e interrompo le indagini. Un mondo di pusillanimi, dunque. Dove è finita la spavalderia di coloro che furono gli eroi di Mani Pulite? E i guerrieri del “Processo Trattativa”? Tutti coniglietti accecati dai fari di un fascicolo. Ricordiamo quando nel 1994 i pm del Pool di Milano avevano inscenato la loro protesta in tv in quanto con il “decreto Biondi” che cambiava le regole sulla custodia cautelare, senza manette non avrebbero potuto più svolgere il loro lavoro. Ma in seguito, quando il decreto fu sciaguratamente ritirato dal governo Berlusconi, meno del 10% dei detenuti scarcerati ritornò in prigione.
Che voto darebbe oggi il fascicolo a Davigo Colombo e Di Pietro? E Francesco Greco sarebbe diventato procuratore capo? E quei magistrati che in Sicilia imbeccarono Enzo Scarantino, pur sapendo che si trattava di un “pentito” fasullo, e tutti i giudici che mandarono in galera gli innocenti per quindici anni, nell’attesa del “pentito” genuino, come sarebbero giudicati oggi? Per non parlare del fatto che, pur dopo tre fallimenti, c’è ancora qualcuno a Firenze che sta indagando per la quarta volta su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti di stragi. Senza il senso del ridicolo, ma con la certezza dell’impunità. Di quella che il segretario di Md chiama la “di fatto separazione delle carriere” non vale neppure la pena parlare, visto che della separazione delle funzioni si occupa il referendum, e la riforma Cartabia si limita a ridurre a uno il numero dei passaggi, già ridotto dalla riforma Castelli, da funzione giudicante e requirente e viceversa. Sciopero, dunque? Brr, che paura!
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il monito del Papa al Csm: «I giudici riformino se stessi e poi la giustizia». Bergoglio sferza le toghe e indica l’esempio di Rosario Livatino come «idea di magistratura a cui tendere». Il Dubbio l'8 aprile 2022.
«La Costituzione italiana vi affida una vocazione particolare, che è un dono e un compito perché la giustizia è amministrata in nome del popolo. Il popolo chiede giustizia e la giustizia ha bisogno di verità, di fiducia, di lealtà e di purezza di intenti». A dirlo è stato il Papa ricevendo in udienza i membri del Csm. Bergoglio ha ricordato che «ascoltare ancora oggi il grido di chi non ha voce e subisce un’ingiustizia vi aiuta a trasformare il potere ricevuto dall’Ordinamento in servizio a favore della dignità della persona umana e del bene comune». E avverte che «nessuna riforma politica della giustizia può cambiare la vita di chi la amministra, se prima non si sceglie davanti alla propria coscienza “per chi”, “come” e “perché” fare giustizia. Così insegnava Santa Caterina da Siena, quando sosteneva che per riformare occorre prima riformare sé stessi».
Francesco ha ricordato poi che «la cultura della giustizia riparativa è l’unico e vero antidoto alla vendetta e all’oblio, perché guarda alla ricomposizione dei legami spezzati e permette la bonifica della terra sporcata dal sangue del fratello». E ha citato il Vangelo di Giovanni: «Ci insegna a potare i rami secchi senza però amputare l’albero della giustizia, per contrastare così le lotte di potere, i clientelismi, le varie forme di corruzione, la negligenza e le ingiuste posizioni di rendita. Il “perché” amministrare ci rimanda invece al significato della virtù della giustizia, che per voi diventa un abito interiore: non un vestito da cambiare o un ruolo da conquistare, ma il senso stesso della vostra identità personale e sociale».
Per la Bibbia «saper rendere giustizia» è il fine di chi vuole governare con sapienza, mentre «il discernimento è la condizione per distinguere il bene dal male». «Quando si alleano i grandi poteri per auto-conservarsi, il giusto paga per tutti», ha messo in guardia il Papa. «Il processo a Gesù è emblematico: il popolo chiede di condannare il giusto e di liberare il malfattore. Pilato si domanda: “Ma che cosa ha fatto di male costui?”, poi però si lava le mani», osserva il Papa. «Sono la credibilità della testimonianza, l’amore per la giustizia, l’autorevolezza, l’indipendenza dagli altri poteri costituiti e un leale pluralismo di posizioni gli antidoti per non far prevalere le influenze politiche, le inefficienze e le varie disonestà. Governare la magistratura secondo virtù – ha sottolineato – significa ritornare a essere presidio e sintesi alta dell’esercizio a cui siete chiamati».
Quindi ha citato il Beato Rosario Livatino, «il primo magistrato Beato nella storia della Chiesa, vi sia di aiuto e di conforto. Nella dialettica tra rigore e coerenza da un lato, e umanità dall’altro, Livatino aveva delineato la sua idea di servizio nella magistratura pensando a donne e uomini capaci di camminare con la storia e nella società, all’interno della quale non soltanto i giudici, ma tutti gli agenti del patto sociale sono chiamati a svolgere la propria opera secondo giustizia». Quindi, il monito finale: «La giustizia deve sempre accompagnare la ricerca della pace, la quale presuppone verità e libertà. Non si spenga in voi il senso di giustizia nutrito dalla solidarietà nei confronti di coloro che sono le vittime dell’ingiustizia, e nutrito dal desiderio di vedere realizzarsi un regno di giustizia e di pace».
Papa Francesco e il j’accuse contro il sistema giustizia. Alberto Cisterna su Il Riformista il 13 Aprile 2022.
Il pontefice ha incontrato i componenti del Csm pochi giorni or sono nell’aula Paolo VI. L’Osservatore romano (8 aprile, pagina 8) ha pubblicato per intero il discorso di papa Francesco e, non si può negare, che la lettura di quelle parole avrebbe fatto un gran bene, più che alle toghe, a una politica, disorientata e pasticciona, chiamata a scardinare il Sistema che si annida tra le mura della magistratura italiana. Un risultato immane che la riforma in discussione in queste ore non sarà mai in grado di assicurare, a voler essere sinceri. Le poche proposte su cui si sono accapigliate le forze politiche non riusciranno, infatti, a spostare di un millimetro la magistratura italiana nella direzione di quello che dovrebbe essere l’unico vero obiettivo di una riforma, ossia migliorare la condizione dei cittadini che dei processi sono – talvolta per scelta, talaltra per costrizione – la parte debole.
Purtroppo è del tutto assente nella percezione dei problemi sul tappeto un dato fondamentale: si potrà costruire a tavolino il più perfetto e garantito dei processi penali; si potrà introdurre il più efficiente e rapido dei processi civili, ma è la stessa qualità del prodotto giudiziario ad apparire compromessa. E non solo perché le regole siano spesso astruse, prive della valutazione d’impatto sulle strutture organizzative o meramente illuministiche e vagamente ideologizzate, ma per la ragione che si riversano su una corporazione stanca, sfilacciata e indebolita. La condizione psicologica della magistratura italiana è ai minimi storici. Carichi di lavoro logoranti, gerarchie burocratiche, regole dell’autogoverno vocate al controllo minuzioso e cavilloso finanche della vita privata dei singoli hanno relegato la parte migliore delle toghe italiane in un anfratto claustrofobico che nulla ha a che vedere con l’orizzonte etico, arioso e puro, descritto dal papa. L’esercizio libero, sereno, indipendente delle funzioni giudiziarie – che dovrebbe costituire l’unico obiettivo cui un legislatore assennato deve puntare – è soffocato da prescrizioni moraleggianti, minacciose, oblique, lasche, ondivaghe, pronte a essere applicate ai nemici e manipolate per gli amici.
Una gabbia anaerobica che spinge in secondo piano il processo e finanche la decisione, rispetto a istanze di omologazione corporativa a sfondo moralistico. Una tirannia di micro-regole che trascolora la soggezione dei giudici alla sola legge (articolo 101 Costituzione) in una subalternità, a tratti dispotica, verso il Csm il quale è portato – dalla perenne timidezza del legislatore su questo versante – a sconfinare negli anfratti della vita, e non della sola carriera, delle toghe. Comprendere la dimensione asfittica e omologante in cui – da anni ormai – persino l’autogoverno ha ricacciato i magistrati italiani nel tentativo di contenere le crisi periodiche del sistema giudiziario sarebbe un passo importante per giungere a una vera riforma dell’assetto della giurisdizione, prima ancora che delle regole dei processi. L’indipendenza e l’autonomia sono state corrose in gran parte dall’interno e non da un nemico alle porte, invero sempre più debole e subalterno, come la vicenda Palamara dimostra.
È purtroppo una traiettoria difficile da mutare. Alla crisi di credibilità si risponde con prescrizioni interne sempre più serrate e arcigne, proliferando un nugolo di commi e cavilli. La recente circolare del Csm sugli incarichi extragiudiziari contiene profili che sarebbero meritevoli di approfondimento in un corso di sociologia dei sistemi sociali. È una circolare certamente frutto di un compromesso e non saranno mancate voci distoniche. Ma restituisce l’immagine nitida dell’autorappresentazione che la magistratura italiana ha di sé e della scarsa considerazione che nutre verso la capacità delle toghe di resistere alle proposte e alle lusinghe del complesso mondo dei convegni, pubblicazioni, incontri, corsi, incarichi di docenza che si aggira intorno alla giustizia. Per carità, il Csm mantiene integra la libertà di manifestazione del pensiero, garantisce la collaborazione con riviste, enciclopedie, la scrittura di saggi, libri e cose del genere. Andrebbe tutto bene se non si trascurasse di considerare quante carriere, quanto cooptazioni ministeriali si realizzino da anni proprio all’ombra di quelle “gratuite” collaborazioni e frequentazioni in cui – talvolta – si intravedono le tracce di quelle lobby e di quelle congreghe che condizionano settori non secondari della magistratura italiana. Né la questione muta se si guarda ai circoli di legalità o alle associazioni antimafia in cui, parimenti, ci si adopera per la selezione e la promozione degli adepti e dei simpatizzanti e per sospingerli verso i vertici di uffici e di strutture amministrative di prestigio con un nugolo di iniziative, per carità, tutte lodevoli.
Un equilibrio difficile da raggiungere, è chiaro ed è anche evidente che il Csm fa quanto possibile. Ma il legislatore avrebbe un duplice dovere: certo quello di svincolare la magistratura da ogni condizionamento esterno, ma anche quello di interdire ai furbi e agli ambiziosi la ricerca spasmodica di un consenso fuori dalle strutture giudiziarie in circoli e circuiti che – con la scusa dell’elaborazione culturale e scientifica o dell’enfasi legalitaria – invero cooptano, selezionano, promuovono, difendono, spesso, dallo stesso Csm che pur avrebbe diritto a chiedere conto di qualche comportamento. Il consenso correntizio è un male, ma quello delle lobby è venefico. Difficile dire se esista la loggia Ungheria, ma se un giorno la dovessero scoprire non dovrebbe meravigliare se abbia affiliati nelle redazioni di qualche giornale, di qualche rivista o in qualche associazione, università o congregazione varia. Papa Francesco al Csm: «Il processo a Gesù è emblematico: il popolo chiede di condannare il giusto e di liberare il malfattore. Pilato si domanda: “Ma che cosa ha fatto di male costui?”, poi però se ne lava le mani. Quando si alleano i grandi poteri per auto-conservarsi, il giusto paga per tutti». Alberto Cisterna
Guai a chi tocca i magistrati. Riforma della giustizia, i Pm fanno barricate: non potete toccare i nostri privilegi. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Aprile 2022.
Forse ritengono di essere dei missionari baciati dalla fortuna e non dei professionisti da valutare per le capacità, tutti questi magistrati che, a partire da quelli del sindacato (Anm) fino a quelli dell’aristocrazia del Csm, rifiutano di essere giudicati. Vogliono continuare a essere promossi almeno nella misura del 99%. Vogliono decidere sulla vita degli altri, ma nessuno può valutare la loro. Sono tutti quelli che non vogliono mai cambiamenti, perché godono di privilegi per loro irrinunciabili, e soprattutto non vogliono che nessuno possa giudicare il loro lavoro. Se fai un blitz con 300 arresti e il tribunale del riesame ne boccia la metà, devi essere promosso lo stesso.
Se continui a far arrestare persone che poi vengono assolte, la tua progressione in carriera è ugualmente assicurata, come è successo ai persecutori di Enzo Tortora. Questa è la situazione oggi. Ma qualcosa ora cambierà, grazie a un emendamento alla riforma dell’ordinamento giudiziario del deputato Enrico Costa, che ha raccolto il consenso del ministro Guardasigilli e di tutti i partiti. Pur in una situazione surreale nella Commissione giustizia della Camera dei deputati che dovrebbe licenziare la riforma, e non ci riesce. Con la ministra Cartabia costretta a un corpo a corpo quotidiano con i rappresentanti dei gruppi, alcuni dei quali vorrebbero una vera riforma priva dei condizionamenti della casta togata. Con il Presidente del Consiglio Draghi costretto a fare “giurin giuretta” e a impegnarsi a non chiedere la fiducia sul provvedimento. Con i senatori sconcertati perché viene loro chiesto di trasformarsi in passacarte dei deputati e di ingoiare norme preconfezionate senza osare mai di apporre modifiche. Con tutto questo, che sa di sconfitta per chi nella possibilità di cambiamento crede davvero, anche nel momento in cui la giustizia e la stessa magistratura godono dei minimi storici nell’apprezzamento dei cittadini, ecco spuntare all’orizzonte qualcosa di positivo. Il fascicolo del magistrato.
Accade qualcosa di straordinario, di rivoluzionario. Prima di tutto perché si è trovato un accordo tra il governo e tutti i partiti. Poi perché il subbuglio che si sta creando nel mondo delle toghe, sia in quello organizzato del sindacato e del Csm, sia nella spontaneità della base, pare non scalfire le intese raggiunte in sede politica. La carriera prima di tutto. Guai a toccare quella dei magistrati. Basta ricordare il prezzo salatissimo che sta pagando ancora oggi Matteo Renzi da quando, da Presidente del consiglio, aveva osato intervenire sulla lunghezza delle ferie delle toghe e da quando, di fronte alle loro proteste, aveva esclamato quel “brr che paura”, un’ironia che gli è costata cara. Per non parlare di Silvio Berlusconi, da sempre sostenitore della separazione delle carriere, o almeno delle funzioni, tra giudici e pubblici ministeri. Un tema che è oggetto dei referendum indetti da radicali e Lega, ma anche di timide proposte di riforma in Parlamento.
Quanti passaggi può fare nel corso della sua carriera l’avvocato dell’accusa verso lo scranno del giudice? Non c’è accordo. E poi, quale sorte deve avere nel suo futuro la toga che è stata prestata alla politica? Può tornare indietro, a giudicare in modo imparziale, dopo aver indossato la veste del politico? Bisognerebbe almeno evitare il ripetersi dei casi come quello di Augusto Minzolini, oggi direttore del Giornale, che si ritrovò a essere giudicato in tribunale da un ex avversario politico del Senato. E ancora –indovinello degli indovinelli- quale sistema elettorale per il Csm dopo gli scandali correntizi denunciati da Luca Palamara? In linea teorica l’ipotesi del sorteggio (che comunque la ministra Cartabia, che ne ha pieno titolo, ritiene incostituzionale) non è una trovata brillante. Ma in questa fase di transizione, e con il rinnovo del Csm previsto per il prossimo luglio, è l’unica soluzione, nella sua forma “temperata”, come pensata dai partiti che la sostengono. E’ un gioco al ribasso, certo, ma adeguato ai tempi.
Se il sorteggio non garantisce vere selezioni sulla base di meriti e capacità, a questo provvederà l’istituzione del “fascicolo del magistrato”, utile per il futuro anche per valutare al meglio i giudici e i pubblici ministeri più adatti per gli incarichi direttivi. La ribellione in atto tra le toghe fa pensare un po’ alla classe degli asini, come se nessuno volesse andare alla lavagna a mostrare quel che sa perché non ha studiato. Poiché questo in gran parte non è vero, perché sono tantissimi i magistrati preparati ed efficienti, quale è quindi il timore? La carriera, che vuol dire anche progressioni di stipendio e di pensione. Altro che missionari! Il fascicolo sarà una fotografia della carriera del magistrato. Aiuterà a distinguere quelli bravi dagli asini. Un po’ come quella che accompagna tutto il percorso lavorativo di un manager o un professionista. E dovrebbe essere nell’interesse di ogni singolo operatore di giustizia il fatto di essere giudicati per quel che si è fatto e quel che si sa fare invece che fare sempre la parte dei raccomandati dalla propria corrente di appartenenza politica. Non è umiliante vedere ogni anno quel 99% di promossi nel giudizio dei consigli giudiziari? Dovrebbero avere un po’ più di pudore, i vertici della Anm, quando dichiarano che, come ha detto il presidente Giuseppe Santalucia, “le votazioni producono inevitabilmente un’ansia competitiva”. Come se i magistrati fossero bambini da proteggere o persone fragili da assistere.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Palamara: «In Italia la legge non è uguale per tutti». L'ex pm di Roma: «È giusto dirlo: la magistratura è una comunità composta da 10.000 magistrati che riflette un po' la vita politica, sociale, istituzionale dell’Italia». Il Dubbio il 5 aprile 2022.
«In magistratura il manuale Cencelli, in Italia la legge non è uguale per tutti». Lo ha detto Luca Palamara al Congresso di Grande Nord a Milano. «Un auspicio di cambiamento è quello che mi ha caratterizzato nella mia esperienza professionale. Come tutte le vicende umane e che hanno a che fare con la politica, riproducono su se stesse le vicende della politica. È giusto dirlo: la magistratura è una comunità composta da 10.000 magistrati che riflette un po’ la vita politica, sociale, istituzionale dell’Italia», sottolinea.
«In magistratura – continua Palamara – c’è una parte più ideologizzata, quella che noi chiamiamo della sinistra giudiziaria, c’è poi una parte più attenta ai problemi del sindacato, e una parte che è moderata dall’interno» e «a torto o a ragione l’orientamento culturale della magistratura parte dalla sinistra giudiziaria, che crea un cortocircuito anche nel rapporto tra magistratura e politica».
«Qualcosa bisogna fare: ad esempio – spiega – stabilendo come si vuole organizzare internamente la magistratura. L’autonomia e l’indipendenza viene organizzata oggi attraverso questi gruppi associativi, queste correnti, e le correnti determinano la vita della magistratura. Stabiliscono chi diventa procuratore della Repubblica, chi diventa Presidente del Tribunale e chi diventa consigliere superiore della magistratura».
La composizione del Csm e l'attacco di Area democratica. Renzi e l’invadenza “gravissima” dei Pm: “Ferri non va bene, il delegato lo decidiamo noi”. Paolo Comi su Il Riformista il 5 Aprile 2022.
Matteo Renzi deve cambiare urgentemente il proprio referente in Commissione giustizia alla Camera in quanto l’attuale, Cosimo Ferri, è in “plateale conflitto d’interessi”. La richiesta è arrivata lo scorso fine settimana dalle toghe progressiste con un duro comunicato che ha messo nel mirino Ferri, parlamentare di Italia viva e componente della Commissione giustizia di Montecitorio. “Apprendiamo dalla stampa che al tavolo dei partiti di maggioranza che discutono con la ministra Cartabia la riforma del Csm è costante ed attiva la presenza di Ferri, magistrato in aspettativa per il mandato elettorale, già segretario di Magistratura indipendente (la corrente di destra, ndr) e componente del Csm per quella corrente”, esordisce la nota del coordinamento di Area democratica per la giustizia, diretto dal pm romano Eugenio Albamonte.
Il “conflitto d’interessi” di Ferri deriverebbe dal fatto che essendo sotto procedimento disciplinare si trova a decidere sulla modalità di composizione del Csm che dovrà giudicarlo. I magistrati progressisti ricordano che Ferri, favorevole al sorteggio, “insieme a Luca Lotti ed altri magistrati, tra i quali Luca Palamara, ha partecipato alla riunione notturna all’Hotel Champagne di Roma, nella quale si discuteva di chi nominare all’incarico di procuratore di Roma e di altre Procure, secondo logiche spartitorie e con l’intenzione di condizionare il Csm nelle sue decisioni in funzione di interessi personali e specifici di alcuni partecipanti alla riunione”. Il procedimento disciplinare in corso a Palazzo dei Marescialli, scaturito da quei fatti, risulterebbe poi rallentato da numerose questioni procedurali, avanzate dallo stesso Ferri, tra le quali “un conflitto di attribuzioni fissato dalla Corte Costituzionale per il 14 settembre che rischiano di posticipare la decisione di fronte al prossimo Consiglio”.
Il Csm, sottolineano le toghe di Area, “che verrà eletto in base alle nuove regole che si vanno delineando e che verrà riformato in base alla legge in discussione al tavolo politico nel quale Ferri è così attivo». Il comunicato prosegue con l’avviso a Renzi: «Siamo fortemente preoccupati da questo plateale conflitto di interessi e ancor più dal fatto che l’ambiente politico non ne abbia tratto le doverose conseguenze. Non solo da parte del partito, nel quale Ferri milita, ma anche degli altri partiti di maggioranza che siedono al tavolo senza rilevare la grave inopportunità”. “Siamo assolutamente convinti – concludono le toghe – che una netta separazione dalla politica e dai partiti sia indispensabile per consentire alla magistratura di recuperare credibilità e non ricadere in prassi esecrabili. Ma in questo caso vi è ben di più di una impropria sovrapposizione di ruolo nella stessa persona”. Immediata la replica di Ferri.
“Trovo sconcertante che Albamonte, con cui ho lavorato quando ero componente del Csm (Albamonte è stato magistrato segretario a Palazzo dei Marescialli, ndr), e di cui ho potuto constatare il modus operandi, si sia preoccupato della mia presenza in una riunione politica di maggioranza e si sia sentito legittimato a sindacare il mio ruolo di parlamentare eletto dal popolo”. “Un’invadenza di una corrente della magistratura – prosegue Ferri – sull’attività politica che ritengo gravissima, anche perché il sottoscritto è pienamente legittimato a stare a quel tavolo e a svolgere il ruolo di legislatore che riconosce la Carta Costituzionale. È singolare inoltre che sia a conoscenza della data d’udienza fissata dalla Corte Costituzionale relativo al conflitto di attribuzione sollevato dal Csm nei confronti della Camera, data che il sottoscritto, seppur indirettamente interessato, non la conosceva”. “Scriverò nei prossimi giorni al presidente della Camera perché ritengo che si debba stigmatizzare questa invadenza e ristabilire il giusto equilibrio e rispetto tra poteri dello Stato”, conclude Ferri.
Oltre ad inviare una missiva a Fico, Ferri potrebbe però ricordare ai suoi colleghi in toga che nella scorsa legislatura erano all’ordine del giorno le “interlocuzioni” fra Donatella Ferranti, consigliere di Cassazione e all’epoca presidente della Commissione giustizia di Montecitorio del Pd con lo zar delle nomine. Oggetto di queste interlocuzioni, su cui nessuno ha mai battuto un ciglio, la scelta del futuro capo in Cassazione della parlamentare. “La Cassazione è veramente un problema serio! Buona giornata un abbraccio Donatella”, scriveva Ferranti, esponente delle toghe progressiste a Palamara. “Luca ho saputo tuo ruolo garanzia… ti fa onore e ci conforta… ti suggerirei se posso di tenere un po’ tutto insieme con primo presidente e procuratore generale dove il binomio Carcano (Domenico, togato progressista, ndr)/ Fuzio (Riccardo, togato della corrente di Palamara, ndr) sarebbe serio ed equilibrato. Altre fughe in avanti mi sembrano pretestuose”, puntualizzava la magistrata, ottenendo dallo zar la risposta: “Siamo d’accordo su tutto”. Palamara, però, poi tirò il pacco alla presidente della Commissione giustizia, votando il candidato di Mi, Giovanni Mammone, e non il candidato progressista che gli era stato caldeggiato.
Paolo Comi
Cassese boccia "il governo dei giudici". Paolo Armaroli il 30 Marzo 2022 su Il Giornale.
L'indagine impietosa del giurista sulle ombre delle toghe italiane.
Ex ministro, giudice emerito della Corte costituzionale e insigne studioso in servizio permanente effettivo, un mostro di operosità scientifica, Sabino Cassese è dell'idea che un autentico giurista non può che essere un comparatista. Detto, fatto. Il suo nuovo libro, edito da Laterza, s'intitola Il governo dei giudici: musica per le orecchie dei garantisti. Il saggio non è un j'accuse alla Émile Zola, è molto di più. Con serenità olimpica l'autore mette in fila una gran quantità di citazioni, di dati e di numeri di modo che sia il lettore a tirare le fila.
Cassese articola il libro in due parti. Nella prima sottolinea con grande efficacia il mondo di ieri e lo stato dell'arte negli altri Paesi. Nella seconda parte indaga sulle tante ombre della nostra magistratura. Una volta i giudici erano la bocca della legge. Un potere neutro, il loro. Ma alla divisione dei poteri di un tempo è seguita la confusione dei poteri. Come una piovra la magistratura si è espansa dappertutto. Non si limita ad amministrare la giustizia e ad avere uno straordinario potere sulle persone e sulle cose. Ma ormai fa parte del potere legislativo perché crea diritto di continuo. E fa parte del potere esecutivo in quanto i magistrati sono magna pars nei ministeri, a cominciare da quello di via Arenula. Per non parlare delle cosiddette porte girevoli grazie alle quali i magistrati diventano parlamentari, sindaci, presidenti di regione per tornare al loro mestiere.
Cassese mette il dito sulle piaghe della magistratura. A cominciare dal familismo e dall'ereditarietà. «Ci si attendeva giustizia e si sono avuti giustizieri. La giustizia arriva troppo in ritardo per essere una giustizia equa». Per non parlare delle ripercussioni sull'economia, con i mancati investimenti stranieri... E poi abbiamo il nuovo potere dei procuratori, appena un quinto dei magistrati. E ormai si parla di una «Repubblica dei pubblici ministeri». Il Csm, poi, è diventato un organismo para-parlamentare incistato dalle correnti. Un organo, la magistratura, che ci costa un occhio della testa ma non produce granché. Tant'è - ricorda Cassese - che «a metà 2020 i procedimenti pendenti civili e penali erano quasi sei milioni». Mentre francesi e tedeschi sono più fortunati. E la pessima qualità delle nostre leggi, una selva fitta e oscura, è uno stimolo a interpretazioni sempre più creative dei magistrati.
Si tratta con Anm e Csm, l’ultima parola è la loro. Riforma giustizia impossibile, democrazia strangolata dal potere illegittimo delle toghe. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 27 Marzo 2022.
Lo spettacolo “di arte varia” che sta offrendo il percorso di riforma dell’ordinamento giudiziario basta da solo a spiegare, per chi sappia e voglia leggere la realtà senza infingimenti, a quale livello di degrado istituzionale sia giunto il nostro Paese. Abbiamo già avuto modo di ribadire in ogni sede il nostro giudizio radicalmente negativo sul merito della riforma. Gli interventi proposti sono blandi, non colgono le reali criticità del potere giudiziario e del suo esercizio, non interpretano le ragioni più profonde della grave crisi nella quale è precipitata la magistratura italiana. L’attenzione ipertrofica riservata al tema del sistema elettorale del CSM, nella illusione che la sua riforma possa assurgere a panacea di tutti i mali, costituisce l’indicatore più eclatante dell’equivoco fatale che sta sin dall’inizio fiaccando il pur generoso impegno della Ministra Cartabia.
Il confronto politico nasce dunque fuori centro, smarrito come è a rincorrere alchimie elettorali, sorteggi funambolici, sofisticate dinamiche del voto preferenziale, in nome di un’assai generica (ed anche un po’ demagogica) guerra al “correntismo”. E così appare distratto sui temi invece centrali: valutazioni di professionalità del magistrato, e commistioni inconcepibili tra poteri dello Stato. Le prime, si sa, oggi semplicemente non esistono, visto che sono sempre positive al 99 e passa per cento; con le conseguenze catastrofiche che tutti possiamo constatare. Non solo il livellamento in basso della qualità professionale del magistrato, che avanza automaticamente in carriera (e stipendio) senza nessun vaglio minimamente significativo; ma soprattutto, ed innanzitutto, la sua totale deresponsabilizzazione. Inutile inseguire impraticabili responsabilità civili, se non comprendiamo che ciò che conta è invece la responsabilità professionale del magistrato, dunque un sistema che sappia premiare la qualità e sanzionare una acclarata propensione all’insuccesso delle proprie iniziative giudiziarie.
È il tema centrale della crisi di credibilità della magistratura italiana: nessun magistrato risponde dei propri errori, in nessuna sede, garantito come egli è della sua comunque automatica progressione in carriera. Di fronte a questa catastrofica realtà, la riforma immagina di rispondere inserendo un voto intermedio in pagella, ed una timida, macchinosa, prudentissima introduzione della voce dell’avvocatura in quelle valutazioni. L’altra grande anomalia italica, cioè la sistematica esondazione del potere giudiziario verso quelli esecutivo e legislativo, viene appena sfiorata. Le misure volte a fermare le c.d. “porte girevoli” fanno la voce grossa su carriere politiche che, alla fine della fiera, riguardano qualche decina di magistrati in totale tra Parlamento e assessorati vari; mentre dedica assai inadeguate contromisure al vero scandalo, cioè il distacco di centinaia di magistrati verso i gangli vitali del potere esecutivo, innanzitutto in quel Ministero dal quale più di ogni altro dovrebbero rimanere lontani le mille miglia, cioè il Ministero di Giustizia, il luogo dove si decide la politica giudiziaria del Paese.
Ma il cuore della questione sta nella ragione che determina questa lontananza della riforma dagli snodi reali della crisi sulla quale pretenderebbe di intervenire: la sudditanza della politica rispetto al potere giudiziario. La Politica teme il potere giudiziario, si è da decenni consegnata ad esso, consentendo l’affermarsi del principio per il quale le riforme della giustizia che una maggioranza politica democraticamente eletta, quale che essa sia, intendesse varare, devono avere il placet della magistratura italiana, e cioè della sua rappresentanza politica e del suo organo di autogoverno. Questo è il tema, inutile girarci intorno. In Parlamento ci sono forze politiche, di peso rilevantissimo, che esprimono e danno corpo a questa assurda anomalia, facendosi sottomessi portavoce del potere giudiziario, spacciando questa debacle per difesa dei valori della “Giustizia”. Il risultato è che i temi della giustizia (penale, soprattutto, com’è ovvio) sono intesi come temi rispetto ai quali la magistratura assolve compiti quasi sindacali. I temi della riforma diventano oggetto di “trattativa” con ANM e CSM, intesi come depositari, come dire, di categoria, dell’ultima parola sui temi della giustizia e dell’ordinamento giudiziario, al pari dei metalmeccanici rispetto al siderurgico. E quindi pareri, veti, trattative ad oltranza.
Questo è il desolante quadro istituzionale nel quale è intrappolata la politica della giustizia nel nostro Paese. Una politica cioè sottratta alle ordinarie dinamiche democratiche, e strangolata dal potere strabordante ed illegittimo di una magistratura a cui abbiamo irresponsabilmente consegnato le chiavi di ogni possibile riforma che un qualsivoglia governo democraticamente eletto avesse la legittima ed insindacabile intenzione di proporre. Un potere che, anche nel momento della sua massima crisi, è riuscito -con il decisivo contributo di intere forze politiche e di un formidabile esercito mediatico- a scaricare sul povero Luca Palamara ogni sua magagna, esorcizzandola; ed ora, più ringalluzzita che mai, pone veti, ringhia se ti azzardi ad immaginare che l’avvocatura possa dire mezza parola sulla qualità dei magistrati con i quali si trova quotidianamente ad operare, grida querula alla “crisi di insicurezza psicologica” che colpirebbe i magistrati ove sottoposti a valutazioni professionali più stringenti; accusa minacciosa, in nome dell’antimafia, la Ministra Cartabia di avere osato almeno un po’ regolamentare gli sproloqui trionfalistici sulle “magnifiche sorti e progressive” di questa o quella retata. Tanto si sa, se qualcuno prova ad alzare la testa, ci sarà sempre qualche Procura pronta a fargli cambiare idea.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Muro contro muro tra Csm e governo. Il Csm boccia la riforma Cartabia, decisivo il voto del vicepresidente Ermini: “Non ci sono precedenti”. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Marzo 2022.
Il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini (Pd) ha indossato questa settimana la toga da pm ed ha bocciato la proposta di riforma di Marta Cartabia. Il voto sul parere sulla riforma era finito 13 a 13 in Plenum. Ma valendo doppio il voto del vicepresidente, Ermini ha così affossato la tanto attesa riforma della Guardasigilli. “Ognuno ha le proprie posizioni, non entro nel merito ma il Csm è un organo di rilievo costituzionale, non si può sottrarre al principio di leale collaborazione con gli altri organi dello Stato, come il Parlamento. Ognuno ha le sue ragioni, io ho le mie ragioni per votare perché non ci possiamo sottrarre alle responsabilità che le istituzioni ci danno, io alle responsabilità non mi sottraggo”, ha detto Ermini per giustificarsi di aver votato con i pm, da sempre contrari alla riforma Cartabia, e non con i laici.
“Non riesco a trovare precedenti di una contrapposizione frontale così accentuata, in materie essenziali, nel Csm”, è stato il commento del professore e avvocato Mario Serio, ex componente di Palazzo dei Marescialli. Ad essere bocciata è stata soprattutto la nuova disciplina in caso di violazioni sulla presunzione di innocenza che prevede limiti alle esternazioni dei pm. Nel frattempo la ministra ha deciso di guadagnare tempo ed ha spostato all’11 aprile la presentazione del suo testo in Aula. Considerati i tempi strettissimi è probabile che venga messa la fiducia. Uno smacco, un altro, per il premier Mario Draghi, che aveva detto di volere il dibattito in Parlamento su temi così delicati. Sembra proprio non trovare pace la riforma della magistratura, incardinata dal 2019 in Commissione giustizia a Montecitorio, relatori Water Verini (Pd) ed Eugenio Saitta (M5s).
Fra i primi provvedimenti della Guardasigilli vi era stata anche l’istituzione di una Commissione, presieduta dal decano dei costituzionalisti, il professore romano Massimo Luciani, per elaborare un progetto complessivo di riforma del Csm. La commissione aveva consegnato la sua relazione il 31 maggio scorso, concentrandosi in particolare sulle modifiche al sistema elettorale. Archiviato il disegno Luciani, la ministra aveva dato incarico agli uffici legislativi di via Arenula di elaborare un documento che potesse essere votato da tutti. Senza, come si è visto, successo. La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, la terza gamba del tavolo delle riforme in materia di giustizia, prevede, oltre alla riforma del sistema di elezione dei togati del Csm, modifiche alle valutazioni di professionalità dei magistrati, ai criteri per essere ottenere un incarico direttivo, al rapporto con l’avvocatura, al ruolo della Scuola superiore della magistratura. Eppure era stato l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5s) ad annunciare, all’indomani dello scoppio del Palamaragate, che la riforma era pronta e sarebbe stata approvata in pochi giorni. Da allora sono passati quasi tre anni e non è successo nulla. E tutto questo nonostante gli appelli del Capo dello Stato. Paolo Comi
Cartabia: «Che cos’è un Paese senza diritto se non una banda di ladri». Il dubbio il 25 marzo 2022.
«Non si tratta di dare le pagelle ai magistrati, ma di offrire loro elementi di riflessione aggiuntivi, provenienti da chi osserva l’operare del giudice da un diverso punto di vista», ha detto il ministro della Giustizia nel corso dell'inaugurazione dell'anno giudiziario del Cnf.
Una «riforma necessaria e improcrastinabile». Così la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha definito la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, al vaglio della Commissione Giustizia della Camera. «Il legislatore è a fianco dei magistrati, consapevole della necessità di un percorso di rinnovamento e autorigenerazione. Ora siamo ancora impegnati come Governo – ha aggiunto – in un’opera di cesello, attraverso un confronto serrato con le forze politiche, per arrivare ad un accordo su un testo condiviso il prima possibile. I tempi sono stretti, in vista del rinnovo del prossimo Consiglio superiore della magistratura, ma abbiamo una fitta agenda di incontri nelle prossime settimane per sciogliere i nodi».
«Non si tratta di dare le pagelle ai magistrati, ma di offrire loro elementi di riflessione aggiuntivi, provenienti da chi osserva l’operare del giudice da un diverso punto di vista. Anche in questo, magistrati e avvocati potranno collaborare più intensamente nei consigli giudiziari, come del resto già avviene nel Csm» ha spiegato Cartabia, nel suo intervento all’anno giudiziario forense.
Secondo Cartabia, che ha citato a proposito una recente sentenza della Consulta, va sfatato «il luogo comune che si ritrova talora nel dibattito e che vorrebbe contrapposta l’efficienza alla qualità della giustizia»: «una sollecita definizione dei contenziosi è una meta oggi attingibile, grazie all’impulso e ai fondi del Pnrr, con cui nelle scorse settimane sono entrati negli uffici giudiziari 8.100 giovani dell’ufficio del processo» e «sempre grazie nel quadro del Pnrr il Parlamento ha approvato le leggi delega della riforma del processo penale e civile; la riforma della crisi di impresa e dell’insolvenza».
Cartabia ha ricordato che è giunto a termine anche l’ter di approvazione del decreto per le piante organiche flessibili, che permetterà ai singoli uffici giudiziari di poter contare anche sul supporto ulteriore di altri 179 magistrati. E quanto alle riforme, «si stanno scrivendo i decreti delegati: i vari gruppi di lavoro per il processo penale presenteranno entro il 10 maggio uno schema di decreti legislativi; e entro 15 maggio si concluderanno i lavori per l’attuazione della delega civile». E ha aggiunto, citando Sant’Agostino «che cos’è un Paese senza diritto se non una banda di ladri».
«Siamo accanto all’Ucraina anche attraverso l’azione del diritto internazionale e della giustizia internazionale che, ne sono certa, si rivelerà decisiva nel tempo» ha sottolineato Marta Cartabia. «L’Italia è stata tra i primi Paesi, ora sono 41, a chiedere l’intervento della Corte Penale internazionale, che attraverso il suo procuratore si sta già attivando per svolgere le indagini e per raccogliere le prove sui crimini commessi in Ucraina». Pace e giustizia «sono gli obiettivi fondativi dell’Europa unita», ha sottolineato ancora Cartabia, rilevando che «non possono essere mai considerate acquisite una volta per tutte, ma debbono essere rinnovate, riconquistate ogni giorno».
Ermini: «Le toghe accettino con serenità il voto degli avvocati». Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura è intervenuto alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario forense. Il dubbio il 25 marzo 2022.
La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, che deve accompagnarsi da parte della magistratura e dell’associazionismo giudiziario a una seria riflessione sul proprio ruolo e a un profondo rinnovamento culturale e morale, costituisce un passaggio obbligato. Lo ha detto il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini, intervenendo alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario forense.
«L’ideale della giustizia è l’orizzonte comune a magistrati e avvocati. E se è vero che le aspettative nei confronti del sistema giustizia investono in prima battuta la magistratura, è pur vero che in misura non minore coinvolgono anche la funzione dell’avvocatura, che è funzione pubblica e sociale. Delegittimare o screditare gli uni equivale a screditare e delegittimare gli altri. Indebolire l’indipendenza dei magistrati è indebolire la libertà degli avvocati e viceversa», ha sottolineato il vicepresidente del Csm, David Ermini.
«La nostra è una giustizia in affanno, in condizioni di grande fragilità – ha evidenziato Ermini, in un altro passaggio del suo intervento – La magistratura soffre di una perdita di credibilità che ha pochi precedenti; l’avvocatura soffre di un disagio professionale incrudelito dalle leggi di mercato. Crisi morale e di valori quella della magistratura; crisi economica e di identità quella dell’avvocatura. La giustizia come servizio pubblico essenziale, come servizio che risponda ai bisogni dei cittadini è realtà deficitaria da anni. E perciò richiede, a fronte del processo riformatore in corso, l’impegno sinergico e collaborativo di tutti gli attori della giurisdizione».
«Il mio auspicio è che il confronto e il discorso pubblico sulla giustizia possa finalmente e davvero liberarsi delle vecchie incrostazioni ideologiche per ricominciare a ragionare apertamente e senza preconcetti, ben sapendo che l’indipendenza e autonomia della magistratura sono requisito irrinunciabile dello stato di diritto e che una forte avvocatura è garanzia di libertà e democrazia» ha aggiunto Ermini, concludendo il suo intervento alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario forense.
«La partecipazione dell’avvocatura nelle articolazioni territoriali del sistema di autogoverno, in posizione non più soltanto simbolica, andrebbe accolta con serenità e minor preoccupazione, in quanto denota l’esistenza di una stretta colleganza tra magistratura e avvocatura nell’interesse del buon funzionamento della giustizia».
Masi (Cnf): «Dalla magistratura pregiudizi e veti sul voto degli avvocati». La relazione della presidente del Consiglio Nazionale Forense in apertura dell'anno giudiziario: «Stop alle misure emergenziali». Il dubbio il 25 marzo 2022.
Un grazie alla ministra Cartabia «per l’attenzione rivolta al tema del funzionamento dei Consigli giudiziari, con riferimento alla proposta del diritto al voto della componente laica e alle modifiche, in tema di accesso alle cariche elettive ed elezione e funzionamento del Csm». Lo ha espresso la presidente del Cnf Maria Masi, aprendo l’anno giudiziario forense, sottolineando che «non si condividono, a riguardo, le ragioni del dissenso, manifestato dalla componente associativa della magistratura e fondate su ipotetici conflitti d’interessi (il nostro sistema ordinamentale ne subisce di ben più gravi) che nella proposta governativa difficilmente si configurerebbero, tenuto conto della proposta del voto unitario e del preventivo parere reso dai consigli dell’ordine, a differenza del pregiudizio e delle riserve che invece nelle loro dichiarazioni sono facilmente ravvisabili».
L’avvocatura chiede «con particolare urgenza» che «siano revocate o almeno ridimensionate le misure emergenziali, adottate in un contesto, fortunatamente molto diverso da quello attuale», ha detto Masi nel corso della cerimonia al Maxxi di Roma, alla presenza della ministra Cartabia. «Dal prossimo mese di aprile – ha rilevato – saremo liberi di accedere, volendo, ad ogni iniziativa ludica, culturale ed è giusto che anche la Giustizia si disancori da limitazioni e divieti di accesso. Del resto, grazie all’utilizzo di forme e strumenti di comunicazione e lavoro le attività che esigono presenza si sono comunque ridotte e ridimensionate. Non è solo e tanto un problema di forma né un ’totem’ simbolico, ma una legittima esigenza funzionale al corretto e pieno esercizio della nostra funzione».
Spigarelli: «I magistrati si sentono proprietari della giustizia e non ammettono estranei». Intervista all’avvocato penalista. «Per decenni siamo stati abituati all’idea che le riforme che riguardavano le toghe avrebbero dovuto avere l’assenso della magistratura stessa. Ma non è affatto così». Valentina Stella su Il Dubbio il 24 marzo 2022.
In merito agli attacchi subiti in questi ultimi giorni dalla ministra Cartabia a causa del progetto governativo di riforma, abbiamo raccolto l’opinione dell’avvocato Valerio Spigarelli, past president dell’Unione Camere Penali Italiane.
Avvocato, per Gratteri è inaccettabile che gli avvocati possano votare nel Consigli giudiziari. Per lui questa previsione ha quasi l’odore della punizione. Come replicare?
Gratteri non è il solo a pensarla così. La contrarietà al diritto di voto è corale da parte della magistratura, fatta eccezione – ahimè – per magistrati che non sono più in servizio come Spataro e Canzio. Si tratta di un riflesso corporativo. Secondo loro il solo fatto che gli avvocati possano, all’interno del Consigli giudiziari, esprimere delle valutazioni sulla professionalità dei magistrati è un insulto. Si giustificano dicendo che un avvocato potrebbe vendicarsi per aver perso una causa o al contrario potrebbe sostenere il magistrato per ingraziarlo. Sono stupefatto dal tenore degli argomenti, che sottendono un’idea dell’avvocatura del tutto patologica, senza poter fornire alcun elemento concreto a sostegno.
Ma loro respingono anche l’idea di intermediazione del Coa. Secondo Michele Ciambellini (Unicost), il rischio di correntismo esiste anche all’interno dei Coa.
Dovrebbero evitare di dire certe cose. Il problema che ormai è noto a tutti è che proprio sulle valutazioni professionali dei magistrati sono intervenute le correnti interne alla magistratura, al di là del merito dei singoli magistrati. È davvero stupefacente addurre certe argomentazioni, dimenticandosi di quello che è successo fino a ieri. Tutto ciò si iscrive in una idea della magistratura come proprietaria della macchina giudiziaria, per cui gli estranei non sono ammessi; e all’interno di una visione degradante anche della figura sociale e professionale degli avvocati. Ed è ancora più sorprendente che certe valutazioni vengano estese persino all’istituzione pubblica che è il Coa. Eppure una recente sentenza della Corte Costituzionale in merito alla corrispondenza tra detenuti al 41 bis e avvocati ha stabilito che la presunzione di illegalità a carico dell’avvocato è inaccettabile.
Cos’altro ci dice tutto questo?
Che siamo in presenza di una ulteriore dimostrazione di quel riflesso proprietario che la magistratura italiana ha nei confronti dell’ordinamento giudiziario. Oggi (ieri, ndr) sempre Gratteri diceva che la magistratura è uno dei tre poteri dello Stato e che se un altro potere cerca di sopraffare l’altro ci perde la democrazia. Innanzitutto, semmai la magistratura è un ordine che amministra il potere giudiziario. Ma poi per troppi decenni siamo stati abituati all’idea che le riforme che riguardavano la magistratura avrebbero dovuto avere l’assenso della magistratura stessa. Ma non è affatto così. Semmai devono avere l’assenso della Corte Costituzionale una volta che sono state elaborate e qualcuno le ritenga contrarie alla Costituzione.
Qualche giorno fa ha fatto notizia, ma forse non troppo, la frase del Consigliere Cascini in merito agli illeciti disciplinari per i pm che violano la presunzione di innocenza. Ha parlato di “fucile sparato sui pm”. Che ne pensa?
Criticano la riforma perché metterebbe il bavaglio alle Procure. Proprio Cascini ha detto che i magistrati addetti alla procura di Milano non avrebbero potuto parlare di Mani Pulite se a quel tempo fosse stata in vigore la norma. Magari, dico io. Perché quella fu davvero una distorsione che è proseguita nel tempo: ossia il processo parallelo in cui le ragioni dell’accusa trovavano eco sulla stampa e avevano l’effetto primario di stritolare la figura dell’indagato. Su tutto questo ci sono state tante riflessioni, anche da parte dei magistrati, in numerosi convegni, in questi trent’anni, e molti ammettevano che il sistema, proprio sulla presunzione di innocenza era fuori dei binari costituzionali. Poi però quando, senza interpellare l’Anm, si prende carta e penna per costruire una norma che eviti, ad esempio, che l’indagato venga esibito come un trofeo di caccia durante una conferenza stampa, allora si aprono le cateratte del cielo e si invoca il diritto di informare da parte delle Procure. Ma il lavoro delle Procure è quello di indagare chi non rispetta la legge, non è mica quello di informare, a meno che non ci sia un pericoloso latitante in fuga o un farmaco che provoca deformazioni.
In generale sembra che la magistratura si stia mostrando molto conservativa rispetto alle proposte di riforma. Gli scandali sono stati già superati?
Non vedo nulla di diverso rispetto al passato, anche se l’immagine della magistratura è stata seriamente compromessa dai recenti scandali che vengono edulcorati da Anm che addossa la colpa a Palamara, o qualche altra eventuale “mela marcia”. Nel 2006, persino dinanzi ad una riforma straedulcorata come quella Castelli, si diceva che era scandalosa perché, mettendo mano all’ordinamento giudiziario, si ledevano l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Al di là del merito della riforma di cui si sta discutendo in queste ore – io per esempio non condivido il sorteggio come sistema elettorale del Csm – la magistratura dà sempre la stessa risposta: se il legislatore mette mano al nostro statuto – e da questo punto di vista la contrarietà alla separazione delle funzioni è significativo – noi ci opponiamo perché siamo noi che al massimo ci autoriformiamo.
Questa riforma non piace né alla magistratura né all’avvocatura e la politica è divisa. Allora perché la stiamo facendo?
L’esperienza passata, a partire dalle riforme abortite come la bicamerale o la riforma Castelli, ci dice che, al di là del naturale riflesso del legislatore che dinanzi a queste levate di scudi della magistratura è sempre pronto a genuflettersi, ci consiglierebbe di adottare strumenti più incisivi. Se noi vogliamo porre al centro il problema non soltanto della selezione della qualità della magistratura ma anche quello dell’architettura dell’ordinamento giudiziario dovremmo fare una riforma costituzionale, che è quello che ci si rifiuta di fare da anni e anni.
A partire dalla separazione delle carriere?
Certo ma non solo: riflettere anche sulla giustizia domestica dei magistrati, immaginare un’Alta Corte di Giustizia, prevedere un reclutamento laterale per concorso di avvocati e accademici. Insomma iniziare un percorso virtuoso che tenda ad eliminare proprio quel riflesso proprietario di cui sopra.
Ci vorrebbe un alto investimento politico.
Se non mette in campo una riforma di questo genere un Governo come questo, ossia con persone di altissimo profilo e con grande autonomia rispetto alle dinamiche politiche, finiremo nuovamente per ritrovarci con una politica “nana” o intimorita che non la farà mai.
I no di Cascini sul riserbo dei pm e i divieti che c’erano già dal 2006. «I procuratori», dice il togato, «saranno incolpati per aver convocato una conferenza stampa e non essersi limitati alla nota». Ma altri, come Spataro, promuovono le norme. Errico Novi su Il Dubbio il 18 marzo 2022.
E invece no: si tratta davvero di 16 anni. Perché è prevista, in Italia, dall’ormai archeologica riforma Castelli dell’ordinamento giudiziario ( anno 2006) la punibilità disciplinare dei magistrati che dovessero “ledere indebitamente diritti altrui” con “pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria”. È già perseguibile dunque il magistrato che violi un importantissimo “diritto altrui”, la presunzione di non colpevolezza, tutelato nientedimeno che dall’articolo 27 della Costituzione. Se proprio si vuol controllare di persona, ecco le coordinate della norma: articolo 2, comma 1, lettera v) del decreto legislativo 109/ 2006. Peccato che, in effetti, quasi nessuno ne conoscesse l’esistenza. Perché in 16 anni ne avevamo viste di tutti i colori. E dalle Procure erano filtrate ai giornali imbeccate di ogni genere. Altro che “diritti altrui”.
Non a caso l’ 8 novembre dell’anno scorso, il governo, su impulso della guardasigilli Marta Cartabia e del Parlamento, si è sentito in dovere di approvare il decreto sulla presunzione d’innocenza, che in alcuni passaggi ignora quasi la preesistenza di quelle misure del tutto simili. Si è dovuto ribadire il concetto, perché averlo già scolpito da tempo nella legge, evidentemente, era servito a ben poco.
Dopodiché mercoledì una delle più importanti figure dell’associazionismo giudiziario, il togato di Area Giuseppe Cascini, ha dichiarato al plenum di Palazzo dei Marescialli che, tra le «criticità più rilevanti» contenute nel maxiemendamento Cartabia alla riforma del Csm, spicca «l’estensione dell’illecito disciplinare» a «tutte le ipotesi di violazione delle disposizioni in materia di rapporti con la stampa introdotte dalla riforma del 2021 in tema di presunzione d’innocenza».
Secondo il consigliere, con la puntualizzazione disegnata dalla ministra si finirebbe col sindacare «scelte di natura discrezionale che dovrebbero essere riservate al procuratore della Repubblica». Le nuove norme d’altra parte ribadiscono che non esiste (non esisteva neppure prima) il diritto di danneggiare l’immagine di un presunto innocente. Non è che il procuratore può discrezionalmente decidere di distruggere la reputazione di un indagato, se vuole. Non può farlo. E se c’è un divieto, è giusto che ci sia una sanzione. Altrimenti che divieto è?
Ma Cascini, interpellato dal Dubbio, obietta una genericità dell’ipotesi disciplinare «che può compromettere qualsiasi tipo di comunicazione fra ufficio inquirente e stampa. E il motivo mi pare semplice: con la novità proposta dal maxiemendamento al ddl sul Csm, diventa sindacabile qualsiasi scelta compiuta dal procuratore nel quadro delle previsioni sulla presunzione d’innocenza. Può essere astrattamente perseguibile», spiega il consigliere, «la scelta di riferire ai media su una determinata indagine attraverso una conferenza stampa anziché un comunicato. Il titolare dell’azione disciplinare potrebbe mettere in discussione la sussistenza della rilevanza, oppure dell’interesse pubblico, delle specifiche esigenze investigative che, secondo le norme del 2021, consentono al capo dell’ufficio inquirente di optare per una delle residue opzioni comunicative previste. E in ogni caso, io non condivido affatto l’idea che una correttezza dell’informazione giudiziaria possa ottenersi con la messa sotto chiave delle notizie, anche quando non vi siano più esigenze investigative per farlo».
Cascini è un magistrato di grande valore ed esperienza: è stato ai vertici dell’Anm, prima di essere eletto a Palazzo dei Marescialli, ed è considerato un intransigente nella difesa dei colleghi, in particolare degli inquirenti, categoria a cui appartiene. Ha un punto di vista che lui stesso riconosce essere «radicale», in questo campo. Ma al di là delle legittime convinzioni di Cascini, la sensazione è che una parte della magistratura resti insofferente all’esistenza stessa della disciplina sulla presunzione d’innocenza. E che in fondo si voglia conservare lo status quo, cioè l’irrilevanza di provvedimenti, come quelli del 2006, pure codificati come leggi dello Stato. Mercoledì sera il ministero della Giustizia ha ricordato che «già c’erano divieti e sanzioni per il pm che facesse dichiarazioni senza un’autorizzazione del procuratore».
E neppure la magistratura è un monolite: un’altra figura di straordinaria autorevolezza del mondo togato, Armando Spataro, aveva lasciato nei giorni scorsi a disposizione della Camera una relazione in cui, dell’ulteriore stretta disciplinare sulla presunzione d’innocenza, dà valutazioni assai diverse: si tratta, aveva scritto, e detto in commissione Giustizia, di «modifiche certamente condivisibili». In particolare, «l’ipotesi di illecito relativo alla divulgazione di informazioni alla stampa si inquadra nell’altrettanto condivisibile scelta operata con il recente provvedimento in tema di presunzione di innocenza».
Inversione di rotta. Così lo strapotere della giustizia ha corroso la democrazia. Stefano Folli e Luciano Violante su L'Inkiesta il 14 Marzo 2022.
Dopo Mani Pulite e le stragi di Palermo la magistratura ha conquistato uno spazio inusitato che ha rotto l’equilibrio con gli altri poteri, portando alla crisi dei partiti e a un sistema giudiziario che barcolla. La nave va rimessa sulla giusta rotta, come ricordano Luciano Violante e Stefano Folli in “Senza vendette” (Il Mulino), di cui pubblichiamo la postfazione.
Questa conversazione nasce dall’esigenza di una riflessione, a trent’anni dal drammatico 1992, sulle relazioni tra giustizia, politica e cittadini. Sono uno snodo essenziale della democrazia perché la politica assicura diritti, doveri e benessere alla comunità, mentre la giustizia assicura gli stessi benefici ai singoli quando appaiano messi in pericolo. Per questa ragione lo stato di salute di una democrazia dipende in buona misura dalla politica, dalla giustizia e dalle relazioni tra l’una e l’altra.
Nel 1992 la magistratura si avviava ad una stagione di potere assoluto, sciolto da regole, sostenuta dal consenso dei cittadini e confortata dall’aureola di martirio che nasceva dalle stragi di Palermo. La politica, travolta dalle inchieste, incapace di ricostruire un ordine, preparava inconsapevolmente il proprio suicidio, alla spasmodica ricerca della impunità dei singoli, incurante del vuoto che si stava creando sotto i suoi piedi. In quel vuoto avrebbero prevalso la «disgregazione e l’avventura», secondo l’amara previsione di Craxi nel discorso a Montecitorio del 3 luglio 1992.
Nei trent’anni che sono seguiti, magistratura e politica hanno progressivamente perso la consapevolezza del proprio ruolo. Il degrado è stato progressivo. Tanto per la magistratura quanto per la politica è diventata preponderante la dimensione del potere rispetto a quella del servizio. Il prezzo è stato pagato dai cittadini.
La magistratura attraversa la più grave crisi di credibilità della sua storia. La politica non appare capace di riprendere nelle proprie mani la storia del paese. Anche oggi c’è un vuoto; ma oggi, a differenza di ieri, su quel vuoto c’è un ponte che vede da un lato Sergio Mattarella e dall’altro Mario Draghi. È una fortuna, ma la prudenza consiglia di non affacciarsi dal ponte per evitare che l’abisso ci chiami. L’intreccio tra regole confuse, prassi arbitrarie, apatie professionali e insipienze politiche ha generato grovigli velenosi e mai sazi.
Ne sono testimoni due eventi del gennaio 2022, il cui significato va ben oltre quel termine. La rielezione, non richiesta e non voluta, del presidente Mattarella è stata determinata dalla incapacità di trovare l’intesa su un’altra personalità politica adeguata a quell’impegno. Si è penosamente reiterata la confessione d’impotenza del 2013, quando i partiti pregarono Giorgio Napolitano di accettare la rielezione. Nell’altro campo, la sentenza con la quale il Consiglio di Stato, alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha azzerato i vertici della Cassazione costituisce il capitolo più grave di una competizione per il primato tra le diverse magistrature, che si protrae da tempo. La decisione del Csm di riconfermare immediatamente quei vertici, alla presenza del Capo dello Stato, ha risolto una pericolosa impasse, ma non ha curato la malattia.
Se si aggiungono le accuse reciproche, le dichiarazioni avventate e i comportamenti disdicevoli di magistrati in servizio, i libelli scandalistici scritti da chi ha ricoperto delicate funzioni giurisdizionali, risulta evidente che l’intero sistema di giustizia è privo di guida. L’arbitrio di molte decisioni e la scomparsa dei doveri come parametro delle relazioni professionali provocano sfiducia. L’imprevedibilità e la casualità delle decisioni mettono in crisi il principio di legalità.
Parallelamente, e paradossalmente, crescono le domande di giustizia, quelle rancorose, in materia di reati veri o presunti delle classi dirigenti e di quelle civili, in materia di diritti individuali, fine vita e diritti Lgbt. Queste domande, non trovando una risposta soddisfacente da parte del mondo politico, si rivolgono al giudice, che, per rispondere positivamente, a volte in assenza dei fatti e a volte in assenza della legge, ricorre ad interpretazioni creative. Ne deriva che la sua legittimazione non si fonda più sulla legge, ma, con un pericoloso stravolgimento, sulla capacità di rispondere alle istanze dei cittadini, che è invece la legittimazione propria della politica.
Tutte le magistrature hanno bisogno, ciascuna in misura propria, di un nuovo sistema di governo che ne garantisca l’efficienza, assicuri il rispetto dei confini costituzionali, salvaguardi l’indipendenza di tutti, fissi le responsabilità di ciascuno. Le preoccupazioni per l’economia sono ragionevolmente al centro dell’attenzione del Parlamento e del governo, ma non sarebbe saggio sottovalutare le interdipendenze tra un’affidabile macchina giudiziaria, il progresso economico e il benessere sociale.
La ridotta affidabilità della giustizia è un freno per lo sviluppo economico. Gli investitori stranieri e gli imprenditori italiani sono preoccupati dal «rischio penale», dipendente dalla incertezza delle leggi, dalla casualità delle inchieste, dal mancato rispetto della riservatezza delle indagini. Ieri potevano essere sufficienti rammendi di una trama ferita. Oggi, rischia di scomparire la trama. Non è più tempo di maquillage; occorrono interventi profondi anche di carattere costituzionale.
La politica non può rifugiarsi nei referendum o nella contestazione dei referendum. Le inesorabili leggi che la governano ci dicono che, se si rinviasse ancora, diventerebbe inevitabile un ordine totalmente autoritario, fondato sull’esercizio del nudo potere. In gioco a quel punto non sarebbe la giustizia, ma la stessa democrazia. Le prudenze, sempre necessarie quando si toccano gli equilibri costituzionali, non possono giustificare nuovi rinvii.
La politica deve considerare quello della giustizia come uno dei terreni sul quale cominciare a ricostruire la propria sovranità, il proprio senso della storia. Le magistrature nelle scelte e nei comportamenti, dentro e fuori gli uffici, devono rispettare i principi costituzionali dell’onore e della disciplina, che hanno fondamento non in nuove leggi, ma nella tradizionale educazione civile.
Nella conversazione con Stefano Folli sono avanzate alcune proposte specifiche. Autorevoli studiosi ne hanno avanzate altre, egualmente valide. Agire presto è una responsabilità della politica, senza vendette, ma con determinazione. Altrimenti l’abisso ci chiamerà.
da “Senza vendette. Ricostruire la fiducia tra magistrati, politici e cittadini”, di Luciano Violante in dialogo con Stefano Folli, Il Mulino, 2022, pagine 160, euro 13
La nota ufficiale della Corte. Perché sono stati bocciati i referendum su cannabis, eutanasia e responsabilità delle toghe: le motivazioni della Consulta. Fabio Calcagni su Il Riformista il 2 Marzo 2022.
Dopo la conferenza stampa del presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, questa volta è la ‘carta’ a chiarire perché il 17 febbraio scorso i giudici della Consulta hanno bocciato l’ammissibilità di tre degli otto referendum proposti, ovvero quelli su eutanasia, cannabis e responsabilità civile diretta delle toghe.
Cannabis
Secondo i giudici il referendum sulla “abrogazione di disposizioni penali e di sanzioni amministrative in materia di coltivazione, produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope” è inammissibile, secondo la costante giurisprudenza sull’articolo 75 della Costituzione, perché “si pone in contrasto con le Convenzioni internazionali e la disciplina europea in materia, difetta di chiarezza e coerenza intrinseca ed è, infine, inidoneo allo scopo”.
Il quesito infatti, così come era stato posto, “avrebbe condotto alla depenalizzazione della coltivazione di tutte le piante da cui si estraggono sostanze stupefacenti, pesanti e leggere, con ciò ponendosi in contrasto con gli obblighi internazionali”.
La Corte ha ritenuto che la lettura prospettata dai promotori “non è in alcun modo ricavabile dal testo normativo. Attraverso il richiamo testuale alla Tabella I, la “coltivazione” di cui si parla al comma 1 dell’articolo 73 non può che riferirsi alle droghe pesanti, e non già solo alla cannabis che, invece, è compresa nella Tabella II, richiamata dall’articolo 73, comma 4, del medesimo Testo unico”. La richiesta per i giudici della Corte “avrebbe condotto quindi alla depenalizzazione della coltivazione di tutte le piante da cui si estraggono sostanze stupefacenti, pesanti e leggere, con ciò ponendosi in contrasto con gli obblighi internazionali derivanti dalle Convenzioni di Vienna e di New York”.
Inoltre la Consulta ha osservato che il risultato perseguito dalla richiesta referendaria non sarebbe stato raggiunto “in quanto sarebbero rimaste nell’ordinamento altre norme, non toccate dalla richiesta referendaria, che sanzionano la coltivazione della pianta di cannabis nonché di ogni altra pianta da cui possono estrarsi sostanze stupefacenti (articoli 26 e 28 del Testo unico sugli stupefacenti)”. Ciò rendeva, in questa parte, il quesito “fuorviante” per l’elettore.
La decisione è stata depositata con la sentenza numero 51, con redattore Giovanni Amoroso).
Eutanasia
La Consulta ha giudicato inammissibile il referendum sull’abrogazione parziale dell’articolo 579 del Codice penale (omicidio del consenziente) perché “rendendo lecito l’omicidio di chiunque abbia prestato a tal fine un valido consenso, priva la vita della tutela minima richiesta dalla Costituzione”.
La sentenza, con redattore Franco Modugno, spiega che così facendo sarebbe stata sancita “la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo”.
L’approvazione del referendum “avrebbe reso lecito l’omicidio di chi vi abbia validamente consentito, a prescindere dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell’autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata.
La liceità insomma “sarebbe andata ben al di là dei casi nei quali la fine della vita è voluta dal consenziente prigioniero del suo corpo a causa di malattia irreversibile, di dolori e di condizioni psicofisiche non più tollerabili”.
Una normativa come quella dell’articolo 579 secondo la Consulta può essere modificata e sostituita dal legislatore, ma non puramente e semplicemente abrogata, senza che ne risulti compromesso il livello minimo di tutela della vita umana richiesto dalla Costituzione.
Responsabilità dei magistrati
Nel giudica inammissibile il referendum sulla responsabilità civile diretta dei magistrati, la Corte ha sottolineato come “la tecnica manipolativa del ritaglio, in sede di referendum, non è ammessa se con essa non ci si limita ad abrogare la normativa vigente ma si propone una disciplina giuridica sostanzialmente nuova, non voluta dal legislatore”.
Come noto i promotori miravano all’abrogazione di diverse disposizioni della legge n. 117 del 1988 (cosiddetta legge Vassalli), come modificata dalla cosiddetta riforma Orlando, n. 18 del 2015, che disciplina il regime della responsabilità civile dei magistrati per danni arrecati dagli stessi nell’esercizio delle loro funzioni.
Il quesito referendario mirava, mediante la tecnica del ritaglio abrogativo, a ricavare dalla normativa di risulta un’autonoma azione risarcitoria nei confronti del magistrato, per consentire al soggetto danneggiato di chiamarlo direttamente in giudizio.
La Corte ha ritenuto inammissibile il quesito “per il suo carattere manipolativo e creativo, non ammesso dalla costante giurisprudenza costituzionale: esso, infatti, attraverso l’abrogazione parziale della legislazione vigente, avrebbe introdotto una disciplina giuridica nuova, non voluta dal legislatore, e perciò frutto di una manipolazione non consentita”.
Il quesito è inoltre inammissibile per mancanza di chiarezza: “la normativa di risulta, infatti, non avrebbe consentito di configurare un’autonoma azione risarcitoria, esperibile direttamente verso il magistrato, poiché ne sarebbero rimasti oscuri i termini e le condizioni di procedibilità. Oscuro è anche il rapporto tra la stessa azione diretta e quella verso lo Stato, che sarebbe rimasta in vigore anche dopo l’abrogazione proposta dalle Regioni promotrici. Pertanto, la normativa di risulta – per come formulato il quesito referendario – non sarebbe stata idonea a definire i tratti e le caratteristiche della nuova azione processuale, che il quesito intendeva introdurre”.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Francesco Grignetti per “La Stampa” il 3 marzo 2022.
Il presidente Giuliano Amato aveva spiegato a braccio, la sera della decisione, perché tre quesiti referendari erano stati bocciati. Ora arrivano le motivazioni della Corte costituzionale.
Lunghe, articolate, ponderose ragioni per le «inammissibilità» che si possono leggere nella loro interezza sul sito della Consulta. Il referendum sulla responsabilità civile dei giudici non poteva essere ammesso perché non meramente abrogativo, ma manipolativo.
Quello sulla cannabis, perché in contrasto con le Convenzioni internazionali, difettava di chiarezza e coerenza intrinseca e infine era inidoneo allo scopo. Quello sull'eutanasia, perché appunto si sarebbe andati molto oltre l'eutanasia di un malato terminale, depenalizzando l'omicidio di un consenziente.
Questa è la fisiologia dell'iter referendario: dopo la raccolta delle firme e un vaglio della Cassazione, occorre anche il placet della Corte costituzionale. Che in tutta evidenza può essere favorevole o sfavorevole. Ma i comitati promotori stavolta non accettano la bocciatura.
Il Comitato cannabis legale, denuncia una «mistificazione a opera della Corte». Marco Cappato e Filomena Gallo, per il Comitato per la legalizzazione dell'eutanasia, addirittura accusano: «La Corte assesta un ulteriore illegittimo colpo al diritto costituzionale del popolo sovrano di poter ricorrere con successo all'istituto del referendum. Per dichiarare inammissibile il referendum, la Corte ha anticipato in sede di ammissibilità un giudizio astratto di legittimità costituzionale della normativa, errato in molti passaggi, non previsto dalla procedura».
Quanto alle motivazioni, l'abrogazione parziale dell'articolo 579 del Codice penale (omicidio del consenziente) non è stata considerata ammissibile poiché, «rendendo lecito l'omicidio di chiunque abbia prestato a tal fine un valido consenso, priva la vita della tutela minima richiesta dalla Costituzione».
Secondo il giudice costituzionale Franco Modugno, relatore, il quesito referendario avrebbe reso penalmente lecita l'uccisione di chiunque con il consenso della stessa al di fuori dei tre casi di «consenso invalido», ossia di minorenni; di persone inferme di mente o affette da deficienza psichica, per un'altra infermità o per l'abuso di alcool o stupefacenti; oppure estorto con violenza, minaccia, suggestione o carpito con inganno.
Così facendo, cancellando il reato di omicidio di consenziente, non sarebbero rimasti che questi tre paletti all'omicidio di una persone che l'avesse richiesto, «a prescindere dai motivi, dalle forme, dalla qualità dell'autore del fatto, e dai modi in cui la morte venisse provocata».
Come disse il presidente Amato a caldo, però, secondo la Corte costituzionale si sarebbe andati ben al di là dei casi nei quali la fine della vita è voluta da un malato consenziente, prigioniero del suo corpo a causa di malattia irreversibile, di dolori e di condizioni psicofisiche non più tollerabili. La Corte si è preoccupata invece delle persone più deboli, «vulnerabili di fronte a scelte estreme, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate».
E infine, sulla legalizzazione della cannabis, il quesito è stato dichiarato inammissibile, perché si poneva in contrasto con le Convenzioni internazionali e la disciplina europea in materia, ma anche difettava di chiarezza e coerenza intrinseca ed infine era inidoneo allo scopo.
Come si ricorderà, il quesito era suddiviso in tre parti: depenalizzazione della coltivazione della cannabis: eliminazione della reclusione da due a sei anni per tutti i reati concernenti le droghe leggere; no alla sospensione della patente in caso di uso personale di stupefacenti.
La Corte, relatore il giudice Giovanni Amoroso, ha rilevato invece che l'eliminazione della parola «coltiva» dal primo comma dell'articolo 73 del Testo unico sugli stupefacenti avrebbe depenalizzato anche la coltivazione del papavero sonnifero e della coca.
A dispetto delle intenzioni dichiarate, si andava molto al di là della coltivazione domestica e rudimentale di cannabis. «La Corte ha ritenuto che la lettura riduttiva prospettata dai promotori non è in alcun modo ricavabile dal testo normativo».
Referendum, Cappato: «Si tratta di sentenze politiche: Amato si scusi». Intervista al tesoriere dell’Associazione Coscioni dopo le motivazioni con cui la Consulta ha argomentato l’inammissibilità dei quesiti. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 3 marzo 2022.
Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Coscioni, davanti alle motivazioni con cui la Consulta argomenta l’inammissibilità dei referendum, sostiene che «Amato si dovrebbe almeno scusare con i comitati promotori» e che «se non si scusa dovrebbe dimettersi».
Cosa pensa delle motivazioni della Corte sull’inammissibilità del quesito in materia di fine vita?
Le motivazioni confermano la gravità della decisione di fondo, che è quella di anticipare in fase di ammissibilità il giudizio di costituzionalità sulla normativa che sarebbe risultata dal referendum. È grave perché il giudizio di ammissibilità si deve attenere a ciò che è scritto nella Carta, che esclude in modo tassativo tre materie, cioè le leggi di Bilancio, quelle di amnistia e indulto e quelle di ratifica di trattati internazionali. I profili di costituzionalità della normativa di risulta devono essere affrontati successivamente al voto, perché a quel punto la Corte ha un potere diverso, potendo fissare l’incostituzionalità parziale. In sostanza, la Corte avrebbe potuto intervenire dopo il referendum come ha fatto riguardo all’articolo 580 nel mio processo. Così come avrebbero potuto fare anche il Parlamento o il governo, che potevano dire che la depenalizzazione è eccessiva e limitarla ad alcuni casi.
La Corte ha scritto che «l’incriminazione dell’omicidio del consenziente risponde allo scopo di proteggere il diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili». Cosa risponde?
È proprio il soggetto debole che deve avere il diritto di essere aiutato a morire. È una motivazione che conferma una scelta politica di negare al popolo italiano il diritto di esprimersi su questo tema. Entrando nel merito, la Corte sembra voler ignorare totalmente la giurisprudenza in cui la Cassazione stabilisce che a viziare il consenso è necessaria anche una non totale riduzione della capacità psichica che renda pur momentaneamente il soggetto non pienamente consapevole delle conseguenze del suo volere. Delusioni amorose o crisi depressive, ad esempio, sarebbero rientrate nelle situazioni sottratte al voto del referendum.
Nelle motivazioni è scritto che nel quesito non rientravano i tre casi di “consenso invalido”, tra cui una deficienza causata dall’abuso di alcol. Su questo avevate avuto un duro scontro con Amato…
Il presidente Amato in conferenza stampa si è permesso di dire che con il nostro referendum una persona che aveva un po’ bevuto avrebbe potuto farsi ammazzare senza che l’omicida incorresse in qualche conseguenza. Ovviamente nelle motivazioni la Corte non ha potuto ripeterlo perché anche con l’approvazione sarebbe rimasto in vigore il terzo comma che riguarda l’abuso di sostanze alcoliche. La motivazione smentisce Amato, il che dimostra il volere politico della sentenza.
Il quesito sulla cannabis è invece definito «contraddittorio, contrario agli obblighi internazionali e inidoneo». Qual è il suo parere?
Pensiamo che anche questa motivazione dimostri la volontà di minare la credibilità del comitato promotore. Anche in questo caso, tutti i limiti sottolineati dalla Corte nel quesito, che è solo abrogativo, avrebbero potuto essere affrontati successivamente. Si vuole considerare che la coltivazione della pianta di coca non è ammissibile perché in violazione dei trattati internazionali? A parte che non è vero, ma anche se lo fosse stato, Parlamento, governo e la stessa Corte avrebbero potuto intervenire dopo il voto, non prima.
Rimaniamo però sulla questione cannabis. Cosa non vi convince ancora della decisione?
Ribadiamo che sono stati commessi errori grossolani nel merito, che indicano la volontà di anticipare a prima del referendum modifiche che potevano essere fatte dopo. Ancor di più dal momento che il presidente della Repubblica può ritardare l’entrata in vigore delle leggi derivanti dal referendum. In conferenza stampa Amato disse che la cannabis non era parte del referendum ipotizzando un errore del comitato. Ovviamente la motivazione non ha ripreso quell’errore, e io penso che Amato si dovrebbe almeno scusare con i comitati.
Poniamo che non lo faccia.
Se non si scusa dovrebbe dimettersi. Ma dovrebbe farlo a tutela della credibilità della Corte, non per espiare una colpa. Non possiamo permetterci di avere nel massimo organo della giurisdizione italiana un presidente che, nella conferenza stampa con cui spiega le motivazioni della bocciatura, dà informazioni false. Questo danneggia la credibilità dell’istituzione. Amato è un autorevolissimo giurista, non è una questione personale ma di difesa della Corte.
Quali saranno i vostri passi?
Sicuramente valuteremo se, sulla base delle motivazioni, gli errori contenuti nella conferenza stampa possano costituire elemento per un ricorso. Dopodiché rimangono due strade: quella parlamentare e quella delle azioni dirette, attraverso i ricorsi nei singoli casi e la disobbedienza civile.
Le motivazioni della Consulta. Amato si arrampica sugli specchi, ecco perché non voleva il voto sulla cannabis. Franco Corleone su Il Riformista il 3 Marzo 2022.
Il Presidente Amato aveva ammonito in diverse occasioni pubbliche che la sentenza avrebbe chiarito oltre ogni ragionevole dubbio i motivi della inammissibilità del referendum su alcune disposizioni repressive della legge antidroga del 1990. La lettura delle motivazioni conferma che la decisione è tutta politica: Questo referendum non s’ha da fare. La modestia delle argomentazioni impone di respingere al mittente l’accusa espressa da Amato nella conferenza stampa a caldo di avere sbagliato il quesito. Ora l’aggettivazione è arricchita, infatti sarebbe stato illusorio, fuorviante e inidoneo a raggiungere lo scopo di ammorbidire la persecuzione della cannabis.
L’errore scagliato in maniera irridente era di avere preso lucciole per lanterne, perché la cancellazione della condotta della coltivazione non riguardava la canapa ma il papavero e la coca, cioè le piante da cui si possono estrarre le droghe pesanti. In realtà l’errore marchiano della Corte era di connettere le diciassette condotte vietate descritte nel comma 1 dell’art. 73 del Dpr 309/90 con le tabelle I e III (contenenti le droghe pesanti), mentre il legame è con le pene per il reato compiuto, da sei a venti anni di carcere. La sentenza non può ristabilire la verità, perché chiarirebbe che la decisione si è fondata su un falso, quindi si arrampica sugli specchi, sostenendo che la canapa è ricompresa indirettamente, in quanto il comma 4 prevede per le condotte (compresa la coltivazione) riguardanti le tabelle II e IV una pena detentiva da due a sei anni. Non è così. La legge è scritta male, oltre che essere gravemente criminogena, ma è evidente che le diciassette condotte riguardano tutte le tabelle e le pene sono diverse per le droghe pesanti e leggere. A conferma di quanto sostengo sta il fatto che le condanne per le droghe leggere sono riferite al comma 1 e 4.
La Corte contesta lo slogan della campagna di propaganda, ma il titolo deciso dalla Cassazione e condiviso dal Comitato promotore è esplicito e non equivoco facendo riferimento alla abrogazione di disposizioni penali e di sanzioni amministrative relative alle sostanze stupefacenti e psicotrope. Non solo alla cannabis. Tralasciamo una parte sovrabbondante e inutile sulla legge Fini-Giovanardi cancellata nel 2014 dalla Corte Costituzionale. Viene ribadito con insistenza il vincolo dei criteri desumibili (sic) dall’articolo 75 della Costituzione, elaborati nel 1978 con la sentenza n. 16: il ventaglio dilatabile come una gomma americana va dalla chiarezza alla omogeneità, dalla univocità a una matrice razionalmente unitaria. Caratteristiche usate molto spesso arbitrariamente per cassare richieste referendarie scomode. Si dice che il quesito deve consentire ai cittadini una scelta libera e consapevole; a parte l’atteggiamento paternalistico, di tutela di incapaci di comprendere la posta in gioco, questa volta la domanda era chiara e limpida: Volete limitare i danni della guerra alla droga? Troppo accecante.
Siamo stati chiari nella scelta della eliminazione della fattispecie della coltivazione che nella giurisprudenza dei tribunali e della Cassazione riguarda quella forma domestica e artigianale caratterizzata dallo scarso numero di piante (spesso tenute sul balcone) appare destinata all’uso personale; lo scopo era di sancire una depenalizzazione circoscritta a una modalità precisa. Viene imputato il fatto di avere lasciato il divieto generale di coltivazione di tutte le piante, ma se l’avessimo tolto la bocciatura del referendum sarebbe stata ancora più netta. In realtà la coltivazione massiva e delle piante da cui secondo la Corte si ricavano le droghe pesanti sarebbe rimasta penalizzata avendo ben presenti le altre sedici condotte (produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve, a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene). Per la Corte l’architrave della repressione sta invece nella coltivazione della canapa. È la conferma che l’erba è davvero una pianta maledetta.
La Corte sbrigativamente sostiene che i vincoli internazionali rendono impossibile il referendum e ferma il tempo a sessant’anni fa. Il mondo è cambiato, le Convenzioni dall’Onu sono state ridimensionate a uno strumento flessibile e non rigido, affidato al giudizio degli Stati. La Corte ignora che l’Uruguay e il Canada hanno addirittura legalizzato la produzione e la vendita di cannabis senza conseguenze rispetto alle norme delle Convenzioni? La Corte non sa che l’eventuale violazione dei sacri testi della proibizione non prevede sanzioni? La Corte si preoccupa di essere accusata di basarsi sulla normativa di risulta per l’inammissibilità, ma è proprio così. Infatti la Corte sostiene che il referendum proponeva la cancellazione della pena del carcere per le violazioni legate alla cannabis, ma denuncia la contraddizione di avere mantenuto la pena carceraria per i fatti di lieve entità.
Il quinto comma dell’art. 73 riguarda sia le droghe pesanti che quelle leggere (comma 1 e 4), sarebbe stato ingiusto cancellare la possibilità di una sanzione (da sei mesi a quattro anni) più contenuta per fatti lievi riguardanti le droghe pesanti. D’altronde essendo una fattispecie autonoma, qualunque giudice l’avrebbe utilizzata per i fatti relativi al comma 1. Bontà sua la Corte non eccepisce nulla rispetto alla cancellazione del ritiro della patente, norma vessatoria e discriminante, ma purtroppo una sentenza della Corte del 2014 (n. 12) ha stabilito che il quesito non si può scindere e quindi non offre possibilità di soluzioni intermedia tra il rifiuto e l’accettazione integrale della proposta abrogativa. Peccato, neanche un contentino è concesso!
Che dire? La Corte Costituzionale di Amato ha dato uno schiaffo ai firmatari del referendum e ha inferto un duro colpo alla fiducia nelle Istituzioni. Il Parlamento da venti anni tiene chiuse nei cassetti le proposte di riforma della legge sulle droghe. Che fare? Occorre una azione incisiva per riaffermare i principi della Costituzione e i valori dello stato di diritto che devono valere anche per la Consulta. “Non Mollare” rimane il nostro motto, dell’intransigenza di fronte al potere. Franco Corleone
La magistratura militare si è persa nel limbo delle riforme. GIULIA MERLO su Il Domani il 25 febbraio 2022.
Nell’Italia in cui un processo penale dura in media più di quattro anni, con picchi di più di sei in alcune corti d’appello particolarmente oberate, i processi militari si risolvono entro tre anni e quasi senza reati prescritti.
La rapidità è dovuta al fatto che il contenzioso è poco: i procedimenti iscritti l’anno sono poco meno di 4000, e sono gestiti da 58 magistrati. Col risultato che la magistratura militare è iper-iper efficiente in quanto sottoutilizzata.
La soluzione sarebbe abolirla, ma servirebbe una riforma costituzionale, oppure – come chiedono gli stessi magistrati militari – riformare il loro codice penale in modo da attribuirgli nuove competenze, sgravando i magistrati ordinari. Ma la riforma è ferma in un limbo da anni.
Nell’Italia in cui un processo penale dura in media più di quattro anni, con picchi di più di sei in alcune corti d’appello particolarmente oberate, esiste una giurisdizione in cui tutto si risolve entro tre anni e quasi senza reati prescritti. Nei tribunali militari, infatti, il contenzioso si smaltisce a tempo di record per due ragioni: è poco, i procedimenti iscritti l’anno sono poco meno di 4000, e viene gestito da 58 magistrati divisi in tre circoscrizioni territoriali con tribunale e procura – Verona per tutte le regioni del nord; Roma per quelle del centro; Napoli per quelle del sud – e quattro uffici nazionali a Roma con il tribunale militare di sorveglianza, la corte militare d’appello con la procura generale e la procura generale presso la Corte di cassazione.
Questo disassamento avviene perchè la magistratura militare – che rientra tra le magistrature speciali insieme a quella contabile della Corte dei Conti e quella amministrativa del Consiglio di Stato –ha giurisdizione solo sui cosiddetti reati militari, ovvero solo quelli previsti dal codice penale militare di pace del 1941, commessi da militari in servizio. La rosa è estremamente ristretta e per nulla amalgamata con il codice penale ordinario. Per esempio: è reato militare l'omicidio tra militari di diverso grado, non lo è quello tra pari grado pur se commesso per cause di servizio; è reato militare la lesione volontaria e non quella colposa; sono reati militari il peculato e la truffa commessi da militari ma non lo sono la corruzione e la concussione.
Risultato: la giurisdizione militare è una piega del sistema giustizia che ne riassume in piccolo tutte le criticità. Iper-iper efficiente in quanto sottoutilizzata, è considerata alternativamente la cenerentola delle giurisdizioni speciali perchè di fatto povera di funzioni, oppure un posto d’oro per chi vi entra perchè ricca di onori e povera di oneri.
LA RIFORMA MANCATA
Le soluzioni, allora, sono due. La prima è quella di chi ritiene che la magistratura militare abbia esaurito la sua funzione e debba essere soppressa e assorbita dentro i ranghi della magistratura ordinaria perennemente sotto organico, magari in una sezione specializzata. La strada, però, non è agevole, a maggior ragione in questa fase politica: la magistratura militare è prevista dall’articolo 103 della Costituzione, quindi per la soppressione servirebbe una legge costituzionale.
L’alternativa è quella che chiedono gli stessi magistrati militari: aumentare la rosa di reati su cui hanno competenza, sgravando in questo modo gli ordinari di una parte – seppur minima – del contenzioso di cui sono carichi. Per farlo servirebbe una riforma organica del codice penale militare di pace, per la quale è sufficiente una legge ordinaria. Eppure il tema, all’ordine del giorno da anni, non è mai arrivato a concretizzarsi e la corte è rimasta nel limbo. E’ questo che chiede il presidente dell’associazione nazionale magistrati militari, Giuseppe Leotta, che interviene oggi in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario militare: «Esiste un paradosso della giustizia militare: la politica è alle prese con il problema del sovraccarico della giustizia penale ordinaria e non considera che da anni la magistratura militare chiede una riforma che la faccia lavorare di più. Una riforma a costo zero e senza bisogno di norme attuative».
Un disegno di legge è già pronto: alla Camera è in discussione un ddl di riforma del codice che ha accorpato due proposte – una di Fratelli d’Italia e una del Movimento 5 Stelle – e la scorsa estate è stato adottato il testo base, che prevede l’introduzione di una serie di nuovi reati, mutuati dal codice penale ordinario. Tutto, però, è ancora immobile. Secondo fonti interne alle commissioni, l’attuale maggioranza parlamentare «non è contraria alla riforma», ma nessuno intende muoversi senza il via libera del governo. Ma a mancare è proprio quello, a partire dai pareri di entrambi i ministeri. Quello della Difesa ha istituito una commissione ministeriale di studio, che però dopo cinque mesi ancora non ha completato i lavori. Quello della Giustizia, invece, in questa fase è tutto proiettato sulle altre riforme e quella militare non rientrerebbe tra le priorità di lavoro.
LA MAGISTRATURA ORDINARIA
Sul fronte della magistratura, del resto, il tema è delicato soprattutto ora che proprio le toghe sono al centro dell’ampia riforma prevista dal ddl sull’ordinamento giudiziario. La proposta di legge definisce come reato militare «qualunque violazione della legge penale commessa dal militare con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti allo stato di militare, o in luogo militare o a causa del servizio militare», allargando di conseguenza le categorie di reati anche a quelli contro la persona, oltre che contro il patrimonio, la pubblica amministrazione e l’ordine pubblico.
Aggiungere funzioni alla magistratura militare togliendole a quella ordinaria, però, convince solo parzialmente le altre toghe. «Un così ampio travaso di competenze creerebbe delle disfunzioni», ha scritto l’Associazione nazionale magistrati in un documento, spiegando che solo la magistratura ordinaria, diffusa in modo capillare e con l’aiuto della polizia giudiziaria, è in grado di garantire la «tutela dei diritti fondamentali della persona o di ampio espiro costituzionale». Tradotto: l’apertura concessa riguarda solo reati che rispondono al criterio della “doppia soggettività”: reati commessi da un appartenente alle forze armate contro un bene o un interesse che sia di esclusiva pertinenza dell’amministrazione militare. Alla fine, tra caute aperture e precisi distinguo, senza una riforma il risultato finale è sempre lo stesso: la magistratura militare continua ad essere sottoutilizzata, quella ordinaria mantiene le sue prerogative ma rimane oberata di lavoro. GIULIA MERLO
Il nuovo saggio di Cassese: «In Italia i pm si sono spinti oltre la Costituzione». Il costituzionalista: «Quello che la Costituzione definisce «ordine» è divenuto «potere». Al compito di dare giustizia si affianca quello di predicare le virtù». Il Dubbio il 25 febbraio 2022.
Pubblichiamo stralci del nuovo saggio del costituzionalista Sabino Cassese «Il governo dei giudici» (ed. Laterza) in uscita il 3 marzo 2022. «L’indipendenza è divenuta autogoverno. Familismo ed ereditarietà hanno aumentato separatezza e autoreferenzialità. Ci si attendeva razionalità e si è avuto populismo giudiziario. Ci si attendeva giustizia e si sono avuti giustizieri».
Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, scrisse il suo famoso libro nel 1748. Era nato ne11689 e morì ne11755. Visse, quindi, per 26 anni sotto il regno del Roi Soleil, Luigi XIV, che durò 72 anni. In quel tempo si rese conto che chi ha il potere è portato ad abusarne. Nel capitolo 6 del libro XI della sua opera illustrò la separazione dei poteri perché «il potere potesse limitare il potere». Influenzato da Montesquieu, il costituente americano Alexander Hamilton scrisse che il potere giudiziario è il meno pericoloso perché non controlla le forze armate e il bilancio.
Quella separazione dei poteri è ora tradita, come è stato osservato, dall’espansione del potere giudiziario in Italia, «una società amministrata dalla giustizia penale», che ha «l’ambizione alla popolarità» ed è circondata da un «alone mediatico». Di qui una «crisi di effettività e di autorevolezza della giurisdizione», alimentata anche dal «dato inconfutabile della irragionevole durata del processo italiano», nonché «da deprecabili episodi di illegittima diffusione di dati lesivi della dignità e riservatezza e della presunzione di innocenza della persona». Dinanzi a questo fenomeno, gli italiani si sono divisi tra i cosiddetti giustizialisti e i cosiddetti garantisti.
L’Eurobarometro segnala l’Italia tra i Paesi in cui l’indipendenza del sistema giudiziario è considerata negativamente e indica che il grado di fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario è del 37% mentre per la polizia e l’esercito è al 64%. Questa analisi ha mostrato che il governo dei giudici in Italia ha assunto caratteristiche diverse rispetto ad altri Paesi perché è più pervasivo. La magistratura è più presente nello spazio pubblico e meno capace di dare giustizia, ma si sente investita della delega sociale al controllo della virtù e si vale di un’opinione pubblica sensibilizzata, per utilizzare il naming and shaming. Le procure hanno maggiori poteri. II corpo politico è recessivo, anche se, talora, strumentalizza la magistratura.
La macchina della giustizia italiana è inadeguata a far fronte all’esplosione del diritto degli ultimi decenni e lascia la crescente domanda di giustizia insoddisfatta. Le cause iscritte e quelle pendenti sono troppe. La durata media dei processi è tra le più alte in Europa. Per questo, l’Italia è continuamente sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la fiducia degli italiani nell’affidabilità del ricorso alla giustizia è nettamente inferiore alla media europea, la maggioranza degli italiani è convinta che i giudici non siano imparziali, molte multinazionali sono restie dall’investire in Italia. Questa situazione ha gravi conseguenze sull’intero sistema istituzionale e sui rapporti tra Stato e cittadino.
Nell’attività rivolta all’esterno sono continue le interferenze della minoranza rumorosa con l’attività normativa dell’altro corpo dello Stato, quello legislativo, interferenze rafforzate da continui «appelli al popolo» in nome dell’onestà e di altre virtù. Simmetricamente, si registra una progressiva resa dell’autorità politico-legislativa al corpo dei magistrati (specialmente a quelli dell’accusa), resa che si sostanzia nella riduzione del perimetro dell’immunità riservata in origine dalla Costituzione ai parlamentari, in un allargamento legislativo del perimetro del diritto penale (ad esempio, con la creazione di nuove figure di reato) e in una tendenza del potere esecutivo e del presidente della Repubblica a disinteressarsi dell’organizzazione e del funzionamento della magistratura e della gestione del relativo personale. Quello che la Costituzione definisce «ordine» è divenuto «potere». Al compito di dare giustizia si affianca quello di predicare le virtù.
In conclusione, l’ordine giudiziario ha acquisito un ruolo diverso da quello prefigurato nella Costituzione. Nel 1948, si pensava a un corpo che amministrasse la giustizia, difeso da possibili interventi esterni, grazie alla sua indipendenza. Domanda di giustizia, debolezze del corpo politico, interesse di quest’ultimo a sfruttare l’indipendenza della magistratura, chiusura corporativa hanno, invece, modificato la «Costituzione materiale»: la magistratura ha fatto nello stesso tempo troppo poco e troppo.
DATAROOM. I giudici: incompatibilità e carriere. Le promozioni del Csm e come le ribalta il Tar. Milena Gabanelli e Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 23 febbraio 2022.
Le promozioni di giudici e pubblici ministeri le fa il Consiglio Superiore della Magistratura, loro organo di autogoverno. Se un candidato escluso non è soddisfatto fa ricorso al Tar e, al grado successivo, al Consiglio di Stato. Entrambi possono annullare la nomina. Succede sempre più spesso. Vediamo qualcuna di queste decisioni.
Nel luglio 2020 Pietro Curzio e Angelo Spirito fanno domanda per la carica di primo presidente di Cassazione. Il Csm nomina Pietro Curzio. Da giovanissimo Spirito era stato giudice istruttore al maxiprocesso contro la Nuova Camorra organizzata che portò al più noto errore giudiziario della storia: la condanna di Enzo Tortora, anche se a occuparsene direttamente era stato Giorgio Fontana (che poi lasciò la magistratura). Spirito non ne fu ritenuto responsabile, e non fu perseguito disciplinarmente, ma forse quella vicenda, formalmente inutilizzabile, nella valutazione del Csm ha avuto un peso. Spirito fa ricorso al Tar, che gli dà torto, e poi al Consiglio di Stato, che invece gli dà ragione e il 14 gennaio scorso annulla la nomina di Pietro Curzio. Motivo: l’anzianità di funzioni da giudice di legittimità di Spirito è di 23 anni, mentre quella di Curzio di 12 anni e mezzo. A questo punto il Csm deve procedere a nuova nomina e, la settimana dopo, alla presenza del presidente Sergio Mattarella, riconferma Curzio. Con nuove motivazioni. Più della durata nelle funzioni di legittimità, che comunque è «superiore a 6 anni», dice in sintesi la motivazione, va considerata la «massima intensità» dell’esperienza da entrambi svolta in maniera «eccellente». Requisito che li renderebbe «equivalenti». In più, valuta il Csm, Curzio ha una maggiore esperienza nell’ufficio spoglio e nella formazione dei magistrati. Spirito ha già presentato il ricorso al Tar denunciando la violazione del giudicato.
Le accuse incrociate
È stata annullata anche la nomina a procuratore capo di Roma di Michele Prestipino, preferito dal Csm al pg di Firenze Marcello Viola, perché finito in un intrigo di nomine pilotate. Il secondo era procuratore generale e quindi aveva più titoli del primo che invece era procuratore aggiunto. Il Csm rivota e la spunta il terzo contendente, il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi. La polemica sotterranea tra il Csm e i «cugini» della giustizia amministrativa, pronti ad accogliere i ricorsi e a stoppare nomine di candidati «inadeguati», continua. Anzi cresce con le accuse incrociate di pretendere dagli altri ciò che non si fa al proprio interno. Del resto le decisioni non comprensibili prese da Tar e Consiglio di Stato non sono poche.
La carriera: dove il Csm blocca, il Tar sblocca
Rilevante quella sul giudice Giuseppe De Benedictis. Lui aspirava a diventare presidente aggiunto dei gip di Bari. Il Csm gli aveva tarpato le ali con una valutazione negativa, ricordando un suo arresto nel 2010 per detenzione illegale di armi: vicenda da cui era stato prosciolto nel procedimento penale e in quello disciplinare. Il Tar gliele aveva restituite: visto che lo avevano scagionato non potevano non promuoverlo. Pochi giorni dopo però un nuovo arresto: trovato in casa un arsenale e 60 mila euro nascosti nelle prese elettriche. Secondo gli inquirenti, mazzette per scagionare mafiosi delle famiglie criminali baresi, foggiane e garganiche. Dalla magistratura De Benedictis se n’è andato da solo. Per la «vergogna». A Vincenzo Montemurro, nel 2017, il procuratore capo di Potenza Francesco Curcio revoca la delega delle indagini antimafia. Era saltata fuori una censura che gli era stata inflitta dal Csm per violazione del dovere di riservatezza «di primaria importanza» per le indagini antimafia. Si tratta di «prerequisito di qualsiasi magistrato addetto alla procura», scrive il procuratore, pur attestando serietà, capacità e dedizione del collega. Il Tar respinge le obiezioni e riassegna la delega a Montemurro con la seguente motivazione: l’articolo 102 del codice antimafia chiarisce che «le designazioni avvengono tenuto conto delle specifiche attitudini» descritte dall’articolo 3 della circolare 24930 che «non fa menzione né dei precedenti disciplinari, né delle circostanze che possono mettere in dubbio il riserbo del magistrato». Ma c’era bisogno di scriverlo?
«Lei non sa chi sono io»
Poi c’è Giorgio Alcioni, un giudice di Milano in rotta di collisione con un barista che voleva aprire un bar nel palazzo dove lui abitava. Tenta in tutti i modi di bloccare la pratica. Poi nomina consulente per una perizia Ctu in un suo processo lo stesso perito che doveva dirimere la sua controversia condominiale. Il barista lo denuncia. Brescia apre un’indagine. Al Csm scatta la valutazione negativa, ma il Tar del Lazio l’annulla: ha diritto a fare carriera. Il giudice è stato condannato pochi giorni fa in via definitiva per concussione a due anni e sei mesi. Al pm di Matera Annunziata Cazzetta il Csm dà una valutazione negativa sulla progressione di carriera. Non si era astenuta dal procedimento su un giornalista da lei stessa querelato. Il Consiglio di Stato il 13 febbraio 2019 l’annulla «la motivazione è generica». Il Csm allora specifica ed enumera tutti i procedimenti in cui la pm era parte in causa e non si era astenuta. Il Consiglio di Stato annulla ancora: il Csm avrebbe dovuto rivalutare l’imparzialità senza considerare elementi nuovi.
Chi nomina i giudici amministrativi
L’equivalente del Csm per i giudici amministrativi è il Cpga (Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa): la condizione di nomina è l’anzianità. Ai giudici amministrativi si ricorre per essere tutelati nei confronti della pubblica amministrazione, con una pronuncia oggettiva e imparziale. Eppure si registrano impugnazioni e si ascoltano, nelle sedute del plenum trasmesse da qualche mese in diretta su radio Radicale, vicende non proprio lineari. Vediamo un esempio. Il giudice Giuseppe Daniele nel 2019 fa domanda a presidente del Tar Marche. Viene respinta perché la figlia è avvocato amministrativista proprio ad Ancona e potrebbero trovarsi faccia a faccia in giudizio. Lui fa ricorso e nel frattempo viene nominato alla III sezione del Tar del Lazio. A giudicare il suo ricorso è un collega della stessa sede. Gli dà ragione: non c’è incompatibilità, basta l’astensione. Il Consiglio di Stato ribalta la decisione: c’è una «presunzione di assoluta incompatibilità» quando gli uffici giudiziari hanno un’unica sezione, come quello di Ancona, «a tutela non solo della sostanza, ma della semplice apparenza di imparzialità». Nel 2021 la sede del Tar Marche si rilibera. Giuseppe Daniele ritenta. La figlia nel frattempo ha vinto un concorso come avvocato o funzionario legislativo della Regione Marche e i suoi atti saranno oggetto di giudizio davanti al padre. Allora lei il 15 dicembre si cancella dall’albo della libera professione. È un atto scontato, gli avvocati della Regione hanno un albo speciale al quale lei si potrà iscrivere. Ma tanto basta per far dimenticare al Cpga la potenziale incompatibilità in giudizio: subito il giorno dopo il plenum nomina Daniele presidente. E la «sostanza»? E «l’apparire imparziale», dove sono finiti?
L’equivalente del Csm per i giudici amministrativi è il Cpga (Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa): la condizione di nomina è l’anzianità.
Incompatibilità per figli e parenti
La risposta la dà, in diretta radio, il presidente della commissione che si occupa delle nomine, Giampiero Lo Presti: «Mai questo consiglio di presidenza ha valutato ragioni di incompatibilità per coniugi o parenti, dipendenti pubblici soggetti alla giurisdizione amministrativa. Men che mai è stato fatto, e abbiamo ripetuti casi, allo stato anche attuali, di presidenti nominati con parenti, figli, mariti, mogli nell’Avvocatura dello Stato». E, se non fosse chiaro, aggiunge: «Quindi questa dilatazione, diciamo, del concetto di incompatibilità che oggi ci viene prospettata in relazione ad una situazione non attuale ma ipotetica futura è tale che dovrebbe portarci a ritenere sussistenti incompatibilità per tutti i rapporti con parenti o coniugi dipendenti della pubblica amministrazione o addetti ad uffici legali di avvocature pubbliche e quant’altro». Tutti sono avvertiti. A partire dal singolo cittadino che dovesse trovarsi di fronte come avvocato o avversario il figlio o il fratello del giudice, magari presidente, sappia che è inutile protestare.
Quando il Consiglio di Stato dice no e non motiva
Con qualcuno la severità c’è, più che con altri. Nella seduta del 16 dicembre 2021 si deve nominare il presidente del Tar Piemonte. Viene proposto dalla commissione (all’unanimità) il consigliere Silvestro Maria Russo. Ma il plenum dice: «no». Motivandolo con ritardi nel deposito delle sentenze, sebbene siano stati recuperati. Nella seduta successiva si deve decidere il presidente della III sezione del Tar Lazio. La commissione è di nuovo favorevole a Russo. Si va al dibattito. Russo, al momento della nomina, ritardi non ne ha più, ma la votazione segreta lo impallina ancora. Senza alcuna motivazione. Al punto che l’allora Presidente del Consiglio di Stato, Patroni Griffi, commenta: «Vorrei sapere cosa scrivete dentro questo diniego. Mi pare un atto suicida». E lascia l’aula affermando che, per la prima, è stata votata una delibera «immotivabile». Lo seguono altri consiglieri per cui la seduta termina. Arriva il nuovo Presidente del Consiglio di Stato, Franco Frattini, che affronta il caso proponendo di formulare due proposte motivate, quella favorevole e quella contraria. Il voto rimarrebbe segreto, ma quantomeno accompagnato da una motivazione. Quella motivazione che il giudice amministrativo pretende per le nomine del Csm. Si levano mugugni con la scusa che la «segretezza potrebbe venire meno». Si attende una risposta.
Sondaggio giustizia, sui referendum quorum difficile. Fiducia nei magistrati ai minimi. Nando Pagnoncelli su Il Corriere della Sera il 18 Febbraio 2022.
In tre casi prevalgono i sì, no su Severino e custodia cautelare. Anche nel Movimento 5 Stelle critiche alle toghe.
Per una singolare coincidenza, nei giorni in cui ricorrevano i trent’anni dall’avvio di Mani Pulite, l’inchiesta che sconvolse il sistema partitico italiano, il governo Draghi ha approvato la riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario. Ma le coincidenze non finiscono qui: Piercamillo Davigo, uno dei magistrati di punta dell’inchiesta, è stato rinviato a giudizio con l’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio nel caso dei verbali di Piero Amara, proprio nel giorno del trentennale dell’arresto di Mario Chiesa che diede inizio a Mani Pulite; infine, Giuliano Amato, premier all’epoca di Tangentopoli, a fine gennaio è stato eletto presidente della Corte Costituzionale, che in questa settimana è stata chiamata ad esprimersi sull’ammissibilità di diversi referendum, la maggior parte dei quali riguardanti la giustizia.
In questi trent’anni il rapporto degli italiani con la giustizia è profondamente cambiato, come pure le opinioni sulla magistratura. Infatti, se negli anni 90 i giudici erano considerati eroi popolari e godevano del consenso di oltre nove cittadini su dieci, oggi solo uno su tre (32%) dichiara di avere fiducia nella magistratura. Si tratta del livello più basso di sempre, basti pensare che nel 2010 il 68% si esprimeva positivamente nei confronti dei giudici e da allora in poi abbiamo registrato un calo continuo. Dunque, la maggioranza assoluta (56%) non ha fiducia nei giudici e i più critici risultano gli elettori del centrodestra: FdI 74%, Lega 65% e FI, insieme alle altre forze minori, 64%. La fiducia prevale solo tra gli elettori del Pd (67%), mentre i pentastellati, presumibilmente a seguito delle vicende che hanno riguardato il Movimento (sospensione dell’elezione di Conte a capo e inchieste su alcuni esponenti), si dividono: 50% non ha fiducia, contro il 44% che dichiara di fidarsi. È un dato sorprendente tenuto conto del fatto che il M5S ha sempre fatto della giustizia un cavallo di battaglia. In realtà, gli atteggiamenti di molti cittadini sono cambiati anche in concomitanza con il tramonto politico di Berlusconi che ha avuto un rapporto conflittuale con i giudici e ciò ha indotto molti elettori a prendere posizione indipendentemente dal merito delle questioni.
Oggi il tema non rappresenta più un tabù e la stragrande maggioranza si esprime negativamente nei confronti della giustizia. In particolare, le critiche riguardano i tempi eccessivi dei processi, riconducibili alla farraginosità delle leggi (48%) e alla carenza di organico (40%), alla scarsa professionalità dei giudici alcuni dei quali si sono resi protagonisti di errori giudiziari e sentenze discutibili (27%), nonché ai comportamenti illeciti tra i vertici della magistratura (25%). Non mancano le critiche riguardo al rapporto dei giudici con la politica, in termini di dipendenza (22%) o di protagonismo e rivalsa (19%). Tra i dem le critiche riguardano più i tempi della giustizia, mentre tra gli elettori del centrodestra sono più accentuati le contestazioni del rapporto con la politica. La riforma Cartabia è stata seguita solo dal 28% dell’opinione pubblica, di cui una quota marginale (7%) ha approfondito con attenzione. Cionondimeno, lo stop alle “porte girevoli” previsto dalla riforma, ossia l’impossibilità per i giudici eventualmente eletti a cariche politiche di tornare ad esercitare l’azione penale al termine del loro mandato, incontra un consenso elevato (57%). Anche i referendum promossi dai Radicali e dalla Lega sono stati oggetto di poca attenzione: poco più di uno su tre ha seguito molto (7%) o abbastanza (28%) le notizie al riguardo.
Nel merito dei singoli quesiti referendari e della relativa propensione a recarsi ai seggi, la maggioranza assoluta degli italiani dichiara di non avere un’opinione o non avere intenzione di partecipare al referendum. Tra coloro che si esprimono, prevale la propensione a votare sì per i quesiti riguardanti le candidature al Csm (23% contro 11% a favore del no), l’equa valutazione dei magistrati (28% contro 12%), nonché la separazione delle funzioni dei magistrati giudicanti (36% contro 10%). Anche nel caso del quesito respinto dalla Corte costituzionale sulla responsabilità diretta dei magistrati prevalgono i sì (30% a 17%). Viceversa, prevarrebbero i no per i quesiti relativi alla riduzione dei limiti della custodia cautelare (26% contro 17% a favore del sì) e all’abolizione della legge Severino (26% a 20%). Gli orientamenti sui singoli quesiti da parte dei diversi elettorati sono in larga misura coerenti con le posizioni assunte dai partiti che si sono più esposti sui temi della giustizia. Nel complesso la scarsa dimestichezza dei cittadini riguardo alle questioni giuridiche e la minore attrattività dello strumento referendario (non a caso dal 1997 in poi non è stato raggiunto il quorum in occasione di 7 degli 8 referendum indetti) ad oggi inducono a ritenere estremamente difficile il raggiungimento del quorum. In ogni caso, qualora venisse raggiunto e si affermassero i sì, il 42% è del parere che l’esito consentirebbe di migliorare il funzionamento della giustizia, mentre il 33% si mostra scettico.
Dunque, lo scenario attuale mostra che alla prevalente sfiducia nei confronti dei partiti e della politica si somma la sfiducia per i magistrati e l’insoddisfazione per l’amministrazione della giustizia. La politica, soprattutto quella più critica nei confronti della magistratura, farebbe bene ad evitare di considerarla una sorta di rivincita del potere legislativo su quello giudiziario. Il nostro sistema democratico si basa sull’equilibrio dei poteri, non sul conflitto tra gli stessi. E l’impopolarità di giudici e politici è una sconfitta per tutti.
Il sondaggio: crolla la fiducia degli italiani nella magistratura. Il Dubbio il 19 febbraio 2022.
«I pentastellati, presumibilmente a seguito delle vicende che hanno riguardato il Movimento (sospensione dell'elezione di Conte a capo e inchieste su alcuni esponenti), si dividono: 50% non ha fiducia, contro il 44% che dichiara di fidarsi»
Dal sondaggio pubblicato sul “Corriere della Sera“, a firma di Nando Pagnoncelli, la fiducia degli italiani nei confronti della magistratura è notevolmente diminuita. Il sondaggista e accademico italiano, infatti, scrive che «se negli anni 90 i giudici erano considerati eroi popolari e godevano del consenso di oltre nove cittadini su dieci, oggi solo uno su tre (32%) dichiara di avere fiducia nella magistratura. Si tratta del livello più basso di sempre, basti pensare che nel 2010 1168% si esprimeva positivamente nei confronti dei giudici e da allora in poi abbiamo registrato un calo continuo. Dunque, la maggioranza assoluta (56%) non ha fiducia nei giudici e i più critici risultano gli elettori del centrodestra: FdI 74%, Lega 65% e FI, insieme alle altre forze minori, 64%».
«La fiducia prevale solo tra gli elettori del Pd (67%), mentre i pentastellati, presumibilmente a seguito delle vicende che hanno riguardato il Movimento (sospensione dell’elezione di Conte a capo e inchieste su alcuni esponenti), si dividono: 50% non ha fiducia, contro il 44% che dichiara di fidarsi. È un dato sorprendente tenuto conto del fatto che il M5S ha sempre fatto della giustizia un cavallo di battaglia» evidenzia il sondaggista.
«Le critiche riguardano i tempi eccessivi dei processi, riconducibili alla farraginosità delle leggi (48%) e alla carenza di organico (40%), alla scarsa professionalità dei giudici alcuni dei quali si sono resi protagonisti di errori giudiziari e sentenze discutibili (27%), nonché ai comportamenti illeciti tra vertici della magistratura (25%)» afferma Pagnoncelli sul Corriere della Sera, mentre «la riforma Cartabia è stata seguita solo dal 28% dell’opinione pubblica, di cui una quota marginale (7%) ha approfondito con attenzione. Cionondimeno, lo stop alle “porte girevoli” previsto dalla riforma, ossia l’impossibilità per i giudici eventualmente eletti a cariche politiche di tornare ad esercitare l’azione penale al termine del loro mandato, incontra un consenso elevato (57%). Anche i referendum promossi dai Radicali e dalla Lega sono stati oggetto di poca attenzione: poco più di uno su tre ha seguito molto (7%) o abbastanza (28%) le notizie al riguardo».
Per quanto riguarda i quesiti referendari, dal sondaggio pubblicato sul giornale di via Solferino, si evince che «prevale la propensione a votare sì per i quesiti riguardanti le candidature al Csm (23% contro u% a favore del no), l’equa valutazione dei magistrati (28% contro 12%), nonché la separazione delle funzioni dei magistrati giudicanti (36% contro 10%). Anche nel caso del quesito respinto dalla Corte costituzionale sulla responsabilità diretta dei magistrati prevalgono i sì (30% a 17%)».
Il giudizio su Mani pulite passa per quei quesiti…Il referendum, in realtà, sarà un plebiscito sugli effetti della stagione di Tangentopoli. Francesco Damato su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.
Anche se è saltato quello forse più eclatante, avendo la Consulta voluto proteggere ancora i magistrati dalla responsabilità civile con quella specie di filo spinato concesso loro dal Parlamento nel 1998, quando una nuova legge vanificò il verdetto popolare di qualche mese prima prodotto dallo sdegno più che giustificato per la vicenda giudiziaria dell’incolpevole Enzo Tortora, i cinque referendum sulla giustizia ammessi dalla Consulta offriranno in primavera agli elettori una preziosa occasione per rispondere ad un quesito in qualche modo sotterraneo a quelli che saranno stampati sulle schede.
A «Ma alla fine “Mani Pulite” vi è piaciuta?» Ecco la vera domanda dietro ai 5 quesiti
Il referendum, in realtà, sarà un plebiscito sugli effetti della stagione di Tangentopoli
Anche se è saltato quello forse più eclatante, avendo la Corte costituzionale voluto proteggere ancora i magistrati dalla responsabilità civile con quella specie di filo spinato concesso loro dal Parlamento nel 1998, quando una nuova legge vanificò il verdetto popolare di qualche mese prima prodotto dallo sdegno più che giustificato per la vicenda giudiziaria dell’incolpevole Enzo Tortora, i cinque referendum sulla giustizia ammessi dalla Consulta offriranno in primavera agli elettori una preziosa occasione per rispondere ad un quesito in qualche modo sotterraneo a quelli che saranno stampati sulle schede. E che – quasi illuminando l’altra faccia della luna – potremmo così formulare, anche a costo di scandalizzare i giudici costituzionali, a cominciare dal loro presidente Giuliano Amato, “sottile” in dottrina e in tante altre cose, compresa la politica da lui servita come sottosegretario, ministro e due volte capo del governo: siete scontenti o no degli effetti di “Mani pulite”, di cui si celebra quest’anno il trentesimo anniversario?
Se siete scontenti, come d’altronde lo fu persino l’ex capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli scusandosene pubblicamente alla presentazione di un libro evocativo scritto da Paolo Colonnello, uno dei cronisti giudiziari che le aveva raccontate più diligentemente, potete tranquillamente rispondere si alla proposta di abrogare le norme che le avevano permesse, o sopraggiunte per rafforzarne il risultato complessivo. Che fu quello di sottomettere la politica alla giustizia, rovesciando i rapporti di forza voluti dai costituenti, a cominciare dall’amputazione dell’immunità parlamentare scritta nel testo originario dell’articolo 68 della Costituzione per finire con la violazione largamente consentita a quel poco rimastone ancora in vigore, specie in materia di intercettazioni. Luciano Violante, promotore di quella modifica costituzionale, se n’è appena un po’ pentito sul Foglio.
Se non siete invece scontenti, o addirittura siete pienamente soddisfatti delle esaltazioni che ancora si fanno di quelle gesta, potete tranquillamente rispondere no all’abrogazione delle norme che ancora consentono, per esempio, l’unicità delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti, il ricorso abbondante alla carcerazione preventiva, prima del processo cui spesso neppure si arriva col rinvio a giudizio, o l’applicazione retroattiva di norme, pene e sanzioni introdotte successivamente a “Mani pulite” per rafforzarne, diciamo così, la logica.
Mi riferisco, a quest’ultimo proposito, alla cosiddetta legge Severino, contestata da uno dei referendum per fortuna ammessi dalla Corte Costituzionale e costata nel 2013 il seggio del Senato a Silvio Berlusconi con votazione innovativamente palese disposta dall’allora presidente del secondo ramo del Parlamento, casualmente ex magistrato: Pietro Grasso.
Che ancora se ne compiace e casualmente, di nuovo – si è appena doluto come senatore semplice di maggioranza del disturbo che può procurare la campagna referendaria all’esame parlamentare in corso di alcune reali o presunte riforme parziali della giustizia che il governo di Mario Draghi ha ereditato dal precedente proponendosi però di modificarle in senso più garantista, o meno giustizialista, come preferite, considerando la militanza grillina dell’ex guardasigilli Alfonso Bonafede. Che è quello – per darvi un’idea riuscito a strappare all’epoca della maggioranza gialloverde il consenso anche di una senatrice e avvocata come la leghista Giulia Bongiorno all’introduzione, come una supposta in una legge contro la corruzione, di una norma per la soppressione della prescrizione all’arrivo della sentenza di primo grado.
Coraggio, elettori referendari: riflettete e datevi da fare con molta e molto buona volontà.
Tanto, Travaglio in cabina non vi vede, come si diceva di Stalin nelle storiche elezioni del 1948 stravinte dalla Dc contro il fronte popolare contrassegnato dall’immagine dell’incolpevole Giuseppe Garibaldi. Cito Travaglio perché egli ha appena scritto che quella di «Mani pulite», con tutti gli effetti che ne sono derivati, «fu una rara parentesi di normalità nel Paese di Sottosopra», testuale.
Giustizia ma anche libertà. Angelo Panebianco su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2022.
Nel campagna per il voto sulla separazione delle funzioni fra pm e giudici si confronteranno due visioni antitetiche del ruolo dello Stato. Le due seguenti citazioni, tratte da Montesquieu, potrebbero ispirare le scelte di una parte dei cittadini italiani nella prossima campagna referendaria. Scrive Montesquieu: «È però un’esperienza eterna che ogni uomo il quale ha in mano il potere, è portato ad abusarne, procedendo fino a quando non trova dei limiti». Ne consegue che «bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere freni il potere». Frasi che risalgono al Settecento ma che oggi possono aiutarci a capire perché il referendum sulla giustizia simbolicamente più importante — anche se gli effetti pratici si manifesterebbero solo nel lungo periodo — sia quello sulla separazione delle funzioni fra giudici e pubblici ministeri. Separazione delle funzioni, non (ancora) delle carriere. Ma sarebbe comunque un primo, significativo passo in quella direzione.
Proviamo a sollevarci al di sopra delle polemiche contingenti. In trent’anni di conflitti fra magistratura e politica gli argomenti usati da una parte e dall’altra sono sempre gli stessi. Molti di noi li conoscono tutti a memoria. Consideriamo piuttosto le «filosofie» che si scontreranno sulla separazione delle funzioni, proviamo a rendere esplicito ciò che altrimenti resterebbe implicito, inespresso. In quella campagna referendaria si confronteranno due visioni antitetiche del ruolo dello Stato in una democrazia. Possiamo chiamarle la concezione paternalista e la concezione liberale.
Sgombriamo il campo da un falso problema. Ci saranno, come è inevitabile, molte esagerazioni polemiche da una parte e dall’altra. C’è chi dirà che se passasse la separazione, per la giustizia italiana sarebbe una catastrofe e c’è chi dirà che finalmente avremo, di colpo, un ottimo sistema di giustizia rispettoso delle libertà dei singoli. Niente di tutto questo. All’inizio, e probabilmente per un lungo periodo, non cambierebbe nulla. Né nei comportamenti dei pm né in quelli dei giudici. Proprio perché separare le funzioni non è ancora separare le carriere. Pm e giudici continuerebbero ad essere governati dallo stesso Consiglio superiore della magistratura, a fare parte delle stesse correnti, ad essere rappresentati dallo stesso sindacato, eccetera. Nel lungo periodo, però, qualche cambiamento ci sarebbe. Anche se lentamente, molto lentamente, muterebbero le mentalità. Si modificherebbero, per cominciare, gli atteggiamenti del pubblico, finirebbe la pessima abitudine di chiamare «giudici» i procuratori (con il terribile effetto pratico di scambiare gli atti delle procure per sentenze e tanti saluti, nella consapevolezza generale, alla presunzione di non colpevolezza). Alla fine costume e prassi giudiziarie si adeguerebbero. E forse l’effetto finale sarebbe una vera e propria separazione delle carriere. Ma, appunto, ciò non si realizzerebbe dalla sera alla mattina. Ci vorrebbe tempo, molto tempo.
Tuttavia, intorno a questo referendum più che agli altri si giocherà una partita decisiva per il futuro della democrazia italiana. Con questa prova referendaria decideremo se tutelare la libertà del cittadino sia altrettanto importante che assicurare alla giustizia i colpevoli di reati, decideremo in sostanza se ci interessa vivere in una autentica democrazia liberale oppure se, per perseguire altri nobili scopi (colpire la corruzione o la criminalità organizzata o altro) siamo disposti a sacrificare certe garanzie di libertà. Non c’è soltanto la strada scelta dall’Ungheria di Orbán. Ci sono molti e diversi modi per rendere illiberale una democrazia.
Gli argomenti usati da coloro che difendono l’unità delle funzioni (e quindi anche delle carriere) sono chiari. Essi dicono che, proprio allo scopo di tutelare meglio il cittadino, occorre che il pubblico ministero partecipi di quella che essi chiamano la «cultura della giurisdizione», ossia che egli non sia distante, professionalmente e culturalmente, dal giudice. In controluce si scorge una concezione paternalistica dell’amministrazione della giustizia (e quindi anche della democrazia). È il pm che operando senza essere limitato da forti contrappesi, contempera, grazie alla sua cultura e alla sua professionalità, il perseguimento dei reati e la tutela delle libertà costituzionalmente garantite. La concentrazione del potere che si è realizzata a causa dell’unità delle carriere, per i sostenitori di questa tesi, non è affatto un pericolo. La salvaguardia per tutti è data, in sostanza, dalla professionalità del pubblico ministero.
La tesi opposta è di chi, d’accordo con Montesquieu, pensa che la libertà sia tutelata quando, e solo quando, a un potere se ne contrappone un altro, quando le prerogative dell’uno sono bilanciate dalle prerogative di un altro, quando «il potere frena il potere». Se il pubblico ministero è solo l’avvocato dell’accusa con pari peso e dignità rispetto all’avvocato difensore e il giudice è davvero «terzo» non per buona volontà o per gentile concessione ma perché glielo impone l’assetto proprio dell’organizzazione giudiziaria, allora, e solo allora, è sperabile che l’amministrazione della giustizia si avvicini almeno un po’ a un antico ideale, che diventi possibile perseguire i reati senza passare come rulli compressori sulle libertà costituzionalmente garantite. Non è dalla «benevolenza» del pubblico ministero che dobbiamo aspettarci il rispetto di quelle libertà, è da un sistema di «pesi e contrappesi» ben funzionante. Ciò che l’unità delle carriere, come si è potuto constatare in tutti questi anni, non è stata in grado di assicurare. Ci sarà pure una ragione per la quale, con le sole eccezioni di Italia e Francia, la divisione delle carriere sia la regola in tutte le democrazie liberali. Separando le funzioni cominceremmo a incamminarci su quella strada.
Magari il Parlamento che, diciamolo, negli ultimi tempi non ha sempre dato brillanti prove di sé, ci sorprenderà. Magari il referendum sulla separazione decadrà perché il Parlamento riuscirà a fare una buona legge ispirata al principio liberale sopra evocato.
Forse arriverà un giorno in cui avremo un giudice compiutamente «terzo», al di sopra dell’accusa e della difesa, grazie alla scomparsa dei legami organizzativi fra giudici e pubblici ministeri. E i pubblici ministeri, a loro volta, dovranno fare i conti con un forte potere controbilanciante. Secondo le regole, sempre faticose e difficili, da cui dipende la tutela delle libertà.
Coppi controcorrente: «Ma quale separazione delle carriere: i problemi della giustizia sono altri». Coppi contrario all'abolizione della Severino e alla separazione delle carriere. «Ieri ho discusso un omicidio del '96. E questa lentezza è legata a questioni che sarebbe lungo spiegare ma che non mi sembra abbiamo ancora soluzione». Il Dubbio il 18 febbraio 2022.
Il professor Franco Coppi, uno dei penalisti più conosciuti in Italia, va controcorrente rispetto alle decisioni della Consulta sul Sì alla Legge Severino e alla separazione delle carriere dei magistrati. Il suo pensiero lo ha affidato al Corriere della Sera in un’intervista pubblicata nell’edizione odierna. «Fermo restando che il referendum è un istituto attraverso cui si manifesta la volontà popolare, penso che quella legge risponda a un sentimento diffuso» riferendosi alla Legge Severino che anni fa causò la decadenza di Silvio Berlusconi, assistito proprio da Coppi, «ovvero che non si possa aspirare a determinate cariche pubbliche avendo ricevuto condanne almeno per alcuni reati, tipo quelli contro la pubblica amministrazione, contro lo Stato o di riprovazione sociale come quelli sessuali. Per reati bagattellari o colposi, come l’omicidio stradale, sarei più di manica larga».
Sulla separazione delle carriere invece ritiene che «creeremmo degli automi. Lo scambio di esperienze aiuta a interpretare il singolo ruolo. Ho conosciuto magistrati che da giudici istruttori sono diventati pm e poi giudici, interpretando benissimo i vari ruoli. Ci penserei. Il referendum è un po’ tranchant. Invece c’è molto da riflettere su regole per i passaggi e altro. Io ci penserei», mentre sulla legge elettorale per il Csm afferma che «finché del Csm faranno parte i magistrati, anche estratti a sorte, si riproporranno giochi, giochetti e giochini. Ma sono problemi complessi e delicati. Deve occuparsene il Parlamento».
Infine, Coppi parla dei tempi lunghi della giustizia. «lo sto tutti i giorni in Tribunale a Roma e vedo arrivare in Cassazione processi che sono durati i5 anni. Ieri ho discusso un omicidio del ’96. E questa lentezza è legata a questioni che sarebbe lungo spiegare ma che non mi sembra abbiamo ancora soluzione».
Il professor Coppi attacca: “Ma quale separazione delle carriere: i problemi della giustizia sono altri”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Febbraio 2022
Ho conosciuto magistrati che da giudici istruttori sono diventati pm e poi giudici, interpretando benissimo i vari ruoli. Ci penserei. Il referendum è un po’ tranchant. Invece c’è molto da riflettere su regole per i passaggi e altro. Io ci penserei", mentre sulla legge elettorale per il Csm afferma che "finché del Csm faranno parte i magistrati, anche estratti a sorte, si riproporranno giochi, giochetti e giochini. Ma sono problemi complessi e delicati. Deve occuparsene il Parlamento".
Il professor Franco Coppi, è uno dei penalisti più autorevoli e stimati in Italia, rispetto alle decisioni della Consulta sul Sì alla Legge Severino e alla separazione delle carriere dei magistrati va controcorrente. Il suo pensiero lo ha affidato al Corriere della Sera in un’intervista pubblicata nell’edizione odierna. “Fermo restando che il referendum è un istituto attraverso cui si manifesta la volontà popolare, penso che quella legge risponda a un sentimento diffuso” riferendosi alla Legge Severino che anni fa causò la decadenza di Silvio Berlusconi, assistito proprio da Coppi, “ovvero che non si possa aspirare a determinate cariche pubbliche avendo ricevuto condanne almeno per alcuni reati, tipo quelli contro la pubblica amministrazione, contro lo Stato o di riprovazione sociale come quelli sessuali. Per reati bagattellari o colposi, come l’omicidio stradale, sarei più di manica larga“.
Sulla separazione delle carriere il professor Coppi sostiene che “creeremmo degli automi. Lo scambio di esperienze aiuta a interpretare il singolo ruolo. Ho conosciuto magistrati che da giudici istruttori sono diventati pm e poi giudici, interpretando benissimo i vari ruoli. Ci penserei. Il referendum è un po’ tranchant. Invece c’è molto da riflettere su regole per i passaggi e altro. Io ci penserei“, mentre sulla legge elettorale per il Csm afferma che “finché del Csm faranno parte i magistrati, anche estratti a sorte, si riproporranno giochi, giochetti e giochini. Ma sono problemi complessi e delicati. Deve occuparsene il Parlamento“.
Coppi nell’intervista si è soffermato sui tempi lunghi della giustizia. “lo sto tutti i giorni in Tribunale a Roma e vedo arrivare in Cassazione processi che sono durati 15 anni. Ieri ho discusso un omicidio del ’96. E questa lentezza è legata a questioni che sarebbe lungo spiegare ma che non mi sembra abbiamo ancora soluzione”.
Il professore Franco Coppi, è uno dei penalisti italiani più noti, avendo difeso, tra gli altri, due ex presidenti del Consiglio dei Ministri, Giulio Andreotti, e recentemente Silvio Berlusconi. “Vorrei pensare che i giudici siano sempre impermeabili al racconto mediatico e alle chiacchiere da bar” – ha commentato tempo fa parlando dell’omicidio di Avetrana – “Ma in questa vicenda l’enorme pressione della comunicazione, e la descrizione che in particolar modo è stata fatta di Sabrina, penso abbiano inciso fortemente. Sentenze che per me restano così incomprensibili sono debitrici verso tale circo. Anche perché dobbiamo dirlo: nessuno sa che diventerà giudice popolare quando le indagini sono in corso e quindi è plausibile che guardi la televisione e si faccia un’idea di ciò che è accaduto. La vicenda, nonostante la sentenza passata in giudicato, non è conclusa“.
Il processo contro Sabrina e Cosima Misseri per Coppi è stato un terremoto emotivo, al punto che stava pensando di ritirarsi dalla professione di avvocato. “Avevo già scritto la lettera di dimissioni. Poi un amico e collega fidato mi ha convinto a non demordere: solo facendo l’avvocato avrei potuto continuare a occuparmi del caso e presentare ricorso in Europa. È chiaro come la vicenda l’abbia segnata profondamente. Resta il mio tormento, continuo a non dormirci la notte“. Redazione CdG 1947
Referendum e il sistema giudiziario alla deriva. Intervista a Carlo Nordio: “I guai della nostra giustizia nascono dal codice fascista”. Angela Stella su Il Riformista il 15 Febbraio 2022.
Questa settimana è segnata da tre date importanti: oggi la nuova Corte Costituzionale presieduta da Giuliano Amato deciderà sull’ammissibilità di 8 quesiti referendari (uno su eutanasia, uno su cannabis, sei sulla giustizia – Legge Severino, misure cautelari e recidiva, separazione delle funzioni dei magistrati, partecipazione di membri laici ai Consigli giudiziari e al Consiglio direttivo della Cassazione, responsabilità civile diretta dei magistrati, elezione dei componenti togati del Csm); domani arriverà in commissione Giustizia della Camera il testo di riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario approvato nel Consiglio dei ministri di venerdì; il 17 febbraio sarà il trentesimo anniversario di Tangentopoli.
Tutto questo scenario ci chiama a una riflessione profonda per cercare di capire le conseguenze e gli intrecci delle due strade di riforma: quella parlamentare e quella possibile popolare. Sullo sfondo il destino della nostra magistratura. Nel giorno della sua relazione al Parlamento qualche settimana fa la ministra Cartabia, rispondendo alla senatrice di +Europa Emma Bonino, aveva chiaramente detto che riforme parlamentari e referendum sono «due percorsi legittimi, paralleli, hanno poche aree di sovrapposizione e bisognerà in quel caso vedere se il legislatore soddisfa le richieste dei referendum o meno; ci sono tutte quelle tecniche che ben conosciamo e il nostro impianto costituzionale prevede queste forme di dialogo tra il lavoro in Parlamento, la democrazia rappresentativa e quella del referendum». Ma non la pensano così tutti i partiti, in primis il Partito democratico, mentre Salvini invoca un centrodestra compatto se si andasse a votare in primavera.
Pensate invece che il senatore del Pd Salvatore Margiotta ha scritto su twitter: «Sono pentito di non aver firmato -per disciplina di partito, e per rispetto del mio stesso ruolo in Parlamento- i referendum sulla giustizia, o almeno alcuni di essi. Se la Corte li ammetterà, farò la mia parte nella campagna», mentre la dem Enza Bruno Bossio ha confermato di averli sottoscritti tutti. Insomma un vaglio positivo della Consulta porterebbe scompiglio nei partiti e se ne vedrebbero delle belle. Di tutto questo parliamo con il dottor Carlo Nordio, ex magistrato, che da giovedì è in libreria proprio con Giustizia. Ultimo atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura (Guerini e Associati Editore, pag 192, euro 18,50).
Referendum: il presidente della Consulta Amato ha detto “Non si cerchi il pelo nell’uovo”. Segnale positivo?
Non si tratta di una anticipazione di una sentenza di merito sulla costituzionalità di una legge, ma del chiarimento di un principio che riguarda l’affermazione della volontà popolare. Quindi ha fatto bene a specificare quella necessità di “evitare di cercare il pelo nell’uovo”. Tutto lascia ben presagire che, a parte qualche probabile limatura o rimodulazione di qualche quesito tecnicamente imperfetto, i referendum si faranno.
Nella presentazione del suo libro leggiamo che «Indipendentemente dalla formulazione dei quesiti, imperfetta e spesso incomprensibile, il messaggio sottostante è chiarissimo: occorre una rivoluzione copernicana del sistema giudiziario, perché il tempo sta per scadere». Abbiamo quindi davvero bisogno che i cittadini si esprimano?
Assolutamente sì perché, come ho scritto nella terza parte del mio libro, l’importanza del referendum giustizia non risiede tanto nei singoli quesiti quanto nel messaggio che i cittadini possono dare: ossia se siano o meno soddisfatti di questo modo di amministrare la giustizia. Abbiamo una magistratura la cui credibilità è ai minimi termini, da poco abbiamo assistito allo scontro tra Csm e Consiglio di Stato, altri scandali stanno coinvolgendo la Procura di Milano. I referendum non riuscirebbero a sanare la situazione ma sarebbero un segnale importante sia per la magistratura che per la politica. Faccio presente che nel nostro Paese molti referendum hanno spesso trasceso la contingenza del quesito: basti pensare a quello costituzionale del 2016 che si trasformò in un referendum pro o contro Renzi; o a quello di oltre 40 anni fa sul divorzio che fu pro o contro Fanfani.
La ministra Cartabia, rispondendo in Senato a Emma Bonino, ha detto che i referendum viaggiano paralleli alle riforme, non sono in contrasto.
Esatto, ma per una semplice ragione. Le riforme proposte dal Governo in materia di giustizia, in parte importanti come quelle sulle porte girevoli, tuttavia sono il minimo sindacale rispetto alla reale necessità di quella rivoluzione copernicana di cui avrebbe bisogno il nostro sistema giudiziario.
Quindi secondo Lei quella appena licenziata dal Cdm è una riforma al ribasso?
È insufficiente per eliminare o anche solo per limitare i problemi di fondo del nostro sistema giudiziario. Certo, qualche aspetto positivo lo contiene. Come dicevo prima, la riforma sulle porte girevoli sicuramente rappresenta un passo avanti; anche se, a mio parere, bisognerebbe distinguere tra i magistrati che cercano consenso politico e quelli che vengono incaricati come tecnici nei vari ministeri. Detto questo, sono anche favorevole a una forte riduzione dei magistrati fuori-ruolo: credo che dei 200 attualmente distaccati ne basti solo il 10 per cento, gli altri dovrebbero tornare a lavorare nei tribunali.
Secondo Lei come mai non si è potuto fare di più?
La Cartabia non avrebbe potuto incidere di più, in quanto le riforme non le fa solo lei ma anche il Parlamento, al quale manca la volontà politica di portare avanti riforme strutturali significative.
Quali sono i problemi di fondo del nostro sistema giudiziario?
Noi abbiamo un sistema giudiziario schizofrenico: da un lato un codice di procedura penale, firmato da una Medaglia d’argento al valor militare per aver preso parte alla Guerra di Liberazione (Giuliano Vassalli, ndr), saccheggiato e demolito perché incompatibile con la Costituzione. Dall’altro un codice penale che è del 1930, firmato da Benito Mussolini e dal Re, che gode di ancora di ottima salute. Tutto ciò dimostra che nel nostro Paese se non si fa una riforma costituzionale radicale non si risolvono i problemi di fondo, in quanto la nostra Costituzione ha demolito il codice Vassalli e ha tenuto in piedi quello fascista.
Quali modifiche in particolare bisognerebbe apportare?
Separazione delle carriere, discrezionalità dell’azione penale, differenza tra il giudice del fatto e giudice del diritto, allargamento dei patteggiamenti, e soprattutto la ridefinizione del ruolo del pubblico ministero. Il pm italiano è l’unico al mondo che gode di un potere immenso senza responsabilità: ha quello di dirigere la polizia giudiziaria, come fa anche il procuratore distrettuale americano, ma, a differenza di quest’ultimo che è elettivo, il nostro pm gode delle guarentigie del giudice. Pertanto, la ragione per cui migliaia di processi si celebrano inutilmente, senza che nessuna ne risponda dipende dal fatto che il pubblico ministero ha un arbitrio assoluto e incontrollato su cosa indagare e cosa no. E, quindi, anche quando fa spendere milioni di euro per le intercettazioni, provoca dolore creando false aspettative nelle vittime di reato, e distrugge le vite degli imputati, poi assolti, nessuno gli chiede conto del suo operato. Negli Usa dovrebbe cambiare mestiere, perché lì vengono valutati i risultati del prosecutor.
Tornando alla riforma appena licenziata, i partiti, soprattutto Pd e Forza Italia, continuano a discutere sul tema della legge elettorale.
È illusorio pensare che cambiando la legge elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura si riduca il potere delle correnti, in quanto il correntismo è molto radicato, soprattutto tra i magistrati più anziani. Diciamolo chiaramente: è una pura questione di potere, non c’entra nulla la cultura della giurisdizione o l’autonomia della magistratura. Questo potere non vorranno mai abbandonarlo e quindi studieranno il miglior modo per adattare qualsiasi nuova procedura elettiva affinché possano mantenerlo. Un esempio molto significativo è quanto accaduto circa 30 anni fa con le elezioni politiche: fu introdotto il sistema uninominale pensando che ognuno potesse votare il proprio candidato ma poi alla fine i partiti, in modo bizantino, si sono divisi prima le varie circoscrizioni, mantenendo così i difetti del sistema proporzionale senza averne i pregi. Così faranno anche per il Csm. L’unica soluzione è il sorteggio: è vero però – e qui la Ministra ha ragione – che per attuare questo sistema occorre una modifica costituzionale. Quindi, tornando a quanto detto prima, serve una nuova assemblea costituente per una riforma ampia della Costituzione.
Facciamo un passo indietro: per frenare lo strapotere dei pm sarebbe d’accordo a nuove valutazioni di professionalità basate anche sugli esiti dei provvedimenti?
Sono d’accordissimo. Ma ho dei forti dubbi sul fatto che venga applicata questa nuova valutazione: quelli che effettueranno questi giudizi saranno gli stessi magistrati che con il sistema attuale appartengono alle correnti: se fino ad ora hanno sempre qualificato come intelligentissimi, bravissimi e operosissimi i loro protetti, faranno lo stesso anche un domani, giustificandosi con il fatto che l’azione penale era obbligatoria.
Nel suo nuovo libro lei scrive che l’effetto collaterale più pernicioso di Mani Pulite è stato portare la magistratura al controllo dei partiti e alla tutela del Paese, fino al punto di sovvertire il responso delle urne e modificare gli equilibri parlamentari. Oggi come sono i rapporti tra politica e magistratura?
Oggi il Parlamento è ancora più debole perché si è quasi dissolto quello che restava dei partiti – lo si è visto chiaramente durante le elezioni del Quirinale -. In tale scenario paradossalmente può essere più forte il capo del Governo che li tiene tutti in riga. Allo stesso tempo però la magistratura, a seguito degli scandali ripetuti e continui, si è estremamente indebolita. Pertanto la bilancia pende a favore della politica che potrebbe recuperare la sua legittima supremazia come sta tentando di fare. Peccato che il Parlamento abbia tante altre questioni da affrontare all’ordine del giorno – pandemia, economia, Ucraina, etc – e soprattutto è composto da forze, penso soprattutto al Movimento Cinque Stelle che ha della giustizia una visione giacobina.
E l’alleanza del M5S con il Partito democratico che peso ha?
Il Pd è molto oscillante: ha un’anima un po’ garantista ma è sempre molto prudente per quanto concerne i rapporti con la magistratura. A parole sostiene la necessità delle riforme, alla prova dei fatti si oppone. Basti vedere l’atteggiamento sul referendum: quello sulla giustizia gli fa paura perché se dovesse avere una manifestazione di volontà popolare univoca e forte smentirebbe quella che è la politica giudiziaria del Pd degli ultimi quarant’anni.
Che Presidente del Csm è Mattarella? Poco incisivo o ha parlato nel momento giusto?
Nella prassi non ha alcun potere operativo nei confronti del Csm. Invece secondo la Costituzione potrebbe intervenire, tanto è vero che Cossiga, che era un grande costituzionalista, ha provato a farlo ma il risultato è stato quello della richiesta dell’impeachment perché si era sollevata contro l’intera magistratura e parte della politica con il PdS.
Ultimissima domanda: l’Anm processa i magistrati coinvolti nelle chat di Palamara. Che ne pensa?
Questa operazione non può svolgerla l’Anm perché è dentro fino al collo nel sistema Palamara. Quest’ultimo non è uscito come Minerva dalla testa di Giove. È uscito dall’Anm e l’ha governata per anni.
Angela Stella
Oggi la riforma in CdM. Giustizia, barricate sulle ‘porte girevoli’ dei magistrati: i dubbi sulla riforma Cartabia. Claudia Fusani su Il Riformista l'11 Febbraio 2022
Il bello è che la maggioranza litiga senza neppure aver letto il testo. O forse proprio per questo. In realtà fino a ieri mattina sembrava tutto risolto, nuova legge elettorale per rinnovare il plenum del Consiglio superiore della magistratura, stop agli incarichi in magistratura per chi ha avuti incarichi politici. Tutti d’accordo, dai 5 Stelle alla Lega. Poi è arrivato quel guastafeste di Enrico Costa, avvocato, deputato e responsabile Giustizia di Azione che ha buttato tutto all’aria. “Scusate colleghi, siete sicuri di aver capito bene? Altro che stop, qui le porte girevoli sono ancora in movimento…”.
Da quello che è stato anticipato ma solo oralmente, i magistrati che hanno avuto incarichi amministrativi – ma non sono stati eletti – presso giunte, ministeri e regioni potranno, una volta concluso l’incarico, continuare a fare i magistrati. Sembrava fatta. E invece ieri è tornato tutto in alto mare. Tra l’altro, nel momento di massimo scontro tra politica e magistratura: il senatore Matteo Renzi ha denunciato penalmente i pubblici ministeri di Firenze che ne hanno chiesto il rinvio a giudizio per finanziamento illecito ai partiti nell’inchiesta Open. Avrebbero violato la Costituzione, l’articolo 68. Sicuramente sono stati messi in piazza 90 mila pagine di vita privata penalmente non rilevante del senatore e della sua famiglia. Oltre che una coincidenza speciale con alcune scelte politiche dell’ex premier e segretario del Pd.
Il Consiglio dei Ministri resta convocato per stamani alle 11. Solo allora la ministra Guardasigilli Marta Cartabia condividerà con la maggioranza il testo scritto e gli emendamenti del governo al ddl Bonafede che riforma il Csm per poi, una volta discussi e approvati, portarli in Commissione Giustizia alla Camera dove inizieranno ad essere votati la prossima settimana. Il Presidente Mattarella la scorsa settimana, giurando per la seconda volta sulla Costituzione, aveva indicato una serie di priorità al governo e al Parlamento. Non certo per un eccesso di funzione e di ruolo ma per disegnare quella che ha chiamato “l’Italia del futuro”. Ai primi posti delle emergenze c’è il dossier giustizia, la ferita che forse, come presidente del Csm, Mattarella ha più sofferto nel mandato appena concluso e che vorrebbe sanare il prima possibile in quello appena iniziato.
Tra le prime cose da fare per rendere nuovamente credibile e affidabile la magistratura è la riforma del Csm, del sistema elettorale con cui ogni quattro anni viene eletto il plenum e di tutta una serie di questioni, ad esempio l’incompatibilità per un magistrato che è entrato in politica di tornare ad indossare la toga. C’è fretta perché la consiliatura, una delle più disastrate e terremotate di sempre con le inchieste di Perugia, sta per terminare (settembre 2022) e già in aprile devono essere indette le elezioni dei giudici. L’obiettivo da tutti condiviso e auspicato è togliere il potere alle correnti di condizionare le elezioni e, di conseguenza, le numerose funzioni del plenum. Prima tra tutte le nomina di giudici e procuratori. I padroni di casa di inchieste e processi. Ora, ad esempio, il plenum deve eleggere il PG di Cassazione ( Salvi lascia il 10 luglio), il procuratore di Milano e di Palermo, due procure chiave.
Sono due i nodi divisivi della riforma: il sistema elettorale finalizzato a togliere potere alle correnti; i limiti per i magistrati che tentano la carriera politica e poi, una volta concluso il mandato o l’avventura, tornano ad indossare la toga. Le cosiddette “porte girevoli”. Sul primo punto, da sempre il più difficile sarebbe stato raggiunto un accordo di massima: esclusa l’ipotesi sorteggio per motivi costituzionali (Lega e Forza Italia restano convinti del contrario), la ministra ha ideato una sorta di Rosatellum applicato a palazzo dei Marescialli: un sistema maggioritario binominale (ne vengono eletti due per ogni collegio) con una correzione proporzionale per garantire seggi ai candidati fuori dalle correnti. Una mediazione che dovrebbe accontentare un po’ tutti, compresi gli stesi magistrati. Il problema è che per tenere in piedi questo sistema misto occorre aumentare il numero dei membri del plenum e portarlo da 27 a 30, con 20 togati e dieci laici. Alla faccia della spending review. Da valutare poi la reale efficacia nel limitare le intese dei gruppi organizzati nel selezionare le candidature. In una parola, il potere delle correnti.
Anche sulle “porte girevole” gli incontri della ministra con i vari gruppi erano sembrati giungere ad una sintesi. Mercoledì sera girava un certo ottimismo tra via Arenula e palazzo Chigi su un’approvazione veloce. In tempo per entrare in vigore per il nuovo Consiglio. Come chiesto da Mattarella. Solo che è arrivato Costa a spiegare che le porte in realtà restano girevoli. E che andavano cercate alla voce “esenzioni”. In pratica tutti i magistrati che accettano incarichi nelle varie amministrazioni, da ministro a viceministro, da consulente ad assessore passando per capodigabinetto, purché non sia un incarico elettivo, posso tornare ad indossare la toga una volta terminato l’incarico. “Si tratta di un incredibile buco normativo – ha spiegato Costa – che vale anche per i magistrati che si candidano ma non vengono eletti: anche loro, dopo la campagna elettorale potranno tornare al loro ufficio in procura o in tribunale”. Irricevibile. Così ieri pomeriggio anche 5Stelle e Lega hanno spiegato il loro No.
“A noi non va assolutamente bene che ci siano queste esenzioni, sono norme ad personam” ha detto Giulia Sarti, responsabile Giustizia per i 5 Stelle in Commissione. Quasi negli stessi minuti e con gli stessi argomenti si è fatta viva Giulia Bongiorno responsabile Giustizia della Lega. Poi è arrivato Tajani che per Forza Italia ha avvisato i ministri azzurri che stamani saranno seduti intorno al tavolo del governo: “Qui non si vota nulla se prima non ci danno un testo”. Sarà una lunga notte in via Arenula. Il punto è che Draghi ha promesso e qualcuno oggi dovrà fare un passo indietro.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
Giustizia, la riforma Cartabia ed il referendum che agitano la magistratura correntizia sindacalizzata.
Redazione CdG 1947 il 13 Febbraio 2022 su Il Corriere del Giorno
Mettere fine a tutto ciò preoccupa molto i magistrati abituati a fare carriera con la tessera di qualche corrente o dell' Anm in tasca. Ma sono questi magistrati il vero problema della "non" giustizia nel nostro paese, una casta che non è capace di assumersi le proprie responsabilità e di risponderne come un qualsiasi cittadino davanti alla Legge, a partire dal Capo dello Stato che è anche il presidente del Csm.
Se martedì la Corte Costituzionale darà il via libera ai referendum finalmente i cittadini potrebbero avere in mano una vera “rivoluzione” contro lo strapotere delle toghe per scardinare vecchi privilegi e ingiustizie persistenti nella magistratura. Una giustizia giusta, in cui sperava diversi anni fa Claudio Martelli, a quell’epoca ministro della Giustizia, mentre oggi a difendere un sistema demoniaco conservatore dell’esistente si batte il giornalista… Marco Travaglio direttore del Fatto Quotidiano, ed una pletora di demoniaci e giornalisti che vivono di carte trafugate dalle procure e tribunali, trasformate in libri senza aver pagato un solo centesimo di euro allo Stato.
Martedì prossimo potrebbe davvero cambiare il diritto nel nostro Paese grazie alla mobilitazione popolare. Il centrodestra lo ha promesso da anni, anche se quando governava non ha realizzato nulla dei suoi propositi, ma oggi, sulla questione “giustizia” non è più solo. La politica sarà chiamata a rispondere proprio sulla giustizia con i suoi indirizzi sui quesiti che sono davvero ben più decisivi e determinanti rispetto alla riforma Cartabia. Sono sei le proposte sulle quali si chiederà un “sì” o un “no” agli elettori dopo il vaglio della Corte Costituzionale.
Il direttore del Fatto Quotidiano è subito salito sulla sua cattedra autoreferenziale esibendosi in una “demonizzazione” dei quesiti a cui va data risposta. Non ci si può lamentare, come fa lui e l’esercito dei conservatori in tema di giustizia, perché si chiede che chi sbaglia paghi. Troppe volte sono stati commessi errori giudiziari che poi a riparare è chiamato lo Stato, siamo noi cittadini a rifondere i danneggiati, e non come sarebbe più giusto il magistrato che ha sbagliato. Troppo comodo.
Per i detrattori del referendum, non ci sarà carcere per finanziamento illecito ai partiti e per tutti “i delitti puniti con pene sopra i 5 anni” (per gli altri già non è prevista), salvo nei casi di “concreto e attuale pericolo” che si ripetano “gravi delitti con armi o di altri mezzi di violenza” o di mafia e terrorismo. Così ladri, scippatori, bancarottieri, evasori frodatori, corrotti, corruttori, concussori, truffatori, stalker verrebbero fermati e subito scarcerati dopo 48 ore. Una follia contraria ai principi di eguaglianza, di ragionevolezza e con le esigenze di ordine pubblico“.
Ma tutto questo in realtà non corrisponde al vero. Ed almeno per due ragioni. Anche se venissero abrogate le misure cautelari per il pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie, ponendo fine a un abuso generalizzato, resterebbe comunque la possibilità di disporre misure cautelari per il pericolo di commissione di gravi delitti, come quelli con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale, oltre a quelli di criminalità organizzata e contro l’ordine costituzionale. Allo stesso modo, se sussiste il pericolo di fuga o di inquinamento probatorio il responsabile del reato sarà sottoposto a misura cautelare. Ma anche per un “dettaglio” che è un fondamento della nostra Carta costituzionale che troppo spesso molti si dimenticano di citare (qualora l’avessero letta…) quando si parla del diritto: si chiama presunzione di innocenza che dovrebbe valere sempre e fino al terzo grado di giudizio. Per quanti saranno condannati in via definitiva e riconosciuti colpevoli, le misure cautelari invece non serviranno più, perché sarà applicata una pena giusta e rigorosa.
Travaglio contesta anche la separazione delle carriere, allineandosi ai diktat della magistratura correntizia. E scrive: “A parte l’assurdità del merito, l'”ordine giudiziario” unico fra pm e giudici è sancito dalla Costituzione, che non si cambia coi referendum abrogativi“. Invece, dovrebbe scrivere più correttamente per onestà intellettuale (ma forse non conosce questo concetto) che con i referendum si impedisce solo il passaggio da una funzione all’altra all’interno del medesimo ordine giudiziario. Ciò nella speranza che, nel futuro, il Parlamento comprenda la necessità improcastinabile di una riforma ancora più profonda, costituzionale, per creare anche due distinti CSM (uno requirente ed un’altro giudicante) e quindi definitivamente due ordini.
Altro argomento messo nel mirino è quello relativo all’abrogazione della Legge Severino. “Si vuole abolire – strillano Travaglio e gli indemoniati con la toga – l’incandidabilità dei condannati definitivi per gravi o gravissimi reati. Ma o si abroga l’articolo 54 della Costituzione, che impone “disciplina e onore” a chi ricopre cariche pubbliche, o si cancella il referendum“. Anche in questo caso i “manettari” citano solo le condanne definitive, dimenticando che per gli amministratori locali è sufficiente una condanna non passata in giudicato per determinare la decadenza automatica. Ma solo, dimenticano anche che l’ordinamento penale già prevede l’interdizione dai pubblici uffici, sia come misura cautelare che come pena accessoria.
Ma Travaglio le “balle” sulla giustizia le spara veramente grosse, come quando sostiene che “nelle filiali locali del Csm che giudicano i magistrati, voterebbero pure gli avvocati. Così quello di Messina Denaro potrebbe dare la pagella a chi lo sta cercando“. Una grandissima “menzogna” a voler essere buoni. L’obiezione demagogica-demoniaca dimentica ( o ignora ?) che oggi vi è perfetta sovrapposizione tra “controllori” e “controllati”. Sarebbe nell’interesse dei magistrati capaci e meritevoli venire valutati con la massima obiettività da rappresentanti il più possibile eterogenei ed indipendenti, che comprendano anche i rappresentanti dell’Università e dell’Avvocatura.
È il sesto quesito del referendum cioè quello di un Consiglio Superiore della Magistratura non più controllato da correnti al proprio interno, che disturba le toghe lottizzate sostenute dagli anatemi di Travaglio : “Chi si candida non dovrà più raccogliere firme. Almeno questo è compatibile con la Costituzione: infatti non frega niente a nessuno“. Peccato che il giornalista “travagliato” trascuri un altro particolare, e cioè l’attuale obbligo di trovare da 25 a 50 firme per presentare la candidatura, impone oggi ai magistrati che si vogliano candidare al Csm la necessità di ottenere il beneplacito delle correnti o, la stragrande maggioranza delle volte, di essere iscritti alle correnti.
Mettere fine a tutto ciò preoccupa molto i magistrati abituati a fare carriera con la tessera di qualche corrente o dell’ Anm in tasca. Ma sono questi magistrati il vero problema della “non” giustizia nel nostro paese, una casta che non è capace di assumersi le proprie responsabilità e di risponderne come un qualsiasi cittadino davanti alla Legge, a partire dal Capo dello Stato che è anche il presidente del Csm. Redazione CdG 1947
"La riforma Cartabia? Non serve a niente". Francesco Curridori il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia, boccia la riforma Cartabia e rilancia una riforma costituzionale dell'intero sistema.
“Domande sulla giustizia? Casomai, sull'ingiustizia”. Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia, ne è più che convinta: "il sistema giudiziario non funziona" e la riforma Cartabia non migliorerà la situazione " perché il sistema va cambiato da cima a fondo".
Ne è proprio sicura?
"Sì, la riforma Cartabia non serve a niente. Serve solo al sistema che ha ben descritto Palamara e a prendere i soldi europei. Ciò significa che metteremo i soldi a debito in un sistema che non funziona. Una giustizia usata per fini politici non è giustizia. Una giustizia che misura il tempo in decenni non è giustizia. La giustizia dovrebbe essere un servizio reso a tutela del cittadino e così non è".
Ma la norma contro le 'porte girevoli' non è un passo avanti?
"Non serve impedire ai magistrati di entrare in politica quando fanno già politica da magistrati. Io, sinceramente, non conosco nessun magistrato che è tornato indietro dopo aver fatto politica".
Del nuovo sistema di elezione del Csm, che mi dice?
"La riforma Cartabia prevede che chiunque si possa candidare. Lei ce lo vede qualcuno che si candida contro il sistema?".
Lei cosa propone?
"Serve una riforma costituzionale. Andrebbe attuato il sistema del principio accusatorio che era tanto caro al Guardasigilli socialista Giuliano Vassalli che venne demolito dalla Corte Costituzionale".
Tra pochi giorni ricorre il trentennale di Tangentopoli. Qual è l'eredita politica lasciata da quell'inchiesta?
"Di quella brutta vicenda non si è fatta esperienza. Tangentopoli ha lasciato solo macerie che sono agli occhi di tutti. È a pezzi il nostro sistema politico così come la nostra economia. Il debito pubblico ha raggiunto livelli record e i cittadino vivono peggio che negli anni '80".
Che opinione si è fatta del caso Palamara?
"Palamara ha avuto il merito di dire che il re è nudo. È un sistema che tutti conoscevano, un verminaio. Uno scambio correntizio continuo in cui le carriere si decidono per amicizia o per potere, non certo per merito".
Lei, dunque, ritiene ancora necessari i referendum della Lega e li sosterrà?
"Assolutamente sì. Io sono stata una delle prime firmatarie di quel referendum e ho già fatto la campagna referendaria per la raccolta delle firme. Li sosterrò convintamente perché questa riforma è inutile".
Nel corso del discorso di fine anno del presidente Mattarella aveva colpito il fatto che avesse tralasciato la giustizia. Questo tema, invece, è stato centrale nel suo discorso di re-insediamento. Secondo lei, cos'è cambiato e cosa potrà cambiare?
"Il passaggio sulla giustizia tenuta da Mattarella nel giorno del suo re-insediamento è stato il più applaudito dall'intero Parlamento. Dubito che senza la riforma costituzionale invocata da Bettino Craxi nel 1979 che doveva abbracciare tutti i campi della vita politica e istituzionale del Paese non succederà praticamente nulla".
Cosa si dovrebbe fare per fermare i processi mediatici nei quali incorrono molti politici che vengono indagati e, poi, assolti a distanza di anni?
"La stampa dovrebbe agire con grande cautela nel caso di avvisi di garanzia e ha una grande responsabilità anche dei magistrati che spesso passano le carte prima alla stampa e, poi, ai diretti interessati. Ma non si possono sempre invocare leggi punitive. Alla base c'è un problema culturale: il giustizialismo che è stato inoculato nella politica e nella società italiana va cambiato a fondo. Il primo cambiamento da apportare è la separazione delle carriere".
Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”. Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.
Anche Palamara boccia la riforma. Alessandro Ferro il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale.
"C'è stato un cambiamento ma con la riforma il sistema rimane inalterato": sono le parole dell'ex magistrato Luca Palamara. Ecco qual è il suo pensiero sul tema della giustizia.
Una ventata d'aria fresca c'è ma non è ancora abbastanza, anzi: è quello che ha detto chiaramente l'ex magistrato Luca Palamara intervistato da Massimo Giletti durante la trasmissione "Non è l'arena" su La7 insieme a Luigi de Magistris e al direttore di Libero, Alessandro Salluti.
"Sistema rimane inalterato"
"C'è stato sicuramente un cambiamento dall'avvento del ministro Cartabia, ma con la riforma il sistema rimane inalterato: la candidatura del magistrato verrà comunque espressa dal sistema delle correnti. Solo il sorteggio tocca il giochino delle correnti, è questa l'unica riforma", ha affermato Palamara in diretta tv. Come abbiamo visto sul Giornale.it, a quasi tre anni dallo scandalo che travolse magistratura e Csm, il governo Draghi ha approvato in consiglio dei ministri la riforma dell'ordinamento giudiziario definita "ineludibile" per ricostruire la fiducia tra cittadini e giustizia. "Eppur qualcosa si muove. Senza scomodare Galileo Galilei, sarà per le rivelazioni di Luca Palamara, sarà per il discorso di Mattarella, sarà per il timore dei referendum, ma qualcosa è uscito dalla palude che inghiotte ogni tentativo di riformare un sistema giudiziario marcio", ha commentato il direttore de Il Giornale, Augusto Minzolini, in un suo editoriale.
Vita vissuta
Cosa sarà vietato
Le regole per l'elezione del Consiglio superiore della magistratura cambiano e appena in tempo per il rinnovo di quello attuale che scade a luglio. Ma, finalmente, si mette un muro tra politica e magistratura e viceversa: l'obiettivo sarà quello di impedire che i magistrati che entrano in politica possano tornare a svolgere qualsiasi funzione giurisdizionale. Ormai non sarebbero più considerati credibili perché, se si indossa una "casacca", un colore, e si sposa una linea, come si fa a tornare ad essere imparziali? Ecco, questo giochino finalmente non dovrebbe avvenire più.
Sarà vietato, come abbiamo scritto, esercitare contemporaneamente le due funzioni e ricoprire incarichi elettivi e governativi, anche a livello locale (c'è l'aspettativa obbligatoria senza assegno). I magistrati che vorranno presentarsi alle elezioni non potranno più farlo nella Regione in cui hanno esercitato da giudici o pm nei tre anni precedenti. E poi, come accennato, una volta finito il mandato non potranno più tornare a esercitare la loro funzione, saranno collocati fuori ruolo presso il ministro della Giustizia o altre amministrazioni. Ad esempio, non sarebbe più possibile una candidatura come quella di Catello Maresca alle ultime elezioni comunali di Napoli, la stessa città dove era anche sostituto procuratore. E non sarà più possibile le nemmeno l'attuale condizione di Maresca, giudice di corte d'appello a Campobasso e consigliere comunale a Napoli.
"Parole in fatti"
"Le parole di Mattarella meritano deferente rispetto perché segnano un decisivo punto di svolta sul terreno delle riforme. Alla politica dunque il compito di tradurre quelle parole in fatti, come peraltro tanti cittadini italiani hanno già chiesto sottoscrivendo le proposte referendarie", ha affermato Palamara qualche giorno fa commentando le parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante il suo discorso di insediamento sul tema della riforma della giustizia e del Csm.
Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato,
Così i pm sfuggono alla riforma Cartabia. Lodovica Bulian il 13 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Non tutti hanno funzioni apicali: per loro la legge non si applica. Oltre 160 le toghe a Palazzo: capi e segretari sono solo la minima parte.
Spesso nei plenum del Consiglio superiore della magistratura su questo punto volano gli stracci. Quando c'è da autorizzare i cosiddetti «fuori ruolo», magistrati chiamati a svolgere incarichi anche nei ministeri e nei palazzi delle istituzioni, i consiglieri si spaccano, ma alla fine il via libera arriva sempre, nonostante le voci contrarie. Le sensibilità sui rischi di una commistione impropria tra magistratura e politica derivanti dai fuori ruolo sono aumentate anche all'interno dello stesso Csm dopo lo scandalo Palamara, eppure il tema viene affrontato solo in parte dalla riforma della giustizia approvata in consiglio dei ministri nel capitolo sulle porte girevoli. Chiuse per i magistrati con incarichi di governo che non potranno più vestire la toga. Temporaneamente bloccate per i capi di gabinetto, i segretari generali e i capi dipartimento dei ministeri, che dovranno farsi tre anni di «limbo» prima di tornare a esercitare da giudici o pm. Limbo che con buona probabilità però trascorreranno in altri uffici delle istituzioni dove dovrebbero essere collocati dal Csm. Le porte però restano girevoli per tutti gli altri fuori ruolo «minori», che sfuggono alla tagliola della riforma. Magistrati dislocati nei ministeri con qualifiche meno apicali ma non per questo meno a contatto col potere politico.
Secondo i dati del Csm aggiornati ad aprile 2021 le toghe fuori ruolo sono in tutto 161, il limite massimo è 200. Ce ne sono circa 90 solo al ministero della Giustizia, dove i dirigenti di vertice sono una minoranza, gli altri sono sparsi con inquadramenti minori nell'ufficio legislativo, nel gabinetto, all'ispettorato generale, e nei quattro dipartimenti dell'amministrazione penitenziaria, gli affari di giustizia, l'organizzazione giudiziaria e la giustizia minorile. Ma sono anche alla Farnesina, al ministero del Lavoro, a quello dell'Ambiente, alla Salute e ai Trasporti. Come se, fanno notare le voci critiche interne alla stessa magistratura, le competenze tecnico giuridiche necessarie all'interno di un ministero si possano trovare solo ed esclusivamente tra le toghe.
Posti che in alcuni casi sono finiti nelle imbarazzanti intercettazioni disposte nell'inchiesta sull'ex pm Luca Palamara. Conversazioni non penalmente rilevanti risalenti all'aprile 2018, ma descrittive di un sistema di spartizione correntizia attivo anche sugli incarichi ministeriali. Si dimise l'allora capo di gabinetto del ministro Bonafede, Fulvio Baldi, (non coinvolto nell'inchiesta), di fronte alle trascrizioni in cui Palamara lo chiamava «Fulvietto» e gli chiedeva di piazzare due magistrati al ministero (nomine non andate a buon fine).
Fuori ruolo spesso autorizzati dal Csm bypassando un criterio interno che non consentirebbe di dare il via libera se l'ufficio di provenienza del magistrato ha una scopertura di organico superiore al 20%. Una regola «interpretata» dal Consiglio quando ha compiuto alcune evidenti eccezioni, l'ultima nel caso di Elisabetta Cesqui, sostituto procuratore alla procura generale di Cassazione nominata capo di gabinetto di Orlando al Lavoro. Ma un buco nella riforma Cartabia è anche quello sui consiglieri di Stato che in molti casi non hanno bisogno di essere autorizzati come fuori ruolo per lavorare nei ministeri. E dunque fanno questo e quello. È il caso degli incarichi che non comportano un «rilevante impegno istituzionale» e «di lavoro», e che sono per questo considerati compatibili con la doppia funzione. Vi rientrano cariche come consiglieri, esperti e vicecapi di gabinetto. Di mattina in ufficio al ministero, di pomeriggio al Tar o al Consiglio a dirimere controversie tra lo Stato e i cittadini. Lodovica Bulian
Augusto Minzolini per il Giornale il 12 febbraio 2022.
Eppur qualcosa si muove. Senza scomodare Galileo Galilei, sarà per le rivelazioni di Luca Palamara, sarà per il discorso di Mattarella, sarà per il timore dei referendum, ma qualcosa è uscito dalla palude che inghiotte ogni tentativo di riformare un sistema giudiziario marcio. Si poteva e si dovrà fare molto, molto, e ancora molto di più, specie sulla separazione delle funzioni tra giudici e Pm, sul sistema di elezione del Csm, o, ancora, sulla valutazione di professionalità dei magistrati, ma un passo è stato fatto nella riforma Cartabia.
È caduta l'ipocrisia racchiusa nell'espressione da commedia all'italiana «porte girevoli», cioè la possibilità per un magistrato di entrare in politica e poi tornare a giudicare in tribunale. Una vera bestemmia per un sistema come il nostro che si fregia di principi altisonanti del tipo: «Un giudice non solo deve essere imparziale, ma deve apparire tale». Appunto, pura retorica: come può, infatti, essere imparziale chi si spoglia della toga, indossa una maglietta di parte e, poi, di nuovo si mette in toga? Uno si chiede, ma davvero un magistrato, da un seggio in Parlamento, da un ruolo di governo, da un incarico di capo di gabinetto (che è più politico di quello di un deputato o di un consigliere regionale), può tornare tranquillamente a fare il suo vecchio mestiere? Nel Paese di Pulcinella per ora sì.
Poche righe di vita vissuta. Il sottoscritto, assolto in primo grado in un processo, diventato senatore di Forza Italia, fu condannato in appello da un giudice che per 12 anni era stato parlamentare dell'Ulivo e per ben due volte sottosegretario. E in Cassazione quella condanna fu confermata da un magistrato che era stato capo di gabinetto del ministro di Giustizia del governo Prodi.
Di più, entrambi - sia il parlamentare-sottosegretario-togato, sia il capo di gabinetto-togato - avevano ricevuto un'altra nomina politica prima di tornare in magistratura: tutti e due erano stati negli Usa a lavorare cinque anni, gomito a gomito, uno come consigliere giuridico dell'ambasciata italiana, l'altro con lo stesso incarico nella delegazione all'Onu. Riattraversarono l'oceano e indossarono di nuovo la toga giusto in tempo per condannare, dall'alto della loro imparzialità, il sottoscritto nei panni dell'avversario politico.
Sull'onda di quella vicenda che fece clamore (il Senato rigettò la richiesta di decadenza prevista dalla legge Severino) fu presentata una legge contro le «porte girevoli». Passò l'esame del Senato, ma finì nello scantinato della Commissione giustizia della Camera. Motivo? Lo scrissi su Il Giornale: la presidente dell'organismo, magistrata e deputata del Pd, voleva usare la «porta girevole» per andare in Cassazione. Lei ,sdegnosamente, disse che non era vero. Ebbene, a legislatura conclusa dov'è finita? Puntualmente con la toga d'ermellino in Cassazione.
Questo per dire che in temi di giustizia non dire gatto se non ce l'hai nel sacco. Questa riforma fa un passo avanti «sulle porte girevoli», mezzo passetto sulla separazione delle funzioni tra giudici e Pm, nulla sul Csm e sulla valutazione dei magistrati: ora bisogna vedere quando e come uscirà dalle aule parlamentari. Ecco perché i referendum sulla giustizia sono più importanti di ieri: per incalzare il Parlamento e superare le barricate che saranno erette dal cosiddetto «sistema» evocato da Palamara.
Ma, soprattutto, per coprire le lacune che nella riforma Cartabia certo non mancano.
Le critiche dei penalisti: la riforma è debole ed evita i problemi veri. Massimo Malpica il 12 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Il presidente Caiazza: serve più formazione. Pd e M5s esultano, prudenti Lega, Fdi e Iv.
La bozza di riforma del Csm approvata ieri all'unanimità dal Consiglio dei ministri e che ora tornerà in Parlamento è «debole». A bocciarla, quasi senza appello per come è adesso, è il presidente dell'Unione delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza. «Non abbiamo ancora avuto il tempo di leggere il testo finale - spiega - ma la consideriamo una riforma molto debole, lontana dalle esigenze di riforma, una riforma che evita tutte le questioni vere da riformare della magistratura italiana e dell'ordinamento giudiziario, quindi la formazione professionale, l'avanzamento automatico delle carriere, la deresponsabilizzazione per conseguenza professionale del magistrato, l'assurdità del distacco dei magistrati presso l'esecutivo, con una confusione fisica tra il potere giudiziario e il potere esecutivo». Quando allo stop al ritorno alla toga per i magistrati eletti o che hanno ricoperto incarichi di governo, Caiazza non lo trova rivoluzionario: «Qui ci trastulliamo con le porte girevoli per quei 4-5 magistrati che sono eletti parlamentari. Mi sembra una cosa francamente poco centrata». Stessi toni sulla riforma del sistema elettorale del Csm, visto che al presidente dei penalisti «sembra marginale l'illusione che modificando i sistemi elettorali si cambino la testa e le culture di un Paese». Lapidario anche il commento del segretario Uicp, Eriberto Rosso: «La bozza presentata - ha detto in apertura di intervento all'inaugurazione dell'anno giudiziario dei penalisti in corso a Catanzaro - è assi debole e non risponde alle questioni che abbiamo posto».
Così, per gli avvocati penalisti, che stanno lavorando a due leggi di iniziativa popolare per riformare distacchi dei magistrati e valutazioni professionali, il focus adesso si sposta sul dibattito in Parlamento. «Quando siamo stati chiamati a dare il nostro parere, come abbiamo fatto e ci è stato chiesto in fare con la riforma del processo penale, penso che abbiamo dato un buon contributo», spiega Caiazza. «Mi auguro - conclude - che lo si possa dare anche su questo tema, anche se non so quale sarà il percorso parlamentare. Noi siamo sempre disponibili».
Come prevedibile, decisamente di altro tenore le reazioni arrivate dalla politica. «Bene la proposta di riforma del Csm approvata dal Consiglio dei ministri. In linea col programma di governo e con le indicazioni contenute nel discorso del presidente Mattarella applaudito dalle Camere. Ora avanti», twitta il segretario del Pd Enrico Letta. Soddisfatti anche i pentastellati, mentre è più prudente Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, che saluta il «sacrosanto» stop alle porte girevole ma rimarca le «perplessità»: ossia «finte valutazioni e peso delle correnti». «Porteremo in Aula i nostri emendamenti, dando per scontato che la riforma Csm non sia blindata. Sarebbe imperdonabile», conclude l'esponente del partito di Calenda, e anche Lucia Annibali di Iv auspica una «riflessione» prima del varo definitivo. Ma sul punto, dal Pd, Anna Rossomando, Alfredo Bazoli e Walter Verini invitano invece a sostenere «il punto di equilibrio raggiunto in Cdm», mentre la responsabile Giustizia della Lega, Giulia Bongiorno, plaude il «punto di partenza» e ricorda: «Un cambiamento radicale sarà possibile solo grazie ai referendum». Massimo Malpica
Accuse a Grillo, siluro a Conte: due colpi che travolgono il patto fra toghe e politica. Da Tangentopoli in poi in tanti hanno teorizzato il primato del controllo giudiziario sui partiti. Ma le indagini su Grillo e le vicende di Conte potrebbero aver chiuso un’epoca. Paolo Delgado su Il Dubbio il 10 febbraio 2022.
Ancora pochi giorni e sarà il giorno della trentesima candelina. Il 17 febbraio 1992 finì in manette Mario Chiesa, socialista, presidente del Pio Albergo Trivulzio. Fu colto in flagrante mentre intascava 7 milioni di lire, metà della tangente pattuita, il 10 per cento di un appalto da 140 milioni. I giornali diedero alla notizia un certo risalto. Comparve su molte prime pagine mai però in apertura. Non era la prima volta che un’indagine sfiorava o toccava il Psi di Bettino Craxi, ma se nessuno s’immaginava uno tsunami epocale molti profetizzavano guai per la Milano da bere dell’ex sindaco socialista Paolo Pillitteri. Craxi cercò di minimizzare: «Mi trovo un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito».
Il “mariuolo” si sentì abbandonato, vuotò il sacco, il sasso diventò frana, travolse la prima Repubblica, spazzò via un’intera classe politica, passò come lava ribollente su partiti che si credevano intoccabili, rivelò anche la fragilità di un edificio le cui fondamenta erano marcite senza che gli abitanti dei piani alti ne avessero il minimo sentore. La catastrofe fu accolta dai più, a partire all’intero apparato dei media, con entusiasmo, speranza, spesso partecipazione attiva. Sulle rovine del palazzo crollato si andava a costruire un nuovo edificio: moderno, trasparente, dinamico, efficiente. Poco più di un anno dopo quell’arresto, il referendum sulla legge elettorale caricatosi di valenze molto più vaste del suo già fondamentale merito, diede il colpo di grazia alla prima Repubblica.
Le cose, si sa, non sono andate proprio come auspicato. Soprattutto tra i politici e i giornalisti le battute sulle meraviglie di quella Repubblica già dipinta come sentina di corruzione sono da un bel pezzo luogo comune, pane quotidiano, ovvietà condivise. I giudizi caustici sul presente e sul passato prossimo sembrano dire che la nuova magione si è rivelata peggiore di quella travolta dalla tempesta di tangentopoli. Però non è così e il problema è diverso. Su quelle rovine non è stato costruito nessun nuovo Palazzo: piuttosto tendopoli e casette prefabbricate destinate a resistere giusto un paio di stagioni. La domanda è dunque perché in una trentina d’anni la politica è rimasta in mezzo al guado, senza mai ricostruire davvero ma limitandosi a soluzioni provvisorie.
Una delle ragioni principali, pur se certamente non l’unica, è nel vizio originario costituito da un terremoto politico quasi senza precedenti provocato in ampia misura da un’inchiesta giudiziaria. Forse, anzi probabilmente, la prima Repubblica era destinata a concludere comunque la propria esperienza. L’avanzata che sembrava irrefrenabile della Lega a nord, il referendum che avrebbe comunque sferrato un colpo fatale a quel sistema erano segnali chiari in quella direzione. Di fatto però fu un’azione giudiziaria a mettere traumaticamente fine alla prima Repubblica e da allora la politica non ha mai smesso di essere considerata, e di considerarsi, una specie di sorvegliata speciale, paralizzata dall’ipoteca del controllo della magistratura.
È possibile che quella lunga fase si avvii al tramonto e da questo punto di vista la parabola del M5S è molto eloquente. Nel Movimento erano confluite disordinatamente varie spinte ma il terreno unificante era stato proprio il primato del controllo giudiziario sulla politica e la riduzione della politica a questione di legalità e onestà. Sin dall’approdo in Parlamento, «la scatoletta di tonno», sono stati evidenti sia il feticismo dei regolamenti che i guasti che questo induceva. La vicenda della leadership di Conte revocata dalla magistratura, come se la politica si potesse ridurre a una lite di condominio, segna il fallimento di quella visione perché porta alle estreme conseguenze uno smarrimento del Movimento nel labirinto costituito dai suoi stessi feticci, coincidenti però con la fede illimitata del primato del potere giudiziario su tutti gli altri.
L’indagine su Grillo da un lato, la scelta dei 5S di chiudere gli occhi sulla valanga di truffe pur di difendere il Superbonus dall’altro, segnano probabilmente la fine di un’epoca. Non solo per quanto riguarda i 5S ma per l’intera visione della politica della quale i 5S sono stati massima e più esplicita espressione e che ha contribuito più di qualsiasi altro elemento a tenere il Paese immobile per tre decenni.
Come può essere chiamata questa azione? Persecuzione. La prepotenza della magistratura: in due giorni impallinati Renzi e Conte. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.
Non è che noi abbiamo l’ossessione della magistratura, e perciò ogni giorno finiamo col parlare della magistratura, e lamentarci per la sua invadenza. È che l’invadenza della magistratura ha superato ogni possibile limite di ragionevolezza. Prendete gli ultimi due giorni. Cosa è successo in politica negli ultimi due giorni? Solo due cose. Che lunedì la magistratura ha impallinato l’ex premier Conte – eliminandolo dalla scena – e mercoledì ha impallinato l’ex ex premier Renzi – che però è un po’ più difficile da eliminare-.
Non li ha impallinati perché essi abbiano commesso qualche reato o qualche infamia, ma semplicemente perché alla magistratura non sono piaciute alcune iniziative politiche realizzate dai due ex premier. Non è piaciuto il modo nel quale i 5 Stelle hanno modificato il proprio statuto e hanno eletto Conte loro capo, e non è piaciuta la Fondazione messa in piedi da Matteo Renzi, e anzi hanno stabilito che questa fondazione non era una fondazione ma era un partito politico del quale Renzi era il capo e quindi era finanziata illegalmente. Perché illegalmente? Perché alcune leggi molto strampalate, approvate da geniali partiti suicidi (praticamente tutti), hanno recentemente stabilito che i partiti non devono né essere finanziati dallo Stato né dai privati, cioè devono morire. Qualunque associazione di qualsivoglia genere può essere finanziata sia dai privati che dallo Stato, ma i partiti no, probabilmente perché sono considerati pericolosi. E quindi chi viene beccato a farsi finanziare o a finanziare un partito, zac scatta l’incriminazione. Spiego meglio.
La magistratura ha stabilito che tocca a lei (a lei magistratura, dico) decidere come si fanno gli statuti dei partiti, e non agli iscritti ai partiti. E che spetta sempre a lei stabilire chi è un partito e chi no. Se per esempio io fondo una società di pasticceri con lo scopo di far pressione per detassare le uova, e poi mi faccio finanziare dagli allevatori di polli, e un magistrato decide che il mio non è un libero sindacato o qualcosa del genere, ma è il partito dei pollari, zacchete mi incriminano e mi sequestrano i soldi, le uova e i bignè. Forse anche i polli. La storia di oggi, quella di Firenze, è clamorosa. Credo che nessuna persona ragionevole possa ignorare che si tratta non di una iniziativa giudiziaria ma di una autentica persecuzione contro Matteo Renzi e i suoi. Le indagini, oltretutto, sono state realizzate in spregio delle leggi. Cioè violando le leggi e i diritti dell’indagato. Possiamo anche dire che in tutta questa vicenda un reato c’è, ed è quello commesso dai sostituti procuratori che hanno deciso di provare a eliminare Renzi dalla scena politica. Con l’avallo del loro Procuratore, che peraltro non si capisce bene neppure perché sia ancora Procuratore di Firenze, visto che il Csm ha accertato che si è reso responsabile di un reato piuttosto grave, anche se non perseguibile penalmente perché non denunciato entro un anno dalla vittima (che però lo ha confermato).
Vedete bene che non è una ossessione, la nostra. È solo il timore che l’Italia, giorno dopo giorni, scivoli in un catino dove vigono le regole di una società autoritaria, una sorta di repubblica giudiziaria dove tutti i poteri democratici sono sottomessi a una piccola oligarchia composta da un certo numero di Procuratori, e sostituti e Gip, riuniti in correnti, o forse anche il Logge segrete, e ai quali è riconosciuto il potere assoluto sulla vita dei sudditi, cioè quella forma di potere che in Europa era stato cancellato ai tempi del passaggio alle monarchie costituzionali e dell’avanzare timido dell’illuminismo. La vicenda Renzi mi pare limpida. Non c’è molto da spiegare. Il copione è sempre lo stesso: quello della persecuzione politica che si realizza anche grazie al sostegno legislativo fornito dalla stessa politica la quale – per ragioni in parte spiegabili, e riconducibili fondamentalmente alla vigliaccheria, e in parte inspiegabili – lo ha fatto sempre in modo sereno e ossequioso.
L’esempio più chiaro e conosciuto del meccanismo della persecuzione è quello che dura da quasi trent’anni nei confronti di Berlusconi. Ma ce ne sono tanti altri. Butto lì un po’ di nomi alla rinfusa: Bassolino, Mannino, Mancino, Lombardo, Penati, Del Turco, il generale Mori, Nunzia De Girolamo, Federica Guidi… E se vogliamo andare indietro negli anni, c’è un nome più pesante di tutti, perché è quello di uno statista socialista che fu perseguitato per colpire le idee che incarnava: appunto l’essere statista e l’essere socialista. Forse non c’è bisogno che io scriva il nome, però lo scrivo: Craxi. Anche perché penso che soprattutto noi di sinistra, anche i più garantisti tra noi, siamo un po’ in debito con Craxi, quantomeno per non averlo difeso abbastanza e per aver assistito piuttosto indifferenti all’accanimento col quale fu portato alla morte. È stato uno dei capitoli più vergognosi della politica italiana.
Dicevo di Renzi, occhei, tutto prevedibile. Ma Conte? Come è potuto succedere che la magistratura abbia deciso di eliminare dalla scena politica il capo del movimento, anzi del partito, che è stato la clava e la baionetta e il cannone e la mitragliatrice che hanno sostenuto, chiesto, ottenuto e difeso la sua avanzata (l’avanzata della magistratura, dico)? Ecco, questo è quasi inspiegabile. Ha lasciato tutti attoniti. E vero che con ogni probabilità Conte sarebbe comunque sparito dalla ribalta senza bisogno della magistratura, per inconsistenza politica evidente e ormai a tutti nota. Però colpisce il fatto che dei magistrati abbiano voluto mettere la firma sull’atto di scomparsa. Il povero Travaglio è rimasto senza parole. L’altro giorno sulla “7”, con Lilli Gruber, balbettava a braccia conserte. Diceva: “ma guardate che se si vota altre cento volte Conte sarà sempre rieletto, e invece del 92 per cento prenderà il 99”.
Travaglio era fiero del successo del suo protetto: il 92 per cento! Dunque amatissimo, amatissimo davvero? Non diceva niente Travaglio su come era fatta la scheda per votare Conte. Sulla scheda c’era solo il suo nome. C’era scritto: volete voi Conte come vostro capo? Poi c’era un Si o un No da metterci la croce. Diciamo pure che un sistema di voto come questo non ha precedenti. Però resta il fatto che ogni partito ha il diritto di scegliersi il sistema di voto che vuole. Almeno, era così prima che fosse instaurata la repubblica giudiziaria. Anzi no. C’è un precedente: le elezioni politiche del 1938. Allora sulla scheda c’era un elenco di nomi, ed erano i nomi da mandare al Parlamento. Una lista unica. Non si poteva scegliere Chiedeva la scheda: Vi va bene questa lista Si o No? Vinsero i Sì col 99,85%. Pazzesco. Un risultato fantastico, migliore, addirittura, di quello di Conte…
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
La fine della giustizia: “gole profonde” contro le “toghe corrotte”. A quando la riforma del sistema giustizia? Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno l'8 Giugno 2019.
Per l'ex procuratore nazionale antimafia Roberti "per la scelta di un magistrato per un incarico direttivo non conta la storia, il curriculum, non basta essere il migliore. Ma serve fare parte del gruppo più forte. Siamo, così, a rapporti impropri con una politica clientelare basata sullo scambio di favori: ecco, questa è la foto di gruppo dell’indagine di Perugia".
Puntuale arriva l’ennesima idea malsana dell’esponente grillino di turno. Nel caso in questione parliamo del ministro di giustizia Alfonso Bonafede che si illude di risolvere il problema del marciume della giustizia italia, ampiamente diffusosi in lungo e largo per gli uffici giudiziari italiani. Giudici, magistrati, cancellieri, ausiliari di polizia giudiziaria pronti a vendersi per denaro.
Purtroppo tutto ciò che rappresenta un “cancro” per le istituzioni italiane, ben più grave e dannoso dell’ inchiesta “Mani Pulite” di oltre 20 anni fa, che venne utilizzata guarda caso da qualche magistrato per cercare di fare carriere politiche (vedasi il caso di Gerardo D’ Ambrosio ed Antonio Di Pietro che si fece addirittura un suo partito dissoltosi nel tempo) esauritesi per fortuna in un nulla di fatto nel Paese .
L’ipotesi di prevedere la figura del “whistleblower” (che dall’inglese significa “soffia il fischietto”) , cioè di colui che svela un comportamento scorretto o addirittura illegale, avanzata dal ministro Bonafede per introdurla non solo nei palazzi di giustizia ma anche al Csm, dopo aver rivoluzionato quelli della Pubblica amministrazione con l’entrata in vigore della legge del novembre 2017.
Nel pacchetto “spazza toghe sporche”, anticipato per sommi capi al presidente Sergio Mattarella giovedì sera, Bonafede propone tra le nuove regole un sistema che finora, come ha sostenuto Raffaele Cantone il presidente dell’Anac , ha dato ottimi risultati, numeri alla mano .
L’idea del Guardasigilli già espressa in prima bozza di articolato, safrebbe quella creare una piattaforma informatica per la galassia della giustizia, che (teoricamente) dovrebbe garantire la tutela della fonte alla quale verrebbe garantito, attraverso la protezione dall’ anonimato, a chi lavora negli uffici giudiziari ed al Csm di potervi inserire, con una modalità criptata, segnalazioni su comportamenti illegittimi, o vere e proprie illegalità ed abusi di ogni genere. Tra le persone autorizzate a segnalare in forma anonima, secondo il progetto del Ministro di Giustizia, rientrano anche i dirigenti amministrativi, i componenti del consiglio giudiziario, ma anche singoli magistrati e dipendenti.
Teoricamente tutti potrebbero segnalare episodi di cattiva gestione degli affari giudiziari, abusi, omissioni, ritardi, irregolarità, assenze, o ancora palesi situazioni di conflitto d’interesse, come relazioni inopportune, incompatibilità, incarichi extragiudiziari. Secondo l’idea del Ministro Bonafede , qualora la “segnalazione” a seguito di verifiche (e chi le fa ? chi garantisce la rettitudine dei controllori ?), dovesse risultare valida, una volta portata al Consiglio giudiziario e ai capi degli uffici, influirebbe, sulle valutazioni di professionalità, sugli incarichi dirigenziali, e porterebbe anche all’azione disciplinare.
Il ministro Bonafede nella sua pressochè mancata conoscenza approfondita del mondo giudiziario, farebbe bene a farsi mandare un memorabile intervento dell’ ex-primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione Giovanni Canzio , allorquando (prima di andare in pensione) sedeva di diritto nel Consiglio Superiore della Magistratura, e fustigò i componenti del Consiglio che restavano indifferenti alla proposta di avanzamento di carriera di un magistrato, tale Giuseppe Neri.
“Il giudice Neri fa il presidente di sezione? Ma se non ha neppure le qualità per fare il magistrato. Ma di che cosa stiamo parlando? Questo è un caso clamoroso!” disse Canzio . Il magistrato Neri in servizio presso il Tribunale di Catanzaro, nominato nel 2007 magistrato di sorveglianza del Tribunale di Catanzaro, dal 2015 ,era stato successivamente confermato nell’incarico semidirettivo anche per il quadriennio successivo, e doveva essere valutato per conseguire la settima ed ultima valutazione di professionalità arrivato all’apice della sua carriera .
“Siamo di fronte a un deficit di diligenza così clamoroso da rasentare il dubbio che non vi sia anche il deficit di altri elementi presupposti per rivestire la qualità di magistrato! Si sta discutendo di un magistrato– ha tuonato Canzio nel silenzio glaciale del plenum contrariato dalla volontà manifestata di rivalutarne la valutazione – che si presenta con oltre cinque o sei anni di ritardo in decine e decine di sentenze, con picchi di ritardo che rasentano i duemilaquattrocento giorni per numerose sentenze: la media dei tempi con cui deposita è di milletrecento giorni!” .
Questi episodi dovrebbero far riflettere il legislatore, inducendolo a separare finalmente le carriere fra giudici e magistrati, e spiegare al paese intero, ai cittadini, ai contribuenti, agli elettori, perchè mai un Capo dello Stato può essere denunciato e rimosso, un Presidente del Consiglio inquisito, un parlamentare denunciato, processato, condannato ed arrestato, ed invece quando dei magistrati compiono dei clamorosi errori giudiziari, non devono mai rispondere a nessuno ! E chiedersi perchè mai quando il Tribunale europeo della Cedu (Corte Europea Diritti dell’ Uomo) condanna lo Stato italiano per i suoi abusi, ritardi o errori giudiziari, dobbiamo essere noi contribuenti a pagare economicamente e profumatamente gli sbagli (se vogliamo chiamarli così…) dei magistrati e giudici italiani ?
Illudersi oggi che una legge “spazza toghe sporche” sul piano disciplinare possa risolvere il problema della malagiustizia distorta, pilotata e corrotta, significa non aver capito nulla di cosa accade nel mondo della magistratura (frazionata in correnti, esattamente come i partiti politici) , significa non aver capito nulla, o fingere di voler risolvere il problema nascondendosi dietro facili inutili rimedi.
Come non dare ragione all’ ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, appena eletto Parlamentare Europeo, quando sostiene che “non era possibile tacere. Perché quella di Perugia non è soltanto una questione giudiziaria. E nemmeno una faccenda che attiene unicamente al Consiglio, dove comunque esiste già una disciplina rigidissima che ne regola i lavori. Ci troviamo di fronte a fatti gravissimi, come ha detto il vice presidente del Csm, David Ermini. Che aprono una questione morale, di etica della responsabilità, che riguarda i magistrati ma anche la politica. A partire dal Pd “,
Roberti intervistato dal quotidiano LA REPUBBLICA aggiunge ” Ci troviamo di fronte a un mercimonio di incarichi direttivi della magistratura. E non è il correntismo. Perché le correnti servono all’elaborazione del pensiero della giustizia. Questo è invece un cedimento a logiche di appartenenza: per la scelta di un magistrato per un incarico direttivo non conta la storia, il curriculum, non basta essere il migliore. Ma serve fare parte del gruppo più forte. Siamo, così, a rapporti impropri con una politica clientelare basata sullo scambio di favori: ecco, questa è la foto di gruppo dell’indagine di Perugia. Un’istantanea pericolosissima perché racconta di strategie di controllo del Csm che compromettono i valori costituzionali che sono alla base della separazione dei poteri e dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura“.
L’ abbraccio fra politica e magistratura . Il pensiero di Franco Roberti raccolto dal collega Giuliano Foschini di Repubblica, è molto pesante, in quanto altrettanto autorevole “Io per protesta contro questo correntismo, nel 1990, con Giovanni Falcone, venni fuori da Unicost. È giusto interloquire con la politica per discutere del funzionamento della giustizia. Non certo per spartirsi gli incarichi direttivi. Qualcuno, in relazione a questa storia, ha parlato di P2. È un’immagine colorita per raccontare gruppi di potere che tendono a indirizzare il lavoro di un organo costituzionale. Mi sembra che a grandi linee sia quello che è accaduto negli scorsi mesi, per come lo si capisce dall’indagine di Perugia della quale per altro non sono noti i contenuti delle intercettazioni la cui lettura, temo, sarà devastante“.
Parole autorevoli e pesanti espresse proprio mentre il vice presidente del Csm David Ermini in queste ore, dimostrando rettitudine ed indipendenza dal suo partito che l’ha indicato e fatto nominare (cioè il Pd n.d.a.), sta sostituendo i consiglieri o già dimessi (Luigi Spina di Unicost) o autosospesi da tutte le commissioni . Fuori quindi anche Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre i tre “togati” di Magistratura indipendente, ed il “togato” Gialuigi Morlini esponente di Unicost . Alla presidenza della quinta commissione, cioè quella che indica i procuratori e gli aggiunti (che passano poi al vaglio del plenum) va Mario Suriano di Area.
Tutto ciò nonostante la corrente di Magistratura indipendente, si contrappone contro l’ Associazione Nazionale Magistrati schieratasi con assoluta fermezza e rigore per le definitive dimissioni dei consiglieri coinvolti nell’inchiesta a vario titolo , che per ironia della sorte è guida da un esponente proprio di Magistratura indipendente, chiedendo che i suoi consiglieri rientrino ai loro incarichi, dimenticando che su di loro potrebbe incombere la scure dei provvedimenti disciplinare che di fatto li renderebbe incompatibili con il Csm e li costringerebbe pertanto non soltanto alle auto-sospensioni, ma alle immediate dimissioni. E tutto ciò dipenderò dalle carte di Perugia, adesso esaminate dalla prima commissione di palazzo dei Marescialli, che dispone i trasferimenti d’ufficio. Carte che in queste ore vengono lette attentamente e spulciate anche al Quirinale.
Secondo le dichiarazioni di Luca Palamara, attualmente pm a Roma, ex presidente dell’Anm e membro del Csm, iscritto nel registro degli indagati per corruzione, nell’indagine della Procura di Perugia e del Gico della Guardia di Finanza, non c’è nulla di vero . Difficile credergli. In una lunga memoria presentata ai magistrati umbri che indagano su di lui , assicura che “dimostrerà di non essere corrotto”, di “non aver mai ricevuto 40mila euro per favorire una nomina“, e produrrà a suo dire le prove documentali .
Palamara dimentica che restano le intercettazioni, gli incontri per “pilotare” e condizionare la nomina del prossimo procuratore capo di Roma. Come non essere d’accordo con il presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, che intervenendo al primo congresso dei magistrati amministrativi di Palazzo Spada, ha detto: “Un giudice all’altezza dei tempi non può frequentare abitualmente chiunque, se ciò può ripercuotersi negativamente sulla sua attività giudiziaria o possa dare oggettivamente la sensazione che un appannamento della terzietà possa verificarsi”.
Pesano ancora oggi dopo 27 anni le parole di Giovanni Falcone: “Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’Esecutivo. E’ veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del Pm con questioni istituzionali totalmente distinte” (La Repubblica, 3 ottobre 1991)
Ma tutto questo è difficile se non impossibile farlo capire ad un ex-animatore di discoteca, diventato avvocato, le cui gesta nei Tribunali sono pressochè introvabili. Forse è arrivato il momento di resettare il sistema giustizia, di separare le carriere, e sopratutto di bilanciare lo strapotere di certe persone che approfittando di una toga indossata indegnamente pensano ad arricchirsi, a fare la bella vita, a spese dei cittadini. Occorre, come sostenevano Giovanni Falcone e Claudio Martelli, quando costui era guardasigilli, una “giustizia giusta“. Un qualcosa che al momento è pressochè merce rara, se non una chimera. Ascoltate adesso le parole di Indro Montanelli…
Serena Sartini per “il Giornale” l'8 giugno 2022.
Il pubblico ministero che deve scendere «dallo scranno»; la condanna di processi pachiderma, il nuovo ruolo che il pm dovrebbe assumere e che spesso non assume.
Ed ancora: la bravura del pm che dovrà emergere, altrimenti «se è un brocco sono guai», e la separazione delle carriere già ben chiara. La lezione inedita e straordinariamente attuale di Giovanni Falcone, il magistrato ucciso con la moglie e tre agenti di scorta nella strage di Capaci il 23 maggio del 1992, riecheggia in una vecchia soffitta, tra gli scatoloni di una casa di campagna. Una audiocassetta mai scovata che riavvolge il nastro del tempo, riportandolo al lontano marzo 1989 quando il magistrato presiedette una lezione sulla riforma del nuovo codice di procedura penale (22 settembre 1988) - e che porta alla luce le parole del magistrato - allora giudice istruttore in una Palermo intrisa di sangue.
Parole che, a pochi giorni dai referendum sulla giustizia, suonano attualissime e che pesano come un macigno. «Penso al dramma per molti miei colleghi che dovranno scendere dallo scranno del pubblico ministero seduto accanto alla corte - chiosava Falcone - e sedersi sui tavoli della difesa accanto ai difensori. Perché? Perché saranno parte così come sarà parte la difesa privata».
Falcone incontrava gli organi di polizia giudiziaria nel marzo 1989. E analizzava le sfide che il nuovo codice di procedura penale imponeva e metteva di fronte ad agenti e giudici.
Erano gli anni dei maxi-processi e delle maxi-inchieste. Da lì a pochi mesi sarebbe avvenuto il fallito attentato all'Addaura.
È un Falcone che parla a ruota libera, senza peli sulla lingua.
Che inizia chiedendo dei fiammiferi perché, dice «li ho dimenticati in ufficio». Un Falcone appassionato e a tratti emozionato nel parlare del suo lavoro, un lavoro che amava tanto da dare la vita nella sua battaglia per la giustizia e la verità.
«Siamo di fronte a una svolta storica e alcuni direbbero a un salto nel buio. Io direi meglio ad una scommessa molto impegnativa - diceva il magistrato spiegando ai suoi uomini le sfide che si trovavano a vivere ogni giorno nella lotta alla criminalità organizzata -. Il codice è molto coerente e molto ben scritto, il problema sarà se noi saremo in grado di farlo funzionare». E proprio agli agenti e ai pm si rivolgeva.
«È un codice che funzionerà se saremo tutti quanti animati da un fortissimo impegno professionale, ma soprattutto se sapremo dotarci di quel salto di qualità senza il quale è impensabile che si possano ottenere risultati positivi». «Avremo un pm molto più agile, molto più dinamico, molto più parte, molto più poliziotto di quello che è quello attuale. Quindi un pm che si dovrà creare il suo diverso - totalmente diverso - ambito mentale rispetto a quello di adesso. Avremo di fronte anche una polizia giudiziaria che da un lato sarà svincolata anch' essa da vecchi preconcetti e dall'altro sarà posta a fianco del pm». E se è un brocco? Gli domandano gli interlocutori. «Se è un brocco sono guai, se è un brocco sono guai - ripete Falcone - Per questo dico che dovrà cambiare la mentalità e dovrà cambiare per voi come per noi. Altrimenti saranno guai». Falcone aveva ben chiaro che il nuovo codice avrebbe reso controparti i giudici e i pm.
«Ogni volta che vado all'estero e cerco di spiegare ai miei colleghi stranieri che il pm è un magistrato ma non è un giudice alla fine mi dicono che hanno capito ma non hanno mai capito nulla. Perché in effetti è incompatibile l'azione con la giurisdizione: o chiedi oppure giudichi». Come chiedono i referendum, quindi, non è possibile fare il giudice e poi il magistrato. Per Falcone era giusto separare le carriere. Attacca, il magistrato simbolo della lotta alla mafia, i processi elefantiaci. Tanto da battere i pugni sul tavolo ripetutamente quando chiede di separare i processi importanti da quelli su cui «non vale la pena perdere tempo». «Accanto a un nucleo duro, importante, di fatti che vale veramente la pena di mandare avanti - diceva - ci sono una serie di reati satellite sui quali non ha nessuna importanza perderci tempo eppure li dobbiamo portare avanti. E sono queste le cause maggiori delle remore e della creazione di questi processi pachiderma».
Il magistrato aveva già intravisto le sfide che si presentavano e come si sarebbe adeguato. «In una indagine di criminalità organizzata molto ampia, io già mi sto attrezzando. Sto facendo preparare i cartelloni didascalici per far capire alla corte che non avrà nulla su che cosa è accaduto - spiegava - gli assegni non saranno più in fotocopia ma con diapositive».
Insomma, «le strategie di repressione saranno più difficili e più articolate. E tutto questo presupporrà un salto di qualità professionale che necessariamente ci dobbiamo fornire.
Non abbiamo alternative».
Falcone sa ben calare le norme tecniche del nuovo codice di procedura penale nelle vicende della Sicilia della fine degli anni Ottanta. «Noi come paese e certe volte noi come giudici, alla vigilia del secolo ventunesimo, dopo tanti anni di indagini, ancora non ci sforziamo di fare una seria analisi del fenomeno, così che spesso siamo portati ad esaminare congiuntamente nello stesso calderone, materie che sono analoghe ma non sono identiche. Piaccia o non piaccia, e nonostante tutto quello che la Suprema Corte frettolosamente ha voluto affermare - chiosa - vi è una organizzazione unica ed unitaria che è Cosa nostra e quella è l'associazione mafiosa».
«Se ancora noi ingenereremo nell'opinione pubblica la falsa, l'erronea supposizione di una organizzazione strana, o meglio di una non organizzazione, contribuiremo da un lato a non far capire nulla all'opinione pubblica o meglio agli organi centrali a sottovalutare il problema - denuncia Falcone - dall'altro consentiremo operazioni televisive come la Piovra 4 in cui è tutto un immenso magma di organizzazione veramente tentacolare e incredibile che fa terrorizzare e che è invincibile, perché questo è il messaggio che viene dato. E quando il fenomeno è invincibile, siamo tutti apposto. Ma non è così e lo sappiamo tutti».
Nella lunga lezione di Falcone c'è spazio anche per descrivere la mafia: cos' è, come agisce, come si muove. L'organizzazione di Cosa nostra è un qualcosa che investe tanto a reticolo tutto il territorio che basta che solo alcuni diano gli ordini, perché poi tutto il resto diventa un fatto automatico.
E il legame tra mafia e voti elettorali. «Le linee di tendenza le stabiliscono i capi. A Palermo, almeno fino a un certo momento, vi erano 18 mandamenti, ognuno con almeno 3 famiglie. Ogni famiglia mediamente ha o aveva una cinquantina di uomini d'onore.
Se tenete conto che ogni uomo d'onore controlla una serie di amici e parenti, vi rendete conto come certe linee di tendenza siano immediatamente operative, attraverso i canali gerarchici, per orientare fasce non indifferenti dell'elettorato in un senso anziché in un altro. Altra conferma dell'unicità di Cosa nostra».
La lezione inascoltata di Falcone sulla separazione delle carriere. Serena Sartini il 9 Giugno 2022 su Il Giornale.
In un audio inedito del 1989 ritrovato da Serena Sartini, cronista di Askanews e collaboratrice del Giornale, il giudice ucciso a Capaci nel 1992 ricorda i rischi legati al nuovo ruolo del pm e la necessità di carriere separate tra inquirenti e giudicanti.
La lezione inedita e straordinariamente attuale di Giovanni Falcone riecheggia in una vecchia soffitta, tra gli scatoloni di una casa di campagna. Una audiocassetta mai scovata che riavvolge il nastro del tempo, riportandolo al lontano marzo 1989 quando il magistrato, davanti agli organi di polizia giudiziaria, presiedette una lezione sulla riforma del nuovo codice di procedura penale.
Ascolta l'estratto dell'audio:
L’allora giudice istruttore in una Palermo intrisa di sangue avverte che i pm dovranno «scendere dallo scranno del pubblico ministero seduto accanto alla corte, e per loro sarà un dramma, per sedersi sui tavoli della difesa accanto ai difensori. Perché? Perché saranno parte così come sarà parte la difesa privata». Falcone dunque aveva ben chiaro che la terzietà del giudice rispetto sia alla difesa che all’avvocato dell’accusa (come ama definirlo): «Perché in effetti è incompatibile l’azione con la giurisdizione: o chiedi l’accusa oppure giudichi», dice il giudice ucciso a Capaci il 23 maggio del 1992.
Oggi che si discute di separazione delle carriere grazie ai referendum di Lega e Radicali sulla giustizia la sua lezione, inascoltata, torna prepotentemente d’attualità. Così come il suo monito sui rischi di un’azione giudiziaria fatta da magistrati non preparati, non adeguatamente formati: «Il pm dovrà creare il suo diverso - totalmente diverso - ambito mentale rispetto a quello di adesso. Avremo di fronte anche una polizia giudiziaria che da un lato sarà svincolata anch’essa da vecchi preconcetti e dall’altro sarà posta a fianco del pm». «E se è un brocco?», gli domandano gli interlocutori. «Se è un brocco sono guai, se è un brocco sono guai - ripete Falcone - Per questo dico che dovrà cambiare la mentalità e dovrà cambiare per voi come per noi. Altrimenti... saranno guai».
Falcone disse: «Separate le carriere se tenete davvero all’indipendenza della magistratura». Così il magistrato ucciso da Cosa Nostra spiegò, inascoltato, perché giudici e procure dovevano “divorziare”. Giovanni Falcone su Il Dubbio l'1 giugno 2022.
«Timidamente, dunque, e tra molte esitazioni e preoccupazioni, comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’ habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere.
Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti.
È unanimemente riconosciuto che i valori dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura non costituiscono un privilegio di casta, ma un necessario riconoscimento previsto al fine di garantire l’imparzialità del giudice e l’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge; si tratta quindi di valori che debbono essere intesi non in senso formale, ma in funzione dei fini in vista dei quali sono stati riconosciuti.
Se così è, a me sembra che continuando a disciplinare unitariamente la carriera dei magistrati con funzioni giudicanti e quella dei magistrati requirenti, non si potranno cogliere normativamente le specificità delle funzioni requirenti e, quindi, non si potranno disciplinare adeguatamente quei passaggi centrali in cui in concreto si gioca l’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero; dal momento che non si può disconoscere che un giudice penale, ormai passivo e terzo rispetto all’esercizio dell’azione penale e alla attività di acquisizione delle prove, ha esigenze di indipendenza e di autonomia, identiche nella sostanza ma ben diverse nel loro concreto atteggiarsi, rispetto a un pubblico ministero che ha la responsabilità e l’onere, non solo dell’esercizio dell’azione penale, ma anche della ricerca delle notizie di reato e degli elementi che gli consentiranno di esercitare utilmente il suo magistero. Se non si porrà mente con attenzione a questo delicato aspetto della questione, si correrà il rischio – e già si colgono alcuni segnali in questa direzione – di impantanarsi in dibattiti estenuanti e fuorvianti su problemi che, pur essendo indubbiamente importanti (come ad esempio quello sulla obbligatorietà dell’azione penale), non colgono l’essenza della questione, che è quella di dare slancio e incisività all’azione penale del pubblico ministero, garantendo, però, l’indipendenza e l’autonomia di tale organo.
I valori di autonomia e indipendenza rapportati al ruolo del pubblico ministero nell’impianto complessivo della Costituzione, non equivalgono a sostanziale irresponsabilità.
E con ciò, ovviamente, non mi riferisco soltanto alle responsabilità penale, civile e disciplinare, connesse a violazioni di doveri di condotta espressamente sanzionati. Mi riferisco, piuttosto, alla responsabilità per la funzionalità degli uffici di procura e per la politica giudiziaria complessiva, che non può essere lasciata alla mercé delle scelte, prive di adeguati controlli, dei capi degli uffici – o peggio dei singoli magistrati – senza alcuna possibilità istituzionale di intervento. Tanto non giova alla resa del servizio- giustizia in termini di reale, coordinato e generalizzato contrasto delle manifestazioni di criminalità, e non giova nemmeno in termini di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; dato che, ad esempio, un evasore fiscale di Torino sarà perseguito, a differenza di quello di Palermo, perché il procuratore della Repubblica del luogo avrà privilegiato – nell’impossibilità di attivarsi per tutti i reati di competenza – la persecuzione di siffatte attività illecite, piuttosto che, ad esempio, della microcriminalità, senza dovere per questo rendere conto delle ragioni e dei criteri che hanno orientato la sua scelta. Ma ciò non giova neanche all’immagine della giustizia, che a fronte di interventi talora tempestivi soltanto per fatti di scarsa rilevanza sociale, e talora tardivi per episodi di elevata pericolosità, appare all’opinione pubblica come una variabile impazzita del sistema.
Mi rendo perfettamente conto che l’argomento è fra i più delicati e che merita attenta riflessione. Mi piace in proposito ricordare, che in sede di Costituente, proprio uno dei maggiori sostenitori dell’indipendenza della magistratura, l’on. Calamandrei, sul rilievo che un sistema di assoluta separazione della magistratura dagli altri poteri dello Stato presentava inconvenienti di segno opposto, ma non meno gravi, rispetto a quelli di dipendenza dall’esecutivo, propose la istituzione di un «Procuratore Generale Commissario della Giustizia», scelto tra i procuratori generali di Corte d’appello o di cassazione, nominato dal presidente della Repubblica su designazione delle Camere, con diritto di prendere parte alle sedute del Consiglio dei ministri con voto consultivo e responsabilità di fronte al Parlamento per il buon funzionamento della giustizia».
Falcone, la lotta alla mafia e i rischi dell'antimafia. Serena Sartini l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.
Nella seconda parte del suo intervento il giudice ucciso a Capaci il 23 maggio del 1992 traccia il suo identikit di Cosa Nostra e di come è riuscita a cambiare, rimanendo sé stessa.
La voce ferma, decisa, con lunghe pause intervallate da tirate di sigaretta. E poi i nomi snocciolati uno dietro l’altro: Buscetta, Pippo Calò, il «corto» Riina. Giovanni Falcone traccia una fotografia di come si muoveva Cosa Nostra a fine anni Ottanta, i suoi tentacoli, la sua attività in Sicilia. «Epicentro della mafia - diceva nel 1989 in un audio esclusivo ritrovato dopo oltre 30 anni - è sempre la Sicilia e Palermo in particolare. Non si può far parte e gestire Cosa Nostra se non hai il controllo del territorio nei punti cardine altrimenti duri lo spazio di un mattino», ammoniva il magistrato, ucciso nella strage di Capaci il 23 maggio 1992 insieme alla moglie e ai tre uomini della scorta. Ecco la seconda parte della lunga lezione che Falcone tenne per descrivere la mafia e come si muoveva. «Epicentro della mafia - diceva nel 1989 in un audio esclusivo ritrovato dopo oltre 30 anni - è sempre la Sicilia e Palermo in particolare. Non si può far parte e gestire Cosa Nostra se non hai il controllo del territorio nei punti cardine altrimenti duri lo spazio di un mattino»
Ascolta l'estratto dell'audio:
È un'organizzazione a raggiera che produce certi risultati - ammonisce - Mi sembra dissennato e folle, se in buona fede, peggio se in male fede, parlare di disorganizzazione delle famiglie nel momento in cui sta venendo fuori in tutta la sua pericolosità».
Oggi che si discute di separazione delle carriere grazie ai referendum di Lega e Radicali sulla giustizia la sua lezione, inascoltata, torna prepotentemente d’attualità. Così come il suo monito sui rischi di un’azione giudiziaria fatta da magistrati non preparati, non adeguatamente formati: «Il pm dovrà creare il suo diverso - totalmente diverso - ambito mentale rispetto a quello di adesso. Avremo di fronte anche una polizia giudiziaria che da un lato sarà svincolata anch’essa da vecchi preconcetti e dall’altro sarà posta a fianco del pm». «E se è un brocco?», gli domandano gli interlocutori. «Se è un brocco sono guai, se è un brocco sono guai - ripete Falcone - Per questo dico che dovrà cambiare la mentalità e dovrà cambiare per voi come per noi. Altrimenti... saranno guai».
Non solo il silenzio in tv: anche le fake news su Falcone per sabotare i referendum. Pur di contestare i quesiti, si cancella, come nel caso di Spataro, il Sì alla separazione delle carriere espresso dal magistrato-eroe. Giovanni Guzzetta su Il Dubbio l'11 giugno 2022.
La campagna referendaria sui temi della giustizia volge al termine. Adesso la parola passa ai cittadini, o, più precisamente ai cittadini che sono stati messi a conoscenza del fatto che il 12 giugno si voterà per un referendum. La precisazione, come si dice, è d’obbligo, perché se vi è un fatto conclamato e inoppugnabile, certificato qualche giorno fa dalla stessa Autorità per le comunicazioni, è che di questo referendum si è parlato poco o nulla sui mezzi di informazione e in particolare sui mezzi del servizio pubblico.
Si è parlato poco del fatto (meno dell’1 per cento dei tempi dedicati a informazione e approfondimento) e si parlato ancora meno del merito. Prepariamoci dunque ad aggiungere all’astensionismo strutturale (oggi in Italia almeno il 30 % degli elettori non vota per alcun tipo di elezione, compresa quella per il Parlamento della Repubblica, a prescindere dunque dal merito) l’astensionismo per disinformazione o per mancata informazione. Ciò detto, la compagna referendaria, quando c’è stata (cioè pochissimo), ha comunque consentito un confronto serrato tra le opinioni. E questo rende ancor più forte il rammarico per il fatto che si sarebbe potuto e dovuto far di più. Nell’interesse di tutti. A proposito del merito, un atteggiamento laico impone certamente di considerare con attenzione gli argomenti pro e contra. I riflettori (o, meglio, è il caso di dire, le abat-jour) quando sono stati accesi, soprattutto da alcuni giornali, tra cui questo, hanno mostrato quanto importanti siano i temi di cui si discute e quale sia il livello dello scontro tra i diversi fronti.
Purtroppo non sempre la discussione è stata intellettualmente onesta. Molte fake news sono state propalate additando scenari apocalittici e inquietanti su cosa succederebbe se i referendum fossero approvati. Sono fatti gravi, anche gravissimi, soprattutto quando provengono da funzionari pubblici nell’esercizio o a margine dell’esercizio delle proprie funzioni. C’è una vicenda particolarmente preoccupante che riguarda direttamente questo giornale, che il 1° giugno scorso ha ripubblicato gli estratti di un intervento di Giovanni Falcone, edito nel volume “La posta in gioco, interventi e proposte per la lotta alla mafia” (Rizzoli, 2010). In quell’intervento il magistrato, del cui assassinio ricorre proprio quest’anno il trentennale, formulava l’opinione dell’opportunità della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Opinione confermata il 3 ottobre 1991 in un’intervista a Mario Pirani su Repubblica e anche in interventi pubblici. Separazione (delle funzioni) che è oggetto anche di uno dei quesiti referendari.
Un’opinione argomentata nello stile di Falcone, in modo chiaro, ma senza alcuna venatura ideologica. Falcone in quell’intervista, peraltro, utilizzava argomenti simili a quelli emersi nel dibattito in Assemblea costituente, nel quale si escluse la netta separazione in considerazione del modello processuale allora vigente, in cui il Pubblico ministero era titolare anche di funzioni giudicanti (in qualità di giudice istruttore). Con altrettanta nettezza i costituenti erano consapevoli che l’eventuale superamento di quel modello verso un processo di tipo accusatorio (in cui cioè le prove non si formano prima, ma si formano nel dibattimento) avrebbe richiesto una modifica dell’impianto organizzativo della magistratura. E ciò in conseguenza del diverso ruolo (solo di parte pubblica e non più giudicante) che il Pm avrebbe svolto in quel processo. Un parte e non un giudice. Le argomentazioni di Falcone, che parlava dopo l’approvazione del nuovo codice di procedura penale che aveva introdotto il processo accusatorio (trenta anni fa), andavano sostanzialmente nella medesima direzione. In un’altra dichiarazione Falcone criticava la definizione del Pm come “parte imparziale”, cara a una certa cultura giudiziaria, aggiungendo, con logica ineccepibile: “Come si fa ad essere parte e a essere imparziale allo stesso tempo, vorrei che qualcuno me lo spiegasse”.
Si tratta ovviamente di opinioni, anche se provengono da un servitore dello Stato scomparso così tragicamente. In una visione laica, che resiste alla tentazione del culto acritico della personalità, anche quando si tratti di persone straordinarie come Falcone, queste opinioni possono ovviamente essere contestate nel merito. Con grande onestà intellettuale Giancarlo Caselli, personalmente contrario alla separazione, intervistato dal direttore de Il Dubbio, ha riconosciuto che quella, invece, fosse l’opinione di Falcone, aggiungendo che nessuno può dire se, alla luce degli sviluppi degli anni successivi, tale opinione sarebbe mutata oppure no (ma propendendo per l’idea che probabilmente non sarebbe mutata, e Falcone “oggi, scriverebbe le stesse cose”). Ciò che invece è inaccettabile, e dovrebbe far riflettere, è l’atteggiamento di chi semplicemente nega che Falcone abbia sostenuto questa posizione, temendo probabilmente che ciò possa incrinare la tesi secondo cui il referendum sarebbe una crociata contro la magistratura, compatta e granitica su tutte le questioni che la riguardano.
Quando un ex magistrato come il Dottor Spataro, sulle pagine di un importante quotidiano nazionale, sostiene semplicemente e apoditticamente che “non è vero” che Falcone sostenesse quelle opinioni, non si rende un buon servizio né alla verità, né alla propria causa. Negare semplicemente un fatto (nemmeno problematizzarlo, ma semplicemente negarlo!) senza, è il caso di dire, alcuna articolazione “probatoria” delle proprie affermazioni, di fronte a testi e dichiarazioni che si possono facilmente reperire in libreria o sulla rete, esprime un atteggiamento che non solo non aiuta il confronto, ma è lontano anni luce da quell’approccio laico ai problemi così delicati della giustizia in Italia. Nessuno può dire cosa avrebbe pensato oggi Giovanni Falcone, ma è certo che sul piano del metodo e dell’approccio non si sarebbe mai accontentato di un “non è vero”. La verità, nella vita, come nei processi, merita di più.
Parla il figlio di Alfonso Giordano. “Così Falcone convinse mio padre che è fondamentale separare le carriere”, la rivelazione di Stefano Giordano. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 9 Giugno 2022.
Manca poco all’anniversario della scomparsa di Alfonso Giordano. Accettò di presiedere il maxiprocesso di Palermo e fu garantista da sempre. Di quei magistrati garantisti che adempiono al proprio dovere senza deroghe, né paraocchi. Pronto a rimettere in discussione i sacramenti della Sacra Toga fino a farsi convincere da Giovanni Falcone delle ragioni della separazione delle funzioni, o meglio: delle carriere. Un magistrato-simbolo, coraggioso e capace di andare controcorrente. E fuori dalle correnti. Ed è forse anche per questo che oggi qualcuno prova a esercitare la damnatio memoriae: di Giordano si deve parlare poco. Anzi, meglio sarebbe non parlarne affatto.
Hanno già cominciato. Il nome dell’alto magistrato dei record, quello che ha guidato con mano salda il processo più ampio della storia europea – dopo Norimberga, va bene, ma quello fu un processo militare per crimini di guerra – già viene scavalcato e messo ai margini, quando non “dimenticato”. Sta accadendo sempre più spesso. Ed è molto interessante capire perché. Lo abbiamo chiesto a suo figlio Stefano Giordano, l’avvocato che ha permesso, tra l’altro, l’assoluzione di Bruno Contrada in Cassazione.
Vorrei partire con un fatto: di nuovo si è tenuta la Giornata della Memoria per Falcone, e di nuovo ci si è dimenticati di citare suo padre, che fu il più diretto interlocutore – in aula – di Giovanni Falcone. Dico di nuovo perché era già accaduto quando era vivo, e ora che è scomparso, rieccoci: il presidente del maxiprocesso fatica a trovare posto nella storiografia ufficiale, quando si parla di Falcone. Mi aiuta a capire come mai?
Vogliamo chiamarla rimozione? Non ci riusciranno, ma il tentativo c’è. Ci fu una prima dimenticanza incredibile, nel giugno 2017. Fecero grandi celebrazioni per Falcone e lui non venne invitato. Né lui né me, che pure da avvocato ero già stato invitato anche alle giornate precedenti. C’è chi mi dice che qualcosa o qualcuno intervenne. Ufficialmente: se ne dimenticarono. Distrazione.
Però Alfonso Giordano, che distratto non era, forse aveva una idea su questo strano ostracismo.
Era molto restio a fare polemiche ma gli dispiacque molto. Io mi indignai, ne parlammo a lungo. In privato, senza mai sbavature con i colleghi. Non si capacitava: tutti si sentivano in dovere di parlare di Falcone, mentre lui che aveva condotto il processo sui suoi arresti, sulle sue inchieste, veniva tenuto fuori. Aveva seduto sullo scranno del presidente di quell’incredibile processo assumendo su di sé una responsabilità e un rischio altissimi, davvero ingrato trattarlo così.
E lei che idea si è fatto?
Non vorrei che il motivo recondito di questi inviti mancati sia stato il fatto che io ho assistito Bruno Contrada. È un sospetto, ma è un sospetto terribile. Perché io inizio ad assistere Contrada nel 2017 e subito dopo, proprio in quell’anno, si verifica la prima “dimenticanza”. Sarebbe una ferita gravissima per tutta la giustizia, se fosse così.
La difesa continua a subire l’accusa, non c’è niente da fare. Al di là dei princìpi, è nei fatti.
Sa che proprio mio padre si incaponì per attuare quanto stabilito dalla riforma della procedura penale? Adesso la normativa prevede che i Procuratori generali siedano parallelamente agli avvocati, in corte d’Appello. In sedute allineate e di pari altezza. Un accorgimento simbolico e non solo. Lui fece applicare rigidamente la cosa, anche a Palermo. Altro sgarbo: appena lui non vestì più la toga, ripristinarono, andando contra legem, l’iniqua disposizione. Con i Procuratori che guardano dall’alto in basso i difensori, seduti in uno scranno che si avvicina a quello del presidente della Corte. Si vada a controllare – non solo a Palermo – cosa avviene nelle corti d’Appello di quasi tutta Italia.
Ho capito, era inviso a molti perché garantista. Venne messo in secondo piano a beneficio di altri?
Rivelo una cosa che può scrivere, perché tutta documentata. Mio padre prima di morire fece una causa contro Corrado Stajano. L’intellettuale, che era stato anche Senatore come indipendente nel Pds, aveva scritto su Il Sole 24Ore che formalmente il maxiprocesso era stato sì presieduto da mio padre, ma nella sostanza a celebrarlo fu Pietro Grasso. Una distorsione inaudita e una ricostruzione assolutamente falsa, come stabilito poi in giudizio. Mio padre vinse la causa, Stajano e Il Sole 24Ore vennero condannati. Purtroppo, Pietro Grasso non ha mai trovato il tempo di chiamare mio padre per fargli un cenno sulla vicenda, per prendere le distanze. Non lo ha più chiamato, pur essendo stato tirato in ballo da altri, ed è un’altra cosa della quale mio padre si dispiacque.
A chi rivolge il suo invito a non dimenticare più?
Maria Falcone si scusò per la dimenticanza del 2017. Il vicepresidente della Fondazione Falcone è Giuseppe Ayala, persona degnissima per la quale ho grande stima. Ma c’è qualcuno lì che si ricorda di dimenticare.
Forse quelli che si ricordano di dimenticare suo padre, potrebbero trovare giovamento da qualche dedica pubblica. Un’aula, ma anche fuori dai tribunali: una piazza.
Abbiamo fatto questa richiesta: dedicare proprio l’aula bunker di Palermo a mio padre. Io come famigliare e il COA di Palermo, abbiamo protocollato la domanda due mesi fa. Non ci ha ancora risposto nessuno. Il Comune di Palermo e anche il Comune di Milano hanno manifestato l’idea di una dedica pubblica. Di giardini, per iniziare. Perché servono almeno dieci anni dalla scomparsa, per l’intitolazione di strade. Giovedì verrà dedicato nel quartiere Libertà di Palermo un giardino alla sua memoria. Mentre i suoi colleghi lo hanno lasciato solo. Lo lasciarono solo durante la carriera, figuriamoci adesso che è morto. Il Presidente del tribunale di Palermo, Antonio Balsamo, fa eccezione.
Che rapporto c’era tra Giovanni Falcone e Alfonso Giordano?
Di grande stima e di una certa sintonia. Ma attenzione: non di amicizia. Quella è un’altra cosa e mio padre era molto attento ai ruoli e alle funzioni. Non frequentò mai Falcone durante il maxiprocesso, non ci furono mai riunioni fuori dall’aula, tantomeno telefonate, figurarsi le cene. Quella deriva che sono le commistioni tra magistratura inquirente e giudicante, mio padre le ha sempre tenute distanti.
Ci racconta quel che gli disse Falcone a proposito della separazione delle carriere?
In quegli anni capitò di rado di parlarsi fuori dagli atti; fecero qualche viaggio insieme andando in aereo a Roma, da quanto mi disse. E mi raccontò di quando Falcone gli ribadì la necessità di fare una riforma radicale separando le carriere in magistratura. Mio padre era inizialmente contrario, o meglio non deciso. Ma si convinse.
In questo, Falcone aveva una visione più politica di altri?
Sì, per questo riuscì così bene anche quando fu chiamato a Roma da Martelli. E per questa sua visione lungimirante e garantista si attirò tanti strali, tante polemiche. Mio padre parlando con Giovanni Falcone e poi, andato in pensione, quando poté riflettere sulla azione della magistratura, si rese conto che la commistione delle carriere stava creando un problema insanabile: c’era il timore, dal ’92 in poi, di assolvere. Anche quando non c’erano molte prove. Per la pressione mediatica, il clima generale, ma soprattutto per un motivo più specifico. Che gli venne fatto notare da Falcone.
Quale?
Assolvendo, il giudice contraddice il lavoro svolto da un altro magistrato, quello inquirente. Quando per anni si fa la carriera insieme, si sviluppano rapporti, si conoscono le rispettive famiglie, nasce un rapporto di reciproca stima e fiducia, ecco… anche involontariamente, è molto difficile preparare un’assoluzione. E da questo nacque il suo convincimento. Perché non si può davvero garantire una terzietà, una obiettività di giudizio quando Pm e magistrato giudicante si trovano a crescere insieme, costruendo un rapporto di stima.
Una considerazione forte, da parte di un Falcone inquirente a un magistrato giudicante.
Falcone era così. Faceva il suo dovere tenendo ben presenti garanzie e tutele. Mio padre ricordava quell’episodio su Andreotti: quando un pentito, Pelleriti, disse che Andreotti era un mafioso, Giovanni Falcone lo denunciò per calunnia. Le sue indagini erano rigorose, le accuse circostanziate. Ci sono, e Falcone lo dimostra, perfino dei Pm garantisti.
Alfonso Giordano non avrebbe avuto dubbi, su questo referendum…
No di certo, si prova a votare per un principio in cui credeva. Avrebbe votato 5 Sì. Il suo ultimo cruccio fu questo: la morsa del potere giudiziario su quello politico. E diceva che la separazione delle carriere avrebbe posto quell’argine che serve. Lo dico oggi mentre qualcuno prova a travisare le parole di Falcone. Vogliono allontanare gli elettori dai seggi, ma non possono rimuovere la storia.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Estratto dal libro ‘ La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia’ – Bur biblioteca univ. Rizzoli
Luca Telese per “TPI - The Post Internazionale” il 25 febbraio 2022.
Sergio Rizzo, l’autore del “La Casta”, scrive un libro su un’altra Casta.
«Quella parola e troppo spesso pronunciata a sproposito. Ma forse non in questo caso. Questa e la Casta somma: quella che oggi comanda l’Italia».
Un potere che tuttavia quasi nessuno conosce. Quello dei consiglieri di Stato. «Sono 130 in tutto: un centinaio di loro sono magistrati, gli altri consiglieri a tutti gli effetti, nominati dal governo».
Perchè sono così importanti?
«Semplice: hanno in mano le leve strategiche della giustizia e dell’economia».
Come?
«Sono al governo del Paese, si giudicano da soli con il proprio organismo di autogoverno, sono attraversati da decine di conflitti di interessi. Capita perfino che giudichino ricorsi su leggi e decreti che magari hanno scritto loro stessi.
Cose di importanza decisiva per tutti noi e, caso unico, senza possibilità di ricorrere al grado di giudizio successivo. Tuttavia nessuno ne parla, pochi ne scrivono, nessuno li controlla. Ti basta questa sintesi?».
E come può accadere?
«I politici hanno tanti difetti, ma non è mai mancata in questi anni la vigilanza pubblica sui loro errori».
Sicuro.
«Sono sotto i nostri occhi. Abbiamo potuto vedere e raccontare i loro pregi, i loro peccati, e soprattutto i loro misfatti».
Tutti conoscono la faccia di chi si vota, ma pochi conoscono i volti degli uomini di cui parli nel tuo libro.
«Questo e un primo problema. Sono funzionari dello Stato, invisibili, discreti, molto spesso anonimi. Eppure scrivono le leggi che regolano le nostre vite, e, come ti dimostrerò, spesso decidono loro anche come applicarle. Questo conflitto di interessi e un secondo problema».
Il tuo e un libro contro la magistratura?
«Al contrario, io credo che a fine intervista i lettori si renderanno conto che è un libro a sua tutela».
Addirittura.
«I consiglieri di Stato fra l’altro, come abbiamo visto, non sono solo magistrati, e per giunta non devono seguire le regole di incompatibilità che invece valgono per tutti gli altri togati».
Fammi un esempio.
«Il governo Draghi».
Perche?
«Oggi, collocati in diversi ruoli, ci sono ben 11 consiglieri di Stato. Piu Luciana Lamorgese, che guida uno dei ministeri più importanti, l’Interno. Un record».
Molti di loro sono “solo” capi di gabinetto o consiglieri. Ma tu scrivi che sono potenti come i ministri.
«Sono molto più potenti dei ministri, anche se scelti e nominati da loro. Piu influenti, anche se apparentemente li servono».
Perchè?
«Occupano i posti chiave, del potere e del sottopotere: guidano i processi».
Fammi un altro esempio.
«Partiamo dal vertice dello Stato, ovvero da Palazzo Chigi, con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio?».
Ruolo rivestito oggi da Roberto Garofoli.
«E la figura politica più importante, in un governo: il vero braccio operativo del presidente del Consiglio. Anche lui e, ovviamente, un consigliere di Stato».
Un altro esempio.
«Il segretario generale di Palazzo Chigi, cioè il capo dell’amministrazione più potente del Paese? E Roberto Chieppa, figlio dell’ex presidente della Corte costituzionale Riccardo Chieppa. Anche lui e un consigliere di Stato».
E seguendo la scala gerarchica, chi c’è?
«Il capo del dipartimento degli Affari giuridici di Palazzo Chigi, Carlo Deodato. Anche lui un consigliere di Stato: svolgeva la stessa funzione nel governo Letta».
Un ruolo delicatissimo.
«Fai tu: da quell’ufficio della presidenza escono tutti i disegni di legge e tutti i decreti del governo. E c’è quasi sempre stato un consigliere di Stato».
Continuiamo.
«C’e un consigliere di Stato anche nel ministero più importante, quello che ha i cordoni della borsa dello Stato: e il capo di gabinetto del ministero dell’Economia, si chiama Giuseppe Chine».
E poi?
«Gli uffici legislativi di quel ministero sono affidati ad Alfredo Storto e Glauco Zaccardi».
Che non e consigliere di Stato!
«E magistrato ordinario, ma figlio di Goffredo Zaccardi, già consigliere di Stato, capo di gabinetto del ministero della Salute fino al settembre 2021».
E negli altri ministeri?
«Raffaello Sestini e vicecapo di gabinetto di Roberto Cingolani, alla Transizione ecologica. Nello stesso ministero il responsabile legislativo fino a novembre era il presidente di sezione del Consiglio di Stato Claudio Contessa».
E poi?
«Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha come capo di gabinetto Luigi Fiorentino. Anche lui consigliere di Stato».
Altri?
«Certo. Al ministero della Salute, alla stesura dei testi di legge c’è Luca Monteferrante. Anche lui consigliere di Stato».
E infine?
«Il capo dell’ufficio legislativo del ministro del Turismo, Massimo Garavaglia, e Roberto Proietti. Anche lui e un consigliere di Stato».
E ancora?
«Antonella Manzione e consigliere giuridico della ministra della Famiglia Elena Bonetti. Prima della sua nomina a consigliere di Stato era a capo dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi con Matteo Renzi».
Prima che Renzi la portasse a Palazzo era capa dei vigili urbani di Firenze e prima ancora di Marina di Pietrasanta: ne ha fatta di strada. Ma perchè dici che loro contano più di un ministro?
«Basta indagare i loro curriculum, come faccio nel mio libro, per capirlo».
Ovvero?
«I ministri passano, loro restano. I ministri hanno diversi colori politici, loro invece transitano indifferentemente da amministrazioni di destra e di sinistra senza rendere conto a nessuno delle loro scelte».
Fammi un altro esempio.
«Uno clamoroso, di questi giorni: le concessioni balneari. Su questo tema – giusto o sbagliato – il Governo gialloverde aveva deciso, allungandole fino al 2032».
E il Consiglio di Stato ha annullato quella scelta.
«Imponendo le gare, e avvisando il Governo che non può più intervenire con un decreto».
Il Consiglio sostiene di aver interpretato una direttiva europea.
«Si, e in questo caso ha ragione da vendere. Ma a me interessa un altro aspetto: un consigliere può partecipare alla stesura di un decreto o di una legge, e poi, nella sua attività, abrogarla?».
Per questo dici, per paradosso, che contano più dei ministri.
«Non e un paradosso. I ministri spesso si limitano a dare gli indirizzi politici, loro scrivono le norme e poi determinano i processi reali».
Anche i consiglieri, come i politici, cambiano ruolo.
«La maggior parte di loro, pero, come si vede, non resta mai a terra. Il 10% dell’attuale Consiglio di Stato e al governo. Sono i veri padroni della macchina amministrativa, conoscono informazioni a cui talvolta nemmeno i ministri accedono».
Pure certi politici hanno carriere lunghe.
«Se ci fai caso, soprattutto nella seconda Repubblica, la “mortalità” negli incarichi di governo e altissima. Ora ti racconto delle storie che stupiranno i lettori di TPI».
Prima di scrivere il suo libro Sergio Rizzo ha lavorato due anni. Ha consultato dossier, organigrammi, carte processuali, visure catastali e camerali. Poi ha dato alle stampe “Potere assoluto”, un libro che – appena uscito – e andato esaurito (e stato ristampato nella prima settimana) e che racconta vita morte e miracoli su «cento magistrati che comandano in Italia».
Rizzo e stato giornalista sia al Corriere della Sera che di Repubblica, scrive da anni di norme e leggi. Il tuo ragionamento e affascinante, ma si potrebbe dire: non è normale che un consigliere dello Stato serva lo Stato?
«In linea teorica sì. Ma vuoi un esempio illuminante? Il monumentale curriculum di Garofoli, uno dei migliori e più influenti consiglieri di Stato. Espertissimo».
Da quando ricopre incarichi di governo?
«Ecco qui: capo dell’ufficio legislativo agli Esteri con D’Alema, per due anni».
Ottimo esordio.
«Poi capo di gabinetto di Patroni Griffi – altro consigliere di Stato, fra l’altro – quando questi era ministro. Un anno e mezzo. Poi segretario generale della presidenza con Enrico Letta. Un altro anno».
Quindi?
«Capo di gabinetto al Tesoro con Padoan nei governi Renzi, Gentiloni e un pezzo del Conte uno. E fanno quasi cinque anni. Ora – come abbiamo visto – e sottosegretario alla presidenza, con Draghi, e devi aggiungere un altro anno».
Vuoi dire che ha ricoperto incarichi in governi di sinistra di destra, istituzionali e tecnici per un decennio almeno?
«Esatto, ed e un paradosso del nostro sistema. Garofoli e stato al governo più tempo di Berlusconi. E molto più di Letta, Renzi, Monti e Draghi messi insieme. Per me il potere reale in Italia e questo. I politici passano, i grand commis restano».
Quando inizia quella che chiami l’ultracasta del potere?
«L’ultracasta non è un termine mio: era del bravo Stefano Livadiotti, autore nel 2009 di un magnifico libro sulla magistratura. Ma per rispondere alla tua domanda: il Consiglio di Stato nasce prima del Regno d’Italia».
Addirittura?
«Sono i Savoia a crearlo, su suggerimento diretto di Metternich a Carlo Alberto».
Parliamo dello Stato sabaudo.
«Esatto: quello pre-unitario, non c’è stato neppure il 1848».
E poi?
«Importiamo il modello francese, accrescendo le funzioni di questo organismo. Poi, nel tempo, i consiglieri si separano da- gli altri magistrati, diventando un mondo a se stante. I problemi iniziano qui».
Si potrebbe obiettare che il Consiglio e un organismo costituzionale.
«Ma la Costituzione specifica che la magistratura deve essere indipendente».
E i consiglieri di Stato non sono uguali agli altri magistrati, in questo?
«Per nulla. Un magistrato non può avere altri incarichi, un consigliere di Stato si. E talvolta grazie a questi incrementa un bel po’ lo stipendio».
Possibile?
«Nel piccolo, visto che tanti di loro ad esempio insegnano, basta sommare al limite di 220mila euro i 50-60mila di una cattedra in una scuola di formazione».
E in grande?
«Immagina quanto si guadagnava un tempo con gli arbitrati. Li avevano praticamente aboliti, oggi sono riapparsi in altre forme».
Fino a quanto possono guadagnare?
«Ecco il punto. Un tetto non c’è. I guadagni privati, per esempio quelli dalle scuole private dove insegnano, non si calcolano nel limite dei 240mila euro lordi annui».
Non ci credo.
«Ma quando gli arbitrati andavano alla grande era una pacchia. Fino a una quindicina d’anni fa c’era chi portava a casa anche un milione e mezzo di euro».
Incredibile.
«Ma e cosi. E c’è un altro capitolo importante di quello che io chiamo il potenziale conflitto d’interessi permanente».
Quale?
«La giustizia sportiva. Milioni di italiani appassionati di calcio sono rimasti appesi alla diatriba tra Juve e Napoli in piena pandemia, su una delicatissima gara da disputare o meno».
E c’entra il Consiglio di Stato?
«A decidere tutto sono stati gli organi della giustizia sportiva, che pero non sono parte di una categoria autonoma. E che sono tutti costituiti da una particolare categoria di magistrati. Indovina quali?».
I consiglieri di Stato?
«Inizi a capire. Ora ti faccio un altro esempio, quello che ritengo un conflitto di interessi politico. Che il protagonista ovviamente negherà».
Ovvero?
«Goffredo Zaccardi, bravissimo consigliere di Stato: per una vita lavora nei gabinetti dei governi della sinistra. E poi diventa presidente del Tar del Molise».
Cosa vuoi dire?
«In quel ruolo si ritrova ad annullare l’elezione di un governatore di centrodestra, Michele Iorio».
Era in conflitto di interessi?
«Un ex funzionario vicino al centrosinistra che azzera l’elezione di un esponente di centrodestra: magari in punto di diritto ha ragione. Ma se fossi in lui un po’ d’imbarazzo lo proverei».
Esistono anche casi opposti?
«Il caso dei casi: Franco Frattini».
Ex ministro con Berlusconi.
«Esatto: ministro degli Esteri di Forza Italia, promosso presidente di sezione del Consiglio di Stato mentre era ministro e parlamentare, in aspettativa».
Ma era legale.
«Diranno cosi. Ma per me e incredibile. La politica diventa la prosecuzione della carriera con altri mezzi».
Ma poi accade altro?
«Certo. Frattini, anche in virtù di quell’avanzamento, diventa presidente del Consiglio di Stato, superando un concorrente che lamenta di avere più anzianità di lui».
Si parlava di lui per il Quirinale.
«Sarebbe diventato capo della magistratura, cioè di se stesso. Ma sai chi sarà a giudicare il ricorso del suo rivale?».
Non me lo dire.
«Si arriverà al Consiglio di Stato».
Quindi Frattini giudicherà sul ricorso contro Frattini?
«La ministra Dadone aveva meritoriamente proposto una legge per fermare gli avanzamenti di carriera durante gli incarichi politici».
E che fine ha fatto?
«Scomparsa in qualche cassetto».
Sui ricorsi in primo grado decide il Tar.
«Ma in appello rispetto al Tar c’è il Consiglio di Stato. Tecnicamente inappellabile, perchè non esiste un terzo grado. Ora immagina che il Tar, e dunque il Consiglio di Stato, hanno giurisdizione su tutti i contenziosi economico-legislativi del Paese. Potere vero».
E un conflitto d’interessi?
«Io credo che chi ha scritto le leggi non dovrebbe mai decidere sui contenziosi che le riguardano».
Mi dicevi dello sport. «I magistrati ordinari non possono fare i giudici sportivi».
Mentre i consiglieri di Stato? (Sorriso).
«Loro sì».
Un esempio?
«Gerardo Mastrandrea, giudice sportivo, ma anche coordinatore legislativo del Tesoro. Io mi chiedo: ma come fa?».
Parliamo di quel famoso Juve-Napoli?
«Il Napoli non si presenta alla partita: 3-0 a tavolino e un punto di penalizzazione decisivo per la corsa allo scudetto».
De Laurentis ricorre alla Corte federale.
«E chi decide? Mario Torsello. Consigliere di Stato».
E poi?
«Vanno alla Cassazione sportiva: e il presidente chi e? Sempre Franco Frattini».
Improprio, ma non grave.
«Dipende. In questi organismi di giustizia ci sono anche gli avvocati amministrativi. Tu ti trovi al fianco di uno in una Corte sportiva, e poi come controparte in un procedimento ordinario. Capisci? Poi succedono pasticci come quello di Chine».
Sempre lui?
«Si è trovato a giudicare sulla Lazio. Ed e successo un macello: c’è stata anche una interrogazione parlamentare, perchè il figlio giocava nella Lazio!».
Un altro caso?
«Pasquale De Lise. Da presidente del Tar Lazio, si trova a giudicare un ricorso di Lotito contro la Consob. E giudica a favore di Lotito. Ma poi magari gli sarebbe capitato di avere a che fare come presidente della Cassazione sportiva con la squadra di Lotito. Una commistione di ruoli che non va».
Siamo alla fine, chiudi con una perla.
«Le scuole per diventare magistrati o avvocati, come puoi immaginare, sono molto ambite».
E ti credo.
«Bene, tra le tante società che si occupano di formazione, che fanno soldi, ci sono alcune società, che hanno sede a Bari».
Non ci vedo nulla di strano.
«Nemmeno io. Se alcune di loro non facessero capo alle consorti di consiglieri di Stato».
Curioso. Piccole società didattiche? «Insomma. I bilanci che ho controllato dicono che dal 2008 la prima ha fatturato 30 di milioni di euro, e la seconda 14».
Incredibile.
«Fidati. Relazioni, intrecci, incarichi, porte girevoli. Nel vuoto degli altri poteri, nella crisi della politica, questa e la casta delle caste».
Quei cento giudici che fanno casta: agli amministrativi è permesso tutto. Luca Fazzo il 7 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Il saggio punta i riflettori su un gruppo ristretto di magistrati, dai Tar al Consiglio di Stato. Rizzo: "Sono legati alla politica, spesso sono nei posti chiave dei ministeri e ricevono incarichi extra".
Un potere dentro il potere, una Casta con la toga impelagata in profondità col mondo della politica e degli affari in un viluppo di clamorosi conflitti di interesse: è il sistema della giustizia amministrativa, poche centinaia di magistrati che - dai Tar regionali fino al Consiglio di Stato - dettano legge fuori da ogni controllo. È questo il quadro desolante che ne traccia Sergio Rizzo in Potere assoluto, il saggio in uscita in questi giorni per Solferino. E che dal marcio nella giustizia penale, dal degrado nelle correnti e nelle Procure raccontato dal caso Palamara, sposta l'attenzione verso un mondo di cui invece si è sempre parlato poco.
«L'idea del libro - racconta Rizzo - nasce proprio dalle percezioni che di questo mondo si sappia pochissimo. Eppure è un crocevia decisivo. Da una parte i giudici amministrativi si muovono al di fuori di ogni controllo, rendendo conto solo a se stessi; dall'altra sono però legati da un cordone ombelicale al mondo della politica». A fare di questi magistrati poco noti dei personaggi decisivi c'è anche il fatto che sono spesso loro a costituire l'ossatura del potere esecutivo. «Forse non tutti lo sanno - dice ancora Rizzo - ma in buona parte dei posti chiave dei ministeri e del governo ci sono giudici amministrativi: persino l'attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio, una delle figure chiave dell'esecutivo, è un giudice del Consiglio di Stato. Sono dentro gli uffici legislativi dei ministeri, scrivono le norme che loro stessi poi sono chiamati ad applicare. Le loro carriere incrociano quelle della politica e ovviamente ne vengono condizionate. La cosa incredibile è che mentre lavorano nei ministeri continuano a maturare anzianità come magistrati e ad avere avanzamenti di carriera».
Tra i privilegi dei magistrati amministrativi c'è la possibilità di svolgere incarichi stragiudiziari: possono insegnare nelle scuole, possono fare arbitrati. Quasi grottesco è il quadro che in Potere assoluto viene tracciato del funzionamento della giustizia sportiva, anch'essa affidata in buona parte a giudici amministrativi. Sono incarichi quasi sempre non retribuiti, si dirà. Ma nei tribunali del Coni e delle federazioni i giudici siedono insieme agli avvocati, si crea una contiguità, una colleganza tra figure che il giorno dopo, in una udienza davanti al Tar o al Consiglio di Stato, dovrebbero essere ben distanti. «Si tenga presente - chiosa Rizzo - che il mondo della giustizia amministrativa è un microcosmo dove tutti conoscono tutti e tenere i ruoli separati sarebbe decisivo. Quanti sanno che il presidente del comitato di sorveglianza di Alitalia è anche segretario del Consiglio di Stato?».
Consigliere di Stato era il giudice Francesco Bellomo, diventato famoso per come gestiva le scuole per aspiranti magistrati. «Ma non è un caso isolato, a Bari mogli di giudici amministrativi hanno partecipazioni in case editrici che stampano i libri... Avere frequentato i corsi di un giudice importante è un titolo che i regoli non prevedono ma che pesa comunque».
Il libro punta il dito contro il funzionamento del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il Csm dei giudici amministrativi, che sembra condividere - nella sostanza se non nella forma - le storture del Csm ordinario. E ad accomunare le due categorie di giudici è anche il sistema delle «porte girevoli», con giudici che vanno in politica, poi rimettono la toga e danno torto alla parte avversa. Rizzo racconta il caso di Goffredo Zaccardi, che dopo aver lavorato per i governi Prodi e D'Alema tornò in servizio e annullò le elezioni in Molise vinte dal centrodestra. Caso non dissimile, ricorda, da quello del giudice Giancarlo Sinisi che dopo tre legislature in Parlamento per la sinistra tornò in magistratura. E condannò Augusto Minzolini, allora senatore di Forza Italia. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.
Goffredo Buccini per il "Corriere della Sera" il 3 febbraio 2022.
Il fantasma di Attilio Brunialti non ha mai smesso, in fondo, di turbare i sonni dei suoi successori. Con la sua aura di astuzia e competenza, certo, qualità principali anche delle generazioni di consiglieri dopo di lui: le stesse doti che lo portarono a dirimere magistralmente, nel lontano 1907 (ancora in tempi di Non expedit e mangiapreti), una questione esplosiva sui crocefissi, da rimuovere o meno nelle scuole, grazie a un memorabile «escamotage evasivo» (il crocefisso, come la lavagna, «è suppellettile essenziale» in aula); ma anche col suo fardello di spregiudicatezza, che lo trascinò nel 1913 sotto accusa davanti ai suoi colleghi, per arbitrati opachi.
La medesima spregiudicatezza che, nella sua ultima fatica saggistica, Sergio Rizzo pare attribuire a una parte non proprio minore di chi riempie oggi (e ha riempito in tempi recenti) le stanze ovattate di Palazzo Spada, nella Roma antica del rione Regola. Un edificio cinquecentesco ignoto a tanti, eppure sede di un vero gnommero di poteri e sottopoteri incrociati in modo quasi mai illegale ma spesso e volentieri incestuoso, tra coincidenze di controllori e controllati, generose prebende e dorate remunerazioni: il Consiglio di Stato, organo decisivo nella risoluzione dei rapporti, talora assai conflittuali, tra Stato, amministrazioni pubbliche e privati.
Potere Assoluto, in uscita per Solferino in questi giorni, mette così a fuoco (e sul fuoco, nel senso di... graticola) « i cento magistrati che comandano in Italia »: e, comandando davvero, lontano dai riflettori della pubblica vanità, sono dunque spesso sconosciuti, tranne che agli addetti ai lavori. Rizzo ce li svela nella loro umanissima natura.
A quindici anni da La Casta che, scritto con Gian Antonio Stella, gli valse la notorietà (denunciando come certa politica caricaturale fosse diventata oligarchia insaziabile) e, forse non casualmente, nel trentennale di Mani pulite, ci racconta come chi decide sul serio nel Belpaese non siano né i politici né i pubblici ministeri, tanto spesso in conflitto tra loro, ma quei dotti mandarini che alla politica sono assai prossimi e rappresentano «la scheggia più autoreferenziale della magistratura».
Quelli che scrivono leggi e decretano come applicarle. Hanno «in mano i ministeri», «che i ministri gli danno volentieri in gestione chiamandoli a fare i capi di gabinetto» grazie agli «incarichi fuori ruolo». Quelli che possono cambiare con una sentenza il destino di interi settori dell'economia nazionale, far decadere un presidente di Regione, annullare la nomina di un procuratore. Che arbitrano lucrosi arbitrati. E governano persino l'insopprimibile passione italica del calcio, tramite incarichi nelle corti federali. «Il Consiglio di Stato», sostiene Rizzo, «è il nocciolo duro del potere».
Intendiamoci: in sé non c'è nulla di esecrabile nell'essere un fuoriclasse della dottrina e nello scalare, perciò, più in fretta i gradini che conducono a uno status di grand commis e perfino di riserva della Repubblica. E sarebbe puerile descrivere un ganglio essenziale dello Stato come una compatta consorteria di colendissimi furbacchioni.
Dunque, si tratta di capire e distinguere. Più ancora che in altri saggi di denuncia, Rizzo pare affrontare qui la questione soprattutto in termini di inopportunità e cortocircuito del potere: «La giustizia italiana ha un problema grande come una casa e fa finta di non vederlo... L'autoreferenzialità, è questo il problema, ha infettato in profondità tutte le magistrature mortificando l'efficienza e il merito. Con il paradosso che è la degenerazione di un principio sano, quello della separazione dei poteri e dell'autonomia dei magistrati».
E i più autoreferenziali di tutti (anche grazie al loro «Csm» ad hoc, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa) ci appaiono qui gli illustri inquilini di Palazzo Spada. Nel sostenerlo, Rizzo concede come di consueto pochissimo alla seduzione narrativa e offre invece al lettore tanta sostanza di cifre, sentenze e circostanze che, se pazientemente seguite, disegnano un ordito di grande efficacia. Senza rinunciare a qualche target maggiore, s' intende.
Come nel caso di Franco Frattini, già enfant prodige di lunghissimo corso della politica nazionale, fresco presidente del Consiglio di Stato e soprattutto fresco «quirinabile» caduto nella settimana rovente della rielezione di Mattarella soprattutto a causa di qualche vecchia dichiarazione russofila (piuttosto improvvida se riletta in costanza di crisi dell'Ucraina).
Rizzo ne viviseziona carriera, promozioni e arbitrati, ponendo in questione il criterio stesso di anzianità alla base della progressione di ruolo: «Dei trentatré anni e mezzo trascorsi dal giuramento come consigliere di Stato () ne ha passati decisamente più della metà in aspettativa, a fare politica».
E che politica: già celebrato ispiratore di quella «pistola caricata a salve» che fu nel 2004 la legge sul conflitto d'interessi così sensibile per Berlusconi, il nostro ottiene «la promozione in magistratura» (nel 2009, a presidente di sezione del Consiglio di Stato), mentre ne è fuori, essendo deputato del Popolo della Libertà e ministro degli Esteri nell'ultimo governo del Cavaliere. Con buona pace «per la separazione dei poteri».
Non si pensi tuttavia che tanta attenzione sul dottor Sottile del berlusconismo sia dettata da malanimo. Sarà opportuno rammentare che Frattini sconta a Palazzo Spada il successo (che, come sempre predica Berlusconi, attira «invidia sociale», spesso tra colleghi e ricorrenti) e la notorietà, in una confraternita di potenti quasi sempre senza volto. Ma Rizzo è bipartisan, ne ha per tutti e per tante tristi vicende della nostra Italia.
Dallo scandalo della P2, coi suoi diciotto magistrati irretiti da Gelli (di cui uno del Consiglio di Stato), alle più recenti imprese dell'avvocato Amara (pietra dello scandalo di innumerevoli fascicoli giudiziari); dalle cene di qualche giureconsulto rampante con l'immancabile Luca Palamara e col lobbista Fabrizio Centofanti, alle relazioni pericolose tra il penale e l'inopportuno che s' infilano nella carne viva di Palazzo Spada, fino (poteva mancare?) alla gara Consip che è una specie di sacro Graal dei trafficanti d'influenze italici.
Poiché non tutto può essere indignazione, non manca un sorriso triste, infine, di fronte all'impresa da maratoneta di quel consigliere che corre la Roma-Ostia in un'ora e quaranta poco dopo aver proposto causa di servizio per un'ernia del disco provocata, a suo dire, «dall'aver sollevato pesanti fascicoli processuali». Fra tanti scranni occupati da terga autorevoli, uno strapuntino per Totò non poteva mancare.
“I magistrati sono la vera casta”. Parola di Sergio Rizzo. L'autore che con la "Casta" contribuì a cambiare le sorti del paese, ora in un altro libro ammette: "L'autonomia della magistratura così com’era stata concepita ha mostrato tutti i suoi limiti, fino ad assumere pian piano connotati diversi". Valentina Stella Il Dubbio il 4 febbraio 2022.
“Potere assoluto – I cento magistrati che comandano in Italia”, è il titolo del nuovo saggio del giornalista Sergio Rizzo (Solferino Editore, pagine 256, euro 17), in cui svela storie, protagonisti, conflitti d’interesse e retroscena inediti della casta più nascosta e potente del Paese: «i consiglieri di Stato. Ovvero, il nocciolo duro del potere in Italia».
Il libro, di cui discuteremo con l’autore venerdì 4 febbraio alle 19 sulla pagina Facebook del Dubbio, cade a fagiolo, considerato che solo poche settimane fa il Consiglio di Stato è stato al centro della cronaca giudiziaria per aver decapitato i vertici della Cassazione. Quest’ultimo aspetto è ritenuto talmente problematico che si torna a parlare seriamente di un’Alta Corte: Rizzo riprende l’idea di Luciano Violante preoccupato del «rischio che “la magistratura amministrativa diventi il soggetto che, al di là della Costituzione, decide delle promozioni e delle sanzioni dei magistrati“. Al di là della Costituzione. Vero. Ma questo può accadere – prosegue Rizzo – perché, “al di là della Costituzione”, l’autonomia della magistratura così com’era stata concepita ha mostrato tutti i suoi limiti, fino ad assumere pian piano connotati diversi».
Fra tutti i 10 mila e passa magistrati italiani i Consiglieri di Stato sono quelli più vicini alla politica. «Al punto da indirizzarne talvolta le scelte importanti. Gli spetta per legge – scrive Rizzo – il compito di esprimere pareri e suggerimenti sulle iniziative del governo. Pareri e suggerimenti, si badi bene, talvolta vincolanti». Ma il vero asso nella manica di questi magistrati è la possibilità di assumere incarichi diversi da quelli strettamente giudiziari, andando «fuori ruolo».
Hanno in mano i ministeri, come capi di gabinetto, e «perfino il processo legislativo della nostra democrazia, visto che, come esperti giuridici dei ministri, scrivono le leggi e ne gestiscono il funzionamento attraverso decreti attuativi predisposti da loro stessi», trasformandosi così negli uomini più potenti del Paese. «Nel governo di Mario Draghi ce ne sono undici: il 10 per cento dell’intero Consiglio di Stato».
Rizzo fa i nomi, individua i strani giri che fanno non uscendo mai da quelli che contano, e anche le preziose parentele: chi sono, lo scoprirete leggendo il libro. Il testo è ricco di storie realmente accadute, come si suol dire: a cominciare dalla partita non giocata tra Juventus e Napoli durante la pandemia e che divise l’Italia a metà. Il giudice sportivo e «consigliere di Stato Gerardo Mastrandrea infligge alla squadra di De Laurentiis non soltanto la sconfitta a tavolino per 3-0, ma la condisce per sovrapprezzo con la penalizzazione di un punto in classifica. […] Si può sempre fare ricorso alla Corte federale d’appello. E chi è lì il presidente? Manco a dirlo, un altro consigliere di Stato. Resta tuttavia ancora una chance estrema. Il Collegio di garanzia dello sport del Coni».
E chi è il presidente? «Un terzo consigliere di Stato che spunta in questa assurda vicenda: Franco Frattini», ora divenuto Presidente del CdS. Ma nel saggio si fanno anche i conti in tasca alla magistratura amministrativa, con esiti sconcertanti: le spese per l’informatica sono passate dagli 8,3 milioni del 2013 per schizzare a 23 milioni nel 2020, per poi leggere, nel bilancio di previsione, che la spesa sarebbe salita in soli tre anni a 52 milioni e mezzo. «La botta è così pesante che uno dei quattro membri laici, Salvatore Sica, chiede lumi. Fa mettere a verbale che vuole vederci chiaro lamentando “l’assenza di un’adeguata e dettagliata indicazione dei costi e della ratio sottesa alla spesa”. Ma poi la sua uscita non sortisce effetti. Gli spiegano che a fare le gare è la Consip e che l’aumento deriva anche da questo (!)».
Ma non finiscono qui le bizzarrie per Rizzo. Nel mirino del suo racconto entra pure Frattini e la sua nomina nell’aprile 2021 a Presidente aggiunto del CdS, contro la quale fa ricorso il consigliere di Stato Giuseppe Severini: «dei trentatré anni e mezzo trascorsi dal giuramento come consigliere di Stato alla nomina come numero due di Palazzo Spada, Frattini ne ha passati decisamente più della metà a fare politica, in aspettativa. Esattamente, precisa il ricorso di Severini, diciotto anni e mezzo». Ma non c’è nulla da fare, tutto regolare perché con una motivazione che «assomiglia a un triplo salto mortale con doppio carpiato del maestro di sci Frattini» si dice che «l’aspettativa presa per ragioni “extra istituzionali”, come quelle politiche, si può equiparare al cosiddetto “fuori ruolo”. Che cosa significa? In sostanza, un consigliere di Stato che va in aspettativa perché viene eletto alla Camera con un partito, e perciò non prende lo stipendio, è come se andasse a fare il capo di gabinetto di un ministero conservando la busta paga». La vicenda di cui parliamo per Rizzo «sta a dimostrare quanto sia robusto il cordone ombelicale di certa magistratura con la politica. E quanto l’indipendenza del potere giudiziario possa rivelarsi in determinate circostanze un concetto abbastanza vacuo».
Da "la Verità" il 4 febbraio 2022.
Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo stralci da Potere assoluto, ultimo libro di Sergio Rizzo in vendita da oggi (Solferino libri, 256 pagine, 17 euro). Il popolare giornalista si concentra su influenza e soldi attorno ai magistrati più potenti d’Italia: Csm, consiglieri di Stato, procuratori. Il brano proposto tocca il tema dei corsi di formazione dei magistrati, assurto alle cronache per il «caso Bellomo».
Ma, al di là delle vicende pecorecce, Rizzo dà conto dell’intreccio di società decise a difendere fatturati pazzeschi: sono quelle che organizzano appunto le docenze per preparare le future toghe agli esami. Tra i protagonisti di queste società occupa un posto di primo piano Maria Elena Mancini, moglie di Roberto Garofoli, potente uomo di Stato che, a seguito di un lunghissimo cursus honorum, è oggi sottosegretario di Mario Draghi a Palazzo Chigi.
L'epicentro delle scuole di formazione è in Puglia, fra Bari e il circondario. Prendiamo la storia della Dike Giuridica Editrice. Tutto comincia l'11 dicembre 2006, quando una giovane e intraprendente signora barese, Sandra Della Valle, va dal notaio per costituire una società, la Dea immobiliare. Quel nome però sopravvive pochi mesi. Il 24 maggio 2007, infatti, Sandra Della Valle ci ripensa. Si reca da un altro notaio, questa volta a Palombara Sabina, nei pressi di Roma, e cambia tutto. La sua società non si chiama più Dea immobiliare bensì Ildirittopericoncorsi.it.
E non si occupa di case e terreni ma di corsi di formazione per i concorsi pubblici che deve sostenere chi vuole fare, per esempio, il magistrato. Una metamorfosi assolutamente singolare, dettata da chissà che cosa. Ma contestualmente alla modifica della denominazione sociale e dello statuto arriva anche un secondo azionista, che rileva l'1%. Si tratta di Nicola Campione. [...] Ancora pochi mesi e l'irrequieta imprenditrice Sandra Della Valle torna dal medesimo notaio di Palombara Sabina per cambiare di nuovo il nome della società. Che il 4 febbraio 2008 viene così battezzata con il nome, si spera definitivo, di Dike Giuridica Editrice.
Scopo sociale: «Pubblicazione e commercializzazione di opere prevalentemente in materia economico-giuridica» e «l'organizzazione di corsi per la preparazione a esami universitari e concorsi statali». Il rapporto d'affari fra la signora Della Valle e Nicola Campione prosegue per anni evidentemente in modo prolifico, se il 4 dicembre 2017 i due costituiscono un'altra società, stavolta in accomandita. Si chiama Training & Law di Nicola Campione sas.
Oggetto, la «formazione professionale, nonché la preparazione a esami universitari e concorsi pubblici» e «la pubblicazione di opere editoriali prevalentemente in materie economico-giuridiche». Praticamente la fotocopia dello statuto Dike. E stavolta compare anche un terzo socio, appena diciottenne: Antonio Caringella, il figlio di Sandra Della Valle e di suo marito Francesco Caringella. Proprio lui. Perché la proprietaria della società Dike nonché socia dell'attivissimo Campione è la consorte di uno dei consiglieri di Stato più noti e stimati nel circuito della magistratura amministrativa. Francesco Caringella, nato, come la moglie, a Bari, è dal 1998 al Consiglio di Stato, dove ha scalato i gradini più impervi raggiungendo l'invidiabile posizione di presidente di sezione. [...]
Caringella è diventato fra i consiglieri di Stato una specie di recordman degli incarichi «extragiudiziali» di insegnamento. A dire la verità ha fatto anche una puntatina nel mondo degli arbitrati, come presidente del collegio che doveva decidere la controversia da 15 milioni fra la Fiat e la Tav. Ma niente al confronto dell'attività didattica, regolarmente autorizzata dal Csm del Consiglio di Stato: in una decina d'anni ha superato agevolmente 300.000 euro di compensi per le sue lezioni.
Pagate anche 800 euro l'una. Dal 2008 ha collezionato quasi una ventina di incarichi, tutti in società private di corsi di formazione e preparazione per concorsi da magistrato o esperto giuridico. Legate, all'apparenza, da uno stesso filo rosso barese. Nella lista non poteva mancare la Dike di sua moglie, presso cui il Consiglio di giustizia amministrativa lo ha autorizzato nel 2019 a tenere un corso che gli ha fruttato 60.000 euro lordi. Poi c'è l'Accademia Juris Diritto Per Concorsi, una srl di Bari di proprietà del barese Carlo Giampaolo.
Ha un indirizzo di posta elettronica certificata curiosamente identico alla penultima denominazione sociale assunta dalla Dike: ildirittopericoncorsi@pec.it. Talmente identico che assai difficilmente ci può essere un caso di omonimia. Soprattutto ci sono la Lexfor e la Corsolexfor, da cui Caringella ha avuto una dozzina di incarichi di docenza. Si tratta di società che fanno capo al socio della consorte, Nicola Campione, barese, classe 1964: il quale risulta in entrambe azionista di minoranza con altri due soci baresi, ma è amministratore unico. [...]
Per la serie poi «le coincidenze non esistono», la Corsolexfor di Campione, socio della moglie di Caringella, ha sede a Molfetta, trenta chilometri da Bari. E in via San Francesco d'Assisi al numero 51. Dove si trova una sorpresa. Lo stesso indirizzo ospita anche tre società operative nello stesso campo dei corsi di formazione per esami e concorsi pubblici e dell'editoria giuridica. Neldiritto Editore srl, Nld Concorsi e Omniaforma sas, queste le tre sigle, hanno anche la medesima proprietaria originaria di Bisceglie, altra città sempre vicino a Bari: Maria Elena Mancini.
Un'altra moglie. Maria Elena Mancini è infatti la consorte di Roberto Garofoli. Consigliere di Stato fra i più conosciuti e influenti, già capo di gabinetto del ministro della Pubblica amministrazione e poi presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, nonché dei ministri dell'Economia Pier Carlo Padoan e Giovanni Tria. Fino all'incarico più prestigioso e politico: sottosegretario alla presidenza del Consiglio, braccio destro del capo del governo Mario Draghi. Garofoli, pugliese di Taranto, mostra una tale passione per l'insegnamento al punto da tallonare da vicino per numero di incarichi «extragiudiziali» didattici autorizzati il suo collega e amico Caringella.
Un paio li ha svolti presso la società Neldiritto di sua moglie Maria Elena Mancini. Ma la stragrande maggioranza commissionati sempre da Lexfor e Corsolexfor di Nicola Campione: talvolta in parallelo con Caringella. [...] Le società di formazione dal pedigree barese (una decina), ruotano intorno alle figure di alcuni magistrati. Tutte o quasi sono diventate operative a cavallo del 2007-2008, quando è iniziato il boom delle scuole private per i concorsi di giustizia. Da allora e fino alla fine del 2019, secondo quanto è stato possibile calcolare, hanno incassato 66,1 milioni.
Con utili netti per 7,8. Il tutto ampiamente per difetto perché i bilanci delle società in accomandita semplice non sono reperibili nelle banche dati delle imprese di capitali. Il solo fatturato delle due srl di Maria Elena Mancini, la moglie di Garofoli, ha quasi raggiunto 30 milioni: 29 milioni 937.000 euro. E gli utili netti sono ammontati a 2 milioni 248.000 euro. La Dike di Sandra Della Valle, moglie di Caringella, ha registrato un giro d'affari di 14 milioni 251.000 euro, per 410.444 euro di utili netti.
Nel 2019 Sandra Della Valle ha poi venduto la propria quota, allora del 94%, all'avvocato di Bari Marco Giustiniani per 115.000 euro. Nei soli anni successivi al 2015, quando Corsolexfor e Lexfor hanno abbandonato lo status di accomandite per trasformarsi in srl, le attività di Nicola Campione e degli altri azionisti hanno sommato ricavi pari a 7 milioni 513.000 euro, e profitti netti per 1 milione 684.000 euro. Ancora. Alla Accademia Juris, società di Carlo Giampaolo, i corsi hanno fruttato 622.000 euro di utili netti, su un fatturato di 6 milioni e mezzo. E poi dicono che in Italia la giustizia non funziona.
Magistrati in trincea: l'Anm fa il processo alla riforma Cartabia. Lodovica Bulian il 2 Marzo 2022 su Il Giornale.
Dalle toghe no a pagelle, separazione delle funzioni e persino allo stop alle porte girevoli.
È di fatto un no ai cardini della riforma dell'ordinamento giudiziario firmata Marta Cartabia. Un no alle «pagelle», che alimentano nei magistrati «un'ansia competitiva». Un no all'aut aut tra politica e magistratura, per sospetta incostituzionalità. E un no a limiti giudicati eccessivi al passaggio tra funzioni requirenti e giudicanti. L'associazione nazionale magistrati in audizione in commissione giustizia alla Camera boccia molti punti degli emendamenti approvati dal governo alla giustizia. Sono quelli su cui il sindacato delle toghe aveva già espresso dissenso. A partire dalle "pagelle" - il giudizio non sarà più sono solo positivo, non positivo e negativo ma discreto, buono o ottimo - e dall'introduzione del voto degli avvocati nei consigli giudiziari, che elaborano le valutazioni di professionalità dei magistrati.
«Non c'è bisogno di dare voti sulla capacità del magistrato di organizzare il suo lavoro», ha detto il presidente Giuseppe Santalucia. Le valutazioni «devono intercettare eventuali cadute, lacune, mancanze. Che bisogno c'è di dare i voti? Si valuti il magistrato senza dare un voto». Santalucia ha motivato così il no anche al voto degli avvocati nei consigli giudiziari: «Gli avvocati sono dal 1958 all'interno del Csm e saranno, secondo la previsione degli emendamenti governativi, all'interno dell'ufficio studi del Csm, con sospensione delle funzioni. Tale sospensione non avviene però all'interno dei distretti giudiziari. Quindi, nel piccolo distretto, le ragioni della conflittualità potrebbero non essere sopite da questo meccanismo». Il timore è che i voti possano rivelarsi non imparziali a causa dei "rapporti" professionali tra avvocati e magistrati che lavorano nello stesso distretto. «Mi permetto di dissentire - ha ribattuto a stretto giro il deputato di Azione Enrico Costa - meglio un po' di sana competizione per individuare i più bravi o essere in mano alle scelte delle correnti? Oggi il 99% di valutazioni sono positive: o sono tutti geni o qualcosa va cambiato».
Il segretario Salvatore Casciaro parla di una visione «iper-produttivistica» sottesa alla riforma, che «stringe il magistrato nella morsa della produttività ben oltre quella che già viene garantita e che è tra le più alte nel quadro europeo. E l'Europa non ci chiede solo di intervenire sui tempi ma mette anche al centro l'indipendenza della magistratura».
Sulla separazione delle funzioni tra pm e giudici - la riforma in Parlamento riduce la possibilità di cambiare da quattro volte a due - Santalucia critica gli eccessi: «Distinguere troppo significherebbe isolare il pm all'interno dell'unicità delle carriere». La separazione (totale) delle funzioni è anche uno dei quesiti referendari ammessi dalla Corte Costituzionale su cui le toghe sono in larga parte compatte per il no.
E anche sullo stop alle porte girevoli tra politica e magistratura, con l'introduzione del divieto di tornare a fare i magistrati per gli eletti, l'Anm ravvisa «profili di criticità nei confronti del parametri costituzionali. Abbiamo chiesto da tempo di intervenire su questo tema - ha spiegato Casciaro - ma il meccanismo di aut-aut per cui chi si candida perde il suo originario posto di lavoro è un profilo di criticità».
Le valutazioni di professionalità dei magistrati. Riforma Cartabia, magistrati agitati dai giudizi degli avvocati. Alberto Cisterna su Il Riformista il 9 Marzo 2022.
Il tema della partecipazione degli avvocati alle valutazioni di professionalità dei magistrati tiene inquiete le toghe. Non che l’avvocatura non sia già presente nei Consigli giudiziari e, attraverso le designazioni parlamentari, anche all’interno dello stesso Csm. Ma finora – a livello locale – gli avvocati erano stati tenuti fuori da un recinto così delicato come quello eretto dalla corporazione quando si tratta di dare una pagella di merito ai giudici e ai pubblici ministeri. Sia il quesito referendario che la riforma Cartabia in discussione in Parlamento intendono allargare le maglie di questa partecipazione e la cosa agita la magistratura in modo praticamente trasversale tra tutte le correnti dell’Anm, anche perché si accompagna all’idea di creare vere e proprie pagelle a punti con cui pesare la professionalità delle singole toghe.
Il tema è delicato, inutile nasconderlo. I giudici, per definizione e salvo rari casi, devono necessariamente scontentare una delle parti in causa: la difesa o l’accusa, l’attore o il convenuto. Uno dei due avrà (quasi sempre) da recriminare sulla soluzione adottata e il numero degli appelli e dei ricorsi per Cassazione costituiscono prova eloquente della scarsa propensione delle parti ad accettare il verdetto civile o penale. Si teme che il partito degli scontenti, delle parti scontente possa “vendicarsi” sul singolo giudice o sul singolo pubblico ministero assegnandogli un rating basso o, comunque, inferiore ai suoi meriti. Insomma, le periodiche valutazioni di professionalità (una ogni quattro anni) potrebbero prestarsi – è la tesi dei contrari – a consumare piccoli sgarbi o pesanti incursioni e questo non è un bene. In un paese di camarille, fazioni e sistemi l’obiezione sembra ragionevole. Sembra. Ma i conti non tornano e per più di una ragione. Da oltre due decenni, infatti, il processo civile e quello penale hanno considerato la collegialità un lusso insopportabile e hanno trasferito la decisione nella stragrande maggioranza delle cause penali e civili di primo grado in mano a giudici monocratici. La perdita, irragionevole e tutt’altro che efficientista, della collegialità ha comportato che moltissimi giudici esercitino le proprie funzioni in una dimensione solitaria, sostanzialmente impermeabile a qualunque controllo. In nome del principio del libero convincimento nessuna decisione può essere messa in discussione dai capi degli uffici salvo abnormità e, nei fatti, la sentenza resta relegata in uno spazio anomico per la professionalità il cui unico rimedio è l’appello.
È vero, alcune sentenze vengono portate all’attenzione del Csm, ma questo non esaurisce la necessità di un controllo meno episodico sull’effettiva professionalità di ciascun magistrato. D’altronde se tutti scrivono sentenze impeccabili o esercitano l’azione penale in modo appropriato occorrerebbe pur spiegare la quantità di assoluzioni o di riforme nei gradi successivi. In questa enclave l’unico controllo effettivo compete agli avvocati che, tante volte, conoscono pregi e difetti del singolo giudice meglio del suo capo d’ufficio chiamato a valutarne la professionalità. Il “tribunale” del foro è, a spanne, abbastanza preciso ed è una fonte preziosa per apprezzare le vere capacità del monocrate decidente. Qualcuno dirà che così si finisce nell’oclocrazia, nel potere della piazza che manda a morte Gesù e libera Barabba. Antipatie, simpatie, disappunti, maldicenze insomma un mondo malmostoso e ribollente fuori controllo troverebbe spazio – per legge – nelle valutazioni dei giudici con il rischio di pesanti storture.
Naturalmente questa conclusione porta per implicito, anzi per nascosto, un corollario inconfessabile: ossia che gli avvocati si prestino nei Consigli giudiziari a camarille e pettegolezzi, invece di esercitare con rigore questa delicata funzione.
Qualche tempo or sono un esponente di primo piano della magistratura associata, con una certa dose di coraggio, ebbe a dichiarare che gli avvocati, presenti già oggi nei Consigli giudiziari, resterebbero spesso muti e passivi, timorosi di esporsi con le toghe. Ragione per cui nulla muterà in futuro quand’anche se ne dilatasse la partecipazione al punteggio delle tabelle di merito. L’argomento prova troppo e, quindi, non può essere condiviso. È evidente che l’avvocatura è chiamata a una grande prova di responsabilità e questa esige non il silenzio o la connivenza, quanto piuttosto la precisa narrazione di fatti e circostanze obiettive che evidenzino lacune e cedevolezze professionali delle toghe. Il problema, da questo punto di vista, non può riguardare la magistratura che – a seguire l’invito del presidente della Repubblica – ha tutto l’interesse a che si squarci il velo di una certa omertà e di una certa ipocrisia nella valutazione delle carriere. Portare in emersione l’esercizio della giurisdizione, soprattutto quella monocratica, non potrebbe che sortire effetti positivi per la crescita della qualità della giurisdizione.
È l’avvocatura, piuttosto, che potrebbe trovarsi in grande difficoltà laddove mancasse a questo appuntamento con il proprio dovere di dare un contributo effettivo sotto questo delicato versante, il più intimo delle carriere di magistratura. Si spezzerebbe l’oligopolio delle correnti e dei loro capi, si graduerebbero i meriti in vista degli incarichi direttivi e si porterebbero alla luce, in una notte in cui tutte le vacche sono grigie, manchevolezze e limiti che nessuno rileva e nessuno vaglia. Non è un problema per i tanti magistrati onesti, professionali, perbene, lontani dai vari Sistemi; è una riforma che invece interpella l’avvocatura chiamandola a una gigantesca assunzione di responsabilità, all’esercizio dell’autocontrollo, ma anche al coraggio di prese di posizione scomode. Alberto Cisterna
Angelo Piraino: «Gli avvocati valuterebbero i magistrati dinanzi ai quali difendono le loro cause». Il segretario di Magistratura indipendente condivide «la lotta che l'avvocatura sta facendo perché il suo ruolo venga riconosciuto anche nella Costituzione». Valentina Stella su Il Dubbio il 28 febbraio 2022.
Per Angelo Piraino, segretario di Magistratura Indipendente, esprimendo il suo netto “no” al quesito referendario, promosso da Lega e Partito Radicale, sul voto dei “non togati” nei Consigli giudiziari, ci domanda: «Secondo lei, con quale animo un magistrato sottoposto a valutazione dovrà giudicare certe cause, sapendo che il difensore che ha davanti, o il suo collega di studio, dovrà dare un voto dal quale dipende la possibilità di continuare a svolgere il suo lavoro?».
Perché votare “no” al quesito sul voto dei “non togati” nei Consigli giudiziari?
Perché l’indipendenza dei magistrati non è un privilegio, ma una garanzia per tutti: i cittadini hanno diritto che il loro processo si svolga davanti a un giudice libero da condizionamenti, sia esterni che interni. Gli avvocati fanno già parte dei consigli giudiziari, con diritto di voto nelle discussioni che riguardano l’organizzazione degli uffici e del lavoro dei giudici, materie nelle quali forniscono un contributo fondamentale. Le valutazioni di professionalità sono una cosa del tutto diversa. Non sono promozioni, ma verifiche periodiche obbligatorie, e non facoltative, dalle quali dipende la stessa possibilità del magistrato di continuare il suo lavoro: due valutazioni negative comportano il licenziamento. Nessun pubblico dipendente è sottoposto a controlli così rigorosi. Gli avvocati possono effettuare segnalazioni sul singolo magistrato, cioè fornire informazioni specifiche per la valutazione, delle quali il consiglio giudiziario deve tenere conto. Quasi ovunque gli è riconosciuto il diritto di assistere e partecipare alle sedute, e questo garantisce pubblicità e trasparenza dei lavori. Perché tutto ciò non basta?
Molti magistrati temono che gli avvocati possano, nelle loro valutazioni, riversare la personale ostilità o antipatia verso un magistrato scomodo che, magari il giorno prima, ha dato loro torto in una causa importante. Oppure possano ingraziarlo poco prima di un giudizio. Però si potrebbe obiettare che anche un giudice, che deve emettere una sentenza su un’importante indagine svolta da un pubblico ministero, possa essere influenzato dal fatto che quel pm fa parte del consiglio giudiziario che l’indomani deve emettere un parere su un suo avanzamento in carriera.
Il voto immotivato rischia di tradursi in una mera espressione di gradimento sul singolo magistrato. Gli avvocati che compongono i consigli giudiziari, a differenza dei membri laici del Csm, non vanno in aspettativa, dovrebbero valutare gli stessi magistrati dinanzi ai quali difendono le loro cause, spesso in territori davvero piccoli. Secondo lei, con quale animo un magistrato sottoposto a valutazione dovrà giudicare quelle cause, sapendo che il difensore che ha davanti, o il suo collega di studio, dovrà dare un voto dal quale dipende la possibilità di continuare a svolgere il suo lavoro? Il paragone con i pubblici ministeri non regge: sono dipendenti dello Stato che hanno il dovere di fare indagini anche a favore dell’indagato, ricercano la verità, non vincono le cause e la loro retribuzione non dipende da questo. Per gli avvocati è diverso, sono liberi professionisti, il loro compenso e la loro reputazione presso i clienti dipendono dall’esito delle cause.
La contrarietà al voto degli avvocati può discendere anche da una visione distorta del ruolo del difensore, una sorta di azzeccagarbugli, complice del suo assistito?
L’avvocato è il primo difensore dei diritti civili e condivido la lotta che l’avvocatura sta facendo perché il suo ruolo venga riconosciuto anche nella Costituzione. Senza un’avvocatura libera non può esistere un sistema giudiziario realmente giusto ed efficiente. Le riforme dovrebbero ampliare le occasioni di confronto e dialogo tra l’avvocatura e la magistratura, ma il rapporto di fiducia tra queste due categorie va recuperato attraverso un confronto su posizioni paritarie e distinte, e non può essere basato su rapporti di forza e indebite commistioni.
L’ex procuratore Paolo Borgna, esprimendosi a favore del quesito, ha scritto: ‘ho maturato una convinzione profonda: un sistema in cui un chierico che esercita un così terribile potere sui cittadini abbia in tutta la sua vita professionale solo valutazioni espresse da altri chierici – senza che mai a valutarlo siano persone esterne alla corporazione cui appartiene – è un sistema destinato a secernere veleni’. Che ne pensa?
Il paragone tra magistrati e chierici mi atterrisce, richiama le caste sacerdotali. Non siamo missionari, ma funzionari dello Stato chiamati al difficile compito di assicurare il rispetto della legge. La nostra vita professionale è decisa dal Csm, che è già composto per un terzo da professori universitari e avvocati nominati dal Parlamento, non comprendo perché questo non sia ritenuto sufficiente.
Davvero il vero problema dell’indipendenza della magistratura sono i voti degli avvocati nei consigli giudiziari e non invece lo strapotere di alcuni membri forti delle correnti della magistratura?
I condizionamenti che possono influenzare i magistrati possono essere sia esterni che interni. La degenerazione delle correnti è stata causata anche dalla progressiva gerarchizzazione della magistratura: si sono dati sempre più poteri ai dirigenti degli uffici, in nome dell’efficienza, e si è creata così una divisione tra la magistratura alta e quella bassa, tra ufficiali e soldati. È una tendenza iniziata dalle procure, con la riforma Castelli, che ora si sta estendendo agli uffici giudicanti, con le ultime riforme annunciate dal governo. Tutto ciò alimenta il carrierismo, che ha causato i comportamenti sbagliati che conosciamo. Ma l’art. 107 della Costituzione stabilisce che i magistrati si distinguono tra loro solo per le funzioni, il concetto di carriera dovrebbe essere estraneo all’organizzazione della magistratura. Abbiamo bisogno di buon senso e di scelte condivise, e non di nuovi ambiti di potenziali conflittualità all’interno della magistratura o tra la magistratura e l’avvocatura.
Paolo Borgna: «I magistrati sappiano che i migliori giudici delle loro capacità sono gli avvocati». Per l'ex procuratore aggiunto di Torino e membro della Dda «essere valutati da giuristi che non siano magistrati non farebbe che corroborare la legittimazione dei magistrati stessi». Valentina Stella su Il Dubbio il 28 febbraio 2022.
Qualche intervista fa, l’Accademico dei Lincei e avvocato Tullio Padovani ci disse: «Consiglio a tutti un bellissimo libro “Difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore” scritto da un signor pubblico ministero che si chiama Paolo Borgna. Nessuno come lui ha interpretato in modo pieno, cordiale, simpatetico, rispettoso e caloroso il ruolo dell’avvocato». Non sorprende, dunque, che qualche giorno fa proprio Borgna, già procuratore aggiunto di Torino e membro della direzione distrettuale Antimafia, dal sito dell’associazione “Volerelaluna”, presieduta dall’ex magistrato Livio Pepino, abbia scritto un articolo dal titolo “Referendum su avvocati e valutazione dei magistrati. Perché Sì”. In questa intervista vogliamo approfondire le sue ragioni.
Dottor Borgna, perché bisognerebbe votare sì al quesito, promosso da Lega e Partito Radicale, sul voto dei “non togati” nei Consigli giudiziari?
Rispondo con una frase di Domenico Riccardo Peretti Griva, straordinario giudice che nell’aprile 1945 fu nominato dal CLN presidente della Corte d’appello di Torino: E pensino i magistrati che i migliori e più coscienti giudici della loro capacità, della loro laboriosità, della loro educazione, della loro rettitudine, saranno pur sempre gli avvocati, che li possono seguire, talora inavvertitamente, in tutte le loro manifestazioni, meditate e istintive, essendo queste ultime anche meglio indicative”. Non voterò sì a tutti i quesiti. Su alcuni non ho ancora neppure deciso come votare. Ma sul sì a questo referendum ho una convinzione incrollabile.
La maggior parte dei magistrati è a favore del no. L’argomento allarmista, come ha ricordato anche Giovanni Guzzetta in un intervento sul nostro giornale, ‘si fonda sull’idea che coinvolgere esterni alla magistratura inquini gravemente l’indipendenza di questa, lasciandola alla mercé di giudizi “interessati” di avvocati e professori, offuscati dai pregiudizi o magari dal desiderio di vendetta verso qualche giudice che ha dato loro torto in giudizio”. È d’accordo?
Sarebbe sufficiente rispondere che gli avvocati nei consigli giudiziari sono, comunque, una minoranza. E dunque, se uno di loro portasse in quel consesso un atteggiamento di inimicizia verso un singolo magistrato, sarebbe facilmente battuto.
La contrarietà al voto degli avvocati può discendere anche da una visione distorta del ruolo del difensore, una sorta di azzeccagarbugli, complice del suo assistito?
Infatti, questo è il punto vero, preoccupante. Perché i magistrati hanno paura dell’influenza del “grande avvocato”, che si potrebbe far portatore di interessi della sua potente committenza, e non invece del leader di una corrente della magistratura, che in concreto ha molta più possibilità di influenzare il consiglio superiore o il consiglio giudiziario? Perché non si teme, ad esempio, che un giudice, che deve emettere una sentenza su un’importante indagine di un pubblico ministero, possa essere influenzato dal fatto che quel pubblico ministero fa parte del consiglio giudiziario che l’indomani deve esprimere un parere su un suo avanzamento in carriera? Mi si dice: ma il pubblico ministero è un funzionario statale che persegue soltanto la verità, mentre l’avvocato ha un legame con il cliente che rende più facile l’interferenza dei ruoli.
Invece, l’esperienza mi insegna che la passione che può animare un pubblico ministero che pensa di essere portatore di verità, e che veda processualmente respinta la sua tesi, è in grado di scuotere la sua serenità di giudizio non meno del legame professionale che lega l’avvocato al suo assistito. Siamo sinceri: al fondo di questa diffidenza, c’è l’idea della superiore “virtù civile” del magistrato. È l’antica “albagia professionale” dei magistrati di cui parlava Calamandrei. Una superbia accecante che “si rifiuta di credere che possano esservi avvocati pronti a servir la giustizia per solo amore di essa e non per cupidigia di guadagno”. Non ho mai creduto a questa leggenda. Se qualcuno, in buona fede, ci ha creduto in passato, si vada a leggere le conversazioni di Palamara con alcuni dei principali leader associativi della magistratura. E vedrà dove sta, oggi, il rischio per l’indipendenza del singolo magistrato.
Nel suo intervento su “Volerelaluna” mi ha colpito questa espressione: ‘ho maturato una convinzione profonda: un sistema in cui un chierico che esercita un così terribile potere sui cittadini abbia in tutta la sua vita professionale solo valutazioni espresse da altri chierici – Senza che mai a valutarlo siano persone esterne alla corporazione cui appartiene – è un sistema destinato a secernere veleni”. Purtroppo questa sua convinzione non è comune all’interno della magistratura.
Io non sono più magistrato. Ma scrivevo queste cose già 25 anni fa. Rimanendo isolato.
Lei nel suo intervento giudica tragicomico il fatto che l’Anm abbia eletto Palamara ma poi considera l’intervento dell’avvocato un rischio per l’indipendenza della magistratura. Ci può ampliare questo suo pensiero?
Sì. Il fatto che un’associazione che elesse all’unanimità Palamara presidente indichi come rischio all’indipendenza la possibilità che un avvocato possa contribuire, in posizione di minoranza, alla formulazione di un parere su un magistrato, potrebbe apparire quasi comico. È una cosa che mi fa ridere. Rido per non piangere. Essere valutati da giuristi che non siano magistrati non farebbe che corroborare la legittimazione dei magistrati stessi. Magistratura democratica parlava della necessità di un “supplemento di legittimazione” già negli anni ’70. Perché oggi non se ne parla più, quando l’enorme aumento di discrezionalità (rispetto ad allora) sia dei giudici che dei pubblici ministeri renderebbe questo “supplemento” tanto più necessario?
Le valutazioni di professionalità dei magistrati. Troppo corporativismo tra i magistrati, sì la voto degli avvocati nei Consigli giudiziari. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 23 Febbraio 2022.
L’Anm (Associazione nazionale magistrati) è contraria all’attribuzione del voto agli avvocati nei Consigli giudiziari sulle valutazioni di professionalità dei magistrati, perché determinerebbe interferenze con l’indipendente esercizio della funzione giudiziaria. A chi fa notare che anche il pubblico ministero è parte del processo, ed ancora prima del procedimento, dove rivolge proprio al giudice le sue richieste e che, quindi, l’autonomia del giudice potrebbe essere compromessa anche dal voto del pubblico ministero, i magistrati rispondono che il paragone è improprio, in quanto giudici e pubblici ministeri fanno parte entrambi dell’ordinamento giudiziario, definito dalla Costituzione come autonomo e indipendente da ogni altro potere.
Sul punto portano come esempio l’avvocato che è stato il giorno prima contraddittore del pubblico ministero, ovvero abbia visto condannato il suo assistito dal giudice, come potrebbe essere imparziale o neutrale nell’esprimere il suo voto? Riflessione del tutto corporativa, alla quale può facilmente replicarsi che anche il pubblico ministero, certamente in più occasioni dell’avvocato, può vedere respinta una richiesta di misura cautelare o di rinvio a giudizio, ovvero una di condanna dal giudice di cui in seguito dovrà valutare la professionalità! L’argomento è tornato di attualità dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile il quesito referendario sul voto degli avvocati nei Consigli giudiziari. La pronuncia chiarisce che non vi è alcun impedimento di natura costituzionale a consentire anche ai membri laici del Consiglio giudiziario il diritto di voto. Vengono, dunque, smentite le argomentazioni dell’Anm che evidentemente intende la necessaria e giusta indipendenza come intoccabilità, inattaccabilità. Loro come unici depositari di una professionalità che non gradisce interferenze esterne. Gli altri, invece, portatori d’interessi propri. In questo mondo volutamente chiuso, abbiamo recentemente appreso – ma era ai più noto – che il livello di affidabilità è inversamente proporzionale ai veleni e ai rancori dei protagonisti.
Per i non addetti ai lavori, va precisato che i Consigli giudiziari sono organismi territoriali composti da magistrati e, dal 2006, anche da membri esterni: avvocati e professori universitari in materie giuridiche. Questa componente laica, che rappresenta un terzo dell’organismo ed è quindi comunque minoritaria, fa però da spettatore, cioè è esclusa dalle discussioni e dalle votazioni, partecipando unicamente alle decisioni relative alle tabelle di composizione degli uffici e alle funzioni di vigilanza. Circostanza questa che contrasta con il meccanismo che governa il Consiglio Superiore della Magistratura, dove i componenti laici hanno gli stessi diritti di quelli togati. Csm che, dopo il parere espresso dai Consigli giudiziari, deve esprimere il giudizio definitivo. Verdetto che, però, si fonda essenzialmente sulla valutazione operata dal Consiglio giudiziario. Va, altresì, precisato che gli ambiti in cui vengono espressi i pareri sono, oltre alla valutazione di professionalità dei magistrati, i criteri di assegnazione alle singole sezioni dell’ufficio, l’incompatibilità, gli incarichi extragiudiziari, il passaggio di funzioni, le attitudini al conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi.
I Consigli giudiziari, inoltre, vigilano sul corretto funzionamento degli uffici del distretto, segnalando eventuali disfunzioni al Consiglio Superiore della Magistratura e al Ministro della Giustizia. Si fornisce, quindi, un contributo per il migliore funzionamento degli uffici collocati nel distretto della Corte di Appello. La volontà di escludere il voto dei fruitori naturali del “servizio Giustizia”, cioè gli avvocati – quali rappresentanti dei loro assistiti la cui vita, gli affetti, il lavoro, dipende proprio da come il magistrato esercita la sua funzione – è, pertanto, inconcepibile. Nessuno come gli avvocati conosce le qualità e i difetti dei magistrati e le problematiche che affliggono gli uffici giudiziari. Voler escludere l’avvocatura dalla discussione e dal voto, è un ulteriore segnale di superbia e di prepotenza corporativa, che non gradisce estranei in “casa propria”. Un atteggiamento culturale del tutto fuori luogo, dimenticando che anche il difensore ha le chiavi del Palazzo e quando non vi entra i luoghi sono oscuri… e nel buio tutto può accadere.
Riccardo Polidoro
Caiazza: «Che assurdità le toghe che scrivono leggi per riformare se stesse». Il presidente dei penalisti italiani, Gian Domenico Caiazza: «Una riforma che deve intervenire sulla più grave crisi della magistratura nella storia repubblicana non può essere scritta a quattro mani con l'Anm». Simona Musco Il Dubbio il 3 febbraio 2022.
Altro che svolta: la nuova riforma del Csm «sarà scritta dai magistrati, con un metodo parasindacale». A dirlo è Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali, secondo cui per affrontare la crisi della magistratura sarebbe stato necessario affrontare il problema delle valutazioni di professionalità – positive quasi nel 100% dei casi – e dei fuori ruolo. Temi sui quali è proprio l’Ucpi a lavorare per una riforma di iniziativa popolare. «In questo progetto di riforma – spiega Caiazza al Dubbio – si parla solo di sistema elettorale. E francamente non è questa la soluzione alla crisi».
La nuova riforma del Csm è attesa come una svolta. Ma a conti fatti saranno gli stessi magistrati a decidere quale sarà il loro futuro, col rischio che tutto cambi affinché nulla cambi.
Questa riforma, diversamente da quella sul processo penale, che ha coinvolto molti più soggetti, tra cui noi, è in corso di definizione tra il governo e l’Associazione nazionale magistrati, secondo una logica parasindacale. Ma una riforma che deve intervenire sulla più grave crisi della magistratura nella storia repubblicana non può essere scritta a quattro mani con l’Anm. Mentre noi penalisti siamo stati, credo proficuamente, coinvolti nella riforma del processo penale, qui siamo stati tenuti fuori, come chiunque altro. Ed è significativo. Questa è la prima osservazione di metodo.
Il dibattito si sta concentrando essenzialmente sul sistema elettorale, come se fosse l’antidoto ultimo alla crisi. Basta?
No. È un aspetto che consideriamo marginale rispetto alle ragioni della crisi della magistratura. Immaginare che si possa riformare l’ordinamento giudiziario modificando il sistema elettorale del Csm è una sorprendente illusione, che ha colpito anche la politica, negli anni. Non crediamo che ci saranno grandi differenze, qualunque modifica si riuscirà a fare.
Sorteggio compreso?
Il sorteggio avrebbe certamente un impatto molto forte. Anche se comprendiamo che si arrivi a questa idea per disperazione, da parte di chi vuole riformare, a noi penalisti l’idea del sorteggio non piace. È e rimane una sgrammaticatura democratica, una soluzione disperante e disperata. Se siamo a un livello di crisi così ingovernabile da avere il bisogno sorteggiare i componenti di un organismo costituzionale di quell’importanza siamo veramente alla frutta. Se poi dobbiamo prendere atto che siamo alla frutta va bene.
Quali sono i problemi da affrontare con priorità?
In primo luogo il problema della progressione delle carriere. Il motivo per il quale il sistema delle nomine non funziona, con le sue derive correntizie, è che le carriere procedono automaticamente, come è noto, con valutazioni positive oltre il 99%. Così, quando si deve scegliere un procuratore capo o il presidente di una Corte d’Appello, si troveranno sempre cinque o sei magistrati che avranno lo stesso curriculum e saranno considerati equivalenti. È naturale, con questo appiattimento.
La grande riforma della magistratura passa dunque, prima di tutto, dalla riforma dei meccanismi di progressione di carriera e quindi della valutazione di professionalità, che avrebbe anche il pregio di responsabilizzare il magistrato per ciò che fa. Se il magistrato non risponderà mai a nessuno della qualità del proprio lavoro, come succede adesso, sarà totalmente deresponsabilizzato, perché tanto andrà avanti ugualmente. Di tutto questo, nel progetto di riforma, non c’è nulla, se non l’introduzione di un ulteriore livello di giudizio. Ma è una cosa assurda.
La vicenda dei vertici della Cassazione ne è un esempio?
I ricorsi al Tar riguardano un’enorme quantità di nomine di magistrati, in tutta Italia. Dovrebbe essere la magistratura a capire, per amor proprio, che deve recuperare dei meccanismi di merito nell’avanzamento delle carriere, in modo da non dover vedere sindacare ogni cinque minuti le proprie scelte e le proprie stesse regole. Sa, le circolari sulle valutazioni quadriennali sono severissime e presuppongono un’analisi veramente approfondita per far andare avanti chi merita e lasciare indietro chi non merita. Ma è carta straccia.
Questa valutazione è stata annientata, in nome di principi di autonomia e indipendenza, con la conseguenza che non si sa più chi sia capace e chi no. E lo decide il Consiglio di Stato, il che crea un problema di tensione istituzionale molto forte tra magistratura ordinaria e amministrativa. Quest’ultima vicenda è clamorosa perché colpisce i vertici della magistratura, e grave perché queste decisioni non possono intervenire dopo due anni che si esercitano le funzioni. Ma non è una cosa nuova: è la conseguenza di quella gravissima disfunzione. È proprio per questo che noi stiamo lavorando a due grandi leggi di iniziativa popolare su distacchi dei magistrati e valutazioni professionali. Lavorandoci posso dire che non è facile costruire un’alternativa. Quindi non banalizzo, ma bisogna farlo.
L’altro tema è, appunto, quello dei fuori ruolo, sul quale più volte l’Unione delle Camere penali ha posto l’accento.
Abbiamo appreso con soddisfazione dell’inserimento di una delega che prevede, molto genericamente, una riduzione del numero dei magistrati fuori ruolo presso l’esecutivo. È un piccolo segnale di attenzione nei riguardi di una tematica cruciale, perché questa è una cosa unica al mondo. Ma dovrebbe essere una riduzione prossima all’azzeramento: non si capisce per quale ragione un magistrato che vince un concorso dovrebbe andare a fare una cosa diversa dal concorso che ha vinto, laddove poi c’è una carenza di giudici e di magistrati. E non è solo un problema di percentuale, ma anche di ruoli apicali, cioè politici, che dovrebbero essere preclusi al magistrato, per evitare la commistione tra potere giudiziario e potere esecutivo. Ci vadano i funzionari di carriera, i professori universitari: perché ci deve andare un magistrato? Noi pensiamo che le leggi le facciano il Parlamento e il governo e che la magistratura le applichi. Questa cosa che la magistratura debba scrivere le leggi e soprattutto su se stessa e sulla riforma di se stessa a noi pare un’assurdità.
Altro punto è la presenza degli avvocati nei consigli giudiziari.
E si torna al grande tema della valutazione professionale. Nel momento in cui diciamo che bisogna far saltare in aria questo sistema ipocrita delle valutazioni quadriennali, un ruolo importantissimo sarebbe proprio quello degli avvocati. La loro è la voce del foro. Guardi, capisco la delicatezza, perché il diritto di voto dell’avvocatura nei consigli giudiziari diventa un’assunzione di responsabilità enorme ed esige una indipendenza di giudizio veramente straordinaria, perché l’avvocato dovrà esprimere un giudizio sui magistrati con i quali deve lavorare tutti i giorni. Siamo consapevoli che si tratti di qualcosa che richiede un impegno formidabile, anche eticamente. Ma come si può immaginare che la voce dell’avvocatura non debba avere peso nel giudizio dell’operato di un magistrato?
Da ilriformista.it il 21 gennaio 2022.
Il regista americano Kelly Duda, autore di un’inchiesta sullo scandalo del sangue infetto degli anni 80 e 90, è finito sotto processo a Roma per il reato di “offesa all’onore o il prestigio di un magistrato”.
A raccontare il caso è il quotidiano britannico Guardian, che riporta come ieri nella capitale italiana si sia svolta la prima udienza. Duda, processato in contumacia, era assente. Il processo dovrebbe riprendere a luglio.
Ma facciamo un passo indietro. Duda, con le sue inchieste giornalistiche e un documentario video noto in tutto il mondo, Factor 8, ha contribuito a fare luce sulla vicenda, rivelando come migliaia di persone in diversi paesi, tra cui l’Italia, fossero morte dopo essere stati contaminati con farmaci importati dagli Stati Uniti. I casi in Italia risalgono negli anni 80 e 90, quando 2.605 emofiliaci sono stati infettati dal virus dell’HIV ed epatite attraverso il plasma prelevato dal sangue dei detenuti in un istituto penitenziario dell’Arkansas.
L’indagine di Duda ha messo in luce un uso disumano dei detenuti di un carcere dell’Arkansas: per tre decenni, infatti, lo stato americano ha tratto profitto dal sangue raccolto dai prigionieri, come parte di un programma sul plasma gestito per conto dello stato da un’azienda sanitaria ormai chiusa. Gli emoderivati sono stati venduti in tutto il mondo, mentre i prigionieri hanno ricevuto una somma irrisoria.
Nel dicembre 2017 Duda si è recato a Napoli per testimoniare per l’accusa in un processo per omicidio colposo contro Duilio Poggiolini, uno dei più importanti dirigenti del ministero della Sanità tra gli anni Settanta e Novanta, già condannato per corruzione durante le inchieste note come “Tangentopoli”, e contro nove dirigenti e tecnici del gruppo farmaceutico Marcucci, azienda farmaceutica che produceva e commercializzava emoderivati. Gli imputati sono stati tutti assolti nel 2019, dopo un processo durato 23 anni.
Ma in questa occasione, il regista è passato da testimone a imputato. Come riporta il quotidiano britannico, durante l’udienza che il film maker ha descritto come caotica e confusa, il pubblico ministero Lucio Giugliano avrebbe tentato di bloccare e screditare la testimonianza di Duda, nonostante fosse teste dell’accusa. Sorpreso dall’atteggiamento della procura Duda, quando ha stretto la mano a Giugliano, gli ha rivolto un commento in inglese: “Nel mio Paese, quello che hai fatto oggi, sarebbe vergognoso”.
Il magistrato ha comunicato a Duda di aver appena commesso un reato e ha dato disposizioni agli agenti presenti in tribunale di arrestare il regista. Subito, però, è diventato chiaro che Duda non poteva essere trattenuto. Ma il procuratore è andato avanti per la sua strada e ha presentato denuncia nel 2019 contro il film maker.
Il giornalista viene adesso assistito dall’Ufficio di Assistenza Legale di Ossigeno, Media Legal Difende Initiative e Free Press Unlimited: questi considerano la vicenda “strategica” per la difesa della libertà di espressione.
La magistratura italiana, che fa uso di una norma di epoca fascista, inquisisce un giornalista internazionale per aver svolto il suo lavoro. E il caso suscita preoccupazioni sullo stato della libertà di stampa in Italia.
Francesco Specchia per "Libero quotidiano" il 25 gennaio 2022.
Ormai, verso il Csm, inarrestabile è la deriva psicologica degli astanti. L'italiano medio passa progressivamente dallo spaesamento all'indignazione, dalla frustrazione alla -quasi- mal celata ammirazione, nel constatare che nella peggior crisi che sta attraversando, l'organo di autogoverno delle toghe abbia come primario obiettivo quello di alzarsi lo stipendio.
Non è una boutade. Il bilancio preventivo 2022 del Consiglio Superiore della magistratura guidato dal vicepresidente David Ermini, registra un aumento delle spese dai 39,8 milioni dell'anno scorso ai 44,4 milioni di quest' anno.
E c'è qualcosa di allegramente spudorato proprio nel fatto che gli aumenti riguardino soprattutto le retribuzioni dei membri del Csm stesso. Sicché, mentre la ministra della Giustizia Marta Cartabia lotta strenuamente per la riforma del Consiglio (più necessaria che mai, ad occhio), e mentre la stima popolare verso la magistratura raggiunge i minimi storici, e mentre il caso Palamara ha decapitato i vertici stessi dell'istituzione e l'istituzione fa finta di niente; be', mentre accade tutto ciò, avviene pure che per la voce di bilancio relativa all'«indennità di cessazione dalla carica ai Componenti laici eletti dal Parlamento» si preveda una spesa di 1,4 milioni.
Spesa che, divisa tra gli otto componenti laici che termineranno il loro mandato proprio quest' anno, fa in media 175mila euro a testa. Sicché, nel delirio politico, mentre l'attenzione dei media - e della Cartabia stessa- è concentrata sul Quirinale, il solo settimanale Tpi, attraverso i suoi.
Il Consiglio superiore della magistratura ha presentato un bilancio preventivo per il 2022 in cui le spese crescono di quasi 5 milioni di euro.
Tra le voci che contribuiscono a far crescere le spese ci sono 1,4 milioni di "indennità di cessazione dalla carica "previsti per i membri laici eletti dal Parlamento.
In aumento pure i costi per il personale che, sempre nel bilancio preventivo del 2022, lievitano di oltre un milione insider alla Giustizia, disseziona voce per voce i costi dell'istituzione.
Anche il personale del Csm nel 2022 costerà lievemente di più rispetto al 2021: da 25,4 milioni si passa a 26,8.
«E poi, ovviamente, ci sono beni e servizi da assicurare al Consiglio» scrive Tpi «come ad esempio i 685mila euro previsti per la "fornitura di servizi di biglietteria e pernottamenti per i vari componenti" del Csm, più eventuali catering per eventi istituzionali; i 120mila euro per mezzi di trasporto. Curiosi pure i 20mila euro ad hoc per la "fornitura di capi d'abbigliamento al personale autista».
E poi ancora aumenti per pulizia dei locali e facchinaggio (480mila euro), acquisto di immobili (300mila), fino alla «realizzazione del progetto di reingegnerizzazione del sistema informativo del Csm (2,6 milioni dai 180mila euro dello scorso anno)». Alla fine anche per beni e forniture il conto cresce in totale di oltre 4 milioni.
Dal punto di vista giudiziario, nulla di irregolare o "penalmente rilevante", ci mancherebbe altro. Ma sotto il profilo etico, dell'irreprensibilità dei magistrati e del rispetto dello Stato e dei cittadini, be', la sindrome che emerge è quella di superiorità genitale del Marchese del Grillo, "io so' io ...".
O, per attingere ad una citazione dotta, il pensiero nostro corre all'Elogio dei magistrati di Piero Calamandrei, un padred ella patria che nel '35 predicava ed evocava la superiorità dei giudici nel libero flusso delle giustizia; e che ora si rivolterà nella tomba.
Tra l'altro, il bilancio del Csm che si gonfia come un soufflé viene presentato proprio mentre la commissione incarichi direttivi del Csm stesso ribadisce la nomina di Curzio e Cassano a presidente e vicepresidente, nonostante il Consiglio di Stato l'aavesse bocciata, con una sentenza argomentata con accuratezza.
Cioè: il Csm -sostenuto dal Presidente Mattarella- se ne infischia del giudizio dei giudici amministrativi, attraverso una "delibera elusiva del giudicato"; mentre curiosamente lascia circolare la notizia (smentita) che il collega autore della sentenza al Consiglio di Stato avesse un'amicizia con Angelo Spirito, il magistrato da cui nasceva il ricorso stesso.
La conseguenza è che si azzereranno ancora le nomine, e la Cassazione rimarrà decapitata.
La scena diciamo che non brilla di eleganza. La memoria storica dei cronisti torna al maggio 2015, quando le spese in aumento del Csm divennero un vero caso nazionale: 45,5 milioni di euro (dove spiccavano 250mila euro di "formazione professionale", "250 mila di ufficio stampa" e 785mila per organizzare seminari e convegni) ossia il 38% in più di quanto lo stesso Consiglio avesse speso nell'esercizio contabile precedente. Riproporla di 'sti tempi -diceva Fouché- è peggio di un crimine, è un errore politico...
Chance persa per un bilancio serio. Anno giudiziario, ennesima odiosa passerella dei magistrati vestiti a festa. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 22 Gennaio 2022.
A noi avvocati penalisti, si sa, le Cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario non sono mai piaciute. Da sempre combattuti se accettare o meno gli striminziti inviti a parteciparvi seduti su uno strapuntino, infine decidemmo (or sono 15 anni) di organizzarcele per nostro conto. Già la ostentata solennità di quelle cerimonie ci è parsa da sempre incomprensibile: magistrati costretti ad indossare, con evidente sacrificio personale, toghe e tocchi implausibili, ed infatti mai usati nei rimanenti 364 giorni dell’anno, sfilano con malcelato imbarazzo, senza – essi per primi – comprenderne la ragione. Peraltro, di questi tempi e con questi chiari di luna, questi pomposi cortei sarebbe proprio il caso di risparmiarseli, cogliendo così virtuosamente l’occasione per definitivamente archiviarli: non un solo essere umano dotato di raziocinio li rimpiangerebbe.
Spogliate da queste pomposità del tutto fuori luogo, le inaugurazioni dell’Anno Giudiziario (sia territoriali che nazionali) avrebbero tuttavia un senso preciso, come occasione e luogo per fare un bilancio della vita giudiziaria, analizzarne le criticità, individuare soluzioni, ove però fossero concepite ed organizzate diversamente.
Sarebbe infatti necessario, innanzitutto, cancellare l’idea, davvero odiosa, che vi siano dei padroni di casa, vestiti a festa, che invitano degli ospiti; ai quali, per di più, vengono offerte informazioni acquisite, organizzate e selezionate in totale, indisturbata autonomia ed esclusività. Noi pensiamo infatti che Giudici e Procuratori non siano i padroni di casa, o certamente non gli esclusivi, nei Tribunali e nelle Corti di Appello (e nella Suprema Corte di Cassazione). Ne sono i responsabili amministrativi, certamente, ma l’esercizio della giurisdizione è affidato alla responsabilità di tutti i suoi indispensabili attori, tra i quali l’avvocatura assolve un compito almeno pari a quello della controparte, cioè i Magistrati dell’Accusa.
La rappresentazione scenica – che nelle cerimonie però è sostanza – racconta invece tutt’altro. Presidenti (di Corte di Appello o di Cassazione) e Procuratori (Generali) agiscono e si propongono come i padroni di casa; l’Avvocatura è ospite, giusto chiamata a portare un qualche breve indirizzo di saluto. Un quadro francamente inaccettabile. Quanto alle statistiche, che sono poi il cuore di queste cerimonie, e ne rappresenterebbero anche la indiscutibile utilità, il punto è che esse sono gestite, come dicevo, in modo totalmente unilaterale dalla Magistratura, che decide in via esclusiva quali dati raccogliere, e quali statistiche comunicare. I dati statistici non sono certamente neutri, e meno che mai la lettura che se ne può dare. D’altronde, questa della inaccessibilità pubblica dei dati statistici dell’amministrazione giudiziaria è questione che poniamo da tempo; così come da tempo abbiamo dimostrato, con le nostre indagini in collaborazione con l’Istituto Eurispes, che la giustizia penale la si racconta a seconda dei dati che si sceglie di raccogliere.
Insomma, come avete ben compreso, ce ne è quanto basta per non farci appassionare – sia detto con il massimo rispetto – a cerimonie così concepite. Preferiamo organizzarcele per nostro conto, facendone sempre occasione di ricco ed approfondito confronto e dibattito con la Magistratura locale e nazionale, non meno che con l’Accademia. Quest’anno saremo a Catanzaro, per esempio, a discutere su quanto la tutela forte del diritto di difesa sia indispensabile non solo quale garanzia per i diritti primari della persona indagata o imputata, ma altrettanto -e per certi versi ancor di più- come garanzia per il giudice, per la sua indipendenza, e per la forza e la credibilità del suo giudizio agli occhi della pubblica opinione; la quale ultima non potrà che diffidare di una sentenza pronunciata all’esito di un giudizio celebrato con un difensore debole, intimidito, minacciato nella sua libertà morale. Tutti a Catanzaro, dunque, o collegati con noi, l’11 e il 12 febbraio. Oltretutto, non ci sarà bisogno di indossare pellicce di ermellino.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione Camere Penali Italiane
Si apre l'anno giudiziario. Mattarella “assente”, l’apertura dell’anno giudiziario è una farsa. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Gennaio 2022.
Si è alzato il sipario sull’Anno Giudiziario 2022 nell’illegalità: ouverture del primo attore abusivo, poi ognuno ha recitato la sua parte facendo finta di niente. Come se il Palazzo della giustizia non fosse in macerie. Il Presidente abusivo della Corte di Cassazione Pietro Curzio –prima licenziato dal Consiglio di Stato, poi ri-assunto in zona Cesarini dal Csm- ha parlato di “chiaroscuro” della giustizia, dopo aver snocciolato i soliti dati che sentiamo senza in realtà ascoltare a ogni inaugurazione, anno dopo anno. Come se la giurisdizione fosse solo una tabellina di numeri e non riguardasse persone, corpi e menti di vittime e di colpevoli e di innocenti e al centro di tutto non ci fosse la massima tortura che, prima ancora del carcere, è il processo.
La ministra Cartabia si è limitata a replicare la relazione che aveva tenuto pochi giorni fa al Senato, con la giusta soddisfazione per le riforme fatte in meno di un anno e per aver portato a termine e reso esecutivo (a partire dal mese di febbraio) l’Ufficio del processo, ottomila tecnici del diritto pronti a dare una mano ai giudici. Se questi glielo consentiranno, e ci permettiamo di avere qualche dubbio, con tanti galli nel pollaio delle toghe. Ma ha solo sfiorato, ancora una volta, il tema cruciale del Consiglio superiore della magistratura. Hic Rhodus, hic salta, vien da dirle. Ma già i pettegolezzi di palazzo sussurrano che sia stato lo stesso presidente Draghi a frenarne la riforma, in leggero conflitto di interessi, nell’attesa dell’elezione del prossimo capo dello Stato. Resta il fatto che questa calma piatta è quanto meno anacronistica, come se gli uomini e le donne di giustizia si fossero rinchiusi in una sorta di bolla separata, una monade senza porte né finestre, per non vedere e non sapere che cosa succede là fuori.
Ben lontani i tempi in cui il Presidente Sandro Pertini aveva cercato di sciogliere il Csm, lasciandosi contaminare dai fatti della realtà, prima per un asserito coinvolgimento nella vicenda-bufala della P2 del suo vice, e poi per il famoso “scandalo dei cappuccini” per un’inchiesta per peculato aperta dalla procura di Roma. Non un gesto proprio di stampo garantistico, ma almeno lui ci aveva provato, a non considerare il Csm un sacrario intoccabile. Poi finì che, consultati (come prescrive l’articolo 31 della legge istitutiva) i presidenti delle Camere e il comitato di presidenza e avuto parere negativo, lasciò perdere. E il Csm non fu sciolto. È inutile girarci intorno, il presidente Mattarella non ci ha neppure provato, ad avviare la procedura, nonostante la radiografia scandalosa che ne ha fatto Luca Palamara e le conseguenti dimissioni a catena che ne erano succedute. Eppure ieri mattina è stato un coro, dalla ministra Cartabia al vicepresidente Ermini, tutti a ringraziarlo perché ne aveva più volte auspicato la riforma. Ma ci sono situazioni in cui il bubbone va reciso. E Sergio Mattarella, che tutti considerano un ottimo Presidente, sulla giustizia è stato decisamente assente, quasi facendoci dimenticare che del Csm lui è il numero uno.
Abbiamo ricordato Pertini, ma come dimenticare Cossiga, l’unico che forse ha seriamente tentato, finché non gli hanno dato del pazzo, di metterne in discussione il potere assoluto? Il primo scontro fu decisamente politico. Una bella lezione, quando i membri del Csm volevano discutere sulle affermazioni del presidente del Consiglio, che era Bettino Craxi e che aveva criticato la magistratura. Cossiga impedì quell’ordine del giorno e i membri togati si dimisero in gruppo. Un vero ammutinamento, che poi rientrò, e il primo round fu a favore del Presidente. Anche se le scaramucce furono continue, tra il 1990 e il 1991, sempre sugli ordini del giorno, perché il Csm voleva far politica e discutere sui vari scandali politici, come per esempio quello su Gladio. Ci vollero i carabinieri fino in aula, e varie minacce di scioglimento del Consiglio, per far tornare la situazione alla normalità.
Se il settennato di Cossiga fu sicuramente il più turbolento, ma anche quello più segnato dal tentativo da parte del Presidente di ridimensionare il potere dell’organo di autogoverno, quello di Mattarella è più riconducibile alle tradizioni di Gronchi (che lo volle istituire nel 1958), Segni, Saragat e Leone. Navigazione tranquilla, ma allora il mare non era ancora in tempesta. E la tempesta non può che riguardare i vertici della magistratura. Perché non c’è riforma possibile, se non esiste chi la sappia e la possa applicare. In poche parole, la barca non va se nessuno la sa condurre e governare. Poi, certo, a ogni inaugurazione dell’anno giudiziario ci si dà una priorità nei temi da valorizzare. Come dimenticare il politicissimo “resistere resistere resistere” di Saverio Borrelli contro Berlusconi a Milano? Nel forzato regime di calma piatta di ieri, ognuno è andato per la propria direzione. Si è data una certa sottolineatura ai femminicidi, anche se ancora, dopo la riforma del “Codice rosso”, che è servita almeno a rompere il silenzio e l’indifferenza, non si è trovata la soluzione legislativa che impedisca alle donne di essere assassinate quando scelgono l’indipendenza nelle relazioni affettive.
Poi c’è stata l’improvvisa (e improvvida, secondo noi) uscita del procuratore generale Giovanni Salvi, quello che ha perso il telefonino in contemporanea al suo collega Francesco Greco proprio quando lo aveva chiesto loro un pm, sull’ergastolo ostativo e l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Per un attimo, ci è parso di sentir parlare il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri o un esponente del Movimento cinque stelle, che infatti ha applaudito tutto intero. «Il 41-bis e l’ergastolo ostativo-ha detto il procuratore- non sono carcere duro, ma strumenti per impedire che i mafiosi continuino a comandare dal carcere, come avveniva prima del 1992». Un vero intervento controriformatore, alla vigilia della scadenza che la Corte Costituzionale ha dato al Parlamento perché l’istituto dell’ergastolo ostativo, creato proprio nel 1992 dopo le stragi di mafia in clima emergenziale, venga abolito e non collegato alla necessità del “pentimento” da parte del detenuto, tenendo conto del processo di cambiamento del singolo e del passare del tempo.
Salvi ha preferito invece sottolineare l’importanza della collaborazione, allineandosi alla parte più reazionaria e immobile della magistratura e alla cultura politica grillina, contro la ministra Cartabia, impegnata in prima persona in quella riforma. Che importa se poi ha anche buttato lì che il Parlamento deve «restituire al Csm il ruolo disegnato dalla Costituzione»? Sulle macerie, senza aver prima messo un punto e a capo? A volte è meglio il silenzio. O non entrare neppure in scena.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Un regista americano è sotto processo a Roma per un reato di epoca fascista. 14/01/2019 Massa, nuova udienza del processo a Cappato e Welby, l'aula del tribunale vuota. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 20 gennaio 2022.
Kelly Duda è autore di un documentario sullo scandalo del sangue infetto: il pm del processo che ha visto assolti tutti gli imputati lo accusa di “oltraggio a un magistrato”
Kelly Duda, regista americano e autore di una delle più importanti inchieste sullo scandalo del sangue infetto degli anni Ottanta e Novanta, si trova sotto processo a Roma per il reato di “offesa all’onore o il prestigio di un magistrato”, un reato che risale ai tempi del regime fascista.
Si tratta dell’ennesimo caso di un giornalista internazionale inquisito dalla magistratura italiana e per questo ha suscitato la preoccupazione di diverse organizzazioni italiane e internazionali che si occupano della difesa della libertà di stampa.
Angela Giuffrida, corrispondente da Roma del quotidiano britannico Guardian, ha raccontato che mercoledì si è svolta a Roma la prima udienza del processo. Duda, processato in contumacia, era assente. Il processo dovrebbe riprendere a luglio.
IL CASO
Duda è l’autore di Factor 8, il documentario in cui ha raccontato come migliaia di persone in tutto il mondo si sono ammalate a causa di trasfusioni di sangue infetto prelevato dai prigionieri di un carcere in Arkansas.
In Italia, le trasfusioni sono avvenute a cavallo degli anni Ottanta e Novanta. Oltre 2.600 pazienti emofiliaci si sono ammalati di Hiv ed epatite C a causa del plasma e di altri emoderivati infetti.
Mentre il ministero della Salute ha pagato decine di milioni di euro in risarcimenti a seguito delle cause civili intentate dalle persone danneggiate, il processo penale per lo scandalo del sangue infetto è stato uno dei più lunghi e tormentati della storia recente. In tutto è durato 23 anni e si è concluso soltanto nel 2019 con l’assoluzione di tutti gli imputati.
FATTI
Tra loro, il più noto era Duilio Poggiolini, importante dirigente del ministero della Salute, coinvolto nello scandalo Tangentopoli e all’epoca ribattezzato dai giornali “Il Re Mida della sanità” (in occasione di una perquisizione della sua casa furono trovate opere d’arte, gioielli e persino lingotti d’oro nascosti nell’imbottitura dei divani). Gli altri imputati erano nove dirigenti e tecnici dell’azienda farmaceutica Marcucci. La richiesta di assoluzione è arrivata dalla stessa procura.
IL RUOLO DI DUDA
Duda è stato chiamato a testimoniare nel processo sul sangue infetto nel 2017 e ha raccontato a Giuffrida di aver valutato a lungo se presentarsi o meno, decidendo alla fine che portare la sua testimonianza era la cosa giusta da fare.
Nel dicembre di quell’anno, Duda si è recato a Napoli per essere ascoltato. A quel punto però, sostiene, l’accusa non era più interessata alla sua testimonianza e il procuratore Lucio Giugliano è arrivato al punto di cercare di ostacolare la sua testimonianza, che puntava a sottolineare un legame tra il sangue infetto proveniente dall’Arkansas e il gruppo Marcucci.
Sorpreso dall’atteggiamento della procura, che prima della fine del processo avrebbe chiesto l’assoluzione degli impiegati, quando al termine dell’udienza Duda si è trovato a stringere la mano a Giugliano gli ha rivolto un commento: «In my country, what you did today as a prosecutor would be disgraceful», cioè: «Nel mio paese, quello che lei ha fatto oggi sarebbe una vergogna».
A quel punto, il magistrato ha detto Duda che aveva appena commesso un reato e ha cercato di farlo immediatamente arrestare dagli agenti presenti in tribunale. Dopo poco è diventato chiaro che Duda non poteva essere trattenuto. Ma la storia era appena iniziata. Il procuratore aveva deciso di portare avanti la sua denuncia e, nel 2019, a Duda è stata comunicato l’inizio del suo procedimento.
LE REAZIONI
Duda è assistito da Ossigeno per l’informazione, un’associazione che si occupa della difesa della libertà di stampa in Italia. «Ossigeno considera questa vicenda giudiziaria strategicamente importante per la difesa della libertà di stampa e di espressione», è scritto sul sito dell’associazione.
Anche il Consiglio d’Europa, un’organizzazione internazionale che si occupa della tutela dei diritti fondamentali, ha preso le parti di Duda, chiedendo all’Italia spiegazioni per un gesto che ritiene costituisca «minaccia e molestia» nei confronti di un giornalista.
Non è la prima volta che i magistrati italiani finiscono sotto lo scrutinio internazionale per aver denunciato dei giornalisti. Il caso più noto è quello di Lorenzo Tondo, il giornalista del Guardian che ha scoperto uno dei più importanti scambi di persona commessi dalla giustizia italiana in tempi recenti.
Tondo ha racconto come la procura di Palermo ha arrestato e processato per anni un falegname eritreo scambiandolo per uno dei più noti trafficanti di esseri umani. Attualmente Tondo si trova sotto processo per via di una querela sporta dal sostituto procuratore di Palermo Calogero Ferrara. Anche sul suo caso il Consiglio d’Europa ha pubblicato un avviso di potenziale intimidazione di giornalisti.
DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.
La plenaria del Csm. Mattarella e Cartabia sono colpevoli di “concorso esterno” nello sfacelo della giustizia italiana. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Gennaio 2022.
Nei giorni scorsi il Presidente Mattarella ha commentato con un silenzio assoluto le notizie che alcuni (pochi giornali) hanno riportato sullo sfacelo della giustizia italiana. Le riassumo. Il procuratore generale della Cassazione ha perso il cellulare (contemporaneamente al procuratore di Milano) e così la procura di Brescia non ha potuto accertare cosa ci fosse scritto nei messaggi che i due si scambiarono – probabilmente – a proposito della Loggia P2.
Il Consiglio di Stato, per la seconda volta in pochi mesi, ha accusato il Csm di fare le nomine ai più alti incarichi della magistratura violando le regole. In sostanza ha fatto capire che al Csm le regole sono sostituite dai rapporti di forza tra le correnti e dai giochi di potere. Il Consiglio di Stato ha dichiarato decaduto il Presidente della Cassazione e la sua vice, cioè i vertici della magistratura. Decapitata. Il Csm, con un vero e proprio golpe, ha violato la sentenza e ha rimesso in sella i due abusivi. Mattarella è il presidente del Csm. Il suo silenzio è stato impressionante.
La ministra Cartabia ieri ha presentato la relazione sullo stato della giustizia anno 2021. Relazione molto seria e difficilmente discutibile su molti punti. Incredibilmente omissiva sulla questione centrale: lo stato di coma nel quale si trova la magistratura e la separazione ormai irreparabile tra magistratura e giustizia. Domani si apre l’anno giudiziario. Si aprirà con il discorso ufficiale di un magistrato che il Consiglio di Stato ha dichiarato abusivo. Non era mai successo. Credo mai in Occidente. Signori miei, sembra davvero di stare in Sudamerica. Meglio: nel Sudamerica di una trentina di anni fa. E in questo sfacelo domina il silenzio delle massime istituzioni.
Molti, oggi, pregano Mattarella di accettare un rinnovo dell’incarico al Quirinale. Perché? È stato un buon presidente? Può darsi. Di sicuro è stato il Presidente che ha portato in silenzio allo sfacelo totale la giustizia italiana. Che oggi è solo il luogo dove si violano le regole impunemente e si esercita ogni tipo di sopraffazione. Mattarella e Cartabia sono colpevoli di questo sfacelo? Forse non direttamente, però sicuramente c’è un “concorso esterno…”
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Se l'ermellino si trasforma in gattopardo. Luca Fazzo il 22 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Il presidente che pronuncia il discorso è lì solo perché il Csm lo ha precipitosamente, e con procedura mai vista prima, rimesso al suo posto dopo l'annullamento della sua nomina.
II presidente che pronuncia il discorso è lì solo perché il Csm lo ha precipitosamente, e con procedura mai vista prima, rimesso al suo posto dopo l'annullamento della sua nomina. Il procuratore generale che parla dopo di lui ha potuto evitare il procedimento disciplinare solo perché lui stesso ha stabilito che i magistrati che si «autopromuovevano» parlando con Luca Palamara non facevano niente di male: altrimenti avrebbe dovuto incriminare anche se stesso. Il vicepresidente del Csm che esterna poco dopo è diventato vicepresidente tramite gli accordi tra correnti e politica, e grazie all'intervento decisivo del solito Palamara. Vista così, la cerimonia inaugurale dell'anno giudiziario tenutasi ieri in Cassazione non ha riservato alcuna sorpresa: perché tali essendo gli intervenuti sarebbe stato impensabile che ne venissero espressioni autentiche di autocritica per lo stato desolante in cui è ridotta la giustizia italiana. Che infatti non sono venute. Hanno ammesso bontà loro che qualcosa non va per il verso giusto: ma è sempre colpa di qualcun altro, o dei soldi che non ci sono. La produttività d'altronde sta aumentando, anche se a questi ritmi per smaltire l'arretrato servirebbero vent'anni. E le riforme del Csm ben vengano, purché non riformino nulla: e si continuino a salvaguardare, come chiede Ermini, «il pluralismo» e la «discrezionalità» del Consiglio. Ovvero, tradotto dal gergo, le correnti e il loro potere di nominare ai posti chiave i nomi frutto delle spartizioni, come accaduto anche dopo le epurazioni di due anni fa. Ma se la nebbia che sembra continuare a avvolgere il palazzo delle toghe è in qualche modo scontata, a incombere sulla cerimonia di ieri è una sensazione cui non è facile rassegnarsi. E cioè che l'altro palazzo, quello della politica, nemmeno di fronte al disastro della giustizia italiana consideri doveroso affrontare il male alla radice. Sergio Mattarella, cui è toccato essere a capo dello Stato e quindi del Csm nel periodo peggiore della nostra giustizia, ha preteso giustamente le teste dei consiglieri incastrati per le trattative all'hotel Champagne: poi però è uscito di scena, lasciando che nel Consiglio superiore continuassero a sedere membri altrettanto compromessi, e tacendo quando gli è stato rivelato lo scandalo della loggia Ungheria. Il ministro della giustizia Marta Cartabia ieri torna a definire «ineludibile» la riforma del Csm: la riforma che, come denuncia il presidente dei penalisti Gian Domenico Caiazza pochi giorni fa, il ministro sta scrivendo «a quattr'occhi con l'Associazione nazionale magistrati», il sindacato della Casta in toga, e senza affrontare nessuno dei nodi cruciali. E insomma non cambia mai nulla, e l'unico vero ammaestramento che la politica sembra aver tratto dalla storia recente è che, da Craxi a Renzi, «chi tocca i fili muore». E allora si lasciano le cose come stanno.
Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.
Michela Allegri per "il Messaggero" il 21 gennaio 2022.
Non è passata nemmeno una settimana da quando il Consiglio di Stato, con due sentenze gemelle, ha decapitato i vertici della Cassazione, annullando le nomine di Pietro Curzio e Margherita Cassano rispettivamente a primo presidente e presidente aggiunto della Suprema corte.
Da quel momento, per il Csm è stata una corsa contro il tempo per trovare un accordo prima di stamattina, quando ci sarà la cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario. E ieri Palazzo dei Marescialli si è espresso: il Csm ha ribadito la scelta di Curzio e della Cassano, durante un plenum presieduto, non a caso, dal Capo dello Stato.
Le motivazioni, ovviamente, sono state riscritte, in modo da superare i rilievi dei giudici di Palazzo Spada. I consiglieri parlano di clima disteso e respingono le ipotesi di scontro con il Consiglio di Stato, che poco tempo fa aveva annullato anche la nomina di Michele Prestipino a capo della Procura di Roma. Ma non tutti sono d'accordo.
I voti favorevoli alla scelta di Curzio e della Cassano sono stati sono 19. Gli astenuti sono stati 3, e altri 3 consiglieri hanno votato contro. Alla precedente tornata, nel 2020, si era sfiorata l'unanimità, con un unico astenuto.
A presiedere la seduta è stato il capo dello Stato, Sergio Mattarella, per l'ultima volta nelle vesti del presidente del Csm, visto che da lunedì comincerà il voto per il nuovo presidente della Repubblica. È stato lo stesso Mattarella a ricordarlo, esprimendo gli auguri a tutti i componenti «per l'attività che il Consiglio svolgerà con la presidenza di un nuovo Capo dello Stato».
La presenza di Mattarella ha un peso e mette un sigillo alla decisione: il presidente si è complimentato con i magistrati confermati e ha ringraziato il plenum e la Commissione Direttivi per la «tempestività» con cui hanno agito, «assicurando la piena operatività dell'esercizio delle funzioni di rilievo per l'ordinamento giudiziario».
A ringraziare Mattarella, il vicepresidente David Ermini: «Per me e il Consiglio - ha detto - è stato in questi anni guida saggia e autorevole, esempio di etica istituzionale e fermo sostegno nei frangenti più amari», che sono stati parecchi: Palazzo dei Marescialli è stato travolto dallo scandalo delle nomine pilotate venuto a galla con l'inchiesta sull'ex pm Luca Palamara, che ha portato diversi consiglieri a dimettersi dall'incarico. Ermini ha anche sottolineato il momento di crisi di Palazzo dei Marescialli, parlando di una «perdita di credibilità» che rende necessaria al più presto una riforma
Non tutti sono stati d'accordo con la decisione di ribadire le nomine di Curzio e della Cassano. Per il laico della Lega, Stefano Cavanna, che nel 2020 fu l'unico ad astenersi e che ieri ha votato contro insieme ai togati indipendenti Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo - ad astenersi, tutto il gruppo di Unicost -, i tempi sono stati troppo rapidi: si è discusso e deliberato di scegliere i massimi vertici della magistratura in soli «4 giorni, domenica compresa».
Il consigliere, insieme ad Ardita, lamenta anche i contenuti della nuova delibera: le motivazioni riproporrebbero le stesse argomentazioni di due anni fa, senza rispondere ai rilievi del Consiglio di Stato. La maggioranza, però, sottolinea che era necessario agire in tempi strettissimi perché non era possibile lasciare scoperte «funzioni cruciali», soprattutto in vista della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario. I rilievi di Palazzo Spada, inoltre, sarebbero stati recepiti.
Cassazione, in arrivo altri ricorsi sui vertici: lite infinita fra toghe. Si complica il quadro ricomposto dalle “rinomine lampo” del Csm. Spirito pronto a reclamare l'ottemperanza della pronuncia su Curzio. Errico Novi su Il Dubbio il 2 febbraio 2022.
C’è innanzitutto un’alea di incertezza che permane sulla più alta delle magistrature. Pietro Curzio e Margherita Cassano sono sì stati riconfermati dal Csm, lo scorso 19 gennaio, al vertice della Cassazione, ma il contenzioso sulle loro nomine non pare esaurito: il “contendente” Angelo Spirito, che alla Suprema corte presiede la Terza civile, è in procinto di depositare un ulteriore ricorso, stavolta per ottenere la “ottemperanza” della sentenza precedente.
Un extended time non imprevisto, ma che certamente complica il quadro faticosamente ricomposto dalle “rinomine lampo” del Csm. Ma a parte la singola incognita che tuttora grava su Curzio e Cassano, permane anche una più generale precarietà del cosiddetto autogoverno dei magistrati, se non dell’intero ordine giudiziario: fin dove può spingersi la censura amministrativa? Davvero la rivendicazione di autonomia espressa da Palazzo dei Marescialli con la riconferma di Curzio e Cassano si regge su basi robuste? E se non fosse così, riuscirà, la riforma del Csm, a stabilire regole meno esposte ai ricorsi? E infine, qual è il grado di credibilità di una magistratura che, ora come ora, continua a essere divisa sul controllo di legalità interno? Domanda, l’ultima, che in un’intervista pubblicata sul Riformista di ieri, un togato del Csm come Sebastiano Ardita ha impietosamente rilanciato.
Ecco, ma prima di tornare alle scelte del giudice Spirito, si può aggiungere un’ulteriore e non trascurabile chicca: il prossimo 21 febbraio, in Consiglio di Stato si discuterà un altro ricorso relativo sempre alle vecchie nomine del presidente e dell’aggiunto della Cassazione, attivato stavolta da Camilla Di Iasi, attuale presidente della tributaria civile della Suprema corte, la sezione più grande di piazza Cavour, che gestisce, con un organico di oltre 70 magistrati, il contenzioso più ampio e finanziariamente rilevante dell’intera giustizia italiana. Di Iasi chiede, anzi aveva chiesto, che, per le funzioni di primo presidente aggiunto, fosse riconosciuta la prevalenza dei suoi titoli rispetto a quelli di Cassano. In teoria, dopo la sentenza depositata lo scorso 14 gennaio che ha accolto il ricorso di Spirito avverso le nomine di Curzio e Cassano, è venuto meno il motivo del contendere: la nomina impugnata da Di Iasi è già stata caducata dal Consiglio di Stato. Ma soprattutto, è stata superata dalla rinomina votata la settimana dopo dal Csm. Eppure, indiscrezioni riferiscono della possibile introduzione di motivi aggiunti da parte della magistrata ricorrente, che consentirebbero al Consiglio di Stato di esprimersi comunque.
Sarebbe un colpo di scena, sul quale però non è facile azzardare previsioni. È un fatto, invece, che Spirito, valuta in queste ore la possibilità di attivare il giudizio di “ottemperanza” contro il Csm: vuol dire rivolgersi ancora al Consiglio di Stato affinché, stavolta, dichiari che la rinomina di Curzio e Cassano configura in realtà una elusione del precedente giudicato amministrativo, ed è dunque da considerarsi nulla. Soprattutto, con la propria azione, Spirito imporrebbe la designazione di un commissario ad acta che proceda a invalidare la delibera del 19 gennaio e a imporre a Palazzo dei Marescialli una nuova valutazione fra Curzio, Cassano e Spirito coerente con la sentenza “pro Spirito” depositata da Palazzo Spada lo scorso 14 gennaio. Non è sicuro che il Spirito assuma davvero un’iniziativa così dirompente. Il suo difensore, il professor Franco Gaetano Scoca, spiega di considerare «assolutamente percorribile tale opzione: d’altra parte, il presidente Spirito», aggiunge, «sa di poterla perseguire solo se sorretto da una forte motivazione». Spirito mantiene il riserbo. Colleghi che hanno avuto modo di parlargli ipotizzano una “terza via”: un giudizio di ottemperanza attivato solo sulla nomina dell’aggiunto Cassano, per evitare una tensione istituzionale troppo alta, considerato che sul voto bis del Csm ha impresso il proprio sigillo Sergio Mattarella, appena rieletto Capo dello Stato e dunque presidente del Csm.
Scelte delicate. Ma, come minimo, l’alea di cui sopra è ben percepibile. Poi c’è un ultimo dettaglio. Il documento approvato venerdì scorso dal Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa, il Csm dei giudici di Tar e Palazzo Spada, su sollecitazione della Associazione tra i magistrati del Consiglio di Stato: si tratta della “pratica a tutela” aperta dopo che il relatore della sentenza su Curzio e Cassano, Alberto Urso, era stato impallinato dai giornali in quanto il ricorrente da lui “premiato”, Spirito appunto, aveva fatto parte della commissione del concorso con il quale lui, Urso, era diventato consigliere di Stato.
Ebbene, alla fine del documento approvato dal plenum del “Cpga” si “ribadisce il compito istituzionale della giustizia amministrativa, che non può avere altro riferimento che il dettato costituzionale e legislativo, senza distinzioni, per natura e categoria degli atti posti alla sua attenzione”. Come dire: rivendichiamo il diritto a censurare le tue nomine, caro Csm, non sei sottratto al controllo di legalità. Ora, quello di Palazzo Spada potrà sembrare un proclama da sconfitti. Ma dire che la lite fra magistrati si sia conclusa per sempre con la vittoria del Csm sarebbe da illusi.
Illegalità, sovversivismo e autarchia. Curzio e Cassano sono abusivi, l’apertura dell’anno giudiziario è illegale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Gennaio 2022.
Avete capito, esattamente, cosa è successo? Tecnicamente ieri, a Palazzo di Marescialli, nel centro di Roma, si è realizzato un parziale colpo di Stato. Mi spiego meglio: con un putsch (come lo chiamavano i tedeschi) è stato insediato al vertice della magistratura italiana un Presidente abusivo. In violazione di tutte le regole. E tra qualche riga provo a spiegare perché. Intanto vorrei precisare perché lo chiamo “parziale” colpo di Stato. Perché sovverte la legalità alla testa di uno dei tre poteri che sono l’ossatura dello Stato di diritto. I poteri, come sapete, sono quello rappresentativo e legislativo (cioè il Parlamento e le istituzioni elette dal popolo) quello esecutivo (e cioè il governo e la Presidenza della repubblica) e quello giudiziario, interamente incarnato dalla magistratura, composta da professionisti scelti per cooptazione.
In genere nei colpi di Stato il potere che viene sovvertito illegalmente, spesso da una sollevazione militare, è il potere esecutivo, e di solito questo sovvertimento al vertice del governo è accompagnato dall’abolizione del potere rappresentativo. In questo caso le cose sono diverse: il golpe riguarda il terzo potere e la sollevazione non è dei militari ma di un piccolo e potentissimo gruppetto di toghe. Per capire l’importanza di questa azione illegale e eversiva bisogna sapere cosa è successo in questi ultimi trent’anni in Italia, e come sono cambiati gli assetti e gli equilibri del potere. La magistratura, che nei primi quarant’anni di repubblica aveva avuto un ruolo decisamente subordinato agli altri due poteri, ha scalato, scalato, scalato fino quasi a scalzare gli altri due poteri, a sostituirli o comunque a sottometterli e renderli subordinati. Lo ha fatto talvolta con l’iniziativa politica (assumendo un ruolo che non le spetterebbe) talvolta con la violenza, esercitata con gli arresti, le carcerazioni preventive, forme di pressione psicologica e fisica che raramente vengono adoperate nei paesi democratici.
Sono queste le ragioni per le quali il colpo di Stato che è stato concluso ieri mattina al Csm ha un peso, sul nostro Stato, più grande di quel che potrebbe apparire. Non è stato conquistato, illegalmente, un potere secondario, ma il potere dei poteri. E per di più, al momento del putsch, è stato affermato formalmente un principio che da tempo si faceva largo, ma sempre in forme nascoste: l’assolutezza del potere della magistratura. Che ora non è più camuffato ma dichiarato e spavaldo. Assolutezza nel senso che diventa anche in modo formale un potere non sottoponibile a nessun controllo. Il nobile concetto di indipendenza è trasformato in satrapia. Cosa che, dai tempi dello Statuto Albertino, non era mai successo, in nessun aspetto della società e dello Stato, se non durante l’orribile parentesi del fascismo quando il potere assoluto fu assunto dall’esecutivo.
E ora torniamo ai fatti di oggi. il Csm ieri mattina ha deciso di collocare al vertice della Corte di Cassazione l’ex presidente Curzio e l’ex vicepresidente Cassano. Scrivo ex perché appena pochi giorni fa il Consiglio di Stato aveva dichiarato Curzio e Cassano decaduti, avendo riconosciuto come irregolare la loro nomina. Cioè aveva stabilito che questa nomina era avvenuta in violazione delle regole e a danno di candidati che avevano maggiori titoli e diritti. Il Consiglio di Stato, in sostanza, aveva proclamato la deposizione dei due magistrati e aveva indicato come scorretto comportamento del Csm. Il quale – la cosa era già nota, ma ora è sanzionata da una alta Corte – aveva deciso le nomine non sulla base di regole certe ma semplicemente piegandosi ai rapporti di forza tra correnti, cordate (come le ebbe a definire Di Matteo) e camarille varie.
La sentenza del Consiglio di Stato è stata violata in modo palese e arrogante. E per di più calpestando una precedente decisione dello stesso Csm che aveva definito come inappellabili le sentenze del consiglio di Stato. Vedete bene che ci sono tutti gli elementi del golpe. Che domani avrà una plastica rappresentazione all’apertura dell’anno giudiziario, in una cerimonia, che si svolgerà alla presenza del Presidente della repubblica, e che vedrà un presidente abusivo della Cassazione svolgere la relazione. Così stanno le cose. Oggi il paese dovrà subire la grande umiliazione di vedere ufficialmente dichiarata la sottomissione della Giustizia ad una casta in mano a gruppi, logge, bande. Umiliazione non solo per la giustizia, ma per gran parte del corpo vivo della magistratura, composto da donne e da uomini seri, preparati, leali e onesti. Ai quali però mi pare giusto muovere una critica franca e amichevole (come dicevamo noi ai tempi del Pci…): non sarebbe utile un po’ di coraggio? Perché la parte maggioritaria e onesta della magistratura italiana assiste inerme e quasi rassegnata a questo scempio del sistema giustizia, e a questo sfoggio terrificante di arroganza e di sicumera e di impunità da parte dei vertici della magistratura e dal piccolo e feroce partito dei Pm?
Io non credo che esista nessun’altra possibilità di ristabilire in Italia un decente sistema-giustizia. Le probabilità che si muovano i partiti, il mondo politico, i giornali, le Tv, gli intellettuali, sono vicine allo zero. Tutti questi protagonisti della vita pubblica, per motivi diversi – interessi, timori, ricatti o semplice conformismo – sono sottomessi al partito dei Pm e ai vertici della magistratura. Solo i magistrati possono decidere di rompere il tetto di cristallo e di dire: “Ora basta. Vogliamo tornare nella legalità e al diritto”. Sapranno farlo? Troveranno una sponda nel prossimo presidente della repubblica, che speriamo sia un po’ meno timoroso e rincantucciato del buon Mattarella? Io una speranza piccola piccola la mantengo.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Ardita e Cavanna in coro: «Aggirata la sentenza del Consiglio di Stato». Il Dubbio il 20 gennaio 2022. Il consigliere togato indipendente e il laico della Lega hanno criticato la decisione della quinta commissione di riproporre Curzio e Cassano. «La delibera non colma le argomentazioni richieste dal Consiglio di Stato»
Tempi troppo stretti per la nuova deliberazione del Csm sui vertici della Cassazione, che oltretutto sarebbe carente anche nel merito, visto che lascerebbe irrisolti i rilievi posti dal Consiglio di Stato. È la sostanza delle critiche mosse dai consiglieri del Csm che hanno votato contro le riconferme di Pietro Curzio e Margherita Cassano. «Mancano gli argomenti richiesti nella sentenza di annullamento per colmare contraddizioni e lacune, è mancata una riflessione approfondita e completa» ha lamentato il togato indipendente Sebastiano Ardita. «Occorre evitare di dare anche solo l’impressione di voler eludere le decisioni del giudice amministrativo», ha aggiunto insistendo sulla necessità di rispettare le decisioni del Consiglio di Stato.
Per il laico della Lega Stefano Cavanna «le nuove motivazioni si limitano a riproporre in forma diversa le stesse argomentazioni di quelle originarie». E se è vero che il Csm ha degli ambiti di discrezionalità, «è necessario che i suoi atti siano sottoposti al controllo di un altro organo giurisdizionale per impedire motivazioni incomprensibili, esoteriche e quindi espressione di arbitrio».
Guerra di poteri: il Csm disconosce la decisione del Consiglio di Stato. Il Corriere del Giorno il 18 Gennaio 2022.
Uno scontro di poteri che si è celebrato ieri al Csm con una votazione che rischia di restare nella storia e che conferma la necessità di una rapida riforma dell’organo di autocontrollo della magistratura. La 5a commissione (incarichi direttivi) ha infatti riconfermato il primo presidente della Suprema corte Pietro Curzio e la presidente aggiunta Margherita Cassano le cui nomine precedenti erano state ritenute illegittime dai magistrati di Palazzo Spada.
Non era mai accaduto nella storia della magistratura e della repubblica che le nomine del vertice della Corte di Cassazione venissero azzerate dal Consiglio di Stato, che ha accolto il ricorso di Angelo Spirito, uno dei candidati esclusi, con due sentenze di venerdì scorso che hanno letteralmente “ribaltato” le precedenti decisioni del Consiglio superiore della magistratura, così come non era mai successo che per nomine di tale “peso” ed importanza la contro decisione di Palazzo dei Marescialli venisse adottata nel giro di sole 72 ore, con un weekend di mezzo.
Uno scontro di poteri che si è celebrato ieri al Csm con una votazione che rischia di restare nella storia e che conferma la necessità di una rapida riforma dell’organo di autocontrollo della magistratura. La 5a commissione (incarichi direttitivi) ha infatti riconfermato il primo presidente della Suprema corte Pietro Curzio e la presidente aggiunta Margherita Cassano le cui nomine precedenti erano state ritenute illegittime dai magistrati di Palazzo Spada.
La proposta è stata approvata con 4 voti a favore, 2 astenuti, non poche tensioni e qualche gioco di prestigio. Infatti i lavori sono stati interrotti per convincere il membro laico Alessio Lanzi (indicato) da Forza Italia, che voleva astenersi, a votare a favore della riconferma dell’ accoppiata, insieme ad Antonio D’Amato presidente di Magistratura indipendente , alla consigliera Alessandra Dal Moro della “sinistra” di Area; e Fulvio Gigliotti, membro laico indicato da M5S, componendo una maggioranza trasversale che definire imbarazzante è poca cosa. La 5a commissione incarichi direttivi del Csm ha dovuto riscrivere in fretta e furia le motivazioni delle nomine di Curzio e della Cassano, sulle quali si erano concentrati i rilievi del Consiglio di Stato.
Domani toccherà al plenum del Csm confermare l’indicazione della commissione per consentire la partecipazione legittimata di Curzio e della Cassano all’inaugurazione dell’Anno giudiziario dinanzi al Capo dello Stato, Sergio Mattarella. I due alti magistrati erano stati ritenuti di fatto “abusivi” dal Consiglio di Stato con due sentenze gemelle che avevano azzerato le due precedenti nomine del Csm avvenute il 15 luglio 2020 dando ragione al ricorso di Angelo Spirito, alto magistrato della Cassazione, determinato a far valere i propri maggiori titoli, basati sulle maggiori funzioni ricoperte ed una anzianità di servizio superiore.
Il Csm riconfermando le due precedenti nomine ha di fatto contestato e non rispettato le sentenze dei giudici amministrativi ritenute quasi uno “sgarbo” non solo nei riguardi del Csm, ma anche del suo presidente Sergio Mattarella, che in realtà è assolutamente estraneo alle decisioni non partecipando quasi mai alle sedute del plenum e tantomeno ha mai partecipato alle commissioni. Non è questa la prima volta che il Consiglio di Stato sbugiarda le decisioni e nomine di Palazzo dei Marescialli, dove le carriere si basano sull’appartenenza “politica” alle varie correnti della magistratura. Ed eclatante era stato il precedente caso della nomina illegittima a procuratore capo di Roma Prestipino, anch’essa “bocciata” dal Consiglio di Stato.
Il Capo dello Stato venerdì, sarà presente a “Palazzaccio” sede della Corte di Cassazione in pazza Cavour a Roma per l’inaugurazione dell’ anno giudiziario dovrà ascoltare proprio da Curzio la relazione sullo stato della giustizia, circostanza questa che ha spinto il Csm a confermare alla velocità della luce le due nomine. Mattarella potrebbe partecipare al plenum così come aveva partecipato alla nomina di Curzio.
Inamovibili le astensioni annunciate di Michele Ciambellini, magistrato napoletano della corrente moderata di Unicost, e di Sebastiano Ardita, ex procuratore aggiunto a Catania che fa squadra al Csm con il pm antimafia di Palermo Nino Di Matteo .Dalle voci di corridoio di Palazzo dei Marescialli, Ciambellini ha battagliato molto, manifestando non poche perplessità e critiche nel merito e nel metodo della nuova decisione. Avrebbe detto “Ci diranno e contesteranno che così facendo abbiamo eluso la decisione del Cds“, è stato il suo richiamo. Infatti la nuova rinomina rischia di provocare un ulteriore contenzioso. Ardita a sua volta ha evidenziato una giusta preoccupazione: “se in un pomeriggio abbiamo fatto quello che normalmente richiede dei mesi, che idea si farà adesso il cittadino” D’ora in poi per una nomina “ordinaria” dovremo impiegare dieci minuti?”
Il pm romano Eugenio Albamonte, segretario della corrente di Area gli ha replicato con un’intervista al sito di Repubblica : “Legittimo e assolutamente opportuno che il Csm abbia rinnovato con tempestività le due nomine. Chi sostiene cose diverse vuole demolire il ruolo del Consiglio e avallare un trasferimento dei suoi poteri in capo al Cds. La decisione avrebbe meritato una condivisione unanime senza distinzioni speciose”.
Ancora una volta una certa magistratura ritiene di poter fare politica con la toga addosso. Ed è questa a nostro parere la vera rovina della giustizia. Quelle che i cittadini più comunemente chiamano “malagiustizia“.
Giuseppe Salvaggiulo per "La Stampa" il 18 gennaio 2022.
Il Consiglio superiore della magistratura tira dritto: a tempo di record (due giorni weekend compreso) e con efficienza più asburgica che romana ripropone le nomine, fragorosamente bocciate dal Consiglio di Stato, di Pietro Curzio e Margherita Cassano al vertice della Cassazione. In serata, dopo una riunione fiume seguita alla stesura delle motivazioni rimodellate alla luce delle sentenze, la commissione incarichi ha rivotato.
Domani o giovedì il plenum darà l'ok definitivo. Giusto in tempo per consentire a Curzio e Cassano, presidente e aggiunto della Cassazione, di partecipare a pieno titolo alla solenne cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario, venerdì al cospetto di Mattarella.
Le nuove motivazioni ripercorrono analiticamente il curriculum dei due prescelti, argomentandone in modo più esplicito la prevalenza su quello di Angelo Spirito, candidato sconfitto nella selezione un anno e mezzo fa e poi autore dei ricorsi al Tar (perso) e al Consiglio di Stato (vinto).
Di Curzio si valorizza la doppia presidenza di sezione in Cassazione (lavoro e civile), di Cassano la presidenza della Corte d'appello di Firenze. A favore della riproposizione delle nomine sono schierate le due correnti principali, la progressista Area e la conservatrice Magistratura Indipendente, la davighiana Autonomia & Indipendenza, e gran parte dei laici.
Astenuti Unicost e Ardita, pm extra correnti come Di Matteo, perplessi sulla procedura-lampo. Maggioranza in plenum scontata (come nel voto originario del luglio 2020). La «motivazione booster» chiuderà i giochi?
Al di là dei tecnicismi, la questione è politica. Il Csm ha vissuto le sentenze come uno doppio e simultaneo schiaffo. E ha reagito con la stessa veemenzaIeri, proprio mentre il Csm rivotava le nomine, i magistrati amministrativi hanno reagito alle polemiche chiedendo l'apertura di una pratica «a tutela dell'onore di tutti i consiglieri di Stato».
Le due sentenze del Consiglio di Stato. Toghe allo sbando, perché Pietro Curzio e Margherita Cassano sono stati ‘cacciati’ dalla Cassazione. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 18 Gennaio 2022.
Come è ormai noto, il Consiglio di Stato, con due sentenze pubblicate entrambe il 14 gennaio, ha annullato le delibere con cui il Csm aveva nominato il primo Presidente della Corte di Cassazione ed il Presidente aggiunto dello stesso organo. In particolare, il Consiglio di Stato ha rilevato la mancata adeguata considerazione dei titoli specifici dei candidati, pur riconoscendo l’ampio margine di discrezionalità spettante all’organo di autogoverno della magistratura. Quale la reazione delle toghe? Si può leggere sul sito “Giustizia Insieme”, che fa capo ad una delle correnti della magistratura associata.
In particolare, sarebbe, alla stregua delle decisioni citate, «una clausola di stile il riconoscimento al Csm della “esclusiva attribuzione del merito delle valutazioni, su cui non è ammesso alcun sindacato giurisdizionale”, a dispetto del fatto che in presenza di situazioni di eccellenza il giudizio diventa inevitabilmente sottile e raffinato e veramente difficile da sindacare. E diventa altresì difficile comprendere quali sarebbero i margini entro i quali potrebbe muoversi la valutazione di merito, se tutto deve essere necessariamente predeterminato in maniera assolutamente vincolante».
Giudici, quindi, che criticano altri giudici. Ma la reazione è un po’ troppo semplicistica. La lettura della motivazione delle due decisioni consente di sintetizzare le ragioni dell’annullamento in una domanda: vi siete dati delle regole, perché non rispettate le vostre stesse regole?
Per meglio comprendere di cosa si tratta, è utile accennare al Testo Unico sulla dirigenza giudiziaria. Il Csm con delibera del 28 luglio 2015 ha approvato le norme alle quali si sarebbe attenuto, in futuro, per l’attribuzione degli incarichi direttivi e semi direttivi. Come si legge nella relazione di accompagnamento, con tale delibera si intendeva «provvedere alla riscrittura della circolare per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi nella prospettiva di garantire le esigenze di trasparenza, comprensibilità e certezza delle decisioni consiliari». Quale uso quel Csm abbia fatto di tali criteri di trasparenza e di certezza lo ha rivelato, con dovizia di particolari, lo scandalo Palamara. Ma il nuovo Csm? Quello che Mattarella non ha sciolto, nonostante diversi membri fossero stati costretti alle dimissioni perché impigliati nello scandalo Palamara? Quello che ha visto sostituiti i componenti dimissionari all’esito di una campagna elettorale combattuta al grido di “pulizia, pulizia!”, che ha determinato un ribaltamento della vecchia maggioranza? Secondo il Consiglio di Stato ha continuato a non rispettare le proprie regole.
In particolare, osserva il Consiglio di Stato, la delibera adottata dal Csm il 28 luglio 2015 «pone criteri per un futuro e coerente esercizio della discrezionalità valutativa dell’organo di governo autonomo: sicché un successivo contrasto con le sue previsioni non concretizza una violazione di precetti, ma un discostamento da quei criteri che, per la pari ordinazione dell’atto e il carattere astratto del primo, va di volta in volta giustificato e seriamente motivato». Tale seria motivazione è stata mancante, sempre secondo il Consiglio di Stato, perché nonostante il testo unico sulla dirigenza contempli il ricorso ad indicatori specifici di attitudine, connessi alle precedenti esperienze, le delibere non avrebbero dato conto dei motivi per i quali sarebbe stato scavalcato un altro candidato, cui erano riferibili indicatori specifici di maggiore rilievo. In questa omissione il Consiglio di Stato individua il rischio di «un uso indebito e distorto di quel potere valutativo, vale a dire ricorre un eventuale vizio di eccesso di potere».
Si tratta, inutile nasconderlo, di un giudizio particolarmente severo, che colpisce l’organo che ha a capo il Presidente della Repubblica. È una delle ipocrisie più fastidiose, sul piano istituzionale, quella degli organi che fanno finta di darsi delle regole, ma che poi sono i primi a non rispettarle. Di fronte ad una decisione del Consiglio di Stato di tale portata sarebbe stato lecito attendersi da parte dei componenti del Csm un momento di riflessione per ripensare la propria condotta. Ma così non è. La Commissione per gli incarichi direttivi si è già riunita di sabato, per deliberare la conferma della scelta del Primo Presidente e si annuncia per mercoledì una seduta plenaria del Csm per confermare definitivamente la nomina. Tempi da record assoluto, dunque, che rendono ancora più evidente la intollerabilità, per molte nomine, del passaggio di diversi mesi e, talora, di anni, che sono spesso necessari per portare a termine le negoziazioni tra correnti.
Dunque, una vicenda di portata politico-istituzionale enorme, che avrebbe dovuto indurre ad una riflessione profonda sulla gestione del potere nell’ambito della magistratura, viene degradata a mero inciampo burocratico, che si può superare aggiungendo qualche altra parolina alla delibera, in modo da poter dire che vi è stata una motivazione adeguata. E le esigenze di trasparenza, comprensibilità e certezza, che erano alla base della formulazione del Testo Unico per la dirigenza giudiziaria? Sarà per un’altra volta! Tanto è un tipo di illegittimità a cui il Csm ha fatto l’abitudine. Certo è che, di fronte allo spettacolo offerto da quest’organo di rilievo costituzionale, diventa difficile comprendere le ragioni di chi si oppone ad una radicale riforma del sistema di nomina dei componenti del Csm e si limita a proporre modifiche di mera facciata. Diventa così evidente, anche sotto questo profilo, l’importanza dei referendum sulla giustizia. Solo un vasto movimento popolare favorevole ai quesiti referendari potrà incrinare quel patto di solidarietà, esistente tra magistratura e alcune forze politiche, volto a lasciare, a dispetto di tutto, le cose come stanno.
Il livello scadente raggiunto dalla lotta tra correnti è confermato dal falso scoop pubblicato sabato da Repubblica e di evidente provenienza giudiziaria. Si riferisce che il relatore delle decisioni sarebbe approdato, cinque anni fa, al Consiglio di Stato, essendo risultato primo a seguito di un concorso nella cui commissione era presente anche il magistrato, il cui ricorso è stato accolto. All’evidente assenza di qualsiasi ragione di astensione, non stabilendosi alcun rapporto tra candidato e commissario, una volta superato definitivamente e da tempo il momento dell’esame, occorre aggiungere che si fa finta di ignorare che una decisione di questa portata non può non aver visto il consapevole coinvolgimento di tutti i componenti del Collegio, a cominciare dal presidente.
Un’ultima notazione. È davvero singolare la disinvoltura con cui in magistratura si utilizzano le regole per l’attribuzione degli incarichi, specie se rapportata al numero delle inchieste che vedono sul banco degli imputati, tra gli altri, pubblici amministratori e professori universitari, appena vi è un sospetto, anche larvato, di favoritismi. Ed è impressionante come, in questi casi, la magistratura si erga a paladina inflessibile di regole, di cui capita anche che non comprenda neppure il senso. Astolfo Di Amato
La riforma e il caso Curzio. “La riforma del Csm in mano all’Anm per lasciare tutto com’è”, l’accusa di Giandomenico Caiazza. Angela Stella su Il Riformista il 18 Gennaio 2022.
La decapitazione dei vertici della Cassazione da parte del Consiglio di Stato ha suscitato anche la ferma reazione dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Per il presidente dei penalisti, l’avvocato Gian Domenico Caiazza, per evitare altre simili situazioni di «gravità inaudita» la strada da intraprendere è quella di riformare le valutazioni di professionalità: «L’obiettivo è scardinare questo sistema sostanzialmente automatico di avanzamento di carriera» che appiattisce i curriculum dei magistrati mettendo facilmente in discussione le nomine.
Qual è la sua chiave di lettura di quanto accaduto rispetto alle due decisioni assunte dal Consiglio di Stato?
La fotografia che abbiamo davanti è che, riguardo ai vertici della Cassazione, il Tar dichiara legittime le nomine, mentre il Consiglio di Stato no: quindi, nel merito delle decisioni, credo occorra una assoluta prudenza. Inoltre, non possiamo dire se apprezzare le due sentenze quali rigorosi e severi controlli di legittimità amministrativa, o invece quale ennesimo capitolo di un rapporto sempre più travagliato ed oscuro tra giustizia amministrativa e giustizia ordinaria. Sicuramente quanto successo rappresenta un fatto di una gravità inaudita che dimostra, tra le altre cose, che il sistema di avanzamento delle carriere dei magistrati non funziona in quanto crea un appiattimento e una indistinguibilità dei loro curriculum che si riverbera anche sui giudici apicali di Cassazione. Quando le differenze sono impalpabili e le promozioni vengono effettuate tramite un arbitrio valutativo, è chiaro che le nomine possono essere messe in discussione in qualsiasi momento. E questa non è la prima volta che le nomine del Csm vengono contestate dinanzi ai giudici amministrativi, anzi sono moltissimi i casi. In tutto questo il cittadino non è più in grado di comprendere se il proprio magistrato inquirente o il proprio giudice esercitino legittimamente la propria funzione.
Il Csm sta trovando un modo per riconfermare Curzio e Cassano: tale prospettiva non indebolisce ulteriormente l’immagine della magistratura che sembrerebbe così non rispettare le sentenze che la riguardano?
In linea generale potrei dire di sì. Ma può darsi anche che la decisione del Consiglio di Stato non sia un secco annullamento delle due nomine ma indichi la strada per trovare nuovi criteri affinché il Presidente e la sua vice restino al loro posto. Certamente però è apprezzabile che Curzio e Cassano abbiano rinunciato al ricorso per Cassazione.
Qualche mese fa, riguardo il ricorso di Prestipino e del Csm contro la sentenza del Tar che aveva accolto il ricorso di Viola, Luciano Violante ripropose l’idea dell’Alta Corte. Che ne pensa?
Al di là o meno dell’Alta Corte, ciò di cui non si può fare a meno, e che rappresenta la strada da noi indicata per evitare altri casi come questo, è la riforma dei criteri di valutazione delle professionalità dei magistrati, come accennavo prima. L’obiettivo è scardinare questo sistema sostanzialmente automatico di avanzamento di carriera. Nella bozza di riforma del Governo su Csm e Ordinamento giudiziario, circolata nelle settimane precedenti, leggiamo che si starebbe pensando di articolare il giudizio positivo in discreto, buono o ottimo. Ma non è sufficiente, è incredibile che non si sia pensato ad altro. Noi stiamo lavorando con un pool di giuristi ad una proposta di legge di iniziativa popolare su questo tema e tocchiamo con mano la complessità di una riforma di questo genere. Sicuramente andranno individuati dei criteri per i quali il magistrato chiamato ad essere valutato ogni quadriennio sia chiamato a rispondere, su grandi numeri, anche degli esiti processuali, dando conto, in pratica, anche delle inchieste che ha condotto e delle sentenze che ha scritto e che sono state riformate.
Quanto accaduto non rende ancora più urgente l’inizio della discussione della riforma Cartabia del Csm e dell’ordinamento giudiziario ormai congelata a Palazzo Chigi da prima di Natale?
Il Csm è profondamente delegittimato e quindi è chiaro che sarebbe urgente la riforma. Tuttavia ci sono due grossi problemi, di merito e di metodo. Rispetto al primo, dalle bozze governative di riforma circolate fino ad ora, dobbiamo purtroppo ravvisare che siamo lontani anni luce dalla drastica, radicale, rivoluzionante riforma della quale ha bisogno la magistratura stessa, e l’intero Paese. Vanno affrontati con fermezza i nodi cruciali della questione: non solo smantellamento della automaticità delle carriere ma anche divieto di distacco dei magistrati nell’esecutivo, in nome di una rigorosa separazione dei poteri e la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, per garantire ai cittadini la terzietà del giudice pretesa dalla Costituzione. Sulla questione di metodo, denunciamo che la riforma è stata concepita a quattr’occhi con l’Associazione nazionale magistrati: mortificare la riforma ordinamentale, come oggi sta accadendo e come denunciamo da mesi, alla stregua di una trattativa bilaterale e parasindacale con la Magistratura associata costituisce una scelta rovinosamente sbagliata, mentre noi penalisti non siamo mai stati sentiti.
Lei condivide i timori di alcuni parlamentari come Zanettin e Costa per i quali andando di questo passo non si avrà il tempo per esercitare le deleghe sulla riforma dell’ordinamento giudiziario?
Assolutamente sì. Questo ritardo giova solo all’Anm che punta a mantenere lo status quo.
Nell’ampio contesto della vicenda Amara/Loggia Ungheria, i magistrati di Brescia avrebbero voluto conoscere alcuni scambi di messaggi che forse ci sono stati tra il procuratore di Milano Greco e il Procuratore generale della Cassazione Salvi. Ma entrambi avrebbero smarrito i cellulari. Come legge questa circostanza?
Nella nota della nostra Giunta sugli accadimenti oggetto di questa intervista abbiamo voluto indicare anche questo episodio come uno dei tanti elementi sintomatici della profonda e grave crisi di credibilità che sta investendo la magistratura. Se la stessa obiezione, ossia i cellulari sono stati smarriti, fosse stata mossa da qualsiasi altra persona coinvolta in una indagine avrebbe provocato delle severe e rigide reazioni da parte degli inquirenti. E invece su quanto successo, tranne per qualche eccezione, è calato il silenzio.
L’Anm apre il processo per le chat di Palamara. Cosa si aspetta?
Se sarà un processo sommario come è stato quello per Palamara è inutile farlo.
Giancarlo Pittelli ha inviato al nostro direttore un telegramma dal carcere in cui scrive: «Caro Piero, porterò lo sciopero della fame fino alle estreme conseguenze contro una ingiustizia mostruosa. Grazie di tutto».
Senza entrare nel merito delle responsabilità, riteniamo mostruoso e indegno per un Paese civile che gli siano stati revocati i domiciliari solo per aver scritto ad un Ministro per denunciare lo stato di sofferenza della sua detenzione. Mi auguro che l’avvocato Pittelli non si faccia prendere dalla disperazione, anche se non è difficile immaginare che ci siano più ragioni affinché questo purtroppo accada, nell’attesa dell’esito del ricorso per Cassazione che i suoi legali avranno sicuramente presentato. Angela StellaGiacomo Amadori per "La Verità" il 18 gennaio 2022.
È stata una corsa a perdifiato quella di ieri della quinta commissione del Csm per rimettere ai loro posti il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio e il suo aggiunto Margherita Cassano. I consiglieri hanno scodellato a tempo di record la proposta di una nuova delibera che sconfessa la sentenza del Consiglio di Stato che aveva annullato le nomine dei due, accogliendo il ricorso del più titolato Angelo Spirito, presidente di sezione al Palazzaccio e giudice di legittimità da 25 anni.
Una decisione che ha mandato in delirio i vertici di quello che Luca Palamara chiama il Sistema. Anche perché la sentenza, a seguito dell'udienza del 25 novembre, è stata depositata, senza preavvertire il presidente Sergio Mattarella, solo il 13 gennaio, ovvero a una settimana dall'inaugurazione dell'anno giudiziario presieduta proprio da Curzio, Cassano e dal capo dello Stato. C'è chi addirittura ha parlato di «sgarbo istituzionale».
Anche perché, ci informa La Repubblica, la presenza di Mattarella al Quirinale «è stata fondamentale per la tenuta del sistema». Garantita anche dalla decisione di non sciogliere un Csm ampiamente screditato dalla vicenda Palamara. Per evitare una cerimonia d'apertura dell'anno giudiziario «molto imbarazzante», come l'aveva preconizzata il legale di Spirito, Franco Gaetano Scoca, con presidente della Cassazione e vice «abusivi», il Csm ha deciso di avallare la blitzkrieg per la rinomina riparatrice.
Hanno votato sì i rappresentanti di Mi e Area, Antonio D'Amato e Alessandra Dal Moro, le stesse correnti di appartenenza dei due alti magistrati bocciati dal Cds, i laici di Forza Italia e dei 5 stelle, Alessio Lanzi e Fulvio Gigliotti, mentre si sono astenuti l'esponente di Unicost Michele Ciambellini e l'indipendente Sebastiano Ardita.
«Si è trattato di una procedura disseminata di irregolarità», ha commentato uno dei presenti. Ciambellini e Ardita hanno fatto inutilmente presente ai colleghi che c'era poco tempo per esaminare con attenzione le due sentenze del Cds e che le motivazioni scelte per rielaborare la delibera apparivano analoghe a quelle puntualmente e dettagliatamente bocciate da Palazzo Spada.
Ieri in commissione l'importanza della decisione era nell'aria e, nelle cinque ore di riunione, la pressione è stata resa in modo plastico dal continuo via vai di consiglieri. Adesso dopo la nuova votazione che segue l'annullamento del Cds, la commissione dovrà elaborare una proposta di nuova delibera che verrà portata al plenum di mercoledì con relatore il professore catanzarese Gigliotti.
Nel frattempo i giornali del sistema si sono premurati di farci sapere che Ciambellini è della stessa corrente di Spirito, Unicost, e napoletano come lui. Ma non hanno ricordato che in commissione, come detto, c'erano anche gli esponenti delle stesse correnti di destra e di sinistra che hanno votato a braccetto Curzio e Cassano.
«La verità è che il Csm fa quello che vuole e procede a fare le nomine non in base ai criteri fissati nelle circolari dallo stesso Consiglio superiore della magistratura, ma in relazione alle richieste che gli provengono dalle correnti», ha chiosato Scoca.
A condividere pienamente la rinomina immediata della coppia è anche il vicepresidente David Ermini, che da quando si è scoperto che è stato eletto su idea dei parlamentari Luca Lotti, Cosimo Ferri e di Palamara, è diventato uno dei più arcigni difensori del sistema. Sarà lui con Curzio e la Cassano a inaugurare l'anno giudiziario nell'aula magna della Cassazione insieme con Mattarella.
Ieri, prima che la commissione prendesse la propria decisione, il professor Scoca, noto docente di diritto amministrativo, aveva subodorato il trappolone per il suo assistito e per questo aveva diramato una nota in cui ricordava che le pronunce a favore del suo cliente «motivano, con estrema chiarezza, la violazione delle stesse regole di designazione dei dirigenti che lo stesso Csm si era dato».
E quanto alle notizie della possibile nuova delibera aveva aggiunto che la decisione, «data la brevità del tempo di riflessione, rischia di essere in possibile elusione di sentenze esecutive del Consiglio di Stato e, cioè, del supremo organo giurisdizionale amministrativo».
Concludendo che in uno Stato di diritto «è fondamentale il rispetto delle decisioni giurisdizionali, soprattutto da parte di un'alta amministrazione come il Csm, composta di magistrati e giuristi».
La nota è caduta nel vuoto e la commissione ha votato per rimettere speditamente al loro posto Curzio e Cassano.La galoppata del Csm è stata accompagnato dalla grancassa dei giornali che, dopo la sentenza del Cds, hanno scatenata una vera e propria caccia all'uomo.
I quotidiani che per anni hanno sostenuto l'attuale sistema giudiziario improvvisamente hanno ritrovato il fervore della primavera del 2019 quando misero alla gogna (con qualche conseguenza giudiziaria) tutti i partecipanti al dopocena dell'hotel Champagne, i presunti congiurati che si erano riuniti con Palamara, Lotti e Ferri per decidere la nomina del procuratore di Roma.
Adesso, dopo aver dormicchiato per quasi tre anni, i segugi del sistema si sono risvegliati per andare a setacciare i curriculum dei consiglieri che hanno avuto l'infausta idea di annullare le nomine di Curzio e della Cassano. Il Consiglio di Stato ha scritto che il re è nudo e i cortigiani del sovrano rimasto senza abiti (in questo caso il Csm) hanno iniziato a picchiare non su chi aveva fatto scelte opinabili, ma su chi le aveva annullate. Il Cds appunto.
In questi giorni sui quotidiani sono uscite notizie che i cronisti di giudiziaria, portatori di veline per definizione, non avrebbero mai trovato da soli, se non grazie a qualche imbeccata interessata. La Repubblica e il Corriere della sera, in stereofonia, come ai bei tempi del caso Palamara, ci hanno fatto sapere che l'estensore della sentenza su Curzio e Cassano, Alberto Urso, era stato promosso consigliere da una commissione di cui faceva parte il futuro ricorrente Spirito, insieme con un presidente e un futuro presidente del Cds, un presidente di sezione e l'avvocato prezzemolino Guido Alpa.
Per arginare le illazioni non è bastato il netto comunicato della presidente dell'associazione sindacale dei consiglieri di Stato, Rosanna De Nictolis, che ha spiegato ai neogiuristi: «Non c'è stato nessun conflitto di interessi. Nessun obbligo di astensione e nessuna grave ragione di convenienza per astenersi, nemmeno facoltativamente. Chi vince un concorso non ha nessun debito di riconoscenza, né nessuna aspettativa nei confronti di chi lo ha giudicato in un concorso pubblico per esami, con scritti anonimi e orale a porte aperte davanti a cinque commissari e al pubblico in sala. Inoltre, la sentenza è collegiale e non il parto del solo relatore estensore.
Le sentenze possono piacere o non piacere, ma non ci si può ridurre ad attacchi frettolosi e ingiustificati a un singolo giudice, che finiscono con il delegittimare l'intera Istituzione».
Parole di buon senso che i cronisti si sono fatti scivolare addosso. Ecco così che viene sottolineato, con una certa malizia, che un anno e mezzo dopo il concorso, il 14 dicembre 2018, è stato il sottosegretario del Carroccio Giancarlo Giorgetti a firmare i risultati e Urso si è piazzato al primo posto. Non sarà mica un po' leghista pure lui è il retropensiero che si cerca di insinuare. E che a bocciare Curzio e Cassano possa essere stata una combinazione astrale fascio-leghista lo lascia intuire un altro messaggio inviato ai lettori.
Il collegio che ha bocciato Curzio e Cassano era presieduto da Luciano Barra Caracciolo, un allievo dell'economista eretico Paolo Savona, tanto che, ci ricorda sempre La Repubblica, in questi giorni avrebbe iniziato a girare «con insistenza su mail e Whatsapp un articolo del Sole 24 Ore del 13 giugno 2018 dal seguente titolo: «Il neo sottosegretario Luciano Barra Caracciolo e quella bandiera Ue con la svastica». Poche ore dopo la quinta commissione del Csm ha messo la sua pezza.
Spataro: «Siete voi giornalisti ad alimentare l’anomalia dei pm supereroi». «Giusto il diritto di voto per gli avvocati sulle promozioni dei giudici. Il difensore può indurre il pm a rivedere le tesi accusatorie». Parla l'ex procuratore Armando Spataro. Errico Novi su Il Dubbio il 14 gennaio 2022.
«Non è corretta la litania di chi attacca sempre i pm, definendoli “devianti”. O per esser più precisi, le norme del codice e quelle sull’ordinamento dei magistrati non favoriscono affatto il moralismo ostentato da alcuni pubblici ministeri, ed è certamente sbagliato generalizzare. Piuttosto, mi permetta di dire che siete anche voi giornalisti ad aver alimentato carriere di inquirenti segnate da un’eccessiva visibilità». Armando Spataro non solo ha guidato uffici giudiziari importantissimi come la Procura di Torino ma rappresenta un punto di riferimento anche nell’associazionismo giudiziario: è stato il leader di Movimento per la giustizia, da cui poi, con Md, è nata Area, e i suoi interventi pubblici segnano puntualmente il dibattito su toghe e processi. È perciò naturale chiedergli se le esigenze di efficienza imposte dal Recovery, e rilanciate da altre voci autorevoli, ad esempio Giuseppe Pignatone, possano snaturare la figura del pm in un prosecutor all’americana, sempre a caccia di successi statistici con cui sostenere le ambizioni di carriera. «No, il nostro sistema non è concepito così, glielo posso assicurare».
D’accordo, partiamo però da una tesi esposta alcuni anni fa da Piergiorgio Morosini in un’intervista al Dubbio: il carrierismo può spingere un magistrato a trascurare la tutela dei diritti, perché l’ambizione può realizzarsi se il solo principio d’azione è la sintonia col capo dell’ufficio. È così?
Aspetti. Non sono affatto d’accordo sull’idea che l’ambizione possa indurre un magistrato a trascurare i diritti, inclusi quelli dell’indagato. Cercare anche elementi favorevoli alla persona accusata non è una facoltà, ma un obbligo che il codice fa ricadere sul pm. Un procuratore è chiamato ad apporre il proprio visto sull’atto di un sostituto solo se si tratta di richieste di misure cautelari. Mai e poi mai, ad esempio, può sostituire un pm nel corso del dibattimento perché non ne condivide le convinzioni. C’è gerarchizzazione sul piano delle scelte organizzative, non sulle valutazioni di merito nei procedimenti. È vero invece, riguardo le questioni poste da Morosini, che le statistiche di volta in volta adottate dal Csm come rilevanti ai fini delle valutazioni di professionalità rischiano di condizionare il lavoro di molti magistrati. Ma certo non esistono statistiche che premiano chi chiede più rinvii a giudizio e meno archiviazioni.
Insomma, siamo lontani da una deriva americana.
Evidentemente. E potrei ricordare di aver ottemperato all’obbligo di cercare anche prove favorevoli all’imputato anche in casi davvero delicatissimi, ma lo fanno in tanti.
A cosa si riferisce?
Ad esempio, al processo Alunni, parliamo di terrorismo, in cui chiesi la condanna di un imputato, ma poi l’arringa del difensore, Achille Melchionda, mi insinuò il dubbio. Decisi di approfondirlo e, in un’indagine parallela, Roberto Sandalo mi confermò che il giovane imputato era stato usato da Prima linea ma non ne era membro. Intervenni in replica e chiesi l’assoluzione.
E in genere il pm cerca davvero la verità anziché il successo?
L’avvocato non è tenuto a perseguire la verità processuale ma, legittimamente, l’esito più favorevole per l’assistito, persino se ne conosce la colpevolezza. Il pm, ripeto, deve perseguire l’accertamento della verità processuale. E guai al pubblico ministero che consideri tale vincolo come un optional.
L’avvocato aiuta il pm a coltivare quella che lei, in un recente articolo, definisce “etica del dubbio”?
Può indurre il dubbio, certamente. Anche se il pm non può trascurare la diversa natura delle funzioni.
Ma la gerarchia può condizionare la coerenza delle scelte, per gli inquirenti?
Da Borrelli a Minale, ho avuto dirigenti che mai hanno trasformato la gerarchia organizzativa in ingerenza. E personalmente, da aggiunto e poi da procuratore della Repubblica, ho sempre ascoltato non solo i magistrati del mio ufficio ma, per tante misure organizzative, anche il Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Chieda a Mario Napoli, attuale consigliere Cnf, quante volte mi sono confrontato con lui prima di adottare una circolare. Ne vuole un’altra?
Prego.
Ho fatto rimuovere, appena insediatomi da procuratore a Torino, tutti i cartelli con l’espressione “procuratore capo”: basta “procuratore”.
Non c’è correlazione, per il pm, fra percentuale di fascicoli tradotti in condanne e carriera: bene. Però un pm che, con indagini comunque clamorose, acquisisce fama di giustiziere, costringe persino il Csm a premiarlo nella carriera. O no?
Intende riferirsi a qualche pm che si presenta come colui che persegue il “bene”, e perciò il consenso popolare, anziché la verità processuale? Mi lasci dire una cosa: il paradigma imporrebbe un po’ di autocritica anche a voi giornalisti. Non è possibile assecondare chi, come magistrato inquirente, afferma di perseguire la vittoria del “bene” e di voler ricostruire la storia del Paese. E chi critica un simile modello non può essere additato come un insensibile servo del potere. In ogni caso non credo che per il Csm conti la fama mediatica più della professionalità.
Da sottoscrivere integralmente, procuratore.
Il dottor Ingroia dichiarò che, anche in caso di sconfitta delle tesi d’accusa nel “processo trattativa”, si sarebbe conseguito comunque un prezioso disvelamento della storia. Ma il mestiere di storico è diverso, e al pm ciò non compete: cerca le prove e chiede la condanna se convinto della colpevolezza degli imputati.
Allora condivide la norma del ddl penale che modifica i presupposti per il rinvio a giudizio?
La considero mera modifica lessicale, perché la precedente formulazione già induceva il pm a chiedere il processo quando era persuaso della consistenza delle accuse, e non certo a pensare di andare a dibattimento per vedere lì cosa succede.
E questa visione è prevalente, fra i magistrati?
Sarò ingenuo ma sono convinto di sì. Certo è molto più facile sparare ad alzo zero contro una pur sparuta minoranza che si regola diversamente. Da docente della Scuola superiore della magistratura, non manco mai di ricordare ai giovani che il pm è tenuto a pensare come il giudice, nel senso della disposizione alla ricerca della verità, il che è anche l’inattaccabile motivo dell’unicità delle carriere.
Non c’è un carrierismo patologico che dilaga, lei dice. Ma la riforma del Csm deve introdurre regole più chiare sulle promozioni?
Sono convinto sia giusto raccogliere i pareri dell’avvocatura in vista delle nomine per i direttivi. E sono favorevole a che le valutazioni di professionalità, nei Consigli giudiziari, siano discusse anche col contributo del Foro.
Anche con diritto di voto?
Sì. Ma sarebbe necessaria una reciprocità. Ad esempio, che il magistrato possa intervenire nelle procedure per questioni delicate riguardanti un avvocato.
Lei si è espresso chiaramente a favore delle nuove norme sulla presunzione d’innocenza.
Da procuratore della Repubblica ho convocato in tutto quattro conferenze stampa, una delle quali con l’Ordine degli avvocati per segnalare le gravi carenze di personale a Torino. Non capisco le obiezioni sul vincolo di comunicare soprattutto attraverso comunicati stampa, assai più difficili da travisare. Può verificare dalle mie circolari sui rapporti coi media che ho dato indicazioni rigorose ben prima della stessa direttiva europea appena recepita.
Torniamo alle promozioni: condivide le pagelle legate agli insuccessi processuali?
Ogni mancato accoglimento di un’impostazione accusatoria va considerato nella sua singolarità. Si potrà approfondire qualche caso clamoroso di difformità fra tesi d’accusa ed esito del processo, ma non credo alla statistica impersonale. L’errore potrebbe essere anche dei giudicanti
L’obiettivo di tutte le riforme sulla giustizia è l’efficienza: va pagata col sacrificio delle garanzie?
Il nostro sistema processuale, coi suoi tre gradi di giudizio ed il possibile interscambio di carriere, è considerato, a livello internazionale, un modello a cui tendere. Non condivido l’idea di coloro che vorrebbero ridurli a due o abolire l’appello del pm: se abbiamo un sistema che consente un secondo giudizio di merito e uno di legittimità, è giusto che resti possibile accedervi, secondo il principio di parità, per entrambe le parti. Le garanzie sono concepite per l’imputato, ma questo non vuol dire menomare il ruolo del pm, che è parte pubblica.
L’infallibile Regola del tre del Sistema. Di Edoardo Sylos Labini il 12 Gennaio 2022 su Culturaidentita.it su Il Giornale.
Storia del sistema correntizio e dei rapporti tra magistrati, giornali e partiti politici
Per capire bene come funziona la complessa macchina della Giustizia in Italia occorre conoscere prima quali sono gli attori di questo meccanismo dal quale può dipendere il futuro di ogni singolo cittadino. L’ANM Associazione Nazionale Magistrati, fondata a Milano nel 1909 sciolta dai suoi membri nel dicembre 1925, a seguito del rifiuto di trasformarsi in un sindacato fascista, è rinata dopo la caduta del fascismo. Rappresenta, di fatto, tutta la magistratura, perché ad essa aderisce più del 90% dei quasi 10.000 magistrati italiani. Il CSM Consiglio Superiore della Magistratura, è il vertice organizzativo dell’ordine giudiziario. Ad esso spetta il compito di garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati li decide il CSM. Il CSM è composto da 27 membri ed è presieduto dal Presidente della Repubblica. Ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione. Sedici membri sono eletti da magistrati appartenenti alle varie categorie, altri otto laici sono eletti dal Parlamento.
Dunque sembrerebbe che la scena sia occupata da questi attori ma in realtà chi decide lo spettacolo della Giustizia italiana, è l’impresario di partito, come direbbe Edoardo Bennato, cioè le correnti della magistratura. Quattro poteri spesso in competizione tra loro ma che alla fine trovano in un modo o in un altro unità: la corrente di sinistra, Magistratura Democratica, oggi Area; la corrente di centro, Unicost; la corrente di destra (non intesa come destra politica bensì come la corrente più conservatrice) Magistratura Indipendente; la corrente più recente, quella vicina ai Cinque Stelle, Autonomia e Indipendenza. Sono loro a governare sia l’ANM che la maggioranza del CSM.
È il massimo dell’incrocio di interessi tra magistratura e politica. Per esempio, per un magistrato entrare nel CSM significa più o meno raddoppiare per quattro anni il proprio stipendio medio di seimila euro e godere di una corsia preferenziale al momento della ripresa della carriera.
All’apparenza, non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che le correnti esprimono una visione ideologica della politica e del mondo e dunque l’imparzialità del magistrato viene messa in dubbio. Secondo molti magistrati e giudici, soprattutto quelli provenienti da una certa area di sinistra massimalista la magistratura ha il dovere, anzi l’obbligo di fare politica per plasmare la società.
Prendiamo Magistratura Democratica, che è stata fondata nel 1964 da un gruppo di magistrati in stretta relazione con il Partico Comunista, fin dall’inizio si è autoproclamata superiore dal punto di vista etico. Se sei collaterale al Pci-Pds-Pd sei un sincero democratico e un magistrato libero e indipendente; se invece sei collaterale a Renzi, a Berlusconi o a Salvini, allora sei un traditore dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura e devi essere cacciato. Ma per centrare l’obiettivo di plasmare la società devi formare una classe di magistrati indottrinati e piazzarli nei posti strategici per incidere sulla vita politica non attraverso leggi ma attraverso sentenze. In questo modo nasce il “Sistema” delle nomine non per merito ma per appartenenza. Funziona come per le squadre di calcio, innanzitutto ci vuole un buon vivaio. L’obiettivo del Sistema è accaparrarsi il neo magistrato. Facendolo iscrivere il prima possibile alla propria corrente. Quando entri in servizio vieni affiancato per un certo periodo da un magistrato anziano, un tutor che indirizzerà il giovane: linfa vitale per alimentare in futuro Il Sistema.
E poi c’è la regola del 3: una procura, un giornale amico e un partito che fa da spalla. Nel suo libro oramai campione di incassi Palamara dice : “Un procuratore della Repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti…ecco, se si crea questa situazione, quel gruppo e quella procura, hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo intero. Tra di noi gira la battuta ‘La vera separazione delle carriere non dovrebbe essere quella tra giudici e pm ma tra magistrati e giornalisti’. Magistrati e giornalisti si usano a vicenda, all’interno di rapporti che si costruiscono e consolidano negli anni. Il giornalista vive di notizie, ogni testata ha una sua linea politica dettata dall’editore, che ha precisi interessi da difendere. Il pm li conosce bene, e sa che senza quella cassa di risonanza la sua inchiesta non decollerà”.
Edoardo Sylos Labini. Attore, regista, autore, fondatore e editore di CulturaIdentità.
La polvere sotto il tappeto. Quelle toghe che tutto divorano e arraffano…. Otello Lupacchini su Il Riformista il 29 Dicembre 2021. Non sono i nostri tempi molto diversi, salvo che per l’obiettiva penuria di «geni», da quelli in cui monsieur Vautrin, con la sua parrucca nera e i favoriti tinti, istruiva il giovane Eugène de Rastignac, intenzionato a entrare nel bel mondo: «Lo sa come ci si fa strada qui? Brillando per genio o per capacità di corruzione. Bisogna penetrare in questa massa di uomini come una palla da cannone o insinuarvisi come la peste. L’onestà non serve a niente. Ci si piega al potere del genio, lo si odia, si cerca di calunniarlo perché prende senza condividere; ma ci si piega se persiste. In poche parole, lo si adora quando non si è potuto seppellirlo nel fango. La corruzione domina, il talento è raro. La corruzione è quindi l’arma della mediocrità che abbonda, e ovunque ne sentirà la punta acuminata» (Honoré de Balzac, Papa Goriot, 1834).
Non c’è niente di misterioso nella vicenda dei successi e degli insuccessi; le istituzioni configurano un modello umano: chi gli assomiglia di più parte favorito. Spesso il personaggio archetipico appartiene a un genere inferiore: si mette ad esempio la dignità sotto i piedi, intriga come un ossesso, non sa coniugare i verbi, ha i principi morali di un alligatore, cova voglie smodate e, privo com’è di inibizioni, vanta chances maggiori. Se una cosa gli piace se la prende: perché lasciarla agli altri? Personaggi di tal fatta, quando celebrano i loro riti di amicizia, si baciano stando uno addosso all’altro come conigli infreddoliti, ma le occhiate balenano torve. Aggressivi, spietati, incapaci di reprimersi, paurosi, escono allo scoperto solo quando credono d’avere partita vinta ed essendo più furbi che perspicaci, talvolta sbagliano, ma quando capita rimediano a precipizio senza troppe difficoltà: poiché l’avversario appartiene allo stesso tipo non occorre neppure una riconciliazione formale. Uno dei vantaggi del vuoto morale è l’incapacità di vergognarsi: l’adoratore del potere sta agli antipodi della kalokagathia greca sebbene l’insensibilità alla vergogna non escluda, anzi implichi una vanità forsennata: questa specie d’uomo dà e rimangia la parola, fa in pubblico figure da cane e ricomincia dopo un attimo gonfiandosi di livore in attesa dell’occasione di sfogarlo.
Accade, ahimè, di dover constatare che nei palazzi di giustizia alloggiano, comodamente incistati da grassi parassiti, esemplari di tal specie in toga e tocco, usi ostentare spudoratamente la frequentazione di giornalisti soi disants che profumano di ricatto, di ufficiali e funzionari felloni, di spioni salvati dal segreto di stato; inventare complotti, screditare o minacciare colleghi, scippare dossier ad altre autorità giudiziarie, simulare indagini su fatti asseritamente delicati e gravi, per poi archiviarle alla chetichella, dopo anni di reiterate abnormità, costosissime per l’erario; origliare abusivamente le conversazioni degli inquisiti coi difensori; svendere la funzione giudiziale, in cambio di soldi e altri vantaggi, personali e familiari. Tanto fantasiose quanto sconcertanti le tecniche messe in campo per soddisfare i propri biechi interessi, dalla creazione di fascicoli «specchio», che si autoassegnano al solo scopo di monitorare ulteriori fascicoli di indagine assegnati ad altri colleghi, a quella dei fascicoli «minaccia», in cui finiscono per essere iscritti soggetti «ostili» alle losche mire della consorteria; e infine col metodo dei fascicoli «sponda», tenuti in vita per creare una legittimazione formale al conferimento di tanto costose quanto inutili consulenze, il cui reale scopo è quello di servire gli interessi dei soliti sodali o ingrassare le solite, poche, società esercenti in regime quasi monopolistico, attività intrusive nell’altrui vita privata, che nulla hanno da invidiare alle operazioni della Stasi nella Berlino Est teatro del film Das Leben der Anderen di Florian Henckel von Donnersmarck.
Il doloroso affresco è, peraltro, assai più composito: le cronache criminali fanno trapelare, ad esempio, anche l’esistenza di veri e propri «sistemi» tesi a permettere a magistrati «amici» una serie di «affari» immobiliari, mediante vizi macroscopici nelle procedure di vendita e gravi falsità nelle perizie. Come se non bastassero il mercimonio della funzione giudiziaria o, addirittura, il sospetto di pedofilia che attinse, alcuni anni orsono, giudici, alti funzionari e dirigenti che potessero aver fatto uso di un’utenza telefonica intestata al Consiglio di Stato, per contattare prostitute minorenni, capita anche d’imbattersi nella brutta storia di pubblici ministeri e poliziotti di vaglio «antimafia», i quali avrebbero tentato di lenire il senso di colpa di un fantoccio perfetto ignorante, emarginato e ricattabile, perciò pronto all’uso per qualsiasi crimine da insabbiare, mistificare o depistare, spiegando al malcapitato che una sua falsa collaborazione fosse da prendere come un lavoro e che coloro che sarebbe stato spinto ad accusare nella fantasiosa ricostruzione di una strage più di altre tristemente famosa erano comunque colpevoli di crimini orrendi.
A fronte di simili nefandezze, il pensiero corre agli Chatz-fourréz (Gatti Felpati), che sarebbero poi stati i magistrati e i giudici, con allusione all’ermellino che adorna le loro toghe, di rabelaisiana memoria (Gargantua et Pantagruel, Libro V, Capitoli 11-15): «Bestie molto orribili e spaventose», soggette al comando del loro «archiduc» Grippeminault, «mangiano i bambini e si cibano su lastre di marmo (…) Il pelo non cresce loro sopra la pelle, non spunta fuori: ce l’hanno dentro, nascosto a guisa di felpa; e portano tutti, come emblema e divisa, una borsa aperta, ma non tutti alla stessa maniera: chi la porta al collo a mo’ di sciarpa, chi sul culo, chi sul buzzo, chi sul costato, e tutto a fin di mistero. Hanno anche artigli, e così forti, lunghi e affilati, che nulla sfugge loro dopo che l’abbiano adunghiato». Fra questi Gatti felpati, per come un «pezzente dabbene» faceva rilevare a Panurgo e compagni, in procinto di entrare nella loro tana, «regna la sesta essenza, mediante la quale tutto arraffano, tutto divorano, tutto scagazzano. Essi impiccano, bruciano, squartano, decapitano, massacrano, imprigionano, minacciano e distruggono tutto senza distinzione di bene e di male. Perché presso di loro il vizio si chiama virtù; la nequizia è soprannominata bontà; il tradimento ha nome fedeltà, il latrocinio è detto liberalità; il saccheggio è la loro divisa e, se compiuto da loro, tutti gli umani lo trovano buono, eccetto gli eretici; e il tutto fanno con sovrana e irrefragabile autorità».
Sempre, il «pezzente dabbene» al quale Panurgo e soci «avevano donato un mezzo testone» raccomandava ancora loro che, «se mai pestilenze, carestie, guerre, terremoti, cicloni, cataclismi, conflagrazioni o altre calamità affliggeranno il mondo», ascrivessero «il tutto all’enorme, indicibile, incredibile e inestimabile malvagità diuturnamente forgiata nell’officina dei gatti felpati», sconosciuta alla gente, dunque soltanto per questo «non deplorata, detestata, repressa come ragione vorrebbe». Per fortuna, i pilastri e i contrafforti della giustizia dell’arciduca Grippeminault non sorgono dovunque e i Gatti felpati, comunque spesso assai potenti, costituiscono un’esigua minoranza della fauna che popola i palazzi di giustizia. Talvolta, però, l’ignavia di colleghi spesso arroccati in sterili se non addirittura sospette difese corporative o catafratti di cautele, per paura magari d’incappare nelle vendette dei potenti e impuniti normofobi, fa, purtroppo, il giuoco di costoro, con grave danno per la credibilità del lavoro dei tantissimi magistrati con la schiena dritta, i quali, con disciplina e onore, improntano il loro agire al più rigoroso rispetto della legge, e per il prestigio della Magistratura nel suo complesso.
Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione
Csm, il giallo della riforma sparita dal Cdm. I dissidi riguardano le norme che dovrebbero regolare il meccanismo delle cosiddette porte girevoli tra politica e magistratura. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 24 Dicembre 2021. La vulgata che affolla i corridoi di via Arenula è la seguente: gli emendamenti governativi alla riforma del Csm giacciono da giorni a palazzo Chigi, e dunque non si capisce perché il presidente del Consiglio, Mario Draghi, durante la conferenza stampa di fine anno aveva detto di «non sapere» se quegli emendamenti sarebbero arrivati in Consiglio dei ministri già ieri, cosa puntualmente non accaduta.
L’informazione trapelata ieri da via Arenula riguarda l’incontro di giovedì scorso a palazzo Chigi tra la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e Draghi, in cui la Guardasigilli ha riferito le novità sul confronto con i partiti circa la sua proposta di riforma del Csm. Al termine dell’incontro non era tuttavia emerso che proprio in quella sede Cartabia aveva anche presentato i suoi correttivi al testo al Dagl, dipartimento per gli Affari giuridici e amministrativi.
Dunque, perché rimandare? È probabile che, vista la delicatezza del Cdm di ieri, che aveva all’ordine del giorno le misure di contrasto alla pandemia, Draghi non abbia voluto mischiare le due tematiche, ma è ancora più probabile che il presidente del Consiglio, sapendo benissimo che su alcuni aspetti della riforma del Csm l’intesa tra i partiti di maggioranza non è ancora completa, non abbia voluto rischiare di trasformare una riunione così delicata, peraltro all’antivigilia di Natale, in uno scontro interno alla maggioranza.
In particolare, i dissidi riguardano le norme che dovrebbero regolare il meccanismo delle cosiddette porte girevoli tra politica e magistratura, argomento discusso da Draghi in conferenza stampa due giorni fa.
Negli emendamenti della ministra Cartabia avrebbe infatti prevalso la linea dei Cinque Stelle, la quale prevede che ci sia un divieto di rientro nelle sue funzioni del magistrato eletto o nominato a una carica pubblica, e che quindi egli debba assegnato ad altro ruolo, ad esempio come dirigente al ministero della Giustizia. Norma molto contestata dalla magistratura e dagli stessi dirigenti di via Arenula, che non vogliono vedersi assegnati magistrati “ex politici”. E così Cartabia aveva proposto una linea più soft: un magistrato “sceso in politica” sarebbe potuto rientrare in magistratura, ma altrove rispetto al distretto dove svolgeva le sue funzioni prima di candidarsi o in quello di candidatura.
Ma ci sono anche altre questioni ancora da dirimere, prima delle quali il meccanismo di elezione dei componenti togati del Csm.
Alcuni partiti, in primis Forza Italia, chiedono che essi vengano eletti con un cosiddetto “sorteggio temperato”, cioè che vengano individuati solo dopo che sia stato sorteggiato un multiplo dei seggi assegnabili. Idea che ha ricevuto il “no” secco del Pd e che ha suscitato perplessità nella stessa ministra.
Con ogni probabilità è stata dunque questa serie di motivazioni a dissuadere Draghi dall’occuparsi di Csm nel Cdm di ieri. Bisogna ricordare inoltre che, come per la riforma del penale, Cartabia porterà in Cdm non un ddl ma degli emendamenti a un testo già incardinato in Parlamento, cioè quello presentato alla Camera nell’estate 2020 dall’allora Guardasigilli, Alfonso Bonafede.
La stessa ministra Cartabia ha infine ricordato che, a differenza di quello sul penale, il testo sulla riforma del Csm non è blindato e potrà subire modifiche in sede parlamentare.
Il dibattito. Ergastolo, se la riforma contraddice la Consulta. Giovanna Di Rosa su Il Riformista il 24 Dicembre 2021. “Non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”. Il senso della pena è il tema del Congresso di Nessuno tocchi Caino, cui sono veramente lieta di partecipare. Può la pena essere ancora utile così come è concepita e praticata? E, soprattutto, può essere la pena concepita solo come retributiva se è vero – come è vero – che in questa direzione sembra andare il dibattito parlamentare sulla legge chiesta dalla Consulta in tema di ergastolo ostativo? I 121 emendamenti che sono stati depositati dimostrano la difficoltà del percorso attuativo di principi limpidi come quelli che la Corte Costituzionale ha espresso. La questione centrale è se l’ergastolo ostativo è in sé uno strumento per arginare la mafia continuando a manifestarsi attraverso l’esempio di una pena perpetua, inflitta come tale e che tale deve rimanere, con delle finalità dichiarate – questo a me è sembrato proprio un eccesso – di prevenzione generale. Così, il senso della pena, secondo la finalità dell’articolo 27 della Costituzione, non assume però rilevanza.
La finalità prevalente di politica criminale perseguita con la rigidità dell’ergastolo ostativo, rigido appunto, si contrappone al dettato della sentenza Viola della Corte Europea e della sentenza 253 della Corte Costituzionale, che invece si basano sulla necessità di valutare le singole persone, non sulle finalità di prevenzione generale. Punisco così duramente perché nessun altro faccia quello che ha commesso la persona che sto punendo e, quindi, non volgo lo sguardo alle persone stesse, guardandole in faccia per capire, una per una, che cosa hanno fatto e chi sono, quali progressi hanno compiuto durante il trattamento penitenziario, anche se la dissociazione dalla mafia si può manifestare in modo anche molto diverso dalla mera collaborazione con la giustizia. Eppure sappiamo bene, anche sulla base della nostra esperienza, che la personalità di un uomo non si congela mai. Io stessa non sono uguale a quella che ero ieri e non sono uguale in questo momento a quella che sarò stasera, a maggior ragione dopo 10 o 20 o 30 anni di esperienza detentiva anche molto dura, molto pesante. Si sa che l’uomo cambia ogni giorno, figuriamoci a decenni dal reato. Qui, però, il problema diventa complesso, se il giudice non valuta l’uomo e il suo possibile eventuale cambiamento. È tutto qui il senso del dibattito, perchè è giusto andare fino in fondo e guardare in faccia la persona per capire se essa è mutata o non è mutata.
La Corte Europea nella sentenza Viola aveva ben spiegato che la lotta al flagello della mafia non giustifica deroghe all’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo. La sentenza n. 253 della Corte Costituzionale ha parlato – sono importanti le parole dette – di una deformata trasfigurazione della libertà di non collaborare che l’ordinamento non può disconoscere a nessun detenuto. Queste sono pietre miliari su cui il dibattito di questi giorni rischia di perdersi. La Corte Costituzionale spiega perché la “presunzione assoluta” di pericolosità non va bene. Venendo ad osservare il testo base su cui si sta lavorando, si legge che questo si dilunga nella ricerca di tanti aggettivi che accompagnano le parole sull’istituto da modellare: integrale, assoluta, specifica, concreto, diverso, ulteriore. Sono aggettivi che restringono l’applicazione pratica positiva di questa normativa. Vi è poi la richiesta di allegazione specifica, da parte del condannato, di elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dalla organizzazione criminale di eventuale appartenenza.
Tali argomenti devono consentire di escludere con certezza l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e il pericolo di ripristino futuro di tali collegamenti. Tuttavia, risulta impossibile fornire la prova di un’allegazione diretta a evitare che non ci sia tale pericolo, come del resto è stato ritenuto da una sentenza della Corte di Cassazione del settembre del 2021. Quanto alla questione sul possibile trasferimento della competenza delle decisioni all’unico Tribunale di Sorveglianza di Roma, questo sembra portare a disperdere il valore della conoscenza della singola persona da parte del giudice territoriale, quel guardare in faccia di cui dicevo.
La possibile uniformità decisionale in capo a pochi giudici si scontra con la mancata conoscenza della realtà dei singoli detenuti, distribuiti sul territorio nazionale nei vari istituti, che hanno compiuto percorsi rispetto ai quali il magistrato si è confrontato, ha conosciuto, sa di cosa si tratta. Mi pare che tali prospettive manchino di considerare l’essenza del decidere, basata sulla conoscenza del valore della persona e ricordando che ogni persona è un valore e l’essere umano è un valore per il solo fatto di essere tale. Giovanna Di Rosa
· Palamaragate.
Nessuno “virò” su Viola ma da quella parola fraintesa nacque il Palamaragate. Fra i tanti casi di “errori giudiziari” dovuti ad intercettazioni telefoniche mal trascritte va senza dubbio annoverato lo scandalo che travolse il Csm all’inizio dell’estate del 2019. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 9 dicembre 2022.
Ma se ci fossero regole diverse sulle intercettazioni telefoniche e sul contrasto alla loro diffusione illecita, come affermato l’altro giorno dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, il Palamaragate sarebbe scoppiato? Fra i tanti casi di “errori giudiziari” dovuti ad intercettazioni telefoniche mal trascritte va senza dubbio annoverato lo scandalo che travolse il Csm all’inizio dell’estate del 2019.
A differenza, però, di quanto accaduto ad esempio ad Angelo Massaro, che per una telefonata distorta scontò da innocente 21 anni di carcere, nel Palamaragate le manette non scattarono: ci si limitò alle dimissioni di sei consiglieri su 16 del Csm e a quelle del procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, oltre allo stop della nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma. Il telefonino dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, come si ricorderà, era stato prima intercettato e poi “infettato” con il famigerato trojan per scoprire se ci fosse corruzione nelle nomine di Procure e Tribunali.
Nella richiesta di archiviazione, per uno dei filoni, firmata dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone e dai pm Mario Formisano e Gemma Miliani il 13 dicembre del 2021, accolta dal gip Piercarlo Frabotta lo scorso 2 febbraio 2022, si è scoperto come iniziò e si sviluppò l’indagine con il ricorso alle intercettazioni che, in realtà, nulla avevano poi rivelato sulla presunta corruzione, limitandosi a dimostrare che tutti si rivolgevano a Palamara per essere nominati nella ambite cariche senza tuttavia corrispondergli alcuna contropartita, se non quella tipica correntizia.
In particolare, l’ex magistrato di Siracusa Giancarlo Longo aveva riferito nell’interrogatorio del 26 aprile 2019 che l’avvocato Giuseppe Calafiore gli aveva confidato di avere consegnato 40mila euro a Palamara per ottenere la nomina dello stesso Longo quale procuratore di Gela, senza che tuttavia si fosse concretizzato nulla, poiché la toga non prese alcun voto al Csm, neppure quello di Palamara. Non solo. Sempre i pm di Perugia scrissero che Calafiore, interrogato il 10 maggio 2019, aveva negato «fermamente di aver dato 40mila euro a Palamara… Io non ho rapporti con lui». Ebbene, ciononostante per questi 40mila euro mai riscontrati Palamara venne intercettato da febbraio 2019 a maggio 2019 e nell’ultimo mese anche con il trojan.
Il 30 maggio successivo la Procura di Perugia eseguì una perquisizione nei confronti di Palamara, che finì su tutti i giornali, contestandogli anche «il reato di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, nel caso specifico per avere ricevuto, quale componente del Csm, la somma pari ad euro 40mila da Calafiore per la nomina di Longo quale procuratore di Gela».
Anche se Calafiore, come detto, aveva smentito Longo 20 giorni prima. Per non farsi mancare nulla, all’ex deputato dem Luca Lotti, uno dei partecipanti al dopo cena presso l’hotel Champagne, registrato con il trojan nel telefono di Palamara, venne messa in bocca la frase cardine di tutta la vicenda: «Si vira su Viola». In realtà quella frase, riportata dal Gico della guardia di finanza e finita anch’essa su tutti i giornali ad indagini in corso, non era stata mai pronunciata. Lotti si limitò ad affermare «si arriverà su Viola».
Non si trattò, quindi, di una “spinta” del parlamentare nei confronti di Viola quanto, invece, di una constatazione. Insomma, non ci fu nessun accordo toghe- politica per pilotare la nomina di un procuratore compiacente a Roma e favorire Lotti, all’epoca imputato proprio nella Capitale. Quando l’errore venne scoperto, dopo oltre un anno, era ormai troppo tardi. L’iniziale clamore mediatico aveva determinato l’immediato azzeramento del voto in Commissione a favore di Viola e la sua estromissione dal concorso.
Colpita per rilanciare il processo di Perugia. Luciana Sangiovanni è una brava e stimata giudice, ma il Csm la caccia per una chat con Palamara. Paolo Comi su Il Riformista il 18 Ottobre 2022
Se un magistrato cerca di condizionare le decisioni del Consiglio superiore della magistratura in materia di nomine ed incarichi, va tutto bene. Anzi, benissimo. Se invece fornisce ad un collega una banale informazione sullo stato di un procedimento di separazione, informazione peraltro accessibile a chiunque consultando il portale telematico, viene rimosso con ignominia dall’incarico. “Il Csm più squalificato della storia repubblicana”, come disse qualche mese addietro Matteo Renzi, non finisce mai di stupire.
Con una motivazione quanto mai “suggestiva”, il Plenum di Palazzo dei Marescialli ha sollevato l’altro giorno dall’incarico Luciana Sangiovanni, la presidente della diciottesima sezione del tribunale di Roma, competente in materia di protezione internazionale.
Questa sezione, a detta di tutti gli operatori del settore, è la più efficiente ed organizzata d’Italia. Oltre che con la Questura e la Prefettura, la sezione ha infatti in essere numerosi protocolli con i vari Enti anti-tratta e con l’Alto commissariato della nazione unite per i rifugiati al fine anche di assicurare ai migranti adeguate condizioni di alloggio, vitto e assistenza sanitaria e, successivamente, la prosecuzione dell’assistenza e dell’integrazione sociale.
Il modello organizzativo della sezione, che riesce ad evadere le pratiche dei richiedenti asilo in tempi molto rapidi, è portato come riferimento dalla Scuola superiore della magistratura per i corsi di formazione destinati ai magistrati destinati a tale funzione. Bene, fatta questa premessa perché il Csm ha cacciato la presidente Sangiovanni? Per la risposta bisogna tornare al 2017, per la precisione al mese di novembre. All’epoca la magistrata si occupava di famiglia e aveva ricevuto una richiesta tramite whatsapp di informazioni da parte di Luca Palamara, in quel momento componente del Csm, circa lo stato della separazione di un suo amico, Goffredo Ceglia Manfredi. “Vorrebbe proporre un accordo”, scrive Palamara, aggiungendo: “Come mai tutto questo tempo?”, in quanto la pratica era pendente da mesi.
Passa qualche settimana e Palamara scrive: “Ciao Luciana quando puoi ti ricordi?”. E ancora: “Ciao Luciana quando puoi mi fai sapere se ci sono novità? Grazie un abbraccio”. A tali richieste la Sangiovanni rispondeva che “la collega è in ferie la rivedo prossima settimana” e poi di non preoccuparsi (“ho a mente la questione”). Dopo poco la pratica veniva allora definita: “Deposita oggi – scrive la magistrata – quindi per la pubblicazione aspetta qlc giorno”. “Ottimo”, la risposta di Palamara. Il Csm, ricevute le chat, aveva fatto gli accertamenti del caso, interrogando il giudice relatore della sentenza che aveva smentito qualsiasi possibile interferenza da parte della magistrata.
Nonostante ciò, per il Plenum del Csm la presidente Sangiovanni è stata etichettata come una “reiterata dispensatrice di informazioni e di sollecitatrice verso altri magistrati”, anche se non aveva posto in essere nessuna sollecitazione o scambio di informazioni, trattandosi di dati accessibili a tutti i cittadini. Durissimo il togato progressista Giuseppe Cascini secondo il quale un magistrato che chiede una informazione automaticamente condiziona il collega nella decisione e quindi ne lede la sua credibilità. Di diverso avviso Nino Di Matteo secondo cui “se ci fermassimo alla credibilità, questo Csm doveva essere sciolto da tempo”. Di Matteo ha poi citato alcuni casi di colleghi “salvati” dalla scure dell’incompatibilità. Come Donatella Ferranti e Anna Canepa.
Ma allora perché il pugno duro? E si torna sempre alla Procura di Perugia, dove tutto ha avuto inizio e dove Palamara è imputato per varie corruzioni. Si dà il caso, infatti, che Leonardo Ceglia Manfredi, fratello di Goffredo, abbia poi pagato a Palamara un soggiorno a Capri. Tale pagamento sarebbe il prezzo della corruzione per le informazioni, che come si è visto chiunque poteva avere, ricevute dall’ex presidente dell’Anm. Aver cacciato la dottoressa Sangiovanni, totalmente all’insaputa di cosa abbia poi fatto Palamara con il suo amico, contribuirebbe a “rafforzare” l’impianto accusatorio perugino. E dal momento che il procedimento di Perugia è sempre più traballante, ad iniziare dalle modalità con cui sono state effettuate le intercettazioni con il trojan, tutto può servire alla causa. Anche cacciare un magistrato stimato che fa bene il proprio lavoro. Paolo Comi
Il 35esimo congresso dell’Associazione nazionale magistrati. Palamaragate, per l’Anm non fu solo colpa delle toghe: quali sono le responsabilità della politica. Angela Stella su Il Riformista il 15 Ottobre 2022
“Nel 2021 e nell’anno in corso sono stati aperti 102 procedimenti, ne sono stati ad oggi definiti 64, 16 con l’applicazione di sanzioni, le maggior volte della censura, 27 per sopravvenuti recessi dei magistrati dall’Associazione e 21 per insussistenza del rilievo deontologico. Insomma, stiamo facendo i conti, e seriamente, con gli errori del passato”: ne è convinto il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia che ieri ha aperto il 35esimo congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati in corso a Roma fino a domani. Santalucia si è soffermato molto nel suo discorso, a cui ha assistito anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sulla questione etica che ha investito la magistratura e su come l’Associazione abbia reagito alla perdita di essa dai fatti dell’Hotel Champagne: essa “non è rimasta inerte e frastornata dalla rivelazione degli intrecci tra mondo associativo, intromissione della politica e istituzione consiliare”.
Santalucia dunque ha rivendicato il metodo catartico attuato per recuperare quella fiducia perduta: l’Anm “ha reagito nel modo ritengo più corretto e soprattutto capace di assicurare effetti durevoli. Ha perseguito la ricerca della normalità, come epilogo di una risolta elaborazione, obiettivo tutt’altro che banale perché posto all’esito di un costruttivo percorso autocritico. In tal modo ha forse deluso quanti al rumore degli scandali volevano che seguisse una reazione vistosa, altrettanto spendibile mediaticamente, e quanti anche in buona fede ritengono che la compostezza della reazione equivalga a debolezza e confusione, smarrimento e mancanza di progettualità”. Se è vero, ammette Santalucia, che “di responsabilità della Magistratura occorre ragionare” dall’altra parte auspica che “sia finalmente messa da canto la pulsione, che in questi recenti anni abbiamo visto invece ravvivata, di poter mettere in riga l’ordine giudiziario, profittando delle difficoltà e del calo di credibilità”.
Il presidente ha criticato il fatto che dallo scandalo Palamara “una volta individuato il nodo nel rapporto tra la Magistratura e il Potere, tra il governo autonomo della magistratura e la politica, è mancata un’ampia e completa disamina delle loro relazioni, che sono state osservate solo da un’angolazione, quella appunto delle colpe dei magistrati”. Insomma non può essere solo colpa della magistratura, la responsabilità va condivisa insieme alla politica. Quella politica a cui Santalucia imputa “di non aver ricercato le ragioni di un disagio, di un malessere che si è manifestato nelle forme del carrierismo, patologia che è effetto e non causa del progressivo indebolimento della giurisdizione” e che poi ha dato vita ad una riforma che “fa correre il rischio di veder intaccato il modello di magistrato delineato in Costituzione”, come più volte ripetuto nel corso di questi ultimi mesi.
A proposito di riforma del Csm Santalucia ha posto l’accento sulla componente laica che si spera venga eletta prima di Natale: “siamo fiduciosi che, al di là delle previsioni di legge, il Parlamento saprà nominare una componente laica di alta statura che, per cultura giuridica e sensibilità istituzionale, agevolerà nel Consiglio – che da qui a breve si insedierà – il compimento di un processo di rinnovamento che, come sempre è accaduto, non può prescindere dalla buona volontà di donne e uomini”. Detto altrimenti, non ci mandate gli scarti delle elezioni politiche. Angela Stella
Caro Santalucia, ma quale fermezza. A pagare è stato solo Luca Palamara. L’intervento del presidente dell'Anm, tenuto davanti al capo dello Stato, mi è sembrato un tentativo alquanto maldestro di scaricare le responsabilità sul capro espiatorio per eccellenza. Antonio Leone su Il Dubbio il 18 ottobre 2022.
Il 35^ congresso dell’Associazione nazionale magistrati si è concluso la scorsa settimana con una “assoluzione” generalizzata da parte delle toghe. Il presidente dell’Anm, il dottor Giuseppe Santalucia, a proposito del “Palamaragate”, lo scandalo sulle nomine che nell’estate del 2019 travolse il Csm, ha affermato infatti che la magistratura è intervenuta con fermezza, perseguendo chi al proprio interno aveva posto in essere condotte scorrette. «Stiamo facendo i conti, e seriamente, con gli errori del passato», ha ricordato in un passaggio della sua relazione. Conti con il passato che, sempre secondo Santalucia, non avrebbe invece fatto la politica, rimasta sostanzialmente “inerte” di fronte a quanto accaduto.
Siamo alle solite: la politica non stigmatizza e non paga mai. Santalucia, tra accuse e contraddizioni, dimentica (o vuole dimenticare) che l’unico modo per “coinvolgere” anche la politica sarebbe stato quello di individuare i comportamenti penalmente rilevati di alcuni magistrati messi in atto con il concorso di politici. Così, però, non è stato. E allora dichiari chiaramente Santalucia quali sono le colpe della politica e quali sono stati gli interventi della magistratura (suggeriti al legislatore) per cambiare le cose a cominciare dalla legge elettorale del Csm che un successo l’ha raggiunto: rafforzare le correnti.
L’intervento del presidente dell’Anm, tenuto davanti al capo dello Stato, mi è sembrato un tentativo alquanto maldestro di scaricare le responsabilità sul solito Luca Palamara, capro espiatorio per eccellenza, unitamente ai colpevoli di tutto: i politici. Vorrei infine ricordare a Santalucia, il quale non perde occasione per stigmatizzare gli “intrecci” fra politica e magistratura, che al Csm i togati sono esattamente il doppio dei laici e ciò che conta in quel consesso sono solo i numeri.
Insomma, da quanto emerso fino ad oggi, mi sembra che la “fermezza” per cambiare le condotte scorrette ci sia stata nei confronti di uno solo, senza alcuna conseguenza di natura disciplinare e/ o penale per altri soggetti. Anzi, negli anni, molti dei protagonisti dello stesso “sistema” sono finiti a ricoprire incarichi di prestigio. (*Ex componente laico Csm)
Giustizia: i confini dell’ipocrisia. Luigi Ferrarella il 12 Ottobre 2022 su Il Corriere della Sera.
Il caso Palamara e il Csm come esempio di «fallimento dell’apprendimento istituzionale» nello studio di due sociologi delle organizzazioni, Maurizio Catino (Milano Bicocca) e Cristina Dallara (Bologna)
Luca Palamara un capro espiatorio? Sì, ma non nel senso dei mitomani che scorgono un nuovo Dreyfus nel pm romano ed ex membro Csm ed ex presidente Anm radiato dalla magistratura per avere discusso la nomina del nuovo capo della Procura di Roma con un parlamentare e un ex ministro indagato proprio dalla Procura di Roma, bensì come esempio di «fallimento dell’apprendimento istituzionale» di una organizzazione (in questo caso il Csm) a causa della tendenza ad «affrontare problemi di natura sistemica con soluzioni di tipo individuale». È la tesi di due sociologi delle organizzazioni, Maurizio Catino (Milano Bicocca) e Cristina Dallara (Bologna), in uno studio nel quale mettono a confronto l’organizzazione formale (quale risulta da norme, regolamenti, circolari) e il sistema concreto di azione, quale risulta da interviste a magistrati, membri Csm in carica o ex, professori di ordinamento giudiziario, e dalle esperienze stesse di Catino ai corsi della Scuola della Magistratura per la formazione degli aspiranti dirigenti.
Il caso Palamara, è la critica di Catino, è stato affrontato con una strategia di cambiamento e di apprendimento «basata sulla persona e accusatoria», che cioè «cerca di spostare la colpa di quanto accaduto su un individuo o un gruppo di individui, creando talvolta in questo modo un capro espiatorio organizzativo», che non è l’innocente che paga al posto di altri, ma un colpevole sul quale però vengono fatte ricadere le colpe anche di altri. Solo che per una organizzazione questo tipo di apprendimento basato sulla persona «genera un tipo di apprendimento “a circuito singolo”, che modifica le strategie d’azione ma lascia immodificati i valori di una teoria d’azione, apprendendo in modo non virtuoso dagli eventi e anzi con maggiore opportunismo adattivo».
L’occasione persa sarebbe dunque quella di gingillarsi con il sorteggio sì-sorteggio no per le elezioni Csm, anziché affrontare le vicende Palamara con una strategia di tipo «organizzativo e funzionale» che «generi un apprendimento a “circuito doppio”, volto cioè a cambiare, oltre che le strategie e gli assunti, anche i valori e le teorie-in-uso sottostanti». Attorno a «tre nodi sistemici molto rilevanti ma poco considerati». Il primo è la concreta difficoltà nel giudicare i curricula dei candidati, dovuta all’eccessiva quantità di dati e indicatori in realtà scarsi per qualità, con pareri provenienti dai Consigli giudiziari tutti sempre positivi e privi di sfumature che permettano reali valutazioni, sicché Catino si sente confessare dai suoi intervistati che «a volte la strada più efficace sembra davvero quella di fare una telefonata ai colleghi dell’ufficio del candidato e chiedere pareri espliciti». Il secondo sarebbe la frizione tra due logiche contrastanti, quella della rappresentanza politica basata sul consenso (i membri del Csm sono eletti) e quella professionale della valutazione meritocratica basata su terzietà e imparzialità, che dovrebbe improntare la gestione delle carriere ma che sconta il fatto che al Csm «siano elette persone non formate nella gestione e valutazione del personale e nell’organizzazione delle risorse. Il terzo è l’ipocrisia che per Catino avvolge le relazioni di membri Csm con soggetti esterni alla magistratura e anche appartenenti alla sfera politica, al punto che nel suo studio pubblicato dal Mulino arriva a suggerire che «questo tipo di relazioni, tutt’oggi spesso negate dal dibattito interno alla magistratura, debbano essere portate nell’alveo istituzionale e della trasparenza pubblica per evitare che pochi soggetti o gruppi organizzati li gestiscano in modo informale e non trasparente».
Gli si può obiettare che lo studio sconti a sua volta la caratterizzazione politica di alcuni degli intervistati intuibili in appendice dietro l’elencazione dei loro passati ruoli. Ma di certo ha il pregio di mettere empiricamente in evidenza che, «quando la “governance” formale in un’organizzazione non funziona, tende ad emergerne una di tipo extra-legale con una maggiore efficacia operativa ma minore legittimità formale». E che liquidare tutto come degenerazioni singole (il capro espiatorio organizzativo, come lo chiama Catino) rischia di «perpetuare soltanto un modo per continuare a mantenere la governance extra-legale con altri attori».
Palamara: «Sul sistema giustizia potrei scrivere altri tre libri...» L’ex magistrato: «Nel prossimo Parlamento commissione di inchiesta sullo scandalo Csm». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Agosto 2022.
Non ha raccolto le firme e quindi il suo simbolo, «Oltre il sistema», non sarà sulle schede. Ma Luca Palamara, che oggi sarà sul palco della Piazza con Matteo Salvini ed Ettore Rosato, promette di non mollare: l’ex magistrato romano, ex componente del Csm, più giovane presidente nella storia dell’Anm e finora unico ad esserne espulso, dopo i due libri che hanno raccontato i retroscena delle correnti e della magistratura ha scelto la politica. Partendo dalla giustizia: «Io racconto i fatti e le vicende da me direttamente vissuti. Le storie del sistema hanno tutte le stesse caratteristiche. E quello che sta emergendo conferma appieno la validità del mio racconto. C’è’ materia per scrivere un terzo, un quarto, un quinto libro».
Adesso per chi voterà Luca Palamara?
«L’associazione “Oltre il sistema” sosterrà quei candidati che a prescindere dalle appartenenze politiche sapranno battersi per squarciare il velo di ipocrisia che ha caratterizzato il racconto sulla correntocrazia e sulle lobby, e che intenderanno riformare senza infingimenti il mondo della giustizia ma non solo. Penso alla sanità e alla economia».
Aveva annunciato una candidatura mirata a riformare la giustizia con una agenda in 10 punti. Che ne sarà di quel programma?
«In giro per l’Italia continuerà quotidianamente il contatto con quei tanti cittadini che già si stanno iscrivendo all’associazione “Oltre il sistema” e che vogliono comprendere i meccanismi interni e le logiche clientelari del mondo della politica e delle istituzioni».
Berlusconi ha ritirato fuori l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione che fa storcere il naso all’Anm…
«Quello della inappellabilità delle sentenza di assoluzione è un principio di civiltà giuridica che serve anche a spezzare il corto circuito mediatico-giudiziario, e che pretende di portare la magistratura sul terreno della contrapposizione politica, idea dalla quale questo Paese si deve liberare. Altrimenti sarà impossibile ripristinare l’autorevolezza della magistratura. La moglie di Cesare non deve solo essere onesta, ma deve apparire tale».
Sulla giustizia chi ha fatto peggio in questi anni, secondo lei?
«Difficile stilare delle classifiche. Ma di certo raggiungere i livelli del ministro Bonafede penso sia impossibile».
In Puglia in due anni sette magistrati sono stati arrestati con accuse di corruzione. Come spiega le differenze di trattamento tra magistrati radiati mentre sono sotto indagine e altri che restano nell’ordine giudiziario nonostante condanne definitive?
«A breve finirà la consiliatura del Csm. Il mio impegno, insieme a tanti altri magistrati ma soprattutto cittadini comuni, sarà comprendere come e perché le chat ed i procedimenti di disciplinari siano stati utilizzati per colpire il nemico di turno ma soprattutto per comprendere come sia stato possibile che componenti del Csm presenti nelle mie chat abbiano poi giudicato altri colleghi. Per loro finisce la consiliatura. Per noi inizia la ricerca della verità. Per questo sarebbe importante che il prossimo Parlamento istituisse una commissione d’inchiesta per fare luce su tutto quanto è accaduto».
Ma i magistrati in politica? La Puglia è governata da un ex pm, Michele Emiliano. Che opinione ne ha?
«Al netto del giudizio politico su Emiliano, la vicenda disciplinare che lo ha riguardato fa permanere intatte tutte le problematiche dei rapporti tra politica e magistratura, soprattutto quando gli enti locali vengono guidati da magistrati che hanno svolto funzioni in quello stesso distretto».
Palamara e Bisogni, lite continua e annunci di querela. MAGISTRATI CONTRO - Dopo la pubblicazione dell'articolo nel nostro inserto sulla cronaca giudiziaria è baruffa (con minacce di azioni legali) tra il magistrato catanese e l'ex consigliere del Csm. SAUL CAIA su Il Fatto Quotidiano il 29 Luglio 2022.
L’articolo di Giustizia di Fatto dedicato allo sliding doors interno alla corrente Unicost, ha suscitato una querelle tra l’ex consigliere e magistrato Luca Palamara, che ha scelto di entrare in politica in vista delle prossime elezioni di settembre, e il sostituto procuratore Marco Bisogni, candidato al Csm con la corrente Unicost. Nella mattinata di oggi, […]
Caos procure: Palamara “ho dato mandato ai legali per querelare il Fatto Quotidiano per diffamazione”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Luglio 2022.
Dopo la pubblicazione dell'articolo del Fatto Quotidiano sulle vicende interne della corrente giudiziaria di Unicost è baruffa tra il magistrato catanese e l'ex consigliere del Csm e magistrato Luca Palamara, che ha scelto di entrare in politica in vista delle prossime elezioni di settembre, e il sostituto procuratore Marco Bisogni, candidato al Csm con la corrente Unicost.
“Con riferimento all’articolo apparso oggi sul quotidiano ilfattoquotidiano ho dato mandato ai miei legali di procedere per il reato di diffamazione aggravata su quanto raccontato in relazione alla vicenda Bisogni. Non ho mai istruito alcun procedimento disciplinare nei confronti di Bisogni come è noto di competenza della procura generale di Cassazione e non ho mai inteso danneggiarlo tanto è vero che nel periodo della consiliatura 2014-2018, come facilmente risulta dalla lettura delle chat, gli accordi tra le correnti hanno favorito la nomina di Bisogni alla struttura tecnica organizzativa del Csm”. Lo afferma in una nota l’ex presidente dell’ ANM Luca Palamara.
A seguito della pubblicazione dell’articolo del Fatto Quotidiano sulle vicende interne della corrente giudiziaria di Unicost è baruffa tra il magistrato catanese e l’ex consigliere del Csm e magistrato Luca Palamara, che ha scelto di entrare in politica in vista delle prossime elezioni di settembre, e il sostituto procuratore Marco Bisogni, candidato al Csm con la corrente Unicost. Lo stesso giornale nella sua edizione online diretta da Peter Gomez ha dovuto pubblicare una precisazione sostenendo che c’è stato un refuso, in quanto l’ex consigliere Palamara “faceva parte della sezione del CSM che con ordinanza n.94/2017 rigettava la richiesta di archiviazione proposta dalla Procura generale della Corte di Cassazione, avanzando richiesta di incolpazione coatta a carico di Bisogni, che di seguito veniva assolto dalla commissione in diversa composizione il 29 gennaio del 2018”.
Dopo il comunicato stampa e l’intervista a Palamara, il sostituto procuratore Marco Bisogni ha controreplicato all’ex collega. “In relazione alle affermazioni false e diffamatorie del dottor Palamara, già radiato dalla magistratura – scrive Bisogni nella sua nota -, secondo cui sarei stato ‘organico al sistema’ ho dato mandato ai miei difensori di adottare le necessarie iniziative a tutela dei miei interessi del mio onore. Invero, quella di rappresentarmi come ‘organico al sistema’ è la tesi difensiva che proprio Palamara tenta di portare avanti nel processo di Perugia, dove è imputato e io sono parte civile. In quella sede lo stesso Palamara – dopo aver fatto affermazioni generiche dello stesso tenore – ha dovuto ammettere che non vi sono mai stati miei interventi diretti o indiretti per ottenere incarichi o prebende. Palamara, invece, sa bene che il ‘sistema’ è proprio quello che tra il 2012 ed il 2018 mi ha costretto a subire nell’ordine: un’azione civile alimentata con atti frutto di corruzione da parte di colleghi; co-assegnazioni illegittime in alcuni procedimenti che gestivo quale PM a Siracusa (fatti per i quali è intervenuta condanna nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica); ad affrontare procedimenti disciplinari costruiti a tavolino e a subire campagne stampa diffamatorie pagate da imputati ‘eccellenti’.
“Con riferimento, infine, all’argomentazione che in caso di elezione ‘potrei trovarmi a dover decidere sulla carriera di magistrati che istruiscono procedimenti nei confronti di miei familiari’, – continuava Bisogni nella sua nota – Palamara fa riferimento ad un processo pendente davanti al Tribunale monocratico di Roma nei confronti di un mio familiare lì residente. Circostanza, quest’ultima, che Palamara stesso trova forse comodo utilizzare ‘come stampella’ per tentare di far rialzare la testa ad un sistema che, per fortuna, non ha più spazi sufficienti per farsi strada. Tale affermazione, peraltro – anche considerato che vivo e lavoro in Sicilia da oltre 16 anni – appare suggestiva, tendenziosa e puramente denigratoria non solo del sottoscritto ma anche del CSM, atteso che –come avviene in tutti i casi di potenziale conflitto di interessi che possono riguardare qualsiasi componente del CSM – opererebbe, ove ne sussistessero le condizioni, l’istituto dell’astensione – come ovviamente noto allo stesso Palamara che pure, per molti anni, ha composto l’organo di autogoverno della magistratura”. Immediata era arrivata la replica di Palamara: “Consiglio a Bisogni di pensare alla sua campagna elettorale. Ci vedremo in Tribunale. Non accosti il suo nome al mio. A proposito oggi chi siede al suo posto alla STO?”.
Palamara oltre ad aver adito le vie legali, come reso noto nella sua nota odierna alle agenzie di stampa, ha aggiunto che: “E’ grave che, come e’ già accaduto nella campagna elettorale del 2018, che organi di stampa cerchino ancora di dare la stampella a chi di quel sistema ha fatto parte e addirittura potrebbe trovarsi a dover decidere sulla carriera di magistrati che istruiscono procedimenti penali nei confronti dei propri familiari”. Redazione CdG 1947
"No all'uso politico della Giustizia". Luca Palamara si candida alle elezioni: “Sintonia con il centrodestra, serve una scossa alla Giustizia italiana”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 23 Luglio 2022
Luca Palamara annuncia che si candiderà alle elezioni politiche del prossimo 25 settembre. “Mi candido alle elezioni del 25 settembre. Chi saranno i nostri interlocutori politici? Io penso che questo sia un tema che storicamente ha interessato il mondo del centrodestra. Ma non solo. Penso che il tema della giustizia abbia diviso il Paese in due tra garantisti e giustizialisti, ed è stata la vera sconfitti. Il Paese è di tutti”.
Il pm sospeso dalla magistratura, a processo per corruzione, già Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) e membro togato del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) ha dato l’annuncio all’Hotel Baglioni in via Veneto a Roma tramite la sua associazione “Oltre il sistema”. “Il senso di questa associazione – ha spiegato nel corso della presentazione del proprio programma elettorale – è molto chiaro. C’è bisogno di uno choc: deve finire l’idea che il tema della giustizia e del processo penale possa essere utilizzato per colpire questo o quel nemico politico. No all’uso politico della giustizia. Insomma, tutto quello che non è stato fatto con la riforma Cartabia”.
Il processo nel quale è accusato si sta celebrando a Perugia. L’ex pm della Procura di Roma è assistito dal difensore Benedetto Marzocchi Buratti. La stampa nelle ultime settimane ha lanciato indiscrezioni secondo cui Palamara sarebbe indagato in una nuova inchiesta nata dalle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara. “Premesso che il processo non riguarda il ‘sistema’, ma il mio rapporto con un amico di famiglia che, per quanto mi riguarda, avrò un modo facile per chiarire nella sede competente, soprattutto anche alla luce delle ultime notizie di stampa che stanno emergendo, che per quanto mi riguarda riveleranno la verità dei fatti. Io non ho mai accettato il racconto ipocrita che è stato fatto su come funzionava il mondo a cui ancora oggi mi sento di appartenere. Al netto della mia attuale esperienza, quello della magistratura è il mondo a cui sono visceralmente legato, e per questo motivo non consentirò mai a nessuno di rubare la mia dignità, e tantomeno di strumentalizzare la mia vicenda”, ha dichiarato a Repubblica.
Lo scorso ottobre Palamara si era candidato alle suppletive nel collegio di Primavalle raccogliendo cinquemila voti, il 6%. “La crisi di governo? – ha commentato inoltre – Tipico di quello che accade nei palazzi del potere: spesso prevalgono giochini di palazzo per calcoli elettorali su quello che è il reale interesse dei cittadini. La metà dei cittadini non vota più“. Il sistema è anche il titolo del primo dei due libri che Palamara ha scritto con il giornalista, attuale direttore del quotidiano Libero Alessandro Sallusti in cui raccontava la sua versione sul mondo della magistratura e sul cosiddetto Palamaragate, un vero e proprio caso editoriale.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettaco
Palamara in corsa per le politiche: «Ecco il mio programma per una giustizia giusta». Oggi la presentazione di "Oltre il Sistema" a Roma: dieci i punti nel suo programma, tutto centrato sulla giustizia. Simona Musco su Il Dubbio il 23 luglio 2022.
Dieci punti programmatici, al centro dei quali c’è la giustizia: Luca Palamara è pronto ad annunciare la sua candidatura alle elezioni politiche del 25 settembre, con la sua creatura politica che verrà battezzata questa mattina alle 11, all’Hotel Baglioni, in via Veneto, a Roma.
E non a caso il nome richiama tutte le vicende che lo hanno visto protagonista e che hanno sconvolto la magistratura negli ultimi tre anni: “Oltre il sistema”, l’associazione che fa capo all’ex capo dell’Anm, «determinatissimo sulla giustizia a non lasciare cadere la palla a terra», si legge in una nota. «Una battaglia di verità e giustizia – prosegue la nota – che nasce da una forte esperienza personale, dalla quale è scaturita una altrettanto forte reazione di impegno civico. Una battaglia per combattere dall’interno i meccanismi di un sistema di nomina all’interno della magistratura che favoriva carrierismi e appartenenze di corrente e non i curricula migliori. Da lì l’orizzonte è diventato più vasto». Insomma, dopo aver tentato l’avventura delle suppletive a Roma ad ottobre scorso, adesso il percorso dell’ex zar delle nomine sembra più definito.
Il primo punto del suo programma riguarda i rapporti tra toghe e politica, che necessitano di «una riforma “shock” anche a livello costituzionale». Una riforma che «rimetta in discussione il ruolo e la presenza dei laici nel Csm; introduca il sorteggio temperato per l’elezione dei togati, preveda una sezione disciplinare sul modello del Tribunale dei ministri; introduca una effettiva separazione delle carriere». Ma non solo: il programma prevede anche, tra le altre cose, la presenza degli avvocati nei consigli giudiziari, come già prevede la riforma Cartabia.
Il secondo punto riguarda l’uso politico dei processi, di cui l’ex pm ha ampiamente parlato nei suoi libri, in particolare in merito alle vicende giudiziarie che hanno interessato Silvio Berlusconi. E la giustizia, secondo Palamara, non dovrà più essere uno strumento «per eliminare questo o quel nemico politico». Il che si traduce con l’intenzione di ripristinare l’autorizzazione a procedere, la cancellazione della legge Severino, a tutela del principio costituzionale dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge.
Ma da rivedere non ci sono solo i rapporti con la giustizia. Anche l’informazione gioca il suo ruolo, come evidente dalle fughe di notizie “pilotate” per cambiare carriere politiche ma anche i destini della magistratura. L’intenzione è quella di dire basta alla gogna e tagliare il cordone ombelicale tra le redazioni e le procure. «Abbiamo bisogno di giornalisti che raccontano il lavoro del magistrato perché la criminalità si combatte anche informando con onestà l’opinione pubblica in modo che si rafforzi una coscienza civile», afferma Palamara. Quindi niente più rapporti privilegiati, copia e incolla selvaggio delle ordinanze, individuando nella fase delle indagini preliminari «un momento in cui gli atti possano diventare ostensibili anche ai giornalisti senza pregiudicare il buon esito delle indagini». C’è poi il rapporto con l’economia. E qui i fari si accendono sulla giustizia civile, che condiziona gli investimenti stranieri. «Il processo civile deve tornare ad essere il luogo nel quale si regolano i fatti provati dai contendenti e non una inutile palestra di sterili discussioni giuridiche», questa l’idea di Palamara. Che vuole un processo più breve, regole più chiare e meno articolate.
Un altro capitolo è occupato dalla giustizia sociale e dal diritto di difesa. Il che vuol dire che la possibilità di far valere i propri diritti non può essere appannaggio dei soli ricchi: «Occorrono effettive garanzie di difesa per tutti – si legge nel programma -, riproponendo con forza il potenziamento della difesa di ufficio e l’accesso al patrocinio gratuito». Inoltre, in linea con i quesiti referendari, l’ex zar delle nomine vuole limitare l’utilizzo della custodia cautelare, diventata una «anticipazione della pena». Ma l’intenzione è anche quella di riformare la pubblica amministrazione, semplificando, tra le altre cose, i procedimenti amministrativi «in chiave di salvaguardia dei diritti dei cittadini e delle imprese» e aumentando la retribuzione dei dipendenti non dirigenziali; e di garantire maggiore sicurezza sul territorio – una «priorità» -, destinando maggiori risorse alle forze dell’ordine, con uomini, mezzi ed equipaggiamenti e leggi migliori per garantire «la certezza della pena». E ciò implica una rimodulazione della «scriminante dell’adempimento del dovere, in modo da trovare un equilibrio che tuteli il legittimo svolgimento dei poteri autoritativi di pubblica sicurezza».
C’è spazio anche per l’ambiente, attraverso la realizzazione della transizione ecologica e la ripartizione dei fondi del Recovery per promuovere iniziative che garantiscano il riequilibrio di equità ambientale; e i giovani, garantendo un esame di abilitazione all’esercizio della professione forense rapido, trasparente ma altamente selettivo, ma anche più occasioni per le micro e le piccole imprese. L’ultimo capitolo riguarda il Pnrr: «La necessità di avere Tribunali moderni ed efficienti impone anche un serio e costante monitoraggio sul conseguimento degli obiettivi» del Piano nazionale di ripresa e resilienza, «per valutare ulteriore investimento sull’ufficio per il processo; chiarezza normativa e contrattuale per le figure professionali di ausilio al giudice per evitare precariati senza fine; non abdicare alla funzione formativa negli uffici proponendo il tirocinio con borse di studio».
Palamara di nuovo sotto inchiesta: «Intervenne per un pm sotto processo». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 9 luglio 2022.
Dall’indagine sulla presunta Loggia Ungheria, che secondo la Procura di Perugia deve andare in archivio in assenza di adeguati riscontri, emerge una nuova inchiesta a carico di . L’ex magistrato, radiato dal’ordine giudiziario e già sotto processo per corruzione, è indagato per istigazione alla corruzione in un procedimento nato da dichiarazioni dell’avvocato siciliano Piero Amara (lo stesso che ha parlato dell’associazione segreta ora sconfessata dai pubblici ministeri) che gli inquirenti ritengono confermate — almeno in parte — in maniera significativa. Le affermazioni sul coinvolgimento di Palamara in questa vicenda, sostengono nella richiesta di archiviazione, sono tra «quelle più riscontrate e “solide”, dal punto di vista della attendibilità estrinseca e intrinseca, nel complessivo narrato del dichiarante»
«Dato inquietante»
L’ipotesi di accusa riguarda l’interessamento dell’allora componente del Consiglio superiore della magistratura per agevolare l’ex pm siracusano Maurizio Musco, amico di Amara e all’epoca imputato di abuso di ufficio, in seguito condannato e a sua volta spogliato della toga. Al di là del racconto di Amara e delle verifiche sui singoli indizi, il procuratore di Perugia Raffaele Cantone e i sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano scrivono che «il dato nuovo più rilevante (e purtroppo molto inquietante) è l’“avvicinamento” da parte di Palamara del giudice di cassazione Stefano Mogini, del quale Amara indica il nome il 3 novembre 2011 (quindi in un degli ultimi interrogatori, ndr), avvicinamento che, grazie alla schiena dritta del magistrato indicato, non portò alcun risultato positivo per Musco».
A confermare l’intrusione di Palamara è stato lo stesso Mogini, già capo di gabinetto dell’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella, che ha raccontato di un appuntamento fissato con l’allora consigliere del Csm alla vigilia del processo Musco in Cassazione, che per improvvisi impegni lui chiese di rinviare. Ma Palamara si offrì di raggiungerlo in un bar vicino al suo ufficio. Parlarono «del più e del meno», e fu Mogini a dirgli che l’indomani aveva «un procedimento particolarmente delicato che vedeva imputati tre magistrati di Siracusa; Palamara mi disse che conosceva la vicenda e sapeva quanto era ingarbugliata. Mi aggiunse che il procedimento meritava grande attenzione e poi mi disse anche che uno dei magistrati coinvolti, Musco, era affetto da una grave malattia. Io rimasi un po’ stupito di questo riferimento e genericamente gli dissi che eravamo abituati ad essere particolarmente scrupolosi sempre».
Vacanza al Sestriere
Il processo fu rinviato, e in un successivo incontro Palamara disse a Mogini di averlo saputo dal presidente della Corte. Considerazione dei pm: «Palamara quindi ha monitorato l’evoluzione del processo parlando non solo con il relatore, ma interloquendo direttamente e personalmente persino con il presidente della Corte di cassazione!». Per chiedere l’interessamento dell’ex consigliere del Csm, Amara aveva fatto organizzare al lobbista Fabrizio Centofanti (coimputato di Palamara a Perugia) una breve vacanza con mogli e fidanzate nello chalet al Sestriere dell’imprenditore piemontese Ezio Bigotti, a marzo 2015. Ma quando sull’aereo per Torino il magistrato si accorse della presenza di Amara, già noto per alcuni guai giudiziari, protestò con Centofanti che chiese all’avvocato di ritornare subito indietro. Tutto riscontrato, secondo la Procura, dai tabulati telefonici, biglietti aerei e voli.
L’orologio d’oro
Amara ha raccontato anche di due incontri con l’ex magistrato per parlare di Musco, riferendo che «Palamara fece capire che avrebbe gradito un regalo di un orologio d’oro del valore di 30.000 euro per la sua compagna. E io gli dissi “se tu ti comporti male con Maurizio io ti scanno». Dopo questa frase i pm hanno dovuto aprire il nuovo fascicolo a carico di Palamara, che già tre anni fa, all’inizio dell’indagine sfociata nel processo in corso, fu accusato da un altro magistrato di aver intascato 40.000 euro per una nomina al Csm, ma poi la stessa Procura accertò che non era vero. Ora, al di là dell’orologio, l’interessamento di Palamara al processo in Cassazione che stava a cuore ad Amara sarebbe dimostrato anche da una e-mail ricevuta dal segretario generale della Corte nel febbraio 2017 con tutti gli aggiornamenti sul «procedimento Musco». Per la Procura di Perugia Amara «è un soggetto abilissimo nell’arte manipolatoria e di conseguenza estremamente “pericoloso”, soprattutto quando lo si intenda utilizzare come prova a carico di altri»; tuttavia gli «indiscutibili riscontri esterni» emersi, «dimostrano che non è affatto (quantomeno soltanto) un millantatore o peggio ancora un semplice mitomane».
Gli approfondimenti sul "Palamaragate". Trojan e soffiate, il caso-Gico sul Palamaragate sotto la lente del parlamento. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Giugno 2022.
Sul “Palamaragate” serve un “approfondimento” del Csm e dei ministri della Giustizia e dell’Economia. In particolare, sul modo in cui sono stati condotti da parte del Gico, il reparto speciale della guardia di finanza, gli accertamenti delegati dalla Procura di Perugia nei confronti dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara. “È fondamentale verificare eventuali irregolarità, anche dolose, da parte degli organi preposti alle indagini”, ha affermato il deputato di Fd’I Edmondo Cirielli, preannunciando una interrogazione, oltreché alla Guardasigilli Marta Cartabia, al capo del Mef Daniele Franco da cui dipendono appunto i militari delle Fiamme gialle. A destare l’interesse di Cirielli, nella vita colonnello dei carabinieri e quindi ben consapevole di come si conduce (o non conduce) un’indagine di polizia giudiziaria, alcuni articoli pubblicati da Il Riformista.
La scorsa settimana, infatti, su questo giornale erano stati riportati alcuni passaggi della a dir poco sorprendente testimonianza del maggiore del Gico di Roma Fabio Di Bella durante il processo che si sta svolgendo a Perugia nei confronti di Palamara e del suo ex collega Stefano Fava. Tralasciando l’ormai celebre funzionamento a “singhiozzo” del trojan inserito nel cellulare di Palamara, che non aveva registrato i colloqui intercorsi durante la cena del 9 maggio 2019 a cui avevano partecipato importanti magistrati, come l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, Di Bella era stato costretto ad ammettere alcune condotte molto poco commendevoli avvenute nel suo reparto. Ad esempio, quella di consegnare le informative all’indagato principale del procedimento, l’avvocato Piero Amara, prima ancora che queste fossero depositate in Procura, avvisandolo di fatto in anticipo delle perquisizioni che dovevano essere effettuate nei suoi confronti.
Le informative, tra cui quella riepilogativa di circa 800 pagine, furono consegnate ad Amara in più riprese fra il mese di gennaio e quello di giugno del 2017 dall’appuntato dell’Arma Loreto Francesco Sarcina, all’epoca in forza all’Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna), il servizio segreto comandato dal generale Mario Parente, già numero uno del Ros dei carabinieri. Sarcina per questa attività di ‘postino’ era stato indagato dai pm della Procura di Perugia Gemma Miliani e Mario Formisano, gli stessi che hanno proceduto contro Palamara e Fava. Le “anteprime” del Gico avrebbero permesso ad Amara di conoscere in anticipo le mosse degli inquirenti, mettendolo in condizione di “predisporre memorie difensive”.
Dagli atti d’indagine depositati nel procedimento di Perugia, e quindi senza violare alcun segreto, è emerso il provvedimento del 22 dicembre 2016 che assegna al Gico le indagini in esclusiva su Amara. Fino a quella data, ad indagare sull’avvocato siciliano era stato il Nucleo di polizia valutaria della guardia di finanza comandato dal generale Giuseppe Bottillo. Il titolare del fascicolo, il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, amico e testimone di nozze dell’avvocato Salvino Mondello difensore di Amara, optò per assegnarle al Gico per evitare “sovrapposizioni”. La vicenda raccontata da Di Bella fa tornare alla mente la fuga di notizie, avvenuta sempre nello stesso periodo, a proposito dell’indagine Consip. In quella occasione, però, i pm romani avevano subito tolto ai carabinieri del Noe la delega investigativa, ritenendo responsabili della violazione del segreto il colonnello Alessandro Sessa ed il maggiore Giampaolo Scafarto.
In assenza di provvedimenti formali dei magistrati, toccherà allora ai due ministri chiamati in causa da Cirielli cercare di far luce sulle ragioni per cui, nonostante tutte queste “anomalie”, il Gico continui ad indagare dalla fine del 2016 e senza soluzione di continuità sull’avvocato Amara, e quindi nei procedimenti su Palamara e sulle vicende dell’hotel Champagne. Vicende che hanno suscitato in passato tali perplessità da indurre il Parlamento a larga maggioranza, compreso il Partito democratico, a dichiarare la inutilizzabilità delle intercettazioni fatte dai finanzieri agli ordini Di Bella per la violazione delle prerogative del parlamentare di Italia viva Cosimo Ferri. Paolo Comi
La testimonianza del maggiore Di Bella. Finanziere smentisce Cantone: “Il trojan era programmato per la cena con Pignatone”. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Giugno 2022.
Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone potrebbe essere nuovamente sentito dal Consiglio superiore della magistratura a proposito della modalità di conduzione dell’indagine nei confronti di Luca Palamara. Fra i punti pochi chiari, il funzionamento a ‘singhiozzo’ del trojan inserito nel cellulare dell’ex zar delle nomine. Il Riformista ieri aveva riportato alcuni stralci della deposizione di Cantone a Palazzo dei Marescialli avvenuta a marzo dello scorso anno e rimasta fino all’altro giorno coperta dal segreto.
Rispondendo alle domande dei consiglieri, il procuratore di Perugia aveva ribadito la correttezza dell’operato dei suoi pm, in particolare circa la mancata registrazione della cena del 9 maggio del 2019 fra Palamara, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed altri magistrati della Capitale, affermando che il trojan era stato programmato quel giorno per funzionare fino alle ore 18.00. “In alcuni articoli comunque si fa riferimento ad un incontro, ad una cena, del 9 maggio, alla quale assieme al dottor Palamara avrebbe partecipato il procuratore di Roma, in quel momento da poco in pensione, il dottor Pignatone e altri magistrati. Su questo lei è in grado di spiegarci se era stato programmato l’utilizzo del Trojan e quindi la registrazione anche per quelle ore in cui poi avvenne l’incontro?”, domandò Di Matteo. “Non era stato programmato … sono in grado di dirle che il trojan ha funzionato fino alle 16:53 di quella giornata”, aveva risposto Cantone. E ancora Di Matteo: “Ed era stato programmato che funzionasse più a lungo o no?”. “Fino alle 18:00”, replicò Cantone.
Una testimonianza non coincidente con le relazioni della società Rcs che aveva fornito al Gico della guardia di finanza il virus spia che infettò il cellulare di Palamara, trasformandolo in un microfono. L’8 maggio del 2019 il maresciallo del Gico Roberto D’Acunto programmò infatti il trojan per registrare il giorno successivo dalle 6 pomeridiane fino alle 11:59:59, cioè fino a mezzanotte. Il Riformista ha recuperato anche il verbale della testimonianza del 23 settembre 2020 nel procedimento disciplinare a carico di Palamara del maggiore Fabio Di Bella, uno dei superiori del maresciallo D’Acunto. “Abbiamo cercato sempre utilizzando le 5-8 ore che avevamo a disposizione di posizionare le registrazioni del trojan in più archi di giornate soprattutto la mattina presto laddove era possibile un incontro presso la scuola della figlia, l’ora di pranzo e le ore serali … Palamara era una persona che era solita intrattenersi fino a tardi la sera e incontrare diverse persone programmando quindi la registrazione nelle ore serali anche fino a tardi”, affermò Di Bella.
“La serata dell’8 maggio – aggiunse l’ufficiale delle fiamme gialle – noi mettiamo la registrazione dalle ore 19:00 alle ore 2:00 del 9 maggio … come ho detto prima rispecchiava quelle che erano le abitudini del dott. Palamara di intrattenersi con svariati soggetti fino a tarda sera. Tra l’altro … il 7 maggio noi programmiamo l’intercettazione ambientale fino a mezzanotte. Alle 23.50 interviene una telefonata tra Palamara e Lotito (Claudio, presidente della Lazio, ndr) … nella quale i due si sentono e concordano di vedersi di lì a poco. Ovviamente avendo programmato la registrazione fino a mezzanotte non prendiamo l’incontro”. Sulla programmazione intervenne però il maresciallo Orrea il 9 maggio 2019 alle ore 11.45, annullandola.
Orrea cambiò la programmazione fatta da D’Acunto con un’altra che anziché partire dalle 6 del pomeriggio del 9 maggio 2019 fino a mezzanotte sarebbe dovuta partire alle 2 di notte del medesimo giorno, quindi 9 ore prima rispetto a quando Orrea aveva fatto l’intervento. Tale evidente incongruenza logico-temprale (viene dato al Trojan ordine di partire non per un tempo futuro ma per un tempo già passato da nove ore) determinò l’annullamento della programmazione precedentemente disposta.
Al Csm il compito di capire il motivo di un errore così macroscopico. Paolo Comi
Il verbale dell'audizione di Cantone al Csm. Il trojan di Palamara fu spento per proteggere Pignatone: il Csm fa finta di nulla. Paolo Comi su Il Riformista il 9 Giugno 2022.
Ricordate le polemiche per la mancata registrazione dei colloqui avvenuti durante la cena del 9 maggio 2019 fra Luca Palamara, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed altri magistrati della Capitale presso un ristorante ai Parioli? La circostanza è tornata d’attualità questa settimana con Matteo Renzi che, intervistato da Nicola Porro, ha ironizzato sul funzionamento a ‘singhiozzo’ del trojan inserito nel cellulare di Palamara. Il Riformista l’anno scorso aveva pubblicato alcuni articoli in cui si ponevano diversi interrogativi sul modo in cui era stato utilizzato il software spia.
Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, forse ritenendosi preso di mira, aveva scritto al Csm chiedendo l’apertura di una “pratica a tutela” per salvaguardare il prestigio dei magistrati del capoluogo umbro che stavano svolgendo le indagini nei confronti di Palamara. Cantone aveva anche diramato un comunicato dichiarando che il trojan non aveva registrato l’incontro del 9 maggio 2019 tra Palamara, Pignatone ed altri “perché non era, come si è più volte già spiegato in tutte le sedi, programmato in quell’orario per la registrazione”. Il 22 marzo del 2021 Cantone era stato poi convocato davanti alla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura dove aveva cercato, come scrisse La Repubblica, quotidiano sempre ben informato, di “blindare” l’inchiesta, interloquendo “su tutti gli aspetti oggetto della sua segnalazione”. Il magistrato, che Renzi aveva voluto a capo dell’Anac, sempre secondo Repubblica, aveva quindi smentito l’esistenza dell’intercettazione di quella cena, affermando che “non fu programmata perché si trattava di un incontro conviviale con le rispettive mogli. In quei contesti Palamara non si lasciava mai andare a confidenze, quindi sarebbe stato inutile”.
Il Riformista ha recuperato il verbale di quella audizione al Csm. Il primo ad intervenire fu Nino Di Matteo. “In alcuni articoli comunque si fa riferimento ad un incontro, ad una cena, del 9 maggio, alla quale assieme al dottor Palamara avrebbe partecipato il procuratore di Roma, in quel momento da poco in pensione, il dottor Pignatone e altri magistrati. Su questo lei è in grado di spiegarci se era stato programmato l’utilizzo del Trojan e quindi la registrazione anche per quelle ore in cui poi avvenne l’incontro?”, domandò Di Matteo. Rispose Cantone: “Non era stato programmato… sono in grado di dirle che il Trojan ha funzionato fino alle 16:53 di quella giornata”. E ancora Di Matteo: “Ed era stato programmato che funzionasse più a lungo o no?”. “Fino alle 18:00”, replicò Cantone.
Quanto dichiarato al Csm da Cantone risulta però smentito da una relazione della società Rcs di Milano che fornì il trojan e dalla quale risulta la programmazione effettuata l’8 maggio 2019 dal maresciallo del Gico Roberto D’Acunto. Contrariamente a quanto dice Cantone, il finanziere programmò il trojan per registrare il 9 maggio 2019 dalle 6 pomeridiane fino alle 11:59:59, cioè fino a mezzanotte. Tale programmazione, però, venne annullata dal maresciallo Orrea la mattina del 9 maggio 2019. Stranamente, trattandosi di atti depositati, nessuno dei consiglieri del Csm ha fatto presente a Cantone ciò che aveva combinato il sottufficiale, chiedendogli le dovute spiegazioni. Ma la testimonianza di Cantone al Csm stride anche con il fatto che la sera precedente, quella dell’8 maggio 2019, il trojan era stato programmato ed ha funzionato fino alle 2 di notte poiché, sempre come riferito dai finanzieri, Palamara doveva essere intercettato soprattutto la sera quando incontrava a cena i propri amici e conoscenti.
Nel procedimento disciplinare a carico di Palamara il maggiore del Gico Fabio Di Bella aveva dichiarato che “Palamara era una persona che era solita intrattenersi fino a tardi la sera e incontrare diverse persone programmando quindi la registrazione nelle ore serali anche fino a tardi”. Chissà se un giorno, allora, qualcuno vorrà fare luce su chi diede l’ordine di ‘sprogrammare’ il trojan ed evitare così ascolti probabilmente fonte di grande imbarazzo. E fonte di imbarazzo continuano, invece, ad essere le chat di Palamara. Ieri il Csm ha stoppato la nomina del nuovo Avvocato generale perché un concorrente, la magistrata Pina Casella, aveva scambiato qualche messaggio di troppo con l’allora zar degli incarichi. Paolo Comi
Luca Palamara di nuovo indagato: la dolce vita pagata dai «corruttori». EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 09 maggio 2022.
Gli regalavano potenti scooter, notti in alberghi cinque stelle a Capri, quote societarie, gli pagavano persino le multe per centinaia di euro.
Chiuse le indagini su Luca Palamara, di nuovo indagato per corruzione a Perugia. In cambio dei regali offerti dagli imprenditori, l’ex magistrato sarebbe intervenuto su procedimenti penali, amministrativi e civili per garantire l’esito favorevole desiderato dai suoi presunti corruttori.
Oltre a uno scooterone X-Max 300, Aureli avrebbe offerto a Palamara le quote di un società che gestisce uno stabilimento balneare a Olbia, Kando Beach: l’ex pm non avrebbe versato alcunché, le quote le avevano intestate al commercialista Andrea De Giorgio, amico di lunga data di Palamara nonché suo commercialista.
EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN
Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 10 maggio 2022.
Gli regalavano potenti scooter, notti in alberghi cinque stelle a Capri, quote societarie, gli pagavano persino le multe per centinaia di euro. Chiuse le indagini su Luca Palamara, di nuovo indagato per corruzione a Perugia. In cambio dei regali offerti dagli imprenditori, l’ex magistrato sarebbe intervenuto su procedimenti penali, amministrativi e civili per garantire l’esito favorevole desiderato dai suoi presunti corruttori.
Sono questi gli elementi su cui si fonda l’ultima inchiesta della procura guidata da Raffaele Cantone, che contesta all’ex magistrato due episodi corruttivi insieme a imprenditori che avrebbero ottenuto favori in cambio di regali e utilità varie offerte a Palamara.
L’ex capo dell’Associazione nazionale magistrati, ras della corrente Unicost, è già sotto processo nel capoluogo umbro per corruzione, scaturito dall’indagine sulla spartizione delle nomine dei procuratori che ha scosso il Consiglio superiore della magistratura. Palamara è stato radiato in seguito all’inchiesta, decisione confermata dalla Cassazione. Oggi è un ex pm con la passione della scrittura, ha firmato due libri con Alessandro Sallusti, il direttore di Libero, in cui denuncia il “Sistema” di cui lui è stato protagonista assoluto.
L’atto di conclusione della indagine è firmato dai pm Gemma Miliani e Mario Formisano, che con la guardia di finanza di Perugia hanno condotto l’indagine su quest’ultimo filone.
Federico Aureli è uno degli imprenditori indagati con Palamara. Sarebbe lui, secondo i pm, uno dei corruttori. Oltre a uno scooterone X-Max 300, Aureli avrebbe offerto a Palamara le quote di un società che gestisce uno stabilimento balneare a Olbia, Kando Beach: l’ex pm non avrebbe versato alcunché, le quote le avevano intestate al commercialista Andrea De Giorgio, amico di lunga data di Palamara nonché suo commercialista. L’ex magistrato «tuttavia, senza aver corrisposto alcun importo, partecipava alla gestione della società, impartendo le direttive e percependo i relativi utili».
Il motivo di tanta generosità nei confronti dell’allora potente capo corrente della magistratura lo spiegano gli inquirenti nell’atto di conclusione indagine: Aureli mirava «all'interessamento del magistrato per le procedure amministrative relative all'attività di bar gestita dalla Kando Beach. Palamara, infatti, attraverso sue conoscenze nelle forze dell'ordine faceva in modo che i vertici dell'amministrazione comunali di Olbia si occupassero delle istanze avanzate dalla società».
Ma Palamara si sarebbe occupato anche di altro per l’imprenditore così munifico: avrebbe favorito «il buon esito del procedimento penale nei confronti di della madre e della moglie di Aureli, in corso di svolgimento presso il tribunale di Roma. Palamara, infatti, chiedeva ad un altro magistrato, in rapporti con il giudice assegnatario di tale procedimento, di contattare quest'ultimo per segnalare il suo interesse per la vicenda. In effetti, tale magistrato contattava il giudice e lo invitava a "guardarsi bene le carte", segnalando, allo stesso tempo, l'interesse di Palamara».
L’altra corruzione contestata all’ex magistrato riguarda il rapporto con un altro imprenditore, Leonardo Ceglia Manfredi, che ha regalato a Palamara, sei notti, spalmate in più anni, in uno dei più prestigiosi alberghi cinque stelle dell’isola, di sua proprietà: Hotel punta Tragara, costo totale quasi 7mila euro, per la toga e altri suoi amici.
La tesi della procura di Perugia e della guardia di finanza è che in cambio Palamara avrebbe aiutato l’imprenditore. In che modo? «Nel favorire il buon esito del procedimento penale pendente presso la Procura di Roma, che gli veniva assegnato in data 15 febbraio 2012, in cui erano persone sottoposte ad indagini, tra le altre, la madre di Ceglia e i fratelli». Palamara «senza segnalare il rapporto di conoscenza, che si era tradotto già almeno in un soggiorno offerto, definiva il procedimento avanzando richiesta di archiviazione in data 16 luglio 2012».
Inoltre l’allora magistrato avrebbe favorito «il buon esito della causa pendente dinanzi al Tribunale di Roma, avente ad oggetto la separazione del fratello di Leonardo dalla moglie; egli (Palamara ndr), infatti, incontrava un giudice della prima sezione del Tribunale di Roma presso la sede del Consiglio Superiore della Magistratura e segnalava il suo interessamento per la controversia; in seguito, in data 9 ottobre 2017, le inviava un messaggio in cui comunicava che le due parti erano alla ricerca di un accordo».
E ancora Palamara sarebbe intervenuto per la «definizione di altre problematiche relative alla società ARTESOLE; nell'abitazione di Palamara, infatti, veniva trovato un verbale di verifica parziale redatto in data 27 marzo 2018 da ufficiali del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Roma della Guardia di Finanza nei confronti della ARTESOLE, nonché un verbale di ispezione in materia di igiene pubblica, redatto in data 15 febbraio 2018 dal Comando Carabinieri per la Tutela della Salute – NucleoAntisofisticazioni e Sanità di Roma nei confronti della ARTESOLE Srl».
Il caso. Palamara indagato di nuovo, ma il reato non c’è…Paolo Comi su Il Riformista l'11 Maggio 2022.
Ma perché per Luca Palamara non viene celebrato un unico processo? La domanda è legittima leggendo le contestazioni contenute nell’ultimo capo d’imputazione da parte della Procura di Perugia: corruzione in atti giudiziari. La nuova indagine nasce, come sempre, dalle famigerate chat dell’ex zar delle nomine, acquisite dalla Procura del capoluogo umbro fin dal mese di maggio del 2019 e all’indomani della fuga di notizie sulla cena all’hotel Champagne. Palamara, a leggere le nuove accuse, si sarebbe in particolare interessato presso i giudici del tribunale di Roma della causa di separazione del fratello di un imprenditore, che poi gli avrebbe offerto dei soggiorni e dei viaggi.
Su questa vicenda, lo scorso luglio, Palamara era stato interrogato dai pm di Perugia e aveva negato gli addebiti. Ma a negare gli addebiti sono stati anche i magistrati che hanno gestito il fascicolo. I pm umbri, a tal proposito, hanno interrogato la giudice della prima sezione del tribunale di Roma, che si occupa di famiglia, Luciana Sangiovanni. La magistrata aveva con Palamara un rapporto risalente nel tempo nato dalla comune appartenenza all’Anm. Rispondendo alla domanda di un collega se la conoscesse, Palamara aveva risposto: “Me la trombo ogni tanto”.
La giudice, comunque, aveva ammesso di aver avuto interlocuzioni con Palamara su questa pratica di separazione. Ma alla domanda se avesse mai “ricevuto richieste da Palamara relative alla accelerazione della trattazione di alcuni procedimenti su cui ha chiesto informazioni”, la risposta era stata netta: «Escludo di aver ricevuto questo tipo di richieste, perché in quel caso lo avrei denunciato». «Escludo categoricamente – aveva quindi ripetuto – che lui mi abbia pressato per avere notizie sul merito della decisione». Alcune di queste interlocuzioni sarebbero avvenute all’interno del Csm dove la magistrata si era recata per rappresentare a Palamara dei problemi di organico della sezione.
Se i giudici, dunque, negano interferenze dove è il reato? La notizia della nuova indagine è arrivata proprio il giorno dell’annuncio di Palamara di candidarsi alle prossime elezioni politiche. «Tutto questo – assicura l’ex magistrato – rafforza il mio convincimento di essere al centro di un regolamento di conti interno alla magistratura tra le correnti ancor di più in vista delle prossime elezioni del Csm e rafforza l’idea di un mio impegno politico per una giustizia giusta e non vendicativa. Giustizia non può essere vendetta». Paolo Comi
Cantone torna all'attacco di Palamara ma i colleghi assolvono il "Sistema". Luca Fazzo il 12 Maggio 2022 su Il Giornale.
Altre accuse per l'ex leader dell'Anm, difeso anche dai "nemici".
Delle due l'una: o mentono tutti quanti, dal primo all'ultimo, giudici compresi; o la nuova inchiesta chiusa dalla Procura di Perugia contro Luca Palamara è solo l'ennesimo capitolo della resa dei conti contro l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, finito nel mirino dei suoi vecchi colleghi. Adesso la Procura umbra, guidata da Raffaele Cantone, accusa Palamara di corruzione per essere intervenuto in due procedimenti giudiziari che riguardavano amici e conoscenti da cui avrebbe ricevuto in cambio favori vari. Peccato che i verbali depositati proprio a conclusione di questo filone raccontino una storia diversa. A meno che magistrati tuttora in servizio non mentano platealmente.
Il primo capo d'accusa riguarda il procedimento scaturito da un incidente stradale in cui era rimasto coinvolto un ciclomotore di proprietà della concessionaria Aureli Motor di Roma: del cui titolare, Federico Aureli, Palamara sarebbe stato ospite in Sardegna. Secondo la Procura di Perugia, Palamara - attraverso il collega Paolo Auriemma - avrebbe fatto pressioni sul presidente della sezione, Maria Rubera, per fare assolvere gli imputati. Ma Auriemma dice: «Posso escludere che Luca mi abbia chiesto di indirizzare in qualche modo l'esito del processo». Dal canto suo la Rubera dice: «Escludo categoricamente che Auriemma mi abbia segnalato qualcosa in merito a quel procedimento». E il giudice Mauro Barbanti, che assolse gli imputati, parlando della Rubera dichiara «escludo che mi abbia dato delle indicazioni cercando di influire nella mia decisione».
Altrettanto netta la versione che un altro magistrato, Luciana Sangiovanni (che pure potrebbe avercela con Palamara, visti alcuni passaggi irrispettosi delle chat dell'ex collega) offre a verbale sulla vicenda che per Perugia costituisce un altro episodio di corruzione: l'intervento di Palamara per condizionare la causa di separazione del fratello di Leonardo Ceglia Manfredi, imprenditore romano, che si sarebbe sdebitato ospitandolo per alcune notti nel suo hotel cinque stelle lusso a Capri. Ma la Sangiovanni dichiara a verbale di avere ricevuto da Palamara solo richieste di informazioni sullo stato del procedimento. Le chiedono i pm di Perugia: lei ha mai ricevuto richieste da Palamara relative alla accelerazione della trattazione di alcuni procedimenti sui quali ha chiesto informazioni? Risponde secca la Sangiovanni: «Escludo di avere ricevuto questo tipo di richieste perché in quel caso lo avrei denunciato. Ribadisco che questa è la verità». Il giudice non si smuove quando le fanno vedere delle chat in cui Palamara insiste per avere notizie: «Escludo che lui mi abbia pressato ed escludo categoricamente che mi abbia pressato per avere notizie sul merito della decisione». Tutti bugiardi?
Ancora più surreale l'ultima accusa che viene mossa a Palamara, avere archiviato «in soli cinque mesi» il procedimento relativo a una parete di Ceglia Manfredi. Peccato che il fascicolo sia stato archiviato semplicemente perché la querela che l'aveva originato era stata subito ritirata. E la Procura di Perugia lo sa.
La Cassazione respinge l’istanza di ricusazione dei giudici avanzata da Palamara. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Novembre 2022.
Per il collegio dei difensori di Palamara sono stati "violati i principi della Cedu sulla imparzialità dei giudici che fanno parte della stessa associazione sistematicamente ostile a Palamara con il rischio di condizionamento dell'attività dei giudici".
La Corte di Cassazione ha confermato il rigetto del ricorso presentato dai difensori di Luca Palamara, già affrontato e deciso dalla Corte di appello di Perugia con cui si chiedeva la ricusazione nei confronti dei giudici nel processo che lo vede imputato per corruzione, in quanti iscritti all’Anm. Per il collegio dei difensori di Palamara, con la sentenza n.44436 sono stati “violati i principi della Cedu sulla imparzialità dei giudici che fanno parte della stessa associazione sistematicamente ostile a Palamara con il rischio di condizionamento dell’attività dei giudici“. I supremi giudici della Corte invece non sono d’accordo , secondo cui ”il fatto che l’Anm abbia deliberato l’espulsione di Luca Palamara e che ciò sia avvenuto all’esito di un’assemblea generale non costituisce di per sé la dimostrazione di un fatto inficiante la presunzione di imparzialità dei singoli magistrati, chiamati a giudicare nell’ambito di un procedimento penale“.
“La questione si sarebbe potuta porre qualora fosse risultato che i giudici ricusati avessero preso parte e votato l’espulsione di Palamara – si legge nelle motivazioni della sentenza – ma in tal caso il motivo di ricusazione andava ravvisato non tanto nell’esistenza di un interesse al procedimento, quanto nell’aver manifestato li proprio convincimento, sia pur su fatti non del tutto coincidenti con l’oggetto dell’imputazione, al di fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Tale evenienza, tuttavia, non è stata neppure dedotta dal ricorrente, sicché deve ritenersi che i giudici ricusati non hanno avuto alcun ruolo nella vicenda associativa che ha coinvolto Palamara. Al netto di quanto detto, pertanto, il motivo di ricusazione rimane circoscritto alla comunanza di interesse non patrimoniale che, tuttavia, nel caso di specie si configura come un generico interesse di natura ideologica, in quanto concernente l’affermazione di principi di rango costituzionale, rispetto ai quali non è neppure ipotizzabile una esclusiva riferibilità all’Anm, ovvero ai singoli magistrati in quanto tali, anche se aderenti alla predetta associazione”.
”Applicando tali principi al caso di specie, ne consegue che l’imparzialità dei giudici iscritti all’Anm non può essere esclusa sulla base del mero riscontro del dato formale costituito dall’adesione all’associazione, dovendosi vagliare se in concreto, sulla base delle dimensioni dell’associazione, delle funzioni svolte, dell’eventuale incidenza sull’attività degli iscritti, sull’esistenza di vantaggi rilevanti derivanti dall’iscrizione, si possa determinare un effettivo vulnus rispetto al principio di terzietà. Tale
valutazione – sottolinea la Cassazione – è stata compiuta dalla Corte di appello che da un lato ha escluso qualsivoglia possibilità che i soci dell’Anm traggano un vantaggio personale dall’accoglimento dell’azione risarcitoria – concludono i supremi giudici– e, al contempo, non ha individuato alcun elemento ulteriore sulla cui base ritenere che il mero dato formale dell’essere soci di una associazione di categoria possa alterare li criterio di giudizio nel processo a carico dell’odierno ricorrente“. Dalla Suprema Corte è arrivato anche il diniego alla richiesta della difesa al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
La Suprema corte con la propria sentenza n. 34380/2022 ha accolto il ricorso del pubblico ministero che chiedeva di rivedere la sentenza (n. 51/2022) con la quale la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha assolto la presidente del tribunale di Firenze, Marilena Rizzo aderente ad Unicost, dall’accusa contestatale di aver violato “i doveri di correttezza ed equilibrio” sulla base delle accuse conseguenti alle chat scambiate con l’ex Pm Palamara, nelle quali, secondo l’incolpazione, interloquiva per alcune nomine riguardanti incarichi semidirettivi interni al suo ufficio. Indicando, sempre secondo le accuse, magistrati “appartenenti alla corrente o comunque magistrati a lei graditi”.
Secondo il Csm un paio di “segnalazioni” andavano interpretate come un contributo qualificato dovuto alla conoscenza di due candidati per un lavoro prestato nello stesso ufficio della dottoressa Rizzo. E, pur considerata l’inopportunità del canale utilizzato, la sentenza impugnata “ha negato che risultasse attinta la soglia della grave scorrettezza” anche relativamente ai giudizi che avevano riguardato altre toghe. Oggi la Corte Cassazione si rivolge ai probiviri del Csm chiedendo di integrare la motivazione, considerando anche il ruolo rivestito dall’incolpata, e alla luce dei principi affermati dalle Sezioni unite con la sentenza 22301/2021, relativa alla configurabilità dell’illecito disciplinare “con riguardo a condotte volte al discredito di possibili aspiranti alla direzione di uffici giudiziari o a concertare, per soddisfare interessi personalistici, chi debba ricoprire tali incarichi“. Redazione CdG 1947
«Le giudici sono imparziali». Perugia “boccia” Luca Palamara. Rigettata l’istanza di ricusazione dell’ex presidente dell’Anm. Ora l'ex pm di Roma annuncia ricorso in Cassazione. Simona Musco su Il Dubbio il 13 maggio 2022.
Nessun elemento concreto può indurre a ritenere «che la dottoressa Giangamboni e la dottoressa Ciliberto, per il solo fatto di essere iscritte all’Anm, come quasi la totalità dei magistrati italiani, appaiano in qualche modo non imparziali nei confronti dell’imputato». La Corte d’Appello di Perugia ha rigettato l’istanza di ricusazione avanzata dalla difesa dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, a processo a Perugia per corruzione. Un rigetto che ricalca sostanzialmente la memoria presentata dall’Anm – ma ritenuta inammissibile perché presentata fuori tempo massimo – e quella della procura generale, secondo cui i valori dell’Anm sono i valori di tutti i magistrati e, dunque, potenzialmente chiunque potrebbe sentirsi parte in causa, secondo il ragionamento della difesa.
Secondo gli avvocati Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, Palamara non può essere infatti giudicato dalle giudici Carla Maria Giangamboni e Serena Ciliberto in quanto iscritte all’Anm, che ha chiesto di costituirsi parte civile al processo e di farsi risarcire dal suo ex presidente per i danni morali causati dal suo comportamento. Un «palese» conflitto di interessi, secondo la difesa, che ha per settimane inseguito il presidente del sindacato delle toghe, Giuseppe Santalucia, chiedendo di conoscere l’elenco degli iscritti e valutare un’eventuale situazione di incompatibilità, richiesta alla quale Santalucia si era opposto per questione di privacy. Alla fine erano state le stesse giudici a confermare la loro iscrizione all’Anm, chiedendo di potersi astenere dal processo e, dunque, avallando i dubbi della difesa.
Ma il Tribunale ha respinto quella richiesta, “costringendo” Palamara a presentare istanza di ricusazione. Secondo il collegio presieduto da Claudia Matteini, però, «sotto il profilo dell’imparzialità soggettiva nessuna prova è stata portata rispetto ad eventuali convinzioni preconcette, né la loro appartenenza all’Anm, che ha come scopo l’affermazione dei principi costituzionali dell’ordinamento giudiziario, può rappresentare un vulnus nell’ambito del procedimento in oggetto, tenuto conto che la tutela di detti valori è propria non solo del singolo magistrato ma di tutti i cittadini che formano la società civile».
La Corte d’Appello ha anche escluso un ipotetico vantaggio economico per le giudici, qualora si arrivasse ad un risarcimento dell’Anm, ricalcando di fatto la tesi del sindacato delle toghe. Che essendo un’associazione senza fini di lucro, non prevede «alcuna distribuzione di utili né diretta né indiretta, tra l’altro vietata». Il patrimonio dell’Associazione è dunque destinato a realizzare gli scopi della stessa, «rappresentati dalla tutela dei valori costituzionali dell’ordine giudiziario e dalla promozione dei valori di legalità, ma certamente non apporta alcun vantaggio economico al singolo associato».
Nemmeno in caso di eventuale scioglimento, dato che tutti i fondi sarebbero devoluti all’istituto di previdenza. «Il magistrato iscritto alla stessa Associazione può avere nel procedimento in oggetto solo ed esclusivamente un interesse ideologico rappresentato dall’affermazione dei valori fondanti l’ordinamento giudiziario, ovverosia l’autonomia e l’indipendenza della magistratura che sono, poi, anche i valori posti alla base della imparzialità e terzietà nelle decisioni, tutti valori enunciati dalla Costituzione e sui quali si fonda il giuramento che ciascun magistrato pronuncia all’inizio della sua carriera», si legge nella motivazione. E, dunque, non ci sarebbe motivo di ritenere le due giudici parti in causa nel processo. Contro la decisione, i difensori di Palamara hanno annunciato ricorso in Cassazione. «Siamo già al lavoro, faremo valere le violazioni dei principi di diritto nazionali e sovranazionali», hanno annunciato Buratti e Rampioni. Per la difesa sono stati infatti «violati i principi della Cedu sulla imparzialità dei giudici che fanno parte della stessa associazione sistematicamente ostile a Palamara, con il rischio di condizionamento dell’attività dei giudici».
L’accusa di Luca Palamara: «L’Anm tenta di condizionare i giudici». Il sindacato delle toghe presenta una memoria contro l’istanza di ricusazione avanzata dall’ex consigliere del Csm. Che annuncia la sua candidatura alle prossime elezioni. Simona Musco su Il Dubbio il 10 maggio 2022.
«Un tentativo di condizionamento: sono al centro di un regolamento di conti». Non usa mezzi termini l’ex consigliere del Csm Luca Palamara, che definisce così la memoria di 12 pagine presentata dall’Anm ieri a Perugia, memoria ritenuta inammissibile dalla Corte d’Appello in quanto depositata fuori tempo massimo. Tutto è avvenuto nel corso dell’udienza sull’istanza di ricusazione avanzata dai legali di Luca Palamara nei confronti delle giudici del collegio che dovrà giudicarlo nel processo per corruzione, durante la quale l’Associazione nazionale magistrati ha deciso di depositare un documento, con il quale ribadisce che, «pur non potendo partecipare», «pare opportuno rappresentare» le ragioni «per le quali l’ammissione dell’Associazione nazionale magistrati come parte civile non determinerebbero l’integrazione del caso di ricusazione».
Secondo gli avvocati Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, Palamara non può essere infatti giudicato dalle giudici Carla Maria Giangamboni e Serena Ciliberto in quanto iscritte all’Anm, che ha chiesto di costituirsi parte civile al processo e di farsi risarcire dal suo ex presidente per i danni morali causati dal suo comportamento. Un «palese» conflitto di interessi, secondo la difesa, che ha per settimane inseguito il presidente del sindacato delle toghe, Giuseppe Santalucia, chiedendo di conoscere l’elenco degli iscritti e valutare un’eventuale situazione di incompatibilità, richiesta alla quale Santalucia si era opposto per questione di privacy. Alla fine erano state le stesse giudici a confermare la loro iscrizione all’Anm, chiedendo di potersi astenere dal processo e, dunque, avallando i dubbi della difesa.
La richiesta è stata però rigettata dal Tribunale di Perugia, motivo per cui Palamara ha presentato istanza di ricusazione, alla quale la procura generale del capoluogo umbro si è opposta. Nella sua memoria, il sostituto procuratore generale Tiziana Cugini ha infatti sottolineato che «il valore morale-etico ed al contempo il valore giuridico tutelato statutariamente dall’Associazione nazionale magistrati è lo stesso valore che anima il magistrato nella sua funzione quotidiana di esercizio della giustizia prima ed indipendentemente dall’essere iscritto ad una Associazione che di quegli stessi valori si erge a paladina. Allora nessun magistrato e non solo il magistrato iscritto all’Anm potrebbe giudicare di questi fatti, perché sempre avrebbe un interesse alla tutela ed al rispetto di quei valori che l’Anm si prefigge per Statuto di proteggere». E ieri, a dare manforte ci aveva provato anche l’Anm. Ma con argomentazioni diverse da quelle della procura generale: nella memoria si legge infatti come l’Associazione sia «soggetto autonomo e distinto dai propri associati singolarmente intesi, assumendo da questo punto di vista una veste istituzionale rappresentativa di valori e portatrice di interessi propri, autonomi e non confondibili con quelli di ciascun associato come singolo».
Ma non solo: «Nessun riverbero sulla condizione dei singoli associati può avere l’accrescimento del patrimonio dell’Associazione derivante, in ipotesi, dall’esito del giudizio», ha argomentato l’avvocato Francesco Mucciarelli, in quanto «non è infatti prevista alcuna distribuzione di utili, sotto nessuna forma, e neppure si fa luogo a una ripartizione dell’attivo patrimoniale in caso di scioglimento dell’Associazione stessa. Sicché nessun riflesso economico può incidere ( accrescendola o diminuendola) sulla sfera economica del singolo associato: negare siffatta conclusione implica necessariamente negare la distinzione fra ente metaindividuale e individuo». Inoltre, secondo l’Anm, se si volesse dar credito alla tesi di Palamara, l’Associazione «non potrebbe tutelare la propria immagine e la propria reputazione nell’ipotesi – tutt’altro che scolastica – che qualcuno definisca l’Anm un’associazione per delinquere». Una «aporia logica» che basterebbe di per sé, secondo il sindacato delle toghe, a respingere la richiesta di Palamara.
La Corte d’Appello di Perugia, nell’udienza di ieri, si è riservata di decidere. Ma intanto a prendere la parola, al termine dell’udienza, è stato lo stesso Palamara, che ha criticato la mossa dell’Anm. Una sorta di «intimidazione», secondo l’ex consigliere del Csm, che ha dunque puntato il dito contro gli inquilini di quella che un tempo era stata casa sua. «Attenderò con serenità la decisione sulla mia istanza di ricusazione, ma da uomo libero e da cittadino di questo Paese democratico ribadisco che non mi faccio e non mi farò mai intimidire da nessuno – ha affermato -, tantomeno dalla attuale dirigenza dell’Anm, molto lontana dai fasti gloriosi che l’hanno caratterizzata.
Grave e irrituale il tentativo di condizionamento nei confronti dei giudici della corte d’appello di Perugia chiamati a decidere sulla ricusazione depositando fuori termine una memoria che rischiava di poter diventare una traccia per l’eventuale decisione. Tutto questo – assicura – rafforza il mio convincimento di essere al centro di un regolamento di conti interno alla magistratura tra le correnti ancor di più in vista delle prossime elezioni del Csm e rafforza l’idea di un mio impegno politico per una giustizia giusta e non vendicativa. Giustizia non può essere vendetta. A breve renderò noto le modalità con le quali mi candiderò alle prossime elezioni politiche del 2023 per rispondere alle numerose istanze di tanti cittadini che quotidianamente nell’occasione delle presentazioni dei miei libri verità mi chiedono di impegnarmi per una giustizia giusta».
Caso Palamara: la difesa ricusa i giudici di Perugia. Nuovo rinvio dell’udienza. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Marzo 2022.
Secondo i difensori dell'ex consigliere Palamara, due componenti del Tribunale di Perugia fanno parte dell'Anm (che si è costituita parte civile) e dunque "non possono garantire terzietà e imparzialità"
La storia del processo contro l’ex magistrato Luca Palamara sembra destinata a durare all’infinito dopo l’ennesimo tentativo (riuscito) dello stesso imputato di allungare i tempi del suo processo per corruzione ottenendo un nuovo rinvio. I legali dell’ex presidente dell’ Anm hanno presentato alla Corte d’Appello di Perugia un’istanza di ricusazione di due giudici del 1° Collegio penale del Tribunale che doveva esprimersi su Palamara, che deve rispondere dell’accusa di corruzione per l’esercizio delle funzioni.
Al processo si è arrivati dopo che lo scorso 23 luglio il gup di Perugia Piercarlo Frabotta aveva disposto per l’ex consigliere del Csm il rinvio a giudizio nel filone principale dell’inchiesta perugina per corruzione dopo un’udienza preliminare durata 8 mesi, accogliendo, inoltre, la richiesta di patteggiamento a un anno a sei mesi per l’altro imputato l’imprenditore-lobbista Fabrizio Centofanti, che a giugno aveva reso dichiarazioni spontanee ai magistrati della procura di Perugia.
L’ex consigliere del Csm è accusato dalla Procura della Repubblica di Perugia di aver ottenuto varie utilità per sé e per Adele Attisani dall’imprenditore Fabrizio Centofanti. Nel capo di imputazione si legge che: “in concorso tra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, agendo Adele Attisani quale istigatrice delle condotte delittuose e beneficiaria, altresì ed in parte, delle utilità ricevute, Luca Palamara, prima quale sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Roma ed esponente di spicco dell’Associazione Nazionale magistrati fino al 24 settembre 2014, successivamente quale componente del Consiglio Superiore della Magistratura e magistrato fuori ruolo ricevevano da Fabrizio Centofanti le utilità per l’esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri”. Secondo l’ipotesi accusatoria formulata dai pm di Perugia Mario Formisano e Gemma Miliani , la Attisani sarebbe stata l’”istigatrice” dei presunti comportamenti illeciti di Palamara.
In particolare secondo l’atto di accusa “per la possibilità consentita a Centofanti da Palamara di partecipare a incontri pubblici o riservati cui presenziavano magistrati, consiglieri del Csm e altri personaggi pubblici con ruoli istituzionali e nei quali si pianificavano nomine ed incarichi direttivi riguardanti magistrati, permettendo in tal modo a Centofanti di accrescere il suo ruolo e prestigio di “lobbista”; per la disponibilità dimostrata da Palamara a Centofanti di poter acquisire, anche tramite altri magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine, a lui legati da rapporti professionali e/o di amicizia, informazioni anche riservate sui procedimenti in corso ed in particolare, su quelli pendenti presso la Procura della Repubblica di Messina e di Roma che coinvolgevano Centofanti e gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore; per la disponibilità di Palamara di accogliere richieste di Centofanti finalizzate ad influenzare e/o determinare, anche per il tramite di rapporti con altri consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura e/o di altri colleghi, le nomine e gli incarichi da parte del Consiglio medesimo e le decisioni della sezione disciplinare“.
“I fatti contestati a Luca Palamara nel processo per corruzione in corso a Perugia sono destinati a riflettersi sull’immagine e sulla reputazione della Magistratura nel suo complesso e sull’Associazione che la Magistratura stessa pressoché unitariamente rappresenta” ha sostenuto l’Anm nell’atto con il quale ha chiesto di costituirsi parte civile nei confronti di quello che è stato il suo segretario prima e presidente poi fino alla fine di settembre del 2014, sostenendo che è “immediatamente evidente la portata lesiva sull’immagine e sulla reputazione dell’Associazione nazionale magistrati delle condotte addebitate“.
Secondo gli avvocati del collegio difensivo di Palamara, Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, “è solare evidenza che l’appartenenza all’Anm della presidente Carla Maria Giangamboni e Serena Ciliberto fa venir meno i requisiti di imparzialità, indipendenza e terzietà, sostanziale come apparente, del collegio competente a decidere sulla ammissibilità e fondatezza della pretesa risarcitoria dell’Anm”. Nella precedente udienza del processo, tenutasi il 15 novembre 2021, l’Associazione nazionale magistrati, infatti, aveva chiesto di costituirsi parte civile. La difesa di Palamara nel gennaio scorso avevano depositato una istanza al Tribunale di Perugia chiedendo di acquisire l’elenco nominativo degli iscritti all’Anm “al fine di consentire l’esercizio del diritto di difesa in ordine al pieno accertamento della imparzialità, indipendenza e terzietà del giudice competente a decidere”. Elenco che, sempre secondo la difesa Palamara, era stato “ripetutamente” richiesto alla stessa Anm che però non lo avrebbe “mai fornito“. resta da chiedersi se questa associazione sia segreta o trasparente.
Gli stessi giudici avevano peraltro chiesto di potersi astenere dal giudicare Palamara, ma il presidente del Tribunale di Perugia aveva respinto questa richiesta. I difensori di Palamara intervengono, nella loro richiesta, anche sulla rivalsa risarcitoria “anche dei danni morali, formulata dall’Anm”. “Oltre ad essere un assoluto inedito nel panorama giudiziario, ad esempio nessuna costituzione di parte civile risulta annunciata dalla stessa Anm nei confronti del dottor Davigo nell’ambito del procedimento penale pendente nei suoi confronti a Brescia appare fondata su quegli stessi presupposti di critica all’operato del dottor Palamara nell’esercizio delle proprie prerogative di membro dell’Anm”.
I difensori di Palamara hanno evidenziato “l’asimmetria del provvedimento del presidente del Tribunale di Perugia di rigetto della richiesta di astensione con la precedente decisione sul dottor Narducci”. In quella circostanza “il Presidente del Tribunale di Perugia ha ravvisato i gravi motivi di convenienza per autorizzare l’astensione di quel giudice sulla base dell’attività politico giudiziaria di questi. Circostanza obiettivamente di minor rilievo se paragonata al caso di specie ove il giudice è chiamato a pronunciarsi sulla pretesa risarcitoria dell’associazione di cui fa parte in maniera organica ed attiva”.
Il Tribunale ha rinviato l’udienza al prossimo 12 aprile in attesa della sentenza della Corte d’Appello. Redazione CdG 1947
Palamara, la pg dice no alla ricusazione: i valori dell’Anm sono di tutti. I due giudici che dovranno giudicare l'ex consigliere del Csm sono iscritte all'Anm, che ha chiesto di costituirsi parte civile. La difesa: «Potenziale conflitto d'interessi». Simona Musco su Il Dubbio il 7 maggio 2022.
«Il valore morale- etico ed al contempo il valore giuridico tutelato statutariamente dall’Associazione nazionale magistrati è lo stesso valore che anima il magistrato nella sua funzione quotidiana di esercizio della giustizia prima ed indipendentemente dall’essere iscritto ad una Associazione che di quegli stessi valori si erge a paladina. Allora nessun magistrato e non solo il magistrato iscritto all’Anm potrebbe giudicare di questi fatti, perché sempre avrebbe un interesse alla tutela ed al rispetto di quei valori che l’Anm si prefigge per Statuto di proteggere». La procura generale di Perugia motiva così la sua richiesta di rigetto della domanda di ricusazione avanzata dai legali di Luca Palamara nei confronti della presidente Carla Maria Giangamboni e della collega Serena Ciliberto, giudici del tribunale che lo sta giudicando nel capoluogo umbro. Le due avevano infatti confermato la propria iscrizione all’Associazione nazionale magistrati, ritenendo dunque potenzialmente sussistente una situazione di incompatibilità, data la richiesta di costituzione civile avanzata dal sindacato delle toghe, per ottenere «l’integrale risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per i fatti di cui ai capi di imputazione contestati al dottor Palamara».
La richiesta sarà discussa in aula lunedì davanti alla Corte d’appello perugina, presieduta da Mario Vincenzo D’Aprile, dopo la richiesta di astensione avanzata dal consigliere della Sezione civile Ferdinando Pierucci. Ma nel frattempo, con una memoria lunga quattro pagine, il sostituto procuratore generale Tiziana Cugini ha definito un «falso problema» quello sollevato dalla difesa di Palamara, ritenendo insussistente il rischio «di interesse morale convergente tra i magistrati giudicanti iscritti» all’Anm e la stessa associazione. Perché, secondo il magistrato, qualunque giudice è portatore di quei valori difesi dallo Statuto dell’Anm, motivo per cui nessuno, potenzialmente, sarebbe idoneo a giudicare il caso. La difesa di Palamara aveva invece sottolineato la potenziale situazione di conflitto, evidenziando la necessità di verificare «l’imparzialità, l’indipendenza e la terzietà, sostanziale come apparente, del Collegio competente a decidere», così come stabilito dalla Cedu e dalla Corte costituzionale, sin dal momento in cui il collegio è chiamato a pronunciarsi in merito all’ammissibilità della costituzione di parte civile.
Cugini richiama il rigetto già espresso dal presidente del Tribunale di Perugia alle richieste di astensione dal giudizio pur avanzate dalle due giudici (dunque propense a ritenere sussistente il rischio lamentato da Palamara), sottolineando come i valori “protetti” dall’Anm sono quelli a cui «ogni magistrato, proprio perché tale, ispira quotidianamente il suo lavoro, sono i valori della sua funzione istituzionale che onora e rispetta in ogni momento dell’esercizio della funzione, requirente o giudicante, che viene a svolgere dal giorno della sua immissione in possesso al giorno del suo collocamento a riposo». Motivo per cui, «se si aderisse alla prospettazione della difesa si arriverebbe all’assurdo di non poter assicurare alcun giudice “imparziale” a questo processo, perché anche il giudice non iscritto all’Associazione nazionale magistrati avrebbe o potrebbe avere un interesse in conflitto con l’imputato e convergente (per “simpatia” e/ o “comune sentire”) con la costituenda parte civile Associazione nazionale magistrati».
Insussistente, secondo la procura generale, anche il rischio di «sudditanza» dele giudici nei confronti del sindacato delle toghe: il rischio di poter incorrere in un procedimento disciplinare sarebbe un ulteriore «falso problema», perché in quel caso il magistrato, «tradito» dall’Associazione di cui fa parte – e che pretenderebbe un comportamento di parte – potrebbe stracciare la propria iscrizione. Cugini esclude anche un possibile «interesse economico» comune, dato che nello Statuto «non è detto che il patrimonio dell’associazione è costituito da quanto questa eventualmente possa ricavare da un’azione giudiziaria di tipo risarcitorio».
Ragioni che non trovano d’accordo la difesa di Palamara, che «vuole essere giudicato, ma nel rispetto delle regole nazionali e sovranazionali», hanno sottolineato gli avvocati Benedetto Marzocchi Buratti e Roberto Rampioni. L’ex presidente dell’Anm «non ha mai chiesto di non essere giudicato – hanno aggiunto i legali -, tanto che è in corso nei suoi confronti un processo a Perugia già in fase avanzata di istruttoria. Il tema sulla terzietà del giudice lo ha creato l’Anm, che ha chiesto di costituirsi parte civile in un processo dove due membri del collegio sono iscritti alla medesima associazione. La sensibilità di questi ultimi magistrati ha permesso a questa difesa di porre il tema sulla terzietà del giudice, che deve essere non solo sostanziale ma anche apparire come tale. Temi peraltro già posti in numerose occasioni al vaglio della Cedu che ha condannato numerosi stati membri proprio per il difetto di terzietà».
Processo Palamara, parla Ielo: «Non scippai alcun fascicolo a Fava». Il pm di Roma, costituitosi parte civile contro l'ex presidente dell'Anm e dell'ex collega capitolino, in udienza ha dato la sua versione dei fatti. «Indagare non significa arrestare, mai posto ostacoli a nessuno». Il Dubbio il 14 marzo 2022.
«Mi sono risentito del fatto che tutta una serie di organi di stampa riportavano di uno ’scippò del procedimento a Fava. Non si è scippato niente a nessuno». Così il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, sentito nei giorni scorsi nel corso del procedimento che vede imputati l’ex magistrato Luca Palamara e l’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava nel processo nato dal filone di inchiesta della procura di Perugia sulle rivelazioni. Ielo, assistito dall’avvocato Filippo Dinacci, nel procedimento è costituto parte civile nei confronti di Fava, ora giudice civile a Perugia.
«Indagare non significa arrestare, indagare vuole dire fare indagini. E nessuno ha posto ostacoli a Fava», ha detto Ielo rispondendo nel corso del controesame alle domande dei difensori di Fava, gli avvocati Luigi Castaldi e Luigi Panella. «Quello che vedevo in lui era uno che voleva spingere, che lavorava e questo mi piaceva ma cercavo di evitare che commettesse “orrori” giuridici», ha spiegato. «Da quando faccio il magistrato mi occupo di pubblica amministrazione. Mentre chi si occupa di criminalità organizzata corre rischi fisici, si ritrova sotto scorta, chi si occupa del mio settore corre rischi reputazionali – ha detto Ielo che a Roma coordina il pool che si occupa dei reati contro la pubblica amministrazione – Se non mi fossi astenuto su Condotte ed Eni, se non ci fosse stato quel trojan, cosa sarebbe successo? Probabilmente ora mi ritroverei davanti alla procura di Perugia, al Csm, a difendermi. Ho subito attacchi da fuori e sono sempre stati respinti, ma ’il dannò da dentro non me lo aspettavo, da quello non ero protetto».
Parla il segretario generale di Magistratura indipendente. Intervista a Angelo Piraino: “Palamara non è una mela marcia, è marcio tutto il paniere”. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Febbraio 2022.
«Quando finì l’apartheid in Sudafrica venne istituita la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, poi presieduta dall’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, recentemente scomparso. Allora si ritenne che conoscere la verità, senza ricorrere alla vendetta, fosse l’unico modo per sanare le tante ferite che erano rimaste aperte dopo anni di segregazione razziale e per comprendere come poter evitare di commettere gli stessi errori nel futuro. Il paragone potrebbe apparire improprio, ma il problema nella magistratura è che abbiamo vissuto per tanti anni in un contesto deviato, e il tema della degenerazione delle correnti non può essere affrontato solo dando sanzioni disciplinari. Occorre una seria riflessione sulle cause e i motivi che hanno portato a questa situazione, non è un problema di poche mele marce, qui è il paniere che si è sfaldato». A dirlo è Angelo Piraino, consigliere della Corte d’appello di Palermo e segretario generale di Magistratura indipendente.
Consigliere, percepisce un clima da resa dei conti?
No, ma percepisco la tendenza a ridurre il problema alla individuazione di alcuni responsabili, quelli colti a chattare con Luca Palamara, senza veramente soffermarsi sulle cause di certi comportamenti, che non erano limitati a pochi, ma che erano estremamente diffusi.
Serve il sorteggio?
Il sorteggio non è la soluzione, così come è uno sbaglio pensare che un nuovo sistema elettorale possa risolvere magicamente il problema. Le correnti sono un dato di realtà: le persone trovano naturale ritrovarsi attorno a delle idee comuni, e non mi piacerebbe una magistratura composta da tanti individualisti, che smette di riflettere su sé stessa. Il problema è che le correnti sono diventate dei centri di potere, dei luoghi in cui, invece di ritrovarsi per pensare e discutere, ci si organizza per gestire competizioni elettorali o distribuire incarichi.
Quale riforma è maggiormente necessaria?
Tutti gli episodi di malcostume che abbiamo visto hanno un comune denominatore: l’ansia degli interessati di avere o mantenere un incarico direttivo. L’articolo 107 della Costituzione stabilisce che i magistrati si distinguono tra loro solo per le funzioni, vuol dire che il concetto di carriera dovrebbe essere estraneo all’organizzazione della magistratura. Il capo di un ufficio dovrebbe essere un primus inter pares, un collega investito di responsabilità organizzative nell’interesse di tutti e a servizio di tutti. Ma non è così: si sono concentrati sempre più poteri in capo ai dirigenti degli uffici, in nome del perseguimento dell’efficienza, e si è creata così una divisione tra la magistratura alta e quella bassa, tra ufficiali e soldati. Si è partiti dalle Procure, con la riforma Castelli che ha concentrato nelle mani del procuratore capo tutte le scelte sull’esercizio dell’azione penale e ha allentato le regole che tutelavano i singoli sostituti, abolendo il cosiddetto sistema tabellare, e ora questo c’è il concreto rischio che questo accentramento venga esteso agli uffici giudicanti.
Si spieghi meglio.
Il problema è la deriva produttivistica: I dirigenti degli uffici che vogliono avere altri incarichi più prestigiosi devono dimostrare di avere aumentato la produttività e questo li porta a fare pressioni a catena sui magistrati che lavorano in quegli uffici. Si guarda sempre più alla quantità del lavoro giudiziario, ad accorciare i tempi della giustizia, ma si rischia seriamente di compromettere la qualità di quel lavoro, che è la bontà delle decisioni che vengono prese sulla pelle dei cittadini che incappano nella giustizia. Il prodotto dell’attività del giudice è la decisione, e le decisioni affrettate non sono quasi mai delle buone decisioni. Fino ad oggi il capo dell’ufficio giudiziario, nel fissare i suoi obiettivi doveva tenere conto del cosiddetto carico esigibile, ossia di quel limite oltre il quale il lavoro del giudice rischia di scadere di qualità, che dovrebbe essere individuato dal Consiglio superiore della magistratura. Il gruppo di Magistratura indipendente da sempre ha chiesto che il Csm individuasse un limite uguale per tutti i magistrati, un parametro di riferimento unico valido su tutto il territorio nazionale, ma il Csm ha sempre tergiversato, scaricando questo compito sui capi degli uffici. La riforma varata dal Consiglio dei ministri di fatto abolisce questo limite, attribuisce al capo dell’ufficio il potere insindacabile di stabilire quanto i magistrati del suo ufficio devono produrre e prevede sanzioni, sia sul campo della progressione in carriera che sul campo disciplinare, per i magistrati che non rispettano gli obiettivi che sono stati loro assegnati.
È fattibile stabilire a priori dei carichi di lavoro?
Questi carichi di lavoro già esistono per i magistrati amministrativi, e ci sono varie ipotesi di lavoro che consentono di giungere ad individuare il livello, superato il quale il lavoro del giudice lo espone a compiere maggiori errori. Questi limiti sono già previsti in altri ordinamenti, come quello tedesco, e non hanno lo scopo di far lavorare meno i giudici, ma di garantire ai cittadini che le decisioni che li riguardano siano il frutto di una adeguata riflessione.
Il presidente emerito della Cassazione Giovanni Canzio, a proposito che il 99,7 per cento dei magistrati avesse, con le attuali regole, una valutazione positiva, diede un giudizio molto severo, affermando che il dato non corrispondeva alla realtà. Ci sarà pure un modo per valutare le professionalità delle toghe?
Su questo argomento il campo va sgombrato da un fondamentale equivoco: le valutazioni di professionalità non sono promozioni, sono delle verifiche periodiche obbligatorie, e non facoltative, dalle quali dipende non la progressione in carriera del magistrato, ma la possibilità stessa di continuare a svolgere il suo lavoro, giacché due valutazioni negative consecutive comportano il licenziamento. Nessun impiegato pubblico è soggetto a simili verifiche, dalle quali dipende addirittura il fatto se possa o meno continuare a fare il suo lavoro.
Fra i magistrati c’è contrarietà alla presenza degli avvocati nei Consigli giudiziari con diritto di voto. Dicono perché l’avvocato continua ad esercitare la sua professione. Si potrebbe obiettare, allora, che lo stesso fanno i magistrati che non sono messi fuori ruolo come quelli al Csm. E che i pm, come l’avvocato parte del processo, già oggi si pronunciano sui giudici.
L’attuale normativa già consente agli avvocati di formulare segnalazioni sul singolo magistrato in valutazione, e dunque di fornire informazioni utili per la valutazione stessa, e in molti regolamenti dei consigli giudiziari è riconosciuto agli avvocati il diritto di tribuna, che garantisce pubblicità e trasparenza dei lavori. Riconoscere agli avvocati il voto sulle valutazioni dei magistrati determinerebbe il forte rischio di interferenze con l’esercizio indipendente della funzione giudiziaria, prevedendo che ogni magistrato debba essere sottoposto a un parere di gradimento da parte di rappresentanti privati delle parti processuali. I pubblici ministeri sono magistrati, hanno il dovere di fare indagini anche a favore dell’indagato, e soprattutto la loro retribuzione non dipende dal fatto se vincono o perdono le loro cause. Per gli avvocati è diverso: sono liberi professionisti, il loro compenso e la loro reputazione presso i clienti dipende dall’esito delle cause. Gli avvocati che compongono i consigli giudiziari, a differenza dei componenti laici del Csm., non vengono posti in aspettativa, e sarebbero, dunque, chiamati a dare delle valutazioni di professionalità sugli stessi magistrati dinanzi ai quali patrocinano le loro cause, con una commistione evidente e pericolosa dei rispettivi ruoli, in ambiti territoriali ben più piccoli di quello nazionale. Con quale animo quei magistrati dovranno giudicare quelle cause, sapendo che il difensore che hanno davanti, o il suo collega di studio, dovrà esprimere un voto dal quale dipende la possibilità di continuare a svolgere il suo lavoro? Questa situazione è destinata a peggiorare ulteriormente, laddove venga modificato il sistema di valutazione di professionalità con l’introduzione di improbabili “pagelle” (discreto, buono o ottimo) per valutare le capacità organizzative dei magistrati, cosa che incrementerà la corsa alla carriera e al clientelismo correntizio.
Prima di concludere, vuole aggiungere qualcosa?
Dalle prossime riforme dipende l’indipendenza della magistratura, che non è un privilegio, ma una garanzia per tutti. Ogni cittadino ha il diritto a che il suo processo si svolga davanti a un magistrato che non sia soggetto a pressioni o condizionamenti, sia esterni che interni. Vogliamo una riforma dell’ordinamento giudiziario che elimini le carriere e ribadisca che i magistrati si distinguono tra loro solo per le funzioni e che ampli le occasioni istituzionali di confronto e dialogo tra l’avvocatura e la magistratura, ma siamo fermamente contrari a riforme controproducenti che incidono sull’autonomia dei magistrati. Abbiamo bisogno di buon senso e di scelte condivise, e non di nuovi ambiti di potenziali conflittualità all’interno della magistratura o tra la magistratura e l’avvocatura. Paolo Comi
Palamara, le giudici ammettono: «Sì, siamo iscritte all’Anm». Collegio a rischio ricusazione: il sindacato delle toghe ha infatti chiesto di costituirsi parte civile per danno di immagine nel processo per corruzione in corso a Perugia. Simona Musco su Il Dubbio il 04 febbraio 2022.
Le giudici del processo a Luca Palamara ammettono: «Siamo iscritte all’Anm». E, dunque, potenzialmente parte in causa nel procedimento di cui dovrebbero decidere. Dopo il no dell’Associazione nazionale magistrati alla richiesta dei difensori dell’ex consigliere del Csm di consegnare l’elenco degli iscritti, con lo scopo di verificare se i giudici che andranno a giudicarlo nel processo che lo vede imputato a Perugia per corruzione siano o meno soci dell’Associazione e, dunque, potenzialmente portatori di interessi nello stesso processo, sono i componenti dello stesso collegio a rompere il silenzio, rispondendo alla nota inviata il 20 gennaio scorso dai legali di Palamara, Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti.
Nota dalla quale si evince che erano stati le stesse giudici ad autorizzare l’Associazione guidata da Giuseppe Santalucia a segnalare la loro iscrizione, facendo cadere, dunque, qualsiasi questione legata alla privacy. «La sottoscritta dottoressa Carla Maria Giangamboni, quale presidente del I Collegio penale, davanti al quale pende il procedimento di cui all’epigrafe – si legge nella risposta inviata ai due legali -, letto quanto segnalato dalla difesa del dottor Palamara, rileva di aver già autorizzato per iscritto l’Anm a comunicare i dati richiesti ai fini difensivi, con riferimento agli attuali componenti del collegio giudicante. In ogni caso, per quanto di occorrenza, conferma — unitamente alla collega dottoressa Serena Ciliberto (che sottoscrive per adesione) — di essere iscritta, alla data del 15 novembre 2021 e ad oggi, all’Associazione nazionale magistrati». Confermata, dunque, la posizione ambivalente dei giudici, che si ritrovano ad occupare, contemporaneamente, il doppio ruolo di giudice e potenziale parte civile, data la richiesta del sindacato delle toghe di partecipare al processo al fine di vedersi riconosciuto il danno d’immagine. E ciò potrebbe rappresentare il preludio di una ricusazione dei giudici, con un ulteriore slittamento del processo.
L’Anm, di cui Palamara è stato presidente, all’udienza del 15 novembre scorso, aveva formulato dichiarazione di costituzione di parte civile data la «diretta ed immediata causalità fra le condotte tenute dall’imputato, così come descritte nell’imputazione, e il danno materiale e morale dalle stesse causato all’Associazione»; condotte che si pongono «in assoluto contrasto con i principi che governano l’agire del magistrato» e che «si riverberano direttamente in modo negativo e sono fonte diretta di danno in relazione al prestigio, all’indipendenza e al rispetto, estremi caratteristici della funzione giudiziaria quale oggetto di tutela da parte dell’Anm». Da qui l’istanza dei due legali, che hanno evidenziato la necessità che l’imparzialità, la terzietà e l’indipendenza dei giudici sia non solo sostanziale, ma anche apparente, «alla luce della giurisprudenza della Corte Edu». Apparenza che verrebbe meno nel momento in cui chi giudica appartiene anche ad un corpo più ampio che chiede di essere risarcito.
Di fronte alle richieste della difesa, l’Anm ha però sempre risposto negativamente, opponendo ragioni formali: «La richiesta eccede il fine a cui risponde», aveva replicato nella sua ultima missiva il presidente Santalucia. Non per ragioni di «segretezza», dunque, ma in quanto «nei termini in cui è articolata», la richiesta «sembra non tener conto dei criteri di proporzionalità e necessità rispetto alla finalità perseguita, a cui ogni trattamento di dati personali deve uniformarsi». Una resistenza «inspiegabile» agli occhi dei difensori, che hanno infine deciso di rivolgersi direttamente al Tribunale, chiedendo di «acquisire l’elenco nominativo degli iscritti all’Associazione nazionale magistrati, alla data del 15 novembre 2021, al fine di consentire l’esercizio del diritto di difesa in ordine al pieno accertamento della imparzialità, indipendenza e terzietà – anche solo apparente – del giudice competente a decidere».
La questione, nelle scorse settimane, aveva anche contribuito a creare tensioni all’interno della stessa Anm, quando una mail che sarebbe dovuta rimanere interna al circuito di posta degli iscritti, a firma di Andrea Reale, componente della corrente “Articolo 101”, ha evidenziato la lesione del diritto di difesa di Palamara. Ma non solo: Reale ha anche sottolineato come nel corso del Comitato direttivo centrale di inizio novembre fosse stato lo stesso presidente Santalucia a paventare il «rischio di ricusazione dei magistrati» del processo a Luca Palamara. Come si evince dal verbale di quella seduta, Santalucia riferì «delle preoccupazioni avanzate dal difensore dell’Anm circa le problematiche di natura processuale legate al mantenimento della costituzione di parte civile, che potrebbero essere superate qualora l’associazione agisse esclusivamente in sede civile».
Il Comitato, alla fine, votò compatto per rimanere parte del processo penale. Ma Reale, nella sua mail, denunciò la mancanza di trasparenza all’interno dell’Anm, nonché una certa ipocrisia: «Ma davvero il diritto di difesa ex art. 24 Cost. è stato ritenuto recessivo rispetto alle esigenze di proporzionalità e necessità del trattamento dei dati dei magistrati (funzionari pubblici per eccellenza) iscritti all’Anm? – si chiedeva Reale – Ma davvero dobbiamo ancora ricoprirci di ridicolo, provando ad agghindare la casa di vetro con cartoni alle finestre?».
Luca Palamara: «La mia estraneità emerge dalla lista testi del pm». Il Dubbio il 20 gennaio 2022.
Luca Palamara ha reso dichiarazioni spontanee nel processo di primo grado in corso di svolgimento a Perugia. «Ecco cosa mi sarei aspettato dal pm».
Si è aperto oggi al tribunale di Perugia il processo che vede coinvolti l’ex consigliere del Csm Luca Palamara, difeso dagli avvocati Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, e l’ex magistrato Stefano Rocco Fava, accusati di rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio. Presenti in aula entrambi gli imputati.
In apertura, la difesa di Fava, rappresentato da Luigi Castaldi e Luigi Panella, ha sollevato questioni di inammissibilità ed estromissione per la costituzione come parti civili del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo e dell’associazione Cittadinanzattiva, chiedendone l’estromissione. Ad avviso di Castaldi, a proposito di Cittadinanzattiva, mancherebbe «l’essenzialità nel perseguimento dello scopo». Per quello che riguarda Ielo, ha dichiarato Castaldi, «non si ravvisano i presupposti affinché sia riconosciuto come persona offesa relativamente alle ipotesi di accusa formulate».
Alle richieste si sono opposti i rappresentanti di Ielo e di Cittadinanzattiva, rispettivamente gli avvocati Filippo Dinacci e Sara Pievaioli, a cui si sono aggiunti i rappresentanti della procura. Sulla richiesta di estromissione di Ielo e Cittadinanzattiva come parti civili, vista la necessità di analizzare gli aspetti sollevati, la coorte si pronuncerà in occasione della prossima udienza, fissata al 2 febbraio.
Luca Palamara, dichiarazioni spontanee a Perugia
«Affronterò questo processo con il massimo rispetto, però ci tengo a dichiarare in apertura del dibattimento la mia totale estraneità ai fatti che mi vengono contestati, rafforzata dal deposito della lista testi dell’ufficio di Procura, nel quale non rinvengo un test che dovrebbe riferire sul conto della mia persona per fatti e vicende che non mi riguardano, come emerge dai fatti. Questo ci tengo a dirlo in apertura, perché penso di dover rispondere dei comportamenti che mi vengono contestati, ma di quelli che ho fatto e non di quelli che non ho fatto» ha detto l’ex consigliere del Csm Luca Palamara, rilasciando una dichiarazione spontanea durante la prima udienza del processo.
Sulla richiesta di estromissione dell’associazione Cittadinanzattiva e del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo come parti civili, Palamara ha dichiarato: «Aggiungo una valutazione alla luce delle eccezioni sollevate rispetto alle quali la mia difesa non ha detto una parola. Io penso che nella lealtà processuale che dovrebbe contraddistinguere tutte le parti, mi sarei aspettato un riferimento all’impegno che l’Anm, da me presieduta, aveva avuto nel coinvolgere Cittadinanzattiva nelle iniziative a sostegno della legalità».
Nordio: «Processo a Palamara? Bagno di sangue per la magistratura». Il Dubbio il 16 gennaio 2022. Carlo Nordio ritiene che la magistratura italiana toccherà il fondo quando sarà chiamata a testimoniare nel processo contro Luca Palamara.
L’ex procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, è tornato a parlare della grave crisi identitaria della magistratura italiana. Lo ha fatto dalle colonne di “Libero“, in un’intervista rilasciata al giornalista Pietro Senaldi, condirettore del giornale oggi diretto da Alessandro Sallusti, autore del libro “Il Sistema” di Luca Palamara. «Come se ne esce da questa situazione? Con il prossimo Parlamento, ma soprattutto con il referendum di Radicali e Lega sulla giustizia, se avrà un esito chiaro, come espressione di una volontà radicalmente riformatrice del popolo. Anche se alcuni quesiti sono formulati in modo discutibile, ciò che conta è il messaggio ideale complessivo» afferma Nordio, nominato di recente consulente della commissione d’inchiesta che indaga sulla morte di David Rossi, ex capo comunicazione del Monte Paschi di Siena.
Per quanto riguarda le “manette facili”, il magistrato ora in pensione, propone una nuova soluzione. «Servirebbe sin d’ora un provvedimento che devolvesse la competenza della custodia cautelare non a un solo giudice preliminare bensì a un organo collegiale, distante anche topograficamente dal pubblico ministero che la richiede. Tipo una “chambre d’accusation” presso la Corte d’Appello». Nordio, inoltre, parla anche della recente sentenza del Consiglio di Stato. «L’ultimo colpo alla credibilità dell’organo è stata la recente bocciatura da parte del Consiglio di Stato delle nomine apicali della Cassazione. E non so nemmeno se abbiamo toccato il fondo». Si riferisce alle nomine di Pietro Curzio e Margherita Cassano.
Nella chiacchierata con “Libero“, non si poteva non toccare l’argomento Palamara. E sul punto Nordio ha le idee molto chiare. «Il fondo sarà toccato quando Palamara farà sfilare al suo processo le decine di colleghi che hanno contrattato con lui le cariche, e che il Csm non ha voluto sentire mettendo il coperchio sulla pentola che bolliva. Come ha preannunciato lo stesso Palamara a una conferenza, potrebbe essere un bagno di sangue».
Parlando del Csm, Nordio ritiene che l’unico modo per fermare la deriva delle correnti sia quello di scegliere il sorteggio. Infine, una battuta sulla politica interna all’Associazione nazionale Magistrati. «La maggioranza non è affatto di sinistra, e anche quelli che lo sono agiscono in autonomia. Il pericolo non sta nelle idee politiche dei magistrati, ma nell’esasperato protagonismo e nell’arroganza di alcuni di loro». E su Berlusconi dice: «Non c’è assolutamente nessun ostacolo giuridico all’eventuale elezione di Berlusconi», quale nuovo presidente della Repubblica.
(ANSA il 15 gennaio 2022) - "La sezione disciplinare che ha rimosso il dott. Palamara non è stato un giudice terzo ed imparziale. Per queste ragioni i legali del dott. Palamara annunciano di aver depositato un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell'uomo.
Nel ricorso - presentato dai legali Tedeschini, Rampioni, Buratti e Palla - si lamenta la violazione dell'articolo 6 della Cedu nella misura in cui non è stato garantito il diritto ad un equo processo, in termini di terzietà ed imparzialità". Lo rendono noto i legali dell'ex magistrato rimosso dall'ordine giudiziario dopo lo scandalo delle nomine 'pilotate'.
Palamara deposita ricorso alla CEDU-Corte Europea Diritti dell’Uomo contro la propria rimozione dalla magistratura. Il Corriere del Giorno il 15 Gennaio 2022.
Annunciata una prossima conferenza stampa, in cui verranno spiegati i dettagli del ricorso anche alla luce dell’annullamento del Consiglio di Stato della nomina del presidente aggiunto della Cassazione dottoressa Cassano che ha presieduto il collegio delle sezioni unite che aveva confermato la decisione del Csm di rimozione di Palamara dalla magistratura.
“La sezione disciplinare che ha rimosso il dott. Palamara non è stato un giudice terzo ed imparziale”. Per queste ragioni il professor Federico Tedeschini, il professor Roberto Rampioni, l’avvocato Benedetto Buratti e l’avvocato Ludovica Palla, componenti del collegio difensivo del dott. Luca Palamara hanno annunciato di aver depositato un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo contestando “la violazione dei principi di imparzialità della sezione disciplinare del Csm che ha giudicato nonostante il dottor PierCamillo Davigo non potesse comporre quel collegio e nonostante l’esistenza di giudizi negativi già espressi sulla vicenda dell’Hotel Champagne”.
Nel ricorso si lamenta la violazione dell’articolo 6 della Cedu nella misura in cui “non è stato garantito il diritto dell’odierno ricorrente ad un equo processo, in termini di terzietà ed imparzialità, attesa la mancata astensione e la non disposta ricusazione del dottor Davigo che ha ricoperto il ruolo di Giudice disciplinare pur avendo avuto conoscenza dei fatti oggetto di incolpazione al di fuori del procedimento disciplinare”. Lo rendono noto i legali dell’ex magistrato rimosso dall’ordine giudiziario dopo lo scandalo delle nomine ‘pilotate’.
Altresì “è stato impedito al dottor Palamara il suo diritto di difesa negando l’ammissione di prove decisive per dimostrare la sua innocenza”, spiegano i legali. Annunciata una prossima conferenza stampa, in cui verranno spiegati i dettagli del ricorso anche alla luce dell’annullamento del Consiglio di Stato della nomina del presidente aggiunto della Cassazione dottoressa Margherita Cassano la quale aveva presieduto il collegio delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che ha confermato la decisione del Csm di rimozione di Palamara dalla magistratura.
(ANSA il 14 gennaio 2022) - Ci sono anche i nomi dell'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, dell'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, di Luca Lotti e di Cosimo Ferri tra quelli, 24 in tutto, che la Procura di Perugia guidata da Raffaele Cantone, intende chiamare a testimoniare in aula nell'ambito del processo che vede imputati l'ex magistrato romano Stefano Rocco Fava e l'ex consigliere del Csm, Luca Palamara per rivelazione di segreto d'ufficio.
Rinviati a giudizio nell'ottobre scorso il processo nei loro confronti davanti al terzo collegio del Tribunale di Perugia comincerà il 19 gennaio. A citare Pignatone come testimone è anche la difesa di Fava, rappresentata dall'avvocato Luigi Castaldi. Mentre i nomi di Lotti e Ferri compaiono in tutte le liste testi depositate da accusa e difesa. Tra i testimoni citati da Luca Palamara, difeso dagli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Buratti ci sono magistrati in servizio alla procura di Roma e a quella di Napoli, lo stesso Davigo e il consigliere del Csm Sebastiano Ardita.
Mentre la Procura del capoluogo umbro vuole chiamare in aula anche l'imprenditore Fabrizio Centofanti e l'avvocato siciliano Piero Amara come fa anche la difesa di Stefano Rocco Fava. Parte civile nei confronti di questo ultimo il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo, che ha depositato una lista testi composta da 13 nomi.
LA CAMERA HA DECISO. Le intercettazioni di Ferri sono inutilizzabili, sconfitto il Csm. GIULIA MERLO su Il Domani il 13 gennaio 2022.
La Camera ha approvato con 227 voti a favore e 86 contrari (M5S e Alternativa) la decisione della Giunta, che ha negato l’utilizzo delle intercettazioni del caso Palamara per il procedimento disciplinare dell’ex magistrato e oggi parlamentare Cosimo Ferri
La Camera ha negato l’autorizzazione a utilizzare le intercettazioni del cellulare di Luca Palamara nel procedimento disciplinare contro il deputato Cosimo Ferri.
Si è concluso così il braccio di ferro tra il Consiglio superiore della magistratura e Montecitorio: le conversazioni tra Palamara e Ferri e quelle ambientali, captate grazie al trojan, sono state acquisite «illegittimamente». Per questo sono inutilizzabili nel disciplinare a carico del magistrato in aspettativa.
Così si era concluso l’esame in Giunta per le autorizzazioni e così ha votato l’aula, con 227 voti a favore e 86 contrari, solo di Movimento 5 Stelle e Alternativa.
LA VICENDA
Il tema su cui la Camera è stata chiamata ad esprimersi è se le intercettazioni in cui si sente anche la voce di Ferri siano state acquisite in modo casuale dalla polizia giudiziaria e quindi siano utilizzabili, oppure no.
Nel caso in cui gli inquirenti sono a conoscenza che le captazioni riguardano un parlamentare, infatti, sono tenuti a sospenderle per chiedere il consenso alla camera di appartenenza.
Nel caso di Ferri, è stato valutato che chi era all’ascolto fosse al corrente che il parlamentare sarebbe stato presente al dopocena dell’hotel Champagne e che dunque, se il trojan fosse stato attivato, lui sarebbe finito nella rete delle captazioni.
LA VITTORIA DI FERRI
La decisione della Camera produce una serie di effetti, favorevoli per Ferri e sfavorevoli per il Csm.
L’ex magistrato e capocorrente di Magistratura indipendente, Cosimo Ferri, sarà comunque sottoponibile al procedimento disciplinare. Tuttavia, contro di lui di fatto crolla buona parte dell’impianto accusatorio, che si basava tutto sulle intercettazioni del trojan nel cellulare di Palamara. Le stesse su cui si è basata la radiazione dello stesso Palamara dall’ordine giudiziario.
Le incolpazioni di Ferri sono molto simili a quelle di Palamara, ma senza la prova regina delle intercettazioni sostenere l’accusa sarà quasi impossibile. L’accusa, infatti, riguarda il tentativo di pilotare la nomina del procuratore capo di Roma attraverso accordi tra correnti presi proprio durante il dopocena intercettato.
Per Palamara, la procura generale di Cassazione aveva dichiarato che senza le intercettazioni il caso di fatto non sarebbe esistito. Contro di lui, però, le intercettazioni erano pienamente utilizzabili.
Ferri invece è coperto dalle guarentigie parlamentari che lo rendono non intercettabile in costanza di mandato, senza previa autorizzazione della camera di appartenenza.
Di fatto non ci sono differenze nella posizione dei due: la questione è solo di diritto e non di fatto, visto che gli elementi della condotta di entrambi sono registrati.
In questo modo, quindi Ferri con tutta probabilità conserverà il suo ruolo di magistrato in aspettativa e potrà rientrare in servizio una volta concluso il mandato parlamentare.
LE CONSEGUENZE AL CSM
La decisione della Camera mette la commissione disciplinare del Csm davanti al bivio: proseguire con il procedimento oppure archiviarlo per mancanza dell’impianto probatorio.
In tutti i casi, la vicenda apre una serie di interrogativi sulla gestione dell’intero caso Palamara e lo svolgimento delle intercettazioni. La decisione della Camera su Ferri, infatti, può tornare utile come elemento anche allo stesso Palamara, che ha presentato ricorso alla Cedu contro la sua radiazione dalla magistratura.
Inoltre, dal punto di vista interno, emergono ulteriori zone grige sia nello svolgimento delle indagini che nei procedimenti disciplinari che sono seguiti.
Con quali conseguenze concrete è difficile prevederlo, di certo questo è l’ennesimo punto di scontro tra potere giudiziario, convinto della correttezza delle intercettazioni, e potere politico che invece ne ha negato l’utilizzo.
LE RAGIONI DEL NO
Pietro Pittalis, deputato di Forza Italia che era relatore del procedimento in Giunta, ha spiegato così la decisione presa, sottolineando che si è “basata esclusivamente su valutazioni di tipo tecnico e giuridico, senza entrare in alcun modo nel merito politico”.
Quello che è emerso dall’indagine della Giunta è che Ferri, pur non formalmente indagato, “risultava oggetto di indagine e di attenzione da parte degli investigatori: ogni attività che lo riguardasse avrebbe quindi dovuto essere autorizzata dalla Camera di appartenenza”. Cosa che non è avvenuta, nonostante il nome di Ferri compaia 341 volte nelle varie richieste di proroga delle intercettazioni telefoniche.
Inoltre, è emerso che la polizia giudiziaria aveva identificato Ferri come interlocutore di Palamara ed era al corrente, dalle telefonate ascoltate, che sarebbe stato presente all’hotel Champagne.
Tutte ragioni che hanno indotto la Camera a negare l'autorizzazione.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
«Nessuna casualità: Ferri fu intercettato indirettamente». La decisione della Camera sulle intercettazioni all'Hotel Champagne avvalora la tesi del deputato renziano, che nel 2019 aveva presentato un esposto alla procura di Roma per abuso d'ufficio. Simona Musco su Il Dubbio il 14 gennaio 2022.
«Dai suddetti atti investigativi appare evidente che la direzione degli atti di indagine fosse volta in concreto ad accedere anche nella sfera delle comunicazioni del parlamentare Ferri». Il passaggio chiave della relazione con la quale il deputato forzista Pietro Pittalis ha chiesto e ottenuto di negare al Csm la possibilità di utilizzare le intercettazioni a carico di Cosimo Maria Ferri nel procedimento disciplinare a suo carico è esattamente questo.
Un passaggio con il quale viene rispedita a Palazzo dei Marescialli l’ipotesi che le intercettazioni che hanno coinvolto il deputato di Italia Viva e magistrato in aspettativa – tra i partecipanti alla cena all’Hotel Champagne con Luca Palamara durante la quale si discusse del futuro della procura di Roma – fossero casuali. Si sarebbe trattato, invece, di intercettazioni indirette, finalizzate – sostiene oggi la Camera – ad ascoltare anche quel parlamentare, nel quale gli inquirenti potevano prevedere di imbattersi, con l’obbligo, dunque, di spegnere il trojan. Un obbligo che pure era stato ricordato dal pm titolare dell’indagine a carico di Palamara, con una nota del 10 maggio 2019, ovvero il giorno successivo alla famosa cena, ma che non è stato rispettato, tanto che il nome di Ferri compare 341 volte nelle varie richieste di proroga delle intercettazioni telefoniche, delle quali 107 in una sola richiesta antecedente il 9 maggio 2019.
La decisione della Camera, di cui il Dubbio ha dato ampio resoconto sull’edizione di ieri, avvalora dunque la denuncia presentata alla procura di Roma dal deputato renziano a novembre del 2019, con la quale lamentava la violazione dell’articolo 4 della legge 140 del 2003, legge che rappresenta l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione da parte del legislatore ordinario. «A nostro giudizio e a giudizio della Cassazione (49538/2016, richiamata dalla Corte costituzionale 38/2019) – spiega al Dubbio Luigi Antonio Paolo Panella, legale di Ferri – , la violazione dell’articolo 4 della legge 140/2003 costituisce elemento oggettivo dell’abuso di ufficio, come a suo tempo denunciato dall’onorevole Ferri».
Sull’esposto presentato dal parlamentare si è ancora in attesa della decisione del gip: il pm, infatti, aveva chiesto l’archiviazione, sostenendo – così come il Csm – che si trattasse di intercettazioni casuali, per le quali dunque era solo necessario chiedere l’autorizzazione successiva alla Camera di appartenenza, sulla base dell’articolo 6 della stessa legge. A maggio la difesa si è opposta alla richiesta di archiviazione, evidenziando tra le altre cose come tra le conversazioni preparatorie alla riunione all’Hotel Champagne ce ne fosse certamente almeno una – quella del 7 maggio – che era stata ascoltata l’8 maggio alle 18.42, rendendo dunque prevedibile la partecipazione di Ferri alla cena alla quale presero parte Palamara, l’ex ministro Luca Lotti e altri cinque consiglieri del Csm. Ora si attende la decisione del giudice, che però non potrà tenere conto della decisione della Camera, all’epoca ancora non coinvolta nel procedimento. Ciò che è evidente, però, è che Montecitorio ha evidenziato la non casualità di quelle captazioni, sostenendo la natura indiretta delle stesse.
La vicenda Ferri riporta alla mente quella che ha coinvolto l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, intercettato nell’ambito dell’indagine sulla presunta trattativa Stato-mafia: la Consulta stabilì allora che la procura, una volta avute le intercettazioni che coinvolgevano fortuitamente il Capo dello Stato, registrato al telefono con l’ex ministro Mancino, avrebbe dovuto chiederne al giudice la distruzione, a prescindere dal contenuto di quei colloqui, in quanto il codice di procedura penale non può condizionare la tutela delle prerogative costituzionali. Nel caso in cui le conversazioni che riguardano Ferri fossero dunque considerate illecite, le intercettazioni non potrebbero essere utilizzate in nessun caso.
Il Csm o la procura generale della Cassazione, ora, potrebbe sollevare il conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale, assumendo una menomazione delle proprie prerogative di organo titolare dell’azione disciplinare. Una decisione che garantirebbe una valutazione in diritto e che però potrebbe rappresentare la pietra tombale sul procedimento disciplinare, portato avanti da un Consiglio ormai in scadenza. La prossima udienza è fissata il 27 gennaio, giorno in cui si discuterà della richiesta di ricusazione avanzata da Ferri nei confronti di Giuseppe Cascini, esponente di punta della sinistra giudiziaria da sempre contrapposta alla corrente di Magistratura indipendente, della quale Ferri ha fatto parte.
La decisione della Camera, inoltre, potrebbe rappresentare un assist in chiave disciplinare anche per gli ex consiglieri del Csm presenti alla cena all’Hotel Champagne sospesi dalla magistratura proprio sulla base di quella registrazione, il cui ricorso è pendente in Cassazione. Palamara, invece, potrebbe presentare richiesta di revisione della sentenza, con la speranza, dunque, di poter ribaltare la propria radiazione dall’ordine giudiziario, già passata in giudicato.
«Per la prima volta, seppur non a livello giurisdizionale, questa decisione rappresenta il riconoscimento di una tesi che la difesa del dottor Palamara ha sempre sostenuto, soprattutto in sede disciplinare», ha sottolineato il consigliere della Cassazione Stefano Guizzi, difensore di Palamara nel solo procedimento disciplinare davanti al Csm. L’ex capo dell’Anm, inoltre, potrebbe utilizzare la decisione della Camera anche a Perugia, dove a marzo inizierà il processo che lo vede imputato per corruzione, per riproporre tutte le eccezioni già discusse in udienza preliminare sull’utilizzo del trojan e sul suo funzionamento «ad intermittenza».
La guerra tra toghe. Le chat smentiscono Cascini sugli incontri con Palamara. Paolo Comi Il Riformista il 31 Dicembre 2021. «Io ho fiducia nella giustizia, però…», dice uno sconsolato Cosimo Ferri ai giudici della Sezione disciplinare del Csm che dovranno decidere se potrà continuare ad indossare la toga quando terminerà il mandato parlamentare o se invece sarà costretto a fare la fine di Luca Palamara, cacciato con ignominia dalla magistratura.
Ferri è sotto procedimento disciplinare per aver partecipato all’incontro serale di maggio del 2019 all’hotel Champagne di Roma, unitamente a cinque consiglieri del Csm, a Luca Palamara e al collega Luca Lotti, in cui si discusse fra le varie cose della nomina del nuovo procuratore di Roma. La Sezione si è già espressa per Palamara, radiandolo dalla magistratura, e per i cinque consiglieri, sanzionandoli con la sospensione da uno a due anni dalle funzioni. Per Ferri è molto probabile, visto il ruolo avuto, che la Procura generale della Cassazione chieda, come per Palamara, il massimo della pena per aver voluto condizionare le scelte del Csm.
La toga di Pontremoli in questi mesi sta vendendo cara la pelle, mettendo nel mirino i finanzieri del Gico che l’hanno intercettato abusivamente, e ricusando i vari giudici del collegio disciplinare. Sulle intercettazioni ha avuto ragione: la Giunta per le autorizzazioni della Camera ha negato il mese scorso il loro utilizzo. Prima di Natale, invece, si è discussa la più importante di queste ricusazioni, quella nei confronti di Giuseppe Cascini, ex aggiunto a Roma ed esponente di punta della sinistra giudiziaria da sempre contrapposta alla corrente conservatrice di Magistratura indipendente della quale Ferri, e prima di lui il padre Enrico, sono stati i massimi rappresentanti. I motivi della ricusazione erano principalmente due: una mail inviata da Cascini il 28 febbraio 2015 alla mailing list dell’Associazione nazionale magistrati e all’allora segretario di Mi nella quale si stigmatizzava il comportamento di Ferri che, a giudizio di Cascini, era entrato in quel periodo nella compagine governativa quale sottosegretario per interesse personale; e una dichiarazione rilasciata da Palamara al gup di Perugia Piercarlo Frabotta relativa ad un incontro avuto con Cascini nel corso del quale quest’ultimo gli avrebbe perentoriamente detto: «Non frequentare Ferri, non te lo dico più!».
La sezione disciplinare ha interrogato Cascini per avere chiarimenti. «Io credo che Palamara – esordisce Cascini – faccia confusione. L’incontro in cui abbiamo fatto un accenno all’onorevole Ferri non è del primo ottobre ma dei primi di settembre, incontro che mi fu chiesto da Palamara per parlare della elezione del vicepresidente. In quella occasione lui mi chiede il sostegno per l’onorevole Ermini». Cascini avrebbe fatto riferimento ad un incontro avuto con Palamara ai primi di settembre del 2018 poiché David Ermini era stato eletto vicepresidente del Csm il 27 settembre di quell’anno. Le dichiarazioni di Palamara al gup di Perugia fanno però riferimento ad un incontro successivo alla predetta elezione che vi sarebbe stato ad ottobre e che quindi non poteva avere ad oggetto l’elezione di Ermini. E che questo incontro, oltre a quello di settembre di cui parla Cascini, vi sia effettivamente stato non vi è dubbio poiché vi sono i messaggi sequestrati dalla Procura di Perugia nel telefonino di Palamara che documentano sia l’incontro di settembre che quello di ottobre, entrambi peraltro ad iniziativa dell’ex aggiunto romano e non di Palamara.
“Riusciamo a vederci un attimo domani?”, scrive Cascini a Palamara il 6 settembre 2018.
“Si ok”, risponde Palamara.
Cascini: “Alle 10.30 ok per te? Dove?”.
Palamara: “Settembrini (un noto bar della Capitale, ndr)”.
“Domattina ci prendiamo una cosa insieme?”, scrive ancora Cascini il 4 ottobre successivo.
“Ok con piacere”, risponde Palamara. I due si danno quindi appuntamento sempre da Settembrini.
Leggendo alcuni messaggini di Palamara con i colleghi, si è scoperto che l’oggetto dell’incontro con Cascini non era però la nomina di Ermini. Uno di questi è quello inviato dalla magistrata Silvana Sica il 28 settembre 2018 a Palamara: “Mi ha scritto Peppe (Cascini, ndr).
“Andasse a fare in culo”, risponde secco Palamara.
Sica: “Ti giro il messaggio ma non dirlo mi raccomando”. Questo il testo: “Sono molto amareggiato per quello che è successo. Il pensiero che molti, compreso Luca, possano pensare che c’entri qualcosa con quell’articolo mi suscita grande rabbia e tristezza. Tu sai bene che io non sono quel tipo di persona. Sono mesi che ho questo enorme peso sulle spalle. Senza poterne parlare con nessuno. Tantomeno con Luca. Sapevo da tempo che la cosa girava tra i giornalisti. Ma cosa potevo fare per impedirlo?”.
A cosa fa riferimento Cascini? All’articolo del Fatto Quotidiano di quei giorni con cui si dava la notizia dell’indagine di Perugia a carico di Palamara per corruzione. Indagine nata da un fascicolo trasmesso nel capoluogo umbro proprio da Cascini il maggio precedente e che aveva fatto naufragare i sogni di gloria di Palamara, anch’egli in corsa per diventare aggiunto a Roma. Su chi abbia dato la notizia del procedimento umbro al Fatto, e su chi l’anno dopo abbia dato al Corriere, a Repubblica e al Messaggero i colloqui avvenuti all’hotel Champagne registrati con il trojan nel cellulare di Palamara resterà per sempre un mistero. Nessuno in questi anni ha mai fatto indagini, pur a fronte delle denunce di Palamara e dello stesso Ferri. Tornado a quest’ultimo e alla sua ricusazione, il collegio, presieduto da Fulvio Gigliotti e composto da due toghe di Mi, Loredana Miccichè e Antonio D’Amato, si è riservato di decidere nei prossimi giorni.
Nuovo processo a Lecce per il magistrato Michele Ruggiero. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Novembre 2022
Doppio rinvio a giudizio per il pm di Bari Michele Ruggiero, accusato di falso ideologico con riferimento alla presunta falsificazione dei verbali di tre testimoni e per violenza privata a carico di due testi nell’ambito di due distinti procedimenti per corruzione risalenti a quando era in servizio alla Procura di Trani. Lo ha deciso il gup di Lecce Giulia Proto, che ha fissato l’inizio dei due processi (i fascicoli sono distinti) a carico di Ruggiero per il 21 marzo e il 6 giugno 2023 davanti al Tribunale monocratico di Lecce, compentente a trattare i procedimenti che coinvolgono magistrati in servizio nel distretto della Corte d’appello di Bari.
Nel primo processo (quello che comincerà a giugno) Ruggiero è accusato di un presunto falso nel verbale che fu posto a fondamento dell’arresto per tentata concussione dell’allora vicesindaco di Trani Giuseppe Di Marzio, che si è costituito parte civile assistito dall’avv.Enrico Capurso. La vicenda contestata al magistrato risale al 6 settembre 2014. Stando all’imputazione formulata dalla pm di Lecce Roberta Licci, Ruggiero avrebbe sintetizzato le parole di un testimone «in modo del tutto distonico rispetto alle effettive dichiarazioni», con riferimento al presunto coinvolgimento di Di Marzio in un episodio di richiesta di tangenti. Il pm avrebbe poi omesso di depositare il cd con la fonoregistrazione integrale della testimonianza, «la cui esistenza emergeva solo a novembre 2019" nell’ambito del dibattimento in corso a Trani. Dalla nuova trascrizione delle dichiarazioni del testimone è emerso che nel precedente verbale sarebbero state «assemblate affermazioni rese in momenti diversi nel corso della lunga escussione, in una consequenzialità logica non coerente con le effettive informazioni rese dal teste».
Il secondo processo per il quale Ruggiero è stato oggi rinviato a giudizio (il dibattimento comincerà a marzo) riguarda i reati di falso aggravato, con riferimento alle modalità di redazione dei verbali di due testimoni e di violenza privata a carico degli stessi. Nei confronti di uno di loro, che affermava di non essere a consocenza del pagamento di tangenti, Ruggiero - secondo l’accusa - ha detto: «Ci vedremo tra un mesetto, però in una diversa posizione, tu stai dietro alle sbarre e io sto da un’altra parte... non ti sto impaurendo». E ancora: «Ma perchè devo minacciarti di arrestarti per farti dire la verità porca p...». In questo procedimento la parte civile è rappresentata dall’avv.Luigi Leonardo Covella.
Per fatti analoghi, Ruggiero - che ha sempre respinto ogni accusa - è già stato condannato a sei mesi di reclusione dalla Corte di Appello di Lecce (in primo grado fu condannato ad un anno) per concorso in tentata violenza privata per fatti dell’ottobre 2015. Su questa vicenda pende ricorso per Cassazione. L’indagine in questo caso riguarda presunte pressioni fatte da due pm tranesi (l'altro è il pm ora in servizio a Bari Alessandro Pesce, condannato in appello a 4 mesi) su tre testimoni di un’inchiesta, per costringerli ad ammettere di essere al corrente del pagamento di tangenti all’ex comandante della polizia municipale di Trani, Antonio Modugno, nella fornitura di photored.
«Riteniamo totalmente infondate le accuse e siamo certi di poter ottenere giustizia all’esito del dibattimento». Lo afferma in una dichiarazione il pm di Bari, Michele Ruggiero, rinviato oggi a giudizio dal gup del Tribunale di Lecce per falso nei verbali testimoniali e violenza privata ai danni di tre testimoni di due inchieste per corruzione che conduceva quando era pm a Trani.
(ANSA il 10 novembre 2022) - Il pm palermitano Dario Scaletta, neo-eletto componente del Consiglio Superiore della Magistratura, è indagato dalla Procura di Caltanissetta per abuso d'ufficio. L'inchiesta nasce dalla denuncia degli imprenditori Rappa, costruttori palermitani dalle alterne vicende giudiziarie accusati di essere vicini a Cosa nostra. Secondo l'accusa Scaletta avrebbe sollecitato la nomina del cognato Alessio Melis a coadiutore dell'amministrazione giudiziaria nella procedura di prevenzione aperta a carico dei Rappa.
Nel 2014 la sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, allora presieduta da Silvana Saguto, poi indagata a Caltanissetta per corruzione per illeciti nella gestione dei beni confiscati e successivamente radiata dalla magistratura, sequestrò il patrimonio milionario dei Rappa nominando amministratore giudiziario l'avvocato Walter Virga.
Virga, figlio di un magistrato ex componente del Csm, nominò come suo coadiutore Alessio Melis, cognato di Scaletta. L'incarico durò da giugno a fine ottobre 2014. Scaletta, all'epoca pm della Dda di Palermo, era il titolare del fascicolo di misure di prevenzione a carico proprio dei Rappa. Il 24 dicembre il pm chiese la misura di prevenzione nei confronti degli imprenditori e un secondo sequestro dei beni. L'istanza fu accolta e a febbraio 2015 il tribunale dispose il sequestro, nominando ancora una volta amministratore Walter Virga.
Il pm di Palermo Dario Scaletta indagato dalla procura di Caltanissetta per abuso d’ufficio. Quanti altri dovrebbero avere la stessa sorte…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’11 Novembre 2022.
La vicenda riapre il caso della legittimità di un indagato a far parte dell’organo costituzionale che, come scrive la Carta, si fa carico anche dei processi disciplinari sulle toghe italiane. Normale chiedersi come possa un indagato giudicare e promuovere o bocciare i colleghi? Ma il pm Scaletta in realtà al momento non è il solo magistrato indagato a sedere nel Csm, infatti anche il procuratore aggiunto di Taranto, Maurizio Carbone esponente di Area la corrente di sinistra della magistratura, eletto nel nuovo Csm è indagato a Potenza
Il pm palermitano Dario Scaletta, neo-eletto componente del Csm è indagato dalla Procura di Caltanissetta per abuso d’ufficio. L’inchiesta a suo carico nasce dalla denuncia degli imprenditori Rappa, costruttori palermitani dalle alterne vicende giudiziarie accusati di essere vicini a Cosa nostra. Secondo l’accusa Scaletta avrebbe sollecitato la nomina del cognato Alessio Melis a coadiutore dell’amministrazione giudiziaria nella procedura di prevenzione aperta a carico dei Rappa.
Nel 2014 la sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, allora presieduta da Silvana Saguto, poi indagata a Caltanissetta per corruzione per illeciti nella gestione dei beni confiscati e successivamente radiata dalla magistratura, sequestrò il patrimonio milionario dei Rappa nominando amministratore giudiziario l’avvocato Walter Virga.
Virga, figlio di un magistrato ex componente del Csm, nominò come suo coadiutore Alessio Melis, che è il cognato di Scaletta. L’incarico durò da giugno a fine ottobre 2014. Scaletta, all’epoca era un sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, e titolare del fascicolo di misure di prevenzione a carico proprio dei Rappa. Il 24 dicembre il pm Scaletta chiese la misura di prevenzione nei confronti degli imprenditori e un secondo sequestro dei beni. L’istanza fu accolta e a febbraio 2015 il tribunale dispose il sequestro, nominando ancora una volta amministratore Walter Virga.
Il pm Scaletta era stato coinvolto nello scandalo Saguto per un’ipotesi di rivelazione del segreto d’ufficio, accusato di avere riferito notizie relative all’inchiesta sulla gestione dei beni confiscati a uno dei magistrati indagati. Il fascicolo venne poi archiviato dal gip di Milano, competente perché la presunta fuga di notizie sarebbe avvenuta nel capoluogo lombardo.
Scaletta recentemente eletto componente del Consiglio superiore della magistratura, ha commentato: “Apprendo dalla stampa, sono sereno e a disposizione dell’autorità giudiziaria di Caltanissetta“. Il magistrato è stato indagato in passato sempre per abuso d’ufficio, in relazione a un’altra vicenda che riguarda il cognato e che è emersa da una indagine sul commercialista Giovanni Giammarva il quale venne intercettato mentre parlava con una terza persona di Scaletta e sosteneva che questi avrebbe liquidato circa 70mila euro in più in una procedura di prevenzione e che aveva fatto avere incarichi al cognato tramite altri commercialisti. Il procedimento penale a carico di per questi fatti è stato archiviato per estinzione del reato per prescrizione.
La vicenda riapre il caso della legittimità di un indagato a far parte dell’organo costituzionale che, come scrive la Carta, si fa carico anche dei processi disciplinari sulle toghe italiane. Normale chiedersi come possa un indagato giudicare e promuovere o bocciare i colleghi? Ma il pm Scaletta in realtà al momento non è il solo magistrato indagato a sedere nel Csm, infatti anche il procuratore aggiunto di Taranto, Maurizio Carbone esponente di Area la corrente di sinistra della magistratura, eletto con i resti (come miglior primo dei non eletti) a Palazzo dei Marescialli alle recenti elezioni per il Csm, risulta attualmente indagato a Potenza a seguito di una denuncia presentata nei suoi confronti dal nostro direttore Antonello de Gennaro. La denuncia inizialmente era stata archiviata ma adesso a seguito di opposizione alla richiesta di archiviazione è al vaglio del Gip dr.ssa Marianna Zampoli di Potenza. Udienza fissata il prossimo 22 novembre.
Il procuratore aggiunto Carbone ha più volte cercato di mandare a processo per diffamazione a mezzo stampa il nostro Direttore Antonello de Gennaro, chiedendo persino il sequestro delle pagine social del nostro giornale (senza mai ottenerlo !) sostenendo in maniera incompetente la competenza territoriale della Procura di Taranto sul nostro lavoro giornalistico , venendo smentito dal Gip dr. Benedetto Ruberto del Tribunale di Taranto il quale smantellò il “teorema” di Carbone, pm d’udienza, e sentenziò che “la competenza territoriale va, invece, correttamente individuata presso il Gup del Tribunale di Roma“!
Successivamente, quattro anni dopo Carbone non contento, ha calpestato la decisione del Tribunale di Taranto peraltro passata in giudicato, ed ha insistito sulla sua competenza territoriale, ma anche in questo caso il suo “teorema” giuridico è stato smentito dalla GIP dr.ssa Teresa Reggio del Tribunale di Potenza, che ha dichiarato “la propria incompetenza per territorio” in quanto radicata dinnanzi al Tribunale di Roma disponendo la “trasmissione degli atti presso il PM del Tribunale di Roma” . Chissà se adesso il dr. Carbone prenderà pace e si leggerà finalmente le sentenze della Cassazione e rispetterà le decisioni dei Tribunali in materia di Legge sulla Stampa ? Redazione CdG 1947
Il pm della Dda di Palermo nel mirino. Campagna di Repubblica, Corriere e Fatto contro Dario Scaletta: i giornali vogliono Woodcock al Csm. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Novembre 2022
In questi giorni sta andando in scena una riedizione, con la classica campagna mediatica a contorno, della nota vicenda dell’hotel Champagne che all’epoca aveva costretto alle dimissioni ben cinque consiglieri del Csm, determinando così un ribaltone degli equilibri a Palazzo dei Marescialli. A finire nel mirino dei ‘giornaloni’, con l’aggiunta del Fatto Quotidiano, è stato questa volta il pm della Dda di Palermo Dario Scaletta, eletto lo scorso settembre con 729 voti al Csm in quota Magistratura indipendente, il gruppo di ‘destra’ delle toghe.
Ma cosa avrebbe fatto di così grave Scaletta, fino all’altro giorno sconosciuto alle cronache, per meritare l’attenzione del Corriere e di Repubblica, i quotidiani più importanti del Paese che nel maggio del 2019 fecero esplodere il Palamaragate, pubblicando atti riservati della Procura di Perugia? Bene, il pm siciliano sarebbe indagato per abuso d’ufficio, un reato che non si nega a nessuno, a Caltanissetta. L’accusa, in particolare, è quella di aver ‘segnalato’ nel 2014 la nomina del cognato per un incarico giudiziario all’allora presidente della sezione misure di prevenzione Silvana Saguto, poi radiata dalla magistratura proprio per il modo in cui gestiva tali procedure. L’indagine, incredibilmente ancora pendente a distanza di otto anni, è stata riesumata adesso per ‘spingere’ Scaletta alle dimissioni prima dell’insediamento al Csm, previsto per il mese prossimo, a causa della scure disciplinare che è pronta ad abbattersi sulla sua testa.
I quotidiani, sempre ben informati, hanno infatti scritto di una imminente “trasmissione degli atti” da parte della Procura di Caltanissetta, diretta da Salvatore De Luca, notoriamente vicino all’ex procuratore di Roma e ora presidente del Tribunale Vaticano Giuseppe Pignatone, alla Procura generale della Cassazione diretta da Luigi Salvato, presente nelle chat di Luca Palamara per le nomine, vicino alla sinistra giudiziaria come il suo predecessore Giovanni Salvi di cui è stato il braccio destro. Finendo sotto procedimento, la permanenza di Scaletta al Csm sarebbe quindi quanto mai “inopportuna”, anche se in passato ci sono stati magistrati, come Roberto Rossi, attuale procuratore di Bari, che da consiglieri del Csm affrontarono un disciplinare senza essere costretti alle dimissioni.
Il sospetto, allora, è che si voglia sovvertire il risultato delle urne, che ha visto il successo delle toghe di destra, con una indagine penale ‘a scoppio ritardato’. In caso di dimissioni di Scaletta, il suo posto verrebbe preso da Henry John Woodcock, pm napoletano da sempre ben visto dalle parti del Fatto Quotidiano e con discrete entrature a Largo Fochetti e in Via Solferino. Contro tale potenza di fuoco mediatica, il destino di Scaletta sembra essere segnato, tranne che la sua corrente, almeno questa volta, non prenda una decisa posizione chiedendo che venga fatta chiarezza su tutte le nomine dei parenti di magistrati fatte nella vicenda Saguto, in quella di Antonello Montante e di Piero Amara. Per evitare, come accaduto con Palamara, che paghi uno per tutti.
Paolo Comi
Giudice del tribunale di Lecce indagato per corruzione: il Csm lo trasferisce. Il è indagato per un presunto giro di consulenze concesse, in cambio di favori, senza rispettare il principio della turnazione. Il Dubbio il 27 ottobre 2022.
Il giudice della sezione Fallimentare del Tribunale di Lecce, Pietro Errede, 56 anni, coinvolto insieme ad altre otto persone in una inchiesta per corruzione avviata nei mesi scorsi dalla Procura di Potenza, sarà trasferito a Bologna. Lo ha deciso il plenum del Csm basandosi sui pareri espressi dalla Prima commissione. È stato espresso parere contrario al trasferimento presso gli uffici giudiziari di Brindisi, Bari, Trani e Matera.
Giudice di Lecce indagato per corruzione: le accuse
Errede è indagato per un presunto giro di consulenze concesse, in cambio di favori, senza rispettare il principio della turnazione. Tra le utilità ottenute dal giudice vi sarebbe anche l’acquisto di una collana tennis a prezzo di fabbrica, grazie all’interessamento di un consulente. La conversazione telefonica tra quest’ultimo ed Errede, relativa all’acquisto del monile, è stata intercettata dalla Guardia di finanza e trascritta negli atti consegnati alla Procura di Potenza, competente per le indagini riguardanti i magistrati leccesi.
Parere contrario al trasferimento a Bari è stato espresso per motivi di incompatibilità, in quanto la sorella del giudice, Grazie Errede, è sostituto procuratore della Repubblica nel capoluogo pugliese. La commissione si è pronunciata favorevolmente rispetto al trasferimento di Pietro Errede al Tribunale di Bologna o a quello di Pescara, escludendo, quindi, l’assegnazione a funzioni fallimentari, di esecuzione civile e riguardanti il coordinamento di sezione.
Antonio Di Pietro, detto zanzone, il suo mantra: «Capisci a ’mme». Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 9 ottobre 2022.
Al nostro primo incontro, me ne torno al giornale con un piede rotto. Niente violenze «messicane», per carità: solo la mia ansia da cronista ragazzino, buio e nebbia milanese. Sì, c’è ancora la nebbia a Milano quella sera di dicembre 1987 e alla caserma della Celere di via Cagni, tra Niguarda e Bicocca, ovatta gli spigoli e avvolge i lampeggianti dei cellulari che scaricano 102 arrestati pronti per essere torchiati: medici e notai, funzionari comunali, faccendieri e ispettori della motorizzazione, tutti catturati nell’inchiesta sulle patenti facili. In quella bolgia dantesca si sente il vocione di un Caronte molisano che dirige le operazioni, «qua, qua, portatemeli qua!»: è lui, Antonio Di Pietro, detto Tonino, il giovane pubblico ministero maniaco di informatica che ha fiutato tanfo di bruciato negli esami di guida passati da tanti con troppa disinvoltura e, fascicolo dopo fascicolo, è risalito allo gnommero, il groviglio di quella micro-corruzione meneghina. Lo condisce con sapienza manco avesse acchiappato la Piovra, a uso e consumo dei giovani cronisti di nera «informalmente» avvisati della retata dalla Polizia: «Capisci a ‘mme, dottorino» (ci chiama tutti dottori e dottorini, un po’ per celia e un po’ per celare la distanza con noi, ragazzini-bene dagli studi comodi che a lui, ex ragazzo sfuggito ai campi di Montenero di Bisaccia, sono costati migrazione, doppi lavori e notti insonni).
Il metodo
Saltabecca da un arrestato all’altro, perciò li ha voluti tutti assieme come un gregge, li coglie in contraddizione, sbraita, verbalizza, ammicca, tratta: è un ante litteram di sé stesso. Sto assistendo alla nascita di un metodo ma ancora non lo so. Comprendo bene, invece, che devo correre ad avvisare il giornale e quindi trovare un telefono a gettoni (al tempo non esistono i cellulari!). Trovo invece un buco nel marciapiede, mi ci infilo come un tonno, il resto è gesso. All’incontro successivo, quattro anni dopo, sono già a Palazzo di giustizia, corso di Porta Vittoria, secondo di giudiziaria del Corriere. Lui, Tonino, è nella sua stanza, la 254, che diventerà mitico crocevia di sommersi e salvati ma per ora è solo un parametro antropologico, misura la distanza col procuratore Borrelli, il cui ufficio sta dall’altro capo dello sterminato corridoio ad angolo: in mezzo, decine di sostituti impregnati di «cultura della giurisdizione» che guardano Tonino, ex commissario di Ps, come un entomologo guarda uno scarafaggio (pure reazionario: «Qui non si sciopera», affigge infatti lui sulla porta, in occasione di una protesta dell’Anm, guadagnandosi l’amore di Cossiga).
Mani pulite
In realtà lo scarafaggio è uno scarabeo d’oro. Quando gli arriva l’occasione della vita, l’arresto del boiardo craxiano Mario Chiesa con le mani dentro sette milioni (di lire) di mazzetta, Di Pietro ha alle spalle così tanta esperienza di mondi e sottomondi e così tanta fortuna da trasformarla nella rivoluzione giudiziaria a lungo inseguita e sempre mancata dai suoi più dotti colleghi. Gherardo Colombo, per dire, aveva acchiappato due volte il drago per la coda, con la P2 e i fondi neri dell’Iri, ma era stato fermato. Francesco Greco s’era visto sfilare dalle mani Antonio Natali, il papà politico di Craxi, imbuto di tangenti milanesi. Persino la caduta del Muro di Berlino congiura invece nell’aiutare il nostro ex sbirro, stavolta (gli italiani non hanno più paura di cambiare sistema: e il sistema crolla). Lui, temendo che l’inchiesta gli si possa comunque chiudere addosso, nei primi mesi tiene un filo teso con noi cronisti (siamo le seconde linee, perché nessuno pensa che Chiesa parli davvero e che l’indagine vada lontano: poi, quando Chiesa parlerà, le fonti saranno tutte nostre e nessuno potrà più rimpiazzarci). «Capisci a ‘mme, dottorino», ammicca con ognuno (birra e salsicce, direbbe Totò), sempre con l’aria di fare a ciascuno un favore «in esclusiva», gettandogli qualche brandello di notizia inoffensivo per l’indagine ma prezioso per tenere desta l’opinione pubblica. Una sera, alla rassegna stampa di mezzanotte in tv, vedo che la concorrenza ha uno scoop, un nuovo conto svizzero scoperto a Chiesa: mi appare un «buco» terribile, mi immagino un sacrosanto cazziatone dal mio capocronista. Nonostante l’ora, chiamo Tonino a casa, urlando, fuori di me. Lui, mezzo addormentato, anziché farmi arrestare (avrebbe dovuto...), farfuglia scuse, giura che la notizia è falsa. Naturalmente la notizia è verissima ma a Di Pietro serve tenerci tutti buoni, persino me, tutti sotto la sua ala, in quel primo periodo in cui il sistema può ancora serrarsi a riccio e stritolarlo. Di solito ci riceve nella stanza 254 verso le sette di sera, introdotti da un ex poliziotto che un po’ gli somiglia, Rocco Stragapede, passo strascinato e sussiego da gran ciambellano. Tutti quelli della sua squadretta un po’ gli somigliano. Faticano come muli ma comunicano sempre un’idea di trattativa, una specie di patteggiamento a prescindere. Lui ci aspetta come in un B-movie americano, coi piedi sulla scrivania. Si tira su i calzoni e si gratta le caviglie con voluttà, «capisci a ‘mme, dottorino». Paolo Colonnello, il collega del Giorno che ha con lui più confidenza, lo chiama «zanzone», imbroglione, in milanese. Tonino se ne compiace, gli/ci regala una risatona tonitruante, fuori in strada sta venendo giù la Prima Repubblica.
Le fiaccolate
La gente ha fiaccole in mano, cartelli, «Di Pietro, liberaci dal male», in un Paese sempre malato di bipolarismo etico (oggi tutti forcaioli, domani tutti evasori e via col pendolo). Quando comincio a pubblicare fuori dal suo circuito, non lo sopporta. Mi dedica una scomunica in dipietrese: «Fuggitore di notizie!».Pensiamo di sfotterlo, ruvido com’è: ma è lui che prende in giro tutti noi. Anche questa sua neolingua, che ne enfatizza il deficit scolastico, è un trucco geniale, buono per incantare gli italiani appiccicati alla diretta tv del processo Cusani, il vero dibattimento spettacolo di Mani pulite: ecchéc’azzecca? La sua è la scommessa di un gambler, la magia di un illusionista. I giocatori d’azzardo non amano chi va a vedere il bluff, i prestigiatori amano ancor meno chi ficca il naso nella valigia dei trucchi. Così, per non litigare con lui, tocca credergli (ricordando sempre che è uscito immacolato dai numerosi processi subiti a causa delle vendicative denunce di molti suoi imputati). Tocca credergli e basta. Quando dichiara ai giudici di Brescia di non essersi sentito ricattato dal ministro Previti col preannuncio di un’ispezione ad personam, così spingendolo a mollare toga e colleghi prima di torchiare Berlusconi. Quando per spirito di servizio, certo, si fa eleggere senatore coi voti di un partito da lui inquisito appena tre anni prima. Quando fonda poi la sua Italia dei Valori per rilanciare la questione morale in politica e infatti seleziona Razzi, Scilipoti e De Gregorio. Tocca credergli. E io gli credo. Capisci a ‘mme, Toni’.
Davigo ko, "Il Sistema" non l'ha diffamato: il marcio in magistratura è verità. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano l'8 ottobre 2022
Da "giustizialista" a possibile "giustiziato". È il destino di Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite e magistrato simbolo del rigore e della linea dura nei confronti di chi delinque, soprattutto se si tratta di politici. Il tribunale di Padova ha archiviato questa settimana la querela presentata da Davigo nei confronti del direttore di Libero Alessandro Sallusti e di Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, da lui accusati di avergli leso «l'onore e la reputazione professionale». Il motivo? Un capitolo del libro "Il Sistema", scritto da entrambi per Rizzoli, in cui erano stati ricostruiti alcuni episodi della vita di Davigo, ad iniziare dalla sua bocciatura nel 2018 per l'incarico di presidente aggiunto della Corte della Cassazione, il numero due dei magistrati italiani.
Palamara e Sallusti avevano poi raccontato la vicenda dell'esposto presentato da un magistrato romano nei confronti dell'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e gli scontri interni alla magistratura per la successione di quest'ultimo. Davigo, in particolare, aveva espresso la preferenza per l'attuale procuratore di Milano Marcello Viola, il magistrato che era stato "segnalato" durante una cena a cui avevano partecipato, oltre a Palamara e alcuni componenti del Csm, anche i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. Quest'episodio era costato a Palamara il procedimento conclusosi con la sua radiazione. E Davigo era stato fra i componenti di quel collegio disciplinare.
Nel 2016, prima che scoppiasse lo scandalo delle nomine, Palamara era anche andato a pranzo con Davigo a Roma nei pressi del Csm alla trattoria "Lo zozzone". I due avevano discusso se fosse possibile trovare spazio per un'altra corrente della magistratura, oltre a quelle storiche di destra e di sinistra. «Ebbi subito l'impressione che Davigo fosse estraneo alle logiche e ai meccanismi correntizi, ma credo che di lì a poco, eletto presidente dell'Anm, andò a sbatterci contro», raccontò Palamara. Davigo, in effetti, aveva creato una corrente, Autonomia&indipendenza, che inizialmente ebbe un grande successo. Andato in pensione, il gruppo si era sciolto come neve al sole e ora non ha più rappresentanti al Csm.
Tornando alla querela dell'ex pm di Tangentopoli, già lo scorso marzo era sta chiesta l'archiviazione non essendo emerso nulla di penalmente rilevante. Davigo, però, aveva immediatamente fatto opposizione, chiedendo anche che venissero svolte «ulteriori indagini». Il gip Claudio Marassi, oltre a negare investigazioni che non potevano «contribuire all'acquisizione di elementi nuovi ed idonei a modificare la situazione attuale», ha deciso allora di archiviare definitivamente il fascicolo, «non sussistendo elementi incontrovertibili idonei a provare la penale responsabilità degli indagati». Archiviata la querela, Davigo avrà tempo per concentrarsi sull'udienza la prossima settimana al tribunale di Brescia dove è alla sbarra per rivelazione del segreto. I fatti risalgono alla primavera del 2020, quando Davigo aveva ricevuto dal pm milanese Paolo Storari i verbali degli interrogatori di Piero Amara, ex avvocato esterno dell'Eni, nei quali era descritta l'esistenza di una loggia paramassonica super segreta chiamata "Ungheria". A farne parte, magistrati, esponenti delle forze di polizia, professionisti, dirigenti. Scopo della loggia, quello di pilotare le nomine delle toghe al Csm ed aggiustare i processi nei confronti degli "amici". Davigo aveva fatto girare questi verbali, violando così, per i pm che l'hanno indagato, il segreto investigativo.
PERQUISIZIONI E SEQUESTRI. Corruzione, indagini su un altro magistrato del Tribunale di Lecce: avrebbe ricevuto in dono del pesce. Gli accertamenti riguardano il giudice Alessandro Silvestrini. Gianfranco Lattante su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Ottobre 2022.
La perquisizione in casa di un magistrato svela l’esistenza di un’altra inchiesta della Procura di Potenza per corruzione in atti giudiziari. Qualche giorno fa, i finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria e della Compagnia di Gallipoli hanno eseguito un decreto di perquisizione nei confronti di Alessandro Silvestrini, giudice presso la sezione Commerciale del Tribunale Civile e candidato alla presidenza del Tribunale. Nella stessa inchiesta compaiono anche il geometra Antonio Fasiello e l’imprenditore Eusebio Giovanni Mariano. Le perquisizioni si sono concluse con il sequestro di documentazione, di computer e di telefonini. Sullo sfondo ci sarebbe una procedura fallimentare. Le indagini dovranno verificare se l’iter della pratica sia stato ortodosso oppure se ci siano state pressioni, accelerazioni, corsie preferenziali ed eventuali benefit (al giudice sarebbe stato regalato del pesce). Al momento si tratta solo di ipotesi ancora da riscontrare ed accertare. E il decreto di perquisizione con l’ipotesi di reato non è certo una condanna anticipata. I destinatari del decreto di perquisizione sono assistiti dagli avvocati Leonardo Pace, Giuseppe Della Torre e Giancarlo Raco.
A disporre la perquisizione sono stati il procuratore di Potenza Francesco Curcio e i sostituti Elena Mazzilli ed Emiliano Busto. Si tratta degli stessi magistrati che conducono l’altra inchiesta per corruzione in atti giudiziari che ha scosso il Tribunale civile di Lecce. E difatti, questa seconda inchiesta, può considerarsi una sorta costola della prima da cui si è staccata per poi alimentarsi di ulteriori elementi.
L’altra inchiesta è quella che ruota attorno alla figura del giudice Pietro Errede, pure lui magistrato della sezione Commerciale, delegato alle procedure concorsuali nonché giudice delle esecuzioni immobiliari. Il giudice Errede è stato anche componente dell’Ufficio misure di prevenzione del Tribunale. È indagato per corruzione in atti giudiziari, corruzione per un atto contrario ai dover d’ufficio, concussione e turbativa d’asta insieme a quattro avvocati (Alberto Russi, originario di Galatina; Giuseppe Positano, di Lecce; Antonio Casilli, di Lecce, e Rosanna Perricci, di Monopoli, assessora comunale nella sua città), tre commercialisti (Marcello Paglialunga, di Nardò; Giuseppe Evangelista, di Lecce; ed Emanuele Liaci, di Gallipoli) ed una cancelliera (Graziella De Masi, di Lecce, assistente giudiziaria della cancelleria del giudice Errede). Il sospetto è che il magistrato abbia pilotato e condizionato gli affidamenti di incarichi di amministratore giudiziario in cambio di regali e altre utilità.
La procura di Potenza dopo Taranto adesso indaga sugli uffici giudiziari di Lecce. Ma quando si indagherà anche sulla procura lucana? Redazione CdG 1947 e Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 6 Ottobre 2022.
Alessandro Silvestrini è accusato di corruzione impropria con un geometra e un imprenditore: "Accuse assurde, ho chiesto io stesso di essere indagato per dimostrarlo". L’accusa ipotizzata sarebbe inerente attorno ad un procedimento trattata dalla sezione fallimentare, e si farebbe riferimento ad un pesce ricevuto in regalo dal magistrato!
Dopo le discutibili indagini della procura di Potenza competente ad indagare sui magistrati in servizio nel distretto di Lecce, Brindisi e Taranto, sul caso Capristo dove le accuse a carico dell’ex procuratore capo di Taranto si stanno sciogliendo una ad una come neve sotto il sole (e la solita stampa “sodale” della sinistra giudiziaria tace…) , e dopo il rigetto da parte dell ‘ufficio Gip del Tribunale di Potenza su tutte le richieste di patteggiamento dell’avvocato-faccendiere Piero Amara “sponsorizzate” dalla Procura lucana, questa volta è il turno degli uffici giudiziari di Lecce, dove una nuova inchiesta agita il Tribunale civile di Lecce.
La procura di Potenza ha avviato un’indagine per corruzione impropria in atti giudiziari a carico del giudice Alessandro Silvestrini, presidente della sezione commerciale e fallimentare del Tribunale di Lecce, che vede coinvolti pure un geometra e un imprenditore.
I finanzieri della Compagnia di Gallipoli nella giornata di ieri, hanno eseguito delle perquisizioni su delega dei pm inquirenti (il procuratore di Potenza Francesco Curcio è titolare del fascicolo) nelle abitazioni dei tre indagati, sequestrando vari dispositivi elettronici, il cui contenuto ora sarà passato al setaccio. L’accusa ipotizzata nei confronti del giudice Silvestrini, che indagato insieme al geometra Antonio Fasiello ed all’imprenditore Eusebio Mariano, sarebbe inerente attorno ad un procedimento trattata dalla sezione fallimentare, e si farebbe riferimento ad un pesce ricevuto in regalo dal magistrato. Onestamente vedere un magistrato corrotto con un pesce, perdonatemi ma sa tanto di “pesce d’aprile”, solo che siamo ancora ad ottobre…
In una nota diffusa ai giornali il giudice Silvestrini si difende: “Ho appreso di essere indagato per corruzione impropria . Secondo la Procura di Potenza, un geometra, che è mio amico e vicino di casa da circa quaranta anni e che ha lavorato nello stesso ufficio di mia moglie per circa dieci anni, mi avrebbe regalato un pesce per sollecitare il compimento da parte mia di atti assolutamente dovuti e non discrezionali“.
“Tutti gli atti della procedura sono regolarissimi – continua la nota del magistrato del Tribunale Fallimentare di Lecce – Si tratta di atti, non soltanto dovuti ma addirittura scontati, che il giudice deve necessariamente emettere per non incorrere in omissioni di atti d’ufficio. Peraltro, dal rapporto degli organi di pg risulta che, a dispetto del presunto regalo del pesce (che non ricordo di avere mai ricevuto), io non adottai tali atti, per cui a distanza di circa dieci giorni il cancelliere fu costretto a portare sulla mia scrivania in ufficio la pratica in questione, affinché io finalmente la prendessi in considerazione“.
Il giudice è convinto e pronto a dimostrare la sua innocenza: “Dimostrerò l’assurdità di tale impostazione accusatoria – conclude la nota – ho già chiesto alla Procura di Potenza di essere immediatamente interrogato. Nel frattempo, l’indagine ed il conseguente strepitus (per l’ennesima volta non si comprende chi abbia divulgato la notizia: gli organi di pg che mi hanno notificato l’atto – da me interpellati – hanno dichiarato che la Procura di Potenza non ne ha autorizzato la divulgazione) mi hanno già arrecato un grave pregiudizio: quello di ritardare ulteriormente la decisione del Csm sulla nomina del presidente del Tribunale di Lecce“.
La sentenza del Consiglio di Stato sul Tribunale di Lecce
I giudici della quinta sezione del Consiglio di Stato hanno accolto nell’ agosto dello scorso anno il ricorso presentato da Alessandro Silvestrini, presidente della sezione commerciale della Corte d’Appello, per chiedere l’annullamento della sentenza di aprile corso del Tar Lazio. Se quella sentenza aveva respinto l’istanza di annullamento della decisione del Csm di consegnare la presidenza del Tribunale nelle mani di Roberto Tanisi, il provvedimento di Palazzo Spada sposa le ragioni del ricorrente: Tanisi non avrebbe dovuto convocare la seduta con cui il consiglio giudiziario della Corte d’Appello di Lecce fornì il parere attitudinale su Silvestrini. Tanto perché la firma di Tanisi sulla convocazione fu apposta il 9 maggio del 2019, lo stesso giorno in cui il Csm lo informò del provvedimento di decadenza da presidente della Corte d’Appello e dunque anche da presidente del consiglio giudiziario.
Si parla per questo di obbligo di astensione per non incorrere in una situazione di conflitto di interessi, nella sentenza del Consiglio di Stato (presidente Giuseppe Severini, estensore Giovanni Grasso, consiglieri Fabio Franconiero, Federico Di Matteo e Stefano Fantini). Non era stata presa in considerazione – come invece avevano fatto i giudici del Tar Lazio – la circostanza che Tanisi convocò quella seduta del consiglio giudiziario nelle prime ore del 9 maggio, ancora prima di ricevere la comunicazione del Csm della nomina a presidente della Corte d’Appello di Lanfranco Vetrone il quale lasciò l’ufficio appena ricevuta la comunicazione e che non partecipò alla seduta sulla valutazione delle attitudini del collega Silvestrini a ricoprire la funzione di capo di un ufficio direttivo.
A questo punto resta una domanda che temiamo resterà insoluta: chi aprirà il procedimento dovuto e previsto per legge per la violazione del segreto istruttorio avvenuto a Potenza ? O forse negli uffici giudiziari lucani tutto è consentito… e guai a chi osa disturbare il manovratore ed i suoi adepti teleguidati ? Ed incredibilmente qualcuno la chiama pure “giustizia”… !
Giuseppe Salvaggiulo per lastampa.it il 16 settembre 2022.
«Palamara è un pezzo di merda».
Chi è annoiato dai talk show e rimpiange la vera politica – ideologie, partiti, correnti, territori, sofismi, preamboli, convergenze parallele, vendette, tradimenti – ha ancora un paio di giorni per buttarsi nella pirotecnica campagna elettorale per il rinnovo della componente togata del Consiglio superiore della magistratura, l’organo di rilievo costituzionale presieduto dal capo dello Stato, composto da magistrati eletti da magistrati e da docenti/avvocati eletti dal Parlamento, e competente su vita, morte e miracoli del terzo potere.
Non si tratta di miasmi interni alla magistratura. Il Csm che si sta per eleggere sarà il più potente della storia. La riforma Cartabia ne accresce le competenze e aumenta il controllo dell’organo di vertice sulla carriera e sul profilo disciplinare dei magistrati, sottoposti a verifiche di ogni tipo (smaltimento arretrato, tempi di deposito atti, formalità di comunicazioni). Inoltre gestirà decine di procedimenti disciplinari figliati o da controversi casi politici o dalle chat di Palamara, in primis quelli del suo alleato Cosimo Ferri. Infine sarà impegnato sul fronte politico: dalle riforme penali e civili in fase di attuazione ai conflitti che inevitabilmente si proporranno su dossier come separazione delle carriere e responsabilità civile con la nascitura maggioranza, tanto più se targata centrodestra. Con la possibilità di maggioranze variabili con i componenti laici.
Mai elezioni sono state così imperscrutabili. Merito o colpa dei postumi avvelenati del caso Palamara; delle fratture nelle correnti; del nuovo sistema elettorale, il Cartabellum. Esoterico al punto da fare impallidire il Rosatellum. La riforma ha anche aumentato il numero di consiglieri: i togati passano da 16 a 20, i laici (che saranno eletti dal prossimo Parlamento) da 8 a 10.
I togati vengono eletti con un sistema tendenzialmente maggioritario. Due in Cassazione, come prima. I pubblici ministeri sono divisi in due maxi collegi nazionali: uno va dal Lazio a tutto il Nord, lungo la dorsale tirrenica; l’altro copre quella adriatica fino alla Sicilia. Ogni collegio elegge i due pm più votati. Un quinto pm viene ripescato come miglior terzo. Quanto ai giudici di merito, sono divisi in quattro collegi di medie dimensioni: anche per loro passano i primi due in ogni collegio. Gli altri cinque sono ripescati con un complesso meccanismo per favorire il “diritto di tribuna” alle minoranze, consentendo collegamenti formali ai candidati tra diversi collegi, come a formare dei listini.
Gli obiettivi della riforma, al di là delle giaculatorie anticorrentizie, sono incentivare il radicamento territoriale dei candidati, scongiurare maggioranze precostituite e blindate, aprire la strada a candidature indipendenti. Vedremo se e come saranno raggiunti. La campagna elettorale è stata per lo più carsica. Un solo dibattito pubblico, in Cassazione, e senza sussulti. Prosciugate le mailing list. Molte chat, molto teams, qualche aperitivo. Piccoli gruppi, rarefatte le cordate, poche promesse di voto.
Il panorama politico risente dei traumi degli ultimi anni. Unicost, la corrente di sistema, una specie di balena bianca che ha sempre oscillato tra chiaro e scuro, è fortemente ridimensionata e pagherà dazio elettorale per lo scandalo delle intercettazioni e delle chat del gruppo Palamara, che hanno portato a scissioni e diaspore.
Magistratura Indipendente, al contrario, ha raccolto i frutti migliori dello scandalo, pur essendone pesantemente coinvolta. Le intercettazioni dell’hotel Champagne del maggio 2019 avevano dimostrato che era ancora «eterodiretta» da Cosimo Ferri, leader transitato in politica (Forza Italia, Pd, ora Italia Viva e candidato in diversi collegi per il Terzo Polo), all’epoca sottosegretario renziano.
Tre consiglieri su 5 convenuti in quell’infausto dopocena erano di Magistratura Indipendente e furono costretti alle dimissioni dal Csm, prima di essere pesantemente condannati dalla sezione disciplinare (a breve la Cassazione si pronuncerà sul loro ricorso). Ferri, pure sottoposto a processo disciplinare, dopo aver ripetutamente ricusato tutto il Csm, ha ottenuto dalla Camera lo scudo della inutilizzabilità delle intercettazioni.
Questione seria, trattandosi di guarentigie costituzionali di un parlamentare, su cui ora si pronuncerà la Consulta. Fatto sta che sono passati tre anni e il processo è ancora a zero. Se la Consulta gli darà ragione, chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato. In caso contrario, il processo ripartirà, ma davanti al prossimo Csm, che peraltro dovrà giudicare Ferri anche per la «grave scorrettezza» contestatagli per aver portato dall’imputato Berlusconi il suo giudice Amedeo Franco, pronto a corroborare con rivelazioni mai confermate i sospetti di un complotto politico-giudiziario a monte della condanna per frode fiscale del 2013, che lo aveva fatto decadere da senatore in quanto pregiudicato.
Rivelare il contenuto di una camera di consiglio è un reato, ma Franco è nel frattempo passato a miglior vita. Ferri, mai indagato penalmente, ha sempre sostenuto di non aver istigato Franco né di aver conosciuto il contenuto delle confidenze che intendeva fare a Berlusconi. La Procura generale della Cassazione ha avviato nei suoi confronti l’azione disciplinare. Si tratta di uno degli ultimi processi promossi dal procuratore Giovanni Salvi prima di andare in pensione. Nelle settimane successive Salvi è stato oggetto di polemiche per le sue scelte in materia disciplinare, che hanno portato anche a un’ostile interrogazione parlamentare alla ministra Cartabia, da parte di Italia Viva.
L’attuale leadership di Magistratura Indipendente ha proclamato di volersi «deferrizzare» e ha promosso candidature in discontinuità. L’effetto è che accanto ai candidati ufficiali si sono prodotte candidature autonome di esponenti della stessa corrente. Alcuni formalmente collegati tra loro (come il giudice napoletano Giuseppe Cioffi, tempo fa beccato a una convention di Forza Italia mentre ne processava un importante esponente per camorra), altri no.
Alcuni notoriamente legati a Ferri da antichi vincoli professionali (per esempio Leonardo Circelli, giudice a Roma e capo della sua segreteria quando era al ministero), altri no. Tutti uniti dal proposito di un «ritorno dalle origini». Che questo rappresenti una «rifondazione ferriana» è materia di discussione di campagna elettorale. Come le voci su un attivismo dello stesso Ferri nella campagna elettorale, che peraltro si sovrappone alla sua. Certo tra i più ferventi sostenitori del listino di «Rifondazione» c’è un ex consigliere del Csm, Luca Forteleoni, vicino a Ferri.
Tra i pm, le candidature indipendenti («Falsamente», chiosano velenosi quelli di Magistratura Indipendente) sono del procuratore di Tempio Pausania Gregorio Capasso, che ha condotto l’indagine per stupro sul figlio di Beppe Grillo, e del procuratore aggiunto di Latina Carlo Lasperanza, che 25 anni fa divenne famoso per il processo sull’omicidio della studentessa della Sapienza, Marta Russo.
Il gioco si è fatto duro. Qual è l’obiettivo di questa operazione? Contarsi, conquistarne almeno un paio di seggi, farne perdere due o tre a Magistratura Indipendente, per poi dare battaglia interna al prossimo congresso.
Dalla parte opposta, il «campo largo» progressista nato dopo il caso Palamara si è ristretto. La giovane corrente Autonomia&Indipendenza, facente capo a Piercamillo Davigo e gradita al M5S, si è spezzettata, perdendo per strada la sua componente meridionale e antimafia (Ardita e Di Matteo). Dopo tanto tentennare, l’unica icona spendibile, il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, ha deciso di non candidarsi puntando la rotta sulla Procura di Napoli. L’addio di Davigo alla magistratura, con annessi veleni e processi sui verbali della loggia Ungheria, ha fatto il resto. La corrente è disarticolata, la prova elettorale dirà che futuro avrà.
Meglio non va dall’altro lato, quello progressista, del campo largo. Che ha vissuto la separazione (non consensuale) tra Area e Magistratura Democratica. A maggio si era ipotizzato un accordo «di desistenza», sfruttando le pieghe del sistema elettorale: candidature condivise in Cassazione e tra i pm per non disperdere voti, corse separate tra i giudici per massimizzare i risultati. Non se n’è fatto niente e allora Md ha promosso candidature autonome (o sostenuto altri candidati) ovunque.
Grande il caos sotto il cielo. Dunque risultati imprevedibili. Non si escludono sorprese. E non si può prevedere su chi peserà di più l’inesorabile astensione.
Come sempre, il voto in Cassazione ha un rilievo speciale. Un forte significato politico. Nel 2018 clamoroso fu l’exploit di Davigo e la contemporanea sconfitta di Area e Unicost. Oggi l’esito è molto incerto. In pole position i candidati di Area e Magistratura Indipendente (Cosentino e D’Ovidio) ma sono considerati forti gli outsider di Magistratura Democratica (Magi) e di «Rifondazione MI». Quest’ultimo, Stefano Giaime Guizzi, ha tra l’altro difeso Palamara nel suo processo disciplinare. La presenza di molti candidati (nove in tutto) abbassa il quorum di elezione, quindi la vittoria si giocherà su manciate di voti.
Interessante anche la partita tra i pm. Nel collegio centro-nord favoriti il pm romano di Area Mario Palazzi (Consip, antimafia) e quello fiorentino Eligio Paolini (antimafia). Due magistrati che sommano al sostegno delle due correnti più forti e radicate (essenziale in una campagna breve e su un collegio gigantesco) una generale considerazione per qualità umane e professionali.
Ma ci sono due outsider di peso. Antonio Patrono, procuratore a La Spezia, corre per la terza elezione al Csm. Sarebbe un record (finora solo lui e Vladimiro Zagrebelsky sono stati eletti due volte). Patrono è un magistrato vecchia scuola, conservatore, sempre disponibile alle difese disciplinari (che sono fonte di stima e consensi), uscito da Magistratura Indipendente in tempi non sospetti per seguire Davigo. Da sempre pupillo di Marcello Maddalena, potrebbe conquistare voti inaspettati – oltre che in Liguria – anche in Piemonte.
Qualche sera fa era tra gli invitati alla grande festa in un circolo sul Po per Anna Maria Loreto, a sua volta pupilla di Maddalena, nominata procuratrice di Torino nel 2019. Una festa rinviata più volte causa Covid e dichiaratamente impolitica, «per mangiare bere e ballare». Niente discorsi ufficiali, nello stile della festeggiata. Solo buona musica e buon vino. Ma ciò non ha impedito a Maddalena di manifestare sostegno a Patrono, a modo suo («Oltre che un bravo magistrato è single, quindi appetibile, e prenderà un sacco di voti anche per quello»).
La corsa dell’altro outsider, Roberto Fontana, coordinatore del pool reati economici a Milano, nasce da un conflitto interno ad Area su regole e modalità delle primarie per scegliere i candidati. Poi è cresciuta con il sostegno indiretto di Magistratura Democratica. Infine si è consolidate con un appello in suo favore sottoscritto da oltre cento magistrati, non solo pm e non solo milanesi. Dai torinesi Furlan, Locati e Santoriello (inchiesta Juventus) ai romani Loy e Orano; dagli aggiunti fiorentini Mazzotta e Turco (inchiesta Open) a quello genovese Pinto (inchiesta Autostrade); dalla bergamasca Rota (inchiesta Covid) a diversi pm della Procura europea. Tra i firmatari anche Alessandra Dolci, capo dell’Antimafia a Milano e compagna di Davigo, e Roberto Spanò, presidente del tribunale di Brescia che processa Davigo.
Situazione fluida anche nel collegio meridionale. La Puglia, che sta ad Area come la California sta ai democratici americani, esprime il procuratore aggiunto tarantino Vincenzo Carbone, già segretario dell’Anm. È il favorito. Magistratura Indipendente punta sul pm palermitano Dario Scaletta, su cui pende al Csm una pratica in prima commissione per incompatibilità ambientale trattata in questi con molta delicatezza e non senza imbarazzo. Siciliano è anche Marco Bisogni, di Unicost, che vanta di essere stato l’arcinemico del «sistema Siracusa» di cui faceva parte l’ineffabile avvocato Amara con magistrati infedeli. Bisogni è anche parte civile nel processo a Palamara a Perugia.
Il quarto incomodo è il pm napoletano Henry John Woodcock. Punta sulla fama mediatica, sul profilo da cane sciolto, sulla napoletanità (distretto popoloso con 1200 voti potenziali, trascurato dalle altre correnti) e sul sostegno di alcuni noti colleghi di Magistratura Democratica napoletana, come Piscitelli e Vanorio.
Ancor più imperscrutabile l’esito tra i giudici. Dove Magistratura Democratica potrebbe conquistare il suo «diritto di tribuna» con il romano Savio. E dove corre il veneto Andrea Mirenda, leader dei sostenitori del sorteggio e collegato ad altri candidati (sorteggiati, appunto) dei gruppi anticorrenti Altra Proposta e Articolo 101.
In tutto 87 candidati su poco più di 9mila votanti, più del triplo di quattro anni fa. Solo la metà dei candidati è collocabile nel sistema delle correnti organizzate. Campagna inevitabilmente caotica e dispersiva. Un suk in cui il quotidiano Il Foglio ha rivelato che il candidato napoletano di Area, il giudice Tullio Morello, in un dibattito in streaming con una trentina di colleghi ha dichiarato, appunto, che «Palamara è stato un grandissimo pezzo di m… puntini sospensivi e si preannunciano riforme più canaglia della riforma Cartabia».
Scandalo da parte di politici e magistrati inopinatamente riconvertiti alla verginità.
Ma è solo politica giudiziaria, bellezza.
«Palamara è un pezzo di m…», l’ex pm denuncia un candidato al Csm. L'ex presidente dell'Anm querela un magistrato di Area dopo aver visionato un video pubblicato da Il Foglio. Il Dubbio il 14 settembre 2022.
«Dopo aver visionato il video pubblicato sul sito del quotidiano il Foglio ho dato mandato ai miei legali di sporgere querela nei confronti del dott. Tullio Morello. Grave per la democrazia che se nel passato il dott. Morello aveva appassionato il Tribunale di Napoli per le sue vicende sentimentali oggi come magistrato candidato al Csm per la corrente di Area, nel corso di una pubblica discussione con altri magistrati, utilizzi l’espressione “pezzo di merda” per denigrare le mie posizioni sul tema della correntocrazia». Così l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara.
«La battaglia per riformare la giustizia continua ancor di più per liberare la magistratura dal gattopardismo strisciante dalla corrente di appartenenza del dott. Morello», conclude Luca Palamara.
«Le mie parole su Palamara strumentalizzate a pochi giorni dal voto per il Csm». Parla Tullio Morello, Presidente della V sezione penale al Tribunale di Napoli, candidato di Area Dg al Csm. Valentina Stella su Il Dubbio il 16 settembre 2022.
«Si preannunciano riforme più canaglia della riforma Cartabia» e «Palamara è stato un grandissimo pezzo di m…»: per queste due frasi riportate dal Foglio, da qualche giorno Tullio Morello, Presidente della V sezione penale al Tribunale di Napoli, candidato di Area Dg (Collegio 3 giudicanti) al voto del prossimo Csm che si terrà domenica e lunedì prossimi, è sotto i riflettori mediatici.
Dottor Morello che ha pensato appena ha letto l’articolo?
Sono rimasto certamente stupito e dispiaciuto, anche se il mio lavoro mi ha abituato a vicende simili. Mi ha amareggiato vedere la campagna elettorale per un organo così importante come il Csm strumentalizzata in questo modo, tra l’altro stravolgendo e decontestualizzando le mie dichiarazioni.
Il video di questa riunione avrebbe dovuto essere reso pubblico?
Assolutamente no. Si trattava di una assemblea dell’Anm-sezione di Napoli, convocata in prosecuzione a riunioni precedenti. Siccome a luglio non erano presenti tutti i candidati, si è deciso di tenerne un’altra. Era quindi limitata solo ai convocati, ossia 37 magistrati compresi i candidati.
E però la registrazione al collega del Foglio è stata data da qualcuno che ha partecipato a quella riunione. C’è qualcuno all’interno del suo gruppo che voleva inquinare il dibattito?
Questo non posso affermarlo con certezza. È sicuramente una cosa spiacevole, io mi sono fatto un’idea ma rimaniamo sempre nel campo delle ipotesi. E poi vorrei far notare che questo mio stralcio di discorso, usato strumentalmente, viene fuori non il giorno dopo l’assemblea, ma nove giorni dopo, a meno di una settimana dalle votazioni per il Csm. Forse a qualcuno ha dato fastidio il mio intervento fatto sul Domani (dal titolo “Attenzione ai laici e ai cosiddetti indipendenti, il Csm rischia di venir schiacciato dalla politica, ndr) dove avevo posto una questione, un allarme in merito alla tutela della nostra indipendenza.
Ce la ricordi.
C’è il concreto rischio che il futuro Csm sia sbilanciato verso la politica e che la politica soffra l’indipendenza della magistratura. Questo si evince non solo dalle norme ma anche dalle discussioni parlamentari che avevo ascoltato per ore tre mesi fa in occasione dell’approvazione dell’ultima riforma ordinamentale. Le dichiarazioni dei parlamentari erano per la maggior parte rancorose e punitive nei confronti della magistratura. Però il punto non è come è uscito quel video.
Qual è?
Tutelare la mia persona, sempre stimata dai colleghi, dagli avvocati, dalle istituzioni. Chi mi conosce sa che sono da sempre una persona educata e di dialogo. Ho ribadito anche tante volte in queste settimane che chi vuole dialogare con me su valori reali troverà sempre una porta aperta. Certo, chi vorrà minare l’indipendenza della magistratura in me troverà sempre un nemico.
Passiamo alle frasi incriminate.
Il mio intervento è durato dieci minuti ma è stato pubblicato il video di un solo minuto. E poi l’intero dibattito è durato quasi un’ora e mezzo. Per quanto riguarda la frase su Palamara: in quella riunione e nelle precedenti e sulle nostre mailing list, un giorno sì e un giorno no, quelli come me che hanno svolto attività associativa in maniera attiva (è stato presidente della sottosezione dell’Anm di Torre Annunziata e presidente e segretario dell’Anm napoletana, ndr) e che appartengono ai gruppi associativi sono stati accusati, in termini anche peggiori rispetto a quelli da me usati, di aver concorso alla crisi della magistratura. E stavo elencando le espressioni più comuni utilizzate, ad esempio “Palamara è un pezzo di m…”. Questo per dire che non sono stato io ad apostrofarlo in quel modo, stavo riferendo frasi di altri. Se si fosse visto il video per intero lo si sarebbe capito. E stavo dicendo quello per difendere il mio operato e quello di altri colleghi. Io – come altri candidati, non solo nel mio gruppo – abbiamo fatto attività associativa per anni con passione, senza ricevere mai una accusa da nessuno, senza mai oscurare la propria attività giudiziaria. Tanto è vero che in questi giorni sto ricevendo messaggi di stima non solo da parte di colleghi ma anche da parte del Foro.
Quindi non voleva screditare Palamara?
Non volevo screditarlo come non voglio glorificarlo. Come ho detto nella precedente assemblea mi aveva profondamente ferito la circostanza in cui Palamara, quando era presidente dell’Anm, venne a Napoli a distribuire a tutti i colleghi il Codice etico dell’Anm da poco approvato per poi violarlo in prima persona.
Palamara però minaccia querela nei suoi confronti.
Il senso del mio intervento è quello che ho spiegato, poi lui è libero di fare ciò che vuole. Io ho fiducia sempre nella magistratura.
Per quanto concerne “Si preannunciano riforme più canaglia della riforma Cartabia”?
L’Anm ha scioperato contro la riforma Cartabia, criticata a 360 gradi da tutta la categoria dei magistrati. Ho partecipato all’Assemblea generale dell’Anm che ha deliberato quello sciopero e su Radio radicale si può riascoltare il mio intervento. Mi ero detto a favore dell’astensione e avevo criticato gli aspetti della riforma che non condivido. L’aggettivo “canaglia” l’ho usato per dire che la riforma punisce ingiustamente la magistratura. A questo quadro si aggiungono i programmi elettorali dei partiti che se realizzati in tema di giustizia andranno ulteriormente a peggiorare l’esercizio della giurisdizione a scapito dei cittadini.
Le sue dichiarazioni hanno suscitato però delle dichiarazioni negative da parte di altri magistrati. Angelo Piraino, segretario di Magistratura indipendente, per esempio, ha detto sempre al Foglio: “Chi aspira a divenire membro del Csm è importante che sappia dosare le parole”.
Per quanto riguarda le dichiarazioni di Piraino, le rispetto. Però aggiungo che mi sono arrivati messaggi di solidarietà anche di colleghi appartenenti al suo gruppo. Quindi ognuno la vede a modo proprio. Ho letto anche sul Riformista altri colleghi che sono intervenuti in maniera molto dura contro di me ma sono gli stessi colleghi che quotidianamente sulle nostre mailing list utilizzano termini molto più pesanti dei miei quando si confrontano su questi temi. Quello che però mi ha ferito leggendo sia il Riformista che il Foglio è che non volevo rendere dichiarazioni. Questo non è vero perché non mi sono mai sottratto in questi giorni a rispondere ai giornalisti che mi hanno cercato.
Il caso di Morello. Chi è Tullio Morello, il giudice candidato al Csm dopo gli insulti a Cartabia e Palamara. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Settembre 2022
“Luca Palamara è un grandissimo pezzo di m….”, quella della Cartabia è una riforma “canaglia”, e chi critica le correnti lo fa per “qualunquismo imperante”. Si è fatto prendere un po’ troppo la mano il giudice Tullio Morello, presidente di sezione al Tribunale di Napoli Nord e candidato alle prossime elezioni per il Consiglio superiore della magistratura. Le frasi, molto poco consone ad un magistrato della Repubblica, sono state pronunciate da Morello, esponente di punta della corrente progressista Area, mentre illustrava il proprio programma durante un dibattito elettorale la scorsa settimana. Immediata la replica di Luca Palamara: “È grave che un magistrato, in una discussione pubblica con altri magistrati, dica che sono un pezzo di merda per denigrare le mie posizione contro la correntocrazia”.
“Morello, che a suo tempo aveva appassionato i colleghi del tribunale di Napoli con le sue vicende sentimentali, dovrà rispondere nelle sedi competente delle frasi ingiuriose nei miei confronti”, aggiunge l’ex presidente dell’Anm, che ha cosi colto l’occasione “per rassicurare tutti che la mia battaglia per liberare la magistratura dal gattopardismo strisciante tipico della corrente di Morello proseguirà con sempre maggiore impegno”. E non si è fatta attendere la risposta dei magistrati “qualunquisti”. Il primo ad intervenire è stato il giudice veronese Andrea Mirenda, anch’egli candidato alle prossime elezioni del Csm, in un collegio diverso da quello di Morello. “Mi sembra troppo facile – dichiara Mirenda – dare addosso a Palamara. Dove era Morello quando il nostro Luca nazionale spartiva le nomine e gli incarichi al Csm con i consiglieri di Area? Se non è stato criticato allora, a maggior ragione non deve esserlo oggi, dopo che ha svelato pubblicamente le pratiche, che tutti i magistrati comunque conoscevano, del premiato nominificio di Palazzo dei Marescialli”.
Per Mirenda, che corre come indipendente, “la riforma Cartabia è sì una pessima riforma, ma l’ultima che può dolersene è proprio la correntocrazia: possono invece dolersene i singoli magistrati, la cui indipendenza viene messa in gioco da una sempre più temibile minaccia interna”. Commenti negativi alle esternazioni di Morello anche dalla consigliera di Cassazione Milena Balsamo, esponente di Altra proposta, il comitato di toghe che ha selezionato i propri candidati a queste elezioni con il sistema del sorteggio. “Io non mi sento affatto – puntualizza la magistrata – una qualunquista perché critico le correnti. Se siamo arrivati a questo punto è proprio grazie alle correnti”. “Morello critica la riforma Cartabia? Bene, gli ricordo che esponenti della sua corrente sono fuori ruolo al Ministero della giustizia ed hanno contribuito fattivamente alla stesura del testo. Se non lo condividevano, potevano tranquillamente dimettersi e tornare a svolgere le funzioni giurisdizionali”, prosegue la giudice.
“E poi siamo veramente al paradosso: Palamara è sempre l’unico capro espiatorio, come se avesse fatto tutto da solo. Morello pensasse a dissociarsi dai meccanismi correntizi invece di offendere un ex collega. La Cassazione ha annullato una sentenza che aveva assolto un giornalista che aveva definito un mafioso come Morello ha definito Palamara. Nessun può ledere, tantomeno un magistrato, i diritti personali di chiunque, anche se costui ha commesso condotte illecite”, ha quindi concluso la toga. “Non mi sembra che Morello con queste dichiarazioni abbia contribuito a migliorare il prestigio della intera magistratura”, afferma invece Antonio Leone, ex presidente supplente della Sezione disciplinare del Csm nella scorsa consiliatura. “In nessun paese al mondo – prosegue Leone – è possibile che un giudice definisca una riforma del suo comparto votata dal Parlamento su proposta del ministro della Giustizia, per giunta ex presidente della Corte Costituzionale, ‘riforma canaglia’. Questo purtroppo accade solo da noi da, avendo la magistratura invaso il campo della politica in barba alla separazione dei poteri: con questo di fare, certa magistratura dimostra un atteggiamento pregiudiziale di contrapposizione alla volontà del legislatore”.
“Anche le espressioni usate nei confronti dell’ex collega Palamara – aggiunge – mi sembrano fuori luogo e irrispettose non solo di un ex magistrato, ma anche impronunziabili nei confronti di chiunque”. In attesa di sapere se il procuratore generale della Cassazione vorrà aprire un procedimento nei confronti di Morello, il diretto interessato ha preferito ieri non commentare l’accaduto, proseguendo la campagna elettorale. Sul fronte del Csm, sempre per restare nel solco della tradizione che vede Palamara come unico responsabile di tutte le malefatte, il Plenum ha archiviato ieri la posizione anche del giudice calabrese Massimo Forciniti. Il magistrato, ex componente del Csm, era finito nelle chat di Palamara per questioni di nomine ed incarichi. Interrogato sul punto aveva ammesso che nella scorsa consiliatura la situazione era sfuggita di mano, con una degenerazione delle correnti e con tutti che volevano essere nominati all’unanimità, per far vedere all’esterno che l’incarico era stato meritato.
Una vicenda “simile” all’hotel Champagne senza però i parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti, il commento del togato Giuseppe Cascini. A differenza di Palamara che è stato radiato con ignominia dalla magistratura con un turbo processo, a Forciniti però il processo disciplinare non è stato celebrato. La procura generale, infatti, non ha mai esercitato nei suoi confronti l’azione disciplinare. Nella memoria difensiva presentata al Csm, il giudice calabrese si era difeso sostenendo che le chat con Palamara erano “ragionamenti tra due ex consiglieri militanti nello stesso gruppo associativo” e “ispirati a finalità di massima funzionalità degli uffici e nell’interesse della giurisdizione nel suo complesso”. “Fatti di una gravità inaudita”, secondo alcuni consiglieri, e che avrebbero fatto venir meno, per Forciniti, il requisito dell’indipendenza. Durissimo il commento di uno di loro, che ha votato contro l’archiviazione, il laico in quota Lega Stefano Cavanna: “Il Csm ha voluto salvare tutti”. Paolo Comi
Confermato lo scoop del Riformista. Il trojan di Palamara fu taroccato e la cena con Pignatone registrata: ecco la maxiperizia che lo dimostra. Paolo Comi su Il Riformista il 13 Settembre 2022
La cena del 9 maggio 2019 fra Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, e Giuseppe Pignatone, ex procuratore di Roma, al ristorante Mamma Angelina ai Parioli venne registrata con il trojan. Trova, dunque, conferma lo scoop del Riformista del 9 marzo del 2021. La clamorosa novità emerge dalla maxi consulenza tecnica dell’ingegner Lelio della Pietra, informatico forense, incaricato dall’ex componente del Csm Antonio Lepre. L’ex togato di Palazzo dei Marescialli, attuale consigliere della Corte d’appello di Napoli, aveva dato mandato all’ingegnere della Pietra di verificare se il trojan inserito nel cellulare di Palamara fosse stato in qualche modo ‘taroccato’.
Lepre, proprio a seguito di alcune captazioni, in particolare quelle effettuate presso l’hotel Champagne, era stato costretto alle dimissioni con conseguente sanzione disciplinare della sospensione dalle funzioni. La domanda rivolta all’ingegnere era finalizzata a conoscere se il trojan avesse subito “manipolazioni” nelle programmazioni e registrazioni. Della Pietra ha analizzato i file, incrociando i dati forniti da Rcs, la società di Milano che aveva noleggiato il software spia al Gico della guardia di finanza su ordine della Procura di Perugia. I risultati della maxi perizia, trasmessa l’altro giorno “per competenza” alle Procure di Napoli, Perugia e Firenze, lasciano interdetti: non esiste corrispondenza fra le captazioni effettuate e le registrazioni, con ‘anomale’ modifiche da parte degli operanti. Addirittura ci sarebbero casi di modifiche di file di cui non esiste la programmazione o dove manca l’audio “Comportamenti assolutamente inconcepibili per un software che deve garantire evidenza probatoria”, ricorda l’ingegnere.
Rcs, dopo lo scoop del Riformista, aveva fornito chiarimenti al procuratore di Perugia Raffaele Cantone. Chiarimenti non ritenuti plausibili dal consulente di Lepre, il quale aveva anche sottolineato che “nei giorni 8 e 9 maggio 2019 si verificano contemporaneamente più diversi tipi di anomalie con interruzioni impreviste della captazione”. Di fatto una “acclarata manipolazione che risulta in maniera eloquente”. Chi ha dato, allora, l’ordine ai finanzieri di ‘modificare’ il trojan? Hanno fatto tutto da soli? Sono domande che in questi anni nessuno gli ha mai posto e che sarebbe opportuno iniziare a fare. Tornando, invece, alla cena al ristorante, Palamara nelle sue innumerevoli interviste ha sempre evitato di raccontare nei particolari cosa avvenne durante quella serata. Il giorno prima, ed è un dato ormai acclarato, insieme a Cosimo Ferri, ex leader di Magistratura indipendente, aveva discusso della nomina del nuovo procuratore di Roma, all’insaputa del principale candidato, Marcello Viola, ora procuratore di Milano.
L’esperienza insegna che quando dei magistrati si siedono intorno ad una tavolo prima o poi iniziano a discutere anche di nomine ed incarichi. Accade così anche da Mamma Angelina? Palamara raccontò a Pignatone cosa era successo la sera prima all’hotel Champagne? O commentò l’ultima partita dell’A.S. Roma di cui è tifosissimo? Si tratta, ovviamente di supposizioni. Ma dopo oltre tre anni qualche chiarimento in più non guasterebbe.
Giacomo Amadori per “La Verità” il 12 settembre 2022.
La carta che scotta è rimasta chiusa per 40 mesi all'interno del protocollo riservato della segreteria particolare del procuratore di Perugia, lo stesso che solitamente viene usato quando non si vuol inserire un documento nel protocollo generale o agli atti di un procedimento penale. Insomma quel documento, per decisione dell'ex procuratore Luigi De Ficchy, avrebbe dovuto rimanere lontano da occhi indiscreti.
Ma adesso il suo successore, Raffaele Cantone, dopo uno scoop della Verità, ha scelto la strada della trasparenza e lo ha tolto dal cassetto in cui era stato sigillato.
Si tratta di un documento che potrebbe permettere di riscrivere la storia dell'hotel Champagne, la celeberrima riunione di consiglieri del Csm a cui parteciparono pure due parlamentari (Cosimo Ferri e Luca Lotti) alla vigilia della nomina del procuratore di Roma.
Quel dopocena venne ascoltato dai finanzieri del Gico e usato dalla Procura di Perugia e dal Csm per disarticolare la neonata alleanza conservatrice all'interno del parlamentino dei giudici. Quelle intercettazioni vennero utilizzate per defenestrare dalla magistratura Luca Palamara e far dimettere dal Csm cinque consiglieri considerati rivali delle toghe progressiste.
Per mesi si è dibattuto sull'utilizzabilità di quelle captazioni stante la presenza dei due deputati, ma Procura e giudici hanno sempre sostenuto la casualità di quelle intercettazioni. Che successivamente vennero passate sottobanco a Repubblica e al Corriere della sera, quando non erano ancora giunte al Csm ed erano coperte dal segreto istruttorio, per essere rese pubbliche alla vigilia del voto per il procuratore di Roma.
La campagna mediatica fece saltare la nomina di Marcello Viola e azzoppò il Csm, che venne riportato a sinistra con la benedizione del presidente Sergio Mattarella.
Ma, come si sa, il diavolo fa le pentole e non i coperchi e, infatti, l'ex cancelliere di De Ficchy, Raffaele Guadagno, il 7 gennaio 2022 ha informato Palamara dell'esistenza di un'istanza di astensione da parte della pm Gemma Miliani, il magistrato che rappresenta la pubblica accusa nel processo all'ex presidente dell'Anm. Un atto in cui la toga ammetteva in modo piuttosto esplicito l'ingresso di Ferri nel perimetro delle indagini, circostanza mai confermata ufficialmente.
La notizia dell'esistenza del documento è stata rivelata a luglio da questo giornale.
Dopo aver letto il nostro scoop i legali di Ferri e dei consiglieri estromessi dal Csm si sono rivolti al procuratore Cantone per averne copia e il capo degli inquirenti umbri, con grande solerzia, lo ha messo a disposizione delle difese.
Che adesso potranno utilizzarlo nei loro ricorsi contro i provvedimenti disciplinari.
Ma vediamo nel dettaglio questo documento esplosivo.
La Miliani, l'8 maggio 2019, poche ore prima che iniziasse la riunione dell'hotel Champagne, quello con la presenza «casuale» dei parlamentari, aveva inviato al suo capo un'istanza di astensione con questo incipit: «Si rappresenta che, come già noto alla Signoria Vostra, nell'ambito del processo penale numero 6652/18 (quello in cui Palamara era intercettato con il trojan, ndr) sono emersi molteplici contatti telefonici tra un indagato e Cosimo Ferri, già magistrato, attualmente parlamentare».
Avete letto bene: «Molteplici contatti». Quindi il giorno dello Champagne la pm ammetteva che il deputato Ferri era stato intercettato più volte. Persino, come risulta dagli atti, il 7 e l'8 maggio mentre si preparava all'incontro in albergo. Ma questo non aveva indotto la Procura, né gli investigatori ad adottare le necessarie precauzioni per evitare di captare un parlamentare.
Quale ad esempio la predisposizione di un servizio di ascolto in tempo reale h24. Invece il trojan venne lasciato acceso senza controllo e la sbobinatura fatta a distanza di giorni, sostenendo che per tale motivo le intercettazioni diventavano casuali.
Il 9 maggio De Ficchy, senza negare di essere a conoscenza delle intercettazioni con il politico, replica alla sua collega: «Rilevato che dai fatti segnalati non emerge alcun elemento che renda necessaria o quanto meno opportuna l'astensione dello stesso sostituto procuratore dalla trattazione del procedimento segnalato dispone il non luogo a provvedersi».
Quindi chiede che la decisione sia comunicata «in maniera riservata» alla Miliani.
La toga aveva motivato la sua richiesta di astensione a causa dei suoi stretti rapporti con la moglie di Ferri, Federica Mariucci, di cui era stata collega di concorso e testimone di nozze nell'ottobre 2005.
Le due, tra il 2002 e il 2004, sarebbero state anche compagne di uditorato a Firenze e coinquiline. I rapporti si sarebbero poi diradati: la Miliani, matrimonio a parte, avrebbe incrociato Ferri in occasione di una visita dell'allora sottosegretario alla Giustizia al Tribunale di Perugia e sarebbe andata a trovare l'amica Federica nella sua «abitazione coniugale» per l'ultima volta nel dicembre del 2016.
Qui ovviamente il problema non sono i rapporti della pm con la famiglia Ferri, quanto la consapevolezza dei «molteplici contatti telefonici» di Palamara con il deputato, circostanza che non ha impedito ai magistrati di considerare casuale la captazione del parlamentare la notte dello Champagne, una riunione che ha scatenato un vero terremoto dentro la magistratura.
Sarà per questo che, 24 ore dopo che la sua istanza di astensione è stata respinta, il 10 maggio 2019, la Miliani ha deciso di mettere dei paletti all'attività di intercettazione.
Ma ormai i buoi erano scappati e la registrazione dell'hotel era stata effettuata e successivamente sbobinata. Solo allora, forse in preda ai dubbi, la pm ha raccomandato agli investigatori che nel caso «Palamara sia prossimo a incontrare un parlamentare (ad esempio prenda un appuntamento direttamente con un parlamentare o conversando con un terzo emerga la presenza di un parlamentare), sarà vostra cura NON (così tutto maiuscolo, ndr) attivare il microfono, trattandosi in tal caso, ad avviso di questo pm, non più di intercettazione indiretta CASUALE di un parlamentare».
La sensazione è che dopo il tentativo di smarcarsi in zona Cesarini dell'8 maggio, la Miliani, rimasta con il cerino in mano, il 10 abbia voluto mettere nero su bianco che quanto accaduto nei giorni precedenti non doveva più ripetersi. Peccato che la bomba fosse stata innescata e le registrazioni di parlamentari si siano ripetute anche il 16, il 21 e il 28 maggio.
Nonostante questo quadro, per mesi il Csm ha preferito fare lo struzzo. Con un'ordinanza del 2 ottobre 2020 la sezione disciplinare che stava giudicando Palamara ha dichiarato utilizzabili le conversazioni captate allo Champagne poiché la telefonata delle ore 19.13, con la quale Palamara e Ferri convenivano di incontrarsi, sarebbe stata ascoltata e trascritta «solamente» la mattina del 9 maggio.
In realtà le intercettazioni che preannunciavano la partecipazione di Ferri e, anche, di Lotti all'incontro erano state almeno cinque e, tra queste, una del 7 maggio era stata sentita dalla Guardia di finanza alle ore 18.42 dell'8 maggio, 5 ore e 25 minuti prima dell'inizio del «summit». Dunque la presenza di Ferri nell'albergo capitolino non poteva essere considerata una sorpresa, ma anzi un rischio concreto dal quale guardarsi.
Nonostante quanto vi abbiamo raccontato la «casualità» dell'intercettazione degli incontri di Palamara con Ferri è stata affermata sia dalla Corte di cassazione che ha confermato la radiazione di Palamara sia dal Csm quando ha giudicato i consiglieri presenti all'incontro, vale a dire Luigi Spina, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre e Gianluigi Morlini, condannandoli alla sospensione dal servizio.
A gennaio la Camera dei deputati, invece, ha deciso di negare alla sezione disciplinare del Csm l'autorizzazione all'utilizzo delle captazioni informatiche nei confronti di Ferri, ritenendo che si sia trattato di intercettazioni indirette e non casuali e come tali eseguite in violazione dell'articolo 68 della Costituzione. Che recita che «senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare [] analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza».
Ma il Csm ha insistito e, il 24 marzo 2022, ha sollevato il conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale, attualmente pendente. L'onorevole Alfredo Bazoli del Pd in Aula ha evidenziato come già ad aprile del 2019 esistessero «elementi» che consentivano di ritenere che Ferri «fosse entrato nel perimetro delle indagini della Procura di Perugia sebbene egli non abbia mai formalmente assunto la qualità di indagato».
Tali «elementi» si rinvengono nelle richieste di proroga delle intercettazioni telefoniche del 3 e del 19 aprile 2019 e nei conseguenti decreti di proroga del 4 e del 20 tanto da fare «dubitare che l'onorevole Ferri non fosse già oggetto dell'indagine». La Miliani, per esempio, il 3 e il 19 aprile, aveva evidenziato come le conversazioni di Palamara documentassero «contatti costanti e duraturi con colleghi, esponenti delle correnti, e sinanco parlamentari e attuali consiglieri del Csm volti a "pianificare strategie" utili alle nomine in corso al Csm».
Nelle sue autorizzazioni il gip di Perugia aveva rimarcato «la capacità di Palamara di orientare le nomine del Csm anche mediante le relazioni con l'onorevole Ferri» e che ciò «costituiva lo sfondo delle condotte illecite oggetto dell'indagine penale». Addirittura in un'annotazione dell'aprile 2019 inviata alla Miliani dagli investigatori del Gico e contenente la trascrizione di almeno cinque intercettazioni telefoniche di Ferri, si leggeva che «nell'attuale periodo di monitoraggio le attività di ascolto consentivano di rilevare come tra il Palamara e il Ferri intercorresse un rapporto non limitato alla mera appartenenza ad associazioni di magistrati bensì ad altri contesti connotati da elementi di opacità». In sostanza Ferri era già un target concreto. E la Procura di Perugia lo sapeva benissimo.
Ferri: «Processato ingiustamente, all’epoca ero un politico». L'ex deputato di Italia è incolpato di avere tenuto un «comportamento gravemente scorretto, in violazione dei doveri di imparzialità e correttezza» nei confronti dei giudici della Suprema Corte. Si parla della sentenza Mediaset contro Berlusconi. Il Dubbio il 20 ottobre 2022
«Mi ritengo ingiustamente incolpato. All’epoca avevo un ruolo politico, ero sottosegretario alla giustizia, non svolgevo attività giudiziaria». Così Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa ed ex parlamentare, si è difeso davanti alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura.
Ferri è a processo con l’accusa di avere tenuto un «comportamento gravemente scorretto, in violazione dei doveri di imparzialità e correttezza» nei confronti dei giudici della Suprema Corte per avere accompagnato per tre volte a casa di Silvio Berlusconi, tra la fine del 2013 e i primi mesi del 2014, il giudice relatore del processo Mediaset, Amedeo Franco, componente della Sezione feriale che il 1 agosto 2013 confermò la condanna del leader di Forza Italia per frode fiscale. E secondo la procura generale della Cassazione avrebbe avallato la posizione del giudice, morto nel 2019, che prendeva le distanze dai suoi colleghi definiti “plotone di esecuzione”, e dalla sentenza.
«Dalle trascrizioni delle conversazioni emerge che non dico niente contro il collegio – ha sottolineato Ferri – mi si contesta di avallare. Se si leggono le conversazioni non intervengo mai, non faccio mai un commento negativo né condivido alcun giudizio del presidente Franco». E ha spiegato che non era a conoscenza, prima dell’incontro, di quello che il giudice voleva dire a Berlusconi «Assolutamente non sapevo i contenuti del colloqui, avvertivo solo il disagio di Franco».
Ferri ha poi definito il processo disciplinare «un procedimento politico» e ha citato il togato Giuseppe Cascini, componente del collegio, ricordando come avesse «nel suo ruolo di segretario dell’Anm più volte attaccato Berlusconi». Su questo punto è intervenuto il presidente del collegio, il laico M5S Fulvio Gigliotti, respingendo con forza queste affermazioni: «noi facciamo procedimenti disciplinari che hanno carattere giurisdizionale, non procedimenti politici».
Il caso dell'ex leader di Mi. Cosimo Ferri finisce sotto processo al Csm e attacca i giudici: “Prevenuti”. Paolo Comi su Il Riformista il 4 Ottobre 2022
Questi giudici sono ‘prevenuti’. È iniziato ieri subito con il botto il nuovo procedimento disciplinare, tanto per non perdere l’abitudine, nei confronti di Cosimo Ferri, ex leader di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe, e deputato di Italia viva. La procura generale della Cassazione gli imputa una “grave scorrettezza” nei confronti dei colleghi componenti del collegio che nell’estate del 2013 condannò in via definitiva Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset sui diritti televisivi.
Condanna che determinò poi la decadenza del Cav dal Senato per effetto della legge Severino. Secondo la ricostruzione dell’accusa, Ferri avrebbe accompagnato l’allora consigliere Amedeo Franco, relatore della sentenza, da Berlusconi per fargli raccontare cosa era avvenuto nella camera di consiglio. Franco, scomparso nel 2019, avrebbe allora sposato la ricostruzione fatta da Ferri e quindi di aver sottoscritto un provvedimento che non condivideva perché sollecitato dal presidente del collegio Antonio Esposito. L’ex consigliere della Cassazione si sarebbe recato da Berlusconi tre volte, fra la fine del 2013 e gli inizi del 2014, avallando la tesi del complotto ordito, secondo Ferri, dalle toghe di sinistra. La vicenda era diventata di dominio pubblico in quanto questi incontri erano stati registrati e i relativi audio diffusi sui media.
Nel collegio che dovrebbe giudicare Ferri, presieduto dal pentastellato Fulvio Gigliotti, compaiono sia Giuseppe Cascini che Elisabetta Chinaglia, esponenti di punta della magistratura progressista. E compare anche Giuseppe Marra, ex di Magistratura indipendente, molto amico all’epoca di Ferri, poi passato con Piercamillo Davigo in Autonomia&indipendenza, la turbo corrente della magistratura che si è estinta alle ultime elezioni per la componente togata del Csm, passando da 5 a zero membri. Tutti magistrati che sarebbero per il loro pregresso non imparziali nei confronti di Ferri. Per il procuratore generale della Cassazione Giovanni Leo, che ha chiesto il rigetto dell’istanza di ricusazione di Ferri, si tratterebbe invece di normali contrasti fra magistrati iscritti a correnti differenti.
L’avvocato Luigi Panella, difensore di Ferri, ha ricordato al collegio che il giudice oltre ad essere imparziale dovrebbe anche apparirlo. Nei prossimi giorni è attesa la decisione che, visti i precedenti, sarà sicuramente negativa dal momento che in 60 anni il Csm non ha mai accolto mezza ricusazione. Gli ‘screzi’ fra Cascini e Ferri, comunque, hanno origini risalenti nel tempo. Agli inizi del 2015 Ferri era sottosegretario alla Giustizia e Cascini scrisse sulla mailing list dell’Associazione nazionale magistrati una lettera di fuoco affermando che fosse entrato nel governo per interesse personale. Parlando poi con qualche anno dopo con Palamara, gli avrebbe intimando in maniera perentoria di ”non frequentare Ferri”. Paolo Comi
Riecco il plotone di esecuzione. Il Csm processa Ferri, il motivo? Accompagnò il giudice che voleva scusarsi con Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Settembre 2022.
Non sappiamo se il collegio della sezione disciplinare del Csm sarà un “plotone di esecuzione” né se uno dei giudici poi si pentirà e andrà a spiegare in lacrime all’interessato che la condanna è stata frutto di un complotto politico voluto “dall’alto”. Fatto sta che il prossimo 9 settembre non si prospetta una passeggiata per Cosimo Ferri, magistrato e leader della corrente conservatrice delle toghe, ma ormai politico a tutti gli effetti, due volte sottosegretario alla giustizia, oggi candidato con Italia Viva.
Ma si sa che la toga non si abbandona mai. E comunque non se ne dimentica il Csm, quando deve tirare le orecchie a qualche magistrato, pur se non in servizio permanente effettivo. E in questo caso l’incolpazione è pesante, anche se surreale. A Cosimo Ferri viene imputato il ruolo di accompagnatore, che svolse in quei fatidici giorni, a cavallo tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, in cui il giudice di cassazione Amedeo Franco, con il capo cosparso di cenere, gli chiese di presentargli Silvio Berlusconi, che lui stesso aveva contribuito a far condannare a quattro anni di carcere per frode fiscale. Una vicenda che, non va mai dimenticato, con quella condanna e poi la decadenza del leader di Forza Italia dal Senato, ebbe notevoli conseguenze politiche e cambiò la storia del Paese.
Fare l’accompagnatore non è certo un reato. Ma non siamo sicuri che sia neppure una “grave scorrettezza” nei confronti della magistratura e in particolare verso il collegio che aveva emesso il verdetto di condanna. Cioè il presidente Antonio Esposito e gli altri componenti della sezione feriale della cassazione che quel giorno prese il posto della terza, che avrebbe dovuto deliberare sul leader di Forza Italia. Non la pensa così il procuratore generale che, nell’incolpazione, accusa Ferri di “aver consentito” a Franco, accompagnandolo a Palazzo Grazioli, allora residenza romana di Berlusconi, di rivelare “i supposti contenuti della camera di consiglio e di concordare le iniziative per agevolare la posizione giuridica dello stesso Berlusconi”. Non del tutto un istigatore, sarebbe stato il leader di Magistratura indipendente, ma una sorta di agevolatore di una grave scorrettezza del suo collega.
Cioè avrebbe in qualche modo, solo con la sua presenza e magari per aver dato un passaggio in auto, agevolato quella condotta inappropriata del giudice Franco. Che si era spinto fino a definire “plotone di esecuzione” il collegio che aveva emesso la sentenza, sottolineandone la natura politica e addirittura sospettando che i suoi colleghi avessero seguito direttive arrivate “dall’alto”. Cioè dal mondo della politica. Lo stesso Ferri, scrive nell’atto di incolpazione il procuratore generale, vi avrebbe messo sopra un carico da novanta, spiegando, nel corso di uno dei tre (o forse due) colloqui, che uno dei giudici del collegio, Ercole Aprile, stava per essere nominato membro del Csm e che apparteneva alla corrente di sinistra di Magistratura democratica. L’equazione è chiara.
Il giudice Franco ritiene che Silvio Berlusconi sia stato condannato in sede definitiva in seguito a un complotto politico, orchestrato dai partiti di sinistra attraverso i loro complici all’interno della magistratura. Il che è una grave calunnia, sostengono a loro volta i componenti di quel collegio della sezione feriale dell’estate del 2013. Tanto che hanno riempito di cause civili tutti i giornalisti che se ne sono occupati. A partire dal Riformista, che per primo rese pubbliche le parole del giudice Amedeo Franco. Che non può più spiegare né difendersi, essendo deceduto nel 2019. Ma quali sarebbero le responsabilità di Cosimo Ferri? Venerdì prossimo alle 14,30 si troverà davanti non, o almeno lo speriamo, a quel “plotone di esecuzione” diventato ormai famoso, ma a un tribunale di colleghi del Csm presieduto però da un laico, il professor Fulvio Gigliotti.
Stiamo parlando di quello che pare decisamente essere il più organico al suo partito, fra i tre nominati dal Movimento cinque stelle, e anche molto legato all’ex ministro Bonafede e al presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra. La sezione disciplinare non sarà presieduta in questo caso dal vice del Csm David Ermini, che in genere è molto presente, e non se ne capisce la ragione. Non crediamo sia per poter godere di un ultimo scorcio di sole weekendista di settembre, quindi la sua assenza potrebbe nascondere qualche motivo di astensione, uno tra i tanti che hanno costellato questa consiliatura dopo lo scoppio del “caso Palamara”.
Fatto sta che Cosimo Ferri, secondo l’accusa, non avrebbe avuto un ruolo puramente passivo, nella vicenda del “pentimento” del giudice Franco, non avrebbe solo indossato il berretto dello chaffeur. Avrebbe al contrario avallato, sostiene l’accusa, e magari stimolato il convincimento di Berlusconi “di essere vittima di un complotto ordito da una parte politico-istituzionale e da una corrente della magistratura”. Cosa del resto di cui il leader di Forza Italia è sempre stato convinto fin da quando, prima del suo ingresso in politica, il procuratore capo di Milano Saverio Borrelli gli aveva puntato il dito contro, invitando a non candidarsi chi aveva “scheletri nell’armadio”. E le “toghe rosse” erano state il suo incubo fin dal 1994. Beh, in quei giorni tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 almeno un giudice gli ha dato pienamente ragione. E un secondo, non giudice ma pubblico ministero, Luca Palamara, ha confermato la natura politica di certi provvedimenti della magistratura nei due libri scritti con Sandro Sallusti.
Il giudice Franco era stato molto circostanziato nella sua denuncia-pentimento. Aveva sostenuto che il verdetto era già deciso a priori, che la decisione era stata sottratta al giudice naturale, cioè la terza sezione della cassazione di cui lui faceva parte, che probabilmente avrebbe deciso diversamente. Aveva però aggiunto anche che il famoso “plotone di esecuzione” presieduto dal giudice Esposito avrebbe brigato per farsi assegnare la causa e per far anticipare la data prevista dell’eventuale prescrizione del reato al 2 agosto, mentre secondo altri calcoli si sarebbe potuto arrivare a settembre. Il problema se ci fosse stato o no un pregiudizio da parte di qualcuno dei giudici che parteciparono a quella camera di consiglio è difficile da sbrogliare. Il giudice Esposito è molto agguerrito, giustamente dal suo punto di vista, perché è in gioco la sua reputazione. E quel che a un comune cittadino non parrebbe offensivo, per un magistrato è una macchia infamante, il sospetto che abbia assunto decisioni non neutrali ma orientate politicamente.
Ha quindi inondato il mondo intero di querele, compreso a noi del Riformista. Ma un paio di inciampi li ha già dovuti subire, quasi affronti da parte di ex colleghi. Il primo in una causa contro il quotidiano Il Mattino di Napoli per l’intervista concessa dopo aver emesso la sentenza ma prima della pubblicazione delle motivazioni. E l’altra nella quale aveva preso di mira tre camerieri di un albergo di Ischia accusandoli di falso e chiedendo due milioni di euro di risarcimento. I tre avevano raccontato di alcune battute cui il magistrato, ospite in quell’albergo, si era lasciato andare e che dimostravano astio nei confronti di Berlusconi. Pregiudizio o solo gusto della battuta? Il giudice ha dato ragione ai camerieri. Ci sarà un “giudice a Berlino” anche nel parlamentino del Csm che, a partire dal prossimo 9 settembre dovrà stabilire se Cosimo Ferri è stato un accompagnatore o un istigatore di Amedeo Franco?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Traffico di armi, l'ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis condannato a 12 anni e 8 mesi. Redazione Tgcom24 il 28 Giugno 2022.
Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce ha condannato a 12 anni e 8 mesi l'ex gip di Bari, Giuseppe De Benedictis, accusato - in concorso con l'imprenditore agricolo Antonio Tannoia e il caporal maggiore capo scelto dell'Esercito Antonio Serafino - di traffico e detenzione di armi ed esplosivi, anche da guerra, del relativo munizionamento e di ricettazione. Tannoia è stato condannato con la stessa pena. Nei confronti di Serafino è stato, invece, ratificato il patteggiamento a 5 anni di reclusione. Nel 2021 De Benedictis fu arrestato dalla Dda di Bari per corruzione.
De Benedictis, chiesti 12 anni per ex gip Bari e 65mila euro di multa: confermata condanna. L'accusa ha chiesto 12 anni e 8 mesi (e 78mila euro di multa) per l’imprenditore agricolo Antonio Tannoia, nella cui masseria fu trovato l’arsenale e ha prestato il consenso per il patteggiamento a 5 anni del caporal maggiore dell’esercito Antonio Serafino. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Giugno 2022.
La Procura di Lecce ha chiesto la condanna a 12 anni di reclusione e 64.800 euro di multa per l’ex gip di Bari, Giuseppe De Benedictis, nel processo con il rito abbreviato davanti al gup Laura Liguori in cui tre persone sono accusate a vario titolo di detenzione di armi comuni e da guerra. L’accusa, rappresentata dal pm Alessandro Prontera, ha chiesto invece 12 anni e 8 mesi (e 78mila euro di multa) per l’imprenditore agricolo Antonio Tannoia, nella cui masseria fu trovato l’arsenale, e ha prestato il consenso per il patteggiamento a 5 anni del caporal maggiore dell’esercito Antonio Serafino. La sentenza è prevista nel pomeriggio, dopo l’arringa dei difensori degli imputati. De Benedictis è stato già condannato, sempre a Lecce, a 9 anni e 8 mesi per corruzione in atti giudiziari.
CONFERMATA CONDANNA A 12 ANNI
Il gup di Lecce, Laura Liguori, ha condannato a 12 anni e 8 mesi di reclusione l’ex gip Giuseppe De Benedictis e l’imprenditore agricolo Antonio Tannoia (difeso dall’avvocato Mario Malcangi) per detenzione di armi comuni e da guerra e del relativo munizionamento e di ricettazione. Il gup, al termine di un processo con rito abbreviato, ha confermato il patteggiamento a 5 anni di reclusione per il caporalmaggiore dell’esercito Antonio Serafino (difeso dagli avvocati Viola Messa e Antonio La Scala). Entro 48 ore il gup si pronuncerà sulla richiesta di revoca degli arresti domiciliari presentata dalla difesa di Serafino.
IL COMMENTO DELLA DIFESA
«Questa difesa non è adusa a commentare le sentenze fuori dalle aule di giustizia, ritenendo che le decisioni dei giudici vadano impugnate nelle sedi competenti, ma non può esimersi dall’evidenziare la assoluta illogicità e irrazionalità di questa sentenza». Lo dichiarano gli avvocati Saverio Ingraffia e Gianfranco Schirone, difensori dell’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis, condannato oggi dal gup del Tribunale di Lecce alla pena di 12 anni e 8 mesi di reclusione per la detenzione di un arsenale con armi anche da guerra.
I difensori ritengono la condanna «illogica e irrazionale, tenuto conto - spiegano - che lo stesso giudice ha avallato un patteggiamento a 5 anni di reclusione per un co-imputato persino gravato da un capo di imputazione in più».
Nelio Rossi: «La nostra giustizia è classista: un processo giusto lo possono avere solo i ricchi». Paolo Biondani su L'Espresso il 4 luglio 2022.
Da Palamara («narrazione e fatti sono due cose differenti» alle riforme, dal depistaggio sulla strage Borsellino ai mali del Csm. Parla uno dei leader storici di magistratura democratica
Scontri furibondi e denunce penali tra magistrati. Giudici indagati o arrestati per reati gravi. Scandali e misteri perfino nella lotta alla mafia. Processi lentissimi, norme incerte, sentenze contrastanti. E cittadini sempre più sfiduciati. La giustizia italiana attraversa una crisi profonda, strutturale. Per capirne le cause e i possibili rimedi L’Espresso ha intervistato Nello Rossi, che dopo una lunga carriera giudiziaria oggi è il direttore editoriale di Questione giustizia, la rivista di Magistratura democratica, storico laboratorio di pensiero e riforme giuridiche progressiste.
Palamara: «Da Rossi solita filippica sull’hotel Champagne. Perché non parla dei rapporti tra Violante e Caselli?» Il Dubbio il 3 luglio 2022.
L'ex pm della procura di Roma attacca il direttore della rivista "Questione Giustizia", che in un'intervista all'Espresso aveva fatto accenno alla famosa riunione romana
«Francamente da Nello Rossi, direttore della rivista “questione giustizia” – dall’altezza della sua “statura morale e culturale“ – mi sarei aspettato qualcosa in più che non la solita logora litania dell’hotel champagne e la rievocazione impropria, in stile don Abbondio, del procuratore Tinebra deceduto dal 2017 e che dunque non può replicare». Luca Palamara, ex pm di Roma, già presidente dell’Anm, commenta così l’intervista concessa all’Espresso da Nello Rossi.
«Magari, a proposito dell’interazione tra magistratura e politica, sarebbe stato più utile rievocare i rapporti tra Violante e Caselli, e per quanto riguarda l’eterodirezione, sarebbe stato più efficace riportare quanto ben raccontato da Ciccio Misiani a proposito di magistratura democratica e partito comunista» scrive Palamara in una nota.
Ed infine, venendo ai meccanismi di carriera interni alla magistratura, sarebbe stato sicuramente più interessante spiegare come un magistrato di cassazione possa diventare procuratore aggiunto. Oppure come un procuratore aggiunto possa diventare avvocato generale della cassazione. Oppure come un avvocato generale della cassazione possa diventare componente della Scuola di formazione dei magistrati. È ovvio che ogni riferimento alla carriera del dottor Nello Rossi, il cui valore professionale e politico non può assolutamente essere messo in discussione, è puramente casuale
«In ogni caso la risposta per spiegare questi meccanismi di carriera sarebbe stata molto semplice: sono le correnti bellezza! Sarebbe molto bello poter approfondire questi temi in un pubblico confronto tra magistratura e politica alla presenza dei protagonisti di quegli anni e di quelle storie: io sono disponibile!» conclude Palamara.
Csm, Palamara a Nello Rossi: più utile se parlasse dei rapporti tra Violante e Caselli, più efficace se dicesse perché lui ha fatto carriera ed altri no. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Luglio 2022
Sarebbe molto bello poter approfondire questi temi in un pubblico confronto tra magistratura e politica alla presenza dei protagonisti di quegli anni e di quelle storie. Palamara ha dato la sua disponibilità, chissà cosa ne pensa Nello Rossi ?
L’ex presidente dell’ ANM Luca Palamara, con una nota al vetriolo replica al magistrato Nello Rossi avvocato generale della Corte di cassazione, esponente della corrente di Magistratura Democratica e direttore della rivista “QUESTIONE GIUSTIZIA” : “Francamente da Nello Rossi, dall’altezza della sua “statura morale e culturale“ mi sarei aspettato qualcosa in più che non la solita logora litania dell’hotel Champagne e la rievocazione impropria, in stile don Abbondio, del procuratore Tinebra deceduto dal 2017 e che dunque non può replicare“.
“Magari, a proposito dell’interazione tra magistratura e politica” continua Palamara “sarebbe stato più utile rievocare i rapporti tra Violante e Caselli, e per quanto riguarda l’eterodirezione, sarebbe stato più efficace riportare quanto ben raccontato da Ciccio Misiani a proposito di magistratura democratica e Partito comunista. Ed infine, venendo ai meccanismi di carriera interni alla magistratura, sarebbe stato sicuramente più interessante spiegare come un magistrato di Cassazione possa diventare procuratore aggiunto“.
Palamara continua: “Oppure come un procuratore aggiunto possa diventare avvocato generale della Cassazione. Oppure come un avvocato generale della Cassazione possa diventare componente della Scuola di formazione dei magistrati. È ovvio che ogni riferimento alla carriera del dottor Nello Rossi, il cui valore professionale e politico non può assolutamente essere messo in discussione, e’ puramente casuale. In ogni caso la risposta per spiegare questi meccanismi di carriera sarebbe stata molto semplice: sono le correnti bellezza!“.
Sarebbe molto bello poter approfondire questi temi in un pubblico confronto tra magistratura e politica alla presenza dei protagonisti di quegli anni e di quelle storie. Palamara ha dato la sua disponibilità, chissà cosa ne pensa Nello Rossi?
Disciplinari al Csm: esplode il caso Salvi. GIULIA MERLO su Il Domani l'01 luglio 2022
A tre anni di distanza, il caso Palamara torna a infiammare la magistratura, dopo l’intervista del procuratore generale di Cassazione uscente, Giovani Salvi, in cui si difende dagli attacchi sulla gestione dell’attività disciplinare a carico dei magistrati coinvolti nelle chat. Anche l’Anm discuterà in assemblea dei metodi con cui è stata gestita l’azione disciplinare
Il procuratore generale di Cassazione, Giovanni Salvi, andrà in pensione il 7 luglio e il Consiglio superiore della magistratura ha già nominato a maggioranza il suo successore, Luigi Salvato, che è anche il suo attuale vice.
Tuttavia, quella che doveva essere la tranquilla conclusione di una carriera di prestigio sta invece alimentando scontri e polemiche dentro la magistratura.
Tutto nasce dalla denuncia per rifiuto di atti d’ufficio presentata contro Salvi dall’ex sostituto pg della Corte di cassazione, Rosario Russo, che contesta il mancato avvio di azioni disciplinari nei confronti del giudice del Tribunale di Crotone Massimo Forciniti, ex componente del Csm, membro di Unicost e coinvolto nelle chat con l’ex magistrato Luca Palamara.
In quanto pg di Cassazione, infatti, a Salvi spettava anche la promozione dell’azione disciplinare davanti al Csm: ruolo particolarmente delicato dopo lo scoppio del caso Palamara e la circolazione delle sue chat in cui molti magistrati gli chiedevano favori e raccomandazioni per le nomine.
Secondo Russo, invece, il pg Salvi non avrebbe esercitato, nei modi e nei tempi previsti dalle norme, l’azione disciplinare contro Forciniti.
I DISCIPLINARI SULLE CHAT
Il tema non è nuovo al dibattito interno alla magistratura. Il caso Palamara ha prodotto infatti la radiazione dello stesso Palamara dall’ordine giudiziario e condanne per i cinque togati dell Csm presenti alla cena dell’hotel Champagne, oltre ad alcuni trasferimenti. Tuttavia le chat rese poi pubbliche da una fuga di notizie contenevano centinaia di nomi e di messaggi, rispetto ai quali in molti si sono chiesti quali siano state le conseguenze.
Davanti all’accusa di opacità nella gestione dei disciplinari – la stessa mossa anche da Russo – Salvi si è difeso con una lunga intervista al Corriere della Sera in cui ha detto che «La determinazione nel perseguire gli illeciti disciplinari è stata netta. Contrariamente alla favola che abbia pagato solo Palamara, sono state fino a questo momento 29 le azioni esercitate, 20 i rinvii a giudizio e 14 le condanne, alcune definitive; altri procedimenti sono in corso o sospesi».
A pesare nei confronti di Salvi, però, è una circolare in cui il pg stabilisce che l’autopromozione senza denigrare i colleghi non integri illecito disciplinare e che “anche con riguardo a condotte scorrette gravi l’illecito disciplinare può tuttavia risultare non configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza”. Proprio questo ha “salvato” molti magistrati dall’apertura di un procedimento.
Non solo, in una successiva circolare ha anche esplicitato che l’archiviazione disciplinare venga comunicata al cittadino (o al suo avvocato) che ha segnalato l’abuso disciplinare del magistrato, riservandosi il potere di interdirne la conoscenza anche al magistrato indagato, all’Anm e perfino al Csm. Tradotto: le archiviazioni, decise dal pg di Cassazione, non sono note.
Proprio queste scelte avevano suscitato le polemiche di una parte della magistratura, con 97 magistrati che ne chiesero le dimissioni.
Anche su queste presunte opacità Salvi ha dato la sua versione al Correre: «Abbiamo pubblicato le sintesi delle sentenze di archiviazione e ciò per mia scelta innovativa proprio per cercare di illustrarne le ragioni. Ma le motivazioni non possono essere rese pubbliche per legge, come riconosciuto, ben prima che io assumessi la guida dell’ufficio, dal Tar e dal Consiglio di Stato».
LO SCONTRO CON PALAMARA
L’intervista, inoltre, ha provocato un botta e risposta anche con Palamara. L’ex magistrato, nel libro il Sistema, ha raccontato di come anche Salvi fosse stato tra quelli che erano andati a cena con lui e che si sarebbe avvalso del sistema correntizio per fare carriera.
Anche rispetto a questo Salvi si difende sostenendo che Palamara abbia scritto falsità e querelandolo: «È falso che io abbia mai chiesto a Palamara aiuto per me o per altri, in nessuna occasione. Ciò dovrebbe essere chiaro a chiunque sia in buona fede: in 60.000 messaggi delle chat non c’è un solo scambio con me; i pochi che a me si riferiscono non mi sono certo favorevoli. Quanto all’incontro e al pranzo con Palamara, non nasceva da una mia esigenza ma da una legittima richiesta di Palamara relativa alla sua scorta, di competenza anche dell’ufficio che dirigevo allora».
Anche su questo punto Palamara ha risposto, annunciando proprie iniziative legali e ribadendo la sua versione dei fatti: «Il processo sarà il luogo nel quale dimostrare chi aveva ragione. Ho le prove di quello che dico. E la realtà, nei suoi dettagli e per i risvolti familiari, è ben peggiore del racconto essenziale e sintetico che ho già scritto nel libro», ha detto, aggiungendo che farà richiesta di accesso agli atti nonappena Salvi sarà pensionato. Il sottinteso di Palamara è che Salvi si sia giovato dell’appoggio dei gruppi associativi non solo per diventare pg di Cassazione, ma anche in occasione della sua nomina a procuratore capo di Catania.
IL DIBATTITO IN ANM
Lo scontro, però, potrebbe non esaurirsi tra Salvi e Palamara sui giornali e in tribunale. Il tema di come sia stata esercitata l’azione disciplinare in seguito allo scandalo dell’Hotel Champagne, infatti, sarà oggetto della assemblea dell’Anm del 2 luglio.
Al comitato esecutivo centrale, infatti, non si discuterà solo di riforma dell’ordinamento giudiziario ma il punto all’ordine del giorno più incandescente è la discussione sui procedimenti disciplinari aperti dal Pg della Cassazione con l'obiettivo di verificare “l'efficacia, l'uniformità dei criteri di giudizio adottati e le prospettive di riforma”.
La richiesta di affrontare questo tema è arrivata dai gruppi Articolo 101 e Autonomia & Indipendenza, che erano stati molto critici nei confronti delle circolari di Salvi in materia di autopromozione. In particolare secondo Articolo 101, proprio le scelte gestionali di Salvi avevano ridotto gli spazi per esercitare l’azione disciplinare, archiviando alcune condotte come “inopportune” ma non censurabili, salvado così moltissimi magistrati da conseguenze.
Il dibattito di domani si preannuncia teso, anche a causa dei contenuti dell’intervista al Corriere. Con il risultato che anche dal sindacato delle toghe potrebbe arrivare un attacco alla gestione Salvi, proprio a pochi giorni dal suo addio definitivo alla toga.
Un attacco che, indirettamente, toccherebbe anche Salvato, che si insedierà dopo l'addio di Salvi ma che in questi anni è stato il suo braccio destro, condividendo con lui le decisioni: la circolare che escludeva l’autopromozione dagli illeciti disciplinari, infatti, porta anche la sua firma.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
L'ultima intervista da pg della Cassazione. La pessima uscita di scena di Giovanni Salvi, intervistato dal Corriere fa arrabbiare tutti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Giugno 2022
Chissà quale spiritello maligno avrà consigliato al procuratore generale Giovanni Salvi, a pochi giorni dalla pensione, un’uscita di scena così tragica, così negativa, così masochistica. Un vero boomerang, l’intervista rilasciata a Giovanni Bianconi del Corriere. Che gli frutterà un bel processo penale, dopo la querela per diffamazione già annunciata da Luca Palamara, e soprattutto un bel faro acceso sulla sua attività di magistrato e sulla sua carriera fino al vertice di numero uno di tutti i pubblici ministeri italiani. Un ruolo cui lui teneva parecchio, secondo quanto scritto nel libro “Il Sistema”, tanto da percorrere la strada usuale, quella di tutti: un incontro con il “burattinaio” che teneva i fili delle carriere, secondo spartizioni correntizie, cioè politiche.
Era stato il “caso”, con qualche forzatura, verso la fine del 2019 e dopo l’esplosione dello scandalo Palamara e l’apertura di quel vaso di pandora da cui erano uscite tutte le porcherie di piccoli uomini e piccole donne impegnati più alla propria scalata sociale e professionale che non all’amministrazione della giustizia, a portare Giovanni Salvi sullo scranno più alto nella graduatoria dei pubblici ministeri. Perché parliamo di forzatura? Perché nell’operazione chirurgica che porterà all’estromissione velocissima di Palamara e pochi altri e all’amnistia generalizzata per tutti gli altri complici del “Sistema”, finirà ingiustamente nella polvere il procuratore generale della cassazione Riccardo Fuzio, indagato dalla procura di Perugia per rivelazione di atti d’ufficio e poi prosciolto. Ma intanto il posto si era liberato, con le sue dimissioni. E qualcuno si era subito mosso. Su quell’incontro a tavola tra Giovanni Salvi e Luca Palamara, forse il procuratore generale avrebbe fatto meglio a sorvolare, perché ora rischia di ritrovarsi davanti a un tribunale penale in cui dover spiegare non solo le circostanze di un pranzo, ma forse tutti i passaggi della sua carriera, a Catania, alla Corte d’appello di Roma e poi al vertice dei pubblici ministeri. Ha fatto parte o no anche sui del sistema di spartizione correntizia, cioè politica? Non è una domanda peregrina, visto che quasi un centinaio di magistrati avevano chiesto le sue dimissioni.
“Io mi posso guardare allo specchio ogni mattina, spero lo possa fare anche lui riguardo a quel pranzo”, dice oggi Palamara, parafrasando il famoso messaggio di Enzo Tortora ai suoi giudici, “io sono innocente, sperso si possa dire altrettanto di voi”. Resta il fatto che una vera denuncia per diffamazione nei confronti degli autori del libro “Il Sistema” il procuratore Salvi non l’ha presentata. Forse ha agito in sede civile, come fanno sempre i magistrati, magari con la procedura di mediazione, si stacca un assegno e la cosa finisce lì. E pare poco credibile quel che racconta al suo cronista di riferimento, sul quotidiano di riferimento, su un incontro tra i due per parlare di questioni di scorta. Chi ha pagato il conto, avrebbe potuto chiedergli Bianconi. Forse un giudice vorrà saperlo, quando sarà il momento. Chi era davvero interessato a quel pranzo? Lui dice oggi che “il vero disegno” di Palamara e Sallusti con il libro fosse “delegittimare l’intera funzione giurisdizionale per creare il convincimento che certe decisioni di grande rilievo e risonanza derivassero da motivazioni politiche”. Nessuno glielo dice, ma la gente la pensa proprio così, strano che il dottor Salvi non se ne sia accorto, e nemmeno il Corriere della sera.
Salvi, Gaeta e Salvato hanno stabilito i criteri di valutazione delle chat di Palamara: ma i loro nomi sono ricorrenti
Se ci sarà quel processo (Palamara ci conta, lui ha ancora fiducia nella magistratura), si potrà anche verificare se veramente il pg abbia esercitato, dopo la vicenda dell’hotel Champagne e la scoperta delle spartizioni correntizie dei posti di potere tra toghe, “29 azioni disciplinari”, “20 rinvii a giudizio” e “14 condanne” dei magistrati che intrallazzavano come piccoli social climber. O se invece, come però precisa lo stesso ex “burattinaio”, “la montagna ha partorito il topolino, e questa intervista mostra grande nervosismo perché non tutto è andato come lui desiderava quando ha fatto la famosa roboante conferenza stampa del 25 giugno del 2020”. Quella in cui Salvi aveva giurato che avrebbe usato la massima severità. E poi si è invece molto impegnato a tutelare se stesso e gli altri con le circolari che amnistiavano le “autoraccomandazioni”. Ponendo anche quella sorta di segreto di Stato sulle motivazioni che hanno costellato le archiviazioni.
C’è un caso però in cui non si è guardato in faccia nessuno. Lo denuncia il direttivo della camera penale di Catanzaro, che interviene sulla vicenda di due magistrati calabresi, Pietro Scuteri e Giuseppe Perri, attualmente in servizio presso la sezione civile della Corte d’appello di Catanzaro. Nei loro confronti è aperta una pratica di trasferimento in quanto avevano accettato un invito a cena a casa dell’avvocato Giancarlo Pittelli, da due anni e mezzo privato della libertà in quanto imputato nel mega-processo voluto dal procuratore Nicola Gratteri, dal titolo “Rinascita Scott”. La cena si era svolta in epoca precedente al famoso blitz del 19 dicembre 2019, quando avvenne la retata che coinvolse centinaia di persone tra cui il noto penalista. Che cosa c’entrano i due giudici in tutto ciò? Nulla. Come potevano sapere che tempo dopo il loro ospite sarebbe stato incriminato per concorso esterno in associazione mafiosa? Però la pratica di trasferimento era stata comunque avviata. Massima severità, giusto. E poi, ciliegina sulla torta, benché la prima commissione del Csm avesse proposto l’archiviazione, non rinvenendo nel comportamento dei due giudici nulla che giustificasse il provvedimento punitivo, nel plenum era accaduto quel che non succede spesso quando si tratta di pratiche di tipo correntizio, che vengono accantonate e “silenziate”.
Era accaduto che, su suggerimento del membro laico Benedetti, il plenum abbia deciso il ritorno in commissione per un approfondimento. Ben altro ci sarebbe da approfondire, e nei confronti di altri magistrati, cari consiglieri del Csm! Come mai per esempio due famosi procuratori hanno potuto dire di aver smarrito o buttato via il cellulare che conteneva prove di una conversazione rilevante per le indagini? “Io non sono stato così fortunato da perdere il cellulare”, commenta Luca Palamara, pensando alle sue migliaia di chat che gli hanno rovinato la vita, alla fine. Comunque è paradossale che nel caso calabrese si debbano muovere gli avvocati a difendere i giudici. Succede anche questo, quando i colleghi sono in altre faccende affaccendati.
Per esempio il procuratore Gratteri è troppo impegnato con le interviste contro la riforma Cartabia. Così ci pensano quelli con la toga sbagliata. “I dottori Perri e Scuteri- dicono i membri del direttivo della Camera penale di Catanzaro- sono sempre stati magistrati liberi da qualsivoglia forma di influenza, fedeli alla Repubblica e alla Costituzione, che hanno onorato la toga indossandola con grande equilibrio e autentico spirito di servizio. Mai, in alcun modo, essi hanno appannato, né ieri né oggi, la loro immagine di magistrati irreprensibili”. Chissà se al Csm avranno tempo di ascoltarli. E se il nuovo procuratore generale Salvato darà un’occhiata alla pratica nel suo primo giorno di lavoro, il 10 luglio. Il dottor Salvi è ormai proiettato sul proprio futuro, l’intervista al Corriere è solo il primo passo.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il pg Salvi lo smentisce e Palamara lo querela. Redazione il 30 Giugno 2022 su Il Giornale.
Botte a colpi di querele sul Sistema. L'ex Pg della Cassazione Giovanni Salvi in un'intervista al Corriere ha smentito quanto ricostruito nel libro di Luca Palamara.
Botte a colpi di querele sul Sistema. L'ex Pg della Cassazione Giovanni Salvi in un'intervista al Corriere ha smentito quanto ricostruito nel libro di Luca Palamara, in cui l'ex pm parla di un incontro nel 2017 in cui Salvi avrebbe spinto per la propria nomina. «È falso che io abbia mai chiesto a Palamara aiuto per me o per altri, in nessuna occasione. Ciò dovrebbe essere chiaro a chiunque sia in buona fede: in 60.000 messaggi delle chat non c'è un solo scambio con me. Quanto all'incontro e al pranzo con Palamara, non nasceva da una mia esigenza ma da una legittima richiesta di Palamara relativa alla sua scorta, di competenza anche dell'ufficio che dirigevo allora. Nulla ho sollecitato, neppure in quella occasione, lontana peraltro sei mesi dalle votazioni - dice - Ora cessando dal mio incarico, potrò finalmente agire in sede giudiziaria contro queste falsità. In questi giorni ho promosso l'azione nei confronti di Palamara e Sallusti». Il cui vero disegno, accusa, è «delegittimare l'intera funzione giurisdizionale per creare il convincimento che certe decisioni di grande rilievo e risonanza derivassero da motivazioni politiche».
Palamara annuncia a sua volta battaglia: «Querelo Salvi per diffamazione. Dovrà dire davanti a un giudice penale quale sia il disegno sotteso ai libri scritti da me e Sallusti. Quello che afferma è palesemente falso ed è gravissimo. Quanto al pranzo il processo sarà il luogo nel quale dimostrare chi aveva ragione. Ho le prove di quello che dico. E la realtà, nei suoi dettagli e per i risvolti famigliari, è ben peggiore del racconto essenziale e sintetico che ho già scritto nel libro».
Il Sistema non cambia. Sul Pg di Cassazione l'ira delle (alcune) toghe. Lodovica Bulian il 30 Giugno 2022 su Il Giornale. Nel mirino le archiviazioni di Salvi e Salvati. Un magistrato: "L'impunità? Uno scempio"
Doveva essere l'era della «pulizia», del rigore, del recupero della moralità affondata negli scandali dell'hotel Champagne, delle nomine pilotate, delle raccomandazioni e delle autopromozioni che hanno macchiato la magistratura. Le chat di Luca Palamara contano oltre un centinaio di magistrati coinvolti, eppure la maggior parte ne è uscita senza alcuna sanzione disciplinare.
Ora, prima con la denuncia dell'ex sostituto procuratore generale della Cassazione Rosario Russo, poi con l'intervista di Palamara al Giornale, si riaprono interrogativi sulla Procura generale della Cassazione, titolare dell'azione disciplinare sulle toghe e oggi accusata di immobilismo da più parti, anche all'interno della stessa magistratura. Nel mirino c'è l'ex procuratore generale Giovanni Salvi a cui è appena subentrato Luigi Salvato, già suo procuratore aggiunto. Ci sono le firme di Salvi e Salvato sulla direttiva del 2020 che di fatto ha graziato dai procedimenti molti di coloro che si rivolgevano a Palamara per perorare la propria nomina, quella di un collega, o per screditare quella possibile di altri. Il documento di Salvi ha stabilito che l'attività di autopromozione «sia pur petulante» non è illecito disciplinare, mentre denigrare i colleghi sì. Risultato: pressioni e ingerenze sono rimaste nella zona grigia della deontologia non perseguita a livello disciplinare.
Ieri Salvi si è difeso in un'intervista al Corriere: «Abbiamo interpretato le norme esistenti nella maniera più rigorosa» e sono state «29 le azioni esercitate, 20 i rinvii a giudizio e 14 le condanne».
Un conteggio da cui però «sono rimasti fuori casi clamorosi», sottolinea chi è vicino ai dossier. Per citare i più recenti, quelli di Anna Canepa, pm alla Dna, che aveva definito dei colleghi «banditi incapaci», o di Donatella Ferranti, ex parlamentare del Pd oggi giudice di Cassazione, che si interessava della nomina di due colleghi. «Con quella direttiva Salvi è andato ben oltre il potere che compete all'organo - commenta un magistrato - ed è un unicum, basti pensare per esempio, ai professori, a casi di raccomandazioni emerse all'interno di procedure pubbliche, l'illecito è sfociato in procedimenti penali, anche in misure cautelari. Questa impunità è uno scempio».
Lo denuncia da tempo anche Articolo 101, il gruppo di toghe nato dopo il caso Palamara in antitesi alle correnti. Che aveva chiesto con forza le dimissioni di Salvi, dopo che proprio Palamara nel suo libro aveva parlato di un incontro in cui Salvi avrebbe caldeggiato la propria nomina. Ieri, a incarico concluso, ha smentito: «È falso che io abbia mai chiesto a Palamara aiuto per me o per altri, in nessuna occasione».
Ma il vero cono d'ombra sta nel sistema delle archiviazioni della Procura generale. Che apre e archivia i casi in fase di pre istruttoria in totale segretezza, per legge. «Potrebbero esserci centinaia o migliaia di casi e comportamenti che la Pg ha deciso di non perseguire e di cui non sapremo mai nulla, perché pre-archiviati senza alcun controllo esterno. È un'anomalia grave, nel procedimento penale l'azione della Procura è sottoposta al vaglio del giudice, qui no» sottolinea una toga.
Anche dopo la difesa di Salvi montano i malumori di magistrati che hanno fatto esposti rimasti lettera morta: come quello con cui Cuno Tarfusser, già procuratore a Bolzano, denunciava il comportamento di un collega che a Palamara scriveva di aver «decapitato i suoi uomini». «Sono sconcertato», dice al Giornale. «Trovo intollerabile che la trasparenza valga sempre e solo per gli altri mentre al nostro interno regna l'opacità correntizia». E ieri un botta e risposta a distanza tra Palamara e l'ex pm Ilda Boccassini sul sistema della correnti. «La Boccassini si autoproclama estranea al sistema delle correnti quando invece lei era ben dentro il sistema di potere, che determinava i fascicoli e quello che ad esempio le ha consentito di fare il processo Ruby e di avere in quegli anni la copertura dell'Anm da me presieduta».
La versione di Salvi: «Palamara dice il falso, mai chiesto il suo aiuto. Denuncio lui e Sallusti». Il Dubbio il 29 giugno 2022. L'ormai ex pg della Cassazione, in un'intervista al Corriere della Sera, accusa l'ex pm di Roma e il giornalista. «Ora potrò finalmente agire in sede giudiziaria contro queste falsità».
«La mia generazione ha vissuto momenti di grande difficoltà. Il terrorismo sconvolse le nostre vite private; ricordo le aspre polemiche sui processi di mafia, le accuse di politicizzazione quando si toccavano i potenti. Sentivamo però la fiducia dei cittadini. Oggi invece pesa il disvalore del correntismo e il ruolo distorto delle correnti nel Csm, ma soprattutto credo che i cittadini siano colpiti dalla lentezza delle procedure giudiziarie e dall’incertezza degli esiti. Sull’efficienza del sistema più che le colpe dei magistrati hanno pesato scelte errate della politica». Lo afferma Giovanni Salvi procuratore generale della Corte di Cassazione in un’intervista al quotidiano “Il Corriere della Sera“.
«Si è cercato anzitutto di limitare la percezione che la risposta cambiasse a seconda della porta a cui si bussa. L’incertezza ha effetti gravi sui diritti delle persone e sul corretto funzionamento dell’economia. Le decisioni devono essere prevedibili, per quanto possibile. Per questo abbiamo adottato gli “orientamenti” che sono frutto non dell’autorità o della gerarchia ma di una lettura condivisa delle norme. – prosegue Salvi – Pensate a cosa sarebbe potuto accadere durante la pandemia se si fossero moltiplicate le denunce ai medici o i fallimenti delle imprese. Gli orientamenti sulla colpa medica o sulla insolvenza da Covid hanno consentito di avere azioni uniformi e non avventate, così come sono cessati i sequestri generalizzati di interi lotti di vaccino. Abbiamo poi fatto di tutto per ridurre il sovraffollamento delle carceri, per tutelare la salute dei detenuti e del personale».
«La determinazione nel perseguire gli illeciti disciplinari è stata netta. Contrariamente alla favola che abbia pagato solo Palamara, sono state fino a questo momento 29 le azioni esercitate, 20 i rinvii a giudizio e 14 le condanne, alcune definitive; – aggiunge Salvi – altri procedimenti sono in corso o sospesi. Ricordo anche che il dottor Palamara rispondeva in sede disciplinare per le manovre sulla nomina del procuratore di Perugia, competente per i processi penali che pendevano a suo carico; un fatto enorme».
«È falso che io abbia mai chiesto a Palamara aiuto per me o per altri, in nessuna occasione. Ciò dovrebbe essere chiaro a chiunque sia in buona fede: in 60.000 messaggi delle chat non c’è un solo scambio con me; i pochi che a me si riferiscono non mi sono certo favorevoli. Quanto all’incontro e al pranzo con Palamara, non nasceva da una mia esigenza ma da una legittima richiesta di Palamara relativa alla sua scorta, di competenza anche dell’ufficio che dirigevo allora. Nulla ho sollecitato, neppure in quella occasione, lontana peraltro sei mesi dalle votazioni … – sottolinea ancora Salvi – C’è stato un evidente tentativo di Palamara di trascinarmi in una artificiosa polemica con un incolpato ma ora, cessando dal mio incarico, potrò finalmente agire in sede giudiziaria contro queste falsità. In questi giorni ho promosso l’azione nei confronti di Palamara e Sallusti. Ma non mi pare si sia compreso il vero disegno sotteso ai loro libri. Delegittimare l’intera funzione giurisdizionale per creare il convincimento che certe decisioni di grande rilievo e risonanza derivassero da motivazioni politiche».
«Non ho messaggi. Forse solo l’auspicio che non si ripetano errori del passato, che non si attribuisca alla giurisdizione il compito salvifico dell’etica. Ma i miei giovani colleghi sono spesso ben preparati, hanno passione e solide radici nella cultura dei diritti. Ora tocca a loro e spero non dimentichino quanto di buono è stato fatto, quanto siano costati i risultati straordinari che abbiamo ottenuto contro il terrorismo e le mafie e per affermare il valore della legalità», conclude Salvi.
Sallusti: «Su Salvi nessuna bugia: ha fatto carriera in quel modo, adesso cosa vuole da me?» La replica del co-autore del libro “Il Sistema”: «Le sue considerazioni fondate sul nulla». E aggiunge: «Capisco che voglia arrotondare la pensione, ma si cerchi un secondo lavoro e non chieda soldi a chi ha solo scritto la verità». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 30 giugno 2022.
Direttore Sallusti, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, intervistato ieri dal Corriere della Sera, ha affermato che ci sarebbe un ‘ disegno’ ben preciso dietro i tuoi due libri scritti con l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Il ‘ Sistema’ e ‘ Lobby e logge’, secondo Salvi, sono serviti a ‘ delegittimare l’intera funzione giurisdizionale’, facendo credere al lettore che negli ultimi anni l’esito di alcuni processi importanti sia stato condizionato da ‘ motivazioni politiche’. Una accusa pesante.
Sì, confermo le accuse di Salvi: il progetto dei libri è stato costruito “a tavolino”, per la precisione un tavolino di un bar dei Parioli a Roma.
Puoi essere più preciso?
Era scoppiato lo scandalo Palamara ed io all’epoca dirigevo Il Giornale. Leggendo ogni giorno su altri quotidiani le chat di Palamara, decido di chiamare una mia giornalista che si occupava di questi temi per bere un caffè e “cazziarla” perché non riusciva a recuperarle. E lei, “a tavolino”, mi risponde che aveva visto Palamara, ci aveva parlato, ma non aveva avuto nulla. ‘ Prova a chiamarlo tu che sei un direttore e magari ci riesci’, mi dice. Io gli risposi che non lo avrei fatto, anche perché in quel periodo Palamara mi stava molto antipatico. Di fronte alla mancanza di alternative, però, alzai il telefono e fissai un appuntamento.
Poi cosa successe?
Gli chiesi se potesse darmi un po’ di materiale, anche sentendo i suoi avvocati. Mentre stavamo discutendo, gli chiesi anche se avesse voglia di raccontare un po’ di cose che erano successe in questi anni nel suo mondo, quello delle procure e dei tribunali.
E la risposta?
Un no secco e finì lì.
Quando vi siete rivisti?
Dopo tre mesi. Si fece vivo lui dicendomi che a determinate condizioni la mia proposta era fattibile e quindi partimmo con il racconto. Tieni presente che all’inizio non avevamo una casa editrice. Ho dovuto insistere. Altro che complotto.
Salvi, comunque, è di diverso avviso e ritiene che sia stato tutto pianificato e che potresti essere tu la mente del complotto.
A me vengono i brividi che un magistrato possa fare considerazioni del genere senza un minimo di indagini. Qualche ragione per mettere in dubbio questa giustizia ci sono. Se Salvi, da buon magistrato, avesse indagato avrebbe scoperto che io di magistratura non so nulla, adesso so qualcosa perché me lo ha raccontato Palamara. Quando sciorinava nomi di procuratori, ad esempio Giuseppe Pignatone ( procuratore di Roma, ndr), io dissi: ‘ Pignatone chi?’. Credo che in quel momento abbia pensato che fossi un cretino che non sa nemmeno chi è Pignatone. La mia ignoranza, però, è la forza del racconto di Palamara: uno scrivente totalmente disinteressato che non poteva guidarlo in alcun modo. L’unico mio compito è stato verificare la fondatezza di quanto affermato da Palamara.
Nell’intervista al Corriere Salvi ha annunciato di avere promosso una azione nei vostri confronti. Quanto raccontato nel Sistema, quindi del suo incontro con Palamara per essere nominato procuratore generale in Cassazione, non corrisponderebbe a verità.
I magistrati hanno la querela facile. Hanno una concezione “giudiziario- centrica” della vita. Tutto deve essere portato in tribunale, l’unico luogo di verità. A me sembra chiaro che Salvi faceva parte del sistema delle correnti. Lui che ha vissuto, zitto, in quel mondo, ora parla perché va in pensione. La stessa accusa che rivolgono a Palamara, quella di parlare ora perché non è più in magistrato. Salvi ha fatto carriera in quel modo, ma cosa vuole da me?
Il racconto nel libro è vero?
Certo, il racconto è vero. Sono passati due anni dall’uscita del libro e adesso Salvi si sveglia e dice che non è vero. Ci sarà un giudice terzo, e spero sia terzo, che accerterà se è vero o meno. E comunque su Salvi Palamara ha offerto dei riscontri di quell’incontro.
Nell’intervista manca una domanda, quella sulla singolare circostanza che sia Salvi che il procuratore di Milano Francesco Greco, proprio prima di essere interrogati a Brescia sulla fuga dei verbali della loggia Ungheria, avevano perso i rispettivi telefonini.
Quella è stata una vicenda all’italiana, dove tutte le tragedie finiscono in farsa.
E che si sposa perfettamente con il racconto, nel quale emergono due livelli di giustizia: uno per i magistrati ed uno per i comuni mortali. Se una persona qualunque, chiamata a testimoniare, avesse detto che aveva perso il telefonino, difficilmente i magistrati non avrebbero battuto ciglio come è accaduto nei riguardi di loro due.
È questo che deve spiegare Salvi, un episodio che spiega tante cose, molto più interessanti dei suoi pranzi con Palamara sulle terrazza romane.
Palamara ha raccontato tutto?
Ha raccontato tutto ciò che serviva alla ricostruzione del “Sistema”, tralasciano quello che gettava discredito sui singoli e che comunque non era importante. Non ha fatto come certi magistrati che mettono nei fascicoli intercettazioni penalmente irrilevanti che hanno il solo scopo di screditare l’indagato.
Quanti magistrati citati nel libro hanno presentato querela?
Al momento quattro, uno l’ha ritirata. Un procedimento si è concluso con un proscioglimento e due sono in corso.
Adesso tocca a Salvi…
I magistrati si fanno ricchi con le querele. Capisco che Salvi voglia arrotondare la pensione, ma si cerchi un secondo lavoro e non chieda soldi a chi ha solo scritto la verità.
Veleni infiniti tra Salvi e Palamara. Il pg: «Lo querelo», l’ex pm: «Di’ tutto». Il pg accusa l’ex zar delle nomine di aver voluto «delegittimare l’intera funzione giurisdizionale». Ma lui replica: «Chiarirà tutto davanti a un giudice». Simona Musco su Il Dubbio il 29 giugno 2022.
Proprio nel momento in cui l’Anm convoca un’assemblea del Comitato direttivo centrale per discutere, tra le altre cose, dei criteri utilizzati dalla procura generale nel valutare i magistrati coinvolti nelle chat dell’ex consigliere del Csm Luca Palamara, Giovanni Salvi affida le sue ragioni ad un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, con la quale rispedisce al mittente le accuse. E anticipa, nello stesso tempo, quella resa dei conti che andrà in scena a Piazza Cavour, facendo finire a carte bollate l’ennesimo botta e risposta a distanza con Palamara. Salvi, da un lato, annuncia di voler querelare l’ex zar delle nomine e il giornalista Alessandro Sallusti per quanto scritto su di lui ne “Il Sistema”. E Palamara, dall’altro, è pronto ad andare in procura per chiedergli conto delle parole pronunciate durante l’intervista.
La polemica con Palamara
Nel respingere le accuse di chi vede nella sua circolare che depenna l’autopromozione dagli illeciti disciplinari un modo per togliere a se stesso le castagne dal fuoco, in virtù del famoso pranzo del 2017 durante il quale, secondo il libro “Il Sistema”, avrebbe caldeggiato la propria nomina a procuratore generale, Salvi accusa Palamara e Sallusti di aver agito con uno scopo ben preciso. «Il disegno sotteso ai loro libri», spiega a Giovanni Bianconi, era quello di «delegittimare l’intera funzione giurisdizionale per creare il convincimento che certe decisioni di grande rilievo e risonanza derivassero da motivazioni politiche». Quel pranzo, questa la versione di Salvi, sarebbe stato anzi richiesto dall’ex zar delle nomine per questioni relative alla sua scorta. «Nulla ho sollecitato, neppure in quell’occasione, lontana peraltro sei mesi dalle votazioni».
Parole alle quali Palamara replica a stretto giro. «Dovrà dire davanti a un giudice penale quale sia il disegno sotteso ai libri scritti da me e Sallusti – dice all’AdnKronos -. Quello che afferma è palesemente falso ed è gravissimo. E conferma la necessità di squarciare il velo di ipocrisia che circonda da troppi decenni una parte malsana della magistratura. Nei miei libri infatti io mi sono rivolto proprio a quelli come lui che hanno sfruttato il sistema delle correnti per fare carriera politicizzando la magistratura. Quanto al pranzo il processo sarà il luogo nel quale dimostrare chi aveva ragione. Ho le prove di quello che dico. E la realtà, nei suoi dettagli e per i risvolti familiari, è ben peggiore del racconto essenziale e sintetico che ho già scritto nel libro».
Ma non solo: Palamara annuncia che farà richiesta di accesso agli atti non appena Salvi avrà liberato l’ufficio a piazza Cavour. «Non è uno scherzo – spiega al Dubbio -: quel pranzo fu il preludio di quello che sarebbe accaduto negli incontri successivi che ci furono a novembre del 2017. Il riferimento alla scorta ovviamente è un autogol: a quel pranzo non se ne parlò e c’è traccia del fatto che il tema venne affrontato circa 7-10 giorni più tardi. Non temo alcun confronto pubblico sul punto. Io so di potermi guardare allo specchio la mattina, con riferimento a quel pranzo, spero che altrettanto possa fare lui». L’ex leader dell’Anm spiega che la nomina alla procura generale è «solo l’emblema di quello che significa avere l’appoggio delle correnti, quello che Salvi ha avuto in occasione della nomina a Catania: lui sa a chi si rivolse – aggiunge Palamara, assumendosene la responsabilità -. È ancora in tempo per dirlo. Non facesse raccontare tutto a me». La scelta di candidarsi alle prossime politiche, dunque, sta tutta qui: «Voglio portare avanti il tema di una giustizia che non sia più ipocrita».
I procedimenti disciplinari
Nessun «condono», tuona il massimo magistrato requirente, titolare dell’azione disciplinare, che rimarrà in carica fino al 9 luglio. Una risposta secca a chi lo accusa di aver usato due pesi e due misure nella gestione dei fascicoli sulle toghe coinvolte nello scandalo, sospetto che ora i magistrati di Articolo 101 e Autonomia & Indipendenza vogliono chiarire proprio nel parlamentino dell’Anm il 2 luglio. «Contrariamente alla favola che abbia pagato solo Palamara, sono state fino a questo momento 29 le azioni esercitate, 20 i rinvii a giudizio e 14 le condanne, alcune definitive», spiega Salvi. Impossibile conoscere quali siano i magistrati condannati: oltre a Palamara e gli altri cinque ex togati del Csm presenti alla cena all’Hotel Champagne, gli altri nomi sembrano essere top secret. Un po’ come quelli per i quali gli esposti sono stati archiviati de plano da Salvi, che con una circolare aveva apposto il sigillo di segretezza alle motivazioni.
Ma a far infuriare maggiormente le toghe “ribelli” è stata la direttiva con la quale il pg ha stabilito l’irrilevanza disciplinare delle autopromozioni, la stessa che, secondo i 97 magistrati che ne chiesero le dimissioni, lo avrebbe tutelato proprio in relazione al pranzo citato da Palamara, sul quale fino a ieri non aveva dato spiegazioni. «La raccomandazione è riprovevole – spiega Salvi -, ma la giustizia disciplinare si basa sul principio di legalità, quindi sulla “tipizzazione” degli illeciti, e tra le fattispecie punibili non ce n’è una che riguardi specificamente queste condotte». Una posizione che, però, sembra in contrasto con la sentenza delle Sezioni Unite 741/ 2020, relativa proprio al caso Palamara. «Costituiscono violazioni dei doveri di correttezza ed equilibrio propri del magistrato, rientrando nell’ambito dei “comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti di altri magistrati” (art. 2, lett. d), d. lgs. 109/2006), condotte volte a screditare, o valorizzare, colleghi, anche al fine di tentare di interferire con l’attività del Consiglio superiore della magistratura».
Motivo per cui, nella lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, al Csm e alla ministra della Giustizia da Rosario Russo – ex sostituto procuratore generale presso la corte di Cassazione, che ha presentato un esposto contro il pg per non aver esercitato, nei modi e nei tempi previsti dalle norme, l’azione disciplinare – «in contrasto con l’anzidetto “editto” emesso dal pg presso la Suprema Corte, secondo le Sezioni Unite e il Consiglio Superiore della Magistratura, le condotte che danno vita al sistema clientelare – spartitorio, mediante qualunque ingiustificata interferenza nella valutazione del Consiglio, autopromozione compresa, sono tutte disciplinarmente sanzionabili in ogni caso, ricorrendo anche l’estremo della gravità».
Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 29 giugno 2022.
«Palamara? Non gli ho mai stretto la mano. Non l'ho mai stimato come collega»: così ha detto Ilda Boccassini. «La Boccassini dice che non mi ha mai stretto la mano perché non mi stima? Benissimo: sono fiero allora di non averle stretto la mano in vita mia. Lei non è mai stata il mio modello di magistrato», la replica di Luca Palamara.
Botta e risposta a distanza, ieri (lunedì 27 giugno, ndR), fra Ilda "la Rossa" e l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, entrambi impegnati in kermesse letterarie.
Intervenendo al Festival dei libri sulle mafie di Lametia Terme, l'ex capa dell'antimafia milanese aveva voluto rispondere anche a una domanda sul sistema delle correnti in magistratura.
Prima di esprimere la propria disistima per Palamara, la Boccassini aveva sottolineato che tutti gli addetti ai lavori erano a conoscenza del "mercimonio" delle nomine dei magistrati. «Si sapeva da sempre che quando entri in magistratura ti devi legare ad un carro e devi avere dei numeri di telefono, tra cui quello del mitico Cosimo Ferri», esponente quest' ultimo delle toghe di destra ed ora deputato renziano.
Immediata, come detto, la replica di Palamara: «Per tanti della mia generazione lei resta l'emblema di un pubblico ministero non garantista e quindi non equilibrato nei giudizi, pervaso da acredine a volte personale».
«La Boccassini - prosegue Palamara - si autoproclama estranea al sistema delle correnti quando invece lei era ben dentro il sistema di potere della magistratura, quello che determinava i fascicoli e quello che ad esempio le ha consentito di fare il processo Ruby e di avere in quegli anni la copertura dell'Anm da me presieduta».
In attesa di sapere cosa intendesse Palamara con «copertura», il fatto che le nomine venissero lottizzate dalle correnti dalla magistratura lo aveva messo a verbale lo stesso Palamara durante un interrogatorio al Consiglio superiore della magistratura, condotto dal pm antimafia Nino Di Matteo, che riguardava, ironia della sorte, proprio le nomine degli aggiunti di Milano dopo la lettura delle sue chat. Nei messaggini che Palamara si scambiava con decine di magistrati il nome della Boccassini non compare, essendo lei stata già nominata nel 2010 aggiunto a Milano.
In ogni caso Palamara, verso la fine del 2017, scrive a un componente del Csm in quanto si sono liberati sei posti su otto come vice del procuratore Francesco Greco. «Allarme rosso su aggiunti Milano», messaggia l'interlocutore. «Dammi la tua cinquina», gli chiede Palamara. «De Pasquale (Fabrizio), Dolci (Alessandra) Sicilaino (Tiziana) Mannella (Letizia) e Pedio (Laura)», la risposta.
«Dovevamo relazionarci con le correnti per capire quanti posti gli spettavano», puntualizza Palamara a Di Matteo che gli chiedeva lumi al riguardo.
Spesso una corrente aveva «più pretendenti», ricorda Palamara, il quale, una volta individuati i nomi, procedeva con un secondo riscontro, chiedendo alle correnti se fossero d'accordo sui nominativi altrui. Di tutto ciò veniva informato il procuratore di Milano che si vedeva a Roma con Palamara, per evitare che potesse essere nominata una persona «non gradita» al procuratore.
«Altri pretendenti, può saltare la Dolci?», proseguiva poi la chat di Palamara. «Sei matto? Ti vuoi mettere contro Davigo?», replica il collega. Palamara, a tal proposito, raccontò del «rapporto molto stretto» fra la Dolci e l'ex pm di Mani Pulite. Nella spartizione, alla fine, alle toghe di sinistra andranno tre posti, Siciliano, Pedio e De Pasquale; uno, la Mannella, alla corrente di centro, e uno, appunto, in quota Davigo, la Dolci.
La Commissione per gli incarichi direttivi del Csm, presieduta Palamara, guarda caso, formulò proprie queste proposte: unanimità per Siciliano e Mannella, a larga maggioranza per De Pasquale e Dolci, solo tre voti per Pedio. La sfidante di quest' ultima, Nunzia Ciaravolo, anche lei tre voti, revocò la domanda la mattina del voto finale in Plenum.
Ilda Boccassini smascherata dall'ex super-toga: "C'era anche lei". Ruby, ora tutto torna. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 28 giugno 2022
«Palamara? Non gli ho mai stretto la mano. Non l'ho mai stimato come collega»: così ha detto Ilda Boccassini. «La Boccassini dice che non mi ha mai stretto la mano perché non mi stima? Benissimo: sono fiero allora di non averle stretto la mano in vita mia. Lei non è mai stata il mio modello di magistrato», la replica di Luca Palamara. Botta e risposta a distanza, ieri, fra Ilda "la Rossa" e l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, entrambi impegnati in kermesse letterarie. Intervenendo al Festival dei libri sulle mafie di Lametia Terme, l'ex capa dell'antimafia milanese aveva voluto rispondere anche a una domanda sul sistema delle correnti in magistratura. Prima di esprimere la propria disistima per Palamara, la Boccassini aveva sottolineato che tutti gli addetti ai lavori erano a conoscenza del "mercimonio" delle nomine dei magistrati. «Si sapeva da sempre che quando entri in magistratura ti devi legare ad un carro e devi avere dei numeri di telefono, tra cui quello del mitico Cosimo Ferri», esponente quest' ultimo delle toghe di destra ed ora deputato renziano. Immediata, come detto, la replica di Palamara: «Per tanti della mia generazione lei resta l'emblema di un pubblico ministero non garantista e quindi non equilibrato nei giudizi, pervaso da acredine a volte personale».
«La Boccassini - prosegue Palamara - si autoproclama estranea al sistema delle correnti quando invece lei era ben dentro il sistema di potere della magistratura, quello che determinava i fascicoli e quello che ad esempio le ha consentito di fare il processo Ruby e di avere in quegli anni la copertura dell'Anm da me presieduta».
In attesa di sapere cosa intendesse Palamara con «copertura», il fatto che le nomine venissero lottizzate dalle correnti dalla magistratura lo aveva messo a verbale lo stesso Palamara durante un interrogatorio al Consiglio superiore della magistratura, condotto dal pm antimafia Nino Di Matteo, che riguardava, ironia della sorte, proprio le nomine degli aggiunti di Milano dopo la lettura delle sue chat. Nei messaggini che Palamara si scambiava con decine di magistrati il nome della Boccassini non compare, essendo lei stata già nominata nel 2010 aggiunto a Milano. In ogni caso Palamara, verso la fine del 2017, scrive a un componente del Csm in quanto si sono liberati sei posti su otto come vice del procuratore Francesco Greco. «Allarme rosso su aggiunti Milano», messaggia l'interlocutore. «Dammi la tua cinquina», gli chiede Palamara. «De Pasquale (Fabrizio), Dolci (Alessandra) Sicilaino (Tiziana) Mannella (Letizia) e Pedio (Laura)», la risposta.
«Dovevamo relazionarci con le correnti per capire quanti posti gli spettavano», puntualizza Palamara a Di Matteo che gli chiedeva lumi al riguardo. Spesso una corrente aveva «più pretendenti», ricorda Palamara, il quale, una volta individuati i nomi, procedeva con un secondo riscontro, chiedendo alle correnti se fossero d'accordo sui nominativi altrui. Di tutto ciò veniva informato il procuratore di Milano che si vedeva a Roma con Palamara, per evitare che potesse essere nominata una persona «non gradita» al procuratore. «Altri pretendenti, può saltare la Dolci?», proseguiva poi la chat di Palamara. «Sei matto? Ti vuoi mettere contro Davigo?», replica il collega. Palamara, a tal proposito, raccontò del «rapporto molto stretto» fra la Dolci e l'ex pm di Mani Pulite. Nella spartizione, alla fine, alle toghe di sinistra andranno tre posti, Siciliano, Pedio e De Pasquale; uno, la Mannella, alla corrente di centro, e uno, appunto, in quota Davigo, la Dolci. La Commissione per gli incarichi direttivi del Csm, presieduta Palamara, guarda caso, formulò proprie queste proposte: unanimità per Siciliano e Mannella, a larga maggioranza per De Pasquale e Dolci, solo tre voti per Pedio. La sfidante di quest' ultima, Nunzia Ciaravolo, anche lei tre voti, revocò la domanda la mattina del voto finale in Plenum.
Resa dei conti nell’Anm sulle chat con Palamara: «Basta salvacondotti». Le toghe di Articolo 101 e A& I reclamano una soluzione sui criteri di valutazione del pg nei procedimenti a carico dei colleghi. Simona Musco su Il Dubbio il 28 giugno 2022.
Due pesi e due misure. È quanto contestano i magistrati di Articolo 101 e Autonomia & Indipendenza alla Procura generale della Cassazione nella valutazione delle toghe coinvolte nelle chat con Luca Palamara, ex presidente del “sindacato” dei giudici, espulso dallo stesso a giugno 2020 dopo lo scandalo dell’Hotel Champagne. E dopo diverse mozioni depositate con lo scopo di fare chiarezza sulle procedure utilizzate per valutare i profili disciplinari dei colleghi finiti nel calderone delle conversazioni con l’ex zar delle nomine, la questione approda al Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati convocato per sabato 2 luglio – al penultimo punto di un lungo ordine del giorno. Una sorta di resa dei conti per dire basta ai salvacondotti garantiti da alcune direttive della Procura generale, con l’obiettivo di verificare «l’efficacia, l’uniformità dei criteri di giudizio adottati e le prospettive di riforma».
Sul banco degli imputati c’è, principalmente, la famosa circolare firmata dal pg Giovanni Salvi (titolare dell’azione disciplinare), dal suo braccio destro (e da luglio nuovo procuratore generale) Luigi Salvato e dall’allora avvocato generale Piero Gaeta, circolare che escludeva l’attività di autopromozione dall’alveo dei comportamenti disciplinarmente rilevanti. Una scelta che fece molto discutere, dal momento che i nomi degli stessi vertici di piazza Cavour erano ricorrenti nelle chat di Palamara. In particolare, l’ex leader Anm aveva raccontato nel suo libro “Il Sistema” che lo stesso Salvi avrebbe caldeggiato la propria nomina a pg, circostanza mai chiarita e che spinse 97 magistrati a chiedere pubblicamente le dimissioni di Salvi nel caso in cui non avesse smentito Palamara. Ma niente da fare: il pg ha anzi adottato una nuova circolare che salva anche le toghe che si sono macchiate di «condotte scorrette gravi». L’illecito disciplinare, si legge infatti, può «risultare non configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza». E sulle pratiche archiviate è stato apposto un sigillo di segretezza che rende impossibile conoscere le motivazioni.
Insomma, regole che lasciano l’amaro in bocca a chi, come A& I e Articolo 101, prova a vederci chiaro. Un tentativo non nuovo, a dire il vero: in una mozione presentata il 6 febbraio del 2021, i “101” avevano espresso la loro contrarietà: «La direttiva del procuratore generale della Cassazione, costituendo una linea precostituita in ordine alla rilevanza dei singoli comportamenti da analizzare – scrivevano le toghe “dissidenti” -, rischia di costituire un pregiudiziale condizionamento del lavoro dei singoli magistrati». Inoltre i “101” avevano evidenziato il «contrasto con la giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia», dal momento che la sentenza delle Sezioni Unite 741/ 2020 «ha chiaramente ricondotto la cosiddetta autopromozione nell’alveo dei “comportamenti abitualmente e gravemente scorretti” di cui all’art. 2, comma 1, lett. d) del dlgs 109 del 2006».
Da qui l’invito – caduto nel vuoto – a revocare quelle linee guida, in quanto, aveva evidenziato nel Cdc di Anm Ida Moretti, «chi si autopromuove dimostra di ambire a quel posto non per servizio, ma per una ambizione personale». E secondo Andrea Reale occorreva «valutare se la procura generale abbia il potere di cestinare certi comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e deontologico: non è possibile – aveva evidenziato – che una sola persona possa suggerire tali indicazioni anche ad altre persone che devono esercitare l’azione disciplinare».
La richiesta avanzata ora da 101 e A& I partendo dal presupposto che la direttiva di Salvi ha ridotto gli spazi di censura di condotte esecrabili – prende spunto dall’esito di alcuni procedimenti per incompatibilità ambientale davanti al Csm, in particolare due: quello relativo ad Anna Canepa, sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia, e quello a carico di Donatella Ferranti, ex parlamentare del Pd e oggi magistrato alla Corte di Cassazione. Nel caso di Canepa, il plenum ha archiviato la questione in quanto i messaggi scambiati con Palamara, anche se «inopportuni», non avrebbero compromesso lo svolgimento delle funzioni e l’immagine di imparzialità della toga. Per Ferranti, invece, pur essendosi «tradotte anche in esplicite direttive sulle strategie da adottare o sui comportamenti da tenere da parte di Palamara», le chat «si sono rivelate prive di una effettiva ricaduta sulle funzioni svolte nella sede attualmente occupata dal magistrato».
A questi casi si aggiunge l’esposto presentato in procura da Rosario Russo, ex sostituto procuratore generale presso la corte di Cassazione, ora in pensione, che “contesta” al pg il rifiuto d’atti d’ufficio, relativamente alla vicenda che coinvolge il giudice del Tribunale di Crotone Massimo Forciniti, componente del Csm nel periodo in cui sedeva tra i suoi banchi anche Palamara.
Secondo Russo, infatti, Salvi non avrebbe esercitato, nei modi e nei tempi previsti dalle norme, l’azione disciplinare contro Forciniti, il cui caso era finito in I Commissione solo in relazione alla presentazione di un emendamento parlamentare che avrebbe consentito ai componenti uscenti del Csm di assumere da subito incarichi direttivi o semidirettivi.
Il nome di Russo compare anche tra i punti all’ordine del giorno del Comitato direttivo del 2 luglio, avendo lo stesso chiesto l’accesso agli atti del Collegio dei Probiviri in merito ai provvedimenti di archiviazione nei procedimenti per le chat Palamara. Ma tra i 15 punti di discussione ci sono anche le valutazioni sulla riforma del Csm e il progetto di riforma costituzionale per l’istituzione dell’Alta Corte. Che forse potrebbe essere la via d’uscita per evitare, in futuro, due pesi e due misure.
Rivelazioni “segrete” a Palamara, Fuzio prosciolto anche in appello. Secondo il gup, la rivelazione delle notizie comunicate il 3 aprile 2019 al collega Palamara da parte di Fuzio, quale componente del Comitato di Presidenza del Csm, non erano coperte da segreto d'ufficio. Il Dubbio il 7 dicembre 2022.
Confermato il proscioglimento dall’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio contestato a Perugia all’ex magistrato Luca Palamara in concorso con l’ex procuratore della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio. La Corte d’appello del capoluogo umbro ha confermato oggi la decisione del gup, risalente al 15 ottobre 2021, che aveva ritenuto non sussistere i fatti contestati, perché le circostanze rivelate non erano coperte ancora da segreto, o di lieve entità avendone appreso Palamara già da altre fonti. La procura generale aveva, però, fatto ricorso, sostenendo al contrario la gravità delle condotte. Al termine della camera di consiglio, la decisione di confermare il non luogo a procedere.
Secondo il gup, la rivelazione delle notizie comunicate il 3 aprile 2019 al collega Palamara da parte di Fuzio, quale componente del Comitato di Presidenza del Csm, non erano coperte da segreto d’ufficio, in quanto ancora non secretate dal Csm, per cui si è ritenuto che il fatto non sussiste. Un presupposto contestato dalla Procura generale di Perugia che ha impugnato la decisione assolutoria innanzi alla Corte d’appello asserendo come «se per un verso la decisione del Tribunale riconosce il concorso di ambedue i magistrati nella condotta rivelatrice di notizie d’ufficio», l’allora procuratore generale della Cassazione, quale membro di diritto del Comitato di Presidenza del Csm «era tenuto, proprio per la sua funzione, ad osservare il segreto sugli atti di cui era venuto a conoscenza, che nello specifico erano costituiti dal contenuto di un esposto presentato da un magistrato nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica di Roma».
Per la Procura generale quindi «l’aver comunicato le notizie per telefono a Palamara, che aveva interesse a conoscerle, ha costituito violazione del segreto a cui il magistrato, anche quale titolare del potere di azione disciplinare, era comunque tenuto». Una tesi che non è stata accolta dai giudici della Corte di Appello di Perugia che hanno confermato l’assoluzione di Luca Palamara.
Caso Palamara: «L’ex capo Anm fu informato da Pignatone»
Nelle motivazioni della sentenza dello scorso 23 luglio, il gup di Perugia scriveva che ad informare Palamara dell’indagine a suo carico in corso a Perugia per corruzione per i suoi rapporti con l’imprenditore Fabrizio Centofanti non fu Fuzio, ma «l’allora procuratore della Repubblica di Roma, dott. Giuseppe Pignatone, nel dicembre 2017». Secondo il gup «può affermarsi con certezza» che dalle conversazioni ambientali captate grazie al trojan installato sul cellulare di Palamara emerga come questi «prima» dell’incontro con Fuzio, avvenuto il 21 maggio 2019, «fosse già a conoscenza non solo delle indagini condotte dalla procura perugina circa i suoi rapporti con Centofanti ma anche del titolo di reato per il quale era stato iscritto nonché di molte circostanze».
Luca Fazzo per “il Giornale” il 27 giugno 2022.
«Certo che Russo ha ragione. Io non entro nei casi singoli che solleva. Ma quando parla di uno stato d'eccezione illegittimamente creato per evitare a una serie di magistrati l'azione disciplinare descrive esattamente quello che è accaduto in seguito alla divulgazione delle mie chat. Farei un altro passo in avanti.
Il sistema di autoraccomandazioni che è stato considerato lecito per tanti magistrati, se venisse applicato da un candidato a qualunque altro incarico pubblico, porterebbe alla sua immediata incriminazione. Immaginiamoci un aspirante a un posto pubblico che va a spiegare al presidente della commissione d'esame quanto è bravo lui e quanto è scarso un altro. È già fortunato se non lo arrestano».
Sul tavolo di Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, c'è la copia del Foglio di sabato che rende nota la lunga lettera inviata da Rosario Russo, già sostituto procuratore generale in Cassazione, al presidente della Repubblica, al ministro Marta Cartabia e al Csm. Russo è in pensione dal 2017 ma i meccanismi della Cassazione li conosce bene.
E nella sua lettera mette sotto accusa il modo in cui Giovanni Salvi, l'attuale procuratore generale della Cassazione, ha gestito il caso delle chat che coinvolgevano centinaia di magistrati di tutta Italia, mettendone sotto procedimento disciplinare una piccola parte e salvando tutti coloro che avevano bussato alla porta di Palamara solo per «autopromuoversi», cioè per perorare la propria causa. Tra cui Salvi stesso.
È normale che Salvi abbia dato la linea in una vicenda che lo coinvolgeva personalmente?
«Ovviamente no. Ma questo è un bug del sistema. Il titolare della azione disciplinare nei confronti dei magistrati è lui, il pg della Cassazione. Non c'è nessuna forma di controllo nei suoi confronti, ha di fatto un potere assoluto, può persino archiviare i fascicoli senza che nessuno lo sappia».
Anche il ministro della Giustizia può dare il via alla azione disciplinare.
«Sì, ma discrezionalmente, non ha obblighi. Il pg invece ha un dovere preciso. E in questa vicenda è avvenuta una cosa che nessuno sa».
Sentiamo.
«Poco dopo l'esplosione del caso, vi fu una riunione tra il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, l'allora capo degli ispettori Casola e l'allora pg della Cassazione, Riccardo Fuzio. A Fuzio dissero che il suo nome compariva nelle chat con me, lo accusarono di essere mio amico. Lui uscì molto provato dalla riunione, poco dopo si dimise, e le sue dimissioni portarono alla nomina di Salvi».
Ma una riunione del genere non è irrituale?
«A essere irrituale è il contenuto. Anche perché subito dopo il ministro scompare totalmente dalla scena, a prendere in mano i procedimenti disciplinari è solo Salvi. In quelle ore fu raggiunto l'accordo, e Bonafede diventa il grande assente. È come se al ministro fosse stato detto: stanne fuori, ce la vediamo tra noi magistrati, adesso arriva il nuovo corso. Il nuovo corso è stata una ghigliottina unidirezionale, un regolamento di conti».
Addirittura.
«La realtà è sotto gli occhi di tutti. Alcuni sono stati massacrati pubblicamente, altri non sono stati nemmeno sfiorati. Fuzio, dopo essere stato costretto alle dimissioni è stato prosciolto, ma ormai il danno era fatto. So per certo che adesso molti magistrati colpiti dalla ghigliottina si stanno rivolgendo a grandi studi legali per chiedere i danni a chi li ha esposti ingiustamente, impiegando per questo regolamento di conti chat che per le norme europee non potevano essere utilizzate. Mentre magistrati che in quelle chat compaiono in bella vista continuano a fare parte del Consiglio superiore della magistratura».
Però tra pochi mesi si vota per il nuovo Csm, finalmente si volta pagina.
«È quello che si augurano migliaia di magistrati che sono lontani da questo sistema di potere. Io per ora noto soprattutto che è già partita la gara per occupare il posto di vicepresidente del nuovo Csm, anche perché si vota anche per il nuovo Parlamento, molti nomi importanti rischiano di restare fuori, ricollocarsi al Csm fa gola. Così c'è qualcuno che già nel 2014 e nel 2018 ci aveva provato, e che sta tornando alla carica andando a parlare con le correnti, specie con la sinistra, ovvero Area».
Però è cambiato tutto, eh.
Il retroscena di Palamara: «Fuzio fatto fuori dopo una riunione tra Bonafede e Salvi». Il Dubbio il 27 giugno 2022.
L'ex pm di Roma parla anche dell'esposto del magistrato Rosario Russo, pubblicato in esclusiva dal Dubbio. «Quando parla di uno "stato d'eccezione illegittimamente creato" per evitare a una serie di magistrati l'azione disciplinare descrive esattamente quello che è accaduto in seguito alla divulgazione delle mie chat»
Luca Palamara al “Giornale” svela cosa successe tra l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e l’allora pg della Cassazione, Riccardo Fuzio. L’intervista al quotidiano milanese, però, inizia con l’esposto del magistrato in pensione Rosario Russo, pubblicato in esclusiva dal Dubbio, nei giorni scorsi. «Certo che Russo ha ragione. Io non entro nei casi singoli che solleva. Ma quando parla di uno “stato d’eccezione illegittimamente creato” per evitare a una serie di magistrati l’azione disciplinare descrive esattamente quello che è accaduto in seguito alla divulgazione delle mie chat. Farei un altro passo in avanti. Il sistema di autoraccomandazioni che è stato considerato lecito per tanti magistrati, se venisse applicato da un candidato a qualunque altro incarico pubblico, porterebbe alla sua immediata incriminazione. Immaginiamoci un aspirante a un posto pubblico che va a spiegare al presidente della commissione d’esame quanto è bravo lui e quanto è scarso un altro. È già fortunato se non lo arrestano» afferma l’ex pm di Roma, già presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati.
Alla domanda se sia normale che Salvi abbia dettato la linea su una vicenda che lo coinvolge direttamente, Luca Palamara risponde così: «Ovviamente no. Ma questo è un bug del sistema. Il titolare della azione disciplinare nei confronti dei magistrati è lui, il pg della Cassazione. Non c’è nessuna forma di controllo nei suoi confronti, ha di fatto un potere assoluto, può persino archiviare i fascicoli senza che nessuno lo sappia». Poi svela il retroscena su Fuzio: «Poco dopo l’esplosione del caso, vi fu una riunione tra il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, l’allora capo degli ispettori Casola e l’allora pg della Cassazione, Riccardo Fuzio. A Fuzio dissero che il suo nome compariva nelle chat con me, lo accusarono di essere mio amico. Lui uscì molto provato dalla riunione, poco dopo si dimise, e le sue dimissioni portarono alla nomina di Salvi».
Secondo Palamara il contenuto di quella riunione sarebbe stato irrituale e spiega i motivi. «Subito dopo il ministro scompare totalmente dalla scena, a prendere in mano i procedimenti disciplinari è solo Salvi. In quelle ore fu raggiunto l’accordo, e Bonafede diventa il grande assente. È come se al ministro fosse stato detto: stanne fuori, ce la vediamo tra noi magistrati, adesso arriva il nuovo corso. Il nuovo corso è stata una ghigliottina unidirezionale, un regolamento di conti».
«La realtà è sotto gli occhi di tutti – aggiunge Palamara -. Alcuni sono stati massacrati pubblicamente, altri non sono stati nemmeno sfiorati. Fuzio, dopo essere stato costretto alle dimissioni è stato prosciolto, ma ormai il danno era fatto. So per certo che adesso molti magistrati colpiti dalla ghigliottina si stanno rivolgendo a grandi studi legali per chiedere i danni a chi li ha esposti ingiustamente, impiegando per questo regolamento di conti chat che per le norme europee non potevano essere utilizzate. Mentre magistrati che in quelle chat compaiono in bella vista continuano a fare parte del Consiglio superiore della magistratura».
Infine, la stoccata contro AreaDg: «Ora noto soprattutto che è già partita la gara per occupare il posto di vicepresidente del nuovo Csm, anche perché si vota anche per il nuovo Parlamento, molti nomi importanti rischiano di restare fuori, ricollocarsi al Csm fa gola. Così c’è qualcuno che già nel 2014 e nel 2018 ci aveva provato, e che sta tornando alla carica andando a parlare con le correnti, specie con la sinistra, ovvero Area».
Il libro che inguaia il pm in carriera. Felice Manti il 7 Giugno 2022 su Il Giornale.
Il volume ricostruisce gli errori della toga, in corsa per un incarico.
C'è un magistrato in corsa per un posto di prestigio, nonostante qualche guaio giudiziario a rischio prescrizione. Ma c'è un libro che può offuscarne l'immagine. È una vicenda simbolica del disastro giustizia quella ben raccontata nel libro L'uso ingiusto della Giustizia, edito da Libeccio, una intraprendente casa editrice toscana. A scriverlo è Antonio G. d'Errico (militante dei Radicali, scrittore di successo già biografo di Marco Pannella) e vanta la prefazione di Rita Bernardini. Che nella prefazione cita un articolo di Luca Fazzo del Giornale sulle «150mila persone che ogni anno vanno a processo e vengono assolte, sorte che dall'avvento del nuovo codice è già toccata ad oltre 5 milioni di persone», invitando a votare i referendum sulla giustizia «per richiamare le forze politiche alle loro responsabilità verso i cittadini». Il libro, che negli ultimi mesi sembra aver tolto il sonno a questo magistrato (di cui non si fa mai il nome), racconta la storia di alcuni personaggi illustri di una città del centro Italia, finiti dal nulla nel tritacarne della giustizia e usciti innocenti ma niente affatto indenni. C'è il colonnello dei carabinieri che non si capacita delle ispezioni contro un ristoratore perfettamente in regola, che finirà indagato (assieme allo stesso ufficiale) per reati rivelatesi inesistenti e costretto a chiudere il suo storico locale. C'è il comandante delle guardie carcerarie che finisce nei guai per presunti abusi su una multa per essere passato col rosso e che dopo il suo calvario giudiziario ha deciso di lasciare ogni incarico. C'è l'imprenditore nel settore del camping, costretto a fermarsi per diversi anni a fronte di una serie di ispezioni senza fondamento. Il filo rosso che lega queste storie è un unico magistrato, che ha deciso di perseguire reati che, secondo i giudici, non andavano neanche contestati.
«Mandare innocenti in carcere mette in serio pericolo i principi stessi della nostra democrazia, l'azione penale può divenire devastante se il grande potere attribuito in Italia ai pm diviene smisurato e sconsiderato, tanto più se esercitato nei confronti di persone più disarmate perché innocenti», avverte la Bernardini. La risposta a questa deriva è in 5 Sì.
Pm "di ferro" ma morbida con l'amico avvocato. La Conforti è indagata per truffa e corruzione. Luca Fazzo il 4 Giugno 2022 su Il Giornale.
Il magistrato avrebbe usato due pesi e due misure per proteggere un legale.
L'inchiesta era stata battezzata «Il Botto», e aveva avuto - come spesso accade - una serie di sequel: il Botto 2, 3, eccetera. Nel mirino il business dei falsi incidenti stradali che a Massa tormentava le compagnie di assicurazione, che venivano truffate regolarmente grazie alla complicità di vigili urbani, avvocati, medici legali, periti. Diciannove arresti e centotrenta indagati, un terremoto nella tranquilla cittadina toscana.
A condurre l'indagine, una bionda e tosta pm, Alessandra Conforti, oggi in servizio a La Spezia. Che ora per un cascame di quell'inchiesta si trova a sua volta iscritta nel registro degli indagati della Procura di Torino, con ipotesi d'accusa non da poco: omissione di atti d'ufficio, corruzione, truffa.
A Torino fanno presente che l'iscrizione della Conforti nel registro degli indagati è un «atto dovuto» e che l'indagine è ancora ai primi passi. Ma il dossier è già reso corposo dal materiale allegato alle denunce nei confronti del pm, depositato da un investigatore privato massese che la pm ha arrestato nel corso del primo blitz. E che la accusa, con documenti e foto alla mano, di avere colpito solo in certe direzioni. Tutelando invece i sinistri curati da un giovane avvocato legato a lei da affettuosa amicizia. Il legale è stato iscritto anche lui nel registro degli indagati a Torino, con i medesimi reati della Conforti.
Non è la prima volta che la carriera di Alessandra Conforti - figlia di un alto ufficiale dei carabinieri, già comandante del nucleo per la tutela del patrimonio artistico - registra un inciampo. Il trasferimento da Massa a La Spezia ha infatti portato all'estinzione della procedura di incompatibilità ambientale che il Consiglio superiore della magistratura aveva avviato nei suoi confronti dopo che per lei e per suo marito, Alberto Dello Iacono, anche lui pubblico ministero a Massa, era stata aperta una indagine penale. La storia riguardava dei monili e altri beni sequestrati dai carabinieri locali e spariti nel nulla. Una giovane tenente dell'Arma era finita sotto inchiesta per peculato, ed era emerso che la pm Conforti, sua cara amica, non solo le forniva informazioni e consigli, ma aveva anche inserito un post con l'indicazione «in archivio, grazie» nel fascicolo assegnato al proprio marito, Dello Iacono. Nella seduta del 13 gennaio 2021 il Csm, dopo aver rilevato che nei confronti della pm era stata depositata una richiesta di rinvio a giudizio «di cui non si conosce l'esito», stabiliva che il trasferimento spontaneo a La Spezia era sufficiente a chiudere la pratica.
Ma i veleni massesi, a quanto pare, hanno inseguito la dottoressa anche nella nuova sede. Nella denuncia presentata nei suoi confronti è presente anche una fotografia che la ritrae in spiaggia insieme all'avvocato Ambrosanio, insieme alla testimonianza della titolare dello stabilimento balneare Paraflight «che ha confermato che l'avv. Ambrosanio e la pm Alessandra Conforti hanno l'ombrellone uno affianco all'altro e sono affittuari della medesima cabina. Risulterebbe che tale cabina sia pagata dall'avvocato Ambrosanio o comunque da soggetto a lui riconducibile».
La Conforti non avrebbe dovuto segnalare al Csm una eventuale relazione sentimentale con un avvocato (l'obbligo scatta solo in caso di convivenza) ma il problema è un altro: il trattamento di favore che i sinistri seguiti da Ambrosanio avrebbero ricevuto, secondo la denuncia, da parte della pm. Almeno due incidenti «erano stati attenzionati dalla dottoressa Conforti» ma «in seguito, nonostante le palesi criticità emerse, non risulterebbe alcuna attività successiva della pm» benché «fossero sovrapponibili ad altri indicati nella medesima indagine». Tutte calunnie? La parola all'indagine della Procura di Torino.
Egle Priolo per “il Messaggero” il 27 maggio 2022.
Dopo 45 giorni di carcere, prima donna magistrato a finire dietro le sbarre, e due mesi di domiciliari, arriva la condanna a sette anni per Chiara Schettini, ex giudice della sezione fallimentare di Roma accusata di essersi appropriata, con l'allora compagno, di circa cinque milioni di euro dalle procedure fallimentari da lei trattate.
In due ore e dieci minuti di camera di consiglio, il tribunale collegiale di Perugia (competente per il coinvolgimento di un magistrato romano) ha così chiuso il primo grado nei confronti della 62enne passata da una carriera brillante - l'ingresso in magistratura a soli 23 anni, un super attico a Rebibbia - non solo alla rimozione dall'ordine giudiziario nel 2016 ma adesso alla condanna, che prevede anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici più un risarcimento dei danni cagionati al ministero di Giustizia e alla Tecnoconsult srl da quantificarsi in sede civile.
L'INCHIESTA Una condanna pesante, come richiesto dal pubblico ministero Manuela Comodi che dal 2012 lavora a un'inchiesta che ha visto Schettini accusata anche di falso, corruzione, minacce e intralcio alla giustizia: tutte contestazioni prescritte, tranne il peculato per cui è stata condannata. Dei tredici indagati iniziali (tra cui professionisti, commercialisti e curatori fallimentari), ieri sono stati condannati con tanto di interdizione per cinque anni dai pubblici uffici - anche Rossella Galante a 4 anni e mezzo, Massimiliano Fiore e Andrea Doni, entrambi a 4 anni, mentre sono stati assolti per non aver commesso il fatto Sergio Usai e Pierluigi De Paolis.
Per tutti gli altri, è arrivata la prescrizione, in una sentenza emessa a 15 anni dai fatti contestati. Piercarlo Rossi, invece, il suo ex compagno e curatore fallimentare, accusato di aver intascato 4 milioni e ottocentomila euro sottratti da tre procedure fallimentari firmate da lei, ha confessato ormai anni fa e ha patteggiato una pena a un anno e nove mesi di carcere.
LA DIFESA E proprio sulla sua colpevolezza ha sempre puntato la difesa dell'ex giudice Schettini, che ha ribadito a più riprese come sia stato lui, semmai, a raggirarla. «Non ho intascato un euro aveva dichiarato tempo fa -. Il commercialista su cui avrei dirottato il malloppo della fallimentare? Lui ha raccontato questo ai magistrati per tirarmi in trappola. Ma io sono stata sempre ligia. Ho avuto due encomi, l'ultimo nel 2007. Poi non sono impazzita».
Ma i giudici Matteo Cavedoni, Serena Ciliberto e Loretta Internò hanno invece evidentemente considerato più attendibile la ricostruzione della procura sui fallimenti pilotati dall'interno per arricchirsi. Forse anche per quell'intercettazione della Schettini diventata ormai cronaca quanto la morte del padre, ucciso dalle Brigate Rosse: «Sono più mafiosa dei mafiosi». La parola adesso passerà certamente per l'appello.
Mario Giordano, "quanti giudici tributari arrestano all'anno": in che mani siamo, inquietante. Mario Giordano su Libero Quotidiano il 10 maggio 2022.
Per gentile concessione dell’editore Rizzoli e dell’autore Mario Giordano pubblichiamo un estratto del libro «Tromboni. Tutte le bugie di chi ha sempre la verità in tasca», in libreria da oggi. Di seguito, la prima parte del capitolo dedicato ai tromboni della giustizia.
Dicono che finalmente si farà la riforma della giustizia. Dicono che è la volta buona. Non come negli ultimi trent'anni che era sempre la volta buona ma poi non lo era mai. Dicono: «Accelerare i tempi dei processi». E poi: «Evitare la politicizzazione delle toghe». E poi: «Ripristinare la fiducia dei cittadini». Dicono sempre le stesse cose e dicono che non bisogna dubitare. Che ora tutto cambierà. E io ci credo, per carità. Però...
Il giudice tributario? È pignorato dal fisco. Non è uno dei colmi che recitavamo da bambini, come quello del pizzaiolo che ha la figlia capricciosa o quello dell'idraulico che non capisce un tubo. No: il giudice tributario pignorato dal fisco è una realtà. Stiamo parlando di Raffaele Di Ruberto, foggiano, 55 anni, membro della commissione tributaria di Latina, uno di quelli chiamati a giudicare sui contribuenti che non assolvono i loro doveri con il fisco. Peccato che, stando alle carte, nemmeno lui assolva i suoi doveri con il fisco: risulta infatti aver accumulato, nel corso degli anni, un debito con lo Stato di ben 130.000 euro. Sia chiaro: le carte ufficiali non sempre sono aggiornate, magari nel frattempo lui ha ripagato fino all'ultimo centesimo. O ripagherà presto. Oppure farà ricorso in Cassazione e vincerà. Ma il dubbio resta: può essere serena nel giudicare i rapporti tra cittadini ed erario una persona alla quale il medesimo erario sta chiedendo 130.000 euro?
INGEGNOSO SISTEMA
Non è l'unico caso, purtroppo. Donato Arcieri, 59 anni, lucano trapiantato in Lombardia, è stato arrestato nel dicembre 2021. Era giudice nella commissione tributaria della Lombardia. Insieme ad altre persone avrebbe architettato un sistema per frodare il fisco: 90 milioni sottratti allo Stato, anche attraverso un ingegnoso meccanismo che passava per l'acquisto di fiches nei casinò. Due anni prima erano finiti in manette due giudici tributari di Salerno, Fernando Spanò e Giuseppe De Camillis: avrebbero venduto sentenze in cambio di denaro. Dai 5000 ai 30.000 euro a botta. Nelle intercettazioni le tangenti venivano chiamate «mozzarelle». Proprio così: mozzarelle, magari con un filo d'olio per ungere meglio. Una bontà. In media «vengono arrestati uno o due giudici tributari l'anno», ammette Antonio Leone, il presidente del CPGT (Consiglio di presidenza della giustizia tributaria).
CASO GREGORETTI
Ma il numero non lo scandalizza perché «i giudici tributari sono tremila». Si capisce, caspita: volete che ogni tremila giudici tributari non ce ne siano un paio che frodino il fisco? O che prendano tangenti? O che almeno non paghino le tasse? Ma come potrebbe essere? Sarà che siamo cresciuti con un rispetto devoto per la giustizia. E per le tante persone oneste che sacrificano la loro vita in suo nome. Ma non riusciamo ad accettare che tutto questo sia normale. Così come non riusciamo ad accettare come normali le performance di magistrati alla Nunzio Sarpietro. Lo ricordate? Il 28 gennaio 2021, in piena emergenza pandemica, è arrivato a Roma per interrogare l'allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte sul caso Gregoretti, quello con Matteo Salvini nella parte dell'imputato. E dopo aver improvvisato un inopportuno show davanti a Palazzo Chigi sparando giudizi non dovuti sul capo del governo («Il premier mi ha fatto un'ottima impressione»), ha pensato bene di infrangere tutte le regole andando a pranzo in un ristorante (vietato) violando la zona arancione (vietatissimo). Il ristorante, ovviamente, era chiuso per tutti i cittadini comuni. Ma non per lui. Gli inviati delle Iene lo hanno beccato in flagranza di scampi, gamberi rossi e branzino al sale. Come vino, ovviamente, champagne. «Mi trovavo in stato di necessità» s' è giustificato lui. «Altrimenti avrei dovuto mangiare un trancio di pizza...»
Ma si capisce, poveretto: può il giudice Sarpietro mangiare un trancio di pizza come tutti i comuni mortali? Macché. Ci vuole lo champagne. E dunque per lui lo champagne (con scampi e gamberi rossi) è «stato di necessità». Così come è «stato di necessità» violare quelle regole che in realtà avrebbe il dovere di far rispettare a tutti i cittadini. Normale? E va be'. Se il comportamento del magistrato Sarpietro vi sembra normale, allora sarà normale anche quello del magistrato Piero Gamacchio, pure lui memorabile nei suoi approcci al ristorante. Giudice in Corte d'Appello a Milano, già protagonista di processi famosi come quello al Banco Ambrosiano, Gamacchio è un amante di piatti ricercati, tartufo bianco e vini pregiati. E, per gustarli, non ha mai esitato a girare tutti i migliori locali di Milano. Che dite? Il conto così viene un po' salato? Certo. Ma al giudice della Corte d'Appello non interessava. Anche perché lui, in genere, non pagava. Lui mangiava a scrocco. Era abituato così: si abbuffava, salutava e se ne andava. Senza mai farsi portare il conto. In questo modo ha accumulato debiti su debiti. «Si è trattato di un comportamento di grave leggerezza, me ne vergogno profondamente e presto porrò rimedio» ha ammesso lui. Ma solo quando è stato scoperto. Guarda un po'. Non se n'era accorto prima che il comportamento era «di grave leggerezza»? E, visto che parla di «porre rimedio», come potrà porre rimedio alla sfiducia che queste imprese generano nei cittadini? Anche perché chi mette in atto queste imprese, se veste la toga, quasi sempre la passa liscia.
L'APERITIVO
Come Claudia Ferretti. Magistrato, con un incarico importante, quello di sostituto procuratore a Modena, un giorno in pieno lockdown si è concessa un aperitivo irregolare alla Salumoteca Bruno Parrucca di Scandiano (Reggio Emilia), insieme a due amici, di cui uno, per altro, ergastolano in semilibertà con alle spalle una condanna per associazione mafiosa. Vi sembra opportuna la scelta di violare le regole della zona rossa in compagnia di un ergastolano? Non tanto, no? Eppure il CSM (Consiglio superiore della magistratura, l'organo di autogoverno delle toghe) esamina il caso e archivia tutto. Come sempre. O quasi sempre. Di recente, in effetti, una sanzione del CSM c'è stata: quella al capo della procura di Firenze, Giuseppe Creazzo. Accusato di aver molestato una collega palpeggiandola nelle parti intime, ha ricevuto l'adeguata punizione. Gli hanno tolto due mesi di anzianità lavorativa. Avete capito bene: perderà due mesi di contributi previdenziali per un reato che a un comune cittadino costa dai sei ai dodici anni di reclusione. Eppure lui si è lamentato. «Sentenza ingiusta» ha commentato. A chi lo dice.
A GIUGNO IL PROCESSO. Brindisi, corruzione in Tribunale: Galiano rinviato a giudizio. Lo ha deciso il gup di Potenza. Assieme al giudice saranno giudicate altre 19 persone. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Aprile 2022.
Il giudice civile del Tribunale di Brindisi, Gianmarco Galiano, è stato rinviato a giudizio dal gup del Tribunale di Potenza con l’accusa, contestata a vario titolo, di aver preso parte ad un’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, riciclaggio, falso in atto pubblico, abuso d’ufficio e auto riciclaggio. Assieme a lui saranno giudicate altre 19 persone: 17 sono state rinviate a giudizio, altre tre invece saranno giudicate con il rito abbreviato. La prima udienza del processo si terrà il 27 giugno 2022. Galiano, che non si è mai dimesso dalla magistratura ed ha sempre professato la sua innocenza, fu arrestato il 28 gennaio 2021 assieme ad altre cinque persone che nel corso del tempo sono tornate in libertà anche se, per alcune di loro, sono state disposte prescrizioni.
Secondo quanto emerso dalle indagini della Guardia di finanza di Brindisi, coordinati dal procuratore di Potenza Francesco Curcio e dal sostituto Sarah Masecchia, il giudice Galiano avrebbe ricevuto per sè parte dei risarcimenti del danno concessi dalle assicurazioni in due cause civili: una del 2007, che si era occupata della morte di una ragazza di 23 anni, e un giudizio su bambino nato con traumi permanenti per colpa medica. Nel primo caso 300.000 euro sarebbero stati messi nella disponibilità del giudice attraverso il conto intestato alla suocera. Nel secondo, l'importo ricevuto ammonterebbe a 150.000 euro. Le indagini si sono anche concentrate su un giro di sponsorizzazioni ruotate attorno ad alcune imprese sportive della barca di Galiano e a un consistente numero di consulenze concesse a professionisti ritenuti amici, nell’ambito dell’attività della sezione fallimentare del Tribunale di Brindisi.
Marcello Viola nuovo capo della Procura di Milano: il commiato (con veleni) del reggente Targetti. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.
In pensione il 15 aprile, ha scelto proprio la giornata dell’insediamento per mandare ai pm un saluto che, nel rievocare la Procura di 40 anni fa, sembra scritto per invece lamentare le ultime gestioni.
Almeno in una cosa Milano sarà certamente la città giusta per il nuovo dirigente della Procura di Milano votato giovedì dal Consiglio superiore della magistratura: Marcello Viola, in toga dal 1981, da 6 anni procuratore generale di Firenze dopo 5 da procuratore di Trapani, è infatti un acceso interista, come alle pareti del suo ufficio palermitano (a lungo gip e poi pm) tradivano le maglie dei campioni nerazzurri. Le stesse care anche al procuratore aggiunto milanese Maurizio Romanelli, il candidato interno a cui il Csm ha preferito per la prima volta un esterno, e al quale ieri dopo il voto un gruppo di pm ha scritto: «Maurizio, rimane da parte nostra la grande stima e il riconoscimento per quanto hai fatto in questi anni».
Che la situazione in Procura sia peculiare lo testimonia l’indiretto «derby» di commenti tra procuratori «ex» (Edmondo Bruti Liberati) e «quasi ex», il reggente Riccardo Targetti, in pensione il 15 aprile, che sceglie proprio giovedì per mandare ai pm un saluto che, nel rievocare la Procura di 40 anni fa, sembra scritto per invece lamentare le ultime gestioni.
«Tempi eroici quelli! Chiedete ad Alberto Nobili… Il primo turno di Pasqua un inferno: 44 arrestati, omicidi, quintali di droga, rapinatori con i kalashnikov… La regola era testa bassa e lavorare», esordisce Targetti sul suo arrivo nel 1982 in una Procura dove il capo Mauro Gresti, «non ci pensava un attimo» a far catturare «rapinatori e spacciatori, ma, se appena c’erano di mezzo i colletti bianchi, si irrigidiva». Poi però arrivò Francesco Saverio Borrelli, e «dico solo che, se con la genetica si potessero clonare le persone, per dirigere gli uffici giudiziari si dovrebbero usare i cloni di quell’uomo».
Ma Targetti sembra parlare delle tensioni di oggi (tra decine di pm e il capo del pool tangenti internazionali Fabio De Pasquale) quando aggiunge: «Badate bene, anche all’epoca di Mani pulite la Procura, oltre a incarcerare corrotti e corruttori, faceva tante altre cose», e «anche chi suonava strumenti minori si sentiva considerato al pari dei “primi violini”». E in palese polemica ancora con l’irritazione di De Pasquale verso i 22 firmatari di una lettera sugli squilibri di lavoro, Targetti rievoca ai suoi tempi una lettera di protesta anche a Borrelli, con la differenza che «nella Procura di Borrelli si lavorava ma si discuteva; si protestava ma si partecipava; e le cose che riguardavano l’Ufficio, di cui tutti ci sentivamo partecipi, erano decise alla luce del sole». Ora, conclude Targetti, le «priorità» a Milano sono «processare i corrotti dentro e fuori i confini nazionali», ma anche «femminicidi, morti sui cantieri, devastazioni dell’ambiente, dilagare della droga, inganni web, terrorismo, la secolare battaglia contro tutte le mafie». Ma «ogni priorità è pari alle altre: stessa attenzione, stessi mezzi e possibilità di portare a termine il nostro compito».
Congedo al quale fanno invece da indiretto contrappunto i puntini sulle «i» che l’ex procuratore Edmondo Bruti Liberati (protagonista dei primi attriti all’epoca di Expo 2015 con l’aggiunto Alfredo Robledo) tiene a mettere quando rivendica che «alcune controverse recenti vicende non possono far dimenticare una lunga storia dalle indagini su Piazza Fontana a quelle sulla loggia P2, sul crac del Banco Ambrosiano, terrorismo, corruzione, reati societari e mafia».
Marcello Viola è il nuovo procuratore capo di Milano. GIULIA MERLO su Il Domani il 07 aprile 2022.
Il pg di Firenze vicino a Mi ha prevalso con 13 voti, superando il candidato di Unicost, Giuseppe Amato (3 voti) e quello di Area, Maurizio Romanelli (6 voti). Nella discussione si è tornati a parlare del caso Palamara
Marcello Viola è il nuovo procuratore capo di Milano: il plenum del Csm lo ha nominato con 13 voti a favore, dopo un breve dibattito su cui si sono allungate le ombre del caso Palamara.
Il procuratore generale di Firenze prende così il posto del pensionato Francesco Greco e da lui eredita una procura che oggi è divisa e in grande difficoltà, dopo i contrasti nella gestione del processo Eni e la fuga di notizie con i verbali sulla presunta loggia Ungheria.
La nomina di Viola dà un segnale di forte discontinuità: la procura di Milano, infatti, negli ultimi anni è sempre stata guidata da magistrati interni e di orientamento progressista. Viola, invece, oltre ad aver svolto buona parte della sua carriera in Sicilia e considerato vicino alla corrente conservatrice di Magistratura indipendente, che lo ha sostenuto nella candidatura.
I suoi contendenti erano il procuratore capo di Bologna, Giuseppe Amato, sostenuto da Unicost, che ha ricevuto 3 voti e il procuratore aggiunto di Milano, Maurizio Romanelli, sostenuto da Area, che invece ne ha ottenuti 6.
Proprio la candidatura di Romanelli risultava quella più in continuità con la gestione dell’ufficio: molto vicino all’ex procuratore Greco, Romanelli ha trascorso tutta la sua carriera nell’ufficio milanese. Invece, la scelta del plenum è stata quella di individuare un candidato di rottura, anche alla luce della profonde divisioni che il caso Amara ha provocato proprio all’interno dei magistrati milanesi.
L’OMBRA DEL CASO PALAMARA
A condizionare il dibattito davanti al plenum, però, è stata l’ombra lunga del caso Palamara che già aveva influenzato la nomina del vertice della procura di Roma.
Nel giudizio comparativo in favore della candidatura di Romanelli, infatti, la togata di Area Alessandra Dal Moro ha scritto che «l’immagine di indipendenza» di Viola «è risultata obiettivamente appannata, a prescindere da responsabilità o colpa dell’interessato, per effetto della nota vicenda relativa alla nomina del Procuratore di Roma, oggetto, come noto, di un grave tentativo di condizionamento dell’attività del Consiglio».
Viola, infatti, è il magistrato che è stato inconsapevolmente al centro del caso Palamara. Nel maggio del 2019 lui era uno dei candidati alla successione del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e il suo nome è stato al centro dell’accordo tra Unicost e Mi maturato durante la cena dell’Hotel Champagne di Roma tra Palamara, i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e cinque membri del Csm.
Proprio questo è stato ribadito nel dibattito anche dal togato Giuseppe Cascini, il quale ha ricordato una intercettazione del caso Palamara, in cui l’ex consigliere Massimo Forciniti diceva che “Viola fa tutto quello che dice Cosimo Ferri” e ha definito questo un «problema insuperabile» tanto da fargli ritenere che il nome di Viola non dovesse nemmeno essere presentato: «Non ho elementi per ritenere che sia vero, ma è oggettivo che così la sua immagine di imparzialità sia violata».
E ha concluso: «Si dirà che è stato nominato a Milano quello che doveva andare a Roma e chi lo voleva lì è stato buttato fuori dalla magistratura o condannato a sanzioni severe», con un riferimento chiaro a Palamara e agli ex togati del Csm sanzionati per il tentativo di condizionare la nomina del procuratore di Roma.
Tradotto: il caso Palamara avrebbe appannato il profilo di Viola a prescindere dal fatto che lui ne sia risultato estraneo e – come si legge nella relazione. lo stesso fatto che il pg di Firenze non sia mai intervenuto pubblicamente per commentare e prendere le distanze dovrebbe essere un elemento da considerare a suo carico, nella valutazione del suo profilo attitudinale.
LA DIFESA DI DI MATTEO
In favore della nomina di Viola si è espresso invece il togato di Autonomia e Indipendenza Nino Di Matteo, che già lo aveva sostenuto nella corsa alla procura di Roma poi assegnata a Francesco Lo Voi.
Di Matteo ha evidenziato che nel fascicolo Palamara non esistono intercettazioni in cui Viola sia interlocutore e che, anche dalle chat, non risulta che Viola abbia fatto attività di autopromozione. «Viola non può essere a vita vittima di una situazione di cui non è stato protagonista», ha detto Di Matteo, ritenendo scorretta anche la sola citazione nella relazione in favore di Romanelli.
Poi è passato al contrattacco, rievocando anche le occasioni in cui i nomi di Romanelli e Amato siano emersi nello scandalo Palamara.
«Romanelli è il soggetto in favore del quale si muove in modo scomposto un membro della Dna nei confronti di Palamara, per chiedergli di convincere membri del Csm a confermare Romanelli come procuratore aggiunto in Dna», ha ricordato Di Matteo, citando anche le conversazioni dirette che risultano fatte da Amato per ottenere un contatto con un membro del governo.
DISCONTINUITÀ
La scelta del plenum del Csm, quindi, si è orientata alla discontinuità evocata nel suo intervento proprio da Di Matteo.
La nomina di un magistrato esterno alle dinamiche ormai consolidate dell’ufficio dovrebbe servire proprio a segnare un nuovo corso in una procura tanto ambita quanto difficile.
Attualmente, infatti, è in corso uno scontro interno sfociato anche in procedimenti penali davanti al tribunale di Brescia: uno per rivelazione di segreto d’ufficio per la diffusione dei verbali del legale esterno di Eni, Piero Amara, contenenti rivelazioni sulla presunta loggia Ungheria; un secondo, invece, riguarda la presunta omissione di atti d’ufficio nella gestione del fascicolo Eni/Nigeria.
Nei giorni scorsi, inoltre, si è svolta una riunione molto tesa tra i procuratori, in cui è stata contestata la distribuzione dei carichi di lavoro tra i dipartimenti dell’ufficio, adombrando l’esistenza di favoritismi. Inoltre il facente funzioni Riccardo Targetti ha duramente contestato l’atteggiamento dell’aggiunto Fabio De Pasquale, sotto indagine a Brescia per il caso Eni, fino a dargli parere “non positivo” in consiglio giudiziario nella valutazione di riconferma nel ruolo.
Viola, dunque, eredita una situazione decisamente complessa da gestire. Tra i corridoi del palazzo di giustizia milanese, dove si aspettava la decisione del Csm, si parla di «anno zero»: al dispiacere per la mancata nomina di Romanelli, che era unanimemente apprezzato nell’ufficio, in molti pm si somma la convinzione che questa nomina possa mettere fine a «logiche di guerra interna» che risalirebbero anche a prima della guida di Greco.
GIULIA MERLO
Giacomo Amadori per “la Verità” l'8 aprile 2022.
Lo Champagne è finito. Ora la sinistra giudiziaria dovrà smaltire l'ubriacatura che l'aveva illusa di essere maggioranza nella magistratura e di poter influenzare per sempre, attraverso una falsa narrazione, media e opinione pubblica. Il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, stimato magistrato conservatore, citato nelle famigerate intercettazioni dell'hotel Champagne all'interno del Palamara-gate, è, infatti, il nuovo capo della Procura di Milano, sino a ieri feudo incontrastato delle toghe progressiste dai tempi di Tangentopoli.
Ha sconfitto il candidato di sinistra, Maurizio Romanelli, aggiunto milanese, considerato da tutti un gran signore, ma privo dei titoli necessari per la nomina, e il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, unanimemente apprezzato come fine giurista. Viola ha incassato 13 voti, sufficienti a evitare il ballottaggio contro Romanelli (6). A sceglierlo non sono stati solo i consiglieri della sua corrente, Magistratura indipendente o i gemelli diversi Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo, entrati nel parlamentino dei giudici sotto le insegne di Autonomia&indipendenza, ma anche tutti i consiglieri laici: i tre dei 5 stelle, i due della Lega e i due di Forza Italia, che a nostra memoria non si erano mai trovati tutti d'accordo su scelte così delicate.
Pure in occasione del voto per il procuratore di Roma, Giuseppe Lo Voi, si erano astenuti i laici della Lega e uno dei 5 stelle. In questo caso non si è schierato solo il vicepresidente del Csm, David Ermini, entrato in quota Pd. Astenuti anche il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, il Procuratore generale Giovanni Salvi e il consigliere di A&i Giuseppe Marra.
Dopo la nomina Viola ha dichiarato alla Verità: «Il voto di tutti i laici mi gratifica. Sono onorato per la fiducia che mi è stata concessa e sono consapevole della difficoltà per un incarico che richiede il massimo della responsabilità. Posso assicurare che ci metterò tutto l'impegno, come ho sempre fatto ogni volta che ho dovuto ricoprire un nuovo incarico».
Ha anche detto: «Il mio primo commosso pensiero è andato a Giovanni Falcone e al mio maestro e amico Paolo Borsellino. Con lui c'era un rapporto personale di grande affettuosità».
Alla fine, sotto le macerie dell'hotel Champagne, è rimasto il cartello delle toghe progressiste. Area, così si chiama l'alleanza ormai di sistema tra le correnti di Md e dei Verdi, sta scomparendo dalla cartina del potere giudiziario. Una sorta di nemesi storica dopo che, con una certa spregiudicatezza, aveva cavalcato la più grande e impunita fuga di notizie che si ricordi, quella sulle intercettazioni dell'hotel Champagne quando Luca Palamara, il giudice in aspettativa e parlamentare Pd, Cosimo Ferri, il collega parlamentare Luca Lotti e cinque consiglieri del Csm delle correnti moderate di Unicost e Mi si erano riuniti per discutere della nomina del Procuratore di Roma.
Su pochi giornali «democratici» uscirono le captazioni, in parte manipolate, e coperte da segreto che azzopparono la corsa di Viola, in quel momento Procuratore di Roma in pectore dopo il voto a lui favorevole in quinta commissione. Fu travolto senza colpe, senza aver partecipato ad alcun intrigo. Nelle scorse settimane Di Matteo al Csm aveva ricordato: «La frase di Lotti, quel "si vira su Viola", sembrava quasi un'esortazione, mentre è stato accertato che la frase era diversa "si arriverà su Viola?"».
Aggiungendo poi: «Non bisogna essere ipocriti: Viola è stato ingiustamente penalizzato».
Questo non è bastato a farlo vincere a Roma, dove si è insediato Lo Voi. Ieri Di Matteo è tornato alla carica: «Non c'è nessuna intercettazione in cui Viola sia stato interlocutore dei partecipanti (dello Champagne, ndr), non risulta da nessuna parte che abbia svolta un'attività di autopromozione per quell'incarico o un altro. È stato citato da terzi e di quella situazione è stato e non potrà essere a vita, se non con profonda ingiustizia, vittima».
In aggiunta ha rammentato le intercettazioni in cui terzi peroravano una conferma di Romanelli ad aggiunto della Dna e le conversazioni telefoniche di Amato con soggetti che avrebbero avuto qualche disavventura giudiziaria. Quindi con sottile perfidia ha dichiarato: «In questo momento storico alla Procura di Milano è fondamentale privilegiare l'esigenza di dare discontinuità». Cioè la stessa parola d'ordine con cui Palamara & c. avevano giustificato la candidatura di Viola a Roma: discontinuità. Nella Capitale il cambio di passo è fallito, a Milano no.
Alla fine, comunque, il risultato è che le due principali Procure d'Italia sono guidate da due esponenti di Magistratura indipendente. Infatti anche Lo Voi, pur considerato nel 2019 un candidato in «continuità» con Giuseppe Pignatone, proviene ed è stato sostenuto nella recente corsa a capo degli inquirenti capitolini dalla corrente più conservatrice (relatore della sua proposta è stato il laico di Forza Italia Alessio Lanzi) e in questo momento maggioritaria tra le toghe. Insomma il terremoto dello Champagne è servito solo a dare coraggio alla maggioranza silenziosa.
Per Area è stata una débâcle su tutta linea. A Milano i suoi consiglieri sostenevano, come detto, Romanelli, mentre a Roma, dopo aver inizialmente candidato Lo Voi, avevano virato, loro sì, su Michele Prestipino, salvo mollarlo al suo destino dopo la bocciatura del Consiglio di Stato.
A dicembre il membro più rappresentativo di Area al Csm, Giuseppe Cascini, aveva denunciato l'ingloriosa ritirata dei suoi, criticando la scelta di escludere dalla rosa delle proposte Prestipino e invocando «un sussulto di dignità e di autorevolezza, che purtroppo da troppo tempo manca».
Ieri sia lui che la collega Alessandra Dal Moro si sono battuti per evitare la peggiore delle sconfitte, la conquista da parte di Mi della Procura di Milano con l'ex candidato (a sua insaputa) dell'hotel Champagne. Cascini, quando ha compreso che gli altri consiglieri non erano interessati al dibattito che tanto gli premeva, ha preso la parola e ha accusato i colleghi di accidia.
Con il tono di un Marco Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare si è detto stupito perché anche «chi ha posizione spesso simili» alle sue «nella valutazione della gravità della vicenda» dello Champagne non veda «il profilo di caduta di credibilità e immagine della magistratura che quella cosa ha consegnato, cioè un magistrato che viene scelto perché esplicitamente i conversanti dicono: "Fa tutto quello che dice Cosimo"». Ovvero quello che per lui è l'uomo nero, l'ex leader di Mi, Ferri.
Quindi ha insistito: «Viene nominato Procuratore di Milano quello che in una serata di tre anni volevano nominare procuratore di Roma e quelli che lo volevano fare sono stati chi buttato fuori dalla magistratura o chi condannato a sanzioni severe». L'inutile filippica di Cascini non ha prodotto nulla, se non, forse, il godimento dei suoi bersagli. Il consigliere, fermo con l'orologio al maggio 2019, sembrava non essersi accorto di essere rimasto solo nella sua crociata. Neppure i giornali che tre anni fa riprendevano ogni suo fiato lo hanno sostenuto in questa ultima battaglia solitaria.
Da allora anche Md si è spaccata, dopo che nelle chat di Palamara era spuntato pure il nome di Cascini, per peccati veniali come la richiesta di un biglietto gratis per lo stadio o la ricerca di informazioni sui voti al Csm riguardanti il fratello magistrato o altri colleghi della sua corrente. Per il leader di Area solo lo Champagne è un «problema insuperabile», che non si può perdonare. Ha combattuto sino all'ultimo contro la nomina di Viola anche la Dal Moro che sul filo del gong ha sferrato l'ultimo colpo sotto la cintura, accusando il neoprocuratore di Milano di non aver preso pubblicamente le distanze dall'incontro dell'hotel romano.
Ma alla Verità il magistrato siciliano smentisce questa ricostruzione: «Io ho fatto una scelta istituzionale, quella di rispondere nelle sedi opportune e non sui media. Quando il Consiglio mi ha convocato, nell'ottobre 2019, in quella prima occasione, ho preso le distanze in maniera fortissima, ho detto che non c'entravo nulla, che non avevo nulla da spartire con quella riunione e che mi dichiaravo estraneo, anzi mi dichiaravo persona offesa».
Viola, che ha detto di «contare sulla collaborazione dei colleghi», adesso si troverà a guidare una Procura ridotta in macerie dal caso Amara. Il suo primo compito sarà quello di provare ad abbattere gli steccati tirati su dai colleghi progressisti e ricompattare un ufficio dove lo scollamento tra l'elite dirigenziale e la platea dei peones era diventato un fosso incolmabile.
Procura di Milano, Marcello Viola è il nuovo procuratore. Il consigliere D’Amato: «Grandi capacità investigative». L'ormai ex procuratore generale di Firenze ha ottenuto 13 voti a favore. Sei voti per il procuratore aggiunto di Milano, Maurizio Romanelli e 3 per il procuratore capo di Bologna, Giuseppe Amato. Il Dubbio il 7 aprile 2022.
Marcello Viola è il nuovo procuratore capo di Milano. Lo ha deciso il Plenum nell’assemblea del 7 aprile 2022. L’ormai ex procuratore generale di Firenze ha ottenuto 13 voti a favore. Sei voti per il procuratore aggiunto di Milano, Maurizio Romanelli e 3 per il procuratore capo di Bologna, Giuseppe Amato. Infine, tre gli astenuti.
La decisione finale è arrivata dopo circa tre ore di discussione, meno di quanto preventivato in apertura di dibattito dai consiglieri laici e togati che avevano chiesto lo slittamento della pratica alla giornata di domani.
Viola primo “Papa straniero” della procura di Milano
Viola prenderà le redini di una delle Procure più importanti d’Italia, dopo che a novembre il procuratore Francesco Greco è andato in pensione e le redini dell’ufficio sono passate al procuratore facente funzioni Riccardo Targetti. Quella del nuovo Procuratore di Milano era una scelta delicata, dopo mesi di tensioni e contrasti che hanno diviso l’ufficio, rimbalzando su tutte le prime pagine dei giornali. Tensioni che ruotavano attorno all’ex procuratore Greco, al pm Paolo Storari e ad alcuni aggiunti e che sono finite davanti al Csm e al centro di indagini della Procura di Brescia. E proprio per questo molti consiglieri, nel corso della discussione di questa mattina, hanno chiesto di scegliere una figura «in discontinuità» con la precedente gestione dell’ufficio, come ha chiesto il consigliere Nino Di Matteo che ha ricapitolato tutte le tensioni nate a Milano dopo la sentenza di primo grado del processo Eni-Nigeria, finita con l’assoluzione di tutti gli imputati, con i verbali secretati dell’ex legale esterno dell’Eni Piero Amara sulla Loggia Ungheria.
Viola era dato favorito fin dalla vigilia. Aveva incassato due importanti voti in commissione, quelli dei togati Antonio D’Amato di Magistratura indipendente, che ha presentato la sua candidatura al Plenum, e dell’indipendente Sebastiano Ardita. Alle spalle ha una lunga esperienza nella lotta alla mafia e ha incassato importanti risultati investigativi quando era sostituto procuratore a Palermo e nel ruolo di Procuratore a Trapani. Viola – il cui nome era comparso anche nelle conversazioni dell’ex magistrato Luca Palamara – ha presentato domanda anche per il posto di procuratore capo di Palermo e per quello di Procuratore nazionale antimafia. È stato in lizza anche per guidare la Procura di Roma, ma il Csm gli ha preferito Francesco Lo Voi, che ha lasciato Palermo per la Capitale.
Procura di Milano, Romanelli era l’unico candidato interno
L’unico candidato «interno» alla Procura a Milano era quello di Maurizio Romanelli, che in commissione ha incassato il voto della collega di Area Alessandra Dal Moro, che ha assicurato come Romanelli, dopo le recenti tensioni, sia «assolutamente in grado di ricompattare la Procura». Romanelli il suo ingresso in procura lo ha fatto nel 1992, quando è entrato a far parte della Direzione distrettuale antimafia, seguendo da vicino le grandi inchieste sull’espansione della ’ndrangheta al Nord Italia.
Negli ultimi mesi sotto la sua guida sono nate alcune delle inchieste più delicate che coinvolgono il mondo politico, come quelle su Beppe Grillo e il Movimento Cinque Stelle, oltre alle indagini sulle plusvalenze dell’Inter e quelle sui docenti universitari e i concorsi truccati. In lizza per guidare al Procura di Milano c’era anche l’attuale Procuratore di Bologna Giuseppe Amato, sostenuto dal voto in commissione dalla toga di Unicost Michele Ciambellini, che ha sottolineato le sue qualità di grande giurista e di efficiente organizzatore. É l’unico dei tre candidati ad avere all’attivo tre incarichi direttivi, prima a Pinerolo, poi Trento e poi nel capoluogo emiliano – dove ha coordinato importanti indagini contro la criminalità organizzata – dopo un periodo nel pool antimafia di Roma.
Marcello Viola procuratore di Milano, parla il consigliere Antonio D’Amato
Il consigliere togato Antonio D’Amato, relatore della proposta a favore del conferimento dell’incarico direttivo di Procuratore della Repubblica di Milano a favore del dott. Marcello Viola, attuale Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Firenze ne ha sottolineato «le rilevantissime capacità investigative, a partire dalla direzione che ha impresso alle indagini alla Procura di Trapani, che ha guidato per 5 anni. Periodo in cui la Procura è stata oggetto di gravi intimidazioni, proprio per la grande capacità dimostrata nelle indagini di criminalità organizzata, in un territorio storicamente interessato da una rilevante e radicata presenza delle mafie». «Ha trattato diverse indagini delicatissime a partire da quelle svolte presso la DDA di Palermo come quelle sul clan mafioso legato alla famiglia Badalamenti e ha svolto numerose e complesse rogatorie internazionali».
La denuncia di Di Matteo. Procura Milano, Viola non piace al Csm: “E’ fuori dalle cricche”. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Aprile 2022.
In Italia c’è un magistrato “scomodo” che deve essere ostacolato in ogni modo. Si chiama Marcello Viola ed è l’attuale procuratore generale di Firenze. “Viola è l’unico non ricattabile” disse l’allora consigliere del Csm Luigi Spina allo zar delle nomine Luca Palamara alla vigilia del voto per il procuratore di Roma, lasciando intendere che gli altri aspiranti avessero qualcosa da nascondere. Non essere ricattabile, non avere conflitti d’interessi, non avere scheletri nell’armadio, sta però diventando un handicap per Viola. Bruciato per il posto di procuratore di Roma, il pg di Firenze rischia di fare la stessa fine per la Procura di Milano il cui voto è atteso questa mattina in Plenum. Sulla carta non c’è confronto con gli altri candidati. Oltre ad essere quello con più anzianità di servizio, Viola ha svolto funzioni requirenti e giudicanti, ricoprendo incarichi direttivi sia di primo che di secondo grado.
È stato giudice a Lanusei, pretore ad Avola ed a Palermo. Dopo la riforma del codice di procedura penale, è stato prima giudice e poi pm a Palermo. Promosso procuratore della Repubblica di Trapani, dal 2016 è pg a Firenze. Maurizio Romanelli, il candidato più accreditato, non si è mai spostato dal Palazzo di giustizia di Milano dove è stato sia giudice, pm e procuratore aggiunto. Per un periodo è stato alla Direzione nazionale antimafia ma la nomina venne annullata dal tar per mancanza di titoli. Visto il cv a prova di bomba, come fare allora per stroncarlo? Ricorrendo all’hotel Champagne. “Nel quadro di una articolata strategia concertata, Viola era stato individuato quale candidato preferibile per l’incarico di procuratore di Roma non per ragioni che attenevano a merito o attitudini, bensì in quanto ritenuto “sensibile” agli interessi personali di Palamara e di alcuni suoi interlocutori che riguardavano il futuro assetto della Procura di Roma”, scrive il Csm.
“A prescindere dal fatto se l’affidamento su detta sensibilità di Viola fosse riposto a torto o a ragione – prosegue il Csm – dette risultanze hanno appannato obiettivamente l’immagine di indipendenza, che deve connotare sempre la figura di un magistrato e tanto più di un Procuratore della Repubblica”. Come se non bastasse, Viola non ha mai fatto pubblica abiura. “Tanto più in mancanza di una pubblica presa di distanza che era ragionevole attendersi stante la straordinaria gravità e l’enorme risonanza mediatica della vicenda”, conclude infatti il Csm. Peccato, però, che non sia stata trovata alcuna conversazione o messaggino fra Viola e Palamara. Nessuno. Di fatto solo illazioni e chiacchiere serali ad insaputa del diretto interessato. Sul punto si era già espresso il tar quando il Csm bocciò Viola per il posto di procuratore di Roma: “Dalla lettura delle intercettazioni emerge la qualità di parte offesa rispetto alle macchinazioni o aspirazioni di altri”.
L’essere stato “scelto” a sua insaputa, “non poteva condizionare in alcun modo l’orientamento del Csm”. La sintesi migliore del boicottaggio nei confronti di Viola la si deve a Nino Di Matteo. “Il grande vero motivo per cui non viene adeguatamente valorizzato il profilo di Viola è legato alla vicenda hotel Champagne. Non è un caso che la procedura della Quinta (la commissione per gli incarichi direttivi che il 23 maggio 2019 votò a maggioranza per Viola, ndr) fu interrotta dopo la pubblicazione di intercettazioni segrete su Corriere e Repubblica” con un testo “approssimativo, che accreditò l’idea che Luca Lotti (all’epoca imputato a Roma nel procedimento Consip, ndr) sponsorizzasse Viola perché vicino ai partecipanti” di quel dopo cena “o addirittura si fosse avvicinato a loro”. “Perché parlo di approssimazione?”, aggiunse Di Matteo.
“Basta citare la frase riportata dai giornali: Si vira su Viola. Si è accertato che quella frase era altro: Si arriverà su Viola”, precisò Di Matteo, aggiungendo che “non c’è alcun elemento da cui risulti che Viola ha fatto alcunché per influenzare la nomina. Viola è la vittima principale di questa vicenda, non ha giocato nessun ruolo”. L’ex pm del processo trattativa ricordò l’uso strumentale delle intercettazioni a carico di Palamara. “Per Viola deriva un vero e proprio marchio, ma quando le intercettazioni di Palamara sono relative ad una asserita pretesa del precedente procuratore (Giuseppe Pignatone, ndr) di orientare la scelta in corrispondenza di Lo Voi, queste intercettazioni evaporano nel nulla”. “Viola – ribadì – da questa vicenda è l’unico ingiustamente penalizzato”. Speriamo il Csm se ne ricordi. Paolo Comi
Cade la “pregiudiziale Palamara”: Viola conquista Milano. Il pg di Firenze Marcello Viola è il primo “Papa straniero” dopo 50 anni. Ma è polemica sulla cena all’Hotel Champagne. Simona Musco su Il Dubbio l'8 aprile 2022.
A Milano, pochi minuti dopo il voto, si parla già di «anno zero», «ripartenza» e «discontinuità». Marcello Viola, con 13 voti a favore, contro i tre andati al procuratore di Bologna Giuseppe Amato e i sei conquistati dall’aggiunto meneghino Maurizio Romanelli, ha stravinto la partita per la procura di Milano, diventando il primo “Papa straniero” in quasi cinquant’anni, chiamato a gestire i veleni di un ufficio spaccato dal caso Amara.
Un caso, questo, servito da detonatore per far esplodere dissidi covati sotto la cenere e messi nero su bianco dai sostituti procuratori dello stesso palazzo di giustizia, sin dagli ultimi mesi della gestione Francesco Greco. A lui, nei mesi scorsi, era stata contestata, in una lettera sottoscritta da 27 magistrati, la gestione dell’ufficio, sottolineando, tra le altre cose, la sproporzione tra magistrati e affari assegnati al dipartimento reati economici transnazionali (cioè quello che ha indagato su Eni) e agli altri dipartimenti che trattano reati gravi. Ma ieri, al plenum, è stata riproposta la pregiudiziale Palamara, rilanciata dalla togata di Area Alessandra Dal Moro, che nel perorare la causa di Romanelli (scelta ideale per garantire la continuità con Greco) ha evidenziato che – nonostante l’estraneità di Viola ai fatti dell’Hotel Champagne, dove il suo nome era stato indicato (a sua insaputa) come successore ideale di Giuseppe Pignatone a Roma – «l’immagine di indipendenza» dell’ormai ex procuratore generale di Firenze «è risultata obiettivamente appannata, a prescindere da responsabilità o colpa dell’interessato, per effetto della nota vicenda relativa alla nomina del procuratore di Roma, oggetto, come noto, di un grave tentativo di condizionamento dell’attività del Consiglio che ha portato alle dimissioni di alcuni consiglieri e ad alcune sentenze di condanna in sede disciplinare».
A rincarare la dose il collega di Area Giuseppe Cascini. «Mi stupisce come non si colga – ha sottolineato – il profilo di caduta di credibilità ed immagine della magistratura che quella cosa ci ha consegnato. C’è un magistrato che viene scelto perché esplicitamente i conversanti dicono “fa tutto quello che dice Cosimo (Ferri, ndr)”». La conversazione a cui fa riferimento Cascini è quella tra Forciniti e Palamara, parole di terzi che, per il togato, nonostante il beneficio del dubbio, rappresentano una valutazione esplicita da non prendere sottogamba. «Per me che devo scegliere e devo tutelare la credibilità dell’ordine giudiziario è un problema – ha aggiunto – che una persona sia stata individuata come più adatta a svolgere un ruolo sulla base di questa connotazione di affidabilità».
Ma per il togato indipendente Nino Di Matteo, «non c’è nessuna prova, ma direi nessun indizio, nessuna traccia, anche minima, di rapporti diretti tra il dottor Viola e i protagonisti di quella riunione, in funzione dell’attribuzione dell’incarico di procuratore di Roma. Non c’è nessuna intercettazione nella quale il dottor Viola è stato interlocutore dei partecipanti a quella riunione», ha evidenziato. Ma c’è di più: «Non risulta da nessuna parte che il dottor Viola abbia svolto un’attività di autopromozione per quell’incarico o per un altro incarico», come fatto invece da altri. Semmai di quella situazione Viola «è vittima» e «non potrà continuare ad esserlo a vita, se non con profonda ingiustizia». E se questo deve essere il criterio di valutazione, ha aggiunto Di Matteo, «allo stesso modo sarebbe allora da evocare anche quanto risulta da altri atti che riguardano il dottor Romanelli o il dottor Amato». L’ex pm del processo “Trattativa” fa riferimento alle presunte manovre per la conferma di Romanelli a procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia, nonché le conversazioni di Amato con esponenti di governo o un indagato eccellente a Trento. «E questo non è giusto evocarlo – ha sottolineato -, però è un elemento concreto quanto, quindi veramente poco, l’elemento che riguarda Viola». Anche perché in altre situazioni, il metro di giudizio è stato nettamente più “garantista”.
Di Matteo ha infine evocato l’esigenza di «discontinuità» e di affidare Milano ad «un ottimo investigatore», ricordando le varie questioni sorte all’interno della procura – dai casi Eni e Amara ai dissidi tra toghe – e che hanno avuto un riflesso «importante anche dal dibattito pubblico». «Sono onoratissimo. Andrò a sostenere il nuovo incarico a Milano mettendo lo stesso grande impegno che ho sempre dato nei miei 42 anni di carriera e anche qui a Firenze, nel distretto toscano», ha commentato Viola. «Vorrei andare col pensiero ai miei collaboratori e anche a chi non c’è più – ha aggiunto – visto che nei miei anni in Sicilia ho visto tante di quelle cose… In particolare rivolgo un pensiero a Paolo Borsellino con cui c’era un rapporto personale di grande affetto, lo considero un mio grande maestro, me lo ricordo prodigo di consigli nei miei confronti».
E a Milano tutto sembra già un cantiere aperto, con la speranza, tra i pm, che si archivi un periodo pieno di veleni e tensioni. Ciò non senza riconoscere all’aggiunto Romanelli grandi doti professionali e umane: «Maurizio – si legge nelle chat -, rimane da parte nostra la grande stima e il riconoscimento per quanto hai fatto in questi anni alla procura di Milano». Che ora riparte da zero.
L'eletto a sorpresa. Procura di Milano, la spunta Marcello Viola che espugna il fortino della sinistra giudiziaria dopo 40 anni. Paolo Comi su Il Riformista l'8 Aprile 2022.
Sconfitta senza precedenti per il Sistema. Marcello Viola, ribaltando tutte le previsioni della vigilia, è da ieri il nuovo procuratore di Milano. Per la prima volta da oltre 40 anni, la Procura del capoluogo lombardo non avrà dunque un capo appartenente alla corrente progressista di Magistratura democratica e che ha già prestato servizio a Milano. “In Italia ci sono dei ‘santuari inviolabili’, uno di questi è proprio la Procura di Milano”, aveva sempre detto lo zar delle nomine Luca Palamara a chi gli domandava come mai un magistrato non di sinistra non potesse aspirare ad essere nominato dal Csm procuratore di Milano.
Un cambio epocale, “discontinuità” come ricordato dal togato Nino Di Matteo in Plenum, che è destinato ad avere conseguenze già nell’immediato. Fin dai tempi di Mani pulite, la Procura di Milano è stata infatti caratterizzata da una forte componente ideologica che ha spesso portato i pm ad indagare a senso unico. Chi dissentiva veniva ostracizzato e fatto fuori. L’ultimo caso in ordine di tempo è stato quello del pm Paolo Storari a cui venne impedito di svolgere indagini sulla Loggia Ungheria e di arrestare l’avvocato Piero Amara, teste chiave nel processo Eni Nigeria che i colleghi volevano invece tutelare. Ma la Procura di Milano è anche il simbolo del rapporto perverso con gli organi d’informazione. I grandi giornali hanno sempre avuto un rapporto privilegiato con i pm milanesi potendo contare su un flusso costante di notizie. Era sufficiente aspettare davanti alla porta del pm di riferimento e realizzare lo scoop. Fughe di notizie ‘istituzionalizzate’, come quella dell’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi nel 1994, notificato al diretto interessato in edicola a mezzo Corriere della Sera. Senza contare, infine, le continue invasioni di campo ed ingerenze nell’attività del legislatore su provvedimenti sgraditi.
Con Viola tutto questo repertorio è destinato a finire in archivio. 65 anni, originario di Cammarata in provincia di Agrigento, il neo procuratore di Milano è un magistrato riservato, di poche parole, attento ai diritti degli imputati. Oltre ad essere un grande investigatore, e soprattutto, come disse il togato Luigi Spina a Palamara, non “ricattabile”. Ma torniamo al voto di ieri. La discussione era prevista per oggi ma è stata anticipata su richiesta del togato Antonio D’Amato, presidente della Commissione per gli incarichi direttivi di Palazzo dei Marescialli. Come ricordato sul Riformista nei giorni scorsi, il cv di Viola era il più completo, nettamente superiore a quello di Maurizio Romanelli, attuale procuratore aggiunto a Milano, la soluzione in “continuità” con la gestione di Francesco Greco. Non potendo trovare un varco nei titoli, per azzoppare la candidatura di Viola è stata allora ritirata fuori la vicenda della cena all’hotel Champagne, dove a maggio del 2019 era stato fatto il suo nome come procuratore di Roma. Anche se indagini non avevano evidenziato nessun contatto con Palamara, il fraseggio a sua insaputa fra i commensali venne ritenuto dal Csm sufficiente per estrometterlo dalla sera alla mattina dalla corsa alla Procura di Roma.
Un provvedimento poi stigmatizzato dai giudici amministrativi che avevano accolto il ricorso di Viola. Bocciato però nuovamente per la Procura di Roma, Viola, sempre per l’handicap Champagne, dove essere bocciato anche a Milano. Il motivo? Non aver “pubblicamente” dichiarato di essere estraneo con quanto accaduto allo Champagne. Viola, sul punto, interrogato dal Csm aveva comunque fatto mettere a verbale di essere all’oscuro da qualsiasi trattativa sulla Procura di Roma. Troppo poco per le toghe di sinistra che avrebbero voluto una abiura pubblica. La surreale richiesta non è stata apprezzata e la nomina è quindi passata con 13 voti. In suo favore si sono espressi i quattro consiglieri togati di Magistratura indipendente (la corrente conservatrice a cui Viola è iscritto), tutti e sette i laici e i consiglieri Sebastiano Ardita (Autonomia&Indipendenza) e Nino Di Matteo. I tre voti della corrente centrista di Unità per la costituzione sono andati invece al procuratore di Bologna Giuseppe Amato, mentre Romanelli ha ottenuto i cinque voti dei consiglieri progressisti di Area e quello della togata Ilaria Pepe di A&i.
Astenuti il vice presidente David Ermini, che di prassi non vota, e i vertici della Cassazione, Pietro Curzio e Giovanni Salvi. Il compito che attende Viola a Milano non si preannuncia facile. Il magistrato siciliano troverà un ufficio dilaniato, con pm che non hanno fascicoli per dedicarsi ad indagini dagli esiti improbabili, e altri pm che sono invece travolti dal lavoro e non sanno a chi dare i resti. Un riequilibrio delle funzioni è già stato avviato in questi giorni dall’attuale facente funzioni Riccardo Targetti, in pensione dalla prossima settimana. “Sono onorato e ringrazio il Csm per questa nomina così importante“, sono state le prime parole di Viola. “È una nomina che mi responsabilizza molto e sono consapevole del fatto che quello di guidare la Procura di Milano sia un incarico particolarmente delicato, ma metterò il massimo impegno nello svolgere il ruolo direttivo che mi è stato assegnato come ho sempre fatto”, ha aggiunto. Buon lavoro. Paolo Comi
Frank Cimini per giustiziami.it il 7 aprile 2022.
Con 13 voti il Csm ha designato il Pg di Firenze Marcello Viola nuovo procuratore di Milano. Si tratta dell’ormai famoso Papa straniero per rimarcare il fatto che da decenni il capo della procura arrivava sempre dall’interno del palazzo di corso di Porta Vittoria.
Questa volta il vento è cambiato, si è imposta la scelta per la discontinuità perché la procura di Milano era diventata un ufficio allo sbando e non sarà facile metterci le mani.
Era finita sotto accusa da parte della maggior parte dei pm l’organizzazione del lavoro scelta da Francesco Greco andato in pensione a metà novembre. Il segnale di sfogo era arrivato con 57 magistrati su 64 che firmavano il sostegno a Paolo Storari entrato in collisione con i vertici dell’ufficio nell’ambito del caso Eni.
Ma il fuoco covava sotto la cenere da tempo. Basti pensare che poco più della metà dei pm era esentata dai turni per le ragioni più varie da quelle familiari a quelle di servizio.
Con il risultato di far gravare il peso del lavoro ordinario solo su una parte dell’ufficio.
Particolare “scandalo” suscitava l’esenzione dai turni dei pm del dipartimento corruzione internazionale che aveva istruito i processi ai vertici Eni poi conclusi con raffiche di assoluzioni.
Ma a risentirne era il complesso dell’attività investigativa. I dati dicono che solo in relazione al Tribunale siamo al 40 per cento di assoluzioni a cui vanno aggiunte quelle davanti al gup e anche quelle mei gradi successivi di giudizio.
Un pm che vuole restare anonimo ammette che spesso il capo di incolpazione è quello redatto dalla polizia giudiziaria e che poi non regge al vaglio del dibattimento.
Insomma intorno a Greco c’era una sorta di cerchio magico di privilegiati o comunque di pm che avevano condizioni di lavoro migliori rispetto ad altri.
Per cui si arrivava all’esplosione e ai fuochi di artificio con le chat di discussioni interne seguite al tonfo dell’ipotesi accusatoria nel processo Eni.
Da allora non c’è stata più pace mentre diversi pm finivano indagati a Brescia dove ci sono vicende ancora da definire oltre ai procedimenti disciplinari che potrebbero portare ai trasferimenti per incompatibilità ambientale.
Mani pulite di cui è appena ricorso il trentennale appare molto lontana mentre dall’iter che ha portato alla nomina di Viola esce sconfitta la corrente di Magistratura Democratica che da tempo considerava la procura di Milano come suo territorio esclusivo.
Di Md erano stati espressione gli ultimi due procuratori Edmondo Bruti Liberati e Francesco Greco. Md aveva proposto l’aggiunto Maurizio Romanelli che nel plenum ha raccolto alla fine solo 6 voti La corrente di sinistra probabilmente punterà a ottenere la presidenza del Tribunale libera dopo il pensionamento di Roberto Bichi. Ma si tratta di un incarico di peso nettamente inferiore a quello di procuratore.
Toccherà dunque a Marcello Viola far ripartire resettandola la seconda procura italiana per importanza. Non è un compito facile ma appare difficile per lui fare peggio dei suoi due predecessori Bruti Liberari impantanato nel clamoroso contenzioso con l’aggiunto Robledo e Greco in pratica messo in minoranza e isolato dai suoi sostituti per un finale di carriera inglorioso.
Come quello di Md che vive il momento più difficile della sua storia. Una corrente nata 50 anni fa per democratizzare la magistratura, per la orizzontalità delle decisioni e finita nella pura gestione del potere di casta.
Come disse uno dei suoi fondatori che da tempo non è più tra noi Romani Canosa: “Sarebbe stato meglio se non fosse mai nata”. Aveva visto le cose in grande anticipo.
Pignatone rompe il silenzio: «Contro di me solo fango». L’ex procuratore di Roma è stato sentito come testimone al processo Fava-Palamara a Perugia: «Nessun motivo per astenermi». Il Dubbio il 6 aprile 2022.
«Io dal 29 maggio 2019 non ho mai parlato, ho atteso di essere in una sede istituzionale. In questi tre anni ho avuto, su di me e sui miei familiari, fango, accuse e calunnie». L’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone rompe il silenzio dopo tre anni e lo fa in aula a Perugia, come testimone nel corso del processo sulle rivelazioni che vede imputati l’ex capo dell’Anm Luca Palamara e l’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava, ora giudice civile a Latina.
Pignatone ha però confermato in aula, durante una lunga audizione, che le notizie segrete pubblicate da Fatto Quotidiano e La Verità il 29 maggio 2019 erano in realtà a conoscenza di numerose persone all’interno della procura capitolina, in quanto lui stesso ne aveva parlato con tutti gli aggiunti, tra i quali Angelantonio Racanelli. Palamara e Fava non erano, dunque, gli unici a poter passare quell’informazione alla stampa. In quegli articoli si ripercorrevano due riunioni infuocate tra Pignatone, l’aggiunto Paolo Ielo (ora parte civile nel processo) e Fava, durante le quali il capo della procura aveva negato la sussistenza di motivi validi per astenersi nei procedimenti a carico dell’ex avvocato esterno di Eni, Piero Amara, e dell’imprenditore Ezio Bigotti, dati i rapporti professionali di entrambi con il fratello Roberto, professore associato di Diritto tributario con studio a Palermo.
Secondo Fava, però, non sarebbe spettato a lui stabilire se ci fossero le condizioni o meno per l’astensione. L’ex pm romano, difeso da Luigi Antonio Paolo Panella, non aveva inoltre creduto al pentimento di Amara, che aveva iniziato a collaborare con i magistrati, chiedendo nuovamente il suo arresto per una ipotesi di bancarotta. I vertici della procura di Roma, però, si opposero a tale richiesta, sottraendogli il fascicolo. Le note di quegli incontri, ha confermato ieri Pignatone, sono state anche trasmesse all’allora procuratore generale della Corte d’appello di Roma, Giovanni Salvi, che poi le inviò alla procura generale della Cassazione. Insomma, le notizie pubblicate dai giornali erano nella disponibilità di molte persone. E assodato questo fatto, confermato dall’ex numero uno della procura, le accuse a carico di Fava e Palamara si fanno più deboli.
L’ex sostituto di Roma è accusato di essersi «abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap acquisendo verbali d’udienza e della sentenza di un procedimento» con l’obiettivo, secondo l’accusa, «di avviare una campagna mediatica ai danni di Pignatone, da poco cessato dall’incarico di procuratore di Roma e dell’aggiunto Paolo Ielo», costituitosi parte civile, da effettuarsi anche con «l’ausilio» di Palamara, «a cui consegnava tutto l’incartamento indebitamente acquisito». L’intento, dunque, sarebbe stato quello di «far avviare un procedimento disciplinare nei confronti dell’allora procuratore Pignatone» e «effettuare una raccolta di informazioni volta a screditare Ielo, anche attraverso l’apertura di un procedimento penale a Perugia» e quindi «a cagionare agli stessi un danno ingiusto».
L’esposto di Fava è stato archiviato dal Csm a settembre scorso per decorrenza di termini, dopo due anni di rinvii legati anche all’emergenza Covid. «Ci tengo a dire che il primo a essere dispiaciuto del fatto che il Csm, probabilmente per ragioni di tempo, non abbia potuto fare una verifica sull’esposto di Fava – ha detto Pignatone in aula -, perché avrebbero capito che io ho fatto quello che dovevo fare, non c’era nessuna incompatibilità. Ho sentito delle molte doglianze del dottor Fava, alcune partite da lui e altre riportate, “scippo di processi”, “misure cautelari che non hanno avuto corso”: nessuna di queste doglianze è fondata e nessuna di tutte queste doglianze faceva parte dell’esposto al Csm che verteva su una presunta incompatibilità».
A Palamara e a Fava viene contestato di aver rivelato notizie d’ufficio «che sarebbero dovute rimanere segrete», e in particolare «che Fava aveva predisposto una misura cautelare nei confronti di Amara per il delitto di autoriciclaggio e che anche in relazione a tale misura il procuratore della Repubblica non aveva apposto il visto». Secondo Pignatone, però, «non c’erano motivi di astensione». Per quanto riguarda Ezio Bigotti, «quando sono venuto a conoscenza della sua iscrizione ho subito detto ai colleghi che era cliente di mio fratello», avvocato tributarista, ha spiegato, ricordando di aver fatto «una relazione al procuratore generale che ha proceduto a dire che non c’erano elementi per l’astensione. Io sono convinto che non c’erano motivi di astensione ma ho ritenuto opportuno farlo sul piano della lealtà professionale».
Per quanto riguarda il procedimento Eni-Napag, l’ex procuratore ha spiegato di essersi accorto «che c’era un problema di competenza territoriale e prima di inviare gli atti bisognava parlare con i colleghi di Milano. Il 27 febbraio ho avuto l’infelice idea di scrivere a Fava per farmi dare un breve ragguaglio sul coordinamento con Milano. E Fava fa una cosa di una gravità estrema, scrive a Milano e chiede l’invio degli atti di competenza, praticamente una dichiarazione di guerra: qui non siamo più nello scambio di atti, Fava crea il conflitto con Milano, una cosa gravissima, senza averne parlato con me o con l’aggiunto. Lo fa di testa sua, senza dire a nessuno, mentre noi ci eravamo raccomandati del coordinamento con Milano. Coordinamento con le altre procure che negli anni alla guida della procura di Roma ho sempre incentivato». Poco dopo, il procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio contattò Pignatone, dicendo «che erano pronti a un ricorso alla procura generale della Cassazione e le spiegai – ha aggiunto – che era iniziativa personale del pm non condivisa con l’ufficio».
«Corrado Cartoni non disse mai quelle frasi: ora i giornali paghino». La sentenza del tribunale di Perugia è definitiva: sei quotidiani attribuirono all'allora consigliere del Csm stralci delle intercettazioni dell'Hotel Champagne. Ma a parlare non era lui. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 3 aprile 2022.
Il giudice Corrado Cartoni non cercò di favorire il pg di Firenze Marcello Viola per diventare procuratore di Roma e non pianificò dossieraggi o altre strategie contro il procuratore aggiunto della Capitale Paolo Ielo. Lo ha stabilito il tribunale di Perugia che ha condannato al risarcimento i sei quotidiani che, a giugno del 2019, pubblicando stralci delle intercettazioni effettuate con il trojan inserito nel cellulare di Luca Palamara, attribuirono a Cartoni, all’epoca capo delegazione di Magistratura indipendente al Csm, frasi mai dette.
Le sentenze sono diventate definitive questa settimana in quanto tutti i quotidiani hanno rinunciato all’appello, accettando di corrispondere a Cartoni, difeso dall’avvocato Carlo Arnulfo, il risarcimento disposto dal giudice. La vicenda risale al 14 giugno. Quel giorno i giornali del Gruppo Cairo e del Gruppo Caltagirone dedicarono ampio spazio a quanto accaduto la sera dell’8 maggio precedente all’hotel Champagne di Roma, quando Cartoni ed altri quattro componenti del Csm si erano incontrati con Palamara e i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. «A Ermini va dato un messaggio forte, così Lotti alla cena con i membri togati», il Corriere della Sera. «Ermini si deve svegliare. Lotti e i dossier sulle toghe dobbiamo fare la guerra», il Messaggero ed il Mattino.
Gli articoli ricostruirono, sulla base delle intercettazioni della Procura di Perugia in quel periodo coperte dal segreto essendo le indagini in corso, i colloqui di quella serata fra i vari partecipanti. «In prima ( Commissione del Csm, competente sulle segnalazione ed esposti nei confronti delle toghe, ndr) c’è una bomba vera pensavo fosse per Pignatone, ma la bomba è su Ielo», la prima frase attribuita a Cartoni. «Noi contattiamo Crezzo ( Giuseppe, procuratore di Firenze, in corsa per la Procura di Roma, ndr) e gli diciamo… Peppe, guarda che qui non ti possiamo votare, ci sono cinque voti nostri e magari un laico, ma tu qua perdi, che si fa», la frase successiva. Gli articoli puntavano ad evidenziare che il gruppo di toghe e politici mirasse a pilotare le nomine degli incarichi direttivi e ad eliminare i pm “nemici”, organizzando strategie con ricorso al dossieraggio contro i candidati sgraditi appartenenti ai fronti opposti. La narrazione mirava poi ad avvalorare “Il piano Viola”, esponente di Mi come Cartoni, favorendo il ritiro della candidatura di Creazzo. Ritiro che, però, non c’era stato dal momento che Creazzo il 23 maggio successivo era stato votato in Commissione per gli incarichi direttivi. Il successivo voto in Plenum saltò però proprio in conseguenza della diffusione di queste intercettazioni. In realtà, ascoltando bene le bobine, quella sera Cartoni si era limitato ad esternare contrasti con il vice presidente David Ermini all’interno della sezione disciplinare del Csm.
«Avergli attribuito falsamente la divulgazione di informazioni circa gli affari in trattazione al Consiglio e in particolare al delicato tema delle nomine degli uffici giudiziari, per il quale era lecito attendersi particolare rigore e trasparenza dai membri del Consiglio assume ben altra portata offensiva che aggrava la reputazione del ricorrente e che non corrispondente a verità non può considerarsi lecitamente diffusa nell’esercizio del diritto di cronaca», scrivono i giudici di Perugia.
La pressione mediatica fortissima durò per giorni e Cartoni, che alle elezioni aveva preso circa 700 voti, venne costretto alle dimissioni. E con lui anche gli altri consiglieri che avevano partecipato all’incontro. Le dimissioni determinarono un ribaltamento degli equilibri al Csm, con Mi che da gruppo con più consiglieri passò in minoranza. «La reputazione del ricorrente risultava già gravemente compromessa dalla diffusione della notizia alla sua partecipazione alla riunione, notizia di per sé idonea ad offuscare la sua immagine di componente del predetto organo istituzionale», puntualizza il giudice. Poco più di diecimila euro ad articolo il risarcimento per Cartoni che nel frattempo è tornato a fare il giudice il tribunale di Roma.
Trani, giudici arrestati: gup Lecce "incompetente", indagine-stralcio a Potenza. Disposto l’invio alla Procura lucana degli atti del procedimento a carico di 12 persone coinvolte in un’indagine stralcio sulla cosiddetta "giustizia svenduta". Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Settembre 2022
Rilevando la propria incompetenza territoriale e funzionale, il gup di Lecce Laura Liguori ha disposto l’invio alla Procura di Potenza degli atti del procedimento a carico di 12 persone coinvolte in un’indagine stralcio sulla cosiddetta 'giustizia svenduta' nella Procura di Trani. Il giudice ha accolto le eccezioni sollevate dalla difesa di Emilia Savasta, sorella dell’ex pm Antonio, già condannato con rito abbreviato dal Tribunale di Lecce a 10 anni di reclusione. Il giudice ha accolto i rilievi degli avvocati Massimo Manfreda e Luigi Covella, che hanno ribadito l’orientamento già espresso dalla Corte d’appello di Lecce. Questa, nell’aprile scorso, si è dichiarata incompetente in favore della magistratura potentina e ha annullato la sentenza di primo grado con la quale l’ex gip tranese Michele Nardi era stato condannato dal Tribunale salentino a 16 anni e 9 mesi per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Secondo i giudici di secondo grado di Lecce, i fatti contestati sono collegati alla posizione processuale dell’ex procuratore di Trani e Taranto, Carlo Maria Capristo, sotto inchiesta nel capoluogo lucano. Da qui la competenza per attrazione della Procura di Potenza.
La sorella di Antonio Savasta - secondo l’accusa - avrebbe ottenuto una fetta dei soldi e dei regali che l’imprenditore Flavio D’Introno aveva destinato all’ex pm di Trani con l'obiettivo di ottenerne i favori. Gli imputati sono accusati, a vario titolo, di concorso in corruzione, concussione, calunnia, falsa testimonianza, falso, soppressione di atti veri ed estorsione, anche in concorso con i magistrati e le persone già giudicate e condannate in primo grado. Le accuse riguardano anche i genitori e due fratelli di Flavio D’Introno. La posizione dell’ex pm Savasta resta invece a Lecce perché un’altra sezione della Corte d’appello, dinanzi alla quale è in corso il processo, nel maggio scorso ha escluso una connessione tra la posizione di Savasta e quella di Capristo.
«Io, magistrato, ho vissuto l’onta del carcere e la ferocia della giustizia». Parla Michele Nardi, condannato dal Tribunale di Lecce a 16 anni e 9 mesi per concorso morale in corruzione in atti giudiziari, con una sentenza poi annullata in appello. Valentina Stella su Il Dubbio il 10 luglio 2022.
Qualche mese fa la Corte d’appello di Lecce, dichiarando la propria incompetenza territoriale in favore della Procura di Potenza, ha annullato la sentenza di primo grado con la quale il magistrato Michele Nardi era stato condannato dal Tribunale salentino a 16 anni e 9 mesi per concorso morale in corruzione in atti giudiziari, nell’ambito di una inchiesta che ha visti coinvolti altri magistrati, avvocati, poliziotti. Difeso da Domenico Mariani e Carlo Taormina, Nardi si proclama innocente.
Chi era Michele Nardi prima di questa vicenda?
Ho vinto il concorso in magistratura a 24 anni. Sono figlio di un magistrato, diventato a fine carriera Procuratore generale di Cassazione. Ho dedicato circa 30 anni della mia vita a questo lavoro: sono stato pretore, poi giudice a Trani fino al 21 febbraio 2006 quando mi sono trasferito a Roma. Lì sono stato il più giovane ispettore generale del Ministero della Giustizia, poi nel 2012 sono passato alla Procura di Roma.
Passiamo al momento dell’arresto.
Il 14 gennaio 2019 mi stavo recando in auto a Scandicci (FI) per un corso di aggiornamento. All’uscita del casello autostradale sono stato accerchiato da diverse auto dei carabinieri che, armi in pugno, mi hanno arrestato.
L’hanno trattata come Carminati.
Sì, come se fossi il peggiore dei criminali. Avrebbero potuto convocarmi in caserma e notificarmi il provvedimento. Hanno preferito fare questa sceneggiata. Poi mi hanno condotto in macchina al carcere di Lecce dove sono rimasto in isolamento per una settimana perché lì ci sono diversi ergastolani condannati da me nel maxiprocesso Dolmen contro la mafia pugliese. Poi mi hanno trasferito nel carcere di Matera: sono rimasto in cella oltre un anno senza quasi mai uscire per l’ora d’aria perché non potevo condividerla con gli altri detenuti. Dopo un mese di detenzione mi hanno certificato uno stato di depressione con pericolo suicidario e trasferito per 30 giorni nel reparto psichiatrico del carcere di Taranto in una cella di 5 mq insieme ad altre due persone, talmente piccola che dovevamo fare a turno per stare in piedi. Fuori intanto i miei figli ricevevano minacce sui social: “vi bruceremo vivi”. Per non parlare del linciaggio massmediatico subìto da me e dalla mia famiglia. Addirittura prima ancora che finisse una perquisizione a casa della mia ex moglie, che fu negativa, in alcune emittenti avevano detto che erano state trovate ingenti somme di denaro in contanti.
Lei ha scritto dal carcere anche una lettera al Presidente Mattarella.
Sì, dopo oltre un anno di custodia cautelare gli scrissi per descrivergli che girone infernale fossero le nostre carceri. Le condizioni di detenzione in Italia sono a dir poco vergognose. Mi sono convinto che il carcere nella maggior parte dei casi è inutile, non ha alcuna funzione risocializzante né incide sulla deterrenza. E poi è inconcepibile che il 30% dei reclusi non abbia una condanna definitiva ma sia comunque ristretto in attesa di giudizio.
Lei è stato 30 mesi in custodia cautelare, di cui 18 in carcere.
Si tratta di un record: dalla fondazione dello Stato italiano, 1861, nessun magistrato è stato trattenuto in custodia così tanto tempo. Il gip ha ritenuto che io dovessi stare in carcere perché avrei potuto uccidere i testimoni! Non ho ancora capito sulla base di quale elemento probatorio abbia ritenuto una cosa del genere. Ed infatti La Cassazione ha annullato per ben tre volte la misura cautelare ma il Tribunale del Riesame, presieduto sempre dallo stesso giudice, per due volte l’ha reiterata. Alla terza volta si sono arresi, ma c’era già stata la sentenza di primo grado.
Entriamo nell’inchiesta e nel processo. Quali sono le anomalie dal suo punto di vista?
Le anomalie sono talmente tante che sono state oggetto di una istanza di rimessione del processo ad altra sede per legitima suspicione. Vengo indicato come capo di una associazione a delinquere ma agli atti non risultano contatti tra me e questi associati. Lavoravo e vivevo a Roma quando i fatti contestati si sarebbero svolti a Trani a partire dalla fine del 2010, cioè cinque anni dopo che ero andato via da quel Tribunale. Nessuno mi ha visto con gli altri associati né ci sono intercettazioni fra me e loro. Tenga conto che sono stato intercettato sia nella mia autovettura che per telefono per circa un anno ma non è emerso nulla di rilevante. Inoltre non ho mai firmato alcun provvedimento a favore dei corruttori. Hanno analizzato i beni patrimoniali miei e della mia famiglia e non hanno trovato nulla. Hanno persino fatto due rogatorie internazionali perché il presunto corruttore aveva riferito che mi accompagnava allo Ior in Vaticano per depositare valigette colme di mazzette di denaro. Ovviamente non è emerso nulla di tutto ciò.
Sta parlando del suo grande accusatore, Flavio D’Introno.
Si tratta di un testimone, anzi di un correo, le cui dichiarazioni andrebbero vagliate con la massima attenzione cercando i riscontri. Appartiene ad una famiglia di imprenditori che ho avuto modo di conoscere e apprezzare quando ero pretore a Corato. Con lui avevo rapporti personali perché era inquilino di una villa della mia ex moglie. Questo signore è stato condannato in via definitiva per usura. Il giorno in cui è arrivata la condanna definitiva invece di presentarsi in carcere si reca dai carabinieri di Barletta – e lui abita e vive a Corato! -e lì inizia una presunta collaborazione fatta di continui interrogatori in cui, cambiando anche spesso versione, costruisce un quadro accusatorio contro di me. Nel frattempo evita di finire dietro le sbarre perché produce documentazione medica da cui risulta che è un alcolista cronico e affetto da sindrome paranoica. Durante il processo abbiamo dimostrato che ha mentito su 135 circostanze fattuali. Ad esempio, si è inventato che mi aveva regalato un Rolex ma poi in aula è venuta la sua amante e lo ha mostrato dicendo che le era stato regalato al suo 40° compleanno. Gli accertamenti bancari hanno dimostrato che non aveva le ingenti disponibilità di denaro per corrompere me ed altri come da lui riferito. Eppure è stato ritenuto credibile.
Però i suoi colleghi l’hanno condannata.
Voglio credere con tutte le mie forze nella loro buona fede. Anche se in questa vicenda ci sono molte cose incomprensibili. In una intercettazione del 2015 a carico di un soggetto a me sconosciuto, viene detto da costui che D’Introno aveva rapporti con un magistrato “alto e brizzolato”. I carabinieri di Barletta scrivono che l’unico magistrato con quelle caratteristiche, da loro conosciuto, sono io. Ma già da dieci anni lavoravo e vivevo a Roma. Non basta: un anno prima, nel 2014 un compagno di scuola di mio figlio gli profetizzò che sarei stato arrestato per corruzione proprio dai Cc di Barletta, come poi avvenuto. Mio figlio nel 2021 ha poi registrato di nascosto quel compagno di liceo, nel frattempo diventato sottufficiale dei carabinieri, che alla fine della conversazione ammette che il padre aveva amicizia con un carabiniere di Barletta. Questo elemento sarà oggetto del nuovo processo ed è stato già segnalato nella istanza di remissione inviata alla Corte di Cassazione.
Quando inizia?
Ancora non ho ricevuto alcun avviso di conclusione indagine. Non punto alla prescrizione perché sono innocente e voglio difendermi nel processo convinto delle mie ragioni, perchè le evidenze probatorie sono a mio favore. Le dico solo questo: nella sentenza di primo grado c’è scritto che non ci sono prove a mio carico perché sono un magistrato troppo intelligente e scaltro per lasciare tracce.
Però se avesse ragione lei sarebbe preoccupante essere condannati senza prove.
Lei crede che il mio sia l’unico caso?
Ma alla sua difesa è stato consentito di effettuare il controesame?
Come denunciato nell’atto di appello, il Presidente del collegio si è costantemente inserito durante l’esame e il controesame ammonendo i testimoni che non dicevano quello che voleva la Procura spezzando anche il ritmo del controesame.
Come si spiega tutta questa vicenda?
All’inizio ho pensato che eravamo dinanzi ad un eccesso di zelo, come se i magistrati leccesi volessero dimostrare di non fare sconti ai colleghi. Poi ho visto un accanimento che non mi spiego. Le faccio un esempio: nel periodo covid dal Dap chiedono di segnalare detenuti a rischio sanitario. Vengono fatti 4 nomi, tra cui il mio, ma mentre venivano scarcerati boss mafiosi in tutta Italia per via del Covid io sono stato lasciato in carcere a rischio della mia vita.
Magistrati arrestati: in appello annullata condanna Nardi. ANSA l'1 aprile 2022. La Corte d'appello di Lecce, dichiarando la propria incompetenza territoriale in favore della Procura di Potenza, ha annullato la sentenza di primo grado con la quale l'ex gip tranese Michele Nardi era stato condannato dal Tribunale salentino a 16 anni e 9 mesi per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Nardi era accusato di aver garantito esiti processuali favorevoli in più vicende giudiziarie e tributarie in favore di imprenditori coinvolti nelle indagini dei pm di Trani in cambio di danaro, gioielli e varie utilità. La sentenza è stata annullata anche nei confronti degli altri 4 imputati. La Corte d'appello di Lecce, presidente Vincenzo Scardia, ha così accolto una delle eccezioni preliminari presentate nella scorsa udienza dal legale di Nardi, Domenico Mariani, e contestate dalla pubblica accusa. Tra queste c'era la competenza territoriale con la quale si chiedeva di spostare a Potenza il procedimento perché collegato - secondo la difesa - alle funzioni di Carlo Maria Capristo, l'ex procuratore di Trani e di Taranto, indagato nel capoluogo lucano. Oltre a Nardi il Tribunale di Lecce, il 18 novembre 2020, aveva condannato a 9 anni e 7 mesi di reclusione l'ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, ritenuto complice dell'ex pm tranese Antonio Savasta (condannato in primo grado con rito abbreviato in un processo-stralcio a 10 anni); 6 anni e 4 mesi erano stati inflitti all'avvocatessa barese Simona Cuomo; 5 anni e 6 mesi a Gianluigi Patruno; 4 anni e tre mesi a Savino Zagaria, cognato di Savasta. (ANSA).
Giustizia truccata, a Lecce annullata la condanna a Nardi: «Processo da rifare a Potenza». Oggi davanti alla Corte d’appello era prevista la requisitoria del procuratore generale di Lecce che avrebbe concluso per la conferma della condanna. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Aprile 2022.
Il processo a carico dei giudici di Trani non doveva svolgersi a Lecce. Per questo, accogliendo la questione di competenza territoriale avanzata dagli avvocati dell’ex gip Michele Nardi, la Corte d’appello di Lecce ha annullato la sentenza di primo grado che aveva condannato il magistrato a 16 anni e 9 mesi di reclusione, disponendo la trasmissione degli atti a Potenza dove si dovrà ricominciare da capo. Nardi, presente in aula al momento della lettura del dispositivo, è scoppiato in lacrime. La sentenza è stata annullata anche nei confronti degli altri quattro imputati.
Nel processo di appello di Lecce erano imputati anche l'ex ispettore di Polizia, Vincenzo Di Chiaro (9 anni e 7 mesi), l’avvocato barese Simona Cuomo (condannato in primo grado a 6 anni e 4 mesi), l’ex cognato dell’ex pm Antonio Savasta, Savino Zagaria (4 anni e 3 mesi) e Gianluigi Patruno (5 anni e 6 mesi).
«Sono stato trattenuto due anni e mezzo in custodia cautelare in carcere da una Procura e un Tribunale incompetenti territorialmente, così come avevo eccepito sin dal primo momento dell’arresto, anzi ancora prima, in una memoria difensiva che è stata definita un tentativo di depistaggio e, invece, avevo ragione io». Lo afferma in lacrime l'ex gip di Trani, Michele Nardi, commentando la decisione della Corte d’appello di Lecce che oggi ha annullato, rilevando l'incompetenza territoriale della magistratura salentina in favore di quella di Potenza, la sentenza di primo grado con la quale Nardi era stato condannato a 16 anni e 9 mesi di reclusione per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari.
«E' stata distrutta la mia vita, quella della mia famiglia - accusa - da un Tribunale, una Procura che non aveva alcuna competenza in materia. Io voglio far emergere la verità perché la verità è dalla mia parte. Io sono innocente, l’ho sempre urlato e, nonostante 30 mesi di custodia cautelare, non mi sono mai piegato ad ammettere qualcosa che non avevo fatto perché io non l’ho fatto, perché non ho commesso reati e ho avuto il coraggio di andare avanti e di testimoniarlo sulla mia pelle, con 30 mesi di tortura».
LA DIFESA: CONDANNA IGNOBILE - «Queste decisioni si prendono quando si è convinti che nel merito le cose non stanno come dice l'accusa, altrimenti non si arriva a queste conclusioni che riportano il processo alle sue fondamenta». Lo dicono i legali dell’ex giudice di Trani Michele Nardi, Domenico Mariani e Carlo Taormina. I difensori si riferiscono alla decisione della Corte d’appello di Lecce che oggi ha annullato la sentenza di primo grado a carico dell’ex magistrato e di altri quattro imputati rilevando l’incompetenza territoriale dei magistrati salentini. I giudici hanno quindi trasmesso gli atti alla Procura di Potenza, ritenendola competente ad indagare. "Noi combatteremo in questo processo per far emergere l’assoluta innocenza del dottor Nardi, a cui dovrà essere restituita la dignità che gli è stata tolta senza un fondamento, da una sentenza ignobile».
La Corte d’appello di Lecce: “ Incompetenza territoriale”. Annullata la condanna dell’ex magistrato Michele Nardi. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Aprile 2022.
Nardi era presente in aula a Lecce sia il 18 novembre 2020, quando i giudici lo avevano condannato, che ieri, quando la Corte d’appello ha sovvertito la decisione di primo grado annullandola per incompetenza territoriale disponendo la trasmissione degli atti alla Procura di Potenza, che adesso dovrà ricominciare tutto da capo, celebrando un'eventuale ma necessaria udienza preliminare per poi incardinare un nuovo processo
Il collegio presieduto da Vincenzo Scardia ha annullato la sentenza di primo grado “per incompetenza funzionale del tribunale di Lecce” accogliendo le eccezioni e richieste dai difensori Avv. Carlo Taormina e Avv. Domenico Mariani dell’ex gip Nardi magistrato sospeso dal Csm e che non si è mai dimesso. L’annullamento della Corte di Appello di Lecce riguarda l’intera sentenza, comprendendo anche anche le posizioni degli altri quattro imputati: l’avvocatessa Simona Cuomo assistita dagli avvocati Luca Bruno e Andrea Sambati, che era stata condannata a 6 anni e 4 mesi; il poliziotto Vincenzo De Chiaro condannato a 9 anni e 7 mesi, assistito dall’avvocato Mauro Giangualano , Gianluigi Patruno la cui pena era di 5 anni e 6 mesi; l’ex cognato del pm Antonio Savasta, Savino Zagaria condannato a 4 anni e 3 mesi, assistito dall’avvocatessa Antonella Parrotta.
I difensori di Nardi hanno eccepito che, poichè la vicenda Nardi è in qualche modo collegata a un’altra inchiesta simile, quella che ha riguardato l’ex procuratore della Repubblica di Trani Carlo Maria Capristo, nel frattempo diventato procuratore a Taranto, dovessero occuparsene i colleghi di Potenza. La questione è a dir poco complessa: si parla di “competenza funzionale“, cioè delle competenze territoriali delle varie procure, che stabiliscono chi deve procedere nel caso in cui sia un magistrato ad essere indagato o persona offesa . Per il foro di Trani e Bari è competente Lecce. Per quello di Taranto, Brindisi e Lecce è competenza di Potenza. Quindi tutte da rifare le precedenti indagini condotte dalla procura salentina che adesso dovranno ripartire dal principio, ma a Potenza.
Il procedimento nei confronti del magistrato in quiescenza Capristo è radicato a Potenza in quanto è stato considerato il luogo in cui il magistrato esercitava le funzioni al momento dell’apertura dell’inchiesta (nel caso che lo riguarda Taranto) e non il luogo invece in cui è stato commesso il fatto. Quindi secondo il collegio della difesa di Michele Nardi, anche per quest’ultimo avrebbe dovuto procedere la procura di Potenza in virtù della connessione con Capristo.
L’ex gip tranese Michele Nardi era stato arrestato nel gennaio 2019 assieme all’allora pm tranese Antonio Savasta il quale ha optato per il processo con rito abbreviato (che riduce ad 1/3 la pena in caso di condanna ) venendo condannato a 10 anni di reclusione. Nei confronti di Savasta ed i computati, che avevano optato per il rito alternativo, è attualmente in corso il processo d’appello che riprenderà il prossimo 26 aprile, cioè quando le motivazioni della Corte d’Appello sul “troncone” Nardi potrebbero non essere state ancora depositate. Qualora si dovesse ritenere che anche fra Savasta che attualmente si trova agli arresti domiciliari, e Capristo ci sia stata “connessione”, probabilmente si riproporrà la questione e dovrà essere nuovamente valutata.
Tutto ha origine da una sola inchiesta condotta dai pm Roberta Licci e Alessandro Prontera, coordinata dal procuratore della Repubblica di Lecce, Leonardo Leone De Castris. Le contestazioni formulate dalla procura salentina erano di “associazione per delinquere finalizzata a compiere reati contro la pubblica amministrazione, contro la fede pubblica e contro l’autorità giudiziaria“. Nello specifico la corruzione in atti giudiziari, falso ideologico, calunnie, falsa testimonianza. L’ipotesi di reato sostenuta dai pm della procura di Lecce sarebbe stato quella di acquisire guadagni illeciti da imprenditori coinvolti in vicende giudiziarie, manipolando i meccanismi dei processi e delle indagini preliminari, facendo anche state trapelare notizie sull’esistenza di inchieste della procura di Trani.
Michele Nardi ha sinora trascorso 18 mesi in carcere e 12 agli arresti domiciliari, fino alla condanna di un Tribunale a 16 anni e nove mesi di reclusione per essere stato il capo di un’associazione per delinquere “finalizzata alla corruzione in atti giudiziari“. Nardi era presente in aula a Lecce sia il 18 novembre 2020, quando i giudici lo avevano condannato, che ieri, quando la Corte d’appello ha sovvertito la decisione di primo grado annullandola per incompetenza territoriale disponendo la trasmissione degli atti alla Procura di Potenza, che adesso dovrà ricominciare tutto da capo, celebrando un’eventuale ma necessaria udienza preliminare per poi incardinare un nuovo processo.
“È stata distrutta la mia vita e quella della mia famiglia da una Procura ed un tribunale, che non avevano alcuna competenza in materia” ha commentato Nardi in lacrime di emozione, gioia e dolore all’uscita dal Palazzo di giustizia salentino. “Sono stato trattenuto due anni e mezzo in custodia cautelare da magistrati incompetenti territorialmente — ha aggiunto Nardi — così come avevo eccepito fin dal primo momento dell’arresto. Anzi, ancora prima“. “Il lavoro che è stato fatto – specifica l’ex gip – non andava fatto in quel modo. Del resto ho subito un processo in cui non sono stati ammessi testimoni, mi è stato negato di produrre le prove della mia innocenza“.
Adesso Michele Nardi tornato libero da questa condanna potrà rinnovare al Csm la propria richiesta di tornare a fare il magistrato, sulla quale la commissione competente dovrebbe decidere a maggio.
Soddisfatto il collegio difensivo di Nardi, composto dagli avvocati Domenico Mariani e Carlo Taormina. “Queste decisioni si prendono quando si è convinti che nel merito le cose non stanno come dice l’accusa, altrimenti non si arriva a queste conclusioni che riportano il processo alle sue fondamenta” hanno commentato i due legali .”Noi combatteremo in questo processo per far emergere l’assoluta innocenza del dottor Nardi, a cui dovrà essere restituita la dignità che gli è stata tolta senza un fondamento, da una sentenza ignobile” hanno proseguito. Secondo l’ avv. Mariani la responsabilità di quanto accaduto “è della procura di Lecce, che è colpevole, e non del Tribunale che ha emesso la sentenza di primo grado, perché i giudici non avevano tutti gli elementi per decidere” sulla questione specifica che era già stata precedentemente rappresentata.
Nel frattempo vi è stata un’altra sentenza importante, questa volta del Tribunale di Potenza che ha raso al suolo l’impianto accusatorio imbastito dalla Procura potentina guidata da Francesco Curcio, che aveva mandato a processo il magistrato Antonino Di Maio, all’epoca dei fatti procuratore capo di Trani, accusandolo di “favoreggiamento“. Il Tribunale ha smantellato le accuse della procura di Potenza ed assolto il dr. Di Maio con formula piena decidendo che “il fatto non sussiste“.
Una decisione questa che potrebbe avere un’influenza non indifferente nel processo in corso a Potenza a carico del dr. Capristo , avviato a seguito delle accuse del magistrato Silvia Curione, prima pm a Trani ed ora a Bari dove si è ricongiunta con suo marito Lanfranco Marazia, ex pm a Taranto ed ora in servizio presso la Procura di Bari.
Se non vi è stato alcun “favoreggiamento” del Di Maio, adesso sarà ancora più difficile per la procura di Potenza continuare sostenere il castello delle proprie discutibili accuse mosse al dr. Capristo, le quali stanno svanendo udienza dopo udienza come neve sotto il sole, a seguito anche delle testimonianze sinora ascoltate e delle evidenze processuali.
Redazione CdG 1947
IL PROCESSO. Magistrati arrestati, per la Procura di Lecce l'impianto accusatorio rimane integro. Dopo che Corte d’appello ha annullato le condanne di primo grado. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Aprile 2022.
Per il procuratore di Lecce, Leonardo Leone de Castris, «il complessivo impianto» accusatorio del processo a carico dell’ex giudice tranese Michele Nardi e di altri imputati è «rimasto assolutamente integro e non travolto dall’annullamento della sentenza di primo grado e dal trasferimento del processo per competenza funzionale ad altra sede; sarà ora l’autorità giudiziaria di Potenza a valutare gli aspetti procedurali e/o di merito». Il riferimento del capo della Procura salentina è al processo a carico dell’ex gip Nardi, condananto il primo grado dal Tribunale di Lecce (il 18 novembre 2020) a 16 anni e 9 mesi di reclusione per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Per lo stesso magistrato, il primo aprile scorso, i giudici della Corte d’appello di Lecce, accogliendo un’eccezione preliminare della difesa, hanno emesso sentenza di incompetenza funzionale e hanno disposto l’invio degli atti alla Procura di Potenza perchè i fatti contestati sarebbero collegati alla posizione processuale dell’ex procuratore di Trani e Taranto, Carlo Maria Capristo, sotto inchiesta nel capolouogo lucano.
«Pare il caso di sottolineare - scrive Leone de Castris -, anche avuto riguardo ad alcune dichiarazioni difensive di diverso avviso, che il complessivo impianto rappresentato da questo ufficio, costituito da elementi di prova (tra cui intercettazioni di comunicazioni, registrazioni di conversazioni tra coimputati, dichiarazioni di persone informate sui fatti, poi divenute testimonianze, perquisizioni e sequestro) e prove assunte in sede di incidente probatorio, in base alle quali il Tribunale si era espresso nel merito, a opinione dello scrivente e per giurisprudenza costante, sia rimasto assolutamente integro e non travolto dall’annullamento della sentenza di primo grado e dal trasferimento del processo per competenza funzionale ad altra sede; sarà ora l’autorità giudiziaria di Potenza a valutare gli aspetti procedurali e/o di merito».
«Rimango pienamente convinto - sottolinea il procuratore - della bontà del lavoro dell’ufficio da me diretto» e rinnovo "piena fiducia ai pm che hanno lavorato al caso». «Lo scrivente e l’ufficio della Procura delle Repubblica di Lecce - conclude - nutrono rispetto per la sentenza della Corte d’Appello e stima personale per i magistrati che ne compongono il collegio; tali considerazioni valgono in egual misura anche per la sentenza di primo grado, per i provvedimenti del Gip, del Gup, del Tribunale del Riesame e per i colleghi tutti che sono stati impegnati in questo complesso procedimento».
Nardi, i veleni dell’ex gip: «Io vittima di complotto. A Lecce giudici ricattabili». L’Anm dopo la condanna annullata: frasi inaccettabili. La difesa del magistrato aveva chiesto alla Cassazione di spostare il processo. Massimiliano Scagliarini su la Gazzetta del Mezzogiorno il 6 aprile 2022.
Avrebbe voluto che fosse la Cassazione a decidere dove celebrare il suo processo. Il 1° aprile l’ex gip Michele Nardi ha ottenuto anche di più: la Corte d’appello di Lecce ha direttamente annullato la sentenza con cui il magistrato tranese è stato condannato in primo grado a 16 anni e 9 mesi, riconoscendo l’incompetenza territoriale della Procura di Lecce e disponendo il trasferimento degli atti a Potenza dove ora bisognerà ricominciare dall’udienza preliminare. Ma con una istanza di remissione depositata il 23 marzo, Nardi ha lanciato la sua bomba, dichiarandosi vittima di un complotto e lanciando accuse pesantissime a tutti.
Quelle 46 pagine di veleni faranno discutere. Già dopo la sentenza della Corte d’appello la sezione di Lecce dell’Anm è insorta a difesa dei colleghi,parlando di «attacco gratuito verso il lavoro dei magistrati». Stavolta Nardi ne ha per tutti: per i carabinieri che hanno fatto le indagini, per i giornalisti e soprattutto per i magistrati. Partendo dal «totale scadimento della cultura della giurisdizione che connota i magistrati pugliesi»: da quelli di Lecce (che «non sono stati, non possono essere, e tanto meno apparire, imparziali e sereni nella decisione del processo») fino al presidente della Corte d’appello di Bari, accusato (in maniera avventata) di essersi pubblicamente espresso sugli arresti «senza la dovuta prudenza». Una situazione figlia, secondo la difesa di Nardi, dell’«aggressiva e abnorme campagna giornalistica condotta dalla stampa locale nei confronti dell’imputato» e delle «dinamiche in seno all’ambiente giudiziario pugliese di cui tale campagna è sicuramente, almeno in parte, causa».
Nardi aveva ricusato, per grave inimicizia, il presidente di sezione di Corte d’appello, Vincenzo Scardia, lo stesso che ha poi accolto le sue richieste annullando tutto. Nella istanza di rimessione del processo la difesa dell’ex gip ha attaccato anche il presidente del collegio di primo grado, Pietro Baffa, per via di «una certa ricattabilità da parte dell’ambiente giudiziario leccese» poiché il suo nome compare nelle chat dell’ex segretario dell’Anm, Luca Palamara. «Questo - sempre secondo la difesa di Nardi - ha reso la posizione di Baffa particolarmente ricattabile e sottoposta alla influenza anche della Procura della Repubblica locale e ciò ne spiega l'atteggiamento ostile e preconcetto rispetto alla difesa e il continuo pronarsi acritico nei confronti dell’accusa».
Nardi, che ha una condanna passata in giudicato per calunnia, adombra complotti. Racconta che nel 2014 un compagno di scuola di suo figlio «fece la “profezia” che suo padre - cioè l’attuale istante - sarebbe stato arrestato per corruzione dai Cc di Barletta», come poi avvenuto 5 anni dopo. Il figlio di Nardi a inizio 2021 ha poi registrato di nascosto quel compagno di liceo, nel frattempo diventato sottufficiale dei carabinieri, che «alla fine della conversazione registrata è costretto ad ammettere che il padre aveva amicizia con un carabiniere di Barletta».
Ma ce n’è anche per i giornalisti. A partire dalla «Gazzetta», accusata di «un’autentica attività costante di diffamazione e denigrazione», oltre che di contiguità con i magistrati perché «l’entità abnorme della richiesta di pena della Procura (vent’anni) era anticipata dalla stampa prima dell’inizio del dibattimento». Ma non soltanto. Nardi ha registrato di nascosto un giornalista televisivo, che avrebbe ammesso di aver taciuto un fatto sostanziale: «I signori Ferri e Casillo, i due accusatori del Nardi, all’epoca dei fatti si erano rivolti a lui (cioè al giornalista, ndr), quando temevano di essere arrestati, riferendogli che avevano ricevuto una richiesta di tangenti dal dr Savasta e non certo dal Nardi. Nel corso di tale incontro i signori Ferri e Casillo chiedevano a quest’ultimo (al giornalista, ndr) di fare da intermediario con il Savasta per ridurre l’entità della tangente (...). Ma [il giornalista] non aveva sentito la necessità di riferire quanto a lui noto circa l’estraneità del Nardi all’autorità giudiziaria lasciando che questi, in carcere all’epoca di quelle deposizioni testimoniali, venisse linciato pubblicamente».
Già dopo l’annullamento della sentenza le polemiche sono state roventi. «Definire la sentenza emessa dal Tribunale di Lecce “ignobile”, tacciare di incompetenza, o quantomeno di superficialità, lo studio e l’analisi delle carte processuali compiute da quei magistrati rappresentano messaggi fuorvianti per la collettività e sono frasi gravemente lesive della loro professionalità, e dunque di quella dei tanti colleghi che ogni giorno, in silenzio, svolgono il proprio lavoro nel rispetto delle parti e dei principi imposti dalla Costituzione e dalla Legge, primo fra tutti quello della presunzione di innocenza», ha detto la segretaria dell’Anm distrettuale, Laura Orlando, che ha espresso «piena solidarietà» ai magistrati «ingiustamente lesi dai toni di talune dichiarazioni».
Annullata la condanna per Nardi, ex gip di Trani: "Una tortura come la Santa Inquisizione". La Corte d’appello di Lecce ha dichiarato l’incompetenza territoriale. Lo sfogo di Nardi contro i suoi colleghi: "Mai nessun magistrato italiano, dalla fondazione della nostra Repubblica, è stato tenuto 30 mesi in custodia cautelare". Il Quotidiano del Sud il 2 Aprile 2022.
«Ero stato condannato a 16 anni e 9 mesi, una sentenza senza precedenti nella storia giudiziaria italiana, tenendo presente che le accuse non erano di omicidio ma di corruzione. Peraltro un’ipotesi di corruzione molto particolare, perché sono stato condannato in quanto sarei stato l’ “ispiratore morale” della corruzione di altri magistrati. Un “ispiratore morale che lavorava a 500 km di distanza, cioè a Roma, mentre queste corruzioni erano perpetrate dai colleghi di Trani. Una di quelle cose incomprensibili prive di qualsiasi logica».
Così all’AdnKronos l’ex Gip di Trani Michele Nardi, dopo che la Corte d’appello di Lecce ha dichiarato la propria incompetenza territoriale, trasmettendo gli atti alla Procura di Potenza e annullando la condanna a 16 anni e 9 mesi inflitta in primo grado per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari.
«La Corte d’appello di Lecce – osserva Nardi – ha annullato la sentenza perché ha accolto quello che noi abbiamo sempre sostenuto fin dall’inizio delle indagini, prima ancora che io venissi arrestato, e cioè che la procura di Lecce, appunto, era incompetente territorialmente a condurre quelle indagini. Lo era perché fin dall’inizio era emerso il coinvolgimento di altri magistrati che poi erano passati a lavorare nel distretto di Lecce, e quindi non poteva essere Lecce a decidere e a condurre queste indagini».
«Quando abbiamo evidenziato questo fatto – sottolinea l’ex giudice – ci è sempre stata sbattuta la porta in faccia, fino a quando non abbiamo trovato un giudice a Berlino, in questo caso a Lecce, che si è letto le carte. Per noi è stato addirittura sorprendente, perché non ci aspettavamo che oggi pronunciassero la sentenza. Evidentemente si sono letti bene le carte e dopo una sola udienza ci hanno rinviati ad oggi, alla seconda udienza, decidendo sulla competenza. Questo la dice lunga sul fatto che l’incompetenza della procura del tribunale di Lecce era evidente, ma hanno continuato nonostante tutto a persistere nella loro attività costante nei miei confronti».
«Mai nessun magistrato italiano, dalla fondazione della nostra Repubblica, è stato tenuto 30 mesi in custodia cautelare – si sfoga Nardi con l’AdnKronos -, io ne ho passati 18 in carcere, continuamente gridando di essere innocente. Ne ho passati altri 12 agli arresti domiciliari, ho passato un mese anche in un ospedale psichiatrico giudiziario. Io mi sono sempre professato innocente perché sono innocente, ma loro hanno continuato questa tortura nella speranza di estorcermi una confessione. Come ai tempi della Santa Inquisizione».
«Di idee sulla mia condanna me ne sono fatte tante – confessa Nardi -, ma preferisco al momento tenerle per me per evitare di beccarmi qualche altra denuncia per diffamazione o calunnia. Fatto sta che molto spesso, e ciò al di là del comportamento dei colleghi di Lecce, i magistrati hanno un grosso difetto sul quale bisognerebbe riflettere a livello collettivo, e cioè che quando prendono una strada, ritengono che sia un segno di incapacità o debolezza ammettere di avere sbagliato, e quindi persistono nei loro errori, nelle loro accuse e nella loro azione anche a costo di sacrificare un innocente».
«Il trattamento mediatico che ho ricevuto, soprattutto a livello locale, è stato drammatico – aggiunge l’ex Gip -, un linciaggio costante e continuo. I miei figli, che adesso sono maggiorenni, ma al momento in cui sono stato arrestato uno era minorenne, sono stati minacciati varie volte di essere bruciati vivi in casa per il solo fatto di essere i miei figli. Noi abbiamo vissuto più di tre anni, da quando sono stato arrestato il 14 gennaio 2019 ad oggi, in uno stato costante di terrore. Io stavo in carcere, non potevo sentire i miei figli se non dieci minuti a settimana, non potevo vederli, con la paura che gli facessero del male. Una tortura psicologica».
«Purtroppo – sottolinea Nardi – c’è un asservimento, soprattutto per quanto riguarda le testate locali, rispetto alle procure della Repubblica. Ma bisogna riflettere anche su un altro aspetto. Nel nostro Paese si è creato una sorta di regime composto da alcune procure, alcuni magistrati, i mass media e alcune forze di polizia. Questo regime, che è un regime autoritario e non democratico, mette in pericolo la libertà di tutti. Oggi è toccato a me, ma domani toccherà a qualcun altro. Ogni anno in Italia mille innocenti vengono incarcerati. Ma la cosa peggiore è che la stampa, che dovrebbe essere portatrice e difensore dei principi di libertà, primo fra tutti la considerazione di non colpevolezza, è la prima a dare addosso alle persone, ai presunti colpevoli. Evidentemente perché fa piacere».
«La mia vicenda non si è conclusa, perché adesso si dovrà rifare il processo a Potenza – sottolinea Nardi all’Adnkronos -, noi speriamo veramente che con il più ampio approfondimento possibile, il più ampio dibattimento e la più ampia possibilità di acquisire nuove prove, si accerti la verità. Perché la verità non la temiamo, anzi, l’abbiamo invocata costantemente per tre anni. Io sono innocente e non ho paura di nulla. Ma spero che questa mia vicenda faccia riflettere tutti quanti. Hanno fatto questo a me che pure non ero l’ultimo di questa comunità. Ero sostituto procuratore Roma, mio padre è stato procuratore in Cassazione, mio zio anche in Cassazione, una famiglia di magistrati professionisti».
«Io che non ho fatto nulla, ed è materialmente provato che non ho fatto nulla, ho subito questo, dunque possono fare qualsiasi cosa a chiunque – chiosa Nardi -, spero che il mio caso sia un’occasione di riflessione collettiva su quello che stiamo diventando come Paese». Fin qui la reazione del magistrato.
Il processo è quello chiamato “Giustizia svenduta” e riguarda presunti illeciti compiuti anche dall’allora pm di Trani Antonio Savasta, ritenuto complice di Nardi e di altri imputati. Proprio Savasta (condannato in primo grado con rito abbreviato a 10 anni) potrebbe ora sollevare in appello l’incompetenza funzionale dei magistrati salentini e provare ad azzerare il processo a suo carico e a trasferirlo al tribunale di Potenza. Nardi e Savasta sono accusati di aver garantito esiti processuali favorevoli in più vicende giudiziarie e tributarie in favore di imprenditori coinvolti nelle indagini dei pm di Trani in cambio di danaro, gioielli e varie utilità.
Alla fine del processo di primo grado il Tribunale di Lecce, il 18 novembre 2020, aveva condannato l’ex giudice Nardi a 16 anni e 9 mesi per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, a 9 anni e 7 mesi l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, ritenuto complice dell’ex pm tranese Savasta; 6 anni e 4 mesi erano stati inflitti all’avvocatessa barese Simona Cuomo; 5 anni e 6 mesi a Gianluigi Patruno; 4 anni e tre mesi a Savino Zagaria, cognato di Savasta.
Nardi, il rebus del nuovo processo: il fascicolo andrà a Potenza, ma anche le intercettazioni rischiano di essere stralciate. In settimana le motivazioni della sentenza: potrebbero far saltare l’intera indagine di Lecce. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Aprile 2022.
La Procura di Lecce attende le motivazioni della sentenza con cui, il 1° aprile, la Corte d’appello ha annullato la condanna di primo grado a 16 anni e 9 mesi dell’ex gip Michele Nardi. Soltanto dopo provvederà a trasmettere le 40mila pagine di atti alla Procura di Potenza che, in base alla decisione del collegio, ha la competenza per far ripartire il processo a carico del magistrato sospeso e di altre quattro persone. Accusate, a vario titolo, di aver truccato sentenze in cambio di soldi.
La decisione della Corte guidata dal dottor Vincenzo Scardia segna un punto importante, in rito, per la difesa di Nardi. Che adesso punterà a far annullare anche gli atti di indagine, ponendo di fatto il processo su un binario morto. L’incompetenza territoriale - che i difensori dell’ex gip avevano già sollevato in tutte le sedi - è «funzionale»: significa che i magistrati di Lecce non erano competenti a trattare questa indagine. Normalmente l’annullamento di una sentenza travolge tutti gli atti ripetibili (le testimonianze), e fa salvi quelli irripetibili (le intercettazioni). Ma cosa accade in un caso come questo, nemmeno normato dal codice di rito, in cui è stato fatto un processo che non doveva essere fatto in quella sede?
A rendere le cose ancora più complicate c’è il fatto che a fine 2019 la Procura generale della Cassazione, chiamata in causa da Nardi su motivazioni simili a quelle che hanno portato all’annullamento, ha stabilito che «la Procura della Repubblica di Lecce ha competenza alla prosecuzione delle indagini». Era già stato celebrato l’incidente probatorio in cui sono state cristallizzate le dichiarazioni dell’imprenditore Flavio D’Introno (l’uomo che con le sue confessioni ha fatto scattare l’indagine) e dell’ex pm Antonio Savasta (che ha parzialmente ammesso alcuni episodi corruttivi e ha scelto il giudizio abbreviato): quelle dichiarazioni - secondo la Procura generale - non erano sufficienti a imporre alla Procura di Lecce l’obbligo di iscrivere come indagato anche Carlo Capristo, all’epoca dei fatti procuratore di Trani e nel frattempo diventato procuratore di Taranto. Dunque l’inchiesta poteva rimanere a Lecce. Tre anni dopo, però, la Procura di Potenza ha chiesto il rinvio a giudizio di Capristo e Nardi per una ipotesi di corruzione relativa ai tempi di Trani. Da qui probabilmente (bisogna attendere le motivazioni, attese già in settimana) la decisione della Corte d’appello di mandare tutto a Potenza.
La Procura di Potenza (che dovrà studiare gli atti da zero, notificare gli avvisi di conclusione, valutare se chiedere i rinvii a giudizio) potrà nuovamente rivolgersi alla Cassazione per chiedere un regolamento di competenza. Senza le intercettazioni, le accuse a Nardi dovrebbero basarsi quasi soltanto sulle dichiarazioni di D’Introno. Che tra non molto avrà finito di scontare la sua pena e soprattutto, essendo già stato condannato per gli stessi fatti (ha patteggiato) non è obbligato a parlare. Il nuovo processo, insomma, non sarà una passeggiata. E nel frattempo potrebbero essere travolte anche le condanne in abbreviato di Ragno, Savasta e Scimè. [m.scagl.]
«Capristo corrotto da Laghi per favorire l’Ilva»: Taranto, l’ex procuratore verso il processo-ter. L’ex procuratore di Trani e Taranto avrebbe «venduto la propria funzione giudiziaria» all’avvocato siciliano Piero Amara, all’ex commissario straordinario dell’Ilva, Enrico Laghi, e al suo consulente Nicola Nicoletti. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Giugno 2022.
L’ex procuratore di Trani e Taranto, Carlo Capristo, avrebbe «venduto la propria funzione giudiziaria» all’avvocato siciliano Piero Amara, all’ex commissario straordinario dell’Ilva, Enrico Laghi, e al suo consulente Nicola Nicoletti in cambio «del costante interessamento» per la sua carriera e «per ottenere i vantaggi economici e patrimoniali in favore del suo inseparabile sodale» Giacomo Ragno, l’avvocato che dall’Ilva ottenne lucrosi incarichi di difesa. Ed è per questo che la Procura di Potenza ha chiesto di mandare Capristo a processo per la prima volta insieme ad altre cinque persone, tra cui anche l’ex pm tranese Antonio Savasta. Ma senza Amara che, nel frattempo, ha chiesto e ottenuto di patteggiare tre mesi in continuazione con le sue altre condanne. E senza nemmeno Nicoletti che fin da subito ha scelto di collaborare (si era detto disponibile anche a un confronto con Laghi): anche lui ha patteggiato 16 mesi (pena sospesa) ed è uscito da questa storia.
L’inchiesta è quella che a giugno dello scorso anno portò all’arresto in carcere di Amara e di Filippo Paradiso, il poliziotto-amico del magistrato, mentre Nicoletti e Ragno finirono ai domiciliari e per Capristo (nel frattempo andato in pensione) venne disposto l’obbligo di dimora. Laghi finì invece ai domiciliari a settembre (fu liberato un mese dopo dal Riesame), dopo gli interrogatori fiume di Amara. Capristo, Paradiso, Laghi, Savasta, Ragno e l’altro avvocato Pasquale Misciagna dovranno comparire il 30 giugno davanti al gip Annachiara Di Paolo: rispondono, ciascuno secondo le rispettive responsabilità, di concorso in corruzione in atti giudiziari tra il 2015 e il 23 luglio 2019. Tra le contestazioni a Capristo e Paradiso c’è pure il falso e la calunnia per il falso esposto sul complotto contro Eni presentato alla Procura di Trani con la regia di Amara. L’ex procuratore, con Ragno e Laghi, risponde anche di concussione: avrebbero costretto alcuni dirigenti dell’Ilva a nominare Ragno come proprio difensore.
Il contesto resta quello tratteggiato dal procuratore Francesco Curcio e dai pm Piccininni e Borriello nelle oltre 20mila pagine di atti depositati lo scorso anno. Ovvero un presunto accordo corruttivo orchestrato da Capristo che, mentre era procuratore di Trani, avrebbe sfruttato i rapporti di Amara e Paradiso per ottenere raccomandazioni al Csm «in occasione della pubblicazione di posti direttivi vacanti». In cambio Capristo avrebbe curato gli interessi di Amara: dal falso esposto presentato a Trani, che serviva ad accreditare l’avvocato siciliano con i vertici Eni, agli incarichi ottenuti dai vertici dell’Ilva che a loro volta avrebbero potuto contare sulla disponibilità del procuratore di Taranto rispetto alle inchieste sullo stabilimento siderurgico.
Nell’inchiesta risultano parti offese, tra gli altri, l’ex ministro Paola Severino e l’ex presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, di cui si parla nell’esposto sul complotto, ma anche l’imprenditore salentino Roberto De Santis, tirato in ballo da Amara in una strana storia di compravendite con l’Eni. Capristo è già a processo per l’inchiesta che il 19 maggio 2020 lo portò ai domiciliari con l’accusa di tentata induzione indebita nei confronti di una pm di Trani. Ieri, invece, davanti al gip di Potenza, Rossella Magarelli, si è svolta l’udienza preliminare a carico di Capristo, Nardi e Savasta per la «giustizia truccata» di Trani: è stata aggiornata al 14 luglio.
«Processo ai giudici di Trani, ecco perché passa a Potenza». E anche Savasta può salvarsi. Le motivazioni della condanna annullata a Nardi. D'Introno in carcere deve scontare i due anni e mezzo patteggiati per la corruzione dei magistrati. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Aprile 2022.
È «l’evidente connessione» emersa in corso d’opera tra la vecchia indagine di Lecce e quella nuova di Potenza in cui è coinvolto anche Carlo Capristo che «determina la necessità che i due processi vengano trattati unitariamente presso l’ufficio giudiziario potentino», comportando quindi anche la dichiarazione di incompetenza del Tribunale di Lecce e l’annullamento della sentenza di primo grado. Con le motivazioni depositate ieri, a tempo di record, la Corte d’appello salentina (presidente Scardia, relatori estensori Biondi e Colitta) ha spiegato perché il 1° aprile ha azzerato il procedimento a carico dell’ex gip Michele Nardi e altre quattro persone, cancellando così la condanna a 16 anni e 9 mesi inflitta in primo grado al magistrato tranese tuttora sospeso.
La velocità nel deposito delle motivazioni è probabilmente collegata al fatto che martedì prossimo, davanti a un differente collegio, a Lecce è previsto l’appello dell’ex pm Antonio Savasta, che a differenza di Nardi aveva scelto il rito abbreviato (10 anni) e che nella nuova indagine di Potenza è considerato concorrente di Nardi e di Capristo. L’indagine di Lecce sulla «giustizia truccata» di Trani ha ipotizzato (con conferma in primo grado) che Nardi, Savasta e l’altro ex pm Scimè (4 anni) abbiano preso denaro e regali dall’imprenditore Flavio D’Introno in cambio di decisioni giudiziarie favorevoli. La Procura di Potenza, pur non contestando l’associazione a delinquere ma il semplice concorso, ha allargato lo sguardo: nello stralcio del «fascicolo Amara» per cui ha già chiesto il rinvio a giudizio, ipotizza che in cambio di una «raccomandazione» per la nomina a procuratore di Trani, Capristo (nel frattempo diventato procuratore di Potenza) avrebbe garantito a Nardi «protezione» per sé e per gli ex pm Savasta e Luigi Scimè. Da qui l’accusa di corruzione in atti giudiziari.
Al di là della qualificazione giuridica, il collegio salentino ha riconosciuto «la medesimezza del disegno criminoso» ipotizzata dai due uffici di Procura, «poiché è evidente che l’attività corruttiva nei confronti del Capristo era stata posta in essere proprio al fine di assicurare piena operatività al sodalizio criminoso». E dunque la Corte d’appello è andata addirittura oltre le richieste della difesa di Nardi, che aveva invocato la rimessione degli atti alla Cassazione affinché decidesse sulla competenza. Quella «medesimezza» della contestazione è infatti la condizione giuridica richiesta per determinare uno spostamento di sede del processo: va a Potenza perché quello è il Tribunale competente sui magistrati del distretto di Taranto (come lo era Capristo al momento della contestazione), con conseguente ritorno al punto di partenza delle accuse mosse da Lecce.
La stessa Corte d’appello prova però a fare salvi gli atti di indagine compiuti fino a questo momento specificando che la competenza di Potenza è, per così dire, sopravvenuta, perché fino al 15 gennaio 2020 «non esisteva la pendenza presso la Procura della Repubblica di Potenza di un procedimento connesso» con quello di Lecce, né tantomeno i pm salentini avevano mai ipotizzato accuse a carico di Capristo. «Fino alla pronuncia della sentenza di primo grado - è detto in motivazione -, anche a rendere noti tutti gli atti fino a quel momento disponibili per valutare la fondatezza della prospettata questione di incompetenza, la stessa non sarebbe stata meritevole di accoglimento, mancandone i presupposti».
Lette le motivazioni, la Procura di Lecce procederà a trasmettere a Potenza le oltre 40mila pagine di atti dell’inchiesta. E saranno i pm lucani a decidere se e come procedere a notificare un nuovo avviso di conclusione e una nuova richiesta di rinvio a giudizio. È ipotizzabile che Potenza accorpi le «nuove» accuse (per le quali l’udienza è slittata al 15 maggio) con le «vecchie» di Lecce.
Martedì prossimo toccherà dunque a Savasta, tuttora ai domiciliari. Il ragionamento che il collegio ha fatto per Nardi vale, ovviamente, anche per l’ex pm, che a questo punto potrebbe invocare le stesse motivazioni per chiedere l’annullamento della sentenza di primo grado. Difficilmente potranno fare lo stesso i suoi coimputati (escluso forse Scimè): mentre quelli di Nardi rispondevano di associazione, nei confronti degli altri imputati che hanno scelto l’abbreviato le contestazioni erano infatti circoscritte.
Nel frattempo alla vigilia di Pasqua è tornato in carcere Flavio D’Introno. I due anni e 6 mesi che l’imprenditore coratino ha patteggiato a Lecce per la corruzione dei magistrati di Trani sono diventati infatti definitivi, e si sono sommati con il residuo di pena (un anno e 8 mesi) che D’Introno stava scontando ai domiciliari per usura. Anche D’Introno (portato nel penitenziario di Trani) è tra gli imputati nel nuovo filone di Potenza, seppure per una differente ipotesi di concussione che vede coinvolti anche Capristo, Nardi, Savasta, e che potrebbe essere coperta dalla prescrizione.
Concussione: assolto ex pm di Trani Savasta. Già condannato in primo grado a 10 anni di reclusione nel processo sulla «giustizia svenduta». La vicenda risale al 2014 e riguarda la presunta pretesa di 350mila euro all’imprenditore Giuseppe Dimiccoli. Redazione online su La Gazzetta del mezzogiorno il 27 Maggio 2022.
Il gup del Tribunale di Lecce Sergio Tosi ha assolto «perché il fatto non sussiste» l’ex pm di Trani Antonio Savasta, imputato con l’accusa di concorso in tentata concussione. La vicenda contestata risale al 2014 e riguarda la presunta pretesa di 350 mila euro - secondo la Procura di Lecce - da parte di Savasta all’imprenditore Giuseppe Dimiccoli - che poi lo ha denunciato per questo - tramite il costruttore barlettano Raffaele Ziri e l’avvocato barese Dimitri Russo.
Il denaro - stando all’impostazione accusatoria non condivisa dal giudice, il quale ha invece accolto la tesi difensiva - doveva servire a chiudere una controversia relativa alla masseria Sanfelice di Savasta ed evitare così procedimenti penali nei confronti dell’imprenditore.
Per Savasta (già condannato in primo grado a 10 anni di reclusione nel processo sulla «giustizia svenduta» a Trani) la Procura aveva chiesto la condanna a 4 anni di reclusione. Stessa condanna era stata chiesta per il coimputato Ziri, anche lui assolto. La sentenza di assoluzione è stata emessa al termine di un processo celebrato con il rito abbreviato. Contestualmente si è conclusa con il proscioglimento l’udienza preliminare nei confronti del terzo imputato, Russo, che non aveva scelto riti alterativi e per il quale la Procura aveva chiesto il rinvio a giudizio.
GLI AVVOCATI - «La vicenda giudiziale - ricorda il difensore di Savasta, l’avvocato Massimo Manfreda - prende le mosse da una denunzia dell’imprenditore Dimiccoli che è stata in un primo momento archiviata ma successivamente riaperta. La formula dell’assoluzione è perché il fatto non sussiste». Per gli avvocati Roberto Eustachio Sisto e Italia Mendicini (studio FPS), difensori di Dimitri Russo, prosciolto dalla stessa accusa di tentata concussione, «era naturale che il gup prosciogliesse l'avvocato Russo: la soluzione era già negli atti del processo e noi l’abbiamo solo offerta al giudicante». Il co-imputato Ziri è assistito dall’avvocato Antonio Mancarella.
Caso Bellomo: sospensione più corta per Nalin, pm dei corsi in dress code. Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.
In procura era nel pool dei reati sessuali, ma nella scuola delle aspiranti magistrate costrette a minigonne e umiliazioni collaborava con l’ex consigliere di Stato. Il Csm riduce da due anni a sei mesi la sanzione. Può rientrare da subito.
Nel 2017 la scuola di magistratura di Francesco Bellomo con le borsiste obbligate per contratto a minigonne, tacchi a spillo e clausole umiliate aveva scandalizzato l’Italia. Bellomo era stato destituito da Consigliere di Stato. E il Csm aveva sospeso per due anni il pm del pool dei reati sessuali di Rovigo, Davide Nalin, che secondo le denunce premeva sulle ragazze affinché si accontentassero i desiderata dell’«Agente superiore» Bellomo (incluso inviare una foto osé che una ragazza si rifiutava di fare). Ieri la sezione disciplinare del Csm ha rivisto il caso e ridotto a sei mesi la sospensione per il magistrato, trasferito al Tribunale di Bologna. In attesa che la sanzione diventi definitiva, con la pronuncia della Cassazione, viene intanto revocata la misura cautelare. Quindi, da subito Nalin può tornare in servizio. Deve attendere solo che gli sia destinata una sede. O la vecchia a Rovigo o la nuova a Bologna.
La procura di Piacenza che aveva chiesto un anno e 4 mesi per Nalin, indagato per lesioni volontarie e stalking, Ma il gip ha archiviato l’accusa di lesioni volontarie perché il fatto non sussiste e ha ritenuto l’accusa di stalking non procedibile perché la borsista vessata aveva ritirato la querela. Così nel settembre 2020, il magistrato era stato sanzionato dal Csm per uno dei capi di incolpazione formulati nei suoi confronti dalla procura generale della Cassazione, quello relativo alla partecipazione scientifica alla scuola diretta da Bellomo, mentre era stato assolto dal capo riguardante le sue condotte nei confronti delle allieve dei corsi. La disciplinare ha confermato l’assoluzione del magistrato da questa incolpazione e ha ridotto la sanzione per l’altra accusa, stabilendo la sospensione di Nalin per 6 mesi e non per 2 anni.
Ora per il magistrato resta l’incognita del Tar. Lui nel 2021 ha vinto il concorso come giudice amministrativo. Ma è stato escluso dalla graduatoria per mancanza del requisito della «buona condotta». Ma ha fatto ricorso al Tar del Lazio.
Caso Bellomo, il Csm riduce la sanzione all’ex pm di Rovigo Davide Nalin. L’ex pm di Rovigo Davide Nalin era uno stretto collaboratore di Francesco Bellomo, l’ex consigliere di Stato destituito da Palazzo Spada dopo le denunce secondo cui avrebbe imposto ad aspiranti magistrate un "dress code" con tacchi alti e minigonna e regole sui fidanzati. Il Dubbio il 14 febbraio 2022.
Sanzione più lieve per l’ex pm di Rovigo Davide Nalin, stretto collaboratore di Francesco Bellomo, l’ex consigliere di Stato destituito da Palazzo Spada dopo le denunce secondo cui avrebbe imposto ad aspiranti magistrate, che frequentavano i corsi della scuola di formazione giuridica “Diritto e Scienza” da lui diretta, un “dress code” con tacchi alti e minigonna e regole sui fidanzati. È quanto disposto oggi dalla sezione disciplinare del Csm, che ha riesaminato il procedimento nei confronti di Nalin dopo un annullamento con rinvio disposto dalle sezioni unite civili della Cassazione.
Nalin, nel settembre 2020, era stato sanzionato dal “tribunale delle toghe” per uno dei capi di incolpazione formulati nei suoi confronti dalla procura generale della Cassazione, quello relativo alla partecipazione scientifica alla scuola diretta da Bellomo, mentre era stato assolto dal capo riguardante le sue condotte nei confronti delle allieve dei corsi.
Con la pronuncia odierna, la disciplinare ha confermato l’assoluzione del magistrato da questa incolpazione e ha ridotto la sanzione per l’altra “accusa”, stabilendo la sospensione di Nalin per 6 mesi e non per 2 anni (come era stato invece deciso nel primo procedimento). Confermato, infine, il trasferimento dell’ex pm di Rovigo al tribunale di Bologna con funzioni di giudice.
Il pm che indagava con le fake news. Lodovica Bulian il 12 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Si serviva dei media locali per "incastrare" i concorrenti dei suoi amici.
«Un comportamento di per sé spregevole e tanto più grave» in considerazione del fatto che «un magistrato dovrebbe costituire un esempio di legalità e come tale essere percepito dai cittadini». Il gip che tre giorni fa ha autorizzato l'arresto dell'ex sostituto procuratore di Salerno Roberto Penna, descrive così nell'ordinanza di custodia cautelare il comportamento del collega ora ai domiciliari. È accusato dalla Procura di Napoli di corruzione in atti giudiziari. «Il disprezzo e la noncuranza per la funzione rivestita - scrive ancora - si ricava anche dal fatto che incontra i suoi corruttori all'interno del proprio ufficio, in Procura». Già, perché il pm secondo l'accusa avrebbe stretto un patto corruttivo con alcuni imprenditori che volevano ripulire con l'aiuto del magistrato l'immagine del loro consorzio, colpito da alcune interdittive antimafia a causa della sospetta contiguità in particolare di un'impresa con il clan dei Casalesi. In cambio del supporto del magistrato avrebbero garantito consulenze e altre utilità alla sua compagna, avvocato del foro di Salerno e anche lei ai domiciliari. Per rientrare sotto l'ombrello protettivo della toga avrebbero spostato la sede del consorzio da Napoli a Salerno, territorio di competenza del pm. Da qui avrebbero allungato i tentacoli anche sulla Dia e sulla Prefettura per evirare ulteriori interdittive ed essere inseriti nella white list prefettizia con l'aiuto della compagna di Penna. Lui da pm avrebbe promesso, e in alcuni casi anche fornito, agli imprenditori notizie coperte da segreto investigativo su indagini della Procura potenzialmente pregiudizievoli per le loro attività. Nelle intercettazioni svolte dal Ros si citano anche sospette collusioni dei presunti corruttori con la Dia. Gli imprenditori parlano al telefono di «amici della Dia, della Procura...», e anche di un tenente delle Fiamme gialle in procinto di insediarsi proprio alla Dia di Salerno: «Poi ci siamo sentiti con il tenente lì... mi ha detto che alla Dia si occuperà di interdittive».
Il magistrato avrebbe anche utilizzato una testata locale per la pubblicazione di articoli pretestuosi da cui far partire indagini su un imprenditore concorrente del consorzio, il titolare del gruppo imprenditoriale Rainone. Che era all'epoca dei fatti impegnato in grandi opere di costruzione a Salerno. L'obiettivo dell'azione del pm sarebbe stato intimidire Rainone e la sorella e costringerli a fornire contropartite alla compagna per evitare i guai giudiziari. In un caso, su un complesso immobiliare in costruzione da parte di Rainone, uno degli imprenditori arrestati, d'accordo con il magistrato, lo avrebbe contattato riferendogli che il pm gli avrebbe «fatto male» sequestrandogli gli immobili e bloccando le vendite. Lo scopo sarebbe stato indurlo a procurare consulenze alla compagna del magistrato. Alla quale infatti sarebbero stati affidati incarichi per conto della Cassa edile di Salerno di cui la sorella di Rainone era presidente. Lodovica Bulian
Corruzione, arrestato l’ex pm di Salerno Roberto Penna. Roberto Penna, ex pm di Salerno, è stato arrestato con l'accusa di corruzione e posto ai domiciliari. Coinvolti anche un avvocato e tre imprenditori. Il Dubbio il 9 febbraio 2022.
Corruzione per l’esercizio delle funzioni, corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari e induzione indebita a dare o promettere utilità. Sono i reati che vengono contestati a cinque persone, finite agli arresti domiciliari. Nomi eccellenti, raggiunti da un’ordinanza applicativa della misura cautelare emessa dal gip del Tribunale di Napoli. Si tratta di Roberto Penna, all’epoca dei fatti sostituto procuratore presso il Tribunale di Salerno, Maria Gabriella Gallevi, avvocato del Foro di Salerno, e degli imprenditori Francesco Vorro, Umberto Inverso e Fabrizio Lisi (quest’ultimo generale della Guardia di Finanza in quiescenza ed ex comandante della Scuola ispettori e sovrintendenti della Guardia di finanza di L’Aquila), finiti al centro di un’indagine condotta dai carabinieri.
Roberto Penna, inoltre, aveva chiesto il trasferimento in prevenzione presso il tribunale di Roma, nel momento in cui era titolare del processo contro l’ex procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, accusato a Salerno di è accusato di falso ed errore determinato dall’altrui inganno. Una vicenda legata all’innalzamento della scorta. Infine, si ricorda che le persone indagate sono da ritenersi innocenti fino ad eventuale sentenza di condanna passata in giudicato, così come previsto dall’articolo 27 della Costituzione.
Le accuse all’ex pm di Salerno Roberto Penna
Secondo la procura di Napoli, il magistrato Roberto Penna, abusando della sua funzione e in cambio della promessa del conferimento di incarichi di consulenza professionale all’avvocato a cui era sentimentalmente legato, avrebbe promesso, e in alcuni casi anche fornito, agli imprenditori arrestati, aderenti a un consorzio, notizie coperte da segreto investigativo su indagini potenzialmente pregiudizievoli per le loro attività.
Lo scorso 14 luglio i carabinieri del Ros, su delega dell’ufficio inquirente partenopeo (pm Ardituro e Fratello) avevano eseguito una serie di perquisizioni nei confronti degli arrestati. L’attività d’indagine dei carabinieri, che va dall’ottobre 2020 al luglio 2021, avrebbe fatto luce su un vero e proprio «patto corruttivo» tra il magistrato, a conoscenza, per ragioni d’ufficio, di informazioni coperte da segreto, e gli imprenditori del consorzio i quali avvalendosi della sua compiacenza sarebbero riusciti a evitare i provvedimenti interdittivi della Prefettura di Salerno, dove, peraltro, il consorzio in questione aveva la sua sede.
Gli imprenditori, inoltre, sempre avvalendosi dell’aiuto del magistrato, avevano intenzione di allacciare rapporti privilegiati con i funzionari del Palazzo di Governo di Salerno per conseguire la collocazione del consorzio nella cosiddetta «white list». Tra gli obiettivi che si erano prefissati figura anche la sottoscrizione di un protocollo di legalità tra il loro consorzio e la Prefettura.
Il Ros ha eseguito cinque ordinanze ai domiciliari. Magistrato ai domiciliari, terremoto a Salerno: incontri con imprenditori anche in Procura. Viviana Lanza su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.
La credibilità e la fiducia nei confronti della magistratura sono messe sempre più a dura prova. Se è vero che non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, è pur vero che notizie come quella che riguarda un ex pm della Procura di Salerno e attualmente in servizio al Tribunale di Sorveglianza di Roma, un avvocato e un ex generale della guardia di finanza, oltre a due imprenditori indagati nell’ambito di un’inchiesta su presunte corruzioni, è di quelle notizie che smuovono perplessità e preoccupazioni nell’animo dei cittadini.
La notizia, sin da ieri mattina, è rimbalzata su tutti i media. Un comunicato della Procura di Napoli a firma del procuratore Giovanni Melillo annunciava gli arresti con il linguaggio burocratico istituzionale con cui in genere si dà notizia di provvedimenti giudiziari destinati a sollevare un polverone, a volte solo nella vita privata di chi finisce sotto accusa e a volte anche nei contesti che sono intorno alle persone e ai fatti al centro dell’attenzione investigativa. Nel comunicato si legge che «è stata posta in esecuzione ordinanza applicativa della misura cautelare degli arresti domiciliari emessa dal GIP del Tribunale di Napoli nei confronti di: Penna Roberto, all’epoca dei fatti sostituto procuratore presso il Tribunale di Salerno, Gallevi Maria Gabriella, avvocato del Foro di Salerno, e degli imprenditori Vorro Francesco, Inverso Umberto e Lisi Fabrizio, ritenuti, allo stato, gravemente indiziati dei reati (corruzione per l’esercizio delle funzioni, corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari e induzione indebita a dare o promettere utilità) oggetto delle investigazioni fin qui condotte, delegate al Raggruppamento Operativo Speciale dell’Arma dei Carabinieri».
Il nome che spicca è quello del magistrato Penna, salito alle cronache nel 2014 per aver condotto un’indagine e un processo contro il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, poi assolto. Un pm che appariva tutto d’un pezzo, Penna. Poi, a gennaio scorso l’avvio dell’indagine per corruzione in atti giudiziari, il 14 luglio la perquisizione e ieri le accuse messe insieme dalla Procura. In estrema sintesi, Penna, all’epoca in forza al pool reati contro la pubblica amministrazione della Procura di Salerno, avrebbe rivelato informazioni sulle indagini che coordinava agli stessi imprenditori su cui indagava, omettendo di procedere in cambio di incarichi per la sua compagna avvocato. Inoltre, secondo la Procura che adesso indaga sulla presunta corruttela, gli imprenditori, avvalendosi dell’aiuto del magistrato, avrebbero a loro volta cercato di intrecciare rapporti con funzionari della Prefettura di Salerno, con l’obiettivo di essere inseriti nella cosiddetta «white list» e con l’aspirazione di sottoscrivere un protocollo di legalità con l’Ente.
Vale per tutti la presunzione di innocenza, intanto pesano come un macigno le parole del gip Rosamaria De Lellis che ha firmato gli arresti. «Le vicende appaiono di particolare gravità, connotate da uno spiccato disvalore e destinate a determinare, quando rese pubbliche, un particolare allarme sociale e ciò sia in considerazione del contesto ambientale in cui sono maturate che della qualifica soggettiva dei protagonisti». «Un magistrato dovrebbe costituire un esempio di legalità e come tale essere percepito dai cittadini», sottolinea il gip severo su Penna che, stando a quanto emerso dalle indagini, avrebbe incontrato i suoi corruttori persino nel suo ufficio in Procura. Duro, il gip di Napoli, anche nei confronti dell’avvocato Gallevi: «esercitava la professione legale – scrive – (…) professione ricorrentemente umiliata e deviata da condotte volte al perseguimento dì favoritismi e, conseguentemente, di indebiti profitti». L’inchiesta dovrà fare il suo corso, la storia giudiziaria insegna che la fase delle indagini preliminari è solo un primo step, che non bisogna dimenticare il principio di non colpevolezza. Intanto l’allarme sociale di cui parla il gip c’è e la magistratura deve farci i conti.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
E' il pm che indagò Lupacchini. Corruzione, il magistrato Roberto Penna ai domiciliari con la compagna avvocato e tre imprenditori. Redazione su Il Riformista il 9 Febbraio 2022
Avrebbe informato alcuni imprenditori dei procedimenti penali riguardanti abusi edilizi in cui risultavano coinvolti e che lui stesso conduceva. E’ questa l’accusa nei confronti dell’ex sostituto procuratore di Salerno Roberto Penna, finito agli arresti domiciliari insieme alla compagna avvocato e a tre imprenditori. A dicembre 2021 è stato trasferito, dal plenum del Csm, a Roma come magistrato di sorveglianza.
A emettere l’ordinanza il gip del Tribunale di Napoli al termine delle indagini condotte dal Ros (Raggruppamento Operativo Speciale) dei Carabinieri e coordinate dalla procura di Napoli guidata da Giovanni Melillo. Oltre al magistrato Perna, sono stati sottoposti alla misura cautelare degli arresti domiciliari Maria Gabriella Gallevi, avvocato del Foro di Salerno e gli imprenditori Francesco Vorro, Umberto Inverso e Fabrizio Lisi (ex generale della guardia di finanza).
I cinque indagati sono gravemente indiziati dei reati di corruzione per l’esercizio delle funzioni, corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari e induzione indebita a dare o promettere utilità.
Le indagini sono partite giusto un anno fa, a gennaio 2021. Perquisizioni sono state effettuate dai Ros a metà luglio dello scorso anno. Sotto i riflettori, incontri del pm con gli imprenditori. Penna – così come riporta l’agenzia Agi – ha sempre mostrato disponibilità attraverso il suo legale a collaborare con gli inquirenti.
Tutte le persone coinvolte avranno modo di replicare alle accuse e di dimostrare eventualmente la piena correttezza della propria condotta.
Penna ha rappresentato la pubblica accusa nel processo che vede imputato l’ex procuratore generale della Corte di Appello di Catanzaro, Otello Lupacchini (trasferito a Torino dopo il provvedimento disciplinare del Csm per le parole contro il capo della procura Nicola Gratteri), indagato per falso ed errore determinato dall’altrui inganno. Secondo l’accusa sostenuta da Penna, Lupacchini avrebbe mentito per ottenere il potenziamento della propria scorta fornendo informazioni false al Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica di Catanzaro.
Troppi flirt nell’ufficio, il Csm trasferisce il giudice per incompatibilità. Per la prima Commissione le relazioni sentimentali intrattenute dal giudice della sezione fallimentare del tribunale di Foggia ne minano la credibilità e imparzialità. Lui: «Nessuna interferenza». Il Dubbio l'1 febbraio 2022.
In un piccolo tribunale le voci girano in fretta. E quelle relazioni sentimentali intrattenute con alcune professioniste dell’ufficio minano la credibilità e l’indipendenza della funzione giudiziaria. Soprattutto se alle stesse erano assegnati incarichi per via diretta: è questa l’accusa a carico del giudice della sezione fallimentare del tribunale di Foggia, Francesco Murgo, per il quale il Consiglio superiore della magistratura ha deliberato il trasferimento per incompatibilità, ritenendo compromessa l’attività dello stesso all’interno del distretto.
A darne notizia è l’agenzia La Presse, che ha preso visione del documento deliberato dalla prima Commissione del Csm. Il giudice, da parte sua, pur ammettendo le relazioni con alcune professioniste a cui aveva affidato incarichi, sostiene che i comportamenti privati non abbiamo in alcun modo interferito con l’attività l’attività d’ufficio. Ora sarà la terza commissione a stabilire la nuova sede giudiziaria.
Il procedimento trae origine da un esposto presentato dai titolari di una farmacia dichiarata fallita al procuratore generale presso la Corte d’Appello di Lecce e al procuratore della Cassazione. Esposto pervenuto al Csm il 25 agosto 2000. «In proposito si deve valutare, come primo elemento impediente, che la scoperta delle plurime relazioni sentimentali intrattenute dal dottor Murgo, anche all’interno dell’ufficio giudiziario, con professioniste da lui nominate come ausiliari del giudice nelle procedure concorsuali, ha generato una compromissione della credibilità dell’interessato sul territorio», si legge nella delibera. «Ciò è avvenuto a causa della risonanza del fatto determinata: dall’affissione di un manifesto; dalla pubblicazione di articoli di stampa; dall’interrogazione parlamentare; dalla pendenza di un procedimento penale che ha comportato anche una perquisizione e sequestro della Guardia di Finanza nella cancelleria civile; dall’esame degli elementi istruttori raccolti anche da parte del Consiglio giudiziario in sede di valutazione di professionalità», prosegue la delibera.
«In presenza di tali situazione di fatto si è ingenerata certamente tra i colleghi e nella collettività, come emerso dalla istruttoria svolta dalla commissione, la convinzione che il dott. Murgo ha abusato del suo ruolo in quanto avrebbe dovuto astenersi nei procedimenti che interessavano queste professioniste, circostanza questa che è sicuramente idonea a compromettere l’immagine del magistrato e la possibilità per lo stesso di svolgere le funzioni in assoluta serenità nella sede di appartenenza. Le reiterate e deliberate omesse astensioni, in disparte ogni profilo disciplinare, hanno determinato un appannamento della credibilità del magistrato nell’esercizio delle funzioni e difficoltà nei rapporti con il presidente di sezione», è scritto ancora nel provvedimento del Csm.
«In altre parole, non può che essere appannata, nei rapporti con l’avvocatura e soprattutto con i colleghi di collegio, la credibilità di un giudice che ha in essere, e non le dichiara, diverse relazioni con professioniste che gestiscono procedure fallimentari in corso e tale perdita di credibilità si riflette in negativo, quanto meno nella percezione sociale, sull’esercizio indipendente ed imparziale della funzione di giudice fallimentare, specie in un Tribunale di piccole dimensioni». E ancora: «Appare allora evidente, sul piano prognostico che si impone in questa sede, che le decisioni che il dott. Murgo è chiamato ad assumere nei singoli procedimenti trattati potrebbero essere percepiti, dai colleghi, dai professionisti, dal personale amministrativo ma soprattutto dalle parti direttamente interessate, come reattivi rispetto alla situazione venutasi a determinare e non esclusivamente come il frutto di una valutazione indipendente dei fatti, scevra da condizionamenti esterni». «Eguale profilo di serio appannamento all’esercizio imparziale della giurisdizione – si legge – deriva dai rapporti non sereni con i colleghi che hanno parlato di senso di disagio e di perdita di fiducia e che si vedono costretti ad aspettare che il collega non componga il collegio per trattare procedimenti in cui è curatrice una delle professioniste amica del dott. Murgo. D’altro canto, la mancata segnalazione dell’esistenza di rapporti sentimentali è situazione in sé lesiva della credibilità della pubblica funzione, idonea a compromettere, indipendentemente da qualsiasi profilo di rimproverabilità, la percezione ab externo della serenità, imparzialità e indipendenza nella attività dell’ufficio, il quale per di più è di piccole dimensioni, con manifesto, dunque, aggravio della eco che la situazione ha ingenerato in danno della credibilità e attendibilità della funzione giudiziaria: bene di appartenenza generale la cui disponibilità non è data alla persona del magistrato», conclude la delibera.
Il giudice è stato ascoltato in audizione due volte. La prima il 14 settembre 2021. «Nell’ammettere l’esistenza delle intercorse relazioni sentimentali, affermava di non aver mai percepito una situazione di disagio o malfunzionamento in ufficio», si legge nella delibera. «Si dice l’imbarazzo di nominare certi curatori, ma i curatori o li si nomina o non li si nomina per motivi di legalità, di opportunità. Poi ci sono persone che non c’entrano niente con questo procedimento», ha detto Murgo. «Mi sembra che sia un procedimento nato da qualcosa di diverso, dall’insofferenza soggettiva del Presidente di sezione, non so a che cosa, a certe persone. Poi penso che se un magistrato si comporta correttamente e ci sono dei “sentito dire”, debba essere anche difeso se l’operato si riconosce corretto e comunque non ha creato disfunzione. Non vorrei peccare di immodestia, però penso che l’ufficio fallimentare, dove lavoro da otto anni, funziona anche grazie a me», ha detto.
«Il Foro mi conosce come un giudice piuttosto imparziale, indipendente, quindi non ha dato neanche troppo seguito a questo, né io l’ho riscontrato obiettivamente, anzi ho avuto anche attestati di stima, ma non spetta a me dirlo ovviamente», ha concluso. La seconda audizione c’è stata il 18 settembre 2021. «Murgo ha nuovamente ribadito che il suo comportamento è sempre stato improntato a imparzialità e correttezza e di non aver ravvisato un obbligo di astensione successivamente alla fine della sua relazione sentimentale con un avvocato», è scritto nella delibera. «Ha prodotto copiosa documentazione attestante il numero degli incarichi complessivamente assegnati a ciascun professionista dalla Sezione fallimentare, nonché l’elenco degli incarichi di curatore fallimentare da lui assegnati».
Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 28 gennaio 2022.
«Denaro o altra utilità», così il codice penale definisce la tangente che integra il reato di corruzione. E di «altre utilità» se ne sono viste di tutti i colori: dalle finte consulenze alle caparre immobiliari lasciate scadere apposta, dalle bottiglie di champagne (leggendaria quella riempita di banconote per un ex assessore lombardo) sino alle escort.
Ma mai, sinora, l'«altra utilità» era stata individuata nel pro-piziare, a un magistrato in corsa al Csm per una promozione, l'«aggancio» proprio di un membro del Consiglio Superiore della Magistratura.
È quanto per la prima volta le pm Giulia Guccione e Elena Neri (in una inchiesta peregrinata da Piacenza a Brescia, da Venezia ad Ancona e infine a Roma) imputano a due ex presidenti di sezione nei Tribunali di Piacenza e Lodi, Giuseppe Bersani e Tito Ettore Preioni, chiedendone il rinvio a giudizio per corruzione ad opera dell'avvocato fallimentarista Virgilio Sallorenzo: dal quale il 15 febbraio 2018 avrebbero ricevuto «l'utilità dell'organizzazione e realizzazione a Roma di un incontro con l'avvocato componente laico del Csm Paola Balducci» (non indagata) mentre Preioni aveva in corso «la domanda per la nomina a presidente del Tribunale di Cremona».
Il curatore fallimentare, che dal Tribunale di Lodi di Preioni aveva ricevuto incarichi controversi, nella trasferta avrebbe anche pagato treno, cena e hotel. «Non sapevo degli incarichi dati da Preioni a Sallorenzo, neanche Sallorenzo mi ha mai detto - ribatte Bersani difeso dai legali Luigi Alibrandi e Alessandro Melchionna -. Avevo proposto a Preioni di incontrare Balducci in modo che lei potesse associare la persona al curriculum, ne parlai casualmente con Sallorenzo e lui subito si offrì di organizzare tutto lui.
Non ho mai istigato, e mi rendo conto di aver fatto una cosa poco simpatica nel cercare di favorire Preioni, ma solo perché lo ritenevo il candidato migliore». Cena servita a poco, «Preioni sembrava bloccato» e «Balducci mi parve molto annoiata, tanto da interrompere la serata per andare a vedere lo sceneggiato su Fabrizio De Andrè». Da altri 5 capi Bersani è stato archiviato ad Ancona, dove con i pm Daniele Paci e Andrea Laurino ha invece patteggiato 8 mesi (pena sospesa) per abuso d'ufficio nel non essersi astenuto negli incarichi piacentini a Sallorenzo.
Davigo denuncia Greco per l’intervista al Corriere della Sera. Guerra aperta tra i due ex pm del pool di Mani Pulite. Davigo querela Greco, indagato a Brescia per diffamazione, dopo l'intervista a Milena Gabanelli. su Il Dubbio il 26 gennaio 2022.
La Procura di Brescia ha chiuso le indagini nei confronti dell’ex procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco accusato di diffamazione a mezzo stampa nei confronti del suo collega del periodo di Mani Pulite Piercamillo Davigo.
Greco, che ha ricevuto l’avviso di conclusione dell’inchiesta, era stato denunciato dall’ex consigliere del Csm per un’intervista al Corriere delle Sera a Milena Gabanelli del settembre scorso in merito alla presunta Loggia Ungheria e al passaggio di verbali tra il pm milanese Paolo Storari e appunto Davigo. «Mentre ancora c’è nebbia sul dove, quando e perché Storari e Davigo si siano scambiati sottobanco i verbali, una cosa è sicura: l’uscita era nell’interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante» disse Greco nell’intervista.
Paolo Ferrari per “Libero Quotidiano” il 26 gennaio 2022.
La maxi intervista "testamento" di Francesco Greco al Corriere della Sera è costata all'ex procuratore di Milano un bel procedimento penale per diffamazione aggravata. A denunciare Greco è stato nientemeno che Piercamillo Davigo, il suo (ex) amico e collega fin dai tempi eroici di Mani Pulite.
Il "dottor sottile" del mitico Pool deve essersi sentito particolarmente offeso dai giudizi che Greco aveva espresso nei suoi confronti nell'intervista. La Procura di Brescia, compente per i reati commessi dai pm milanesi, a tempo di record ha chiuso ieri le indagini e si prepara a chiedere nei prossimi giorni il rinvio a giudizio per Greco.
L'incresciosa vicenda è nata lo scorso settembre, qualche settimana prima che Greco andasse in pensione per raggiunti limiti di età. Nell'intervista di due pagine, condotta con esagerata compiacenza da parte di Milena Gabanelli, l'allora procuratore milanese aveva risposto alle domande indossando l'elmetto e gridando al complotto.
«Questa Procura - aveva esordito Greco - ha sempre rappresentato l'indipendenza e la libertà dei magistrati. È questo simbolo che deve essere abbattuto. Io non ho mai visto una campagna mediatica quotidiana così compatta e violenta come quella che è in corso in questi mesi, utilizzando la vicenda Storari e l'assoluzione in primo grado dell'Eni».
Greco, che evidentemente aveva accumulato molta tensione nei mesi precedenti, si era spinto a denunciare «il tentativo di decapitare la Procura di Milano», «un simbolo che deve essere abbattuto».
E alla domanda della giornalista se ci fosse un disegno più ampio dietro tutto ciò, aveva risposto: «Veda lei. Se stiamo ai fatti la Procura di Milano rappresenta da decenni un'anomalia, per la capacità di svolgere un ruolo cruciale e sempre innovativo sia sul fronte della legalità politica ed economica nazionale e internazionale, che nei fenomeni criminali che accompagnano il costume sociale».
Dopo questa parte che si può tranquillamente definire autocelebrativa, Greco aveva toccato il nervo scoperto rappresentato dalla Loggia Ungheria, l'associazione paramassonica composta da magistrati, professionisti, alti ufficiali delle forze di polizia e finalizzata ad aggiustare i processi e pilotare le nomine.
A rivelare l'esistenza di questa loggia era stato l'ex avvocato esterno dell'Eni Piero Amara, durante gli interrogatori sul falso complotto ai danni del colosso petrolifero del cane a sei zampe, condotti dai pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari a dicembre 2019. Greco era poi stato indagato per omissioni d'atti d'ufficio con l'accusa di aver ritardato le indagini sulle dichiarazioni messe a verbale da Amara.
Era stato proprio Storari a "denunciare" Greco, consegnando i verbali di Amara a Davigo, all'epoca componente del Consiglio superiore della magistratura. Ricevuti i verbali e mostrandoli a molti colleghi, Davigo aveva portato tutti a conoscenza di quello che stava accadendo a Milano nella gestione del fascicolo Amara.
Il gesto di Storari, per Greco, fu la classica "coltellata alla schiena" che mai si sarebbe aspettata. «A dimostrazione del clima di fiducia reciproca, lui stesso in una email (successiva alla consegna dei verbali) si oppone alla mia proposta di potenziare il pool investigativo asserendo di trovarsi molto bene a lavorare con la collega Pedio e con me», si era difeso Greco nell'intervista.
L'ex procuratore rincarò lo dose, affermando che Storari aveva agito irresponsabilmente senza rispettare alcuna regola: «Aver fatto uscire dal perimetro del segreto investigativo dei verbali secretati è un atto irresponsabile, tanto più per un magistrato inquirente, e ha pregiudicato le indagini».
A questo punto dell'intervista il clima si era sufficientemente surriscaldato al punto che a Greco scappò la frase che gli provocherà l'iscrizione nel registro degli indagati. «L'uscita (dei verbali, ndr) era nell'interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante». Accuse pesanti che Davigo non ha voluto lasciar correre.
E sui contrasti interni alla Procura, Greco aveva infine ribadito che la «presunta mancanza di chiarezza era ed è dovuta al fatto che io non ho voluto diffondere direttamente la mia versione dei fatti, che peraltro è l'unica che si fonda su documenti e circostanze storiche. Ho preferito seguire i canali istituzionali». Se l'intervista doveva servire per fornire spiegazioni sulla gestione della Procura più importante d'Italia, si può tranquillamente affermare che il risultato non è stato quello sperato. Anzi.
Milena Gabanelli per corriere.it il 12 settembre 2021.
Nella sua lunga carriera iniziata a Milano alla fine degli anni ’70 come pm, e che a Milano si chiuderà a novembre come Procuratore capo, si è guadagnato il rispetto persino dei suoi imputati, anche quelli che ha mandato in carcere. Ascoltato dal potere politico per la capacità di indicare strade innovative contro i grandi mali del Paese: l’evasione fiscale e la corruzione. Notoriamente riservato, non ha mai partecipato a un talk televisivo, non ha mai scritto un libro. Poi è comparso in scena l’avvocato Amara e per Francesco Greco è iniziata la partita più difficile, quella contro il tentativo di azzerare la reputazione della Procura di Milano.
Amara è l’artefice della diabolica operazione di depistaggio all’interno del processo Eni, e il rivelatore della fantomatica loggia Ungheria, dove spiattella una lista di 70 nomi: magistrati, giudici, politici, imprenditori, giornalisti. Il pubblico ministero che segue l’indagine Paolo Storari passa i verbali secretati al consigliere Davigo. La slavina fa il suo percorso silenzioso, e quando emerge, in Procura è valanga: Greco finisce sulla graticola e Storari al consiglio di disciplina.
Alla fine poi al Csm Storari ha raccontato che non c’era nessuna inerzia investigativa, ma che si era consultato con Davigo perché era preoccupato, e quindi non è stato punito. Perché invece lei lo ritiene un atto così grave?
«Tutti eravamo preoccupati, anche di capire il senso della collaborazione di Amara, ma aver fatto uscire dal perimetro del segreto investigativo dei verbali secretati è un atto irresponsabile, tanto più per un magistrato inquirente, e ha pregiudicato le indagini. Mentre ancora c’è nebbia sul dove, quando e perché Storari e Davigo si siano scambiati sottobanco i verbali, una cosa è sicura: l’uscita era nell’interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante».
A Brescia però Storari l’ha accusata proprio di voler rallentare le indagini, se non è vero perché il Procuratore non ha ancora archiviato?
«Spero che provveda, visto che la versione di Storari contrasta con la ricostruzione storica dei fatti,che ho documentalmente provato. Nessun sollecito, nessun contrasto, nessuna inerzia è emersa perché non c’è mai stata. Anzi faccio notare che è stato il sottoscritto a sbrogliare la questione delle iscrizioni imponendo quella di Amara e dei suoi sodali per Ungheria, mentre Storari le aveva volontariamente omesse. Infine, quando ha proposto un cronoprogramma investigativo, lo ha potuto eseguire con la collega Pedio senza alcun limite».
Ma se un magistrato temesse che il suo capo voglia mettersi di traverso cosa dovrebbe fare?
«Si seguono le regole e si mette tutto per iscritto. Storari non ne ha rispettata nessuna. E quando si agisce senza un protocollo, puoi variare la doglianza a seconda del bisogno, e il consigliere del Csm può diffamare, così come è successo, senza che ci sia la possibilità di una replica dell’interessato. La consegna clandestina infatti ha consentito di costruire una narrazione totalmente priva di riscontri, poi crollata come un castello di sabbia. Quando i magistrati violano le regole che agli altri si impone di rispettare, è un fatto gravissimo e pericoloso».
Quando ha incaricato Storari di indagare su chi avesse fatto arrivare quei verbali ai giornalisti, lui non si è astenuto perché non pensava che fossero gli stessi che aveva dato a Davigo, e il Csm ha creduto alla sua buonafede. Lei invece non ci crede, perché?
«Penso che sia la Procura Generale che il Csm non avessero la lettera anonima (agli atti delle Procure di Roma e Brescia) che accompagnava la seconda consegna dei verbali al Fatto, e che non lasciava dubbi sulla loro provenienza, riportando nel dettaglio tutti i colloqui avuti da Davigo con soggetti istituzionali e con diversi colleghi, nonché l’indicazione precisa che provenivano dalla Procura di Milano. Anch’io dell’esistenza di questa lettera, detenuta in originale unicamente da Storari, ne sono venuto a conoscenza solo recentemente.
Inoltre, trattandosi di stampe di file word, potevano essere usciti solo dai nostri uffici, tant’è che, ipotizzando un hackeraggio, disposi accertamenti tecnici che non vennero eseguiti. Infine quando abbiamo intercettato la segretaria di Davigo, Storari che a quel punto non aveva più scuse, ha acconsentito che si facessero le intercettazioni per un reato che sapeva non essere mai stato commesso: accesso abusivo a sistema informatico»
Storari è noto per la sua scrupolosità e dedizione, pensa che sia stato manipolato da Davigo? E a quale scopo?
«Non lo so e non mi interessa. Ho sempre stimato Storari e avuto con lui un ottimo rapporto. A dimostrazione del clima di fiducia reciproca, lui stesso in una email (successiva alla consegna dei verbali) si oppone alla mia proposta di potenziare il pool investigativo asserendo di trovarsi molto bene a lavorare con la collega Pedio e con me. Quindi mai mi sarei aspettato una coltellata nella schiena. Ha tradito anche la fiducia della collega, ha messo in difficoltà tutte le Procure (Roma, Perugia, Catania, Reggio Calabria, Potenza e Firenze) con le quali collaboravamo in coordinamento investigativo... mentre i verbali “circolavano” per Roma».
Nella lettera di solidarietà a Storari firmata da 56 magistrati su 64 c’è scritto che il problema è la mancanza di chiarezza. Dove nasce questo malessere?
«Premesso che quel documento firmato io non l’ho mai visto e addirittura il Csm ne parla senza che sia stato prodotto, la presunta mancanza di chiarezza era ed è dovuta al fatto che io non ho voluto diffondere direttamente la mia versione dei fatti, che peraltro è l’unica che si fonda su documenti e circostanze storiche. Ho preferito seguire i canali istituzionali. Devo però constatare con amarezza che il rigore non sempre paga, visto che per mesi è stata fatta circolare una versione dei fatti fondata sul nulla, provocando un danno enorme a tutto l’ufficio».
Però rivela anche un disagio che covava da tempo, non crede?
«È vero, ma è difficile essere a proprio agio in un ufficio mantenuto dal ministero e dal Csm costantemente sotto organico sia di magistrati e Vpo (magistrati onorari), che di personale amministrativo. Milano già in partenza ha una pianta organica insufficiente in relazione agli affari e alla popolazione, e ben diversa da quelle di uffici che hanno lo stesso carico di lavoro se non largamente inferiore. Le Istituzioni non hanno mai risposto alle mie richieste ufficiali, né hanno sentito il dovere di sanare, nonostante gli impegni presi, l’improvvisa uscita di sei magistrati verso la Procura Europea. Ad oggi, mancano ben 14 magistrati!».
Non pensa che sia anche un po’ colpa sua se non si è creata quell’integrazione necessaria fra i dipartimenti molto specializzati che lei ha messo in piedi?
«Intanto mi trovi lei un altro posto dove è possibile maturare specializzazioni diverse senza restare inchiodati tutta la vita alla stessa sedia. Detto questo, sicuramente ho commesso errori, a partire dalla volontà (non condivisa da tutti) di modernizzare la Procura informatizzandola, e con la creazione di un dipartimento dedicato ai reati transnazionali. Così come ho sottovalutato la diffusione sempre più estesa di una mentalità che risponde a logiche più burocratiche rispetto a quelle in cui ho maturato la mia esperienza professionale. Probabilmente non ho nemmeno colto il cambiamento culturale della magistratura, sempre più corporativa e autoreferenziale, e che trova il suo contraltare nelle circolari del Csm».
La conclusione del procedimento Eni-Nigeria ha scatenato una serie di polemiche e critiche pesanti al suo ufficio, e adesso il Csm sta verificando se non ci sia incompatibilità ambientale per il pm De Pasquale. Cosa è successo?
«Intanto i processi vengono disposti dal Gup quando ci sono elementi, che evidentemente c’erano. Purtroppo, diversi passaggi di questo processo hanno generato ogni sorta di polemica. È il caso di ricordare che è stato un avvocato dell’Eni (Amara) a intervenire con condotte corruttive (in parte già giudicate con sentenze definitive) nei confronti delle Procure di Trani e di Siracusa per “depistare” le indagini e costruire false accuse nei confronti di diverse persone interessate al processo. Lo stesso avvocato ha anche accusato “de relato” il presidente del collegio giudicante, accuse risultate infondate dalle verifiche fatte dalla Procura di Brescia, e che io stesso avevo registrato come “atti non costituenti notizie di reato”. Sull’accusa di non aver prodotto un video giudicato rilevante dal Tribunale, abbiamo documentalmente dimostrato che gli imputati e l’Eni ne avevano la trascrizione già da più di un anno, e non l’avevano usata o richiesta in sede di ammissione delle prove pur potendolo fare. È stato certamente un processo delicato, ma non diverso da tanti altri, e le complessità vanno affrontate e risolte nel dibattimento, non altrove. Altrimenti a che servono i processi?».
Anche l’appello sarà complicato visto che il suo ufficio non è molto amato nemmeno dalla Procura Generale, tant’è che il procuratore Celestina Gravina ha già detto che questo processo è uno sperpero di denaro pubblico.
«Sarà interessante sentire cosa pensano sul punto i valutatori dell’Ocse che hanno esplicitamente chiesto di aprire i prossimi lavori di valutazione dell’Italia presso la Procura di Milano, proprio perché si è distinta in questi anni nell’applicazione della convenzione di Parigi 97 sulla corruzione Internazionale. Quanto al presunto sperpero di denaro ricordo che la procura di Milano ha portato diversi miliardi nelle casse dello Stato sorreggendo più di una manovra finanziaria, mentre nel processo di appello, la Procura Generale non ha ritenuto di difendere un sequestro di oltre 100 milioni di dollari confermato dalla sentenza di primo grado».
Nella dura lettera di replica ai suoi colleghi lei scrive che si sta approfittando della debolezza della magistratura per colpire la Procura di Milano. A che scopo?
«Questa Procura ha sempre rappresentato l’indipendenza e la libertà dei magistrati. È questo simbolo che deve essere abbattuto. Io non ho mai visto una campagna mediatica quotidiana così compatta e violenta come quella che è in corso in questi mesi, utilizzando la vicenda Storari e l’assoluzione in primo grado dell’Eni».
Secondo lei sono pretesti di un disegno più ampio?
«Veda lei. Se stiamo ai fatti la Procura di Milano rappresenta da decenni un’anomalia, per la capacità di svolgere un ruolo cruciale e sempre innovativo sia sul fronte della legalità politica ed economica nazionale e internazionale, che nei fenomeni criminali che accompagnano il costume sociale. Qui non è nata solo Mani Pulite, qui sono nate le indagini sui nuovi caporali digitali e sul trattamento dei riders, sull’evasione fiscale delle big-tech, sul riciclaggio delle banche internazionali, sulla corruzione internazionale, la tutela dei consumatori dalle truffe delle grandi multiutilities, è stata costante l’attenzione nei confronti della Mafia imprenditrice, dei soggetti deboli e della salute sui luoghi di lavoro. Per alcuni questa anomalia deve finire».
Chi sono questi «alcuni»?
«Il desiderio di avere le mani libere ha accompagnato da sempre parte delle classi dirigenti politiche ed economiche del paese. Saverio Borrelli, consapevole di questa situazione, ci chiese di resistere, cioè di continuare a fare il nostro dovere con responsabilità ma senza compromessi. Controllare la legalità del potere richiede una “tenuta” psicologica che nel tempo logora, e infatti molti magistrati sono diventati insofferenti agli attacchi continui, e certi processi preferiscono evitarli. Ogni volta, c’è sempre qualcuno che dice “bisogna voltare pagina”. È successo in tutti i grandi uffici, ed ora qui, in occasione del mio pensionamento. Tuttavia sono certo che questa Procura non cambierà pelle... almeno me lo auguro».
Pensa che l’origine di tanti problemi sia stata proprio la creazione del dipartimento reati internazionali? Quello che ha portato Eni a processo per intenderci?
«Quello che posso dire è che le condizioni internazionali impongono un rafforzamento del contrasto a questo tipo di corruzione, come lo stesso Biden ha recentemente ribadito nel suo primo memorandum dove dice che la lotta alla corruzione internazionale è un “ interesse centrale della sicurezza nazionale”. Del resto i trattati sottoscritti dall’Italia quali la convenzione di Parigi e la convenzione Onu di Merida sulla lotta alla corruzione stanno dentro la nostra Costituzione. Il tentativo di decapitare la Procura di Milano va in controtendenza, e sarà il caso di riflettere sulle conseguenze anche internazionali: non a caso il terzo dipartimento è stato indicato dal Governo all’Ocse come l’unica best practice italiana nel contrasto alla corruzione internazionale».
Il Csm nel luglio scorso ha messo in discussione il suo modello organizzativo presentato già qualche anno fa. Perché proprio ora?
«La coincidenza è curiosa, ma quello che trovo singolare è l’aver affermato che non avevo analizzato la realtà criminale del territorio dove lavoro da 43 anni! Con la nuova organizzazione abbiamo ridotto, ogni anno, la pendenza di 10.000 procedimenti (anche in periodo Covid), e il modello che abbiamo costruito è in grado di aumentare la produttività pur mantenendo l’elevato standing nei procedimenti specializzati. Ma nelle valutazioni evidentemente i risultai non contano!».
I risultati della gestione Greco si leggono sul bilancio sociale della Procura. Sul fronte dei reati fiscali, negli ultimi 3 anni sono stati recuperati ben 5,6 miliardi. Hanno pagato i giganti della digital economy, della moda, siderurgia e grandi gruppi finanziari, grazie soprattutto all’attivazione di un network istituzionale con la Guardia di Finanza, l’Agenzia delle Entrate e delle Dogane, caso unico in Italia. Focus sulle grandi banche con sedi in Paesi con segreto bancario o fiscalità privilegiata: sono stati individuati circa 200 enti che ospitavano enormi capitali frutto di evasione fiscale.
L’inchiesta sui riders ha dimostrato che svolgono a tutti gli effetti un lavoro subordinato ed è scattato l’obbligo di assunzione. Le società di servizi che utilizzano lavoratori in nero sono state costrette a rientrare nella legalità, anziché passare dal sequestro che poi le porta al fallimento. L’alta specializzazione ha reso le rogatorie internazionali più rapide, proprio perché vengono gestite da un dipartimento dedicato. Il referendum sulla liceità dell’eutanasia origina dall’incostituzionalità della legge sollevata dalla Procura di Milano sul caso Cappato (suicidio assistito).
In quegli uffici ha passato tutta la sua vita professionale, qual è il suo bilancio personale?
«Non sono un sentimentale, ho avuto la fortuna e, penso, la capacità di condurre moltissimi processi interessanti, anche per la storia di questo Paese. Certo quella lettera dei colleghi mi lascerà un segno, ma per formazione o per abitudine guardo sempre avanti... e le idee hanno molte cose da fare».
«Csm severo con i protagonisti dell’Hotel Champagne». Il Dubbio il 23 gennaio 2022.
Nel corso dell'inaugurazione dell'anno giudiziario a Milano, la consigliera del Csm, Alessandra Dal Moro ha parlato dei fatti dell'Hotel Champagne. «Segno di serietà istituzionale che non ha eguali rispetto ad altre categorie».
La consigliera del Csm Alessandra Dal Moro, che ha preso parte all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Milano, nel suo intervento ha parlato anche della crisi che sta attraversando la magistratura. «Nei confronti dei principali protagonisti della vicenda dell’hotel Champagne – ha detto – è stata avviata tempestivamente l’azione disciplinare e sono state emesse sentenze di condanna, anche severe. E questo, è bene ricordarlo, è un segno di serietà istituzionale che non ha eguali rispetto ad altre categorie».
«Rispetto al materiale acquisito dalla Procura di Perugia e tratto dal telefono cellulare del dottor Palamara, materiale che ci consegnava una cruda fotografia di un correntismo deteriore – ha sottolineato – il contributo del Consiglio è stato quello di procedere all’effettiva analisi delle condotte emerse, con un atteggiamento obiettivo, prudente ed equilibrato, nella consapevolezza della ineliminabile iniquità che deriva dal fatto che ci si è dovuti confrontare con l’acquisizione del materiale comunicativo di uno solo dei componenti dell’ultimo Consiglio».
Dal Moro ha anche detto che «per affrancarsi dal correntismo deteriore e rigenerare la magistratura e il suo Governo Autonomo, rinsaldando la fiducia dei cittadini che sorregge la legittimazione dell’esercizio della giurisdizione, non è sufficiente accertare e sanzionare le condotte dei singoli, ma è necessario riconoscere che le distorsioni – che hanno interessato tutti i gruppi associativi – chiamano in causa, da un lato, le responsabilità di chi gestisce i ruoli istituzionali e, dall’altro, le aspettative individuali di coloro che ai primi si rivolgono».
Per cercare di risolvere la crisi che la magistratura sta attraversando, inoltre, «bisogna riflettere sulle cause del fenomeno e trovare risposte anche con riforme di sistema», evitando però «gli errori del recente passato quando le riforme, nate con l’obiettivo di debellare alcuni guasti di sistema, hanno invece finito per cronicizzarli».
Alberto Cisterna: «Porto le stimmate del “sistema Palamara”». Il Dubbio il 20 gennaio 2022.
Alberto Cisterna, ex numero due della procura nazionale antimafia, in commissione ha parlato anche della vicenda che lo interessò ai tempi di Palamara.
«Nel momento in cui l’antimafia italiana è venuta a impattare con il sistema delle carriere, che si era realizzato dal 2006 in poi, le conseguenze sono stati rilevanti». Lo afferma l’ex pm antimafia Alberto Cisterna, ascoltato in Commissione parlamentare Antimafia per alcune dichiarazioni che Luca Palamara aveva fatto davanti alla stessa Commissione nei mesi scorsi, facendo riferimento a ciò che in un certo momento «è accaduto all’interno dell’antimafia italiana, di cui ho fatto parte perché fino al 2012 sono stato procuratore aggiunto della procura nazionale Antimafia».
«Personalmente ritengo che se c’è una difficoltà oggi nel giungere a risultati non dico risolutivi, ma quasi risolutivi – ha proseguito – uno dei problemi dipende dall’incrociarsi e quindi avvilupparsi di ciò che accade nelle procure distrettuali antimafia, dentro la procura nazionale antimafia e ciò che avviene laddove le carriere vengono organizzate, disciplinate e in cui viene regolato il traffico delle carriere». Secondo Cisterna il sistema di cui ha parlato Palamara, «non è un sistema a costo zero, non sempre garantisce la selezione dei migliori anzi, come penso Palamara abbia ampiamente spiegato, scoraggia le persone più brave dal concorrere a questo sistema».
Ripercorrendo la vicenda che lo riguardò, con un’indagine a suo carico e una fuga di notizie poi un decreto di archiviazione, Cisterna ha fatto riferimenti al «triangolo di cui parla Palamara, io porto le stimmate di quel triangolo sulla mia pelle e so cosa vuol dire. Vuol dire un sistema che ti punta». Nel corso dell’audizione, Cisterna ha osservato che il «parlamento non può lasciare completamente questo tema all’auto-formazione all’interno del Csm ma deve intervenire probabilmente con norme più severe e più dettagliate che cerchino di contenere quello che è accaduto».
Ricordando l’annullamento da parte del Consiglio di Stato delle nomine del presidente della Corte di Cassazione e dell’aggiunto, Cisterna ha osservato come si ponga un «problema drammatico per cui il parlamento deve riappropriarsi di una funzione che, se non bene esercitata, rischia di portare disdoro all’intera magistratura italiana, cioè di metterla in difficoltà, fermo restando che il Consiglio di Stato avrà sicuramente trovato dei profili e tutto è contendibile».
Secondo Cisterna, «l’elezione separata dei componenti della sezione disciplinare darebbe una buona opportunità di scegliere in sezione disciplinare i migliori, a legislazione vigente nulla vieterebbe la doppia scheda».
Il Csm dichiara guerra al Consiglio di Stato e rielegge Curzio. La quinta Commissione conferma i vertici della Cassazione annullati da Palazzo Spada. Mercoledì il verdetto del plenum. Il Dubbio il 17 gennaio 2022.
Confermare nei propri incarichi il presidente della Corte di Cassazione, Pietro Curzio, e l’aggiunto Margherita Cassano, le cui nomine sono state annullate dal Consiglio di Stato che ha accolto il ricorso di Angelo Spirito, uno dei candidati esclusi. È quanto propone la quinta commissione del Consiglio superiore della magistratura, che si è riunita oggi pomeriggio. Sulla proposta si esprimerà mercoledì prossimo il plenum del Csm. Una corsa contro il tempo per dare piena legittimazione a Curzio che venerdì prossimo sarà il protagonista della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario.
Spirito nel pool del maxiprocesso in cui finì Tortora (ma non si occupò mai di Enzo). Tra gli aspetti curiosi dell’incredibile corto circuito in cui è precipitata la magistratura, anche una coincidenza solo “esteriore”: il giudice che ha vinto il ricorso contro i vertici della Cassazione fece parte del pool che mise alla sbarra la Nco, e che coinvolse per errore il presentatore Rai. Ma Spirito, allora giovanissimo, su Tortora non compilò alcun atto. Errico Novi Il Dubbio il 18 gennaio 2022.
Angelo Spirito è descritto da diversi suoi colleghi in Cassazione come un eccellente giudice. Dotato peraltro di straordinarie capacità organizzative, virtù non residuale in tempi in cui compito della giustizia, reclama l’Ue, è sbrigarsi.
Non è in gioco dunque il valore del magistrato che, come sappiamo, ha vinto in Consiglio di Stato il ricorso avverso la nomina di Pietro Curzio a primo presidente, e che ha rivendicato quella nomina per sé (oltre a ottenere ragione nella pretesa di rivendicare titoli superiori anche per le funzioni di aggiunto rispetto alla collega Margherita Cassano).
Spirito è un magistrato importante, di prestigio ed esperienza. Vanta anche, nel proprio passato, l’attività di (giovanissimo) giudice istruttore al processo contro la Nuova camorra organizzata del 1983. Non solo il più importante maxiprocesso ordito contro la malavita napoletana, ma anche quello che portò all’assurda e ingiusta condanna di Enzo Tortora.
È noto anche come Spirito, al pari dei magistrati effettivamente coinvolti in quell’errore giudiziario, sia stato ritenuto, all’epoca, non responsabile sul piano disciplinare né, prima ancora, perseguibile riguardo a profili di incompatibilità ambientale. Va chiarito come Spirito non si occupò mai direttamente di Tortora, sul quale invece lavorò Giorgio Fontana, che dopo lasciò volontariamente la toga.
Non vogliamo in ogni caso tornare sul punto, qui, ma chiederci una cosa: siamo proprio sicuri che il fatto di potersi trovare con un primo presidente di Cassazione anche solo indirettamente ricollegabile al caso Tortora sia stato del tutto ininfluente, rispetto alla decisione compiuta dal Csm, che ha appunto preferito, a Spirito, Curzio e Cassano?
È chiaro come il maxiprocesso che costò la condanna di Tortora non rappresenti una colpa, una macchia curricolare. Però poteva ipotizzarsi una (pur concretamente immotivata) difficoltà, per il Csm, in termini di rappresentazione pubblica. Non lo sappiamo, nessuno degli interessati ne parla. Non sappiamo neppure se tale valutazione sia stata assorbita nell’ambito della nota discrezionalità valutativa che ora il Csm rivendica.
In fondo, la discrezionalità che è esercitata anche per ragioni politiche sarebbe persino un valore da difendere, in vista della stessa riforma. Il punto è se tale discrezionalità è associata ad esigenze dichiarate oppure no. Se di valutazioni come quelle compiute per il vertice della Cassazione si possa parlare in modo esplicito o se la magistratura debba rivendicare l’autonomia anche in termini di inaccessibilità delle proprie scelte. Perché in tal caso, la difesa a oltranza della discrezionalità sarebbe sì legittima, ma certo un po’ più debole.
Il Consiglio di Stato depone il Presidente della Cassazione. Perché è stato licenziato Pietro Curzio: cosa c’è dietro al terremoto che ha colpito i vertici della Cassazione. Paolo Comi su Il Riformista il 16 Gennaio 2022.
«Desidero formulare le mie congratulazioni a Pietro Curzio per la sua nomina a primo presidente. Dalla relazione e dagli interventi svolti è emerso il suo eccellente profilo professionale, lo spessore e la varietà delle sue esperienze giudiziarie». E poi: «Con la sua attività di studio ha contribuito al dibattito dottrinario e offerto il suo apporto all’attività formativa del Csm». «Certamente – prosegue – il presidente Curzio saprà svolgere l’impegnativo incarico con consapevolezza e lungimiranza, contribuendo a promuovere quel rinnovamento nel governo autonomo di cui vi è necessità da tutti avvertita». Queste parole di lode e di vivo compiacimento erano state pronunciate a luglio del 2020 dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, direttamente dal Palazzo del Quirinale, subito dopo il voto all’unanimità da parte del Plenum a favore di Curzio.
A più di due anni di distanza, i giudici amministrativi non sono però stati dello stesso avviso di Mattarella, bocciando clamorosamente la nomina di Curzio a primo presidente della Corte di Cassazione. Il Csm, l’organo di autogoverno delle toghe autorevolmente presieduto dal capo dello Stato, non finisce dunque di stupire. Dopo aver nominato Michele Prestipino, un magistrato senza titoli, a capo della Procura di Roma, l’ufficio giudiziario più importante del Paese, ecco arrivare il bis con le nomine del primo presidente della Corte di Cassazione e della sua vice. Errare è umano, perseverare è diabolico si potrebbe dire. L’assenza di titoli da parte di Curzio e di Margherita Cassano è stata certificata dal Consiglio di Stato che ha accolto il ricorso di Angelo Spirito, presidente della terza sezione della Cassazione. Nella sentenza depositata ieri i giudici di Palazzo Spada hanno bacchettato duramente il Csm per non aver valorizzato all’atto della scelta del nuovo primo presidente della Cassazione il cv di Spirito. Palazzo dei Marescialli, in pratica, avrebbe effettuato una comparazione “erronea”.
Spirito, oltre ad essere stato in Cassazione il doppio degli anni di Curzio, era stata autore di una produzione di sentenze nettamente superiore: 172 a 103. Aveva fatto parte dell’ufficio spoglio ed era stato referente della formazione decentrata e automatizzazione servizi di cancelleria. Componente di numerose commissioni di concorso, aveva svolto un grande ruolo nel settore penale. Tutte attività sparite dal giudizio comparativo del Csm. La gestione di Curzio in Cassazione, poi, non sarebbe stata il massimo dell’efficienza. Con lui a capo della sesta sezione tutti gli indici, ad iniziare dai tempi di definizione delle cause, sarebbero peggiorati drammaticamente. La sentenza che decapita i vertici di piazza Cavour arriva alla vigilia della solenne cerimonia di inaugurazione dell’Anno giudiziario, prevista per venerdì prossimo, alla presenza della massime cariche del Paese. Un appuntamento molto atteso proprio per la relazione sullo stato della giustizia che dovrà tenere Curzio. Dopo la sua relazione seguirà quella del pg Giovanni Salvi, recentemente balzato agli onori delle cronache per non trovare più il cellulare con cui aveva mandato messaggi al procuratore di Milano Francesco Greco circa la conduzione delle indagini sulla loggia Ungheria.
Per cercare di salvare la faccia ed evitare che l’Anno giudiziario sia inaugurato da un presidente abusivo, pare che la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm abbia intenzione di riunirsi già lunedì per rinominare Curzio e la sua vice. Il blitz verrebbe poi ratificato mercoledì in Plenum dopo che la ministra Marta Cartabia ha dato il suo via libera. Il Csm non può permettersi di mollare Curzio al proprio destino in quanto il primo presidente ne è componente di diritto. Sarebbe il settimo togato ad abbandonare il Plenum. Stesso discorso per la sua vice che presiede le sezioni unite e cura i ricorsi dei magistrati sanzionati dalla disciplinare del Csm.
«Non si è mai vista una situazione del genere», hanno commentato i magistrati sulle chat, molti rimpiangendo Luca Palamara. Il Csm rinnovato post hotel Champagne sta producendo solo nomine illegittime. A chi verrà dopo Mattarella, che non volle mandare tutti a casa quando scoppiò lo scandalo del Palamaragate avallando di fatto il ribaltone con il cambio di maggioranza, il compito di mettere a posto i cocci. Non sarà facile. Ma dopo quello che è successo ieri pare alquanto difficile fare peggio. Paolo Comi
Il Consiglio di Stato "decapita" i vertici della Cassazione eletti dal Csm. Redazione Tgcom24 su l'Inkiesta il 14 Gennaio 2022.
Il Consiglio di Stato, con due distinte sentenze, ha annullato i vertici della Corte di Cassazione, eletti dal Csm nel 2020. Si tratta del presidente Pietro Curzio e della sua vice Margherita Cassano. Palazzo Spada ha quindi ribaltato una precedente sentenza del Tar del Lazio che invece aveva confermato le nomine. A fare ricorso era stato il giudice Angelo Spirito, secondo cui le elezioni erano illegittime.
Le obiezioni del giudice Spirito Per quanto riguarda le obiezioni alle nomine di Curzio e Cassano avanzate nei due ricorsi contro le delibere prese dal Csm nel luglio 2020 - con le quali dopo l'affaire Palamara e lo scandalo che aveva travolto il Csm, si rinnovarono i vertici della Suprema Corte -, si critica la "sopravvalutazione delle esperienze professionali di Curzio" e la "prevalenza" dei "meriti" riconosciuti alla Cassano.
In particolare, nel ricorso contro la nomina della Cassano a presidente aggiunto della Suprema Corte, è stato contestato il "peso" riferito "alla sua esperienza di componente del Csm", a fronte della "netta esperienza quantitativo-temporale" dell'impegno svolto da Spirito che ha il "grado" di presidente di sezione da 20 anni, a fronte dei 13 della Cassano e che è stato componente delle Sezioni Unite per 8 anni contro i 5 della sua "antagonista". Insomma si sarebbe dato troppo valore anche al fatto che Cassano è stata Presidente della Corte di Appello di Firenze senza considerare che Spirito aveva una ben più lunga e specifica esperienza di alto magistrato "dirigente" in Cassazione.
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 15 gennaio 2022.
C'è una frase contenuta nella sentenza con cui il Consiglio di Stato ha nuovamente bocciato una nomina fatta dal Consiglio superiore della magistratura (e che nomina: quella del primo giudice d'Italia) che suona quasi canzonatoria: «Ferma l'esclusiva attribuzione al Csm del merito delle valutazioni, su cui non è ammesso alcun sindacato giurisdizionale, la motivazione posta a fondamento della valutazione si manifesta gravemente lacunosa e irragionevole».
Come dire che la decisione insindacabile spetta all'organo di autogoverno delle toghe, ma purtroppo è sbagliata e quindi va cancellata. Difficile non vedere una sovrapposizione di ruoli, se non un'invasione di campo, che rischia di delegittimare definitivamente un sistema già di suo vacillante.
Nel giorno in cui l'ex ministro Franco Frattini è diventato il loro nuovo presidente, i giudici amministrativi di secondo grado hanno decapitato i vertici della Corte di Cassazione annullando le nomine del primo presidente Pietro Curzio e del presidente aggiunto Margherita Cassano, datate 15 luglio 2020. Un anno e mezzo fa.
Due nomine decise praticamente all'unanimità (un solo astenuto), salutate con favore dal presidente Mattarella che volle sottolineare come Curzio «saprà svolgere l'impegnativo incarico con consapevolezza e lungimiranza, contribuendo a promuovere quel rinnovamento nel governo autonomo di cui vi è necessità da tutti avvertita».
Inoltre Cassano è stata la prima donna a raggiungere una posizione così alta all'interno della magistratura. Tutto sbagliato, ha stabilito ora il Consiglio di Stato accogliendo il ricorso di un candidato che riteneva di avere più titoli dei due nominati. Sebbene ad aprile scorso altri giudici amministrativi - quelli di primo grado, il Tar - avessero respinto i reclami, dichiarando le scelte di Curzio e Cassano pienamente legittime; ogni valutazione e comparazione era stata fatta e nel rispetto di tutte le regole. In appello la decisione è stata ribaltata.
Ogni decisione avrà le sue ragioni, ma questa altalena di giudizi provoca conseguenze dirompenti; prima fra tutte la ulteriore perdita di credibilità di un Csm già travolto e trasfigurato dallo scandalo del maggio 2019, e in palese difficoltà di recupero di dignità. Già nella nomina del procuratore di Roma, figlia del «caso Palamara», l'organo di autogoverno s' è dovuto piegare a un verdetto del Consiglio di Stato.
Ora arriva quest' altra bocciatura a alimentare discredito e un corto circuito istituzionale: la prossima settimana il primo presidente dovrà svolgere il suo intervento di apertura dell'anno giudiziario, appuntamento solenne che rischia di essere depotenziato da questo annullamento. Almeno sul piano dell'immagine. C'è chi l'ha già sottolineato, mentre ancora non ha visto la luce la proposta del governo su nuovo sistema elettorale e nuove regole di funzionamento del Csm. Forse nella consapevolezza che non sarà facile approvarla, viste le distanze tra i partiti di maggioranza. Ma attese e rinvii non bastano a trovare soluzioni condivise.
Tra Cassazione e Consiglio di stato un attrito che scuote ancora la giustizia. Dopo la doppia sentenza di Palazzo Spada che ha colpito i vertici della Suprema corte, la fragile ipotesi di un ricorso alle sezioni unite per ribaltare gli annullamenti ripropone il contrasto fra le due giurisdizioni. Come pure disorienta che il giudice amministrativo possa decidere sul presidente di quella Cassazione a cui contende la sfera di competenza…Stefano Bigolaro su Il Dubbio il 15 gennaio 2022.
Lo stesso giorno. Per un presidente che arriva, un altro che se ne va (o, più esattamente, rischia di andarsene). Può sembrare normale, ma non lo è affatto. Perché si tratta dei presidenti di due organi diversi e sempre più contrapposti.
Sto parlando del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione. E di due sentenze del Consiglio di Stato emesse ieri, la 267 e la 268, che hanno annullato le nomine da parte del Consiglio superiore della magistratura del primo presidente della Cassazione e del primo presidente aggiunto, rispettivamente Pietro Curzio e Margherita Cassano.
Non so se l’ultima volta che Consiglio di Stato e Cassazione hanno trovato un accordo sia stato nel 1930, con il concordato D’Amelio-Santi Romano (alla base della ripartizione tra giurisdizioni nei decenni successivi). Certo, non avviene spesso. Mentre il disaccordo è stato ed è un po’ su tutto: dalle materie di spettanza, a chi sia il giudice della condotta e della responsabilità risarcitoria delle amministrazioni. Un disaccordo dietro al quale si percepisce un confronto per rivendicare il proprio potere (giurisdizionale).
La vicenda dell’annullamento della nomina del presidente e del presidente aggiunto della Corte di Cassazione è tecnica, ma non per questo incomprensibile. Ci si deve muovere tra attitudini e merito degli aspiranti, tra indicatori generali e indicatori specifici, norme di legge e auto-vincoli posti dallo stesso Csm. Ma, nella sostanza, il Consiglio di Stato ha ritenuto non adeguata la comparazione effettuata dal Csm tra i candidati alla presidenza della Cassazione.
Non è il caso di entrare qui nella valutazione delle due sentenze. Sono scritte bene, e non c’è ragione di presumere che siano sbagliate. Quindi, partiamo dal presupposto che a sbagliare sia stato il Csm. E la questione diventa allora: cosa vuol dire che il Csm sbaglia nel nominare un magistrato a presidente della Cassazione? Non è evidentemente una scelta ordinaria, e non si può negare che vi sia un’ampia discrezionalità.
Infatti il Consiglio di Stato non la nega. Salvo poi affermare che c’è “un particolare obbligo di motivazione, puntuale ed analitico” nella comparazione tra candidati. In estrema sintesi: il problema in questi contenziosi è che chi è stato preferito ha una minore anzianità maturata in funzioni ritenute rilevanti per il ruolo da assumere. Ma l’importanza dell’anzianità cresce sempre proporzionalmente, o può essere considerata equivalente quando si raggiunge una dimensione significativa?
E poi, veniamo agli effetti delle pronunce.
Sono anche paradossali: potrà il presidente della Cassazione la cui nomina è stata annullata ricorrere in Cassazione contro la sentenza del Consiglio di Stato? Può farlo, per regola costituzionale, solo per ragioni di giurisdizione. Ma qui entriamo in un altro campo minato: quali sono le ragioni di giurisdizione che giustificano il ricorso contro una sentenza del Consiglio di Stato?
La Cassazione ha tentato costantemente di estendere i motivi di giurisdizione e, con essi, il proprio sindacato sul Consiglio di Stato. Aveva anzi sottoposto alla Corte di giustizia europea la questione della possibilità di fare ricorso contro sentenze del Consiglio di Stato non conformi al diritto dell’Unione. Questione recentemente respinta (Cg 497/20); ed è un’altra linea del fronte.
In questo caso, pare difficile anche solo immaginarlo, un ricorso per motivi di giurisdizione: i provvedimenti del Csm da sempre sono sottoposti al giudice amministrativo.
Forse è proprio questo che percepiamo ora come stonato. La situazione sembra fatta apposta per farci riflettere. Come un caso di scuola: il giudice amministrativo può annullare la nomina del presidente dell’organo competente a decidere sulle proprie sentenze – nei limiti della giurisdizione – e con il quale è in corso un aspro confronto. C’è come qualcosa che non gira, forse bisognerebbe inventarsi una via d’uscita a livello normativo. Ma, intanto, questa è la situazione.
Infine, quanto agli effetti sull’opinione pubblica e sulla sensibilità sociale, è da capire. Da un lato il Csm non gode al momento di buona fama, tant’è che se ne propugna la riforma, dopo che è stato rappresentato come il luogo in cui le aspettative di carriera vengono gestite secondo valutazioni correntizie che vedono talvolta il coinvolgimento delle forze politiche.
D’altro lato, pronunce del genere possono essere interpretate come segno di invadenza del giudice amministrativo. E possono perciò indebolirne l’immagine. Del resto, sembrerebbe esserci – in effetti – un che di provocatorio nel decapitare i vertici della Cassazione giusto una settimana prima dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.
Per difendersi da critiche e sospetti, è necessario poter contare sull’indipendenza del giudice amministrativo, alieno da ogni compromissione con la politica.
E qui arriviamo all’altro presidente: il nuovo presidente del Consiglio di Stato, Franco Frattini. Sulle capacità e lo spessore culturale e professionale, nulla da dire. E dunque, ogni più sincero auspicio per le nuove funzioni.
Nelle quali però parte in salita: era ministro degli Esteri, par di capire che alcune forze politiche possano pensare a lui per il Quirinale.
Presidente, non me ne voglia, sono considerazioni ispirate al rispetto per la sua persona e il suo ruolo: buon lavoro, qualunque sarà.
Siamo attaccati da chi la legge l’ha violata davvero. L’Anm manda a processo 70 toghe e Repubblica ci accusa di aver rivelato atti segreti. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Gennaio 2022.
È caccia alla “talpa” che la scorsa settimana ha fatto sapere al Riformista che i probiviri dell’Anm hanno terminato l’attività istruttoria nei confronti di circa 70 toghe che chiedevano favori o incarichi a Luca Palamara. Per loro l’accusa è di aver violato gli “obblighi di correttezza” previsti dal codice deontologico. Scrive Repubblica che il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, sarebbe “sorpreso ed irato” per quanto accaduto. Ma anche dai componenti della giunta si sarebbero state “polemiche” e “rimostranze”. Il motivo? I verbali dei lavori dei probiviri sono coperti dal “massimo riserbo” e dunque “non divulgabili”.
Premesso che il Riformista non ha violato alcun segreto dal momento che l’Anm è un’associazione privata e i verbali delle sue riunioni non possono essere equiparati ad atti pubblici ma a quelli di un’assemblea condominiale, il lungo articolo di Repubblica a tutela del segreto togato offre lo spunto per alcune riflessioni. Come mai, ad esempio, l’Anm e il quotidiano di largo Fochetti non hanno mai preso posizione in questi anni sulla “vera” fuga di notizie che ha caratterizzato il Palamaragate? Per chi avesse perso qualche puntata di questa storia, è necessario tornare al 29 maggio del 2019. Quel giorno Repubblica, Corriere e Messaggero riportarono in prima la notizia dell’indagine della Procura di Perugia nei confronti dell’ex zar delle nomine. “Corruzione al Csm: il mercato delle toghe”, scriveva Repubblica; “Una inchiesta per corruzione agita la corsa per la Procura di Roma”, il Corriere; “L’accusa al pm Palamara complica i giochi per la Procura di Roma”, il Messaggero. Gli articoli erano tutti dettagliatissimi.
Il pezzo di Repubblica, in particolare, aveva anche le intercettazioni effettuate con il trojan inserito nel cellulare di Palamara, come i colloqui fra quest’ultimo e Cosimo Ferri, deputato allora del Pd ed esponente di spicco di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe, relativi alla nomina del successore di Giuseppe Pignatone. Pur essendo le indagini in corso i tre quotidiani iniziarono a pubblicare, per settimane, ampi stralci delle intercettazioni che riguardavano la sfera privata di Palamara e quella dei consiglieri del Csm che avevano partecipato al dopo cena all’hotel Champagne dove si era discusso della nomina del nuovo procuratore di Roma e che per questo motivo furono poi costretti alle dimissioni. Questa fuga di notizie in tempo reale ebbe l’effetto di azzerare la votazione a favore del pg di Firenze Marcello Viola in Commissione per gli incarichi direttivi del Csm del precedente 23 maggio e che doveva andare in Plenum in quei giorni.
È opportuno ricordare che al Csm, fino alla chiusura delle indagini di Perugia avvenuta il 20 aprile dell’anno successivo, vennero trasmessi pochissimi atti. Ciò non aveva impedito al Corriere e Repubblica di riportare dopo qualche giorno i passaggi salienti degli interrogatori di Palamara davanti ai pm di Perugia. Il 26 luglio 2019 il pm di Perugia Mario Formisano, titolare del fascicolo, a chi gli chiedeva spiegazioni su queste interminabili fughe di notizie, rispose che avevano “rovinato l’inchiesta”. Palamara, a novembre del 2020, presentò allora un esposto alla Procura di Firenze, competente per i reati commessi dai magistrati umbri, chiedendo di svolgere accertamenti su questa incredibile fuga di notizie durata mesi. Fra le richieste, il sequestro dei telefoni e l’acquisizione dei tabulati telefonici nei confronti dei “soggetti interessati” alla fuga di notizie: “giornalisti, operatori di polizia, ecc”.
La Procura di Firenze aveva deciso poco dopo di archiviare. Il gip Sara Farini, esattamente un anno fa, aveva respinto, come richiesto dalla Procura, le istanze di Palamara, evidenziando però che non risultano essere mai stati compiuti atti d’indagine per i soggetti “che possono essere venuti in contatto con le notizie segrete”. E quindi invitò la Procura a “circoscrivere” la platea di questi soggetti e ad effettuare gli “opportuni approfondimenti investigativi”. “Sussiste senza dubbio” il reato di rivelazione del segreto, gli autori sono stati dei “pubblici ufficiali” e la Procura deve compiere gli “opportuni approfondimenti investigativi” per individuare “i responsabili della indebita propalazione”, si poteva leggere nel provvedimento della gip. Da allora non si è più saputo nulla. Tutti salvi. Altro che fuga di notizie del Riformista…..Paolo Comi
"Woodcock? Un pazzo". Le trame dei magistrati sull'intercettazione-giallo. Luca Fazzo il 17 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Palamara smentisce l'ex numero due del Csm Legnini su una sua frase riportata da Pomicino.
Pezzi da novanta della magistratura che si contraddicono l'uno con l'altro, e l'unica certezza è che qualcuno mente sotto giuramento. E sullo sfondo l'attività della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, quella che dovrebbe giudicare asetticamente le colpe delle toghe, trasformata in un teatro di trattative. È questo il quadro desolante che emerge da una serie di verbali della Procura di Perugia nell'indagine sulla intercettazione in cui Paolo Cirino Pomicino raccontava a un amico del giudizio sferzante che l'allora vicepresidente del Csm Giovanni Legnini avrebbe riservato al pm napoletano Henry John Woodcock: «un pazzo».
Legnini quella frase adesso nega di averla detta. Ma è stato smentito in diretta e con dovizia di dettagli da Luca Palamara, interrogato il 9 aprile scorso dai pm perugini. Palamara premette di essere stato avvisato da Giuseppe Cascini («con il quale avevo un rapporto di personale amicizia»), allora leader di Magistratura democratica e oggi membro del Csm, dell'esistenza della intercettazione. Cascini pensava che Woodcock potesse usarla per ricusare Legnini: il pm napoletano infatti era sotto processo disciplinare per la sua gestione dell'inchiesta Consip, e la sezione disciplinare era presieduta proprio da Legnini. «Io mi precipitai da Legnini - dichiara a verbale Palamara - il quale mi disse che aveva incontrato Pomicino al bar Florian e si era lasciato andare a considerazioni negative sul dottor Woodcock». Legnini, insomma, conferma.
Ancora più interessante è quanto accade subito dopo. Interrogato nell'ambito della stessa inchiesta, Cascini nega di avere rivelato a Palamara della intercettazione «di cui ignoravo l'esistenza» e aggiunge incautamente: «Ho interpellato l'amico e collega Paolo Ielo (procuratore aggiunto di Roma, ndr) al quale ho chiesto se lui mi aveva mai riferito dell'esistenza di questa intercettazione e Paolo non solo mi ha detto che non me ne aveva mai parlato ma ha aggiunto che nemmeno lui la conosceva». E invece l'allora capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, dice che «pochi giorni o qualche settimana prima io e i colleghi titolari del processo Consip a Roma, dottori Ielo e Palazzi, avevamo saputo dai colleghi napoletani» dell'intercettazione in cui a Legnini veniva attribuito l'insulto a Woodcock. A Roma, dunque, la notizia girava. Lo stesso Legnini dichiara a verbale che già allora Palamara gli disse di averla saputa da Cascini.
A quel punto cosa fa Legnini? Corre a avvisare il procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, che avvisa a sua volta il difensore di Woodcock; poi Legnini va anche dal braccio destro del presidente Sergio Mattarella, Stefano Erbani, e avvisa anche lui.
Il tema a quel punto diventa: cosa fare del procedimento disciplinare contro Woodcock? Legnini in quel momento è potentissimo («Legnini ha concorso a decidere ogni singola nomina in tutta Italia attraverso il meccanismo delle lottizzazioni delle correnti», dirà di lui Matteo Renzi che lo aveva nominato) e costringerlo a astenersi non si può. Ma «io - dichiara Palamara - interpretai le parole di Cascini - come un messaggio molto chiaro: il processo non doveva essere deciso da Legnini». A quel punto la coppia Palamara-Cascini si impadronisce della pratica, l'obiettivo è tirare in lungo fino alle elezioni per il nuovo Csm. «Il giorno dopo era fissata l'udienza del processo Woodcock e d'accordo con Legnini, senza informare nessuno dei componenti della disciplinare, decidemmo di prendere tempo (...) il problema era come non far sapere agli altri componenti della vicenda e nello stesso tempo non avere opposizione al rinvio». Sia Palamara che Legnini chiedono aiuto al Quirinale che risponde lavandosene le mani.
Il procedimento disciplinare contro Woodcock viene rinviato. Due anni dopo, il nuovo Csm assolve il pm napoletano da tutte le accuse.
Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.
Magistratura, l'Anm apre il "processo" per le chat di Palamara. Settanta toghe rischiano fino all'espulsione. Liana Milella su La Repubblica il 9 Gennaio 2022.
Gli interrogatori dureranno sei-sette mesi e rischiano di destabilizzare le prossime elezioni per il Csm previste in estate. Nel sindacato si apre la caccia alla talpa che ha diffuso la notizia giusto a 10 giorni dall’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione.
Torna l’incubo delle chat di Palamara. Questa volta all’Anm, ma con il rischio “strumentale”, dubita più d’uno, di favorire o penalizzare le correnti proprio a ridosso, o durante, le prossime elezioni per il Csm, previste a luglio. Sempre che la nuova legge elettorale, che il governo deve ancora presentare, sia pronta in tempo. Sono passati due anni dalla prima diffusione delle chat che coinvolgono oltre 500 nomi - era maggio 2020, in pieno Covid - e solo adesso l’Anm avvia il giudizio, in base al codice etico che tutti i giudici iscritti al sindacato sono tenuto a rispettare, che coinvolge 70 magistrati in procinto di ricevere l’atto di incolpazione.
L'Anm si sveglia sul Sistema e ora processa 70 magistrati. Luca Fazzo il 9 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Nel mirino dei procedimenti disciplinari le toghe coinvolte nelle chat di Palamara. Ma resteranno al loro posto.
Con calma, con molta calma: ma forse, finalmente, i giudici italiani decidono di fare un po' di pulizia al loro interno. Ad oltre due anni e mezzo dall'esplosione del «caso Palamara» l'unico magistrato che l'Associazione nazionale magistrati ha punito finora è stato proprio Luca Palamara, espulso con ignominia dal sindacato delle toghe. Per tutte le centinaia di suoi colleghi comparsi nelle chat che raccontavano dall'interno raccomandazioni, carriere, favori e miserie la giustizia interna all'Anm era andata avanti a passo di lumaca. Ma ora, secondo quanto anticipato ieri dal Riformista, una settantina di magistrati starebbero per ricevere il capo di «incolpazione» da parte dei probiviri dell'Anm, sulla base delle chat trasmesse dalla Procura di Perugia. Nelle ultime settimane, i probiviri avrebbero esercitato una prima selezione delle varie posizioni, scegliendo di mettere sotto accusa solo i colleghi più apertamente colpevoli di avere violato il codice etico dell'organizzazione. Sono magistrati anche di alto livello, sparsi in tutta Italia, per i quali sarebbe pronta la procedura di impeachment.
Si tratta, va ricordato, di procedure interne all'Anm, cioè al sindacato. Anche chi venisse espulso potrebbe tranquillamente continuare a lavorare in magistratura. Tant'è vero che tra le prime toghe investite dal procedimento disciplinare, circa un anno fa, la maggioranza scelse di dimettersi spontaneamente dall'Associazione per evitare l'onta della sanzione. Per quelli che allora non si dimisero, il procedimento sta procedendo a ritmi blandi. I probiviri hanno già chiesto una serie di condanne (in genere la censura, una delle pene più lievi) ma il direttivo dell'associazione non ha ancora deciso nulla.
Insomma, la sensazione era finora che - di fronte a un'ondata di rivelazioni che ha investito tutte le correnti - l'atteggiamento dell'Anm oscillasse tra imbarazzo e cautela. Ora la notizia dei settanta nuovi procedimenti disciplinari sembra dire che qualcosa si sta muovendo. Ma con che fermezza è tutto da capire. Secondo il Riformista, per esempio, tra i settanta incolpati non ci sarebbe il più illustre tra i nomi che compaiono nelle chat, quello del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi: che peraltro a luglio va in pensione, e quindi potrebbe uscire di scena incolume. A questo punto l'attenzione si concentra sulla sorte che i probiviri riserveranno a un altro vip i cui rapporti con Palamara ricorrono spesso nelle chat, l'ex leader di Magistratura democratica Giuseppe Cascini, membro del Csm. Cascini ha rifiutato di dimettersi dal Csm nonostante quanto emerso dalle chat. Sarà ora interessante capire se i probiviri dell'Anm riterranno compatibili anche con il codice etico le intere modalità con cui Cascini gestiva il suo potere: compresa la ricerca tramite Palamara di un contatto nel Coni per poter accedere liberamente col figlio alla tribuna d'onore dell'Olimpico.
In attesa di conoscere, almeno informalmente, l'elenco dei settanta, l'unica cosa certa - in questa sorta di pesca a strascico, dove finirà impigliato qualche pesce piccolo e qualche pesce grosso la farà franca - è che l'unico colpevole per cui l'Anm non chiederà punizioni è il colpevole numero uno: il sistema delle correnti.
Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.
Palamaragate e i retroscena. Chat con Palamara, l’Anm porta a processo 70 toghe: tra queste Salvi e Cascini. Paolo Comi su Il Riformista l'8 Gennaio 2022.
La scure è pronta ad abbattersi sulle toghe che chattavano con Luca Palamara per chiedergli un posto o un incarico.
Il collegio dei probiviri dell’Associazione nazionale magistrati ha ultimato in questi giorni i propri lavori. L’attività istruttoria, durata un anno, è stata difficilissima, ostacolata dai numerosi paletti posti in essere dai “ chattatori”, alcuni dei quali si sono anche appellati al Garante della privacy.
Al momento, a quanto risulta al Riformista, sarebbero circa settanta le toghe finite nel mirino del collegio, presieduto dall’ex giudice di Cassazione Giocchino Romeo, con l’accusa di non aver osservato il codice deontologico interno. La norma violata è quella prevista all’articolo 10 ed è relativa agli “Obblighi di correttezza del magistrato”. «Il magistrato – si legge nel testo – non si serve del suo ruolo istituzionale o associativo per ottenere benefici o privilegi per sé o per altri». In particolare, «il magistrato che aspiri a promozioni, a trasferimenti, ad assegnazioni di sede e ad incarichi di ogni natura non si adopera al fine di influire impropriamente sulla relativa decisione, né accetta che altri lo facciano in suo favore». Inoltre, «il magistrato si astiene da ogni intervento che non corrisponda ad esigenze istituzionali sulle decisioni concernenti promozioni, trasferimenti, assegnazioni di sede e conferimento di incarichi».
Nell’elenco dei settanta non c’è al momento l’allora procuratore generale di Roma Giovanni Salvi che, secondo quanto raccontato da Palamara nel libro Il Sistema scritto con il direttore di Libero Alessandro Sallusti, aveva organizzato un pranzo su una terrazza di un prestigioso albergo della Capitale per perorare le propria nomina a pg della Cassazione. Nonostante le pietanze sopraffine consumate con vista sui tetti della città eterna, la nomina sfumò perché Palamara decise poi di puntare su Riccardo Fuzio. Salvi per coronare il suo desiderio dovrà aspettare le dimissioni di Fuzio avvenute nel 2019 dopo lo scoppio del Palamaragate. La condotta tenuta da Salvi con Palamara, fanno comunque sapere dall’Anm, è sanzionabile ai sensi dell’articolo in questione. Come mai, allora, non è stato inserito nell’elenco dei settanta? Sempre da quanto si è potuto apprendere, i probiviri si sono mossi sulla base del materiale ricevuto dalla Procura di Perugia, e quindi sulle chat. Il “racconto” di Palamara verrebbe analizzato in seconda battuta. Ma è quasi certo che a quel punto anche il procuratore generale della Cassazione – cosa clamorosa – finirà alla sbarra.
Oltre a quanto riportato nel bestseller dell’ex zar delle nomine, come fonte di conoscenza dei probiviri ci sarebbe poi un altro libro molto gettonato sullo stesso tema: “Magistropoli” del giornalista del Fatto Quotidiano Antonio Massari. “L’incolpazione” del pg della Cassazione, oltre a non avere precedenti nell’ultra secolare storia dell’Anm, rappresenterebbe l’ennesimo cortocircuito istituzionale. Salvi è il titolare dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe e con un suo provvedimento del 2020 ha stabilito che “l’autopromozione”, anche se petulante, non è passibile di sanzione. Ciò che è una grave scorrettezza per l’Anm è invece la norma per la Procura generale. Difficile che non abbia conseguenze, anche solo a livello d’immagine, una cosa del genere. Ma anche Giuseppe Cascini, attuale componente del Csm e storico leader delle toghe progressiste, sarebbe nel mirino dei probiviri. Nel suo caso gli verrebbe contestato l’interessamento per le sorti del fratello, anch’egli magistrato, e la sua stessa nomina a procuratore aggiunto a Roma.
Fatta la legge, comunque, trovato l’inganno. Per evitare l’onta del processo davanti ai provibiri alcune delle toghe incolpate hanno pronta “l’exit strategy”: le dimissioni dall’Anm. Non essendo più iscritti verrebbero così meno le sanzioni. Le dimissioni sono presentate presso le giunte locali dell’Anm e quindi trasmesse a Roma. «È veramente imbarazzante: ci sono colleghi che hanno ricoperto incarichi di vertice all’interno dell’Anm ed ora decidono di scappare dal processo dimettendosi dall’Associazione», dice il giudice Andrea Reale, componente dell’Anm per Articolo 101. «Ricordo che siamo magistrati ed un comportamento del genere è inaccettabile», aggiunge Reale. Paolo Comi
Ruby Ter, proposta la commissione d’inchiesta dopo l’assoluzione di Berlusconi. Storia di Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera il 18 novembre 2022.
La richiesta arriva da Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera di Forza Italia: «Facciamo una commissione d’inchiesta sull’uso politico che viene fatta della giustizia. Forza Italia ha presentato una proposta di legge in questo senso già nella scorsa legislatura e l’ha ripresentata ora all’inizio di questa». La richiesta di Mulè è arrivata dopo l’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby ter. «Berlusconi è stato ancora una volta assolto “perché il fatto non sussiste”. Quel che sussiste piuttosto è un evidente pregiudizio che per troppi anni ha guidato l’azione di una parte della magistratura nei suoi confronti avvelenando il clima politico».
«Riflettiamo sull’indipendenza della magistratura»
La proposta di Mulè è stata raccolta da un’altra vicepresidente del Senato, la leghista Giulia Bongiorno, presidente della Commissione Giustizia. Che comunque ha spiegato: «Sono convinta che non debba essere il singolo caso a far nascere un’iniziativa legislativa o una commissione parlamentare, tuttavia il tema posto merita molta attenzione perché soprattutto dopo il caso Palamara c’è stata una del tutto inadeguata riflessione sul tema fondamentale dell’indipendenza della magistratura».
"Ora un'inchiesta sull'uso politico della giustizia". Ancora un'assoluzione per Silvio Berlusconi perché "il fatto non sussiste". Ora Forza Italia vuole una commissione d'inchiesta. Francesca Galici il 18 Novembre 2022 su Il Giornale.
Dopo l'assoluzione di Silvio Berlusconi, ora per la politica è il tempo delle riflessioni. Per l'ennesima volta, il Cavaliere è stato assolto perché "il fatto non sussiste" dopo un calvario giudiziario. "La nuova assoluzione per Silvio Berlusconi nel processo Ruby ter - avvenuta dopo una fulminea camera di consiglio a seguito della richiesta della stessa pubblica accusa - dovrebbe definitivamente spingere i garantisti di ogni parte e coloro che hanno a cuore una giustizia realmente giusta ad avviare finalmente una riflessione approfondita sull'uso politico che è stato fatto della giustizia nell'ultimo quarto di secolo", ha dichiarato Giorgio Mulè deputato di Forza Italia e vicepresidente della Camera.
L'ennesimo flop delle procure dopo 28 anni di agguati continui
La proposta di Giorgio Mulè non è una novità, come ha già sottolineato il deputato di Forza Italia, perché il suo partito già nella scorsa legislatura aveva avanzato una simile idea. "Forza Italia presentò una proposta di legge per istituire una commissione di inchiesta parlamentare sul tema, con il convinto sostegno di tutti i partiti del centrodestra", ha aggiunto il deputato. E la stessa proposta, Forza Italia l'ha avanzata all'inizio di questa legislatura: "Il lavoro della commissione, alla luce anche delle notizie sul mercimonio tra le toghe venuto a galla con i recenti scandali, diventa sempre più un obbligo per chiunque abbia a cuore la necessità di un corretto svolgimento dei processi".
Sulla stessa linea operativa la presidente della commissione Giustizia del Senato, Giulia Bongiorno, che ha commentato la richiesta di Giorgio Mulè: "Sono convinta che non debba essere il singolo caso a far nascere un'iniziativa legislativa o una commissione parlamentare, tuttavia il tema posto merita molta attenzione perché soprattutto dopo il caso Palamara c'è stata una del tutto inadeguata riflessione sul tema fondamentale dell'indipendenza della magistratura". Così anche Maurizio Gasparri: "Non può mica finire qui. Mi riferisco alla vicenda dell'uso politico della giustizia. L'ennesima assoluzione a Silvio Berlusconi, dopo anni e anni di persecuzioni e di accuse infondate, con gravi danni non solo per lui, ma per la stessa democrazia italiana, non può rimanere priva di seguito".
Giustizia e persecuzione. Su un altro processo legato a quel mostro giuridico che è il Ruby Ter è calato il sipario. Augusto Minzolini il 19 Novembre 2022 su Il Giornale.
Su un altro processo legato a quel mostro giuridico che è il Ruby Ter è calato il sipario. Il tribunale di Roma, su richiesta della Procura, ha assolto con formula piena Silvio Berlusconi e il cantante Mariano Apicella dal reato di corruzione legato ad un'ipotesi di falsa testimonianza per le feste organizzate ad Arcore. Era uno dei filoni del maxi-processo imbastito dalla Procura di Milano, che non aveva digerito l'assoluzione in Cassazione del Cavaliere nel processo principale. Un'altra prova che tutta questa storia non ha nulla a che vedere con la giustizia, ma è stata solo una grande persecuzione a fini politici durata più di dieci anni. Montagne di carta che non hanno provato nulla. Una serie di processi che sono costati un pozzo senza fondo di soldi al contribuente e all'imputato. Roba da non credere in un Paese civile. E il fatto che sia stata la stessa Procura a chiedere l'assoluzione dimostra quanto l'intera tesi accusatoria fosse un buco nell'acqua.
Del resto, quale procura e di quale Paese aprirebbe un'inchiesta a carico di persone la cui sola colpa sarebbe stata quella di testimoniare a favore di un imputato che i Pm, in barba anche alla più elementare cultura garantista, desideravano assolutamente che fosse condannato? Perché di questo si è trattato: se non è un «unicum» a livello mondiale poco ci manca. E tutto - dispiace dirlo - per un fine politico. Altre ragioni non se ne scorgono dietro una concezione della giustizia medioevale che produce degli obbrobri giuridici di questo tipo. Coperti da una toga, i pm della Procura di Milano hanno potuto anche non ammettere la sconfitta in un processo: dopo averne perso uno, ne hanno imbastiti altri tre, uno a Siena, uno a Roma e uno nel capoluogo lombardo. Ora è rimasto in piedi solo quest'ultimo, che andrà a sentenza a gennaio. È meglio non immaginare cosa sarebbe successo ad un normale cittadino, che non avesse avuto le risorse di Berlusconi, se fosse stato sottoposto allo stesso trattamento: molto probabilmente avrebbe accettato la condanna, si sarebbe arreso per sfinimento e per l'impossibilità di fare fronte ai costi stratosferici di un processo «monstre» come questo.
È un argomento su cui dovrebbero riflettere i tantissimi magistrati, la stragrande maggioranza, che non sono accecati da un pregiudizio, politico o meno poco importa, verso un imputato. Perché, se avvengono episodi simili, c'è qualcosa che non funziona, per non dire di marcio, nel nostro sistema. Ci sono meccanismi perversi che neppure le norme contenute nella riforma Cartabia, con tutto il rispetto, sono in grado di sradicare.
Un sistema che, oltre a trasformare per l'imputato il processo in un calvario, in alcuni casi cambia il corso delle cose. Quanti processi basati su niente, che si sono conclusi con delle assoluzioni, hanno condizionato, danneggiato carriere politiche o imprenditoriali? Quante inchieste inesistenti hanno cambiato il destino di questo o quell'altro imputato eccellente o, peggio, vulnerato il processo democratico? Non lo sapremo mai, sappiamo solo che, quando la giustizia si politicizza, in Italia o in qualsiasi Paese, diventa iniqua.
Francesco Olivo per “la Stampa” il 4 novembre 2022.
Forza Italia apre un altro fronte, che poi è quello di sempre: la giustizia. Il partito di Silvio Berlusconi ha presentato alla Camera una proposta di legge per istituire una commissione d'inchiesta «sull'uso politico della giustizia». Il testo ripresenta una proposta del 2020, che all'epoca firmarono tutti i deputati del centrodestra, Giorgia Meloni compresa.
In quei giorni erano ancora vive le scosse del caso Palamara, mentre oggi il centrodestra è tornato al governo e uno scontro tra poteri dello Stato non è certo una priorità dell'esecutivo. Tra i primi firmatari della proposta di legge ci sono Pietro Pittalis, Antonio Tajani, Giorgio Mulè e Paolo Barelli. L'iniziativa di Forza Italia, stavolta da sola, non è ben accolta da FdI, che la giudica, nel migliore dei casi, inopportuna.
In molti nel partito della premier, infatti, considerano che questa proposta possa «incendiare i rapporti con la magistratura», come spiega uno dei massimi dirigenti di via della Scrofa. E se i primi obiettivi degli azzurri sono «i giudici politicizzati», lo scopo dell'operazione viene letto tra i fedelissimi di Meloni come una provocazione verso di loro, l'ennesima in un inizio di legislatura molto teso.
Nel primo articolo della proposta di legge si chiariscono i campi di indagine: «Lo stato dei rapporti tra le forza politiche e la magistratura», «tra la magistratura e i media». Con il compito di accertare «se e in quale misura singoli esponenti o gruppi organizzati all'interno della magistratura abbiano svolto attività in contrasto con il principio della separazione dei poteri».
Fonti berlusconiane spiegano che si farà di tutto per arrivare a un voto dell'Aula. Una volontà che suona come una sfida: che farà a quel punto Fratelli d'Italia? Si opporrà a una proposta che due anni fa era sembrata urgente? Dalle parti di Arcore le ultime mosse di Meloni, specie quella sui rave parties, vengono giudicate come cedimenti al giustizialismo.
E l'isolamento del ministro Carlo Nordio sulle questioni legati alla cosiddetta «certezza della pena» non è un bel segnale. Molti parlamentari berlusconiani sottolineano come Meloni abbia dovuto accettare il compromesso sul carcere ostativo, mettendo in un decreto la legge che non aveva votato alla Camera e le modifiche che quel decreto dovrà subire in Parlamento saranno un altro banco di prova per la tenuta della maggioranza.
Pittalis, che ha guidato l'iniziativa, tiene a fare una precisazione: «La commissione non è contro la magistratura, non c'è nessun intento punitivo, ma il controllo è compito della politica». Secondo il deputato di Forza Italia non c'è motivo per immaginarsi un centrodestra spaccato su questo punto, «abbiamo riproposto un testo condiviso da tutta la coalizione. Nella scorsa legislatura il M5S aveva di fatto il potere di bloccare ogni iniziativa. Ora non è più così».
Mi contro Md e Area: «La magistratura non faccia politica». Il Dubbio il 4 Novembre 2022.
Il presidente e il segretario di Magistratura indipendente, Stefano Buccini e Angelo Piraino, criticano il comunicato della sinistra giudiziaria sulle scelte del Governo Meloni in merito alla situazione dei migranti
«La magistratura non è e non deve mai diventare un attore della scena politica. Mai, e nei confronti di qualsiasi governo, quale che sia il suo colore politico». Così, in una nota, il presidente e il segretario di Magistratura indipendente, Stefano Buccini e Angelo Piraino. Il riferimento è a quanto sottolineato nei giorni scorsi dalle toghe di Magistratura democratica e Area.
«Abbiamo letto il comunicato di Magistratura democratica sulle scelte di politica criminale del nuovo governo, dal titolo “la truffa delle etichette”, dove si profetizza “una lunga stagione di resistenza costituzionale”, ieri invece il comunicato di Area sulla politica migratoria dal titolo “fateli sbarcare subito” – ricordano i vertici di Mi – Immaginiamo di poter attendere, allora, nel prossimo futuro i contributi dei gruppi associativi progressisti della magistratura sulle scelte di politica economica o di politica estera del nuovo governo, nel segno di una ritrovata vitalità».
Pm contro pm: "Basta giudici politicizzati". La corrente moderata Mi contro Area e Md: "Da loro approccio ideologico". Felice Manti su Il Giornale il 5 Novembre 2022.
«La magistratura non è e non deve mai diventare un attore della scena politica». Parole calibrate attentamente eppure nette, sprezzanti. A pronunciarle sono i vertici di Magistratura indipendente, Stefano Buccini e Angelo Piraino. Nel mirino del presidente e del segretario di Mi ci sono le correnti rosse delle toghe Area e Md, colpevoli di aver bocciato le mosse dell'esecutivo sull'immigrazione e il decreto anti rave, la cui formulazione ha irritato il presidente delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza che su Facebook lo definisce «una sgrammaticatura a tratti delirante».
Alla vigilia della nomina in Parlamento dei 10 membri laici tra cui emergerà il prossimo vicepresidente dell'organo di autogoverno della magistratura, Mi lancia segnali di fumo neanche troppo timidi al centrodestra, che ha l'occasione storica di portare a casa la guida del Csm, vero crocevia della riforma della magistratura e della separazione delle carriere che Giovanni Falcone considerava cruciale. La maggioranza avrà sette membri laici, l'opposizione tre (uno a testa per Pd, M5s e Azione-Italia viva). Ma servono almeno 16 voti e soprattutto un nome non troppo di parte che convinca. A dare le carte dall'altra parte è proprio Mi, che ne ha eletti sette. Area ne ha sei, quattro Unicost, due Md. A cui si aggiungono un indipendente e i due membri di diritto, il pg della Cassazione Luigi Salvato (Unicost) e il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, vicino alla sinistra. Serve un nome autorevole che convinca Mi: Giorgia Meloni sembra voler puntare sul un ex An, il penalista calabrese Giuseppe Valentino, Forza Italia propone Pierantonio Zanettin e Francesco Paolo Sisto. L'accordo tra toghe sembra ormai impossibile, vista la durezza della missiva: «Md profetizza una lunga stagione di resistenza costituzionale, Area critica la politica migratoria. Un simile approccio ideologico ci riporta indietro a un passato che si vuole dimenticare», scrive Mi, quando «la magistratura era vista dai cittadini come politicizzata». Anche la sinistra non si è ancora ripresa dallo choc della sconfitta, e lo si capisce dal nervosismo con cui su Twitter la vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia Pd Anna Rossomando commenta la commissione d'inchiesta sulla magistratura proposta da Pietro Pittalis di Forza Italia. «Un evergreen, un eterno gioco dell'oca che ti riporta indietro di 30 anni». Di certo, non basta un tweet a ridare alle toghe la credibilità perduta dopo gli scandali Eni, Storari-Davigo e Palamara, soprattutto viste le continue interferenze delle correnti rispetto ai legittimi piani del governo che il Csm uscente in regime di prorogatio ha prodotto (vedi lo scontro sulle «pagelle» ai magistrati), indispettendo il capo dello Stato Sergio Mattarella, che ha messo nero su bianco il suo disappunto.
«La situazione è fluida, ma serve altro tempo perché il clima deve assestarsi», commenta al Giornale una fonte vicina a un ex membro del Csm. Le prossime due settimane saranno decisive. Se sarà fumata bianca vedremo, ma la carne al fuoco è già troppa: la riforma firmata dall'ex Guardasigilli Marta Cartabia (data in corsa al Csm in quota Pd), la separazione delle carriere, ma anche le modifiche all'ergastolo ostativo e soprattutto un Pnrr da rispettare. «La magistratura non è assolutamente in grado di affrontare l'impatto devastante della Cartabia, estremamente complessa e corposa», dice Dario Grohmann, già Pg in Corte d'Appello a Trieste. Ma il Pnrr pretende dal 2023 una durata dei processi civili ridotta del 40% e giudizi penali tagliati del 25%. Impossibile con questa fame di magistrati (ne mancano 1.859 sui 10.771 previsti in organico), tanto il Guardasigilli Carlo Nordio potrebbe far entrare subito in servizio i vincitori dell'ultimo concorso.
Quella tentazione di raggiungere la giustizia sociale per via giudiziaria. Non solo “torsione finalistica”, il male della nostra giustizia è dato anche dalla sua tentazione “politica”. E così la magistratura ha messo nel mirino anche i beneficiari di ricchezze illecite. Alessandro Barbano su Libero Quotidiano il 26 ottobre 2022
Non si può raccontare la crisi della giustizia fermandosi all’evoluzione del processo penale. Mi concedo questo spunto critico, partecipando al dibattito aperto sul dubbio dagli interventi di due maestri del diritto, come Giorgio Spangher e Giovanni Fiandaca. Non perché abbia l’ardire o la competenza per mettere in discussione tesi così autorevolmente rappresentate, ma perché voglio approfittare del mio punto di vista metodologicamente «ignorante» per riportare la discussione al rapporto tra il cittadino e la potestà punitiva dello Stato. Sono convinto che il rischio di un’analisi limitata al processo, cioè alle categorie del penale propriamente dette, è quello di sottovalutare il dilagare del punitivismo nella democrazia italiana, in azioni ed effetti che debordano ampiamente dagli argini formali della procedura.
La tesi dei due insigni giuristi è che il processo ha subito una «torsione finalistica» , spostando il suo target dall’accertamento del reato al contrasto del fenomeno criminale, alterandone la sua originaria natura liberale, e offrendosi come braccio armato a una politica mossa da pulsioni securitarie. In nome dell’efficientismo, dell’economicità e della compressione temporale, il risultato del processo ha fatto strame del principio di tipicità legale delle incriminazioni, fagocitando le categorie sostanziali dentro una «processualizzazione» in cui sfuma, fino svanire, il rapporto tra l’accertamento penale e la verità ontologica dei fatti. È specchio di questa distorsione l’eclissi dei «reati che offendono beni afferrabili» a vantaggio di fattispecie centrate su una fenomenologia sociale giudicata moralmente riprovevole, a prescindere dalla sua offensività giuridica.
La seconda conseguenza di questa torsione finalistica è la centralità dell’indagine come strumento esplorativo e pervasivo di tutela sociale, connesso a tre funzioni che la giustizia ha ricevuto in delega dalla politica, e che Giovanni Fiandaca riassume nel «controllo di legalità» a tutto campo sull’attività dei pubblici poteri, nella difesa della democrazia dalle minacce della criminalità e nel rinnovamento e nella moralizzazione della classe dirigente e della società. All’analisi ineccepibile dei due prestigiosi maestri qui sintetizzata, aggiungo solo una considerazione, per così dire, a posteriori: un rito accusatorio incompiuto, insediato in un sistema ordinamentale che rinunci alla separazione delle carriere, e in un sistema magistratuale geneticamente idiosincratico rispetto all’idea di una parità tra accusa e difesa, non può che approdare a una verità processuale che coincida con una verità sfigurata.
Nessun giudizio che cerchi la prova nella dialettica tra le parti può prescindere da una terzietà radicale del giudicante. Che non riguardi solo la sua funzione nel processo, e neanche l’inquadramento nell’ordinamento, ma il rapporto direi sacrale del giudice con la protezione dell’innocente, la sua inattaccabile indifferenza alle domande di giustizia dell’opinione pubblica, la responsabilità di sostenere il senso del limite che il sistema accusatorio porta con sé, e tra questo l’idea che un colpevole possa anche farla franca perché le indagini sono state condotte male.
Ma non è solo il processo propriamente detto la sede di «corruzione» della giustizia, quanto le sue duplicazioni speciali, che si sono riprodotte dentro e fuori i confini del penale, portando a spasso il punitivismo nella democrazia italiana. E tra queste la legislazione antimafia, storica amnesia del dibattito pubblico. È qui che, alle tre deleghe della politica alla magistratura, indicate da Giovanni Fiandaca, se ne aggiunge una quarta, ancora più decisiva: e cioè la funzione di riscatto sociale e di perseguimento di quell’uguaglianza sostanziale che la Costituzione prescrive alla democrazia nel secondo comma dell’articolo 3.
E che la giustizia di prevenzione s’incarica di realizzare, mettendo al centro del suo radar non più i colpevoli, ma i beneficiari di ricchezze ingiuste, che si tratti di mafiosi o di corrotti, o più semplicemente di terzi in qualche modo coinvolti con i primi a prescindere da una loro responsabilità penale, e perfino di ostaggi del ricatto mafioso in quanto pagatori del cosiddetto pizzo. La loro colpa non è verso lo Stato o verso la comunità, e neanche verso le vittime dei reati commessi, spesso neanche provati o ipotizzati, ma prima di tutto verso la storia.
Il fatto che le confische non siano considerate sanzioni, ma piuttosto provvedimenti penali sui generis, con un artificio incomprensibile a qualunque cittadino di buon senso, non ci esime dall’analizzare l’enorme afflittività che scaricano sulla democrazia e la sua giustificazione. Ne fornisce un compendio ideologicamente chiaro la sentenza 24/ 2019 con cui la Consulta riconosce e assegna alla confisca una natura «ripristinatoria».
L’ablazione dei beni costituisce, secondo la Corte, «non già una sanzione, ma piuttosto la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione, la quale determina un vizio genetico nella costituzione dello stesso diritto di proprietà in capo a chi ne abbia acquisito la materiale disponibilità, risultando sin troppo ovvio che la funzione sociale della proprietà privata possa essere assolta solo all’indeclinabile condizione che il suo acquisto sia conforme alle regole dell’ordinamento giuridico.
In presenza, insomma, di una ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato attraverso una condotta illecita, il sequestro e la confisca del bene medesimo – dice ancora la Corte – non hanno lo scopo di punire il soggetto per la propria condotta, bensì, più semplicemente, quello di far venir meno il rapporto di fatto del soggetto con il bene, dal momento che tale rapporto si è costituito in maniera non conforme all’ordinamento giuridico, o comunque di far sì che venga neutralizzato quell’arricchimento di cui il soggetto, se non fosse stata compiuta l’attività criminosa presupposta, non potrebbe godere».
Come si può ignorare che la lotta all’arricchimento illecito sia stata ufficialmente codificata dal Giudice delle Leggi come uno degli obiettivi del sistema penale, ancorché sui generis? E come ignorare che questo sistema sui generis prescinda dalle garanzie del processo penale ordinario? Tanto da far sostenere alla Corte di Cassazione (V Sez. Pen. n. 49153/ 2019) che, «in tema di misure di prevenzione, l’assoluzione del proposto dal reato associativo non comporta l’automatica esclusione della pericolosità sociale dello stesso, in quanto, in ragione dell’autonomia del processo di prevenzione rispetto a quello penale, il giudice chiamato ad applicare la misura può avvalersi di un complesso di elementi indiziari, anche attinti dallo stesso processo penale conclusosi con l’assoluzione» .
Significa – ed è norma nella prassi – che il giudice della prevenzione può scremare dal processo penale gli indizi di colpevolezza da quelli di innocenza, prevalenti, che hanno concorso a determinare l’assoluzione, e utilizzare ai fini della decisione sulla confisca solo i primi, cioè i più utili a raggiungere il risultato. E ancora: si può ignorare che «nel giudizio di prevenzione – ( V Sez. Pen. n. 33149/ 2018) – la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’articolo 192, né le chiamate in correità o in reità devono essere necessariamente sorrette da riscontri individualizzanti» ? Vuol dire che ai fini delle confische la prova non deve essere grave. Quindi può essere irrilevante? Non deve essere precisa. Quindi può anche essere sfocata, tanto da non identificare con chiarezza i soggetti né i fatti a giustificazione di una pericolosità dei primi? Non deve essere concordante.
Quindi può tranquillamente essere dissonante o in contrapposizione con altri elementi che abbiano portato il giudice penale a confutarla, elementi che in sede di giudizio di prevenzione si può far finta di non vedere? A ulteriore precisazione di ciò di cui si parla, la Corte aggiunge che le accuse dei pentiti non devono essere necessariamente confermate. Anche se la conferma non esiste, o se esiste una precisa smentita, le loro accuse possono essere espunte dal processo penale e impiegate, per quello che servono, nel processo di prevenzione? È accaduto, accade, accadrà ancora in tanti di quei tribunali di territorio dove l’evocazione della mafiosità fa scattare un riflesso pavloviano.
Tutto questo per dire che la «torsione finalistica», di cui parlano Spangher e Fiandaca, arriva al punto di perseguire un obiettivo politico di giustizia sociale attraverso gli scarti del diritto penale, cioè quegli indizi o semplicemente sospetti, illazioni, congetture, pregiudizi che in nessuno procedimento ordinario potrebbero mai diventare prova e che invece bastano a togliere perfino le scarpe a cittadini mai indagati, o piuttosto assolti. Se vogliamo comprendere a pieno che cosa è diventata la giustizia in Italia, dobbiamo partire da qui.
Estratto dall'articolo di Liana Milella per “la Repubblica” il 20 agosto 2022.
E alla fine ne restò solo uno. Un solo magistrato, potenzialmente ancora attivo, candidato alle politiche. E si tratta di un caso assai particolare visto che il renzianissimo Cosimo Maria Ferri, che correrà capolista in Liguria, ma anche nel maggioritario a Massa Carrara e Viareggio, non veste la toga dal 2013, quando diventò sottosegretario alla Giustizia. Ma tant' è.
Se non fosse per via della legge Cartabia sul Csm, sul punto fotocopia della Bonafede, Ferri potrebbe rimettersi a fare il giudice. Ma quella legge ha estinto la razza dei magistrati in servizio che si candidano.
«Mai più casi Maresca» disse l'8 dicembre Cartabia parlando alla festa di Atreju. Detto fatto. Perché le toghe che correranno saranno solo quelle già in pensione, Federico Cafiero De Raho e Roberto Scarpinato con il M5S, Carlo Nordio con FdI, Simonetta Matone con la Lega. Mentre al Csm non è giunta neppure una richiesta di magistrati "attivi". […]
Ferri non aveva bisogno di chiedere nulla, perché la sua aspettativa vale fino al 13 ottobre, quando si riuniranno le nuove Camere. Ma l'eventualità è del tutto ipotetica. Perché in realtà la razza dei "magistrati in politica" è stata estinta da una duplice pressione.
La prima è tecnica: la legge Cartabia-Bonafede vieta per sempre il ritorno "attivo" in magistratura una volta che l'incarico è terminato. E anche chi corre, ma non viene eletto, deve restare in freezer per tre anni. La seconda pressione è tutta politica: si è dissolto il mito del magistrato che appende temporaneamente al chiodo la toga per tuffarsi nella politica. Tant' è che vanno bene i magistrati in pensione.
Nel 2008 i giudici in Parlamento erano diciotto. Nel 2013 si ridussero a nove. Nel 2018 ne sopravvissero due. Ferri adesso rilancia. Giusi Bartolozzi, ex Forza Italia poi nel Misto, rinuncia. Il Pd, che in Europa conta su Franco Roberti, non candida Piero Grasso. E si spegne la suggestione che aveva fatto proprio del Pd il partito delle toghe. Da Giuseppe Ayala a Gerardo D'Ambrosio, a Gianrico Carofiglio, ad Anna Finocchiaro, ad Elvio Fassone, ad Alberto Maritati, a Felice Casson e Donatella Ferranti. Ma quelle erano tutt' altre stagioni.
Palamara ricostruisce i rapporti vischiosi fra il Pd e la magistratura: ecco come funziona. Paolo Lami il 20 Agosto 2022 su Il Secolo d'Italia.
Rapporti fra magistratura e Pd, relazioni tossiche fra giornalisti e potere politico-giudiziario, messaggi trasversali spediti alla controparte attraverso convegni dove sono piu le toghe che il pubblico in sala: Luca Palamara racconta in una imbarazzante (per il Pd) intervista i trattamenti in guanti bianchi che le Procure hanno riservato agli uomini del Nazareno.
L’ex-presidente dell’Anm può ragionevolmente essere definito, come fa La Verità, “uno dei massimi esperti” in materia di rapporti con la politica, di sinistra e del Pd particolare.
Palamara, la cui moglie lavora alla Regione Lazio, aveva rapporti strettissimi con Zingaretti. Indimenticabili i suoi affettuosi messaggi Whatsapp scambiati con il presidente della Regione.
“Siamo tutti con te, un abbraccio”, scriveva con entusiasmo contagioso il pm al piddino. E, poi, ancora più coinvolto emotivamente, rincarava: “Grande Nicola, grande vittoria! Ripartiamo da questo!”
In queste ore in giro per presentare il suo secondo libro sul Sistema e in corsa per una candidatura in Parlamento Palamara rispolvera le faccende giudiziarie imbarazzanti del Pd quando, per esempio, venne travolto – prima di tutti gli altri – nello scandalo soprannominato con incauta fantasia dall’Espresso, “Roma Capitale”.
Un’etichetta che finì via via appiccicata come un bollino di garanzia sui vari esponenti del Pd romano che finirono travolti da quell’inchiesta. Che, letteralmente, decapitò il Pd romano e i suoi ras.
Incalzato da La Verità, Palamara ricorda l’incontro notturno con Zingaretti per parlare di Venafro e dell’inchiesta Mafia capitale.
«Posso confermarle che in quella occasione l’incontro aveva a oggetto le dimissioni di Venafro, ma, come ho già detto, parlerò di questi fatti davanti all’autorità giudiziaria».
“Lei consigliò quelle dimissioni a Zingaretti?” chiede incuriosito il cronista.
«Più che consigliarle, mi sembravano a quel punto inevitabili».
E qui, inevitabilmente, arriva la domanda delle cinque pistole: “Prima di dare quel suggerimento si era consultato con l’allora procuratore Giuseppe Pignatone o con qualcun altro?”
“Diciamo – risponde cauto Palamara – che ne avevo parlato in Procura».
Zingaretti e Palamara si erano visti pochi giorni prima al Csm. “L’argomento era lo stesso?”
“Sì – ammette Palamara. – L’inchiesta Mafia capitale, che coinvolgeva anche alcuni dem, aveva creato fibrillazione nei rapporti tra una parte del Pd, quella che comandava, e i vertici della Procura di Roma.
E io ho avuto modo di discutere di questi aspetti sia con il presidente Zingaretti sia con Pignatone anche nei giorni precedenti alla partecipazione di quest’ultimo a una conferenza del Pd”.
Una conferenza che fece scalpore proprio per la presenza del capo della Procura della Capitale. In molti rimasero allibiti per quella scesa in campo ufficiale di Pignatone. E per i tempi della vicenda visto che, poche ore dopo, sarebbe deflagrata l’inchiesta che vedeva indagati anche uomini del Pd.
“In quel caso l’invito” a partecipare al convegno “fu rivolto direttamente a Pignatone – ricostruisce Palamara – da qualcuno del partito di Roma. Io rimasi colpito da quella partecipazione visto che il procuratore era restio a prendere parte a eventi pubblici di questo tipo a cui era più facile trovare esponenti della sinistra giudiziaria adusi ad esporsi”.
Sembrava quasi un segnale da mandare all’esterno a favore del partito che stava per essere travolto con accuse gravissime di mafia. Era così?
«Io lo percepii in quel modo».
Ma nella storia dei rapporti vischiosi fra magistratura e Pd questo non è certo l’unico caso. E forse neanche il più eclatante.
La Verità ricorda un’altra vicenda spinosa e imbarazzante per il Pd, l’inchiesta della Procura di Perugia che costrinse alle dimissioni l’ex-presidente (Pd) della Regione Umbria Catiuscia Marini.
Anche in quel caso si parlò di pressioni di Zingaretti e del tesoriere Walter Verini.
E qui Palamara si addentra nei “meccanismi del Sistema”. L’ex-pm romano, già segretario dell’Anm ed ex-consigliere del Csm la spiega così: “Arriva un uccellino che ti consiglia su come muoverti. Però direi: occhio, perché c’è sempre in agguato un cecchino che può colpirti alle spalle”.
Cosa vuol dire Palamara? “Se si porta la magistratura in un campo di contrapposizione politica tutti rischiano, nessuno escluso”.
L’ex-magistrato romano che ha messo a nudo le porcate delle toghe svela anche la data del big bang del buco nero magistratura-Pd romano.
“Ricordo che all’inizio della mia esperienza come presidente dell’Anm partecipai a un convegno organizzato dal Partito democratico di cui era segretario Walter Veltroni in via di Ripetta a Roma. Nel comitato organizzatore formato da parlamentari del Pd c’erano più magistrati che pubblico in aula. Ricordo un Veltroni visibilmente imbarazzato”.
Ma la Capitale così vicina ai luoghi del potere politico è un caso a parte? Secondo Palamara no: “Nel capoluogo lombardo e anche a Roma procuratori di peso come Edmondo Bruti Liberati o Pignatone gestissero l’azione penale anche politicamente».
Palamara è testimone degli incontri di Pignatone con Matteo Renzi e l’ex sottosegretario Luca Lotti alla vigilia dell’inchiesta Consip. Ma non solo.
“Sono anche testimone -ricorda l’ex-pm – di un incontro sulla terrazza dell’hotel Bernini di Roma in concomitanza con l’inchiesta Mafia capitale in cui l’allora neonominato direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana incontrò Pignatone, l’aggiunto Michele Prestipino e il sottoscritto. Quel pranzo fu organizzato da Sergio Crippa, manager di Italcementi e durante l’incontro vennero illustrati ai giornalisti gli sviluppi dell’indagine”.
Palamara affronta anche la questione dei magistrati che andranno in Parlamento, come il procuratore uscente dell’Antimafia Federico Cafiero de Raho o Roberto Scarpinato.
“De Raho la attese per due ore con la scorta in piazza Esedra. Di che cosa dovevate discutere?”, chiede La Verità.
“In quel periodo era in ballo un incarico a presidente di sezione al Tribunale di Napoli per cui era in corsa la moglie”.
E Scarpinato?
“Mi farebbe piacere – lascia cadere Palamara – che chiarisse la storia della documentazione trovata a casa di Antonello Montante (l’ex-paladino dell’Antimafia condannato dalla Corte di appello di Caltanissetta ad otto anni per corruzione e associazione per delinquere, ndr), al quale all’epoca moltissimi magistrati, compreso lui, si rivolgevano per fare carriera”.
Quanto all’ex-collega Carlo Nordio che dovrebbe essere candidato da Fratelli d’Italia, Palamara riconosce e ammette, senza difficoltà che “è sempre stato attaccato dalla sinistra giudiziaria, ma è uno di quei magistrati che oggi devo riconoscere, più di tanti altri, è titolato a parlare non avendo mai fatto parte del sistema di spartizione correntizia e non ha mai fatto il questuante per questa o quella nomina”.
Giacomo Amadori per “la Verità” il 20 agosto 2022.
La nostra inchiesta sulle presunte pressioni esercitate dall'ex segretario del Pd Nicola Zingaretti per far dimettere il suo ex capo di gabinetto Maurizio Venafro e l'ex presidente dell'Umbria Catiuscia Marini, pur trascurata dai siti o dagli altri giornali, non è sfuggita alle rassegne stampa e così il supposto patto occulto tra Pd e Procure è diventato tema di discussione tra politici e magistrati.
Uno dei massimi esperti in materia è l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara, in queste ore in giro per l'Italia a presentare il suo secondo libro sul Sistema e in corsa per una candidatura in Parlamento. Nel nostro caso è anche un testimone diretto.
Palamara, che cosa ci dice dell'incontro notturno con Zingaretti per parlare di Venafro e dell'inchiesta Mafia capitale?
«Posso confermarle che in quella occasione l'incontro aveva a oggetto le dimissioni di Venafro, ma, come ho già detto, parlerò di questi fatti davanti all'autorità giudiziaria».
Lei consigliò quelle dimissioni a Zingaretti?
«Più che consigliarle, mi sembravano a quel punto inevitabili».
Prima di dare quel suggerimento si era consultato con l'allora procuratore Giuseppe Pignatone o con qualcun altro?
«Diciamo che ne avevo parlato in Procura».
Lei aveva visto il governatore del Lazio pochi giorni prima al Csm. L'argomento era lo stesso?
«Sì. L'inchiesta Mafia capitale, che coinvolgeva anche alcuni dem, aveva creato fibrillazione nei rapporti tra una parte del Pd, quella che comandava, e i vertici della Procura di Roma.
E io ho avuto modo di discutere di questi aspetti sia con il presidente Zingaretti sia con Pignatone anche nei giorni precedenti alla partecipazione di quest' ultimo a una conferenza del Pd».
Fece lei da trait d'union per quel discusso intervento, tenuto poche ore prima dell'esplosione di un'inchiesta che vedeva indagati anche uomini del Pd?
«In quel caso l'invito fu rivolto direttamente a Pignatone da qualcuno del partito di Roma. Io rimasi colpito da quella partecipazione visto che il procuratore era restio a prendere parte a eventi pubblici di questo tipo a cui era più facile trovare esponenti della sinistra giudiziaria adusi ad esporsi».
Era un segnale da mandare all'esterno a favore del partito che stava per finire nella bufera?
«Io lo percepii in quel modo».
Un'inchiesta della Procura di Perugia ha costretto alle dimissioni l'ex presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini. Anche in quel caso sembra ci siano state pressioni di Zingaretti e del tesoriere Walter Verini. La sorprende?
«Normalmente i meccanismi del Sistema sono piuttosto simili. Arriva un uccellino che ti consiglia su come muoverti. Però direi: occhio, perché c'è sempre in agguato un cecchino che può colpirti alle spalle».
Vuol dire che non si può mai essere sicuri sino fondo dei rapporti costruiti con il mondo giudiziario?
«Se si porta la magistratura in un campo di contrapposizione politica tutti rischiano, nessuno escluso».
Che cos' altro ci può dire dei legami tra Pd e Procure? Quando sono cominciati?
«Ricordo che all'inizio della mia esperienza come Presidente dell'Anm partecipai a un convegno organizzato dal Partito democratico di cui era segretario Walter Veltroni in via di Ripetta a Roma. Nel comitato organizzatore formato da parlamentari del Pd c'erano più magistrati che pubblico in aula.
Ricordo un Veltroni visibilmente imbarazzato. Questa costanza di rapporti si riflette inevitabilmente sulle indagini. Matteo Renzi ha spiegato bene questo cortocircuito nel libro Il mostro a proposito della gestione politica dell'inchiesta Expo con Beppe Sala sindaco di Milano. È stata una vicenda emblematica di come nel capoluogo lombardo e anche a Roma procuratori di peso come Edmondo Bruti Liberati o Pignatone gestissero l'azione penale anche politicamente».
Lei è testimone degli incontri di Pignatone con Matteo Renzi e l'ex sottosegretario Luca Lotti alla vigilia dell'inchiesta Consip e di come sia stata gestita, in seguito, quella situazione
«Sì, ho vissuto direttamente quella stagione sia per quanto riguarda le indagini giudiziarie, sia per quanto riguarda le notizie che vennero pubblicate in prima battuta da alcuni organi di informazione».
A che «scoop» si riferisce?
«I due grandi giornali che criticavano l'operato del pm Henry John Woodcock e dei carabinieri del Noe guidati dal colonnello Sergio De Caprio e dal capitano Giampaolo Scafarto chiesero il verbale dell'audizione della procuratrice Lucia Musti, molto critica con i militari».
La procuratrice li descriveva, almeno così scrissero giornali, come in caccia di Renzi. E lei diede loro quel documento riservato?
«Venne pubblicato il giorno dopo. Non aggiungo altro».
Sta raccontando per la prima volta, con un esempio concreto, come funzioni il rapporto tra i vertici delle Procure e i giornaloni sempre pronti ad attaccare i leader di destra e a difendere quelli di sinistra.
«È per questo che voglio dare il mio contributo in politica. Io sono anche testimone di un incontro sulla terrazza dell'hotel Bernini di Roma in concomitanza con l'inchiesta Mafia capitale in cui l'allora neonominato direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana incontrò Pignatone, l'aggiunto Michele Prestipino e il sottoscritto. Quel pranzo fu organizzato da Sergio Crippa, manager di Italcementi e durante l'incontro vennero illustrati ai giornalisti gli sviluppi dell'indagine».
Ha vissuto in prima linea il periodo del renzismo.
«Mi ricordo più di una cena con Pignatone e Lotti. L'ex sottosegretario non era ancora indagato per Consip. Quegli incontri servivano a creare un clima di collaborazione tra Palazzo Chigi e la Procura di Roma».
Ma poi Lotti è stato iscritto sul registro degli indagati: perché lei in un'intercettazione si lamenta di essere rimasto con il cerino in mano?
«Perché negli appuntamenti conviviali si era creata una fiducia che poi è stata tradita con la richiesta di rinvio a giudizio. Se io avessi capito la piega che stava prendendo l'inchiesta Consip avrei certamente evitato di far incontrare Pignatone con Lotti o con il piddino Giovanni Legnini, che nel suo ruolo istituzionale di vicepresidente del Csm, era interessato a comprendere quanto accadeva nella Procura di Roma.
A Pignatone, con il quale ho sempre avuto un rapporto di stima, indubbiamente deve essere riconosciuta una spiccata capacità di interlocuzione anche politica che abilmente ha messo in campo durante la sua esperienza romana. Ma ci sono state delle indagini che hanno creato grande imbarazzo all'interno dell'ufficio».
Torniamo alle cene...
«Certamente in tali serate si affrontavano tematiche molto sentite in ambito politico e giudiziario».
Per esempio?
«Si discutevano questioni come l'età pensionabile dei magistrati che è la grande merce di scambio tra giudici e politici».
Che cosa intende?
«Che normalmente quando si arriva all'età pensionabile a nessuno piace lasciare il proprio posto e le strade sono due: o ottenere una proroga e rimanere in servizio oppure ottenere un incarico politico».
Mi fa un esempio?
«Quello che è accaduto con gli ultimi procuratori Antimafia che sono andati in pensione. Sembra quasi che quella carica abbia inglobato anche un futuro in politica, quasi sempre nel Pd».
Come fa la magistratura a entrare nella stanza dei bottoni della politica?
«Lo fa sia nel momento delle candidature che quando vengono formate le strutture ministeriali. La gag del ministro Alfonso Bonafede che propone un posto al Dap a Nino Di Matteo e poi ci ripensa è emblematica. Esemplare è anche il caso di Giovanni Melillo, valoroso magistrato della Procura di Napoli, oggi a capo della Dna: venne chiamato al ministero della Giustizia a fare da capo di gabinetto del Guardasigilli Andrea Orlando, che era stato commissario del Pd a Napoli».
In questi giorni si leggono nomi di magistrati che andranno in Parlamento, come il procuratore uscente dell'Antimafia Federico Cafiero de Raho. Con lui condivise una discussa chat.
«Sono contento che persino tra i 5 stelle finalmente abbiano compreso il bluff di quelle conversazioni che evidentemente non intralciano più le carriere, dopo che al Csm sono state utilizzate solo per colpire alcuni».
De Raho la attese per due ore con la scorta in piazza Esedra. Di che cosa dovevate discutere?
«In quel periodo era in ballo un incarico a presidente di sezione al Tribunale di Napoli per cui era in corsa la moglie».
In una cena parlaste anche del ruolo di Di Matteo dentro alla Dna?
«In quel momento Di Matteo era considerato ingombrante perché poteva oscurare il ruolo di De Raho. Non voglio pensare che i grillini abbiano rinnegato con questa candidatura Di Matteo, nei confronti del quale, a iniziare da me, c'è stato un pregiudizio che lui, con il suo ottimo lavoro al Csm, devo ammetterlo, ha smentito».
E di Roberto Scarpinato che cosa ci dice?
«Mi farebbe piacere che chiarisse la storia della documentazione trovata a casa di Antonello Montante (l'ex paladino dell'Antimafia condannato dalla Corte di appello di Caltanissetta ad otto anni per corruzione e associazione per delinquere, ndr), al quale all'epoca moltissimi magistrati, compreso lui, si rivolgevano per fare carriera».
In corsa c'è anche Carlo Nordio.
«È sempre stato attaccato dalla sinistra giudiziaria, ma è uno di quei magistrati che oggi devo riconoscere, più di tanti altri, è titolato a parlare non avendo mai fatto parte del sistema di spartizione correntizia e non ha mai fatto il questuante per questa o quella nomina».
E lei resterà al palo o verrà candidato? I partiti sembrano avere dubbi sul suo nome perché è imputato a Perugia.
«Oggi ho ritirato il certificato del casellario giudiziale e c'è scritto "nulla". Questa è la mia risposta a chi mi sta inserendo negli elenchi degli impresentabili sui giornali e poi fa scrivere magistrati sottoposti a procedimento penale come Piercamillo Davigo. In tutte le liste ci sono degli imputati, anche perché ormai tutti i partiti si professano garantisti, ma l'unico per cui non vale questo principio rischio di essere io sebbene non abbia neppure una condanna in primo grado».
Focus sui candidati con la toga. Il caso De Raho e la tristezza della politica che rincorre i pm: non è invasione di poteri dello Stato? Riccardo Polidoro su Il Riformista il 21 Agosto 2022
A circa un mese dalle elezioni, i partiti stanno presentando le liste dei candidati. Nonostante la riduzione del numero dei parlamentari eleggibili, resta la consuetudine d’indicare personalità della società civile all’apice di notorietà. La politica rinnega se stessa e preferisce lasciare fuori iscritti di rilievo, pur di attirare l’attenzione dell’elettore.
Non potevano mancare, dopo l’emergenza sanitaria, medici e virologi, che costituiscono quest’anno la vera novità. Resta la tradizione d’inserire nomi di magistrati, ancora in servizio ovvero in pensione per raggiunti limiti di età. Sui primi, abbiamo, già in passato, manifestato ampio dissenso alle così dette “porte girevoli””, per innumerevoli ragioni. Tra queste la primaria esigenza di non apparire mai schierati con l’una o l’altra parte politica; l’importanza e l’unicità del lavoro svolto, che richiederebbe ampia concentrazione perché in gioco c’è la vita di persone e, spesso, il futuro di città, regioni e dello stesso Paese.
La città di Napoli, ne è un esempio chiarissimo. Il peso di tale responsabilità dovrebbe allontanare da altre attività, per quanto ritenute nobili, anche perché la coperta del processo penale è sempre più corta e nelle aule si rabbrividisce dalla vergogna per quanto accade. Allo stesso tempo, non si abbandona la nave in tempesta, per comode collocazioni in ministeri, ritenendo con le proprie competenze di salvare il Paese, perché si fa solo un’invasione di campo e ciò che ancora più grave si entra a far parte di un altro potere dello Stato, passando da quello giudiziario a quello legislativo o esecutivo. Un salto doppio o triplo, con rientro nella precedente posizione, che non dovrebbe essere consentito. La separazione di tali poteri è un principio giuridico essenziale in uno Stato democratico.
La politica parcheggio dei procuratori nazionali antimafia, da Grasso a Roberti a Cafiero de Raho: adesso basta!
Poiché tutto ciò non è chiaro alla magistratura, ci auguriamo che presto quelle porte girevoli si blocchino del tutto, come da tempo chiedono le Camere Penali. Discorso del tutto diverso va fatto per i togati che, per raggiunti limiti di età, vanno in pensione ed aspirano ad altri ruoli. Non vi è dubbio che la loro esclusione da una possibile seconda vita, da svolgere in politica, rispetto ad altre categorie, sarebbe profondamente ingiusta. L’analisi, pertanto, va fatta non da tale punto di vista, ma da quello di coloro che offrono tali possibilità. Perché scegliere un magistrato settantenne, o ancora più anziano, per una competizione elettorale? Escludendo, tra l’altro, forze interne al proprio partito, che hanno lavorato per raggiungere gli obiettivi prefissati?
La risposta è una sola, le altre che vengono date sono alibi di copertura. Con l’inserimento del nome del magistrato si vuole garantire all’elettore inesperto la verginità di una lista, pura e proiettata verso una sicura governabilità del Paese. Il movimento 5 stelle ha ritenuto di candidare, inserendoli in posti di eleggibilità certa, ben due magistrati da pochissimo in pensione e provenienti dagli Uffici di Procura: l’ex Procuratore Generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e l’ex Procuratore Nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho. Quest’ultima candidatura ripercorre una strada già tracciata in passato, in quanto i due precedenti procuratori antimafia, Franco Roberti e Pietro Grasso, sono stati eletti rispettivamente nelle liste del Partito Democratico e di Liberi e Uguali.
Il primo è tutt’ora europarlamentare, il secondo è senatore, e, dal 2013 al 2018, addirittura è stato presidente del Senato. Federico Cafiero de Raho, ha concluso la sua attività di Procuratore Antimafia, lo scorso febbraio. Dopo un mese, nel marzo scorso, il ministro della cultura Dario Franceschini lo ha indicato come proprio rappresentante nel Consiglio di Amministrazione dell’Associazione Teatro Stabile della Città di Napoli, organismo di governo del Teatro Nazionale che gestisce il Teatro Mercadante e il Teatro San Ferdinando. Il mese successivo, in aprile, l’assemblea dei soci lo ha nominato Presidente. Egli, dunque, aveva scelto una seconda vita. Dalle indagini antimafia, alle problematiche organizzative e contabili di un Consiglio di Amministrazione in campo culturale. Dopo solo quattro mesi, all’ex magistrato viene offerta la poltrona, praticamente sicura in Parlamento, ed egli accetta, preparandosi ad una terza vita, quella politica. Non sappiamo se abbandonerà la seconda, offertagli, tra l’altro, da un partito oggi (ma chissà domani) diretto concorrente del suo.
Ora si potrà criticare tale scelta sotto molti punti di vista. In materia di competenze: prima investigatore, coordinatore nazionale antimafia, poi presidente di un Consiglio di Amministrazione di un teatro Stabile, poi aspirante senatore della Repubblica. In materia di conoscenze: per il ruolo ricoperto, ha avuto certamente accesso a dati e notizie che altri non conoscono ed inoltre ha coltivato una serie di rapporti interpersonali ad altri non consentiti. In materia di opportunità: il passaggio quasi senza interruzione da una poltrona ad un’altra. Tutte osservazioni più che corrette. Ma se l’uomo ritiene di non volersi fermare, di avere un enorme bagaglio culturale da poter ancora mettere al servizio del Paese, di volerlo fare non da cittadino, ma da protagonista, nella convinzione che le sue idee troveranno ampio consenso in Parlamento, nulla, al momento, possiamo fare se non indicare al medesimo alcuni punti che, riteniamo egli abbia valutato.
Il partito – ex movimento dell’apriscatole di tonno – che lo ha scelto, non è favorevole ai termovalorizzatori, mentre egli in più occasioni ha dichiarato che tali opere sono utili e sono uno dei mezzi per combattere la mafia. Oltre a questo palese e, certamente, non indifferente contrasto, molte delle affermazioni sulla materia di sua stretta competenza – la Giustizia – con cui dovrà confrontarsi con la dirigenza del partito, sono in palese contrasto con principi costituzionali: come l’idea che “certezza della pena” equivalga a “certezza del carcere”, ignorando che nella nostra Carta, la parola “carcere” non c’è e l’articolo 27 usa il plurale, quando si riferisce alle modalità di scontare la condanna.
Ed ancora, come non ricordare che, nel semplificare le fasi dei procedimenti penali, fu riferito che vi erano le indagini, poi il dibattimento ed infine la condanna. Si potrebbero evidenziare tanti altri temi, come il dolo che si trasforma in colpa, ma lo ribadiamo non è l’ex magistrato in pensione che va criticato, ma il sistema che, come in passato, consente questi immediati pericolosi passaggi di ruolo, senza mettere indispensabili limiti, almeno temporali, che garantirebbero alla comunità gli essenziali percorsi trasparenti, di cui il Paese ha sempre più bisogno. Riccardo Polidoro
Il procuratore capo di Catanzaro resta in panchina
Gratteri ‘panchinato’ dalla politica, a Scarpinato seggio e gloria: la beffa del ritorno in Calabria di Cafiero de Raho. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Agosto 2022
Sprizza soddisfazione, immaginiamo, il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, alla notizia di questi due arrivi così prestigiosi e importanti proprio nella sua terra, a casa sua quasi, con la veste di rappresentanti del popolo in Parlamento. Roberto Scarpinato nella camera alta, il Senato della repubblica, e Federico Cafiero de Raho alla Camera. Tutti e due candidati come capolista dal Movimento cinque stelle in Calabria, tutti e due sicuramente eletti visto che, come si conviene per personaggi di peso, i due ex alti magistrati hanno anche il loro sacrosanto paracadute, uno nell’Emilia rossa, l’altro nella Sicilia dal cui Palazzo di giustizia e dal ruolo di procuratore della corte d’appello è da poco uscito.
Immaginiamo il povero Gratteri solitario nel suo ufficio a domandarsi “dove ho sbagliato? Perché loro sì e io no?”. Con la magra consolazione che tra sei anni, quando anche lui avrà compiuto i settanta e sarà maturo per la pensione, potrà percorrere la via della politica. Ammesso che la cosa gli interessi. Certo, fare il ministro di Giustizia sarebbe stato ben altro, cari Federico e Roberto! E poi, diciamo la verità, come storia, intelligenza e preparazione, quel Matteo Renzi che l’avrebbe voluto nel suo governo come Guardasigilli nel 2014, quando Gratteri era un semplice aggiunto di quel procuratore capo di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho che si accinge a tornare in Calabria da deputato, ne vale mille rispetto all’avvocato del popolo Giuseppe Conte. Questo lo pensano in tanti.
Anche se, e pure questo lo pensano in tanti, il Renzi di allora era presidente del Consiglio e leader di un partito che alle europee aveva raggiunto oltre undici milioni di voti, con due milioni di gradimenti in più rispetto al passato, proprio nelle stesse consultazioni in cui il movimento di Grillo ne aveva persi tre milioni. E altro conto è essere capo di un partitino costretto a mettersi con l’odiato leader di un altro piccolino per raggiungere il quorum alle elezioni. Resta il fatto che oggi la candidatura per Nicola Gratteri non c’è. Ed è difficile che, qualora il procuratore avesse rifiutato un’offerta, non lo si sarebbe saputo. Non dalla sua bocca, ne conosciamo la proverbiale riservatezza. Ma dai numerosi ambienti dei suoi laudatores, soprattutto nel mondo dell’informazione, qualche spiffero sarebbe uscito. E magari qualcuno dei vari comitati che periodicamente organizzano manifestazioni, pur con scarso successo di presenze numeriche, da Milano a Catanzaro, avrebbe potuto cogliere l’occasione per esibire in positivo il suo gran rifiuto.
Che poi vorrebbe anche dire rispetto della divisione tra i poteri, cioè quella specie di araba fenice di cui non ci si ricorda neppure l’esistenza. Basterebbe contare il numero di toghe che si annidano nei vari ministeri, dove contribuiscono all’attività dell’esecutivo come a quella del potere legislativo. Ma il problema è che questi alti magistrati, e Nicola Gratteri certo non si sottrarrebbe a una orgogliosa declaratoria in questo stile, non appena annusano il profumo di un nuovo potere, si sentono in dovere di chiarire che entrano in Parlamento con la toga addosso, per continuare il lavoro iniziato. Quindi facevano politica anche prima? La domanda non è così strana, anche se sarebbe respinta con sdegno, qualora qualcuno osasse porla.
Poi ci sono le questioni di carattere. Gratteri pare sempre un cavallo imbizzarrito e indomabile. E ora si ritrova anche con la carriera un po’ bruciacchiata, perché gli ritorna in patria quel Cafiero de Raho che fu il suo capo a Reggio Calabria tra il 2013 e il 2016, quando lui era l’aggiunto e l’altro il suo dirigente. E oltre a tutto senza neanche aver avuto la soddisfazione di succedergli alla Direzione Nazionale antimafia, dopo il suo pensionamento. Luogo di mille desideri, quello, infatti era andata frustrata anche l’ambizione dell’altro candidato in Calabria, Roberto Scarpinato che, nel 2017 era stato costretto a ritirare la propria candidatura un attimo prima che il plenum del Csm votasse all’unanimità proprio Cafiero de Raho.
Oggi i due candidati piombano come falchi, con i loro vestiti da parlamentari, laddove il procuratore di Catanzaro ritiene di essere il detentore incontrastato del potere di combattere la ‘ndrangheta, in pratica l’ultima forma di mafia esistente. E le dichiarazioni dei due candidati non promettono niente di buono. Sono destinati ambedue all’opposizione, lontani dal potere del governo e sulla sponda opposta di un possibile ministro di Giustizia come Carlo Nordio. Ma come parlamentari il naso in quel di Calabria potrebbero andarlo a mettere. Più morbido l’approccio del futuro deputato Cafiero de Raho, che ha già scoperto la propria anima militante del movimento di Grillo, pronto persino a rinnegare le proprie dichiarazioni favorevoli ai termovalorizzatori.
Ma altrettanto pronto a scattare sull’attenti nel dichiarare a Repubblica di voler, anche da deputato “continuare a battere criminalità e corruzione”. Strano che ignori come quello non sia compito del Parlamento, così come non lo è della magistratura. Più aggressivo Scarpinato, che non riesce ad abbandonare quel processo clamorosamente perso in quel di Palermo. E all’edizione di Repubblica di quella città spiega “Mi candido contro il ritorno dei patti tra Stato e mafia”. Tempi duri, caro Nicola Gratteri. In fondo lei è il più simpatico.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Questione di opportunità. La politica parcheggio dei procuratori nazionali antimafia, da Grasso a Roberti a Cafiero de Raho: adesso basta! Viviana Lanza su Il Riformista il 18 Agosto 2022
In principio fu Pietro Grasso, poi Franco Roberti ed ora Federico Cafiero De Raho. Il salto dalla Procura nazionale antimafia alla politica nazionale sembra essere diventato la prassi. Tutto normale? No, se si pensa che il procuratore nazionale antimafia è il capo di un ufficio che coordina indagini e informazioni a livello nazionale, che fornisce al Parlamento le informative, che viene audito nelle Commissioni sulle varie proposte di riforma.
No, se si vuole che agli occhi dell’opinione pubblica la Procura nazionale antimafia non perda (se non l’ha già persa) l’immagine di terzietà e indipendenza che deve avere. No, se diventa lo specchio di una politica che per apparire credibile sceglie di puntare su ex magistrati. È un dubbio che avremmo voluto evitare di avere quello che spinge a domandarsi se l’Antimafia serva solo a combattere la criminalità organizzata o anche, indirettamente, a fare carriera politica. È una questione di opportunità quella che si pone adesso e riguarda i magistrati ex fuori ruolo. È una questione che si ripropone ora che il nome di Federico Cafiero De Raho, capo della Procura nazionale antimafia in pensione da maggio, è nel “listino” del Movimento Cinque Stelle.
«Una nomina che potrebbe presupporre rapporti pregressi, a meno che Giuseppe Conte non abbia chiesto in giro il numero di telefono di De Raho. Siamo al terzo procuratore su tre che, terminato il proprio ruolo, entra in politica», commenta l’avvocato Giorgio Varano, penalista e responsabile della comunicazione dell’Unione Camere Penali italiane. «Sui magistrati fuori ruolo facciamo riflessioni da anni, adesso si pone anche una questione relativa ai magistrati ex fuori ruolo – spiega Varano – Il procuratore nazionale antimafia ha accesso a tutte le indagini e le informative. Prescindendo dalla singola persona, è legittimo pensare anche, in un’ipotesi inversa, che difficilmente si potrebbe dire di no a un magistrato che ha avuto accesso a tante informazioni e poi chiede di essere candidato, si potrebbe verificare un condizionamento involontario. Penso che se un direttore dei servizi segreti si candidasse la cosa non verrebbe fatta passare sotto silenzio».
«Roberti e De Raho sono stati magistrati integerrimi ma qui la valutazione è politica – precisa Varano – , qui non si critica la persona né quello che un tempo è stato il magistrato, ma un meccanismo che tende, anche involontariamente, a costruire una candidatura. Ciò crea un grave danno di immagine della Procura nazionale». La questione è seria. Andrebbe valutata anche sul piano normativo. «Quella del procuratore nazionale antimafia è una carica delicatissima. Forse, per queste cariche così importanti, andrebbe introdotta una modifica normativa. Per cinque anni, per esempio, non dovrebbero poter ricoprire determinate cariche pubbliche – aggiunge Varano – . Sull’opportunità di elettorato passivo immediatamente dopo aver cessato la carica, andrebbe previsto un periodo di decantazione altrimenti si potrebbe pensare che la Procura nazionale antimafia faccia anche politica, cosa che non è e che non deve essere».
Nel caso di De Raho, scelto da Conte per far parte del famoso “listino”, non si preannuncia poi una competizione elettorale. In tal caso l’elettore non potrà dire la sua. «Una scelta politica del leader dei Cinque Stelle quantomeno inopportuna», commenta Varano. Grasso, Roberti e ora De Raho: una prassi ormai. «Per non parlare della grande sconfitta della politica che se deve ricorrere a ex magistrati per rendersi appetibile e spendibile manifesta seri problemi di credibilità. Ricorre a nomi che sono specchi per allodole, che non sono candidature ma nomine per fini elettorali, anche legittimi, perché è legittimo tentare di prendere più voti e coinvolgere la società civile ma un conto è coinvolgere l’economista, la campionessa sportiva, il virologo, e un conto è coinvolgere un ex magistrato che ha avuto accesso a indagini e informazioni riservate, che è stato audito in Commissione giustizia su leggi restrittive in materia penale. È un tema che si pone in maniera prepotente. È un tema che non dovrebbe passare sotto silenzio».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Le toghe rosse e gialle di nuovo nelle liste, FdI: «Serve una commissione d’inchiesta». Redazione il 18 Agosto 2022 su Il Secolo d'Italia.
Le toghe rosse (e gialle) tornano inesorabilmente nelle liste. Negli ultimi anni sono stati candidati dalla sinistra due ex magistrati di peso come Pietro Grasso e Franco Roberti. Entrambi prima al vertice della Dna e poi andati in pensione. Grasso era già stato giudice estensore della sentenza del maxi processo a Cosa Nostra, poi parlamentare del Pd e poi presidente del Senato, infine fu eletto cinque anni fa con Leu. Non compare, almeno per il momento, nelle liste del Pd. Anche Roberti era stato procuratore nazionale prima di essere, nel 2019, eletto europarlamentare del Pd. Ora è il Movimento cinquestelle a puntare sui magistrati, candidando nel listino bloccato di Conte, Federico Cafiero De Raho e Roberto Scarpinato. Ex procuratori Antimafia, in passato alla guida uno della Procura di Napoli prima e della Dna poi, e l’altro della Procura generale di Palermo.
Toghe, FdI: «Il lupo perde il pelo ma non il vizio»
«Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Ed ecco che la sinistra ripropone nelle proprie liste i nomi di importanti magistrati in pensione. Altro che terzietà della giustizia. Il M5S, in particolare, ha una vera e propria passione. Nel loro listino, infatti, ci sono due importanti ex magistrati, Roberto Scarpinato e Cafiero De Raho. Ho già proposto una commissione d’inchiesta che verificasse il ruolo di potenti magistrati poi passati nelle file del Pd. Dopo questa ulteriore vicenda, sarà assolutamente necessaria». Lo dichiara il Questore della Camera e deputato di Fratelli d’Italia, Edmondo Cirielli.
Magistrati che entrano nelle liste, sì alla commissione d’inchiesta
«Circa un mese fa», chiarisce Cirielli, «ho proposto l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sulle indagini contro il Pdl avvenute nel periodo in cui ero presidente della Provincia di Salerno e Franco Roberti, ex assessore regionale di De Luca e ora eurodeputato del Pd, era procuratore del tribunale di Salerno. Indagini che hanno portato decine di persone a essere indagate, perquisite e perfino arrestate. Tutte inchieste per lo più finite archiviate in istruttoria o comunque nel nulla, con assoluzioni in tutti i gradi di giudizio. Ma che hanno indirettamente e oggettivamente avvantaggiato De Luca alla conquista della Regione nel 2015,perché disarticolarono e delegittimarono in quegli anni, nel salernitano, dove l’attuale governatore sbancò, il centrodestra».
Il “salto evolutivo” dei 5Stelle: portano i pm in Parlamento. Federico Cafiero de Raho e Roberto Scarpinato sono i frontman non ufficiali del Movimento di Conte: il mito fondatore del grillismo rimane il legalitarismo esasperato. Davide Varì su Il Dubbio il 17 agosto 2022.
L’ex procuratore antimafia Federico Cafiero de Raho e l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, due fior di magistrati, sono i simboli, i frontman non ufficiali del Movimento 5Stelle di Conte. Insomma, chi immaginava, si augurava, sperava in una svolta post Di Maio, Taverna e Dibba, deve essere rimasto assai deluso.
Ancora una volta i grillini si presentano come i campioni del populismo penale condito con la solita spruzzatina di temi sociali e qualche citazione di Mao buttata lì da Conte tanto per provare a vedere l’effetto che fa: hai visto mai che qualcuno a sinistra ci casca e magari dimentica il piccolo particolare che Conte, proprio lui, da ex premier firmò i decreti sicurezza di Salvini, quelli dei respingimenti in mare? Insomma, il mito fondatore del grillismo rimane il legalitarismo esasperato che diventa sempre più visione punitiva della giustizia.
E per far ciò ora il Movimento si affida per la prima volta direttamente ai magistrati ai quali consegna, senza più alcuna mediazione, le chiavi del Parlamento, e prepara il banchetto da consumare sulla lapide della separazione dei poteri…
Dai grandi segreti della procura antimafia ai seggi di sinistra. Tutte le "toghe rosse" entrate in politica. Ad aprire la strada verso la militanza partitica sono stati Grasso e Roberti con il Pd. Ora è il M5s a intestarsi la bandiera della legalità attingendo dalla Dna, l'ufficio creato da Falcone. Lodovica Bulian il 18 Agosto 2022 su Il Giornale.
Dai vertici dell'antimafia, alla pensione, alle elezioni. Continua la fascinazione della politica verso la magistratura e viceversa. Soprattutto per quella che ha sede in via Giulia, alla Direzione nazionale antimafia, il tempio voluto da Giovanni Falcone che coordina le indagini condotte dalle singole Direzioni distrettuali e dove si trova la banca dati di tutte le inchieste sulla criminalità organizzata. Ufficio apicale con funzione delicatissima e conoscenza di un patrimonio informativo unico. Eppure da un decennio, chi ne è a capo transita, dopo la pensione, in politica.
Ad aprire la strada dalla super-procura al Parlamento sono stati, con la sinistra, Pietro Grasso e Franco Roberti. Ex magistrati di peso, entrambi al vertice della Dna, andati in quiescenza e poi candidati. Grasso era già stato giudice estensore della sentenza del maxi processo a Cosa Nostra, parlamentare del Pd e poi presidente del Senato, ed eletto cinque anni fa con Leu. Questa volta escluso, almeno per ora, dalle liste di Letta. Anche Roberti era stato procuratore nazionale prima di essere, nel 2019, eletto europarlamentare del Pd. Ora è il Movimento cinque stelle a intestarsi la bandiera della legalità e dell'antimafia mettendo in campo Federico Cafiero De Raho, che al vertice della Dna ci è stato fino a sette mesi fa. Ora è candidato nel listino bloccato di Giuseppe Conte. Così come Roberto Scarpinato, procuratore generale di Palermo andato in pensione a gennaio. Per lui si parla di un collegio in Sicilia, dove ha svolto tutta la sua carriera. Scarpinato è sempre stato vicino alla corrente di sinistra di Magistratura democratica, ha condotto inchieste sulle stragi dalle procure di Palermo e Caltanissetta. Per De Raho sarebbe possibile la candidatura in Calabria, dove è stato procuratore (a Reggio Calabria) prima di arrivare alla Direzione nazionale antimafia, oppure nella stessa Napoli, dove era già stato procuratore aggiunto, seguendo tutte le più importanti inchieste di camorra. Il Movimento punta sulle due toghe che hanno legato il loro percorso alla lotta contro la criminalità organizzata e ai processi sulle stragi di mafia guardando anche al loro consenso nel meridione. A costo di mettere a rischio polemica profili che fino a pochi mesi fa erano super partes e che ora vengono prestati alla competizione elettorale senza un periodo di decantazione.
E del resto la contesa rischia di essere anche quella tra ex colleghi, visto che in campo ci sono magistrati già scesi in politica come Luigi De Magistris e Antonio Ingroia, dimessosi dalla procura di Palermo già nel 2012, dopo aver avviato le indagini sulla trattativa. Era in politica da tempo e il 25 settembre correrà con Italia sovrana e popolare.
Attacca Fratelli d'Italia: «La sinistra propone nelle liste i nomi di importanti magistrati in pensione, altro che terzietà della giustizia. Il M5s ha una passione per i magistrati antimafia. Ho già proposto una commissione di inchiesta che verificasse il ruoto di potenti magistrati passati nelle file del Pd». Ribattono i grillini: «Mentre nei Palazzi si compongono liste piene di impresentabili o di vecchi dinosauri della politica, il Movimento schiera il meglio della società civile candidando chi ha combattuto la mafia in prima linea».
Nel centrodestra circola il nome di Carlo Nordio, già procuratore aggiunto a Venezia, corteggiato da Fratelli d'Italia, che lo volevano per il Quirinale. Sono comunque lontani i tempi in cui in Parlamento sedevano tante toghe. Un'era iniziata sulla scia di Mani Pulite. Ora gli uscenti sono solo tre. Oltre a Grasso, già in pensione, Cosimo Ferri, finito nello scandalo Palamara, già sottosegretario alla Giustizia in tre governi (Letta, Renzi e Gentiloni), eletto nel 2018 alla Camera con il Pd e poi passato con Italia viva, e Giusi Bartolozzi, Forza Italia.
La toga rossa: "Ora una legge sui pm che fanno politica". Felice Manti il 7 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Il leader di Md: "È inaccettabile vedere un magistrato in campagna elettorale dove ha esercitato le sue funzioni".
Le toghe di sinistra dicono basta alle toghe che scendono in politica e poi fanno carriera con la toga. «È inaccettabile - dice al Giornale Stefano Musolino, leader di Md e pm antimafia in prima linea contro la 'ndrangheta - come ci insegna Stefano Rodotà è indispensabile prima tutelare le istituzioni».
Per Sergio Mattarella il Csm deve essere efficiente e credibile...
«La sfida coinvolge tutti. Quanto al Csm confido che una buona riforma elettorale lo faccia tornare ad essere la casa trasparente dei magistrati. Organizzazione degli uffici, criteri di valutazione della professionalità e disciplinare vanno riviste alla luce delle pessime condizioni di lavoro con cui si confrontano i magistrati».
La magistratura ha gli anticorpi necessari per contrastare corruzione e carrierismo?
«Servono regole che sdrammatizzino lo strisciante carrierismo che si nutre di una diffusa deferenza gerarchica, contraria allo spirito costituzionale».
La profezia di Craxi (le toghe si arresteranno tra di loro) sembra miseramente avverarsi
«A me non sembra affatto! Quella profezia muoveva da un radicato pregiudizio: l'uso politico della giustizia. Ed immaginava, perciò, la magistratura come uno spazio di contesa del potere. Non è questo. E infatti, anche se è in profonda crisi d'identità e di prospettive, ha dimostrato di avere gli anticorpi per sapere reagire, accertando e sanzionando le condotte insane di alcuni colleghi. Il problema del carrierismo è un veleno culturale diffuso che mette in crisi la magistratura orizzontale, prevista dall'articolo 107 Costituzione, senza che di ciò si abbia adeguata consapevolezza dentro e, soprattutto, fuori dalla magistratura».
Ma niente separazione delle carriere...
«Insistiamo per riforme che impediscano la formazione di carriere parallele dentro la magistratura. La Costituzione ha stabilito che i magistrati siano tutti uguali e si distinguano solo per le funzioni che svolgono. Una giustizia inefficiente frustra tanto chi la riceve, quanto chi l'amministra e questo spinge molti a cercare vie di fuga verso incarichi direttivi o fuori ruolo. Ridare dignità e incisività al nostro lavoro è una delle chiavi per battere il carrierismo».
È più preoccupato per la riforma del Csm in discussione in Parlamento o del referendum?
«Sono preoccupato dagli slogan e dalla semplificazione che stanno alla base dei referendum sulla giustizia, che influenzano il dibattito parlamentare e la pubblica opinione, non aiutando la comprensione reale dei problemi. La crisi della giustizia è la somma di complessi problemi, stratificatisi nel tempo; chi propone soluzioni semplificatorie mente».
C'è margine per il dialogo Anm-Parlamento?
«L'inefficienza della giustizia genera rendite di posizioni economiche e sociali, ormai strutturali nella nostra società, su cui alcune forze parlamentari hanno costruito il consenso. Ma se è davvero venuto il momento di cambiare passo, la magistratura non vede l'ora di garantire il suo contributo».
Ha ancora senso parlare di correnti?
«Corrente è un termine che il mainstream mediatico ha contribuito a fare percepire in termini spregiativi. Eppure trovare un luogo di confronto tra persone che hanno una comune sensibilità è solo una ricchezza da tutelare. I gruppi associativi se restano luoghi di confronto e proposta saranno l'asse portante per un autentico rinnovamento della magistratura, saldamente fondato sui binari costituzionali che ne tutelino autonomia ed indipendenza».
Dopo le fratture interne, cosa resta di Md e delle cosiddette toghe rosse?
«Toghe rosse è uno stereotipo pensato per evocare una magistratura faziosa ed asservita a un'ideologia che avrebbe agito secondo la logica amico/nemico e non secondo diritto. Md non è mai stata questo, se non nel pensiero di chi temeva il controllo di legalità e le attribuiva i suoi cattivi pensieri».
E allora cosa è stata?
«Un gruppo che ha tentato di dare concretezza nella giurisdizione alle promesse costituzionali, smuovendo le acque chete della magistratura. Questa eredità è oggi la nostra sfida, da declinare in modo nuovo, perché sono in crisi i diritti fondamentali delle persone, la loro dignità, mentre le disuguaglianze increspano la trama della solidarietà sociale, per come ci ha rammentato il presidente della Repubblica. Coltivare queste sensibilità nella giurisdizione è la nostra vocazione».
Un'ultima domanda. Ci sono stati Pm eletti che poi si sono rimessi la toga e hanno fatto sentenze tacciate di essere "politiche". Non è il momento di dire basta alle porte girevoli?
«Vedere un magistrato impegnato in campagna elettorale nel luogo in cui fino a poco prima ha esercitato delicatissime funzioni è istituzionalmente e politicamente inaccettabile. Ogni magistrato che abbia una responsabilità rappresentativa deve far prevalere l'esigenza di salvaguardare la giurisdizione dalle accuse (vere o false) di strumentalizzazione politica, anche al prezzo di sacrificare la tensione civile e l'impegno di cittadino. Così fece uno degli storici esponenti di Md come Franco Ippolito, la legge glielo consentiva, ma prevalse in lui la spinta etica. Se la decadenza dei tempi, ci ha fatto dimenticare queste regole minime che non c'era bisogno fossero scritte, è tempo che il Parlamento si assuma la responsabilità di ribadirle con forza in una norma primaria». Felice Manti