Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA GIUSTIZIA

SETTIMA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una presa per il culo.

Gli altri Cucchi.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un processo mediatico.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Senza Giustizia.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Qual è la Verità.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Parliamo di Bibbiano.

Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

Scomparsi.

La Sindrome di Stoccolma.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giustizia Ingiusta.

La durata delle indagini.

I Consulenti.

Incompatibilità ambientale: questa sconosciuta.

Il Diritto di Difesa vale meno…

Gli Incapaci…

Figli di Trojan.

Le Mie Prigioni.

Le fughe all’estero.

Il 41 bis ed il 4 bis.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Simone Renda spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Angelo Vassallo spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Paciolla spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.

Ingiustizia. L’inchiesta "Why not" spiegata bene.

Ingiustizia. Il caso di Novi Ligure spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Garlasco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Pietro Maso spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Marcello Pittella spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Angelo Burzi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Cogne spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ciatti spiegato bene.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il tribunale dei media.

Soliti casi d’Ingiustizia. 

Angelo Massaro.

Anna Maria Manna.

Cesare Vincenti.

Daniela Poggiali.

Diego Olivieri.

Edoardo Rixi.

Enrico Coscioni.

Enzo Tortora.

Fausta Bonino.

Francesco Addeo.

Giacomo Seydou Sy.

Giancarlo Benedetti.

Giulia Ligresti.

Giuseppe Gulotta.

Greta Gila.

Marco Melgrati.

Mario Tirozzi.

Massimo Garavaglia e Mario Mantovani.

Mauro Vizzino.

Michele Iorio.

Michele Schiano di Visconti.

Monica Busetto.

Nazario Matachione.

Nino Rizzo.

Nunzia De Girolamo.

Piervito Bardi.

Pio Del Gaudio.

Samuele Bertinelli.

Simone Uggetti.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Giustizialisti.

I Garantisti. 

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Cupola.

Gli Impuniti.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.

Palamaragate.

Magistratopoli.

Le toghe politiche.

 

INDICE NONA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di piazza della Loggia.

Il Mistero di piazza Fontana.

Il Mistero della Strage di Ustica.

Il mistero della Moby Prince.

I Cold Case italiani.

Il Caso del delitto del Circeo: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez.

La vicenda della Uno Bianca.

Il mistero di Mattia Caruso.

Il caso di Marcello Toscano.

Il caso di Mauro Antonello.

Il caso di Angela Celentano.

Il caso di Tiziana Deserto.

Il mistero di Giorgiana Masi.

Il Giallo di Ponza: Gian Marco Pozzi.

Il caso di Cristina Mazzotti.

Il Caso di Marta Russo.

Il giallo di Polina Kochelenko.

Il Mistero di Martine Beauregard.

Il Caso di Davide Cervia.  

Il Mistero di Sonia Di Pinto.

La vicenda di Maria Teresa Novara.

Il Caso di Daniele Gravili. 

Il mistero di Giorgio Medaglia.

Il mistero di Eleuterio Codecà.

Il mistero Pecorelli.

Il Caso di Ernesto Picchioni: il primo assassino seriale italiano del '900.

Il Caso Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.

Il Caso Bruno Caccia.

Il mistero di Acca Larentia.

Il mistero di Luca Attanasio.

Il mistero di Lara Argento.

Il mistero di Evi Rauter.

Il mistero di Marina Di Modica.

Il mistero di Milena Sutter.

Il mistero di Tiziana Cantone.

Il Mistero di Sonia Marra.

Il giallo di Giuseppe Pedrazzini.

Il giallo di Mauro Donato Gadda.

Il giallo di Piazzale Dateo, la strage di Capodanno a Milano.

Il Mistero di Nada Cella.

Il Mistero di Daniela Roveri.

Il caso di Alberto Agazzani.

Il Mistero di Michele Cilli.

Il Caso di Giorgio Medaglia.

Il Caso di Isabella Noventa.

Il caso di Sergio Spada e Salvatore Cairo.

Il caso del serial killer di Mantova.

Il mistero di Andreea Rabciuc.

Il caso di Annamaria Sorrentino.

Il mistero del corpo con i tatuaggi.

Il giallo di Domenico La Duca.

Il mistero di Giacomo Sartori.

Il mistero di Andrea Liponi.

Il mistero di Claudio Mandia.

Il mistero di Svetlana Balica.

Il mistero Mattei.

Il caso di Benno Neumair.

Il mistero del delitto di via Poma.

Il Mistero di Mattia Mingarelli.

Il mistero di Michele Merlo.

Il Giallo di Federica Farinella.

Il mistero di Mauro Guerra.

Il caso di Giuseppe Lo Cicero.

Il Mistero di Marco Pantani.

Il Mistero di Paolo Moroni.

Il Mistero di Cori: Elisa Marafini e Patrizio Bovi.

Il caso di Alessandro Nasta.

Il Caso di Mario Bozzoli.

Il caso di Cranio Randagio.

Il Mistero di Saman Abbas.

Il Caso Gucci.

Il mistero di Dino Reatti.

Il Caso di Serena Mollicone.

Il Caso di Marco Vannini.

Il mistero di Paolo Astesana.

Il mistero di Vittoria Gabri.

Il Delitto di Trieste.

Il Mistero di Agata Scuto.

Il mistero di Arianna Zardi.

Il Mistero di Simona Floridia.

Il giallo di Vanessa Bruno.

Il mistero di Laura Ziliani.

Il Caso Teodosio Losito.

Il Mistero della Strage di Erba.

Il caso di Gianluca Bertoni.

Il caso di Denise Pipitone.

Il mistero di Lidia Macchi.

Il Mistero di Francesco Scieri.

Il Caso Emanuela Orlandi.

Il mistero di Mirella Gregori.

Il giallo del giudice Adinolfi.

Il Mistero del Mostro di Modena.

Il Mistero del Mostro di Roma.

Il Mistero del Mostro di Firenze.

Il Caso del Mostro di Marsala.

La misteriosa morte di Gergely Homonnay.

Il Mistero di Liliana Resinovich.

Il Mistero di Denis Bergamini.

Il Mistero di Lucia Raso.

Il Mistero della morte di Mauro Pamiro.

Il mistero di «Gigi Bici».

Il Mistero di Anthony Bivona.

Il Caso di Diego Gugole.

Il Giallo di Antonella Di Veroli.

Il mostro di Foligno.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di Ilaria Alpi.

Il mistero di Luigi Tenco.

Il Caso Elisa Claps.

Il mistero di Unabomber.

Il caso degli "uomini d'oro".

Il mostro di Parma.

Il caso delle prostitute di Roma.

Il caso di Desirée Mariottini.

Il caso di Paolo Stasi.

Il mistero di Alice Neri.

Il Mistero di Matilda Borin.

Il mistero di don Guglielmo.

Il giallo del seggio elettorale.

Il Mistero di Alessia Sbal.

Il caso di Kalinka Bamberski.  

Il mistero di Gaia Randazzo.

Il caso di Giovanna Barbero e Maria Teresa Bonaventura.

Il mistero di Giuseppina Arena.

Il Caso di Angelo Bonomelli.

Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.

Il caso di Sabina Badami.

Il caso di Sara Bosco. 

Il mistero di Giorgia Padoan.

Il mistero di Silvia Cipriani.

Il Caso di Francesco Virdis.

La vicenda di Massimo Alessio Melluso.

La vicenda di Anna Maria Burrini. 

La vicenda di Raffaella Maietta.  

Il Caso di Maurizio Minghella.

Il caso di Fatmir Ara.

Il mistero di Katty Skerl.

Il caso Vittone.

Il mistero di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi.

Il Caso di Salvatore Bramucci.

Il Mistero di Simone Mattarelli.

Il mistero di Fausto Gozzini.

Il caso di Franca Demichela.

Il Giallo di Maria Teresa “Sissy” Trovato Mazza.

Il caso di Giovanni Sacchi e Chiara Barale.

Il caso di Luigia Borrelli, detta Antonella.

Il mistero di Antonietta Longo.

Il Mistero di Clotilde Fossati. 

Il Mistero di Mario Biondo.

Il mistero di Michele Vinci.

Il Mistero di Adriano Pacifico.

Il giallo di Walter Pappalettera.

Il giallo di Rosario Lamattina e Gianni Valle.

Il mistero di Andrea Mirabile.

Il mistero di Attilio Dutto.

Il mistero del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino.

Il mistero di JonBenet Ramsey.

Il Caso di Luciana Biggi.

Il mistero di Massimo Melis.

Il mistero di Sara Pegoraro.

Il caso di Marianna Cendron. 

Il mistero di Franco Severi.

Il mistero di Norma Megardi.

Il caso di Aldo Gioia.

Il mistero di Domenico Manzo.

Il mistero di Maria Maddalena Berruti.

Il mistero di Massimo Bochicchio.  

Il mistero della morte di Fausto Iob.

Il Delitto di Ceva: la morte di Ignazio Sedita.

Il caso di Stefano Siringo e di Iendi Iannelli.

Il delitto insoluto di Piera Melania.

Il giallo dell'omicidio di Nevila Pjetri. 

Il mistero di Jessica Lesto.

Il mistero di Stefania Elena Carnemolla.

 L’omicidio nella villa del Rastel Verd.

 Il Delitto Roberto Klinger.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il mistero della strage della Stazione di Bologna: E’ Stato la Mafia.

 

LA GIUSTIZIA

SETTIMA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Cupola.

I quesiti di domenica 12 giugno. Referendum, cinque Sì per scalfire il potere che da 30 anni soffoca l’Italia. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Giugno 2022. 

Mentre alcuni pubblici ministeri, o ex procuratori di prestigio come Giancarlo Caselli e Armando Spataro si affannano nella campagna per il no o per l’astensione sui cinque referendum di giustizia, altri famosi accusatori vedono a Brescia offuscata la loro “cultura della giurisdizione”, cioè la capacità di essere anche un po’ giudici. Sembra una nemesi anticipata della storia, quella che colpisce il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, responsabile del pool affari internazionali, e il pm Sergio Spadaro, oggi alla nuova Procura europea antifrodi. Perché oggi sono accusati dalla Procura di Brescia, che ne ha chiesto il rinvio a giudizio per “rifiuto d’atto d’ufficio”, proprio del comportamento opposto a quello rivendicato dalla casta dei togati per escludere la necessità di separare le carriere, o almeno le funzioni, tra chi nel processo fa l’accusatore e chi poi dovrà decidere, cioè il giudice.

Si parte dal processo Eni-Nigeria, quello su cui la Procura di Milano, quando il capo era Francesco Greco, aveva fatto un grande investimento anche sulla propria reputazione. Era stato costituito un apposito pool di affari internazionali, presieduto dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che si era impegnato, con il collega Sergio Spadaro, soprattutto nelle inchieste che riguardavano una serie di relazioni internazionali dell’Eni e il sospetto di gravi e lucrosi atti di corruzione. E in particolare quello con cui l’Ente petrolifero aveva cercato di ottenere le concessioni sul giacimento Opl-245, oggetto del processo terminato il 17 marzo 2021 con la clamorosa assoluzione di tutti gli imputati, a partire dall’ ad Claudio De Scalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni.

In attesa del processo d’appello –voluto da Fabio De Pasquale, ma che sarà sostituito in aula dalla pg Celestina Gravina, su decisione del vertice della procura generale- va constatato che è proprio sulla base del comportamento dei due pm nel dibattimento che la procura di Brescia ne ha chiesto il rinvio a giudizio. Perché i due magistrati avrebbero tenuto nascoste al tribunale le prove a discarico degli imputati. Avrebbero cioè violato la legge che impone all’accusa la capacità di farsi un po’ giudice, e se scopre qualche fatto che potrebbe giovare alla difesa, deve metterlo a disposizione del tribunale. È quella che i detrattori in toga del quesito referendario sulla separazione delle funzioni chiamano la “cultura della giurisdizione”, accusando i sostenitori del SI di volere un pm-sceriffo. Ma se tu pm hai a disposizione la registrazione video di un testimone dell’accusa, il quale, due giorni prima di presentarsi in procura ad accusare di corruzione i vertici Eni, preannunciava di avere intenzione di farli coprire da “una valanga di merda”, e la tieni nascosta, come deve essere qualificato il tuo comportamento? Lo stesso dicasi, sostiene la Procura di Brescia, per una serie di chat da cui emergerebbe l’intento calunnioso di quel testimone.

Nonostante questa vicenda sia sotto gli occhi di tutti, indipendentemente da come finirà l’aspetto strettamente giudiziario, una cosa è palese. Che se anche consenti, come capita oggi, al pm di fare passaggi di carriera e quindi di alternarsi con il giudice, un accusatore non sarà mai meno sceriffo. Dire il contrario è una colossale ipocrisia. Il codice di rito accusatorio, adottato (se pur timidamente) dall’Italia nel 1989, non prevede imbrogli né ambiguità. Le due parti, accusa e difesa, sono parti e il giudice, che sta sopra di loro, non deve avere nulla a che fare con nessuna delle due. Occorrerà arrivare all’abolizione del concetto stesso di magistratura, dunque, e a due carriere paritarie di accusa e difesa, ben distinte e distanti dal Giudice, termine che andrebbe sempre scritto con la maiuscola, per rispetto e deferenza.

Il motivo principale per cui il Partito dei pubblici ministeri, che esiste e sta resistendo con molta forza a qualche barlume di cambiamento, non vuole staccarsi dai giudici è il timore della perdita del potere di condizionamento. Troppe volte abbiamo dovuto assistere alla pedissequa ricopiatura, da parte di qualche gip, degli argomenti delle richieste del pm. Soprattutto quando si tratta di decidere sulla custodia cautelare in carcere. È inutile girarci intorno, la “colleganza” conta. Poi sarà anche vero, come ha detto di recente in un convegno l’ex procuratore di Milano Francesco Greco, che lui è andato al bar del Palazzo di giustizia più spesso con avvocati che con giudici. Magari alcuni legali gli erano più simpatici, ma diverso è far parte della stessa cucciolata, essersi nutriti alla stessa mammella e al mattino recarsi negli stessi uffici. Indossare una toga che, finché le carriere non saranno separate, sarà sempre diversa da quella dell’avvocato, che deve portarsela dallo studio, perché nel Palazzo non c’è un ufficio né un attaccapanni per lui.

Un referendum infilato nell’altro, dalla separazione delle funzioni alla custodia cautelare. Il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, calpestato in almeno mille casi all’anno da pubblici ministeri e giudici insieme. Perché uno chiede, ma l’altro è quello che concede, e se sbagliano, sbagliano in due, e se si accaniscono lo fanno in coppia. E se quel sospetto sul futuro, in cui una persona, ancora innocente secondo la Costituzione, potrebbe reiterare (cioè ripetere) un reato che forse, in un caso su due, non ha neanche commesso, può portare a un carcere ingiusto, aboliamo il principio. E votiamo per dire NO al carcere preventivo basato su quel sospetto. Ma la vera regina del sospetto è il Grande Algoritmo chiamato “legge Severino”, un meccanismo automatico di espulsione da luoghi elettivi o di governo su cui precedentemente avevano deciso i cittadini elettori.

Qui siamo addirittura persino all’esproprio dell’autonomia del giudice, svincolato dal diritto-dovere di decidere se il condannato debba essere anche colpito dall’interdizione dai pubblici uffici e, nel caso, per quanto tempo. Una norma che presenta anche gravi profili di incostituzionalità (nonostante la Consulta si sia pronunciata diversamente) nella parte in cui sospende l’amministratore locale dopo una condanna in primo o secondo grado, quindi non definitiva. Questo punto, messo in discussione anche da sindaci e assessori del Pd (che timidamente ha presentato un proprio blando disegno di legge in Parlamento) è particolarmente cruento e anti-democratico perché rovescia gli assetti di governo, entrando a gamba tesa nelle sorti politiche di una città, di una provincia, di una regione.

Dove spesso poi si candida addirittura un magistrato. Ma non si può dire, perché se c’è un soggetto che non si può mai criticare né giudicare è proprio quello che indossa la toga “giusta”. Però, se passasse (insieme a quello sulle firme per l’accesso al Csm) anche il quesito referendario per consentire anche agli avvocati e ai docenti universitari di dare il proprio giudizio sull’attività e sulle carriere dei magistrati, forse si potrebbe incrinare almeno un pochino questo blocco di potere che soffoca la democrazia italiana da un trentennio. Coraggio, andiamo ai seggi e votiamo cinque Sì.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Primo processo per Amara a Milano: “Calunniò ex Csm Mancinetti”. Rinviato a giudizio con Calafiore e Centofanti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Novembre 2022.

Lo ha deciso il gup di Milano Lorenza Pasquinelli che ha accolto la richiesta di rinvio a giudizio dei pm Monia Di Marco e Stefano Civardi, che hanno mandato a giustizio in questo troncone processuale tranche anche il suo ex collaboratore Giuseppe Calafiore e l'imprenditore Fabrizio Centofanti che oggi era presente in aula

Nuovo processo per Piero Amara, l’ex legale esterno dell’ Eni finito al centro negli anni di vari procedimenti giudiziari e i cui verbali sulla ‘Loggia Ungheria‘ hanno anche ‘terremotato‘ la Procura milanese , il primo però a Milano, dove a è giudizio per l’accusa di calunnia nei confronti dell’ex componente del Csm Marco Mancinetti. Lo ha deciso il gup di Milano Lorenza Pasquinelli che ha accolto la richiesta di rinvio a giudizio dei pm Monia Di Marco e Stefano Civardi, che hanno mandato a giustizio in questo troncone processuale tranche anche il suo ex collaboratore Giuseppe Calafiore e l’imprenditore Fabrizio Centofanti che oggi era presente in aula. La prima udienza si terrà l’8 febbraio 2023 dinnanzi alla IV sezione del Tribunale Penale di Milano .

La vicenda vede al centro, in particolare, una registrazione del maggio 2019 che fu depositata in Procura a Milano da Calafiore e alcune affermazioni con cui Mancinetti sarebbe stato, secondo l’accusa, calunniato. Davanti al gup Lorenza Pasquinelli, le difese avevano presentato una serie di eccezioni preliminari, che sono state tutte respinte dal giudice. A Milano ci sono già diversi fascicoli, coordinati anche dall’aggiunto Maurizio Romanelli, nell’ambito dei quali deve essere accertato se Amara, con quelle sue dichiarazioni sulla “Loggia Ungheria” nell’inchiesta milanese sul cosiddetto “falso complotto Eni” abbia o meno calunniato le persone, tra cui rappresentanti delle istituzioni, che a suo dire avrebbero fatto parte della fantomatica associazione segreta. Tra i venti fascicoli (alcuni iscritti sulla base di denunce, altri d’ufficio) aperti uno vede, ad esempio, come presunta vittima di calunnia, l’ex ministro della Giustizia e avvocato Paola Severino.

Il fascicolo milanese nei confronti di Amara ha origine dalle indagini di Perugia che, dopo aver archiviato Mancinetti dall’accusa di istigazione alla corruzione e trasmessa l’archiviazione al Csm per i profili disciplinari, ha invitato i colleghi milanesi a comprendere come e perché sia stata “costruita” e “offerta” l’accusa di corruzione nei riguardi del giudice Marco Mancinetti. La vicenda nasceva dalle dichiarazioni dell’ex avvocato dell’Eni Piero Amara. Nella registrazione tra Centofanti e l’ex rettore di Tor Vergata si ascoltava l’affermazione “Era pronto a cacciare i soldi”.

Ma secondo il procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone non vi erano evidenze per andare a giudizio, e quindi la posizione di Mancinetti, accusato di induzione alla corruzione, venne archiviata, anche se nelle motivazioni Cantone non risparmiò nessuno: dalla versione improbabile di Mancinetti, le giustificazioni dell’ex rettore di Tor Vergata. Da qui si è arrivati al processo per calunnia nei confronti di Amara. Infatti secondo la Procura di Perugia, che ha inviato le carte a Milano, Amara avrebbe potuto sapere della registrazione per sfruttare quegli elementi a proprio vantaggio. Elementi usati anche per parlare della loggia Ungheria. Ed ora il “faccendiere” siciliano dovrà affrontare un nuovo processo per calunnia. Redazione CdG 1947

Processo Davigo, Di Matteo show in aula: «Volevano fregarci». Il pm testimone al processo sui verbali di Amara: «In atto una manovra per calunniare e screditare Ardita». In aula anche Morra: «Mi mostrò i verbali ma non mi disse che erano coperti da segreto». Simona Musco su Il Dubbio il 16 novembre 2022.

«Per me c’era in atto una manovra per calunniare e screditare Sebastiano Ardita e colpirlo nella sua funzione di consigliere del Csm». Il magistrato Nino Di Matteo non ha dubbi: la diffusione dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, autore delle dichiarazioni sulla presunta Loggia Ungheria, era finalizzata a colpire il suo collega e amico, tirato falsamente in ballo come membro dell’associazione segreta.

Processo a Davigo, Di Matteo in aula: «In atto una manovra per calunniare e screditare Ardita»

Un’opera di delegittimazione che il pm della trattativa Stato-mafia ha denunciato in plenum al Csm, svelando di aver ricevuto in un plico anonimo i verbali segreti di Amara, consegnati dal pm milanese Paolo Storari a Piercamillo Davigo come forma di autotutela, data la presunta inerzia della procura di Milano a procedere con le indagini. Parole che Di Matteo ha confermato oggi a Brescia, dove è in corso il processo all’ex pm di Mani Pulite, accusato di rivelazione di segreto d’ufficio per aver fatto vedere quei verbali a diversi consiglieri del Csm, alle sue segretarie e al presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra. Di Matteo ha descritto il clima surreale respirato al Csm nei mesi che precedettero la consegna di quei verbali, finiti nelle mani di Davigo, secondo il suo racconto, ad aprile 2020.

Ma già a marzo, nel corso di una riunione «choccante» del gruppo Autonomia & Indipendenza, fondato proprio da Ardita e Davigo, l’ex pm milanese aveva palesato tutto la sua insofferenza nei confronti del collega, in occasione della discussione sulla nomina del procuratore di Roma. Mentre Davigo, infatti, sosteneva la candidatura di Michele Prestipino, Ardita e Di Matteo erano orientati sul nome dell’ex procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. Dichiarazione di intenti che provocò una reazione violenta da parte di Davigo.

«Con una veemenza inaudita e grida che si potevano sentire nella stanza accanto o nel salottino adiacente – ha spiegato Di Matteo -, disse ad Ardita: “Se tu non voti Prestipino, sei fuori da tutto” e ancora “Se tu non voti Prestipino sei con quelli dell’Hotel Champagne”». Ma Ardita, ha spiegato il pm palermitano, «era indicato come un “talebano” nelle intercettazioni delle indagini su Luca Palamara», dunque lontanissimo da quelle logiche. La reazione di Davigo lasciò basito Ardita, che chiese spiegazioni all’ex amico. Ma a quel punto, ha affermato ancora Di Matteo, «Davigo con un fare molto aggressivo replicò dicendo: “Tu mi nascondi qualcosa” e quando Ardita lo invitò a spiegare le ragioni del contrasto davanti a tutti, lui disse “Te lo spiego dopo separatamente”. A quel punto anche io alzai la voce e dissi che quel gruppo era peggio degli altri, perché non si consentiva ai consiglieri di votare secondo coscienza i propri candidati. Reagii in maniera istintiva e dissi a Davigo: “Non mi sono fatto condizionare dalle minacce di morte di Totò Riina, figuriamoci se mi faccio condizionare dalle tue minacce”».

Caso Verbali, la denuncia Di Matteo in plenum

Quando nel marzo 2021 Di Matteo ricevette il plico anonimo con i verbali, decise di far scoppiare il bubbone prima consegnando il tutto alla procura di Perugia e poi parlandone pubblicamente nel corso di un plenum. «Quando rividi Ardita al Csm gliene parlai – ha aggiunto – . Gli dissi: “Ti avverto perché ti vogliono colpire, ci vogliono dividere e ci vogliono fottere sia a te che a me”». Anche perché le accuse nei confronti di Ardita «mi sembravano calunniose e risibili, individuabili da tutti quelli che conoscevano la sua storia. Mi convinsi subito che ci fosse in atto una manovra per colpirlo nella sua funzione di componente del Csm», ha aggiunto.

Poco prima di parlarne al plenum, Di Matteo informò il vicepresidente David Ermini della sua decisione, scoprendo che la vicenda gli era già nota. «Ermini fu molto corretto e mi disse che potevo dire quello che volevo», ha spiegato. Ma il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, era di parere contrario. «Poco prima del plenum mi invitò a non fare questo intervento perché aveva già preso contatti con la procura di Milano» per dare un impulso alle indagini sulle rivelazioni di Amara. «Salvi mi disse: “Allora posso contare sul fatto che non lo fai” – ha detto Di Matteo -. E io risposi: “No, io lo faccio”. Mezzo Csm lo sapeva, lo sapevano anche i giornalisti. Io non mi sono pentito di aver fatto scoppiare il bubbone», ha concluso Di Matteo.

Ma se Davigo ha sempre sostenuto che il segreto non è opponibile ai consiglieri del Csm, giustificando così la sua decisione di informare i colleghi, è più difficile giustificare la scelta di informare anche Morra, esterno al Csm e all’ordine della magistratura. L’ex presidente dell’Antimafia, in aula, ha confermato di aver visto i verbali al Csm, dove si era recato sperando di poter ricucire lo strappo tra Davigo e Ardita. «Due fatti mi colpirono – ha detto in aula Morra -. Chiedendo a Davigo se c’era la possibilità di una conciliazione con Ardita, lui prese un faldone, coperto da fogli protocollo a righe, e mi invitò a seguirlo fuori dal suo ufficio, nelle scale. Aprendo questo faldone mi fece leggere il cognome Ardita» e mi disse che «c’erano dichiarazioni in base alle quali un dichiarante che stava collaborando con una procura del Nord affermava che Ardita facesse parte di un’associazione che aveva il vincolo della segretezza e per questo motivo non era più un soggetto affidabile. Ricordo di aver avuto quasi una sorta di colpo allo stomaco, ero emotivamente segnato, perché riponevo tanta fiducia in Ardita. Davigo non fece riferimento che fossero coperte da segreto».

Ma l’ex pm invitò Morra ad essere prudente, pur senza interrompere i rapporti con il magistrato, per evitare «errori», dal momento che – ma non si sa se Davigo ne fosse a conoscenza – «era caldeggiato un incarico per Ardita nella Commissione Antimafia». Incarico che saltò proprio a causa delle parole di Davigo. «Sono stato cauto e questa ipotesi non è diventata realtà», ha concluso Morra. In aula anche altri consiglieri del Csm, che hanno confermato di aver saputo dei verbali e della presunta affiliazione di Ardita da Davigo. Verbali che, secondo la presunta postina Marcella Contrafatto, ex segretaria del pm milanese e accusata di aver spedito quelle carte a Di Matteo e a diversi giornalisti, gli sarebbero costati la permanenza al Csm. Una decisione, quella di “buttarlo fuori”, non condivisa dal laico Fulvio Gigliotti.

«Inizialmente il comitato di presidenza pareva orientato per la permanenza del consigliere Davigo e mano a mano che ci si avvicinava la data della sua pensione, l’orientamento è cambiato – ha chiarito Gigliotti -. Io ho sentito anche l’esigenza di spiegare sui giornali il perché votavo a favore del consigliere Davigo, ovviamente su base tecnica giuridica perché all’interno del Csm ho sempre agito su basi giuridiche. E proprio sul piano tecnico ritenevo che dovesse completare la consiliatura». Gigliotti non ha escluso che dietro al cambio di orientamento del Csm potessero esserci anche influenze esterne. «Le politiche consiliari sono complicate da leggere – ha concluso Gigliotti – e spesso non orientate solo in base a situazioni interne, ma anche da situazioni esterne». Sui verbali, ha aggiunto, «mi raccomandò la massima riservatezza e mi disse che in quanto componente del Csm non poteva essere opposto il segreto al consiglio». I due erano d’accordo sulla necessità di approfondire la questione, ma Gigliotti non diede troppo credito ad Amara. «Se avessi immaginato che fossero vere avrei mantenuto distanze con Mancinetti (Marco, altro consigliere del Csm indicato come affiliato alla loggia, ndr) e Ardita che non ho mantenuto».

Davigo temeva inoltre che anche per il caso Amara potessero esserci delle fughe di notizie. «La sensazione – ha detto Gigliotti – era che non ci fosse impermeabilità». Il consigliere Giuseppe Cascini ha invece spiegato che Davigo gli parlò dei verbali per verificare l’attendibilità di Amara, di cui il magistrato si era occupato in un’indagine a Roma. «Erano dichiarazioni esplosive ed è mia convinzione che fosse preciso dovere della procura di Milano fare un’indagine per capire se fossero vere, visto che erano coinvolte personalità delle principali istituzioni del Paese. Che invece ci fosse una situazione di stallo da parte della procura di Milano, che dopo qualche audizione non aveva fatto alcuna iscrizione, era motivo di preoccupazione», ha aggiunto, chiarendo che il coinvolgimento di due consiglieri del Csm lo aveva indotto a pensare «che ci sarebbe stato uno tsunami come quello del 2019» per le vicende legate al caso Palamara.

Le dichiarazioni di Amara non apparvero a Cascini totalmente credibili: «La mia sensazione era che ci fosse un “mischio” di cose vere e cose false». Ma la mossa di Storari, secondo il consigliere togato, sarebbe stata una semplice richiesta di consigli ad un collega. Sarebbe stato poi compito della procura di Milano trasmettere gli atti al Csm. «La situazione di stallo era un elemento di preoccupazione», ha aggiunto. Davigo parlò dei verbali anche con il laico Stefano Cavanna, al quale riferì di una presunta loggia massonica di cui avrebbero fatto parte anche Ardita e Mancinetti. «Mi disse che era una cosa molto riservata e mi impose il silenzio, consegna che io rispettai alla lettera. Non ha fatto riferimento al segreto, da avvocato so che un’informazione su un’indagine è riservata – ha spiegato in aula -. Non ho mai visto i verbali, non sapevo neanche che esistessero. lo non chiesi di più. Non ritenni opportuno indagare oltre. Del fatto che fossero verbali secretati – ha concluso – non se ne parlò».

La Procura di Perugia chiede archiviazione per ipotesi di corruzione e sulla Loggia Ungheria. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Novembre 2022.

La Procura di Perugia ha già chiesto di archiviare anche l'indagine sulla presunta loggia Ungheria aperta sulla base delle dichiarazioni dell'avvocato-faccendiere Piero Amara

La Procura della Repubblica umbra guidata dal magistrato Raffaele Cantone ha chiesto

l’archiviazione del fascicolo che ipotizzava reati di corruzione, nato come troncone dell’inchiesta sulla cosiddetta “Loggia Ungheria” sulla scorta delle dichiarazioni di Piero Amara. Inchiesta per la quale i magistrati della Procura di Perugia avevano chiesto l’archiviazione lo scorso luglio. E’ quanto emerso oggi in tribunale a Perugia, nel corso dell’udienza per corruzione nel quale Luca Palamara è imputato insieme ad Adele Attisani.

Il filone di inchiesta ha riguardato il presunto interessamento di Palamara, quando era consigliere del Csm, per le sorti dell’ex pm di Siracusa Maurizio Musco, amico dell’avvocato Piero Amara, e sotto processo disciplinare per abuso di ufficio. Amara, attraverso il “lobbista” Fabrizio Centofanti, avrebbe spinto Palamara ad avvicinare Stefano Mogini, il giudice di Cassazione che si doveva occupare del caso. Nel corso dell’udienza di oggi è emerso anche che la Procura della Repubblica ha depositato come integrazione di indagine alcuni atti di quel procedimento. Atti ritenuti di interesse in relazione al processo attualmente in corso.

Tra gli atti depositati a integrazione da parte della procura di Perugia, due annotazioni del Gico della Guardia di finanza di Roma dello scorso 18 e 23 febbraio 2022, il verbale di sommarie informazioni del

giudice Stefano Mogini e dal magistrato Giovanni Ariolli, il verbale di interrogatorio di Fabrizio Centofanti, reso l’11 novembre 2021. La Procura di Perugia ha già chiesto di archiviare anche l’indagine sulla presunta loggia Ungheria Redazione CdG 1947

Il pm Storari assolto anche in appello. Loggia Ungheria, Cantone chiede l’archiviazione ma… non ha indagato. Paolo Comi su Il Riformista il  4 Novembre 2022

Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, con i sostituti Gemma Milani e Mario Formisano, lo scorso 5 luglio ha chiesto l’archiviazione del procedimento sulla loggia Ungheria, l’associazione paramassonica la cui esistenza era stata rivelata dall’avvocato Piero Amara, la gola profonda delle Procure italiane. Dell’atto, 167 pagine, sono stati pubblicati in questi mesi ampi stralci, in particolare sul Domani, quotidiano sempre molto bene informato dell’attività della Procura Perugia.

In attesa che il gip si esprima, ad esempio avallando la richiesta di Cantone e quindi mettendo una pietra tombale su un fascicolo che ha terremotato la Procura di Milano (ieri l’assoluzione anche in appello per il pm Paolo Storari accusato di aver dato a Piercamillo Davigo gli atti sulla loggia Ungheria, ndr) ed il Consiglio superiore della magistratura, ecco alcune considerazioni.

La competenza

Amara, interrogato dai pm milanesi, fra cui Storari, a dicembre 2019, aveva riferito che “l’allora procuratore della Repubblica di Perugia De Ficchy era una persona alla quale io potevo arrivare perché faceva parte dell’associazione Ungheria”. L’art. 11 del codice di procedura penale stabilisce che “i procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge“ .

Al momento del fatto, come riferisce lo stesso Amara, Luigi De Ficchy era il procuratore della Repubblica di Perugia e quindi la legge avrebbe voluto che fosse stata la Procura di Firenze ad indagare sulla loggia Ungheria. Non si capisce quindi perché la Procura di Milano abbia mandato i verbali di Amara a Cantone e perché Cantone non li abbia trasmessi a Firenze (visto che nella loggia sono indicati quali appartenenti magistrati in servizio a Roma e magistrati in servizio, al momento del fatto, a Perugia) e non si capisce perché la Procura di Firenze non abbia sollevato conflitto con la Procura di Perugia.

Le (non) indagini

Contrariamente a quanto scritto in modo elogiativo dagli organi d’informazione ‘vicini’ alla Procura di Perugia, dalla richiesta di archiviazione emerge la quasi totale assenza di indagini. Secondo l’avvocato siciliano della loggia avrebbero fatto parte circa 90 persone tra politici, ex ministri, magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, imprenditori e liberi professionisti ma la Procura di Perugia ha proceduto soltanto nei confronti di pochi nomi. In particolare di coloro che si era autoaccusati di far parte della loggia, Amara, Giuseppe Calafiore e Alessandro Ferraro, e degli imprenditori Alessandro Casali, Fabrizio Centofanti oltre a Denis Verdini, questi ultimi tre già compromessi da precedenti indagini.

Tale modo di agire ha comportato l’impossibilità di fare indagini nei confronti dei non iscritti (perquisizioni, tabulati, intercettazioni) e quindi di ottenere risultati di rilievo o anche solo dimostrare la reciproca conoscenza di coloro che venivano indicati come appartenenti alla loggia. Nella richiesta emerge che il solo atto di indagine invasivo effettuato dalla Procura di Perugia è consistito nella perquisizione a Calafiore, colui che avrebbe avuto la disponibilità degli elenchi degli iscritti alla loggia, effettuata dopo che costui si era rifiutato di rispondere all’interrogatorio del 6 maggio 2021. Una perquisizione fuori tempo massimo considerato che della loggia Ungheria Amara ha cominciato a riempire verbali a Milano a dicembre 2019. Ed infatti la perquisizione di Calafiore ebbe esito negativo.

Altro dato che balza agli occhi è che l’indagine è stata delegata, ancora una volta, al GICO della guardia di finanza di Roma (che viene citato ben 19 volte), quello del trojan ‘a singhiozzo’ che ha intercettato i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e non ha intercettato l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Lo stesso comandante del GICO, del resto, nel processo che si sta svolgendo a Perugia nei confronti degli ex pm Luca Palamara e Stefano Fava, all’udienza del 9 giugno 2022 aveva dovuto confessare che il suo reparto consegnava le informative ad Amara, l’indagato principale di questo procedimento, prima ancora che tali informative fossero depositate alla Procura di Roma. Gli uomini del GICO, poi, avrebbero avvisato Amara in anticipo delle perquisizioni che dovevano essere effettuate. Si comprende quindi perfettamente come le indagini condotte non potevano portare ad altro risultato che non fosse l’archiviazione.

Le indagini

Il nome dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara nella richiesta di archiviazione ricorre per 111 volte. Quasi in ogni pagina quindi. Eppure Amara e Calafiore hanno sempre escluso che Palamara facesse parte della loggia Ungheria. Ciononostante le indagini sono state indirizzate nei confronti dell’ex consigliere del Csm con lo scopo, neppure tanto nascosto, di attribuire un parvenza di credibilità ad Amara.

La credibilità (inesistente) di Amara

I pm di Perugia concludono la richiesta di archiviazione disponendo la trasmissione degli atti “alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano perché valuti se siano o meno configurabili i delitti di cui agli artt. 368 e 369 c.p.”. L’articolo 369 codice penale incrimina l’autocalunnia. Ciò significa che i pubblici ministeri non credono ad Amara neppure quando accusa se stesso però gli credono quando accusa Palamara.

I (non) diritti delle difese

Amara è stato esaminato in dibattimento al processo di Perugia nei confronti di Palamara e Fava lo scorso 7 ottobre. Nonostante ripetute richieste la Procura di Perugia non ha rilasciato ai difensori copia della richiesta di archiviazione del procedimento sulla loggia Ungheria. I difensori non hanno quindi potuto utilizzare questo atto nel controesaminare Amara nonostante sia in possesso, come detto, di alcuni selezionati giornalisti dal mese di luglio e nonostante vi sia una indagine nei confronti di un cancelliere della Procura di Perugia che lo avrebbe illecitamente divulgato. Paolo Comi

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 4 novembre 2022.

Il pm di Milano Paolo Storari non ha commesso alcun reato consegnando i verbali delle dichiarazioni dell'ex avvocato esterno dell'Eni, Piero Amara, all'allora consigliere del Consiglio superiore della magistratura Piercamillo Davigo. Anche la Corte d'Appello di Brescia ha dunque confermato la sentenza di primo grado con cui, lo scorso marzo, al termine del processo in abbreviato, Storari era stato assolto dall'accusa di rivelazione del segreto.

Il collegio, dopo un'ora e mezza di camera di consiglio, ha rigettato la richiesta del sostituto procuratore generale che aveva chiesto una condanna a 5 mesi e 10 giorni di reclusione, con la non menzione e la sospensione condizionale. Alla sentenza di primo grado aveva fatto opposizione anche il togato del Csm Sebastiano Ardita, ammesso come parte civile. 

Storari era stato accusato di rivelazione del segreto d'ufficio per aver consegnato a Davigo, nei primi mesi del 2020, i verbali in cui Amara aveva descritto l'esistenza di una loggia paramassonica denominata "Ungheria", composta da magistrati, ufficiali delle forze dell'ordine, professionisti. Il pm milanese aveva chiesto di essere processato con il rito abbreviato ed era stato assolto per errore di diritto, in quanto non avrebbe avuto la consapevolezza di violare la legge consegnando a Davigo tali verbali.

Nella ricostruzione ad indurre in 'errore' Storari era stato proprio Davigo affermando che i componenti del Csm sarebbero stati esonerati dal rispetto del segreto. Tesi a cui non avevano creduto alla Procura di Brescia, competente peri reati commessi dai pm milanesi, che avevano deciso di mandarli a giudizio e che, per Storari, avevano poi chiesto una condanna a sei mesi di reclusione. 

L'errore in cui era incorso Storari era «un errore su norma extrapenale», dal momento che lo stesso magistrato «era convinto di rivelare informazioni segreti a soggetto deputato a conoscerle», e per questo «di non commettere alcuna rivelazione illegittima, ma "autorizzata" e/o addirittura dovuta». Un errore ritenuto quindi "scusabile" dai giudici bresciani.

«Piercamillo Davigo non era un mio amico prima, non lo è oggi. Ho una frequentazione con lui solo perché conosco la sua compagna. Mi sono rivolto a lui perché è l'unica persona che conosco che avesse un ruolo istituzionale. Quello che è accaduto e sta accadendo lo trovo lunare», aveva detto in aula Storari. 

La consegna dei verbali fu un gesto che Storari ha sempre definito di «autotutela» nei confronti dell'asserita inerzia nelle indagini da parte dei vertici della Procura milanese. «Con gli elementi di oggi», aveva aggiunto Storari, «credo che non si volesse disturbare il processo Eni-Nigeria, il processo più importante a Milano, fatto dal dipartimento più discusso, una sconfitta significava mettere in dubbio l'organizzazione di Francesco Greco».

Il magistrato voleva arrestare Amara per calunnia ma ciò avrebbe messo in difficoltà i processi milanesi per corruzione internazionale dove quest' ultimo era fra i principali testi dell'accusa.

«Siamo assolutamente soddisfatti di questa assoluzione piena» che conferma «l'esito di un giudizio di totale innocenza che è particolarmente profondo e netto», ha commentato l'avvocato Paolo Della Sala, difensore di Storari, lasciando il Palazzo di Giustizia bresciano. Storari, visibilmente emozionato, ha preferito invece non dire nulla. Per le motivazioni bisognerà attendere 90 giorni.

Quella di oggi è la terza "vittoria" del pm in questa vicenda. A parte gli aspetti penali, vi era stata anche la bocciatura della richiesta cautelare di trasferimento d'urgenza, con contestuale cambio di funzioni, avanzata nei suoi confronti nell'estate dell'anno scorso a Palazzo dei Marescialli dell'allora procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi su richiesta del procuratore di Milano, Greco. Il processo per rivelazione del segreto resta ora in piedi solo per Davigo che ha scelto il rito ordinario.

L'ex pm di Mani pulite ha sempre giustificato il suo operato dicendo che «se c'è un soggetto che fa delle dichiarazioni di estrema gravità, che siano vere o false, o che siano in parte vere e in parte false, è necessario fare le indagini per saperlo». Per la Procura di Brescia, invece, lo scopo di Davigo non sarebbe stato far luce su quanto accadeva a Milano, ma solo trovare una scusa per motivare al Csm la rottura dei rapporti con Ardita, suo collega di corrente, il cui nome sarebbe comparso fra gli appartenenti alla loggia

La sentenza d'Appello. Loggia Ungheria, Storari assolto anche in Appello: non fu reato dare i verbali di Amara a Davigo. Redazione su Il Riformista il 3 Novembre 2022 

Paolo Storari ottiene l’ennesima vittoria nell’aula di tribunale, la seconda sui due giudizi che lo hanno coinvolto fino ad oggi in merito alla nota vicenda degli interrogatori consegnati nell’aprile 2020 all’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, ai tempi membro del Consiglio superiore della magistratura, sull’esistenza della presunta associazione segreta “Loggia Ungheria”.

Della loggia aveva parlato negli interrogatori resi allo stesso Storari e al procuratore aggiunto milanese Laura Pedio l’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara in cinque interrogatori resi tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020.

Dopo l’assoluzione in primo grado del marzo scorso ad opera del gup Federica Brugnara, è arrivata per il pm milanese anche lo stesso verdetto dalla Corte d’Appello di Brescia, nel processo con l’ipotesi di reato di rivelazione di segreto d’ufficio. Il procuratore generale Francesco Prete, che aveva impugnato la sentenza di assoluzione di primo grado, aveva chiesto nella scorsa udienza una condanna a 5 mesi e 10 giorni con la sospensione condizionale e la non menzione.

Per Storari è invece arrivata l’assoluzione piena, come commenta soddisfatto il suo legale, l’avvocato Paolo Della Sala: “Siamo assolutamente soddisfatti, ho difeso con fermezza la sentenza di primo grado, non solo perché coraggiosa, ma anche perché poggiava su un impianto giuridico complesso”. La decisione “conferma – ha aggiunto Della Sala – l’esito di un giudizio di totale innocenza particolarmente profondo e netto”.

La difesa di Storari ha sempre sostenuto che il pm aveva consegnato quei verbali a Davigo per autotutelarsi dalla presunta inerzia dei vertici della procura di Milano sulle indagini, in particolare da parte dell’allora procuratore capo Francesco Greco e della stessa Pedio, rivolgendosi dunque all’ex consigliere del Csm, ora in pensione, perché considerato tra i massimi esperti in materia di circolari del Consiglio superiore della magistratura.

Nei confronti di Storari anche il Csm, l’organo di autogoverno delle toghe, aveva bocciato la richiesta di “cacciata” avanzata in via d’urgenza nell’estate 2021 dall’allora procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi.

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 18 ottobre 2022.

Non esistono prove che la Loggia Ungheria sia mai esistita, e Piero Amara è un uomo «abilissimo nell’arte manipolatoria, estremamente pericoloso quando lo si intenda utilizzare come prova a carico di altri». 

Contemporaneamente, però, l’avvocato di Siracusa non è affatto, come «in questi mesi si è insinuato da più parti, un “invasato o un mitomane”, né uno sprovveduto faccendiere in cerca di notorietà. Amara al contrario ha avuto certamente rapporti ad altissimo livello con soggetti operanti nelle istituzioni di questo paese, e tantissimi ed indiscutibili riscontri esterni sono emersi su tanti episodi da lui riferiti agli inquirenti».

Così sintetizzano i pm di Perugia Raffaele Cantone, Gemma Miliani e Mario Formisano nelle 167 pagine di cui è composta la lunghissima richiesta di archiviazione in merito all’inchiesta sulla fantomatica Loggia Ungheria, l’associazione segreta che secondo Amara avrebbe condizionato per anni nomine dei vertici di enti pubblici ed istituzioni, in particolare della magistratura e del Csm.

Un documento che Domani ha letto ora integralmente, e che rappresenta non solo la sintesi del lavoro ciclopico della procura umbra che ha quasi chiuso (si aspetta la decisione del gip) una vicenda delicatissima che ha terremotato per mesi il mondo della politica, delle istituzioni e della magistratura. Ma anche la descrizione minuziosa del “fenomeno Amara”, che i pm non banalizzano come semplice magliaro o bugiardo matricolato.

Al contrario, ritengono «acclarata» l’esistenza di «un “sistema Amara”», che da «avvocato di provincia, dopo aver intessuto stretti rapporti con i magistrati siciliani, nell’anno 2012 giunge a Roma dove si colloca per anni, in maniera indubbia, al centro di scambi di favori, inerenti anche alle nomine apicali della magistratura ordinaria e amministrativa e al centro di dinamiche di potere che si intersecano con momenti topici della storia del paese». Come evidenziano le chat estrapolate dal cellulare di Denis Verdini, appunti sul computer dello stesso Amara. Oppure i contatti e gli appuntamenti con il lobbista Luigi Bisignani.

I pm, in pratica, spiegano che nonostante una serie di balle sesquipedali sulla loggia e suoi presunti adepti (una ventina di persone sulle 90 tirate in ballo dal faccendiere hanno già depositato querela per diffamazione e calunnia, come l’avvocata Paola Severino, il comandante della Guardia di finanza Giuseppe Zafarana o l’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti), su Amara «un giudizio tranchant di attendibilità/inattendibilità non sarebbe possibile, perché in sé non riuscirebbe a cogliere l’estrema poliedricità del soggetto che ci si trova di fronte, e soprattutto della sua narrazione».

Il suo modus operandi complesso, che mette «insieme fatti indiscutibilmente veri e circostanze non riscontrate», ha dunque convinto Cantone e i suoi uomini ha usare il “criterio della frazionabilità”, indicato anche dalla corte di Cassazione come quello migliore per effettuare vagli rigorosi per distinguere i racconti accertati da prove e testimonianze terze da quelli invece che non ne hanno alcuna.

Andiamo dunque con ordine, partendo dai racconti in tutto, o almeno in parte, riscontrati. Innanzitutto, Amara – avvocato originario di Augusta che ha lavorato da giovane nel prestigioso studio di Giovanni Grasso, era davvero «diventato uno degli avvocati di riferimento di una società pubblica, l’Eni: malgrado i tentativi più o meno maldestri da parte della società di prenderne adesso le distanze» scrive Cantone «si era occupato di numerose e delicate vicende che avevano visto coinvolti, a vario titolo, i vertici delle strutture aziendali dell’Eni operanti in Sicilia».

Secondo i magistrati perugini, anche i rapporti con Tinebra e con l’Opco sarebbero confermati. In particolare, esistono riscontri sul fatto che Amara sia riuscito, grazie ai suoi rapporti con la magistratura siciliana, ad ottenere un trattamento di favore in alcuni processi in cui era stato coinvolto già nel 2006. 

Cantone segnala come l’avvocato riuscì ad ottenere «ben due pareri favorevoli del procuratore generale di Messina, un’oggettiva stranezza», aggiungendo poi «un dato che fa riflettere: nonostante il procedimento penale, peraltro generato da una vicenda con possibili connotati di mafiosità, e persino una condanna definitiva patteggiata, vicende che avevano avuto un certo clamore in Sicilia, Amara ha continuato negli anni seguenti a tessere rapporti con la magistratura di ogni dove, con parlamentari della Repubblica e uomini delle istituzioni!».

Tra le persone che Amara conosceva, ricorda Cantone, c’è il giudice Lucia Lotti, oggi pm a Roma. Il faccendiere ha raccontato come lui stesso si fosse adoperato affinché la Lotti fosse nominata a capo della procura di Gela, dove insiste una grande raffineria dell’Eni, e come questo gli avrebbe poi permesso di avere l’ufficio di Gela «totalmente» nella sua «disponibilità». La Lotti è stata così indagata dalla procura di Catania per corruzione, ma i pm hanno chiesto l’archiviazione perché non hanno riscontrato do ut des di sorta. Il gip ha però chiesto nuove indagini, e ad ora non si è ancora espresso. Forse anche in attesa di un contraddittorio e – segnala la magistrata – per acquisire le nuove trascrizioni dei verbali di Amara» 

Al netto delle responsabilità penali che la Lotti nega ovviamente con forza, quale sarebbe secondo Amara la natura del loro rapporto? «Il favore che egli le aveva fatto procurandole un contatto con il consigliere laico del Csm Ugo Bergamo» si legge nelle carte di Perugia che citano le accuse dell’avvocato «gli sarebbe stato ricambiato con la sostanziale “messa a disposizione” del magistrato nella gestione di alcuni procedimenti che erano di suo interesse, quale difensore dell’Eni».

Gli investigatori ricordano poi che Angelo Mangione, difensore storico di Amara, ha detto ai pm milanesi come la Lotti prima della sua nomina a procuratore gli chiese davvero di incontrare Amara, aggiungendo però che «non mi disse per quale motivo voleva incontrarla». Pure Saverio Romano, ex ministro dell’Agricoltura e uomo di fiducia di Verdini che aveva rapporti costanti con Amara, ha ammesso di aver effettivamente incontrato il faccendiere e la Lotti, per discutere dell’aspirazione della predetta ad essere nominata procuratore a Gela. 

Ma come mai i due andarono proprio dal potentissimo Romano? Perché il consigliere Bergamo che aveva dubbi sulla promozione della magistrata era stato eletto in quota Udc, lo stesso schieramento politico del politico.

«A seguito di tale abboccamento Romano avrebbe incontrato Bergamo, al quale avrebbe esternato i dubbi del magistrato» dice Cantone «Bergamo, sentito, non conserva invece alcun ricordo dell’episodio. La Lotti non è mai stata sentita e quindi non si conosce la sua versione». I giudici umbri ammettono che alla fine riscontri sull’incontro «fra la Lotti e Romano, mediato dall’Amara» sono emersi, ma che comunque esso non è certo prova dell’esistenza di una logga coperta, ma tutt’al più «un tentativo di captatio benevolentiae di un avvocato che aveva indiscutibili interessi professionali a Gela». Per la cronaca, la Lotti ha indagato per anni per disastro ambientale colposo, e alla fine del suo incarico ha chiesto 22 rinvii giudizio tra direttori e tecnici della società “Raffineria di Gela” ed Enimed.

Come ha anticipato Antonio Massari sul Fatto quotidiano, nel documento di archiviazione si evidenzia come vere o verosimili appaiono anche i resoconti di Amara in merito a cene e incontri che Amara ha avuto per provare a favorire le carriere e le promozioni di magistrati di peso. In primis quella di Carlo Capristo, poi promosso dal Csm procuratore a Taranto grazie anche (secondo le accuse) all’iperattivismo di un sodale di Amara, il poliziotto Filippo Paradiso. 

«L’episodio comprova in modo inequivocabile – scrivono Cantone, Miliani e Formisano – le capacità istituzionali di Amara, in grado certamente di “entrare” nelle dinamiche delle nomine del Csm sfruttando i suoi rapporti con i consiglieri laici grazie al contatto con politici influenti (Luca Lotti, Saverio Romani e Denis Verdini), o grazie a rapporti con soggetti come Centofanti, in grado di influire su magistrati come Luca Palamara».

Anche in merito alla vicenda di Francesco Salluzzo, che Amara avrebbe incontrato a Roma un paio di mesi prima alla sua nomina di procuratore generale di Torino, secondo Cantone «esistono diversi elementi di riscontro». Basate sulle testimonianze del dirigente del consiglio di stato Antonino Serrao (pure registrato di nascosto da Amara che gli ha teso «una trappola») e di un imprenditore vicino a Salluzzo, Paolo Torresani, che di fatto confermano in gran parte quanto raccontato «dal dichiarante». Ossia l’avvenuto pranzo a casa di Torresani podromo a trovare un modo per avvicinare la consigliera del Csm Paola Balducci e raccomandare Salluzzo.

Se i due hanno tentato di ridimensionare le dichiarazioni dell’avvocato di Augusta in merito all’importanza dell’incontro, Cantone ha un’idea diversa: «Sembra molto più plausibile che il Serrao, compulsato da Torresani, abbia portato al pranzo Amara proprio in ragione delle sue note entrature all’interno del Csm: il che dimostrerebbe che non solo in Sicilia, in Puglia e a Roma, ma anche a Torino nel 2016 potevano essere giunte notizie circa le capacità di Amara...per aumentare le chance di vittoria» in relazione alle domande che i magistrati facevano al Csm. 

Secondo Cantone il presunto “soldato” della loggia Ungheria racconta pezzi di verità significative e verificate anche nelle vicende cha hanno travolto Palamara (a processo proprio a Perugia); nell’aiuto dato al figlio dell’ex consigliere del Csm Marco Mancinetti per accedere alla facoltà di medicina di Tirana (pende su Amara un processo per calunnia, perché a volte il legale aggiunge a storie vere episodi corruttivi non dimostrabili); nei presunti rapporti con Luca Lotti, anche in merito a un incontro con l’allora sottosegretario «richiesto da uno dei vertici della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, in relazione a un fascicolo da lui trattato che avrebbe coinvolto l’allora premier Matteo Renzi». 

In merito alle dichiarazioni su Giuseppe Conte, Cantone evidenzia un altro aspetto tipico del modus operandi di Amara. Come svelato da Domani, l’avvocato disse che il professionista prima di diventare premier aveva ottenuto consulenze da 400 mila euro tramite Centofanti dalla società Acqua Marcia, aggiungendo che la nomina del leader dei Cinque Stelle insieme a quella di Guido Alpa fosse legata a un favore da fare a Michele Vietti, presunto capo della Loggia, e che le nomine erano necessaria ad ottenere l’ammissione al concordato preventivo del gruppo.

I pm di Perugia spiegano che Centofanti non ha confermato la ricostruzione dell’amico (lo avesse fatto, aggiungiamo noi, avrebbe rischiato anche lui un’indagine per corruzione). «Appare ipotesi verosimile – conclude Cantone – che l’Amara certamente a conoscenza dell’incarico, abbia riferito all’autorità giudiziaria un fatto vero, attribuendosi un ruolo che invece non pare esservi stato. Il riferimento al professor Conte? Un modo per accreditare ulteriormente la rilevanza del suo narrato». 

Ma la richiesta di archiviazione contiene anche la descrizione di menzogne vere e proprie inventate da Amara e accuse che non hanno la minima evidenza.

Seppure la procura considera «spontanee» le prime dichiarazioni sulla Loggia Ungheria («in quel momento era indagato per una vicenda marginale rispetto all’indagine su Eni, aveva definito le sue pendenze giudiziarie a Roma e Messina con patteggiamenti non elevatissimi, che interesse aveva quindi ad aprire un fronte nuovo?», si domanda Cantone senza poter poter dare una risposta), i pm chiariscono che nessun riscontro all’associazione è stato trovato. 

La lista con i nomi, che il sodale di Amara Giuseppe Calafiore avrebbe fotocopiato e poi dato a un agente segreto di Dubai, non è mai stata consegnata agli inquirenti. Avrebbe comunque avuto poco valore investigativo: senza firma e non su carta intestata, chiunque avrebbe potuta comporla.

Amara ha nel corso delle dichiarazioni ha via via ridimensionato la natura e la funzione della loggia, mentre le poche testimonianze che hanno detto che erano a conoscenza di Ungheria o di una simil-loggia segreta (il giudice Dauno Trebastoni, l’ex pm Maurizio Musco e l’imprenditore Fabrizio Centofanti) non hanno alcun «valore ponderale: sono tutte legate da rapporti molto stretti con Amara, e due su tre hanno ricevuto informazioni sa una persona defunta». Cioè Giovanni Tinebra, ex capo del Dap e procuratore generale a Catania che secondo Amara fu fondatore e animatore di Ungheria.

Insomma, dell’esistenza dell’associazione non c’è traccia. Cantone, tuttavia, fa un passaggio non banale in cui spiega che la fuga di notizie sulle dichiarazioni dell’avvocato («accadimenti SUBITI da questo ufficio», ci tiene a sottolineare il capo della procura) avrebbe compromesso in nuce la possibilità di indagare a dovere su reati associativi già in se difficilissimi da provare. Divulgazione di segreti istruttori che hanno convinto alcuni indagati ad avvalersi della facoltà di non rispondere o di non presentarsi affatto negli uffici di Cantone

«Una scelta – si legge nella richiesta di archiviazione – che può essere ricondotta al clima creatosi intorno a questa indagine» dopo la fuga di notizie, per cui sono a processo il pm milanese Paolo Storari (assolto in primo grado, qualche giorno fa il procuratore generale di Brescia ha chiesto in appello una condanna a cinque mesi) e l’ex consigliere del Csm Pier Camillo Davigo, che ha avuto i verbali da Storari e poi ne ha parlato in via informale con vertici della magistratura. La ex segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto, è invece indagata come colei che avrebbe consegnato gli interrogatori ad alcuni giornali.

Cantone segnala pure come Amara, in un memoriale scritto il 5 ottobre 2021 dal carcere di Terni dove stava scontando la sua pena per diverse condanna definitive per corruzione (oggi è in regime di semilibertà) «lamenta la condizione in cui si trova: essere accusato da vari soggetti di calunnia proprio perché le prove dei fatti da lui affermati non possono essere più acquisite». Amara scrive, letteralmente, di trovarsi «nella paradossale situazione di dover occuparsi delle accuse di una serie di soggetti che hanno potuto eludere l’effetto sorpresa a causa non del dichiarante, ma del magistrato indagante». Cioè Storari.

Secondo Cantone, le «considerazioni di Amara appaiono sul punto avere un loro fondamento. Non certo la consegna dei verbali a Davigo, ma la successiva pubblicazione di essi ha infatti creato una situazione oggettivamente paradossale per cui i chiamati in causa hanno potuto denunciare per calunnia il chiamante in correità prima persino che potessero compiersi le indagini e i necessari approfondimenti». 

Per la cronaca, c’è un altro passaggio del documento dei pm di Perugia che, se fosse vero, sarebbe fonte d’imbarazzo per la procura di Milano. Quello in cui si sintetizza un’altra parte del memoriale dell’ex avvocato dell’Eni: «Il dichiarante afferma che tra dicembre 2019 e febbraio 2020 aveva rappresentato al pm Storari che, in uno al suo amico e sodale Calafiore, avrebbe proceduto a cercare riscontri (!!) su quanto aveva già verbalizzato ed aveva preavvertito il medesimo pm che avrebbe registrato di nascosto colloqui con soggetti in grado di confermare i fatti». Insomma, si sarebbe proposto come sorta di “agente provocatore”, per ottenere prove di quanto già raccontato alla procura di Milano.

Sia come sia, le discrasie e le contraddizioni nella narrazione di Amara intorno alla presunta Loggia sono tali che secondo i pm quest’ultima rischia di non essere mai esistita come tale. Non solo. Alcune accuse dell’avvocato sarebbero del tutto false. In primis, quelle contro l’allora consigliere del Csm Sebastiano Ardita, che sarebbe stato un affiliato e che l’ex avvocato esterno dell’Eni avrebbe conosciuto a una cena nella sede dell’Opco (un centro studi siciliano creato da Tinebra). 

Per Cantone «Amara non è in grado nemmeno di dire quali attività gli altri “fratelli stessero svolgendo in quel momento: bisognerebbe ritenere contro ogni logica che la cena di presentazione sarebbe stata “muta”...non sapeva nemmeno che uno di essi (l’Ardita) era andato via da Catania da oltre 6 anni!».

Come mai Amara coinvolga Ardita (nemico giurato di Davigo) resti un mistero. Anche in merito alle accuse contro il generale Zafarana, definito dal faccendiere come un affiliato che aveva chiesto a lui in via indiretta una raccomandazione per far assumere una persona nel suo studio, il giudizio della procura di Perugia è caustico: «Non può qui non essere rilevata l’assoluta illogicità di una richiesta di un generale cha avrebbe fatto veicolare, per il tramite di un terzo estraneo, ad un soggetto che fra l’altro avrebbe dovuto essere stato un suo “fratello” di una potente ed occulta loggia massonica. 

Resta non comprensibile la ragione per cui Amara riferisce fatti non veritieri: è un’ipotesi che ha la sua plausibilità quella di un rapporto non idilliaco tra Amara e la Gdf, avendo quest’ultima condotto tutte le indagini del passato che hanno poi portato all’arresto e alla condanna dell’avvocato siciliano». Che adesso dovrà dare conto delle sue parole in molteplici processi per calunnia.

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 19 ottobre 2022.

Incrociando alcuni verbali inediti contenuti nelle carte di Perugia che sentenziano l’inesistenza della Loggia Ungheria con alcune sentenze recenti che non hanno avuto grande eco sulla stampa nazionale, è possibile raccontare dettagli importanti di quello che Raffaele Cantone, capo della procura umbra, definisce il «sistema Amara». Una rete che negli anni è riuscita «certamente» a entrare in contatto con «il mondo politico e i vertici istituzionali», con l’obiettivo primario di gestire le nomine dei giudici e le promozioni decise dal Csm. 

Uno dei principali interlocutori politici di Amara – si legge nella richiesta di archiviazione di Cantone – è stato Denis Verdini, per anni braccio destro di Silvio Berlusconi, condannato con sentenza definitiva per bancarotta e, qualche giorno fa a Messina, ad altri due anni per concorso in corruzione. Per una vicenda che ha al centro, ancora una volta, le accuse dell’ex avvocato esterno dell’Eni («ho dato 300mila euro a Verdini in contanti per agevolare la nomina del giudice Giuseppe Mineo al Consiglio di stato», ha detto nel 2018) che evidentemente i giudici in primo grado hanno considerato in parte vere e riscontrate. 

Verdini viene interrogato dai pm umbri un anno fa. Cantone e i suoi uomini vogliono chiedergli se conosce la Loggia Ungheria, e soprattutto quali sono i suoi rapporti con il pregiudicato di Augusta. L’ex parlamentare risponde a tutto campo, permettendo «con un’apprezzabile scelta di trasparenza» anche agli investigatori di scaricare tutte le chat con Amara. Da cui esce uno spaccato notevole di un pezzo del potere italiano, e della rete gigantesca del legale siciliano.

«Escludo di aver fatto parte dell’associazione denominata “Ungheria”», comincia Verdini. «La voce della mia appartenenza alla massoneria venne messa in giro durante la campagna elettorale del Mugello del senatore Antonio Di Pietro. Fu addirittura il presidente Cossiga, forse per scherzo, a fare una dichiarazione in tal senso. Io tuttavia per cultura sono lontano da qualsiasi loggia massonica». 

Cantone segnala pure come Verdini, già deputato forzista e di Ala e oggi “suocero” di Matteo Salvini, riferisce che fu l’ex ministro «Saverio Romano, nell’ambito delle trattative per le nomine dei vertici delle grandi società di stato, tra le quali l’Eni, a presentargli “un professionista che aveva peso nel mondo Eni”, ovvero Amara». 

Poi Verdini si schermisce dalle accuse principali: «Io richieste sul Consiglio di giustizia amministrativa siciliana non ne ho mai ricevute. Amara millanta di aver avuto influenze su tante vicende, ma lui riferisce alcuni fatti senza sapere bene come io operavo: io (al tempo di Renzi premier, ndr) non frequentavo palazzo Chigi, io frequentavo il Nazareno (la sede del Pd)».

Quando i pm Cantone, Mario Formisano e Gemma Miliani gli chiedono se Ala ha preso denaro in contanti come dice Amara ai colleghi di Messina per perorare la causa del giudice Mineo al Consiglio di stato, risponde: «Probabilmente Amara mi ha fatto donazioni di importo modesto. Lui mi presentò diversi politici e imprenditori, come Adolfo Messina, Ezio Bigotti, Giannusso... questi ultimi facevano offerte di denaro per sostenere il movimento, ma io le ho sempre rifiutate». 

Nelle chat con Amara, segnalano i pm di Cantone, i contatti tra i due erano numerosi e niente affatto sporadici. Verdini chiede per esempio all’avvocato «curricula per la nomina di un componente del Consiglio di stato», chiosano i magistrati di Perugia.

«Amara fa riferimento a un intimo amico di Del Sette. Nello stesso giorno viene fatto anche il nome di Antonio Serrao, che sarebbe voluto da Del Sette, a sua volta intimo amico di Luca Lotti, circostanza ribadita più volte con plurimi messaggi (per la cronaca, anche il piddino ha querelato Amara per calunnia, ndr). Sempre per le nomine dei componenti del Consiglio di stato, Amara scrive di avergli girato i curricula di Mineo e tale Fiaccavento, di Massimo Dell’Utri e Luciano Ciccarello».

I messaggi analizzati sono decine, e contengono richieste di sponsorizzazione di un emendamento di Sergio Romano, mentre con alcuni messaggi del 24 e 31 ottobre 2016 il faccendiere chiede a Verdini di organizzare un incontro tra Lotti e Massimo Mantovani e Antonio Vella, al tempo tra i massimi dirigenti dell’Eni. «Vero, posso dire di aver ricevuto da Amara tante richieste e sollecitazioni, a cui io non davo risposta», si giustifica Verdini.

Ma quando Cantone chiede come mai il legale siciliano ha voluto attribuirgli un ruolo così rilevante in Ungheria, il politico racconta episodi e incontri inediti che svelano un rapporto tra i due affatto banale. Va ricordato il tempo e il contesto: Verdini è uno degli uomini vicinissimi a Berlusconi e Renzi, uno dei politici più potenti d’Italia. 

«Amara era amareggiato per le dichiarazioni che aveva reso a Messina: io a quel punto decisi di incontralo nell’ufficio di Ignazio Abrignani (ex deputato di Ala, ndr). Eravamo solo io e lui. Gli dissi che aveva dichiarato il falso, affermando di avermi dato dei soldi. Lui mi aggredì, e mi disse che mi aveva dato somme mensilmente, affermò di avermi consegnato 40mila euro per sette mesi, pari quindi a 280mila euro. Io negai decisamente e affermai che doveva curarsi. Gli chiesi se avesse un registratore: mi parvero dichiarazioni farneticanti, forse finalizzate a fornirsi una prova».

L’ex parlamentare però spiega che, nonostante tutto, accettò di vedere Amara e il suo avvocato una seconda volta. «Mi disse che poteva ritrattare le sue dichiarazioni (su Mineo e i 300mila, ndr), ma io in cambio avrei dovuto dichiarare che lui era intervenuto per la nomina di Claudio Descalzi (ad dell’Eni, ndr) e che aveva fatto da tramite tra me e Claudio Granata (braccio destro del manager, ndr). Io rifiutai di rendere tali false dichiarazioni».

Secondo Verdini, spiega Cantone, «Amara sarebbe stato del tutto estraneo alla scelta di Descalzi, avendogli soltanto esternato il gradimento di una parte dell’Eni». Sia come sia, è per questo motivo, conclude Verdini, che l’ex sodale lo mette nel mirino e lo indica calunniosamente come uno dei vertici della loggia segreta.

Ma l’ex forzista ha o meno avuto da Amara la raccomandazione per promuovere Mineo al Consiglio di stato, visto che il nome effettivamente spuntò in una short list della presidenza del Consiglio prima di essere cassato?

«La nomina del dottor Mineo non venne chiesta da Amara, ma da Giuseppe Drago (ex governatore della Sicilia e deputato di Forza Italia, ndr). Evidenzio che avendo un rapporto con il governo, mi fu chiesto da Lotti se avessi dei nomi da mandargli. In prima battuta gli dissi di no, in seguito inviai il curriculum di Drago». Per i giudici di Messina invece Amara non mente. E Verdini, almeno in primo grado, ha dovuto incassare l’ennesima condanna.

L’imputato Davigo torna alla carica contro il ritorno di Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

Se fossimo in un paese civile, non ci sarebbe neppure bisogno di una “legge Severino”, perché comunque Berlusconi non sarebbe mai tornato in Senato. Insomma, quei due milioni circa di voti non li avrebbe avuti. Chi lo dice, nel giorno del grande rientro del leader di Forza Italia dopo la brutale cacciata del 2013? Forse un avversario politico? Magari Enrico Letta, che è andato a occupare il posto di Matteo Renzi, che aveva liquidato Berlusconi con il suo perfido “game over”. Invece.

Invece, come se non fosse lui stesso un imputato sottoposto a Brescia per quella rivelazione di atti d’ufficio che per un magistrato è un fatto gravissimo, ricompare d’improvviso in tv Piercamillo Davigo. A parlare di Silvio Berlusconi il “pregiudicato”, come se non fossero stati in qualche momento della loro vita tutti e due, l’ex toga e l’attuale senatore, un po’ sulla stessa barca in un’aula di tribunale. Da imputati. Colui che fu un tempo un trionfatore di “Mani Pulite”, uno che incedeva nel corridoio del quarto piano del tribunale di Milano, fregiato indebitamente del titolo di “dottor sottile” come se avesse la raffinatezza di Giuliano Amato, presidente emerito della Corte Costituzionale, non si è mai sottratto alle telecamere.

Ama esibire la propria competenza tecnico-giuridica, e anche ripetere ossessivamente storielle paradossali che con la reale amministrazione della giustizia hanno poco a che fare. Così non si è negato neanche questa volta all’invito di Giovanni Floris, invitato a nozze a dire la sua proprio la sera precedente il rientro di Silvio Berlusconi a Palazzo Madama. Avrebbe potuto declinare, oppure concordare di essere invitato solo come “tecnico”, sia pure magistrato ormai in pensione. Ma il personaggio non è fatto così. E neppure la storia del suo processo è proprio edificante, sul piano del rigore. Ancor meno il suo comportamento in tv. Tanto che, quando un altro ospite della trasmissione, il direttore di Libero Sandro Sallusti, nel ricordargli di essere stato da lui due volte querelato ed esserne uscito vincente, gli rinfaccia di essere un “indagato”, l’ex magistrato non lo corregge. Già, perché Davigo non è più un semplice “indagato”, ma un imputato a tutti gli effetti, con un processo in corso. Innocente secondo la Costituzione, come tutti gli imputati, naturalmente.

Avrebbe dovuto rivendicarlo, con orgoglio, ma anche con la dignità che in questo caso è mancata. Avrebbe dovuto ricordare l’articolo 27 della Costituzione, gridando la propria estraneità al reato che gli viene contestato. Invece, muto. Silenzioso e sornione anche il conduttore, che non può ignorare la realtà dei fatti. Eppure le cronache sono state clamorose, fin dall’inizio “dell’affare Amara” con la deposizione dell’avvocato sulla presunta “Loggia Ungheria” e la storia della famosa chiavetta che, dalle mani del sostituto procuratore milanese Paolo Storari, passando da quelle del dottor Davigo membro del Csm, ha fatto uno strano giro dell’orologio, arrivando nella sua versione verbale fino al Presidente Mattarella, come ha testimoniato il vicepresidente del Csm David Ermini. E non si può dimenticare la presenza fisica e l’orgoglio da combattente dell’imputato Davigo nell’aula del tribunale di Brescia il giorno della prima udienza.

Era il 20 aprile scorso, e c’erano le telecamere. Non si sa che cosa il dottor Davigo pensasse di ricavare sul piano mediatico, fatto sta che il suo comportamento aveva stuzzicato persino il bonario presidente della prima sezione del tribunale Roberto Spanò, che a un certo punto si era visto costretto a dirgli paternamente: “È difficile svestire la toga quando si è dall’altra parte, la inviterei a calarsi nella parte dell’imputato”. Un invito inutile. Perché se è vero, come dicono molti magistrati, che la toga in qualche modo ti rimane appiccicata addosso anche quando non frequenti più le aule di giustizia, anche quando sei ormai in abiti “borghesi”, nel caso del dottor Davigo e del suo atteggiamento c’è qualcosa di più e di diverso. Perché in questo processo bresciano c’è il rischio che vada in pezzi del tutto la sua immagine dei tempi che furono, quella dei successi di “Mani Pulite”. Lui lo sa.

Lo ha dimostrato la sua agitazione quando David Ermini nella sua testimonianza ha chiarito che il magistrato, all’epoca membro del Csm, non gli chiese mai di formalizzare la consegna dei verbali secretati di Amara. Verbali che furono mostrati o finirono nelle mani, oltre che di cinque consiglieri, anche di persone estranee al Csm come il presidente della commissione antimafia Nicola Morra, e anche delle due sue segretarie. Quel giorno in quell’aula c’era solo un imputato in difficoltà. Come tanti. Magari anche come Berlusconi quando è stato condannato per frode fiscale. Un grande ex magistrato con la toga e la giustizia nel cuore sarebbe stato generoso, martedi sera. Avrebbe potuto ricordare che il leader di Forza Italia ha scontato la sua pena, pur ritenendola, e non solo lui, ingiusta. E anche che comunque due milioni di persone lo hanno riportato al Senato. Ma non c’è niente da fare. Quale grandezza aspettarsi da uno che non ritiene esistano innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca? Potremmo ricordarcene il giorno della sentenza che assolverà o condannerà l’imputato Piercamillo Davigo.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

 Caso verbali, parla Contrafatto: «La mia vita in pasto ai giornali, ma il corvo non sono io». L'ex segretaria di Davigo davanti al gup. Ma la grafia sui biglietti spediti a Di Matteo non sarebbe la sua. Simona Musco Il Dubbio il 24 novembre 2022

«Mi hanno ritenuta responsabile senza neanche aspettare il processo. Il mio equilibrio ne è uscito devastato». L’ex segretaria di Piercamillo Davigo, Marcella Contrafatto, non riesce nemmeno a spiegare a voce quanto sia stato furioso il fiume di fango che l’ha travolta. Così, davanti al gup di Roma Nicolò Marino, dove è in corso l’udienza preliminare per calunnia ai danni dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco, ha preferito affidarsi ad una breve memoria, dove ripercorre le assurde tappe di questa vicenda. Per la procura di Roma sarebbe lei, infatti, «la postina» dei verbali di Piero Amara sulla loggia Ungheria, verbali consegnati dal pm milanese Paolo Storari a Davigo per denunciare l’immobilismo dei vertici della procura milanese e poi inviati anonimamente alla stampa e al consigliere del Csm Nino Di Matteo. Verbali nei quali veniva indicato tra gli affiliati anche il consigliere Sebastiano Ardita, vittima – secondo Di Matteo e la procura di Brescia (dove è in corso il processo a Davigo per rivelazione di segreto d’ufficio) – di un complotto.

E vittima di un complotto, forse, si sente anche Marcella Contrafatto. Licenziata in fretta e furia dal Csm senza attendere gli sviluppi della vicenda giudiziaria e trattata da colpevole, oltre che da pazza. Ma i pezzi del puzzle cominciano lentamente a ricomporsi restituendo un’immagine diversa da quella iniziale. A partire da un dato di non poco conto: la grafia sul biglietto spedito a Di Matteo insieme ai verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Amara non corrisponde alla sua. È quel biglietto, di fatto, a rappresentare la calunnia: su quel pezzo di carta, infatti, c’era scritto «che il verbale in questione era stato ben tenuto nascosto dal procuratore di Milano Francesco Greco "chissà perché"» e che in «altri verbali c’è anche luì». Ma la perizia grafologica disposta dal giudice «ha escluso la riconducibilità alla mia assistita della lettera recapitata a Antonino Di Matteo», ha spiegato al termine dell’udienza preliminare l’avvocato Alessia Angelini, difensore di Contrafatto. Un elemento che fa il paio con un altro dettaglio: l’anonima che telefonò alla giornalista di Repubblica Liana Milella dal telefono del Csm in uso a Contrafatto era la voce di una giovane donna del nord. Insomma, un identikit diverso da quello dell’ex dipendente del Csm.

«Mi spedirono a casa una busta con i verbali» 

Nelle 12 pagine di memoria emerge tutta l’amarezza della donna per una vicenda nella quale si è vista coinvolta, a suo dire, senza un perché. «Nel mese di giugno 2020 – ha spiegato – trovai sopra la cassetta delle lettere una grossa busta a me indirizzata, con il mio nominativo e l’indirizzo stampati». All’interno c’erano i verbali di Amara, ma anche un verbale che riguardava l’ex capo dell’Anm Luca Palamara. Verbali di cui aveva sentito parlare da Giulia Befera, altra assistente di Davigo, e poi dallo stesso ex pm di Mani Pulite, al rientro dal lockdown a maggio 2020. «Ricordo che era molto preoccupato» perché «chi doveva fare gli accertamenti non lo stava facendo» e «non si dava pace. Non mi riferì, però, chi lo avesse messo al corrente di questo». E non le avrebbe nemmeno mostrato i verbali prima di ottobre 2020, verbali che Contrafatto non sapeva dove fosse custoditi. Ma in tanti, al Csm, erano a conoscenza di quei documenti, tra i quali il consigliere Giuseppe Cascini, che «venne nello studio del dottor Davigo a riportare una cartellina bianca che io ritenni essere quella indicatami dalla Befera. Del resto – ha aggiunto – ho visto la stessa cartellina nelle mani del dottor Davigo anche il giorno che mi disse di andare nella stanza del vicepresidente Ermini».

Ma perché incastrare proprio Contrafatto? «Mi sono interrogata a lungo sul perché» e soprattutto «su chi potesse essere stato. Sicuramente, ho pensato, una persona a me vicina, al punto da conoscere il mio indirizzo di casa. Posso solo supporre che l’autore o l’autrice dell’invio "contasse" su una mia iniziativa personale per far emergere la vicenda all’esterno», qualcuno che forse «non aveva il coraggio di esporsi in prima persona ed assumersi la responsabilità di diffondere notizie così eclatanti». Ma «non ho mai pensato che a spedirmi il plico, e dunque a strumentalizzarmi, fosse stato il dottor Davigo, dal momento che quel modo di fare non appartiene alla sua persona». E inoltre «non mi sarei mai spinta a fare nulla del genere». D’altronde, per ben 35 anni – il periodo trascorso da Contrafatto al Csm – nessuno si è mai lamentato «della mia affidabilità». Né era mai stata definita prima «folle» o «sopra le righe», come detto da Befera e Davigo, con espressioni praticamente sovrapponibili. 

«Ardita? Una persona estremamente gentile»

Contrafatto ha parlato anche di Ardita, della cui presunta affiliazione a Ungheria era stata Befera a parlarle. «Davigo mi intimò di non far avvicinare Ardita alla sua stanza: esternai la mia incredulità – ha spiegato – dal momento che conoscevo personalmente il consigliere Ardita e lo ritenevo persona gentile e perbene, cosicché stentavo a credere che potesse essere coinvolto nella loggia massonica. Il commento lapidario del dottor Davigo fu: "c’è tutto il mondo". Ebbi l’impressione che lui credesse fermamente alle dichiarazioni contenute negli interrogatori dell’avvocato Amara». Il rapporto tra i due si era incrinato a febbraio, quando litigarono sulla scelta del nome da proporre per la procura di Roma nel corso di una riunione che Di Matteo, in aula, ha definito surreale, al punto di parlare di «minacce». Ma dopo il lockdown la situazione era degenerata. Così Ardita tentò due volte di chiarirsi con Davigo, «ma il presidente (così Contrafatto chiamava Davigo, ndr) gli chiuse la porta in faccia. Io tentai di intercedere – ha aggiunto – perché il dottor Ardita con me si era sempre dimostrato estremamente gentile», gentilezza di cui «sarò sempre riconoscente. I miei tentativi sono caduti nel nulla».

Contrafatto è amareggiata per le parole di Befera e Davigo sulla sua persona, sottolineando come mai, prima, fosse stata tacciata di complottismo. E anzi sia Befera sia Davigo si erano spesso rivolti a lei in caso di necessità. Anche la lettura in aula, da parte di Befera, delle chat con Contrafatto nelle quali la donna diceva di volersi rivolgere alla stampa per far scoppiare una bomba sarebbe stata «stravolta e mistificata. Io avrei voluto solo sensibilizzare» Marco Travaglio «affinché caldeggiasse la permanenza» di Davigo «al Csm, come in effetti è avvenuto dopo il voto (alla memoria è allegato un articolo del Fatto, ndr), ma certo mai mi sarei sognata di inviare a lui dei verbali così delicati». Ma il punto è anche un altro: Contrafatto non ha mai conosciuto Greco, «né ho mai avuto qualcosa da recriminare nei suoi confronti. Non ho inviato al dottor Di Matteo nessun interrogatorio e tantomeno lettere. Peraltro non avrei avuto necessità di spedire nulla, lavorando all’interno dello stesso edificio. Tantomeno ho mai telefonato alla dottoressa Milella. Il mio cellulare, proprio perché intestato al Csm, non aveva blocchi e mi è capitato più di una volta di lasciarlo incustodito sulla scrivania». 

Una gogna pazzesca

Tutto questo, per lei, si è trasformato in un incubo: «Dal giorno della perquisizione nella mia casa e al Csm la mia vita si è stravolta. Circondata da venti persone tra pm e finanzieri che mi chiedevano con insistenza circostanze a me sconosciute, incalzata da pressanti domande sulla mia vita personale e familiare io ho subito un vero e proprio trauma. Sono stata trattata come la peggiore dei delinquenti senza aver fatto nulla di male. La mia vita è stata data in pasto ai giornali che mi hanno battezzato "il corvo del Csm", "la postina" dei verbali. Sono stata inseguita dai giornalisti anche sotto la mia abitazione». Una vera e propria gogna.

Monica Serra per “La Stampa” il 27 Ottobre 2022.

«Alla fine andiamo carcerate noi». È la mattina del 15 ottobre 2020 e mancano cinque giorni al pensionamento del consigliere del Csm Piercamillo Davigo per sopraggiunti limiti di età. La segretaria dell'ex pm di Mani pulite, Marcella Contrafatto, e l'assistente di studio Giulia Befera sono molto preoccupate. 

Nelle chat, sequestrate dalla procura romana e solo ora depositate al processo che vede Davigo imputato a Brescia per rivelazione del segreto d'ufficio - per aver diffuso i verbali segretati di Piero Amara sulla fantomatica loggia Ungheria - le due donne si scambiano pensieri su quello che sta accadendo al Consiglio superiore della magistratura. Su un presunto «complotto» contro Davigo, sui «poteri forti che decidono tutto a tavolino». Sulla «bomba che bisognerebbe far esplodere» sui giornali per impedire che termini il mandato dell'«ultimo baluardo della legalità».

La prima a scrivere è Contrafatto, poi licenziata dal Csm, ora imputata a Roma per calunnia ai danni del procuratore milanese in pensione Francesco Greco. Soprattutto indagata in un secondo fascicolo per rivelazione del segreto d'ufficio e favoreggiamento personale: un'inchiesta che l'accusa di essere l'autrice del dossieraggio a diverse testate giornalistiche dei verbali segretati di Amara, che il pm milanese Paolo Storari aveva consegnato a Davigo per «tutelarsi dalla inerzia della procura» che le indagini non hanno confermato. 

L'ex segretaria di Davigo, che si è rifiutata di testimoniare a Brescia perché imputata nell'altro processo, racconterà per la prima volta la sua verità il 27 novembre al gup romano che dovrà decidere se rinviarla o meno a giudizio. «Tu conosci la mail personale di Marco Travaglio?», chiede Contrafatto a Befera (non indagata). «Come mai?». La risposta: «Potrebbe essere utile». «Ma prima di lunedì o martedì» sottolinea la più giovane assistente presentata a Davigo proprio da Contrafatto e che ha finito di lavorare al Csm al termine del mandato del consigliere. «Ma non possiamo dire quello che sappiamo. Come? Con che prove? Alla fine andiamo carcerate».

Come Befera spiegherà all'udienza del processo bresciano in cui ha testimoniato, la volontà più volte manifestata da Contrafatto - che definisce «sopra le righe, ultimamente fuori di testa» - di rivolgersi ai giornali le sembrava una «pazza idea», un «intento fantasioso». «Meriterebbero un ricatto: se sto fuori racconto tutto. Ma che ci vuole?», è sempre Befera a scrivere, riferendosi a Davigo.

«Non dirà niente. Stefano dice che potrebbero ammazzarlo. Ho avuto paura», scrive Contrafatto tirando in ballo il magistrato Stefano Amore, assistente alla Corte costituzionale. «Parliamo di poteri forti. Maledetto il giorno in cui ha saputo queste cose. È iniziata la fine di tutto», sostiene riferendosi ai verbali su Ungheria che sono «in uno scaffale» dell'ufficio di Davigo noto a entrambe. 

Contraffatto rincara la dose: «Pensavo a un grande titolo a effetto sul giornale: "Ricattato dai vertici del Quirinale. Come mai? Personaggio scomodo"». Befera prova a tagliare corto: «Davigo non ne sarebbe contento». La risposta: «Lui non deve sapere. Lui non lo saprà mai». E ancora scrive Contrafatto: «Non siamo solo noi che sappiamo. Sono sicura che Ermini lo sa, che Salvi lo sa. Lo sa Marra, lo sa Ilaria. Perché proprio noi? Io manco ho mai visto niente».

Emiliano Fittipaldi per “Domani” il 20 ottobre 2022.

Come chiarito dalle carte giudiziarie pubblicate da Domani, Raffaele Cantone e i pm della procura di Perugia che hanno chiesto l’archiviazione dell’inchiesta sulla Loggia Ungheria («non ci sono riscontri né prove della sua esistenza») considerano Piero Amara un pentito spesso attendibile. 

I cui racconti contro giudici, politici e potenti assortiti sono stati – associazione segreta a parte – più volte riscontrati. Tanto che le sue accuse hanno portato condanne pesanti contro magistrati ed ex parlamentari (Denis Verdini il più recente) nei tribunali di Roma e di Messina.

Tra le storie dell’ex avvocato esterno dell’Eni che Cantone ha messo sotto la lente d’ingrandimento ce n’è una affatto scialba, che ha portato (come anticipato da Giacomo Amadori sulla Verità) all’apertura di un fascicolo per ora senza indagati e senza ipotesi di reato a cui sta lavorando la procura di Messina.

La vicenda è quella, in parte ancora oscura, che ruota intorno all’omicidio di Luigi Ilardo, un ex boss di Cosa nostra che divenne confidente dei carabinieri, prima di essere tradito da qualcuno nelle nostre istituzioni che lo vendette alla mafia catanese, che lo ammazzò in auto una sera del 10 maggio del 1996.

Ilardo era imparentato con la famiglia dei Madonia (il cugino era il numero due della Cupola comandata da Totò Riina), alle spalle dieci anni di carcere, era chiamata fonte “Oriente” dagli investigatori che nel 1993 iniziarono a ascoltare il pentito che aveva deciso di cambiare vita e “normalizzarla”, trasformandosi in un infiltrato.

È così che inizia la collaborazione con Michele Riccio, colonnello dei Ros, a cui racconta segreti delle famiglie mafiose che avevano dato il via alla stagione del terrore. Sentenze alla mano, è un fatto che Ilardo riesce a portare gli inquirenti a pochi passi da un nascondiglio di Bernardo Provenzano, e che si fosse deciso a svelare i retroscena da lui conosciuti dei massacri del 1992, dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un uomo diventato pericolosissimo per i padrini, che ordinarono di ammazzare la fonte “Oriente” prima che potesse raccontare tutto quello che sapeva.

Possibile che oltre alla mafia anche pezzi dello stato temevano le confessioni dell’ex boss? Amara con i pm di Perugia parla proprio dell’assassinio di Ilardo. È il 6 settembre 2021, e il legale siciliano è rinchiuso nel carcere di Terni. Accetta di essere ascoltato da Cantone. Stavolta l’avvocato, rispetto a quanto detto in interrogatori precedenti, comincia anticipando la nascita della loggia Ungheria al 1993, «collegandola casualmente alla “crisi” di valori del paese successiva a Tangentopoli».

Per poi affermare come «uno dei problemi concreti che la loggia dovette affrontare fu la gestione dei procedimenti nei confronti di Silvio Berlusconi aperti a Palermo e a Catania in relazione al “dopo stragi” rispetto ai quali (Amara) accenna al ruolo che avrebbero avuto i magistrati Paolo Giordano e Alessandro Centonze», quest’ultimo ex giudice delle indagini preliminari a Caltanissetta. Per la cronaca, Berlusconi e Marcello Dell’Utri sono stati già archiviati anni fa nei vari processi siciliani sulle vicende del 1992 e 1993, ma pende su di loro l’indagine dei pm di Firenze che li hanno iscritti per concorso in strage in merito a un presunto ruolo di mandanti esterni: presto i magistrati potrebbero chiedere il rinvio a giudizio dei due fondatori di Forza Italia oppure, come molti osservatori si aspettano, una nuova archiviazione.

Secondo Amara, sintetizza Cantone, «questo intervento di Ungheria ci sarebbe stato grazie e per effetto del profondo legame tra Giovanni Tinebra (potente magistrato ormai deceduto, e definito di fatto fondatore e animatore di Ungheria, ndr) e Berlusconi e del suo governo». Tinebra, che dal 1992 al 2001 fu procuratore della Repubblica di Caltanissetta e titolare delle inchieste sugli eccidi di Capaci e di via d’Amelio, nonché “gestore” del falso pentito Vincenzo Scarantino, avrebbe «gestito in modo scorretto i procedimenti nei confronti di Berlusconi pendenti nella sua procura». E poi organizzato l’avvio della collaborazione di Ilardo, «sostanzialmente boicottandola».

Cantone, appena ascoltato Amara, visto la gravità delle ricostruzioni ha girato le sue dichiarazioni alla procura nazionale antimafia, che dopo venti giorni ha inviato una nota dettagliata sui fatti con la quale «si può affermare che alcune circostanze narrate da Amara sono (almeno in parte) riscontrate». 

Non solo perché nella sentenza che ha condannato il boss Giuseppe Madonia e altri mafiosi per l’omicidio di Ilardo «si trovano elementi potenzialmente confermativi delle dichiarazioni di Amara» si legge nel rapporto dell’Antimafia «ad esempio sull’interessamento del dottor Tinebra nella gestione della prossima collaborazione di Ilardo».

Ma anche perché il colonnello Riccio dei Ros, il primo a cui il pentito si avvicinò esternando la volontà di collaborare con lo stato, si era convinto dell’«infedeltà di soggetti istituzionali. È evidente come i suoi sospetti attingano, oltre che i vertici dell’epoca dei Ros, l’allora procuratore di Caltanissetta Tinebra. Al quale nel racconto di Riccio sarebbe imputabile il rinvio della collaborazione di Ilardo, con la conseguente accelerazione dei tempi dell’omicidio al fine di congiurare l’imminente formalizzazione della scelta» del pentito. 

L’ex mafioso, in effetti, fu lasciato solo da chi lo doveva difendere: preziosa fonte informativa dal 1993 al 1996, non riuscì ad entrare mai ufficialmente nel programma di protezione testimoni, e fu ammazzato a causa di una probabile soffiata istituzionale, come fa intendere la sentenza sul suo assassinio.

Non è tutto. Nelle righe che la procura antimafia manda a Cantone si segnalano altri «riscontri alle dichiarazioni dell’Amara». Ad esempio sul giudice Antonino Ferrara, al tempo gip a Catania, che nell’aprile del 2000 «effettivamente dispose l’archiviazione in merito agli appunti e alle dichiarazioni di Michele Riccio che coinvolgevano Tinebra, ipotizzando sue responsabilità in merito all’omicidio di Ilardo».

Il capo della procura umbra sottolinea infine come «in merito ad Alessandro Centonze (magistrato che Amara dice di essere a Tinebra assai legato, ndr) dalla nota si evince che effettivamente il medesimo pm, presso la procura di Caltanissetta, ha gestito unitamente a Paolo Giordano il procedimento “sui mandanti occulti bis delle stragi” che vedeva indagato anche Berlusconi e Dell’Utri, per il quale nel giugno del 2003 venne richiesta l’archiviazione dal procuratore e dal pm Giordano». 

Alla fine della fiera, le carte perugine danno atto ad Amara che le ombre gettate sulla figura di Tinebra «in relazione all’omicidio» della fonte Oriente non sono affatto inventate, e che è veritiero «il dato storico dell’archiviazione decisa dal gip Ferrara del procedimento relativo anche al coinvolgimento di Tinebra». L’ex capo della procura e del Dap è morto ormai da sei anni, molti dei fatti sono vecchi di decenni, ed è improbabile che i pm di Messina possano fare nuove indagini per capire se davvero pezzi dello stato abbiano tradito Ilardo, oppure se Tinebra “aggiustò” i processi di Berlusconi. Ma per Cantone Amara della vicenda sa molto. Al netto dell’inutilità della storia in relazione alla volontà del pregiudicato di voler provare l’esistenza della fantomatica Ungheria.

Amara “rivela”, la Dna riscontra: ma sono suggestioni già conosciute. La Direzione nazionale antimafia sarebbe giunta alla conclusione che questi fatti narrati sono riscontrati, ma si tratta di ricostruzioni pubbliche. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 ottobre 2022.

Dalla notizia data da Il Domani si apprende che Piero Amara ha fatto nuove “rivelazioni”. Nonostante sia stata sconfessata l’esistenza della cosiddetta loggia Ungheria, la magistratura inquirente ha continuato ad ascoltarlo e addirittura, almeno così emerge dalla ricostruzione giornalistica, la Direzione nazionale antimafia ha trovato i riscontri. Peccato che le sue dichiarazioni siano narrazioni note alla conoscenza di chiunque e fortemente opinabili.

Quali sarebbero queste scottanti rivelazioni? Che la prima inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi di Capaci e Via D’Amelio sarebbe stata archiviata su pressione dell’allora capo della procura di Caltanissetta Gianni Tinebra (episodio, in realtà, già “denunciato” dal magistrato Nino Di Matteo) e addirittura con la complicità dell’allora sostituto procuratore Francesco Paolo Giordano. Quest’ultimo un magistrato per bene, ma “reo” di aver chiesto l’archiviazione.

Una grave colpa, che a questo punto è stata reiterata da altri suoi colleghi. Nel ’98, la procura di Firenze l’ha archiviata per mancanza di prove. Dopo quattro anni è stata la volta della procura di Caltanissetta. A indagare i pm Luca Tescaroli e Di Matteo, ma anche quella volta un nulla di fatto: archiviata. Ci riprova nuovamente la procura di Firenze nel 2008 con l’ennesimo fallimento. Arriviamo nel 2017, siamo nuovamente a Firenze, e l’indagine viene riaperta come conseguenza delle intercettazioni dei colloqui in carcere del boss di Brancaccio. Giuseppe Graviano, effettuate nell’ambito dell’inchiesta sul teorema trattativa Stato-mafia. Ma visto quello che è emerso, ovvero quasi tutte suggestioni, il destino probabilmente sarà lo stesso di sempre. Con tutte queste archiviazioni, casomai dimostra la fondatezza della richiesta di archiviazione del magistrato Francesco Paolo Giordano.

Pietro Amara ha anche “rivelato” delle responsabilità dell’omicidio del pentito Luigi Ilardo, ucciso nel 1996 e -secondo contraddittorie ricostruzioni e mai accertate dai fatti-, prima che potesse raccontare presunti retroscena degli eccidi di Falcone e Borsellino. In sostanza ha raccontato ciò che si scrive da anni sui soliti giornali, libri e convegni sponsorizzati da taluni magistrati.

La Direzione nazionale antimafia, almeno così si apprende da Il Domani, sarebbe giunta alla conclusione che questi fatti narrati sono riscontrati. Certo, come già detto, sono ricostruzioni pubbliche. Che riscontro sarebbe? Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, rilasciò una bella intervista al compianto Giuseppe D’Avanzo. Alla domanda sul terzo livello ed entità, ecco cosa rispose: «Credo che sia fuorviante immaginare una Spectre dietro le azioni della mafia e vedere questo delitto come una strage di Stato. Prima di avventurarsi in questo ragionamento, bisogna accertare i fatti e attenervisi». Attenersi ai fatti dovrebbe essere anche la missione di una seria Direzione nazionale antimafia. E i fatti, come quelli reclamati da Fabio Trizzino, avvocato dei figli di Borsellino, non mancando di certo.

Le dichiarazioni dell'avvocato. Il giornale di De Bendetti “sponsorizza” Amara: sul Domani la richiesta di archiviazione. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Ottobre 2022 

Un articolo apparso ieri sul quotidiano Domani ha fatto tornare ancora una volta alla ribalta le gesta dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, gola profonda di almeno sei Procure. Un tentativo, quello di Amara, di attribuirsi e farsi attribuire una sia pur parziale attendibilità per poter riacquisire la libertà ma soprattutto poter godere del patrimonio che alla data odierna non risulta inspiegabilmente sequestrato.

Al momento l’unica Procura italiana che pare essere rimasta a dargli credito è quella di Perugia mentre fioccano nei suoi confronti decine di procedimenti per calunnia. Ma andiamo con ordine. Nell’articolo sono riportate le dichiarazioni rese il 6 settembre del 2021 da Amara, mentre era in carcere a Terni, ai pubblici ministeri perugini e poi confluite nella richiesta di archiviazione sulla Loggia Ungheria di cui ancora nessuno degli indagati, a differenza del giornalista del quotidiano di Carlo De Benedetti, risulta avere copia. Stralci parziali dell’atto e, con ogni probabilità, di altri atti di indagine che mettono in difficoltà il gup del Tribunale di Perugia Angela Avila, vittima dell’ennesima e non perseguita fuga di notizie, che nei prossimi giorni dovrà esprimersi proprio su questa richiesta di archiviazione.

L’intento dell’articolo pare essere quello di attribuire credito al racconto di Amara che ha rispolverato davanti al procuratore di Perugia Raffaele Cantone una storia vecchia ed arcinota: quella sulle dichiarazioni del pentito di mafia Luigi Ilardo e sulla connivenza dell’ex procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra con la loggia Ungheria e con Silvio Berlusconi. A rendere ancora più inquietante la vicenda sono queste dichiarazioni su fatti e notizie facilmente reperibili da fonti aperte e addirittura discusse negli anni passati al Csm. Ciò nonostante, nel tentativo di dare un barlume di credibilità al racconto di Amara, la Procura di Perugia si è trovata costretta a scrivere alla Procura nazionale antimafia retta da Giovanni Melillo che, evidentemente, non ha potuto far altro che confermare quello che era già noto: si tratta di fatti e di vicende risalenti nel tempo.

Circostanza, quella della interlocuzione fra Cantone e Melillo, finita in maniera sorprendente anch’essa nell’articolo. La fuoriuscita di anticipazioni della richiesta di archiviazione della Loggia accende un faro anche sui traballanti processi perugini a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Il concreto rischio che il ‘pentito’ Amara possa essere bollato come teste falso rischia di esporre a pericolo non tanto egli stesso, oramai subissato da numerosi procedimenti per calunnia, quanto soprattutto quei pm che gli hanno dato credito. Amara ha, infatti, riferito fatti di dominio pubblico ed in particolare, per quanto riguarda Berlusconi, i contenuti della richiesta di archiviazione fatta dall’allora procuratore della repubblica di Catania Mario Busacca e dal procuratore aggiunto Vincenzo D’Agata il 12 gennaio 2005 e il decreto di archiviazione del presidente della sezione gip Sebastiano Cacciatore il 31 gennaio 2005 e, a seguito di ulteriore indagine, anche il 13 luglio 2006.

Per quanto riguarda invece la vicenda Ilardo, Amara ha invece riferito i contenuti della sentenza emessa dalla Corte di Assise di Catania il 27 febbraio 2018 che ha condannato Giuseppe Madonia, Vincenzo Santapaola, Maurizio Zuccaro e Orazio Benedetto Cocimano all’ergastolo per il suo omicidio. La nota della Procura nazionale antimafia inviata alla Procura di Perugia e finita non si sa come nelle mani del Domani non fa altro, quindi, che riportare i contenuti di questi provvedimenti a tutti noti e che, contrariamente a quanto indicato nell’articolo, non idonei a riscontrare alcunché. La vicenda del pentito tarocco Vincenzo Scarantino dovrebbe aver insegnato qualcosa. Paolo Comi

(ANSA il 13 ottobre 2022) - "Piercamillo Davigo mi parlò in modo sommario e confidenziale dei verbali su una ipotetica loggia all'interno della quale si diceva ci fossero esponenti delle forze dell'ordine e magistrati e mi fece il nome di Sebastiano Ardita. Mi disse che quei verbali gli erano stati consegnati da qualcuno della procura di Milano ed era preoccupato di un certo immobilismo, che non venisse aperta una indagine per capire.  Era preoccupato per il nome di Ardita, una persona che conosceva molto bene e aveva frequentato". 

Lo ha spiegato in aula a Brescia, Giulia Befera, assistente giuridica dell'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo imputato a Brescia per il caso dei verbali di Piero Amara. La testimone sta parlando davanti al Tribunale nel corso del processo ripreso oggi dopo la pausa estiva. "Io sapevo che Davigo voleva compulsare l'avvio delle indagini".

(ANSA il 13 ottobre 2022) - "Marcella Contrafatto mi disse 'ho questa pazza idea' ossia di mandare i verbali ai giornali per ristabilire un ordine, nella sua ottica, dopo il voto contrario sulla permanenza di Davigo al Csm" . 

Lo ha spiegato in aula a Brescia Giulia Befera, assistente giuridica dell'ex consigliere del consiglio superiore della magistratura Piercamillo Davigo imputato per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. Befera, nel raccontare quanto le disse la collega, si riferisce a uno scambio di messaggi via telefono aggiungendo di aver risposto alla donna, indagata a Roma, "stai scherzando? Il consigliere Davigo non ne sarebbe felice. Io mi dissocio". Befera ha spiegato che "Davigo non era stato al corrente al 100% dell'iniziativa" della Contrafatto che lo lasciò "choccato".

(ANSA il 13 ottobre 2022) - "I nostri rapporti personali sono finiti perché io non mi fidavo più di lui e non gli ho rivolto più la parola. Pensavo mi nascondesse qualcosa". È un passaggio della dichiarazione spontanea resa in aula a Brescia da Piercamillo Davigo, ex componente del Csm imputato per la vicenda dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. 

Davigo si riferisce al consigliere uscente del Consiglio superiore della magistratura Sebastiano Ardita, indicato da Amara tra componenti della presunta e mai accertata Loggia, parte civile al processo in quanto ritiene di essere stato danneggiato dalla diffusione di quei verbali. Davigo ha ricordato che i contrasti con Ardita sono cominciati ben prima di aver saputo della vicenda Ungheria.

Davigo ha spiegato al collegio presieduto dal giudice Roberto Spanò, che lo scontro con Ardita, allora compagno di corrente, sulla nomina del Procuratore di Roma, nel febbraio 2020, "è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso". In precedenza c'era stata una serie di episodi che "inizialmente pensavo fossero di natura caratteriale ma poi mi hanno preoccupato. Uuna somma di varie cose che mi ha fatto interrompere i rapporti. Non gli ho più rivolto la parola. Poi è arrivata loggia Ungheria...". 

Oggi è stata convocata come teste la consigliera del Csm uscente Ilaria Pepe, tra i primi a Palazzo dei Marescialli ad essere informata da Davigo delle dichiarazioni di Amara. Al termine del primo lockdown, ai primi di maggio del 2020, nel cortile di palazzo dei Marescialli, Davigo "mi disse che era preoccupato per alcune dichiarazioni rese alla Procura di Milano che collocavano due consiglieri, Ardita e Mancinetti, in una loggia.

Rimasi colpita e gli chiesi che cosa aveva intenzione di fare visto che noi arrivavamo da un terremoto non secondario" ossia il caso Palamara, "che già pregiudicava la tenuta del Consiglio". Ilaria Pepe ha precisato che Davigo aveva intenzione di riferire al vicepresidente del Csm David Ermini, affinché informasse il presidente Sergio Mattarella, e al pg della Cassazione Giovanni Salvi. 

"Era preoccupato dalle dichiarazioni di Amara e dal fatto che non si facevano indagini". Pepe, tra l'altro, ha precisato di aver successivamente visto fisicamente i verbali, in quanto Davigo glieli mostrò, ma di non averli "mai letti" e che, riguardo al segreto istruttorio, "mi assicurò che a noi consiglieri non era opponibile". Infine, rispondendo a una domanda precisa, Pepe ha detto di aver ricevuto da Davigo un "invito alla cautela" nei rapporti con Ardita. Così dopo aver saputo delle dichiarazioni di Amara "ho preso ancora più le distanze. Ovviamente ero preoccupata".

«Contrafatto voleva vendicarsi del torto subito da Davigo al Csm». Caso verbali, in aula la testimonianza dell’ex assistente giuridica Giulia Befera. L’ex segretaria del pm di Mani Pulite indagata anche per rivelazione di segreto. Simona Musco su Il Dubbio il 14 ottobre 2022.

La testimone più attesa, alla fine, non si è presentata in aula. Marcella Contrafatto, la presunta postina dei verbali di Piero Amara sulla loggia Ungheria, ex segretaria dell’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere ieri a Brescia, dove è in corso il processo nei confronti dell’ex pm di Mani Pulite per rivelazione di segreto d’ufficio.

Un’assenza comunicata via mail e non giustificata dalla sua veste di imputata per calunnia nei confronti dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco – formulata sempre in relazione alla diffusione dei verbali -, ma in virtù di una nuova inchiesta della procura di Roma, che indaga su di lei per lo stesso reato che oggi vede alla sbarra Davigo. E proprio in merito a questo procedimento, l’ex segretaria – licenziata dal Csm senza attendere l’evoluzione della sua vicenda giudiziaria – ha intenzione di rendere dichiarazioni spontanee davanti al gip di Roma il prossimo 25 novembre.

Il presidente del collegio Roberto Spanò ha dunque proposto di acquisire i verbali di quelle dichiarazioni, ammettendo che «la perdita di questo teste può essere più di un danno per l’accertamento della verità». Ieri a parlare è stata però l’ex assistente giuridica di Davigo, Giulia Befera. Che ha raccontato di come Davigo le abbia riferito di essere venuto a conoscenza dell’indagine della procura di Milano sulla presunta (e smentita) esistenza della loggia dal pm Paolo Storari, che gli consegnò i verbali ad aprile 2020, lamentando l’inerzia dei colleghi. «Mi aveva detto che era in stallo ed era preoccupato da questo immobilismo», ha raccontato.

In quell’occasione – siamo agli inizi di maggio 2020 – Davigo le riferì in via confidenziale, nel cortile di Palazzo dei Marescialli, che tra i presunti affiliati c’erano, oltre che membri delle Forze dell’ordine e della magistratura, anche due consiglieri del Csm in carica, ovvero Sebastiano Ardita, suo ex amico e parte civile nel processo, e Marco Mancinetti. «Mi fece qualche nome, tra cui quello di Ardita», ha sottolineato. Nome che poi, in un secondo incontro, Befera vide direttamente sui verbali. Ma la parte più corposa delle dichiarazioni della teste ha riguardato Contrafatto e i messaggi scambiati tra le due nel periodo che precedette e seguì la fine dell’esperienza di Davigo al Csm, dal quale fu “cacciato” con voto del plenum avendo raggiunto l’età del pensionamento. Un “allontanamento” che, paradossalmente, non trovò d’accordo proprio quello che ormai era l’ex amico Ardita, che votò a favore della permanenza di Davigo in Consiglio.

«Lei mi mandò un messaggio chiedendomi la mail di Marco Travaglio e dicendomi “ho questa pazza idea di mandare i verbali a giornali e giornalisti per ristabilire un ordine” – ha raccontato -. Nella sua ottica si doveva sapere la verità. Le ho risposto dicendo che Davigo non ne sarebbe stato felice. Mi ero completamente dissociata. Davigo non ne era al corrente al 100 per cento». E l’ex pm, di fronte alla divulgazione dei verbali, era apparso «scioccato» : «Ci siamo incontrati – ha aggiunto Befera – e mi ha detto che non avrebbe mai immaginato che Marcella sarebbe arrivata a tanto. Aveva capito che lei aveva agito con un fine di giustizia, per riequilibrare un ordine. Ma lei vedeva molti complotti e pensava che questa divulgazione potesse compensare» il torto subito da Davigo. Insomma, «un’iniziativa vendicativa, ma di suo solo pugno: dal suo punto vista ha agito immaginando di poter far del bene».

Davigo, infatti, era stato rassicurato sulla possibilità di rimanere in Consiglio. Ma a pochi giorni dal voto il procuratore generale e il primo presidente della Cassazione gli avevano annunciato il loro voto contrario, rendendo ormai certa la cessazione della sua esperienza al Csm il giorno del suo 70esimo compleanno. Proprio per tale motivo, secondo Befera, Contrafatto voleva far scoppiare una bomba giornalistica, con titoloni sul Fatto Quotidiano, pensando così di «poter deviare il corso degli eventi» : la cacciata di Davigo dal Csm, secondo l’ex segretaria, era infatti legata al fatto di essere venuto a conoscenza dell’esistenza della loggia. Contrafatto era dunque una donna «sopra le righe», secondo Befera.

In aula, ieri, ha testimoniato anche Ilaria Pepe, attuale consigliera del Csm eletta nella lista di Autonomia& Indipendenza, la corrente fondata da Ardita e Davigo. Anche a lei Davigo parlò dei verbali a inizio di maggio 2020, nel cortile del Csm, dicendosi «estremamente preoccupato» per la presunta affiliazione di Ardita e Mancinetti. «I verbali li ho visti fisicamente, ma non li ho mai letti, perché lì per lì ebbi la sensazione di essere coinvolta in una cosa più grande di me. Ma non parlammo del fatto che fossero secretati», ha spiegato Pepe. Alla quale Davigo disse di cautelarsi, «perché laddove le dichiarazioni fossero state dimostrate noi, in quanto gruppo, saremmo stati verosimilmente chiamati a dare conto di ogni nostro contatto e vicinanza con Ardita».

Ma le discussioni tra i due magistrati precedono la vicenda dei verbali e risalgono alla travagliata scelta del nuovo procuratore di Roma: dopo aver votato in Commissione per Marcello Viola, indicato a sua insaputa come candidato da favorire durante la famosa cena all’Hotel Champagne, Davigo virò su Michele Prestipino, mentre Ardita sosteneva la candidatura di Giuseppe Creazzo, anche lui tra le vittime collaterali di quel summit notturno. La questione portò ad uno scontro tra i due durante un vertice del gruppo di A& I. Una discussione che «ha rilasciato tossine – ha ricordato Pepe – e lì per lì Davigo disse che avrebbe interrotto i rapporti con Ardita».

In quell’occasione, infatti, Davigo reagì malamente contro Ardita, dicendogli «tu non mi dici tutto». Ed è stato in questo momento che l’ex pm di Mani Pulite ha spiegato i motivi del suo allontanamento dall’ex amico. Dovuto non solo al contrasto su Roma, ma a tanti piccoli momenti per lui sintomo di un comportamento poco trasparente. «Accade in sequenza una serie di cose che inizialmente ho attribuito a questioni di natura caratteriale, ma poi mi hanno preoccupato», ha dichiarato. Tra le quali «lo stato di prostrazione» vissuto a suo dire da Ardita dopo lo scandalo dell’Hotel Champagne, «come se avesse da temere chissà che», tanto da dire «che vuole dimettersi».

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è però un’altra: «Per due o tre giorni si è chiuso in ufficio con Lepre (Antonio, ex consigliere, presente all’Hotel Champagne, ndr). Ok, siamo colleghi, ma io dopo aver saputo che si erano riuniti con un imputato della procura di Roma (Luca Lotti, ndr) per discutere della nomina del nuovo procuratore non ho dato più la mano a nessuno. Gli ho detto: ma ti rendi conto che qualcuno può chiamarti in correità, vuoi essere un po’ prudente? Non mi fidavo più di lui e ho interrotto i rapporti. È chiaro che quando è emersa la storia di Ungheria ho reinterpretato tutte queste vicende».

Estratto dell’articolo di Ermes Antonucci per “Il Foglio” il 15 ottobre 2022.

È stata un’udienza da dimenticare per Piercamillo Davigo, quella svoltasi ieri a Brescia nell’ambito del processo che vede l’ex pm di Mani pulite ed ex consigliere del Csm imputato per rivelazione di segreto d’ufficio. L’accusa è di aver divulgato i verbali segreti di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria, ricevuti dal pm milanese Paolo Storari nell’aprile 2020. 

L’ex assistente  di Davigo, Giulia Befera, ha infatti ammesso molto serenamente di aver avuto notizia dell’indagine e anche di alcuni nomi dei soggetti coinvolti (in particolare dell’allora membro del Csm Sebastiano Ardita, parte civile nel processo) proprio dal suo “capo”: “Piercamillo Davigo mi parlò in modo sommario e confidenziale dei verbali su una ipotetica loggia all’interno della quale si diceva ci fossero esponenti delle forze dell’ordine e magistrati e mi fece il nome di Sebastiano Ardita.

Mi disse che quei verbali gli erano stati consegnati da qualcuno della procura di Milano ed era preoccupato di un certo immobilismo, che non venisse aperta una indagine per capire. Era preoccupato per il nome di Ardita, una persona che conosceva molto bene e aveva frequentato”. 

“Quando mi parlò della presunta loggia Ungheria mi fece vedere qualche rigo dove si faceva un elenco dei nomi, i verbali li ho visti cartacei dalle mani di Davigo”, ha aggiunto Befera. […] 

Befera ha messo nei guai anche Marcella Contrafatto, all’epoca segretaria di Davigo, ora indagata per calunnia a Roma con l’accusa di aver inviato copia dei verbali secretati ad alcuni giornalisti e al consigliere del Csm Nino Di Matteo. “Marcella Contrafatto mi disse ‘ho questa pazza idea’, ossia di mandare i verbali ai giornali per ristabilire un ordine, nella sua ottica, dopo il voto contrario sulla permanenza di Davigo al Csm”, ha riferito Befera.

Il riferimento è alla delibera con cui il Csm aveva decretato la decadenza dell’ex pm di Mani pulite dalla carica di togato a Palazzo dei Marescialli, per raggiunti limiti di età. Contrafatto giunse a chiedere a Befera l’e-mail di Marco Travaglio, direttore del Fatto quotidiano. “Io le dissi che Davigo non ne sarebbe stato assolutamente felice, mi sono dissociata”, ha aggiunto Befera nella sua testimonianza in aula a Brescia, aggiungendo che Davigo era all’oscuro di quanto sarebbe stato fatto dall’ex segretaria.

 Nell’udienza di ieri è stata sentita come testimone anche Ilaria Pepe, componente togata del Csm. Pepe ha confermato di essere stata informata da Davigo agli inizi di maggio 2020 sull’esistenza dell’indagine sulla presunta loggia Ungheria: “Davigo mi parlò nel cortile del Csm di dichiarazioni rese da Amara alla procura di Milano. Mi disse che era estremamente preoccupato perché nelle dichiarazioni Amara indicava due componenti del Consiglio, Ardita e Mancinetti, come vicini, affiliati o coinvolti in una loggia”. 

Pepe ha anche confermato di aver “fisicamente visto” i verbali di Amara, ma di non averli letti, poiché Davigo aveva detto che avrebbe informato della vicenda il vicepresidente del Csm e il procuratore generale della Cassazione. […]

Davigo, come sempre presente all’udienza, non si è trattenuto anche questa volta dal rilasciare alcune dichiarazioni spontanee per chiarire le dinamiche del suo rapporto con Ardita: “I nostri rapporti personali sono finiti perché io non mi fidavo più di lui e non gli ho rivolto più la parola. Pensavo mi nascondesse qualcosa”, ha detto Davigo, precisando che i contrasti con Ardita sono cominciati ben prima di aver saputo della vicenda Ungheria, e più precisamente ai tempi dello scandalo dell’hotel Champagne. “Questa non è una causa di separazione e divorzio”, aveva ironizzato in precedenza (inutilmente) il giudice Spanò.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 21 settembre 2022.

Accusato nel luglio 2019 dall'indagato ex avvocato Eni Piero Amara d'aver cercato con il numero uno Eni Claudio Descalzi di depistare il processo Eni-Nigeria, «le prove nei confronti» del capo della Sicurezza Eni, Alfio Rapisarda, «non hanno trovato riscontro, e questo è sicuramente sufficiente per escluderne ogni responsabilità, ma di per sé non configura a carico di Amara il reato di calunnia», giacché «non vi è prova che i fatti riferiti da Amara siano falsi né che abbia agito con il dolo di calunniarlo»: può finire così, pari e patta?

Sì per l'aggiunto della Procura della Repubblica milanese Laura Pedio con i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco, la cui richiesta il 26 aprile di archiviare Amara era in agenda oggi davanti al gip Magelli. No, invece, per la Procura Generale guidata da Francesca Nanni: che, come di rado accade, l'ha avocata (cioè tolta) ai pm, assegnandola alla pg Celestina Gravina affinché ne rivaluti la fondatezza nel merito (come insisteva il legale di Rapisarda, Paolo Tosoni) e la competenza (Brescia).

Potenza, il gup boccia Amara: «L’ex avvocato non è affidabile». No al patteggiamento a 3 mesi. La difesa insiste: ha fatto scoprire le trame di Capristo. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Settembre 2022.

L’avvocato siciliano Piero Amara avrebbe continuato a delinquere anche dopo il 2018, e - soprattutto - non avrebbe prestato una collaborazione sufficiente a meritare un patteggiamento a tre mesi. Cioè quello concordato con la Procura di Potenza nell’ambito dell’inchiesta che coinvolge anche l’ex procuratore di Taranto, Carlo Capristo. La circostanza è emersa nell’ambito dell’udienza preliminare davanti al gup lucano Annachiara Di Paolo, che deve decidere se rinviare a giudizio l’ex procuratore insieme all’ex commissario Ilva, Enrico Laghi, all’ex poliziotto Filippo Paradiso, all’avvocato Giacomo Ragno e all’ex pm Antonio Savasta.

La proposta di patteggiamento è infatti stata respinta già a giugno, sulla base di due elementi. Intanto per il fatto che Amara risulta condannato per una bancarotta commessa nell’aprile 2018, cioè due mesi dopo l’arresto (anche se relativa a fatti di molti anni prima). E poi, appunto, l’impossibilità di valutarne il contributo alle indagini di Potenza. Il difensore dell’avvocato siciliano, Salvino Mondello, ha però annunciato che riproporrà la richiesta di patteggiamento nella prossima udienza (17 ottobre): con una memoria sostiene, in estrema sintesi, che Amara sia stato determinante per mettere a fuoco le accuse ora mosse a Capristo e agli altri coindagati.

La Procura di Potenza ritiene che l’ex procuratore di Trani e Taranto (che per questa vicenda l’8 giugno 2021 fu sottoposto ad obbligo di dimora) avrebbe «venduto la propria funzione giudiziaria» ad Amara, a Laghi e al consulente Nicola Nicoletti (che ha patteggiato 16 mesi) in cambio «del costante interessamento» per la sua carriera e «per ottenere i vantaggi economici e patrimoniali in favore del suo inseparabile sodale», l’avvocato Ragno. Amara ritiene di aver consentito alla Procura di Potenza di comprendere bene il ruolo di Capristo nello scambio di favori contestato dall’accusa: «Non era certamente Taranto la sede cui originariamente aspirava il dott. Capristo», scrive la difesa di Amara, riferendosi alla candidatura per la Procura generale di Bari in cui fu battuto al filo di lana nella votazione al Csm. Amara si intesta anche il merito di aver «ben evidenziato il ruolo che aveva avuto nella vicenda de qua il prof. Laghi, sia nella fase iniziale del conferimento dell’incarico all’avv. Amara sia in relazione alle nomine pervenute all’avv. Ragno da parte della struttura commissariale» dell’Ilva, oltre che di aver tirato in ballo l’ex pm Savasta («sconosciuto nella fase dell’indagine preliminare»), che ora risponde di rivelazione di segreto d’ufficio in relazione al falso esposto contro i vertici Eni che Amara fece pervenire a Capristo mentre era ancora procuratore di Trani.

Ma è ancora più interessante quello che Amara scrive per accreditare la sua credibilità giudiziaria nei processi in cui ha già patteggiato e nelle inchieste che ancora lo coinvolgono tra Roma, Milano e Perugia. A partire proprio dalla vicenda della loggia segreta Ungheria di cui si parla nei verbali di interrogatorio della Procura di Milano: «All’esito delle indagini - scrive la difesa - non è stato affatto affermato che la vicenda Ungheria sia stata una invenzione dell’avv. Amara, ma semplicemente che “l’esistenza dell’associazione non è stata adeguatamente riscontrata”». E questo mancato riscontro «non può essere addebitato ad imprecisioni dell’avv. Amara, ma soprattutto al comportamento quantomeno anomalo del dottor Paolo Storari», il pm di Milano titolare del fascicolo, accusato (e poi assolto) per aver consegnato quei verbali all’allora consigliere del Csm, Piercamillo Davigo.

Nell’indagine di Potenza, Amara risponde di concorso in corruzione in atti giudiziari tra il 2015 e il 23 luglio 2019, con Capristo (nel frattempo andato in pensione) che avrebbe sfruttato i rapporti di Amara e Paradiso per ottenere raccomandazioni al Csm «in occasione della pubblicazione di posti direttivi vacanti». La Procura aveva accordato al legale siciliano una pena di tre mesi in continuazione con la condanna riportata a Messina (un anno e due mesi), a sua volta in continuazione con la condanna di Roma (6 mesi).

La testimonianza a Perugia. Amara sulla faida in procura: “Una misteriosa tenentina mi disse…”. Paolo Comi su Il Riformista il 9 Ottobre 2022 

Tutto abbondantemente secondo le previsioni della vigilia. Chi si aspettava qualche colpo di scena sarà rimasto sicuramente deluso. Stiamo parlando della attesissima testimonianza di Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni e ‘gola profonda’ di almeno 6 procure della Repubblica, ieri presso il tribunale di Perugia nel processo nei confronti di Luca Palamara e Stefano Rocco Fava. I due magistrati, all’epoca alla procura di Roma, secondo l’accusa avrebbero posto in essere nel 2019 una campagna a mezzo stampa per screditare sia l’aggiunto Paolo Ielo che il procuratore Giuseppe Pignatone.

Palamara, rientrato a piazzale Clodio dopo aver terminato a settembre del 2018 l’incarico di consigliere del Csm, avrebbe in sostanza ‘istigato’ Fava a presentare un esposto proprio a Palazzo dei Marescialli nel quale venivano evidenziate alcune mancate astensioni del procuratore e dell’aggiunto in diversi procedimenti penali. Lo scopo ultimo dell’esposto sarebbe stato, sempre secondo l’accusa, quello di consumare una “vendetta” nei loro confronti. Ielo, in particolare, doveva essere danneggiato in quanto aveva trasmesso alla procura di Perugia il fascicolo con i rapporti che Palamara aveva avuto con il faccendiere Fabrizio Centofanti e che gli avevano provocato l’accusa di corruzione, impedendogli di fatto di poter aspirare ad uno dei posti disponibili di procuratore aggiunto a Roma.

Nella sua testimonianza durata l’intera giornata, Amara ha confermato quanto già dichiarato in precedenti occasioni sul ‘potere’ di Palamara al Csm in materia di nomine. A sentire Amara ci sarebbe stata una fila di non meglio precisati magistrati che gli chiedevano di intercedere per un incarico. E Centofanti, in particolare, avrebbe fatto da tramite con Palamara. Sul clima di tensione in Procura a Roma, e quindi sui rapporti tesi fra Palamara e Fava da un lato e Ielo e Pignatone dall’altro, è spuntata poi una tenente della guardia di finanza, allo stato non identificata, che avrebbe riferito ad Amara di tali propositi vendicativi. Ad ascoltare la testimonianza di Amara era presente Ielo che si è costituito parte civile contro Fava.

Anche Amara, che si è avvalso della facoltà di non rispondere a tutte le domande che riguardavano la loggia Ungheria essendo indagato in procedimento connesso, aveva chiesto, ricevendo un diniego, di costituirsi parte civile. L’avvocato aveva quantificato in 500mila euro la somma a titolo di risarcimento per l’ingente “danno morale che ha causato sofferenza interiore” provocato dal comportamento di Fava e Palamara. Sia Fava che Palamara hanno sempre negato di aver posto in essere alcuna campagna diffamatoria che poi sarebbe consistita in un paio di articoli pubblicati il 29 maggio 2019 su Il Fatto Quotidiano e La Verità.

Rispetto a Palamara, Fava è anche accusato di essersi abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap della procura di Roma per acquisire atti riservati. Una condotta che secondo i pm umbri sarebbe avvenuta “per ragioni estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso era attribuita”. Tutto secondo le norme, invece per il magistrato, ora giudice a Latina, che si era solo premurato di verificare le circostanze conosciute nell’esercizio delle sue funzioni, “per potere presentare una denuncia e sottoporre alla valutazione degli organi competenti fatti veri e documentati, nel convincimento della loro possibile rilevanza penale e della doverosità di un loro approfondimento nelle giuste sedi”.

Fava ha più volte sottolineato di non essere stato istigato da Palamara e di aver voluto solo segnalare agli organi competenti, Csm in primis, “nel rispetto della legge”, quanto era accaduto, ad iniziare dalla revoca da parte di Pignatone delle indagini che stava conducendo contro lo stesso Amara. Nei mesi scorsi erano stati anche interrogati i cronisti del Fatto Quotidiano e della Verità, autori degli articoli, i quali avevano negato di aver ricevuto informazioni da Fava sull’esistenza dell’esposto. L’iniziativa per la pubblicazione degli articoli era stata presa da entrambi in piena autonomia, senza pressioni da parte di Fava e Palamara, trattandosi di fatti noti al palazzo di giustizia di Roma. 

La rivelazione nel processo Palamara e Fava. La Guardia di Finanza passava le carte ad Amara: così l’avvocato preparava le contromosse. Paolo Comi su Il Riformista il 12 Giugno 2022. 

L’avvocato Piero Amara, uno dei capi della loggia Ungheria, ha ricevuto per anni in anteprima le informative della guardia di finanza che lo riguardavano.

La clamorosa circostanza è emersa giovedì scorso nel processo in corso a Perugia a carico di Luca Palamara e Stefano Fava per la presunta rivelazione di segreto in due articoli del 29 maggio 2019, pubblicati dalla Verità e dal Fatto Quotidiano, sulla presentazione di un esposto al Csm nei confronti dell’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone.

Rispondendo alle domande dei difensori degli imputati, il maggiore Fabio Di Bella del Gico della guardia di finanza di Roma, braccio destro del colonnello Gerardo Mastrodomenico, uomo di fiducia di Pignatone, ha ammesso che le informative del Gico, redatte da egli stesso e dai suoi sottoposti, prima ancora che in procura venivano consegnate ad Amara che era l’indagato principale del procedimento le cui indagini gli erano state delegate. Di Bella, comandante della seconda sezione di Gico di Roma, ha dichiarato senza tanti giri di parole che all’avvocato Amara qualcuno o più militari del Gico di Roma hanno consegnato numerose informative “prima che venissero depositate all’autorità giudiziaria”. Il postino sarebbe stato il carabiniere Antonio Loreto Sarcina, in forza ai Servizi, il quale, per tale servizio, avrebbe ricevuto da Amara delle somme di denaro.

E alla domanda su quali fossero le informative consegnate ad Amara, Di Bella ha dovuto ammettere che venne consegnata anche quella conclusiva del Gico del 15 settembre 2017, di oltre 800 pagine, che comprendeva tutti gli elementi a carico raccolti nei confronti dell’avvocato siracusano che quindi ha avuto tempi e modi per predisporre le più adeguate ‘contromisure’. Fra le ‘anteprime’ date ad Amara dal Gico, le perquisizioni che dovevano essere eseguite nei suoi confronti. Gli avvocati di Palamara e Fava, per non farsi mancare nulla, hanno poi acquisito, in un altro procedimento, la contestazione che gli stessi pubblici ministeri di Perugia, Gemma Miliani e Mario Formisano titolari del procedimento per la rivelazione del segreto, avevano formulato a carico di Sarcina dove si poteva leggere che il Gico di Roma aveva fornito ad “Amara e Calafiore”, sempre per il tramite di Sarcina, oltre che l’informativa di oltre 800 pagine del 15 settembre 2017, anche “la notizia dell’imminente esecuzione di perquisizioni personali e domiciliari nei confronti di Amara e Calafiore”.

Gli avvocati dei due imputati, visto che nessuno ci aveva pensato prima, hanno quindi chiesto a Di Bella di riferire i nomi dei militari del Gico che avevano fornito ad Amara e Calafiore, per il tramite del Sarcina, questi atti e queste notizie. Il maggiore Di Bella, sorridendo, ha dichiarato di avere accertato, dal settembre 2017 al 9 giugno 2022, responsabilità soltanto a carico di Sarcina. Resta quindi da capire per quali ragioni, a tutt’oggi, le indagini su Amara continuino ad essere delegate, sia dalla Procura di Roma che dalla Procura di Perugia, al Gico che si occupa dell’avvocato siciliano ininterrottamente dal settembre 2016 senza accorgersi che, nel frattempo, aveva continuato a delinquere tanto da essere arrestato dalla Procura di Potenza per corruzioni in atti giudiziari ed indagato dalla Procura di Milano, che ha emesso avviso di conclusioni delle indagini preliminari, anche per associazione per delinquere finalizzata alla calunnia e al depistaggio “commesso dall’estate del 2015 al dicembre 2019”.

In tale scenario, è indubbio che le indagini fatte dalla Procura di Perugia e dalla Procura di Roma tramite il Gico del maggiore Di Bella consentano ad Amara di dormire sonni tranquilli. Chissà se il Csm si deciderà prima o poi a fare luce su questa vicenda.

(ANSA il 10 Giugno 2022) - La Procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio del procuratore aggiunto di Milano e responsabile del pool affari internazionali, Fabio De Pasquale, e del pm Sergio Spadaro (oggi alla nuova Procura europea antifrodi) per 'rifiuto d'atto d'ufficio' per non aver voluto depositare nel 2021 prove potenzialmente favorevoli agli imputati del processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria, concluso il 17 marzo 2021 con assoluzioni 'perché il fatto non sussiste'. A darne notizia è oggi il Corriere della Sera.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 10 Giugno 2022. 

La Procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio del procuratore aggiunto di Milano e responsabile del pool affari internazionali, Fabio De Pasquale, e del pm Sergio Spadaro (oggi alla nuova Procura europea antifrodi) per «rifiuto d’atto d’ufficio» nel non aver voluto depositare nel 2021 prove potenzialmente favorevoli agli imputati del processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria, concluso il 17 marzo 2021 con assoluzioni «perché il fatto non sussiste» (l’Appello il 19 luglio).

I fatti contestati

L’accusa è cioè aver lasciato le parti ignare di talune prove che, trovate dal pm Paolo Storari e segnalate quantomeno dal 15 e 19 febbraio 2021 in mail all’allora procuratore Francesco Greco e all’altra sua vice Laura Pedio, potevano riverberarsi sulla traballante attendibilità dell’accusatore di Eni: il coimputato/dichiarante Vincenzo Armanna, ex dirigente Eni allora molto valorizzato sia dai due pm titolari del processo Eni-Nigeria, sia (al pari dell’ex legale esterno Eni Piero Amara) da Pedio che all’epoca indagava per depistaggi giudiziari l’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi e il capo del personale Claudio Granata.

Le omissioni

L’ufficio bresciano del procuratore Francesco Prete contesta a De Pasquale e Spadaro di non aver depositato le vere chat del telefono di Armanna dalle quali emergeva un suo rapporto patrimoniale di 50.000 dollari con il teste che doveva confermarne le accuse a Eni, il supposto 007 nigeriano «Victor»: chat che Armanna aveva portato ai giudici ma amputatandole (come segnalato allora da Storari e ora confermato da una perizia) di altri messaggi che invece avrebbero mostrato il nesso tra la disponibilità del teste a deporre e i 50.000 dollari, o come esplicita corruzione giudiziaria o come acquisto di un imprecisato documento in Nigeria.

Taciuti anche i messaggi dai quali Storari aveva fatto emergere che un altro teste, l’uomo d’affari nigeriano Mattew Tonlagha, fosse stato indottrinato sempre da Armanna sulle risposte da dare (contro l’Eni) alla pm Pedio. 

Un terzo filone riguarda gli screenshot delle asserite chat che Armanna (mostrandole nel novembre 2020 in una intervista a un quotidiano, per introdurle di sponda nel circuito giudiziario) sosteneva di aver scambiato nel 2013 con Descalzi e Granata a riprova del loro ruolo di depistatori: qui Brescia contesta a De Pasquale e Spadaro di non aver depositato le (persino banali) indagini dalle quali Storari aveva compreso che quelle chat erano un clamoroso falso (come ora confermato da una perizia), in quanto i numeri ascritti da Armanna ai due vertici Eni nemmeno erano attivi nel 2013, risultando utenze che non potevano produrre traffico.

Il mancato deposito della videoregistrazione

Infine è imputato ai due pm il mancato deposito (già censurato come «incomprensibile» dalla sentenza Eni-Nigeria) della videoregistrazione, effettuata clandestinamente nell’ufficio dell’imprenditore Ezio Bigotti, di un incontro con Amara nel quale Armanna, due giorni prima, nel 2014, di presentarsi in Procura con le prime accuse ai vertici Eni, preannunciava di volerli fare coprire da «una valanga di merda».

La scelta di far rientrare queste condotte dei pm nel contenitore penale del reato di «rifiuto d’atto d’ufficio» è sdrucciolevole perché apre inediti scenari nei rapporti, interni nelle Procure, tra titolari di un processo e altri pm. Forse per questo la richiesta bresciana di processare i due pm rimarca la differenza del loro comportamento: a inizio 2021 non depositarono queste prove potenzialmente favorevoli alle difese, mentre invece nei mesi precedenti, per argomentare manovre su Armanna ordìte dal mondo Eni, avevano invece proclamato di voler assicurare alle difese una «simmetria» e perciò riversato da altri fascicoli verbali di testi, chiamandoli in aula a deporre (come Salvatore Carollo) o chiedendo al Tribunale di convocarli in extremis (come Amara).

Procura di Brescia: “Processate i pm De Pasquale e Spadaro”: prove a favore delle difese nel processo Eni-Nigeria mai depositate. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Giugno 2022. 

L'accusa è di non aver depositato nel 2021 prove che avrebbero minato la credibilità dei testimoni contro Eni nel processo per corruzione internazionale che si concluso il 17 marzo 2021 con l'assoluzione "perchè il fatto non sussiste" di tutti gli imputati

La Procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio del procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, responsabile del pool affari internazionali, e del pm Sergio Spadaro oggi in forza alla nuova Procura europea antifrodi, accusati di “rifiuto d’atto d’ufficio” per non aver voluto depositare nel 2021 delle prove potenzialmente favorevoli agli imputati del processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria, conclusosi il 17 marzo 2021 con assoluzioni “perché il fatto non sussiste” per il quale il giudizio di appello si terrà il prossimo 19 luglio. 

L’ufficio della procura bresciana guidato del procuratore capo Francesco Prete contesta a De Pasquale e Spadaro di non aver depositato le vere chat del telefono di Armanna dalle quali veniva alla luce un suo rapporto patrimoniale di 50.000 dollari con il teste che doveva confermarne le accuse a Eni, il supposto 007 nigeriano «Victor», Una chat che Armanna aveva consegnato ai giudici ma cancellandone altri messaggi, come venne da segnalato da Storari e confermato da una perizia, conversazione che avrebbero evidenziato e confermato il collegamento tra la disponibilità del teste a deporre e i 50.000 dollari, o come esplicita corruzione giudiziaria o come acquisto di un imprecisato documento in Nigeria. 

Occultati anche i messaggi dai quali il pm Storari aveva fatto emergere, che l’uomo d’affari nigeriano Mattew Tonlagha, altro teste , fosse stato istruito sempre da Armanna sulle risposte contro l’Eni da rendere alla pm Laura Pedio. Un terzo filone riguarda gli screenshot delle asserite chat del 2013 con Descalzi e Granata a riprova del loro ruolo di depistatori, che Armanna aveva mostrato in una intervista a un quotidiano nel novembre 2020, per farle entrare indirettamente nel faldone giudiziario. In questo caso la procura di Brescia contesta a De Pasquale e Spadaro di non aver depositato le indagini dalle quali Storari aveva intuito e dedotto che le chat erano un clamoroso “falso” come è stato in seguito confermato da una perizia, in quanto peraltro i numeri telefonici ascritti da Armanna ai due vertici dell’ Eni non erano neanche attivi nel 2013 , utenze che sono risultate disattive e che non potevano produrre traffico.

I fatti contestati a De Pasquale e Spadaro

L’accusa è di aver lasciato le parti della difesa ignare di alcune prove che scovate dal pm Paolo Storari e segnalate quantomeno dal 15 e 19 febbraio 2021 in mail all’allora procuratore Francesco Greco e all’altra sua vice Laura Pedio, potevano “pesare” sulla traballante sempre meno credibile attendibilità dell’accusatore di Eni, e cioè il coimputato e dichiarante Vincenzo Armanna, ex dirigente Eni allora ritenuto molto attendibile al pari dell’ex legale esterno Eni Piero Amara, sia dai due pm titolari del processo Eni-Nigeria, che da Laura Pedio la quale indagava in quel periodo per depistaggi giudiziari l’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi e il capo del personale Claudio Granata. 

Infine i due pm De Pasquale e Spadaro sono accusati del mancato deposito, già criticato e censurato come “incomprensibile” dalla sentenza Eni-Nigeria e della videoregistrazione effettuata clandestinamente di un incontro avvenuto nel 2014 con Amara nel quale Armanna, avvenuto due giorni prima nell’ufficio dell’imprenditore Ezio Bigotti, di presentarsi in Procura con le prime accuse ai vertici Eni, preannunciando di volerli fare coprire da “una valanga di merda”. La scelta di far rientrare queste condotte dei pm nel contenitore penale del reato di “rifiuto d’atto d’ufficio” è scivoloso perché accende dei fari su scenari inediti nei rapporti interni nelle Procure, tra titolari di un processo e altri pm.

Probabilmente è questa la differenza che ha indotto la procura bresciana a richiedere di processare i due pm rimarca la differenza del loro comportamento: a inizio 2021 De Pasquale e Spadaro non depositarono queste prove potenzialmente favorevoli alle difese, mentre invece nei mesi precedenti, per argomentare manovre su Armanna (provenienti da ambienti Eni), invece avevano proclamato di voler assicurare alle difese una “simmetria” e perciò riversato da altri fascicoli verbali di testi, chiamandoli in aula a deporre come il caso di Salvatore Carollo o chiedendo al Tribunale di convocarli in extremis come Piero Amara. Redazione CdG 1947

Prove nascoste sul caso Eni "Ora processate i due pm". Luca Fazzo l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

De Pasquale e Spadaro sono imputati a Brescia: per la procura hanno occultato i verbali di Amara.

Il dipartimento di punta della Procura di Milano è da ieri guidato da un magistrato formalmente imputato di nascondere le prove. È questa la sostanza della svolta - resa nota ieri dal Corriere della sera - dell'inchiesta a carico del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, suo braccio destro all'epoca dei processi Eni. La Procura di Brescia, competente a indagare sui reati commessi dai colleghi milanesi, aveva iscritto De Pasquale e Spadaro per il reato di rifiuto di atti d'ufficio, e in autunno aveva comunicato a entrambi la chiusura delle indagini preliminare. In novembre i due magistrati erano stati sentiti e su loro richiesta era stato concesso un supplemento di indagine, per verificare la fondatezza delle loro tesi difensive. Ma la verifica non ha dato i frutti sperati. E la procura bresciana si è convinta che davvero, nel corso del processo per corruzione internazionale ai vertici Eni, De Pasquale e Spadaro abbiano intenzionalmente tenute nascoste alle difese le prove, già acquisite al fascicolo, che il «superteste» Vincenzo Armanna inquinava l'inchiesta promettendo soldi ai testimoni e fabbricando false chat per incastrare i vertici del colosso di Stato. Un comportamento che la Procura bresciana, guidata da Francesco Prete, inquadra nel furore riversato dalla Procura milanese nel processo Eni, che andava vinto a tutti i costi; lo stesso furore che portò a imboscare i verbali dell'altro pentito, Piero Amara: «De Pasquale disse che andavano chiusi nel cassetto per due anni», ha dichiarato a verbale il pm milanese Paolo Storari, finito anche lui nel frattempo sotto processo.

Dopo decenni di buon vicinato, è la prima volta che la Procura di Brescia interpreta così energicamente il ruolo che la legge gli assegna di vigilanza sui reati eventualmente commessi nel palazzo di giustizia di Milano. Sotto processo sono già Storari e Piercamillo Davigo, ora rischiano di finirci De Pasquale e Spadaro, mentre l'ex capo Francesco Greco è sotto inchiesta per il caso del Monte dei Paschi di Siena. Il problema è che mentre Greco e Davigo sono ormai ex magistrati, De Pasquale è in funzione a tutti gli effetti, ed è a capo di uno dei settori più delicati di tutti, la corruzione internazionale. Con che serenità possa svolgere la sua funzione, vista la gravità delle accuse che gli pendono sulla testa, è facile da immaginare. D'altronde il Consiglio superiore della magistratura, che aveva avviato una procedura di trasferimento per incompatibilità ambientale a carico di De Pasquale, ha congelato tutto per evitare accavallamenti con l'indagine in corso a Brescia. E anche il procedimento disciplinare avviato dal procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, è rimasto finora privo di effetti concreti.

Così, in attesa che venga vagliata la richiesta di rinvio a giudizio avanzata contro De Pasquale e Spadaro, la Procura di Milano, uno degli uffici giudiziari più delicati del paese, rimane in mezzo al guado dei veleni del caso Eni. Frastornati dal putiferio piombato sul loro ufficio, ottanta pubblici ministeri chiedono solo che si volti pagina e si torni a lavorare serenamente, con il nuovo capo Marcello Viola. Ma la strada a quanto parre sarà ancora lunga.

(ANSA l'8 luglio 2022) - La procura di Perugia ha chiesto di archiviare il procedimento sulla cosiddetta "loggia Ungheria", indagine partita dai verbali dell'ex legale esterno di Eni Piero Amara. La richiesta avanzata al gip è di 167 pagine ed è accompagnata dall'intero fascicolo, contenuto in quasi 15 faldoni di documenti. 

Il procedimento ha riguardato una presunta associazione segreta, denominata "Ungheria", che avrebbe agito in violazione della Legge Anselmi, norma che punisce le associazioni segrete che "svolgono attività diretta ad interferire sull'esercizio delle funzioni di organi costituzionali".

(ANSA l'8 luglio 2022) - Il complesso delle indagini condotte dalla procura di Perugia sulla cosiddetta Loggia Ungheria "ha portato a ritenere integralmente o parzialmente non riscontrate numerose propalazioni dell'avvocato" Piero Amara. 

Che per l'Ufficio guidato da Raffaele Cantone "tecnicamente vanno inquadrate come chiamate in correità dirette o de relato, e quindi come non accertati fatti narrati o in alcuni ha portato a ritenere avvenuti i fatti, ma escluso che in essi Amara avesse potuto svolgere un ruolo, come da lui riferito". Lo si legge in un comunicato della stessa Procura.

«Loggia Ungheria, riscontri insufficienti»: chiesta l’archiviazione. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2022.  

Un’indagine svelata anzitempo e inquinata da «fughe di notizie» che hanno finito per danneggiarla in maniera irreparabile: anche per questo, dopo un anno e mezzo di scrupolosi accertamenti, la Procura di Perugia ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta sulla cosiddetta Loggia Ungheria, presunto centro di potere occulto dedito a «interferenze su organi costituzionali, a partire dal Consiglio superiore della magistratura, e altri enti e istituzioni pubbliche», denunciato dall’avvocato siciliano Piero Amara ai pubblici ministeri di Milano sul finire del 2019. Una vicenda che ha generato il terremoto dei «verbali segreti» circolati dentro e fuori il Csm, per la quale è sotto processo a Brescia l’ex consigliere Piercamillo Davigo, ma che al momento deve chiudersi perché — spiega il procuratore del capoluogo umbro Raffaele Cantone nel provvedimento e nel comunicato che l’annuncia — «sull’esistenza di un’associazione segreta denominata Ungheria si è concluso di ritenere la circostanza non adeguatamente riscontrata».

Che non significa del tutto falsa, così come non lo sono le lunghe dichiarazioni rese da Amara agli inquirenti perugini che hanno ereditato il fascicolo dai colleghi milanesi per l’asserito coinvolgimento di alcuni magistrati romani. Le indagini hanno infatti evidenziato «le tante aporie e contraddizioni emerse», oltre a numerose smentite del racconto dell’avvocato, ma anche «le non poche conferme con riferimento ad alcuni specifici episodi». In particolare interventi su o per conto di magistrati, contatti con il sottobosco politico-affaristico romano e altro ancora. Di qui la convinzione dei pm: «Le complessive dichiarazioni dell’avvocato non devono considerarsi affette da quella inattendibilità talmente macroscopica da compromettere in radice la credibilità del dichiarante», ma è «necessario un livello di riscontri particolarmente elevato per ritenere accertati i fatti da lui narrati».

Tanto più in virtù dei nomi tirati in ballo come affiliati o affini alla Loggia: dall’ex procuratore generale di Catania Giovanni Tinebra (morto nel 2017) all’ex vice-presidente del Csm Michele Vietti, dall’ex deputato forzista Denis Verdini al magistrato e deputato renziano Cosimo Ferri, il faccendiere Luigi Bisignani e molti altri: politici, imprenditori, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e degli apparati di sicurezza.

Attualmente il cinquantaduenne Piero Amara sta scontando in semilibertà (fuori dal carcere di giorno e dentro di notte) il cumulo di pene per corruzione accumulate con i patteggiamenti ottenuti davanti a diversi tribunali d’Italia. E resta da chiarire per quale motivo, quando aveva chiuso i suoi conti con la giustizia, abbia voluto avventurarsi in questa nuova partita giudiziaria che quasi certamente gli costerà nuovi processi per calunnia e altri reati: la Procura di Perugia infatti, insieme alla richiesta di archiviazione, ha deciso lo stralcio per proseguire le indagini su alcuni episodi, e la trasmissione alla Procura di Milano (dove furono resi i primi interrogatori) per eventuali calunnie o autocalunnie.

Il movente di Amara è tuttora un mistero. E i magistrati umbri sottolineano come «soprattutto nei più recenti interrogatori ha modificato alcune delle affermazioni iniziali, sminuendo in modo inspiegabile il ruolo di quella che aveva indicato come una nuova “Loggia P2” dichiarando anzi che essa era nata con finalità nobili, e che non tutti gli adepti sarebbero stati a conoscenza delle interferenze effettuate dall’associazione su organi pubblici o costituzionali. Ha aggiunto persino che fin dal 2015 egli aveva tentato di creare un’altra organizzazione, di cui ha fornito anche alcuni elementi anche documentali, ma di cui non aveva mai riferito nei primi interrogatori milanesi».

Enigmi che solo Amara potrebbe spiegare, come quello dell’elenco degli affiliati, descritto ma mai consegnato dal socio dell’avvocato che l’avrebbe fotocopiato. Amara ha parlato di almeno 90 nomi ma il procuratore Cantone con i sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano ne hanno iscritti solo 9 nel registro degli indagati, limitandosi alle persone da interrogare in cerca di riscontri, per evitare -— in assenza di altri elementi — un «inutile e ingiustificato “stigma”». Quanto alle «interferenze o tentativi di condizionamento di nomine di vertice della giurisdizione o di enti, istituzioni e società pubbliche che possono ritenersi avvenute», sarebbero dovute a «interessi personali o professionali diretti di Amara o soggetti a lui strettamente legati, piuttosto che conseguenza dell’attività di condizionamento di una Loggia».

Ora spetterà al giudice dell’indagine preliminare, esaminati la richiesta di 167 pagine e i 15 faldoni di atti raccolti dai pm, decidere se mandare il fascicolo in archivio o ordinare nuovi accertamenti.

Processo Davigo: il vicepresidente del Csm Ermini interrogato. Renzi torna all’attacco: “Conferma quello che ho scritto”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 Luglio 2022.

Il vice presidente del Csm David Ermini, ha definito i verbali secretati nei quali l' avvocato Piero Amara, interrogato a Milano per il caso del "falso complotto Eni", ha parlato della loggia Ungheria. Verbali di interrogatori "non firmati, inutilizzabili e inservibili", il cui contenuto però era dirompente. Una "presunta loggia massonica coperta", ha spiegato Ermini, che avrebbe alti magistrati, avvocati, vertici delle forze armate e di polizia, imprenditori e politici.

Dopo una settimana di silenzio, Matteo Renzi è tornato ad attaccare pesantemente la magistratura. E lo ha fatto attraverso la propria pagina Facebook. “Oggi il vicepresidente del Csm Ermini, interrogato come testimone nell’ambito del processo Davigo, conferma per filo e per segno ciò che io ho scritto nel libro “Il Mostro”. Dunque Ermini che minacciava invano querele (poi non fatte) o non ha letto Il Mostro o non l’ha capito. Ancora poche settimane e il Csm di David Ermini sarà solo un brutto ricordo”. Parole che si riferiscono, in modo chiaro ed inequivocabile alla presunta “loggia Ungheria” e agli interrogatori dell’avvocato Pietro Amara. 

Renzi nelle pagine del suo libro “Il Mostro”, ha accusato senza mezzi termini Ermini di aver distrutto “materiale ufficiale proveniente dalla Procura di Milano, eliminando il corpo del reato”. Immediata la replica del vicepresidente del Csm, sostenendo che si trattava di una “affermazione temeraria e falsa, essendo il cartaceo mostratomi dal dottor Davigo, come ho più volte pubblicamente precisato e come il senatore Renzi sa benissimo, copia informale, priva di ufficialità, di origine del tutto incerta e in quanto tale senza valore e irricevibile. Il senatore Matteo Renzi ne risponderà davanti all’autorità giudiziaria”. 

Una polemica quella fra Renzi ed Ermini datata metà maggio che torna di stretta attualità oggi, a distanza di quasi due mesi. Un’unica, granitica certezza è che questa sarà la battaglia più importante della carriera politica del leader di Italia Viva. Uno scontro dal quale uscirà o vincitore assoluto o sconfitto, senza prove di appello, destinato all’oblio e ricordato solo come un enfant prodige che non ce l’ha fatta. 

Il vice presidente del Csm David Ermini, ha definito i verbali secretati nei quali l’ avvocato Piero Amara, interrogato a Milano per il caso del “falso complotto Eni”, ha parlato della loggia Ungheria. Verbali di interrogatori “non firmati, inutilizzabili e inservibili”, il cui contenuto però era dirompente. Una “presunta loggia massonica coperta“, ha spiegato Ermini, che avrebbe alti magistrati, avvocati, vertici delle forze armate e di polizia, imprenditori e politici. Fatti talmente gravi che, poche ore dopo essere stato informato da Davigo, il 4 maggio 2020 Ermini ha deciso di andare a parlare della vicenda con il Presidente della Repubblica.

Il vice presidente del Csm David Ermini e l’ex consigliere Davigo

“Davigo mi disse che sarebbe stato opportuno che andassi dal Presidente della Repubblica” perché “della presunta loggia facevano parte esponenti delle forze armate e delle forze di polizia – ha spiegato Ermini – specialmente Polizia e Carabinieri. E poi anche magistrati, ex magistrati, un ex vicepresidente del Csm“.  “Io risposi di sì – ha aggiunto Ermini – . Andai dal presidente e gli riferii anche quello che mi aveva detto Davigo“. Mattarella “non fece alcun commento“. Nei giorni successivi, Davigo si era recato da Ermini e gli aveva consegnato una copia non firmata di quei verbali. Documenti che aveva ricevuto in pieno lockdown dal pm Storari della procura di Milano . Il magistrato aveva voluto in questo modo “autotutelarsi” di fronte alle lentezze della Procura di Milano nell`avviare formalmente le indagini sulla vicenda.

“Ritenni quella di Davigo una confidenza”, ha ricordato Ermini, che non appena ricevuti i documenti ha detto di averli strappati e buttati  nel cestino, non sapendo che fossero secretati. “In consiglio noi non possiamo avere atti che non siano formali”, ha spiegato. Non solo. “La cosa doveva rimanere segreta, perché se qualche consigliere fosse rimasto coinvolto non era opportuno”, ha precisato il vicepresidente del Csm sottolineando come l’avvocato Amara avesse indicato i magistrati consiglieri del Csm Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti come “affiliati” alla loggia coperta .

Ermini in tribunale a Brescia ascoltato come testimone

“In cuor mio pensavo che quelle carte” relative agli interrogatori in cui Amara parlava della loggia Ungheria “dovessero arrivare al comitato di presidenza in modo rituale e per le vie ufficiali”, ha aggiunto Ermini, altrimenti il Csm “non avrebbe potuto fare nulla”. “Davigo non mi chiese di veicolare quei verbali al comitato di presidenza del Csm, sennò gli avrei detto che erano irricevibili. Me li ha consegnati perché li leggessi”, ha precisato Ermini.

L`ex pm di Mani Pulite ora in pensione, aveva anche detto di aver consegnato il plico anche al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e a quel punto per Ermini “la vicenda era finita“. “Nelle condizioni in cui abbiamo vissuto in questi anni”, dopo il caso di Luca Palamara e lo scandalo sulle nomine del Csm “una velina non firmata con dichiarazioni dubbie non la posso accettare“, ha chiarito Ermini.

Piercamillo Davigo, Pietro Amara e Paolo Storari

“Io che me ne dovevo fare di questi verbali? – ha aggiunto –  Erano irricevibili, mica potevo diventare il megafono di Amara“. Anche Davigo è intervenuto in aula facendo dichiarazioni spontanee.  “Una delle ragioni per cui non ho formalizzato immediatamente è perché, una volta protocollato, il plico viene visto dalla struttura” del Csm, inclusi i componenti delle commissioni interessate, i giudici segretari e i funzionari.  “Non si trattava di una vicenda isolata e anomala – ha chiarito Davigo –  ma di una situazione in cui il comitato di presidenza aveva ragione di dubitare della tenuta della struttura consiliare“.

“Quando il pm Storari viene da me” per “autotutelarsi” di fronte a quelle che riteneva un`inerzia della Procura di Milano nell`avviare le indagini io ricevo una notizia di reato – ha proseguito Davigo -. Io sono un pubblico ufficiale, ho l`obbligo di denunciare, cosa che feci al pg Giovanni Salvi. La questione era che io dovevo segnalare la vicenda in modo che non potesse comunque recare danno alle indagini. Avrei potuto fare una denuncia alla Procura di Brescia, che avrebbe chiesto gli atti alla Procura di Milano, con il risultato che le indagini non si sarebbero più fatte. La mia finalità principale era che quel processo tornasse sui binari di legalità, perché non c’erano i binari della legalità“.

Ermini ed il Pg della cassazione Salvi (a giorni pensionato)

“Non ricordo se ho detto al vicepresidente del Csm David Ermini che i verbali sono secretati “- ha concluso Davigo che ogni tanto svanisce la memoria come per incanto – “ma sono certo di avergli detto che dopo 5 mesi la Procura di Milano non aveva ancora fatto nulla”. Il processo riprenderà il 13 ottobre.

Luca Palamara, ecco il suo partito: "Cancelleremo l'uso politico della giustizia". Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 09 luglio 2022

L'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara scende in campo e fonda «Oltre il Sistema», una «proposta per l'Italia dove al tema centrale della giustizia verranno affiancati i temi dell'ambiente, del lavoro, della guerra, dell'economia, della scuola, dall'informazione, delle piccole e medie imprese, della sicurezza, della giustizia sociale». Un programma di governo in vista delle prossime elezioni politiche da condividere senza preclusioni partitiche. «Ho deciso di continuare la mia marcia per tit la verità e perla democrazia in questo Paese. E invito tutti coloro che condividono questo messaggio a metterci la faccia insieme a me e scendere in campo per far sì che la giustizia sia un tema dirimente è imprescindibile per le elezioni del 2023», afferma Palamara.

«Mi rivolgo - prosegue - a tutti, destra, sinistra, centro, astenuti, apolitici: voglio creare una piattaforma iniziale su cui innestare con forza un movimento riformatore nuovo». L'appuntamento per gli Stati Generali è per sabato 23 luglio a Roma all'hotel Baglioni. Il simbolo del movimento: la dea bendata della giustizia con l'Italia sullo sfondo ed il tricolore in basso. «Ho provato sulla mia pelle cosa significhi andare contro un "Sistema" che si regge da anni e determina l'inizio e la fine di un leader politico, la fine ad orologeria di governi eletti dal popolo: io credo che oggi dopo che si è squarciato il velo di ipocrisia che attanaglia da decenni la giustizia, sia giunto il momento di dare un taglio secco col passato e di cancellare per sempre il ricorso strumentale all'uso politico della giustizia», ricorda Palamara, secondo cui «la giustizia deve essere declinata in ogni sua forma a partire dalla giustizia sociale, alla giustizia economica, alla giustizia fra popoli, giustizia nei concorsi (sperando che non siano già coi posti assegnati)». Un compito certamente impegnativo, ma è l'unica strada per fare rinascere l'Italia e «riportarla ad essere fra le prime dieci potenze mondiali». 

Nuova indagine su Palamara, l’ex pm: «Usano Amara per salvare i processi contro di me». Il Dubbio il 10 luglio 2022.  

L'ex zar delle nomine indagato per istigazione alla corruzione nel caso dell'ex pm Musco, poi radiato dalla magistratura: è uno degli stralci dell'inchiesta sulla Loggia Ungheria

Nuova inchiesta su Luca Palamara, ex consigliere del Csm, indagato a Perugia per istigazione alla corruzione. L’indagine parte dalle dichiarazioni di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, “pentito” a credibilità alternata che aveva dichiarato l’esistenza di una loggia paramassonica la cui esistenza non è mai stata dimostrata. Ma alcune delle sue dichiarazioni, come chiarito dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone, sono risultate parzialmente riscontrate, da qui lo stralcio di alcune posizioni per ulteriori indagini. Cantone, nella nota con la quale aveva annunciato la richiesta di archiviazione dell’indagine sulla presunta Loggia Ungheria, aveva stigmatizzato la discovery senza precedenti che ha caratterizzato l’inchiesta, con i verbali finiti su tutti i giornali e la possibilità di vederci chiaro sfumata assieme alla segretezza degli atti. Ma ora le cose sembrano non essere molto diverse: quegli atti, teoricamente segreti, si trovano già sui giornali, a partire dall’indagine su Palamara.

Secondo quando riferito dal Corriere della Sera, Palamara avrebbe aiutato l’ex pm siracusano Maurizio Musco, amico di Amara e all’epoca imputato di abuso d’ufficio, poi condannato e allontanato dalla magistratura. Il dato «inquietante» e nuovo, secondo i pm di Perugia, sarebbe stato l’avvicinamento, da parte di Palamara, del giudice di Cassazione Stefano Mogini, ma senza successo, grazie alla «schiena dritta» del magistrato.

Mogini avrebbe confermato la circostanza, raccontando dell’appuntamento fissato con l’allora consigliere del Csm alla vigilia del processo. Palamara gli disse che il processo meritava particolare attenzione e che uno dei principali imputati, Musco, era affetto da una grave malattia. «Io rimasi un po’ stupito di questo riferimento e genericamente gli dissi che eravamo abituati ad essere particolarmente scrupolosi sempre». Il processo fu poi rinviato e Palamara comunicò a Mogini di averlo saputo dal presidente della Corte di Cassazione. L’ex zar delle nomine, dunque, «monitorava» il processo, secondo i pm perugini.

Per chiedere l’interessamento di Palamara, secondo l’accusa, Amara aveva fatto organizzare al lobbista Fabrizio Centofanti una breve vacanza con mogli e fidanzate nello chalet al Sestriere dell’imprenditore piemontese Ezio Bigotti, a marzo 2015. Ma quando sull’aereo per Torino il magistrato si accorse della presenza di Amara, già noto per alcuni guai giudiziari, protestò con Centofanti che chiese all’avvocato di ritornare subito indietro. Tutto riscontrato, secondo la Procura, dai tabulati telefonici, biglietti aerei e voli.

Amara ha raccontato ai pm perugini che per l’interessamento all’affaire Musco «Palamara fece capire che avrebbe gradito un regalo di un orologio d’oro del valore di 30.000 euro per la sua compagna. E io gli dissi “se tu ti comporti male con Maurizio io ti scanno». Dopo questa frase i pm hanno dovuto aprire il nuovo fascicolo a carico di Palamara, che già tre anni fa, all’inizio dell’indagine sfociata nel processo in corso, fu accusato da un altro magistrato di aver intascato 40.000 euro per una nomina al Csm, ma poi la stessa Procura accertò che non era vero. Ma l’interessamento di Palamara al caso dell’ex magistrato siracusano sarebbe dimostrato anche da una email ricevuta dal segretario generale della Corte nel febbraio 2017 con tutti gli aggiornamenti sul «procedimento Musco». Per la Procura di Perugia Amara «è un soggetto abilissimo nell’arte manipolatoria e di conseguenza estremamente “pericoloso”, soprattutto quando lo si intenda utilizzare come prova a carico di altri»; tuttavia gli «indiscutibili riscontri esterni» emersi, «dimostrano che non è affatto (quantomeno soltanto) un millantatore o

Dopo la pubblicazione della notizia, non si è fatta attendere la reazione di Palamara. «Con riferimento alle notizie apparse oggi sui quotidiani Repubblica e corriere della sera (che non mi hanno assolutamente fatto andare storta la colazione nella magnifica cittadina di Modica dove ieri sera ho avuto il piacere di presentare il mio libro) ho inviato una nuova denuncia penale a Firenze segnalando alla procura generale della Cassazione la gravità della condotta degli inquirenti Perugini – ha sottolineato -. Le notizie pubblicate fanno riferimento a fatti e vicende che in alcun modo mi sono state contestate nel corso di un interrogatorio del 14 giugno 2022 proprio sulla vicenda Musco.

Perché durante quell’interrogatorio – nel quale mi vennero contestate le fantasmagoriche accuse dell’avvocato Amara “ti darò 30.000 euro e ti scanno se non lo fai” in relazione alle quali pur non registrando l’interrogatorio in tono amichevole dissi al procuratore Cantone che a quel punto sarebbe stato più divertente contestarmi il tentato omicidio – la pubblica accusa non mi ha dato lettura delle dichiarazioni di Mogini? E perché invece le dichiarazioni di Mogini sono state riportate dai giornali di riferimento peraltro già denunciati a Firenze?».

Quanto al merito e al presunto interessamento alla vicenda Musco, «si tratta di fatti già smentiti da una pur facile lettura della documentazione già a disposizione della procura di Perugia nell’ambito del procedimento 6652/18 rispetto alle quali le dichiarazioni dell’avvocato Amara in questa circostanza ricalcano esattamente quello che già avvenne con il giudice Tremolada: in quel caso dovevano servire a salvare il processo Eni oggi per salvare in qualche modo i processi intentati a mio danno. Ma la battaglia di verità continua e ancor di più il rinnovato impegno politico su un tema quello della giustizia che non può non trascendere le singole vicende personali riguardando la vita di tutti i cittadini oramai interessati a comprendere e andare oltre le vicende del Sistema».

Petrolo era stato incolpato nel 2013 di aver rivelato notizie coperte dal segreto istruttorio all’avvocato Galati, difensore in quel momento di esponenti di una famiglia di ‘ndrangheta del Vibonese – i Mancuso – nel corso di una conversazione avvenuta tra i due nell’agosto del 2011, alla presenza anche di un poliziotto. Notizie che riguardavano un’indagine della Dda di Roma su una presunta associazione a delinquere dedita al narcotraffico, con conseguenti misure cautelari.

Il provvedimento emesso dalla sezione disciplinare è stato più duro rispetto alle richieste avanzate dal sostituto procuratore generale Luigi Cuomo, il quale aveva invocato la perdita di due mesi d’anzianità, ritenendo provate le incolpazioni rispetto ai fatti illustrati in apertura di seduta dal giudice relatore Carmelo Celentano. A nulla sono valse quindi le argomentazioni difensive esposte dal magistrato Stefano Guaime Guizzi che nel corso della sua discussione aveva spiegato in fatto e in diritto che in realtà il collega Petrolo non avesse commesso alcun illecito disciplinare, relativamente alle accuse che in sede penale si erano concluse con una sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. Sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Napoli, dopo l’annullamento con rinvio dell’assoluzione decisa dalla Cassazione nel 2020.

Il pm Paolo Petrolo dunque lascia la procura di Reggio Calabria, oltrepassando lo Stretto per iniziare una nuova carriera professionale. Scontato, infine, il ricorso in Cassazione, una volta che la sezione disciplinare, presieduta dal vicepresidente David Ermini, depositerà le motivazioni. (a. a.)

 Palamara di nuovo sotto inchiesta: «Intervenne per un pm sotto processo». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 9 luglio 2022.

Dall’indagine sulla presunta Loggia Ungheria, che secondo la Procura di Perugia deve andare in archivio in assenza di adeguati riscontri, emerge una nuova inchiesta a carico di . L’ex magistrato, radiato dal’ordine giudiziario e già sotto processo per corruzione, è indagato per istigazione alla corruzione in un procedimento nato da dichiarazioni dell’avvocato siciliano Piero Amara (lo stesso che ha parlato dell’associazione segreta ora sconfessata dai pubblici ministeri) che gli inquirenti ritengono confermate — almeno in parte — in maniera significativa. Le affermazioni sul coinvolgimento di Palamara in questa vicenda, sostengono nella richiesta di archiviazione, sono tra «quelle più riscontrate e “solide”, dal punto di vista della attendibilità estrinseca e intrinseca, nel complessivo narrato del dichiarante»

«Dato inquietante»

L’ipotesi di accusa riguarda l’interessamento dell’allora componente del Consiglio superiore della magistratura per agevolare l’ex pm siracusano Maurizio Musco, amico di Amara e all’epoca imputato di abuso di ufficio, in seguito condannato e a sua volta spogliato della toga. Al di là del racconto di Amara e delle verifiche sui singoli indizi, il procuratore di Perugia Raffaele Cantone e i sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano scrivono che «il dato nuovo più rilevante (e purtroppo molto inquietante) è l’“avvicinamento” da parte di Palamara del giudice di cassazione Stefano Mogini, del quale Amara indica il nome il 3 novembre 2011 (quindi in un degli ultimi interrogatori, ndr), avvicinamento che, grazie alla schiena dritta del magistrato indicato, non portò alcun risultato positivo per Musco».

A confermare l’intrusione di Palamara è stato lo stesso Mogini, già capo di gabinetto dell’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella, che ha raccontato di un appuntamento fissato con l’allora consigliere del Csm alla vigilia del processo Musco in Cassazione, che per improvvisi impegni lui chiese di rinviare. Ma Palamara si offrì di raggiungerlo in un bar vicino al suo ufficio. Parlarono «del più e del meno», e fu Mogini a dirgli che l’indomani aveva «un procedimento particolarmente delicato che vedeva imputati tre magistrati di Siracusa; Palamara mi disse che conosceva la vicenda e sapeva quanto era ingarbugliata. Mi aggiunse che il procedimento meritava grande attenzione e poi mi disse anche che uno dei magistrati coinvolti, Musco, era affetto da una grave malattia. Io rimasi un po’ stupito di questo riferimento e genericamente gli dissi che eravamo abituati ad essere particolarmente scrupolosi sempre».

Vacanza al Sestriere

Il processo fu rinviato, e in un successivo incontro Palamara disse a Mogini di averlo saputo dal presidente della Corte. Considerazione dei pm: «Palamara quindi ha monitorato l’evoluzione del processo parlando non solo con il relatore, ma interloquendo direttamente e personalmente persino con il presidente della Corte di cassazione!». Per chiedere l’interessamento dell’ex consigliere del Csm, Amara aveva fatto organizzare al lobbista Fabrizio Centofanti (coimputato di Palamara a Perugia) una breve vacanza con mogli e fidanzate nello chalet al Sestriere dell’imprenditore piemontese Ezio Bigotti, a marzo 2015. Ma quando sull’aereo per Torino il magistrato si accorse della presenza di Amara, già noto per alcuni guai giudiziari, protestò con Centofanti che chiese all’avvocato di ritornare subito indietro. Tutto riscontrato, secondo la Procura, dai tabulati telefonici, biglietti aerei e voli.

L’orologio d’oro

Amara ha raccontato anche di due incontri con l’ex magistrato per parlare di Musco, riferendo che «Palamara fece capire che avrebbe gradito un regalo di un orologio d’oro del valore di 30.000 euro per la sua compagna. E io gli dissi “se tu ti comporti male con Maurizio io ti scanno». Dopo questa frase i pm hanno dovuto aprire il nuovo fascicolo a carico di Palamara, che già tre anni fa, all’inizio dell’indagine sfociata nel processo in corso, fu accusato da un altro magistrato di aver intascato 40.000 euro per una nomina al Csm, ma poi la stessa Procura accertò che non era vero. Ora, al di là dell’orologio, l’interessamento di Palamara al processo in Cassazione che stava a cuore ad Amara sarebbe dimostrato anche da una e-mail ricevuta dal segretario generale della Corte nel febbraio 2017 con tutti gli aggiornamenti sul «procedimento Musco». Per la Procura di Perugia Amara «è un soggetto abilissimo nell’arte manipolatoria e di conseguenza estremamente “pericoloso”, soprattutto quando lo si intenda utilizzare come prova a carico di altri»; tuttavia gli «indiscutibili riscontri esterni» emersi, «dimostrano che non è affatto (quantomeno soltanto) un millantatore o peggio ancora un semplice mitomane».

Il caso Amara non finisce più: nuove accuse su Palamara e indagine sulla fuga di notizie. Il Domani il 10 luglio 2022

Indiscrezioni su una nuova indagine nei confronti dell’ex membro del Consiglio superiore della magistratura. Che annuncia una «nuova denuncia penale a Firenze segnalando alla procura generale della Cassazione la gravità della condotta degli inquirenti perugini». 

Archiviata a Perugia l’indagine sulla cosiddetta “Loggia Ungheria”, il caso che vede coinvolto l’ex pubblico ministero Luca Palamara e l’ Piero Amara è tutt’altro che finito. Da una parte infatti nella richiesta di archiviazione, secondo quanto ricostruito da Corriere e Repubblica, si fa riferimento a una nuova indagine in cui Palamara risulterebbe indagato per istigazione alla corruzione, mentre dall’altra la notizia di questa nuova indagine ha portato i pubblici ministeri di Perugia ad aprire un nuovo fascicolo sulla fuga di notizie.

Il fascicolo sulla fuga di notizie è stato aperto dalla procura di Perugia dopo la pubblicazione di alcuni contenuti della richiesta di archiviazione, inviata dai pubblici ministeri al giudice per le indagini preliminari, che non erano stati resi pubblici. 

IL CASO MUSCO

L'ipotesi di accusa nei confronti di Palamara riguarderebbe il presunto interessamento dell'allora componente del Consiglio superiore della magistratura per agevolare l’ex magistrato Maurizio Musco, amico di Amara e all'epoca accusato di abuso d'ufficio.

Palamara ha annunciato una «nuova denuncia penale a Firenze segnalando alla procura generale della Cassazione la gravità della condotta degli inquirenti perugini».

«Le notizie pubblicate fanno riferimento a fatti e vicende che in alcun modo mi sono state contestate». ha sottolineato oggi Palamara. Nel corso dell’interrogatorio del 14 giugno in cui gli furono contestate le accuse di Amara che Palamara definisce «fantasmagoriche», argomenta l’ex membro del Csm, «dissi al procuratore Cantone che a quel punto sarebbe stato più divertente contestarmi il tentato omicidio».

Secondo Palamara il suo interessamento alla vicenda Musco sarebbe stata già smentita dalla documentazione già a disposizione della Procura di Perugia e le dichiarazioni di Amara, è la ricostruzione dell’ex pm, servirebbero a salvare procedimenti in corso, in questo caso proprio quelli contro l’ex magistrato.

La Procura di Perugia apre un fascicolo per fuga di notizie sulla Loggia Ungheria. In Puglia invece sono più distratti. E la stampa locale ringrazia…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Luglio 2022. 

Quello che è incredibile in realtà è che quando le fughe di notizie accadono in Puglia, la solita "cerchia" di magistrati della corrente sinistrorsa di "Area", fa finta che non sia successo nulla. E quando per questi fatti arrivano esposti al Csm, i cosiddetti controllori del corso della giustizia componenti della Sezione Disciplinare e della 1a commissione archiviano

La procura di Perugia ha aperto un fascicolo sulla fuga di notizie in relazione alla pubblicazione di alcuni contenuti della richiesta di archiviazione sulla Loggia Ungheria, formulata dai pm e trasmessa al Gip. Il fascicolo è stato aperto ieri mattina dopo che il Fatto Quotidiano ha pubblicato alcuni passaggi della richiesta di archiviazione seguiti dalle notizie riportate poi dal Corriere della Sera e da La Repubblica. Stralci che non era contenuti nella nota stampa diffusa dalla procura con cui si dava notizia della richiesta di archiviare l’indagine. “ È un fatto gravissimo e la Procura di Perugia  – ha dichiarato  il procuratore capo Raffaele Cantone all’agenzia Adnkronos – è vittima di questa fuga di notizie“.

Nonostante i verbali degli interrogatori di Amara fossero stati “secretati” sono diventati di dominio pubblico, il procuratore Cantone nei giorni scorsi aveva già avuto modo di affermare : “Vi è stata una sostanziale e totale discovery anticipata della parte più significativa del materiale probatorio costituito dalle dichiarazioni dall’avvocato Piero Amara che stava riferendo della presunta associazione segreta, con la pubblicazione sui media integralmente di gran parte dei verbali di interrogatorio che avrebbero invece dovuto restare segreti”. 

“In particolare già nel novembre 2020 era emersa la certezza che i verbali di interrogatorio di Amara fossero nella disponibilità di soggetti estranei al processo tanto da essere trasmessi integralmente ad un giornalista, e tale propalazione è proseguita anche nei primi mesi del 2021 con l’invio di una parte dei verbali di dichiarazioni ad altro giornalista e ad un consigliere Csm“, il togato Nino Di Matteo, “che ne aveva fatto anche pubblica menzione in un intervento al Plenum dell’organo di autogoverno”. “Nella primavera del 2021 per oltre un mese giornali, trasmissioni televisive si sono occupati della vicenda, pubblicando verbali ed altri documenti e facendo rendere dichiarazioni ed interviste ai soggetti ritenuti interessati all’indagine», si legge ancora nella nota – e (…) quanto avvenuto ha certamente inciso sulle attività investigative in corso, che avrebbero al contrario, in relazione alla tipologia di reato da accertare, richiesto massima riservatezza e segretezza. Basterebbe in questo senso rimarcare come più di un soggetto si è avvalso della legittima facoltà di non rispondere, proprio motivando la sua scelta in relazione al grave strepitus fori verificatosi“.

il vero intento della corrente di Area al CSM: pilotare, controllare, condizionare nomine 

Quello che è incredibile in realtà è che quando le fughe di notizie accadono in Puglia, la solita “cerchia” di magistrati della corrente sinistrorsa di “Area”, fa finta che non sia successo nulla. E quando per questi fatti arrivano esposti al Csm, i cosiddetti controllori del corso della giustizia componenti della Sezione Disciplinare e della 1a commissione archiviano. Guai a disturbare il “manovratore”: cane con cane non si morde. Sopratutto se porta la toga. 

Con una nota l’ex presidente dell’ ANM Luca Palamara, facendo riferimento alle notizie apparse oggi sui quotidiani La Repubblica e Corriere della Sera ha reso noto di aver inviato una nuova denuncia penale a Firenze segnalando alla procura generale della cassazione la gravità della condotta degli inquirenti perugini. “Le notizie pubblicate fanno riferimento a fatti e vicende che in alcun modo mi sono state contestate nel corso di un interrogatorio del 14 giugno 2022 proprio sulla vicenda Musco.

Perché durante quell’interrogatorio – nel quale mi vennero contestate le fantasmagoriche accuse dell’avv.Amara “ ti darò 30.000 euro e ti scanno se non lo fai” in relazione alle quali pur non registrando l’interrogatorio in tono amichevole dissi al Procuratore Cantone che a quel punto sarebbe stato più divertente contestarmi il tentato omicidio – la pubblica accusa non mi ha dato lettura delle dichiarazioni di Mogini? E perché invece le dichiarazioni di Mogini sono state riportate dai giornali di riferimento peraltro già denunciati a Firenze?“ 

“Quanto al merito e al mio asserito interessamento alla vicenda Musco – continua Palamara – si tratta di fatti già smentiti da una pur facile lettura della documentazione già a disposizione della Procura di Perugia nell’ambito del procedimento 6652/18 rispetto alle quali le dichiarazioni dell’avv. Amara in questa circostanza ricalcano esattamente quello che già avvenne con il giudice Tremolada: in quel caso dovevano servire a salvare il processo Eni oggi per salvare in qualche modo i processi intentati a mio danno“. Redazione CdG 1947

Talpa nella procura di Perugia: torna in azione la “manina”. Cantone apre un fascicolo per trovare il «traditore» che ha passato ai giornali le carte sulla nuova inchiesta a carico di Palamara. Simona Musco su Il Dubbio il 12 luglio 2022.

«La procura di Perugia è parte offesa», ha detto nel fine settimana il procuratore Raffaele Cantone nel commentare l’ennesima e non più sorprendente fuga di notizie su indagini che riguardano l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Un’affermazione che basterebbe da sola a certificare un fatto: a indagare sul fuggi fuggi di carte per l’ennesima opera di cecchinaggio ai danni di Palamara non può essere la procura del capoluogo umbro, bensì quella di Firenze, alla quale l’ex zar delle nomine si è subito rivolto per denunciare i fatti. Ovvero la pubblicazione, su Corriere della Sera e Repubblica, dell’indagine a carico dell’ex consigliere del Csm per istigazione alla corruzione, uno stralcio della ben più corposa richiesta di archiviazione avanzata da Cantone per quanto riguarda l’indagine sulla presunta Loggia Ungheria, bollata come una bufala ad uso e consumo dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara. Un “pentito” la cui credibilità risulta ridotta al minimo, ma nonostante questo alcune delle sue dichiarazioni, parzialmente riscontrate, rimangono ancora in ballo per fare da ossatura ad un numero imprecisato di fascicoli che il procuratore di Perugia distribuirà ai colleghi per competenza territoriale. Tra queste, ci sono quelle relative al presunto tentativo di Palamara di salvare l’ex pm siracusano Maurizio Musco, amico di Amara e all’epoca imputato per abuso d’ufficio, poi condannato e allontanato dalla magistratura. Il dato «inquietante» e nuovo, secondo i pm di Perugia, sarebbe stato l’avvicinamento, da parte dell’ex zar delle nomine, del giudice di Cassazione Stefano Mogini, ma senza successo, grazie alla «schiena dritta» del magistrato. Notizie rese note nonostante si trattasse di atti coperti dal segreto, per i quali è vietato qualsiasi tipo di pubblicazione, anche solo del loro contenuto: l’atto è infatti segreto «fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza» e se ritenuto necessario dal pm anche dopo la sua conoscenza o conoscibilità.

«Non abbiamo mai avuto alcun interesse a che il contenuto della richiesta di archiviazione venisse pubblicato dai mezzi d’informazione. Faremo tutto il possibile per accertare da dove sia uscita», ha assicurato Cantone. Ma chi ha passato la velina alla stampa sapeva dove andare a pescare. Così come nel 2019, quando le intercettazioni che fecero scoppiare il Palamaragate finirono sugli stessi due giornali oggi protagonisti del nuovo presunto complottone. Ad agire sarebbe stato un «traditore», ha sbottato Cantone, inviperito per una «vicenda di una gravità assoluta». Grave tanto quanto lo era stata la pubblicazione dei verbali di Amara sulla vicenda Ungheria, bollata dal procuratore di Perugia come «una situazione che probabilmente non ha precedenti per indagini giudiziarie quantomeno di così rilevante impatto», essendoci stata «una sostanziale e totale “discovery” anticipata della parte più significativa del materiale probatorio». Quello “sputtanamento”, di fatto, fece finire al macero l’inchiesta, depotenziando l’attività istruttoria. E in quell’occasione, proprio come sta accadendo ora nel caso della richiesta di archiviazione, fu la stessa procura che stava indagando sulla loggia, quella di Milano, a investigare sulla fuga di notizie, innescata involontariamente dal pm meneghino Paolo Storari, che consegnò i verbali di Amara all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo.

Ma di chi è la manina che ha fatto finire sui giornali atti ancora segreti? Stando a quanto reso noto da Cantone, la richiesta di archiviazione non era in possesso né della procura di Milano né della procura generale della Cassazione. E nemmeno il Gico della Guardia di Finanza avrebbe avuto disponibilità degli atti al momento dell’ennesima discovery. Il fascicolo a modello 45, senza ipotesi di reato né indagati aperto inizialmente da Cantone, si è intanto trasformato in un’indagine per rivelazione di segreto. Il fascicolo incriminato, nei giorni precedenti al comunicato che annunciava la richiesta di archiviazione, passava di mano in mano nelle varie cancellerie. L’ipotesi più accreditata in procura, al momento, è che sia stato qualche investigatore a fare da tramite con i giornali, su mandato ignoto. Anche perché Cantone esclude categoricamente che a spifferare tutto ai giornalisti possano essere stati i due magistrati che lo affiancano nell’indagine, ovvero Gemma Miliani e Mario Formisani, gli stessi che rappresentano l’accusa nel processo per corruzione a carico di Palamara. Ma la tesi che la spia possa essere un uomo in divisa non convince l’ex presidente dell’Anm.

«Per la mia esperienza, in questi casi i giornalisti hanno rapporti diretti con i magistrati – spiega al Dubbio -, quanto emerso dalle conversazioni captate con il trojan nel 2019 spiega bene come si mettono in movimento le manine. Come mai su 167 pagine si sono mossi solo quelle che mi riguardano?», si chiede l’ex pm, convinto che comunque si tratti di «accuse che si smontano da sole». A scoprirlo sarà forse la procura di Firenze, alla quale si è rivolto annunciando di voler «andare fino in fondo». La stessa procura dalla quale aspetta, però, risposte da circa due anni in merito alle denunce sulla vecchia fuga di notizie. Ma non solo: Palamara ha anche invocato un intervento degli ispettori ministeriali, convinto che la situazione non possa essere ignorata, al punto da essere pronto a proteste eclatanti, come incatenarsi davanti al Palazzo di Giustizia. Quanto al merito e al presunto interessamento alla vicenda Musco, aveva spiegato l’ex consigliere del Csm nei giorni scorsi, «si tratta di fatti già smentiti da una pur facile lettura della documentazione già a disposizione della procura di Perugia nell’ambito del procedimento 6652/18 rispetto alle quali le dichiarazioni dell’avvocato Amara in questa circostanza ricalcano esattamente quello che già avvenne con il giudice Tremolada: in quel caso dovevano servire a salvare il processo Eni oggi per salvare in qualche modo i processi intentati a mio danno. Ma la battaglia di verità continua e ancor di più il rinnovato impegno politico su un tema quello della giustizia che non può non trascendere le singole vicende personali riguardando la vita di tutti i cittadini oramai interessati a comprendere e andare oltre le vicende del Sistema». Insomma, questa volta la talpa potrebbe aver commesso un passo falso. E le prossime pubblicazioni potrebbero smascherarla.

 Giacomo Amadori per “la Verità” l'11 luglio 2022.  

Come un fantasma, a Perugia, a tre anni di distanza dal Palamara-gate, è ricomparsa la manina che sottrae dalla Procura umbra carte coperte da segreto e le consegna sempre agli stessi giornali per far bombardare l'ex presidente dell'Anm, ma non solo. Nel 2019 su alcuni quotidiani, Corriere della Sera e Repubblica in testa, apparvero succose intercettazioni in quel momento in viaggio da Perugia verso il Csm.

Nessuno scoprì (o volle scoprire) l'autore. Ma con quest' ultima fuga di notizie fotocopia, forse il mariuolo, come ogni criminale seriale, potrebbe aver lasciato un'impronta decisiva sulla scena del crimine. In questo caso ha messo in circuito la richiesta di archiviazione per i fatti collegati alla loggia Ungheria e descritti ai pm dal faccendiere Piero Amara. In quelle 167 pagine erano citate vicende ancora coperte da segreto. 

Comprese alcune dichiarazioni testimoniali non ancora contestate a Luca Palamara e pronte per essere depositate nel processo per corruzione già in corso a Perugia.

Il procuratore Raffaele Cantone ha annunciato una guerra senza quartiere a quello che ha già bollato senza giri di parole come «un traditore», nonché colpevole di «una porcata».

Per la toga si tratta di una «vicenda di gravità inaudita» che può essere paragonata alla divulgazione dei verbali di Amara. La richiesta di archiviazione, come è specificato in un comunicato diffuso ieri, non era stata ancora inviata né alla Procura generale di Milano, né a quella della Cassazione, né alla polizia giudiziaria. Anche il Gico della Guardia di finanza, che aveva chiesto copia del provvedimento, sarebbe rimasto a mani vuote. «Nell'interesse vostro, l'avrete quando l'avranno tutti», sarebbe stato spiegato ai militari. «È un fatto gravissimo», ha rincarato la Procura con le agenzie. «Faremo tutto il possibile per accertare da dove sia uscita».

Come dimostrano altre indagini su rivelazioni di segreto, in questi casi volere è potere.

Sabato mattina, dopo aver letto un articolo sul Fatto quotidiano che conteneva diversi virgolettati della richiesta, Cantone ha immediatamente fatto aprire un fascicolo a modello 45 (senza ipotesi di reato, né indagati) che però a partire da stamattina è diventato un modello 44 per rivelazione di segreto. 

Anche perché ieri sono usciti due articoli fotocopia su Corriere della Sera e Repubblica che riguardavano le nuove accuse di corruzione e istigazione nei confronti di Palamara che hanno fatto immaginare a Cantone che qualcuno sia andato a pescare proprio quel capitoletto nelle 167 pagine della richiesta e lo abbia poi consegnato ai cronisti. Insomma, un sicario con un preciso obiettivo, lo stesso di chi ha colpito nel 2019.

Il procuratore è in attesa delle prossime pubblicazioni sui giornali e di un qualche passo falso della talpa. Gli inquirenti escludono che la richiesta possa essere uscita dall'ufficio gip, ma notano che il corposo documento da quattro o cinque giorni era oggetto di fotocopie negli uffici di cancelleria e di passaggi da una stanza a un'altra. Per questo i pm stanno cercando di capire se, durante queste operazioni, le carte possano essere fuoriuscite in modo clandestino per finire magari in mano a qualche investigatore e poi nei computer dei giornalisti.

Con alcuni stretti collaboratori Cantone ha escluso categoricamente il possibile coinvolgimento nella fuga di notizie dei sostituti procuratori che lo affiancano, Gemma Miliani e Mario Formisano. Il magistrato napoletano è pronto a mettere la mano sul fuoco sulla lealtà dei suoi due dioscuri, di cui sostiene di fidarsi quasi più che di sé stesso. «Se fossero loro la delusione sarebbe enorme, la più grande della mia vita. Un vero atto di tradimento», ha commentato con il tono di chi ritiene di essere di fronte a un'ipotesi dell'irrealtà. E allora?

In questo momento i principali indiziati sembrano essere gli operatori della polizia giudiziaria che hanno rapporti costanti con le cancellerie ed è a quel livello che gli inquirenti stanno cercando la falla.

Ieri Palamara ha presentato a Firenze, competente per i reati dei magistrati di Perugia, una denuncia per la fuga di notizie che lo riguarda. Si tratta delle (ennesime) dichiarazioni che Amara ha rilasciato contro l'ex pm, in questo caso nell'ambito di un procedimento per istigazione alla corruzione. 

L'avvocato siracusano ha riferito che, nel 2015, mentre si trovava a bordo di un aereo con Palamara, avrebbe ricevuto da quest' ultimo, ai tempi in cui era consigliere del Csm, una presunta richiesta di 30.000 euro, per aggiustare un procedimento disciplinare riguardante l'ex pm Antonio Musco. Un'accusa che anche in questo caso Palamara considera senza alcun riscontro e facilmente contestabile, carte alla mano. Le stesse che sta mettendo da parte con gli avvocati.

«Palamara purtroppo ha straragione. Ha fatto benissimo a denunciare», ha commentato con i suoi collaboratori Cantone. Per una volta l'ex presidente dell'Anm e il suo grande accusatore si sono trovati dalla stessa parte del campo. Come ai tempi in cui giocavano nella Nazionale magistrati. Infatti in Procura ritengono che questa fuga di notizie danneggi «in modo rilevantissimo» le inchieste, anche perché «la vicenda Palamara è solo un pezzetto della richiesta di archiviazione». Ma evidentemente qualcuno ha interesse solo a quello.

I testimoni del processo a Davigo fanno luce sui veleni al Csm prima dello scandalo Ungheria. GIULIA MERLO su Il Domani il 17 novembre 2022

Gigliotti ha raccontato cosa può aver influenzato le decisioni del Csm nel pensionamento di Davigo, poi lo scandalo della procura di Roma, il parere di Cascini sull’inerzia della procura di Milano e Di Matteo ha spiegato che al Csm tutti sapevano dei verbali, ma nessuno parlò

Il processo di Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio all’ex magistrato e membro del Csm, Piercamillo Davigo, sta entrando nel vivo del dibattimento. Davigo, imputato per rivelazione di segreto d’ufficio per aver rivelato ad alcuni membri del Csm e a un parlamentare il contenuto degli atti riservati di Milano sulla loggia Ungheria, ha scelto il rito ordinario.

Nelle scorse settimane il pm milanese Paolo Storari, imputato per lo stesso reato ma che ha scelto il rito abbreviato, è stato assolto anche in appello. Le motivazioni saranno depositate entro 90 giorni, ma l'ipotesi è che il giudizio della Corte non si discosti di molto da quello del primo grado, che ha ritenuto di assolvere Storari, incorso «in un errore di norma extrapenale», perchè era convinto di rivelare informazioni segrete a chi era deputato a conoscerle in quanto consigliere del Csm.

Intanto, davanti ai giudici di Brescia stanno prendendo la parola come testimoni i principali protagonisti di quella fase del Csm e dalle loro parole si sta delineando il clima che si respirava a palazzo del Marescialli nei mesi precedenti alla divulgazione pubblica dei verbali della presunta loggia Ungheria. Tra i testimoni sono stati sentiti i consiglieri del Csm, Fulvio Gigliotti, Giuseppe Cascini e Nino Di Matteo, oltre al presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra.

Ognuno ha aggiunto un pezzo della sua verità su come andarono i fatti e soprattutto su come l’iniziativa di Davigo di divulgare i verbali incise su altre scelte. 

IL PENSIONAMENTO DI DAVIGO

Il consigliere laico del Csm, Fulvio Gigliotti, ha spiegato di essere stato messo a conoscenza dei verbali di Amara sulla loggia Ungheria da Davigo e ha raccontato anche come si è giunti alla decisione di far decadere Davigo dal ruolo di consigliere del Csm, una volta andato in pensione.

 «Ho avuto modo di parlarne anche con altri consiglieri e mi sono reso conto che non c'era convergenza totale. Inizialmente il comitato di presidenza pareva orientato per la permanenza del consigliere Davigo e mano a mano che ci si avvicinava la data della sua pensione, l'orientamento è cambiato. Io ho sentito anche l'esigenza di spiegare sui giornali il perché votavo a favore del consigliere Davigo, ovviamente su base tecnica giuridica perché all'interno del Csm ho sempre agito su basi giuridiche. E proprio sul piano tecnico ritenevo che dovesse completare la consiliatura».

Si è parlato di questo argomento perchè Gigliotti ha detto di non poter escludere che il cambio di orientamento del Csm potrebbe essere stato determinato da influenze esterne. «Le politiche consiliari sono complicate da leggere e spesso non orientate solo in base a situazioni interne, ma anche da situazioni esterne».

Gigliotti ha concluso dicendo di non aver creduto al contenuto dei verbali: «Se ci avessi creduto ne avrei tenuto conto nei rapporti con i consiglieri del Csm Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti, cosa che non ho fatto», ha detto riferendosi ai due componenti del Csm nominati nei verbali. Quanto a chi fosse a conoscenza dei verbali, Gigliotti ha detto di aver saputo che «era stato avvisato il Quirinale e il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi». 

 L’INERZIA DI MILANO

E’ stato ascoltato anche il togato di Area, Giuseppe Cascini, che ha raccontato di aver parlato con Davigo perchè quest’ultimo sapeva che lui si era occupato di una indagine in cui compariva anche Piero Amara, voce dei verbali. «Davigo voleva sapere se fosse affidabile o meno».

Cascini ha detto che, secondo lui, Davigo fosse nel giusto nel ritenere che la procura di Milano dovesse fare un’indagine: «Erano dichiarazioni esplosive ed è mia convinzione che fosse preciso dovere della Procura di Milano fare un'indagine per capire se fossero vere, visto che erano coinvolte personalità delle principali istituzioni del Paese. Che invece ci fosse una situazione di stallo da parte della Procura di Milano, che dopo qualche audizione non aveva fatto alcuna iscrizione, era motivo di preoccupazione». Secondo Cascini, infatti, la procura di Milano avrebbe dovuto «trasmettere queste informazioni al Csm in modo che fosse investito il Consiglio. Dissi a Davigo che Storari doveva dire al procuratore di mandare gli atti al Consiglio. La mia prima valutazione è che la procura di Milano non stava rispettando la circolare: la regola era di investire il Csm. In quelle dichiarazioni si parlava di molti magistrati e a norma fatti di possibili rilievo ai danni di magistrati devono essere segnalati al Consiglio». 

GLI EFFETTI DELLE RIVELAZIONI SU ARDITA

Davigo ha avvertito del contenuto dei verbali anche il senatore e presidente della commissione Antimafia del Movimento 5 Stelle, Nicola Morra. Lui era amico sia di Davigo che di Ardita e, sapendo che tra i due i rapporti si erano raffreddati, aveva provato a fare da pacere. «Chiedendo al Davigo se c'era la possibilità di una conciliazione con Ardita, lui prese un faldone, coperto da fogli protocollo a righe, e mi invitò a seguirlo fuori dal suo ufficio, nelle scale. Aprendo questo faldone mi fece leggere il cognome Ardita» dicendogli che, secondo alcune dichiarazioni in una indagine, «Ardita faceva parte di un'associazione».

Morra ha raccontato che Davigo lo invitò a fare attenzione. Infatti, Morra ha confermato che la prospettiva di nominare il consigliere del Csm Sebastiano Ardita (che nel processo a Davigo si è costituito parte civile) come consulente in qualche attività della commissione parlamentare antimafia è «naufragata» dopo le rivelazioni di Davigo. 

IL CASO PRESTIPINO ALLA PROCURA DI ROMA

Come testimone è intervenuto anche il consigliere del Csm, Nino Di Matteo, che è stato anche colui che ha rivelato l’esistenza dei verbali della loggia Ungheria, comunicandola al plenum del Csm e definendoli «diffamatori» dopo averli ricevuti in plico anonimo. Di Matteo ha sempre sostenuto che «c'era in atto una manovra per calunniare e screditare Sebastiano Ardita e colpirlo nella sua funzione di consigliere del Csm».

Davanti ai giudici, Di Matteo ha raccontato anche di una riunione del gruppo associativo con il quale era stato eletto e fondato da Davigo, Autonomia e Indipendenza, avvenuta nel marzo 2020 per parlare della nomina del nuovo procuratore di Roma. Dopo lo scandalo Palamara che fece saltare nomina di Marcello Viola (oggi procuratore di Milano) dopo i fatti dell’Hotel Champagne, il plenum del Csm doveva esprimersi sui nuovi candidati.

«Ho partecipato ad una riunione choccante alla presenza di Davigo, Ardita, della consigliera Ilaria Pepe e dell'ex consigliere Alessandro Pepe e la consigliera Pepe era colpita dal fatto che sui quotidiani si parlasse di una spaccatura all'interno della nostra corrente sull'elezione del procuratore di Roma. In un articolo del Fatto Quotidiano si diceva che io e Ardita non avremmo votato per Prestipino ma per un altro candidato, Michelazzo. A quel punto Davigo, con una veemenza inaudita disse ad Ardita: “Se tu non voti Prestipino, sei fuori da tutto” e ancora “Se tu non voti Prestipino sei con quelli dell'Hotel Champagne”».

Davanti alla scena, Di Matteo ha raccontato di aver detto che «quel gruppo era peggio degli altri, perché non si consentiva ai consiglieri di votare secondo coscienza i propri candidati. Reagii in maniera istintiva e dissi a Davigo: “Non mi sono fatto condizionare dalle minacce di morte di Totò Riina, figuriamoci se mi faccio minacciare dalle tue minacce”».

TUTTI SAPEVANO, NESSUNO PARLÒ

Di Matteo ha ricostruito anche le reazioni nel Csm, quando disse ai colleghi che intendeva parlare dei verbali della loggia Ungheria davanti al plenum del Csm. «La sapevano tutti e quando dissi al vicepresidente David Ermini che volevo parlarne al plenum, lui già sapeva di Ardita».

Il consigliere Csm ha anche ricostruito che il vicepresidente Ermini gli disse che «potevo dire quello che volevo». Invece, prima del plenum, «il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, mi invitò a non fare questo intervento perché aveva già preso contatti con la Procura di Milano» per dare impulso alle indagini. Invece, Di Matteo decise di intervenire e dire tutto pubblicamente, perchè già «mezzo Csm sapeva» e anche molti giornali. 

Domani, infatti, in quei giorni aveva pubblicato un articolo a firma di Emiliano Fittipaldi che dava conto dell’esistenza dei verbali segreti.

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Caso verbali, il consigliere del Csm Cascini “accusa” Greco: «Fu lui a sbagliare». Secondo il togato Csm, testimone al processo a carico di Davigo, l’onere di trasmettere a Palazzo dei Marescialli gli atti sulla “loggia” ricadeva sull’ex procuratore di Milano. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 17 novembre 2022.

L’Interpretazione di una circolare del Consiglio superiore della magistratura del 1995 potrebbe essere fra le cause che determinarono il terremoto che ha travolto in questi mesi la procura di Milano per la vicenda della Loggia Ungheria. Un terremoto che ha poi avuto anche degli strascichi sotto il profilo penale, coinvolgendo un magistrato come Piercamillo Davigo, ora sul banco degli imputati al tribunale di Brescia per “rivelazione del segreto d’ufficio”.

La circolare in questione ha ad oggetto “Informative concernenti procedimenti penali a carico di magistrati” e regolamenta in maniera dettagliata le comunicazioni istituzionali fra il Csm ed i vari procuratori generali e procuratori della Repubblica. Costoro, in particolare, devono “dare immediata comunicazione al Csm con plico riservato al Comitato di presidenza del Csm di tutte le notizie di reato nonché di tutti gli altri fatti e circostanze che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio”, salvo che sussistano “specifiche esigenze di segretezza”.

Il dovere di comunicazione da parte dei procuratori sussiste, prosegue la circolare, qualora abbiano “notizia di fatti suscettibili di valutazione disciplinare o di valutazione sotto il profilo dell’eventuale incompatibilità di sede o di ufficio”. Aspetti, quest’ultimi, che non possono non essere portati a conoscenza del Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli, composto dal vice presidente del Csm e dai vertici della Cassazione, il procuratore generale ed il primo presidente. Già all’epoca il Csm stigmatizzava la “reticenza” del procuratore a fornire tali informazioni, sottolineando come in molte occasioni erano «mancate le comunicazioni» ed il Consiglio aveva così dovuto apprendere i fatti «attraverso la stampa».

Il “deficit” informativo aveva come conseguenza quella di limitare l’attività del Csm, impedendogli di «svolgere le proprie funzioni», con conseguente «spreco di attività di comunicazione, richieste, sollecitazioni» al fine di porvi rimedio. Tale circolare è stata richiamata questa settimana dal togato del Csm Giuseppe Cascini, già procuratore aggiunto a Roma, sentito come testimone proprio nel processo nei confronti di Davigo a Brescia. L’accusa mossa all’ex pm di Mani pulite è quella di aver rivelato il contento dei verbali delle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara sulla Loggia Ungheria. Verbali che Davigo aveva ricevuto dal pm milanese Paolo Storari, il quale si era rivolto all’allora componente del Csm per segnalare “l’inerzia” dei vertici milanesi nel svolgere indagini sul contenuto di queste dichiarazioni.

Sul punto Cascini non ha avuto dubbi, affermando che le dichiarazioni di Amara «erano esplosive ed è mia convinzione che fosse preciso dovere della procura di Milano fare un’indagine per capire se fossero vere, visto che erano coinvolte personalità delle principali istituzioni del Paese». I nomi degli appartenenti alla Loggia fatti da Amara erano diverse decine, fra cui molti magistrati, in servizio ed in pensione, oltre a due componenti in quel momento in carica del Csm. Per Cascini la Loggia Ungheria «era in sostanza la prosecuzione della P2 e aveva la sua base in Sicilia». Il non aver mai trasmesso gli atti al Csm da parte dell’allora procuratore di Milano Francesco Greco, anche dopo che era esploso lo scandalo, potrebbe quindi essere stato determinato da una interpretazione della circolare.

Anche se la comunicazione deve riguardare i «fatti e circostanze che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio», Greco potrebbe aver ritenuto che essendo l’indagine nella fase iniziale, senza che fosse stata effettuata alcuna iscrizione, non sussisteva l’obbligo di trasmissione al Csm. A tal proposito ci sarebbe il precedente recente delle ormai famose chat di Luca Palamara che furono trasmesse dalla procura di Perugia dopo un anno al Csm, in quanto non utili per le indagini penali potevano però essere d’interesse per le incompatibilità ambientali o per gli eventuali profili disciplinari a carico dei vari magistrati coinvolti.

Tornando, invece, al destino del procedimento sulla Loggia Ungheria, poi trasmesso per competenza territoriale da Milano a Perugia, la Procura del capoluogo umbro ha richiesto lo scorso luglio la sua archiviazione. La richiesta di ben 167 pagine, accompagnata da 15 faldoni di documenti, è ancora oggetto di valutazione da parte del gip.

Ieri sentito anche Di Matteo. Cascini contro Greco: “Sulla Loggia Ungheria doveva indagare”. Paolo Comi su Il Riformista il 16 Novembre 2022.

Sulla Loggia Ungheria bisognava fare le indagini. Parola di Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma e attuale componente del Consiglio superiore della magistratura. Sentito ieri in qualità di testimone nel processo a Brescia per rivelazione del segreto nei confronti di Piercamillo Davigo, Cascini ha ‘sconfessato’ quanto raccontato in questi mesi dagli allora vertici della Procura di Milano, dando sostanzialmente ragione al pm Paolo Storari che aveva sempre parlato di “inerzia” nel fare accertamenti sul sodalizio paramassonico. L’esistenza della Loggia era stata rivelata, alla fine del 2019, dall’avvocato Piero Amara, poi diventato la gola profonda di almeno cinque Procure. Le dichiarazioni di Amara, per Cascini, “erano esplosive ed è mia convinzione che fosse preciso dovere della Procura di Milano fare un’indagine per capire se fossero vere, visto che erano coinvolte personalità delle principali istituzioni del Paese”.

Amara aveva fatto decine di nomi, fra alti magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e professionisti, tutti accomunati in quella che, sempre secondo Cascini, “era in sostanza la prosecuzione della P2 e aveva la sua base in Sicilia”. Davanti a questo scenario inquietante, la Procura di Milano, all’epoca diretta da Francesco Greco, ora consigliere per la legalità del sindaco di Roma Roberto Gualtieri, era in una situazione di “stallo” e “non aveva fatto alcuna iscrizione” nel registro degli indagati. Cascini, preoccupato per l’inattività milanese, ha poi svelato un particolare a dir poco sorprendente. Pare, infatti, che i verbali delle dichiarazioni di Amara, finiti in questi mesi tutti i giornali, non vennero mai trasmessi al Csm. “Ritenni che il procuratore di Milano, non trasmettendo al Consiglio, non stava facendo il suo dovere: non stava rispettando la circolare che prevede che atti di fatti di possibile rilievo a carico di magistrati devono essere trasmessi al Csm anche se c’è il segreto, a meno che ci siano particolari esigenze investigative”, ha affermato Cascini, ‘giustificando’ così la decisione di Storari di consegnarli a Davigo: “Era una richiesta di consiglio” come “tante volte anche a me è capitato di ricevere dai colleghi” più giovani e, quindi, “non era una cosa che mi sembrava anormale. Era una comunicazione informale di un collega”.

Amara era una vecchia conoscenza di Cascini in quanto in passato lo aveva indagato a Roma. Davigo, allora, gli chiese cosa ne pensasse e Cascini rispose che quanto raccontato Amara “faceva tremare i polsi, ma la narrazione non era solida. La prima percezione è che si trattasse di un mischio di verità e finzione e quindi, il mio parere di pubblico ministero, è che bisognava fare indagini”. Indagini che, come si è visto, non furono mai effettuate lasciando per sempre il dubbio se la Loggia sia esistita o meno. E sempre ieri a Brescia ha testimoniato anche il pm antimafia Nino Di Matteo, il primo a svelare l’esistenza del sodalizio paramassonico in Plenum, raccontando di una riunione molto ‘particolare’ del gruppo di Autonomia&indipendenza a marzo 2020 in vista della nomina del nuovo procuratore di Roma. Oltre a Di Matteo, all’incontro erano presenti Davigo, il pm Sebastiano Ardita, la giudice Ilaria Pepe e l’ex consigliere del Csm Alessandro Pepe.

Di Matteo e Ardita avrebbero detto che non era pronti a votare per Michele Prestipino, allora vice di Giuseppe Pignatone. A quel punto Davigo “con una veemenza inaudita e grida che si potevano sentire nella stanza accanto” rispose ad Ardita che se non avesse votato Prestipino era “fuori da tutto”, aggiungendo che era “con quelli dell’Hotel Champagne”. Anche Di Matteo iniziò ad urlare dicendo che “quel gruppo era peggio degli altri, perché non si consentiva ai consiglieri di votare secondo coscienza i propri candidati” e, guardando in faccia Davigo: ‘Non mi sono fatto condizionare dalle minacce di morte di Totò Riina, figuriamoci se mi faccio minacciare dalle tue minacce”. Proprio un bell’ambiente. Paolo Comi

Giacomo Amadori per “la Verità” il 14 luglio 2022. 

Continuano a Perugia le verifiche sui presunti accessi illeciti alla banca dati della Procura da parte della presunta talpa. La situazione viene definita dagli inquirenti «molto delicata». Il dipendente, indagato per accesso abusivo e rivelazione di segreto, avrebbe scaricato dal sistema carte dell'inchiesta Ungheria (fascicolo a cui non era applicato), a partire dalla richiesta di archiviazione, e, forse, le avrebbe consegnate ad alcuni giornalisti. Dai primi accertamenti risulta che l'uomo si fosse già impossessato di altro materiale sensibile.

In attesa di sviluppi, vale la pena esaminare con attenzione la richiesta di archiviazione sulla supposta loggia firmata dal procuratore Raffaele Cantone.

In essa emerge adesso come Amara, dopo aver reso sei interrogatori a Milano tra il 2019 e il 2020, per svelare l'esistenza della loggia Ungheria, ne abbia impiegati cinque, nel 2021, per smontare le sue stesse dichiarazioni. 

Scrive la Procura: «Progressivamente, ma chiaramente, Amara ha compiuto una vera e propria inversione ad "U"» e «in modo anche molto abile ha via via sminuito il ruolo della loggia Ungheria e il proprio contributo in essa». Alla fine ha sostenuto, contrariamente a quanto affermato tra il 2019 e il 2020 a Milano, che Ungheria «non era un'associazione massonica segreta ("coperta"); che non era un'associazione a delinquere finalizzata a commettere reati; che non perseguiva finalità illecite, ma principi ideali dello Stato liberale; e che essere associato non significava essere disponibile a commettere reati».

Anzi, a suo dire, sarebbe esistito «un altro centro di potere, parallelo a Ungheria, all'interno del Csm nella consiliatura 2014-2018 che aveva gestito le nomine dei vertici apicali della magistratura ordinaria». Ed egli stesso, a un certo punto, «unitamente ad altri due associati "delusi"» di Ungheria, «aveva mutato le sembianze dell'associazione Aprom, per farla diventare una nuova associazione quale strumento di esercizio di potere e scambio di favori». 

Nella sua nuova versione Amara fa sapere che con Ungheria inizia a perdere i contatti una volta trasferitosi a Roma. A quel tempo, con la loggia, si relaziona a «spot» ed è deluso dal suo modo di operare, dal momento che risponderebbe più «alle esigenze di alcune persone che all'affiliazione ad Ungheria». Ecco così pronti i bagagli.

Amara narra, si legge nella richiesta, del suo intento di «costituire unitamente ad un altro associato "deluso", il dottor Pasquale Dell'Aversana (un importante burocrate, che aveva rivestito un ruolo di vertice nell'Agenzia delle entrate), una nuova associazione a Roma, sfruttando i canali e le relazioni anche di Ungheria, si da poter avere un ruolo più centrale che non riusciva ad avere nella loggia, ed utilizzando una realtà associativa con finalità di studio già esistente e creata da Dell'Aversana, denominata Aprom».

L'Aprom è l'acronimo di Associazione per il progresso del Mezzogiorno. Si tratta di un gruppo di persone molto attive nell'organizzazione di eventi e convegni a cui partecipavano diversi magistrati. Già nella primavera del 2021, in un'intervista pubblicata su Panorama, dopo l'esplosione del caso Ungheria, Amara aveva evidenziato il cambio di strategia e aveva consigliato al cronista di puntare l'attenzione sull'«Aprom di Dell'Aversana, un altissimo funzionario dell'Agenzia delle entrate, associato a Ungheria come non mai». 

Insomma la fase 2 era già iniziata. Negli interrogatori Amara definisce Aprom «una nuova scatola di specchi, in cui pero non doveva esistere, almeno tra i componenti, la segretezza nel senso ognuno deve sapere dell'altro». In essa sarebbe stata invitata «gente che faceva parte di Ungheria», ma avrebbe avuto una finalità «meramente relazionale», «lobbistica», cioè senza «scopi ideali». A riscontro di queste dichiarazioni, Amara ha consegnato una lista di nominativi in allegato a una mail da lui inviata in data 8 luglio 2015 all'avvocato V.M.L.R. denominata «aderenti ad associazione A.pro.m.eu».

Ma anche in questo caso ci troveremmo di fronte al gioco delle tre carte: «L'elenco depositato [] ad una lettura testuale, sembrerebbe trattarsi di un documento riferibile alla associazione Aprom tout court, come del resto si legge nel testo della mail ("lista certi cenacolo culturale") e non anche di neofiti di un gruppo di potere, costituito dai "delusi" di Ungheria» annota la Procura.

Di fronte a questa clamorosa retromarcia i pm ritengono che la questione cruciale sarebbe capire perché Amara riferisca solo il 3 novembre 2021 della «sua delusione rispetto ad Ungheria» e della sua intenzione di «creare un nuovo gruppo». Ma anche perché a Milano abbia tirato fuori la storia della loggia. A questo secondo quesito per gli inquirenti umbri l'avvocato siracusano probabilmente non risponderà mai in modo sincero.

In compenso ha provato a spiegare i motivi per cui non aveva fatto riferimento ad Aprom nelle precedenti dichiarazioni meneghine, di cui sembra essersi pentito: «Premetto che io oggi non parlerei più di Ungheria, in quanto mi rendo conto che alcune circostanze le ritenevo poco credibili. Che ad esempio Canzio (Giovanni, primo presidente emerito della Cassazione, ndr) e Berlusconi (Silvio, ndr) facessero parte di Ungheria mi sembrava inverosimile». 

Poi incolpa del polverone sollevato il pm che per primo lo ha interrogato, vale a dire Paolo Storari: «Mi fu detto di riferire tutto senza timore anche le circostanze poco attendibili e che la Procura avrebbe fatto delle verifiche. Non ho parlato di questa vicenda, quella del cenacolo in Aprom, per timore e perché non avevo delle prove che ho acquisito solo successivamente». A partire dalla mail inviata all'avvocato romano di cui abbiamo già fatto cenno.

Il commento di Cantone è tagliente: «Amara riferisce a dicembre 2019 a Milano di Ungheria, definendola una potentissima associazione, paragonabile alla P2, indica con certezza gli affiliati e a distanza di due anni afferma, invece, che in realtà gia dal 2015 era sostanzialmente uscito dal gruppo perché deluso e che la da lui riferita affiliazione di alcuni degli adepti sembrava (persino a lui) del tutto inverosimile!». Alla fine di Ungheria resta poco o niente. Amara anticipa la nascita della loggia agli anni 1993-95, e la collega «alla "crisi" di valori del Paese, successiva a Tangentopoli» e «in questo senso essa sarebbe la "continuazione" della P2».

Ma alla fine più che «ristabilire un sistema di valori (perduti)», Amara ha affermato che «uno dei problemi concreti che la loggia dovette affrontare fu la "gestione" dei procedimenti nei confronti di Berlusconi, aperti a Palermo e Catania (in relazione al "dopo-stragi")». Inchieste in cui l'ex premier è stato già archiviato. Siamo di fronte all'ennesimo colpo a salve di Amara? In realtà il «dichiarante» in questo caso è stato ritenuto parzialmente credibile. Come spesso capita quando di mezzo c'è il Cav. Ed è prevedibile che non mancheranno le polemiche. 

L'intervento pro Silvio di Ungheria (con tanto di boicottaggio delle dichiarazioni del pentito Luigi Ilardo) sarebbe stato reso possibile dal «profondo legame tra Giovanni Tinebra», ex influente magistrato siciliano defunto, e «Berlusconi (e il suo governo)».

Su tale filone Perugia ha attivato sia la Procura nazionale antimafia che quella di Messina come si evince da questo passaggio: «Delle dichiarazioni rese sul punto e stata immediatamente messa al corrente la Procura nazionale antimafia con nota del 9 settembre 2021 ed esse sono state trasmesse alla Procura di Messina, dopo averle stralciate ed inserite in un fascicolo iscritto a modello 45».

L'Antimafia ha già risposto con l'invio di documentazione, circostanza che ha portato Cantone a scrivere «che alcune circostanze narrate da Amara sono (almeno in parte) riscontrate». Ma la Procura non ha considerato una potenziale notizia di reato solo le dichiarazioni anti Berlusconi, ma pure quelle che riguardano l'ex capo della Procura Luigi de Ficchy.

Amara per confermare i suoi rapporti privilegiati con alcuni magistrati ha fatto togliere dalla naftalina un bigliettino sequestrato dalla Procura di Roma con sopra un elenco di nominativi e indirizzi che sarebbe stato utilizzato per recapitare alcuni doni in vista delle festività pasquali a diversi personaggi, tra cui De Ficchy («una stampa di un certo valore») e l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone («un regalo non meglio precisato»).

Un foglietto mai valorizzato in passato né nelle indagini romane, né dallo stesso Amara. Ma se per l'autista del faccendiere siciliano quei regali non erano altro che cassette di ciliegie, a giudizio di Cantone, quella noticina, pur non dimostrando l'esistenza di alcuna loggia, «potrebbe, pero, avere un indiscutibile rilievo come ulteriore prova di un circuito relazionale ad alto livello del dichiarante, che avrebbe intrattenuto rapporti anche con importanti magistrati».

A questo proposito Amara ha anche riferito in un'annotazione redatta in carcere «una vicenda riguardante il figlio» di De Ficchy. Il successore di quest' ultimo, Cantone, non ha fatto sconti: ha disposto «lo stralcio del memoriale» e lo ha «già trasmesso al pm di Firenze» Luca Turco. Il quale è da tempo titolare di un fascicolo su De Ficchy, come rivelato dalla Verità, aperto in seguito a un precedente stralcio della Procura di Milano e relativo alle prime dichiarazioni di Amara sulla loggia. 

Giacomo Amadori per “la Verità” il 15 luglio 2022.

La storia della presunta talpa della Procura di Perugia vede come unico indagato (per il momento) un saggista che nei suoi libri si occupa di cold case rimasti irrisolti. Ma lui, forse, potrebbe aver lasciato qualche traccia. Ieri nella libreria Feltrinelli di corso Vannucci era rimasta solo una copia del libro La scomparsa di Adinolfi, firmato dal già cancelliere della Procura Raffaele Guadagno, sospettato di essere la gola profonda di alcuni quotidiani, e dall'ex giornalista Rai Alvaro Fiorucci.

Al primo sfoglio quello che salta all'occhio è l'autore della prefazione, l'inviato del Corriere della Sera Giovanni Bianconi, lo stesso cronista che, insieme con due colleghi della Repubblica con cui non di rado opera in pool, domenica ha pubblicato un articolo che conteneva alcune parti della richiesta di archiviazione sulla cosiddetta loggia Ungheria che, a giudizio del procuratore Raffaele Cantone, erano ancora coperte da segreto.

E a scaricare illecitamente i file, non essendo collaboratore dei pm che indagavano, sarebbe stato proprio Guadagno, cinquantottenne originario di Santa Maria di Vico (Caserta), ma da anni trapiantato in Umbria. Attualmente lavora all'ufficio esecuzione della Procura e non ha più nulla a che fare con le indagini. 

È sospettato di essersi intrufolato nel sistema anche in altre occasioni, scaricando ulteriori documenti riservati. Al momento gli inquirenti non sono riusciti a trovare tracce di intrusioni riferibili alla tarda primavera del 2019, quando esplose il Palamara gate e sui giornali finirono decine di intercettazioni e atti di indagine non ostensibili. Una rivelazione del segreto investigativo senza precedenti di cui la Procura di Perugia, all'epoca non ancora guidata da Cantone, non riuscì a trovare i responsabili.

Questa volta, invece, i magistrati potrebbero aver scoperto l'autore in meno di 48 ore.

Le investigazioni dovranno innanzitutto accertare se sia stato proprio il funzionario a fornire le carte ai giornalisti e in caso di risposta affermativa se lo abbia fatto anche in altre occasioni. 

In città le perquisizioni nei confronti di Guadagno rappresentano un piccolo choc essendo l'ex cancelliere molto stimato in Procura e non solo per il suo eclettismo e la sua cultura.

Un uomo intelligente e fisicamente fragile. Da anni è presidente di un'associazione per la lotta all'ictus cerebrale, di cui è stato vittima. E le ultime vicende lo hanno ulteriormente provato. Ma l'inchiesta prosegue. Come è normale che sia. L'avvocato Chiara Lazzari ci spiega di non avere novità sulle indagini e che la sua nomina non è ancora stata depositata. 

Sulla quarta di copertina del suo ultimo lavoro Guadagno è definito «studioso di indagini e di processi» ed è specificato che «ha seguito i maggiori casi di cronaca giudiziaria in Italia e all'estero». Nel 2018 ha pubblicato Il Divo e il giornalista. Giulio Andreotti e l'omicidio di Carmine Pecorelli: frammenti di un processo dimenticato, un procedimento che Guadagno conosce a menadito e la cui conclusione senza colpevoli ritiene un'ingiustizia.

Ma è il «mistero irrisolto» sulla scomparsa del giudice romano Paolo Adinolfi l'opera che ci collega maggiormente alla vicenda della talpa.

Destino vuole che lo scorso settembre alla presentazione in una sala dell'Archivio di Stato abbia presenziato anche Cantone, che nell'occasione auspicò che il libro potesse «contribuire a individuare nuovi elementi utili a riaprire il caso sulla scomparsa del giudice». Sarà anche per il ricordo di quella serata che, non appena è stato aperto il fascicolo, il procuratore ha parlato di un vero e proprio «tradimento». 

Comunque a Perugia non c'è avvocato o magistrato che non spenda parole di stima per Guadagno. Giuliano Mignini, il pm del caso Meredith, si è limitato a dire: «Non so se sia di destra o di sinistra, di certo è una persona molto attenta al tema della legalità».

Sui social Guadagno è molto critico con quasi tutta la classe politica, a partire dalla Lega e dal Movimento 5 stelle.

«Salvini, Conte e Letta un triumvirato che mi "agita"» ha scritto. Non ha risparmiato stilettate neppure alle signore della destra Giorgia Meloni e Marine Le Pen («Io sto con Macron senza se e senza ma»). Mentre esprime grandissima stima per il presidente Sergio Mattarella («Un gigante») e il premier Mario Draghi, che ringrazia per aver salvato l'Italia. 

Ha nostalgia della Prima Repubblica: fa sapere di rimpiangere Bettino Craxi e Claudio Martelli e si è schierato contro il taglio dei parlamentari, da lui considerato «una via reazionaria». Nei suoi post non mancano neppure le citazioni di Ernesto Guevara, «un grande condottiero».

Il rapporto con magistrati e giornalisti è più lineare rispetto a quello con la politica.

Sia gli uni che gli altri affollano le presentazioni dei suoi libri. In un'immagine pubblicata su Fb si trova a fianco dell'ex toga ed ex presidente del Senato Piero Grasso. Il Divo e il giornalista contiene la prefazione dell'ex procuratore generale di Perugia e presidente della Fondazione Umbria anti usura Fausto Cardella, un magistrato a cui Guadagno è molto legato. Per esempio l'indagato ha organizzato con lui nel proprio paese natale un evento sulla strage di Capaci. 

A dicembre, alla presentazione romana del suo secondo libro, sono intervenuti il campione della magistratura non allineata Nino Di Matteo e una giornalista della Rai.

Nella locandina era indicato tra i relatori pure Antonio Massari, inviato del Fatto Quotidiano, che, però, alla fine non prese parte alla serata.

Si limitò a scrivere un articolo sul libro.

Massari è il cronista che per primo ha pubblicato il contenuto della richiesta di archiviazione. Ma, al contrario dei colleghi di Repubblica e del Corriere della Sera, non si è concentrato sul caso Palamara. L'unico collegamento tra Guadagno e l'ex pm radiato dalla magistratura (che ha presentato denuncia a Firenze per la fuga di notizie) lo abbiamo trovato sul profilo Facebook dell'indagato. In un post del primo aprile 2021 riprendeva l'annuncio di un'intervista all'ex presidente dell'Anm, sul best seller Il Sistema, ospitata dal sito Darkside del suo editor, Gianluca Zanella. Sotto il post, un suo amico, G.M., commentava: «Forse non è molto etico che questo indagato debba arricchirsi con le sue malefatte».

E ricordava che l'ex pm era diventato «il vessillo dei media del noto piduista» Berlusconi, «acerrimo nemico della magistratura tutta». E si stupiva anche per «la grande attenzione per i fatti disvelati dai trojan palamareschi» e definiva l'ex pm «solo una gran bella faccia di tonno», rubando una citazione all'ex presidente Francesco Cossiga. 

Guadagno gli rispondeva in modo sibillino: «Caro amico mio, le tue parole, come sempre, sono "piene". Purtroppo ahinoi "dobbiamo stare muti"... e tu sai perché». Il motivo del forzato silenzio non è esplicitato, ma lascia intravedere in filigrana il giudizio del dipendente sotto inchiesta su Palamara. E anche se, tra i suoi numerosi amici giornalisti, c'è chi ipotizza che Guadagno possa essere un «capro espiatorio», restano aperti alcuni quesiti: è stato lui a selezionare per i giornalisti il capitoletto contro l'ex consigliere di Palazzo dei marescialli? Oppure sono stati i cronisti a scegliere quella parte della richiesta? Ma soprattutto Guadagno, sempre che sia lui il «colpevole», ha fatto tutto da solo? La risposta dovrà darla la Procura di Perugia. 

Giacomo Amadori per “la Verità” il 19 luglio 2022.  

La presunta talpa della Procura di Perugia, al secolo il cinquantottenne casertano Raffaele Guadagno, sarebbe l'ideatore di una società oggi in liquidazione, la Nventa id srl di Todi, che a partire dal 2009 avrebbe fornito servizi di intercettazione e altri tipi di consulenza agli inquirenti del capoluogo umbro.

Presentando centinaia di migliaia di euro di fatture che sono state anche al centro di polemiche finite sui giornali e di attenzione da parte del Csm.

Socio di minoranza e amministratore unico della ditta è stato per anni Luigi Guadagno.

Quest' ultimo, classe 1974, è il fratello di quel Raffaele iscritto la settimana scorsa dal procuratore Raffaele Cantone sul registro degli indagati con l'accusa di accesso abusivo alle banche dati della Procura e rivelazione di segreto ad alcuni giornalisti. L'indagine adesso si sta allargando anche alla storia della Nventa. 

Dunque a Perugia avrebbero affidato a parenti e amici del presunto «spione» la gestione della delicatissima attività di intercettazione ambientale e di controllo Gps. Dal 2017 la collaborazione con la Procura del capoluogo umbro si sarebbe interrotta, ma nel frattempo la Nventa, anche dopo l'acquisto di un costoso software da 220.000 euro, avrebbe sopperito a questo problema, iniziando a fare intercettazioni telefoniche per altre 15-16 Procure. Il primo anno l'azienda ha incassato da vendite e prestazioni 249.000 euro di ricavi. Il doppio nel 2010. Da allora il valore della produzione è oscillato tra i 140.000 (dato più basso) e i 250.000 euro, con tre exploit: 450.000 euro (2015), 530.00 (2017), 440.000 (2018).

Poi il crollo del 2019 (53.000) e lo scioglimento. Nella ragione sociale della Nventa si legge che l'attività riguarda «noleggi, manutenzione e assistenza, computer e relativo software e altre apparecchiature elettriche ed elettroniche». 

La ditta è stata costituita il 17 gennaio del 2009 nello studio del notaio di Todi Salvatore Clericò con un capitale sociale di 100.000 euro. Le quote sono così ripartite: il 91% appartiene al ragioniere-commercialista Luigi Menghini, il 4% a testa a Guadagno jr e al compaesano Gianmaria Iaculo (sono entrambi di Santa Maria di Vico) e il resto a due nipoti di Menghini. Quasi subito, il 2 aprile 2009, la società, che non aveva certo ancora avuto il tempo di farsi conoscere, ottiene un incarico sostanziosissimo dalla Procura di Perugia nell'ambito del procedimento per la morte di Meredith Kercher che in quel momento vedeva imputati Rudy Guede, Amanda Knox e Raffaele Sollecito.

La Nventa è incaricata di realizzare «una ricostruzione animata in 4D dell'ambientazione e della scena del delitto». Nel pacchetto entrano anche un «dvd per speech support in formato Pal in ambito giudiziario» e la «progettazione e realizzazione database per supporto requisitoria pm». Il tutto alla modica cifra di 152.320 euro a cui bisogna aggiungerne 34.464 di Iva (per complessivi 182.784 euro). 

La consulenza sarebbe durata sino al novembre 2011 e la fattura porta la data del 2 febbraio 2010, spesa che il direttore amministrativo Stefania Miggiano della Procura liquida con bonifico esattamente un anno dopo, mentre il pagamento diventa esecutivo il 15 marzo 2011. Il decreto di liquidazione indennità è «a favore del dottor Luigi Guadagno, legale rappresentante della ditta Nventa Id». Il conto viene spedito a Sollecito e alla Knox nelle case circondariali di Perugia e Terni dove i due ragazzi erano rinchiusi in attesa di giudizio.

Il filmato della durata di circa mezz' ora venne utilizzato nel processo di primo grado e i magistrati Giuliano Mignini e Manuela Comodi, dopo averlo mostrato ai giudici a porte chiuse, non lo depositarono agli atti affinché non venisse divulgato. Panorama descriveva così l'opera: «Iniziava con alcune immagini tratte da Google maps per poi entrare dentro la villetta dove Amanda, Raffaele, Meredith e Rudy Guede, appaiono in forma stilizzata, come in un cartone animato. [] Nel video la studentessa inglese viene sbattuta contro il muro, aggredita da Amanda che impugna un coltello e da Raffaele che tenta di strapparle il reggiseno. Meredith crolla a terra, i due fidanzatini prendono i telefonini e scappano, mentre Rudy si porta le mani alla testa». I giudici stabiliranno che le cose non sarebbero andate così e per questo assolveranno Amanda e Raffaele, lasciando il conto da pagare allo Stato.

Nel 2012 «un gruppo di privati cittadini» inviò un esposto alla Corte dei conti per quella spesa e i giudici contabili aprirono un'istruttoria. L'allora procuratore regionale Agostino Chiappiniello ricorda con La Verità: «Non ci fu nessuna citazione in giudizio perché è stato ritenuto che far realizzare quel filmino rientrasse nella discrezionalità del magistrato». La Procura generale della Cassazione portò la Comodi davanti alla sezione disciplinare del Csm. 

L'accusa mossa al pm, secondo i giornali dell'epoca, sarebbe stata l'omessa motivazione della spesa nel decreto di pagamento e la conseguente «mancata applicazione dei criteri e tabelle predisposti per la corretta anticipazione della somma da liquidare». Nell'atto di incolpazione gli ermellini rilevavano che con tale condotta il magistrato avrebbe «arrecato un danno ingiusto all'Erario» che aveva anticipato «l'ingente somma». Il sostituto pg di Cassazione, Antonio Gialanella, in udienza, rilevò una «inescusabile negligenza» della pm, sollecitando la sanzione, seppur lieve, dell'ammonimento.

La sezione disciplinare del Csm assolse la Comodi, escludendo sue responsabilità. Il socio di maggioranza della Nventa, Menghini, con La Verità nega di aver speculato sul prezzo: «Noi abbiamo pagato le parcelle di otto ingegneri e alla fine l'utile per la società è stato di 14.000 euro. All'inizio avevamo chiesto 220.000 euro. Poi, dopo alcune trattative, siamo scesi». Quindi continua: «I due magistrati venivano a controllare il lavoro e spesso ci dicevano che non andava bene. "Voi dovete dimostrare la tesi della Procura e non altro" ci spiegavano».

Ricorda anche le trattative con la Comodi: «Le dissi che avevamo risolto tutti i problemi e che avevamo trovato dei giornali disposti a sponsorizzare la realizzazione del filmato. Lei rispose che non eravamo al mercato e che quando si lavora per la Procura si lavora solo per questa. Alla fine pattuimmo 150.000 euro più Iva». 

La società aveva già realizzato un'altra ricostruzione video di un omicidio per la stessa Procura. Mentre le ultime collaborazioni risalgono al 2017: la Nventa ha gestito tre localizzatori Gps di quelli che si collocano sotto le auto e uno di questi era collegato a una microspia. Questi incarichi sono stati affidati dal procuratore aggiunto Giuseppe Petrazzini. Menghini assicura di non essere un prestanome, bensì di essere colui che ha messo i soldi: «Loro non avevano una lira. E adesso sto pagando 450.000 euro di perdite per non fallire». 

Quindi ammette: «L'idea della società non è stata mia. Io sono stato chiamato per fare questo lavoro, perché io, facendo il commercialista, di Procure, di intercettazioni nulla sapevo e poco so ora». L'idea della Nventa sarebbe stata di Raffaele Guadagno: «Ammetto che abbiamo iniziato grazie a delle conoscenze, ma poi abbiamo dimostrato di saper lavorare. Lui non lavorava per sé.

Quando ha parlato con me ha chiesto solo di coinvolgere suo fratello e un amico, Gianmaria Iaculo, che produceva Gps e si occupava di ambientali». Menghini ricorda anche il primo incontro con il procuratore Nicola Miriano, di cui Guadagno era il cancelliere di fiducia: «Mi disse si ricordi bene una cosa: qui si lavora non perché siamo amici di quello e di quell'altro se ciò che fate è valido lavorate, se non lo è la mattina dopo andate a casa». Alla fine hanno resistito dentro al Palazzo per almeno otto anni. Menghini oggi è molto arrabbiato con i fratelli Guadagno. E su Raffaele conclude: «L'errore che ha fatto è aver iniziato a scrivere libri. Gli è partita la testa». 

Giacomo Amadori per “La Verità” il 20 luglio 2022.

Per capire qualcosa in più dell'affaire della presunta talpa della Procura di Perugia, l'ex cancelliere che, secondo gli inquirenti umbri, scaricava file riservati e li distribuiva (anche) ai giornalisti, bisogna fare un salto nell'area industriale di Todi, in provincia di Perugia. 

Nella frazione di Ponterio si trova l'appartamento del cinquantottenne Raffaele Guadagno, impiegato dell'ufficio esecuzioni della Procura. Il condominio, moderno e piuttosto anonimo, da giorni ha le finestre oscurate e la tenda da sole abbassata. È qui che l'11 luglio scorso si è recato il procuratore Raffaele Cantone per seguire personalmente la perquisizione del collaboratore. 

Esattamente di fronte si trova un altro indirizzo importante nella nostra spy story. In una piccola palazzina color mattone ha sede la società Nventa, la ditta di intercettazioni telefoniche ideata da Guadagno e sino al 2017 guidata dal fratello Luigi, amministratore e socio prima al 33 per cento, poi al 50 infine al 6.

Oggi l'azienda è in liquidazione e le quote sono passate quasi interamente al ragioniere Luigi Menghini, settantunenne tuderte, dopo un discusso aumento di capitale. «Ce lo richiese una banca finanziatrice e visto che loro non si sono resi disponibili l'ho fatto da solo. Ma subito dopo Luigi, visto che non era più socio alla pari, si è completamente allontanato». 

Si è passati così alle carte bollate. Guadagno jr ha fatto un arbitrato per ottenere le proprie spettanze (circa 140.000 euro) e Menghini ha risposto a colpi di decreti ingiuntivi per avere indietro parte delle rate dei mutui che sta pagando. Eppure nel 2009 la partenza era stata molto promettente, sebbene la Nventa non avesse esperienza nel settore, non possedesse il nulla osta di sicurezza (nos) e avesse un imputato di favoreggiamento nella compagine sociale. 

Oggi al piano terra della ditta sono rimaste due stanze piene di materiale inutilizzato e ormai obsoleto: gps, computer e microspie. Nessuno opera più. Menghini sta solo cercando di incassare le ultime fatture del lavoro che fu. Tutto era iniziato quasi per caso. Raffaele Guadagno aveva iniziato a frequentare lo studio di Menghini per alcuni problemi con la ditta di maglieria della moglie. I conti non tornavano più e i coniugi non riuscivano più a pagare il mutuo. La signora Valeria si trasferì per motivi professionali in Bulgaria e in quei mesi difficili il ragioniere e il cancelliere divennero amici.

Sino a quando Guadagno lanciò un'idea: realizzare una ditta di intercettazioni partendo dai gps e dalle microspie di ultima generazione trattate da un compaesano di Santa Maria di Vico, Gianmaria Iaculo. 

Menghini insieme con due nipoti, Luigi Guadagno e Iaculo diventarono soci al 33 per cento con un capitale di 12.000 euro. «Raffaele ci ha dato l'input per fare la società e ci ha accompagnato dentro la Procura di Perugia per alcuni incontri, in particolare quello iniziale con il procuratore Nicola Miriano» ricorda Menghini.

Che però evidenzia come i rapporti con quasi tutte le altre Procure che diventarono clienti non fossero gestiti da Raffaele: «Lui non veniva con noi. Ci muovevamo io e suo fratello. E quando andavamo alla ricerca di incarichi non ci rapportavamo direttamente con i magistrati, ma ci facevamo conoscere dalle forze dell'ordine illustrando i nostri prodotti e servizi». 

Nella brochure di presentazione dell'attività, erano elencate le Procure presso le quali erano accreditati. Una lista di 20 uffici: Perugia, Terni, Spoleto, Arezzo, Viterbo, Trani, Lagonegro, Napoli, Benevento, Avellino, Macerata, Forlì, Urbino, L'Aquila, Trieste, Lanciano, Avezzano, Ascoli Piceno, Pescara e Bari. Le fatture sono intestate però a 34 uffici inquirenti. 

Tra questi ci sono anche Roma, Milano, Palermo, Catania, Bologna e Catanzaro oltre a Rossano Calabro per le intercettazioni dentro al supercarcere per terroristi. Potrebbe far sobbalzare sulla sedia qualche pm sapere che oggi l'ispiratore della ditta sia sotto inchiesta per rivelazione di segreto, ma all'epoca in tanti si affidavano a questa neonata società dai prezzi concorrenziali per fare intercettazioni telefoniche e ambientali.

«A Lanciano, Urbino e Rieti abbiamo vinto la gara» ricorda Menghini. Cioè lavoravano quasi in esclusiva. Ma la vera gallina dalle uova d'oro è stata Perugia. In base ai bilanci che ci ha mostrato il ragioniere 262.609 euro sarebbero arrivati (Iva esclusa) nel 2009, 302.522 nel 2010, 346.830 nel 2011. 

In quel periodo la Nventa produce anche una ricostruzione animata in 4D del delitto di Meredith Kercher che costa 152.000 euro e suscita molte polemiche. A conferire l'incarico e a finire per questo sotto procedimento disciplinare è stata la pm Manuela Comodi, che è stata prosciolta sia dal Csm che dalla Corte dei conti.

Anche il fidanzato della Comodi, Umberto Rana, ex presidente della sezione fallimentare del Tribunale, aveva rapporti di lavoro con Menghini a cui affidava incarichi di curatore fallimentare. Rana è imputato a Firenze per corruzione, falso ideologico e abuso d'ufficio e al Csm è incolpato a livello disciplinare per aver mancato ai doveri di correttezza (in un'intercettazione si sarebbe anche preoccupato per la nomina della fidanzata ad aggiunto di Perugia). 

«Non credo alle accuse che gli hanno rivolto. Con me si è sempre comportato in modo regolare» assicura il ragioniere. Che aggiunge: «Ai tempi del video sull'omicidio Kercher un giornalista chiamò la Comodi davanti a me per chiederle se fosse al corrente dei miei precedenti. E lei rispose che conosceva benissimo i propri collaboratori» rammenta con riconoscenza Menghini.

Il quale, in effetti, mentre lavorava con la Procura di Perugia, era sotto processo in Lombardia per il presunto favoreggiamento di alcuni coimputati accusati di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata ai danni dell'Erario, al contrabbando e alla falsità ideologica. Menghini è stato anche 21 giorni in prigione, un'esperienza che oggi sdrammatizza con una ricca aneddotica da reduce. Nel 2008, dopo la modifica delle imputazioni era stato condannato a 1 anno e 6 mesi. 

Per i giudici avrebbe fatto sparire e contraffatto alcuni documenti contabili. Contestazione sempre respinta da Menghini, che in vista dell'Appello cambiò difensore e ingaggiò Chiara Lazzari, moglie dell'allora procuratore di Urbino Alessandro Cannevale (già pm a Perugia e dal 2015 a capo degli inquirenti di Spoleto), il magistrato che nel 2018 ha firmato la prefazione del primo libro di Guadagno, Il Divo e il giornalista. 

Fu l'ex cancelliere a presentare all'amico ragioniere la Lazzari, che oggi difende proprio la presunta «talpa». Il secondo grado di Menghini non andò meglio del primo e nel luglio del 2011 arrivò la conferma della condanna. Successivamente il professionista ha usufruito della prescrizione del reato.

Nel 2012 la collaborazione della Nventa con la Procura di Perugia rallenta. Infatti, pochi mesi prima, tra settembre e novembre 2011 si era svolta una gara per l'aggiudicazione del servizio di intercettazioni. Per concorrere la Nventa dovette allearsi con una società lombarda che aveva l'indispensabile nos, di cui la ditta di Todi era sprovvista. Ma alla fine la gara venne assegnata alla società Area Spa. Così nel 2012 da Perugia arrivano solo 60.000 euro, meno di 4.000 tra il 2013 e il 2015. 

Le commesse calano, ma aumentano i clienti: Spoleto, L'Aquila, Benevento, Pesaro, Arezzo, Urbino, Avezzano. Nel 2014 gli incarichi valgono 310.000 euro, poco meno nel 2015. Un anno dopo gli introiti che arrivano dalle Procure salgono a 508.000 euro e Perugia torna a far lavorare la Nventa liquidando 107.000 euro. Nel 2017, l'ultimo anno di attività effettiva, su 583.000 euro di fatture, il 38 per cento (222.800 euro) viene saldato da Urbino, il 24 da Lanciano (143.500), il 14 da Perugia (81.700) e l'11 da Spoleto (67.700). Nel 2018, invece, la ditta ottiene il pagamento di circa 450.000 euro di parcelle arretrate, di cui 132.675 da Perugia e ben 185.000 da Urbino. 

In tutto dalla Procura del capoluogo umbro sarebbero confluiti nelle casse della Nventa circa 1,3 milioni di euro, iva esclusa. A fronte di questi incassi non sarebbero mancati disservizi e problemi tecnici. Menghini ammette: «Il nostro amministratore ha mancato qualche appuntamento. Si comportava più come un dipendente che come un imprenditore. Per quanto riguarda la tecnologia non siamo riusciti ad adeguarci al 5g, ma i nostri prodotti sono stati concorrenziali sino alla fine del 2017». Il ragioniere di Todi è pentito di questa avventura? «Mi sono infilato in questa storia perché mi sembrava di fare un po' lo 007» confida con un sorriso dolceamaro.

(ANSA il 22 luglio 2022) - Ci sarebbe stato un incontro tra uno dei legali di Luca Palamara e il cancelliere della Procura di Perugia Raffaele Guadagno, indagato per rivelazione di segreto d'ufficio e accesso abusivo a sistema informatico dopo la pubblicazione su alcuni giornali della richiesta di archiviazione relativa alla cosiddetta loggia Ungheria. 

Circostanza sulla quale l'ex consigliere del Csm, al centro di diverse indagini e processi nel capoluogo umbro, sono stati sentiti dal procuratore Raffaele Cantone. La notizia e' riportata oggi dal quotidiano la Verità che nei giorni scorsi avevano anticipato dell'incontro. 

Palamara e i suoi legali - viene riportato - hanno confermato di avere incontrato il cancelliere dopo l'estate 2021, anche se sulla data non ci sarebbe certezza. Guadagno - in base a quanto emerso finora - avrebbe riferito ora di alcune vicende interne alla Procura.

Come una richiesta di astensione del sostituto Gemma Miliani all'allora procuratore De Ficchy e di un'altra questione riguardante l'altro magistrato Mario Formisano, entrambi co-titolari dei fascicoli su Palamara e sulla fuga di notizie. L'Ufficio guidato da Cantone sta ora svolgendo accertamenti per stabilire con certezza se l'incontro, che finora non sarebbe emerso da alcuna indagine, ci sia stato e i suoi eventuali contenuti.

Intanto - secondo quanto risulta all'ANSA - l'indagine sulla fuga di notizie sta andando a ritroso. Starebbero infatti emergendo centinaia di accessi abusivi da parte di Guadagno ad alcuni dei più significativi fascicoli della Procura di Perugia. 

Fonti inquirenti parlano di un uno "spaccato inquietante". Le stesse fonti evidenziano i "tempi particolarmente rapidi" dell'indagine sulla fuga di notizie e gli elementi "documentali" acquisiti. I magistrati intendono ora accertare se il cancelliere abbia agito per curiosità professionale o sia legato ad altri.

(ANSA il 22 luglio 2022) - Conferma di essere stato sentito ieri dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone, davanti al quale dice di avere "chiarito tutti i fatti" a sua conoscenza in relazione alla vicenda del cancelliere della Procura di Perugia, Raffaele Guadagno, l'ex magistrato Luca Palamara. 

L'incontro è avvenuto a Roma, alla presenza dei legali dell'ex consigliere del Csm che hanno confermato anche loro lo "svolgimento di un atto istruttorio". Palamara non è voluto entrare nel merito della vicenda ma ha spiegato che l'attività svolta dal suo legale rientra "nell'ambito di indagini difensive".

"Ho sempre agito - ha detto - nella convinzione che le procure competenti faranno uscire il reale accadimento dei fatti ed il tentativo di screditamento della mia persona". "Il nostro assistito ha chiarito ogni aspetto della vicenda" il commento degli avvocati Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, difensori di Palamara. 

"I temi affrontati - aggiungono in una nota - sono noti a livello processuale atteso che sulle anomalie del trojan stanno indagando ben due procure (Napoli e Firenze). Sul fronte della fuga di notizie rileviamo come il dott. Palamara sia stato l'unico a denunciare le ripetute violazioni che si sono succedute dal 29 maggio 2019 con denuncia alla Procura di Firenze.

Anche questa volta la sua iniziativa è stata tempestiva avendo depositato già l'11 luglio 2022 ulteriore denuncia alla Procura di Firenze. Confidiamo che sia fatta piena luce su tutta la vicenda nell'interesse in primo luogo della giustizia e del nostro assistito".

Giacomo Amadori per “La Verità” il 22 luglio 2022.  

La Procura di Perugia ha messo il turbo. Il capo degli inquirenti umbri Raffaele Cantone sta mostrando ai suoi predecessori come si indaga su una fuga di notizie. E ieri ha interrogato a Roma Luca Palamara su un nostro scoop. 

Confermato a verbale dall'ex presidente dell'Anm, il quale era accompagnato dai suoi avvocati, Roberto Rampioni e Benedetto Buratti, quest' ultimo testimone diretto della vicenda di cui si è discusso. 

In questi giorni abbiamo raccontato ai nostri lettori la storia della presunta talpa di Perugia, al secolo Raffaele Guadagno, cinquantottenne dipendente dell'ufficio esecuzioni della Procura, sospettato di aver scaricato file coperti da segreto, come la richiesta di archiviazione per i presunti grembiulini della loggia Ungheria, e di averli consegnati ai giornalisti.

Sabato abbiamo anche rivelato che Guadagno avrebbe incontrato l'avvocato Buratti per riferirgli presunti segreti sull'inchiesta che riguardava Palamara. In particolare, che esisterebbero una richiesta di astensione della pm Miliani, respinta dall'ex procuratore Luigi De Ficchy, e una fantomatica trascrizione delle chiacchiere scambiate durante la cena del 9 maggio 2019 da Mamma Angelina, ristorante in cui il procuratore Giuseppe Pignatone ha cenato con Palamara e un lobbista indagato per la loggia. La versione ufficiale è che il trojan quella sera non funzionò. Quella di Guadagno (a detta di Palamara) che invece sarebbe stata occultata. 

Per questi incroci pericolosi tra procedimenti diversi, l'ex pm è stato interrogato per un paio d'ore come indagato di procedimento connesso: «Ho chiarito davanti all'autorità giudiziaria tutti i fatti di mia conoscenza relativi alla vicenda Guadagno già anticipati dalla Verità» ci ha confermato Palamara. 

L'ex pm ha raccontato a Cantone l'origine del colloquio del suo avvocato con Guadagno: l'ex cancelliere è assistito da Chiara Lazzari, la quale insieme con Buratti ha fatto parte del pool di legali del processo Cepu.

L'incontro con il dipendente della Procura sarebbe avvenuto nell'ambito delle indagini difensive legate al trojan. Durante l'interrogatorio di ieri sarebbe stata individuata la data esatta del faccia a faccia presso lo studio Lazzari tra Buratti e Guadagno: 7 gennaio 2022. 

A verbale sono stati ricostruiti anche alcuni precedenti scambi di informazioni tra avvocati che avrebbero portato i difensori di Palamara a interloquire con la Procura tramite istanze, come quella presentata il 17 settembre 2021 per sapere se De Ficchy avesse fatto richiesta di astensione in considerazione dei rapporti con uno dei coimputati di Palamara, il pierre Fabrizio Centofanti. Buratti, mentre il suo assistito verbalizzava, non ha smentito le parole dell'ex magistrato.

Conclude Palamara: «Perché non ho fatto il matto a quattro dopo aver ricevuto certe notizie? Perché di storie strane nella mia vicenda ne ho sentite tantissime. Ma poi c'è bisogno delle prove. Io ho sempre confidato e confido che siano gli uffici competenti ad accertare il reale accadimento dei fatti».

Il cancelliere Guadagno ha contattato i legali dell’ex leader dell’Anm. Rivelazione della talpa di Perugia: “Contro Palamara fu un complotto”. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Luglio 2022 

Raffaele Cantone ha deciso di imprimere un’accelerazione alle indagini sulla fuga di notizie avvenuta nei giorni scorsi sulla richiesta di archiviazione, quasi 180 pagine, del procedimento sulla Loggia Ungheria. Dopo aver iscritto a tempo di record il cancelliere Raffaele Guadagno, accusato di aver passato l’atto riservato al Corriere e a Repubblica, e prima ancora al Fatto Quotidiano, il numero uno della Procura del capoluogo umbro si è recato giovedì scorso a Roma per interrogare in gran segreto presso gli uffici del comando provinciale dei carabinieri l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, persona danneggiata dalla fuga di notizie. Guadagno, stando a quanto reso noto da Cantone, si sarebbe introdotto senza averne titolo all’interno del sistema informatico della Procura di Perugia, scaricando alcuni documenti, tra i quali appunto quelli relativi all’archiviazione del fascicolo sulla Loggia Ungheria che conteneva anche una nuova indagine per corruzione nei confronti Palamara.

I destinatari delle informazioni, coperte dal massimo riserbo, erano stati gli stessi quotidiani, i quali per l’occasione hanno pubblicato articoli ‘fotocopia’, che nel maggio del 2019 fecero lo scoop sul Palamaragate, riportando in tempo reale e a indagini in corso le trascrizioni dei colloqui registrati con il trojan inserito nel cellulare di Palamara. “Un fatto gravissimo”, aveva detto immediatamente Cantone, procedendo subito all’individuazione della ‘talpa’, a differenza di quanto accaduto nel 2019. In quell’anno, infatti, la Procura del capoluogo umbro, all’epoca guidata dal procuratore Luigi De Ficchy, prossimo alla pensione per raggiunti limiti di età, non fece nulla per scoprire chi fosse stato il ‘postino’ che consegnò gli atti ai giornali, utilizzati, secondo Palamara, per bloccare la nomina di Marcello Viola alla Procura di Roma e stroncare Magistratura indipendente, la corrente di destra, fino a quel momento maggioranza a Palazzo dei Marescialli. Guadagno, prima della fuga di notizie dell’altra settimana, avrebbe tentato un approccio con i legali di Palamara per fornirgli le prove di un complotto a suo danno.

Si trattava, nello specifico, di informazioni particolarmente importanti, come la richiesta di astensione avanzata dalla pm Gemma Miliani, che insieme a Mario Formisano, sta rappresentando l’accusa nel processo per corruzione a carico di Palamara, e respinta da De Ficchy, e l’esistenza di una trascrizione della famosa cena del maggio del 2019 presso il ristorante Mamma Angelina ai Parioli tra l’ex capo dell’Anm e il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Trascrizione che è stata negata dai pm che hanno sempre respinto quanto affermato in senso contrario dai consulenti della difesa di Palamara che, a tal riguardo, aveva depositato una relazione da cui emergeva che il trojan fosse stato in funzione durante tutta la serata. Se fosse vero che questa trascrizione, sempre negata, è realmente esistita, nei confronti dei pm umbri sarebbe difficile non aprire una indagine. E certamente non potrebbe essere, per ovvi motivi, la stessa Procura di Perugia ad effettuarla. Se, di contro, Guadagno si fosse inventato tutto, allora i pm umbri sarebbero persone “offese” in quanto oggetto di una gravissima calunnia. Ed anche in questo caso non potrebbe essere Perugia ma Firenze, secondo le regole sulla competenza, a svolgere gli accertamenti.

Come mai, invece, sta procedendo Cantone? E soprattutto, cosa sta facendo la Procura di Firenze dove dal 2020 è pendente una denuncia di Palamara proprio a proposito delle fughe di notizie che hanno contraddistinto l’indagine nei suoi confronti? Cosa è stato fatto in questi anni dal procuratore Luca Turco, attuale facente funzioni dopo il trasferimento di Giuseppe Creazzo, titolare del dossier? La vicenda ha tutti i connotati di una spy story dal finale imprevedibile. L’unico elemento certo, ad oggi, è il canale privilegiato che alcuni giornalisti, sempre gli stessi, hanno avuto (ed hanno) con personale giudiziario e delle forze di polizia allo scopo di destabilizzare l’organo di autogoverno delle toghe. Come accaduto nel 2019. Tornando alla testimonianza di Palamara, “il nostro assistito ha chiarito ogni aspetto della vicenda”, è stato il commento ieri dei suoi difensori, gli avvocati Benedetto Mazzocchi Buratti e Roberto Rampioni. “I temi affrontati – hanno aggiunto – sono noti a livello processuale atteso che sulle anomalie del trojan stanno indagando le Procure di Napoli e Firenze”. Paolo Comi

Luca Fazzo per “il Giornale” l'11 luglio 2022.

È l'altra faccia del «Sistema», la fuga di notizie utilizzata come arma impropria per indirizzare il corso e l'impatto delle indagini giudiziarie. Male atavico e inestirpabile contro il quale si trova ieri a fare i conti Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, che vede la notizia - in teoria segreta - di una nuova indagine a suo carico approdata sulle pagine di due quotidiani. I giornalisti hanno fatto il loro mestiere, chi gli ha passato le carte no.

Palamara sembra non avere dubbi: è stata la Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, la stessa Procura che indaga su di lui mentre invece - è notizia di tre giorni fa - decide di archiviare l'inchiesta sulla loggia Ungheria, ritenendo non riscontrate le dichiarazioni del pentito Piero Amara sulla presunta congrega di magistrati, politici e generali. Mentre invece per indagare Palamara le dichiarazioni di Amara vanno benissimo.

Nel caso specifico, Amara accusa Palamara di essere intervenuto su un giudice di Cassazione a favore del pm siciliano Maurizio Musco, che era sotto processo per corruzione. Il giudice di Cassazione, Stefano Mogini, interrogato da Perugia, dice che in effetti Palamara gli chiese delle informazioni. E Amara dice che per l'interessamento «Palamara gli fece capire che avrebbe gradito un orologio d'oro da trentamila euro per la sua compagna».  Orologio mai arrivato.

Ma a Perugia l'inchiesta va avanti. Il vero problema è che queste carte sono contenute nei quattordici faldoni che la Procura di Perugia ha inviato al giudice preliminare per chiedere l'archiviazione della indagine «Ungheria». Non le hanno gli avvocati, non le ha la polizia giudiziaria, le hanno solo i magistrati. 

Ieri Cantone comunica l'apertura di una indagine sulla fuga di notizie, sostenendo che la Procura di Perugia è la vera vittima della violazione del segreto, «faremo tutto il possibile per accertare da dove sia uscita». Ma vittima e colpevole potrebbero, se ha ragione Palamara, coincidere. E con quale credibilità la magistratura del capoluogo umbro potrebbe indagare su se stessa?

Non è un caso isolato, negli ultimi decenni tutte le inchieste sulle fughe di notizie sono state condotte dalle stesse Procura dove le fughe erano avvenute, e infatti nessun colpevole è stato mai individuato. Spesso non si trattava di notizie scivolate dal segreto per caso, leggerezza, simpatia, ma di operazioni decise a tavolino con fini precisi. 

Ieri, dopo lo scoop sui suoi nuovi guai, Palamara va giù pesante: parla di «una giustizia che si serve dei giornali di riferimento per cecchinare il nemico di turno», allo stesso modo in cui «nel maggio 2019 la pubblicazione di intercettazioni non depositate ha consentito a una corrente della magistratura di gestire il potere per quattro anni».

La «manina» che passa le carte ai giornali, sostiene Palamara, non lo fa perché ha a cuore la libertà di informazione ma perché sa che la campagna mediatica è funzionale alla battaglia giudiziaria. Le dichiarazioni di Amara vengono usate «per salvare i processi a mio carico», dice l'ex magistrato, come a Milano vennero usate per cercare di affossare un giudice scomodo e salvare i processi Eni. «Oggi si ripete la stessa storia», dice Palamara.

Il problema è che nessuno sa quante altre storie siano contenute, pronte ad esplodere, nei faldoni di Perugia che dovevano essere segreti ma evidentemente non lo sono più. Cosa aspetta il ministro Cartabia, chiede alla fine Palamara, a mandare i suoi ispettori nella Procura umbra?

Alessandro Da Rold per “La Verità” il 21 luglio 2022

Era l'11 settembre del 2014 quando il Corriere della Sera dava in prima pagina, a caratteri cubitali nel taglio del quotidiano, la notizia che l'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi si trovava sotto inchiesta per una tangente da più di un miliardo di euro legata all'acquisizione della licenza petrolifera Opl 245 in Nigeria. 

A distanza di quasi otto anni, il quotidiano di via Solferino ha dedicato uno spazio di gran lunga minore alla notizia dell'assoluzione definitiva del manager del Cane a sei zampe. Eppure, martedì la Procura generale di Milano ha preso una posizione molto netta sul processo che avrebbe dovuto dimostrare la corruzione di una delle aziende più importanti di questo Paese. 

Il procuratore generale Celestina Gravina ha deciso di rinunciare al ricorso e ha ribadito come, nel procedimento, non ci fosse «prova dell'accordo per una corruzione» o «pagamento di un'utilità corruttiva». E ha insistito sul fatto che il processo non andava neppure celebrato. Men che meno l'appello, anche perché non esistono nuovi elementi «per sostenere l'accusa». 

Quindi un eventuale ricorso non avrebbe avuto alcuna forza «per un eventuale ribaltamento del principio dell'oltre ragionevole dubbio». 

Per il Corriere, però, questa presa di posizione si vede che non è bastata per dimostrare l'inutilità di un nuovo appello dopo l'assoluzione di tutti gli imputati in primo grado «perché il fatto non sussiste».

Così nel pezzo di cronaca di ieri, il quotidiano di via Solferino ha comunque voluto ribadire come «di certo la scelta della pg è intanto un peccato. Un'occasione persa persino per gli imputati, perché finisce per indebolire la considerazione dell'assoluzione di primo grado, che invece da un vaglio e da una riconferma in Appello sarebbe uscita rafforzata, magari anche nelle aspre critiche ai due pm indagati intanto per non aver depositato prove favorevoli alle difese».

In via Solferino, alle prese con il nuovo capo della Procura Marcello Viola, forse non si sono resi conti che le tesi di Celestina Gravina non sono esattamente un caso isolato. Non tanto in Italia, quanto nel mondo intero. È lunga la lista dei Paesi che si sono espressi su quella che veniva considerata come la tangente del secolo. Negli Stati Uniti la Sec (Securities and exchange commission) già due anni fa aveva chiuso le sue indagini senza portare avanti altri procedimenti contro Eni e Shell.

Negli ultimi mesi la corte inglese, il giudice Sara Cockerill, si è pronunciata a favore di Jp Morgan Chase nella causa da 1,7 miliardi di dollari promossa dal governo nigeriano rispetto al presunto ruolo della banca d'affari nelle trattative di acquisizione della licenza petrolifera nel 2011. L'alta corte di giustizia del Regno Unito ha ribadito la sua decisione lo scorso 7 luglio, impedendo al governo federale nigeriano di appellarsi alla sentenza. Proprio come sostenuto dal procuratore generale Gravina, anche l'alta corte ha affermato che non vi era «alcuna prospettiva reale» di ribaltare la sentenza.

E ha stabilito una volta per tutte che non c'erano prove che la Nigeria fosse stata truffata nell'accordo tra Eni, Shell e Malabu. C'è poi da ricordare che su Opl 245 non è mai iniziato alcun processo in Olanda, dove la compagnia petrolifera Shell non è mai finita sotto accusa. Gli olandesi, infatti, hanno sempre preso tempo in questi anni, stando ben attenti a mettere sotto accusa un'azienda strategica come Shell. Persino l'alta corte federale di Abuja in Nigeria si è più volte espressa contro le ipotesi di corruzione nella vicenda. 

Nel 2018 aveva già stabilito che l'ex ministro di giustizia Adoke Bello non poteva essere ritenuto personalmente responsabile per quanto riguardava i pagamenti a Malabu perché stava semplicemente eseguendo le legittime direttive e approvazioni del presidente Goodluck Jonathan. L'ultima decisione di Abuja è di poche settimane fa. I giudici nigeriani hanno ribadito di non riuscire «a vedere alcun fatto a sostegno della tesi che i soldi siano il risultato di attività illegali».

In sostanza, la corte nigeriana ha escluso che vi siano evidenze di provenienza illecita dei fondi. La repubblica nigeriana aveva presentato ricorso per ottenere in via di urgenza il sequestro delle somme depositate presso conti correnti in banche svizzere, anche questo sulla base dell'attività della Procura di Milano, dei pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. In questi anni l'unica sentenza di condanna è stata quella nel processo abbreviato a carico di Emeka Obi e Gianluca Di Nardo, i presunti intermediari della mazzetta. Anche questa è stata ribaltata in appello. Non è rimasto più nulla dal punto di vista giudiziario.

Lo strano caso della talpa a Perugia che colpisce solo Luca Palamara. L’ultima fuga di notizie sulle indagini che riguardano l’ex consigliere del Csm è legata a filo doppio con quella, più clamorosa, del 2019. Palamara conferma a Cantone l'incontro con Guadagno. Il dipendente della procura è solo un capro espiatorio? Simona Musco su Il Dubbio il 22 luglio 2022.

C’è qualcosa che non torna nella vicenda della talpa di Perugia che ha inviato alla stampa le notizie sulla nuova indagine a carico di Luca Palamara. Una storia torbida, che si incastra nella più ampia telenovela iniziata il 29 maggio 2019, quando su Corriere e Repubblica vennero pubblicati i contenuti delle intercettazioni della cena all’Hotel Champagne sul cosiddetto “mercato delle toghe”, che causò una slavina di scandali sul Csm, portando alle dimissioni di diversi consiglieri e alla modifica degli equilibri di potere all’interno di Palazzo dei Marescialli.

Oggi come allora, ad indagare sulle attività dell’ex presidente dell’Anm è la procura del capoluogo umbro, all’epoca guidata dal procuratore Luigi De Ficchy. Che però non mosse un dito per scoprire da chi fossero partite le veline ai giornali, servite, secondo Palamara, a bloccare la nomina di Marcello Viola alla procura di Roma e ridurre il potere delle correnti della magistratura fino a quel momento più potenti. Ora, invece, Raffaele Cantone non ha perso un secondo di tempo: due giorni dopo la pubblicazione di stralci della richiesta di archiviazione dell’inchiesta sulla Loggia Ungheria, l’ex presidente dell’Anac ha iscritto sul registro degli indagati un dipendente amministrativo, Raffaele Guadagno, scrittore di libri gialli nel tempo libero e autore, secondo la procura, della clamorosa fuga di notizie che ha avuto come protagonista Palamara.

Guadagno, stando a quanto reso noto dalla procura, avrebbe fatto accesso abusivamente al sistema informatico della procura, scaricando alcuni documenti, tra i quali quelli relativi alla nuova indagine sull’ex toga. E a ricevere le informazioni scottanti, ancora una volta coperte da segreto, sono stati gli stessi due quotidiani, che hanno pubblicato due articoli praticamente identici sul caso. «Un fatto gravissimo», ha tuonato Cantone, palesemente infastidito dalla falla interna alla sua procura. Ma quella del maggio 2019 rimane la fuga di notizie più clamorosa: una vera e propria violazione del segreto istruttorio rimasta impunita, nonostante da due anni la procura di Firenze – alla quale Palamara si è rivolto per scoprire di chi fosse la “manina” – stia indagando sulla vicenda. L’ex pm romano non si è arreso e il nuovo fuggi fuggi di carte gli ha fornito l’occasione per rivolgersi ancora alla procura ora retta dall’aggiunto Luca Turco, sperando, questa volta, di avere risposte. Risposte che pretende anche dal ministero della Giustizia, al quale ha chiesto l’invio degli ispettori per chiarire cosa si agiti negli uffici giudiziari del capoluogo umbro. Anche perché l’idea che a gestire questo traffico di informazioni – finalizzato finora a colpire sempre la stessa persona – sia stato un dipendente amministrativo convince poco l’ex consigliere del Csm. Persuaso sempre di più che dietro ci siano ben altri mandanti, da individuare nel mondo della magistratura.

Guadagno sembra, anzi, la vittima sacrificale ideale in questa vicenda: i suoi contatti con i giornalisti non sono un mistero e creano le condizioni perfette per rendere il sospetto sempre più fondato. Il quotidiano La Verità, nei giorni scorsi, ha reso noti molti particolari della vicenda, in seguito alla quale il dipendente della procura di Perugia ha accusato un malore che lo ha costretto al ricovero in ospedale. Un vero e proprio “sputtanamento” fatto di dettagli scabrosi sulle sue attività all’interno degli uffici giudiziari, compreso il presunto tentativo di fornire a Palamara prove di un complotto a suo danno. Si tratta, nello specifico, di tre informazioni, che Guadagno avrebbe offerto ad un intermediario, ovvero uno dei suoi avvocati. Si tratta di segreti importantissimi: la richiesta di astensione avanzata dalla pm Gemma Miliani – che rappresenta l’accusa nel processo per corruzione a carico di Palamara – e respinta da De Ficchy, le informazioni fornite dall’altro pm, Mario Formisani, all’ex procuratore di Perugia, andato in pensione a fine maggio 2019, e, soprattutto, l’esistenza di una trascrizione della famosa cena tra Palamara e Giuseppe Pignatone, registrazione misteriosamente scomparsa e la cui sussistenza è stata sempre negata dagli inquirenti. Palamara era però già informato di quei fatti, informazioni raccolte nell’ambito dell’attività difensiva legata all’utilizzo del trojan inoculato nel suo cellulare svolta dai suoi legali. Trojan sul quale l’ex consigliere del Csm non ha mai nascosto i suoi dubbi: serviva, a suo dire, per provocare un terremoto.

Qual è, dunque, il ruolo di Guadagno in questa vicenda? Che ruolo gioca nella guerra tra procure ormai senza quartiere? Proprio alla luce di queste consapevolezze, infatti, l’ex pm è convinto che il dipendente della procura di Perugia possa essere il capro espiatorio ideale per non scoprire mai la verità sulla fuga di notizie. Anche perché sono troppe le tracce lasciate in questa occasione: è possibile che qualcuno abbia usato le credenziali del dipendente per scaricare gli atti e girarle ai giornali incastrando un “semplice” amministrativo? E perché colpire solo Palamara e ignorare tutto il resto degli atti? Interpellato dal Dubbio, l’ex presidente dell’Anm si limita a ribadire di voler approfondire il tutto nelle sedi giudiziarie: «Chiarirò ogni cosa quando e se verrà chiamato», dice laconico. E proprio ieri è stato sentito da Cantone, al quale ha confermato la circostanza dell’incontro con Guadagno, avvenuto lo scorso 7 gennaio.  Forse il bubbone della procura di Perugia sta per esplodere.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 21 luglio 2022. 

L'immagine del paese che siamo non viene soltanto dal Parlamento di ieri, di cui il giornale offre dettagliati racconti, ma anche dal palazzo di giustizia di Milano, dove l'altro ieri la procuratrice generale ha rinunciato all'appello per la maxitangente Eni in Nigeria, roba da un miliardo di dollari. 

E infatti è una tangente che non esiste: i vertici dell'Eni, in particolare l'ex e l'attuale amministratore delegato, Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, sono stati assolti l'anno scorso perché - formula tecnica - il fatto non sussiste. 

Intanto i due pm titolari dell'accusa, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, sono indagati a Brescia per aver omesso prove in favore degli imputati, e vedremo come va.

Stiamo parlando dell'Eni, politicamente l'azienda più importante del paese, di un'azienda strategica per gli interessi italiani nel mondo. Nel rifiutare l'Appello, la procuratrice ha detto che «il processo deve finire qui perché non ha fondamento», anzi «avrebbe dovuto essere fermato all'inizio», ma perlomeno adesso «dopo otto anni di altissimi costi e di gravi e ingiuste conseguenze reputazionali», e deve finire qui perché è figlio «della fantasia sfrenata dei pm», di «vicende buttate lì come una insinuazione» e perché l'appello è fondato su motivi «fuori dal binario di legalità».

Chi pensa che il nostro unico problema sia la politica, pensi anche a un ufficio giudiziario che per otto anni tiene al palo la più importante e strategica azienda del paese sulla base di fantasie sfrenate, e in nome di un'indipendenza che è diventata frivolo abuso di potere delle cui conseguenze non si è mai chiamati a rispondere.

Magistratura, Alessandro Sallusti: "Qui serve il lanciafiamme". Libero Quotidiano l'11 luglio 2022.

Qualcuno si ricorderà il caso della loggia Ungheria, una presunta associazione segreta svelata da un losco figuro specialista in avvelenamento di pozzi e verità a cui la magistratura per suo tornaconto a tratti ha dato grande credibilità, tale avvocato Pietro Amara, che entra ed esce dal carcere con la facilità con cui noi andiamo a cena la sera. Ecco, il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, ha letto le carte del dossier che per due anni era stato imboscato dalla procura di Milano - lo stesso per intenderci che ha messo nei guai Piercamillo Davigo per averlo divulgato - ed è giunto a una conclusione pazzesca. Di tutti i nomi e gli episodi citati da Amara, che riguardano magistrati, imprenditori e politici di chiara fama compreso l'ex premier Giuseppe Conte, l'unico che a suo avviso è fondato e ha rilevanza penale è quello che riguarda contatti inopportuni che Luca Palamara avrebbe avuto con altri colleghi.

Io ho un grande rispetto del dottor Cantone, ma se pensa che noi siamo tutti degli stupidi boccaloni si sbaglia di grosso. Lui può fare quello che crede, anche la figura del fesso di turno, ma c'è un limite a tutto. Amara è un cialtrone millantatore che mischia mezze verità a palesi menzogne su tutto ma non su Palamara, cioè non sul magistrato che con le sue rivelazioni ha messo alla berlina il magico mondo di Cantone e dei giornali che gli fanno da ufficio stampa.

Tempo fa un magistrato mi disse che nella ricostruzione degli ultimi quindici anni di vita della magistratura fatta da Palamara in due libri ci sono almeno una trentina di ipotesi di reato che riguardano il vertice di quella categoria ma che ovviamente nessuno, tantomeno Cantone, avrebbe mai e poi mai aperto neppure un fascicolo, come noto cane non mangia cane. La morale è che Cantone- integerrimo e libero magistrato - non indaga sui presunti reati raccontati con dovizia di particolari da Palamara, ma indaga Palamara per una ipotesi di reato sostenuta dal più grande mascalzone ballista già al servizio di procure che lo hanno usato per imbastire processi finiti in farsa. Io non sono l'avvocato di Palamara, ma se tra Palamara e Amara la nuova magistratura sceglie Amara e facendolo salva tutti i colleghi amici e complici, altro che riforma della giustizia. Qui non serve una legge, serve il lanciafiamme.

I legali di Palamara: «Procura di Perugia coinvolta nella fuga di notizie, intervenga il ministro Cartabia». Gli avvocati dell'ex presidente dell'Anm: «È indubbio che la stampa debba fare il proprio mestiere e pubblicare tutte le notizie di cui viene a conoscenza. Sorge pertanto spontanea una domanda: perché sempre gli stessi giornalisti e le stesse testate?» Il Dubbio il 12 luglio 2022.

«Prendiamo atto della attività che sta compiendo la Procura di Perugia in merito alla fuga di notizie (parziali e facilmente contestabili) che ha colpito, come in passato, il dottor Palamara. Tuttavia ribadiamo di aver presentato denuncia alla Procura della Repubblica di Firenze non che al capo dell’ispettorato del ministero della giustizia e del procuratore generale della cassazione affinché si faccia piena luce su quanto accaduto ritenendo competente la procura di Firenze anche in ragione del fatto che da quasi due anni svolge indagini sugli stessi giornalisti che oggi come nel maggio del 2019 hanno divulgato, interpretandole, notizie segrete». Lo scrivono in una nota i legali di Luca Palamara. 

«In quella occasione la pubblicazione servì a far dimettere i consiglieri di Unicost e Magistratura indipendente consentendo alla corrente di Area di gestire il mercato delle nomine nella attuale consiliatura. Oggi la pubblicazione serve a mettere le stampelle alla traballante indagine sulla loggia Hungaria che ha fatto figli e figliastri. È indubbio che la stampa debba fare il proprio mestiere e pubblicare tutte le notizie (complete e non interpretate) di cui viene a conoscenza. Sorge pertanto spontanea una domanda: perché sempre gli stessi giornalisti e le stesse testate? È stato il cancelliere o chi per lui spontaneamente a consegnare queste carte ai giornalisti o qualcuno gli ha chiesto di farlo? Come mai aveva il loro numero o gli ha fatto recapitare una pennetta?», chiedono i legali dell’ex presidente dell’Anm.

«La Procura di Perugia è sicuramente coinvolta e, pertanto, tutte le attività debbono essere compiute ex art. 11 c.p.p. a Firenze. Il nostro assistito tiene a precisare che andrà fino in fondo alla questione per capire le ragioni di questa fuga di notizie a suo danno e se vi siano complici ovvero mandanti, sicuro di dimostrare in ogni sede la calunnia di quanto stanno scrivendo», conclude la nota.

La Procura di Perugia nel caso. Fuga di notizia su Palamara, Cantone a caccia della talpa di Corriere e Repubblica. Paolo Comi su Il Riformista il 12 Luglio 2022 

Ormai è evidente: la Procura di Perugia è un ‘colabrodo’. Negli uffici giudiziari del capoluogo umbro, gli atti di indagine coperti dal segreto rimangono tali per non più di ventiquattro ore. L’ultimo caso ha riguardato la richiesta di archiviazione, depositata l’altra settimana, del procedimento sulla Loggia Ungheria ed il contestuale stralcio, con conseguente iscrizione nel registro degli indagati, di alcuni soggetti tirati in ballo da Piero Amara. Fra i malcapitati vi sarebbe anche l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, già da tempo sotto il tiro della Procura del capoluogo umbro. Palamara, secondo le nuove accuse, avrebbe avvicinato un giudice della Cassazione a cui era stato assegnato un procedimento nei confronti di un amico di Amara, l’allora pm di Siracusa Maurizio Musco.

Per tenere sotto controllo lo stato di tale procedimento, Palamara avrebbe interessato, oltre al giudice, anche il presidente della Cassazione. Amara, da parte sua, avrebbe organizzato per Palamara una vacanza in uno chalet di un suo conoscente al Sestriere, mentre l’ex zar delle nomine gli avrebbe chiesto un orologio d’oro del valore di 30mila euro per la moglie. Il nuovo capo di imputazione, basato su dichiarazioni testimoniali non ancora contestate a Palamara, invece di rimanere segreto è finito quasi integralmente sul Corriere e su Repubblica con due articoli fotocopia pubblicati domenica scorsa. Il procuratore Raffaele Cantone, dopo aver letto i due quotidiani, ha fatto sapere di essere molto indignato, essendo la “vicenda di una gravità inaudita”. In pochi, infatti, avevano la disponibilità del fascicolo: Cantone, i suoi due sostituti coassegnatari, i pm Gemma Miliani e Mario Formisano, e il gip del tribunale di Perugia.

La polizia giudiziaria, ad iniziare dal Gico della guardia di finanza che ha curato le indagini, pur avendo chiesto gli atti, ufficialmente non aveva ricevuto mezzo foglio.

Subito è partita allora la solita girandola di procedimenti per capire di chi sia la ‘manina’ che ha passato gli atti al Corriere e a Repubblica. Visto che coloro che hanno maneggiato questo fascicolo, i magistrati con i rispettivi collaboratori, si contano sulle dita delle mani, il ‘talpone’ dovrebbe avere vita breve e non rimanere sconosciuto come nel caso della prima, clamorosa, fuga sul Palamaragate, avvenuta a maggio del 2019. Anche all’epoca Corriere e Repubblica, in compagnia del Messaggero, pubblicarono ad indagini in corso stralci dei colloqui registrati con il trojan inserito nel cellulare di Palamara. I responsabili non furono mai individuati.

Ma come dimenticare, poi, l’inchiesta sull’esame farsa del calciatore Luis Suàrez per ottenere la cittadinanza italiana? A causa della fuga di notizie, Cantone aveva deciso per lo stop a tempo indeterminato dell’ indagine coordinata dai pubblici ministeri Paolo Abritti e Giampaolo Mocetti, sempre con l’ausilio dell’immancabile guardia di finanza. Si trattò di una decisione più unica che rara per il panorama giudiziario italiano che, secondo il capo della Procura di Perugia, era necessaria proprio a causa delle ripetute violazioni del segreto istruttorio. Cantone anche all’epoca si disse “indignato per quanto successo finora”. Un dato è certo: se l’ex capo dell’Anac non riesce ad arginare queste imbarazzanti fughe di notizie che compromettono in maniera irreparabile le indagini del suo ufficio, sarebbe necessaria allora una riflessione da parte del Csm e del Ministero della giustizia, che ha anche gli strumenti, l’Ispettorato, per verificare la gestione dei vari procedimenti penali nel capoluogo umbro.

La Procura di Perugia, è bene ricordarlo, è un ufficio di piccole dimensioni. Oltre a Cantone ed al suo vice, vi lavorano poco più di dieci sostituti. Alla Procura di Napoli, ufficio da dove proviene Cantone, i magistrati sono 140 ed fatte le dovute proporzioni non si assiste a questo stillicidio di notizie segrete pubblicate sui giornali.

Palamara, comunque, ha presentato una nuova denuncia per quanto accaduto l’altro giorno alla Procura di Firenze, competente sui colleghi perugini. Considerando i precedenti, tutto lascia presagire però che anche questa denuncia per la fuga di notizie finirà in un nulla di fatto. Per scongiurare il bis, l’ex capo dell’Anm ha fatto sapere tramite i propri legali di essere pronto ad incatenarsi sotto il palazzo di giustizia. Paolo Comi

Media e fughe di notizie. Fuga di notizie dalla Procura di Perugia: Cantone non può indagare su se stesso. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Luglio 2022 

Se scappano delle carte segrete dall’ufficio di un Procuratore, quel Procuratore ne è responsabile, in quanto custode naturale della riservatezza dell’inchiesta. Raffaele Cantone, capo dell’ufficio di Perugia, che si è rivelato il colabrodo da cui sono “scappati” 15 faldoni zeppi di atti secretati sulla “Loggia Ungheria” e in particolare 167 pagine di richieste al Gip, non può quindi indagare che su se stesso. Ha quindi ragione l’ex magistrato Luca Palamara, il primo danneggiato dalla fuga di notizie, a rivolgersi alla Procura di Firenze, competente per ciò che riguarda le toghe di Perugia, e anche al procuratore generale presso la cassazione, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati.

Manca all’appello solo il ministro Cartabia, che ha il potere di inviare gli ispettori a mettere il naso in queste gravi violazioni. Potere rafforzato dal giorno in cui il Parlamento e il governo italiano, alla fine dell’anno scorso, hanno recepito in modo definitivo la direttiva dell’Unione Europea sui rapporti tra le Procure e i media.

A coloro che quel giorno brindavano una vocina aveva sussurrato: e le carte passate sottobanco ai cronisti di riferimento? Eccoci qua. Era stato facile profeta chi, leggendo il libro Il sistema, in cui lo stesso Palamara spiegava che a un pm basta avere il “suo” cronista per orientare qualunque inchiesta, aveva denunciato che difficilmente il metodo sarebbe cambiato. E bisognerà vedere se la ministra guardasigilli, che qualcuno in questi giorni sta cercando di mettere in difficoltà per un’inchiesta genovese, avrà la forza di mostrare che quel provvedimento del novembre 2021 non aveva solo la testa per decidere, ma anche le gambe per camminare.

Ma soprattutto occorre avere la consapevolezza del fatto che certi scoop, certe complicità, non si fondano solo su reciproche vanità, quella del pm di vedere il proprio nome sulla stampa e quella del cronista di farsi bello con i suoi capi. Queste sono piccolezze. C’è, c’è stato, e temiamo ci sarà, a volte, una vera volontà politica, studiata scientificamente, di orientare indagini e inchieste. Non si tirino fuori i cronisti giudiziari, attuali o ex. Alcuni hanno brindato per certe informazioni di garanzia, hanno partecipato al banchetto delle carte che “scappavano” dagli uffici, ben sapendo che cosa si stava bevendo, che cosa si stava mangiando. Non è vero che, anche qualora non ci sia stata la complicità iniziale, il cronista non fa nulla di più che il proprio dovere pubblicando ogni carta che gli capiti in mano. Lo hanno dimostrato gli stessi cronisti del Fatto e di Repubblica proprio con i verbali dell’avvocato Amara, quando le carte erano arrivate nelle loro redazioni filtrate dalla segretaria romana di Piercamillo Davigo. In quei giorni pareva che i fascicoli scottassero nelle loro mani, come mai? Ma allora la selezione c’è, vero colleghi?

Veniamo dunque al fattaccio ultimo arrivato. Il combinato-disposto Procura di Perugia-Corriere della sera-Repubblica ha un unico danneggiato, Luca Palamara. E un rafforzamento delle accuse contro di lui. Certo, il procuratore Cantone, che potrebbe essere assolto sul piano delle responsabilità soggettive, ma condannato su quella oggettiva, la stessa del direttore responsabile di una testata giornalistica, dice che il suo ufficio è la vera vittima. Dice anche che i suoi due sostituti che hanno condotto con lui le indagini sulla “Loggia Ungheria” per cui propone l’archiviazione, cioè Gemma Miliani e Mario Formisano, sono sicuramente innocenti. Pare però anche che né la polizia giudiziaria né gli avvocati siano entrati in possesso di questi 15 faldoni. Quindi, dottor Cantone, il fascicolo che lei ha aperto per la violazione del segreto investigativo, dove pensa che andrà a parare? O sta pensando di indagare davvero su se stesso?

Il fatto è molto grave prima di tutto sul piano formale. Perché sembra uno sberleffo al Parlamento e al Governo che hanno impegnato l’Italia, se pur con anni di ritardo, a diventare un Paese che rispetti i cittadini e la presunzione di innocenza. Ma anche sul piano sostanziale, nei confronti del cittadino Luca Palamara. Con un’accusa che, a parti rovesciate, ricorda quella che si rovesciò nel processo Eni, quando i due pm volevano introdurre nel dibattimento dichiarazioni calunniose che indicavano il Presidente del tribunale come persona “avvicinabile” da parte degli avvocati della difesa. L’ex pm che ha denunciato il “Sistema” è indicato dal solito avvocato Amara come uno che “avvicinava” giudici della cassazione per chiedere informazioni su un processo che riguardava un suo collega. La cosa strana è che questo personaggio ormai screditato da inchieste e sentenze, diventi improvvisamente credibile, se serve. E le sue parole vengano passate a testate e cronisti “di riferimento”, come dice lo stesso Palamara.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il processo Palamara a Perugia e quelle strane fughe di notizie affidate ai giornali. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 14 Luglio 2022. 

La Corte d’appello di Perugia aveva già rigettato nella scorsa udienza l’istanza di ricusazione presentata dai difensori di Luca Palamara, gli avvocati Benedetto Marzocchi Buratti e Roberto Rampioni, nei confronti dei giudici del tribunale del capoluogo umbro che lo stanno giudicando per corruzione. L’udienza per la trattazione dell’istanza si era svolta il 9 maggio scorso e i giudici si erano riservati di decidere. La difesa di Palamara aveva avanzato la richiesta di ricusazione sostenendo che “il tema sulla terzietà del giudice” è stato “creato” dall’Anm “che ha chiesto di costituirsi parte civile in un processo dove due membri del collegio sono iscritti alla medesima associazione“. 

Durante l’udienza precedente la Corte non ha ammesso l’introduzione nel procedimento di una memoria presentata dalla Anm; la quale nell’ambito del procedimento per corruzione, intendeva costituirsi parte civile nei confronti di Palamara, nella quale memoria venne chiesto al collegio di rigettare la dichiarazione di ricusazione.

Luca Palamara in quell’ occasione ha dichiarato “Da uomo libero e da cittadino di questo Paese democratico ribadisco che non mi faccio e non mi farò mai intimidire da alcuno e, tantomeno, dalla attuale dirigenza dell’Anm molto lontana dai fasti gloriosi che l’hanno caratterizzata” E’ “grave e irrituale il tentativo di condizionamento nei confronti dei giudici della Corte d’appello di Perugia chiamati a decidere sulla ricusazione depositando fuori termine una memoria che rischiava di poter diventare una traccia per l’eventuale decisione”.

 La Procura generale di Perugia, guidata da Sergio Sottani, aveva chiesto invece il rigetto della domanda affermando che “non sussistono ragioni per ritenere un interesse dei giudici nel processo, in quanto le condotte addebitate all’imputato, in relazione alle quali l’Anm ha inteso presentare la propria domanda di costituzione di parte civile, sulla base della prospettazione accusatoria, si pongono in assoluto contrasto con i principi che governano l’agire del magistrato e che danneggiano il prestigio e l’indipendenza della magistratura“. 

Palamara ha reso dichiarazioni spontanee nel corso dell’ udienza. Questa la versione integrale: L’ipotesi che una “manina” abbia fatto finire nuovamente sui giornali Luca Palamara sia quella di un semplice funzionario non è credibile per l’ex presidente dell’Anm, che depositerà il suo esposto in procura a Firenze, competente sui magistrati perugini, procura dove Palamara due anni fa si era già presentato, quando guarda caso…. gli stessi giornali oggi in possesso delle notizie sulla nuova indagine che lo riguarda pubblicarono le intercettazioni sullo scandalo dell’Hotel Champagne di Roma.

Tutto questo secondo Palamara fa dunque pensare ad un disegno unico, finalizzato a colpire l’ex consigliere del Csm, depositario, forse, di troppi segreti scottanti sulle toghe italiane, ma sopratutto prendere il controllo delle nomine nel Csm. Vicende in buona parte diventate di dominio pubblico nei due libri, scritti insieme ad Alessandro Sallusti (oggi direttore del quotidiano LIBERO) ma in parte ancora “coperti” ma tanto “pesanti” da poter destabilizzare l’equilibrio già fortemente instabile del sistema di potere della giustizia italiana. Una manina “interna” alla procura di Perugia che ha sempre gli stessi interlocutori, con un modus operandi che ricorda la spedizione delle carte riservata effettuata dalla segretaria al CSM di Piercamillo Davigo (attualmente sotto processo a Brescia), e tutto questo non può essere più un caso. Palamara nel corso delle sue dichiarazioni spontanee ha evidenziato e fortemente contestato che tra le notizie di reato contenute nella richiesta di archiviazione sulla famigerata Loggia Ungheria “ci sono fatti che non mi sono stati contestati”.

Ma la coincidenza … vuole che che solo ciò che lo riguarda, tra gli stralci effettuati dalla procura di Perugia, è finito in mano ai soliti giornalisti di “fiducia”. Un’ennesima circostanza che fa pensare più ad uno strategia studiata a tavolino, che ad una pura coincidenza. Infatti non sarebbe la prima volta, perchè oltre alla fuga di notizie riservate sull’inchiesta a carico di Luca Palamara, anche le recenti vicende interne alla magistratura che hanno registrato la diffusione illecita dei verbali di Piero Amara, ex consulente legale esterno dell’ Eni, che ha svelato l’esistenza inventata, poi smentita dai fatti, di una nuova loggia segreta massonica sulla scia della P2.

Palamara show in aula: «Disegno unico dietro le fughe di notizie». Prima dell'inizio dell'udienza a Perugia, lungo conciliabolo tra l'ex consigliere del Csm, il procuratore capo Raffaele Cantone e il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo. Simona Musco su Il Dubbio il 15 luglio 2022.

Un lungo conciliabolo tra il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, l’aggiunto romano Paolo Ielo e Luca Palamara. È questo il siparietto che ha preceduto l’udienza di ieri nel processo a carico dell’ex consigliere del Csm, imputato davanti al tribunale del capoluogo umbro in due diversi processi, uno per corruzione, l’altro per rivelazione di segreto d’ufficio. Udienze dove a tenere banco, più che le accuse mosse a Palamara, sono state le fughe di notizie che hanno caratterizzato la richiesta di archiviazione dell’indagine sulla Loggia Ungheria. Fughe mirate, dal momento che a finire sui giornali, proprio come due anni fa, è stato solo il materiale relativo all’ex pm romano. Ed è stato questo, ieri, l’argomento di conversazione tra i tre magistrati.

La procura di Perugia, da un lato, è sicura di aver individuato la propria talpa: un dipendente amministrativo che avrebbe scaricato abusivamente la richiesta di archiviazione, che oggi si trova in mano a diversi giornalisti ma non allo stesso Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni e uomo chiave di quell’inchiesta. E se fino ad oggi nulla si è mosso in merito alla fuga di notizie che ha reso possibile la pubblicazione delle intercettazioni del Palamaragate, questa volta sembra respirarsi un’aria diversa.

Le indagini condotte da Perugia e da Firenze, procura alla quale l’ex presidente dell’Anm si è rivolto per scoprire quale manina consegni sistematicamente gli atti che lo riguardano a Corriere e Repubblica, questa volta potrebbero infatti portare a tracciare una linea tra quanto successo il 29 maggio 2019 – giorno della cena all’Hotel Champagne – e l’ultima discovery. L’idea della procura di Perugia sembra coincidere con quella di Palamara: dietro quel funzionario impiccione potrebbe esserci qualcuno. E le fughe di notizie, dunque, potrebbero non essere una casualità. «Questa fuga di notizie conferma che si è giocata un’altra partita, oltre a quella dell’indagine penale – commenta a fine udienza l’ex zar delle nomine -. È chiaro che se di mezzo ci sono sempre le stesse persone, le stesse situazioni, e se a finire ai giornali sono solo le pagine che mi riguardano vuol dire che qualcuno voleva qualcosa. E per capire come sono andate le cose faremo tutto il possibile, con tutte le forze».

L’idea è che qualcuno abbia utilizzato le vicende dell’Hotel Champagne per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, magari non con lo scopo di arrivare ad un processo, ma per far vedere come “funzionava” il Csm. Una sorta di golpe giudiziario, insomma, per mandare via quelli che erano stati legittimamente eletti e sovvertire il gioco di forze fino a quel momento in atto. Palamara ha espresso il suo punto di vista con chiarezza ieri in aula, quando il magistrato spogliato della sua toga ha preso la parola per fare dichiarazioni spontanee. «Se deve essere un processo deve esserlo nelle aule di giustizia – ha dichiarato -. Sono anni che leggo quello che mi riguarda sui giornali», comprese le intercettazioni fatte il 29 maggio del 2019, servite per «consentire ad un gruppo della magistratura di prendere il posto e governare per quattro anni il Csm. A quello servì la vicenda dell’Hotel Champagne».

L’ex pm è tornato sul trojan a intermittenza, spento alle 16.02 del 9 maggio, dopo aver annunciato ad Adele Attisani – coimputata nel processo per corruzione che avrebbe incontrato a cena l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il suo aggiunto Michele Prestipino per festeggiare il pensionamento del primo. «Se gli altri fanno errori nella foga di dovermi legare le mani poi non ci si deve lamentare che la gente voglia capire quello che c’è dietro», quindi commentato. Palamara ha parlato di «scandalo» e «veline» passate ai giornalisti con scopi diversi dalla necessità di informare. Ma il racconto che ne è venuto fuori, ha sottolineato, «è una buffonata», «una presa in giro fatta a migliaia di magistrati in Italia», motivo per cui ha deciso di raccontare tutto nei suoi libri. Compreso lo scopo dietro il trojan all’Hotel Champagne: «La mia iscrizione nel registro degli indagati è stata fatta per far saltare la nomina di Viola alla Procura di Roma», ha dichiarato.

Palamara ha anche parlato della sua frequentazione con l’imprenditore Fabrizio Centofanti, che ha patteggiato una condanna a un anno e sei mesi e che secondo la procura avrebbe pagato cene e viaggi all’ex pm per l’esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri. «Il problema delle frequentazioni riguarda non solo il sottoscritto, ma anche Pignatone, gli esponenti del Pd, il mondo della finanza», ha dichiarato. Dopo una cena nel 2016 con il lobbista a Villa Paganini, ristorante nei pressi di corso Trieste a Roma, offerta dallo stesso Pignatone, «il mio procuratore capo mi disse che non poteva più frequentarlo e mi aveva messo in guardia, “evita”, mi disse. La nostra frequentazione, invece, è andata avanti perchè per me era un amico di famiglia: continuai a frequentarlo anche nel 2017». E fino a maggio di quell’anno, data dell’iscrizione del lobbista al registro degli indagati, «io frequento un incensurato, carte alla mano».

I due processi riprenderanno ora dopo l’estate: quello per corruzione tornerà in aula il 19 settembre, quando dovrebbe essere definita la costituzione delle parti civili, quello per violazione di segreto d’ufficio, nel quale è imputato insieme all’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava (quest’ultimo accusato anche di accesso abusivo al sistema informatico e abuso di ufficio) il 26 settembre. In aula, ieri, anche la richiesta, poi rigettata dal Tribunale, dei legali di Palamara di depositare, nell’ambito del processo per corruzione, le due denunce per fuga di notizie presentate alla procura di Firenze, una nel novembre 2020, l’altra l’ 11 luglio scorso. Ad opporsi il procuratore Cantone insieme ai sostituti Mario Formisano e Gemma Miliani. 

Processo Palamara-Fava : non sono loro le “gole profonde” del Fatto Quotidiano e La Verità. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Novembre 2022

Proseguono le dirette del CORRIERE DEL GIORNO dal Tribunale di Perugia del processo in corso all’ ex presidente dell’ ANM Luca Palamara ed al magistrato Stefano Fava. Oggi vengono ascoltati i giornalisti Giacomo Amadori (La Verità) e Marco Lillo (Il Fatto Quotidiano), noti cronisti giudiziari, dal collegio giudicante presieduto dal giudice dr. Alberto Venoso. L’accusa è sostenuta dai pubblici ministeri Mario Formisano e Gemma Milani della Procura di Perugia guidata dal procuratore capo dr. Raffaele Cantone, già presidente dell’ Autorità Nazionale Anticorruzione

Nuovo colpo di arresto per la procura di Perugia in uno dei filoni processuali a carico dell’ex pm della procura di Roma, Luca Palamara che, insieme al magistrato Stefano Fava, rischia di finire a processo davanti al tribunale di Perugia. Ieri, infatti, in una delle ultime sedute dell’udienza preliminare, la procura di Perugia, coordinata dal procuratore capo Raffaele Cantone, ha escluso sia per Palamara sia per Fava, l’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio, contestata a seguito della presunta fuga di notizia in favore di due giornalisti, rispettivamente del Fatto Quotidiano e de “La Verità”, circa un’indagine, con richiesta di misura cautelare, nei confronti dell’ex legale dell’Eni, Piero Amara.

Non sono quindi Stefano Rocco Fava e Luca Palamara le gole profonde della notizia dell’esposto riportato nei due articoli pubblicati il 29 maggio del 2019 sul Fatto Quotidiano e su La Verità. A dichiararlo sono stati i giornalisti dei due quotidiani Marco Lillo e Giacomo Amadori che questa mattina hanno deposto in aula a Perugia come testi nel processo sulle rivelazioni che vedeva imputati l’ex magistrato Luca Palamara e l’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava, ora giudice civile a Latina. Entrambi i giornalisti hanno negato di aver ricevuto informazioni dai due magistrati e si sono avvalsi del segreto professionale non rivelando le loro fonti.

”Un invito” a rimuovere il segreto professionale ed alla rivelazione delle fonti era arrivato dai pm Mario Formisano e Gemma Miliani della procura di Perugia ma il giudice Alberto Avenoso dopo una breve camera di consiglio collegiale ha ritenuto che in questo caso non ci fossero gli estremi di legge per procedere, motivando la decisione sul concetto giuridico che “il segreto giornalistico è uno dei principi

cardine del nostro ordinamento” e che “in questo caso non ci sono i margini per la rivelazione delle fonti, anche perché i testi hanno già riferito che né Fava né Palamara sono le loro fonti”.

L’articolo sull’esposto che riguardava l’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone ”è nato in modo abbastanza casuale – ha spiegato il vicedirettore della Verità Giacomo Amadori rispondendo alle domande dei pm – non sono un giornalista di giudiziaria ma investigativo, raramente vado in procura. In quel periodo ero interessato alla nomina del nuovo procuratore di Roma, c’era stato un attacco alla possibile nomina di un candidato di Magistratura Indipendente e ho ritenuto interessante intervistare il segretario di Mi Antonello Racanelli così il 24 maggio sono andato in procura ad intervistarlo”.

‘‘Arrivato in procura ho parlato con alcuni colleghi e con dei magistrati ed ho appreso la notizia – ha riferito Amadori – che c’era un esposto che era stato presentato da un magistrato progressista che non conoscevo, Fava, contro i suoi superiori’. Ho impiegato alcuni giorni a scrivere il pezzo. Ha anche detto di aver parlato in quei giorni un paio di volte anche con il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo ma che questo ultimo si irritò alle sue domande “su questo esposto del dottor Fava“.

Amadori ha quindi spiegato di aver conosciuto Fava sempre in quei giorni, di aver bussato alla sua porta ma di non avere avuto molta attenzione da parte sua. “Ho bussato e mi sono presentato – ha spiegato il vice direttore de La Verità – ma non mi ha voluto né confermare né smentire la vicenda dell’esposto. La mia fonte non è Stefano Rocco Fava e non è Luca Palamara io non li conoscevo e non avevo rapporti con loro” ha quindi ribadito il giornalista nella sua testimonianza in aula.

E’ durata pochi minuti la testimonianza del giornalista Marco Lillo del Fatto Quotidiano, che si è avvalso anche lui al segreto professionale riferendo di non aver “avuto la notizia dell’esistenza dell’esposto dal dottor Fava “ e di non aver “avuto rapporti con Palamara in merito a questo articolo”. “Palamara è una persona con la quale ho avuto rarissimi rapporti” ha detto Lillo.

“Le odierne dichiarazioni dei giornalisti mettono una pietra tombale su una accusa che sin dall’inizio non è mai stata in piedi”: è quanto affermato dall’avvocato Benedetto Buratti che, insieme a Roberto Rampioni, difende l’ex magistrato Luca Palamara, al termine dell’udienza di oggi a Perugia nel procedimento per rivelazioni che vede imputati Palamara e Stefano Rocco Fava. “Si faccia ora chiarezza sino in fondo su questa storia – ha detto Buratti – e soprattutto su chi all’interno del Csm ha veicolato nel maggio del 2019 all’esterno intercettazioni segrete non solo per infangare la vita privata e la storia professionale del dottor Palamara ma soprattutto di tanti magistrati perbene estranei a questa vicenda e che per tali ragioni sono stati sacrificati sotto l’aspetto disciplinare”.

Redazione CdG 1947

Processo a Palamara e Fava, i cronisti: non furono loro due le nostre fonti. Giacomo Amadori de La Verità e Marco Lillo del Fatto Quotidiano hanno dichiarato che i due imputati non hanno rivelato la notizia circa l'esposto presentato nel 2019 contro l'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 17 novembre 2022.

Non sono Luca Palamara e Stefano Rocco Fava le fonti degli articoli di stampa del 29 maggio 2019, per i quali i due sono a processo per rivelazione di segreto. A dichiararlo ieri in aula a Perugia sono stati i giornalisti Giacomo Amadori de La Verità e Marco Lillo de Il Fatto Quotidiano, autori di articoli che riguardavano la notizia dell’esposto di Fava, all’epoca pm a Roma, nei confronti dell’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone. Sulle fonti entrambi i giornalisti si sono appellati al segreto professionale. «Per scrivere questo articolo – ha spiegato Amadori – ho sentito varie fonti». Il giornalista ha dichiarato di aver conosciuto Fava nei giorni in cui ha scritto l’articolo, per avere conferma dell’informazione che aveva ricevuto. «Quando gli ho fatto la domanda sull’esposto non ha smentito né confermato. Ricordo solo che è stato un colloquio stringato».

L’articolo in questione, ha ricostruito Amadori, «nasce in modo casuale: c’era stato un attacco alla possibile nomina di un candidato di Magistratura Indipendente e ho ritenuto interessante intervistare il segretario di Mi Antonello Racanelli così il 24 maggio sono andato in procura ad intervistarlo. Arrivato in Procura ho parlato con alcuni giornalisti e magistrati e ho appreso la notizia che c’era un esposto che era stato presentato da un magistrato progressista che non conoscevo, Fava, contro i suoi superiori», ha aggiunto Amadori, come riporta l’Agi. Da parte sua, Marco Lillo ha riferito in aula: «Per quell’articolo ho parlato con più di una persona ma non ho avuto la notizia dell’esistenza dell’esposto da Fava, né ho consultato Palamara per quell’articolo».

«Le dichiarazioni dei giornalisti mettono una pietra tombale su una accusa che sin dall’inizio non è mai stata in piedi». A dirlo al termine ieri dell’udienza a Perugia è stato l’avvocato romano Benedetto Buratti che insieme al collega Roberto Rampioni difende Luca Palamara nel procedimento per rivelazione del segreto. «Si faccia ora chiarezza sino in fondo su questa storia – ha poi aggiunto Buratti – e soprattutto su chi all’interno del Csm ha veicolato nel maggio del 2019 all’esterno intercettazioni segrete non solo per infangare la vita privata e la storia professionale di Palamara e di tanti magistrati perbene estranei a questa vicenda e che per tali ragioni sono stati sacrificati sotto l’aspetto disciplinare».

Con Palamara è imputato anche il giudice Stefano Rocco Fava. Secondo l’iniziale accusa, Palamara aveva “istigato” Fava a rivelare ai giornalisti del Fatto e della Verità alcune informazioni relative ad un procedimento penale aperto nei confronti dell’avvocato Piero Amara. Nei confronti di quest’ultimo Fava, all’epoca pm presso il dipartimento reati contro la Pa di Roma, aveva richiesto la custodia cautelare in carcere, poi non vistata dal procuratore Giuseppe Pignatone. Gli articoli, pubblicati il 29 maggio 2019, avrebbero allora avuto lo scopo di mettere in cattiva luce i vertici della Procura della Capitale segnalando dei possibili conflitti d’interesse. I giornalisti che scrissero i pezzi, pur potendo avvalersi del segreto professionale, interrogati durante le indagini negarono che le loro fonti fossero i due ex pm.

Anzi, uno dei giornalisti affermò di non aver mai conosciuto Fava e di aver visto Palamara la prima volta il giorno che era uscito il pezzo. Ricostruzione confermata anche ieri. I pm umbri ieri hanno chiesto di sapere quali fossero state le fonti dei giornalisti. Il collegio, dopo una breve camera di consiglio, ha respinto l’istanza.

Dietro la talpa uno schema: chi vuole colpire Luca Palamara? La procura di Perugia è convinta che a passare le notizie ai giornali sia un dipendente amministrativo: i destinatari delle missive sono gli stessi del 2020. Simona Musco su Il Dubbio il 14 luglio 2022.

La procura di Perugia è convinta di aver trovato la sua talpa: a inviare ai giornali la richiesta di archiviazione per l’indagine sulla Loggia Ungheria sarebbe stato un dipendente amministrativo dell’ufficio, che secondo le indagini avrebbe effettuato numerosi accessi abusivi sul fascicolo informatico. In meno di 48 ore, dunque, il responsabile sarebbe venuto a galla: gli uomini della polizia postale e i carabinieri hanno infatti scoperto che fra gli atti scaricati illegittimamente ci sarebbe anche la richiesta di archiviazione, motivo per cui la procura ipotizza ora a carico del dipendente il reato di accesso abusivo a sistemi informatici pubblici e quello di rivelazione di segreto d’ufficio.

«Faremo tutto il possibile», aveva promesso il procuratore Raffaele Cantone e così sembra essere stato. Ma l’idea che la manina che ha fatto finire nuovamente sui giornali Luca Palamara sia quella di un semplice funzionario non convince del tutto l’ex presidente dell’Anm. Che anzi oggi depositerà il suo esposto in procura a Firenze, competente sui magistrati perugini, dove Palamara si era presentato già due anni fa, quando gli stessi giornali oggi in possesso delle notizie sulla nuova indagine che lo riguarda pubblicarono le intercettazioni sullo scandalo dell’Hotel Champagne. Tutto fa dunque pensare ad un disegno unico, finalizzato a colpire l’ex consigliere del Csm, depositario, forse, di troppi segreti scottanti sulle toghe italiane. Segreti in parte spiattellati nei suoi due libri, in parte ancora taciuti e forse tanto grandi da poter destabilizzare l’equilibrio già fragile del potere giudiziario.

L’idea è che il silenzio che finora ha avvolto la fuga di notizie del 2020 non possa più essere perpetuato. In primo luogo perché il postino interno alla procura di Perugia ha sempre gli stessi interlocutori – e ciò non può essere più un caso -, in secondo luogo perché tra le notizie di reato contenute nella richiesta di archiviazione sulla Loggia Ungheria, fa notare Palamara, «ci sono fatti che non mi sono stati contestati». E solo ciò che lo riguarda, tra gli stralci effettuati dalla procura di Perugia, è stato dato in pasto alla stampa. Tutto farebbe dunque pensare ad uno schema. E non si tratterebbe della prima volta: oltre alla fuga di notizie sul Palamaragate, infatti, la storia recente della magistratura ha registrato anche la diffusione illecita dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni che ha svelato l’esistenza poi smentita – della nuova P2.

Verbali che sono serviti ad un duplice scopo: da un lato destabilizzare nuovamente il Csm, dall’altro mettere in pubblica piazza i nomi altisonanti di presunti affiliati, di fatto inquinando le indagini e adombrando sospetti su uomini dello Stato. Ora, secondo l’ipotesi di Palamara, Amara avrebbe un nuovo “compito”: tenere in piedi i processi – a suo dire traballanti – in corso a Perugia contro di lui. Dove oggi sono attese due diverse udienze: quella sulla rivelazione di segreto d’ufficio che vede l’ex pm imputato assieme a Stefano Rocco Fava, oggi giudice civile a Latina, e quella del processo che lo vede imputato per corruzione.

In aula Palamara e i suoi legali decideranno come comportarsi: una delle possibilità in ballo è che si chieda la remissione del processo per via di una situazione ambientale ormai incompatibile con il sereno svolgimento del processo. Anche perché, come evidenziato dallo stesso Cantone, «la procura di Perugia è parte lesa» nella nuova fuga di notizie. Una situazione che, a parere di Palamara, rischia di condizionare tutto quanto.

La nuova contestazione – relativa al presunto tentativo di salvare l’ex pm siracusano Maurizio Musco – non preoccupa infatti più di tanto l’ex zar delle nomine: «Si tratta di fatti già smentiti da una pur facile lettura della documentazione già a disposizione della procura di Perugia nell’ambito del procedimento 6652/ 18 rispetto alle quali le dichiarazioni dell’avvocato Amara in questa circostanza ricalcano esattamente quello che già avvenne con il giudice Tremolada: in quel caso dovevano servire a salvare il processo Eni oggi per salvare in qualche modo i processi intentati a mio danno aveva dichiarato -. Ma la battaglia di verità continua e ancor di più il rinnovato impegno politico su un tema quello della giustizia che non può non trascendere le singole vicende personali riguardando la vita di tutti i cittadini oramai interessati a comprendere e andare oltre le vicende del Sistema».

Loggia Ungheria, Palamara: «Ci saranno altri colpi di scena». Il Dubbio il 9 luglio 2022.  

Secondo l'ex membro del Consiglio superiore della magistratura ed ex capo dell'Anm «si stanno aprendo molti procedimenti per calunnia»

«Per poter commentare compiutamente le determinazioni della Procura di Perugia bisognerebbe leggere gli atti». È un Luca Palamara che come al solito non le manda a dire quello che commenta la richiesta di archiviazione della procura di Perugia sulla cosiddetta Loggia Ungheria, dopo i recenti sviluppi.

«Contrariamente a quanto emerge dalla lettura di alcuni quotidiani di parte, i cittadini hanno il diritto di essere correttamente informati e al momento posso solo apprezzare il carattere tecnico del comunicato stampa, rilevando come Amara sia stato definito inattendibile – ha detto Palamara – Mi auguro che si prosegua nell’accertamento dei motivi che hanno spinto Amara a rendere tali dichiarazioni».

Secondo l’ex pm questo è «necessario per un dovere di verità e per capire perché, ad esempio, in una mail del 24 aprile 2020 indirizzata dal Procuratore aggiunto Laura Pedio a Storari si parla di un atteggiamento collaborativo rilevante nei contenuti da parte di Piero Amara: il Csm o l’Anm sono interessati a capire cosa accadde o forse è materia di una commissione di inchiesta?».

L’ex membro del Consiglio superiore della magistratura ed ex capo dell’Anm spiega poi che «l’esistenza di una associazione non ha, solo per questo, rilevanza penale, quello che pare essere stato escluso dalle indagini è la sussistenza del reato previsto dalla legge Anselmi, mentre appare chiaro che non tutta l’inchiesta sia stata destinata all’archiviazione».

Non solo. «Sarebbe poi interessante comprendere se il filone fiorentino dell’inchiesta sia giunto al termine, anche se dal comunicato si evince un coordinamento, anche prossimo, con la Procura di Milano che però sicuramente era coinvolta nella vicenda in questione – continua Palamara – È bene ricordare che a Firenze è stata inoltrata la posizione dell’ex procuratore di Perugia Luigi De Ficchy: certamente le fughe di notizie hanno danneggiato l’indagine ma ciò anche nel senso che quelle persone che, direttamente od indirettamente, sono state chiamate in causa rimarranno comunque con lo stigma senza che le loro posizioni, per scelta della Procura di Perugia, siano sottoposte al vaglio del Gip».

Infine, dà una propria previsione dei fatti. «Per il resto, come ho scritto nel libro “Lobby e logge”, ciò che chiaramente non è mai esistito è che questa Loggia abbia inciso sul meccanismo degli incarichi direttivi e tanto meno sulla nomina del Procuratore di Milano nel 2016 – ragiona Palamara – In quel caso la nomina di Francesco Greco fu il frutto di un accordo tra le correnti e la politica». Di una cosa l’ex pm appare certo. «Il capitolo Ungheria non è affatto finito – conclude . Si stanno aprendo molti procedimenti per calunnia e sicuramente ci saranno altri colpi di scena». 

Richiesta l'archiviazione. Inchiesta su Loggia Ungheria insabbiata, se tramano i magistrati non è reato: Cantone chiede archiviazione. Paolo Comi su Il Riformista il 9 Luglio 2022. 

Il “condizionamento” dell’organo di autogoverno delle toghe per far nominare “vertici della magistratura” del Paese che fossero di gradimento c’è stato. E c’è stato anche il “condizionamento” per far nominare i “vertici di enti, istituzioni e società pubbliche”. Però, per Raffaele Cantone, si è trattato di risultati “ascrivibili ad interessi personali o professionali diretti di Amara o di soggetti a lui strettamente legati”, piuttosto che la conseguenza dell’attività di una loggia segreta. Il procuratore di Perugia, ex capo dell’Anac voluto da Matteo Renzi quando il Rottamatore viveva una luna di miele con i magistrati al punto da volere Nicola Gratteri ministro della Giustizia, ha messo dunque una pietra tombale sulla loggia Ungheria, chiedendo ieri al gip di archiviare il fascicolo.

L’esistenza di questa associazione para massonica finalizzata a pilotare le nomine dei magistrati, e quindi ad aggiustare i processi, era stata rivelata dall’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara durante una serie di interrogatori davanti ai pm di Milano verso la fine del 2019. Quello che accadde poi è noto. Il pm Paolo Storari, titolare del fascicolo, vedendo che le indagini non andavano avanti, si era rivolto a Piercamillo Davigo. Quest’ultimo, ricevuti i verbali delle dichiarazioni di Amara, aveva informato a fine primavera del 2020 mezzo Csm, ad iniziare dal vice presidente David Ermini, finendo così indagato per rivelazione del segreto. Il fascicolo sarà trasmesso da Milano a Perugia a gennaio del 2021. Ma già ad ottobre dell’anno precedente, a seguito di un interrogatorio congiunto di Amara, i magistrati avevano stabilito che la competenza fosse di Perugia, essendo coinvolte diverse toghe della Capitale.

Vengono allora iscritti per la violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete tre persone, fra cui Amara. Nessuno dei 90 adepti tirati in ballo dall’avvocato siciliano riceve invece un avviso di garanzia. Il motivo lo spiega lo stesso Cantone, parlando di “elementi labili per l’iscrizione, non una garanzia ma un inutile ed ingiustificato stigma”. Nella primavera del 2021 la fuga di notizie con i verbali che finiscono sui giornali per settimane compromette le indagini che avrebbero avuto bisogno di “massima riservatezza e segretezza”. “Più di un soggetto si è avvalso della legittima facoltà di non rispondere, motivando la scelta con il grave strepitus fori”, ricorda Cantone.

“Il complesso delle investigazioni ha portato a ritenere integralmente o parzialmente non riscontrate numerose propalazioni di Amara. Si tratta di chiamate in correità dirette o de relato”, continua Cantone, sottolineando comunque che non c’è una “inattendibilità talmente macroscopica da compromettere in radice la credibilità del dichiarante”.

Fatta questa premessa, per il procuratore di Perugia “l’esistenza dell’associazione non è adeguatamente riscontrata”, non essendo emersi elementi “neanche indiretti che potessero attestarne l’esistenza al di fuori delle dichiarazioni di Amara e di un suo socio (Giuseppe Calafiore, ndr)”. Quest’ultimo, puntualizza Cantone, successivamente si avvarrà della facoltà di non rispondere. Le modalità del reclutamento sembrano essere chiare, in quanto i “soggetti legati con Amara erano stati contattati in passato da uno dei vertici della presunta organizzazione, poi defunto (il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, ndr)”. Non tutti coloro a cui Tinebra aveva chiesto di aderire avevano poi ritenuto di farlo. Per ognuno degli episodi narrati verranno fatti accertamenti alla ricerca di eventuali risconti per attendibilità di Amara e sintomatici dell’esistenza della loggia segreta. Ed ecco, quindi, il passaggio chiave: “Gli episodi raccontati di Amara, parziale riscontro, non sono indicativi dell’esistenza di un’associazione segreta: interferenze o tentativi di condizionamento di nomine di vertice della magistratura, tentativi compiuti o incompiuti di interferire su nomine di vertici di enti, istituzioni e società pubbliche, che pure possono ritenersi avvenute, sono risultati ascrivibili ad interessi personali o professionali diretti di Amara o di soggetti a lui strettamente legati, piuttosto che conseguenza dell’attività di condizionamento di una loggia”.

Amara, peraltro, negli ultimi interrogatori, avrebbe modificato alcune delle sue affermazioni iniziali, “sminuendo in modo inspiegabile il ruolo di quella che aveva indicato come una nuova loggia P2, dichiarando che era nata con finalità nobili e che non tutti gli adepti sarebbero stati a conoscenza delle interferenze effettuate dall’associazione su organi pubblici o costituzionali”. Cantone ricorda anche che nel 2015 Amara aveva tentato di creare una organizzazione parallela e gli aveva fornito alcuni elementi documentati, non prodotti negli interrogatori a Milano. In conseguenza di tutto ciò, il procuratore di Perugia, in attesa delle decisioni del gip, ha effettuato stralci per poter effettuare indagini anche ad altre Procure. Alla Procura di Milano verrà trasmessa l’archiviazione per valutare le numerose denunce per calunnia presentate dagli ex adepti che erano stati tirati in ballo da Amara. A tal proposito è stata già fissata una riunione di coordinamento investigativo tra Perugia e Milano. E tale archiviazione, infine, sarà trasmessa al procuratore generale della Corte di cassazione per l’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati coinvolti.

Al momento, però, nulla verrà inviato al Csm. Fine della storia. Paolo Comi

Inchiesta Loggia Ungheria, la procura di Perugia chiede l'archiviazione. Guliano Foschini,  Fabio Tonacci su La Repubblica l'8 Luglio 2022.

L'indagine partita dalle rivelazioni dell'avvocato Piero Amara sull'esistenza di una presunta associazione segreta in grado di pilotare le nomine della magistratura: "Non ci sono elementi"

La Loggia Ungheria era un'invenzione dell'avvocato Piero Amara. Ne è convinta la procura di Perugia che ha chiesto l'archiviazione per l'ipotesi di associazione segreta. "Si è concluso - spiega il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone - nel senso di ritenere la circostanza non adeguatamente riscontrata. Sull'esistenza dell'associazione non sono, infatti, emersi elementi neanche indiretti che potessero attestarne l'esistenza al di fuori delle dichiarazioni di Amara e delle dichiarazioni di un altro indagato, socio di Amara, che però si è limitato a dichiarare il dato dell'esistenza dell'associazione senza fornire alcun elemento concreto di cui sua conoscenza diretta e si è poi avvalso da ultimo della facoltà di non rispondere, impedendo quindi di operare alcun accertamento mirato".

Alcuni soggetti legati da stretti rapporti con Amara hanno riferito ai pm di essere stati contattati in passato da uno dei vertici della presunta organizzazione, oggi defunto, che aveva loro chiesto di aderire alla Loggia ma loro non avevano ritenuto di farlo. "Si tratta di affermazioni che non consentono in alcun modo di essere considerate un riscontro all’esistenza di un’associazione - spiega la procura di Perugia - che oltre a dover essere segreta deve avere una serie di caratteristiche di cui questi soggetti nulla sono stato in grado di riferire".

Archiviata anche l'ipotesi di un'associazione per delinquere perché, scrive ancora Cantone, "si ritiene che non sia stata comunque provata l'esistenza di un nucleo organizzativo che potesse far configurare" il reato. Tutto quello che resta delle dichiarazioni di Amara è qualche singolo reato trasmesso per competenza a diverse procure. Oltre a possibili profili disciplinari per alcuni magistrati. "Con la Procura di Milano, con cui nel corso dei mesi si è mantenuto un costante e proficuo coordinamento investigativo, si è già fissata una prossima riunione di coordinamento sulle ulteriori indagini connesse da svolgere", conclude Cantone.

Cantone chiede di archiviare l’inchiesta sulla loggia Ungheria. EMILIANO FITTIPALDI E GIULIA MERLO su Il Domani l'08 luglio 2022

Sull'esistenza dell'associazione non sono, infatti, emersi elementi neanche indiretti che potessero attestarne l'esistenza al di fuori delle dichiarazioni di Amara e delle dichiarazioni di un altro indagato». Tradotto: sono mancati adeguati riscontri probatori dell’esistenza della loggia.

Alcune dichiarazioni di Amara sono state stralciate e mandate ad altre procure per ulteriori indagini. Milano indagherà per calunnia ai danni di Severino, Vietti e altri ufficiali e magistrati.

Altre procure indagheranno sulle dichiarazioni in merito ai rapporti con Verdini e Blue Power. Cantone ha anche disposto che il provvedimento venga inviato anche al procuratore generale della Cassazione, per competenza in caso di procedimenti disciplinari a carico di magistrati. 

EMILIANO FITTIPALDI E GIULIA MERLO

Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

La loggia Ungheria non esiste ma c’è del vero nelle parole di Amara. GIULIA MERLO su Il Domani l'08 luglio 2022

Cari lettori,

in questo caldo estivo che precede la chiusura dei tribunali, torna ad infiammare il dibattito la loggia Ungheria.

Oggi la procura di Perugia ha fatto istanza di archiviazione del procedimento per associazione segreta, ritenendo che le dichiarazioni dell’ex legale esterno di Eni, Pietro Amara, non siano riscontrabili.

Tuttavia, a due anni da quando la vicenda è diventata pubblica, il caso non è chiuso qui: Perugia ha stralciato per ulteriori indagini alcune dichiarazioni di Amara, su cui si continuerà a lavorare.

La newsletter di oggi è tutta dedicata a questo, con le novità di oggi provenienti da Perugia e anche una ricostruzione cronologica dei fatti per aiutare a rimettere insieme i pezzi di un puzzle molto complicato. Sarà utile tenerla a mente, anche per seguire gli ulteriori sviluppi che sicuramente ci saranno la settimana prossima. L’istanza di archiviazione infatti è molto corposa e il Csm potrebbe chiedere di acquisirla per verificare se contenga notizie riscontrate che possano avere rilevanza disciplinare nei confronti di alcuni magistrati.

ERMINI PARLA AL PROCESSO A DAVIGO

Il vicepresidente del Csm è stato ascoltato come testimone nel processo per rivelazione di segreto d’ufficio a carico dell’ex membro del Csm, Piercamillo Davigo, e ha raccontato la sua versione dei fatti in merito alla consegna dei verbali e al fatto di averli distrutti.

Ermini ha confermato di aver informato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ma non ha divulgato il contenuto della conversazione. Ha anche spiegato di aver distrutto i verbali perchè riteneva che la loro acquisizione da fonte incerta e in via informale non potesse dare adito a nessun procedimento formale. Inoltre, era stato informato da Davigo che il pg di Cassazione, Giovanni Salvi, era stato informato dei fatti e si sarebbe attivato presso la procura di Milano.

La prossima udienza si svolgerà il 13 di ottobre e verranno sentiti altri membri del Csm e la ex segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto.

La loggia Ungheria? Bufala Cantone vuole chiudere. Luca Fazzo il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

La Procura di Perugia chiede l'archiviazione: "Riscontri insufficienti sulle parole di Amara"

È colpa della fuga di notizie, con i verbali del «pentito» Piero Amara spediti a casa ai giornalisti e arrivati alla fine nelle mani di Piercamillo Davigo, allora membro del Consiglio superiore della magistratura, se non sapremo mai se la loggia Ungheria esisteva o non esisteva, se fosse una innocua rete di affari o una insidia per le istituzioni. La Procura di Perugia, che da un anno e mezzo indagava sulla fantomatica loggia, ieri si arrende, e chiede l'archiviazione dell'inchiesta. I nove indagati per associazione segreta - tra cui lo stesso Amara, ma anche l'ex parlamentare Denis Verdini e il faccendiere Luigi Bisignani - vanno verso il proscioglimento. Per il procuratore di Perugia non vuol dire che Ungheria non esistesse, e che Amara si fosse inventato tutto: anzi, si parla di «non poche conferme al suo narrato», e di «alcuni soggetti, tra l'altro pure legati da stretti rapporti con il medesimo Amara, che hanno riferito di essere stati contattati in passato da uno dei vertici della presunta organizzazione, oggi defunto, che aveva chiesto loro di aderire, ma non avevano ritenuto di farlo». Ma nei quattordici faldoni dell'inchiesta, dice alla fine Cantone, non è approdato niente che consentisse di chiudere il cerchio, e nemmeno spunti utili per andare ancora avanti a scavare: anche perché dalla primavera del 2021 i verbali di Amara diventano uno dopo l'altro di pubblico dominio: e «quanto avvenuto - scrive Cantone - ha certamente inciso sulle attività investigative in corso che avrebbero al contrario, in relazione alla tipologia di reato da accertare, richiesto riservatezza e segretezza». Alla fine, l'esistenza della loggia secondo Cantone è «non adeguatamente riscontrata».

Politici, magistrati, ufficiali delle forze dell'ordine, imprenditori. Nell'elenco della loggia, così come raccontata da Amara, c'erano almeno novanta nomi: è la lista che Amara dice di avere visto in mano all'avvocato Giuseppe Calafiore. Ma quella lista alla Procura di Perugia, scrive Cantone, non è mai arrivata: «pur richiesta a quest'ultimo più volte, non è mai stata consegnata». Il fascicolo arriva da Perugia a Milano con tre indagati (tra cui Amara e Calafiore), la Procura di Perugia iscrive altri sei nomi: scelti, spiega Cantone, solo tra quelli «la cui audizione veniva ritenuta indispensabile in quanto avevano comunque intrattenuto rapporti con Amara». Per tutti gli altri citati dal «pentito», «l'iscrizione avrebbe rappresentato non una garanzia per l'indagato ma un inutile e ingiustificato stigma».

Sulla reale natura e pericolosità di «Ungheria», ieri si apprende che lo stesso Amara avrebbe fatto negli ultimi interrogatori una delle sue solite giravolte, «sminuendo in modo inspiegabile il ruolo di quella che aveva indicato come una nuova loggia P2, dichiarando anzi che essa era nata con finalità nobili». «Ha aggiunto persino che fin dal 2015 egli aveva tentato di creare un'altra organizzazione di cui ha fornito anche alcuni elementi documentali»: e questa fantomatica Ungheria-bis è l'ultima, misteriosa comparsa del gigantesco intrigo che ha lacerato in questi due anni la magistratura italiana.

Sarà ora il giudice per le indagini preliminari di Perugia a decidere se accogliere la richiesta di Cantone mandando tutto in soffitta, o ordinare nuove indagini. Di spunti interessanti ce ne sarebbero; la stessa Procura umbra dice che «alcuni episodi raccontati da Amara hanno ricevuto anche se parziale riscontro», e non sono cose da poco: «interferenze, tentativi di condizionamento di nomine di vertici della giurisdizione, di enti, istituzioni e società pubbliche che pure possono ritenersi avvenuti». Tutti affari che però «non sono risultati affatto indicativi dell'esistenza di una associazione segreta», ma dei traffici di Amara e dei suoi accoliti.

Non tutto è chiuso, anche se la richiesta di Cantone dovesse venire accolta: inchieste su singoli fatti vengono smistate ad altre Procure, il fascicolo principale torna a Milano perché proceda a carico di Amara per calunnia ed autocalunnia. E le 167 pagine vengono trasmesse anche alla Cassazione perché valuti gli illeciti disciplinari che una serie di magistrati che vi compaiono avrebbero commesso. Ungheria o non Ungheria. 

"Nessun riscontro". Chiesta l'archiviazione per il caso Amara. Marco Leardi l'8 Luglio 2022 su Il Giornale.

La procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, ha chiesto l'archiviazione sul caso della cosiddetta Loggia Ungheria, sollevato dalle rivelazioni dell'avvocato Amara. "Emerse contraddizioni"

"Propalazioni non riscontrate" in parte o integralmente. Così, la procura di Perugia ha chiesto al gip l'archiviazione per il procedimento sulla cosiddetta Loggia Ungheria, un presunto gruppo segreto formato da politici, magistrati e personaggi pubblici. Il caso, nello specifico, era partito dai verbali dell'ex legale esterno di Eni, Piero Amara, il quale si era detto sicuro dell'attività della suddetta associazione. Secondo i magistrati guidati dal procuratore Raffale Cantone, tuttavia, non è risultata "adeguatamente riscontrata" l'esistenza della presunta loggia.

Stando a quanto denunciato da Amara, la Loggia Ungheria avrebbe agito in violazione della Legge Anselmi, norma che punisce le associazioni segrete impegnate a interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali. Nella richiesta di archiviazione si fa specifica menzione per ognuno degli episodi narrati da Amara, degli accertamenti fatti e degli eventuali riscontri. Anche e soprattutto in funzione di verificare sia l'attendibilità dell'avvocato sia se gli episodi raccontati potessero essere essi stessi "elementi sintomatici" dell'esistenza dell'associazione Ungheria. Ebbene, alla luce di quelle verifiche non sarebbero stati ravvisati elementi concreti per proseguire il caso giudiziario.

Alla valutazione di attendibilità di Amara, si legge nel comunicato della Procura di Perugia, è stato in particolare dedicato un intero paragrafo nel quale sono state esaminate "le tante aporie" e le "contraddizioni emerse". "Sull'esistenza dell'associazione non sono emersi elementi neanche indiretti che potessero attestarne l’esistenza al di fuori delle dichiarazioni di Amara e delle dichiarazioni di un altro indagato, socio di Amara, che però si è limitato a dichiarare il dato dell’esistenza dell’associazione senza fornire alcun elemento concreto di cui sua conoscenza diretta e si è poi avvalso da ultimo della facoltà di non rispondere, impedendo quindi di operare alcun accertamento mirato", ha inoltre spiegato il procuratore capo di Perugia.

Nella nota della procura viene anche ricostruita la vicenda dei verbali resi dall'avvocato, che in passato aveva patteggiato una condanna per corruzione in atti giudiziari, agli inquirenti milanesi. "In particolare già nel novembre 2020 era emersa la certezza che i verbali di interrogatorio di Amara fossero nella disponibilità di soggetti estranei al processo, tanto da essere trasmessi integralmente a un giornalista, e tale propalazione è proseguita anche nei primi mesi del 2021 con l’invio di una parte dei verbali di dichiarazioni ad altro giornalista e ad un consigliere Csm che ne aveva fatto anche pubblica menzione in un intervento al Plenum dell’organo di autogoverno", si legge. Il caso dei verbali aveva scosso la procura di Milano e portato a processo il pm Paolo Storari (assolto in abbreviato) e l'ex di Mani Pulite Piercamillo Davigo, accusato di rivelazione del segreto. 

“La Loggia Ungheria non esiste”. La procura di Perugia chiede l’archiviazione. Il Dubbio l'8 luglio 2022.

Per il procuratore Cantone l'associazione segreta è un'invenzione di Piero Amara, ex legale dell'Eni

«In quanto alla esistenza di un’associazione segreta denominata Ungheria si è concluso nel senso di ritenere la circostanza non adeguatamente riscontrata». Così la Procura di Perugia in una nota in cui annuncia di aver chiesto l’archiviazione del procedimento sulla Loggia Ungheria.

Il procedimento per il quale la Procura della Repubblica di Perugia ha chiesto al Gip l’archiviazione, ricorda il procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, riguardava l’ipotizzata esistenza di una associazione segreta che avrebbe agito in violazione della legge Anselmi. Legge che punisce quelle associazioni che operano per interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali. Figura centrale dell’inchiesta, l’avvocato Pietro Amara, le cui dichiarazioni, ricorda il procuratore Cantone, sono state verificate puntualmente dagli inquirenti.

«Il complesso delle investigazioni – sostiene il procuratore di Perugia – ha portato a ritenere integralmente o parzialmente non riscontrate numerose propalazioni dell’avvocato che tecnicamente vanno inquadrate come chiamate in correità dirette o de relato, e quindi come non accertati fatti narrati o in alcuni ha portato a ritenere avvenuti i fatti, ma escluso che in essi Amara avesse potuto svolgere un ruolo come da lui riferito».

«Alla valutazione di attendibilità dell’avvocato è stato dedicato un intero paragrafo in cui si sono esaminate le tante aporie e contraddizioni emerse, ma anche le non poche conferme al suo narrato con riferimento ad alcuni specifici episodi e si è concluso nel senso che le complessive dichiarazioni dell’avvocato non dovessero considerarsi affette da quella “inattendibilità talmente macroscopica da compromettere in radice la credibilità del dichiarante” e si è ritenuto di conseguenza necessario un livello di riscontri particolarmente elevato per ritenere accertati i fatti da lui dichiarati».

«Interferenze o tentativi di condizionamento di vertice delle giurisdizione ordinaria o amministrativa, tentativi compiuti o incompiuti di interferire su nomine di vertici di enti, istituzioni e società pubbliche che pure possono ritenersi avvenuto, sono risultati ascrivibili a interessi personali o professionali diretti dell’Amara o di soggetti a lui strettamente legati, piuttosto che conseguenza dell’attività di condizionamento di una loggia», spiega ancora Cantone. Nel provvedimento di archiviazione, spiega ancora il procuratore, «si dà atto come su alcune vicende specifiche rappresentate da Amara, sono stati effettuati stralci per poter effettuare indagini da parte dell’Ufficio di altri uffici. Per l’eventuale ipotesi di calunnia e autocalunnia, gli atti verranno trasmessi alla Procura di Milano per competenza».

Sull’esistenza della loggia Ungheria «non sono emersi elementi neanche indiretti che potessero attestarne l’esistenza – si legge nella nota della Procura di Perugia – al di fuori delle dichiarazioni di Amara e delle dichiarazioni di un altro indagato, socio di Amara, che però si è limitato a dichiarare il dato dell’esistenza dell’associazione senza fornire alcun elemento concreto di cui sua conoscenza diretta e si è poi avvalso da ultimo della facoltà di non rispondere, impedendo quindi di operare alcun accertamento mirato». «Alcuni soggetti, fra l’altro pure legati da stretti rapporti con Amara hanno riferito di essere stati contattati in passato da uno dei vertici della presunta organizzazione, oggi defunto, che aveva loro chiesto di aderire ma non avevano ritenuto di farlo. Si tratta di affermazioni che non consentono in alcun modo di essere considerato un riscontro all’esistenza di un’associazione che oltre a dover essere segreta deve avere una serie di caratteristiche di cui questi soggetti nulla sono stato in grado di riferire», sottolinea la Procura.

Ermini su Amara: "Parlai con Mattarella e lui restò in silenzio". Luca Fazzo l'8 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il numero 2 del Csm s'incarta al processo Davigo sui verbali. E sostiene: "Li buttai"

Due scene surreali, una dopo l'altra, vengono evocate ieri nell'aula del processo a Piercamillo Davigo, l'ex pm di Mani Pulite incriminato per avere ricevuto e poi divulgato i verbali supersegreti del caso Eni. A riferire entrambe le scene è David Ermini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, chiamato a testimoniare in aula. Scena 1. Davigo che va a trovare Ermini due volte, la prima gli racconta il contenuto dei verbali, la seconda glieli consegna in copia, Ermini inorridisce e appena Davigo esce li strappa e li butta. Seconda scena: Ermini che va a raccontare tutto al presidente della Repubblica, e Sergio Mattarella non dice né ah né bah. Muto. Nessun commento. Anche se in quei verbali ci sono le dichiarazioni «pentito» Piero Amara sulla terribile loggia Ungheria che infesterebbe politica, forze armate e lo stesso Csm.

Sarà tutto vero, eh. Anche se, nella ricostruzione che fa Ermini, non tutto fila. I verbali «erano irricevibili», dice, «e li distrussi perché mi volevo liberare di una cosa che non sapevo se era piena di calunnie. La mia riflessione fu che se queste cose fossero uscite dalla mia stanza, avrei fatto un danno incalcolabile». Allora perché accetta di riceverli da Davigo, perché non dice al Dottor Sottile «sei matto, riprenditi questa roba?». Mistero. Perché non gli chiede dove li ha presi? Altro mistero. Però, su suggerimento dello stesso Davigo, Ermini corre al Quirinale: «Davigo era molto deciso sul fatto che io dovessi avvisare il Presidente della Repubblica, perché in questa presunta loggia erano indicati degli appartenenti alle forze di polizia, finanza e carabinieri, alcuni in servizio altri non più». E lì arriva il clou, con la scena muta di Sergio Mattarella.

Più passa il tempo e più il caso dei verbali di Amara diventa un pasticcio politico-istituzionale. Ermini, che come vicepresidente è di fatto il rappresentante di Mattarella nel Csm, diventa il terminale dello scontro furibondo interno alla Procura di Milano proprio sulla gestione dei verbali sulla Loggia. Ieri appare quasi frastornato, incapace di dare un senso logico alle sue mosse di quei giorni. E infatti nel giro di pochi minuti su di lui si abbatte il commento di Matteo Renzi, che lo volle al Csm ma poi se ne è amaramente pentito: «Oggi Ermini conferma per filo e per segno ciò che io ho scritto nel libro Il Mostro. Dunque Ermini che minacciava invano querele (poi non fatte) o non ha letto Il Mostro o non l'ha capito». Poche settimane fa, presentando il libro, Renzi aveva detto: «Il vicepresidente del Csm che riceve una prova del reato e la distrugge! Ci sono cose che insegnano al primo anno di serie tv: non si distrugge la prova».

Per Davigo, comunque, la testimonianza di Ermini è un colpo basso: perché il vicepresidente del Csm, per spiegare il proprio operato, dice che il comportamento del Dottor Sottile era del tutto irrituale, «procedure informali da noi al Consiglio non si possono fare, tutto quello che arriva dev'essere formalizzato, non esiste nulla di informale». Illegittimo Davigo quando riceve informalmente i verbali dal pm milanese Paolo Storari, illegittimo quando li rifila a Ermini a tu per tu. Davigo ieri se ne rende conto subito, chiede la parola, spiega a lungo al giudice che mandarli al Csm per vie ufficiali proprio non si poteva, neanche al ristrettissimo comitato di presidenza (Mattarella, Ermini e i vertici della Cassazione) perché «il Comitato di presidenza non si fidava della struttura amministrativa del consiglio e che il plico venisse visto solo dai consiglieri». Un bel ritratto di un Csm colabrodo, dove carte segrete finiscono in mano a chiunque. Peccato che poi a mandarle ai giornali sia stata proprio la segretaria di Davigo.

(ANSA il 7 Luglio 2022) - "Parlai al presidente della Repubblica. Riferii tutto quello che mi disse Davigo e lui non fece commenti". Lo ha detto in aula a Brescia David Ermini, vicepresidente del Csm sentito come teste al processo nei confronti di Pier Camillo Davigo, ex componente del Csm imputato per il caso dei verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria.

Ermini ha raccontato di essere andato al Quirinale, per una visita già programmata, nella quale parlò anche del caso Milano e delle dichiarazioni rese ai pm da Amara.

(ANSA il 7 Luglio 2022) - "Secondo me fu una confidenza che il consigliere Davigo volle farmi. Mi consegnò quei verbali, li presi per fargli una cortesia ma li cestinai perché erano irricevibili". Lo ha spiegato in aula a Brescia il vicepresidente del Csm David Ermini sentito come teste al processo in cui Pier Camillo Davigo è imputato per il caso Amara.

Ermini ha spiegato che dopo un primo incontro il 4 maggio 2020 in cui Davigo gli chiese "di avvisare il presidente Mattarella, e io concordai", ci fu un secondo colloquio qualche giorno dopo in cui Davigo gli consegnò una cartelletta con dentro copia dei verbali stampati sulla presunta loggia Ungheria, "tutti fogli non firmati, solo alcuni con intestazione Procura della Repubblica", ritenuti "atti informali e inutilizzabili", che quindi non potevano far ingresso al Csm. Ermini ha sostenuto che questo secondo incontro fu in sostanza confidenziale.

(Adnkronos il 7 Luglio 2022) - "Oggi il vicepresidente CSM Ermini,  interrogato come testimone nell`ambito del processo Davigo, conferma  per filo e per segno ciò che io ho scritto nel libro `Il Mostro`. 

Dunque Ermini che minacciava invano querele (poi non fatte) o non ha  letto `Il Mostro` o non l`ha capito. Ancora poche settimane e il CSM di David Ermini sarà solo un brutto ricordo". Così Matteo Renzi su Fb. 

Benedetta Dalla Rovere per LaPresse il 7 Luglio 2022. 

Verbali di interrogatori "non firmati, inutilizzabili e inservibili", il cui contenuto però era dirompente. Così il vice presidente del Csm, David Ermini, ha definito i verbali secretati in cui l`avvocato Piero Amara, interrogato a Milano per il caso del “falso complotto” Eni, ha parlato della loggia Ungheria. 

Una "presunta loggia massonica coperta", ha spiegato Ermini, che avrebbe alti magistrati, avvocati, vertici delle forze armate e di polizia, imprenditori e politici. Fatti talmente gravi che, poche ore dopo essere stato informato da Davigo, il 4 maggio 2020 Ermini ha deciso di andare a parlare della vicenda con il Presidente della Repubblica.

"Davigo mi disse che sarebbe stato opportuno che andassi dal Presidente della Repubblica" perché "della presunta loggia facevano parte esponenti delle forze armate e delle forze di polizia - ha chiarito Ermini - specialmente polizia e carabinieri. E poi anche magistrati, ex magistrati, un ex vicepresidente del Csm".  

"Io risposi di sì - ha aggiunto - . Andai dal presidente e gli riferii anche quello che mi aveva detto Davigo". E Mattarella "non fece alcun commento". Nei giorni successivi, Davigo si era recato da Ermini e gli aveva consegnato una copia non firmata di quei verbali. Documenti che aveva ricevuto in pieno lockdown dal pm Storari. Il magistrato milanese aveva voluto in questo modo "autotutelarsi" di fronte alle lentezze della Procura di Milano nell`avviare formalmente le indagini sulla vicenda.

"Ritenni quella di Davigo una confidenza", ha ricordato Amara, che non appena ricevuti i documenti ha detto di averli strappati e buttati  nel cestino, non sapendo che fossero secretati. "In consiglio noi non possiamo avere atti che non siano formali", ha spiegato. Non solo. "La cosa doveva rimanere segreta, perché se qualche consigliere fosse rimasto coinvolto non era opportuno", ha precisato il vicepresidente del Csm sottolineando come l`avvocato Amara avesse indicato come affiliati alla loggia coperta i consiglieri del Csm Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti.

"In cuor mio pensavo che quelle carte" relative agli interrogatori in cui l`avvocato Piero Amara parlava della loggia Ungheria "dovessero arrivare al comitato di presidenza in modo rituale e per le vie ufficiali", ha aggiunto Ermini, altrimenti il Csm "non avrebbe potuto fare nulla". "Davigo non mi chiese di veicolare quei verbali al comitato di presidenza del Csm, sennò gli avrei detto che erano irricevibili. Me li ha consegnati perché li leggessi", ha precisato Ermini. 

L`ex pm di Mani Pulite aveva anche detto di aver consegnato il plico anche al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e a quel punto per Ermini "la vicenda era finita". "Nelle condizioni in cui abbiamo vissuto in questi anni", dopo il caso di Luca Palamara e lo scandalo sulle nomine del Csm "una velina non firmata con dichiarazioni dubbie non la posso accettare", ha chiarito Ermini. 

"Io che me ne dovevo fare di questi verbali? - ha aggiunto -  Erano irricevibili, mica potevo diventare il megafono di Amara". Anche Davigo è intervenuto in aula facendo dichiarazioni spontanee.  "Una delle ragioni per cui non ho formalizzato immediatamente è perché, una volta protocollato, il plico viene visto dalla struttura" del Csm, inclusi i componenti delle commissioni interessate, i giudici segretari e i funzionari.  "Non si trattava di una vicenda isolata e anomala - ha chiarito Davigo -  ma di una situazione in cui il comitato di presidenza aveva ragione di dubitare della tenuta della struttura consiliare".

"Quando il pm Storari viene da me" per "autotutelarsi" di fronte a quelle che riteneva un`inerzia della Procura di Milano nell`avviare le indagini "io ricevo una notizia di reato - ha proseguito -. Io sono un pubblico ufficiale, ho l`obbligo di denunciare, cosa che feci al pg Giovanni Salvi. La questione era che io dovevo segnalare la vicenda in modo che non potesse comunque recare danno alle indagini. Avrei potuto fare una denuncia alla Procura di Brescia, che avrebbe chiesto gli atti alla Procura di Milano, con il risultato che le indagini non si sarebbero più fatte. La mia finalità principale era che quel processo tornasse sui binari di legalità, perché non c'erano i binari della legalità". 

"Non ricordo se ho detto al vicepresidente del Csm David Ermini che i verbali sono secretati - ha concluso Davigo - ma sono certo di avergli detto che dopo 5 mesi la Procura di Milano non aveva ancora fatto nulla". Il processo riprenderà il 13 ottobre.

Processo a Davigo, è il giorno di Ermini: «Mi lasciò i verbali e io li cestinai…» Il vicepresidente del Csm al processo contro l’ex pm: «Non mi chiese di formalizzare nulla. Mi disse: un massone è per sempre». Simona Musco su Il Dubbio l'8 luglio 2022.  

«Piercamillo Davigo non mi chiese di acquisire quei verbali. Lui me li lasciò, per non essere scortese li presi, ma li cestinai, perché noi al Consiglio non possiamo avere atti che non arrivino in modi formali. Avendomi detto che se ne sarebbe occupato il procuratore generale della Cassazione io ritenni la sua una confidenza. Le parole “Comitato di presidenza” non furono mai pronunciate». A dirlo, davanti al Tribunale di Brescia, è il vicepresidente del Csm David Ermini, chiamato a testimoniare nel processo a carico di Davigo, accusato di rivelazione di segreto d’ufficio per aver diffuso i verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria.

Verbali che gli furono consegnati ad aprile del 2020 dal pm Paolo Storari per «autotutelarsi», temendo che il ritardo nelle iscrizioni dei primi indagati potesse, un giorno, essere imputato a lui. Secondo quanto confermato da Storari in aula nel corso della scorsa udienza, Davigo si sarebbe proposto di fare da tramite col Comitato di presidenza, per far arrivare la questione ai vertici del Csm. Ma ciò, stando al racconto di Ermini, non avvenne. Davigo, infatti, si sarebbe preoccupato principalmente di chiedere al vicepresidente del Csm di avvisare il Presidente della Repubblica, durante un incontro avvenuto nel giorno in cui il Consiglio riprese la sua attività dopo il lockdown, il 4 maggio 2020.

«Venne nella mia stanza e mi chiese di seguirlo in cortile lasciando i telefonini, perché mi doveva dire una cosa molto seria», ha raccontato Ermini. «Era molto deciso sul fatto che io dovessi – ed io concordai – avvisare il presidente della Repubblica, perché in questa presunta loggia erano indicati appartenenti alle forze di polizia. E poi mi raccontò anche che c’erano due consiglieri in carica», ovvero Sebastiano Ardita (ex amico di Davigo e parte civile nel processo) e Marco Mancinetti. Ermini si recò al Quirinale poco dopo, riferendo tutto ciò che Davigo gli aveva raccontato a riguardo della loggia. «Il Presidente non fece alcun commento, ne prese atto», ha spiegato il numero due del Csm. Che riparlò della questione con Davigo nei giorni successivi. «Si presentò da me senza appuntamento con una cartellina e mi disse che mi aveva fatto stampare queste dichiarazioni. Erano tutti fogli non firmati, alcuni con l’intestazione “Procura della Repubblica”, altri senza. Via via che lui scorreva vedevo alcuni nomi e su qualcuno ebbi qualche dubbio. Ascoltai, ma dentro di me ero perplesso sul fatto che mi fossero mostrati degli atti informali, inutilizzabili di fatto». Dopo aver ricevuto i verbali, Ermini li avrebbe strappati e gettati nel contenitore della carta. «Non li ho letti e non sapevo che fossero atti secretati», ha affermato, replicando al presidente del collegio Roberto Spanò secondo cui, in caso contrario, si sarebbe trattato di soppressione del corpo del reato.

«Che ne facevo? – ha replicato – Io mica potevo diventare il megafono di Amara. Il Csm andava difeso da qualsiasi cosa». Per quanto riguarda la presunta inerzia della procura di Milano, Davigo disse che ne avrebbe discusso con il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi: «Concordammo che era l’unico che poteva fare qualcosa in tema di giurisdizione. Io mai avrei potuto chiamare Greco (Francesco, ex procuratore di Milano, ndr) per dirgli “vai avanti”: sarebbe stato fuori da ogni regola. E non avrebbe potuto farlo nemmeno il Colle». Davigo, stando al racconto di Ermini, non calcò particolarmente la mano sui nomi di Ardita e Mancinetti. Ma la cosa doveva rimanere segreta: il rischio era, infatti, che i due togati venissero a conoscenza di quei verbali. Proprio per tale motivo, dal punto di vista di Ermini, si trattò di «una confidenza», in assenza di richieste ufficiali. «Non mi chiese di formalizzare», ha spiegato. E se anche avesse fatto tale richiesta, «avrei dovuto dirgli che non avrei potuto, perché erano atti non ufficiali», per giunta «in word» e «senza firma». Ma «Davigo è uno dei magistrati più esperti d’Italia, immaginavo e immagino che conoscesse il rito. Lui lo sapeva benissimo che noi non potevamo fare niente». Anche perché, ha confermato Ermini, non esiste una prassi che autorizzi il singolo consigliere ad acquisire atti senza una procedura formale. «Io ho l’obbligo di difendere il Consiglio – ha aggiunto Ermini -, le istituzioni e anche il Presidente della Repubblica, e in quella situazione aveva in mano una velina non firmata, con dichiarazioni dubbie». Sulla presunta affiliazione di Ardita, Ermini espresse subito dei dubbi: «Dissi che mi sembrava strano. Vedendo il nome di Tinebra (Giovanni, ex pg di Catania, ndr) dissi che forse era roba di quando era giovane – ha spiegato -. E lui mi disse: “guarda che i massoni vanno in sonno ma rimangono sempre massoni”». Una frase «pesantissima – ha commentato Roberto Spanò -. Vuol dire che Davigo riteneva che fosse verosimile».

L’ex pm di Mani Pulite non chiese ad Ermini di mantenere segreta la vicenda: fu lui stesso a decidere di farlo, nella convinzione che solo in tre ne fossero a conoscenza. Ma a svelare tutto al plenum ci pensò il togato Nino Di Matteo, che quei verbali li ricevette per posta – secondo la procura di Roma per mano dell’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto -, ipotizzando un complotto ai danni di Ardita. Ermini convocò così una riunione, durante la quale scoprì che erano in molti, in realtà, a sapere di quei verbali: ad informarli era stato proprio Davigo, che aveva invitato i colleghi a prendere le distanze da Ardita. Che «si sentiva molto colpito da questa cosa: la riteneva un’offesa». Davigo, nel corso dell’udienza, ha voluto prendere la parola per replicare alle dichiarazioni di Ermini. «La cosa più facile per me sarebbe stata fare una nota di servizio e consegnarla, ma quando viene protocollata, viene vista» dall’intera struttura amministrativa del Csm, «che questa presidenza ha ritenuto non molto affidabile», ha spiegato, riferendosi alla fuga di notizie sull’indagine condotta dalla Procura di Perugia sull’ex membro del Csm Luca Palamara.

Processo Davigo: il vicepresidente del Csm Ermini interrogato. Renzi torna all’attacco: “Conferma quello che ho scritto”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 luglio 2022.  

Il vice presidente del Csm David Ermini, ha definito i verbali secretati nei quali l' avvocato Piero Amara, interrogato a Milano per il caso del "falso complotto Eni", ha parlato della loggia Ungheria. Verbali di interrogatori "non firmati, inutilizzabili e inservibili", il cui contenuto però era dirompente. Una "presunta loggia massonica coperta", ha spiegato Ermini, che avrebbe alti magistrati, avvocati, vertici delle forze armate e di polizia, imprenditori e politici.

Dopo una settimana di silenzio, Matteo Renzi è tornato ad attaccare pesantemente la magistratura. E lo ha fatto attraverso la propria pagina Facebook. “Oggi il vicepresidente del Csm Ermini, interrogato come testimone nell’ambito del processo Davigo, conferma per filo e per segno ciò che io ho scritto nel libro “Il Mostro”. Dunque Ermini che minacciava invano querele (poi non fatte) o non ha letto Il Mostro o non l’ha capito. Ancora poche settimane e il Csm di David Ermini sarà solo un brutto ricordo”. Parole che si riferiscono, in modo chiaro ed inequivocabile alla presunta “loggia Ungheria” e agli interrogatori dell’avvocato Pietro Amara. 

Renzi nelle pagine del suo libro “Il Mostro”, ha accusato senza mezzi termini Ermini di aver distrutto “materiale ufficiale proveniente dalla Procura di Milano, eliminando il corpo del reato”. Immediata la replica del vicepresidente del Csm, sostenendo che si trattava di una “affermazione temeraria e falsa, essendo il cartaceo mostratomi dal dottor Davigo, come ho più volte pubblicamente precisato e come il senatore Renzi sa benissimo, copia informale, priva di ufficialità, di origine del tutto incerta e in quanto tale senza valore e irricevibile. Il senatore Matteo Renzi ne risponderà davanti all’autorità giudiziaria”. 

Una polemica quella fra Renzi ed Ermini datata metà maggio che torna di stretta attualità oggi, a distanza di quasi due mesi . Un’unica, granitica certezza è che questa sarà la battaglia più importante della carriera politica del leader di Italia Viva. Uno scontro dal quale uscirà o vincitore assoluto o sconfitto, senza prove di appello, destinato all’oblio e ricordato solo come un enfant prodige che non ce l’ha fatta. 

Il vice presidente del Csm David Ermini, ha definito i verbali secretati nei quali l’ avvocato Piero Amara, interrogato a Milano per il caso del “falso complotto Eni”, ha parlato della loggia Ungheria. Verbali di interrogatori “non firmati, inutilizzabili e inservibili”, il cui contenuto però era dirompente. Una “presunta loggia massonica coperta“, ha spiegato Ermini, che avrebbe alti magistrati, avvocati, vertici delle forze armate e di polizia, imprenditori e politici. Fatti talmente gravi che, poche ore dopo essere stato informato da Davigo, il 4 maggio 2020 Ermini ha deciso di andare a parlare della vicenda con il Presidente della Repubblica.

Il vice presidente del Csm David Ermini e l’ex consigliere Davigo

“Davigo mi disse che sarebbe stato opportuno che andassi dal Presidente della Repubblica” perché “della presunta loggia facevano parte esponenti delle forze armate e delle forze di polizia – ha spiegato Ermini – specialmente Polizia e Carabinieri. E poi anche magistrati, ex magistrati, un ex vicepresidente del Csm“.  “Io risposi di sì – ha aggiunto Ermini – . Andai dal presidente e gli riferii anche quello che mi aveva detto Davigo“. Mattarella “non fece alcun commento“. Nei giorni successivi, Davigo si era recato da Ermini e gli aveva consegnato una copia non firmata di quei verbali. Documenti che aveva ricevuto in pieno lockdown dal pm Storari della procura di Milano . Il magistrato aveva voluto in questo modo “autotutelarsi” di fronte alle lentezze della Procura di Milano nell`avviare formalmente le indagini sulla vicenda.

“Ritenni quella di Davigo una confidenza”, ha ricordato Ermini, che non appena ricevuti i documenti ha detto di averli strappati e buttati  nel cestino, non sapendo che fossero secretati. “In consiglio noi non possiamo avere atti che non siano formali”, ha spiegato. Non solo. “La cosa doveva rimanere segreta, perché se qualche consigliere fosse rimasto coinvolto non era opportuno”, ha precisato il vicepresidente del Csm sottolineando come l’avvocato Amara avesse indicato i magistrati consiglieri del Csm Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti come “affiliati” alla loggia coperta .

Ermini in tribunale a Brescia ascoltato come testimone

“In cuor mio pensavo che quelle carte” relative agli interrogatori in cui Amara parlava della loggia Ungheria “dovessero arrivare al comitato di presidenza in modo rituale e per le vie ufficiali”, ha aggiunto Ermini, altrimenti il Csm “non avrebbe potuto fare nulla”. “Davigo non mi chiese di veicolare quei verbali al comitato di presidenza del Csm, sennò gli avrei detto che erano irricevibili. Me li ha consegnati perché li leggessi”, ha precisato Ermini.

L`ex pm di Mani Pulite ora in pensione, aveva anche detto di aver consegnato il plico anche al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e a quel punto per Ermini “la vicenda era finita“. “Nelle condizioni in cui abbiamo vissuto in questi anni”, dopo il caso di Luca Palamara e lo scandalo sulle nomine del Csm “una velina non firmata con dichiarazioni dubbie non la posso accettare“, ha chiarito Ermini.

Piercamillo Davigo, Pietro Amara e Paolo Storari

“Io che me ne dovevo fare di questi verbali? – ha aggiunto –  Erano irricevibili, mica potevo diventare il megafono di Amara“. Anche Davigo è intervenuto in aula facendo dichiarazioni spontanee.  “Una delle ragioni per cui non ho formalizzato immediatamente è perché, una volta protocollato, il plico viene visto dalla struttura” del Csm, inclusi i componenti delle commissioni interessate, i giudici segretari e i funzionari.  “Non si trattava di una vicenda isolata e anomala – ha chiarito Davigo –  ma di una situazione in cui il comitato di presidenza aveva ragione di dubitare della tenuta della struttura consiliare“.

“Quando il pm Storari viene da me” per “autotutelarsi” di fronte a quelle che riteneva un`inerzia della Procura di Milano nell`avviare le indagini io ricevo una notizia di reato – ha proseguito Davigo -. Io sono un pubblico ufficiale, ho l`obbligo di denunciare, cosa che feci al pg Giovanni Salvi. La questione era che io dovevo segnalare la vicenda in modo che non potesse comunque recare danno alle indagini. Avrei potuto fare una denuncia alla Procura di Brescia, che avrebbe chiesto gli atti alla Procura di Milano, con il risultato che le indagini non si sarebbero più fatte. La mia finalità principale era che quel processo tornasse sui binari di legalità, perché non c’erano i binari della legalità“.

Ermini ed il Pg della cassazione Salvi (a giorni pensionato)

“Non ricordo se ho detto al vicepresidente del Csm David Ermini che i verbali sono secretati “- ha concluso Davigo che ogni tanto svanisce la memoria come per incanto – “ma sono certo di avergli detto che dopo 5 mesi la Procura di Milano non aveva ancora fatto nulla”. Il processo riprenderà il 13 ottobre.

Loggia Ungheria, Storari testimonia nel processo all'ex pm di Mani Pulite: "Davigo? Non è un mio amico".  Luca De Vito su La Repubblica il 24 maggio 2022.  

Le parole del pm Storari davanti al tribunale di Brescia: "Quello che è accaduto e sta accadendo lo trovo lunare, davanti a me un muro di gomma". Il 7 luglio chiamato a testimoniare il vice presidente del Csm David Ermini.

"Piercamillo Davigo non era un mio amico prima, non lo è oggi. Ho una frequentazione con lui solo perché conosco la sua compagna. Mi sono rivolto a lui perché è l'unica persona che conosco che avesse un ruolo istituzionale. Quello che è accaduto e sta accadendo lo trovo lunare". Così il pm Paolo Storari ha parlato davanti ai giudici di Brescia come testimone al processo che vede l'ex pm di Mani Pulite Piercamillo

I retroscena. Loggia Ungheria, Storari: “Sono stato minacciato dai capi perché volevo indagare”. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Maggio 2022. 

“Quello che è accaduto e sta accadendo, lo trovo lunare: mi hanno anche minacciato di farmi un procedimento disciplinare”. A dirlo il pm milanese Paolo Storari ai giudici bresciani. Il magistrato è stato interrogato ieri come testimone assistito connesso nel processo contro Piercamillo Davigo, accusato di rivelazione del segreto di ufficio. Storari, che per il medesimo reato era stato assolto nelle scorse settimane in abbreviato, ha ricostruito quanto accaduto alla Procura di Milano dopo gli interrogatori di Piero Amara che avevano svelato l’esistenza della loggia Ungheria.

Rispondendo alle domande del presidente del collegio Roberto Spanò, il magistrato ha confermato quanto dichiarato al procuratore di Brescia Francesco Prete a maggio dello scorso anno, quando, per la prima volta, aveva messo in luce l’ostruzionismo dei propri capi nel cercare riscontri alle testimonianza di Amara. L’interrogatorio di Storari era stato pubblicato in esclusiva dal Riformista. Noto alle cronache per essere anche fra i principali accusatori di Luca Palamara nel processo di Perugia e per aver patteggiato, record assoluto, ben cinquanta reati senza subire alcun sequestro, Amara aveva descritto il funzionamento della loggia Ungheria, composta da magistrati, imprenditori, professionisti, alti ufficiali delle Forze di polizia. Lo scopo del sodalizio paramassonico sarebbe stato quello di pilotare le nomine dei capi degli uffici giudiziari al Consiglio superiore della magistratura e aggiustare i processi.

Ad interrogare Amara erano stati Laura Pedio, vice del procuratore Francesco Greco, e Storari. I verbali delle dichiarazioni di Amara erano poi rimasti sulla scrivania dei pm per mesi, senza che ci fosse alcun sviluppo investigativo. Storari, stufo di questa inerzia, aveva allora deciso di informare Davigo, all’epoca consigliere del Csm. Storari ha precisato che a fare da tramite era stata la compagna di Davigo, la pm antimafia Alessandra Dolci. “Io metto i verbali word sulla chiavetta e li porto a casa sua”, ha dichiarato Storari. “Fammi leggere e ci rivediamo”, gli aveva risposto Davigo. “I fatti che riferisce questo qui sono gravissimi, ci penso io ad avvertire il Csm”, aveva poi detto Davigo dopo aver letto gli atti.

Ricevuti da Storari i verbali di Amara, Davigo aveva così informato il vice presidente del Csm David Ermini, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, alcuni consiglieri del Csm, il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (M5s).

Storari, sempre rispondendo alle domande dei colleghi bresciani, ha voluto puntualizzare che, terminata la verbalizzazione di Amara, era intenzionato ad effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati dei soggetti che avrebbero fatto parte dalla loggia e all’acquisizione dei loro tabulati telefonici. Ma nulla di ciò avvenne. Il motivo era perché i suoi capi volevano “salvaguardare” Amara da possibili indagini in quanto utile come teste nel processo Eni-Nigeria in corso all’epoca a Milano. Un processo che la Procura di Milano non poteva perdere e sul quale aveva investito ingenti risorse. L’esito, invece, era stato di assoluzione per tutti gli imputati.

A tal proposito Storari ha raccontato di un colloquio con l’aggiunto Fabio De Pasquale, titolare del fascicolo Eni-Nigeria il quale gli aveva detto: “Secondo me queste dichiarazioni devono rimanere nel cassetto due anni”. “Da queste sue affermazioni – ricorda il pm milanese – ho capito che non si scherzava”. “Ho una interlocuzione con il dottor Greco e gli dico se credesse alle dichiarazioni dell’avvocato siciliano”, continua Storari, ricevendo dal procuratore di Milano questa risposta: “Io credo ad Amara, ma in questo momento non voglio fare niente perchè non voglio inimicarmi il generale Zafarana (Giuseppe, comandante generale della guardia di finanza e, secondo Amara, appartenente alla loggia Ungheria, ndr) in quanto devo sistemare il colonnello Giordano (Vito, ndr) al nucleo valutario”. “Sono rimasto basito”, la replica ieri del pm milanese che si è più volte interrotto per la tensione accumulata. Paolo Comi

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 25 maggio 2022. 

«Non me li chiese il consigliere Csm Piercamillo Davigo: sono io che nell'aprile 2020, per far avvisare il Csm tramite lui e tutelarmi dal muro di gomma dei miei capi, diedi a Davigo su una chiavetta i verbali di Piero Amara su "loggia Ungheria", le trascrizioni e, non ricordo, ma se c'erano anche gli audio registrati dal suo collaboratore Calafiore»; e «dalla bocca di Davigo non uscì mai il nome di Sebastiano Ardita», consigliere Csm ora parte civile contro Davigo da cui si ritiene dossierato, «che a me all'epoca era sconosciuto». 

In quattro ore di deposizione al Tribunale di Brescia del pm Paolo Storari, sono le sole due circostanze rilevanti per il processo a Davigo per rivelazione di segreto, stralcio di quello in cui Storari in abbreviato è stato assolto mesi fa e attende ora l'appello.

Il grosso dell'udienza, dominata dall'interventismo del presidente Roberto Spanò, diventa l'ottavo interrogatorio (ma il primo in pubblico) in cui si assume «la responsabilità» di addebitare agli ex capi della Procura di avergli opposto appunto un «muro di gomma»; di non aver voluto indagare in fretta nei verbali di Amara il vero dal calunnioso; di averli utilizzati «a geometria variabile» per «non disturbare il processo Eni-Nigeria» del vice del procuratore Greco, De Pasquale. 

Riecco così, nel racconto del pm, la collega Pedio che lascia senza risposta le proposte di indagini di Storari, De Pasquale che a fine 2019 gli dice di tenere i verbali di Amara due anni in un cassetto, Greco che gli teorizza di non volere attriti con il comandante della Guardia di Finanza da cui attende la promozione di un ufficiale che gli sta a cuore: tutto, però, nello stesso tempo in cui i capi della Procura usano subito (e solo) due righe di un de-relato di seconda mano di Amara per cercare obliquamente di far fuori dal processo Eni-Nigeria il giudice Tremolada tacciato di sudditanza agli avvocati Eni (e il presidente Spanò annuisce, «mi fossi trovato in quella situazione, certo sarei stato costretto ad astenermi...»).

E quando Storari per tre volte (la prima sull'amicizia in frantumi con Pedio) si blocca sin quasi a sembrare sul punto di piangere («è pesante per me ricordare quello che ho passato»), trova la comprensione del presidente del Tribunale («si chiama "risonanza emotiva", fermiamoci pure un momento...»), rigido invece nel non ammettere decine di domande (ritenute non pertinenti) dell'avvocato Repici parte civile per Ardita.

Spanò si interessa se Storari avesse amici in Procura, «sì, a Luisa Baima sono legato, Alberto Nobili è un vecchio saggio, ma non mi confidai con loro o altri». Solo con Davigo, «perché era il solo che conoscessi con un ruolo istituzionale». Davigo poi parlò dei verbali a molti al Csm e pure all'onorevole Morra, chiede Spanò, «crede fosse in buona fede?». «Assolutamente sì. Seppero queste cose il pg di Cassazione, il vicepresidente Csm...: e nessuno, nè direttamente nè indirettamente, venne mai a dirmi "Paolo hai sbagliato"».

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 25 maggio 2022.   

Le indagini sulla loggia Ungheria non si sono fatte per due motivi: il procuratore di Milano Francesco Greco doveva raccomandare il colonnello della Guardia di Finanza Vito Giordano, suo stretto collaboratore, e Piero Amara, avvocato esterno dell'Eni originario di Augusta, non poteva essere accusato di calunnia. 

Lo ha dichiarato ieri davanti al tribunale di Brescia il pm milanese Paolo Storari, interrogato come testimone assistito connesso, nel processo contro Piercamillo Davigo, accusato di rivelazione del segreto di ufficio. Per il medesimo reato Storari nelle scorse settimane era stato assolto in abbreviato.

Il magistrato, rispondendo alle domande del pm Francesco Milanesi e del presidente del collegio Roberto Spanò, ha ricostruito quanto accadde alla Procura di Milano fra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020, una volta terminati gli interrogatori dell'avvocato siciliano il cui nome compare in tutti i più importanti processi in corso in Italia in questi mesi. 

Amara, in particolare, in quell'occasione aveva rivelato l'esistenza di una loggia para-massonica super segreta denominata per l'appunto Ungheria e composta da magistrati, imprenditori, professionisti, alti ufficiali delle forze dell'ordine, a iniziare dai comandanti generali dell'Arma dei carabinieri e della Guardia di Finanza, rispettivamente i generali Tullio Del Sette e Giuseppe Zafarana, il cui scopo sarebbe stato quello di condizionare le nomine dei capi degli uffici giudiziari al Consiglio superiore della magistratura e aggiustare i processi per gli adepti.

L'avvocato Amara era stato sentito nell'ambito delle indagini per corruzione nei confronti dei vertici del colosso petrolifero del cane a sei zampe e aveva fatto una quarantina di nomi, raccontando il funzionamento della loggia. 

La deposizione esplosiva era stata raccolta da Laura Pedio, vice del procuratore di Milano Francesco Greco, e dallo stesso Storari. Quest' ultimo, terminata la verbalizzazione, decise di rivolgersi al suo capo per fare il punto. 

«Io credo ad Amara, ma in questo momento non voglio fare niente perché non voglio inimicarmi Zaffarana in quanto devo sistemare il colonnello Giordano al Nucleo valutario», era stata la risposta di Greco, ora nominato assessore alla Legalità del Comune di Roma dal sindaco Roberto Gualtieri (Pd). Una risposta che lasciò «basito» Storari.

Più o meno nello stesso periodo ci fu un altro colloquio sul punto con l'aggiunto Fabio De Pasquale, titolare del fascicolo Eni-Nigeria, il quale invece gli aveva detto: «Secondo me queste dichiarazioni devono rimanere nel cassetto due anni». «Da queste due affermazioni ho capito che non si scherzava», ha proseguito Storari davanti ai colleghi bresciani.

Le dichiarazioni di Amara, continua Storari, «se fossero state sconfessate, avrebbero messo a rischio la credibilità del teste e potenzialmente minato l'impianto accusatorio del processo Eni-Nigeria: se tutto il procedimento è basato sulle calunnie, vuoi dirlo alle difese? A Brescia, dov' è in piedi un processo per calunnia? Vuoi dirlo ai giudici d'appello davanti ai quali si stava celebrando un processo in abbreviato? 

Nulla di tutto questo è stato fatto», ha quindi ricordato Storari. «Il processo Eni Nigeria ha aggiunto- era il più importante che c'era in quel momento. Il terzo dipartimento era il fiore all'occhiello della Procura e faceva i processi di serie A. Perdere in questo processo significava mettere in discussione tutto l'assetto organizzativo della Procura».

Visto che non si volevano fare indagini, Storari decise che bisognava informare dell'accaduto Davigo, all'epoca consigliere del Csm. Il magistrato ha precisato che il tramite fu la fidanzata di Davigo, la pm antimafia Alessandra Dolci. «Io metto i verbali word sulla chiavetta e li porta a casa sua», racconta Storari.

«Fammi leggere e ci rivediamo», rispose Davigo, aggiungendo poi che «i fatti che riferisce questo qui sono gravissimi». Ricevuti da Storari i verbali di Amara, Davigo avvisò David Ermini, vice presidente del Csm, Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, alcuni consiglieri del Csm, Nicola Morra, presidente ex grillino della Commissione parlamentare antimafia. Un comportamento che gli ha determinato l'accusa di rivelazione del segreto. 

Eni, ora Storari tira in ballo la compagna pm di Davigo. Luca Fazzo il 25 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il caso dei verbali passati all'ex membro del Csm tramite la procuratrice Dolci: lo scambio nell'abitazione dei due.

Era una delle poche figure di spicco della Procura di Milano rimasta fuori dalle secche del «caso Amara», la gestione scomposta dei verbali del grande calunniatore del caso Eni, prima insabbiati in un cassetto, poi passati sottobanco dal pm Paolo Storari a Piercamillo Davigo, allora membro del Consiglio superiore della magistratura. Alessandra Dolci, procuratore aggiunto e capo del pool antimafia, dagli scontri che hanno avvelenato la Procura milanese era rimasta saggiamente a distanza. Ma ieri Storari viene interrogato a Brescia nel processo a carico di Davigo, accusato di rivelazione di segreto d'ufficio per avere divulgato a sua volta i verbali di Amara. E Storari chiama in causa la Dolci, che all'epoca dei fatti era il suo superiore diretto nel pool antimafia.

Di fronte all'inerzia dei vertici della Procura, ovvero del procuratore Francesco Greco, Storari dice di avere pensato di rivolgersi a Davigo in quanto membro del Csm. E di averlo fatto però proprio attraverso la Dolci: «Io corro il rischio di essere coinvolto in questa inerzia, l'unica persona che conoscevo, non è un mio amico, è Davigo. Sono amico di Alessandra Dolci che è la sua compagna, l'unica persona che mi è venuta in mente e avesse un ruolo istituzionale è Davigo». Ed è a casa della coppia Dolci-Davigo che avviene il passaggio della pendrive con i verbali (in brutta copia) di Amara. «Gli consegno la chiavetta e mi dice fammi leggere i verbali e ci rivediamo. Dopo due giorni, ritorno a casa sua, siamo in pieno lockdown, mi dice i fatti che narra sono gravissimi"». Il problema è che, secondo la Procura di Brescia, con quella consegna si commette un reato. E facendo il nome della Dolci Storari costringe a chiedersi se la dottoressa sapesse quanto accadeva tra il suo compagno e il suo sostituto. Ed è facile immaginarsi l'imbarazzo della Dolci, visto che l'obiettivo dei due era Greco: di cui in quel momento era uno dei bracci destri, a capo di uno dei dipartimenti più delicati.

Storari per avere passato i verbali segreti è stato assolto, ma la Procura ha fatto ricorso, e quindi non è ancora ufficialmente salvo. In aula è apparso commosso, provato da una situazione «lunare», ma deciso a rivendicare la sua buona fede. Sulle circostanze che lo avevano spinto a contattare - attraverso la Dolci - Davigo, il pm è tornato a puntare il dito contro la gestione da parte di Greco del processo Eni. I verbali di Amara andavano tenuti nel cassetto, ha detto, per non compromettere l'esito del processo per corruzione ai manager del colosso di Stato, che proprio sulle frottole di Amara era in parte basato. Per avere sollecitato l'apertura formale di un fascicolo, Storari dice di essere stato addirittura minacciato di procedimento disciplinare. E torna a chiamare in causa il titolare del processo Eni, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale il quale gli avrebbe detto «secondo me queste dichiarazioni devono rimanere nel cassetto due anni». «Da queste sue affermazioni - chiosa Storari - ho capito che non si scherzava». Aggiunge, rispondendo alle domande del giudice Roberto Spanò: «Non è stato fatto niente da dicembre 2019 fino a gennaio 2021. Perché non si voleva disturbare il processo Eni-Nigeria», istruito dal dipartimento affari internazionali, guidato da De Pasquale, il «fiore all'occhiello» della Procura e che «faceva processi di serie A». «Era - spiega ancora Storari - il processo più importante a Milano, fatto dal dipartimento più discusso, una sconfitta significava mettere in dubbio l'organizzazione di Greco». La sconfitta, come è noto, è arrivata, con l'assoluzione di tutti gli imputati con formula piena: e la dissoluzione di quella che era stata la Procura di Mani Pulite si spiega proprio con la foga accusatoria riversata in quel processo.

(Intanto il nuovo procuratore, Marcello Viola, aspetta di sapere se De Pasquale e Storari, per i quali è stato chiesto il trasferimento d'ufficio, resteranno a Milano. Ma il Csm sembra avere per il momento altre priorità)

Parla il pm Storari: «Davigo non nominò mai Ardita con me». Entra nel vivo il processo a Brescia che vede imputato l’ex pm Mani Pulite per aver diffuso i verbali Amara. Simona Musco su Il Dubbio il 25 maggio 2022.

«Davigo non dimostrò alcun particolare interesse» nei confronti di Ardita, «entrambe le volte che ci siamo visti non ha mai fatto il suo nome». È uno dei passaggi più importanti della deposizione del pm di Milano Paolo Storari al processo di Brescia che vede Piercamillo Davigo imputato per aver diffuso i verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara sulla loggia Ungheria.

Un lungo esame quello di Storari, che si commuove più volte descrivendo il clima – a suo dire ostile – che ha caratterizzato gli ultimi due anni in procura a Milano, dove per lungo tempo i vertici dell’ufficio non avrebbero voluto approfondire le dichiarazioni sulla loggia. «Ricordare quello che ho passato è pesante», dice, parlando di un vero e proprio «muro di gomma» che avrebbe spinto Storari – assolto in abbreviato (ma la procura ha fatto appello) dalla stessa accusa di Davigo – a rivolgersi a Davigo, per «autotutelarsi», temendo che il ritardo nelle iscrizioni dei primi indagati potesse, un giorno, essere imputato a lui, coassegnatario, assieme all’aggiunta Laura Pedio, del fascicolo originale, quello sul “falso complotto Eni”.

Il magistrato ripercorre tutte le tappe che hanno portato alla diffusione dei verbali, che secondo la tesi dell’accusa sarebbero serviti anche a screditare la figura di Sebastiano Ardita, consigliere del Csm (inserito da Amara tra gli affiliati alla loggia) ed ex amico di Davigo, con il quale ha fondato la corrente Autonomia&Indipendenza. Verbali pesanti, al punto che Storari conta di fare in fretta le indagini per trovare riscontri o, al limite, iscrivere Amara sul registro degli indagati per calunnia. Così, a dicembre 2019, prepara due deleghe, che invia a Pedio via mail, ma senza ottenere risposta. «Nessuno mi ha detto che non andava fatto – spiega -, ma nessuno ha firmato la delega. Ed io da solo non potevo fare nulla. La cosa non mi sconcertava, però ho iniziato a stupirmi».

Il 27 dicembre 2019, Storari incontra il procuratore Francesco Greco, al quale chiede un parere sulla credibilità di Amara. E la risposta lo lascia basito. «Greco mi disse: “Paolo, io ci credo, ma in questo momento non voglio fare niente, perché tra le persone chiamate da Amara nella loggia Ungheria c’è il generale Zafarana (Giuseppe, ndr), comandante generale della Guardia di Finanza, e non me lo voglio inimicare, perché voglio sistemare il colonnello Giordano (Vito, ndr) al nucleo di polizia valutaria”», nomina che poi effettivamente avviene. Come se non bastasse, «parlando con De Pasquale (Fabio, procuratore aggiunto e titolare del processo Eni-Nigeria, ndr), e colloquiando sulla necessità di fare indagini mi dice: secondo me queste dichiarazioni devono rimanere nel cassetto due anni».

Interlocuzioni di cui Storari non ha traccia via mail, ma da quel momento, data la stranezza degli eventi, decide prendere appunti su tutto ciò che accade attorno alla vicenda Amara. Le perplessità aumentano quando l’ex avvocato dichiara che «nel processo Eni-Nigeria i difensori di Eni, Nerio Diodà e Paola Severino (ex ministro della Giustizia, ndr), hanno avvicinato Marco Tremolada (presidente del collegio giudicante, ndr) ricevendo in qualche modo rassicurazione che il processo sarebbe andato bene», informazione che avrebbe ottenuto da un altro avvocato. «Queste due righe – spiega Storari – vengono portate da Greco e Pedio a Brescia, per cui un ex ministro della Giustizia e un presidente del collegio vengono immessi nel circuito giudiziario sulla base di nulla. Ed è l’unica parte delle dichiarazioni di Amara che non è stata tenuta nel cassetto».

La valutazione sulla credibilità di Amara, dunque, è «a geometria variabile»: su Ungheria non si muove nulla, ma diventa credibile se le dichiarazioni tornano utili al processo Eni-Nigeria (conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati).«Ho iniziato a farmi parecchie domande. Quindi ho pensato che dovessi informare il Csm – spiega Storari -. Scrissi al procuratore Greco, ma era tutto un “aspettiamo”. Non dissi che l’avrei fatto io, perché entrare in contrapposizione con il procuratore significava essere tirato fuori dal procedimento. E questo non lo potevo consentire, perché significava girare la testa dall’altra parte di fronte ad una situazione ingiusta». E così decide di rivolgersi a Davigo, «che non era mio amico», che chiama a inizio aprile spiegando sommariamente la situazione. «Mi disse che a lui il segreto non era opponibile. Così il giorno dopo misi i verbali word su una chiavetta e andai a casa sua – racconta -. Lui mi disse: lasciami leggere e ci rivediamo. Di lì a due giorni tornai da lui: mi disse che i fatti che Amara racconta sono gravissimi e che ci avrebbe pensato lui ad avvertire il comitato di presidenza del Csm. E mi consigliò, per tutelarmi, di cominciare a mettere tutto per iscritto».

Ma come si concilia, chiede il giudice Roberto Spanò, la modalità irrituale con l’esigenza di autotutelarsi? «Ora conosco la procedura, all’epoca no. La cosa che mi è sembrata più naturale» era consegnarli a Davigo in qualità di componente del Consiglio e «persona specchiatissima. Ho saltato un passaggio – aggiunge Storari -, ma non con una finalità divulgativa» e per questo «trovo lunare quello che sta succedendo». Davigo, spiega, «mi era parso assolutamente in buona fede. E anche oggi, col senno di poi, lo ritengo in buona fede». A fine aprile Storari prepara una scheda per l’iscrizione dei primi otto indagati e la invia a Pedio, che va a lamentarsi con Greco per non essere stata consultata. Così «sono stato minacciato di procedimento disciplinare» da parte degli allora vertici dell’ufficio, spiega il pm. Dopo qualche giorno Davigo comunica a Storari di aver parlato con il procuratore generale Giovanni Salvi e il vicepresidente del Csm David Ermini. «Dal mio punto di vista, a quel punto, ero a posto».

E il 12 maggio, in maniera «estemporanea», Greco decide di sua iniziativa di iscrivere Amara, l’avvocato Giuseppe Calafiore e il loro socio Sandro Ferraro sul registro degli indagati. «Sono rimasto stupito – dice il pm milanese -, favorevolmente, perché si iniziava a far qualcosa. Non capivo. Oggi capisco: Salvi chiamò Greco e gli chiese cosa stesse facendo». Tutto rimane però fermo fino a settembre, quando si decide che la competenza dell’indagine spetta a Perugia, dove il fascicolo viene però inviato fisicamente solo quattro mesi dopo, a gennaio 2021. «In quel fascicolo non troverete nulla da dicembre 2019 a gennaio 2021. Allora la mia domanda è: perché è successo? – si chiede Storari – È una cosa normale? La risposta è no. Qual è la spiegazione? Non si voleva disturbare il processo Eni-Nigeria».

Ma che interesse c’era? «Era il processo più importante in quel momento a Milano, De Pasquale era il responsabile di questo dipartimento che non tutti vedevano di buon occhio e una sconfitta a dibattimento voleva dire sconfessare la scelta organizzativa di Greco. Il Terzo dipartimento faceva i processi di serie A e questo dava fastidio ai colleghi, che erano ammazzati di fascicoli. E si arrabbiavano, giustamente». Proprio per questo la solidarietà manifestata dai colleghi a Storari rappresentava non solo un gesto di vicinanza, ma anche «un attacco al centro organizzativo».

Inchiesta Eni-Congo, De Pasquale: «Storari fece scadere le indagini su Descalzi». Poi la rettifica. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 23 maggio 2022.  

Da una banale causa di diffamazione spunta prima l’interrogatorio in cui il procuratore aggiunto mise a verbale a Brescia la doglianza, e poi la precisazione in cui ha fatto invece marcia indietro.

Aver lasciato scadere il termine delle indagini e averle così messe a rischio: poche accuse come queste, oltretutto con l’allusione che ciò avesse oggettivamente beneficiato un indagato «eccellente» come il numero 1 di Eni Claudio Descalzi nel fascicolo sul suo possibile conflitto di interessi con la moglie nel procedimento Eni-Congo, sarebbero sanguinose per un pm. Ma ora, dall’indiretto oblò di una banale causa di diffamazione, intentata dal pm milanese Paolo Storari al quotidiano che il 18 gennaio 2022 lo aveva appunto tacciato di «non aver chiesto la proroga delle indagini di cui erano scaduti i termini» e così di aver messo «a rischio questa parte dell’inchiesta», affiorano due fatti inediti. Il primo è che in realtà l’origine della notizia errata non è stata un eventuale abbaglio dei giornalisti, ma una esplicita affermazione proprio dell’allora capo di Storari nel pool affari internazionali, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che la aveva messa a verbale in un interrogatorio alla Procura di Brescia l’1 dicembre 2021. Il secondo è però che De Pasquale, due mesi dopo aver accusato Storari davanti ai pm di Brescia, il 10 febbraio 2022 ha innestato la retromarcia, precipitandosi a rettificare il proprio verbale e spiegare di essersi sbagliato.

La prima versione

Storari a inizio 2022 querela il giornale perché in realtà, al momento in cui l’8 aprile 2021 aveva restituito a De Pasquale tutti i fascicoli (e quindi anche quello su Eni-Congo) una volta esplosa la vicenda dei verbali dell’avvocato esterno Eni Piero Amara informalmente consegnati in formato Word proprio da Storari all’allora membro del Csm Piercamillo Davigo, il termine non era affatto scaduto e per le indagini su Descalzi in Eni-Congo c’era tempo ancora due mesi e mezzo sino al 21 giugno 2021. A fine 2021 De Pasquale riceve dalla Procura di Brescia un «avviso di conclusione delle indagini» nel quale gli si addebita di non aver depositato ai giudici e alle difese del processo Eni-Nigeria alcuni atti segnalati da Storari al vertice della Procura come potenzialmente indici dell’inattendibilità dell’imputato-teste d’accusa Vincenzo Armanna, ed è in questo contesto che la prima versione di De Pasquale l’1 dicembre 2021 su Storari in Eni-Congo è: «Io ho messo in mano a Storari l’indagine sul Congo in cui c’era la questione dei possibili illeciti a carico della moglie di Descalzi. Notizia di reato che stranamente… che purtroppo lui ha dimenticato di… si è dimenticato di chiedere la proroga… Lui che chiedeva la proroga su tutto, non ho capito perché… al momento in cui ha restituito il fascicolo per questa notizia di reato non c’è proroga, è monca dal punto di vista delle indagini».

La seconda versione

Il 18 gennaio 2022 esce l’articolo. Il 10 febbraio 2022 ecco però arrivare a Brescia una precisazione di De Pasquale che rettifica e cristallizza una seconda versione: «Nessuna proroga risulta essere stata chiesta dopo il 19 dicembre 2020 e i termini dell’indagine sono definitivamente scaduti ma, dopo aver consultato in modo più approfondito il fascicolo, devo precisare che risulta restituito da Storari a me l’8 aprile 2021 e i termini delle indagini sarebbero scaduti il successivo 21 giugno 2021, cosicché sarebbe stato ancora possibile chiedere la proroga». La retromarcia è a 360 gradi, anche De Pasquale mantiene la doglianza che Storari «non fece alcuna espressa menzione circa la prossima scadenza del termine delle indagini» in un fascicolo «composto da ben 11 faldoni e 2 scatoloni di documenti». Con il cerino in mano, intanto, rischia ora di restare il giornalista, destinatario allo stato di un «avviso di conclusione delle indagini» per ipotesi di diffamazione anche se, nei giorni successivi all’articolo, aveva pubblicato di sua iniziativa una rettifica «a seguito di verifiche che si sono rese possibili solo qualche giorno fa», con annesse «scuse ai lettori e all’interessato». 

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 17 maggio 2022.

Il faccendiere Piero Amara, la gola profonda amata da numerose Procure italiane, è pronto a patteggiare reati anche a Potenza con il consenso dei pm. In questo caso si tratta di corruzione, rivelazione di segreto, calunnia, falso ideologico e materiale.

Cinque contestazioni che vanno ad assommarsi ad altri 42 reati già patteggiati che l'avvocato ha totalizzato in anni di onorata carriera. 

Ma in tutto, per ora, ha concordato una pena complessiva di soli 4 anni e 8 mesi. Più o meno un mese per ciascun reato. A novembre l'avvocato Salvino Mondello ha chiesto di definire il procedimento lucano con l'ennesima istanza di patteggiamento a 3 mesi da applicarsi in continuazione con la sentenza di condanna precedentemente riportata a Messina.

La Procura ha dato il consenso. «La nostra richiesta non è ancora stata accolta.

Stiamo aspettando la fissazione dell'udienza che, probabilmente, si terrà nel mese di giugno» ci spiega l'avvocato Mondello. Amara sta attendendo la decisione in stato semilibertà, che gli è stata concessa dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia. 

Per il noto avvocato siracusano, che ha denunciato l'esistenza della fantomatica loggia Ungheria mettendo a soqquadro gli uffici giudiziari di mezza Italia, nel 2009 ha pattuito a Catania 11 mesi di reclusione per rivelazione di segreti di ufficio e accesso abusivo a sistema informatico.

Nel 2019 dal Tribunale di Roma ha incassato 2 anni, 6 mesi e 10 giorni di prigione per 20 contestazioni (una di corruzione in atti giudiziari e le altre per frode fiscale). A Messina, nel 2020, ha patteggiato 1 anno e 2 mesi (in continuazione con Roma) per altri 19 episodi delittuosi (corruzione in atti giudiziari, associazione per delinquere, falso ideologico, minaccia a pubblico ufficiale, induzione indebita a dare utilità e altro).

Infine la Corte di Assise di Roma il 16 novembre 2020 gli ha inflitto un mese di reclusione per favoreggiamento. Arriva ora la richiesta per i fatti contestati nella conclusione delle indagini del 22 ottobre 2021 a Potenza. Nella richiesta di rinvio a giudizio la posizione di Amara è stata stralciata proprio per la richiesta di patteggiamento. L'avvocato siracusano nell'inchiesta lucana ha tre capi d'accusa. In uno di questi gli sono contestati, in concorso con l'ex procuratore di Trani Carlo Maria Capristo e l'ex poliziotto Filippo Paradiso, il falso

ideologico, il falso materiale e la calunnia.

Secondo l'accusa, Amara sarebbe stato «istigatore e beneficiario» di due decreti di iscrizione sul registro degli esposti anonimi della Procura di Trani «ideologicamente falsi» su un finto complotto ai danni dell'Eni, grazie ai quali si sarebbe accreditato come soggetto in grado di condizionare i procedimenti.

La calunnia, invece, riguarda le accuse contenute negli esposti, dove «veniva prospettata la fantasiosa esistenza di un preteso progetto criminoso che mirava a destabilizzare i vertici» dell'azienda del Cane a sei zampe. 

Infatti Amara, «nella piena consapevolezza, non solo dell'innocenza degli accusati, ma dell'assoluta fantasiosità delle notizie di reato contenute nei due esposti», avrebbe accusato «Roberto De Santis e Gabriele Volpi, funzionari dello Stato nigeriano, Pietro Varone, esponenti di vertice di Saipem e di Telecom, che si avvaleva anche della società siracusana Oikothen Scarl, della nota imprenditrice Emma Marcegaglia e del noto professionista Paola Severino (già ministro della Giustizia) di un traffico di rifiuti. In un ulteriore capo d'imputazione, per rivelazione e utilizzazione dei segreti d'ufficio, la Procura contesta ad Amara di aver ottenuto notizie riservate dal pm Antonio Savasta, che era delegato a trattare le indagini sugli esposti. 

In particolare il legale sotto inchiesta avrebbe saputo in anticipo quando gli investigatori della Guardia di finanza si sarebbero presentati negli uffici dell'Eni per acquisire documentazione. 

Ma nel capo d'imputazione principale Amara, secondo la Procura di Potenza, è indicato come «soggetto attivo della corruzione in atti giudiziari». Infatti l'ex procuratore Capristo, stando alle accuse, gli avrebbe «venduto la propria funzione giudiziaria» in cambio del «costante interessamento per gli sviluppi della sua carriera». 

Nei confronti di Amara sono pendenti ulteriori procedimenti sempre per calunnia anche a Milano. La Procura meneghina lo accusa di averla commessa ai danni dell'avvocato Luca Santa Maria e dei dirigenti Eni Claudio Granata e Claudio Descalzi, «pur sapendoli innocenti».

A ciò si deve aggiungere la recente richiesta di rinvio a giudizio sempre della Procura di Milano per la calunnia ai danni del giudice Marco Mancinetti nell'ambito delle dichiarazioni sulla cosiddetta Loggia Ungheria. 

Nel procedimento lucano, oltre ai verbali già raccontati dalla Verità, sono state depositate altre dichiarazioni rese da Amara il 29 giugno, il 7 luglio e il 18 ottobre 2021. l 7 luglio l'avvocato riprende anche a Potenza il discorso sulla transazione tra la Blue power di Francesco Nettis, ex socio della famiglia D'Alema nel settore vitivinicolo, e l'Eni di cui aveva già parlato a Milano il 24 novembre 2019. Secondo il faccendiere D'Alema nel 2017 avrebbe consigliato all'Eni di assecondare Nettis e di concedergli il 20-30 per cento di quanto chiedeva («intorno ai 130 milioni di euro») «nell'interesse nazionale».

E a chi premeva questa soluzione? Secondo Amara, il suo referente Antonio Vella, all'epoca numero due dell'azienda, successivamente licenziato e accusato dalla Procura di far parte di un'associazione a delinquere finalizzata alla calunnia e al depistaggio, gli avrebbe detto che «la cosa interessava "a quello"», cioè a Descalzi. 

A Potenza Amara cambia un po' le carte in tavola e fa sapere che «comunque non è contro D'Alema questo discorso» visto che l'ex premier, «alla fine opera come privato in questa operazione». Il faccendiere sostiene di andare in brodo di giuggiole quando parla di Baffino: «È una persona che io stimo in modo straordinario». 

Anche in questo verbale racconta che cosa gli avrebbe detto l'ex premier nel presunto incontro romano per gestire la transazione: «A me non me ne frega nulla di questa operazione, nel modo più assoluto, però se chiama l'Eni io metto pace e così via, alla fine della fiera secondo me convinco l'imprenditore a chiudere anche a settanta milioni, però lei deve intervenire su Vella».

La versione di Amara è che l'ex numero due, oggi indagato per associazione per delinquere, sarebbe stato l'unico ostacolo all'accordo, invece, a suo dire, caldeggiato da Descalzi. Il verbale è costruito per far passare come baluardo di legalità l'uomo grazie al quale Amara faceva affari con l'Eni, cioè Vella: «Mi dice: "Io al più posso non chiudere la transazione e discutiamo, ma prima mi deve arrivare l'input di Descalzi». 

La prova di quello che dice sarebbero le registrazioni fatte di nascosto durante alcune conversazioni con Alessandro Casali, pierre e «intermediario» con D'Alema. Amara, il 7 luglio, di fronte al procuratore Francesco Curcio, sostiene di essere pronto a consegnargli quei file, una primizia che non aveva mai dato a nessuno. Peccato che una di queste registrazioni, la più significativa, fosse già stata depositata presso la Procura di Milano e da lì fosse illegalmente fuoriuscita per giungere nell'ufficio di Pier Camillo Davigo al Csm e terminare in un fascicolo giudiziario romano per rivelazione di segreto.

Caso Amara, procuratrice aggiunta di Milano Pedio archiviata a Brescia. Il giudice: “Da lei nessuna inerzia nelle indagini”. Andrea Siravo su La Stampa il 5 settembre 2022.

Dopo l’allora procuratore Francesco Greco, anche la procuratrice aggiunta di Milano Laura Pedio incassa l’archiviazione dall’accusa di omissione di atti d’ufficio. Era stata indagata da Brescia da un lato per una presunta «inerzia» investigativa nel caso dei verbali sull’esistenza della fantomatica Loggia Ungheria, di cui aveva parlato l’avvocato Piero Amara, interrogato tra dicembre 2019 e gennaio 2020. Dall’altro la gestione dell'ex manager della compagnia petrolifera italiana Vincenzo Armanna. In particolare erano state ipotizzate un mancato aggiornamento della sua iscrizione per calunnia e una "omessa valutazione" di una richiesta di misura cautelare proposta in 'bozza' dal pm Storari nei confronti di colui che è stato indicato come 'grande accusatore' nel processo milanese Eni Nigeria. L’inchiesta del procuratore di Brescia Francesco Prete e del pm Donato Greco, nata in seguito alle denunce del pm Paolo Storari, il collega co-assegnatario del fascicolo sul cosiddetto 'falso complotto' Eni, si era chiusa con la richiesta di archiviazione. Istanza accolta nei giorni scorsi dal gip Francesca Grassani che ha scagionato dall’accusa Pedio. Per il giudice le divulgazioni dell’ex legale esterno di Eni sull’associazione segreta non erano tali da configurare una situazione di «urgenza», tale da «giustificare il compimento dell’atto doveroso», ossia l’iscrizione nel registro degli indagati. Inoltre, basandosi su una e-mail inviata da Storari il 24 aprile 2020 ha ritenuto che la «sollecitazione per una rapida iscrizione è stata raccolta» dall’aggiunta Pedio dal momento che è avvenuta il 12 maggio 2020, ovvero «poco più di quindici giorni dopo». Riguardo ad Armanna, il gip bresciano è arrivata ad analoghe conclusioni in quanto le dichiarazioni da cui sarebbe emersa la calunnia risalgono al 2019, mentre la «minuta» della richiesta di arresto proposta da Storari è del marzo 2021. «Come sempre dichiarato e documentato dalla dottoressa Pedio, è stata esclusa qualsivoglia omissione da parte del magistrato ed è stata ritenuta del tutto insussistente qualsiasi ipotesi di reato», hanno commentato in una nota gli avvocati Luca Jacopo Lauri e Alessandro Viglione.

Storari assolto in primo grado? Tutto da rifare. Passò le carte a Davigo, per lui nuovo processo. La procura di Brescia accelera i tempi: il collega ha infranto il segreto d'ufficio. Luca Fazzo il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.

Tempi stretti, perché il bubbone scoppiato all'inizio di quest'anno all'interno della Procura della Repubblica di Milano non può essere lasciato aperto troppo a lungo senza che torti e ragioni siano chiariti. Così la Corte d'appello di Brescia ha fissato con procedura di urgenza il processo d'appello a uno dei protagonisti del caso che ha squassato l'ex tempio di Mani Pulite: il pubblico ministero Paolo Storari, che dopo essere entrato in rotta di collisione con i vertici dell'ufficio - il capo Francesco Greco e il suo vice Fabio De Pasquale - sulla gestione dei verbali del pentito Piero Amara sulla «loggia Ungheria» decise di consegnarne per vie brevi una copia informale a Piercamillo Davigo, allora membro del Consiglio superiore della magistratura.

In primo grado Storari, dopo avere chiesto di essere giudicato con rito abbreviato, è stato assolto per mancanza dell'elemento psicologico del reato: in sostanza, era convinto di agire all'interno delle norme, essendo Davigo - come componente del Csm - abilitato anche a ricevere atti coperti da segreto. Ma la Procura della Repubblica di Brescia ha fatto ricorso contro l'assoluzione del collega. E la Corte d'appello, benché gravata da numerosi processi, ha stabilito una corsia preferenziale: il processo a Storari è stato fissato per il prossimo 4 ottobre, poche settimane dopo la fine della pausa feriale dell’attività.

Inizialmente era sembrato che la Procura bresciana - che nel corso del primo processo aveva chiesto la condanna di Storari a sei mesi di carcere per rivelazione di segreto d'ufficio - non intendesse impugnare l'assoluzione del pm milanese. Invece, dopo avere letto e riletto le complesse motivazioni della assoluzione firmata dal giudice Federico Brugnara, il pm bresciano Donato Greco (solo con la sua firma, e non con quella del suo capo Francesco Prete) ha deciso di ricorrere. Storari è colpevole, dice il ricorso, lui stesso ha ammesso di avere consegnato i verbali a Davigo e la sua ignoranza delle norme non può essere invocata come scusante: specie trattandosi di un magistrato. Da parte sua il difensore di Storari, Paolo Della Sala, ha depositato una memoria difendendo la sentenza di assoluzione e segnalando che semmai la motivazione poteva essere ancora più ampia, «il fatto non sussiste».

Resta il fatto che Storari torna sotto tiro, e la sua sorte torna ad incrociarsi con quella di Davigo, che invece ha scelto la strada del processo ordinario, con udienze pubbliche che hanno già riservato squarci illuminanti sulla vita interna del Csm: come la testimonianza di David Ermini, che del Csm è vicepresidente, e che ha ammesso di avere ricevuto i verbali a sua volta da Davigo ma di averli distrutti senza leggerli, salvo precipitarsi a raccontare tutto al presidente della Repubblica.

Nel frattempo altri tasselli si sono aggiunti al quadro già sufficientemente complesso. La Procura bresciana ha chiesto il processo anche a carico di Fabio De Pasquale, il procuratore aggiunto che Storari ha sempre indicato come il principale responsabile dell'insabbiamento dei verbali di Amara sulla loggia Ungheria. Che nel frattempo sono approdati a Perugia, dove la Procura ha chiesto l'archiviazione di tutta la faccenda: non perché ci sia la certezza che la loggia non esisteva, ma perché le dichiarazioni di Amara non hanno trovato conferme.

Caso Amara, il pm Storari citato in giudizio a Brescia. Il presidente della Corte d’appello di Brescia, prima Sezione penale, ha citato il pm di Milano Paolo Storari in qualità di «imputato» per il reato di rivelazione di segreto d’ufficio nel caso Amara. Il Dubbio il 21 agosto 2022.

Il presidente della Corte d’appello di Brescia, prima Sezione penale, ha citato il pm di Milano Paolo Storari in qualità di «imputato» per il reato di rivelazione di segreto d’ufficio nel caso Amara. Storari, difeso dall’avvocato Paolo Della Casa, era stato assolto in primo grado perché il fatto «non costituisce reato» dall’accusa mossagli per aver consegnato i verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo.

Storari aveva scelto di rivolgersi all’ex pm di Mani Pulite per «autotutelarsi», alla luce della presunta inerzia dei vertici della procura di Milano ad indagare sulla cosiddetta “loggia Ungheria”, svelata da Amara in quei verbali. La cui consegna, aveva chiarito il magistrato, era avvenuta dopo le rassicurazioni di Davigo sul fatto che il segreto d’ufficio non fosse opponibile ai membri del Csm.

Successivamente, l’1 aprile scorso, la Procura di Brescia si era appellata «nel ritenere legittima la procedura di rivelazione del segreto d’ufficio commessa in favore di Davigo». La notifica della citazione di Storari è arrivata alle parti lo scorso 16 agosto. Parte civile, il magistrato del Csm Sebastiano Ardita, assistito dall’avvocato Fabio Repici. L’udienza si svolgerà il 4 ottobre alle 11:30.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 4 agosto 2022.

Non era e non può restare di competenza della Procura di Milano, ma doveva e ora deve essere trasferita alla Procura di Brescia, l'inchiesta che da 5 anni Milano va conducendo sui depistaggi attribuiti a dirigenti Eni e finalizzati (tramite i controversi Piero Amara e Vincenzo Armanna) a inquinare il processo per tangenti Eni-Nigeria. 

Lo ha deciso la Procura Generale della Corte di Cassazione, che ha accolto l'istanza di Amara e dell'ex numero due di Eni Antonio Vella, giovatisi di un «baco» da sempre irrisolto nello schema dei pm.

Le indagini avviate nel 2017 erano infatti state concluse il 2 dicembre 2021 dal procuratore aggiunto Laura Pedio (con i subentrati pm Stefano Civardi e Monia Di Marco) con la prospettiva di una (tuttora attesa) richiesta di archiviare l'ad Eni Claudio Descalzi, e invece di processare 17 indagati tra cui appunto Vella, Amara, Armanna e l'ex capo affari legali Eni Massimo Mantovani: tutti per aver formato una associazione a delinquere finalizzata a molteplici reati tra i quali danneggiare i processi istruiti dal pm Fabio De Pasquale cercando di crearne «cloni» attraverso false denunce di «complotti anti-Descalzi» indirizzate a pm complici di Amara a Trani e Siracusa; 

diffamare e far estromettere i consiglieri indipendenti Eni Luigi Zingales e Karina Litvack; tacciare il primo avvocato di Armanna, Luca Santa Maria, di infedele patrocinio in combutta con De Pasquale.

E qui la Procura di Milano ha sempre ondeggiato: da un lato veicolando in pubblico l'idea di un complotto Eni mirato anche contro De Pasquale (così ad esempio il 24 marzo 2021 un comunicato dell'allora procuratore Francesco Greco dopo l'assoluzione Eni-Nigeria); ma dall'altro lato non traendone allora la conseguenza procedurale di inviare il procedimento a Brescia, Procura competente su fatti dei quali siano parti offese pm milanesi. 

Quando un anno fa l'avvocato Santamaria (in attesa da anni dell'esito della propria querela ad Armanna) chiede alla Procura Generale milanese di togliere il fascicolo alla Procura della Repubblica, per scongiurare l'avocazione l'11 giugno 2021 la pm Pedio stralcia e manda al giudice solo questa micro-richiesta di processare Amara, Armanna e Mantovani per calunnia di Santa Maria, nell'imputazione prima scrivendo e poi invece togliendo l'indicazione esplicita anche del pm De Pasquale quale parte offesa.

Qualifica che peró il giudice De Marchi ravvisa comunque palese nell'imputazione, sicchè il 14 aprile 2022 la trasferisce per competenza a Brescia, che peraltro già il 25 maggio ne chiede l'archiviazione, a cui Santa Maria si opporrà il prossimo 3 novembre. 

Ed è sull'effetto attrattivo di questa connessione che hanno ora fatto leva con successo i difensori Vinicio Nardo e Salvino Mondello, rimarcando al pg di Cassazione Vincenzo Senatore che, per i pm milanesi, Amara e Vella si sarebbero associati a delinquere per compiere, tra tanti reati-fine, anche proprio quella calunnia di Santamaria già giudicata di competenza bresciana in funzione della parte offesa De Pasquale.

Ora i pm milanesi del neoprocuratore Marcello Viola resterebbero competenti solo sulle richieste di archiviazione di quegli indagati (compreso Descalzi) che da dicembre 2021 si erano infine orientati a ritenere estranei al depistaggio Eni e anzi calunniati da Amara e Armanna: scenario già da molto prima propugnato dall'altro pm Paolo Storari ai vertici della Procura in forza di prove invece ignorate a lungo dai colleghi, alcuni dei quali perciò indagati a Brescia per omissione d'atti d'ufficio. 

(ANSA il 19 luglio 2022) - I motivi d'appello presentati dalla Procura di Milano per chiedere di ribaltare l'assoluzione decisa dal tribunale nei confronti di tutti gli imputati al processo sul caso Eni/Shell-Nigeria "sono incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità". 

Lo ha spiegato davanti alla Corte d'appello milanese il pg Celestina Gravina nel motivare, basandosi sulla giurisprudenza, la sua scelta di rinunciare all'impugnazione proposta dall'aggiunto Fabio De Pasquale. 

Sulla sua scelta ha pesato anche la sentenza assolutoria passata in giudicato di Obi Emeka e Gianluca Di Nardo, ritenuti dal pm i mediatori della presunta tangente da lui ipotizzata. "Il pm continua a sostenere le sue posizioni come se nulla fosse accaduto - ha proseguito il pg -.Come se non ci fosse un'associazione passata in giudicato. E questa è una violazione delle regole di giudizio".

(ANSA il 19 luglio 2022) - La seconda Corte d'Appello di Milano, presieduta da Enrico Manzi, ha preso atto della rinuncia dei motivi di appello da parta del pg Celestina Gravina che ha chiesto anche "la declaratoria di passaggio in giudicato" della sentenza di assoluzione di primo grado di tutti i 15 imputati al processo sul caso Eni/Shell Nigeria. 

Il procedimento va avanti solo per le questioni civili. Il pg, nel chiudere il suo intervento, ha affermato che "questo processo deve finire perché non ha fondamento" aggiungendo che gli imputati "che per 7 anni sono stati sotto procedimento hanno il diritto di vedere cessare questa situazione che è contra legem rispetto all'economia processuale e alle regole del giusto processo".

Monica Serra per “la Stampa” il 20 luglio 2022.

Non si è limitata a chiedere l'assoluzione degli imputati nel processo Eni-Nigeria, a partire dall'ad Claudio Descalzi. Con una mossa che almeno a Milano non ha precedenti, la sostituta procuratrice generale Celestina Gravina ha rinunciato ai motivi d'appello, rendendo definitive tutte le assoluzioni di primo grado. 

Le dure parole che ha pronunciato sono suonate in aula come un "atto di accusa" nei confronti del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che non ha mai chiamato per nome. E che - proprio per la gestione delle prove in questo processo al centro del duro scontro che si è consumato nella procura di Milano - è imputato a Brescia per omissione di atti d'ufficio.

Gravina ha definito i motivi d'appello promossi dall'aggiunto «incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità», che non tengono conto dell'«assoluzione definitiva» dei presunti intermediari della maxi tangente al centro del processo: Obi Emeka e Gianluca Di Nardo, già giudicati perché avevano scelto il rito abbreviato. 

«E questa - per la sostituta pg - è una violazione delle regole di giudizio». Ha parlato di «vicende buttate lì come un'insinuazione», di «esilità e assoluta insignificanza degli elementi» usati dalla procura per sostenere l'accusa di corruzione internazionale, di «colonialismo della morale» da parte del pm per rispondere all'accusa di «colonialismo predatorio» che De Pasquale muoveva a Eni e Shell nel ricorso.

«Questo processo deve finire oggi perché non ha fondamento - ha detto Gravina - Non c'è prova di un accordo corruttivo, né prova del pagamento di utilità corruttive». E, dopo aver «patito sette anni», gli imputati «hanno diritto a vedere cessare immediatamente questa situazione contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo».

La sostituta pg ha censurato la richiesta di confisca di 1, 092 miliardo di dollari avanzata da De Pasquale, pari alla presunta maxi tangente che, nella ricostruzione accusatoria, Eni e Shell avrebbero pagato per aggiudicarsi la concessione da parte del governo nigeriano dei diritti di esplorazione sul blocco Opl245. Ha aggiunto Gravina che invece Eni e Shell avrebbero fatto «la ricchezza di quel Paese» a partire dagli anni Cinquanta «anche con tributi di sangue».

Per il gruppo è stata così sancita «la fine della immotivata e sconcertante vicenda giudiziaria penale». La requisitoria della sostituta pg - che il difensore di Descalzi, Paola Severino, ha definito «penetrante, argomentata, anche pacata che però ha frantumato completamente l'accusa» - ha messo una pietra tombale sul processo. 

Che andrà avanti solo per il ricorso della parte civile. L'avvocato Lucio Lucia, che rappresenta la Repubblica nigeriana, ha chiesto alla corte di valutare i danni in separata sede e una provvisionale pari alla somma versata per i diritti di esplorazione del giacimento. Decisione attesa il 30 settembre.

La resa dei magistrati: "Processo Eni-Nigeria senza fondamento". Cristina Bassi il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.

La Procura generale non fa appello contro l'assoluzione dei vertici. E spara sui pm

Il colpo di scena arriva in apertura di udienza. La Procura generale di Milano rinuncia ai motivi di appello nel caso Eni-Nigeria. Nessun processo di secondo grado dunque, diventano definitive le assoluzioni «perché il fatto non sussiste» dei 15 imputati, tra cui le società Eni e Shell, l'attuale ad della compagnia petrolifera Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni decise dal Tribunale nel marzo dello scorso anno. Il processo va avanti solo per gli aspetti civili, dal momento che anche la Nigeria aveva impugnato le assoluzioni come parte civile e chiesto un risarcimento.

Quello del sostituto procuratore Celestina Gravina è un atto clamoroso e con pochi (se non nulli) precedenti. Non si è limitata infatti a chiedere la conferma delle assoluzioni di primo grado, su cui la Corte si sarebbe poi dovuta esprimere come alla fine di ogni dibattimento. Ha invece cassato l'impugnazione presentata dalla Procura, nella persona del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, della prima sentenza e ha evitato la celebrazione stessa del nuovo processo. Qui la Seconda sezione della Corte d'appello, presieduta dal giudice Enrico Manzi, non ha potuto che prendere atto e non è possibile il ricorso in Cassazione. Gravina ha inoltre chiesto ai giudici «la declaratoria di passaggio in giudicato» del verdetto di assoluzione. Nel motivare la propria decisione il sostituto pg sconfessa radicalmente il lavoro dei «colleghi» del quarto piano che in questo procedimento basato su una presunta corruzione internazionale avevano investito enormi energie e risorse. «Non c'è prova di nessun fatto rilevante in questo processo - è la conclusione della requisitoria di ieri - Gli imputati che hanno patito un processo lungo sette anni hanno diritto di vedere cessare immediatamente questa situazione che in questo momento è contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo, di economia processuale, di durata ragionevole. Il processo non è la sperimentazione della dialettica delle parti». Gravina ha spiegato di ritenere «di dover esercitare la sua funzione di osservanza della legge», quindi di rispettare i dettami della Suprema corte e tener ben presente che esiste una sentenza di assoluzione passata in giudicato sui due presunti intermediari della maxi tangente nigeriana. «Mancano le prove in questo processo e i binari di legalità del processo segnato dalla Cassazione sono corrispondenti al diritto delle persone in questo Paese a non subire processi penali quando non sussistano i presupposti di legge. Questo processo deve finire oggi perché non ha fondamento».

Tutto era nato dall'accusa a Eni di aver pagato una mazzetta da 1,092 miliardi di dollari per aggiudicarsi nel 2011 la concessione da parte del governo della Nigeria dei diritti di sfruttamento del giacimento Opl245. Ha argomentato il sostituto pg: i motivi d'appello della Procura «sono incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità». Pesa l'assoluzione, chiesta e ottenuta dalla stessa Gravina e poi passata in giudicato, dei due presunti mediatori (processati in abbreviato) della corruzione ipotizzata. «Ma il pm continua a sostenere le sue posizioni come se nulla fosse accaduto. E questa è una violazione delle regole di giudizio». Ancora ha parlato di «vicende buttate lì come una insinuazione», di «esilità e assoluta insignificanza degli elementi» portati dalla Procura e di «colonialismo della morale» del «pm». Non c'è, ha sostenuto, «prova dell'accordo per una corruzione, non c'è prova del pagamento di un'utilità corruttiva». C'è da parte del pm (mai citato per nome) un «atteggiamento fondamentalmente neocolonialista, altro che il colonialismo predatorio di cui sono accusate le due compagnie petrolifere che hanno fatto la ricchezza della Nigeria». Così Paola Severino, avvocato di Descalzi: «Una requisitoria penetrante, argomentata, sintetica, pacata che però ha frantumato completamente l'accusa».

Crolla il processo Eni-Nigeria. Il pg: «Dal pm linea neocolonialista, no ai processi senza presupposti». La dura reprimenda del sostituto procuratore generale contro l'aggiunto De Pasquale dopo la rinuncia all'appello: «Una situazione contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo». Simona Musco su Il Dubbio il 20 luglio 2022.

«Non c’è prova di nessun fatto rilevante in questo processo». Sono veri e propri macigni le parole pronunciate questa mattina dal sostituto procuratore generale di Milano Celeste Gravina, che ha rinunciato all’appello nei confronti dei 15 imputati, 13 persone e le società Eni e Shell, accusati di corruzione internazionale nel processo sulla presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari per la concessione da parte del governo della Nigeria dei diritti di esplorazione sul blocco Opl245. Una decisione che arriva dopo l’assoluzione di tutti gli imputati in primo grado pronunciata il 17 marzo 2021 – e ora definitiva -, «perché il fatto non sussiste». Ma la requisitoria di oggi è stata una vera e propria reprimenda nei confronti dell’aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, che dopo l’assoluzione ha presentato appello, nonostante fosse emerso in più occasioni l’assenza di prove e l’inaffidabilità del grande accusatore Vincenzo Armanna, ex vicepresidente di Eni Nigeria. L’intero processo, secondo Gravina, si sarebbe basato solo su «chiacchiere e opinioni generiche», sulla cui base la più grande società italiana è stata tenuta in “ostaggio” e tredici persone sono finite sulla graticola. Ma ogni cittadino, ha ammonito il sostituto procuratore generale, «ha diritto, dopo sette anni e senza che sia stata raggiunta la prova della sua colpevolezza, a veder finire immediatamente il processo».

Fra gli imputati figurano l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi (nella foto), il suo predecessore Paolo Scaroni, l’ex ministro del Petrolio della Nigeria, Dan Etete, oltre a quattro ex manager di Shell, ex dirigenti di Eni e alcuni intermediari. Fra questi anche Roberto Casula, ex capo divisione esplorazioni di Eni, Armanna, Ciro Antonio Pagano, all’epoca dei fatti managing director di Nae, Obi Emeka, avvocato che avrebbe fatto da intermediario nell’operazione, e Luigi Bisignani, anch’egli considerato mediatore. Sulla scelta di Gravina ha inciso anche la sentenza assolutoria in abbreviato – e passata in giudicato – nel processo a carico di Emeka e Gianluca Di Nardo, ritenuti dal pm i mediatori della presunta tangente di cui però non ci sono tracce. Il presidente del collegio della seconda sezione penale della Corte di Appello di Milano, Enrico Manzi, «ha preso atto della rinuncia», mettendo dunque una pietra tombale sulla vicenda. Il processo di secondo grado va dunque avanti solo per i soli fini civili per l’appello proposto dal governo federale della Nigeria, parte civile nel processo, rappresentato in aula dall’avvocato Lucio Lucia.

«Non c’è prova di nessun fatto rilevante in questo processo – ha affermato Gravina -. Gli imputati hanno diritto di vedere cessare immediatamente questa situazione che in questo momento è contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo, di economia processuale, di durata ragionevole. Il processo non è la sperimentazione della dialettica delle parti» e perciò va messa la parola fine. Anche perché i motivi d’appello presentati da De Pasquale, ha ammonito la pg, «sono incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità». L’aggiunto milanese, ignorando l’esito del processo a carico di Emeka e Di Nardo, «continua a sostenere le sue posizioni come se non ci fosse un’assoluzione passata in giudicato» che stabilisce che i due non sono mai stati collettori «di una tangente destinata» ai pubblici ufficiali nigeriani. «Il pm di questo non se ne accorge» e questa è una violazione delle regole di giudizio». Nell’appello proposto dalla procura mancherebbe «qualsiasi nuovo elemento per sostenere l’accusa» e «per un eventuale ribaltamento del principio dell’oltre ragionevole dubbio», mentre sono presenti profili «incongrui e insufficienti» che restituiscono «diverse ricostruzioni possibili che sono lo specchio dell’assenza di fatti certi posti alla base della accusa e non di un accordo corruttivo che non si indica in alcun modo». Anzi, le vicende sarebbero state «buttate lì come una insinuazione», ha affermato Gravina, arrivando a parlare di «colonialismo della morale» da parte «del pm»: come «le potenze neocoloniali tracciavano i confini senza sapere cosa c’era sotto», De Pasquale avrebbe «imposto» la propria linea, volendo scegliere «al posto di organi democraticamente eletti». Atteggiamento che la procura ha imputato alle due società, che invece «hanno fatto la ricchezza della Nigeria» anche con «tributi di sangue». Il tutto senza riuscire ad individuare le presunte tangenti versate e riparando «sul fatto che questa operazione non doveva farsi». La procura si sarebbe comportata, dunque, come una sorta di «Tribunale amministrativo della Nigeria». Ma in Italia c’è il «diritto delle persone a non subire processi penali quando non vi sono motivi perché si tengano».

Gravina ha parlato anche delle «bugie ripetute» di Armanna, dei «suoi ripensamenti» e delle «sue speranze frustrate di impunità». Falsità sulle quali De Pasquale era già stato messo in guardia dal pm Paolo Storari (finito nella bufera per il caso verbali) e stigmatizzate nelle motivazioni della sentenza di assoluzione dal Tribunale di Milano, che aveva ammonito l’aggiunto soprattutto in merito alla gestione delle prove, per la quale la procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio di De Pasquale e Sergio Spadaro. Tra queste prove, il video mai depositato a processo, girato in maniera clandestina dall’avvocato Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza della fantomatica – e smentita – “loggia Ungheria”, che testimoniava un fatto clamoroso: la volontà di Armanna di ricattare i vertici Eni e avviare una devastante campagna mediatica. Proprio per tale motivo, si sarebbe adoperato per «fargli arrivare un avviso di garanzia». E due giorni dopo, come da copione, Armanna si presentò in procura per accusare i vertici della società. Il contenuto del video, per i giudici di primo grado, era di per sé «dirompente in termini di valutazione dell’attendibilità intrinseca perché rivela che Armanna, licenziato dall’Eni un anno prima, aveva cercato di ricattare» la società petrolifera «preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda”» sui suoi dirigenti. Per Paola Severino, legale di Descalzi, «è stata una requisitoria molto penetrante, che ha frantumato completamente l’accusa. La giustizia può essere magari lenta ad arrivare, ma quando arriva deve essere dichiarata immediatamente».

Eni, in una nota, ha parlato di «immotivata e sconcertante vicenda giudiziaria penale». «La rinuncia determina che le assoluzioni già pronunciate nel marzo 2021 di Eni e dei suoi manager siano diventate definitive, passando in giudicato. Dopo oltre 8 anni tra indagini e procedimenti giudiziari, cause di altissimi costi e di gravi e ingiuste conseguenze reputazionali per la società e il suo management, la Giustizia ha completato il suo corso confermando in via definitiva la piena assoluzione perché il fatto non sussiste», sottolinea Eni. «Eni e le sue persone, finalmente forti del riconoscimento irrevocabile della correttezza e della legalità del proprio operato, potranno continuare a dedicarsi con sempre maggiore efficacia alle sfide epocali che oggi caratterizzano lo scenario internazionale: sicurezza degli approvvigionamenti, accesso all’energia e percorso verso una transizione energetica equa», conclude la società di San Donato Milanese.

Per il sostituto pg "processo non ha fondamento". Processo Eni-Nigeria, il flop dei magistrati di Milano è definitivo: la procura generale rinuncia all’Appello contro Scaroni e Descalzi. Fabio Calcagni su Il Riformista il 19 Luglio 2022. 

Il processo Eni-Nigeria si chiude senza passare in Appello. I giudici di Milano questa mattina hanno preso atto della rinuncia da parte della Procura generale dei motivi d’appello nel processo di secondo grado nei confronti dell’ex e dell’attuale management della società petrolifera, in particolare l’AD Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni.

A comunicarlo in aula all’apertura dell’udienza è stato il sostituto pg di Milano Celestina Gravina, rendendo così definitiva l’assoluzione con formula piena in primo grado nei confronti dei 15 imputati tra dirigenti di Eni, dirigenti di Shell, mediatori italiani e nigeriani, oltre alle due società petrolifere.

Gli indagati erano accusati di corruzione internazionale per una presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari che sarebbe stata versata dalle due società petrolifere per aggiudicarsi la concessione da parte del governo della Nigeria dei diritti di esplorazione sul blocco Opl245.

Una scelta che conferma il flop colossale del processo portato avanti dai magistrati che a vario titolo hanno portato avanti l’inchiesta, in particolare il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, ora pm alla Procura europea antifrodi, paradossalmente indagati per “rifiuto d’atto d’ufficio”, ovvero per non aver voluto depositare nel 2021 prove potenzialmente favorevoli agli imputati del processo.

Un processo senza prove, quello imbastito dai magistrati milanesi, come sottolinea la stessa sostituto pg Gravina in aula. Proprio la “mancanza di qualsiasi nuovo elemento per sostenere l’accusa” per poter portare avanti un ricorso che non ha la forza “per un eventuale ribaltamento del principio dell’oltre ragionevole dubbio“.

Processo che “deve finire oggi perché non ha fondamento”, ha aggiunto ancora Gravina. Per il rappresentante dell’accusa bisogna rispettare i “binari della legalità” tracciati dalla Cassazione e quindi non bisogna sottoporre le persone ai processi quando “mancano le prove“. Gravina che con parole durissime ha descritto e criticato i motivi di appello presentati dall’aggiunto Fabio De Pasquale: “In questo processo – ha spiegato il sostituto pg- non c’è prova di un accordo corruttivo, né prova del pagamento di utilità corruttive“. Un atteggiamento “neocolonialista“, secondo il pg, lo ha avuto “il pm”, ossia De Pasquale, perché come “le potenze neocoloniali tracciavano i confini senza sapere cosa c’era sotto” ha “imposto” la propria linea, volendo scegliere “al posto di organi democraticamente eletti“. De Pasquale che ha portato solo “chiacchiere e opinioni generiche che toccano i governanti degli ultimi 10 anni in Nigeria” nel processo.

Gravina poi si toglie ancora qualche ‘sassolino dalla scarpa’ nei confronti di De Pasquale: “Il pm continua a sostenere le sue posizioni come se nulla fosse accaduto. Come se non ci fosse un’associazione passata in giudicato. E questa è una violazione delle regole di giudizio”. Gli imputati, che per sette anni sono stati sotto procedimento, hanno invece “il diritto di vedere cessare questa situazione che è contra legem rispetto all’economia processuale e alle regole del giusto processo”.

Eni-Nigeria è diventa così da inchiesta ‘principe’ della Procura di Milano una sorta di Caporetto della giustizia italiana. Basti pensare le ripercussioni per i due titolari dell’inchiesta, De Pasquale e Spadaro, che lo scorso giugno si sono visti chiedere dai colleghi di Brescia il rinvio a giudizio.

I pm bresciani contestano ai due di non aver depositato nel dibattimento sull’ipotizzata (e non provata) corruzione, chat del cellulare dell’ex dirigente Vincenzo Armanna (accusatore Eni) nelle quali si parlava di 50mila dollari che l’ex manager avrebbe chiesto indietro ad Isaak Eke, 007 nigeriano, teste nel dibattimento che avrebbe dovuto confermare le accuse. Armanna consegnò ai giudici solo parte di quei messaggi, mentre il pm di Milano Paolo Storari aveva scovato gli altri nelle sue indagini e le aveva girate ai vertici della Procura, guidata all’epoca da Francesco Greco.

In più, tra le accuse mosse ai pm milanesi anche il non aver introdotto nel processo presunte false chat, ancora una volta scoperte da Storari, che Armanna avrebbe creato per dare conto di suoi colloqui (falsi) con Descalzi e il capo del personale Eni Claudio Granata.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

La pg Gravina rinuncia all'appello. “Processo Eni infondato”, la Procura generale fa a pezzi i pm De Pasquale e Spadaro. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Luglio 2022. 

Chissà come si sentiva il pm Fabio De Pasquale ieri mattina mentre la sua collega della procura generale Celestina Gravina annunciava, nell’aula in cui si sarebbe dovuto celebrare il processo di secondo grado nei confronti della dirigenza Eni per un presunto caso di corruzione in Nigeria, che i giudici avrebbero potuto tornare a casa perché il suo ufficio rinunciava all’appello. E motivava la scelta con toni durissimi, soprattutto nei confronti di chi, mai nominato, si era impegnato per sette anni nell’impresa di far condannare Paolo Scaroni e Claudio Descalzi per corruzione internazionale.

Dopo la richiesta della rappresentante della procura generale della “declaratoria di passaggio in giudicato”, accolta dal Presidente della seconda corte d’appello di Milano Enrico Manzi, la sentenza di primo grado, quella che aveva assolto “perché il fatto non sussiste” i quindici imputati, tredici persone fisiche e le due società Eni e Shell, è diventata definitiva. Parole sferzanti, quelle della dottoressa Gravina. E anche umilianti, perché il pm De Pasquale non si era limitato a ricorrere in appello dopo le assoluzioni del 17 marzo 2021, ma si era anche candidato a sostenere il ruolo dell’accusatore anche nel dibattimento di secondo grado. Ma proprio Celestina Gravina gli era stata preferita per quel ruolo, come esperta, ma forse anche perché più distaccata, dalla procuratrice generale Francesca Nanni. Anche perché quel primo processo e quella sentenza si erano intrecciati con gli sconvolgimenti, quasi storie da intrighi e vecchi merletti, che avevano attraversato la Procura di Milano allora guidata da Francesco Greco. Vicende che sono poi finite a Brescia, dove anche lo stesso De Pasquale è indagato insieme al collega Sergio Spadaro con richieste di rinvio a giudizio per ambedue proprio per fatti che attengono al processo Eni.

Ma indipendentemente dagli aspetti giudiziari, è la stessa immagine personale di De Pasquale che ieri è stata messa in discussione, quando la pg Gravina ha accusato i comportamenti del collega di “colonialismo della morale”, paragonandoli a quelli dei vecchi dominatori che cercavano di imporre con la prepotenza le proprie scelte “al posto di organi democraticamente eletti”. Un vero schiaffo, per un uomo che non ha mai nascosto le proprie preferenze politiche nell’ambito della sinistra. E che, proprio in questo processo – ma De Pasquale indagava su Eni fin da quando il Presidente era Gabriele Cagliari, che poi si suicidò in una cella di San Vittore il 20 luglio del 1993 – aveva accusato le due società di aver voluto colonizzare i nigeriani, con quell’accordo per la concessione dei diritti di esplorazione sul blocco Opl245. Eni e Shell, dice invece Gravina, “hanno fatto la ricchezza della Nigeria”, anche con “tributi di sangue”. Anche la lezione di diritto non è male. Perché i motivi dell’appello presentati da De Pasquale sono esili e insignificanti, tanto che “questo processo deve finire perché non ha fondamento”. E l’articolo 111 della Costituzione, quello sul giusto processo è stato ignorato. Tanto che non si è tenuto in nessun conto il fatto che “per un eventuale ribaltamento del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio” occorrono argomenti forti e motivati. E non “incongrui e insufficienti” a dimostrare che ci sia stata corruzione solo sulla base di insinuazioni buttate lì come fossero prove.

Del resto, in un certo senso, forse lo stesso De Pasquale sapeva benissimo quanto fossero deboli gli indizi che aveva raccolto nel corso degli ultimi sette anni. Tanto che lui stesso il 21 luglio 2020 dichiarava: “Non chiedeteci una probatio diabolica. Chiedeteci una prova che sia congrua rispetto a quello che dicono le convenzioni internazionali, cioè che bisogna utilizzare anche gli indizi, bisogna utilizzare tutto ciò che si conosce, non bisogna cercare banalmente, come se fosse la serie televisiva, la pistola fumante”. Un bel ragionamento – riportato anche nelle motivazioni della sentenza di assoluzione-, ma come lo possiamo collegare al fatto che nel frattempo due presunti intermediari della famosa corruzione internazionale, che avevano scelto il rito abbreviato, sono stati assolti con sentenza definitiva? Questo argomento ha pesato seriamente sulla decisione della pg di ritirare il ricorso in appello di De Pasquale. Anche perché è difficile non considerare neanche una sentenza passata in giudicato come “pistola fumante”. Ma del resto gli stessi giudici che avevano emesso la sentenza di assoluzione dei quindici imputati, nelle motivazioni della loro decisione avevano ricordato agli inquirenti che per condannare occorrono le prove, e che è inutile arrampicarsi sugli specchi se queste non ci sono. E anche che l’onere della prova spetta al pm, non alla difesa.

Sarà utile al riguardo ricordare che se il pm De Pasquale è indagato a Brescia e potrebbe essere rinviato a giudizio insieme al suo collega Sergio Spadaro, è proprio perché i due magistrati sono accusati di aver cercato di rafforzare un’ipotesi accusatoria che faceva acqua da tutte le parti con l’omissione di documenti e testimonianze che avrebbero potuto essere favorevoli alla difesa. Come ad esempio una videoregistrazione in cui l’ex manager di Eni Armanna preannuncia all’avvocato Amara e altre due persone le calunnie che si apprestava a riversare sui vertici Eni. Il video avrebbe dimostrato l’inattendibilità di testimoni ritenuti preziosi dall’accusa. Tanto che lo stesso De Pasquale, nel suo ricorso di 120 pagine contro le assoluzioni, ne aveva dedicate otto a quel video, a conclusione delle quali aveva definito quelle parole come semplici “spacconate”. Aggiungendo anche che comunque la difesa degli imputati ne ara a conoscenza da tempo, cosa che i legali del vertice Eni hanno sempre escluso.

Ma qualcosa di molto più grave era accaduto nel corso di quel processo, anche se non fa parte del fascicolo aperto a Brescia. Ed è il tentativo, maldestro ma pericoloso, di far uscire di scena il Presidente del tribunale Marco Tremolada, che stava giudicando le accuse di corruzione internazionale.

L’episodio risale al 5 febbraio del 2020 quando, finita la parte istruttoria del processo Eni-Nigeria, i pm De Pasquale e Spadaro avevano tentato di far ammettere dal tribunale una deposizione dell’avvocato Amara su “interferenze Eni su magistrati milanesi”. È la famosa polpetta avvelenata da porgere al Presidente Marco Tremolada, che viene definito dal tandem dei calunniatori come “avvicinabile”. Il tribunale aveva mangiato la foglia, anche perché a quel punto il presidente avrebbe dovuto astenersi dal poter continuare il processo, non accogliendo la richiesta. Ma la cosa sorprendente è che immediatamente il procuratore Francesco Greco e la sua aggiunta Laura Pedio avevano trasmesso gli atti a Brescia perché la Procura verificasse se qualche giudice avesse commesso i reati di traffico di influenze e abuso d’ufficio. Inutile dire che se qualcuno ci aveva contato sarà rimasto deluso dopo l’archiviazione dell’episodio. Ma c’era stato comunque un retroscena.

Perché un altro pm di Milano, quel Paolo Storari che diventerà famoso per i verbali di Amara passati a Camillo Davigo, in una deposizione alle Procure di Brescia e di Roma, aveva raccontato di una riunione milanese in cui Fabio De Pasquale avrebbe detto che il giudice Marco Tremolada era troppo appiattito sulle posizioni delle difese di Eni, quindi bisognava trovare il modo di farlo astenere. Quando? Tra la fine di gennaio e i primi di febbraio del 2020, quindi nei giorni precedenti a quel 5 febbraio in cui la polpetta avvelenata era entrata invano nell’aula del processo Eni. Su cui ieri è calato, si spera definitivamente, il sipario. Non è proprio stata una bella pagina. Che va comunque inscritta nella grande delusione, per chi ci aveva creduto, nei confronti degli uomini della mitica procura di Milano. Dove evidentemente, da Mani Pulite in avanti – ormai ce ne sono le prove – il fine ha sempre giustificato i mezzi usati. E che mezzi! 

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Eni, un'inchiesta scandalosa: così i magistrati hanno bloccato 70 miliardi. Michele Zaccardi su Libero Quotidiano il 21 luglio 2022

È finita con un buco nell'acqua l'inchiesta per corruzione internazionale intentata nei confronti di Eni e dei suoi manager per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero in Nigeria. Le indagini, che si sono trascinate per otto anni, non solo hanno macchiato la reputazione del colosso energetico italiano ma hanno anche prodotto dei danni economici ingenti a tutte le parti in causa. Nel complesso le vicende giudiziarie e il governo nigeriano hanno messo a rischio un progetto dal valore di 70 miliardi di euro. Mentre soltanto di spese legali, comprese quelle per una vicenda analoga in Algeria, Eni ha dovuto sborsare 100 milioni di euro. Ma andiamo con ordine. L'affaire Nigeria nasce dall'Opl 245, sigla che sta per Oil Prospecting License, una concessione esplorativa per il più grande giacimento petrolifero del Paese (due campi con riserve stimate pari a 9 miliardi di barili), situato a 150 chilometri al largo del delta del fiume Niger. Dal 1998 al 2011 la licenza è invischiata in contenziosi giudiziari e arbitrati internazionali tra il governo nigeriano, la compagnia britannica Shell e la società locale Malabu.

I RITARDI

Il 30 ottobre 2010 Eni prova, attraverso la sua controllata Nigerian Agip Exploration (Nae), ad acquistare il 100% delle quote dell’Opl 245, ma l’offerta non viene accettata dal governo. Che, però, preoccupato dai mancati introiti causati dai ritardi nella messa in funzione del giacimento, a novembre apre una trattativa con Shell, Malabu ed Eni. Pochi giorni dopo, si verifica un altro stallo: Mohammed Abach, ilfiglio del presidente nigeriano che nel 1998 aveva assegnato la licenza a Malabu, rivendica il 50% delle azioni di quest’ultima. Visto l’andazzo, l’allora direttore generale di Eni, Claudio Descalzi, blocca il negoziato. La soluzione viene superata grazie all’intervento del ministro della giustizia della Nigeria, che mette al riparo la compagnia italiana da eventuali contenziosi tra Shell e Malabu, liquidando la società nigeriana. Alla fine, il 29aprile 2011 viene firmato un accordo tra le parti. Eni e Shell versano 1,3 miliardi di dollari al governo e diventato comproprietari del progetto. Da allora, però, dal giacimento non è stata estratta una goccia di petrolio. Il motivo? Nonostante la richiesta fatta da Eni nel rispetto dei termini di legge, la Nigeria, con la scusa dei procedimenti giudiziari pendenti, non ha mai trasformato la licenza da esplorativa in estrattiva, rendendo impossibile l'avvio della produzione. Per questo, nel settembre del 2019 la compagnia italiana ha fatto ricorso al Centro Internazionale perla risoluzione delle controversie sugli investimenti. Anche perché i 2,5 miliardi di dollari, tra investimenti e costo della licenza, spesi da Eni e Shell rischiano nel frattempo di essere messi a repentaglio: la concessione è infatti scaduta l'11 maggio 2021. In ogni caso, il punto sarà oggetto dell'arbitrato che dovrà stabilire se il comportamento delle autorità nigeriane sia stato illegittimo. Ma i ritardi del governo di Abuja hanno causato una perdita di ricchezza anche per la popolazione locale. Secondo uno studio condotto dal centro di ricerca OpenEconomics, il progetto Opl può generare un incremento del Pil nigeriano di 41 miliardi di dollari spalmati su 25 anni, ovvero 1,64 miliardi di dollari all'anno, e dare lavoro a 200mila persone con un impatto sui redditi pari a 12 miliardi di dollari. Non solo. Aumenterebbero di 15,1 miliardi di dollari anche le entrate fiscali del governo: 4,8 miliardi da tasse dirette e 10,3 da indirette. A questo, poi, vanno aggiunti i 7,1 miliardi di dollari (il 50% dei quali spesi in Nigeria) di investimenti messi sul piatto da Shell ed Eni. 

Eni, un’assoluzione è sufficiente a creare il ragionevole dubbio. Ciò che è accaduto a Milano nel processo di appello Eni ha pochi precedenti, sia per la scelta tecnica adottata dal procuratore generale di addirittura rinunziare all’appello proposto dalla Procura contro la sentenza assolutoria, sia per toni e motivazioni di questa decisione. Gian Domenico Caiazza su Il Dubbio il 23 luglio 2022.

Ciò che è accaduto a Milano nel processo di appello Eni ha pochi precedenti, sia per la scelta tecnica adottata dal procuratore generale di addirittura rinunziare all’appello proposto dalla Procura contro la sentenza assolutoria, sia per toni e motivazioni di questa decisione. Spieghiamo intanto ai non addetti ai lavori.

Nel nostro sistema il pubblico ministero che non condivida la sentenza pronunciata dal giudice di primo grado può impugnarla con atto scritto, al pari del difensore. Ne scaturisce un secondo giudizio avanti la Corte di Appello, nel quale l’accusa sarà però sostenuta dall’ufficio di accusa di grado superiore, cioè la procura generale (salvo la eccezionale richiesta, che va motivata ed accolta, del pm di primo grado di patrocinare personalmente anche in appello). Nella larghissima maggioranza dei casi la procura generale sostiene senza riserve l’appello proposta dalla procura, pur non essendo vincolata a farlo. Può dunque accadere che nella discussione il procuratore generale, in totale autonomia, esprima dissenso, in tutto o in parte, dalla impugnazione dell’accusa, concludendo di conseguenza: sarà poi la Corte di Appello a decidere in un senso o nell’altro. Ma il nostro codice prevede anche una soluzione più estrema: il procuratore generale può addirittura rinunziare ai motivi proposti dal pubblico ministero del primo grado; decisione questa che sottrae alla Corte di Appello la stessa possibilità di pronunciarsi. Comprendete bene dunque il significato estremo di una simile decisione, infatti di natura decisamente eccezionale nella prassi giudiziaria.

La valutazione negativa da parte del titolare dell’ufficio dell’accusa in appello della impugnazione proposta dal pm del primo grado è talmente drastica, da indurlo a revocarne gli effetti, rendendo definitiva la sentenza di primo grado senza che la Corte di appello possa dire o fare alcunché. Ed è proprio questo che è accaduto nel processo Eni. La durezza inedita delle argomentazioni con le quali la procura generale ha motivato una scelta di tale forza danno la esatta misura della gravità di questa scelta. Sono parole che colpiscono per la loro inequivocità, e per la importanza quasi drammatica dei fondamentali principi di diritto che essa ha ritenuto di dover evocare. Esse descrivono un appello frutto di una ostinazione accusatoria priva di ogni seppur minimo supporto probatorio, espressione di una idea proprietaria dell’esercizio dell’azione penale, in spregio della inviolabile regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio e soprattutto in spregio della vita, della dignità, delle sorti di imputati tenuti al laccio di un’accusa fumosa e cervellotica da quasi due lustri. Per non dire dell’ipoteca intollerabile sulla credibilità e sulla operatività di una azienda strategica per l’economia nazionale.

Parole ammirevoli e coraggiose, espressione di un solido radicamento nel quadro costituzionale dei valori del giusto processo, che salutiamo con ammirazione, senza cedere alla tentazione di letture in controluce su equilibri di potere interni agli uffici giudiziari milanesi, tanto plausibili quanto indimostrabili. Ma proprio questa vicenda può essere l’occasione per rilanciare una riflessione pacata e costruttiva sul più generale tema della compatibilità tra i principi del giusto processo ed il permanere del potere di impugnazione delle sentenze assolutorie da parte del pubblico ministero. Non a caso la Commissione Lattanzi aveva rilanciato l’idea di eliminarla, rimettendo mano in sostanza alla riforma Pecorella, ma tenendo conto delle ragioni per le quali la Corte costituzionale ne aveva decretato l’abrogazione. La magistratura italiana insorge, ma la verità è che una sentenza assolutoria, ancorché riformata in appello, sarà sempre di per sé bastevole a radicare il dubbio sulla penale responsabilità dell’imputato. E per il nostro sistema costituzionale e codicistico, l’unica ragione (per fortuna!) che dia senso a successivi gradi di giudizio è il dubbio che l’imputato condannato sia innocente, non che l’imputato assolto sia colpevole.

Inoltre, questo indiscriminato diritto di impugnazione dell’accusa ha purtroppo favorito il diffuso radicarsi di una idea dell’azione penale come di una scommessa che il pubblico ministero intenda vincere ad ogni costo, come se la partita in gioco nel processo penale, più che la plausibile ricostruzione di una verità del fatto, sia più spesso la credibilità dell’Ufficio di procura. Ora che le urne ci chiamano a ragionare del Paese che vogliamo nel nostro futuro, anche questa sarà una battaglia di civiltà da rilanciare con grande determinazione.

È l’ideologia del processo accusatorio italiano. Processo Eni, così si è rotto il patto tra Pm: rinuncia all’Appello segna uno spartiacque. Alberto Cisterna su Il Riformista il 27 Luglio 2022. 

La vicenda Eni, la rinuncia eclatante e anche plateale della Procura generale all’atto d’appello depositato dai pubblici ministeri di primo grado, costituisce una sorta di spartiacque e non solo per la giustizia meneghina, come dire, notoriamente sempre coesa, militante, compatta nei casi più urticanti e delicati. Si va sbriciolando l’asse che costituiva uno degli architravi su cui trova fondamento e forza il cosiddetto partito dei pubblici ministeri, la convinzione che, messa in acqua l’ipotesi accusatoria, questa sarebbe stata coltivata, sostenuta, sospinta in avanti da Alisei sempre favorevoli e comprensivi.

In fondo era il presupposto stesso di una sorta di ideologia del processo accusatorio italiano. Non importa che l’imputato sia assolto in primo grado, tanto lo si terrà inchiodato per anni sul banco dei reprobi, o presunti tali, con un appello e un ricorso per cassazione se serve, sino alla consunzione del tempo, sino allo sfregio definitivo dell’ingiuria incancellabile. La Procura generale di Milano ha rotto un patto non scritto tra le toghe dell’accusa: quello per cui non si lascia mai un collega “di partito” a braghe calate, in mezzo al guado, con il cerino in mano. Soprattutto quando il processo è mediaticamente denso, giornalisticamente succoso. Non conoscendo gli atti nulla di preciso si può dire, ma se il procuratore generale lombardo non avesse abiurato quell’intesa, se non si fosse sottratto a quella consegna e se avesse coltivato l’ipotesi di condanna fallita in primo grado, quel processo sarebbe andato avanti ancora alcuni anni con il pieno sostegno dei molti rami che costituiscono l’albero della pubblica accusa.

È indimenticabile il servizio realizzato il giorno prima del verdetto milanese da una delle più autorevoli reti televisive del paese e per mano di uno dei più prestigiosi giornalisti italiani, servizio che riassumeva in modo suggestivo le tesi dell’accusa e dava la corruzione come pienamente dimostrata. Un’azione di oggettivo quanto involontario fiancheggiamento, ma che ha messo a nudo – ad assoluzione arrivata – ancor di più fragilità, trasversalità, convergenze che ammorbano l’informazione giudiziaria italiana. Ecco perché la decisione milanese di cestinare l’appello e chiudere la partita non può essere solo ricondotta nell’alveo di una stantia discussione sul potere d’appello del pubblico ministero in caso di assoluzione; discussione che si trascina da un paio di decenni e che è ha già visto l’ennesima legge ad personam naufragare sotto i colpi della Corte costituzionale.

Ma esige uno scarto di visione politica più lungimirante e, se possibile, profetica. Il pubblico ministero, l’obbligatorietà dell’azione penale, la sua autonomia, i suoi connotati giurisdizionali sono un patrimonio che non si può disperdere. La discussione sulla separazione delle carriere risente di una visione ideologica, quindi poco pragmatica e realistica, dei problemi della magistratura italiana. Il primo nodo da sciogliere è quello di separare gli incapaci dai capaci, gli imbecilli dagli equilibrati, i mascalzoni dagli onesti, i neghittosi dai diligenti e non solo dentro le mura dell’accusa, ma in tutti i gangli delle toghe. La legge Cartabia introduce serrate valutazioni di professionalità, criteri partecipati e stringenti di controllo delle capacità dei magistrati.

Non sarà un’ottima legge – a esempio non circoscrive come avrebbe dovuto fare in modo più incisivo la discrezionalità del Csm – ma è una grande, ultima opportunità per il significativo miglioramento della qualità dell’organizzazione giudiziaria e delle sue sentenze. Qualcuno, improvvidamente, con denominazioni colorite a uso mediatico, ha detto che si tratta di dare le pagelle alle toghe. Non è così ovviamente, anche se qualche tentazione moraleggiante e didascalica affiora qui e là.

La vicenda Eni è la dimostrazione migliore di come quel nuovo sistema possa funzionare in futuro, non lasciando cadere nel nulla il gesto della Procura generale milanese. Non è vero che uno vale uno e una tesi vale un’altra e che, alla fine, non si può stabilire chi ha torto o ragione, affondando le mani nella bacinella pilatesca. Ha ragione chi ha il diritto e il dovere di parlare per ultimo, gli altri devono fare i conti con il torto. Alberto Cisterna

Mali e rimedi per la nostra giustizia. Eni e lo schiaffo ai Pm: riformiamo l’accusa. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 24 Luglio 2022. 

Ciò che è accaduto a Milano nel processo di appello Eni ha pochi precedenti, sia per la scelta tecnica adottata dal Procuratore Generale di addirittura rinunziare all’appello proposto dalla Procura contro la sentenza assolutoria, sia per toni e motivazioni di questa decisione. Spieghiamo intanto ai non addetti ai lavori. Nel nostro sistema il Pubblico Ministero che non condivida la sentenza pronunciata dal giudice di primo grado può impugnarla con atto scritto, al pari del difensore. Ne scaturisce un secondo giudizio avanti la Corte di Appello, nel quale l’Accusa sarà però sostenuta dall’ufficio di Accusa di grado superiore, cioè la Procura Generale (salvo la eccezionale richiesta, che va motivata ed accolta, del pm di primo grado di patrocinare personalmente anche in appello).

Nella larghissima maggioranza dei casi la Procura Generale sostiene senza riserve l’appello proposta dalla Procura, pur non essendo vincolata a farlo. Può dunque accadere che nella discussione il Procuratore Generale, in totale autonomia, esprima dissenso, in tutto o in parte, dalla impugnazione dell’Accusa, concludendo di conseguenza: sarà poi la Corte di Appello a decidere in un senso o nell’altro. Ma il nostro codice prevede anche una soluzione più estrema: il Procuratore Generale può addirittura rinunziare ai motivi proposti dal Pubblico Ministero del primo grado; decisione questa che sottrae alla Corte di Appello la stessa possibilità di pronunciarsi. Comprendete bene dunque il significato estremo di una simile decisione, infatti di natura decisamente eccezionale nella prassi giudiziaria. La valutazione negativa da parte del titolare dell’ufficio dell’Accusa in Appello della impugnazione proposta dal pm del primo grado è talmente drastica, da indurlo a revocarne gli effetti, rendendo definitiva la sentenza di primo grado senza che la Corte di Appello possa dire o fare alcunché. Ed è proprio questo che è accaduto nel processo Eni.

La durezza inedita delle argomentazioni con le quali la Procura Generale ha motivato una scelta di tale forza danno la esatta misura della gravità di questa scelta. Sono parole che colpiscono per la loro inequivocità, e per la importanza quasi drammatica dei fondamentali principi di diritto che essa ha ritenuto di dover evocare. Esse descrivono un appello frutto di una ostinazione accusatoria priva di ogni seppur minimo supporto probatorio, espressione di una idea proprietaria dell’esercizio dell’azione penale, in spregio della inviolabile regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio e soprattutto in spregio della vita, della dignità, delle sorti di imputati tenuti al laccio di un’accusa fumosa e cervellotica da quasi due lustri. Per non dire dell’ipoteca intollerabile sulla credibilità e sulla operatività di una azienda strategica per l’economia nazionale. Parole ammirevoli e coraggiose, espressione di un solido radicamento nel quadro costituzionale dei valori del giusto processo, che salutiamo con ammirazione, senza cedere alla tentazione di letture in controluce su equilibri di potere interni agli uffici giudiziari milanesi, tanto plausibili quanto indimostrabili.

Ma proprio questa vicenda può essere l’occasione per rilanciare una riflessione pacata e costruttiva sul più generale tema della compatibilità tra i principi del giusto processo ed il permanere del potere di impugnazione delle sentenze assolutorie da parte del Pubblico Ministero. Non a caso la Commissione Lattanzi aveva rilanciato l’idea di eliminarla, rimettendo mano in sostanza alla riforma Pecorella, ma tenendo conto delle ragioni per le quali la Corte Costituzionale ne aveva decretato l’abrogazione. La magistratura italiana insorge, ma la verità è che una sentenza assolutoria, ancorché riformata in appello, sarà sempre di per sé bastevole a radicare il dubbio sulla penale responsabilità dell’imputato. E per il nostro sistema costituzionale e codicistico, l’unica ragione (per fortuna!) che dia senso a successivi gradi di giudizio è il dubbio che l’imputato condannato sia innocente, non che l’imputato assolto sia colpevole. Inoltre, questo indiscriminato diritto di impugnazione dell’Accusa ha purtroppo favorito il diffuso radicarsi di una idea dell’azione penale come di una scommessa che il Pubblico Ministero intenda vincere ad ogni costo, come se la partita in gioco nel processo penale, più che la plausibile ricostruzione di una verità del fatto, sia più spesso la credibilità dell’Ufficio di Procura. Ora che le urne ci chiamano a ragionare del Paese che vogliamo nel nostro futuro, anche questa sarà una battaglia di civiltà da rilanciare con grande determinazione.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Toghe, i processi come alibi per non decidere. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 23 Luglio 2022.

Un anno dopo il caso Amara e l’apertura delle inchieste penali sui vari pm, la magistratura non ha fatto chiarezza al proprio interno e nulla è accaduto

Nella primavera-estate 2021, a partire dai contraccolpi in Procura a Milano della sentenza Eni-Nigeria e dei verbali di Amara, e accanto alle inchieste penali sui vari pm, sembravano voler fare fuoco e fiamme la Procura Generale di Cassazione (per i disciplinari), il Ministero della Giustizia (con l’Ispettorato) e la I commissione Csm (sulle incompatibilità ambientali). Dopo un anno il Ministero nulla ha comunicato; il Csm — dopo audizioni un anno fa a Roma, e un scenografico bis in trasferta a Milano — si è inabissato, in silenzio optando per ritenere le pratiche sovrapponibili ai processi a Brescia e dunque attenderne l’esito; e la «pregiudiziale penale» applica pure il pg di Cassazione a congelamento dei disciplinari avviati (l’ultimo l’altro giorno) solo a ricalco delle imputazioni penali.

È vero, ma non è vero. È vero che lo stop in attesa del penale su uno stesso fatto è imposto da norme. Non è invece vero, e anzi sembra interpretazione estensiva delle accuse penali come alibi per non decidere altrove, che le condotte sanguinosamente rinfacciatesi dai pm rientrino nel perimetro dei rispettivi processi. Il che nuoce tre volte. Lascia irrisolti nodi che non ammetterebbero soluzioni differenti da vero o falso, con la sanzione o di chi abbia calunniato i colleghi o di chi abbia invece davvero compiuto scorrettezze. Posticipa le decisioni a quando fra anni saranno esauriti i vari gradi dei giudizi penali, i cui parametri di reato ben possono magari finire esclusi senza che ciò elida la gravità sotto gli altri profili. E soprattutto — proprio mentre il pm radiato Palamara si candida a quel Parlamento che nulla è stato capace di dire sui due suoi onorevoli compagni di Hotel Champagne (Ferri e Lotti) — contraddice quanto la magistratura giustamente rinfaccia alla politica: non fare autonoma chiarezza al proprio interno con la scusa del dover aspettare le sentenze.

L’avvocato aveva mostrato in anteprima ai cronisti i messaggi. Processo Eni, la delusione di Travaglio: aveva creduto alle chat false di Armanna. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Luglio 2022. 

Non l’hanno presa per nulla bene dalle parti del Fatto Quotidiano la decisione della Procura generale di Milano di rinunciare questa settimana ai motivi d’appello nel processo di secondo grado sul caso Eni/Shell Nigeria nei confronti, tra gli altri, dell’attuale ad della compagnia petrolifera Claudio Descalzi, del suo predecessore Paolo Scaroni e delle due società.

Una decisione che ha determinato la conferma dell’assoluzione di primo grado per tutti i 15 imputati e che in questo modo è diventata definitiva.

Il nervosismo dei segugi del Fatto è comunque comprensibile dal momento che per anni hanno seguito pancia a terra l’inchiesta del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale che dava credito a due taroccatori come Piero Amara e Vincenzo Armanna.  Quest’ultimo, in particolare, aveva un rapporto molto privilegiato con i giornalisti del Fatto arrivando a mostrargli in anteprima le chat che sosteneva di aver scambiato nel 2013 con Descalzi e con il capo del personale Claudio Granata, a riscontro dell’attività corruttiva del colosso petrolifero.

I contatti fra Armanna, ex manager Eni, e giornalisti del Fatto emergono in maniera evidente da una nota depositata dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza del capoluogo lombardo, a firma del colonnello Francesco Lorusso, ed indirizzata alla pm milanese Laura Pedio, che il Riformista ha potuto visionare. Dopo aver sequestrato il telefonino di Armanna, i finanzieri hanno estrapolato una lunga chat con un giornalista del Fatto che inizia a giugno del 2016 e termine a novembre del 2020. Il giornalista, si legge nei messaggi, sollecita Armanna affinché gli inoltri anche gli screenshot compromettenti delle chat con Descalzi e Granata, dopo averle in precedenza inviate sotto forma di file zip.  Armanna esegue ed invia pure un video delle operazioni.

Il giornalista gli fa presente però che il nome utente non è riconducibile ad una numerazione telefonica e che pertanto non sarebbe una prova “genuina”.  Per avere un riscontro migliore, “dovresti farlo mentre mostri contatto e le apri entrambe”. Armanna esegue. Il giornalista risponde allora di aver verificato “con le mie fonti che tali chat non sono state depositate”. Non specificando quali.  Il primo novembre del 2020 il Fatto pubblicherà il primo articolo di una lunga seria di articoli su questa storia dal titolo: “Armanna mostra le chat”. Come è andata poi a finire è noto: le chat erano false e create ad hoc per rafforzare la tesi accusatoria di Armanna. Aveva ragione, quindi, il pm Paolo Storari quando all’inizio del 2021 aveva ipotizzato ai colleghi anche la falsità di queste chat tra i possibili indizi di calunniosità di Armanna (a suo avviso da arrestare con Amara).

Tutti aspetti che invitava i colleghi a depositare per correttezza nei confronti giudici del processo Eni-Nigeria. Una falsità che Storari deduceva a prescindere da complesse perizie dalla semplice verifica che i numeri di telefono, attribuiti a Descalzi e Granata nei messaggi con Armanna, nemmeno fossero attivi nel 2013. Altro che tarocco. De Pasquale, però, non diede mai retta a Storari e questa settimana su questa pagina ingloriosa della Procura di Milano è calato definitivamente il sipario. Con grande dispiacere del Fatto. Paolo Comi

Lo scambio di messaggi con l'ex manager. Processo Eni, anche Sigfrido Ranucci diede peso alle frottole di Armanna. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Luglio 2022 

Oltre al Fatto Quotidiano, anche la trasmissione Report di Rai Tre, condotta da Sigfrido Ranucci, ha ‘tifato’ in questi anni per la condanna dei vertici dell’Eni, dando quindi credito alle calunnie di Piero Amara e Vincenzo Armanna e sposando i teoremi della Procura di Milano e del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. Ieri abbiamo raccontato come i giornalisti del Fatto, ultimamente sotto tono per come si è concluso il processo per corruzione a Milano, chattassero spessissimo con l’ex manager Armanna alla ricerca dei messaggi ‘compromettenti’ che quest’ultimo si sarebbe scambiato con l’ad del colosso petrolifero Claudio Descalzi. Messaggi che dovevano rappresentare la pistola fumante circa l’attività corruttiva posta in essere dai vertici di Eni per aggiudicarsi i giacimenti in Nigeria.

I messaggi incriminati erano però il frutto di un taroccamento di bassissimo profilo, essendo stati ‘autoprodotti’ dallo stesso Armanna che aveva interesse a vendicarsi contro il management del cane a sei zampe che lo aveva licenziato in tronco per una storia opaca di rimborsi spese illecitamente percepiti. Il pm Paolo Storari aveva subito mangiato la foglia, capendo che qualcosa non tornava, ed infatti voleva arrestare sia Amara che Armanna per calunnia. Inoltre, aveva invitato De Pasquale, il capo del dipartimento contro la corruzione internazionale e primo assegnatario del fascicolo nei confronti dei vertici di Eni, a far presente tale situazione ai giudici del dibattimento, senza ottenere riscontro. La conseguenza dell’inerzia della Procura fu quella di non bloccare le torbide manovre dei due mestatori.

I numeri di telefono da cui sarebbero partiti questi fantomatici messaggi, accertò Storari, non erano neppure attivi. Se il Fatto ha pubblicato le chat tarocche, fidandosi delle spiegazioni date da Armanna ai suoi giornalisti, la vicenda che riguarda Report è ancora più imbarazzante trattandosi di una trasmissione del servizio pubblico e quindi pagata con i soldi dei contribuenti. I messaggi che Armanna si scambiava con i giornalisti della Rai, come per il Fatto, sono contenuti nelle informative del nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza depositate in Procura a Milano a seguito del sequestro del cellulare dell’ex manager e dell’estrapolazione del suo contenuto.

Il 6 aprile del 2019, pochi giorni prima della messa in onda della puntata di Report dedicata a questa vicenda, uno dei giornalisti investigativi di punta della scuderia di Ranucci scrive ad Armanna. Ha delle perplessità sulla “genuinità” dell’intervista ad Amara. Sospetta che Amara e Armanna si siano messi d’accordo per “fregare” Granata. I giornalisti di Report, per fare il servizio, avevano intervistato sia Amara e Armanna. E i due dicevano sostanzialmente le stesse cose, mettendo in cattiva luce la figura di Granata. Armanna, in particolare, racconta di una maxi mazzetta pagata da Granata e fatta arrivare direttamente in Nigeria con un aereo dell’Eni.

Scrive il giornalista: “Buongiorno, ma non è che tu e Amara vi siete messi d’accorso per fregare Granata? Le vostre interviste sono fin troppo uguali”. Armanna nega subito. “Scherzi! Non lo vedo ne sento ne ho contatti da più di un anno …. Quello che ti ho detto di Granata l’ho sempre pensato e detto”. Tanto basta per dissipare i dubbi del giornalista. La puntata, dal titolo “Amara verità” e con le interviste ‘fotocopia’, nonostante le iniziali perplessità, andrà regolarmente in onda e in studio Ranucci arriverà anche a raccontare un’altra delle rivelazioni ‘esclusive’ di Amara: la circostanza che l’Eni si sarebbe mossa per stoppare la puntata della trasmissione con la testimonianza di Armanna su Granata. Secondo il racconto farlocco di Amara, per stoppare la trasmissione Rai si sarebbe addirittura attivato il deputato dem Luca Lotti, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e renziano di strettissima osservanza. Ovviamente era un’altra balla. Paolo Comi

Le carte delle indagini passate ad Amara. Nella Guardia di Finanza c’è una talpa: lo dicono le fiamme gialle che indagano pure…Paolo Comi su Il Riformista il 20 Luglio 2022. 

Il Gico della guardia di finanza da circa sei anni sta facendo indagini, al momento senza grande successo, per individuare chi passasse a Piero Amara – l’ex avvocato esterno dell’Eni e gola profonda degli uffici giudiziari di mezza Italia – notizie coperte dal segreto relative ai procedimenti penali di suo interesse. Ad iniziare da quelli aperti nei suoi confronti presso le Procure di Roma e Messina.

Repubblica, quotidiano particolarmente addentro alla materia avendo beneficiato molte volte di fughe di notizie provenienti dalle Procure del Paese, come quella di Perugia a proposito delle indagini che hanno riguardato Luca Palamara (da ultimo pochi giorni fa dove la richiesta di archiviazione per la Loggia Ungheria, circa 200 pagine, ha soffermato l’attenzione dei giornalisti di Largo Fochetti solo sulle poche riguardanti Palamara, ndr), è tornato ieri con grande enfasi sull’argomento.

In un lungo articolo dal titolo “Il carabiniere che sapeva troppi segreti, rubava notizie per darle ad Amara’”, l’attenzione si focalizza su un appuntato della Benemerita, Francesco Loreto Sarcina, già in servizio presso l’Aisi, il servizio segreto ‘interno’.

Sarcina, nativo di Trinitapoli in provincia di Foggia, 59 anni, dietro il compenso di 30 mila euro aveva consegnato su delle chiavette usb il materiale che interessava ad Amara. Sul punto vale la pena ricordare che tale consegna di atti è stata attestata da una sentenza emessa dal Tribunale di Perugia il 12 aprile 2022 nei confronti proprio di Sarcina. Tra questi atti risulta consegnata ad Amara l’informativa del Gico di Roma del 15 settembre 2017 di circa 800 pagine, prima che la stessa venisse depositata alla Procura della Capitale e sulla cui base sono state chieste le misure cautelari nei confronti di Amara e dei suoi sodali Giuseppe Calafiore e Fabrizio Centofanti.

A tal proposito, durante l’udienza del 9 giugno 2022 che si è svolta a Perugia nei confronti dell’ex presidente dell’Anm e dell’ex pm di Roma Stefano Fava, accusati di rivelazione del segreto per screditare l’allora procuratore Giuseppe Pignatone, il maggiore del Gico Fabio Di Bella aveva ammesso che qualche militare suo dipendente – o più di uno o tutti – aveva consegnato ad Amara nel 2017, per il tramite di Sarcina, le informative fatte dallo stesso Gico prima ancora che queste venissero depositate in Procura.

A richiesta dei difensori di Palamara e Fava di riferire l’identità della “talpa” del Gico che aveva consegnato le informative, Di Bella aveva risposto laconicamente “per ora le realtà processuali sono quelle di Sarcina”. Sicché i difensori avevano ribadito “solo Sarcina”, a conferma della risposta data dall’ufficiale. Pur nutrendo, come sempre, la massima fiducia nelle Istituzioni e che quindi si possa individuare, seppur dopo sei anni, colui o coloro che hanno consegnato ad Amara le informative, risulta molto difficile comprendere come su Amara e sulla “talpa” possa continuare ad indagare il Gico e se non fosse, invece, opportuno o doveroso delegare altra polizia giudiziaria come, ad esempio, venne fatto dalla Procura di Roma nel procedimento Consip allorquando è stato estromesso il Noe dei carabinieri. Il Gico sta già facendo accertamenti sulla ormai celebre cena romana non registrata del 9 maggio 2019 tra Pignatone, Palamara e altri magistrati dove, molto probabilmente, si discusse di chi doveva essere il nuovo procuratore della Capitale.

Gli ascolti vennero fatti dal Gico che si trova ora ad “indagare” su se stesso. Per questa ultima circostanza, il mese scorso è stata presentata alla Camera una interrogazione da parte di Edmondo Cirielli (Fd’I) Il deputato meloniano, riflettendo sul fatto che taluni operatori del Gico potrebbero aver “disatteso le direttive impartite per le programmazioni del trojan” ovvero, circostanza ancor più grave, che “il file fosse stato occultato”, ha chiesto alla ministra della Giustizia un approfondimento urgente.

Per Cirielli, in caso contrario, si “delineerebbe una grave situazione che inficerebbe gravemente non solo l’operato degli organi inquirenti e del corpo della guardia di finanza, in funzione di polizia giudiziaria, ma altresì porrebbe ulteriori interrogativi sull’operato e sull’indipendenza del Csm che sulla questione, in sede di audizioni, non avrebbe approfondito le divergenze emerse tra le varie informazioni assunte”.

Non resta che attendere. Paolo Comi

La spy story del carabiniere che sapeva troppi segreti: “Rubava notizie per darle ad Amara”. Giuliano Foschini, Fabio Tonacci su La Repubblica il 19 Luglio 2022.

Chi è Franco Sarcina, lo 007 condannato e arrestato che non ha mai rivelato chi gli forniva le carte. Dopo 6 anni la Finanza indaga ancora su uno dei misteri legati all’avvocato siciliano. Tra spie, passaporti falsi e schede clonate.

Dalla nuvola di mistero che tuttora avvolge l’avvocato plurindagato Piero Amara, una sorta di Keiser Soze di casa nostra, appare Loreto Francesco Sarcina, Franco per gli amici. Il maresciallo che sapeva troppo. Prima ancora che la Guardia di Finanza depositasse alle procure le carte delle inchieste più delicate che hanno riguardato Amara, a Messina così come a Perugia, Sarcina le aveva in tasca.

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 19 luglio 2022.

Dalla nuvola di mistero che tuttora avvolge l'avvocato plurindagato Piero Amara, una sorta di Keiser Soze di casa nostra, appare Loreto Francesco Sarcina, Franco per gli amici. Il maresciallo che sapeva troppo. 

Prima ancora che la Guardia di Finanza depositasse alle procure le carte delle inchieste più delicate che hanno riguardato Amara, a Messina così come a Perugia, Sarcina le aveva in tasca. Le consegnava agli indagati affinché potessero studiare le contestazioni a loro carico, fino, eventualmente, ad eluderle. I passaggi di mano avevano un ché di cinematografico, all'interno di un convento con una suora che faceva da portiera, per esempio.

Sempre, comunque, dietro compenso: 30mila euro, dicono, per ogni informazione utile.

Il maresciallo Sarcina, 59 anni, nato a Trinitapoli nel Foggiano, aveva un incarico di basso livello nell'Aisi, il nostro servizio di intelligence interna. Nascondeva venti telefonini e venti schede sim diverse. 

È stato arrestato e già condannato in primo grado. Il punto è che la sentenza non ha risolto l'enigma: come faceva Sarcina ad avere quei documenti? Chi glieli consegnava? E soprattutto perché? Detenuto in carcere per più di un anno e mezzo, il carabiniere non ha fiatato. La Guardia di Finanza non ha mai smesso di indagare su di lui e su quel un segreto imbarazzante che custodisce ormai da sei anni. 

Gli incontri con Amara

I primi a fare il nome di Sarcina ai pubblici ministeri sono proprio l'avvocato siciliano Amara e il suo socio Giuseppe Calafiore negli interrogatori dell'estate del 2018. Confessano di aver ricevuto, nonostante il segreto istruttorio, «tre informative redatte dalla finanza di Roma e Messina» sui loro affari. 

E che a fornirle era stato «tale Franco, dipendente della Presidenza del Consiglio, il quale ci riferiva notizie interne e ci ha consegnato anche una documentazione cartacea: ci disse che ci avrebbe tolto dai guai, sia per l'indagine di Messina sia per quella di Roma».

Agli atti ci sono i racconti delle consegne di alcune chiavette Usb, avvenuti davanti a una suora in un convento sulla riva del Tevere. «Dopo aver letto quello che ci serviva abbiamo buttato tutto nel fiume». 

Gli investigatori, che hanno scritto quelle informative cruciali per l'inchiesta, si mettono subito al lavoro per capire se si tratta di verità o di millanterie. In realtà lo sanno già, perché i resoconti di Amara e Calafiore non fanno altro che confermare quello che già hanno intuito: c'è una talpa che lavora contro di loro per "bruciare" le indagini.

La talpa

Lo capiscono da due circostanze. La prima: quando si sono presentati per perquisire lo studio di Amara, all'alba come sempre accade, gli è stato aperto immediatamente al primo squillo di citofono. Sembrava quasi che l'avvocato li stesse aspettando. Sensazione confermata dalle carte tutte perfettamente in ordine e tutte perfettamente inutili ai fini dell'indagine, dai computer che non contenevano nemmeno un documento interessante, né un appunto né una lista. Lo studio era stato ripulito, creando una scena asettica.

La seconda circostanza: un'intercettazione ambientale in cui si sente Amara parlare al telefono con uno sconosciuto proprio di una delle indagini in corso. «È un'utenza estera» scriverà la Finanza. Intestata a chi? Al carabiniere Sarcina, naturalmente. 

La nuova indagine

Per tutto questo lo 007 viene arrestato. Condannato per un passaporto falsificato, assolto per i documenti classificati della Presidenza del Consiglio che nascondeva a casa (secondo i giudici poteva averli, in ragione del suo incarico all'Aisi). 

Ma l'inchiesta più delicata è, nei fatti, ancora in corso. Sono stati cercati contatti e collegamenti tra Amara e Sarcina: la suora che organizzava i loro incontri, qualche amico in comune, un palazzo nel centro di Roma da cui sembra passare tutto.

Magistrati, spie, Amara chiaramente, e i suoi amici.

Nel processo in corso a Perugia che ipotizza una fuga di notizie a carico dell'ex presidente dell'Anm Luca Palamara e del suo collega pm Stefano Fava, i finanzieri - al contrario di quanto è stato riportato su alcuni giornali - hanno ribadito di aver cercato la talpa ma che le indagini al momento non hanno portato a niente. Può essere una fonte interna alle Fiamme gialle. O magari alla Procura. 

Può essere qualcuno che ha bucato i sistemi informatici, intercettando le comunicazioni interne. Certo è che la violazione del segreto è stata sistematica, ha riguardato più uffici giudiziari e forse non soltanto le inchieste su Amara. Certo è che Sarcina in questa storia è solo il braccio. Bisogna ancora dare un nome alla mente. 

Fabio Amendolara per “La Verità” il 14 luglio 2022.

«Vedi ad affidarsi ad Armanna... Che figura di merda». La Cassandra del Palazzo di giustizia di Milano, il pubblico ministero Paolo Storari, apprende la notizia dell'assoluzione con formula piena dei manager del Cane a sei zampe nel processo Eni-Nigeria, che per la Procura milanese deve essere stato come un potentissimo movimento tellurico, e lo comunica alla collega Laura Pedio. 

Una chat consegnata da Storari ai magistrati di Brescia nel procedimento per omissione di atti d'ufficio a carico dell'ex componente del pool di Mani pulite Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro racconta gli inediti retroscena sulla gestione di Vincenzo Armanna, lo spicciafaccende che per una parte della Procura meneghina era diventato il supertestimone dell'accusa.

Proprio il giorno delle assoluzioni, il 17 marzo 2021, Storari irrompe via chat: «Eni tutti assolti». Pedio è sorpresa: «Davvero?». E Storari spiega: «530 comma 1, il fatto non sussiste (la formula assolutoria per i manager dell'Eni, ndr)». Le parole di Storari sono taglienti: «Ma che vergogna». 

E anche quando Pedio cerca di trovare qualche elemento per salvare le attività dei colleghi, con un «comunque Paolo è una formula un po' strana», Storari è netto: «Laura, per favore... questi adesso grideranno al complotto». E Pedio: «Neanche Armanna che confessa e prende i soldi dalla Nigeria». 

Storari ha un'idea ben precisa di Armanna: «Ma è un delinquente... nessuno può credergli...». Pedio sembra fare l'equilibrista: «Almeno lui lo potevano condannare. Era general contractor». 

Storari va giù durissimo sui colleghi della Procura: «Questi sono dei cani... incapaci... questo fa lavorare la polizia giudiziaria per niente e poi la sfancula». In realtà anche Pedio dovrebbe essersi fatta un'idea di Armanna. 

Solo due mesi prima Storari le aveva inviato (senza peraltro ottenere mai una risposta, come spiegato nell'interrogatorio del 19 maggio 2021 davanti ai magistrati di Brescia) una richiesta d'arresto per calunnia che Pedio da procuratore aggiunto avrebbe dovuto controfirmare. 

L'impostazione dell'accusa era questa: Armanna, Piero Amara, ex avvocato esterno dell'Eni e grande propalatore sulla loggia Ungheria, e Giuseppe Calafiore, che di Amara era il collega di studio, avrebbero accusato Claudio Granata (capo delle risorse umane di Eni) e Claudio Descalzi (amministratore delegato di Eni) «pur sapendoli innocenti». I tre, secondo Storari, «sono stati dichiarati responsabili di aver strumentalizzato l'attività giudiziaria al fine di inquinare i processi milanesi per corruzione internazionale».

E ancora: «Il presente procedimento è stato a sua volta pesantemente inquinato con dichiarazioni calunniose, supportate anche da documentazione falsa e da testimoni strumentalizzati». 

Inoltre, sempre nelle chat, i due si erano scambiati messaggi di questo tenore. Pedio: «Vai a prendere le carte inglesi (quelle sui conti di Armanna, ndr)?». Storari risponde di averlo già fatto e chiede alla collega se si fosse preoccupata. Lei risponde: «Temo che tu possa fuggire». Lui la rassicura: «Ne verremo fuori... io sono molto fiducioso... indagine difficile ma li smascheriamo... vedrai, sarà un successo».

Ma c'è anche un altro documento che prova la profonda frattura che la gestione di Armanna aveva creato all'interno della Procura. Storari a marzo invia all'allora procuratore della Repubblica Francesco Greco una rinuncia all'assegnazione del fascicolo sul complotto Eni, con tanto di motivazioni sulle ragioni per le quali non era possibile credere alle versioni di Armanna. 

La premessa: «Come ho in più occasioni riferito, ritengo necessario informare le difese del processo e il Tribunale di Milano di alcune circostanze che sono emerse». Eccole: «Armanna e Amara hanno in più contesti procedimentali e processuali calunniato Granata e Descalzi, asserendo falsamente che vi sono stati tentativi di comprare il suo silenzio attraverso le promesse di una sua riassunzione in Eni».

Non solo: Armanna avrebbe «pilotato» le dichiarazioni di un testimone nigeriano, Mattew Tonlagha, durante una rogatoria. Avrebbe poi prodotto al Tribunale di Milano chat Whatsapp «contraffatte e dirette a giustificare la mancata comparizione di altri due testimoni (Timi Ayah e Isaac Eke, ndr)». 

E, infine, avrebbe «pilotato» le dichiarazioni di Tonlahga e Brutu Dennis Otuaro in una denuncia presentata ai carabinieri di Roma Torvaianica. «In questa situazione», afferma Storari, «mi sento francamente a disagio». Un disagio dimostrato a più riprese nella chat con Pedio. L'1 novembre 2020, per esempio, scrive alla collega: «Io cambio Procura». Pedio replica: «Sono una massa di dementi. Nota, tutti senza figli...». Storari le dà ragione: «Hanno tempo di pensare a tutte 'ste cazzate... io li mando da Armanna... basta, me ne vado». 

Dalle chat, però, emerge anche uno spaccato che racconta cosa accade dietro le quinte. Pedio, per esempio, a un certo punto chiede una mano al collega: «Ciao Paolo, ho bisogno di un avvocato per un amico di mia figlia che è stato fermato con tasso alcolemico superiore al massimo consentito. Chi mi suggerisci?».

Storari risponde dopo circa un'ora: «To, avvocato To, che ha difeso il figlio di Ilda (probabilmente la Boccassini, ndr)». Tra i due, al netto delle contrapposizioni per il procedimento sulla loggia Ungheria, sembrava esserci una certa confidenza. Al punto che Storari parlando di una collega dice: «La culona poi è insopportabile... voglio il procedimento disciplinare per la culona». E tra una riunione in Procura e richieste su fascicoli a modello 45, prende in giro Pedio: «L'Anm ha preso posizione e abbiamo fatto corteo in toga con gli avvocati fino al consolato turco... in buona compagnia dei curdi che manifestavano lì lo stesso giorno... Pure i turchi. Pochi fascicoli».

Lei: «Sei terribile...». E Storari: «Ma dai cazzo... prima i polacchi, poi i turchi... lavorare mai?». Pedio risponde: «Lavorare stanca». E lui: «Hai ragione, meglio i turchi... stavolta marcia silenziosa sul Bosforo accompagnata dalla lettura delle opere di Pamuk, poi tutti al mare. A spese di Palamara». 

Pedio sta al gioco: «Aggiungerei una settimana in caicco a Bodrum. Mi sembra il minimo». E il 23 gennaio, quando ha già inviato alla collega la richiesta di arresto per Armanna e Amara, Storari scrive alla collega: «Dobbiamo arrestarli. Presto. Continuano a fare danni. Danni a sé stessi. E a noi. Torvaianica (sede dove era stata presentata una delle denuncia di Armanna, ndr) ultima. Ha pagato i testi nigeriani. Cosa vuoi di più?». Ma neppure questo è bastato.

La procura di Milano respinge la richiesta di Amara di trasmettere gli atti a Brescia sul “falso complotto Eni”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Luglio 2022

In precedenza Amara si era giocato con esito positivo la carta dell’incompetenza milanese in un altro procedimento collegato al “falso complotto Eni”. Dopo il rigetto la prossima mossa a disposizione della difesa di Amara , è quella di ricorrere alla procuratore generale della Corte di Cassazione

L’indagine sul cosiddetto “falso complotto Eni” almeno per il momento rimane a Milano. La procura di Milano ha rigettato l’istanza dell’avvocato-faccendiere Piero Amara di trasmissione alla procura di Brescia degli atti dell’inchiesta conclusasi lo scorso dicembre 2021, sul presunto depistaggio che avrebbe messo in atto lo stesso ex legale esterno di Eni, insieme ex manager Vincenzo Armanna, ed altri indagati per condizionare il processo per corruzione internazionale Eni-Shell/Nigeria. Per il procuratore aggiunto Laura Pedio ed i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco non esiste il problema di competenza sollevato da Amara che necessiti l’invio del fascicolo a Brescia. 

Processo come noto si è concluso nel marzo 2021 con l’assoluzione di tutti gli imputati e delle due società. Dopo il rigetto la prossima mossa a disposizione della difesa di Amara , è quella di ricorrere alla procuratore generale della Corte di Cassazione, competente su conflitti di competenza tra diversi distretti di Corte di appello come nel caso di Milano e Brescia.

Amara in precedenza si era giocato con esito positivo la carta dell’incompetenza milanese in un altro procedimento collegato al “falso complotto Eni”. Il filone di indagine sulla ipotizzata calunnia commessa ai danni dell’avvocato Luca Santa Maria era stato trasmesso dal giudice per l’udienza preliminare Carlo Ottone De Marchi alla procura di Brescia , trasmissione resasi necessaria in quanto oltre ad Amara come “parte offesa” della presunta calunnia ci sarebbe anche l’allora titolare del processo Eni-Shell/Nigeria, il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, sul cui operato sono i magistrati di Brescia . Un filone d’indagine su cui i pm bresciani , diretti dal procuratore capo Francesco Prete, hanno chiesto l’archiviazione valutando i fatti in maniera esattamente opposta dai colleghi milanesi che invece chiedevano il processo. 

Da quanto si apprende nel frattempo si avvicina il momento in cui magistrati inquirenti milanesi depositeranno all’ufficio Gip le richieste di archiviazione per l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi ed il capo del personale Claudio Granata le cui posizioni erano state stralciate dall’avviso di chiusura indagini preliminari del “falso complotto”.

Anche a Potenza esistono giudici seri. Salta il patteggiamento di Amara con la Procura. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 30 Giugno 2022.

Il Gip nella sua ordinanza ha posto in evidenza "la personalità negativa dell' Amara, desumibile, anche dalle modalità della condotta, connotata da estrema e preoccupante spregiudicatezza" che "non consente di esprimere un giudizio di congruità della pena, che nella misura concordata, appare con tutta evidenza inidonea a svolgere la funzione sua propria"

Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Potenza dr.ssa Teresa Reggio ha respinto oggi dopo una camera di consiglio la richiesta di patteggiamento avanzata dal faccendiere-bancarottiere avv. Pietro Amara, precedente concordata con la Procura di Potenza guidata dal procuratore Francesco Curcio. Infatti secondo il Gip l’omesso deposito degli interrogatori dei verbali degli interrogatori resi dall’ Amara “non permette di apprezzarne la portata nè sotto il profilo del contributo apportato allo sviluppo delle indagini, nè sotto il profilo della migliore comprensione dei fatti già oggetto di vaglio degli investigatori“. 

Non è la prima volta che la Procura di Potenza dimentica (o omette ?) di depositare verbali dei propri interrogatori ad Amara, un pò troppo spesso coperti ed infarciti di “omissis” come accaduto in precedenza nel procedimento nei confronti del prof. Enrico Laghi.

Inoltre è emerso che l’ Amara ha subito un’ulteriore “condanna per plurimi fatti di bancarotta pluriaggravata” commessi nel febbraio 2018 e quindi in data successiva ai fatti oggetto del presente procedimento” e quindi anche se non con sentenza definitiva, secondo il Gip Reggio, offre elementi che consentono di ritenere che “il crimine rappresenti per Amara un valido ed alternativo sistema di vita e contribuisce a rafforzare il giudizio negativo posto a fondamento del diniego delle richieste circostanze attenuanti generiche“. 

Il giudice nella sua ordinanza ha posto in evidenza “la personalità negativa dell’ Amara, desumibile, anche dalle modalità della condotta, connotata da estrema e preoccupante spregiudicatezza” che “non consente di esprimere un giudizio di congruità della pena, che nella misura concordata (con la procura di Potenza, n.d.r.), appare con tutta evidenza inidonea a svolgere la funzione sua propria” rigettando la richiesta e disponendo la restituzione degli atti all’ufficio del pubblico ministero.

L'organizzazione eversiva che minaccia lo Stato. Loggia Ungheria, la magistratura non indaga sulla magistratura: la lezione del Conte Zio di Manzoni. Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Aprile 2022. 

La Loggia Ungheria, probabilmente, esiste. Forse fa parte della massoneria, forse no. Forse è una specie di P2. Forse è meno illegale della P2, ma più potente. Comunque, se esiste, è una organizzazione eversiva che minaccia lo Stato. Se non esiste in quanto Loggia formalizzata, come alcuni testimoni sostengono, esiste comunque come sistema di relazioni extra-istituzionali che regolano – da una vera e propria cabina di regia – il funzionamento del potere giudiziario, delle relazioni tra politica e questo potere, e anche l’avvio e l’esito di inchieste particolarmente importanti.

Tutto questo è emerso con grande chiarezza dagli smozziconi delle varie inchieste che hanno sfiorato il tema, dalle dichiarazioni di un certo numero di magistrati, dalle indagini del Pm Storari, stroncate poi e sepolte dalla Procura di Milano, da varie testimonianze capitate quasi per caso nel corso di vari processi. E’ chiaro che non siamo di fronte alla necessità di una piccola indagine, come possono essere quelle su una truffa, su una tangente, un finanziamento illecito, un furto o qualcosa del genere. Siamo di fronte alla necessità di una indagine clamorosa sull’ipotesi che la magistratura italiana sia stata governata illegalmente, a favore di pochi, a danno di moltissimi, a difesa del privilegio di casta dei magistrati.

Ora le notizie che filtrano dicono che l’inchiesta sulla Loggia Ungheria sta per concludersi con una richiesta di archiviazione. Cioè con la scelta, da parte della magistratura, di non indagare sulla magistratura. Troncare, sopire diceva, mi pare, il Conte Zio. Non è una novità . La magistratura alle volte accetta di mettere sotto accusa alcuni suoi singoli esponenti. Mai, a occhio, accetta di mettere sotto accusa un sistema. Volete qualche esempio? Così, d’acchito: indagini sul depistaggio Scarantino: svariati poliziotti sotto inchiesta, nessun magistrato. Indagini sull’affare “Montante (l’ex presidente di Confindustria Sicilia): svariati condannati, tra i quali Montante, 15 archiviati: i magistrati. Quindici, sì: quindici su quindici.

Caso Shalabayeva: due importantissimi poliziotti condannati a pene pesanti, due importantissimi magistrati (quelli che avevano dato gli ordini ai due poliziotti) neppure indiziati. Poi c’è il caso Palamara. Il quale ha raccontato di un sistema di raccomandazioni (e anche del modo nel quale si aggiustavano i vertici delle procure e dei tribunali, e le indagini e le sentenze) governato dalle correnti e dall’Anm, non ha ricevuto smentite, e però è stato liquidato con un colpo di spugna da una semplice dichiarazione del Procuratore generale della Cassazione (che era tra le persone accusate di avere brigato per fare carriera ai massimissimi livelli) il quale ha affermato che la raccomandazione non è un reato né una colpa, o , più precisamente, non è un reato né una colpa se viene fatta o ricevuta da magistrati. La dichiarazione del Procuratore è stata sufficiente ad evitare che alcune decine di Procure avviassero indagini sulle irregolarità commesse col sistema Palamara. Come avrebbero certamente fatto se la denuncia di Palamara invece di riguardare la magistratura avesse riguardato la politica.

Troncare, sopire, diceva – mi pare – il Conte Zio. Con questi precedenti possiamo ben dire che è molto difficile fidarsi della magistratura. Ha sempre dato ampia prova di non sapere essere inflessibile con se stessa. Non a caso quando il Csm stabilisce la valutazione sul lavoro dei singoli magistrati, stabilisce che il 99,8% di loro ha svolto un lavoro eccellente, sebbene ogni anno entrino in galera, come minimo, mille innocenti. Ma a prescindere dalla valutazione dei precedenti, qui c’è proprio una questione di principio. L’ipotesi dell’esistenza della Loggia Ungheria o di qualcosa di simile mette in discussione la legittimità del funzionamento di tutta la magistratura. Ma se sul banco di accusa c’è la magistratura, come può essere la magistratura ad indagare? Infatti non indaga: archivia.

Troncare, sopire, diceva – mi pare – il Conte Zio. È chiaro anche a un bambino che su una vicenda così inquietante può indagare solo il Parlamento. Che ne ha la possibilità e i mezzi. Si tratta di istituire una commissione Parlamentare di indagine, coi poteri della magistratura, come previsto dalle leggi. Fu istituita questa commissione per la vicenda analoga della P2, eppure non era neanche molto necessaria, perché sulla P2 stavano indagando eccellenti magistrati (se non ricordo male Turone e Colombo) e non c’era alcun motivo per non dare a loro piena fiducia. Perché mai non si dovrebbe fare la stessa cosa sulla Loggia Ungheria, in presenza del legittimissimo sospetto che la magistratura non abbia i mezzi né giuridici né morali per indagare? Possibile che il Parlamento faccia finta di niente? Perché fa finta di niente? Sempre perché è intimidito dalla magistratura e ad essa sottomesso? Sempre perché il suo modello è quello del Conte Zio di Manzoni?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Loggia Ungheria, parlano nuovi testimoni: «Esisteva, così ci hanno chiesto di affiliarci». EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 28 aprile 2022

In nuovi atti inediti le testimoniante del giudice del Tar Trebastoni e dell’ex pm Musco: «Tinebra ci propose di entrare nell’associazione segreta, ma rifiutammo». I due sono considerati dai pm vicini ad Amara

Dopo oltre un anno di investigazioni, Cantone e gli uomini della Guardia di Finanza non hanno però trovato alcun riscontro significativo alle dichiarazioni sull’esistenza della loggia.  Si va verso l’archiviazione

Anche Centofanti dice di avere sentito parlare di Ungheria. «Amara chiamava Tinebra “grande capo”, e Sergio Pasquantonio “il priore”». Il presidente dell’Università telematica San Raffaele nega tutto.

EMILIANO FITTIPALDI. Nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Davigo testimone nel processo Palamara: «Fava non mi parlò dell’esposto». L'ex magistrato di "Mani Pulite" è stato sentito a Perugia nel corso dell'istruttoria contro i due ex pm della procura di Roma. «Vi spiego perché i rapporti personali si sono interrotti...» Il Dubbio il 18 maggio 2022.

«Ho conosciuto Stefano Fava perché Sebastiano Ardita mi chiese di intervenire a un incontro che riguardava, mi pare, le elezioni dell’Anm locale. Io non ero entusiasta, avevo tante cose da fare ma accettai. Fava in quell’occasione parlò di doglianze sull’allora capo Giuseppe Pignatone ma non mi accennò di un esposto. È abbastanza frequente che i magistrati si lamentino dei loro capi, lui ne parlò in termini generici». A dirlo l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo sentito come testimone nel corso del processo nato dal filone di inchiesta della procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, sulle rivelazioni che vede imputati l’ex magistrato Luca Palamara e l’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava, ora giudice civile a Latina.

«Quello che escludo assolutamente è che mi abbia potuto parlare di un esposto contro Ielo: conosco Paolo Ielo da trent’anni come un pm integerrimo e – ha detto Davigo rispondendo alle domande del pm Mario Formisano – sarei saltato dalla sedia se mi avessero detto una cosa così. Ho lavorato con Ielo e lo ribadisco è un magistrato assolutamente integerrimo». «Io all’inizio avevo un ottimo rapporto con Ardita, siamo stati eletti insieme al Csm, non avevo motivi di astio, ho anche scritto un libro con lui. Poi i rapporti si sono deteriorati. E dopo tutta una serie di vicende sono arrivato anche a ipotizzare che Ardita mi fosse stato mandato dietro da Cosimo Ferri» ha proseguito Piercarmillo Davigo, imputato a Brescia con l’accusa di aver fatto circolare abusivamente i verbali dell’ex legale dell’Eni, Piero Amara, relativamemte alla presunta “Loggia Ungheria”.

«Ci sono stati una serie di episodi ma all’inizio non diedi peso a certi suoi comportamenti – ha raccontato Davigo in aula – Una volta una collega della procura di Roma Nadia Plastina venne al Csm e passò a salutarmi e Ardita, molto agitato, venne a chiedermi come mai lei era lì e aggiunse “lei è alla procura di Roma” e io non capii cosa volesse intendere. Poi ci fu la pubblicazione delle intercettazioni dell’Hotel Champagne e gli chiesi se c’era qualcosa che non sapevo. Ebbi una discussione energica perchè lui si chiuse nel suo ufficio per due o tre giorni con l’allora consigliere Lepre, che poi si dimise, e gli feci notare che era inopportuno dopo quello che era stato pubblicato perchè poteva essere chiamato in correità».

Dopo quello che era emerso con la vicenda dell’Hotel Champagne «per quanto riguarda il candidato alla procura di Roma optai per Michele Prestipino, che aveva lavorato in Sicilia contro la mafia, in Calabria contro la ’ndrangheta e a Roma coordinando la Dda mentre Ardita insisteva perché io votassi per Viola: lui si rifiutò di votare Prestipino in plenum e mi fornì ragioni false – ha spiegato Davigo – dicendo che non lo avrebbe votato perchè Prestipino era un aggiunto e non un procuratore e a quel punto gli feci notare che solo qualche tempo prima lui stesso aveva votato un aggiunto come procuratore per un altro ufficio. Io dissi che la risposta che mi aveva dato non era vera e da lì si chiusero i nostri rapporti personali. Ancora di più alla luce di quanto emergeva sul suo nome in relazione alla vicenda sulla presunta Loggia Ungheria» ha concluso Davigo.

«Non sapevo che Stefano Fava avesse rapporti con Luca Palamara, lo vedevo su posizioni diverse. Questo rapporto lo scoprii sui giornali e mi sorprese», ha dunque affermato Sebastiano Ardita, sentito come testimone nel corso del processo. Nella sua testimonianza in aula, Ardita ha ricostruito che dopo la pubblicazione delle notizie sull’hotel Champagne «Lepre venne da me con gli occhi rossi e lo ascoltai. Cosa avrei dovuto fare? Avere un atteggiamento di disprezzo nei suoi confronti? Aveva già perso la sua battaglia». Sul rapporto con l’ex componente del Csm Piercamillo Davigo, Ardita ha spiegato che «si è interrotto per ragioni molteplici partite dal riposizionamento dopo la vicenda dell’Hotel Champagne. Lui mi ha negato il saluto dopo una riunione in cui ho detto che non potevo votare per Michele Prestipino, che lui aveva deciso invece di appoggiare».

Interpellato sui suoi rapporti con Cosimo Ferri, Ardita ha detto davanti ai giudici di Perugia «con lui ho parlato l’ultima volta nel 2013». Su quanto dichiarato da Davigo nella deposizione di questa mattina e su rapporti con Ferri, il consigliere del Csm ha detto: «Riascolterò la registrazione con le dichiarazioni e nel caso proseguirò nelle sedi opportune. Davigo cerca di difendersi come può, è imputato di un reato infamante per un magistrato». Interpellato sui rapporti con la stampa, ha spiegato di conoscere «molto bene il giornalista Marco Lillo che mi chiamò il giorno prima della pubblicazione della notizia dell’esposto, dicendomi che dalla procura di Roma usciva questa informazione e mi chiese una conferma e io gli risposi che non potevo dire nulla». (adnkronos)

Csm, a Perugia l’ennesima resa dei conti tra magistrati. Al processo Palamara- Fava, altro botta e risposta a distanza tra Davigo e Ardita. L’esposto contro Pignatone a mollo per oltre un mese e bloccato da una nota della procura. Simona Musco su Il Dubbio il 19 maggio 2022.

L’esposto dell’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava contro l’allora procuratore Giuseppe Pignatone fu tenuto a mollo al Csm per oltre un mese. Finendo in un cassetto dopo una nota della Procura di Perugia, che informava Palazzo dei Marescialli di un decreto di perquisizione che conteneva l’ipotesi di un tentativo di condizionamento della nomina del nuovo procuratore di Roma attraverso quello stesso esposto. È uno dei clamorosi elementi venuti fuori ieri a Perugia nel processo sulle rivelazioni, che vede imputati l’ex capo dell’Anm Luca Palamara e Fava, ora giudice civile a Latina.

Un’udienza ricca di colpi di scena, che ha visto tra i protagonisti due ex compagni di banco al Csm, Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, entrambi chiamati come testimoni. Ma con una differenza: Davigo, come chiarito nel corso dell’udienza di ieri, risulta ora essere indagato dalla procura di Perugia a seguito dell’esposto presentato da Palamara contro l’ex pm di Mani Pulite e il laico del M5S Fulvio Gigliotti, ai quali l’ex leader dell’Anm contesta la violazione dolosa e preordinata dell’obbligo di astensione nel procedimento a suo carico e l’induzione in errore degli altri componenti della commissione disciplinare del Csm. Davigo, afferma infatti Palamara, era stato messo a conoscenza da Fava dell’esposto contro Pignatone.

Con quel documento Fava segnalava il comportamento tenuto da Pignatone nei procedimenti a carico dell’ex avvocato esterno di Eni, Piero Amara, e dell’imprenditore Ezio Bigotti: il capo della procura aveva infatti negato che sussistessero ragioni per astenersi dalle indagini, nonostante i rapporti professionali di entrambi con il fratello Roberto. L’esposto di Fava, difeso dall’avvocato Luigi Antonio Paolo Panella, arrivò alla prima commissione il 27 marzo, ha spiegato Ardita, ma il comitato di presidenza, a suo dire in modo inusuale, decise di condurre una sorta di istruttoria preliminare, chiedendo informazioni all’allora procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, Giovanni Salvi, che a sua volta chiese chiarimenti a Pignatone.

In quella corrispondenza erano contenute tutte le fibrillazioni registrate in procura, comprese quelle durante le due riunioni infuocate di cui poi i giornali diedero notizia. Informazioni, aveva sottolineato Pignatone nel corso di una precedente udienza, che erano in realtà in possesso di molti a Piazzale Clodio. Dopo tali accertamenti, dunque, l’esposto tornò a Palazzo dei Marescialli il 7 maggio 2019, ovvero due giorni prima del pensionamento di Pignatone. Da lì sarebbero dovute partire le prime audizioni, fissate a giugno, ma tutto si interruppe per via della nota della procura di Perugia. E pochi giorni dopo, il Fatto e La Verità raccontarono della guerra in procura, fuga di notizie per la quale ora Fava e Palamara sono a processo.

Davigo, che ha deciso di testimoniare senza l’assistenza di un avvocato, ha affermato che tra le contestazioni mosse a Palamara vi fosse il concorso nell’esposto nei confronti del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo. Affermazione che ha fatto sobbalzare l’ex presidente dell’Anm: «Mi sembra giusto e doveroso precisare che come risulta dall’atto di incolpazione e dalla sentenza che ha disposto la mia ingiusta rimozione dalla magistratura, contrariamente a quanto dichiarato dal dottor Davigo oggi in aula, io non ho mai avuto nessuna contestazione per concorso nell’esposto nei confronti del dottor Ielo – ha dichiarato prendendo la parola -. Sono sconvolto dal fatto che il mio giudice, cioè Davigo, mi abbia giudicato senza conoscere nemmeno il contenuto dell’incolpazione che mi riguardava. Quello a mio carico davanti al Csm non è stato un processo, ma un’esecuzione – ha affermato -. Sono sconvolto dal fatto che il mio giudice, cioè Davigo, mi abbia giudicato senza conoscere nemmeno il contenuto dell’incolpazione che mi riguardava. Ora faccia chiarezza fino in fondo».

L’udienza è stata però anche l’ennesima occasione per raccontare la rottura tra Davigo e Ardita. «Ho conosciuto Stefano Fava perché Sebastiano Ardita mi chiese di intervenire a un incontro che riguardava, mi pare, le elezioni della sezione Anm locale – ha sottolineato Davigo -. Fava in quell’occasione parlò di doglianze sull’allora procuratore capo, Giuseppe Pignatone, ma non mi accennò di un esposto. Quello che escludo categoricamente è che mi abbia parlato di un esposto contro Paolo Ielo (procuratore aggiunto di Roma, ndr)». Parlando di Ardita, Davigo ha ribadito di essersi allontanato da lui per via delle divergenze sul voto per la procura di Roma, gettando ombre sull’operato dell’ex collega: «Sono arrivato anche a ipotizzare che Ardita mi fosse stato mandato dietro da Cosimo Ferri», ha sottolineato.

Ma se Davigo sostiene che Ardita volesse spingerlo a votare Marcello Viola, finito suo malgrado al centro dei fatti dell’Hotel Champagne, il magistrato catanese sostiene l’esatto contrario: «Cercò di costringermi a votare per il dottor Prestipino, nomina che fu poi dichiarata illegittima, ed io fui costretto a rimetterlo a posto». Ardita ha anche confermato che Fava, durante l’incontro con Ardita e Davigo, «preannunciò un esposto contro Pignatone». E sulle insinuazioni che riguardano Ferri, «con cui ho parlato l’ultima volta nel 2013», il consigliere del Csm ha annunciato di voler valutare eventuali azioni legali: «Mi procurerò il verbale e valuterò il da farsi. Davigo cerca di difendersi come può, è imputato (a Brescia, ndr) di un reato infamante per un magistrato».

Piercamillo Davigo confessa che non fu imparziale: ecco che cos'è la giustizia italiana. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 20 maggio 2022

«Dopo tutta una serie di vicende sono arrivato anche a ipotizzare che Ardita mi fosse stato mandato dietro da Cosimo Ferri». Sono volati gli stracci ieri al tribunale di Perugia fra Piercamillo Davigo ed il magistrato antimafia Sebastiano Ardita. L'ex pm di Mani pulite era stato chiamato come testimone nel processo per rivelazione del segreto che vede sul banco degli imputati Luca Palamara e Stefano Rocco Fava, quest' ultimo già pm a Roma ed ora giudice al tribunale di Latina.

Palamara e Fava sono accusati di aver messo in piedi nella primavera del 2019 una campagna denigratoria per screditare l'allora procuratore della Capitale Giuseppe Pignatone ed il suo vice Paolo Ielo. Palamara, in particolare, avrebbe "istigato" Fava a presentare un esposto al Csm dove si evidenziavano alcune mancate astensioni di Pignatone e Ielo in diversi procedimenti penali. La campagna avrebbe raggiunto l'apice con degli articoli pubblicati il 29 maggio 2019 su Il Fatto Quotidiano e La Verità. Anche se gli autori dei pezzi avevano negato qualsiasi coinvolgimento di Palamara e Fava, i due magistrati erano stati comunque rinviati a giudizio. Ma torniamo alla testimonianza di Davigo. Prima dei fatti dell'hotel Champagne il suo rapporto con Ardita era solidissimo. Insieme avevano scritto Giustizialisti, così la politica lega le mani alla magistratura, un libro edito da Paperfirst (casa editrice del Fatto).

Come raccontato dall'ex pm, Ardita voleva fare proselitismo a Roma in vista delle elezioni dell'Anm e aveva organizzato a marzo del 2019 un pranzo con Fava. Durante il pranzo, puntualizza però Davigo, «escludo categoricamente che Fava mi disse che voleva presentare un esposto contro Pignatone e Ielo. Semi avesse detto che intendeva presentare un esposto contro Ielo, me ne sarei ricordato, visto che conosco quest' ultimo da anni come un pm integerrimo».

E qui entra in ballo Ferri, ora deputato renziano. Davigo e Ardita sono infatti fra i fondatori di Autonomia&indipendenza, la corrente nata dopo la scissione dal gruppo di Magistratura indipendente a seguito di contrasti con l'allora leadership di Ferri. In questo scenario fratricida, dove nessuno si fida dell'altro, Davigo è stato però il giudice disciplinare che ha composto il collegio che ha radiato Palamara dalla magistratura. 

«Contrariamente a quanto dichiarato da Davigo in aula, io non ho mai avuto nessuna contestazione per concorso nell'esposto nei confronti di Ielo. Sono sconvolto dal fatto che il mio giudice cioè Davigo mi abbia giudicato senza conoscere nemmeno il contenuto dell'iincolpazione che mi riguardava», ha detto allora Palamara, prendendo la parola dopo Davigo. «Questa deposizione rafforza i miei ricorsi fatti alla Corte Europea per essere stato giudicato da un giudice che non è stato terzo e imparziale. Io mi auguro che Davigo possa fare chiarezza su quello che ha raccontato oggi senza trincerarsi dietro a omissioni o non ricordo: non può passare il messaggio che la giustizia sia vendetta», ha quindi aggiunto l'ex magistrato.

Sempre ieri il gup di Roma ha disposto nuove indagine sulla ex segretaria di Davigo, accusata di aver diffuso i verbali degli interrogatori di Piero Amara. Verbali che erano stati consegnati dal pm milanese Paolo Storari all'ex paladino di Mani pulite.

Le intercettazioni. Di cosa si parlava alle cene dalle Loggia Ungheria: processi, pensioni e intrighi. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Aprile 2022. 

Tranne il pm milanese Paolo Storari, nessuno ha mai avuto interesse ad indagare sulla loggia Ungheria. Piercamillo Davigo, che si era fatto consegnare da Storari i verbali delle dichiarazioni di Piero Amara, aveva interesse a screditare il collega Sebastiano Ardita, il cui nome figurava fra gli appartenenti alla loggia, e condizionare così il Csm. Davigo, imputato per rivelazione del segreto, ha sempre dichiarato che “aver appreso il contenuto dei verbali comportava la necessità di indurre i consiglieri del Csm a prendere le distanze da Ardita”.

Come mai, allora, non fece lo stesso, afferma il difensore di Ardita, l’avvocato Fabio Repici, con il presidente aggiunto del Consiglio di Stato Sergio Santoro, un altro appartenente alla loggia secondo la testimonianza di Amara, che invece frequentava anche a cena. Ad una di queste cene, a cui avrebbe partecipato il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, si era discusso del possibile innalzamento dell’età pensionabile dei magistrati a 72 anni. Innalzamento di cui avrebbe potuto beneficiare lo stesso Davigo. Stando così i fatti, risulta illuminante la testimonianza di Storari davanti ai pm di Brescia. Il pm, dopo aver terminato gli interrogatori in cui Amara aveva raccontato l’esistenza della loggia Ungheria, di cui avrebbero fatto parte magistrati ed esponenti delle forze di polizia, era andato dal suo capo, il procuratore Francesco Greco.

«Ho una interlocuzione con il dottor Greco e gli dico: “Francesco ma te a ste robe che dice Amara ci credi?” … “Si Paolo io ci credo però lì dentro si parla di Zafarana (Giuseppe, comandante generale della guardia di finanza, ndr). … e io adesso non lo voglio toccare perché mi deve sistemare il colonnello Giordano (Vito, ndr) che deve andare al Nucleo di polizia valutaria di Roma”». Storari ha poi un colloquio con l’aggiunto Fabio De Pasquale che gli dice “di tenere fermo nel cassetto due anni questo fascicolo”. «Queste due interlocuzioni che io ho avuto orali mi assumo la piena responsabilità nel dire queste cose, pienissima, di fronte a un aggiunto e a un procuratore capo che a torto o a ragione mi dicono queste cosa…. mi dica cosa dovevo fare?», prosegue Storari rivolgendosi ai colleghi di Brescia. «L’intenzione è stata questa: questo fascicolo deve rimanere fermo per due anni. Non rompiamo le palle», sottolinea ancora Storari. «E perché De Pasquale avrebbe avuto interesse a tenerlo due anni nel cassetto?», gli chiede il procuratore di Brescia Francesco Prete.

La risposta: «Non bisogna disturbare il processo Eni-Nigeria. Se avessimo avuto la prova che Amara diceva delle palle le chiamate in correità in quel processo finivano e questo non poteva essere consentito. Ho vent’anni di esperienza ma una roba del genere a me non è mai stata detta in tutta la vita». Storari, poi, affronta il tema delle indagini sulla loggia Ungheria e del trasferimento a Perugia dell’inchiesta. «In un fascicolo così non c’è un atto istruttorio …. lei non vede una delega alla pg … non vede la pg che scrive una roba …. vuoi andare a vedere dove si trovano questi qua? dove fisicamente si trovano? vuoi fare due tabulati visto che abbiamo due anni di tempo», ricorda Storari a Prete. «Questo (Amara) ha iniziato a parlare a dicembre 2019, il fascicolo è andato a Perugia con quattro sit (verbali di sommarie informazioni, ndr) schifosi a gennaio 2021. Le sembra una cosa ammissibile con quelle dichiarazioni? Se si fosse scoperto che Amara era calunniatore voleva dire la morte di quel processo che a Milano la Procura non poteva e doveva perdere», aggiunge Storari. Prete lo incalza: «Mi dice qualche atto d’indagini che le hanno impedito di fare?».

«I tabulati, le deleghe alla pg», risponde secco Storari, spiegando anche il perché non vennero fatte fare da Greco: «I carabinieri no perché c’è implicato il generale Del Sette (Tullio, ndr), comandante generale dell’Arma, la guardia di finanza no perché ci sta Zafarana. La polizia di Stato mi sta sulle palle». Storari decide di optare per la polizia: «Ad un certo punto dico lo Sco (Servizio centrale operativo, ndr), non c’è nessuno dello Sco, diamolo a loro, almeno qualcuno si salva». «Allo stato – continua Storari – all’interno della polizia non vi è alcun appartenente a differenza quanto meno per carabinieri e guardia di finanza». E sui tabulati: «L’unica volta, cazzo, che mi sono permesso di dire facciamo i tabulali questi mi volevano aprire un procedimento disciplinare». «Di fronte a un fascicolo di questa portata, non stiamo parlando di una truffa alle assicurazioni stiamo parlando di robe devastanti per il Paese, facciamo veloce», ricorda ancora Storari a Prete, aggiungendo però che il fascicolo era invece «rimasto un anno e due mesi nel cassetto».

A gennaio del 2021 il fascicolo arriva comunque Perugia per competenza territoriale. «Ha visto chi c’è in questa loggia, il dottor De Ficchy (Luigi, ndr) cosa faceva De Ficchy, il procuratore di Perugia», continua Storari all’indirizzo di Prete. La procura del capoluogo umbro per Storari sarebbe stata incompetente. «Sa qual è il grande stratagemma che viene trovato per mandarla a Perugia? Grande, fantasioso si separa De Ficchy, si manda a Firenze e tutto il resto si manda a Perugia», ricorda Storari che sul punto ha le idee chiare: «E’ una vergogna. Perugia qui non c’entra un cazzo». Storari si assume comunque la responsabilità della scelta: «Io ho condiviso perché almeno facciamo qualcosa». «Lì ci sono i massimi vertici delle forze dell’ordine, ci sono componenti del Csm, questa roba è stata gestita una merda. Questa roba, insisto, in due mesi lavorando giorno e notte dovevi portarla a casa. E se scoprivi che questo (Amara) diceva in parte cazzate, era da arrestare», le ultime parole di Storari. Paolo Comi

Nicola Zingaretti, il verbale nascosto: finanziamenti e lobby, ecco le rivelazioni di Amara "censurate". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 03 aprile 2022.

Spuntano i verbali di due interrogatori di Piero Amara resi alla procura di Perugia (inediti) diversi da quelli pubblicati selettivamente dal Fatto Quotidiano nel settembre 2021, dopo averli tenuti per quasi un anno in frigorifero: e sono appunto verbali integrali, non selezionati col bisturi né in testo «word» come quelli diffusi dai magistrati Paolo Storari e Piercamillo Davigo. Sono rispettivamente del 26 ottobre 2020 e del 4 febbraio 2021. In essi, tra l'altro, Piero Amara chiama in causa il segretario diessino Luca Zingaretti e dice che fu finanziato dall'imprenditore Fabrizio Centofanti, il quale avrebbe pagato le vacanza ai magistrati Sebastiano Ardita e Alessandro Centonze. Le repliche dei citati saranno ovviamente benvenute, considerando che qualcuno si era già ritenuto danneggiato dai verbali precedenti (quelli del Fatto) e che Ardita, da consigliere del Csm, si è già costituito parte civile nel complicato intreccio di processi che si sono mossi tra Milano, Brescia, Perugia e Roma.

Il primo verbale è del 26 ottobre 2020 nell'ufficio del procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone, e sono presenti, tra altri pm, anche i procuratori Laura Pedio e Paolo Storari in trasferta da Milano. Piero Amara, dopo aver citato alcune sue conoscenze con vari magistrati («Cardaci, Ferrara, D'Agata, Ardita, Centonze, Gennaro, Giordano e altri ancora») risponde a una domanda sui suoi rapporti in particolare con Sebastiano Ardita: «All'epoca», risponde Amara, «avevo molta confidenza con lui. In quel periodo lavorava a Catania e poi si trasferì credo a Bologna. Posso dire che, su indicazioni di Tinebra, ho pagato delle vacanze ad Ardita e a Centonze».

«PABLO ESCOBAR»

Gianni Tinebra, morto nel 2017, è stato a capo della procura di Caltanissetta e Amara l'aveva già descritto come una sorta di reggifila della presunta loggia segreta Ungheria. Alessandro Centonze era un sostituto procuratore di Catania. «Si trattava di due abitazioni fittate presso il lido San Lorenzo, in Pachino, località Marzamemi, che è di proprietà del geometra Frontino, che è il padre della compagna di Calafiore». L'avvocato Salvatore Calafiore è un inseparabile e baffuto compare di Piero Amara: nelle loro chat riservate, Amara si faceva chiamare «Peter Pan» e Calafiore «Pablo Escobar».

Prosegue Amara nel verbale, a proposito dei due magistrati: «L'affitto era di 3.500 euro per ciascuna abitazione. La vacanza di cui ho parlato è avvenuta in estate tra il 2007 ed il 2008. Centonze emise un assegno di 1.000 euro per dimostrare di aver pagato. L'assegno mi venne consegnato da Centonze e io lo consegnai a Frontino. Ardita non corrispose nulla. Io pagai il soggiorno in contanti». Poi, nell'interrogatorio, chiedono ad Amara se considera l'imprenditore Fabrizio Centofanti un lobbista.

Centofanti, ricordiamo, è l'ex responsabile delle relazioni istituzionali della società Acqua Marcia che aveva confermato (vedi Libero del 31 marzo) quanto aveva già detto Amara circa un incarico da 400mila euro corrisposto a reg Giuseppe Conte nelle vesti di avvocato amministrativista. Un lobbista, dunque? «Certamente per Acquamarcia. Poi, a mio avviso, l'attività di relazioni istituzionali le ha coltivate tramite la Cosmec».

La Cosmec è una società di Centofanti che organizzava convegni di magistrati e con la quale collaborava anche Giuseppe Conte in «un rapporto di stima e cordialità, tanto che ci affidò l'organizzazione di alcuni convegni», dirà l'imprenditore in un interrogatorio del 30 marzo 2021).

Ma non è finita. «So anche che c'è un rapporto molto stretto tra Nicola Zingaretti e Centofanti», dice ora Amara, «per avermelo detto quest' ultimo. Giuseppe Calafiore mi ha detto che Centofanti avrebbe finanziato la campagna elettorale di Zingaretti... Ricordo che in occasione della prima candidatura di Zingaretti venne organizzata una cena a casa di un avvocato amministrativista che era avvocato di Acquamarcia; il servizio di ristorazione venne organizzato o gestito da Fabrizio Centofanti». Chiedono ad Amara se lui fosse presente: «Ero presente. Ricordo che a questa cena era presente anche il dottor Raffaele Squitieri». Che è l'ex presidente aggiunto della Corte dei Conti, in carica sino al 2016. Chi era l'avvocato amministrativista (di Acqua Marcia) a casa del - - quale Zingaretti presentò la sua candidatura? Amara non lo dice, come visto, ma potrebbe trattarsi di uno tra Guido Alpa e Giuseppe Conte.

Poi c'è il secondo verbale relativo a un secondo interrogatorio di Piero Amara del 4 febbraio 2021, sempre a Perugia, davanti ai pubblici ministeri Gemma Miliani e Mario Formisano. Qui l'indagato parla anzitutto dell'ex pm romano Stefano Rocco Fava, con il quale aveva però il dente avvelenato perché era stato forse il solo magistrato che non gli aveva creduto sin dal principio. e che infatti lo voleva arrestare. «Evidenzio che Fava», dice Amara, «ha riferito a Luca Palamara che Pignatone non mi avrebbe fatto arrestare in virtù dei rapporti che, secondo lui, avevo avuto con il fratello». È una storia intricatissima in cui non ci addentriamo.

Giuseppe Pignatone, ex procuratore Capo a Roma, ha un fratello che si chiama Roberto e che dal 2014 al 2016 era stato consulente di Ezio Bigotti, coinvolto in un'indagine nella Capitale sulla quale, secondo l'accusa, il procuratore Pignatone attardò ad astenersi. Neanche ai magistrati di Perugia pare interessare, tanto che passano alla domanda successiva: «Ci può spiegare come e perché finanziò Luca Lotti?». Qui invece, sul deputato vicino a Matteo Renzi, è Pietro Amara che per ora sorvola: «Preferisco parlarne in un prossimo interrogatorio».

AFFARI CON LA TOGA

I pm insistono e chiedono ad Amara se conosca l'avvocato Alberto Bianchi, già presidente dell'associazione Open di Matteo Renzi: «Preferisco anche in questo caso rinviare l'approfondimento dei miei rapporti con I' avvocato Bianchi a un prossimo interrogatorio».

È come se i pm non volessero cadere nelle trappole di Amara e viceversa, volontà fatta propria anche da chi, come Libero, pubblica ora questi verbali.

«Conosce la dottoressa Battagliese?» chiedono i pm ad Amara. «È un magistrato di Roma che si occupa di civile, credo di averla incontrata in due occasioni casuali con Fabrizio Centofanti. In un'occasione a Gaeta, in una seconda casualmente al ristorante Tullio a Roma». I pm chiedono se sapesse di rapporti comuni tra la Battagliese (Massimiliana, ndr) e Centofanti. 

«Non so nulla di preciso», risponde Amara, «ho desunto, dal modo in cui me l'ha presentata, che fossero amici». Forse i pm puntavano a un'altra faccenda che riguardò l'inchiesta sull'associazione Open di Matteo Renzi: risultò che la citata Cosmec di Centofanti aveva comprato un quadro per 312 mila euro e che un'informativa della Banca d'Italia aveva fatto sapere che 262mila di questi euro erano finiti nelle tasche del giudice Battagliese. Non avendo noi reperito alcun seguito di questa vicenda, sarà eventualmente benvenuta anche la sua smentita.

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 28 aprile 2022.  

Come in un legal thriller, nel processo a Piercamillo Davigo spunta un testimone a sorpresa. Anzi due. Giuseppe Severini e Sergio Santoro, alti giudici del Consiglio di Stato da poco in pensione. E, si scopre ora, commensali di Davigo in cene romane con rilevanza giudiziaria. 

«I testimoni 22 e 23 della nostra lista sono particolarmente importanti», ha detto nella prima udienza Fabio Repici, avvocato del consigliere del Csm Sebastiano Ardita, che si è costituito parte civile.

Si proclama vittima della rivelazione di segreto istruttorio, contestata a Davigo per aver divulgato i verbali sulla fantomatica loggia paramassonica Ungheria nel Csm, dopo averli ricevuti dal pm milanese Storari. In quei verbali l'avvocato Piero Amara indicava Ardita nella quarantina di affiliati alla loggia. 

Davigo ne trasse motivo per interrompere i rapporti con Ardita, suo compagno di corrente e vicino di stanza al Csm, e mettere in guardia altri sette consiglieri, due assistenti e il presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra.

L'avvocato di Ardita punta a dimostrare che Davigo utilizzò i verbali non per senso istituzionale, ma «per screditarlo e condizionare il Csm». Per farlo deve smontare la tesi di Davigo, «che ha giustificato il suo comportamento dicendo che aver appreso il contenuto dei verbali comportava la necessità di indurre i consiglieri del Csm a prendere le distanze da Ardita». 

E qui spuntano i due nuovi testimoni. L'ex giudice Severini ha raccontato di aver «incontrato Davigo nel corso di due cene a casa del collega Santoro, con cui credo avesse un rapporto pregresso». 

Cene tra magistrati prossimi alla pensione. Infatti «Santoro organizzò queste cene perché aveva interesse a sondare l'atteggiamento anche di altri colleghi circa la possibilità che venisse modificata l'età pensionabile dei magistrati, riportandola a 72 anni.

Sapeva che io condividevo questa posizione e mi invitò quando ritenne di parlare della questione con un magistrato ordinario importante come Davigo. In una delle due cene era presente anche Federico Cafiero De Raho (allora procuratore nazionale antimafia, oggi in pensione) con cui io e Santoro avevamo in più occasioni parlato del tema, recandoci nel suo ufficio. Mi pare che alle cene sia stata presente anche un'avvocata amica di Davigo».

Severini ricorda che Davigo «non era contrario» all'innalzamento dell'età pensionabile «ma precisò di non essere direttamente interessato» perché convinto di restare in carica al Csm fino a 72 anni. Certezza mal risposta, perché nell'ottobre 2020 il Csm deciderà diversamente. 

Al di là del lobbismo pensionistico le cene rilevano perché Severini le colloca «la prima nell'ottobre 2019, la seconda molti mesi dopo, nel 2020». Al tempo della prima cena, il giudice Santoro era notoriamente indagato dalla Procura di Roma per corruzione giudiziaria, nell'inchiesta sul Consiglio di Stato alimentata dallo stesso Amara.

La sua posizione è stata archiviata successivamente. 

La seconda cena, in assenza di una data precisa, presumibilmente si collocherebbe dopo il lockdown, quando Davigo torna a Roma con i verbali sulla loggia Ungheria, in cui Santoro è citato in modo più diffuso e specifico di Ardita. Prima come «associato e membro alla loggia Ungheria», poi perché sponsorizzato da Lotti e Verdini, «i quali volevano che diventasse presidente della sezione del Consiglio di Stato che si occupava dei ricorsi Consip. E così avvenne».

Il commensale Severini (mai citato, lui, nei verbali di Amara) ricorda «rapporti cordiali tra Davigo e Santoro» e nega accenni alla vicenda Ungheria. Il tribunale ha ammesso le testimonianze per ricostruire le cene e verificare se «Davigo mostrò mai imbarazzo o distacco». Vero o no ciò che dice Amara, la domanda che Davigo si vedrà porre in aula è un'altra: perché gli credeva di giorno, al punto da mettere in allarme mezzo Csm su Ardita, ma non di sera, quando continuava a frequentare la casa di Santoro, pur additato come membro della stessa loggia segreta ed eversiva?

Luigi Ferrarella per corriere.it il 19 aprile 2022.  

Una sfilata dei vertici della magistratura italiana: diventerà questo, se il Tribunale accoglierà le liste di testi presentate dalle parti, il processo che inizia domani a Brescia all’ex consigliere del Csm ed ex pm di Mani pulite, Piercamillo Davigo, per l’ipotesi di «rivelazione di segreto d’ufficio» dopo che il pm milanese Paolo Storari nell’aprile 2020 gli consegnó in copia word i verbali sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria» resi ai pm milanesi Pedio e Storari dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara: verbali sui quali Storari lamentava lo scarso dinamismo del procuratore Francesco Greco e della sua vice Laura Pedio nell’indagare per distinguere in fretta tra verità e calunnie di Amara, in un attendismo motivato (secondo Storari) dal timore dei vertici della Procura che potesse uscire erosa la credibilità di Amara in altre sue dichiarazioni, invece valorizzate contro Eni (assieme a quelle del coindagato Vincenzo Armanna) nel processo Eni-Nigeria del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e nella inchiesta del pm Pedio sul collegato depistaggio giudiziario Eni.

Tra coloro di cui è stata chiesta la testimonianza (dall’accusa, dalla difesa, e dalla parte civile del consigliere Csm Sebastiano Ardita costituitosi in giudizio contro Davigo) figurano infatti il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, il vicepresidente del Csm, David Ermini, i consiglieri Giuseppe Marra, Ilaria Pepe, Giuseppe Cascini, Nino Di Matteo, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna, il presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, più la segretaria di Davigo al Csm Marcella Contrafatto, e i due giornalisti del Fatto Quotidiano e Repubblica che ricevettero anonimi con le copie dei verbali.

Ma il processo bresciano potrebbe anche diventare un faccia faccia differito tra Davigo e Storari da un lato, e i (pure citati come testi) vertici della Procura milanese all’epoca degli attriti, e cioè Francesco Greco (poi archiviato da Brescia e oggi in pensione), la sua vice Laura Pedio (oggetto di una richiesta di archiviazione), l’altro suo vice Fabio De Pasquale (indagato a Brescia, e come Storari lal vaglio di una procedura del Csm di eventuale incompatibilità ambientale).

Nel frattempo la Procura di Brescia ha fatto ricorso contro l’assoluzione di Storari decisa il 7 marzo in primo grado in abbreviato dalla giudice Federica Brugnara: per l’accusa «non è certamente frequente imbattersi in una sentenza di assoluzione per il riconoscimento di errore di diritto per ignoranza inevitabile della legge extrapenale, specie se ad essere imputato è un magistrato della Repubblica, soggetto che interpreta e applica le norme per professione».

Parte il processo a Davigo. I vertici della magistratura chiamati a testimoniare. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Aprile 2022.

Per la procura di Brescia «non è certamente frequente imbattersi in una sentenza di assoluzione per il riconoscimento di errore di diritto per ignoranza inevitabile della legge extrapenale, specie se ad essere imputato è un magistrato della Repubblica, soggetto che interpreta e applica le norme per professione».

Sarà una vera e propria passerella dei vertici della magistratura se il Tribunale di Brescia accoglierà le liste di testi depositate dalle parti, per il processo all’ex consigliere del Csm ed ex pm di Mani pulite, Piercamillo Davigo, che inizia oggi a Brescia, chiamato a rispondere dell’ipotesi di reato di “rivelazione di segreto d’ufficio” , che si sarebbe configurato secondo la Procura di Brescia (competente sui reati commessi negli uffici giudiziari di Milano) dopo che nell’aprile 2020 il pm milanese Storari gli consegnó una copia in formato word, priva di firme, i verbali sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria» resi dall’ avv. Piero Amara ex consulente legale esterno Eni ai pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari. 

Verbali in relazione ai quali il pm Storari contestava lo scarso attivismo giudiziario nelle indagini dell’ex-procuratore capo Francesco Greco e del procuratore aggiunto Laura Pedio, per accertare al più presto possibile le verità e le menzogne verbalizzate da Amara, in un immobilismo motivato dal timore (secondo Storari) dei vertici della Procura che potesse uscire sminuita la credibilità di Amara in altre sue dichiarazioni contro Eni assieme a quelle del coindagato Vincenzo Armanna, che erano state invece ritenute attendibili nel processo Eni-Nigeria dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e nella inchiesta sul collegato “depistaggio” giudiziario Eni dell’ aggiunta Pedio. 

Negli elenchi dei testimoni depositati dall’accusa, dalla difesa, e dalla parte civile (il magistrato Sebastiano Ardita consigliere Csm costituitosi in giudizio contro Davigo) compaiono il procuratore generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, il vicepresidente del Csm, David Ermini, i consiglieri Giuseppe Cascini, Stefano Cavanna, Nino Di Matteo, Fulvio Gigliotti, Giuseppe Marra, Ilaria Pepe, il presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (ex-M5S), la segretaria di Davigo al Csm Marcella Contrafatto, ed i due giornalisti Liana Milella del quotidiano La Repubblica  ed Antonio Massari de Il Fatto Quotidiano  destinatari da anonimi mittenti delle copie dei verbali. 

Paradossalmente il processo dinnanzi al Tribunale di Brescia potrebbe anche diventare un confronto all’americana seppure a distanza tra Davigo e Storari da un lato, e i vertici della Procura milanese (citati anche come testi) all’epoca degli scontri fra toghe, e cioè Francesco Greco (oggi in pensione), la sua aggiunta Laura Pedio (oggetto di una richiesta di archiviazione), l’altro suo vice Fabio De Pasquale (indagato a Brescia), nei confronti del quale (come anche per Storari) pende un procedimento disciplinare del Csm, chiamato a decidere su un’ eventuale incompatibilità ambientale. 

La Procura di Brescia ha presentato ricorso a sua volta contro l’ assoluzione di Storari decisa in primo grado (con rito abbreviato) lo scorso 7 marzo dalla giudice Federica Brugnara: per la procura bresciana «non è certamente frequente imbattersi in una sentenza di assoluzione per il riconoscimento di errore di diritto per ignoranza inevitabile della legge extrapenale, specie se ad essere imputato è un magistrato della Repubblica, soggetto che interpreta e applica le norme per professione». 

Che tutto questo sia l’anticamera della fine del fantomatico “rito ambrosiano” del Palazzo di Giustizia di via Freguglia a Milano, che sembra aver sottratto alla procura romana l’appellativo di “Porto delle nebbie“, o un semplice regolamento di conti interno alle correnti della magistratura ?

Redazione CdG 1947

Da ansa.it il 20 aprile 2022.

Con l'ammissione delle tv in aula si è aperto a Brescia il processo in cui l'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo è imputato per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta Loggia Ungheria. 

"Noto la presenza di telecamere. Le riprese televisive non sono necessarie" ha detto il pm Francesco Carlo Milanesi che con il collega Donato Greco è titolare del fascicolo.

"Ci rimettiamo alle vostre decisioni, ma non abbiamo problemi alla presenza delle telecamere in aula", hanno affermato i legali di Davigo. 

Quindi come primo atto del dibattimento, il collegio della prima sezione penale presieduto da Roberto Spanó ha autorizzato la presenza delle telecamere.

Davigo risponde di rivelazione del segreto d'ufficio. Parte civile è invece l'attuale componente del Csm Sebastiano Ardita.

"Credo di aver fatto il mio dovere nelle uniche forme in cui andava fatto". E' un passaggio delle dichiarazioni spontanee rese in aula a Brescia dall'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, imputato per la vicenda dei verbali di Piero Amara su una presunta Loggia Ungheria.

"Ho chiesto la pubblicità dell'udienza perché ritengo che l'opinione pubblica voglia sapere cosa è successo" ha proseguito aggiungendo di voler essere assolto "per quello che emerge dall'udienza e per questo non ho chiesto l'abbreviato". 

Davigo debutta dall'altra parte. "Ora si comporti da imputato". Luca Fazzo il 21 Aprile 2022 su Il Giornale.

Al via a Brescia il processo sui verbali di Amara. E il giudice subito bacchetta l'ex pm. Il 24 parla Storari.

Processo al Sistema: se Roberto Spanò, presidente del tribunale di Brescia, non cambierà idea, il processo contro Piercamillo Davigo, ex membro del Consiglio superiore della magistratura e ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, promette di trasformarsi in una ricostruzione a favore di telecamera dei meccanismi che regolano dietro le quinte la vita della magistratura italiana. Perché non si può capire davvero la storia dei verbali sulla loggia Ungheria, passati di mano in mano come se fossero volantini e non atti coperti da segreto, senza ricostruire gli obiettivi, le alleanze, le rivalità che hanno mosso tutti i protagonisti. Così nell'elenco di testi che ieri il giudice Spanò ammette c'è mezzo Gotha della magistratura italiana: sei membri in carica del Csm, a partire dal vicepresidente David Ermini, i due massimi vertici della Cassazione (il presidente Curzio e il procuratore generale Salvi), l'intero vertice della Procura di Milano, compreso l'ex procuratore Greco e il capo del pool antimafia Alessandra Dolci, compagna di Davigo. Tutti, per il pezzo di loro competenza, chiamati a spiegare come sia stato possibile che dichiarazioni micidiali come quelle messe a verbale dall'ex avvocato di Eni Piero Amara restassero per mesi a sonnecchiare a Milano, salvo venire usate per cercare di affossare un giudice scomodo alla Procura; e venissero poi divulgate, grazie a Davigo, fino ad arrivare al Quirinale.

Se Spanò non sfoltisce la lista, insomma, sarà un processo interessante. Davigo punta a uscirne assolto e anche pubblicamente riabilitato, per questo ieri dà il via libera alle telecamere in aula. Ieri l'ex «Dottor Sottile» del pool Mani Pulite appare carico, forse fin troppo. Prende subito la parola, si dichiara innocente, si infervora al punto che il giudice deve stopparlo: «È difficile svestire la toga quando si è dall'altra parte, la inviterei a calarsi nella parte dell'imputato», dice Spanò senza tanti giri di parole all'ex collega. Davigo non se la aspettava, si blocca un attimo. Forse solo in quel momento capisce che per la prima volta in vita sua, nell'aula di tribunale seduto sul banco dell'accusa non c'è lui. E che lo status di ex magistrato non gli garantirà alcun trattamento di riguardo.

Il primo testimone a venire interrogato sarà, il prossimo 24 maggio, Paolo Storari: il pm milanese che partendo lancia in resta contro i propri capi e l'insabbiamento dei verbali di Amara ha dato il via a questo pasticcio epocale. Storari e Davigo erano imputati insieme di rivelazione di segreti d'ufficio, la loro sorte appariva intrecciata, Davigo poi ha scelto la strada del processo a porte aperte «perché ritengo che l'opinione pubblica voglia sapere cosa è successo», Storari invece ha chiesto il rito abbreviato ed è stato assolto ma la partita per lui non è chiusa. La Procura di Brescia infatti ha impugnato l'assoluzione con un ricorso piuttosto duro, «anche nel caso che il Csm avesse qualche competenza a conoscere le dichiarazioni di Amara certamente non lo era Davigo e men che meno nel salotto di casa sua».

Se confermerà quanto detto durante le indagini preliminari, Storari il 24 maggio spiegherà che fu proprio Davigo a garantirgli che il passaggio dei verbali, anche in quella forma assai sbrigativa, era del tutto legale. A quel punto il focus si sposterà su un punto chiave: perché Davigo prima si fa dare i verbali e poi li divulga? Il sospetto è che li volesse utilizzare per regolare i conti col collega Sebastiano Ardita, ex amico divenuto acerrimo nemico. Niente di troppo nobile, insomma. Ardita ha ottenuto di costituirsi parte civile, ha un avvocato implacabile, e difficilmente accetterà una verità sbrigativa.

Davigo a processo: «Io, innocente». Ma il giudice lo “riprende”: «Si comporti da imputato…» Caso verbali, al via il processo a Brescia: il giudice “bacchetta” l’ex pm. Simona Musco su Il Dubbio il 21 aprile 2022.

«È difficile svestire la toga quando si è dall’altra parte, la inviterei a calarsi nella parte dell’imputato». L’urgenza di Piercamillo Davigo di raccontare la sua verità è tanta che a un certo punto il presidente del collegio che lo dovrà giudicare, Roberto Spanò, è costretto a fermarlo.

Ma a passare per quello che voleva fare dossieraggio ai danni del suo ex amico Sebastiano Ardita, con il quale ha fondato la corrente Autonomia e Indipendenza, l’ex pm di Mani Pulite non ci sta. Convinto, com’è, di aver fatto il suo «dovere nelle uniche forme in cui era possibile farlo». Così questa mattina, alla prima udienza del processo che lo vede imputato a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio per la diffusione dei verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara, Davigo ha deciso di prendere la parola. E di ribadire la propria innocenza, sostenendo di non voler sollevare l’eccezione di competenza territoriale di Brescia (che pure implicitamente contesta), perché «non si deve scappare dal giudice quando si è innocenti».

Il magistrato ormai in pensione, dunque, ha fretta di parlare, di spiegare le proprie ragioni. Di dire che se ha scelto il rito ordinario, e non l’abbreviato, è per raccontare come sono andate le cose, anche perché altrimenti «poi mi dicono che lo faccio per denigrare Ardita, ma semmai è Amara che lo denigra. La questione sarebbe stata più chiara rappresentando al tribunale l’intera vicenda, perché è molto più semplice di quello che sembra». Tutto ruota, come noto, attorno ai verbali sulla testimonianza di Amara consegnati dal pm milanese Paolo Storari a Davigo, all’epoca consigliere del Csm, come forma di «autotutela» per il presunto lassismo della procura di Milano nell’iscrizione dei primi indagati in relazione alla presunta loggia Ungheria, della cui esistenza aveva riferito proprio il consulente dell’Eni, inserendo tra i presunti affiliati anche un consigliere del Csm: Ardita.

Verbali che Davigo prese in consegna promettendo di farsi da tramite con il comitato di presidenza, salvo poi parlarne non solo con il vicepresidente del Csm David Ermini, con il procuratore generale Giovanni Salvi e con il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, ma anche con diversi altri consiglieri, con le sue segretarie e con il presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra, consigliando loro di prendere le distanze proprio da Ardita, costituitosi parte civile nel procedimento. Il processo, dunque, rappresenta una resa dei conti tra i due, che nelle prossime udienze si confronteranno davanti al collegio giudicante. Perché secondo Ardita, rappresentato dall’avvocato Fabio Repici, Davigo avrebbe agito con «dolo» con il fine «di screditare» il suo ruolo istituzionale «di consigliere del Csm» e la sua «immagine personale e professionale», attraverso «una pervicace operazione mirata di discredito, cercando così perfino di condizionarne il ruolo di consigliere del Csm e addirittura arrivando a condizionare l’intero Csm».

Il presidente Spanò ha ammesso tutti i testi citati da accusa, parte civile e difesa, circa trenta persone. Si partirà il 24 maggio, con la testimonianza di Storari, assolto in abbreviato dall’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio perché il fatto non costituisce reato. Assoluzione però impugnata dalla procura, secondo cui anche nel caso in cui si volesse ritenere che il Csm fosse deputato a conoscere quanto stava accadendo in procura a Milano con i verbali di Amara, «certamente non lo era Davigo, men che meno nel salotto di casa sua, e non può credersi che un errore di diritto su tali circostanze possa ritenersi “inevitabile”, specie per un soggetto che interpreta ed applica le norme per funzione e professione».

Dopo Storari, il 28 giugno, sarà la volta del vicepresidente del Csm David Ermini e dei consiglieri Giuseppe Marra, Ilaria Pepe e Giuseppe Cascini. Tra le persone chiamate a testimoniare anche il procuratore generale Salvi e l’ex procuratore di Milano Francesco Greco, i pm meneghini Laura Pedio e Fabio De Pasquale (ritenuto però dall’accusa «lontano dai fatti») e il magistrato Alessandra Dolci. Ma ci saranno anche il primo presidente Curzio, l’ex segretaria di Davigo Marcella Contrafatto (sotto inchiesta a Roma per la diffusione dei verbali alla stampa), Morra e i due giornalisti destinatari del plico con i verbali, poi consegnati in procura. L’elenco, ha però chiarito Spanò, potrà essere sfoltito nel corso del processo: «Vedremo di volta in volta la rilevanza. A noi – ha spiegato il giudice – piace che la prova si formi in dibattimento purché non si esca dal processo. Raccomando alle parti di non avere animosità».

Ed è a questo punto che Davigo ha preso la parola, ribadendo di voler chiarire «una vicenda che reputo molto interessante per l’opinione pubblica». «Non contesto che Storari mi abbia consegnato una chiavetta – ha spiegato -, l’ho detto anche io. Ma non è per questo che lo abbiamo citato, ma per altra ragione. Non può essere vero che io abbia istigato Storari e comunque non potevo farlo prima di sapere cosa mi avrebbe detto». Un modo per dire che non ha usato il pm milanese per screditare Ardita, ma anche per evidenziare il problema della competenza territoriale, che spetterebbe a Roma, secondo Davigo, luogo in cui si sarebbe eventualmente consumato il reato con la diffusione dei verbali ai membri del Csm. Ma anche Brescia, per l’ex pm di Mani Pulite, va bene: l’importante è avere un giudice a cui dire «la verità».

Se non fosse che nel rilasciare dichiarazioni spontanee Davigo è andato oltre, chiedendo chiarimenti al pm sul capo d’imputazione: «Ho diritto di sapere perché condotte identiche» vengono valutate diversamente. Ovvero: «Mi viene contestata come rivelazione di segreto d’ufficio l’aver informato il vicepresidente del Csm ma non mi viene contestato di aver detto le stesse cose al primo presidente della Corte di Cassazione: perché è lecito se lo dico a Curzio ed è illecito se lo dico a Ermini? Questo il pubblico ministero avrebbe il dovere di spiegarmelo». Un’affermazione di troppo, che ha spinto Spanò a fermare Davigo, invitandolo a rispettare i ruoli: «Si cali nella parte dell’imputato».

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 21 aprile 2022.  

Occorre resistere alla tentazione di scrivere del processo a Piercamillo Davigo con un tono da «ecco, tocca a te», «ora sai che cosa si prova», eccetera: non sono queste - l'essere interrogato da imputato o da testimone- le cose che non sapeva e che gli auguriamo di non sapere mai, perché sono cose che riguardavano chi al processo spesso neppure ci arrivava, o veniva maltrattato senza un pubblico durante un interrogatorio, o marciva in galera da innocente. Non c'è nessuna nemesi, perciò. Per ora, almeno.

Davigo non ha un Davigo che lo fronteggia: ha il giudice Roberto Spanò, il quale forse fu il più deciso nel respingere le richieste di rinvio a giudizio che dal 1996 al 1999 riguardarono Antonio Di Pietro a Brescia, e più in generale, l'immagine di Mani Pulite. 

Fu roba che passò alla storia della giurisprudenza: alcune particolari udienze preliminari prassi che talvolta duravano pochi minuti, e che al più verificavano i crismi formali per fare un normale processo- durarono settimane o mesi e anticiparono patenti di innocenza o di colpevolezza riservate di regola ai giudici veri e propri, come ora è Spanò.

Furono sentenze che andarono contro ogni linea-guida del legislatore e contro i pronunciamenti, sul tema, della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione anche a sezioni unite. Insomma, sulla ferrea volontà di salvare l'immagine dell'inchiesta e i suoi simboli non vi furono dubbi. Ai tempi era Di Pietro. Oggi è Davigo, e potrebbero essere cambiate tante cose: tra queste, sicuramente, però, non c'è il piglio arrogante di Davigo: è rimasto quello.

Qualche sua frase di ieri: «Ho fatto il mio dovere nell'unica maniera in cui andava fatto, assolvetemi», «ho chiesto la pubblicità dell'udienza perché ritengo che l'opinione pubblica voglia sapere cosa è successo», «Storari mi informa di una situazione che io ritengo legittima, io non contesto che Storari mi abbia consegnato una chiavetta, è vero e l'ho detto», «non bisogna scappare dal giudice quando si è innocenti e per questo non faccio eccezioni di competenza territoriali». 

Insomma, il giudice sembrava ancora lui, seduto in prima fila: ho fatto la cosa giusta nel modo migliore, sono io che ho chiesto le porte aperte alle udienze, e comunque ho già detto tutto, sono innocente, e sono qui solo perché non ho fatto eccezioni di competenza territoriale.

Un'ostentazione di controllo inversa rispetto alla vertigine di chi rimane impigliato nell'ingranaggio giudiziario, ed entra in dinamiche che non può controllare. Però ieri, Davigo, a un certo punto è parso eccessivo persino per il giudice Roberto Spanò: «Ho diritto di sapere perché condotte identiche mi vengono contestate come rivelazione di segreti d'ufficio e altre no» ha detto a un certo punto Davigo (come se la stessa domanda non avesse mai riguardato la sua attività da pm) prima di chiedersi anche «perché è lecito se lo dico al presidente Curzio ed è illecito se lo dico al pm Ermini?».

Qui Spanò ha preso la parola e gli ha fatto un richiamo, perché era davvero era troppo: «So che è difficile sfilarsi la toga, ma la invito a calarsi nella parte dell'imputato». Ah già, la toga: aveva dimenticato di toglierla. Come disse Oscar Luigi Scalfaro: la toga è sull'anima.

«La vicenda è molto più semplice di quel che sembra... Storari mi rappresenta una situazione che lui ritiene illegittima e io che condivido essere illegittima», ha detto ancora Davigo, ex consigliere del Csm che ieri ha reso parziali dichiarazioni spontanee nel processo in cui è imputato.

Poi, fuori dall'aula, coi giornalisti, si è soltanto ripetuto: «Vorrei sapere perché comportamenti identici a volte vengono considerati reati e altri no». Capito.

Dunque facciamo ordine. 

Ieri c'è stata la prima udienza del processo con imputato Davigo per l'accusa di rivelazione di segreto per aver diffuso, in qualità di componente del Consiglio superiore della magistratura, in modo «informale e senza alcuna ragione ufficiale», alcuni verbali segreti, «violando i doveri» legati alle sue funzioni e «abusando delle sue qualità». Il giudice Spanò ha ammesso le telecamere a cui si erano opposti solo i pm, Donato Greco e Francesco Milanesi.

I verbali in questione sono quelli che l'ex consulente dell'Eni Piero Amara, tra la fine del 2019 e l'inizio del 2020, aveva reso ai pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari

 In seguito, Storari ha ritenuto che Laura Pedio e l'allora procuratore capo di Milano Francesco Greco avrebbero rallentato le indagini, ragione per cui lo stesso Storari nell'aprile 2020 consegnò al consigliere del Csm Davigo una copia (trascritta in word) di questi verbali.

Davigo ha sempre detto di aver avuto quelle carte in modo legittimo in quanto membro del Csm, a cui il segreto non sarebbe opponibile. Per il pm Laura Pedio, la procura di Brescia ha chiesto l'archiviazione. L'ex capo Francesco Greco, oggi in pensione come Davigo, è già stato prosciolto. 

Se ne riparlerà il 24 maggio, quando verrà ascoltato il pm Paolo Storari (dapprima archiviato anche lui, ma la procura si è appellata) e poi il 28 giugno quando invece la parola passerà al vicepresidente del Csm David Ermini più alcuni consiglieri come Ilaria Pepe, Giuseppe Marra e Giuseppe Cascini.

Tra i testimoni teoricamente ammessi - in realtà verranno vagliati di volta in volta - ci potrebbero essere il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, e poi Nino Di Matteo, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna, oltre al presidente della commissione antimafia Nicola Morra e all'ex segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contrafatto. Perché diventi interessante, al processo servirà un po' di tempo.

A favore delle telecamere. Processo a Davigo, a Brescia inizia lo scontro finale tra toghe. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Aprile 2022. 

Voleva il processo pubblico e le telecamere fin dal primo interrogatorio, e finalmente ha avuto l’uno e le altre, Piercamillo Davigo, imputato a Brescia per rivelazione di atti d’ufficio per aver diffuso gli atti giudiziari sulla Loggia Ungheria, coperti dal segreto. Così ieri mattina l’ex procuratore milanese è comparso davanti ai suoi giudici e ha cercato subito quella visibilità che non gli è mai mancata, fin dai tempi di “Mani Pulite”, quando lui e gli altri capitani coraggiosi incedevano nel corridoio del quarto piano della procura di Milano, attorniati da cronisti adoranti e telecamere sempre sull’attenti per loro.

Ma qui siamo a Brescia nel 2022, davanti alla prima sezione del tribunale presieduta da Roberto Spanò, e Piercamillo Davigo siede dall’altra parte della barricata. Da quella “giusta” c’è una toga che è solo “ex” collega, che gli dà del lei e che, pur avendo concesso l’ingresso in aula delle agognate telecamere, annusa l’aria e mette le mani avanti: “Raccomando alle parti di non avere animosità”. Poi stoppa l’ex pm, già pronto a un’esibizione-fiume per guadagnarsi la centralità della scena, oppure a vestire il ruolo della vittima qualora non gli fosse stata concessa la parola. Il giudice Spanò sceglie la via di mezzo, e gli consente solo le dichiarazioni spontanee, purché brevi. Davigo è costretto ad abbozzare e Spanò lo consola: “E’ difficile svestire la toga quando si è dall’altra parte, la inviterei a calarsi nella parte dell’imputato”. Bonario, ma intransigente, il presidente della prima sezione del tribunale di Brescia. Così accetta, o finge di accettare i trenta testimoni chiamati a deporre dal pm, dallo stesso Davigo, ma anche da Sebastiano Ardita, il consigliere del Csm che si è sentito danneggiato dall’ex collega e che nel processo si è costituito parte civile contro di lui. Si vedrà in corso d’opera se saranno tutti indispensabili.

Ma sarà tutta una battaglia tra toghe, quella che si svilupperà in quest’aula. A partire, più che dalla prossima udienza del 24 maggio, quando sarà sentito Paolo Storari, dalla successiva del 28 giugno quando arriverà a giurare di dire tutta la verità il vicepresidente del Csm David Ermini. Sarà quello il primo momento delle scintille, delle versioni contrapposte. Le certezze storiche di Davigo, da una parte. Più o meno tutti gli altri, dall’altra, con l’eccezione del pm milanese Storari, suo complice nell’illegalità secondo la procura di Brescia, ma già prosciolto dal gup, con un provvedimento contro cui ovviamente pende già un ricorso. Proprio nei giorni in cui la magistratura militante minaccia un’incomprensibile astensione dall’attività giurisdizionale per protestare in particolare contro una pagella ritenuta una schedatura, un’ ex toga che ha fatto la storia della Repubblica Giudiziaria è a giudizio in sede penale proprio per quel tipo di comportamenti che nel fascicolo del magistrato sarebbero sottolineati con la matita blu. Non era più pubblico ministero, Piercamillo Davigo, ma componente del Csm, in quei giorni tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, in cui accoglieva a casa propria a Milano il sostituto procuratore Paolo Storari che lamentava il disinteresse del procuratore Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio nei confronti della deposizione dell’avvocato esterno di Eni Piero Amara e della presunta Loggia Ungheria.

Aveva ritenuto normale, l’ex pm di Mani Pulite, ricevere dalle mani del giovane ex collega quelle carte, in realtà una chiavetta, con la trascrizione di quegli interrogatori coperti da segreto. E poi andava a Roma e, sempre ritenendosi nel giusto, iniziava a diffonderli in modo “informale e senza alcuna ragione ufficiale”, violando i suoi doveri e abusando del suo ruolo. Così dicono i pm di Brescia. Perché quei verbali sono finiti nelle mani un po’ di tutti, o quasi, i membri del Csm, oltre che al vicepresidente Ermini, e poi al primo presidente della corte d’appello Pietro Canzio e al procuratore generale Giovanni Salvi. Ne è stato informato anche lo stesso presidente Mattarella. Ci sarà una bella sfilata di toghe qui a Brescia, nelle prossime sedute. E anche di ex amici di Davigo che ora vogliono solo vederlo finire allo spiedo. Francesco Greco prima di tutto, che da questa inchiesta è già uscito nella veste di indagato, ma che ha il dente avvelenato perché è stato costretto ad andare in pensione con l’immagine appannata dopo che la procura di Milano, anche a causa della vicenda Davigo-Storari (il vero vincitore, salvato dal Csm e prosciolto a Brescia), gli è esplosa tra le mani e lui se ne va con la reputazione dell’insabbiatore.

E oltre a tutto lo attende al varco anche un sospetto di abuso d’ufficio nell’inchiesta sul Monte Paschi di Siena. E poi David Ermini, la cui versione dei fatti è effettivamente un po’ barcollante, ma in netto contrasto con quella di Davigo. Dice infatti il vice presidente del Csm di aver ricevuto dalle mani del consigliere una cartellina arancione contenente la famosa deposizione di Amara, ma di averla buttata nel cestino. Giustamente l’ altro gli contesta il fatto che, se quelle carte fossero state così scottanti, non in pattumiera ma nel trita-documenti avrebbero dovuto essere collocate. Allora sei mio complice, gli rinfaccia Davigo. Scintille, scintille. Ma l’incendio si svilupperà all’arrivo dell’unica vera vittima di tutta quanta la faccenda, il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, l’ex amicone e collega di corrente di Davigo.

Perché tutti parevano tramare alle sulle spalle, nei giorni in cui il famoso fascicolo passava di mano in mano, dopo aver letto nella deposizione di Amara il suo nome come uno dei componenti della Loggia Ungheria, che sarebbe, se esistesse, una sorta di nuova P2. Oltre a tutto scoperta negli stessi corridoi in cui qualche decennio prima Gherardo Colombo e Giuliano Turone avevano disvelato l’attività del Gran Maestro Licio Gelli. Ne sentiremo delle belle, in quell’aula. Anche da questo processo, dall’immagine che se ne proietterà all’esterno, passa la reputazione della magistratura e la tenuta o meno della Repubblica Giudiziaria.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il Sistema sì è guardato nello specchio del diritto e si è assolto. Luca Palamara è di certo colpevole ma almeno ha pagato con la radiazione. I suoi tanti correi invece hanno evitato qualunque sanzione. Rosario Russo, già Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione, su Il Dubbio l'11 aprile 2022.

La forza di legge è impressa dal Parlamento, i cui membri sono eletti democraticamente dal Popolo sovrano, con l’intermediazione dei partiti. I parlamentari non sono mandatari degli elettori, ai quali rispondono soltanto al momento dell’elezioni (c.d. responsabilità politica). L’applicazione della legge spetta all’ordine giudiziario, governato dal C.S.M. per assicurare l’indipendenza dei magistrati ordinari da ogni altro potere. Essi sono servi soltanto della legge, (per dirla con Cordero) sono ‘condannanti’ ad interpretare la legge, quale dettata dal Parlamento, per applicarla al caso concreto.

Il principio della separazione dei poteri fa sì che nell’esercizio della giurisdizione non possano – e non debbano influire altre istituzioni, corpo elettorale, governo e partiti compresi. Pertanto l’amministrazione della carriera e la funzione disciplinare sui magistrati sono riservati al C.S.M., i cui membri sono nominati infatti dai magistrati stessi (per due terzi), in modo da rispecchiare le loro specifiche funzioni (giudici di merito, requirenti e giudici di legittimità), ma anche dal Parlamento (per un terzo). Ne fanno parte di diritto il Primo presidente e il Procuratore generale della Suprema Corte, a tali incarichi nominati dallo stesso C.S.M., che è presieduto dal Capo dello Stato.

Dovendo assicurare l’indipendenza dei magistrati ordinari, il C.S.M. non può che essere altrettanto indipendente da ogni altra istituzione, istanza o pressione. La sua funzione è istituzionalmente difensiva e protettiva: non ha altro scopo se non quello di assicurare che i magistrati siano servi soltanto della legge e rispettino – facendo rispettare perciò esclusivamente la volontà del Popolo sovrano, inverata e oggettivata nella Legge. La magistratura, in conclusione, non può essere indipendente e autonoma se non lo sia in primo luogo – e soprattutto – il C.S.M. La dialettica partitica-politica – dopo avere partorito la legge – resta ugualmente estranea tanto all’attività decisoria dei giudici quanto alle funzioni svolte dal Consiglio Superiore della Magistratura.

La politica ha ragioni e metodi, compreso il «sistema spartitorio» studiato da G. Amato, che la giurisdizione non può. e non deve – condividere. Soltanto a queste condizioni «la magistratura può costituire un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art, 104 Cost.).

L’ANTI «SISTEMA PALAMARA»

Parodiando Pasolini, tutti …sappiamo e …abbiamo perfino le prove inconfutabili dell’anti «Sistema Palamara»! Colto in flagranza di reati (art. 323) e di violazioni disciplinari (gravissimi, reiterati, sistematici e continuati) il dott. Luca Palamara, anziché contestare gli addebiti, ha osato esaltare e magnificare la propria funzione di pontiere e mediatore, in quanto membro togato del C.S.M., tra le correnti dell’A.N.M., i membri laici del Consiglio stesso e gli apparati politici, in spregio alla legge ed in danno dei tanti magistrati privi di appoggi correntizi.

Davvero difficile immaginare in astratto una condotta così patentemente eversiva della Costituzione, un esercizio di tracotanza così devastante! L’interprete deve prendere atto del suo enorme successo editoriale, mediatico e popolare, nonostante la sua radiazione dall’Ordine e dall’A.N.M., ma non può fare a meno di studiarne le cause. Per comprenderle è essenziale fare il punto sulla situazione scaturita dall’anti «Sistema Palamara». Dopo tre anni risultano sanzionati soltanto i magistrati in servizio che parteciparono alla cospirazione svoltasi nella «notte della Magistratura» e tra di essi soltanto Palamara è stato radiato dall’ordine. Invece né Palamara né taluno dei tanti magistrati protagonisti delle ‘raccomandazioni’ immortalate dalle famose chat sequestrate è stato mai punito.

Ben vero, dopo il loro sequestro la Procura perugina le ha trasmesse al P.G. presso la Suprema Corte, al C.S.M. e perfino all’A.N.M., senza indagare se esse costituissero prova del delitto (tentato o consumato) di abuso d’ufficio (artt. 110 e 323 c.p. nell’interpretazione datane da Cass. Pen. sent. n. 442 del 2021, pag. 5.). E così, mentre con analoga imputazione al Tribunale di Catania sono in fase dibattimentale due processi penali per le ‘raccomandazioni’ con cui i docenti universitari si scambiavano favori per le nomine accademiche, il documentatissimo e omologo sistema spartitorio all’interno del C.S.M., cioè per l’appunto l’anti «Sistema Palamara», è rimasto impunito, sebbene aborrito dalla Costituzione. Non basta: radiato solo Palamara (a diverso titolo), niente è rimasto intentato per impedire che gli altri magistrati implicati fossero a qualunque titolo puniti.

Ricevute le chat, il P.G. presso la Suprema Corte emana un editto con cui assume che le autopromozioni, cioè le raccomandazioni dirette dal magistrato a Palamara, non costituiscono violazione dell’obbligo disciplinare di correttezza. Non può farlo perché chi per legge è tenuto, come il P.G., ad esperire l’azione disciplinare, non è legittimato a perimetrare autonomamente il proprio obbligo. Non solo, ma perfino il C.S.M. e le Sezioni Unite hanno (ovviamente) respinto la tesi del P.G. Il quale, intanto con un altro editto, decide di avere anche il potere di segretare l’archiviazione perfino rispetto al C.S.M.

Il risultato: nessuno può sapere quante e quali autopromozioni ed etero promozioni (raccomandato raccomandante raccomandatario siano state archiviate: top secret. Anche il Consiglio Superiore della Magistratura si attiva), ma in modo decisamente improprio. Niente è più doloso di una raccomandazione. Tuttavia le famose chat vengono esaminate dal C.S.M. nell’ambito vistosamente improprio del procedimento amministrativo per incompatibilità ambientale e funzionale; e siccome esso presuppone una condotta incolpevole, è inevitabile l’archiviazione.

Infine i Probiviri dell’A.N.M., faticosamente ottenute le chat, cominciano a vagliarle. Ma l’associazione consente agli indagati di dimettersi per eludere la sanzione endoassociativa, in palese contrasto con le clausole dello statuto. Per gli indagati che non si dimettono, archiviazioni dei Probiviri e condanne del C.D.C. sono dichiarate inaccessibili perfino ai soci. Infine, nonostante le autorevoli raccomandazioni del Presidente della Repubblica, il Legislatore ha abbozzato riforme inidonee a neutralizzare l’anti «Sistema Palamara».

Esploso il caso Palamara, la stessa magistratura associata aveva doverosamente riconosciuto che il sistema spartitorio attuato da Palamara è causato dalla «cinghia di trasmissione» che unisce i vertici dell’A.N.M. ai membri togati del C.S.M., sicché è necessario tagliare alla radice tale cordone ombelicale. Ebbene, i conditores hanno deciso d’ignorare, in sede di riforma, che precise disposizioni del codice etico (art. 7 bis) e dello statuto (art. 25 bis) dell’A.N.M sono ora finalizzate ad interrompere il perverso predominio delle correnti associative sul C.S.M., che alimenta il sistema spartitorio-correntizio. La tanto attesa riforma legislativa non ha inteso assecondare neppure la tardiva – ma benefica ‘riconversione’ all’indipendenza dei magistrati associati.

L’INCONFESSABILE SUCCESSO DI PALAMARA

Tutti coloro che ne avevano il dovere hanno esaminato e vagliato; nessuno risulta avere sanzionato o apprestato rimedi. Il magistrato illegittimamente raccomandato o raccomandante (in pregiudizio dell’ignaro dott. Nessuno) non è il «soldato Ryan» ma è salvo. Non lo è l’Ordine giudiziario. E l’Utente finale della Giustizia lo sa a tal punto che, costretto a scegliere, opta (con malcelata sofferenza) per Palamara. Si, certamente egli è colpevole per avere introdotto nella Giurisdizione il metodo spartitorio-correntizio, ma … ‘almeno’ – così commenta il cittadino – ha ‘pagato’ in prima persona con la radiazione dall’ordine. I suoi tanti correi invece hanno evitato qualunque sanzione e sono rimasti nei loro ambiti uffici.

Soprattutto l’ordinamento – in tutte le proprie sfaccettature (repressive e riformatrici) – si è guardato nello specchio del diritto e – con compiacimento – si è assolto (o graziato), dimostrando così per tabulas che quello intestato a Palamara non è l’anti «Sistema Palamara», ma il vero, unico, incontrastato e vittorioso «Sistema». Palamara non viene acclamato per le sue gesta, ma soltanto perché – a suo confronto – ben peggiori si sono rivelati il sistema giuridico e i tanti suoi correi. E così che paradossalmente l’artefice del sistema spartitorio prevale (non solo mediaticamente) non per virtù propria, ma per i più gravi demeriti dei suoi correi e dell’intero sistema che ha denunciati. Nessuno sembra accorgersi che i suoi successi editoriali testimoniano il «grido di dolore» dell’Utente finale della Giustizia, quale soltanto Much ha saputo riprodurre sulla tela.

Palamara: «In Italia la legge non è uguale per tutti». L'ex pm di Roma: «È giusto dirlo: la magistratura è una comunità composta da 10.000 magistrati che riflette un po' la vita politica, sociale, istituzionale dell’Italia». Il Dubbio il 5 aprile 2022.

«In magistratura il manuale Cencelli, in Italia la legge non è uguale per tutti». Lo ha detto Luca Palamara al Congresso di Grande Nord a Milano. «Un auspicio di cambiamento è quello che mi ha caratterizzato nella mia esperienza professionale. Come tutte le vicende umane e che hanno a che fare con la politica, riproducono su se stesse le vicende della politica. È giusto dirlo: la magistratura è una comunità composta da 10.000 magistrati che riflette un po’ la vita politica, sociale, istituzionale dell’Italia», sottolinea.

«In magistratura – continua Palamara – c’è una parte più ideologizzata, quella che noi chiamiamo della sinistra giudiziaria, c’è poi una parte più attenta ai problemi del sindacato, e una parte che è moderata dall’interno» e «a torto o a ragione l’orientamento culturale della magistratura parte dalla sinistra giudiziaria, che crea un cortocircuito anche nel rapporto tra magistratura e politica».

«Qualcosa bisogna fare: ad esempio – spiega – stabilendo come si vuole organizzare internamente la magistratura. L’autonomia e l’indipendenza viene organizzata oggi attraverso questi gruppi associativi, queste correnti, e le correnti determinano la vita della magistratura. Stabiliscono chi diventa procuratore della Repubblica, chi diventa Presidente del Tribunale e chi diventa consigliere superiore della magistratura».

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 7 aprile 2022.

I fatti raccontati nel libro «Il Sistema» scritto dal direttore di Libero Alessandro Sallusti e dall'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara non sono diffamatori. 

Lo afferma il giudice del tribunale di Padova archiviando la querela presentata dal magistrato Piergiorgio Morosini. 

Il «contesto narrativo», incentrato sulla «polemica e denuncia del malcostume giudiziario», non consente di rappresentare «il grado minimo di offensività» previsto dal reato di diffamazione, puntualizza il giudice padovano nel suo provvedimento di archiviazione della scorsa settimana. 

Le frasi utilizzate nel libro, poi, non contengono alcuna «espressione gratuitamente lesiva» della reputazione dei personaggi citati. Soddisfatto Palamara: «La sentenza dimostra la correttezza del mio racconto». 

Una assoluzione piena, a cui Morosini si era opposto, e che mette la parola fine alle critiche rivolte in questi mesi agli autori, accusati di aver lavorato di fantasia e di aver travisato i fatti. 

Il capitolo finito nel mirino di Morosini era quello relativo ai rapporti fra politica e giustizia, il più scottante. In particolare fra il Pd e le toghe di sinistra di Magistratura democratica. 

Un binomio che parte da lontano, da prima della caduta del Muro di Berlino, e che ha condizionato la vita politica degli ultimi 30 anni.

«La stagione della contrapposizione fra toghe e Silvio Berlusconi avrebbe dovuto insegnare qualcosa a Renzi», ricorda Palamara. «Mi sta dicendo che l'azione penale contro un presidente del Consiglio dipende dalla sua politica sui temi della giustizia?», domanda Sallusti. 

Palamara cita i casi degli ex premier piddini Enrico Letta e Paolo Gentiloni, mai sfiorati da alcuna indagine. 

«Perché erano immacolati? Può essere, ma è una risposta semplicistica», si interroga l'ex pm romano secondo cui il motivo principale è che «non hanno sfidato i magistrati». 

«Renzi invece commette l'errore - prosegue di pensare che, essendo il segretario del Pd, la magistratura, a maggioranza di sinistra, sarebbe stata al suo fianco a prescindere, non capendo che i suoi riferimenti non erano il Giglio magico di Luca Lotti e Maria Elena Boschi ma il vecchio apparato comunista e postcomunista che stava rottamando». 

«Parliamo di gente che al Partito comunista prima e al Pd poi la linea la dettava, non la subiva», puntualizza Palamara, evidenziando come molti colleghi erano rimasti «inorriditi di fronte al patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi». 

«La sinistra giudiziaria, o più correttamente il massimalismo giustizialista, stava perdendo i suoi riferimenti politici e reagì in soccorso di quel mondo politico e culturale che li aveva generati», aggiunge Palamara, avvalorando così la vulgata secondo cui il Pd, attraverso le "toghe rosse" di Magistratura democratica, "controllerebbe" almeno due terzi delle Procure italiane, mettendo al riparto da eventuali procedimenti penali i propri amministratori.

Per avvalorare la tesi del rapporto organico Md-Pd, Palamara cita una intervista al Foglio di Piergiorgio Morosini, «autorevole magistrato di sinistra, membro del Csm, già segretario di Magistratura democratica, nonché gip nell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia». 

L'intervista si svolge alla vigilia del referendum del 2016, che per volontà di Renzi è anche un referendum sulla sua persona. Morosini usa parole durissime: «Bisogna guardarsi bene da una deriva autoritaria di mestieranti assetati di potere e per questo bisogna votare no». Una dichiarazione di guerra contro il premier.

Le frasi di Morosini fanno scattare l'intervento dell'allora ministro della Giustizia Andrea Orlando che chiede spiegazioni al vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, all'epoca vicino a Renzi, il quale convoca il plenum per «processare» Morosini e chiedergli di fare un passo indietro. 

La sera prima del plenum che dovrebbe sancire la cacciata di Morosini, Palamara lo incontra in un bar nel centro di Roma «Lo vedo provato, si aspetta di essere buttato fuori. Io e Morosini ci conosciamo dai tempi del mio ingresso in magistratura. Parlammo molto delle inchieste sulla mafia, dei processi politici e di tanto altro. E il giorno dopo decisi che non dovevamo forzare la mano su di lui. 

Anche gli altri miei colleghi furono d'accordo e Morosini si salvò», racconta Palamara.

Renzi, invece, dopo aver perso il referendum sarà costretto alle dimissioni per finire poi alla sbarra a Firenze insieme ad esponenti del Giglio magico, accusati di aver commesso gravi reati, fra cui il finanziamento illecito e la corruzione. 

Il fatto che a condurre l'inchiesta sia una magistrato di Magistratura democratica è sicuramente una coincidenza.

(AGI il 31 marzo 2022) - "Questa mattina il quotidiano Libero ha pubblicato un articolo in cui erano riportati stralci di dichiarazioni rese da Fabrizio Centofanti in data 31/03/2021 a questo ufficio pubblicando anche la foto della prima pagina del relativo verbale. Siccome non risulta che copia del verbale sia mai stata rilasciata ad alcuno, si e' ritenuto necessario iscrivere un fascicolo contro ignoti per rivelazione di notizie riservate per accertare se l'atto sia giunto legittimente alla stampa".

Lo rende noto la Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone. Il verbale di dichiarazioni riguarda l'inchiesta sull'Acqua Marcia, di cui Fabrizio Centofanti era all'epoca responsabile delle relazioni istituzionali e degli affari legali.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 31 marzo 2022.  

Invece che chiedere a Mario Draghi di rinnegare gli impegni con la Nato, Giuseppe Conte potrebbe chiedere ai magistrati di negare gli impegni (suoi) con la Loggia Ungheria, visto che nessun altro si decide a farlo al posto suo: tantomeno l’imprenditore Fabrizio Centofanti, di cui sono spuntati i verbali dell’interrogatorio del 30 marzo 2021 a Perugia nei quali ha confermato di aver dato un incarico da 400mila euro proprio a lui, Giuseppe Conte, per garantire alla società Acqua Marcia l’omologa del concordato da parte del Tribunale fallimentare di Roma.

Centofanti all’epoca era responsabile delle relazioni istituzionali e degli affari legali di Acqua Marcia, e l’incarico, secondo il faccendiere Piero Amara - che per primo rivelò l’esistenza della presunta Loggia Ungheria - doveva assicurare il buon esito della pratica: ma questo rimane da dimostrare.

Nell’attesa, Centofanti ha dato le sue conferme: «Al professor Conte dovevo dare un incarico per la valutazione del rischio del contenzioso, non ricordo esattamente quali incarichi fui io a firmare, in quanto, dopo poco tempo, lasciai il gruppo. Certamente, ho dato al professore un primo incarico per la controllata Acquamare. Ricordo che il piano complessivo era dare a Conte l’incarico di valutare tutto il rischio del contenzioso del gruppo». Ma perché fece questo?

«Piero Amara mi chiese di dare un incarico al professor Conte», ha aggiunto Centofanti, «perché amico non ricordo esattamente di chi. In realtà, già in precedenza rispetto al colloquio con Piero Amara, il professore Guido Alpa mi aveva proposto il nome del professore Conte».

Guido Alpa che a sua volta ricevette altri incarichi da Centofanti. «Effettivamente, l'avvocato Piero Amara venne a parlarmi della nomina di Giuseppe Conte che io avevo già individuato in via autonoma». 

Tutte le strade, insomma, portavano a Conte, con il quale «nacque un rapporto di stima e cordialità, tanto che ci affidò l'organizzazione di alcuni convegni». Tutti contenti.

Acqua Marcia era controllata da Francesco Bellavista Caltagirone, e le dichiarazioni di Centofanti coincidono con quelle di Piero Amara, secondo il quale «l'importo che fu corrisposto da Acqua Marcia a Conte era di 400mila euro… l'ho saputo da Centofanti che si arrabbiò molto perché il lavoro era sostanzialmente inutile trattandosi della rivisitazione del contenzioso della società, attività che fu svolta da due ragazze in poche ore, e l'importo corrisposto fu particolarmente elevato», aveva aggiunto. 

La parte dell’arrabbiatura Centofanti non l’ha confermata, l’incarico sì. «Quel compenso era il minimo», si è difeso Conte, e «tutte quelle parcelle hanno passato il vaglio del tribunale e dei commissari giudiziali nominati dai giudici fallimentari».

Resta che la Guardia di Finanza, i primi dell’anno, è andata a casa di Conte per dare un’occhiata a fatture e documenti delle consulenze: non è nota la data precisa (il quotidiano Domani ne diede notizia il 2 febbraio scorso) ma il mandato è stato della Procura di Roma appunto per «circa 3-400mila euro» di consulenze svolte per società di Francesco.

Bellavista Caltagirone. Eguali perquisizioni avrebbero riguardato gli avvocati Enrico Caratozzolo e Giuseppina Ivone, che lavorarono con Alpa e Conte al concordato di Acqua Marcia: e anche questo conferma il verbale di Centofanti pubblicato da Libero: «Ho dato gli incarichi per la predisposizione del concordato», ha detto l’imprenditore ai magistrati, «all’avvocato Guido Alpa, all’avvocato Giuseppina Ivone e all’avvocato Enrico Caratozzolo; mentre per il professor Conte dovevo dargli un incarico per la valutazione del rischio del contenzioso».

Conte aveva poi fatto sapere che comunque i suoi guadagni «erano stati incassati solo in parte». Il fascicolo in ogni caso sarebbe a modello 44, cioè senza indagati, come hanno confermato alcune fonti vicine ai Cinque Stelle. 

Va ricordato, in ultimo, che ai ritardi con cui giungono o giungeranno tutti i chiarimenti del caso – da parte di Giuseppe Conte e della magistratura – forse non è estranea la gestione dei verbali di Piero Amara fatta a suo tempo dal quotidiano diretto da Marco Travaglio. 

Per oltre un anno, per «non compromettere le indagini» (novità assoluta, da quelle parti) il Fatto ha imboscato le dichiarazioni dell’avvocato Amara sulla loggia Ungheria: una scelta che ha soltanto tutelato Giuseppe Conte all’epoca in cui era presidente del Consiglio. Il magistrato Michele Vietti «mi chiese di far guadagnare denaro ad avvocati e professionisti a lui vicini», ha detto Amara, «e avvenne in quel periodo con l’avvocato Conte, oggi premier, a cui facemmo conferire un incarico dalla società Acqua Marcia spa di Roma, incarico che fu conferito a lui e al professor Alpa grazie al mio intervento su Fabrizio Centofanti».

Ma questo il Fatto lo pubblicò soltanto il 17 settembre 2021. Inoltre, sulle pagine del quotidiano, i vari nomi citati nei verbali erano evidenziati in grassetto tranne che nel caso dell’allora presidente del Consiglio. C’erano tutti i nomi dei presunti aderenti alla Loggia Ungheria: magistrati, avvocati, politici e militari. Tutti in grassetto. Conte no. Che fosse personaggio di poco peso era già opinione diffusa.

Filippo Facci per “Libero quotidiano”  l'1 aprile 2022.

La notizia è notevole e inaspettata - non per voi lettori, a cui non importa giustamente nulla, ma per noi addetti ai lavori - ed è tutta nelle parole di Raffaele Cantone, il capo della Procura di Perugia: «Questa mattina il quotidiano Libero ha pubblicato un articolo in cui erano riportati stralci di dichiarazioni rese da Fabrizio Centofanti in data 31 marzo 2021 a questo ufficio, pubblicando anche la foto della prima pagina del relativo verbale.

Siccome non risulta», ha aggiunto Cantone, «che copia del verbale sia mai stata rilasciata ad alcuno, si è ritenuto necessario iscrivere un fascicolo contro ignoti per rivelazione di notizie riservate per accertare se l'atto sia giunto legittimamente alla stampa». Lo rende noto la Procura di Perugia, come detto. Le notizie notevoli, a pensarci bene, sono più d'una.

La prima è che una procura italiana abbia aperto un fascicolo per violazione del segreto istruttorio, inosservanza sulla quale, paradossalmente, Libero potrebbe anche essere d'accordo: la pubblicazione di verbali d'indagine è un reato che viene compiuto continuamente a partire più o meno dalla primavera del 1992, e che ha avuto luogo talvolta quando l'atto non era a conoscenza delle parti, per dirla in gergo: è stato depositato direttamente in edicola. 

Meglio tardi che mai, e pazienza se è accaduto a margine di una pubblicazione da parte di un quotidiano che al tempo, quando nacque la prassi, non era ancora stato fondato.

La seconda notizia è nelle apparenti contraddizioni del comunicato di Raffaele Cantone, capo della procura di Perugia e già presidente dell'autorità nazionale anticorruzione: scrivere infatti che «non risulta che copia del verbale sia mai stata rilasciata ad alcuno» e di seguito che «si è ritenuto necessario iscrivere un fascicolo contro ignoti» significherebbe ammettere che la Procura di Perugia abbia dei ladri in casa.

È come dire: non ho mai dato a nessuno la focaccia che ho nella credenza, ma poi ho visto che della gente la mangiava in strada: significa che qualcuno ha accesso alla mia credenza senza che io lo sappia, ergo ci sarebbe da indagare sul personale giudiziario che possa aver avuto accesso all'ufficio laddove le focacce, pardon i verbali, erano custoditi. 

La terza contraddizione è nell'aver scritto, Cantone o chi per lui, che si è voluto «iscrivere un fascicolo contro ignoti per accertare se l'atto sia giunto legittimamente alla stampa»; dicasi, sempre in gergo, inversione dell'onore della prova: in genere si ipotizzano gli estremi di un reato e poi, nel caso, si apre un fascicolo e lo si iscrive nel registro vero, non si finge di averlo fatto iscrivendo un finto fascicolo a modello 44 o 45 e poi esaurendo in un comunicato tutta l'azione penale che si ha intenzione di svolgere, tanto per far vedere di aver reagito in qualche modo. Sia detto simpaticamente.

Ciò detto, più che ignoti, resteranno ignari (del verbale) tutti i lettori dei giornali che hanno ritenuto di non farne alcuna menzione: evidentemente non conteneva grandi notizie, tanto che, per auto-consolazione, ne riproponiamo il contenuto con la scusa di riportare il comunicato della Procura di Perugia. 

Il verbale risale al 30 marzo 2021 e riguarda l'interrogatorio di Fabrizio Centofanti. La questione fa riferimento a quando l'imprenditore era responsabile delle relazioni della spa Acqua Marcia, ex storica impresa che nel 2013 fu ammessa alle cosiddette procedure concordatarie che dovevano servire a evitarne il fallimento.

L'interrogatorio fu una conseguenza di quello dell'avvocato Piero Amara, che per primo parlò della «Loggia Ungheria» e che pure, per primo, in alcuni verbali serbati nel segreto istruttorio dal Fatto Quotidiano, aveva detto che Centofanti aveva dato un incarico da 400mila euro a Giuseppe Conte, ai tempi presidente del Consiglio: a suo dire doveva garantire alla società l'omologazione del concordato da parte del Tribunale fallimentare di Roma. 

Quest' ultima «garanzia» non è stata dimostrata, l'incarico sì, per esempio nel verbale pubblicato ieri da Libero. Centofanti, da responsabile delle relazioni di Acquamarcia, ha confermato che «al professor Conte dovevo dare un incarico per la valutazione del rischio del contenzioso... Certamente gli ho dato un primo incarico per la controllata Acquamare. Ricordo che il piano complessivo era dare a Conte l'incarico di valutare tutto il rischio del contenzioso del gruppo».

 Questo perché «Piero Amara me lo chiese», ha aggiunto Centofanti, «perché Conte era amico non ricordo esattamente di chi... Effettivamente, l'avvocato Piero Amara venne a parlarmi della nomina di Giuseppe Conte che io avevo già individuato in via autonoma». Insomma, Giuseppe Conte sembrava proprio predestinato a quell'incarico da 400mila euro, al quale non potè sottrarsi: «Nacque un rapporto di stima e cordialità, tanto che ci affidò l'organizzazione di alcuni convegni». Dare per avere. Giusto. Intanto a Perugia indagano.

A Bari hanno lo stesso Codice Penale di Perugia?. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'1 Aprile 2022. 

Legittimo chiedersi quando arriverà anche in Puglia un procuratore rigoroso come Raffaele Cantone, o almeno qualcuno che si vada a rileggere il Codice Penale e finalmente lo applichi ?

Ieri pomeriggio alle 16:33:32 l’ AGI, Agenzia Italia ha diffuso una notizia dal titolo: “Pubblicazione verbale, procura Perugia apre fascicolo” , scrivendo” “Questa mattina il quotidiano Libero ha pubblicato un articolo in cui erano riportati stralci di dichiarazioni rese da Fabrizio Centofanti in data 31/03/2021 a questo ufficio pubblicando anche la foto della prima pagina del relativo verbale. Siccome non risulta che copia del verbale sia mai stata rilasciata ad alcuno, si e’ ritenuto necessario iscrivere un fascicolo contro ignoti per rivelazione di notizie riservate per accertare se l’atto sia giunto legittimamente alla stampa“. L’articolo in questione riportava la firma di Filippo Facci.

Lo ha reso noto la Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone. Il verbale di dichiarazioni riguarda l’inchiesta sull’Acqua Marcia, di cui Fabrizio Centofanti era all’epoca responsabile delle relazioni istituzionali e degli affari legali. 

Resta da chiedersi come mai in altre procure, fra cui il primato quella di Bari, città in cui negli ultimi tempi esce di tutto e di più… dagli uffici giudiziari per la gioia dei cronisti giudiziari locali diventati ormai portavoce-ventriloqui dei magistrati “amici” titolari dei vari fascicoli d’indagine, non si proceda come a Perugia . Sarà forse perchè il procuratore Roberto Rossi è troppo occupato ad intervenire in qualche forum giornalistico “amico” o ad apparire in interviste video, rifiutandosi di parlare con il nostro giornale “reo” di aver rivelato un suo vecchio procedimento dinnanzi alla sezione disciplinare del Csm ?

Basti pensare che in una vicenda processuale dinnanzi al Tribunale Penale di Bari, ancor prima che Rossi diventasse procuratore capo, nella quale era coinvolto il quotidiano La Repubblica, proprio per violazione del segreto istruttorio, un giudice barese si appropriò della competenza territoriale sostenendo che a suo dire l’edizione pugliese era stampata a Bari si appropriò di una competenza che era del foro di Bari. Infatti, piccolo particolare, il quotidiano romano è registrato a Roma e viene stampato a Roma. E non a Bari! 

Per non parlare poi delle fughe di notizie avvenute durante l’asta giudiziaria per La Gazzetta del Mezzogiorno, in cui i curatori della società editrice Edisud fallita con una massa di oltre 40milioni di euro di debiti, l’ avvocato Castellano ed il commercialista Zito erano (persino dichiarandolo al Tribunale ) sul libro paga del gruppo CISA spa di Massafra, attuale socio-co-editore al 50% del quotidiano barese, senza che questa società abbia mai partecipato all’ asta pur versando oltre un milione di euro dal proprio conto corrente societario, e quindi illegalmente. Inquietante fu la presenza del procuratore Rossi all’udienza di convalida dell’assegnazione dinnanzi al Tribunale Fallimentare di Bari in cui depositò una relazione preliminare delle Fiamme Gialle che documentava la provenienza dei 4 assegni circolari per un milione di euro totale dal conto bancario della società massafrese. Dopodichè il silenzio più assoluto. Ed ancora più imbarazzante l’operato in aula del giudice che convalidò l’asta, il quale è l’ ex-marito della cognata dell’attuale amministratore delegato (socio al 50%) della Gazzetta. Conflitti d’interesse ? Coincidenze ? Vallo a capire!

Che fine hanno fatto le inchieste sulle fughe di notizie pubblicate sulla Gazzetta del Mezzogiorno dai cronisti Massimo Scagliarini e Nicola Pepe indagati e perquisiti nel 2019 ( cioè tre anni fa !) per la fuga di notizie che permise al governatore della Regione Puglia Michele Emiliano di sapere in anticipo di una indagine a suo carico

Tutto regolare ? Chissà… ! Nel frattempo la Procura Generale di Bari dorme sonni indifferenti…Legittimo chiedersi quando arriverà anche in Puglia un procuratore rigoroso come Raffaele Cantone, o almeno qualcuno che si vada a rileggere il Codice Penale e finalmente lo applichi?

Redazione CdG 1947

Le rivelazioni nel nuovo libro di Palamara e Sallusti. Omicidio di Paolo Borsellino, un complotto lungo trenta anni. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.  

Il più grande complotto di Stato mai avvenuto nella storia d’Italia e che si è svolto nell’arco di trent’anni porta il nome glorioso di Paolo Borsellino, e insieme quello del “pentito” costruito in vitro di Enzo Scarantino. Quanti magistrati, pubblici ministeri, giudici togati e popolari, membri del Csm e procuratori generali, e poi questori, prefetti e poliziotti sono i colpevoli per aver preso parte al complotto? E quanti di loro –a parte tre agenti che rischiano di finire allo spiedo come unici capri espiatori- risponderanno, oltre che per la violazione della memoria di un grande magistrato, per aver truccato le carte, nascosto carte, nastri registrati e testimonianze, mandato in galera gli innocenti?

Dobbiamo ancora una volta dire grazie a Luca Palamara, ben sollecitato da Sandro Sallusti nella seconda puntata sulla vera e unica Casta, quella delle toghe, per averci dato sul fattaccio qualche illuminazione in più, pure a noi che su questo scandalo di Stato credevamo di sapere tutto. Ci fa anche sentire un po’ come quelli che hanno continuato a guardare il dito senza vedere la luna, questa parte del libro, diciamo la verità. Perché, partendo dai primi passi con cui il picciotto Enzino fu preso per mano e accompagnato a suon di botte, sputi, vermi e vetro nella minestra, ricatti, suggerimenti e promesse a dire il falso per depistare dalle ragioni vere per cui Borsellino fu assassinato, si arriva fino al coinvolgimento del Csm e del procuratore generale Fuzio, invano coinvolto dalle figlie del magistrato ucciso. Dal 1994 al 2018, e poi 2019, l’anno del pensionamento del vertice della magistratura. Ecco il trentennio del complotto, se prendiamo come punto di riferimento il 1992 come anno della strage di via D’Amelio e il 2022 con le ultime rivelazioni del magistrato Luca Palamara, che non è innocente in questa storia, come lui stesso racconta.

Sono numerosi i passaggi attraverso i quali il bluff Scarantino avrebbe potuto essere disvelato. Si sarebbe potuto fare giustizia. Non solo individuando gli autori del delitto, ma anche il movente. Si è voluto perdere tempo e sviare l’attenzione. Il che significa depistare. Facciamo finta per un attimo di essere noi i pubblici ministeri e mettiamo insieme i capi d’accusa. Primo: le torture nel carcere di Pianosa (e Asinara), che non hanno riguardato solo Scarantino, ma una serie di detenuti trasferiti d’improvviso di notte da tutte le prigioni del sud. Segnale forte di governi deboli nella lotta alla mafia, con i boss che ordinavano le stragi dalla latitanza. Le denunce di quel che avveniva in quelle prigioni speciali riaperte per l’occasione erano state oggetto di interrogazioni parlamentari, di proteste degli avvocati e dei parenti dei detenuti, diventati il bersaglio di una vendetta dello Stato che non riusciva a trovare e punire i colpevoli. La moglie di Scarantino aveva reso pubblica una lettera con accuse precise nei confronti del questore di Palermo Arnaldo La Barbera, denunciando la costruzione del “pentitificio” attraverso le torture. E il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli si era presentato in conferenza stampa, con al fianco il procuratore generale e il questore, per scagionare La Barbera e confermare l’attendibilità di Scarantino.

Punto secondo: fin dal 1994 era agli atti una relazione dei pubblici ministeri Ilda Boccassini e Roberto Saieva al procuratore capo di Caltanissetta Tinebra in cui documentavano l’inattendibilità del collaboratore di giustizia. Lo avevano messo alle strette sulle sue deposizioni e avevano capito che, nel riferire di fatti e persone, straparlava di soggetti che neanche conosceva. Boccassini, che era stata applicata da Milano nella città nissena nel 1992 in seguito all’uccisione di Giovanni Falcone e nel 1994 era in partenza per tornare nella sua città, ma si era detta disponibile a rinunciare alle ferie per poter continuare a interrogare Scarantino. Niente da fare. Così, con il collega, aveva lasciato la sua relazione. Che però è sparita. E ovviamente non è stata mai messa a disposizione dei giudici degli undici processi che si sono occupati della morte di Paolo Borsellino. La sua testimonianza verrà utilizzata solo una quindicina di anni dopo, al Borsellino-quater, quando l’imbroglio verrà svelato. Ma l’anno scorso quando è stata chiamata anche al processo contro i tre agenti accusati del depistaggio, non solo ha raccontato che il procuratore Tinebra si chiudeva per ore in una stanza con Scarantino prima di ogni sua deposizione, ma si è riscontrata violentemente con il pm di udienza che non voleva fosse lasciata parlare.

A proposito di atti spariti, arriviamo al punto terzo, sulla base del quale il castello delle dichiarazioni di Enzino sarebbe crollato, se qualcuno avesse voluto indagare secondo le regole. Il 13 gennaio del 1995 c’era stato il confronto tra il finto pentito e tre collaboratori doc, Gioacchino La Barbera, Totò Cancemi e Santino Di Matteo. Le deposizioni erano state registrate in 19 bobine. Un confronto importante, nella fase precedente al primo processo Borsellino, la cui sentenza è datata a un anno dopo, nel gennaio del 1996. Da quei verbali, come già dalla relazione dei pm Boccassini e Saieva, emergeva il fatto che, messo davanti a tre boss di un certo rilievo, Scarantino era in seria difficoltà, perché neppure lo conoscevano. Era caduto continuamente in contraddizione, non sapeva neppure dove fosse quella via D’Amelio in cui diceva di aver portato l’auto imbottita di tritolo. Bene, anche quei verbali erano spariti, e all’avvocato Rosalba Di Gregorio, che difendeva alcuni imputati accusati ingiustamente, che ne chiedeva copia, i procuratori di Palermo e Caltanissetta rispondevano con un assurdo ping-pong rimbalzandone la custodia e la responsabilità l’un l’altro. Solo al Borsellino-ter le carte sono ricomparse, quando forse era tardi.

Quindi: le torture che hanno creato il “pentito”, la relazione sparita dei pm come Boccassini e Saieva che avevano denunciato l’imbroglio, il confronto con tre boss che l’avevano smascherato. Tutto questo dimostra che fin dal 1994-95 le indagini avrebbero potuto prendere un’altra strada. E avremmo potuto mettere insieme già un bel numero di nomi di magistrati, Tinebra, Lo Forte, Petralia, Palma, Di Matteo, Caselli, quelli che hanno voluto credere al fatto che per uccidere Borsellino fosse sufficiente assoldare un piccolo spacciatore del quartiere della Guadagna di Palermo. E che questa testimonianza, ottenuta con le torture, bastasse a costruire processi, a mostrare all’opinione pubblica la verità sulla strage di via D’Amelio. Del resto hanno avuto ragione. E ai loro nomi occorre aggiungere tutti quelli di pm e pg e giudici togati e popolari che hanno seguito lo stesso percorso. Fino al Borsellino-quater e la deposizione di Gaspare Spatuzza.

Possiamo tralasciare il fatto che lo stesso Scarantino, da un certo momento in avanti, cominciò a ritrattare e a raccontare chi gli dava i suggerimenti alla vigilia di ogni interrogatorio. Perché nel frattempo dei pm che gestirono le deposizioni di Scarantino e che sono stati indagati per i depistaggi, Petralia e Palma hanno avuto la soddisfazione di veder archiviata la propria posizione, mentre Di Matteo è rimasto sempre solo testimone. Era giovane, si sa. Ma l’assassinio di mio padre era così poco importante da esser affidato a un pm ragazzino, si è domandata Fiammetta, l’indomita figlia del magistrato assassinato. È grazie alle iniziative sue e di sua sorella Lucia, che apprendiamo l’ultimo passaggio del Complotto di Stato, che coinvolge quello che fu un vertice della magistratura, il procuratore generale Riccardo Fuzio, poi costretto alle dimissioni in seguito alla vicenda Palamara e la riunione all’hotel Champagne.

Nel 2018 le due sorelle avevano inviato all’alto magistrato tutta la documentazione (quel che abbiamo finora raccontato e magari molto altro), nella speranza che esercitasse il suo potere di iniziativa disciplinare. Che cosa ha fatto l’impavido magistrato? Prima il nulla, per un intero anno, e poi il peggio, con una lettera ipocrita, mentre aveva già un piede fuori dal palazzo. Avrei voluto (ma ahimé ora non posso più) parlarne all’inaugurazione dell’anno giudiziario, scrive. E loro gli rispondono no grazie, non di celebrazioni ha bisogno la memoria di nostro padre, ma di assunzioni di responsabilità.

E del resto, che cosa ha fatto il Csm nel 2017, quando lo imponeva la vergogna di quel che era emerso nel processo Borsellino-quater con la sua verità? Ammuina, racconta con un po’ di vergogna Luca Palamara nel libro. Perché? Perché aleggiava il nome di Di Matteo. Che era ed è molto potente. Ecco come vanno le cose, da trent’anni a questa parte. Ecco perché, tutto sommato, temiamo che non cambierà mai niente anche se, oltre al dito, ora noi, ma anche l’attuale Csm o il Pg in carica, abbiamo guardato anche la luna. Cioè il Complotto di Stato.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Francesco Boezi per “il Giornale” il 10 febbraio 2022.

«Sparatoria» è la parola che Luca Palamara, nell'ultimo libro scritto con il direttore di Libero Alessandro Sallusti, usa per definire la rappresaglia contro Matteo Renzi. 

L'anno focale è il 2017. L'arco temporale individuato arriva ai nostri tempi. 

In «Lobby&Logge», edito da Rizzoli, c'è un passaggio in cui l'ex presidente dell'Anm risponde ad una domanda di Sallusti sull'incontro all'autogrill di Fiano Romano, ossia sul faccia a faccia tra l'ex premier e l'ex 007 Marco Mancini. 

Palamara non crede alla narrativa di Report: la versione per cui l'appuntamento sarebbe stato filmato «per caso» non è ritenuta plausibile. 

Anzi, per l'ex Anm si può dire «che una parte del mondo istituzionale legato ai servizi voleva far fuori Matteo Renzi». Il che può riguardare non solo il taglio dato da certi media ma il narrato conflitto nella sua totalità. 

Il motivo dell'offensiva contro il renzismo è considerato politico: «...la sopravvivenza dell'ultima cellula del comunismo europeo, che Renzi voleva, e in parte era riuscito, a rottamare».

La «ditta» contro la novità: è questa la chiave di lettura. Ne viene fuori un capitolo in cui, mediante il classico botta e risposta, vengono ripercorse le tappe di una battaglia sui livelli apicali dello Stato. 

Renzi avrebbe preferito Michele Adinolfi come vertice della Guardia di Finanza ma il generale viene «bruciato» a ridosso del possibile incarico. Come?

Per via di «un'operazione perfetta coordinata tra magistrati e giornalisti amici», dice Palamara. Il Fatto Quotidiano pubblica una telefonata Renzi-Adinolfi. 

Sono chiacchiere - quelle tra i due ma riguardano anche Enrico Letta, che era il premier. E tanto basta. Il contenuto emerge annota l'ex Anm - perché «i collaboratori di Woodcock Gianpaolo Scafarto e Sergio De Caprio (cioè Capitano Ultimo, ndr)... aggiunsero a pagina 470 del fascicolo la telefonata tra Adinolfi e Renzi». 

L'inchiesta è la Cpl-Concordia. La stessa con cui, per chi ha scritto il libro, la telefonata Renzi-Adinolfi nulla avrebbe a che fare. 

Non è finita: arriva la «sparatoria» per cui tre renziani vengono «azzoppati» dalla «procura di Napoli» e dal «duo Scafarto-De Caprio».

Si legge di Luca Lotti, del comandante generale dei Carabinieri Del Sette e di quello della Toscana Saltalamacchia. 

Poi l'ex magistrato immortala un «colpo di grazia» al renzismo: «...una manina sposta De Caprio e il suo gruppo dal Noe dei Carabinieri al cuore dei servizi segreti». Trattasi, fa presente Palamara, di «nemici di Renzi». L'ex capo dell'Anm prosegue sostenendo che, «secondo i renziani», esiste pure un «regista»: Palamara fa il nome dell'ex ministro dell'Interno Marco Minniti.

Infine si passa ai giorni nostri, con l'apertura del «fronte fiorentino». Due filoni: quello sui genitori di Renzi e l'inchiesta Open. Quella per cui, ieri, è stato chiesto il rinvio a giudizio, tra gli altri, dell'ex premier, della Boschi e di Carrai.

Il J'accuse dell'ex magistrato. L’accusa di Palamara: “La caccia a Renzi iniziò quando diventò premier”. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.  

La caccia a Matteo Renzi ed al Giglio magico inizia quando il Rottamatore nel 2014 diventa presidente del Consiglio. Da quell’anno inizieranno ad addensarsi le nubi sulla testa dell’ex segretario dei dem. A dirlo è Luca Palamara nel libro intervista Lobby e Logge scritto con il direttore di Libero Alessandro Sallusti. Una caccia giudiziaria che si svolge sull’asse Firenze-Roma. A Firenze «c’è un procuratore, Luca Turco, che indaga la famiglia Renzi affiancato da un ufficiale della guardia di Finanza, Adriano D’Elia, comandante provinciale del nucleo di polizia tributaria, che per tre anni, dal 2014 al 2017, fa della caccia ai Renzi la sua ragione di vita», esordisce Palamara che racconta cosa avvenne durante una cena a tre nella Capitale.

«Eravamo presenti io, Lotti (Luca) e il comandante generale della finanza Giorgio Toschi. Discutiamo di tante cose, a un certo punto la discussione cade sull’accanimento di D’Elia nei confronti della famiglia Renzi. I toni si alterano, capisco che è meglio, vista la mia posizione di magistrato, defilarmi con una scusa. Però faccio in tempo a sentire Toschi dire a Lotti: “Non l’ho messo io, l’ha fatto Capolupo (Saverio, predecessore di Toschi al comando delle fiamme gialle, ndr)”. Come dire, non è colpa mia». Sallusti, allora, domanda: «Be’, un generale potrebbe anche spostare un colonnello». «In teoria – risponde Palamara -, le strade lungo le quali corre il potere non sono sempre le più semplici. Soprattutto in quegli anni nei quali a farla da padrone non sono state certo la trasparenza, la lealtà e, in alcuni casi, neppure la legge». Se la partita fiorentina è ancora tutta da giocare, quella romana, al Csm, si è al momento chiusa con la vittoria di Renzi.

«Prendiamo il caso di Banca Etruria. Come risulta dalle chat, lei prese le difese del pm di Arezzo, Roberto Rossi, quello che ha indagato sulla vicenda nonostante fosse sospettato di essere compromesso con la famiglia Boschi – il padre della ministra Maria Elena era il vicepresidente di quella banca – e quindi con Renzi per via di una consulenza avuta con il governo», chiede Sallusti. «Quella consulenza esisteva, ma era antecedente a Renzi, gli era stata conferita dal premier Letta. Non solo. La consulenza, gratuita, cessò nel 2015 mentre il fallimento della banca è del febbraio 2016, e il padre della ministra verrà regolarmente iscritto nel registro degli indagati», puntualizza Palamara che in quegli anni era componente del Consiglio superiore della magistratura. «Resta il fatto che lei, intercettato, parlando con il suo collega Paolo Auriemma (procuratore di Viterbo, ndr) dice: “Se non fosse per Rossi sarei ottimista, crea solo casini, con quella audizione indebolisce Renzi”, commentando l’intervento di Rossi alla commissione parlamentare su Banca Etruria presieduta da Pier Ferdinando Casini».

«È vero. Rossi non è un politico e più volte è caduto nei trabocchetti della guerra che in quell’anno era in corso contro Renzi. Si mirava a Rossi, ma in realtà si puntava a Renzi e Boschi. In prima battuta Rossi, nonostante un duro ostracismo di alcuni componenti della prima commissione (competente sulle incompatibilità delle toghe, ndr) presieduta da Renato Balduzzi (già ministro della Salute nel governo Monti, che non è mai riuscito ad arginare lo stillicidio di notizie sulla vicenda), si salva e nel luglio del 2016 il Csm archivia la pratica per incompatibilità istituita contro di lui. La vendetta si consuma però tre anni dopo, quando il Csm non lo riconferma procuratore di Arezzo», ricorda Palamara, sottolineando che contro Rossi «si scatena la furia giustizialista, e molto ideologica, di Davigo e della corrente grillina (Autonomia&indipendenza, ndr), in quel momento molto forte al Csm e in politica, e che aveva il ministro Bonafede come sponda politica».

Che cosa era successo? Secondo Davigo, Rossi aveva compromesso «il requisito dell’indipendenza da impropri condizionamenti», almeno «sotto il profilo dell’immagine», avendo mantenuto un incarico di consulenza presso Palazzo Chigi, sotto i governi Letta e Renzi, anche dopo aver aperto l’indagine su Banca Etruria del cui consiglio di amministrazione faceva parte il padre dell’allora ministro Maria Elena Boschi. A nulla erano valse le spiegazioni di Rossi che, in una memoria mai tenuta in considerazione, aveva definito «clamoroso e sconcertante travisamento dei fatti» ciò che gli veniva contestato, ricordando di aver terminato l’incarico a Palazzo Chigi il 31 dicembre 2015, prima dunque del fallimento della banca che è datato 11 febbraio 2016.

Non c’era stata alcuna “contemporaneità”. Alla contestazione di essersi “auto assegnato” il fascicolo, Rossi aveva risposto che il primo fascicolo, quello sull’ostacolo alla vigilanza e che non riguardava Boschi padre, gli era pervenuto in base ad un meccanismo di routine, come magistrato dell’area economica. E il non aver chiesto inizialmente l’insolvenza di Banca Etruria, altra accusa, fu perché la Banca d’Italia all’epoca stava ancora tentando il salvataggio dell’istituto di credito dal fallimento con l’amministrazione straordinaria. Nonostante le prove, Rossi non venne creduto, venendo rimosso dall’incarico dalla sera alla mattina. Per ristabilire la verità dovrà intervenire il Consiglio di Stato al quale Rossi aveva presentato ricorso contro la defenestrazione. Nel frattempo Davigo sarà già andato in pensione. Paolo Comi

Palamara: “così il sistema colpì il generale Adinolfi per far fuori Matteo Renzi”. Redazione CdG 1947 l'11 Febbraio 2022

L’operazione per far fuori il generale Adinolfi nasce nella Procura di Napoli dove il pm Henry John Woodcock ed i Carabinieri del Noe del capitano Giampaolo Scafarto e del colonnello Sergio De Caprio, ora in pensione, meglio noto come capitano "Ultimo", stanno conducendo l’inchiesta “Cpl Concordia” su alcune tangenti per la metanizzazione dell’isola d’Ischia

Nel libro intervista “Lobby e Logge” scritto da Alessandro Sallusti e Luca Palamara, si legge che Matteo Renzi arrivato a Roma dalla sua Firenze, inizialmente come segretario nazionale del Pd ed in seguito come Presidente del Consiglio dei Ministri,  “la prima cosa che capisce è che per governare, in generale ma in questo Paese in particolare, devi controllare o quantomeno avere persone di fiducia nei gangli del Sistema, per pararti dai colpi bassi. Così funziona”. “Gli obiettivi sono carabinieri, guardia di finanza, servizi e magistratura”, continua Palamara. Per l’ Arma dei Carabinieri Renzi ha le idee chiare e sistema subito la questione piazzando due fedelissimi: per comandante generale sceglie Tullio Del Sette ed in Toscana, “si blinda” con la nomina del generale Emanuele Saltalamacchia, “una sua vecchia conoscenza di quando era sindaco di Firenze”. 

Per la Guardia di finanza una organizzazione strategica “perché rispetto alle altre forze di polizia è diventata protagonista di importanti e delicate indagini, soprattutto con alcuni suoi reparti speciali, ad esempio il Gruppo investigativo sulla criminalità organizzata, meglio conosciuto come Gico” il discorso è più delicato e complicato. In quel momento storico il comandante generale è il generale Saverio Capolupo, ritenuto “uomo potente e di grandi relazioni”. Il suo incarico scade nel 2016 e potrebbe essere prorogato da Renzi che però commette “un errore fatale” piazzando al vertice delle fiamme gialle il generale Giorgio Toschi, una vecchia conoscenza grazie ai suoi trascorsi al comando della Finanza in Toscana, preferendolo al generale  Luciano Carta che verrà parcheggiato ai servizi segreti in “uno stato d’animo, diciamo così, non proprio riconoscente nei confronti del premier”. 

L’operazione per far fuori il generale Adinolfi nasce nella Procura di Napoli dove il pm Henry John Woodcock ed i Carabinieri del Noe del capitano Giampaolo Scafarto e del colonnello Sergio De Caprio, ora in pensione, meglio noto come capitano “Ultimo”, stanno conducendo l’inchiesta “Cpl Concordia” su alcune tangenti per la metanizzazione dell’isola d’Ischia. Gli imputati, tra cui il sindaco dell’ isola Giosi Ferrandino che resterà in carcere a Poggioreale per tre settimane infernali, giusto per rinfrescare la memoria al lettore, verranno poi tutti assolti. Fra gli intercettati in questa maxi inchiesta finita in un buco nell’ acqua compare anche il generale Adinolfi che chiama Renzi il giorno del suo quarantesimo compleanno. La conversazione è amichevole e i due si lasciano andare a giudizi molto pesanti sull’allora premier Enrico Letta, definito senza tanti giri di parole un “incapace”.

Un racconto che trova conferma nell’esposto-bomba che l’ex Comandante in seconda della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi, il 4 luglio 2017 fece pervenire alla Prima commissione del Csm. La stessa commissione dinnanzi alla quale nel successivo mese di settembre il procuratore capo di Modena Lucia Musti ha riferito che il colonnello “Ultimo”, ed il maggiore Scafarto gli avrebbero parlato della prospettiva di “arrivare a Renzi” proprio attraverso l’inchiesta sulla Cpl. 

Una telefonata deflagrante per i rapporti certamente non idilliaci fra Matteo Renzi ed Enrico Letta, che nonostante non abbia alcuna attinenza minimamente con le indagini in corso, viene trascritta sul brogliaccio dai Carabinieri del Noe, per poi restare in un cassetto per un anno. Nel 2015 guarda caso il giornale delle procure, cioè il Fatto Quotidiano provvede a pubblicarla integralmente ed il generale Adinolfi di fatto eliminato dai giochi del potere. “Era il segnale: il vecchio Sistema aveva dichiarato guerra a Renzi”, spiega Palamara.

Due anni dopo nel 2017 parte un vero e proprio regolamento di conti all’interno dell’ Arma dei Carabinieri, “sempre per mano della procura di Napoli e del duo Scafarto-De Caprio”, e questa volta ad essere “bruciati” sono proprio i generali Del Sette e Saltamacchia, accusati di rivelazione atti d’ufficio nell’ambito di uno dei filoni dell’indagine Consip. Il generale Del Sette verrà persino condannato dal Tribunale di Roma. Dal 1814, anno di fondazione dell’Arma dei Carabinieri, non era mai accaduto, che il numero uno subisse tale onta. 

 “Ma nel 2017 Renzi non è più premier”, ricorda Alessandro Sallusti. E Palamara spiega “Già lascia nel dicembre del 2016, ma è ancora potente perché ha il controllo dei gruppi parlamentari del Pd. È vero, ha sbagliato e ha perso il referendum da lui indetto sulla riforma costituzionale, però lo ha perso raccogliendo una montagna di voti. Insomma, fa ancora paura alla vecchia nomenclatura Pd che non vede l’ora, come disse Bersani, di riprendere in mano la ditta”.

Palamara aggiunge che per sferrare il “colpo di grazia” a Renzi, “una manina sposta De Caprio e il suo gruppo dal Noe al cuore dei servizi segreti, all’Aise, l’agenzia degli 007 impegnata sugli affari esteri”. Un trasferimento improvviso che suscita grandi perplessità nel cerchio magico renziano che non riesce a comprendere le ragioni di questi spostamenti.

“Secondo i renziani è Marco Minniti, all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi, uomo che arriva dalla linea Pci-Pds-Pd, cioè legato alla vecchia nomenclatura. Minniti è nel governo Renzi ma legato a quella parte della sinistra a lui ostile” continua Palamara che ricorda che “I renziani mi dicevano: Minniti si era impegnato a rafforzare l’Aisi (il servizio segreto interno n.d.r.) , per catturare Matteo Messina Denaro, proponendo il nome di De Caprio, ma anziché mandarlo a dare la caccia a uno dei latitanti più pericolosi e ricercati al mondo lo dirotta all’ Aise per farci fuori”.

L’operazione contro il generale. La rivelazione di Palamara: così il sistema colpì Adinolfi per far fuori Matteo Renzi. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Febbraio 2022 

Arrivato a Roma, inizialmente come segretario del Pd e poi come premier, Matteo Renzi “la prima cosa che capisce è che per governare, in generale ma in questo Paese in particolare, devi controllare o quantomeno avere persone di fiducia nei gangli del Sistema, per pararti dai colpi bassi. Così funziona”. Lo racconta Luca Palamara nel libro intervista Lobby e Logge scritto con Alessandro Sallusti.

Se per un verso il Sistema scatena subito la caccia nei suoi confronti (come raccontato nella puntata di ieri), dall’altro il Rottamatore non rimane inerte e cerca di prendere le giuste contromisure. “Gli obiettivi sono carabinieri, guardia di finanza, servizi e magistratura”, prosegue Palamara. Per i carabinieri Renzi ha le idee chiare e chiude subito la pratica con due fedelissimi: per comandante generale sceglie Tullio Del Sette e per casa sua, in Toscana, “si blinda” con la nomina del generale Emanuele Saltalamacchia, “una sua vecchia conoscenza di quando era sindaco di Firenze”.

Discorso più complesso per la guardia di finanza, una organizzazione strategica “perché rispetto alle altre forze di polizia è diventata protagonista di importanti e delicate indagini, soprattutto con alcuni suoi reparti speciali, ad esempio il Gruppo investigativo sulla criminalità organizzata, meglio conosciuto come Gico”.

In quel momento il numero uno delle fiamme gialle è il generale Saverio Capolupo, “uomo potente e di grandi relazioni”. Il suo incarico scade nel 2016 e potrebbe essere prorogato da Renzi. Il Rottamatore, però, commette “un errore fatale” e insedia al vertice delle fiamme gialle Giorgio Toschi, preferendolo a Luciano Carta che verrà parcheggiato ai servizi in “uno stato d’animo, diciamo così, non proprio riconoscente nei confronti del premier”. Renzi, prosegue Palamara, “avrebbe voluto come comandante della finanza un suo caro amico, il generale Michele Adinolfi, ma il vecchio sistema si mette di traverso e brucia il generale con una operazione perfetta coordinata tra magistrati e giornalisti”.

L’operazione per far fuori Adinolfi nasce dalla Procura di Napoli dove il pm Henry John Woodcock e i carabinieri del Noe del capitano Giampaolo Scafarto e del colonnello Sergio De Caprio, alias capitano Ultimo, stanno conducendo l’inchiesta “Cpl Concordia” su alcune tangenti per la metanizzazione dell’isola d’Ischia. Gli imputati, tra cui il sindaco Giosi Ferrandino che trascorrerà oltre venti giorni a Poggioreale, per la cronaca, saranno poi tutti assolti. Fra gli intercettati in questa maxi inchiesta finita in un flop c’è anche Adinolfi. Il generale chiama Renzi il giorno del suo quarantesimo compleanno. La conversazione è amichevole e i due si lasciano andare a giudizi molto pesanti sull’allora premier Enrico Letta, definito senza mezzi termini “incapace”.

La telefonata è esplosiva per i rapporti già non idilliaci fra Renzi e Letta e, anche se non attiene minimamente le indagini, viene trascritta dai Cc del Noe per poi essere lasciata in un cassetto per un anno. Nel 2015 il Fatto Quotidiano si incaricherà di pubblicarla integralmente e Adinolfi verrà bruciato. “Era il segnale: il vecchio sistema aveva dichiarato guerra a Renzi”, precisa Palamara. Nel 2017 parte un regolamento di conti all’interno dell’Arma, “sempre per mano della procura di Napoli e del duo Scafarto-De Caprio”, e ad essere azzoppati sono proprio Del Sette e Saltamacchia, accusati di rivelazione atti d’ufficio nell’ambito di uno dei filoni dell’indagine Consip. Del Sette, in particolare, verrà pure condannato dal tribunale di Roma. Mai era accaduto, dal 1814, anno di fondazione dell’Arma, che il numero uno dell’Arma subisse tale onta.

“Ma nel 2017 Renzi non è più premier”, afferma Sallusti. “Già – risponde – lascia nel dicembre del 2016, ma è ancora potente perché ha il controllo dei gruppi parlamentari del Pd. È vero, ha sbagliato e ha perso il referendum da lui indetto sulla riforma costituzionale, però lo ha perso raccogliendo una montagna di voti. Insomma, fa ancora paura alla vecchia nomenclatura Pd che non vede l’ora, come disse Bersani, di riprendere in mano la ditta”. Per dare il “colpo di grazia” a Renzi, aggiunge Palamara “una manina sposta De Caprio e il suo gruppo dal Noe al cuore dei servizi segreti, all’Aise, l’agenzia degli 007 impegnata sugli affari esteri”. Questo improvviso trasferimento suscita grandi perplessità nell’entourage renziano che non riesce a comprendere perché stiano avvenendo tali spostamenti.

“Secondo i renziani – prosegue Palamara – è Marco Minniti, all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi, uomo che arriva dalla linea Pci-Pds-Pd, cioè legato alla vecchia nomenclatura. Minniti è nel governo Renzi ma legato a quella parte della sinistra a lui ostile”. “I renziani – ricorda Palamara – mi dicevano: Minniti si era impegnato a rafforzare l’Aisi per catturare Matteo Messina Denaro, proponendo il nome di De Caprio, ma anziché mandarlo a dare la caccia a uno dei latitanti più pericolosi e ricercati al mondo lo dirotta all’Aise per farci fuori”. Meglio di House of Card. Paolo Comi

Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" l'11 febbraio 2022.

Cena tra magistrati, qualche anno fa. Clima conviviale. Un commensale si rivolge a Giuseppe Creazzo, da non molto nominato procuratore di Firenze. «Allora, Peppe, come si sta a Firenze?». «Dopo tanti anni in Calabria, è stato come passare da Beirut a New York». E invece. Nemmeno tanti anni dopo, la placida Procura fiorentina è un bunker libanese. «Siamo isolati, infamati come persone e delegittimati come ufficio - ha detto ieri Creazzo ai colleghi - .Protagonisti nostro malgrado per attacchi che si commentano da soli». «I miei accusatori non sono credibili», proclama Renzi. 

Creazzo additato in tv come «molestatore sessuale» con tanto di dettagli («Tanto non siamo in fascia protetta») su «palpeggiamenti». Turco, memoria storica della Procura di Firenze, svillaneggiato in quanto «toga rossa, protagonista di inchieste finite nel nulla, specializzato in Renzologia e sul cui operato pongono seri dubbi numerosi servitori dello Stato che lavorano con lui».

Nastasi, ultimo arrivato nel bunker, gettato nel fango senese per il sospetto «di aver inquinato la scena del delitto nel caso David Rossi». Non si può dire che i tre pm siano star mediatiche. «Zero tituli» negli archivi di giornali e tv. «Al lavoro in silenzio, senza cadere in provocazioni né rispondere. Ora è il tempo della sobrietà e dell'umiltà», sospira Creazzo ai suoi pm. 

Ma questa botta s'è sentita più di ogni altra, appena lenita dal comunicato dell'Anm e delle manifestazioni di solidarietà, perfino della Casa del Popolo di mantignano. Il Csm ha registrato la polemica, senza iniziative. Firenze è una capitale magnificente e autocompiaciuta, dove gli ultimi due procuratori sono finiti, all'indomani del pensionamento, a collaborare con il sindaco. Creazzo è un calabrese minuto, ostinato ed ermetico. A Reggio era leader della corrente centrista Unicost.

In Procura era uditore del giovane Palamara, fresco vincitore di concorso, con cui poi milita nell'Anm negli anni del berlusconismo. Creazzo arriva a Firenze nel giugno 2014, a renzismo imperante. Benché non fosse il candidato preferito, non dispiaceva. «È un moderato», dicevano nel Pd. Ma negli anni successivi, quando le inchieste si incuneano nel Giglio Magico, il clima cambia. 

«Togliercelo dai coglioni» diventa l'imperativo categorico. Espresso impudicamente, a Firenze, persino al cospetto di alti funzionari pubblici. E in privato, all'hotel Champagne, quando è Luigi Spina, allora consigliere del Csm (anch' egli calabrese e di Unicost) a rassicurare Lotti: «Te lo dobbiamo togliere dai coglioni il prima possibile». Era di maggio, 2019. Creazzo si era messo in testa di diventare procuratore di Roma. Ma aveva fatto male i conti.

Nemmeno la sua corrente lo appoggiava. Nel frattempo, dopo i petali imprenditoriali, le inchieste avevano toccato quelli familiari e politici del Giglio. Fino ai clamorosi e improvvidi arresti domiciliari dei genitori di Renzi («Due settantenni incensurati!») per bancarotta fraudolenta di cooperative. Arresti trasformati nella più blanda interdizione dal tribunale dei Riesame. «Annullati perché forzati e sproporzionati», esulta Renzi, glissando sulla conferma dei gravi indizi di colpevolezza. 

Per «liberare Firenze - dice Palamara all'hotel Champagne parlando di Creazzo - bisogna mettergli paura con quell'altra storia». La storia è un esposto firmato da un altro pm fiorentino, Paolo Barlucchi, e mandato per competenza a Genova. Il dossier adombra conflitti di interesse e corruzione di Creazzo e Turco in un'inchiesta sulla sanità. Lo stesso Renzi se ne interessa. Creazzo viene intercettato anche se non indagato.

L'inchiesta sarà archiviata un anno dopo. Mentre Barlucchi, a sua volta, è finito sotto processo disciplinare con l'accusa, tra le altre, di aver «ricattato» Creazzo. Ma dalle chat di Palamara spunta un'altra, e scabrosa, vecchia storia. Quando la Procura generale della Cassazione le chiede perché in una chat chiamava Creazzo «il porco di Firenze», la pm palermitana Alessia Sinatra racconta di essere stata molestata diversi anni prima, nel corridoio di un hotel romano in zona Prati dove si svolgeva un convegno. 

Entrambi finiscono sotto processo disciplinare (quello penale è impossibile, per assenza della denuncia). Le accuse a Creazzo sono condensate nel foglio che Renzi ha sventolato a "Porta a Porta", una foto dell'atto di incolpazione depositato al Csm. La pm Sinatra è ancora sotto processo disciplinare. Dalla mediatizzazione della sua vicenda prende le distanze, manifestando «la più completa estraneità ai commenti su procedimenti in corso».

A metà dicembre Creazzo è stato condannato dalla sezione disciplinare, seguirà ricorso in Cassazione. La sanzione, due mesi di perdita di anzianità, è obiettivamente irrisoria. Ma sufficiente a sopire ogni ambizione di carriera. Sfumata Roma, sfumata Catanzaro, sfumata la Procura nazionale antimafia sia pure come sostituto semplice, Creazzo chiuderà la carriera da soldato semplice in Calabria.

Il caso Open. L’Anm avverte Renzi: vietato toccare un Pm! Redazione su Il Riformista l'11 Febbraio 2022 

Qual è il punto di forza dei magistrati? Che se uno di loro viene criticato, scatta a sua difesa il partito dei Pm. Il principio è chiarissimo: i magistrati possono fare quello che pare a loro e non possono essere criticati. tantomeno denunciati, come ha fatto Matteo Renzi nei confronti dei Pm di Firenze che avevano commesso alcuni abusi nelle indagini sulla fondazione Open. Capito? Se qualche Pm ti mette in mezzo e ti muove accuse fantasiose e chiede che tu sia rinviato a giudizio, tu te ne devi stare zitto e buono fino, eventualmente, all’assoluzione (circa l’80 per cento degli indiziati viene poi assolto). Una specie di legge sulla presunzione di colpa.

Così ieri la giunta dell’Anm (cioè il comitato centrale del partito dei Pm) ha diffuso un comunicato di condanna nei confronti di Matteo Renzi. Intitolato “l’ingiusto attacco del senatore Renzi ai pubblici ministeri fiorentini della vicenda Open”. C’è scritto nel comunicato: “Le parole del senatore della Repubblica Matteo Renzi, pronunciate non appena ha appreso della richiesta di rinvio a giudizio per la vicenda Open, travalicano i confini della legittima critica e mirano a delegittimare agli occhi della pubblica opinione i magistrati che si occupano del procedimento a suo carico. “I pubblici ministeri che hanno chiesto il processo nei suoi confronti sono stati tacciati di non aver la necessaria credibilità personale in ragione di vicende, peraltro oggetto di accertamenti non definitivi o ancora tutte da verificare, che nulla hanno a che fare con il merito dei fatti che gli sono contestati.

Hanno adempiuto il loro dovere, hanno formulato una ipotesi di accusa che dovrà essere vagliata, nel rispetto delle garanzie della difesa, entro il processo, e non è tollerabile che siano screditati sul piano personale soltanto per aver esercitato il loro ruolo. “Questi inaccettabili comportamenti, specie quando tenuti da chi riveste importanti incarichi istituzionali, offendono i singoli magistrati e la funzione giudiziaria nel suo complesso, concorrendo ad appannarne ingiustamente l’immagine di assoluta imparzialità, indispensabile alla vita democratica del Paese. 

Renzi erede di Berlusconi: ora la magistratura ha il suo nuovo nemico. Filippo Ceccarelli su La Repubblica l'11 febbraio 2022.

Con il suo attacco ai giudici il leader di Italia viva ha preso il posto del presidente di Forza Italia. Il passaggio delle consegne è compiuto e nella vita pubblica italiana lo scontro tra giustizia e politica è destinato a durare attraverso il più naturale avvicendamento. 

Dai meandri degli ormai sterminati archivi visivi diversi anni orsono uscì fuori un filmato in cui un giovanissimo Renzi, sul palcoscenico del teatrino dell'oratorio di Rignano, faceva l'imitazione di Berlusconi. Quando in uno studio televisivo glielo fecero rivedere, il Cavaliere commentò: "Bello e divertente", aggiungendo, sia pure in modo tortuoso, che molto quel ragazzo aveva imparato da lui.

"Così il lodo Alfano venne cancellato dalla lobby in toga e dalla Consulta". Alessandro Sallusti il 9 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Sono passati tanti anni, dodici per l'esattezza, ma il 7 ottobre 2009 è una data spartiacque nei rapporti tra la magistratura e la politica.

Sono passati tanti anni, dodici per l'esattezza, ma il 7 ottobre 2009 è una data spartiacque nei rapporti tra la magistratura e la politica. Lei, dottor Palamara, in quel momento era a capo dell'Associazione nazionale magistrati e fu uno dei protagonisti di quella vicenda, la bocciatura del cosiddetto Lodo Alfano, una legge che voleva dare l'immunità alle quattro più alte cariche dello Stato, tra le quali il presidente del Consiglio.

«Che in quel momento era Silvio Berlusconi, reduce dal trionfo elettorale dell'anno precedente ma braccato dalla magistratura. Tre erano i processi che lo vedevano imputato: quello per la corruzione dell'avvocato Mills, quello per diffamazione aggravata dall'uso del mezzo televisivo sulle relazioni tra le cooperative rosse e la camorra, quello per la compravendita dei diritti televisivi».

Potevate voi sospendere le ostilità contro Berlusconi per i successivi cinque anni, cioè fino a che quel governo sarebbe rimasto in carica?

«Era da escludere. Le ricordo lo abbiamo raccontato e documentato nel libro precedente che quando Berlusconi vince a mani basse le elezioni del 2008 l'Associazione nazionale magistrati scende in campo come forza di opposizione, stante la debolezza in quel momento della sinistra politica».

Già, Berlusconi questo lo sa bene, del resto proprio lei glielo aveva in qualche modo anticipato nell'unico vostro incontro privato faccia a faccia, avvenuto sul finire del 2007 quando lei da poco era stato nominato segretario generale dell'Anm.

«Esatto, per cui lui, una volta tornato a Palazzo Chigi nell'aprile del 2008, per prima cosa prova a blindarsi. Il 26 giugno il governo vara il Lodo Alfano dal nome del ministro della Giustizia proponente che a tempo di record diventa legge: la Camera lo approva il 10 luglio, il Senato il 22 e il giorno dopo il presidente Napolitano, suo malgrado, controfirma».

Per Berlusconi è fatta. Cosa avete pensato in quel momento?

«Che lui certamente aveva i numeri parlamentari per fare ciò che voleva, ma non aveva il controllo del Sistema. E il Sistema, come vedremo, è più forte del Parlamento. Era soltanto una questione di tempo, quell'immunità andava levata con ogni mezzo. E la lobby dei magistrati si mette in moto. Il 26 settembre Fabio De Pasquale, in quel momento pubblica accusa in due processi che riguardano Berlusconi, non ne vuole sapere di sbaraccare e solleva un dubbio di costituzionalità sul Lodo Alfano. Dubbio accolto dai giudici, che chiedono lumi alla Corte Costituzionale. È il varco in cui tutti ci infiliamo».

Fabio De Pasquale, quello che ai tempi di Mani pulite fece intendere al presidente dell'Eni Gabriele Cagliari la scarcerazione in cambio di una confessione, e che non mantenne la parola? Poi Cagliari si suicidò in cella. Quello che nel 1992 mise sotto accusa per truffa Giorgio Strehler, portando il grande regista a dire «è una vergogna, mi dimetto da italiano»? Per avere giustizia totale assoluzione Strehler dovette stare tre anni sulla graticola. Quel De Pasquale oggi sotto indagine, sospettato di non aver tenuto un comportamento limpido nel processo Eni concluso a Milano con la sconfessione delle sue tesi accusatorie?

«Sì, quel De Pasquale. Ma in quei giorni partono anche i manifesti a difesa della Costituzione firmati da molti intellettuali, e Antonio Di Pietro, in quel momento leader politico di Italia dei Valori, lancia la raccolta di firme per un referendum abrogativo di quella legge. Una mobilitazione simile a quella dei girotondi lanciati dal regista Nanni Moretti anni prima, nel 2002, sempre regnante Berlusconi, in concomitanza con un precedente tentativo di concedere l'immunità alle alte cariche dello Stato».

Parliamo del cosiddetto Lodo Schifani, legge approvata nel 2003 e abrogata l'anno successivo dalla Corte Costituzionale.

«Esatto, quindi in quel momento è urgente rimettere in moto lo stesso meccanismo per arrivare allo stesso risultato. Però, prima di raccontare cosa avvenne dietro le quinte, è meglio che chi ci legge abbia chiaro quali sono i meccanismi che sovraintendono alla Corte Costituzionale»...

...«Tutti i presidenti della Repubblica che si sono succeduti dal 1999 venivano da partiti di sinistra o culture di sinistra, come si può dire senza dubbi anche di Carlo Azeglio Ciampi, il quale tuttavia al momento dell'elezione non aveva tessere di partito. Il che significa che i cinque membri in carica alla Corte costituzionale di nomina quirinalizia non potevano che riflettere quell'indirizzo. Difficile poi pensare che i cinque membri nominati dalla magistratura fossero tutti, diciamo così per semplificare, di destra o addirittura filoberlusconiani, stante che il gioco delle correnti guidate dalla sinistra giudiziaria mette ovviamente becco anche lì. Dei restanti cinque, di nomina parlamentare, almeno un paio sono eletti dalla sinistra. Risultato: oltre i due terzi dei giudici costituzionali, cioè un'ampia maggioranza, hanno un orientamento a sinistra e questo non può non avere un peso, diciamo così, di cultura giuridica, nelle loro decisioni, come del resto è normale e logico che sia».

Però sempre giudici sono.

«Certo, ci mancherebbe. Sto solo dicendo che, numeri alla mano, all'interno della Corte costituzionale che dovrebbe dirimere con imparzialità i conflitti tra poteri dello Stato l'orientamento della magistratura, su ogni tema, prevale su quello della politica, soprattutto sulla politica di centrodestra... Ma lo sbilanciamento a sinistra è dovuto anche a un altro fatto ai più sconosciuto».

Rendiamolo noto.

«Lei conosce quel detto: «I ministri passano, i dirigenti restano», che sta a indicare come in un ministero chi comanda davvero sono i capi di gabinetto guarda caso quasi tutti magistrati distaccati e gli alti funzionari, in altre parole la burocrazia? Ecco, alla Corte costituzionale i giudici sono come i ministri, interessati soprattutto a mantenere la poltrona adeguandosi all'orientamento prevalente per non essere emarginati, e magari sperare di essere eletti presidente. A mandare avanti la macchina ci pensano gli equivalenti dei dirigenti al ministero, cioè gli assistenti di studio».

E questi da dove sbucano?

«Ogni giudice ne può avere fino a tre. Possono essere scelti tra docenti universitari, magistrati amministrativi o contabili. La maggior parte, oltre i due terzi, arriva dalla magistratura ordinaria, quindi anche loro occupano quel posto solo dopo aver superato l'esame delle correnti. Il meccanismo è lo stesso usato per lottizzare qualsiasi altro incarico direttivo, tipo procuratore della Repubblica o presidente di tribunale».

E perché questi «assistenti di studio» sarebbero così importanti?

«Perché sono loro a studiare le carte e preparare le sentenze da sottoporre al loro giudice di riferimento. Il quale il più delle volte prende atto e firma. L'attuale ministra della Giustizia, Marta Cartabia, nasce così, assistente di studio di Antonio Baldassarre, che nei primi anni Novanta fu anche presidente della Corte e che poi nel 2007 finì nei guai perché coinvolto in quel pasticcio che fu la vendita a privati di un pezzo di Alitalia: condanna a tre anni per aggiotaggio. Poi il presidente Napolitano la nomina giudice. Da giudice è collega di Sergio Mattarella, che diventato presidente della Repubblica vede di buon occhio la sua nomina prima, nel 2019, a presidente della Corte stessa, poi a ministro della Giustizia nell'esecutivo di Mario Draghi».

Interessante, ma non divaghiamo troppo. Torniamo a quel 2009 e alla necessità di non concedere l'immunità a Silvio Berlusconi.

«Certo, ma guardi che non ho divagato. Per capire le singole vicende bisogna sapere come funzionano i meccanismi. Spero di aver chiarito perché la Corte Costituzionale è sì un organismo terzo, ma non «troppo terzo» rispetto al potere esercitato dalla magistratura al di fuori delle aule di giustizia. Tanto è vero che io in quei mesi, da presidente dell'Anm, frequento spesso, non solo in occasioni formali, il Palazzo della Consulta, sede della Corte che sta proprio di fronte al Quirinale allora abitato da Giorgio Napolitano, con il quale sono in costante contatto».

In che senso «non solo in occasioni formali»?

«La posizione della magistratura associata era chiara e io stesso mi ero confrontato con il presidente Napolitano: per noi il Lodo Alfano doveva essere abolito e Berlusconi processato. Ovvio che per trovare il modo di arrivare all'obiettivo tenevo rapporti stretti con i miei referenti alla Corte, quei magistrati distaccati che ben conoscevo e di cui parlavo prima. Sono state tante le colazioni dentro quel palazzo così algido, così distante anche nella sua architettura dal popolo. Una sorta di reggia esclusiva».

Un lavoro di lobby per affossare una legge democraticamente approvata dal Parlamento. Non è il massimo della trasparenza.

«Era quello che aveva deciso il Sistema in quel momento. Non dimentichiamoci che Berlusconi e il suo governo erano i nemici del Sistema, non si poteva in alcun modo permettere che si rafforzassero con l'immunità. Quindi ognuno doveva fare il suo: i procuratori che stavano indagando su Berlusconi avanzare eccezione di costituzionalità, il Csm proteggere loro le spalle, l'Anm suonare la grancassa del rischio colpo di Stato e affini, i partiti di sinistra e i sindacati mobilitare le piazze, i giornali di area dare grande rilevanza a tutto questo. Da ultimo, non in ordine di importanza, il presidente della Repubblica a cui era toccato, per dovere d'ufficio, controfirmare quella legge. Insomma, bisognava preparare il terreno perché la Corte costituzionale alla fine facesse il suo, sentendosi ben supportata».

Una partita impari.

«Berlusconi mette in campo un parere favorevole al Lodo Alfano dell'Avvocatura di Stato, ufficio che dipende dalla presidenza del Consiglio, quindi da lui. E avvicina gli unici due giudici della Corte di nomina del centrodestra, Luigi Mazzella, già suo ministro in un precedente governo, e Paolo Maria Napolitano. La cena avviene a casa Mazzella nel giugno di quel 2009, vi partecipano anche Gianni Letta e Carlo Vizzini, oltre che lo stesso Alfano. L'incontro non costituisce reato i giudici costituzionali non sono soggetti alle stesse restrizioni di quelli ordinari ma la notizia della cena, guarda caso, viene fuori, e gettata in pasto all'opinione pubblica diventa un boomerang per il Cavaliere».

Finale scontato.

«Il 7 ottobre 2009 la Corte, con nove voti contro sei, dichiara l'incostituzionalità del Lodo Alfano, con la motivazione che per introdurre l'immunità alle alte cariche dello Stato non basta una legge ordinaria ma ne serve una costituzionale, dato che la materia va a toccare il principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge».

Poteva andare diversamente?

«In punta di diritto sì. Quella sentenza smentisce la sentenza con cui la stessa Corte, due anni prima, aveva bocciato il Lodo Schifani, antesignano di quello Alfano... Il dato politico è che la magistratura nel 2009 ha vinto, che Silvio Berlusconi poteva rimanere, come è stato, sotto inchiesta e sotto processo, e questo è dovuto al fatto che la Corte costituzionale, grazie al meccanismo che regola la nomina dei suoi giudici e dei suoi assistenti di studio in funzione delle logiche delle correnti, ha fatto Sistema».

Per lei sarà stato come appiccicarsi al petto una medaglia.

«Non lo nego, fu una stagione esaltante, celebrata anche da Roberto Vecchioni nella canzone Chiamami ancora amore, con la quale, altro schiaffo al berlusconismo, due anni dopo vinse il Festival di Sanremo... Ma siamo nel 2011, e grazie anche alla bocciatura del Lodo Alfano Berlusconi è accerchiato: anche gli artisti, con il lasciapassare della Rai, si uniscono al Sistema. La battaglia sta per essere vinta, alla fine di quell'anno il governo cadrà. Ma altre cose bollono in pentola».

Alessandro Sallusti dal 2010 al 2021 è stato direttore responsabile de ilGiornale, dove aveva cominciato insieme a Indro Montanelli nel 1987. Ha lavorato per Il Messaggero, Avvenire, il Corriere della Sera, e L'Ordine, fino ad approdare a Libero, con Vittorio Feltri. 

Severino interpreta la legge: quelle chance negate al Cav. Stefano Zurlo il 9 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'ex ministro rivela 10 anni dopo: Berlusconi avrebbe potuto evitare al Senato la decadenza col voto segreto.

Una sorta di interpretazione autentica della norma che prende il suo nome. Paola Severino ora spiega che la legge Severino non può portare alla decadenza automatica del parlamentare condannato, ma anzi lascia un certo margine di manovra al Parlamento. Ma come? Ci avevano spiegato che il destino di Berlusconi era segnato e il Senato avrebbe dovuto solo mettere il timbro, come un passacarte, sul verdetto della Cassazione. Ma non è così, e dopo dieci lunghi anni carichi di silenzio, l'ex ministro della Giustizia svela quel che accadde in Consiglio dei ministri nel 2012 a proposito del decreto legislativo 235, quello appunto utilizzato per esibire il cartellino rosso in faccia al Cavaliere.

«Fu grazie alla straordinaria capacità di Antonio Catricalà - svela l'avvocato celebrando alla Luiss proprio il grande giurista scomparso lo scorso anno - che il decreto legislativo» fu modificato in extremis, così da evitare un «eccessivo automatismo».

Parole pesanti e sorprendenti perché Forza Italia e il centrodestra sollevarono il tema dopo la condanna del Cavaliere, ma l'asse Cinque stelle-Pd fu irremovibile: il Senato non poteva far altro che dare corso a quel provvedimento.

A quanto pare la questione era più sottile e Catricalà l'aveva colta in pieno, ventilando il cambio in corsa di una parola nel corso di quel Consiglio dei ministri: «Il suggerimento che subito accolsi riconosceva al Parlamento il pieno potere di decidere sulla decadenza o meno di un suo membro. Risultato che ottenemmo attraverso la modifica dell'espressione dichiarazione in deliberazione. Fu proprio in virtù di questo cambiamento che la norma è riuscita a superare in tante occasioni il vaglio della Corte costituzionale e quello della Corte europea dei diritti dell'uomo».

Severino non aveva mai chiarito questo punto esplosivo e nemmeno era mai emersa quella staffetta di vocaboli nel testo. E però questo modifica la prospettiva di quel voto e di quella norma: se così stanno le cose non si capisce perché l'anno dopo, nel 2013, con la bagarre sul Cavaliere, non si sia ricorso al voto segreto. «Io posi la questione in aula - racconta il senatore di Forza Italia Giacomo Caliendo, ex magistrato - insistendo per il voto palese sulla decadenza, ma la sinistra e i grillini ripetevano che non c'era margine di interpretazione e dunque si doveva votare a carte scoperte. Il presidente Grasso invece di decidere passò il cerino alla giunta per il regolamento che a maggioranza optò per il voto palese, chiarendo che i senatori erano chiamati a un atto dovuto e nulla più. Così, forzando la prassi, l'aula decise la cacciata di Berlusconi a scrutinio palese, infischiandosene di tutte le questioni che avevo sollevato: dalla retroattività del decreto alla richiesta di chiarimenti alla Corte europea».

Come mai l'ex ministro parla oggi? Chissà, anche se all'orizzonte c'è un referendum proprio su quella legge. «La norma - aggiunge lei - ha dato al Parlamento un pieno potere di valutazione» di cui però fino ad oggi il Parlamento non aveva consapevolezza. E questo «ha consentito - è la conclusione - di escludere la decadenza del senatore Minzolini», oggi direttore del Giornale, «diversamente da quanto era accaduto con Berlusconi». Qui, di nuovo, qualcosa non quadra perché l'espulsione di Minzolini, a voto ancora una volta palese, fu bocciata per la rivolta dei garantisti del Pd. La lettura corretta della Severino arriva solo ora. Stefano Zurlo

Quel duello tra Cav e supremi giudici durato trent'anni. Luca Fazzo il 9 Febbraio 2022 su Il Giornale.  

«Un organo politico». «Ci sono undici membri di sinistra». «Se una legge non piace alla sinistra viene impugnata da un pm di sinistra e portata avanti alla Corte Costituzionale che inderogabilmente la abroga». Una cosa è certa: se Silvio Berlusconi leggerà i passaggi che il nuovo libro della coppia Palamara-Sallusti dedica alla vicenda del lodo Alfano, cancellato dalla Consulta nel 2009, non resterà stupito. Anzi: potrà dire «io l'avevo detto». Perché sono quasi trent'anni che il duello tra il Cavaliere e i giudici di piazza del Quirinale si popola di scontri frontali, che si risolvono quasi sempre nella sconfitta del primo. Il quale ha da tempo maturato la convinzione che lì, tra gli stucchi e gli ermellini, si nascondano alla fine i più potenti dei suoi avversari.

Eppure non era cominciata male: un giovane Berlusconi nel 1988 plaudeva («viva soddisfazione») alla sentenza che, tra mille cautele, aveva sdoganato le tv locali, aprendo la strada alla nascita del suo impero. Ma erano altri tempi, e soprattutto non era ancora iniziata l'epoca del Berlusconi politico. Nel '94 cambia tutto. E il Cav deve rendersi conto in fretta che nessuna maggioranza parlamentare, neanche la più ampia, gli risparmierà di fare i conti con la Consulta. Da lì iniziano i guai. Perché a sbattere contro il muro della Corte vanno una dopo l'altra non solo le leggi che girotondi e magistrati democratici catalogano come «leggi ad personam» ma anche norme che fanno parte del percorso ordinario di un governo. Sotto la tagliola finiscono uno dopo l'altro i provvedimenti del «pacchetto sicurezza» con cui il terzo governo Berlusconi aveva risposto all'emergenza criminalità. Nel 2005, caso più unico che raro, la Consulta cassa la legge finanziaria di Tremonti, colpevole di tagliare i fondi alle Regioni.

Ma a guastare i rapporti in modo irrimediabile è il trattamento riservato alle riforme che puntano a depotenziare i pm: nel 2004 viene cancellato il lodo Schifani, che proteggeva le alte cariche istituzionali dagli attacchi delle Procure. Nel 2009 stessa sorte al lodo Alfano. Nel pieno del caso Ruby, la Consulta dà torto persino alla Camera dei deputati che rivendicava per il processo la competenza del tribunale dei ministri.

Dietro ogni botta, in questi anni Berlusconi ha intravisto la lunga ombra del complotto che - dalle Procure fino alla presidenza della Repubblica - userebbe la Consulta per fare dell'Italia un paese a democrazia limitata. Fu così anche nell'occasione più macroscopica, l'azzeramento nel 2007 della «legge Pecorella», la norma che impediva alle Procure di impugnare le sentenze di assoluzione. Era una conquista di civiltà, che oggi viene invocata dall'intero mondo dei penalisti, e che persino la commissione nominata dalla ministra Cartabia (ex giudice costituzionale, peraltro) aveva inserito nel suo piano di riforme prima di essere stoppata dal «partito dei pm». Ma allora l'innovazione venne liquidata come una sorta di ignobile scudo offerto dal Parlamento al premier-imputato. Per Berlusconi il top fu venire a sapere che l'autore della sentenza era il giudice Giovanni Maria Flick: che era ed è un grande giurista, ma era stato ministro della Giustizia nel governo di Romano Prodi, ed era stato il primo giudice costituzionale nominato da Carlo Azeglio Ciampi, che era approdato al Quirinale dopo essere stato anche lui ministro nei governi di Prodi e di Massimo D'Alema. Per il Cavaliere, il messaggio diceva che il cerchio si era chiuso. 

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

De Pasquale, il magistrato testa d'ariete che lanciò l'assalto al premier forzista. Luca Fazzo il 9 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Fu lui a far ricorso alla Consulta e far partire l'attacco concentrico. Colleghi, giornali, intellettuali: tutti contro lo "scudo" parlamentare.

Ora che la sua carriera rischia di naufragare tra procedimenti disciplinari e rinvii a giudizio, almeno due pregi vanno riconosciuti - a mo' di onore delle armi - al dottor Fabio De Pasquale. Il primo è di essere dotato di una onestà personale al di sopra di ogni sospetto: tale che anche l'insinuazione che alcuni figuri del «caso Eni» gli riservano in una intercettazione è stata universalmente liquidata come fango. Il secondo è di essere mosso da una buona fede altrettanto granitica. Ogni qualvolta De Pasquale è partito all'attacco, a spingerlo c'era - insieme all'ambizione professionale, al furore agonistico, forse a una umanissima vanità - anche una cristallina convinzione di essere dalla parte del giusto. I potenti che finivano nel suo mirino, da Gabriele Cagliari a Silvio Berlusconi ai top manager dell'Eni, hanno di volta in volta incarnato per lui una sorta di male assoluto.

Poi però c'è il resto, che di questa tetragona convinzione di essere nel giusto, della totale (e un po' inquietante) assenza di dubbi è a suo modo figlia. L'episodio su cui si concentra il passaggio dedicato in Lobby&logge al baffuto pm messinese è un buon esempio di questo approccio muscolare al processo penale. Quando De Pasquale si rende conto che il «lodo Alfano» rischia di essere l'iceberg contro cui va a sbattere il processo per frode fiscale al Cavaliere, impugna l'arma del ricorso alla Corte Costituzionale. Certo, lo fa perché è intimamente convinto della illegittimità della norma. Ma anche perché è consapevole che ad affossare il lodo è pronta a intervenire una moltitudine di soggetti diversi, dai giornali liberal ai giuristi democratici, e che nella Consulta ci sono orecchie pronte ad ascoltare le ragioni degli indignati. «Depa», come lo chiamano in Procura, sa che la battaglia è vinta in partenza. E che la Consulta gli aprirà la strada per portare fino in fondo il processo all'odiato Cav. Risultato raggiunto: il 25 ottobre 2012, in un'aula stipata all'inverosimile, arriva la condanna di Berlusconi a quattro anni di carcere.

Da lì in poi, tutto cambia. De Pasquale diventa per un pezzo d'Italia, anche più di quanto lui stesso lo desideri, un simbolo della lotta al Cav. L'autostima che già era solida, e ai tempi di Mani Pulite lo portò a rifiutare l'arruolamento come ragazzo di bottega del pool, dalla vittoria del processo a Berlusconi si rafforza ulteriormente. Si apre la caccia a un obiettivo più alto. Ma cosa c'è di più alto di un premier? Risposta ovvia: l'Eni, il colosso fondato da Mattei, uno Stato nello Stato che in giro nel mondo conta più della Farnesina e di Palazzo Chigi. E che però, nelle carte di De Pasquale, rastrella petrolio corrompendo a destra e manca: Algeria, Congo, Nigeria, Kazakistan. Per «Depa» è la battaglia finale, quella che dalle storielle colorite di film strapagati del processo al Cav, lo catapulta nel mondo della finanza internazionale, dei ministri, delle multinazionali. Riesce a farsi creare un dipartimento su misura.

E a quel punto, dicono ora le accuse della Procura di Brescia, perde il senso di ciò che si può e non si può fare.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Emilio Sirianni, le rivelazioni di Palamara: "Gratteri fascista, Minniti parac***". Gli insulti della toga che difendeva Mimmo Lucano. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano l'8 febbraio 2022

Pubblichiamo di seguito il capitolo "Un magistrato per amico - Mimmo Lucano e il giudice indagato perché ostacolava i colleghi" del nuovo libro intervista di Alessandro Sallusti all'ex magistrato Luca Palamara. Il volume Lobby & logge, edito da Rizzoli, è da oggi in libreria.

Proviamo a fare un punto. Abbiamo visto fin qui che le accuse contro i magistrati coinvolti nella lobby siciliana di Antonello Montante sono state archiviate sia nel procedimento penale che in quello disciplinare del Csm, che quelle a proposito della gestione del falso pentito Scarantino sulla strage di via D'Amelio sono state archiviate sul piano penale e neppure portate di fronte dal Csm, che i magistrati chiamati in causa dal faccendiere Amara per la loggia Ungheria, che si sappia, a ora non sono neppure indagati. È come se esistessero due giustizie, due codici penali, due metri di giudizio: uno vale per tutti meno che per i magistrati, l'altro solo per i magistrati. Andreotti disse: «Quando ho dovuto affrontare il mio processo ho capito perché la stupenda scritta "La legge è uguale per tutti" è alle spalle e non davanti agli occhi del giudice».

«Non mi trascini su questo terreno, sono pur sempre un magistrato - ufficialmente ex ma non per me - e oggi pure imputato. Però se vuole possiamo affrontare da dietro le quinte un'altra storia ricca di anomalie del magico mondo che ho frequentato e per anni diretto».

Siamo qui per questo.

«Ha presente il caso di Mimmo Lucano?»

Domenico Lucano detto Mimmo, perito chimico, tre volte sindaco - la prima nel 2004 - di Riace, piccolo comune della costa ionica calabrese, 1.500 abitanti più 450 tra rifugiati e immigrati che lì si sono stabiliti grazie al suo innovativo modello di accoglienza che lo ha reso un eroe della sinistra e famoso nel mondo. Modello che però non ha convinto i magistrati calabresi: nell'ottobre del 2017 è indagato per truffa nella gestione dei fondi europei, concussione e abuso d'ufficio; un anno dopo viene arrestato, ai domiciliari, per favoreggiamento dell'immigrazione attraverso anche matrimoni combinati e rilascio di carte d'identità a immigrati privi di permesso di soggiorno; nell'aprile del 2019 viene rinviato a giudizio e il 30 settembre 2021 il tribunale di Locri lo condanna a tredici anni di carcere - il doppio della pena chiesta dal pm - per associazione a delinquere, peculato, truffa, falso e abuso d'ufficio.

«Perfetto. Ma questa è storia nota, poi ne parleremo. Quella su cui voglio ragionare ora è un'altra, semisconosciuta in generale e sconosciuta in alcuni importanti dettagli che i mezzi di informazione hanno snobbato - probabilmente non a caso -, al massimo diluito dentro il clamore della sentenza shock. Parlo della storia del giudice Emilio Sirianni. Emilio Sirianni, giudice della Corte di Appello di Catanzaro. Proprio lui, è uno dei duri e puri di Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura. Di più, è un falco che sulle chat interne guida la rivolta contro Giuseppe Cascini, membro del Csm e già leader di Magistratura democratica che con me ha condiviso per anni il sistema delle correnti».

Dalle chat estratte del suo telefonino anche gli accrediti gratuiti - per il figlio - della tribuna vip della Roma all'Olimpico e la raccomandazione per il fratello minore, Francesco, anche lui magistrato.

«A Sirianni tutto questo non va giù e inizia a martellare: Cascini, ma tu facevi le stesse cose di Palamara? Ma tu eri sodale di Palamara? E via dicendo, un vero processo pubblico. Alla fine Cascini sbotta: «Tu sei come Porro e Amadori (Nicola Porro, conduttore di "Quarta Repubblica" su Rete 4, e Giacomo Amadori, cronista giudiziario della "Verità", N.d.R.) che mettono insieme il contenuto delle chat di Palamara in modo strumentale. Ma alla fine si dimette da Md lanciando un avvertimento: vorrà dire che mi dovrò astenere dal valutare il procedimento aperto al Csm su Sirianni».

Un disciplinare? Per quali fatti?

«Sirianni aveva un grosso problema, la sua amicizia con Lucano. Più che una amicizia, durante tutta l'inchiesta era diventato il suo consulente legale e politico».

Mi faccia capire. Nel tribunale di Locri c'erano dei magistrati che indagavano su Lucano e a Catanzaro un magistrato che lo difendeva?

«Non lo dico io, è tutto agli atti dell'inchiesta aperta su di lui dalla procura di Locri. A Lucano Sirianni ha redatto controdeduzioni e note difensive, suggerito il tenore delle dichiarazioni da rendere alla stampa. In una occasione gli ha scritto la replica da dare a una dichiarazione del procuratore di Locri, poi gli raccomanda di cancellare subito la mail. Ma fa ancora di più. Lo mette in guardia dal parlare al telefono, un avvertimento indiretto che lo stanno intercettando, e coinvolge in questa linea di difensore occulto anche Roberto Lucisano, suo compagno di corrente e presidente della Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria, uno che in teoria potrebbe essere un futuro giudice di Lucano. O almeno così gli fa credere in alcune telefonate intercettate: "Ho parlato con Lucisano, il quale mi dice che la procura di Locri sta indagando ma che su questo Magistratura democratica farà una crociata"».

A occhio ce ne è abbastanza per rimuoverlo dal suo incarico.

«Qui dobbiamo stare molto attenti a misurare le parole, o meglio a trattenerle. Per cui rimaniamo ai fatti. E i fatti dicono che la procura di Locri ha archiviato la pratica su Sirianni pur mettendo nero su bianco che "il comportamento mantenuto è stato poco consono a una persona appartenente all'ordine giudiziario, peraltro consapevole di parlare con una persona indagata"».

Non ci credo. E se devo crederci allora questo doveva valere anche per lei che parlava con l'indagato Centofanti.

«C'e una differenza abissale. Sirianni è un leader di Magistratura democratica, paladino della sinistra giudiziaria, amico e consulente dell'icona dell'accoglienza che tanto piace alla gente che piace».

Vabbè, però sul piano disciplinare il Csm avrà fatto il suo dovere.

«Assolutamente sì, lo ha prosciolto. La commissione disciplinare, il 10 luglio 2020, sentenzia che - la faccio breve - i fatti a lui imputati sono avvenuti nel privato e non in pubblico, quindi non c'e discredito per la magistratura».

Sarà, però in questa storia, e nella sentenza del Csm, mancano due tasselli.

«Questa volta il curioso sono io».

Le leggo delle intercettazioni tra Sirianni e Lucano allegate agli atti dell'inchiesta ma mai pubblicati. La prima è all'indomani di una puntata di DiMartedì in cui Giovanni Floris pone a Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, dubbi sulla fondatezza dell'inchiesta su Lucano e lui risponde laconico: «Sarei cauto, bisogna leggere bene le carte». Al telefono, Lucano sembra preoccupato delle parole di Gratteri, ma Sirianni lo rassicura: «Lascialo stare, è un fascista di merda ma soprattutto un mediocre, un mediocre e ignorante». Ce ne è anche per l'allora ministro degli Interni Marco Minniti, che in Calabria è una autorità assoluta. Per la sua politica rigida sull'immigrazione viene definito da Sirianni «uno pseudo comunista burocrate che ha leccato il c**o a D'Alema per tutta la vita».

«Strano che l'integrale di queste intercettazioni non sia mai uscito sui giornali, e ancora più strano che non siano mai arrivate al Csm, e non penso che sia stato un disguido delle poste. Penso che quelle frasi gravemente scorrette nei confronti di importanti magistrati e politici avrebbero creato dei grattacapi non solo a lui ma a tutta la sinistra giudiziaria. Oltre che ai tanti fan di sinistra di Lucano, quindi meglio era, ed è, lasciare quei verbali nel cassetto delle procure e dei giornali».

Ma esiste un'altra intercettazione, il secondo tassello di cui parlavo, che è caduta nell'oblio. È quella in cui il magistrato Sirianni ammette che chi è convintamente magistrato di Magistratura democratica non deve applicare la legge, ma interpretarla. Eccola integrale. Dice Sirianni a Lucano: «Io parto da un altro presupposto, io non credo che siamo tutti in malafede, i magistrati. La realtà è un'altra: purtroppo questi giovani magistrati sono dei ragazzi che sono cresciuti con la televisione di Berlusconi, non hanno una conoscenza della realtà sociale, non hanno una empatia politica con quello che gli succede attorno. Specialmente quelli che vengono in Calabria non sanno un cazzo della Calabria, quindi spesso e volentieri la maggior parte rimane così. Quelli che cominciano a capire quello che gli succede intorno ci mettono tempo. Questo è il sistema purtroppo. Queste sono persone che hanno studiato e che hanno vinto un concorso. Su cento di loro, uno forse ha la sensibilità sociale e politica. Tutti gli altri sono ragazzi di famiglie benestanti che hanno studiato. C'è una scarsa [...] modello di magistrato, cioè esattamente quello su cui è nata Magistratura democratica. Magistratura democratica è nata con una cultura della corporazione, dicendo: noi non siamo giudici imparziali, o meglio noi non siamo indifferenti, noi siamo di parte, siamo dalla parte, siamo dalla parte del più debole, perché questo è scritto nella Costituzione, non perché questa è una rivoluzione».

«In questa intercettazione - che utilizza un linguaggio che, posso immaginare, un insigne giurista come Zagrebelsky avrebbe definito lingua sporca -, c'è tutto quello che ho vissuto nei miei undici anni alla guida del Sistema che ha governato la politica giudiziaria. L'egemonia culturale di sinistra che sovrastala Costituzione, la partigianeria che interpreta la legge. Per me Sirianni non è una eccezione, ma rappresenta il comune sentire di una parte molto importante della magistratura. È la norma. È il motivo per cui quando il procuratore di Viterbo, un collega sardo - come abbiamo raccontato nel Sistema -, mi interpella molto scettico sulla posizione particolarmente dura dell'Associazione nazionale magistrati e del Csm nei confronti di Salvini che da ministro degli Interni stava bloccando i nostri porti alle navi cariche di immigrati, io gli rispondo: "Hai ragione, ma bisogna fare così". Io non volevo dare un giudizio, nel mio ruolo di leader per stare in piedi dovevo assecondare la pancia della magistratura che era, e ancora e, quella esplicitata da Sirianni nella intercettazione che mi ha letto».

Vabbè, ma allora vale tutto.

«Non siamo di fronte a dei pazzi, a delle mele marce. No, sull'immigrazione, e non solo su quello, ma certo sull'immigrazione c'è un indirizzo politico giudiziario che ha ben espresso Riccardo De Vito, presidente di Magistratura democratica: "È semplice, gli scafisti" disse in una intervista del 5 agosto 2017 al Manifesto, "sono l'unico vettore al quale possono affidarsi in mancanza di canali legali di ingresso. Ma non sono gli scafisti che li trascinano in mare, sono loro che fuggono da immani tragedie"».

Per la verità Riccardo De Vito è più famoso per altre storie. È il magistrato che nel 2020, interpretando in maniera estensiva una circolare del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sull'emergenza Covid, ordinò la scarcerazione del boss Pasquale Zagaria, suscitando un vespaio di polemiche, e che nel 2021 fu trasferito dal Csm con procedura d'urgenza dalla sua sede a Nuoro, per incompatibilità ambientale, dopo l'intercettazione di una sua telefonata con una avvocata locale che era sotto inchiesta con tanto di trojan nel telefonino - intercettazione di cui, essendoci in mezzo un magistrato, non è mai stato reso noto il contenuto.

«Tutto vero, però torniamo al punto, quello di Lucano, che non riguarda solo i magistrati ma anche il suo mondo. Glielo dico chiaro. Io mi auguro che Mimmo Lucano riesca a chiarire nei successivi gradi di giudizio la sua posizione processuale, e pur stimando quei giudici di Locri credo che infliggere una condanna a tredici anni sia eccessivo, una enormità. Anche io credo che tredici anni a Lucano siano tanti. O meglio, pur nel pieno rispetto delle motivazioni dei giudici di Locri, depositate il 17 dicembre del 2021, non mi spiego una pena così alta viste le imputazioni contestate e il contesto nel quale le condotte dello stesso Lucano si sono verificate».

E quindi chi gliel'ha tirata così dura a Lucano? Può essere che una condanna così pesante sia la conseguenza di un braccio di ferro tra correnti della magistratura?

«Mi rifaccio alla mia esperienza: il tema dell'immigrazione implica inevitabilmente delle opzioni politiche da parte di chi e chiamato a giudicare, ma certo l'interferenza di Sirianni può essere stato l'innesco».

In ogni caso, per lei è una sentenza inquinata.

«Per rimanere dalle sue parti, Sallusti, lo ha sostenuto anche Vittorio Feltri, uno intellettualmente onesto. Io non dico che è una sentenza inquinata ma una sentenza che ha fatto molto discutere per l'enormità della pena. Ma è una enormità non inferiore ai 750 milioni circa di risarcimento a De Benedetti che il giudice Mesiano del tribunale di Milano ha inflitto a Silvio Berlusconi nella causa del lodo Mondadori. Come già le ho detto nella conversazione all'origine del libro precedente, quella sentenza venne emessa quando ero presidente dell'Anm e di quella enormità si discusse vivacemente all'interno della magistratura. Sia sotto il profilo del calcolo del danno - tanto è vero che quella cifra venne poi ridotta nel giudizio di appello -, che sotto quello della mancata revocazione della sentenza della corte d'appello di Roma del 24 gennaio 1991, che annullava il lodo in questione. Decisione rispetto alla quale, peraltro, gli altri due giudici della corte d'appello componenti il collegio avevano confermato di non aver subito alcuna interferenza. Solo che Berlusconi, a parte lei e pochi altri, è stato lasciato solo, anzi c'e stata un'esultanza generale, mentre dopo la condanna a Lucano sono scesi in campo intellettuali e giornalisti solitamente posizionati senza se e senza ma al fianco della magistratura. Anche l'enormità, l'anomalia di una sentenza dipende da chi è la vittima».

Il 2 ottobre 2021, dopo la sentenza che condanna a tredici anni Mimmo Lucano, Eugenio Mazzarella, filosofo e poeta nonché deputato del Pd, lancia un appello - e una raccolta di fondi - in difesa dell'ex sindaco di Riace e contro la sentenza. Appello sottoscritto da decine di intellettuali, scrittori e giornalisti di sinistra.

«Tutta gente che conosco bene, erano i miei migliori alleati quando si trattava di impedire la riforma della giustizia e appoggiare i processi sommari alle abitudini private di Berlusconi. Io so come vengono organizzate queste cose, ho fatto parte di quel mondo ed ero anche riverito, e non importa se oggi moltissimi hanno preso ipocritamente le distanze. Li ho usati, mi hanno usato, fanno i rivoluzionari ma sono parte fondamentale del Sistema che abbiamo portato allo scoperto. Un sistema in cui ognuno gioca la sua parte. Anche persone che, come racconteremo adesso, non ti aspetteresti mai di incontrare lì».

Anteprima: un estratto del libro “Lobby&Logge” il seguito de”Il Sistema” di Palamara e Sallusti. Il Corriere del Giorno l'8 Febbraio 2022.  

Pubblichiamo in anteprima un estratto del libro «Lobby & logge – Le cupole occulte che controllano “Il Sistema” e divorano l’Italia», di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, edito da Rizzoli e da oggi nelle librerie. Il volume è il seguito de «Il Sistema», degli stessi autori, che uscì nel gennaio 2021 e squarciò il velo su alcuni dei mali della giustizia italiana.

Nel nuovo libro di Sallusti e Palamara, “Lobby e logge”, la ricostruzione del caso Morisi, collaboratore di Matteo Salvini. Una vicenda “insignificante” per il magistrato ma che piombò in piena campagna elettorale

Lunedì 27 settembre 2021, manca meno di una settimana alla tornata elettorale per le amministrative di Milano, Roma, Napoli, Torino, Bologna e di altre decine di comuni. Quel giorno arriva la notizia che un signore di mezza età è indagato per una vicenda poco chiara, un festino a base di droga. Una notizia come tante, se non fosse che quel signore è Luca Morisi, quarantotto anni, da Mantova, braccio destro di Matteo Salvini, che in quella campagna elettorale si sta giocando molto. Di più, Luca Morisi è considerato il vero artefice dell’ascesa del leader del Carroccio, di quel balzo dal 4 al 30 per cento in pochi anni. È lui che ha ideato per l’amico Matteo il soprannome “Il Capitano“, soprattutto è lui ad aver messo in piedi quello che poi diventerà “la Bestia”, la più grande ed efficiente macchina social al servizio di un politico – quasi cinque milioni di utenti fissi – a cui si deve in gran parte la fortuna di Salvini.

Pochi giorni prima che la notizia diventasse pubblica, Morisi a sorpresa si era dimesso da ogni incarico adducendo vaghi «motivi personali». Sapeva invece di essere indagato dalla procura di Verona per una «cessione di stupefacenti», fatto probabilmente avvenuto la vigilia di Ferragosto nella sua abitazione di Belfiore, alle porte di Verona, dove aveva convocato via web un paio di giovani escort uomini, dopo averli agganciati su un sito di incontri. Fatti personali, insomma, che la procuratrice di Verona Angela Barbaglio da subito definisce «assolutamente banali», al punto che il 30 novembre, pur senza aver mai chiarito in che modo Morisi sia stato incastrato in questa vicenda, chiederà l’archiviazione «per la particolare tenuità del fatto». 

Ma né banale né tenue è il clamore mediatico che irrompe e inquina le ultime ore di campagna elettorale, provocando un grave danno alla Lega che in quei giorni di settembre rievoca a gran voce un concetto assai noto, quello della giustizia a orologeria per fini politici. La stessa procuratrice Barbaglio, a caldo, si sente in dovere di affidare al “Corriere della Sera” la sua difesa: “In questa procura non c’è stata alcuna fuga di notizie, ne sono più che certa”.

Dottor Palamara, a suo avviso quella della dottoressa Barbaglio è una dichiarazione sincera o potrebbe rientrare nella fattispecie «excusatio non petita, accusati o manifesta»?

Per esperienza personale posso dirle che in quel momento c’era bisogno di un giornale al di sopra di ogni sospetto che rassicurasse l’opinione pubblica sul fatto che l’operato della magistratura nella vicenda Morisi fosse stato corretto, senza alcun pregiudizio nei confronti di Salvini. E da questo punto di vista l’operazione mi sembra sia perfettamente riuscita, anche perché finire sul «Corriere» o sulla «Repubblica» certamente non dispiace a nessun magistrato, nemmeno a chi non ama l’esposizione mediatica come la Barbaglio (che nominammo procuratore a Verona grazie a un accordo blindato tra la mia corrente e quella della sinistra giudiziaria, escludendo quella di destra). Detto questo, penso però che il problema sia un altro: un procuratore della Repubblica, come qualsiasi altro magistrato, ben dovrebbe sapere quello che avviene fuori dalla torre eburnea dei palazzi di giustizia, e cioè che le fughe di notizie, come a volte le lobby che agiscono dentro il Sistema, servono non solo a pregiudicare le indagini, ma spesso a incastrare con successo qualcuno. In questo senso il caso Morisi andrebbe ben studiato, perché potrebbe fare scuola.

Perché dice questo?

C’è un vizio all’origine della vicenda, ovvero su come i Carabinieri arrivano nella villetta di Belfiore. Si è detto che qualcuno dei partecipanti alla festa li abbia chiamati, ma prima si era parlato di un controllo casuale sull’auto dei due giovani, che a cose fatte stavano rientrando a casa. Insomma, bisogna capire bene ed escludere, per esempio, che le forze dell’ordine siano andate lì a colpo sicuro su una soffiata di qualche informatore, qualcuno che essendo venuto a conoscenza del «vizietto» di Morisi da tempo monitorava le sue mosse. Ma la prego, non mi faccia fare l’investigatore, oggi non è piu il mio mestiere.

D’accordo, quindi?

Quindi bisogna fare una premessa e un salto indietro. La premessa è questa: forse non tutti sanno che le indagini le coordina sì il procuratore, ma sul campo le svolgono gli uomini della sua polizia giudiziaria, cioè carabinieri, finanzieri o poliziotti. I quali possono autonomamente acquisire una notizia di reato, salvo poi riferire senza ritardo al pubblico ministero sull’attività svolta. 

Questa la premessa. Veniamo al salto indietro.

Siamo nell’agosto del 2015. Matteo Renzi, andato al governo l’anno precedente, propone una riforma della giustizia apparentemente marginale ma rivoluzionaria nella sostanza, una delle tante iniziative che non gli attirerà le simpatie della magistratura. Fino ad allora gli uomini delle forze dell’ordine al servizio dei procuratori erano tenuti al segreto assoluto rispetto alle indagini del loro ufficio; con Renzi vengono autorizzati a parlare con la loro scala gerarchica, sia pure per sommi capi.

E questo cosa comporta?

Che il magistrato non è più l’unico depositario della notizia sull’esistenza di una certa indagine, del suo contenuto e del suo sviluppo. Perché il carabiniere che sta facendo le indagini per conto del procuratore può parlarne al suo colonnello, il colonnello informerà il suo generale e cosi su su per tutta la scala gerarchica fino ad arrivare al comandante generale. I vertici delle tre forze – Carabinieri, Finanza, Polizia – sono quindi in grado di sapere che cosa si sta muovendo nelle procure, e fin qui nulla di male. E allora dove è l’inghippo, detto che nel 2018 la Corte Costituzionale ha in parte rivisto quella legge togliendo l’obbligatorietà di questo meccanismo? Formalmente non c’è inghippo. Ma le ricordo che, come esiste un problema di nomine all’interno della magistratura, esiste un problema di nomine anche in riferimento ai vertici delle forze di polizia, che inevitabilmente finiscono per avere i propri referenti politici – i ministri della Difesa, dell’Interno e dell’Economia – e sono nominati dal governo di turno. Voglio dire che tra i vertici militari e la politica c’è un legame che va oltre quello istituzionale, fatto anche di riconoscenza e quindi di una certa, diciamo così, unità di intenti e visioni, sia pure ufficialmente dentro un’autonomia e distinzione di ruoli. E poi c’è un altro problema. Quando una notizia risale la scala gerarchica, a ogni tappa c’è un rischio di fuga di notizie casuale o voluto, perché a ogni tappa sono in agguato i servizi segreti, le lobby politiche ed economiche, ognuna delle quali ha i propri giornalisti di riferimento. Quindi, per tornare all’esempio da cui siamo partiti, può essere che la procuratrice di Verona abbia ragione quando dice di essere certa che sul caso Morisi dal suo ufficio nulla sia trapelato, ma il problema come le dicevo è che la talpa può essere altrove.

Altrove dove?

Provo a essere più chiaro. Qualcuno, lungo quella trafila che abbiamo raccontato, si è accorto che Luca Morisi, personaggio non noto per il suo nome, era quel Luca Morisi, e che quindi colpire lui significava indebolire Salvini. Così un «fatto assolutamente banale» diventa un affare di Stato, costruito e veicolato sopra la testa del magistrato che stava indagando e che già di fatto aveva deciso – e forse proprio questo era il problema – che si stava parlando del nulla, e che quindi nel nulla sarebbe restato. Per il sistema giustizia-politica, che certo non ama Salvini, era invece un boccone troppo ghiotto, e sarebbe stato da stupidi lasciarlo nelle mani di un procuratore estraneo a questi giochi di potere e che riteneva la vicenda sepolta, cosa che normalmente avviene nel caso dei fascicoli routinari, come vengono considerati quelli al confine tra uso personale di sostanza stupefacente di modica quantità e illecito. In altre parole, se fosse stata considerata una questione seria e rilevante, quella notizia si sarebbe diffusa nella immediatezza dei fatti. Per qualcuno, però, bisognava aspettare il momento giusto. 

In effetti i fatti accadono ad agosto e la fuga di notizie avviene solo due mesi dopo, a ridosso delle elezioni. Ma anche questa può essere una coincidenza, il suo è solo un teorema.

Un teorema? Mi viene in mente la vicenda del generale Adinolfi, amico di Renzi, candidato nel 2015 a diventare comandante della Guardia di Finanza e poi bruciato da una fuga di notizie pubblicata ancora dal «Fatto Quotidiano» su una sua amichevole telefonata con Renzi – intercettata sulla base di un’ipotesi di reato di corruzione risultata poi infondata, c’era stato uno scambio di persona – nella quale non c’era nulla di penalmente rilevante. E sul fatto che, nel 2011, avrebbe avvertito Luigi Bisignani di una inchiesta che lo riguardava sulla loggia P4, cosa sostenuta da Marco Milanese, ex ufficiale della Guardia di Finanza poi diventato braccio destro dell’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti e a sua volta indagato per corruzione. Un groviglio pazzesco da cui Adinolfi, tanto per cambiare, è uscito assolto. Ma tutto questo ha cambiato la sua storia personale e gli equilibri dentro la Guardia di Finanza.

Generali, politici, faccendieri, inchieste più o meno campate in aria, quotidiani che si prestano al gioco della fuga di notizie. Di che cosa stiamo parlando?

Del buco nero della democrazia. Il meccanismo è sempre lo stesso, fare terra bruciata attorno all’obiettivo. Colpi[1]re Morisi per fare male a Salvini, colpire Adinolfi per andare addosso a Matteo Renzi, un premier non amato dalla magistratura e dai servizi segreti, su cui lui avrebbe voluto mettere le mani a modo suo, cioè rottamando l’esistente. 

E perché nessuno finisce sotto accusa? Non dovrebbe essere poi così difficile individuare i colpevoli di una fuga di notizie. Immagino abbia letto cosa scriveva a proposito il pm Nicola Gratteri, già ministro della Giustizia in pectore del governo Renzi, uno dei magistrati più esperti d’Italia, sulla rivista «MicroMega» nel luglio 2014: «Per quanto riguarda le altre questioni su cui generalmente ci si divide, come la fuga di notizie e la pubblicazione delle intercettazioni, bisogna parlarne con cognizione di causa. Cosa è oggi una intercettazione? Non è altro che una canzone, un file audio in tutto simile a quelli che scarichiamo da internet. C’è un software, su un determinato computer, che intercetta quaranta, cinquanta telefonate che diventano appunto file audio. Se questo file viene copiato e salvato su una chiavetta usb per farne uso improprio, tipo consegnarlo a un giornalista o a chi per lui, se cioè c’è una fuga di notizie in fase di indagine, la cosa è tracciabilissima e assolutamente controllabile. Quando scarico una canzone e poi la salvo da qualche parte, un tecnico può facilmente ricostruire giorno, ora, minuto e secondo in cui ciò è accaduto». Non serve cambiare le leggi, basterebbe vedere quale responsabile era di turno in quel momento nella sala dove avvengono le registrazioni o le trascrizioni.

È fuor di dubbio, ha ragione Gratteri. Ma sono poche le volte in cui la sua ricetta viene applicata, e di solito accade non quando il “Sistema” va addosso a qualcuno, ma viceversa, quando qualcuno pensa di poter attaccare il Sistema. Di recente, per esempio, è accaduto all’ex maggiore dei Carabinieri Giampaolo Scafarto, in servizio alla procura di Napoli agli ordini del pm Woodcock, accusato di aver svelato al vicedirettore del «Fatto Quotidiano» Marco Lillo atti coperti dal segreto istruttorio del caso Consip, compresa l’iscrizione sul registro degli indagati del comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette. Ma nella pratica è molto difficile che i magistrati si indaghino tra loro, o indaghino sui rispettivi uomini, per ovvi motivi di appartenenza alla stessa casta e perché se così accadesse ne rimarrebbero in piedi ben pochi. Lei a tal proposito dovrebbe ben saperlo: a distanza di quasi trent’anni, era il 1994, non ci ha ancora detto chi della procura di Milano ha passato al «Corriere della Sera», dove lei lavorava, la notizia, anzi di più, addirittura la fotocopia dell’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi – primo a un premier in carica – impegnato in quei giorni a presiedere un vertice internazionale a Napoli insieme ai grandi della Terra. Fu una operazione chirurgica, fatta in quel modo e in quel giorno solo per fare il più male possibile a un nemico politico del Sistema. 

Se Goffredo Buccini,il collega che gestì materialmente quello scoop, ha ritenuto di non svelare il segreto neppure nel libro che ha appena dato alle stampe (Il tempo delle mani pulite: 1992-1994), dove ricostruisce anche quei giorni, non posso essere certo io a farlo. Lo vede?

Lo vede? Lei in quel momento, magari a sua insaputa, faceva parte del Sistema, e ancora oggi lo protegge trincerandosi dietro al segreto professionale. Funziona così, inutile girarci tanto attorno. E guardi che io so anche un’altra cosa su quella fuga di notizie.

Sentiamo.

Che la mattina in cui uscì l’articolo lei venne avvertito in modo discreto che di lì a poco avrebbero perquisito casa sua in cerca della fotocopia e di alcuni nastri di registrazione, da cui sarebbe stato forse possibile, ammesso di averne la volontà, risalire al procuratore o al carabiniere infedele. Avvertimento che le permise di disfarsi di quel materiale, che uscì di casa nella borsetta di sua moglie e finì poi bruciato nel cesso del di lei parrucchiere.

Non confermo e non smentisco, ma su questo so per certo che di quell’avviso di garanzia fu informato anche l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Il quale non fece nulla per fermarlo, o almeno ritardarlo visto che in quelle ore Berlusconi era su un palcoscenico internazionale.

Tutto da manuale. Quando il Sistema – magistratura, politica e informazione – decide una cosa non c’è niente da fare, marcia all’unisono e i vari attori si coprono a vicenda pur facendo magari finta di indignarsi gli uni con gli altri. Se può consolarla, le dico che è una recita a cui per anni ho partecipato anche io, e pure con un certo successo.

Amara e Montante, le rivelazioni di Palamara: «Così il Sistema ha colpito ancora». L'ex capo dell'Anm Luca Palamara, nel suo nuovo libro scritto con Alessandro Sallusti, racconta le trame che si celano dietro a nomine e procedimenti disciplinari, dove nulla è quello che sembra. Simona Musco su Il Dubbio il 9 febbraio 2022.

Procure che usano i pentiti e pentiti che usano le procure. Giustizia fai da te, ritorsioni e manie di persecuzione. C’è tutto questo nel nuovo libro di Luca Palamara, “Lobby & Logge”, libro attraversato da un lungo filo rosso che dal 1992 porta ad oggi. Da quando, ovvero, si consumarono gli attentati ai danni di Falcone e Borsellino, oggi osannati e ieri osteggiati proprio nelle stanze di quello che dovrebbe rappresentare il palazzo più alto della magistratura. Quel Csm che, a detta di Palamara, prima regista e poi vittima delle manovre del Sistema, agirebbe seguendo logiche che poco o nulla hanno a che fare con la giustizia.

Da quel Sistema l’ex capo dell’Anm sarebbe stato espulso per aver osato pensare di spostare «l’asse della politica giudiziaria da sinistra a destra». E per farlo fuori, dice, è stato usato un trojan, una microspia inserita nel suo cellulare attraverso quello che definisce uno stratagemma: un’accusa di corruzione formulata tempo prima – nel 2018 – da Giancarlo Longo, l’ex pm finito al centro del “Sistema Siracusa”, che al procuratore di Messina racconta di aver sentito dire «che io, Luca Palamara, avrei preso 40.000 euro per nominarlo procuratore di Gela».

La nomina non avvenne mai, anzi, Longo non fu mai in gara per quel posto. In quel verbale, racconta Palamara, «Longo parlerà anche di Pignatone, ma questa parte verrà omissata e a Perugia – cioè alla procura che deve indagare sui magistrati di Roma – verrà trasmessa solo la parte a me relativa, che riemergerà alla vigilia dell’elezione del nuovo procuratore di Roma». Siamo, dunque, nel 2019, quando Palamara, l’ex ministro Luca Lotti, il deputato Cosimo Ferri e altri cinque consiglieri del Csm si riuniscono all’Hotel Champagne per parlare di chi prenderà il posto di Giuseppe Pignatone a Roma.

L’accusa di corruzione viene allora riesumata, perché essersi fatto pagare viaggi e cene dall’imprenditore Fabrizio Centofanti non basta per installare un trojan sul cellulare di un indagato. La spiegazione, secondo Palamara, starebbe nella sua scelta di voler chiudere per sempre con l’era dell’ex procuratore. «È una nomina in cui io, ancora a capo del Sistema, non seguo per la prima volta i desiderata di Pignatone. Lui come successore vorrebbe il palermitano Franco Lo Voi oppure il suo braccio destro Michele Prestipino, io un papa straniero, il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, il cui nome verrà bruciato durante la famosa cena dell’Hotel Champagne dell’ 8 maggio 2019».

Quella notte trascina Palamara verso il fondo, mentre il Sistema continua a lavorare. E l’ennesimo meccanismo sarebbe rappresentato da Piero Amara, legale esterno dell’Eni, che con le sue dichiarazioni sulla presunta Loggia Ungheria ottiene due risultati: spacca la procura di Milano e il Csm, facendo venire alla luce ancora una volta il ruolo dei giornali nel gioco di potere di nomine e carriere, dalla loro nascita alla loro morte. «È certo che Amara usa le procure, che a loro volta in alcuni casi lo utilizzano, tipo alcuni pentiti di mafia che all’occorrenza si ricordano di aver incontrato questo o quel politico e in cambio ottengono qualche agevolazione, o quantomeno un’attenzione nuova».

Amara spunta fuori un po’ ovunque. Parte da Roma, dove a voler indagare su di lui è Stefano Fava, che viene però fermato. Il pm presenta un esposto al Csm contro Pignatone denunciando i rapporti del fratello con il legale, esposto che finirà nel nulla, mentre Fava, invece, finisce a Latina a fare il giudice civile, con la carriera azzoppata per sempre. È a Perugia, nel processo contro Palamara. E prima passa da Milano, dove fa i nomi dei presunti componenti di una loggia capace di gestire le nomine nei luoghi strategici delle istituzioni. Nomi che, per lungo tempo, rimangono un mistero. Ma non tutti vengono trattati allo stesso modo: le dichiarazioni con le quali Amara paventava presunti rapporti tra il presidente del collegio del processo Eni-Nigeria (finito con l’assoluzione di tutti gli imputati), Marco Tremolada, vengono inviate a Brescia, ma nessuno finisce per essere indagato, nemmeno lo stesso ex legale.

Quello di Sebastiano Ardita, consigliere del Csm ed ex amico di Piercamillo Davigo, finisce invece sulla bocca di tutti a Palazzo dei Marescialli, quando quei verbali passano dal pm Paolo Storari a Davigo – come forma di autotutela per la presunta inerzia dei vertici della procura – che informa diversi componenti del Consiglio. «Perché metterlo lì (il nome di Ardita, ndr), in cima alla lista? Una casualità? Può essere, ma c’è un’altra possibilità. Infangare e screditare il nome di Ardita, e Davigo una volta venuto in possesso di quei verbali coglie l’occasione di farlo sapere a tutti». Quei verbali, alla fine, vengono spediti – secondo la procura di Roma dalla segretaria di Davigo – alla stampa, che però tiene la pistola caricata a salve. Un altro pezzo del Sistema, dice Palamara. Secondo cui il caso Amara non è diverso da quello di Antonello Montante, ex presidente di Confindustria Sicilia.

«Il Csm, dove io stavo all’epoca dei fatti, non ha avuto il coraggio e in ogni caso non è stato messo nelle condizioni di potere approfondire i rapporti tra Montante e alcuni magistrati», dice Palamara. Amara e Montante hanno in comune la provenienza e i rapporti con Eni. Quest’ultimo frequenta politici, ministri, alti prelati, magistrati e giornalisti «e in breve diventa il paladino dell’antimafia». Crea dossier su tutti. E a casa sua viene trovata un pen drive con dei «file che ricostruiscono minuziosamente rapporti non proprio limpidi con dieci magistrati di Caltanissetta». «In altre parole uno sputtanamento per il gotha dell’antimafia siciliana», scrive l’ex pm nel suo libro.

Le indagini penali non portarono a nulla, ma il fascicolo finisce al Csm. E dopo mesi di silenzi il Corriere della Sera ne dà notizia. Anche questa sarebbe una mossa ad orologeria, spiega Palamara, per poter uscire dall’imbarazzo e insabbiare tutto. «Facciamo, come è ovvio che sia, le audizioni dei due procuratori, quello di Catania Carmelo Zuccaro e quello di Caltanissetta Amedeo Bertone. Tra imbarazzi e frasi di circostanza non si cava un ragno dal buco, ma anche perché nessuno in realtà vuole cavarlo. Anzi, si prende atto che secondo entrambi i procuratori la fuga di notizie pubblicata dal “Corriere della Sera” ha gravemente compromesso la possibilità di compiere ulteriori accertamenti e nuove indagini. Una scusa che tutti facciamo finta di prendere per buona. E la cosa finirà lì, nessun provvedimento verrà preso nei confronti di Scarpinato, Lari e di tutti gli altri magistrati coinvolti».

Le cupole occulte che controllano il "Sistema". Ecco come il Csm graziò Piero Grasso, la rivelazione in Lobby e logge il nuovo libro di Palamara e Sallusti. Redazione su Il Riformista l'8 Febbraio 2022. 

Per gentile concessione degli autori e dell’editore, anticipiamo qui di seguito uno stralcio del nuovo libro di Luca Palamara e Alessandro Sallusti, intitolato “Lobby e logge”, che uscirà oggi in tutte le librerie fisiche e digitali per i tipi di Rizzoli. «Ho deciso di scrivere questo libro – spiega l’ex leader dell’Anm al Riformista – dopo la divulgazione dei verbali sulla Loggia Ungheria. Ci si è concentrati, dopo i fatti dell’hotel Champagne, solo ed esclusivamente sulla Procura di Roma. Io credo sia il caso di approfondire anche altri aspetti, ad iniziare proprio dalla Loggia Ungheria. Come sono state fatte le indagini su Ungheria ? Penso sia il caso di fare una riflessione al riguardo». Ideale sequel de “Il sistema”, il nuovo saggio scritto dal direttore di “Libero” e dall’ex magistrato contiene tra gli altri un capitolo significativamente intitolato “Chi ha impupato i pupi? La tratta dei pentiti e i magistrati graziati”. Qui di seguito la prima parte dell’intervista.

«I pentiti sono merce delicata, delicatissima, sono loro che scelgono il giudice a cui confessare, non viceversa, sono degli sconfitti che abbandonano un padrone per servirne un altro, ma vogliono che sia affidabile» diceva Paolo Borsellino. E Giovanni Falcone la pensava allo stesso modo, convinto che solo una legislazione premiale per coloro che intendessero collaborare con la giustizia poteva aiutare lo Stato a combattere le mafie. Eppure, dottor Palamara, le cose non sono sempre andate per il verso giusto.

Falcone e Borsellino avevano aperto una nuova strada, quella dell’utilizzo dei pentiti. Tommaso Buscetta, il mafioso considerato il primo vero collaboratore di giustizia italiano, fu avvicinato nel 1984 in un carcere brasiliano da Falcone, che lo convinse ad aiutarlo a disegnare la mappa della mafia siciliana. Fu una svolta, e lo si deve al rigore con cui Falcone verificò il suo racconto. Su quella strada si avventurarono poi tanti magistrati, non sempre con il rigore e la trasparenza necessarie.

In che senso?

Nel senso che si aprì una caccia al pentito, e a molti mafiosi arrestati non parve vero di utilizzare la scorciatoia del pentimento per altri fini, cioè parlare per vendicarsi o per compiacere le tesi di chi li stava gestendo, magistrati, ufficiali di polizia o uomini dei servizi che fossero. Ma soprattutto, cosa non nota, dentro la magistratura si aprì uno scontro sotterraneo per il loro controllo tra la Direzione nazionale antimafia, la superprocura immaginata da Falcone, e le procure territoriali gelose della loro autonomia. Gli effetti di questo braccio di ferro a volte sono stati devastanti e hanno inciso anche sulla vita politica del Paese e sugli equilibri interni alla magistratura.

Parliamone, da dove si incomincia?

Difficile trovare un inizio, ma il caso di Gianfranco Donadio potrebbe fare scuola.

Gianfranco Donadio, ex procuratore nazionale antimafia, oggi, dopo le disavventure in cui è incappato, procuratore a Lagonegro, in Basilicata.

Proprio lui. È stato accusato di svolgere inchieste parallele a quelle della magistratura ordinaria per provare a dimostrare che dietro agli attentati di mafia dei primi anni Novanta, in particolare quello a Falcone, c’era stato lo zampino dei servizi segreti legati al mondo della destra eversiva. Intorno al 2016 Donadio va nelle carceri, all’insaputa delle procure competenti, in particolare quelle di Catania e Caltanissetta, e interroga, compilando rapporti investigativi segreti, centodiciannove mafiosi, il più delle volte da solo, per cercare un mandante a quelle stragi. Secondo l’accusa si tratta di inchieste che consentono a un solo magistrato di fare ciò che vuole senza controlli, di accumulare conoscenze non condivise e – come successivamente accertato – a volte contraddittorie con gli atti ufficiali. È lecito acquisire informazioni in questo modo? È corretto che alcuni magistrati, e la Direzione nazionale antimafia, abbiano notizie sensibili prima degli altri e in esclusiva, che le procure locali siano tagliate fuori da questo flusso di informazioni? Quando il caso Donadio venne a galla il Csm dovette prendere posizione. Ma apparve subito chiaro che avevamo un problema.

Quale problema?

Donadio agiva, o almeno era logico supporlo, per conto di Pietro Grasso, all’epoca dei fatti suo capo alla Direzione nazionale antimafia e in quel momento già presidente del Senato. Si creò quindi un conflitto tra i procuratori ordinari, che accusavano Donadio di invasione di campo non autorizzata, e la seconda carica dello Stato, con il Csm in mezzo a dover dirimere la questione oggettivamente anomala.

E per di più con di mezzo un uomo che, oltre a essere potente, ha sempre saputo ben destreggiarsi. Su Pietro Grasso fa scuola quanto raccontato da Marcello Dell’Utri, che in gioventù giocò nella squadra di calcio giovanile Bacigalupo di Palermo, insieme a Grasso e al figlio del boss mafioso Tanino Cinà, e nella quale il boss Vittorio Mangano, poi noto come «lo stalliere di Arcore», svolgeva il ruolo di dirigente: «Grasso, quando era giovane, giocava a calcio nella mia squadra» – sono le parole di Dell’Utri – «ed era famoso perché a fine partita usciva sempre pulito dal campo: anche quando c’era il fango, lui riusciva sempre a non schizzarsi…».

Ecco, appunto. Grasso non ama gli schizzi e per noi al Csm era una pratica molto delicata, perché Donadio sosteneva che quello che aveva fatto era condiviso da Grasso. Un fatto grave, sul quale anche la procura generale della Cassazione, pressata dai procuratori imbufaliti, aprì un’inchiesta.

Come finisce questa storia?

La storia finisce che al Csm il fascicolo rimane immobile fino a quando diventa inevitabile convocare Pietro Grasso. Qualcuno lo vuole incastrare al fatto che lui non si fidasse dell’operato dei magistrati di Catania e Caltanissetta e per questo avesse sguinzagliato i suoi uomini per le carceri italiane a cercare verità più vere; altri sostengono che non si può danneggiare il presidente del Senato, soprattutto se amico del presidente della Repubblica. Tanto per essere chiari: condannare Donadio avrebbe significato condannare Grasso.

Scommetto, Donadio sarà assolto.

Scommessa vinta. Grasso davanti alla commissione disciplinare spiega che non si era trattato di una inchiesta parallela per chissà quali fini, ma di prerogative della Direzione nazionale antimafia che in qualche modo consentivano queste cose, e pure di utilizzare persone legate ai servizi segreti. Noi non obiettiamo e Donadio sarà salvato, finirà procuratore a Lagonegro.

Non mi sembra un premio.

Non lo è, ma per come era messo è il massimo che si poteva fare. Andò peggio ad Alberto Cisterna, ex numero due della Direzione nazionale antimafia, rovinato per la gestione di un pentito mentre era a Reggio Calabria in conflitto con il procuratore Giuseppe Pignatone, e a Filippo Spiezia, delegato nel 2014 della Dna a occuparsi della pro-cura di Milano, che in una relazione ufficiale osò contestare alla pm Ilda Boccassini una serie di violazioni degli obblighi di collaborazione sulla gestione delle indagini di mafia con i colleghi e con i suoi stessi sostituti. Un caso Donadio all’incontrario, cioè una procura locale, la potente e intoccabile procura di Milano, che nega informazioni sensibili alla Direzione nazionale. Spiezia non aveva santi in paradiso e nel giro di pochi giorni fu trasferito dal Csm ad altri incarichi – salvo poi essere successivamente gratificato con una importante nomina a Eurojust.

«Il Csm salvò il pm Donadio per non condannare Grasso». Nel nuovo libro di Palamara la vicenda del magistrato antimafia. Ecco perché le procure lo hanno denunciato. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 febbraio 2022.

«È doveroso premettere che il medesimo (pentito Vito Lo Forte, ndr), prima di tale interrogatorio, era stato più volte sottoposto a colloqui investigativi sul medesimo tema, sempre da parte di un magistrato della Dna, così come va rimarcato che egli, nei verbali illustrativi e negli interrogatori precedentemente resi alle varie Ag, non aveva mai fatto cenno, seppur genericamente, alle circostanze di cui adesso parlava in modo così dettagliato». È uno dei tanti passaggi della richiesta di archiviazione da parte della procura di Catania, in merito alla vicenda di Giovanni Aiello, etichettato come “Faccia da mostro”. In sostanza, così come denunciato anche dall’ennesima richiesta di archiviazione da parte della procura di Caltanissetta, i pentiti hanno cominciato a ricordare dettagli, solo dopo esser stati sentiti dall’allora magistrato della Dna. Un’invasione di campo, a detta dei magistrati delle due procure, che ha creato grossi problemi. Il caso era arrivato al Csm. Il magistrato è Gianfranco Donadio, l’anno scorso intervistato in prima serata dal programma Atlantide su La Sette a discettare delle stragi ( veniva pubblicizzato il libro di Lirio Abbate) dando molto credito a Nino Lo Giudice, altro pentito che veniva ascoltato da lui stesso, mentre era però sotto il vaglio delle procure.

Il nuovo libro “Lobby e Logge”, di Luca Palamara e Alessandro Sallusti, dà una notizia fino ad oggi sconosciuta. Non solo il Csm ha assolto il magistrato Donadio dai fatti denunciati dalle procure, ovvero che andava nelle carceri interrogando taluni pentiti mentre però erano al vaglio di Catania e Caltanissetta, ma spiega anche il motivo. Palamara precisa che Donadio agiva, o almeno era logico supporlo, per conto di Pietro Grasso, all’epoca dei fatti suo capo alla Direzione nazionale antimafia e in quel momento già presidente del Senato. «Si creò – svela Palamara quindi un conflitto tra i procuratori ordinari, che accusavano Donadio di invasione di campo non autorizzata, e la seconda carica dello Stato, con il Csm in mezzo a dover dirimere la questione oggettivamente anomala».

Sempre Palamara, sottolinea: «Grasso non ama gli schizzi e per noi al Csm era una pratica molto delicata, perché Donadio sosteneva che quello che aveva fatto era condiviso da Grasso. Un fatto grave, sul quale anche la procura generale della Cassazione, pressata dai procuratori imbufaliti, aprì un’inchiesta». Come finì? Palamara rivela che il Csm ha convocato Grasso, il quale avrebbe spiegato che non si era trattato di una inchiesta parallela per chissà quali fini, ma di prerogative della Direzione nazionale antimafia che in qualche modo consentivano queste cose, e pure di utilizzare persone legate ai servizi segreti. Il Csm non ha obiettato e Donadio fu salvato. Il massimo che è stato fatto è stato mandare il magistrato a svolgere il suo servizio a Lagonegro. A detta di Palamara, condannare Donadio avrebbe significato condannare Grasso. Sarebbe stato questo il motivo per cui decisero di archiviare la pratica. La vicenda che era stata presa in esame, poi finita nel nulla, rivela che la magistratura ha grossi problemi interni. E a rimetterci sono i magistrati seri. La denuncia è chiara e si legge nelle richieste di archiviazione sulla vicenda di “Faccia da mostro”, plurindagato ma mai inquisito perché non è mai stato trovato nulla. Un uomo che è morto da qualche anno, ma nell’immaginario collettivo – grazie anche ai mass media – rimane come il Killer al servizio della mafia e servizi segreti deviati che avrebbe partecipato a diversi omicidi e perfino alle stragi. I pentiti che lo hanno accusato, risultano però – grazie al vaglio certosino delle procure di allora – privi di attendibilità. Scrive nero su bianco il procuratore di Catania nella richiesta di archiviazione: «Simili dettagliate dichiarazioni, del tutto inedite, ingenerano fortissimi dubbi quanto alla genuinità ed all’attendibilità, soprattutto perché risultano precedute da più di un colloquio investigativo». E parliamo del colloquio intrapreso da Donadio per conto della Dna di allora.

Parliamo del periodo che va dal 2013 al 2015 e nella richiesta di archiviazione, la procura di Catania ha inserito una tabella per far comprendere la dimensione del problema. «Come si può notare – scrive la procura -, nonostante fossero state già avviate le indagini dalle Ag competenti, venivano svolti colloqui investigativi con i medesimi collaboratori che poi avrebbero dovuto essere escussi ( o che lo erano già stati) nell’ambito dei procedimenti iscritti in merito agli stessi fatti». Cosa ha generato tutto ciò? Nero su bianco, la procura scrive: «Non può non rivelarsi in proposito come le valutazioni in ordine all’attendibilità intrinseca dei collaboratori di giustizia e dei dichiaranti sopra indicati, escussi nel corso delle indagini nel procedimento iscritto contro Giovanni Aiello (“faccia da mostro”, ndr), risultino gravemente compromessi alla luce della quasi contemporanea effettuazione dei colloqui investigativi sopra indicati».

Ora, grazie alla rivelazione di Palamara, sappiamo che per il Csm è stato tutto lecito. Il magistrato Donadio poteva farlo e i suoi colloqui investigativi rientravano nelle prerogative dalla Dna. Non solo. La commissione parlamentare antimafia lo ha premiato prendendolo come consulente per le inchieste sul fenomeno di mafia. Il Sistema, nel nostro Paese, funziona così: la stessa corporazione che non ha dato seguito agli elementi ( utili per aprire un’istruttoria) forniti da Fiammetta e Lucia Borsellino, le figlie del giudice ucciso in Via D’Amelio.

"Lobby e logge", l'anticipazione del libro. Così Csm e Cassazione affossarono l’inchiesta su Borsellino, la rivelazione nel libro di Palamara. Redazione su Il Riformista il 9 Febbraio 2022.  

Per gentile concessione degli autori e dell’editore, anticipiamo qui di seguito uno stralcio del nuovo libro di Luca Palamara e Alessandro Sallusti, intitolato “Lobby e logge”, che è uscito ieri in tutte le librerie fisiche e digitali per i tipi di Rizzoli. «Ho deciso di scrivere questo libro – spiega l’ex leader dell’Anm al Riformista – dopo la divulgazione dei verbali sulla Loggia Ungheria. Ci si è concentrati, dopo i fatti dell’hotel Champagne, solo ed esclusivamente sulla Procura di Roma. Io credo sia il caso di approfondire anche altri aspetti, ad iniziare proprio dalla Loggia Ungheria. Come sono state fatte le indagini su Ungheria? Penso sia il caso di fare una riflessione al riguardo». 

Possiamo parlare di lobby di magistrati che gestiscono i pentiti?

Certamente sono dei mondi chiusi e ben difesi da chi li abita. Un pentito vale oro, purtroppo anche quando mente come nel caso di Vincenzo Scarantino.

Vincenzo Scarantino, classe 1965, mafioso di basso livello, viene arrestato per spaccio di droga il 29 settembre 1992. Due mesi dopo si dichiara pentito e inizia a collaborare sostenendo che il suo clan riforniva di droga Silvio Berlusconi, un’accusa incredibile subito scartata. Nel giugno del 1994 il colpo di scena: si autoaccusa della strage in cui morì il giudice Borsellino e fa i nomi dei complici. Al processo, iniziato nel 1999, il tribunale di Caltanissetta emetterà nove sentenze di ergastolo e una a diciotto anni per Scarantino. Ma c’è un problema: non era vero nulla, ma proprio nulla. Lo si scopre nel 2008 quando un altro pentito, Gaspare Spatuzza, sbugiarda Scarantino e racconta tutt’altra storia. Di fronte all’evidenza lo stesso Scarantino ammetterà di essersi inventato tutto.

È sicuramente una delle pagine più buie e vergognose della giustizia italiana. Che Scarantino non fosse attendibile se ne era accorta all’epoca dei fatti Ilda Boccassini, che per questo lasciò la procura di Caltanissetta dove era approdata dopo gli attentati a Falcone e Borsellino proprio per partecipare alla caccia ai colpevoli. «Fregnacce pericolose», aveva bollato le parole di Scarantino, ma nonostante questo la macchina infernale della giustizia impazzita continuò la sua corsa, guidata dai procuratori Giovanni Tinebra – quello che di recente, in un altro contesto, il faccendiere Amara indicherà come il capo della loggia Ungheria –, Carmelo Petralia e Annamaria Palma, coadiuvati da un giovane pm, quel Nino Di Matteo che diventerà poi una star della magistratura e che ora siede al Csm.

Anni dopo, nel 2017, la procura generale di Catania, annunciando la revisione delle ingiuste condanne dirà: «Quali rappresentanti dello Stato, ci sentiamo di dover chiedere scusa, nonostante non siano nostre le responsabilità, per le condanne inflitte nell’ambito del processo per la strage di via D’Amelio». Lei si è fatto un’idea di che diavolo è accaduto: mania di protagonismo, imperizia, depistaggio?

Scarantino sostiene di essere stato indotto a dire quello che ha detto dai poliziotti che lo tenevano in custodia. A proposito, c’è una sua frase terribile: «Ero un ragazzo. E se non combaciavano le cose che dovevo dire, loro mi dicevano di non preoccuparmi. Io andavo dai magistrati in aula e ripetevo, quando ci riuscivo, quello che mi facevano studiare». Io in questa storia mi sono imbattuto sia da presidente dell’Associazione nazionale magistrati sia da membro del Csm. Volevo capire, ma come adesso le racconterò non era facile.

In che modo se ne occupò?

Per questo scandalo finiscono nei guai le persone che avevano gestito il pentimento di Scarantino. L’allora questore di Palermo, Arnaldo La Barbera, morto nel 2002, che farà poi una carriera fulminante: questore di Napoli, di Roma, capo del dipartimento antiterrorismo della Polizia, caduto in disgrazia sui fatti della scuola Diaz al G8 di Genova. Poi ci sono i suoi tre poliziotti – Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei – che gestirono materialmente Scarantino. Oltre ovviamente ai quattro magistrati, Tinebra, Petralia, Palma e Di Matteo, quest’ultimo coinvolto solo come testimone. Ci sono due fronti, uno penale e uno disciplinare al Csm.

Partiamo dal penale.

La Barbera e Tinebra, come detto, sono nel frattempo morti. Il 2 febbraio 2021, cioè quasi trent’anni dopo i fatti e dodici dopo la scoperta della messa in scena, il tribunale di Messina ha archiviato l’inchiesta nei confronti dei magistrati Petralia e Palma perché non è stato possibile accertare «le evidenti anomalie» del caso Scarantino. I tre poliziotti sono tuttora sotto processo a Caltanissetta. Dimenticavo: Scarantino è tornato in libertà per decadenza dei termini di custodia. E aggiungo anche che Petralia, oggi in pensione, il 29 settembre 2021 è stato condannato dai colleghi di Messina a un anno per aver omesso di indagare su un amico imprenditore.

Chiunque direbbe: non è possibile.

C’è stato un clamoroso depistaggio dentro lo Stato sull’omicidio del magistrato simbolo della lotta alla mafia, ci sono otto persone che hanno fatto da innocenti anni in galera, ma questa è una delle verità, a proposito di logge che sovraintendono al potere, che non si possono accertare. E bisogna credere alla favola che tre poliziotti infedeli si siano inventati da soli, tanto per giocare, un simile complotto senza che nessuno se ne accorgesse.

Be’, al Csm sarà andata meglio, ovviamente, perché dalla casa della giustizia italiana le logge restano fuori.

Mi vergogno, perché io c’ero e non faccio parte di nessuna loggia, ma devo deluderla. A noi la questione arriva nel 2017 dopo la sentenza del processo Borsellino quater, il processo che di fatto certifica l’imbroglio del caso Scarantino. È anche l’anno del venticinquesimo anniversario dell’uccisione di Borsellino e la figlia del giudice, Fiammetta, scrive una lettera nella quale ci chiede di fare chiarezza anche all’interno della magistratura. In altre parole ci chiede di prendere l’iniziativa.

Ricordo bene, un grido di aiuto e una denuncia al tempo stesso: «Fino a ora il nostro silenzio è stato dettato dal rigore e da una necessità di sopravvivenza. Noi denunciamo anomalie che hanno caratterizzato la condotta di politici e magistrati dei processi Borsellino. Anomalie condotte da uomini delle istituzioni. Parlo di verbalizzazioni, interrogatori e sopralluoghi non corretti. Le mie denunce non sono un mero dibattito tra me e il procuratore Di Matteo, questa è una semplificazione che fa molto comodo a chi sta nascosto nell’ombra. È una semplificazione che toglie l’attenzione dal nostro fine che è quello di addivenire alla verità. Il nostro è un urlo di dolore. È vero che si può tornare ad aprire un processo, ma la procura di Caltanissetta ha uomini e mezzi per farlo? Mio padre si meritava questo dopo venticinque anni? Quasi tutto è compromesso».

Il messaggio era chiaro: a noi non ce ne frega niente che voi commemoriate mio padre, noi abbiamo bisogno di fatti e risposte.

Voi che strada prendete?

Acquisiamo gli atti del Borsellino quater e apriamo una discussione in prima commissione, quella che si occupa dei procedimenti disciplinari. Fu una discussione molto accesa, ma detto in onestà non ci fu mai l’intenzione di andare fino in fondo. Primo perché era passato troppo tempo per poter accertare una verità oggettiva, secondo perché sulla vicenda aleggiava il nome di Nino Di Matteo, in quel momento tra i più potenti e protetti magistrati italiani.

Insomma non avete fatto nulla.

Abbiamo fatto ammuina, come si dice a Napoli. Non abbiamo neppure convocato, almeno per dare un segnale alla famiglia Borsellino e al Paese, i magistrati che gestirono quel depistaggio. Tantomeno Di Matteo che, ascoltato come testimone al processo di Caltanissetta contro i tre poliziotti coinvolti, confermò che in un primo tempo aveva creduto alle dichiarazioni di Scarantino e che solo dopo gli vennero dei dubbi. Versione che non spiega come mai il processo non venne fermato.

Si disse: all’epoca Di Matteo era un giovane magistrato.

Non è mai facile gestire un pentito, o presunto tale, a maggior ragione per un giovane magistrato e anche per questo sono da comprendere le parole di Fiammetta Borsellino: «C’è da indignarsi se per mio padre la giustizia è stata affidata a un ragazzino alle prime armi». Ma c’è una cosa che nessuno ha mai saputo.

Prego.

Nel 2018 sia Fiammetta sia la sorella Lucia Borsellino si recano nell’ufficio del procuratore generale Riccardo Fuzio, in quel momento la massima autorità giudiziaria italiana, fornendo elementi che a loro dire avrebbero potuto dare avvio a un’istruttoria, a un’azione di accertamento delle responsabilità sul piano disciplinare dei magistrati coinvolti. Vengono sentite, raccontano fatti, vicende e situazioni circostanziate.

E cosa accade?

La magistratura in quel momento è concentrata su altri problemi che sono nell’aria: di lì a poco verrà travolta – anche lo stesso Fuzio – dal caso Palamara. Così l’anno dopo, siamo nel luglio 2019, l’ultimo atto che Fuzio compie prima di andare a dimettersi è scrivere una lettera alle sorelle Borsellino, lettera che qui leggiamo per la prima volta: «Gentilissima signora Fiammetta Borsellino e Lucia, le scrivo per rappresentarle che ho continuato ad acquisire e a leggere atti, compresa la sua memoria dell’aprile scorso, perché volevo perseguire quella ricerca della verità che giustamente rivendica come diritto alla verità da parte dello Stato italiano. Al di là della valutazione su quanto sin qui emerso in corso in varie sedi, compresa quella penale, era mia intenzione affrontare il vostro grido di verità in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario o in altra manifestazione pubblica con una forte richiesta nella mia qualità di compiere un ulteriore sforzo di questo faticoso percorso. Nella stessa occasione avrei voluto rivolgere le scuse del Paese, mai sinora rivolte alla vostra famiglia. Purtroppo, gli ultimi eventi – quelli dell’Hotel Champagne – me lo impediscono. Su questi eventi non voglio nemmeno dirle una parola. Li richiamo solo per dirle che sono rammaricato, perché avrei voluto continuare ad assecondare la ricerca di verità della vostra famiglia sempre nel mio stile. Anche quest’anno non sarei venuto a pavoneggiarmi a Palermo. Esprimo a lei e a tutta la famiglia la mia sincera vicinanza per questo ennesimo 19 luglio ancora senza chiarezza. La seguirò da semplice cittadino».

È un atto di resa delle istituzioni. Se non può fare nulla il primo magistrato d’Italia…

Le promesse di giustizia, o almeno di chiarezza, non sono state mantenute. E le assicuro, perché io come le ho detto ero lì, non per dimenticanza ma per mancanza di volontà. Un’inchiesta nata nella palude dell’intreccio tra mafia, pentiti e servizi segreti muore nella palude del Csm e della Corte di Cassazione. La risposta, anche questa inedita, che le sorelle Borsellino fanno avere a Fuzio è una coltellata al cuore. Da quest’anno in poi andrebbe letta pubblicamente a ogni ricorrenza delle stragi di quel 1992. Leggiamola.

«Gentile dottor Fuzio, non riesco a comprendere la sua lettera per una totale assenza di concretezza. Un anno fa io e mia sorella siamo venute presso gli uffici della procura generale della Corte di Cassazione con elementi importanti sul piano disciplinare. Non mi risulta che a oggi codesta procura abbia prodotto atti concreti conseguenziali a quell’incontro. Per me e per la nostra famiglia parole come “ricerca della verità” e “avrei voluto ma non ho potuto” a distanza di un anno da quella verbalizzazione non hanno alcun significato se non quello di avanzare false scuse di fronte a quello che per noi costituisce una inadempienza. Mi sorprende che dopo un anno e l’evidenza di comportamenti gravissimi Lei parli ancora di leggere memorie e acquisire atti. L’unica cosa evidente è che nessun atto è stato prodotto né si è addivenuti a una evoluzione dell’istruttoria. Non abbiamo bisogno di proclami in occasione di inaugurazioni di anni giudiziari o celebrazione di anniversari. Cordiali saluti».

Raccomandazioni lecite? Quegli strani rapporti tra Scarpinato e il dottor Montante. Leonardo Berneri su Il Riformista il 9 Febbraio 2022.  

È storia nota che tra gli appunti di Antonello Montante, l’ex presidente della Confindustria siciliana condannato per associazione mafiosa e per aver organizzato un’attività di dossieraggio, sono emersi rapporti non proprio limpidi con dieci magistrati in quegli anni stavano a Caltanissetta. Tra di loro campeggia il nome di Roberto Scarpinato, fino a poco tempo fa capo della procura generale di Palermo.

Nel nuovo libro intervista “Lobby e Logge”, Palamara rivela il perché scattò l’operazione “salviamo il soldato Scarpinato” e, a detta sua, per logica conseguenza, tutti gli altri. Dagli appunti emerge che Montante ebbe rapporti molto intensi con Scarpinato e compaiono diverse richieste di raccomandazione da parte di quest’ultimo. Ma, fra gli appunti di Montante, salta all’occhio quello datato 3 maggio 2012 con la dicitura: «Scarpinato mi consegna composizione del Csm con i suoi iscritti per nuovo incarico, procura generale Palermo più Dna». E c’è pure la stampa del documento con la composizione del Csm con appunti manoscritti, in cui per ciascun componente è indicata la corrente di appartenenza, e per quelli eletti dal Parlamento il partito di appartenenza, e sul margine sinistro del foglio annotata la seguente scritta: «Due alternative, o Lari procuratore generale a Caltanissetta e non fa concorrenza».

Alla domanda di Alessandro Sallusti sul fatto che tale richiesta di Scarpinato sa tanto di richiesta di raccomandazione a una persona esterna alla magistratura – che poi si scoprirà essere a capo di una lobby mafiosa – ritenuta in grado di interferire con le decisioni del Csm, Palamara rivela come si è attivato il meccanismo di protezione nei confronti del magistrato ritenuto membro del Gotha dell’antimafia siciliana. La procura di Catania è quella deputata ad indagare i magistrati di Caltanissetta. Ma archivia tutto. La parte più interessante che rivela Palamara nel libro, è il finale delle motivazioni: « (…) In conclusione resta accertato che in ambito di rapporti più o meno istituzionali del presidente di Confindustria di Caltanissetta con molti magistrati del distretto nisseno, questi ultimi hanno chiesto l’interessamento dell’imprenditore per una possibile sistemazione lavorativa di parenti e amici, o l’interessamento per la propria carriera, e ciò sia in considerazione delle amicizie altolocate di Montante, numerose sono le annotazioni di incontri con ministri o altri soggetti politici di vertice, sia in relazione al suo ruolo di imprenditore e presidente degli imprenditori, ma tale condotta, in assenza di altri elementi di difficile accertamento, per quanto discutibile, non può certo ritenersi illecita».

In sintesi, emerge chiaramente che solo se ci sono di mezzo alcuni magistrati, i fatti sono difficili da accertare. «E nessuno fiata», aggiunge Palamara. Ma non solo. A differenza dei politici o cittadini normali, a distanza di un anno dallo scoppio del caso Montante, della vicenda dei magistrati l’opinione pubblica non sapeva nulla. «Quando c’è da mantenere un segreto in Sicilia sanno bene come fare», chiosa Palamara. Poi accade che la pratica arriva al Csm e prontamente, in un articolo del 22 dicembre del 2016 a firma di Giovanni Bianconi, esce la notizia dei magistrati coinvolti nel fascicolo. Cosa accade? Entra in gioco la “ragion di Stato”. Palamara rivela che scoppia il panico, perché «se un collega importante come Scarpinato o uno come Lari, tanto per essere chiari, dovesse apparire vicino a un imprenditore legato ad ambienti mafiosi, travolgerebbe tutto, e lo Stato non se lo può permettere». A detta di Palamara, a facilitargli il lavoro di archiviazione sarebbero stati gli allora capi della procura di Catania e Caltanissetta stessi. «Facciamo – rivela sempre Palamara -, come è ovvio che sia, le audizioni dei due procuratori, quello di Catania Carmelo Zuccaro e quello di Caltanissetta Amedeo Bertone. Tra imbarazzi e frasi di circostanza non si cava un ragno dal buco, ma anche perché nessuno in realtà vuole cavarlo».

Ma non è tutto. Palamara mette in campo una ipotesi sconvolgente. Lui stesso è testimone del fatto che, su forte pressione della corrente di sinistra, le nomine dei nuovi procuratori di Catania e Caltanissetta sarebbero state funzionali alla gestione del «problema dei colleghi coinvolti nel caso Montante, che evidentemente loro sapevano sarebbe scoppiato ben prima che diventasse noto non solo all’opinione pubblica, ma anche al Csm». E sempre nel libro, emerge che è la stessa “ragion di Stato” per cui Palamara – da direttore dell’ufficio studi del Csm – decise di non rendere pubblici i verbali del Csm del 1992, dove si riportano le audizioni fatte nei confronti dei magistrati della procura di Palermo subito dopo la strage di Via D’Amelio. «Questo avrebbe potuto riaccendere vecchie e mai sopite polemiche, e io in quella fase ero fermamente convinto che si dovesse evitare. Quel verbale non verrà mai inserito nella pubblicazione fatta in memoria di Paolo Borsellino», rivela Palamara.

Quei verbali non sono mai stati secretati, ma mai resi pubblici appositamente. Solo dopo quasi 30 anni, sono stati tolti dai cassetti grazie alla richiesta dell’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori, nel processo d’appello sulla trattativa, e depositati dall’avvocato Simona Giannetti nel processo per diffamazione avviato su querela di Lo Forte e Scarpinato per una serie di articoli pubblicati sul Dubbio sulla vicenda dell’archiviazione dell’indagine mafia e appalti dopo la morte di Borsellino. Anche nel libro intervista si fa cenno alla vicenda del dossier archiviato. A detta di Palamara, si tratta di una vicenda devastante che ci portiamo dietro ancora oggi. Leonardo Berneri

Le rivelazioni dell'ex magistrato. Palamara replica a Scarpinato: “Ti piazzai io a Palermo…” Paolo Comi su Il Riformista il 12 Febbraio 2022 

«Voglio tranquillizzare tutti i lettori: le vicende raccontate nei miei libri sono realmente accadute, non sono il frutto della mia fantasia». Luca Palamara, contattato dal Riformista, respinge al mittente l’accusa formulata da Roberto Scarpinato di essere un “dinamitardo della giustizia che mescola falsità e insinuazioni malevole prive di fondamento”. Un modus operandi di cui lo stesso sarebbe stato vittima. Scarpinato, ex pg di Palermo e dal mese scorso in pensione, in un lunghissimo articolo ieri sul Fatto Quotidiano aveva raccontato che è in atto da tempo una manovra che vorrebbe distruggere l’indipendenza della magistratura.

Ed i libri di Palamara sarebbero funzionali a tale manovra, anzi, addirittura propedeutici ai referendum sulla giustizia promossi dal Partito Radicale. «Io non ho mai messo in discussione l’attività dei magistrati, in particolare quelli antimafia, portata avanti da veri eroi che sono da esempio per tutti. Però non credo che possa esistere il reato di lesa maestà se si raccontano fatti che ho vissuto in prima persona», prosegue Palamara. Per Scarpinato, Palamara era un problema per la magistratura e per questo motivo è stato giustamente stato cacciato via.

«La colpa – risponde Palamara – sarebbe allora solo mia? A me risulta difficile pensare di essere stato l’unico esponente di un sistema collaudato. A tal proposito voglio ricordare come venne nominato Scarpinato pg di Palermo. Nel 2012, per la Procura generale del capoluogo siciliano, oltre Scarpinato, magistrato molto quotato, era in corsa Guido Lo Forte, uno dei procuratori storici di Palermo, vicino a Gian Carlo Caselli. Io e Pignatone, un sabato di metà dicembre, andiamo a casa di Riccardo Fuzio che all’epoca era membro del Csm e poi diventerà procuratore generale della Cassazione. Con lui decidiamo la strategia: io avrei dovuto convincere Lo Forte a ritirare la candidatura, in modo da spianare la strada a Scarpinato, in cambio di un’assicurazione, garantita anche dalla corrente di sinistra, Magistratura democratica: avrebbe preso il posto di Francesco Messineo a capo della Procura della Repubblica appena quel posto si fosse liberato. Le correnti di sinistra volevano Scarpinato ma la sua nomina non era affatto scontata. Quindi era necessario che la corrente moderata di Unicost, la mia, convergesse nella votazione su di lui, e che la corrente di sinistra ricambiasse il favore su Lo Forte nella successiva votazione. Da casa di Fuzio io chiamo Lo Forte e gli assicuro la tenuta di questo patto, legittimato dalla presenza di Pignatone, che tra l’altro era suo amico. E, dopo averci parlato, gli passo nell’ordine prima Pignatone e poi il padrone di casa. Niente, in punta di logica e pure di diritto. Ma il potere non ha confini, e Pignatone in quel momento era un pezzo forte del ‘Sistema’, anche perché nel frattempo aveva allacciato un ottimo rapporto con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Sta di fatto che Lo Forte revocherà quella domanda e Scarpinato andrà alla Procura generale di Palermo».

Nei suoi libri Palamara aveva poi ricordato i rapporti di Scarpinato con Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia e paladino dell’antimafia, condannato a 14 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Scarpinato, a tal proposito, ha replicato sottolineando che non c’era nulla di male ad aver rapporti con Montante, all’epoca non inquisito, e che comunque è una condanna in primo grado per un reato non di concorso esterno in associazione mafiosa, ma di associazione a delinquere. «Mi sarei aspettato da Scarpinato un accenno all’elenco di generali, esponenti di spicco del Ministero dell’Interno, prefetti della Direzione investigativa antimafia e direttori del servizio segreto che si recavano da Montante per chiedergli favori», ribatte Palamara: «Quando vennero trovati gli elenchi di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi esplose lo scandalo della P2».

Montante, da parte sua, ha annunciato di voler querelare Palamara. «Nell’ambito del mio dovere di verità di raccontare fatti e vicende avvenute all’interno del Csm, mi sono riferito a tutte quelle vicende che hanno interessato i magistrati che a lui si sono relazionati. Tutto quanto da me raccontato è facilmente verificabile consultando i verbali di seduta della prima commissione del 2017. Non ho alcuna difficoltà a chiarire pubblicamente con chiunque i fatti e le vicende da me narrati», la replica di Palamara. Paolo Comi

Le rivelazioni dello zar delle nomine all'Antimafia. Palamara svela le trame con Pignatone: “Così piazzammo Scarpinato e Lo Voi”. Paolo Comi su Il Riformista l'1 Luglio 2021 

Il processo Trattativa Stato-mafia condizionò la nomina dei capi degli uffici giudiziari palermitani. A fare la clamorosa rivelazione è stato ieri l’ex zar delle nomine Luca Palamara davanti alla Commissione antimafia presieduta da Nicola Morra.

Tutto ha inizio nel 2012. La poltrona del procuratore di Palermo è occupata da Francesco Messineo. Il magistrato è in difficoltà per alcune vicende che riguardano il fratello. Al Csm aspettano solo un passo falso per sostituirlo. La Procura generale, invece, è vacante. Per quel posto hanno fatto domanda Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, da sempre vicino a Gian Carlo Caselli. Palamara e Giuseppe Pignatone, allora procuratore di Reggio Calabria, decidono di contattare Riccardo Fuzio, membro del Csm che poi diventerà procuratore generale della Cassazione. Con lui si decide la strategia: Palamara dovrà convincere Lo Forte a ritirare la candidatura, in modo da spianare la strada a Scarpinato, in cambio dell’assicurazione, garantita da Magistratura democratica, che avrebbe preso il posto di Messineo. Md voleva Scarpinato ma la sua nomina non era affatto scontata: era necessario che Unicost, la corrente di Palamara, convergesse nella votazione su di lui, e che Md ricambiasse il favore su Lo Forte nella successiva votazione.

Da casa di Fuzio Palamara chiamò allora Lo Forte assicurandogli la tenuta di questo patto, legittimato dalla presenza di Pignatone, che tra l’altro era suo amico. Pignatone, adesso presidente del tribunale supremo pontificio, in quel momento era in ottimi rapporti con Giorgio Napolitano. Lo Forte revocherà la domanda e Scarpinato andrà alla Procura generale di Palermo. L’anno successivo, il 2013, Messineo va in pensione. In prossimità del Plenum che doveva, come da accordi, varare “l’operazione Lo Forte”, arriva però al Csm una lettera di Napolitano che invita a rispettare nelle nomine l’ordine cronologico, che non vede Palermo al primo posto. La nomina di Lo Forte slitta, e siccome il Csm è in scadenza tutto viene rinviato. Lo Forte era considerato un magistrato sostenitore dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, che in quei giorni aveva lambito proprio il Quirinale.

Sul tema della trattativa, racconta Palamara, c’è stata sempre una accesa discussione interna alla magistratura.

Arriva il 2014 e nel nuovo Csm nessuno è a conoscenza dell’impegno formale di Palamara, Pignatone e Fuzio con Lo Forte per la Procura di Palermo. Lo Forte è sicuro che Palamara starà ai patti, ma la nomina diventa subito motivo di scontro perché arrivano anche le candidature di Francesco Lo Voi e Sergio Lari. Lari era il procuratore di Caltanissetta, molto attivo sul fronte delle indagini della trattativa Stato-mafia. Lo Voi era a capo di Eurojust a Bruxelles. La domanda che tutti, ricorda Palamara, si pongono è su cosa farà il nuovo procuratore nei confronti dell’inchiesta Stato-mafia sulla quale erano molto attivi due sostituti, Vittorio Teresi e Nino Di Matteo. Il sasso nello stagno lo getta proprio Teresi. «Non vorrei – dichiara – che la scelta del nuovo procuratore dipendesse dalla sua posizione sulla trattativa». In altre parole, dice: attenzione che qui non siamo disposti a insabbiare.

È il segnale che la situazione sta sfuggendo di mano, anche a Md. Palamara decide di parlarne con il loro referente in Sicilia, Piergiorgio Morosini, che era stato il gip del processo Stato-mafia. «Devi tenere a bada i tuoi, gli accordi su Lo Forte vanno mantenuti», gli dice Palamara. Pignatone nonostante sia molto amico di Lo Forte convoca Palamara e gli dice: «Si va su Lo Voi». Su decisioni di questa portata il Quirinale è sempre in partita, ricorda Palamara. Per sostenere Lo Voi si costruisce una rete che coinvolge il vice presidente del Csm Giovanni Legnini e la consigliera laica in quota Sel Paola Balducci. Palamara e Unicost sono decisivi: se non si accordano con la sinistra giudiziaria per la nomina di Lari, Lo Voi risulterà il candidato vincente. La trattativa è drammatica, Palamara la ricorda come uno dei momenti più difficili della sua carriera. Farà credere a Lo Forte che – come da promessa – non lo mollerà, inventandosi un trucco concordato con le altre correnti: far andare a vuoto la prima votazione, in modo che alla seconda, per meccanismi interni, Lo Voi sia sicuro di passare.

Durante il Plenum le parole più vere furono pronunciate da un magistrato autentico e genuino, il consigliere eletto come indipendente nella liste della sinistra giudiziaria Nicola Clivio, finito al Csm quasi per caso: «Signori, sono venuto a Roma per vedere come funziona il potere. Non avrei mai detto che Lo Voi, che ha molti meno titoli degli altri, potesse vincere la sfida per Palermo. Oggi l’ho capito come funziona il potere e sono rimasto sconvolto». Clivio, le cui parole rimasero scolpite nella testa di Palamara, si riprenderà a fatica da quel giorno. Ma la questione Palermo non si chiuse quel giorno. Lo Forte impugna la delibera di nomina del Csm e il Tar accoglie il suo ricorso. Si riapre la corsa per Palermo. A Lo Voi non resta che fare appello al Consiglio di Stato e sperare in un ribaltamento della sentenza del Tar. Pignatone rivelerà a Palamara di avvertire strani movimenti intorno a questa vicenda e di temere che anche il Consiglio di Stato possa dare ragione a Lo Forte.

La pratica finisce alla Quarta sezione presieduta da Riccardo Virgilio, che nei racconti di Pignatone era a lui legato da rapporti di antica amicizia. I due, prosegue Palamara, si incontreranno una mattina presso la sua abitazione. Passano poche settimane e arriva la sentenza di Virgilio, favorevole a Lo Voi, che potrà così insediarsi alla Procura di Palermo. Virgilio, invece, qualche tempo dopo verrà arrestato in un procedimento per corruzione in atti giudiziari. Paolo Comi

Dagospia il 9 febbraio 2022. Estratto dal capitolo “Gli uomini giusti al posto giusto - Come il Sistema previene gli scandali”, dal libro “Lobby & Logge”, di Alessandro Sallusti e Luca Palamara (ed. Rizzoli), pubblicato da “il Messaggero”. 

Usiamo una metafora, quella dei pacchi bomba, non al tritolo ma con dossier comunque devastanti per la democrazia, confezionati in Sicilia da Piero Amara e da Antonello Montante. 

Pacchi che risalgono l'Italia facendo tappa prima alla procura di Trani, poi a Roma nel quartier generale della magistratura, il Csm, dove alcuni vengono disinnescati come abbiamo visto nella vicenda dei magistrati coinvolti nel caso Montante , altri innescati con cariche ancora più pesanti, altri ancora rimandati al mittente perché gli esplodano nelle mani, tipo cartone animato Willy il Coyote e Beep Beep.

Alcuni, i più pesanti, arrivano fino a Milano dove hanno il potere è cronaca recente di fare saltare in aria il fortino della procura più blindata del Paese. 

Il tutto dentro una guerra tra guardie e ladri che ha però una caratteristica: entrambi i contendenti vestono la stessa casacca, quella dei magistrati e dei servitori dello Stato, Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza e uomini dei servizi segreti.

Qualche esempio. A Siracusa il pm Giancarlo Longo viene arrestato per associazione a delinquere, corruzione e falso dopo essere stato immortalato mentre si issa sulla propria scrivania a caccia di telecamere e microspie, in effetti piazzate nel suo ufficio dai colleghi che lo braccavano. 

Con lui sono finite in galera altre quattordici persone tra consulenti giudiziari, imprenditori e un giornalista, e l'ex presidente del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio, accusato di corruzione in atti giudiziari.

Stessa fine per uno 007, Francesco Sarcina, corrotto con 30.000 euro. A Trani va ancora peggio, tanto che quella procura vince il titolo della «più fuori controllo e inquinata d'Italia». 

Già, perché in questa città, che nel XIII secolo era la capitale giuridica del Regno delle Sicilie e chiamata l'Atene delle Puglie, viene prima architettato da Amara e magistrati compiacenti e muove poi i primi passi il complotto contro l'Eni, mamma di tutti gli intrighi più recenti.

Qui il pm Antonio Savasta è stato arrestato insieme al gip Michele Nardi per tangenti. E il 20 maggio 2020 finisce ai domiciliari per corruzione un pezzo grosso, Carlo Maria Capristo, già capo della procura di Trani e poi di Taranto, e con lui un ispettore di Polizia. Il pm che prese il suo posto, Antonino Di Maio, se la caverà con un semplice abuso d'ufficio.

Finiamola qui, l'elenco completo di guardie passate nelle file dei ladri e dei faccendieri come Amara o tipo Amara in cambio di favori e soldi sarebbe assai più lungo.

Sono notizie che l'opinione pubblica per lo più non conosce, annegate come sono nel bailamme quotidiano, anche perché nella maggior parte dei casi riguardano persone sconosciute al grande pubblico. 

Dottor Palamara, lei per anni è stato al centro di questo grande bordello. Alcuni di questi signori erano anche amici suoi, come immaginava di uscirne senza uno schizzo? 

Esistono due livelli di potere. Uno è quello del Sistema, che abbiamo raccontato nel precedente libro, fondato sulla spartizione correntizia delle nomine e all'interno del quale la magistratura si muove in accordo con il mondo politico e con l'informazione. È vero che parliamo di un Sistema che agisce dietro le quinte, ma su binari di legalità formale e quasi sempre sostanziale.

Questo mondo, che era il mio mondo, è parallelo a quello che stiamo raccontando oggi. Il sistema delle correnti non avrebbe alcun tipo di vantaggio a mettersi allo stesso tavolo con le logge, anzi perderebbe solo potere e autonomia. 

Vero è invece il contrario: le lobby hanno tutto l'interesse a infiltrarsi nel sistema per raggiungere i propri obiettivi economici o politici senza troppi problemi.

Che lei sappia è mai successo?

Se la domanda ne sottintende un'altra, del tipo: «a lei è mai capitato di partecipare a questo gioco?», la mia risposta è no, e sono sicuro che riuscirò a dimostrarlo nel processo che mi riguarda. Che invece in generale sia accaduto, non sono io a dirlo, ma i fatti di cronaca, quelli che lei ha citato ma anche tanti altri. 

Le faccio un esempio, il caso Capristo, il procuratore di Trani e Taranto che secondo le accuse che gli vengono mosse sarebbe finito nella gestione del caso Ilva al servizio di Amara. 

All'interno della magistratura a me è stato introdotto e presentato come un uomo di Unicost, peraltro in rapporto di parentela con Francesco Mannino, storico esponente catanese della mia corrente. 

Tanto che, come erano soliti fare tanti di questi colleghi, anche io andai da Capristo durante la mia campagna elettorale per essere eletto al Csm. 

Potevo immaginare che facesse il doppio gioco dentro e fuori tra legalità e illegalità? Proprio no, nessuno ne aveva sentore.

Se è per questo il prestigioso e potente procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, frequentava come me Centofanti, poi rivelatosi socio di Amara, lo stesso Montante e addirittura sentiva spesso (una volta Pignatone scherzando mi disse che se fossero uscite le loro intercettazioni sarebbe andato nei guai per il solo fatto che ci parlava) Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, condannata in primo grado a otto anni e sei mesi di carcere per essere al centro di un ramificato sistema corruttivo.

Ecco, guardi, il problema non è chi conosce chi i magistrati, a un certo livello, si conoscono più o meno tutti tra di loro ma chi usa chi e con quale scopo. 

Ma, fatti penali a parte, le correnti che governano la magistratura, di cui lei è stato uno dei capi, assistono inermi allo spettacolo delle logge che provano a spadroneggiare?

Sa, un conto è gestire la politica giudiziaria, altro sono le inchieste, che per loro natura fino a un certo momento sono segrete. Parliamo di due mestieri, due funzioni diverse che però possono entrare in contatto perché nei fatti le inchieste, anche quelle che riguardano colleghi, sono sì segrete ma non proprio per tutti.

E allora dentro il Sistema scattano degli alert, si drizzano le antenne e inizia il riposizionamento dei colleghi per mettersi al riparo dalla tempesta in arrivo. Guardi il mio caso: tanti hanno partecipato al «Sistema Palamara», ben sapendo che cosa si stava facendo, ma quando è cambiata l'aria, quando da Perugia sono trapelate voci sull'inchiesta che mi riguardava, è stato un fuggi fuggi al motto di «Palamara chi».

Anzi, le aggiungo che dopo aver scritto Il Sistema un mio amico magistrato mi ha mostrato un messaggio del seguente tenore: «Luca l'ha fatta grossa, non doveva raccontare queste cose, si è scavato la fossa da solo». 

Ebbene, questo messaggio da cuor di leone è stato scritto da un collega appartenente alla corrente dei duri e puri esattamente il giorno dopo aver ottenuto quello per cui mi tampinava quando io ero al Csm, allorquando pur di ottenere l'incarico a cui aspirava era arrivato perfino a offrirmi le dimissioni della moglie con la quale era in una situazione di incompatibilità in quello stesso ufficio.

Diciamola così: chi è al vertice del Sistema deve sapere ciò che avviene nelle segrete stanze delle procure, e in qualche modo ciò accade.

Mi dissocio dalla formulazione, ma apprezzo la sua chiarezza. Io dico che per conoscere cosa accade sul campo devi avere seminato bene, cioè piazzato nei punti strategici del sistema giudiziario persone amiche e fidate, in modo da creare una rete informale di comunicazione e avere così tutto sotto controllo: più sai più conti, più conti più hai potere. 

 E uno che aveva tanto potere all'interno del Sistema era il procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone. 

Questo nome torna in continuazione.

Non lo faccio a caso: io ero a capo del Sistema, e lui per me è stato un riferimento, o almeno io lo consideravo tale, e anche sulle vicende di cui stiamo parlando non si limitò a fare da spettatore (...)

Luca Fazzo per “il Giornale” il 20 febbraio 2022.

Fu la Procura di Milano a permettere a Piero Amara, il grande calunniatore del caso Eni, di evitare il carcere e ottenere l'affidamento ai servizi sociali: per i pm milanesi Amara era sincero. E questa benedizione gli venne concessa perché salvare Amara serviva a ottenere la condanna dei vertici dell’Eni. 

Che questo fosse lo scenario lo si era ipotizzato. A dirlo esplicitamente, e quasi con crudezza, è nei suoi verbali il pm Paolo Storari, che Amara invece voleva incriminarlo insieme al suo complice di manovre Vincenzo Armanna.

Il 21 maggio 2021 Storari viene interrogato dalla Procura di Brescia che lo accusa di avere rivelato i verbali segreti di Amara a Piecamillo Davigo. E spiega così il suo stato d'animo, quando chiedeva invano ai suoi capi di scavare sulla loggia Ungheria di cui gli aveva parlato Amara: «Io non vengo manco considerato, un muro di gomma sui sbatto e ho sbattuto fino all'altro giorno».

A essere inaccettabile per Storari è che intanto i verbali di Amara vengano usati contro il giudice del processo Eni: «Perchè quando si tratta di andare a verificare la bontà o la falsità delle dichiarazioni di Amara su Ungheria si sta fermi immobili e poi invece quando si tratta di utilizzare quelle medesime dichiarazioni provenienti dal medesimo soggetto lo si fa in serenità?».

Per smuovere le acque «prendo la decisione di parlare con un consigliere del Csm, non con un amico, io Davigo lo conosco ma lo conosco diciamo in via per Alessandra Dolci (capo del pool antimafia di Milano, ndr) con cui ho lavorato. Prima gli chiedo telefonicamente "senti qua c'è uno che sta parlando di una loggia che è una cosa grave, Piercamillo (... ) poi sono andato due volte a casa sua. Gli chiedo: ma io Piercamillo di queste cose posso parlare con te? E lui mi dice "sì Paolo io sono un consigliere del Csm a me questo segreto non è opponibile (...) allora vado a casa prendo la chiavetta con sopra i verbali e gli spiego (...) io ho fatto quello che dovevo fare in coscienza». 

Su suggerimento di Davigo, Storari inizia a mettere le sue richieste per iscritto e un po' alla volta le cose si muovono. Ma intanto l'avvocato di Amara scrive alla procura di Milano segnalando che il 5 maggio il torbido ex legale di Eni doveva affrontare davanti al tribunale di sorveglianza di Roma un'udienza decisiva per evitare il carcere, e chiede che la Procura di Milano attesti «la effettività della condotta collaborativa dell'Amara rispetto alle indagini che lo vedono coinvolto», la «utilità e la rilevanza del contributo fornito».

È un contributo, come è noto, farcito di falsità, Storari ha già scritto ai suoi capi che «Amara e Armanna sono due grandissimi calunniatori». Ma il 24 aprile la Procura dà il via libera, «Amara viene messo per iscritto - è un soggetto che ha rescisso ogni legame con ambienti criminali». 

Grazie a quel riconoscimento l'avvocato siciliano ottiene l'affidamento ai servizi sociali. Nel suo interrogatorio, Storari sostiene di avere chiesto ripetutamente conto ai suoi capi della «attendibilità a geometria variabile», per cui sulle rivelazioni di Amara su Ungheria non si indagava ma le si usava nel processo Eni. «Secondo me, allora ce la diciamo proprio tutta? Me ne assumo le mie responsabilità, ok? Dicembre 2019, Amara sta parlando di Ungheria, ho una interlocuzione col dottor De Pasquale che mi dice: "questo fascicolo per due anni dobbiamo tenerlo nel cassetto"».

D'altronde «io sempre avuto non un buon rapporto con il dottor De Pasquale ci litigavo spesso, e a un certo punto mi sono fatto un file sul mio computer in cui mi segnavo le porcherie che faceva». E perché De Pasquale avrebbe avuto interesse a tenerlo due anni nel cassetto? 

«Non bisognava disturbare il processo Eni-Nigeria. Se noi avessimo avuto la prova che Amara e Armanna dicevano delle palle le chiamate in correità di quel processo Eni-Nigeria finivano e questo non poteva essere consentito. Adesso forse può capire la condizione in cui mi sono trovato, una roba del genere a me non è stata detta mai in tutta la vita (...) questa è una vergogna (..) se si fosse scoperto che Armanna e Amara erano due calunniatori questo voleva dire la morte di quel processo che la Procura di Milano non poteva e doveva perdere».

Più che un interrogatorio quello di Storari diventa uno sfogo «non volevo dargliela vinta, mi sono battuto fino alla fine, in pieno Covid andavo in giro come un coglione da solo per l'Italia cercando riscontri e smentite» perché «siamo di fronte a un fascicolo in grado di far cadere il paese, ci sono i massimi vertici delle forze dell'ordine, i componenti del Csm». Morale: «Io sono veramente convinto che questa roba è stata gestita una merda».

CASO PM MILANO: PAOLO STORARI ASSOLTO A BRESCIA.

(ANSA il 7 marzo 2022) - Il pm di Milano Paolo Storari è stato assolto a Brescia al termine del processo in abbreviato con al centro il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. Lo ha deciso il gup Federica Brugnara.

Il pm di Milano Paolo Storari è stato assolto a Brescia con la formula il fatto non costituisce reato. Storari era stato accusato di rivelazione del segreto d'ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria.

"È stata una battaglia veramente difficile e l'assoluzione è la decisione più corretta". Così l'avvocato Paolo Della Sala ha commentato la sentenza con cui il gup di Brescia Federica Brugnara ha mandato assolto il pm di Milano Storari, processato in abbreviato per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. 

"La buona fede era stata riconosciuta dalla stessa procura - ha aggiunto -. Spero che questa decisione ponga fine al calvario a cui Storari è stato sottoposto per aver fatto il proprio dovere dal suo punto di vista". Storari, dopo la lettura del dispositivo era visibilmente commosso.

Quella di oggi è "una decisione che ci ha soddisfatto - ha proseguito il legale - perché ridà equità a un ambito che è stato anche forse un po' strumentalizzato da una certa stampa". Inoltre "gli argomenti tecnici per poter arrivare a questa assoluzione erano solidissimi, noi siamo sempre stati molto fiduciosi". 

Il difensore ha ricordato come anche il Csm, la scorsa estate, aveva rigettato la richiesta di un provvedimento disciplinare di tipo cautelare nei confronti di Storari. A chi ha chiesto se sia la fine di un calvario e se sia stata riconosciuta la buona fede, il legale ha replicato: "Qualcosa di più. Qui c'è stata una assoluzione piena, nemmeno con un richiamo alla contraddittorietà della prova, il che vuol dire che sostanzialmente è priva di dubbi interpretativi"

Luigi Ferrarella per corriere.it il 7 marzo 2022.  

Dalla cacciata disciplinare — via dalla Procura di Milano e mai più in alcuna altra Procura italiana — il pm milanese Paolo Storari si era salvato nell’agosto 2021, quando il Csm aveva respinto la richiesta cautelare di trasferimento d’urgenza proposta dal procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. 

E ora Storari esce indenne anche dall’ancora più periglioso fronte penale: la giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia, Federica Brugnara, disattendendo la richiesta di condanna a 6 mesi formulata dalla Procura, lo ha infatti assolto nel processo di primo grado con rito abbreviato.

E ha cioè escluso che sia stato reato di «rivelazione di segreto d’ufficio» l’aver Storari consegnato nell’aprile 2020 a Piercamillo Davigo, ex pm del pool Mani pulite e allora membro del Consiglio Superiore della Magistratura, i verbali sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria» resi ai pm milanesi Pedio e Storari dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara: verbali sui quali Storari lamentava lo scarso dinamismo del procuratore Francesco Greco e della sua vice Laura Pedio nell’indagare per distinguere in fretta tra verità e calunnie di Amara, in un attendismo motivato (secondo Storari) dal timore dei vertici della Procura che potesse uscire erosa la credibilità di Amara in altre sue dichiarazioni, invece valorizzate contro Eni (assieme a quelle del coindagato Vincenzo Armanna) nel processo Eni-Nigeria del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e nella inchiesta del pm Pedio sul collegato depistaggio giudiziario Eni.

«Assoluzione piena»

«La formula dell’assoluzione — commenta il difensore di Storari, Paolo Della Sala — è assoluzione piena e del resto la buona fede di Storari era stata riconosciuta anche dalla stessa Procura di Brescia. 

Spero che questa sentenza ponga fine al calvario al quale è andato incontro per avere fatto quella che, dal suo punto di vista e nella ragionevole prospettiva che aveva all’epoca, era la cosa giusta. È un verdetto che ridà equità a una vicenda che certa stampa ha voluto strumentalizzare in modo inutilmente aggressivo nei suoi confronti». 

Davigo a processo

L’assoluzione di Storari risalta ancor di più visto che Davigo, il quale aveva scelto il rito ordinario, lo scorso 17 febbraio era stato invece rinviato a giudizio per aver poi nel 2020 mostrato o raccontato i verbali di Amara (datigli da Storari) al vicepresidente del Csm David Ermini, che ricevette da Davigo anche copia dei verbali e che ha dichiarato di essersi affrettato poi a distruggerli ritenendoli irricevibili, pur se parlò della vicenda con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella; ai consiglieri Csm Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna; alle sue due segretarie al Csm Marcella Contraffatto e Giulia Befera; e al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il senatore (allora nel Movimento 5 Stelle) Nicola Morra, in un colloquio privato e fuori (per i pm) da qualunque regola, finalizzato solo a motivare i contrasti insorti con il consigliere Csm Sebastiano Ardita; mentre non hanno mai fatto parte delle contestazioni penali a Davigo le informazioni date al procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, e in misura minore al presidente della Cassazione, Pietro Curzio.

Gli altri pm ancora indagati

Su Storari la giudice Brugnara non ha dunque accolto la tesi giuridica — prospettata dal procuratore bresciano Francesco Prete e dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi — che la consegna nell’aprile 2020 da Storari a Davigo delle copie word dei verbali resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020 da Amara non potesse essere scriminata né dal fatto che fosse stato Davigo a rassicurare Storari sulla liceità della consegna e sulla non opponibilità del segreto investigativo a un consigliere Csm; né dal movente di Storari di lamentare i contrasti con i vertici della Procura sui ritardi (a suo avviso) nell’avviare concrete indagini.

L’assoluzione di Storari, difeso dall’avvocato Paolo Della Sala, chiude il versante penale ma al pm resta ancora da affrontare il procedimento disciplinare ordinario, al momento pendente in Procura Generale di Cassazione, e anche la differente procedura aperta da mesi al Csm per decidere se Storari, come pure De Pasquale, debba o non debba essere trasferito per «incompatibilità ambientale» con la sede giudiziaria milanese. 

Il bilancio attuale dell’intreccio di procedimenti innescato da Amara è che l’assoluzione odierna di Storari arriva dopo il rinvio a giudizio di Davigo e dopo l’archiviazione a Brescia dell’indagine sull’allora procuratore milanese Francesco Greco per l’ipotesi di omissione d’atti d’ufficio nel trattare il fascicolo sulla loggia Ungheria, trasmesso infine un anno fa per competenza territoriale da Milano alla Procura di Perugia. 

E arriva prima che sempre la Procura di Brescia decida la sorte del procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, indagati per «rifiuto d’atti d’ufficio» nell’ipotesi abbiano tenuto il Tribunale milanese del processo Eni-Nigeria all’oscuro di elementi potenzialmente favorevoli alle difese (benché segnalati da Storari ai due pm) sulla figura di Vincenzo Armanna.

Cioè dell’ex dirigente Eni coimputato ma anche accusatore di Eni, valorizzato sia nel processo Eni-Nigeria da De Pasquale, sia nell’inchiesta sui presunti depistaggi giudiziari Eni da Pedio: altra vice di Greco a sua volta pure indagata a Brescia nell’estate 2021 per omissione d’atti d’ufficio nell’ipotesi non avesse indagato tempestivamente su Armanna per calunnia dei vertici Eni in base agli spunti fornitele invano da Storari, ma avviata a prospettiva di archiviazione dall’inversione a 360 gradi operata a dicembre 2021 quando (dopo quasi 4 anni) Pedio ha contestato ad Amara e Armanna quella calunnia che Storari quantomeno da gennaio 2021 ravvisava negli atti.

La versione di Storari

«Intorno ai primi 15 giorni di aprile del 2020 — ha deposto il pm nel rito abbreviato a Brescia — io chiamo il dottor Davigo e gli dico di avere un problema di carattere lavorativo, gli dico che c’era un dichiarante, non credo di avergli fatto il nome, il quale riferiva di una Loggia massonica e coinvolgeva soggetti delle istituzioni, anche del Csm, e gli chiedo anche se posso parlargli di queste vicende». 

Perché Davigo? «Io non avevo rapporti con il dottor Davigo, cioè non sono suo amico, la mia conoscenza con lui deriva dal fatto che sono invece amico con la sua compagna avendo lavorato lungo tempo in Direzione distrettuale antimafia» (dove Alessandra Dolci é procuratore aggiunto).

«Non vado da lui come amico, vado da lui come componente del Consiglio Superiore della Magistratura, già presidente di sezione alla Corte di Cassazione, componente delle Sezioni Unite della Cassazione, Presidente della Associazione nazionale magistrati, Presidente della Commissione che si occupava dell’interpretazione dei regolamenti del Csm, cioè dal mio punto di vista in Italia non esisteva soggetto più qualificato, almeno questa è la mia percezione a quel momento. 

E lui mi dice: “Sì, guarda Paolo, capisco che sono atti segreti di un procedimento penale, ma ai consiglieri del Csm non è opponibile il segreto, soprattutto quando sono indagini eventualmente riguardanti magistrati componenti del Csm. 

Allora io, in quella situazione in cui mi trovavo, di lì a due giorni vado direttamente a casa sua e gli porto i miei file word di lavoro dei verbali, perché tutti gli atti in originale li custodiva la dottoressa Laura Pedio, l’alternativa era star lì un’ora a ricopiarmi i nomi e le circostanze che riguardavano queste persone, per cui prendo una chiavetta e gliela do».

Ma a quale scopo? «Io mi sento tranquillizzato, sgravato di un problema che io avevo obiettivamente, avendo vissuto momenti veramente di totale solitudine, in cui io a un certo punto mi sono accorto di essere stato preso in giro più volte da quelli che per me erano...il procuratore della Repubblica e due procuratori aggiunti con cui lavoravo» (Pedio e Fabio De Pasquale). 

Due pesi e due misure

Storari motiva questa affermazione con il contrasto, a suo avviso, tra il trattamento iper prudente sulle dichiarazioni di Amara su loggia Ungheria e invece le ben diverse velocità e incisività applicate nello stesso periodo dai vertici della Procura ad altre dichiarazioni di Amara, quelle che andavano a supportare le accuse contro Eni del coindagato Vincenzo Armanna nel processo Eni-Nigeria.

Nel caso del fascicolo su loggia Ungheria, nel quale per Storari era urgente fare accertamenti per separare il vero dal calunnioso, «questo fascicolo è rimasto a Milano dal dicembre 2019 al gennaio 2021 e in un anno non c’è una delega alla polizia giudiziaria se non quella che ho fatto io per identificare dei soggetti... un anno a lasciare galleggiare... Uno si trova solo, solo, non può parlare con nessuno e loro ti rimbalzano, ti rimbalzano, quando proponi qualcosa ti traccheggiano duecento volte, hanno il muro di gomma...».

«Loro» sarebbe la «gestione condivisa» del procuratore Greco con i vice Pedio (contitolare del fascicolo con Storari) e De Pasquale (pm del processo Eni-Nigeria), «nulla di male, mangiavano tutti i giorni insieme, si trovavano fuori anche dall’ufficio, io una sera la trasmissione Report su Armanna sono andato a casa della Pedio a guardarla e c’erano Greco e De Pasquale. 

Ripeto, nulla di male, nulla di male, però quello che voglio fare capire é che De Pasquale non era titolare del fascicolo Ungheria ma le cose le sapeva, anche da me, da Laura Pedio, da Greco... 

De Pasquale a un certo punto mi ha detto: “Questo fascicolo secondo me deve stare nel cassetto per due anni”, e formalmente non aveva nessun titolo per fare questa affermazione, però loro tre, scusi l’espressione, sono una cosa sola».

Il «trabocchetto» al giudice Tremolada

Differente, ad avviso di Storari, l’utilizzo di Amara laddove parlasse di Eni: «Quando le cose fanno comodo in Eni-Nigeria, le si usa nel processo; quando non fanno più comodo, zitti e muti». Storari lamenta ad esempio la scelta di Greco e De Pasquale di portare a Brescia brandelli di “de relato” di terza mano di Amara circa la pretesa avvicinabilità del giudice Tremolada, presidente del processo Eni-Nigeria, da parte dei legali Eni Paola Severino e Nerio Diodà (poi liquidata come del tutto infondata dai pm di Brescia): «Io della trasmissione degli atti a Brescia non lo sapevo perché a me non è stato detto nulla, infatti c’è in atti un mio documento che poi dice a Greco e Pedio che io non sono mai stato d’accordo con questa iniziativa, ma questa cosa significa ai miei occhi che un minimo di credibilità la stavano dando ad Amara, che non era (visto come, ndr) un pazzo». 

Il secondo episodio è quando, sempre nel gennaio-febbraio 2020, De Pasquale vuole depositare quelle frasi di Amara su Tremolada proprio nel processo Eni-Nigeria presieduto da Tremolada (che a quel punto rischierebbe di doversi astenere), proposta alla quale Storari si oppone in una riunione con i colleghi: «”Ma scusate, voi praticamente davanti al mondo lo infangate”, e loro mi rispondono: “Tu, Paolo, sei un corporativo, noi vogliamo farlo perché crediamo che Tremolada sia un soggetto che è troppo aderente alle difese”, e io rispondo: “Guardate, dovete passare sul mio corpo, io se succede faccio casino, perché queste cose non si fanno. Volete farle voi? Allora chiamate voi Amara nel vostro procedimento, lo sentite come attività integrativa di indagine e poi fate quello che volete, ma non usate il verbale che ho fatto io per mascariare un collega su nulla». 

L’esito della riunione è allora che non si useranno queste frasi nella richiesta di De Pasquale al Tribunale di ascoltare in extremis su altri temi il teste Amara: «Ma poi da un articolo di giornale mi accorgo che De Pasquale invece aveva usato in udienza queste dichiarazioni, facendo al Tribunale quella richiesta brutta, a trabocchetto, che Amara dovesse venire a riferire, oltre che su una serie di altre circostanze a cui avevamo dato tranquillamente il via libera, anche su interferenze nei confronti dei giudici del processo».

Corto circuito che non esploderà soltanto perché l’ignaro Tribunale non ammetterà per ragioni procedurali l’esame fuori tempo massimo di Amara. L’attrito con i colleghi si acuirà quando tra fine 2020 e inizio 2021 Storari segnalerà invano ai vertici della Procura la necessità di depositare al processo Eni-Nigeria «le scoperte che grazie alle attività investigative avevo fatto io, e cioè che sia Amara che Armanna fossero due calunniatori: ma non lo faccio per distruggere il processo, lo faccio perché erano elementi oggettivi», e del resto «quello che dicevo io è stato confermato, ma a un anno di distanza, dalla conclusione dell’indagine», nella quale Pedio, affiancata dai due nuovi colleghi Civardi e Di Marco, a dicembre 2021 ha tra l’altro contestato per la prima volta ad Amara e Armanna anche la calunnia ai danni dell’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi e del capo del personale Claudio Granata. 

Loggia Ungheria, le indagini fatte oppure no

Nel clima della primavera 2020 Storari afferma dunque di essersi confidato con Davigo per tre ragioni sulle dichiarazioni rese da Amara da dicembre 2019 su loggia Ungheria: «Primo, avvertire il Csm del contenuto delle dichiarazioni di Amara su magistrati; secondo, il procuratore della Repubblica e il procuratore aggiunto omettono iscrizioni, il che è un dato disciplinarmente rilevante; terzo, io non voglio partecipare a questo. 

Il mio problema era informare un organo istituzionale di quello che stava avvenendo e io avevo individuato in Piercamillo Davigo l’istituzione che poteva assolvere questo compito. Davigo mi risponde: “Vado io a parlare con il Comitato di Presidenza del Csm”, e in seguito mi dà una sorta di ritorno e mi dice di aver parlato con il vicepresidente Csm Ermini e il pg della Cassazione Salvi», il quale avrá poi con Greco una interlocuzione che cronologicamente si sovrapporrá alla decisione dei vertici della Procura milanese di procedere il 12 maggio 2020 alle prime iscrizioni in base ai verbali di Amara.

In una relazione ufficiale del 6 maggio 2021 Greco e Pedio hanno invece rivendicato un lungo elenco di indagini svolte su Ungheria, elenco valorizzato anche dal giudice bresciano Andrea Gaboardi per archiviare un mese fa l’ipotesi di omissione d’atti d’ufficio contestata a Greco. Ma Storari, in una memoria in cui contesta punto per punto l’elenco, ribatte che «si è voluto gabellare per atti istruttori sulla loggia Ungheria robe che con Ungheria non c’entrano niente», disposte nell’altro fascicolo e non per Ungheria: «Se fosse veramente come dice la dottoressa Pedio, questi sarebbero stati illeciti disciplinari, ma non è andata così. 

La prova definitiva che queste perquisizioni e intercettazioni non c’entrano nulla con Ungheria ce la fornisce proprio la dottoressa Pedio quando, interrogata il 15 settembre 2021, spiega di non avere firmato una delega alla GdF che le avevo proposto già a gennaio 2020 perché, ha ricordato, “noi il Nucleo GdF lo avevamo escluso dalle indagini”, per cui questo vuol dire che il Nucleo GdF non poteva occuparsi di Ungheria, lo dice Pedio, giusto? Bene, volete sapere a chi erano stati delegati quegli atti istruttori ora inseriti nell’elenco» di indagini che Pedio colloca nel fascicolo Ungheria? «Al Nucleo Gdf. E stanno a dirci che questo riguarda Ungheria?».

«Non volevo dargliela vinta»

Al giudice che gli domanda perché non si sia limitato a farsi da parte se non era d’accordo sulla gestione del fascicolo, Storari risponde: «Sarebbe stato per me semplicissimo andare via, anche la Procura generale di Cassazione nell’interrogatorio disciplinare mi ha domandato “ma chi te l’ha fatto fare?”. 

Ma questa soluzione la trovo francamente un po’ ipocrita, perché io so chi me l’ha fatto fare: io non volevo dargliela vinta, io non sono pagato per scansare i problemi. Credo che sia un compito del pubblico ministero, per come l’ho sempre fatto nella mia vita, non “avere le carte a posto”, non scansare il pericolo e dire “ah qui c’è un problema é allora io mi faccio di lato”. No, io non ho mai fatto questo, cercando con prudenza di fare le cose, ma nella mia vita questo non l’ho mai fatto anche se per me sarebbe stata la cosa più facile al mondo. Se io avessi fatto così, sarei qua oggi? Sarei da un anno esposto mediaticamente?».

La domanda vera su Amara

Alla fine di tutto, e qualunque sia il mix di responsabilità che si vogliono ripartire Storari-Greco-Pedio-De Pasquale, il risultato é che si é sprecata una occasione, e Storari stesso ammette di esserne consapevole: «Chi manda Amara? Fa tutto da solo o c’è un mandante dietro? Che è la vera domanda, a cui però io non ho potuto dare risposta». 

Nelle prossime settimane l’unica che potrà ancora provare in parte a darla é la Procura di Perugia nelle pieghe della prevedibile futura archiviazione di gran parte del fascicolo Ungheria, scaturito dalle dichiarazioni di dicembre 2019-gennaio 2020 di Amara a Milano e trasmesso da Milano a Perugia per competenza a fine dicembre 2021.

L'inchiesta Monte Paschi di Siena. Procura di Milano senza pace, Greco di nuovo indagato: abuso d’ufficio. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Marzo 2022. 

Non c’è pace per la Procura di Milano, dopo la notizia che Francesco Greco è indagato di nuovo a Brescia, dopo la vicenda Amara-Loggia Ungheria (in cui è stato archiviato) e l’accusa di “pigrizia” tornata alla ribalta con l’assoluzione da parte del gup di Brescia del suo accusatore Paolo Storari. La nuova imputazione, emersa da una richiesta di proroga indagini della Procura di Brescia, è di abuso d’ufficio, reato di per sé non grave, ma molto serio in questo caso perché adombra il sospetto che con la sua inerzia (ancora) e le ripetute richieste di archiviazione e assoluzione, la Procura presieduta da Greco abbia inteso agevolare gli ex dirigenti del Monte Paschi di Siena, il presidente Alessandro Profumo e l’ad Fabrizio Viola.

La vicenda è particolarmente spinosa perché segnala, oltre alla parte strettamente processuale, uno scontro senza esclusione di colpi ancora una volta con la Procura Generale, ma anche con diversi giudici per le indagini preliminari, in particolare con Guido Salvini. E coinvolge anche, oltre ai tre pm che condussero le indagini, Stefano Civardi, Giordano Baggio e Mauro Clerici, l’ex assessore al bilancio del Comune di Milano, il professor Roberto Tasca, per una perizia ritenuta falsa. Un bel guazzabuglio, e anche un problema, alla vigilia della nomina del successore di Francesco Greco che vede tra i candidati anche il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, che darebbe continuità a una Procura e a quel metodo univoco fin dai tempi di Saverio Borrelli e il pool Mani Pulite che oggi è da più parti messo in discussione. Quello di cui stiamo parlando oggi riguarda il filone milanese della complessa inchiesta su Mps, che vede al centro i conti dell’istituto di credito nei bilanci dal 2012 al 2015 relativamente ai derivati Alexandria e Santorini, che erano stati sottoscritti dal Monte con Deutsche Bank e Nomura.

Derivati sottoscritti per coprire la perdita di due miliardi di euro derivante dall’operazione di acquisti di Antonveneta. Che i derivati non abbiano portato fortuna ai dirigenti di Mps lo dimostra il fatto che il 15 ottobre del 2020 la seconda sezione del tribunale di Milano, presieduta dal giudice Flores Tanga, ha condannato Alessandro Profumo (nel frattempo transitato a Leonardo) e Fabrizio Viola a sei anni di reclusione e a una multa di 2,5 milioni di euro ciascuno, per aggiotaggio e false comunicazioni sociali in relazione alla semestrale del 2015 della banca senese. I due ex dirigenti sono stati condannati anche a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e due di interdizione dagli uffici pubblici d’impresa. Tre anni e sei mesi per false comunicazioni sociali anche all’ex presidente del collegio sindacale Paolo Salvadori, mentre la stessa banca, sulla base della legge 231 del 2001 sulle responsabilità degli Enti, ha subito una sanzione di 800.000 euro. Fino a qui, a leggere le cronache di quel giorno, la notizia vera non era tanto quella delle condanne –era pur sempre solo un primo grado di giudizio- quanto lo schiaffo morale subito dalla Procura, che aveva chiesto l’assoluzione per tutti gli imputati. Ma il fatto più significativo, quello per cui oggi sono indagati Greco e i tre sostituti, è quel che avvenne prima del processo e che appare alquanto sconcertante. Soprattutto se ci aiuta, nella lettura politica della vicenda, tutto quel che è accaduto in seguito, dal processo Eni con gli scontri tra pm ma anche con la Procura generale, fino al capitolo Amara-Loggia Ungheria.

Che cosa viene infatti contestato all’ex procuratore milanese e ai suoi sostituti? Prima di tutto il fatto di aver omesso una serie di atti d’indagine e di avere di conseguenza favorito Profumo e Viola. È un sospetto molto grave, che non riguarda solo una sorta di pigrizia mentale, una sbadataggine superficiale nell’espletamento del proprio dovere, ma addirittura un comportamento attivo e voluto, finalizzato –sospettano il procuratore capo di Brescia, Francesco Prete e la pm Erica Battaglia- a coprire le tante smagliature e i reati commessi dalla dirigenza di Mps. Ma c’è di più. Perché gli uomini della Procura avrebbero fatto orecchi da mercante rispetto alle ripetute richieste di chiarimento avanzate dalla Procura generale. La quale si era attivata in quanto la legge sulle persone giuridiche, quali le banche, prevede che se la pubblica accusa decide di archiviare un’inchiesta, debba farlo con decreto motivato e poi sia obbligata a darne comunicazione alla procura generale. Che cosa avevano fatto invece in quel caso i pm di Milano? Avevano scritto il decreto e poi, rispetto alle tante richieste di chiarimento della pg Gemma Gualdi, avevano fatto finta di non sentire. È stato allora che la dottoressa aveva richiesto la perizia al professor Tasca.

Ma era anche accaduto in seguito, che altri sospetti siano stati avanzati dal giudice delle indagini preliminari Guido Salvini. Il quale, non convinto della conformità di quella perizia, si sarebbe a sua volta rivolto a un altro tecnico del settore, Gian Gaetano Bellavia. Il quale ha ribaltato completamente la perizia del collega, che è oggi indagato per falso, proprio per quell’ esame ritenuto “non conforme”. E ha anche smentito la procura di Milano, che aveva chiesto l’archiviazione dell’inchiesta.

Gian Gaetano Bellavia, commercialista ed esperto di diritto penale dell’economia, è stato sentito come persona informata sui fatti nei giorni scorsi a Brescia. In seguito alla sua deposizione è stato aperto un nuovo filone di inchiesta sulla corretta contabilizzazione dei crediti deteriorati di Mps e sono state iscritte sul registro degli indagati altre sette persone. Ma questa è ancora la parte strettamente processuale. Il racconto sulla parte politica –si, dobbiamo chiamarla così- non è ancora finito. Perché nel frattempo sono spariti dalla scena milanese (ma non da quella bresciana deve dovranno difendersi nelle indagini per abuso d’ufficio) i primi pm che indagavano su Mps. Francesco Greco, andato in pensione e poi promosso consulente alla legalità dal nuovo sindaco di Roma Roberto Gualtieri.

Ma anche i pm Civardi, Clerici e Baggio, i quali hanno deciso di gettare la spugna dopo esser stati denunciati a Brescia dal grande accusatore di Mps Giuseppe Bivona, fondatore di Bluebell Partners. Ma non finisce qui. Perché anche la stessa sostituta pg Gemma Gualdi, colei che aveva invano e costantemente chiesto ai colleghi milanesi chiarimenti su quel decreto di archiviazione delle indagini sulla banca (cui del resto era seguita anche la proposta di assoluzione degli imputati nel processo), alla fine si era arresa e aveva segnalato il fatto a Brescia, competente per eventuali reati imputabili a magistrati milanesi. Cosa che ha particolarmente irritato il difensore di Francesco Greco, Massimo Dinoia, avvocato molto noto a Milano fin dai tempi di Mani Pulite. Il legale si dice sicuro del fatto che anche questa inchiesta, come già quella sul caso della Loggia Ungheria, finirà con l’archiviazione della posizione del suo assistito. Il che è probabile -dal momento che la responsabilità penale è personale- se l’ex procuratore non ha svolto un ruolo attivo nel comportamento, davvero singolare, dei suoi sostituti.

Ma il legale mette anche il dito nella piaga dei rapporti tra la procura della repubblica e quella generale e lancia una luce di sospetto sul fatto che “qualcuno si sia rivolto alla procura di Brescia” mentre i processi sono ancora in corso. Oltre alle nuove indagini infatti, si sta svolgendo l’appello del primo processo, in cui la pg Gualdi ha già chiesto la conferma delle condanne, con qualche riduzione per sopraggiunte prescrizioni. Ma, escludendo che l’avvocato Dinoia nella sua nota si sia preso la briga di dare attenzione a Giuseppe Bivona (de minimis non curat praetor), pare che parli proprio della dottoressa Gualdi, quando avverte del fatto che essersi rivolti alla procura di Brescia “appare improprio e pericoloso per la giurisdizione e per la doverosa tutela dell’autonomia e indipendenza dei magistrati della Procura di Milano, soprattutto in un momento delicato come questo, in cui il Csm deve nominare il nuovo procuratore”. Benvenuti nell’agone del Palazzo di giustizia di Milano.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Luigi Ferrarella per il Corriere della Sera il 12 marzo 2022.

Quando una Procura ritenga di proporre al gip l'archiviazione di una denuncia o di chiedere al Tribunale l'assoluzione degli imputati, i pm titolari, e il loro procuratore, possono - oltre a essere poi magari disattesi dai giudici secondo le ordinarie regole di controllo - essere anche ritenuti responsabili del reato di «abuso d'ufficio»? 

Il tema si pone ora per il procuratore milanese uscente Francesco Greco nel gorgo di inchieste sul Monte dei Paschi di Siena, annoso intreccio animato dalle denunce del consulente di fondi «attivisti» Giuseppe Bivona, e più di recente dalla Procura generale di Milano per l'inattivo silenzio con il quale la Procura della Repubblica avrebbe accolto nel 2021 le critiche della pg Gemma Gualdi alla perizia del consulente Roberto Tasca sui controversi criteri di contabilizzazione nell'era post-Mussari dei derivati «Alexandria» e «Santorini» e poi di 5 miliardi di euro di crediti deteriorati (Npl).

La notifica di una proroga, infatti, avvisa Greco (neoconsulente per la legalità del sindaco di Roma Gualtieri) che almeno da 6 mesi è indagato dal procuratore di Brescia, Francesco Prete, e dalla pm Erika Battaglia, con un consulente e tre pm. Il consulente è Tasca, dal 2016 al 2021 assessore al Bilancio del Comune di Milano nella prima giunta del sindaco Beppe Sala, indiziato di «falso» per una consulenza tecnica alla pg Gualdi (al momento del via libera dato dalla Procura generale alla scelta dei pm di archiviare la persona giuridica Mps), poi contraddetta da quella affidata dal gip Guido Salvini all'altro perito Gian Gaetano Bellavia. Gualdi e Bellavia sono stati ascoltati dai pm di Brescia.

I pm sono invece (come già era noto) i tre iniziali pm di Mps: Giordano Baggio (oggi alla Procura europea antifrode), Stefano Civardi (oggi pm delle inchieste sui depistaggi Eni-Nigeria), e Mauro Clerici, indagati come Greco (ma senza sinora aver ricevuto avvisi) per abuso d'ufficio in due loro richieste respinte dai giudici: il 31 agosto 2016 di prosciogliere in udienza preliminare i vertici 2013-2016 di Mps, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, e il 16 giugno 2020 di assolverli alla fine del processo in Tribunale, dove invece i giudici Tanga-Saba-Crepaldi condannarono i due imputati a 6 anni per aggiotaggio e false comunicazioni. 

L'avvocato Massimo Dinoia - che a Brescia difende Greco perché Francesco Mucciarelli (suo legale nella recente archiviazione dell'ipotesi di omissione d'atti d'ufficio sulla loggia Ungheria) non può farlo essendo nei processi Mps il difensore di Viola e Profumo (oggi n.1 di Leonardo-ex Finmeccanica) - dichiara a La Stampa di non comprendere l'«astratta responsabilità per pensiero altrui», cioè a suo avviso dei tre pm per quanto «pensato quando chiesero archiviazione e assoluzione», benché «il codice proclami l'assoluta indipendenza dei pm dalla gerarchia».

E in una nota alle agenzie la difesa di Greco, lambendo richiami alla giustizia a orologeria evocati in passato da tanti indagati «eccellenti», arriva ad adombrare il «momento delicato in cui il Consiglio superiore della magistratura deve nominare il nuovo procuratore» al posto di Greco, che Dinoia riferisce essere «orgoglioso di aver servito lo Stato per 45 anni» nel «proteggere la legalità economica di questo Paese».

Intanto già da metà 2021 i tre pm denunciati da Bivona - cioè da colui al quale Dinoia accenna quando aggiunge che «Greco non ha mai fatto parte di banche di affari che hanno venduto prodotti di finanza strutturata a Mps, e non ha mai fatto da consulente per fondi di investimento lussemburghesi» - si erano sfilati dal terzo filone Mps sui crediti deteriorati, ereditato da altri due pm, Roberto Fontana e Giovanna Cavalleri. I quali, ripartiti quindi da zero, pochi giorni fa hanno compendiato, in una richiesta di proroga al gip Salvini, tutta una serie di indagini svolte a carico - si è così appreso - di 9 indagati tra i quali Profumo, Viola, l'ex ad Marco Morelli, gli ex presidenti Massimo Tononi, Alessandro Falciai e Stefania Bariatti. Tra esse anche una nuova perizia affidata a Stefania Chiaruttini con un metodo di stime che i nuovi pm hanno commissionato diverso da quelli utilizzati sia da Tasca sia da Bellavia. 

Inchiesta sul Monte Paschi di Siena, la “Stampa”: «Indagato l’ex procuratore Francesco Greco».

La rivelazione arriva dalla "Stampa" di Torino che parla di un'indagine avviata dalla procura di Brescia che coinvolgerebbe anche altre persone. Il Dubbio l'11 marzo 2022.

Secondo quanto scrive la “Stampa” di Torino, Francesco Greco, ex procuratore capo di Milano, in pensione da novembre, è indagato per abuso d’ufficio in relazione alla vicenda dell’inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena. 

Il giornale diretto da Massimo Giannini afferma che i pm di Brescia ipotizzano che Greco abbia omesso alcuni accertamenti favorendo di fatto i dirigenti Profumo e Viola. Con lui sarebbero indagati i pm Stefano Civardi, Giordano Baggio e Mauro Clerici, oltre all’ex assessore al Bilancio della giunta del sindaco Giuseppe Sala, per via di una consulenza tecnica sui bilanci di Mps al tempo in cui Alessandro Profumo e Fabrizio Viola erano rispettivamente presidente a ad della banca.

«I nomi di Greco e Tasca emergono in una proroga delle indagini notificata pochi giorni fa – scrive il quotidiano – Secondo quanto ipotizzano il procuratore Francesco Prete e il pm Enrica Battaglia, i magistrati avrebbero omesso di svolgere alcuni alcune attività di indagine favorendo così Profumo e Viola. Ma avrebbero anche omesso di rispondere a tutte le richieste di chiarimento avanzate dalla Procura generale di Milano, che era stata avvisata dell’archiviazione delle indagini». Proprio per questo motivo la Procura generale avrebbe a quel punto chiesto una perizia a Tasca, risultata poi «non conforme» e smentita da una seconda perizia. Gli indagati, tuttavia, si ritengono innocenti fino a sentenza irrevocabile di condanna.

Monica Serra per “La Stampa” l'11 marzo 2022.

È un nuovo terremoto che si abbatte sulla procura di Milano, già messa a dura prova dal caso Piero Amara e loggia Ungheria. Il procuratore in pensione da novembre, Francesco Greco, e i pm Stefano Civardi, Giordano Baggio e Mauro Clerici sono indagati a Brescia per abuso in atti d’ufficio in relazione alla gestione delle indagini sulla banca Monte dei Paschi di Siena. 

Sotto inchiesta è finito anche, per falsa perizia, l’ex assessore al bilancio della giunta del sindaco Giuseppe Sala, Roberto Tasca, per via di una consulenza tecnica, depositata il 2 novembre del 2018 alla procura generale, sui bilanci dell’era di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, rispettivamente presidente e ad della banca senese, tra il 2013 e il 2016. 

I nomi di Greco (che nel frattempo ha incassato l’archiviazione per la loggia Ungheria) e Tasca emergono in una proroga delle indagini notificata pochi giorni fa. Secondo quanto ipotizzano il procuratore Francesco Prete e il pm Erica Battaglia, i magistrati avrebbero omesso di svolgere alcune attività di indagine favorendo così Profumo e Viola. 

Ma avrebbero anche omesso di rispondere a tutte le richieste di chiarimento avanzate dalla procura generale di Milano, che era stata avvisata dell’archiviazione delle indagini su Mps, in quanto persona giuridica. Prevede, infatti, la legge sulla responsabilità degli enti, che l’eventuale archiviazione delle indagini venga decisa dal pm che procede, con decreto motivato, dandone comunicazione alla procura generale. 

Che però, davanti a quel decreto, ha deciso di fare ulteriori accertamenti: una consulenza affidata proprio al professore Tasca e che, stando a quanto emerso, sarebbe stata «non conforme», e poi smentita da quella del collega Gian Gaetano Bellavia.

A sostegno delle ipotesi investigative dei pm bresciani ci sarebbe la richiesta di assoluzione di Profumo e Viola avanzata dalla procura di Milano nel processo sulle operazioni Alexandria e Santorini. Entrambi gli imputati sono stati poi condannati in primo grado a sei anni e a una multa di due milioni e mezzo di euro ciascuno, per aggiotaggio e false comunicazioni sociali. Ora il processo è in appello e la sostituta pg Gemma Gualdi ha già chiesto la conferma delle condanne con qualche aggiustamento in seguito alla prescrizione di alcune accuse. 

Ma a sostegno delle ipotesi accusatorie ci sarebbe anche la richiesta di archiviazione avanzata dagli stessi pm per il terzo filone di indagine sulla banca senese, quello relativo alla contabilizzazione dei crediti deteriorati. Richiesta di archiviazione che era stata poi respinta dal gip Guido Salvini che aveva ordinato la nuova perizia, che ha ribaltato la precedente.

«È una strana incolpazione che rappresenta anche una estemporanea interpretazione della norma costituzionale – sostiene il difensore di Greco, l’avvocato Massimo Dinoia – perché c’è una ipotesi di una asserita astratta responsabilità per pensiero altrui». Cioè per quello che i sostituti di Greco avrebbero «pensato quando hanno avanzato richiesta di assoluzione e di archiviazione». Anche perché, aggiunge il legale, «il codice penale proclama l’assoluta indipendenza dei sostituti nei confronti della gerarchia».

Querelati a Brescia da Giuseppe Bivona, fondatore di Bluebell Partners, i pm Civardi, Clerici e Baggio hanno deciso di rinunciare alle indagini. L’inchiesta, ancora in corso, è ora condotta dai pm Roberto Fontana e Giovanna Cavalleri, che hanno iscritto nel registro degli indagati altri sette nomi e stanno verificando, in concreto, la coincidenza o l’eventuale scostamento tra le valutazioni fatte dalla Bce sulla scorta delle ispezioni effettuate nel 2014 e 2016 e il risultato dell’applicazione dei principi contabili. 

Ma non è stato solo Bivona a denunciare i magistrati milanesi. A dare un forte impulso alle indagini alla fine dello scorso anni, si scopre solo ora, è stata una segnalazione della sostituta pg di Milano, Gemma Gualdi. Che per mesi avrebbe provato a chiedere spiegazioni e informazioni alla procura, senza ricevere alcuna risposta.

Procura di Milano ancora senza pace: Greco indagato per l’affaire Mps. Sandro De Riccardis,  Luca De Vito su La Repubblica l'11 marzo 2022.

L’ex procuratore accusato dai pm di Brescia di abuso d’ufficio. Il suo legale: “Ha servito lo Stato, sarà archiviato” L’ennesimo colpo nel Palazzo diviso da mesi e che aspetta la nomina del nuovo capo da parte del Csm. In un ufficio già dilaniato dalle divisioni tra magistrati, un altro duro colpo per la procura di Milano è arrivato dai colleghi di Brescia che hanno iscritto l'ex procuratore capo Francesco Greco nel registro degli indagati per abuso d'ufficio nell'inchiesta Mps. Senza pace da mesi per le spaccature interne provocate dalla gestione dei fascicoli Eni Nigeria e "loggia Ungheria", che hanno messo uno contro l'altro pezzi dell'ufficio inquirente, al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano si aspetta la nomina del nuovo capo da parte del Consiglio superiore della magistratura: tutti sperano che il plenum del Csm faccia presto a scegliere tra la soluzione interna (il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, ora responsabile dei... 

Mps, indagato l'ex procuratore Francesco Greco per abuso d'ufficio con tre pm e l'ex assessore di Milano Tasca.  

Per la procura di Brescia il procuratore e i tre pm titolari del fascicolo non avrebbe indagato a fondo sulle vicende dei derivati e della contabilizzazione dei crediti deteriorati della banca senese. L'accusa è di abuso d'ufficio.

L'ex procuratore capo di Milano, Francesco Greco, è indagato a Brescia per abuso in atti d'ufficio in relazione alla gestione dei fascicoli sulla banca Monte dei Paschi di Siena, per i quali erano già indagati, sempre a Brescia, i pm di Milano Stefano Civardi, Giordano Baggio e Maurizio Clerici. Oltre ai magistrati sarebbe indagato per falso anche Roberto Tasca, ex assessore al Bilancio della giunta del sindaco di Milano Giuseppe Sala, per una consulenza tecnica sui bilanci del 2018.

L'iscrizione di Greco, anticipata oggi da La Stampa, emerge dalla proroga indagini notificata pochi giorni fa agli indagati. L'ipotesi della procura di Brescia, con il procuratore Francesco Prete e il pm Erica Battaglia, è che non sarebbero stati svolti tutti gli accertamenti necessari nell'ichiesta sui dirigenti della banca, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, rispettivamente ex presidente e ex ad dell'istituto. In più avrebbero omesso di rispondere a tutte le richieste di chiarimento avanzate dalla procura generale di Milano, nel momento in cui era stata informata della decisione di chiedere l'archiviazione del fascicolo. Da qui la richiesta di consulenza a Tasca, considerata dalla procura generale "non conferme" sulla base di una seconda perizia.

I pm di Brescia basano la loro ipotesi accusatoria nei confronti di Greco - attualmente consulente alla legalità del sindaco di Roma Roberto Gualtieri - partendo dalla richiesta di assoluzione di Profumo e Viola nel processo di primo grado da parte dei pm milanesi sulla gestione dei derivati Alexandria e Santorini. Richiesta non accolta dal tribunale che aveva condannato a sei anni e due milioni di multa i due indagati per aggiotaggio e false comunicazioni sociali. Una condanna di cui chiede la conferma la procura generale nel processo di appello ora in corso.

La procura di Milano aveva poi chiesto l'assoluzione anche in un altro filone del procedimento, quello sulla contabilizzazione dei crediti deteriorati, che invece era stata respinta dal gip Guido Salvini. Anche qui una nuova perizia aveva ribaltato la valutazione degli indagati. L'inchiesta ora è portata avanti da altri due pm della procura, i magistrati Roberto Fontana e Giovanna Cavalleri, che hanno iscritto nel fascicolo altri sette indagati.

"Sotto un profilo strettamente personale, il dottor Greco, non avendo mai fatto parte di banche di affari che hanno venduto prodotti di finanza strutturata sia alla Parmalat che a Mps e non avendo mai fatto da consulente per fondi di investimento lussemburghesi, è felice di aver servito lo Stato per 45 anni e di essersi dedicato a proteggere la legalità economica di questo Paese". Lo scrive l'avvocato Massimo Dinoia, legale dell'ex procuratore di Milano Francesco Greco, in una nota. "Come al solito - scrive Dinoia - il procedimento si concluderà con l'ennesima archiviazione sia perché i fatti non sussistono sia perché la tesi della responsabilità del procuratore (per fatto o pensiero altrui) è singolare e giuridicamente infondata". Il difensore nella nota chiarisce anche che è "preoccupante" che, mentre i procedimenti su Mps sono ancora in corso, "qualcuno si sia rivolto alla Procura di Brescia". Ciò "appare improprio e pericoloso per la giurisdizione e per la doverosa tutela dell'autonomia e indipendenza dei magistrati della Procura di Milano, soprattutto in un momento delicato come questo, in cui il Csm deve nominare il nuovo Procuratore".

Amara arrestato, indagato e processato in tutt’ Italia. Gli crede (e lo usa) solo la Procura di Potenza. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 marzo 2022.  

Soltanto a Potenza la procura ha dato incredibilmente piena credibilità alle dichiarazioni di Amara dopo averlo arrestato in relazione all'inchiesta che ha falcidiato la Procura di Taranto mettendo fine alla carriera del procuratore Carlo Maria Capristo, attualmente sotto processo dinnanzi al Tribunale di Potenza, e su cui pende un altro procedimento che lo vede indagato insieme al prof. Ernesto Laghi.

L’avvocato-faccendiere siciliano Piero Amara dopo otto mesi di detenzione, ha ottenuto la semilibertà, che gli consentirà di trascorrere le giornate fuori dal carcere di Spoleto, lavorando come cuoco nella mensa per i poveri della Caritas. La Procura di Milano non gli dato neanche il tempo a mettere piede fuori dal carcere che ha aperto una nuova inchiesta a suo carico sui contraddittori verbali che aveva firmato davanti ai pm Laura Pedio e Paolo Storari sulla famigerata “loggia Ungheria” . Verbali che hanno causato ad entrambi i magistrati non pochi problemi, venendo accusati di averli divulgati. Nei confronti della Pedio la Procura di Brescia ha appena chiesto l’archiviazione. Nei confronti del pm Storari l’accusa è già finita archiviata.

Adesso però il procuratore aggiunto di Milano, Maurizio Romanelli, e i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco vogliono giustamente e dovutamente accertare e ricostruire come alcune fotografie di quei documenti siano uscite finendo nelle mani di Vincenzo Armanna. il quale insieme ad Amara, oltre a essere stati i testimoni del processo contro i vertici dell’Eni (conclusosi con l’assoluzione), sono entrambi collegati anche da un’altro procedimento, quello sul finto complotto Eni, per il quale, sempre a Milano, la Procura ha depositato una richiesta di rinvio giudizio.

Nel nuovo fascicolo d’indagine aperto dalla Procura di Milano è stato accertato che Vincenzo Armanna ha tirato fuori uno di quei fogli durante un interrogatorio svoltosi il 17 febbraio 2020 proprio davanti ai magistrati Pedio e Storari che indagavano sulla fantomatica “loggia Ungheria”. Il pm Storari ha davanti ai colleghi di Brescia ha dichiarato : “Armanna mi sventola in faccia una pagina dell’interrogatorio dell’11 gennaio 2020 di Amara dove si parla di Ungheria. Interrogatorio secretato ovviamente… e me la sventola la fotografia dove ci sono le firme…“

Alla domanda dei magistrati sulla provenienza di quel documento secretato, come al solito arivano come di consueto balle…spacciate per spiegazioni. Prima parla di un ragazzino con la moto… poi fa il nome del dipendente della Polizia di Stato Filippo Paradiso arrestato con Amara a Potenza…. A quel punto il pm Storari avrebbe anche cercato di capirci qualcosa e spiega: “Perquisiamo Paradiso, lo sentiamo… e scopriamo che è una balla” e Storari si fa qualche idea: “Quello che verosimilmente è successo… a fine dicembre 2019 Amara chiede di rileggere gli interrogatori… Io non sono presente a questa rilettura…”. Storari non ricorda se in quel momento c’era anche la collega Pedio. Ma ipotizza che poteva esserci un ufficiale di pg che però sfortunatamente nel frattempo è deceduto.

Circostanze che chiaramente complicano le verifiche. I magistrati della Procura di Milano hanno in mano la versione di Armanna, il quale sostiene di aver ricevuto il documento da un emissario di Amara. A quel punto Amara, che in precedenza ha già negato, viene riconvocato per un nuovo interrogatorio. Nel frattempo però arriva la Procura generale di Perugia che ha contestato il provvedimento con il quale è stata concessa la semilibertà all’avvocato sostenendo che “questi abbia manifestato la volontà di ripudio della condotta in precedenza tenuta, mediante l’attività di collaborazione che sarebbe dimostrata da dichiarazioni, auto ed etero accusatorie, rese presso diverse autorità giudiziarie”. 

Il procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani ha così spiegato le ragioni che hanno spinto il suo ufficio a impugnare quella decisione: “Non è dimostrato che la collaborazione sia stata leale e piena, in quanto questi ha taciuto fatti di particolare gravità” aggiungendo che si sarebbe “in presenza di una commissione sistematica di reati gravissimi, con una disinvolta spregiudicatezza volta a destabilizzare le istituzioni”. Più di una Procura, infatti, in passato si è fatta portare per mano dall’avvocato. Il nuovo appuntamento con le sue dichiarazioni da collaborante in semilibertà smentito dalla Procura generale perugina è tornato in Procura a Milano.

Soltanto a Potenza la procura ha dato incredibilmente piena credibilità alle dichiarazioni di Amara dopo averlo arrestato in relazione all’inchiesta che ha falcidiato la Procura di Taranto mettendo fine alla carriera del procuratore Carlo Maria Capristo, attualmente sotto processo dinnanzi al Tribunale di Potenza, e su cui pende un altro procedimento che lo vede indagato insieme al prof. Ernesto Laghi. Procedimenti che di udienza in udienza stanno vedendo svanire nel nulla le accuse della Procura di Potenza, smentite dai presunti testimoni, dimostrando l’allegra gestione “mediatica” e l’insussistenza probatoria dei capi d’accusa. 

Il procuratore capo di Potenza Francesco Curcio ha più volte cercato di alzare il livello delle sue inchieste, cercando di coinvolgere il “cerchio magico” di Matteo Renzi collegandolo alle vicende dello stabilimento siderurgico ex-Ilva di Taranto, acquisendo documenti dalle procure di mezz’ Italia, ma i legali del prof. Laghi hanno smontato le accuse facendole diventare un castello di aria di fantasiosi capi d’accusa.

Dietro le quinte delle vicende lucano-pugliesi si nasconde il tentativo della corrente sinistrorsa di Area di vedere accrescere le adesioni dei magistrati, gestendo non poche procure (Bari, Lecce, Taranto e Potenza) al cui vertice guarda caso sono stati nominati tutti magistrati di quella corrente, grazie anche al lavoro sotterraneo (ma anche pubblico) del capo delegazione di Area al Csm, Giuseppe Cascini, il quale ha cercato ripetutamente di sanzionare l’ex magistrato Capristo ora in pensione. E per capire la follia “sinistrorsa” basta ascoltare l’ultima udienza dinnanzi alla sezione disciplinare di piazza dei marescialli, dove persino il sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione ha evidenziato la banalità delle accuse di Cascini a Capristo.

Resta da chiedersi a questo punto come Giuseppe Cascini dopo quanto emerso dalle sue chat con Luca Palamara possa rimanere al Consiglio superiore della magistratura? E i vertici del Csm, ad iniziare dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, come mai non dicono una parola a tal riguardo? A porsi questi interrogativi è stato dalle colonne del Fatto Quotidiano, giornale certamente non ostile nei confronti dei pm, l’ex presidente di sezione della Corte di Cassazione Antonio Esposito. 

L’alto magistrato, da tempo editorialista sul giornale diretto da Marco Travaglio, è noto al grande pubblico per aver condannato nel processo sui diritti Mediaset. Condanna che determinò la cacciata dell’ex premier dal Parlamento e per ciò solo “al di sopra di ogni sospetto”. Inoltre Esposito ha anche querelato Palamara dopo la pubblicazione del libro “Il Sistema” e quindi non può essere considerato certamente come un suo “sodale”. Riprendendo quanto scritto dal Riformista qualche giorno addietro, Esposito aveva raccontato i rapporti intrattenuti fra Palamara e Cascini, uno dei “capi” storici di Magistratura democratica (confluito in Area) . Giuseppe Cascini, componente della sezione disciplinare del Csm, era stato ricusato prima dello scorso Natale da Cosimo Ferri, sotto procedimento per aver partecipato alla cena dell’hotel Champagne a maggio del 2019 quando si discusse della nomina del nuovo procuratore di Roma. 

Ferri, prima di entrare in Parlamento era il leader di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe, aveva motivato la ricusazione facendo riferimento a una mail inviata da Cascini il 28 febbraio 2015 alla mailing list dell’Associazione nazionale magistrati e all’allora segretario di Mi. In questa mail si stigmatizzava il comportamento di Ferri che, a giudizio di Cascini, era entrato in quel periodo nella compagine governativa quale sottosegretario per interesse personale. Oltre a questa mail, Ferri aveva poi prodotto una dichiarazione rilasciata da Palamara al gup di Perugia Piercarlo Frabotta relativa a un incontro avuto con Cascini nel corso del quale quest’ultimo gli avrebbe perentoriamente detto: ”Non frequentare Ferri, non te lo dico più!”. Cascini, interrogato dal collegio che doveva decidere sulla sua ricusazione, si era difeso sostenendo che fosse stato Palamara a chiedergli un incontro per parlare dell’elezione del vice presidente del Csm.

Le chat presenti sul telefono di Luca Palamara acquisite dalla Procura di Perugia hanno però smentito la ricostruzione di Cascini, essendo stato lui a chiedergli l’incontro, peraltro avvenuto dopo l’elezione di David Ermini a vice presidente a settembre 2018. “C’è discordanza fra quanto detto da Cascini e le chat”, aveva replicato Ferri, presente all’interrogatorio. “È un fatto grave perché ha detto cose diverse“, aveva poi aggiunto Ferri prima che gli venisse bloccato il microfono. Sulla testimonianza non corrispondente a verità di Cascini, entra quindi in gioco il procuratore generale della Cassazione Salvi, anch’egli storico esponente di Magistratura Democratica (quello che guarda caso ha smarrito il suo telefono…) .

Salvi nel suo ruolo è il titolare dell’azione disciplinare nei confronti di tutti i magistrati italiani. Azione disciplinare esercitata in regime di monopolio in quanto la ministra della Giustizia Marta Cartabia, a cui la Costituzione assegna tale potestà, vi ha rinunciato per evitare “sovrapposizioni” con la Procura generale. In una conferenza stampa nell’aula magna della Cassazione a giugno 2020, indetta per annunciare le iniziative disciplinari conseguenti lo scoppio del “Palamaragate”, Salvi aveva tranquillizzato i presenti rassicurandoli che non stava di certo, testualmente, “ciurlando nel manico”.

Come racconta il collega Paolo Comi sulle colonne del quotidiano Il Riformista, “Proprio a questo fine la Procura generale ha elaborato dei criteri di valutazione del materiale (chat, ndr) che ci è stato sottoposto. Questi criteri sono stati elaborati dal gruppo di lavoro che è composto dai magistrati che mi sono a fianco, cioè il procuratore aggiunto Luigi Salvato che è il responsabile del settore disciplinare e dall’avvocato generale  Piero Gaeta che è responsabile del settore pre-disciplinare, nel settore dove viene fatta una valutazione del materiale informativo che arriva per cui decidere se aprire la fase disciplinare o archiviare la procedura“.

E tutto ciò pur essendo Salvi, Salvato e Gaeta coinvolti nelle chat di Palamara per avergli richiesto, direttamente o indirettamente di essere nominati ad incarichi direttivi. Il sospetto, legittimo, è che Salvi non apra un fascicolo su Cascini perché, a parte la comune appartenenza correntizia sarebbe costretto ad aprilo anche su se stesso. L’anno scorso, per questo aspetto, un gruppo di magistrati appartenenti ad Articolo 101, il gruppo “anti correnti” aveva chiesto ai diretti interessati di chiarire i rapporti con Palamara emersi dalle chat e riportati nel suo libro scritto con il direttore di Libero Alessandro Sallusti.

Si tratta di fatti che, ove fossero veri, sostiene Il Riformista (e noi concordiamo con i colleghi) gettano un’ombra inquietante sia sui loro asseriti protagonisti che sulla sorprendente circolare dello stesso Procuratore generale che “assolve per principio chi raccomanda se stesso per incarichi pubblici e chi quella raccomandazione accetta”, ricordavano le toghe. “Appare evidente – proseguiva l’appello dei magistrati non “lottizzati” e schierati politicamente – che la gravità delle accuse rivolte pubblicamente e ora note a tutti e la rilevanza dei ruoli ricoperti nell’assetto costituzionale da Salvi e Cascini impongono loro di smentire in maniera convincente i fatti o dimettersi dalle cariche ricoperte. “Confidiamo che Salvi e Cascini sapranno scegliere una delle due alternative. Lo devono alla Repubblica italiana alla quale hanno prestato, come noi, giuramento di fedeltà”.

Risultato ? Silenzio assoluto. Come se nulla fosse accaduto, tutti attaccati alle proprie poltrone, salvandosi a vicenda. E poi certe persone parlano di “giustizia” e di indipendenza della Magistratura….La realtà è che neanche “mastro” Geppetto, l’inventore di Pinocchio avrebbe saputo e potuto fare di meglio! Redazione CdG 1947

Fabio Amendolara per “La Verità” il 19 marzo 2022.

Dopo otto mesi di detenzione, l'avvocato-faccendiere Piero Amara ha ottenuto la semilibertà, che gli consentirà di trascorrere le giornate fuori dal carcere di Spoleto, lavorando come cuoco nella mensa per i poveri della Caritas. Ma non ha neppure fatto in tempo a mettere piede fuori dall'istituto di pena che la Procura di Milano ha aperto una nuova inchiesta. Ancora una volta al centro ci sono i controversi verbali sulla presunta loggia Ungheria che aveva firmato davanti ai pm Laura Pedio e Paolo Storari.

E che hanno causato non pochi problemi a entrambi, accusati di averli divulgati. Per la prima la Procura di Brescia ha appena chiesto l'archiviazione. Per Storari il caso è già finito in archivio. E ora il procuratore aggiunto di Milano, Maurizio Romanelli, e i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco vorrebbero ricostruire come siano uscite alcune fotografie di quei documenti, che sarebbero finite nelle mani di Vincenzo Armanna. Amara e Armanna, oltre a essere stati i testimoni del processo contro i vertici dell'Eni (finito con l'assoluzione), sono legati anche da un'altra vicenda: il finto complotto Eni, per il quale, sempre a Milano, c'è una richiesta di rinvio giudizio.

Nel nuovo fascicolo milanese è stato ricostruito che Armanna il 17 febbraio 2020 ha tirato fuori uno di quei fogli durante un interrogatorio proprio davanti ai magistrati che indagavano su Ungheria: Pedio e Storari. Tanto che Storari ne ha parlato con i colleghi di Brescia: «Armanna mi sventola in faccia una pagina dell'interrogatorio dell'11 gennaio 2020 di Amara dove si parla di Ungheria. Interrogatorio secretato ovviamente... e me la sventola la fotografia dove ci sono le firme...

Richiesto poi di dire chi te l'ha dato e chi non te l'ha dato, inventa balle... parla di un ragazzino con la moto... fa il nome di Filippo Paradiso (il funzionario della polizia di Stato arrestato con Amara a Potenza, ndr)...». Storari avrebbe anche tentato di capirci qualcosa: «Perquisiamo Paradiso, lo sentiamo... e scopriamo che è una balla». Un'idea però Storari se l'è fatta: «Quello che verosimilmente è successo... a fine dicembre 2019 Amara chiede di rileggere gli interrogatori... Io non sono presente a questa rilettura...». Storari non ricorda se c'era Pedio in quel momento. Ma ipotizza che poteva esserci un ufficiale di pg che nel frattempo è deceduto. 

Il che ovviamente complica le cose. I pm milanesi hanno in mano la versione di Armanna, che sostiene di aver ricevuto il documento da un emissario di Amara. E Amara, che ha già negato, verrà riconvocato per un nuovo interrogatorio. Nel frattempo la Procura generale di Perugia ha contestato il provvedimento che ha concesso la semilibertà all'avvocato ritenendo che «questi abbia manifestato la volontà di ripudio della condotta in precedenza tenuta, mediante l'attività di collaborazione che sarebbe dimostrata da dichiarazioni, auto ed etero accusatorie, rese presso diverse autorità giudiziarie».

Il procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani, però, ha spiegato le ragioni che hanno spinto il suo ufficio a impugnare quella decisione: «Non è dimostrato che la collaborazione sia stata leale e piena, in quanto questi ha taciuto fatti di particolare gravità». Non solo: si sarebbe «in presenza di una commissione sistematica di reati gravissimi, con una disinvolta spregiudicatezza volta a destabilizzare le istituzioni». Più di una Procura, infatti, in passato si è fatta portare per mano dall'avvocato. Il nuovo appuntamento con le sue propalazioni da collaborante in semilibertà smentito dalla Procura generale perugina è a Milano.

(ANSA il 18 marzo 2022) - Per la Procura generale di Perugia "non è dimostrato che l'attività collaborativa" dell'avvocato Piero Amara "sia stata leale e piena, in quanto questi ha taciuto fatti criminosi di particolare gravità". Lo sottolinea lo stesso Ufficio. 

"Nel procedimento in esame - scrive la Procura - non sono state consultate alcune delle autorità giudiziarie ove pendono i procedimenti a carico di Amara, per cui non risulta dimostrato il presupposto della collaborazione". Amara è tra l'altro al centro dell'indagine della procura di Perugia sulla presunta loggia Ungheria per la quale non è stato raggiunto da alcun provvedimento restrittivo.

Le valutazioni sulla collaborazione di Amara sono collegate alla decisione della Procura generale di Perugia di impugnare la concessione della semilibertà. 

"In primo luogo, nel procedimento in esame - si legge nella nota diffusa dal procuratore generale Sottani - non sono state consultate alcune delle autorità giudiziarie ove pendono i procedimenti penali a carico del Sig. Amara, per cui non risulta dimostrato il presupposto della collaborazione. Per di più, l'emissione in questi stessi procedimenti di atti contenenti l'avviso della conclusone delle indagini ipotizzano reati di particolare gravità che smentiscono la tesi del tribunale". 

"Inoltre - sostiene ancora la Procura generale -, non è dimostrato che vi sia stata una coerente dichiarazione autoaccusatoria, perché in alcuni casi il Sig. Amara è stato sottoposto ad indagini a seguito di dichiarazioni rilasciate da altri soggetti. 

In definitiva, questa Procura generale ritiene che dalle condotte tenute dal Sig. Amara nei procedimenti penali, nei quali è attualmente sottoposto ad indagini, non emerga la volontà di collaborazione, ma al contrario si sia in presenza di una commissione sistematica di reati gravissimi, con una disinvolta spregiudicatezza volta ad inserirsi in un contesto criminale di destabilizzazione delle istituzioni e di discredito e di sfiducia nel sistema giudiziario".

Caso Verbali, Amara indagato per la fuga di notizie. E Perugia smentisce la sua attendibilità. L'ex legale esterno di Eni è indagato a Milano. Secondo il pg Sottani non emerge «la volontà di collaborazione», ma al contrario si sarebbe in presenza «di una commissione sistematica di reati gravissimi, con una disinvolta spregiudicatezza volta ad inserirsi in un contesto criminale di destabilizzazione delle istituzioni e di discredito e di sfiducia nel sistema giudiziario». Simona Musco su Il Dubbio il 18 marzo 2022.

Nuovo colpo di scena a Milano sulla fuga di notizie legata ai verbali di Piero Amara: la procura di Milano ha chiuso una nuova inchiesta, iscrivendo sul registro degli indagati proprio l’ex avvocato esterno dell’Eni, con l’accusa di aver fatto circolare i verbali ancora prima che il pm Paolo Storari li consegnasse all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ora a processo a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio. Una notizia, questa, che potrebbe dunque cambiare le sorti del processo a carico dell’ex pm di Mani Pulite, accusato di aver fatto leggere le dichiarazioni di Amara sulla presunta Loggia Ungheria per screditare il consigliere del Csm Sebastiano Ardita. A coordinare le indagini sono il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco. Nel febbraio del 2020, l’ex manager di Eni Vincenzo Armanna, grande accusatore nel processo Eni-Nigeria (conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati), mostrò alcune pagine di quei verbali secretati all’aggiunto Laura Pedio e al pm Storari, circa 90 pagine che, secondo le sue dichiarazioni, gli sarebbero state consegnate proprio da Amara. L’ex avvocato ha sempre respinto le accuse e la prossima settimana verrà sentito dai magistrati milanesi in merito alle accuse. Nel frattempo, però, sono circa 20 i fascicoli aperti a suo carico con l’ipotesi di calunnia in merito alle dichiarazioni sulla presunta loggia, uno per ciascuna delle persone indicate come associate.

Che la credibilità di Amara, specie in relazione alle dichiarazioni sulla presunta loggia, fosse traballante era già stato evidenziato da Storari, che indagando nell’ambito del “Falso complotto Eni” – fascicolo nel quale erano maturate le dichiarazioni su Ungheria – era giunto alla conclusione di trovarsi di fronte ad un «calunniatore». Ma ora è anche la procura generale di Perugia – dove è in corso il processo a carico di Luca Palamara, nel quale l’affaire Amara gioca un ruolo determinante per la tenuta dell’accusa – a mettere in discussione la sua leale collaborazione. Secondo il pg Sergio Sottani, infatti, «non è dimostrato che l’attività collaborativa» dell’ex legale esterno di Eni «sia stata leale e piena, in quanto questi ha taciuto fatti criminosi di particolare gravità». Il parere arriva a seguito della concessione della semilibertà ad Amara per la sua «attività di collaborazione» riconosciuta dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, competente in quanto il legale è detenuto a Terni, decisione impugnata da Sottani. «Nel procedimento in esame – scrive la Procura – non sono state consultate alcune delle autorità giudiziarie ove pendono i procedimenti a carico di Amara, per cui non risulta dimostrato il presupposto della collaborazione». «In primo luogo, nel procedimento in esame – si legge nella nota di Sottani – non sono state consultate alcune delle autorità giudiziarie ove pendono i procedimenti penali a carico del Sig. Amara, per cui non risulta dimostrato il presupposto della collaborazione. Per di più, l’emissione in questi stessi procedimenti di atti contenenti l’avviso della conclusone delle indagini ipotizzano reati di particolare gravità che smentiscono la tesi del tribunale». «Inoltre – sostiene ancora  -, non è dimostrato che vi sia stata una coerente dichiarazione autoaccusatoria, perché in alcuni casi il Sig. Amara è stato sottoposto ad indagini a seguito di dichiarazioni rilasciate da altri soggetti. In definitiva, questa Procura generale ritiene che dalle condotte tenute dal Sig. Amara nei procedimenti penali, nei quali è attualmente sottoposto ad indagini, non emerga la volontà di collaborazione, ma al contrario si sia in presenza di una commissione sistematica di reati gravissimi, con una disinvolta spregiudicatezza volta ad inserirsi in un contesto criminale di destabilizzazione delle istituzioni e di discredito e di sfiducia nel sistema giudiziario».

E a Brescia si sta per chiudere il cerchio anche attorno alla posizione di Pedio, per la quale la procura ha chiesto l’archiviazione per l’accusa di omissione d’atti d’ufficio, così come fatto per l’ex procuratore Francesco Greco. La vicenda verbali, dunque, vedrà sul banco degli imputati solo Davigo, dopo l’assoluzione di Storari perché il fatto non costituisce reato. Ma la nuova inchiesta su Amara potrebbe cambiare le carte in tavola, specie in relazione alla consegna di quei verbali alla stampa. Intanto va avanti l’inchiesta nei confronti dell’aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, indagati per rifiuto d’atti d’ufficio in merito al mancato deposito di prove utili alla difesa nel processo Eni-Nigeria. Gli inquirenti bresciani hanno disposto accertamenti tecnici sul telefono di Armanna all’esito dei quali decideranno sulle posizioni dei due magistrati.

Per la procura di Milano Amara si è inventato tutto: aperti 20 procedimenti per calunnia. I fascicoli riguardano, in modo singolo, tutte le persone menzionate dall'avvocato siciliano quali presunti appartenenti alla Loggia massonica "Ungheria". Intanto la procura di Brescia chiede l'archiviazione per Laura Pedio. Il Dubbio il 18 marzo 2022.

Sono circa venti i fascicoli aperti sui tavoli della procura di Milano con l’ipotesi di calunnia a carico dell’avvocato Piero Amara. Uno, da quanto appreso, per ciascuna delle persone che l’avvocato siciliano avrebbe detto con le sue dichiarazioni di appartenere alla presunta loggia massonica Ungheria. E in questo scenario che i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco, coordinati dall’aggiunto Maurizio Romanelli, insieme alla sezione di polizia giudiziaria della GdF stanno compiendo accertamenti e verifiche per capire se ci siano gli estremi per contestare ad Amara nuove accuse di calunnia per ogni singola posizione al vaglio.

Nel frattempo, sempre al legale, al centro di numerose inchieste che hanno scosso gli uffici giudiziari di diverse città italiane, in primis Milano, i pm Civardi e Di Marco hanno notificato nelle scorse settimane un nuovo avviso di chiusura delle indagini preliminari. Nell’atto, Amara è accusato della rivelazione del segreto del procedimento penale in relazione perchè avrebbe diffuso parte dei verbali resi al pm Paolo Storari e Laura Pedio a verbale sull’esistenza della presunta associazione segreta. Una circolazione parallela e antecedente a quella dell’aprile del 2020 quando il pm Storari consegnò i documenti all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Infine, la procura di Brescia ha chiesto l’archiviazione del procedimento penale nei confronti di Laura Pedio.

“Loggia Ungheria”, Piero Amara accusato di aver fatto circolare i suoi verbali. Nuovo filone investigativo della procura di Milano sulle dichiarazioni dell'ex legale dell'Eni, al quale i magistrati contestano il reato di rivelazione del segreto istruttorio. Il Dubbio il 17 marzo 2022.

La Procura di Milano ha chiuso una nuova inchiesta sui verbali dell’avvocato siciliano Piero Amara nei quali l’ex legale esterno di Eni parlò della presunta Loggia Ungheria capace di condizionare le nomine in magistratura. Ad anticipare la notizia è stato il TgLa7. A coordinare le indagini sul nuovo filone sono il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco. L’ipotesi della procura è che quei verbali, coperti da segreto, circolassero in parte già prima della consegna ad aprile 2020 da parte del pubblico ministero Paolo Storari all’allora consigliere sterno del Csm Piercamillo Davigo di una versione in Word delle carte.

Responsabile, per i pm milanesi, sarebbe proprio l’avvocato Amara, che per questo risulta indagato. L’ipotesi è di rivelazione di segreto in un procedimento penale. Nel febbraio del 2020, infatti, l’ex manager di Eni Vincenzo Armanna, grande accusatore nel processo Eni Nigeria, mostrò alcune pagine di quei verbali secretati all’aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari, che lo stavano interrogando. Armanna ha riferito di aver ricevuto quelle carte, in tutto una novantina di pagina, dall’avvocato Amara, che tuttavia ha sempre negato ogni coinvolgimento. La prossima settimana l’avvocato Amara verrà sentito in Procura a Milano e potrà chiarire la sua posizione.

I nodi da sciogliere. Loggia Ungheria, tutte le contraddizioni sulla cupola segreta svelata da Amara. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Marzo 2022. 

Adesso la domanda è: qualcuno avrà il coraggio di aprire quell’inchiesta sulla “Loggia Ungheria”? Non ci sono molte alternative, dopo che il giudice di Brescia ha assolto il pm milanese Paolo Storari, dicendo che aveva ragione lui e non i suoi superiori, il procuratore capo Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio, che quel fascicolo proprio non lo volevano aprire. Né per indagare per calunnia chi aveva nominato la loggia, né per verificare se esistesse quella sorta di cupola, composta di giudici, alti ufficiali e politici che avrebbero governato la magistratura italiana, di cui aveva parlato, in diverse deposizioni tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020, l’avvocato Piero Amara, legale esterno di Eni e coinvolto in diverse indagini, dalla Sicilia fino a Milano.

Ma soprattutto, e questo era un problema, il grande accusatore del processo Eni. Il giovane pm Storari, con la caparbietà tipica dell’allievo di Ilda Boccassini con cui aveva lavorato all’antimafia, riteneva che su quelle dichiarazioni comunque un fascicolo andasse aperto, o per inviare qualche informazione di garanzia alle persone i cui nomi erano stati fatti da Amara, oppure per incriminare l’avvocato esterno di Eni per calunnia. Esclusa comunque l’inerzia che rendeva immobili i due dirigenti dell’ufficio. Da un lato il procuratore Greco, che a suo parere non voleva correre il rischio che fosse in qualche modo intaccata l’attendibilità del testimone d’accusa del processo per corruzione in cui erano imputati i massimi vertici di Eni. Che saranno poi comunque assolti. Ma anche Laura Pedio, che era sua superiore ma anche colei che insieme a lui aveva raccolto quell’importante testimonianza. Anche lei pareva immobile, pietrificata. Da un calcolo di politica giudiziaria di Greco, cui era molto legata, o da una sua diversa valutazione rispetto alla rilevanza del contenuto di quei verbali? In ogni caso, perché tenerli nel cassetto?

Passa qualche mese, siamo all’aprile del 2020, e lo scalpitante Storari si confida con Alessandra Dolci, colei che ha assunto il ruolo di Ilda Boccassini dopo il suo pensionamento al vertice della Dda. Dolci, non è un segreto, è la compagna di Piercamillo Davigo e a lui lo indirizza, in quanto membro del Csm, per un consiglio. Gli incontri, nell’abitazione del ex membro del pool Mani Pulite, sono diversi, secondo il racconto dello stesso Storari ai magistrati di Brescia che lo avevano indagato per rivelazione di atti d’ufficio dopo che, alla fine degli incontri, aveva consegnato a Davigo una pendrive con i famosi verbali. Colui che all’epoca era ancora un membro del Csm, prima del contestato avvio verso la pensione, aveva rassicurato il giovane collega, garantendogli che non avrebbe commesso nessun reato, consegnandogli atti d’indagine segreti, perché è consentito ai componenti del Csm poterli ricevere. Pare che a nessuno dei due sia venuto il dubbio che questi comportamenti informali e disinvolti siano cosa diversa dalla procedura prevista dallo stesso Csm, che prevede di sottoporre il caso con plico riservato al comitato di presidenza. E non brevi manu a un singolo consigliere. Fatto sta che Storari –e la sua, chiamiamola ingenuità, è davvero sorprendente- si comporta come un qualunque studentello davanti al maestro e fa la sua consegna. E che dire del comportamento di colui che fu chiamato “dottor sottile”?

L’assoluzione di Paolo Storari da parte della stessa giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Brescia Federica Brugnara che ha rinviato a giudizio per lo stesso reato Piercamillo Davigo, dopo che lui aveva divulgato i verbali a una serie di personaggi, interni ed esterni al Csm, indica già il percorso mentale che porterà, tra due settimane, alla motivazione della sentenza. Ma sarà un tribunale a giudicare Davigo, il prossimo 20 aprile, e sappiamo che l’ex pm non manca di dialettica e di argomenti persuasivi. Del resto non è casuale il fatto che, mentre il suo “allievo” ha scelto, e con successo, il rito abbreviato, il “maestro” ha voluto un processo pubblico. Ma dovrà difendersi, a questo punto, non solo per aver diffuso, in una sorta di catena di Sant’Antonio che porterà quei verbali, forse tramite una segretaria, fino alle mani dell’unico, il consigliere Csm Nino Di Matteo che, al grido di “il re è nudo” farà esplodere lo scandalo. Il tribunale potrà anche contestargli, sotto forma di aggravante, il fatto di aver indotto Storari a ritenere che la consegna di atti segreti a un solo consigliere e per via informale equivalesse all’osservanza delle procedure previste dalle circolari del Csm. Proprio perché è probabile (lo sapremo con certezza dopo aver letto le motivazioni della sentenza) che Paolo Storari sia stato assolto a causa della sua non conoscenza delle regole interne al Csm e per essersi fidato di un collega di grande storia e competenza.

Ma è palese a questo punto una contraddizione non da poco, perché si apra davvero quel famoso fascicolo d’indagine sulla Loggia Ungheria. Perché, da un lato c’è il pm Storari che voleva iniziare l’indagine, e che ha avuto ragione sui suoi superiori che restavano inerti alle sue sollecitazioni. Ma è altrettanto pacifico che, sempre a Brescia, un giudice ha archiviato la posizione del procuratore Francesco Greco (oggi in pensione), ritenendo che non ci sia mai stata una sua volontà insabbiatrice della vicenda. E quindi che Storari avesse avuto torto. Se anche la posizione dell’aggiunta Laura Pedio, ancora aperta, dovesse concludersi con l’archiviazione, la contraddizione sarebbe clamorosa. Oltre a tutto sul futuro del pm, che, una volta assolto, può occupare a pieno titolo ancora il suo ufficio e continuare a svolgere il suo ruolo, pende ancora una procedura del Csm per trasferimento per incompatibilità ambientale. Anche se era stata già bocciata la proposta del procuratore generale presso la Cassazione Giovanni Salvi di allontanamento in via cautelare. E se la quasi totalità dei sostituti milanesi era insorta in suo favore e contro il procuratore Greco.

Qualcuno dovrà ben scioglierla, la contraddizione. Almeno per due motivi. Il primo è che l’intero Paese ha il diritto di sapere se in Italia, oltre al Sistema così ben descritto da Sallusti e Palamara, c’era anche una cupola segreta che orientava i processi e tutta quanta la politica (giudiziaria, ma non solo) italiana. L’altro motivo, apparentemente più circoscritto ma non meno importante, ha a che fare con il processo Eni. Che intanto non è finito perché, con quella procedura che nel nostro ordinamento consente al pm di ricorrere in giudizio contro gli imputati già assolti in primo grado, ci sarà un appello. Che oltre a tutto si aprirà già avendo alle spalle un bel fardello di polemiche, dopo che la procuratrice generale di Milano Francesca Nanni ha nominato come pg d’aula Celestina Gravina invece del pm del primo grado Fabio De Pasquale, che lo aveva richiesto. E già risuonano le campane del Fatto quotidiano che con sarcasmo nei giorni scorsi titolava con un certo anticipo sui tempi: “Appello Eni-Nigeria: a Milano si accettano scommesse sul finale”.

La rilevanza del processo Eni è dovuta al fatto che ruota ancora intorno ai due testi d’accusa, Amara e Armanna. Il sospetto è che –Storari lo ha detto esplicitamente nelle sue deposizioni a Brescia- non solo i due pm d’aula De Pasquale e Spadaro, oggi indagati per rifiuto di atti d’ufficio, ma anche lo stesso Francesco Greco, avessero impegnato una grossa scommessa sulla fine di quel processo con le condanne. E di conseguenza non gradissero interferenze di nessun genere sulla genuinità delle deposizioni e sull’integrità dei personaggi. Non disturbate il manovratore, insomma. E non si deve mai dimenticare il fatto che, quando si tentò di dare credibilità a vociferazioni del solito Amara sulla possibilità che il presidente del tribunale che stava celebrando il processo, Marco Tremolada, fosse “avvicinabile” dagli avvocati Diodà e Severino che difendevano i vertici Eni, era stato lo stesso Greco a precipitarsi a inviare gli atti a Brescia. In quel caso l’avvocato Amara era stato ritenuto credibile? E sulla cupola segreta che condizionava tutti i processi?

Tiziana Maiolo.Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 24 marzo 2022.  

Stai a vedere che nell'indagine sulla loggia Ungheria, la P2 del terzo millennio, a pagare sarà solo Marcella Contrafatto, l'ex segretaria di Piercamillo Davigo quando era al Consiglio superiore della magistratura? Visti i precedenti, non ci sarebbe da stupirsi granché. 

I magistrati che hanno maneggiato i verbali esplosivi delle dichiarazioni dell'avvocato Piero Amara, che aveva rivelato l'esistenza di questa nuova massoneria, nelle scorse settimane sono stati infatti archiviati o sono in via di archiviazione. Il primo ad essere archiviato era stato il procuratore di Milano Francesco Greco. Subito dopo la stessa sorte era toccata al pm Paolo Storari.

E a breve, la Procura ha già dato parere positivo, sarà il turno di Laura Pedio, la vice di Greco. Resta "sub judice" Davigo, il cui processo per rivelazione del segreto proprio per la diffusione di questi verbali inizierà il mese prossimo, ma pare già destinato a finire in una bolla di sapone per via di una interpretazione di una circolare sui poteri del Csm. 

A rischiare il carcere è, dunque, solo la sua segretaria, che ha ricevuto la richiesta di rinvio a giudizio. La storia della loggia Ungheria inizia alla fine del 2019, quando Storari finisce di interrogare Amara. Quest' ultimo, sentito nell'ambito delle indagini milanesi sull'Eni, aveva svelato i nomi degli appartenenti a tale loggia segreta, composta da magistrati, professionisti, imprenditori, alti esponenti delle forze dell'ordine, e che aveva lo scopo di pilotare i processi e condizionare le nomine dei magistrati e dei vertici dello Stato.

Storari, verosimilmente scosso, aveva voluto fare accertamenti, procedendo con le iscrizioni sul registro degli indagati per violazione della legge Anselmi sulle associazione segrete, al fine di verificare la fondatezza di quanto dichiarato da Amara. I suoi capi, Greco e Pedio, erano stati invece di diverso avviso. Amara aveva fatto circa una quarantina di nomi di appartenenti alla Loggia, fra cui quelli di due consiglieri del Csm, Marco Mancinetti e Sebastiano Ardita.

Vista l'inerzia dei vertici della Procura di Milano ad indagarli, Storari aveva allora deciso qualche mese dopo di consegnare i verbali di Amara a Davigo, all'epoca componente del Csm, affinché fosse a conoscenza di quello che stava accadendo. Davigo, ricevuti i verbali, rivelò il loro contenuto a diversi colleghi ed anche al presidente della Commissione antimafia Nicola Morra (M5s).

I verbali di Amara finirono pure nelle mani di due giornalisti del Fatto e di Repubblica che non vollero però pubblicarli per "non compromettere" l'indagine sulla loggia. Anzi, denunciarono quanto accaduto. La "postina", come si accertò, era stata proprio Marcella Contraffatto, la segretaria di Davigo che, secondo l'accusa, aveva effettuato l'inoltro dei verbali qualche giorno dopo che l'ex pm di Mani pulite era andato in pensione, lasciando le carte nella scrivania dell'ufficio al Csm.

Contraffatto è anche indagata per calunnia visto che, nell'inviare iverbali all'ex pm antimafia Nino Di Matteo, aveva scritto «verbale ben tenuto nascosto dal procuratore Greco», accusandolo quindi di condotte omissive nelle indagini su Ungheria, di fatto inesistenti vista l'archiviazione del procedimento a suo carico.

Il Csm, appreso dell'indagine nei confronti della segretaria di Davigo, l'aveva sospesa dal servizio, avviando le procedure per il suo licenziamento. L'ex segretaria di Davigo, si era poi scoperto, aveva fatto assumere al Csm anche la figlia Ludovica, poi assegnata alla segreteria del giudice Giuseppe Marra, appartenente al gruppo di Autonomia&Indipendenza, la corrente fondata da Davigo. Anche il marito della Contraffatto è un magistrato: Fabio Massimo Gallo, ex presidente di Sezione lavoro della Corte d'Appello di Roma, altro esponente di punta di A&I.

Le indagini sono state condotte dalla pm romana Rosalia Affinito, moglie del colonnello dei carabinieri Maurizio Graziano, finito anch' egli nelle chat di Luca Palamara. Sarà interessante adesso capire che cosa abbia spinto una segretaria del Csm ad inviare in giro per l'Italia i verbali di Amara sulla loggia Ungheria. E se abbia fatto tutto da sola.

Della Loggia Ungheria rimane solo l’ennesima guerra tra magistrati. Il fascicolo è rimasto a mollo per due anni e Amara è stato usato come una clava. Storari lo ha capito e per questo ha rischiato tutto. Simona Musco su Il Dubbio il 9 marzo 2022.

Che fine ha fatto la Loggia Ungheria? A distanza di oltre due anni dalle prime dichiarazioni del controverso “pentito” Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, nulla è dato sapere. Il fascicolo, da qualche mese, è in mano alla procura di Perugia, dove è arrivato da Milano senza che venisse svolto alcun atto di indagine. Una certezza ribadita da Paolo Storari, pm milanese assolto lunedì dall’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio, che ha contestato ogni tentativo dei suoi superiori di affermare che le indagini sulla presunta associazione segreta non sono state insabbiate.

Perché se da un lato i vertici della procura, nel corso degli interrogatori davanti ai pm di Brescia, hanno elencato una serie di atti che rientrerebbero nel fascicolo “Ungheria”, Storari ha smontato pezzo per pezzo ogni affermazione, riconducendo quei singoli approfondimenti ad un altro fascicolo: quello sul falso complotto Eni. È questa, infatti, l’indagine da cui tutto nasce: a partire dal 6 dicembre 2019 e fino all’ 11 gennaio 2020, Amara mette a verbale una serie di nomi di presunti affiliati, tra magistrati, politici e uomini delle forze dell’ordine, tutti capaci di pilotare le nomine ai massimi livelli istituzionali. Ma il fascicolo, rimasto a Milano dal dicembre 2019 al gennaio 2021, non contiene alcuna delega alla Polizia giudiziaria, se non quelle fatte da Storari per identificare i soggetti.

Un’indagine rimasta a «galleggiare» per un anno, nonostante una pesante fuga di notizie. E ciò che viene definito a posteriori atto di indagine, spiega Storari ai pm, sarebbe ben altro: gli incontri con i colleghi di Perugia, dove peraltro «non si è parlato di Ungheria», le intercettazioni e le perquisizioni compiute nell’inchiesta sul “Falso complotto”, i cui decreti erano finalizzati «a totalmente altro», la trasmissione dei verbali a Greco, la rilettura degli stessi da parte di Amara, nonché la loro trascrizione. E senza voler accusare nessuno, dice Storari, «ho avuto l’impressione (…) che si è voluto gabellare per atti istruttori Ungheria robe che non c’entrano niente».

Come ci sia finito sotto processo è ormai noto: Storari, stanco del presunto lassismo della procura, ad aprile 2020 consegna a Davigo (ora sotto processo a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio) dei documenti contenenti le dichiarazioni di Amara sulla presunta loggia, convinto che prima o poi a pagare quel ritardo – ai suoi occhi inspiegabile – sarà proprio lui. Storari, infatti, tenta più di trovare riscontro a quelle dichiarazioni, scontrandosi, però, «contro un muro di gomma».

Insomma, la procura di Milano avrebbe opposto resistenza, sebbene Greco sia stato archiviato dall’accusa di omissione di atti d’ufficio. Rimane ancora in bilico l’aggiunta Laura Pedio, anche lei sotto inchiesta a Brescia, che però, contrariamente a Storari, è rimasta titolare del fascicolo sul falso complotto (nel cui ambito ha chiesto il processo per Amara per calunnia). Le stranezze sono tante: le dichiarazioni di Amara vengono prese in considerazione solo quando tornano utili. «Quando le cose fanno comodo in Eni-Nigeria, buttiamola al processo (…), quando si deve indagare su Ungheria che potrebbe portare al calunnione gravissimo, no», spiega lo scorso 3 febbraio alla giudice Federica Brugnara. Il riferimento è al processo sulla presunta maxi tangente pagata da Eni, processo che ha visto tutti gli imputati assolti. Amara, nelle sue dichiarazioni, disse di aver saputo che le difese del processo erano state in grado di «avvicinare» il presidente del collegio, Marco Tremolada.

Così i vertici della procura, a fine gennaio 2020, decidono di spedire le dichiarazioni di Amara – contenute in «due o tre righe» – a Brescia (che poi archivierà senza iscrivere nessuno), competente per i reati commessi dai o a danno dei magistrati milanesi. Di ciò Storari viene tenuto all’oscuro, tant’è che protesta con Greco e Pedio per iscritto. E Fabio De Pasquale, l’aggiunto che ha rappresentato l’accusa al processo Eni-Nigeria, decide di usarle, nonostante la contrarietà di Storari, al processo, «perché crediamo che Tremolada sia un soggetto che è troppo aderente alle difese», dice il pm ripetendo quanto riferitogli dal collega. Insomma, Amara, per un certo periodo di tempo, risulta credibile.

Una credibilità che è la stessa Pedio a mettere nero su bianco ad aprile 2020, fornendo alla difesa dell’ex legale un certificato di fattiva collaborazione per sostenere la domanda di affidamento ai servizi sociali. Storari, dunque, non si capacita: se è credibile, perché non indagare? Perché non iscrivere nessuno? La risposta, alla fine, se la dà da solo: Amara, dice, non è credibile. E della loggia Ungheria, servita intanto a scatenare l’ennesima guerra interna alla magistratura, non sapremo mai davvero nulla.

Lo schiaffo all'establishment della magistratura. La loggia Ungheria esiste, la conferma con l’assoluzione di Storari. Piero Sansonetti su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

Il Pm Storari è stato assolto. Era stato già scagionato dal Csm ora anche dalla Procura di Brescia. È uno schiaffo all’establishment della magistratura, in particolare all’establishment potentissimo della Procura di Milano. Storari era accusato di avere consegnato a Piercamillo Davigo, violando le regole, i verbali dell’interrogatorio nel quale l’avvocato Amara rivelava l’esistenza della Loggia Ungheria che – a suo dire – sarebbe la cupola che governa la magistratura italiana. Davigo ne avrebbe parlato poi con il vicepresidente del Csm, con il capo della commissione antimafia e con il consigliere speciale di Mattarella. Con scarsi risultati. Muro di gomma.

Il tribunale di Brescia ha esaminato la posizione di Storari e lo ha assolto. Dunque gli ha dato ragione. Dunque, seppure indirettamente, ha avallato la sua tesi che era molto semplice: la procura di Milano ostacolava le indagini sulla Loggia Ungheria. Capite bene che è una sentenza clamorosa. Se Storari aveva ragione, allora la Loggia esiste. E il vicepresidente del Csm, e la Presidenza della repubblica e la Commissione antimafia hanno messo tutto a tacere.

È uno scandalo di dimensioni colossali. Esiste la fondata possibilità che la magistratura italiana sia sottoposta al potere di una Loggia, massonica o no, composta da magistrati, avvocati, uomini e donne dell’esercito e della politica, e dunque che la sua indipendenza sia pura favola.

L’ipotesi è che anziché rispondere alla legge risponda alla loggia. Con gigantesche coperture, consapevoli o inconsapevoli, dirette o solo concesse per quieto vivere. Non cambia molto.

La sostanza è che la magistratura italiana è fuorilegge. Che chissà quante indagini sono state aperte non per amor di giustizia ma per amor di Loggia. Che chissà quante sentenze sono infondate. Il sistema denunciato da Palamara? Oltre: siamo molto oltre! Ministra Cartabia: ora o mai più.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” l'8 marzo 2022.

Dalla cacciata disciplinare - via dalla procura di Milano e mai più in alcuna altra procura italiana - il pm milanese Paolo Storari già si era salvato nell'agosto 2021, quando il Csm aveva respinto la richiesta cautelare di trasferimento d'urgenza proposta dal procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. 

Ma ieri Storari è uscito indenne anche dall'ancora più delicato fronte penale: la giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Brescia, Federica Brugnara, invece di condannarlo a 6 mesi come chiesto dai pm Prete-Greco-Milanesi, lo ha infatti assolto nel processo abbreviato di primo grado.

E ha cioè escluso che nell'aprile 2020 sia stato reato di «rivelazione di segreto d'ufficio» l'aver Storari consegnato a Piercamillo Davigo, ex pm del pool Mani pulite e allora membro del Consiglio superiore della magistratura, i verbali sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria» resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020 ai pm milanesi Laura Pedio e Storari dall'ex avvocato esterno Eni Piero Amara.

Su essi Storari lamentava lo scarso dinamismo del procuratore Francesco Greco (archiviato lo scorso 1 febbraio) e della vice Pedio nell'indagare per distinguere in fretta tra verità e calunnie di Amara: attendismo motivato (secondo Storari) dal timore dei vertici della Procura che potesse uscire erosa la credibilità di Amara in altre sue dichiarazioni, invece valorizzate contro Eni (assieme a quelle del coindagato Vincenzo Armanna) da Pedio nella inchiesta sul collegato depistaggio giudiziario Eni, e dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale nel processo sulle tangenti Eni-Nigeria.

Al punto da fondare, nello stesso gennaio-febbraio 2020, pesanti iniziative nei confronti dell'ignaro presidente del processo, Marco Tremolada: come la trasmissione a Brescia di un «de relato» di terza mano di Amara circa la pretesa avvicinabilità del giudice da parte dei legali Eni Paola Severino e Nerio Diodà (poi liquidata come del tutto infondata dai pm di Brescia), e come la richiesta di De Pasquale al Tribunale di fare testimoniare in extremis Amara su «interferenze delle difese Eni su magistrati milanesi in relazione al processo» poi concluso il 17 marzo 2021 con tutte assoluzioni.

L'assoluzione di Storari - che (in attesa delle motivazioni tra 15 giorni) il difensore Paolo Della Sala confida «sia la fine di un calvario» e, rimarca, «piena» e motivata dalla formula «perché il fatto non costituisce reato» - risalta ancor di più a fronte invece del rinvio a giudizio 20 giorni fa del coindagato Davigo: cioè di colui sulla cui interpretazione delle circolari Csm Storari fece affidamento, venendone rassicurato sulla liceità della consegna dei verbali e sulla non opponibilità del segreto investigativo ai consiglieri del Csm.

Dal 20 aprile Davigo sarà imputato per le successive rivelazioni di segreto non al procuratore generale e al presidente della Cassazione, Giovanni Salvi e Pietro Curzio (interlocuzioni non contestate dai pm bresciani), ma al vicepresidente Csm David Ermini, che da Davigo ne ricevette anche copia e che ha dichiarato di essersi affrettato poi a distruggerli ritenendoli irricevibili, pur se parlò della vicenda con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella; a cinque consiglieri Csm; al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il senatore allora M5S Nicola Morra; e a due segretarie di Davigo al Csm, a una delle quali la procura di Roma imputa la spedizione dei verbali anonimi al consigliere Csm Nino Di Matteo nel febbraio 2021, successiva a quelle al Fatto Quotidiano nell'ottobre 2020 e a Repubblica nel 2021.

 Assoluzione piena per il pm milanese. Perché Paolo Storari è stato assolto, fine del calvario per il Pm milanese. Paolo Comi su Il Riformista l'8 Marzo 2022.  

Assolto perché il fatto non costituisce reato. Si è chiuso ieri, dunque, con una assoluzione con formula piena, il processo per rivelazione del segreto d’ufficio nei confronti del pm milanese Paolo Storari. Il gup di Brescia Federica Brugnara non ha ravvisato nessun profilo illecito nella condotta del magistrato. “È stata una battaglia veramente difficile e l’assoluzione è la decisione più corretta”, ha detto l’avvocato Paolo Della Sala, difensore di Storari, al termine dell’udienza. “La buona fede – ha aggiunto il difensore – era stata riconosciuta dalla stessa Procura. Spero che questa decisione ponga fine al calvario a cui Storari è stato sottoposto per aver fatto il proprio dovere dal suo punto di vista”. Il pm, dopo la lettura del dispositivo visibilmente commosso, era stato accusato di aver consegnato a Piercamillo Davigo i verbali delle dichiarazioni di Piero Amara sulla loggia Ungheria.

Ad aprile del 2020, trascorsi alcuni mesi dall’interrogatorio di Amara e vedendo che i propri capi, il procuratore Francesco Greco e la sua vice Laura Pedio, non erano intenzionati ad effettuare alcuna indagine per verificare se i nomi fatti da Amara appartenessero o meno alla P2 del terzo millennio, Storari aveva cercato una sponda in Davigo, allora componente del Csm. Davigo, anch’egli imputato per rivelazione del segreto ed il cui processo con rito ordinario inizierà il prossimo 20 aprile, aveva rassicurato Storari, dicendogli che avrebbe parlato della vicenda con i vertici di Palazzo dei Marescialli. Storari non si capacitava delle gestione di Amara: quando parlava delle mazzette che avrebbero preso i vertici dell’Eni era portato in palmo di mano, quando parlava di Ungheria non succedeva invece nulla. Eppure Pedio aveva scritto di Amara che “l’atteggiamento collaborativo ad oggi tenuto e la rilevanza del contenuto delle sue ampie dichiarazioni consentono fondatamente di ritenere che egli abbia rescisso i legami con l’ambiente criminale nel quale sono maturate le condotte illecite per le quali è indagato e che egli si sia effettivamente ravveduto rispetto a scelte devianti”.

“Quindi cosa capisco io? Ma se tutto questo è vero … possibile che noi non facciamo un atto istruttorio? Quando serve ce lo portiamo avanti … quando non serve, spostiamo, spostiamo, spostiamo….”, la replica di Storari, secondo cui quella di Amara era una “attendibilità a geometria variabile”. “A un certo punto mi sono accorto … di essere stato preso in giro più volte” dal “procuratore della Repubblica e due procuratori aggiunti, con cui lavoravo”, aveva poi aggiunto Storari alla giudice bresciana.

A oltre cinque mesi dalle prime dichiarazioni di Amara sulla Loggia, non c’era infatti traccia di atti investigativi o indagati, “neanche coloro che si autoaccusavano di queste cose”. Amara aveva fatto nomi pesantissimi di appartenenti alla loggia para massonica, accusati a vario titolo di aggiustare i processi e pilotare le nomine dei vertici degli uffici giudiziari. Storari, alla luce delle dichiarazioni di Amara, avrebbe voluto subito procedere, a differenza dei suoi capi, con i tabulati telefonici dell’ex presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, dell’ex vice presidente del Csm Michele Vietti, del numero uno di Autostrade Giancarlo Elia Valori, iscrivendoli per violazione della legge sulle società segrete.

Greco e Pedio si erano difesi dall’accusa di inerzia elencando una serie di attività che rientrerebbero nell’indagine sulla loggia. Ma Storari aveva smentito tutto, indicando data per data come erano andati i fatti. In particolare, il fascicolo, dal dicembre 2019 al gennaio 2021, prima di essere trasmesso per competenza a Roma e Perugia, non conteneva alcuna delega alla polizia giudiziaria, se non quelle da lui fatte per identificare i vari soggetti. In compenso erano indicati come atti di indagine gli incontri con i pm di Perugia, dove peraltro “non si è parlato di Ungheria”, le intercettazioni e le perquisizioni compiute nell’inchiesta sul “Falso complotto Eni”, i cui decreti erano finalizzati “a totalmente altro”, la trasmissione dei verbali a Greco, la rilettura degli stessi da parte di Amara, nonché la loro trascrizione. Senza voler accusare nessuno, aveva concluso Storari, “ho avuto l’impressione (…) che si è voluto gabellare per atti istruttori Ungheria robe che non c’entrano niente”. In attesa delle motivazioni del gup, è anche calato il sipario sulla loggia Ungheria, che andrà a far parte dei tanti misteri della Repubblica. Paolo Comi

Verbali Amara, il gup: «Lo scopo di Storari era solo segnalare al Csm fatti gravi». Ecco perché il pm milanese è stato assolto dal gup del tribunale di Brescia: «Piercamillo Davigo gli disse che poteva rivolgersi a lui». Simona Musco su Il Dubbio il 22 marzo 2022.

«Lo scopo perseguito da Storari nel rivolgersi a Davigo» era quello di «segnalare ciò che costituiva, secondo la sua versione dei fatti, una inerzia investigativa pericolosa posta in essere dal procuratore capo Greco e dalla dottoressa Pedio, in quanto relativa a fatti gravi, di rilievo sia penale che disciplinare, a carico o a danno ( anche) di componenti del Csm, al fine di valutare la necessità di “veicolare” tali informazioni al Csm tramite un interlocutore ritenuto istituzionalmente qualificato a riceverle, il quale si era impegnato a fare da “tramite” con il Comitato di Presidenza».

È quanto scrive il gup di Brescia, Federica Brugnara, nelle motivazioni con le quali ha assolto il sostituto procuratore di Milano Paolo Storari (difeso dall’avvocato Paolo Dalla Sala) dall’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio, per aver consegnato i verbali segreti dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Un’assoluzione che elimina ogni sospetto su eventuali altri scopi perseguiti da Storari nel percorrere una strada ritenuta «irrituale», ma non del tutto illegittima, alla luce delle famose circolari del 1994 e del 1995 più volte tirate in ballo da Davigo.

Il pm milanese non avrebbe avuto dunque l’intenzione – invece contestata a Davigo, per il quale il processo a Brescia inizierà ad aprile – di screditare Sebastiano Ardita, consigliere del Csm tirato in ballo da Amara nei suoi verbali come presunto appartenente alla loggia, ipotesi ritenuta «congetturale. Fu Davigo, infatti, ad informare altri membri del Csm, le sue segretarie e il presidente della Commissione antimafia Nicola Morra della sua presunta appartenenza ad una loggia, consigliando dunque di «prendere le distanze» da lui.

Secondo la giudice, Storari sarebbe incorso «in errore» su una norma extrapenale, ovvero in relazione ai poteri di inchiesta e di acquisizione delle informazioni coperte dal segreto da parte del Csm, che ha determinato «un errore sul fatto», essendo convinto «di rivelare informazioni segrete a soggetto deputato a conoscerle e pertanto di non commettere alcuna rivelazione illegittima, ma “autorizzata” e/ o addirittura dovuta».

Un errore «scusabile» in primo luogo per il ruolo di Davigo, componente del Csm ed ex presidente dell’Anm nonché giudice di Cassazione, che aveva «rassicurato l’imputato della insussistenza del segreto istruttorio». Cosa che, afferma la giudice, è «in astratto compatibile con quanto affermato nelle circolari, seppur in modo non del tutto chiaro e lineare» e si evince anche dalla decisione presa dal Csm in sede cautelare, che ha escluso, nel valutare la posizione di Storari, «una grave inosservanza delle norme regolamentari», alla luce «delle problematiche interpretative delle Circolari del 1994 e del 1995 e della ‘ interpretazione normativa di non piana soluzione”».

Storari, nel rivolgersi a Davigo, non ha fatto riferimento ad alcun magistrato il cui nome fosse contenuto nei verbali di Amara. E il fatto che poi Davigo abbia allertato diversi consiglieri del Csm «in ordine alla presunta appartenenza dei dottori Ardita (che sarà parte civile al processo, ndr) e Mancinetti alla c. d. Loggia Ungheria», non può valere, «in via retroattiva, quale interpretazione “autentica” delle finalità perseguite da Storari all’atto della consegna dei verbali. Né quest’ultimo può rispondere della condotta eventualmente posta in essere da altro soggetto in un momento successivo, in quanto non prevedibile e non sottoposta al suo dominio».

Qualunque fosse l’obiettivo di Davigo, Storari avrebbe agito nella convinzione di muoversi nell’alveo della legge, col fine di segnalare «una gestione delle indagini non del tutto appropriata» da parte di Greco e Pedio «e di comunicare al Csm il possibile coinvolgimento di magistrati ( anche appartenenti alla medesima istituzione) in fatti gravissimi, per le valutazioni di competenza». L’ex pm di Mani Pulite, dal canto suo, ha assicurato «che avrebbe fatto da suo tramite con il Comitato di presidenza».

Il fatto che poi abbia ritenuto di rivolgersi al procuratore generale della Cassazione per sollecitare le indagini, cosa non richiesta da Storari, «non può ripercuotersi sugli obiettivi, di diverso tipo (…), perseguiti dall’imputato». E anche se il pm milanese ha deciso di non seguire la via del plico riservato da inviare al Comitato di Presidenza del Csm, anche quanto riferito dal vice presidente David Ermini in ordine alla irricevibilità degli atti, «lumeggia certamente l’irritualità della strada seguita, non già l’insussistenza di competenza del Csm in ordine a quanto appreso. D’altronde lo stesso, proprio alla luce della gravità delle notizie, si determinava a riferirne il contenuto al Presidente della Repubblica».

Una versione, quella di Ermini, parzialmente contestata da Davigo, «ma sarà la sede dibattimentale, in relazione al reato per cui si procede separatamente, a colmare le lacune e le contraddizioni emerse, anche sulle finalità perseguite da Davigo nella consegna dei verbali allo stesso ed agli altri consiglieri».

DOPO L’ASSOLUZIONE DI STORARI. La maledizione dei verbali di Amara: tutti i filoni che agitano la procura di Milano. GIULIA MERLO su Il Domani il 07 marzo 2022

Dopo l’assoluzione di Storari, rimane in piedi il processo a Davigo con la stessa imputazione. Anche il Csm ha in corso diverse pratiche: un disciplinare contro Storari e una per incompatibilità ambientale

Il tribunale di Brescia ha assolto il pm milanese Paolo Storari dall’accusa di rivelazione d’ufficio, per aver consegnato all’allora consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, i verbali sull’esistenza della presunta loggia Ungheria. Il magistrato ha scelto il rito abbreviato, la procura aveva chiesto per lui una condanna a sei mesi. La motivazione sarà depositata in 15 giorni.

Sotto processo con la stessa imputazione rimane invece Davigo, che ha scelto il rito ordinario, e la prima udienza si svolgerà il 20 aprile.

La sentenza di assoluzione contro Storari solleva una sorta di conflitto interno anche a Brescia: il 10 gennaio era stata archiviata l’indagine sul procuratore capo di Milano, Francesco Greco, per l’ipotesi di omissione di atti d’ufficio proprio per la mancata iscrizione denunciata da Storari. 

Tuttavia, intorno ai vertici della procura di Milano continuano ad essere in corso una serie di procedimenti, penali ma anche di incompatibilità ambientale presso il Csm.

Sullo sfondo rimane la nomina, attesa entro fine mese, del nuovo procuratore capo, dopo il pensionamento di Francesco Greco nel novembre scorso.

LA VERSIONE DI STORARI E DAVIGO

Il processo che vedeva coindagati Davigo e Storari riguarda la condotta dei due nella gestione dei verbali sulla loggia Ungheria. Questi verbali erano stati resi dal legale esterno di Eni, Piero Amara, nell’ambito del processo Eni/Nigeria.

Storari, secondo quanto da lui stesso spiegato nell’interrogatorio al quale si è sottoposto durante l’udienza preliminare, ha spiegato di aver consegnato – nell’aprile 2020 – i verbali in formato word a Davigo per “autotutelarsi” in seguito a quella che lui riteneva una inerzia della procura di Milano nell’iscrivere la notizia di reato, anche dopo suoi solleciti.

Nelle tre ore di interrogatorio, Storari aveva sostenuto che la consegna dei verbali era lecita, perchè era stato rassicurato da Davigo sul fatto che «il segreto investigativo su di essi non era a lui opponibile in quanto componente del Csm». 

Invece, secondo la procura di Brescia, Storari avrebbe agito «al di fuori di ogni procedura formale», e «in assenza di una ragione d'ufficio che autorizzasse il disvelamento del contenuto di atti coperti dal segreto investigativo e senza investire i competenti organi istituzionali deputati alla vigilanza sull'attività degli uffici giudiziari».

Questa decisione, pur alleggerendo parzialmente la posizione di Davigo, non lo mette automaticamente al riparo da una possibile condanna.

Davigo, infatti, è imputato per aver «violato i doveri» legati alle sue funzioni e «abusato delle sue qualità» di consigliere, divulgando il contenuto dei verbali ad altri componenti del Csm, al consigliere giuridico di Sergio Mattarella per tramite del vicepresidente David Ermini e al presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra, “in modo «informale e senza alcuna ragione ufficiale». Non a caso nella sua difesa Storari aveva parlato di affidamento incolpevole nei confronti di Davigo.

In entrambi i processi è costituito parte civile il consigliere del Csm, Sebastiano Ardita, che si ritiene danneggiato dalla divulgazione illecita dei verbali, in cui è presente anche il suo nome.

I verbali, inoltre, dopo il pensionamento di Davigo sono stati trafugati dallo studio e inviati alle redazioni del Fatto Quotidiano e di Repubblica e poi al consigliere Nino Di Matteo, che li ha resi pubblici durante un plenum del Csm.

LA VERSIONE DI GRECO E PEDIO

A Brescia, però, emerge un contrasto forte. Accanto al processo a Davigo e Storari, infatti, si sono svolte due indagini specchio a carico dell’allora procuratore capo, Francesco Greco e della sua aggiunta, Laura Pedio.

Pedio era titolare con Storari del procedimento nel quale sono stati resi i verbali sulla loggia Ungheria ed è con lei e con Greco che Storari ha detto di aver avuto contrasti e mancate risposte sulla necessità di iscrivere la notizia di reato. Proprio per questi contrasti lui avrebbe consegnato a Davigo i verbali.

L’ex procuratore capo di Milano è stato indagato indagato per omissione e rifiuto d’atto d’ufficio in relazione alla mancata apertura di un fascicolo sulla presunta loggia Ungheria, ma il gip di Brescia ha deciso per l’archiviazione.

Secondo il Gip, infatti, Storari avrebbe agito per “frustrazione” perchè non poteva indagare sulla loggia e ha definito “manifestamente infondate” le accuse a carico di Greco.

Per il gip non c’è stato alcun ritardo nelle indagini sulla presunta loggia perché dalle rivelazioni di Amara era emerso un quadro troppo «fluido» per procedere con l’apertura di un fascicolo con una lista di indagati.

Inoltre, aveva sottolineato che non erano ancora chiare “le reali finalità, quantomeno improvvide” della consegna dei verbali da Storari a Davigo. Una valutazione che non è stata condivisa dal gup, che ha assolto Storari.

Ancora non si è chiuso, invece, il procedimento a carico di Laura Pedio, tutt’ora indagata per omissione di atti di ufficio per la vicenda della mancata iscrizione.

L’interrogativo, dunque, è se esista una condotta penalmente rilevante nei fatti che hanno riguardato i verbali di Amara e la Loggia Ungheria. L’assoluzione di Storari. infatti, rende lecito il passaggio di mano dei verbali, giustificato dal magistrato milanese con l’inerzia del suo ufficio. La precedente archiviazione di Greco, invece, sancisce la correttezza nell’agire della procura sull’iscrizione della notizia di reato.

LE RAGIONI DELLO SCONTRO: L’INCHIESTA ENI

All’origine dello scontro interno alla procura, però, c’è la gestione dell’indagine per il processo Eni/Nigeria nel suo filone principale. Anche queste condotte sono al vaglio dei magistrati di Brescia, che hanno aperto una ulteriore indagine nei confronti dei magistrati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, con l’ipotesi di rifiuto d’atti d’ufficio.

Secondo gli inquirenti, che hanno chiesto una proroga delle indagini, i due magistrati avrebbero omesso di mettere a disposizione delle difese e del Tribunale alcune prove sulla falsità delle accuse portate avanti dall’ex manager di Eni, Vincenzo Armanna, testimone chiave dell’accusa nel processo Eni/Nigeria. Inoltre, non sarebbe stato depositato anche un video tra Armanna e Amara in cui si parla di come calunniare i vertici Eni.

Proprio questo filone principale sarebbe collegato anche alle vicende che hanno visto contrapposti Storari e Davigo a Greco e Pedio. Secondo Storari, infatti, la ragione dietro la contrarietà di Pedio e Greco ad aprire tempestivamente un’inchiesta sulla presunta loggia Ungheria sarebbe stata di tutelare il processo principale Eni/Nigeria.

L’ipotesi, sempre negata dai vertici di Milano che hanno ribadito in tutte le sedi la correttezza del loro operato procedurale, sarebbe la seguente: dopo le dichiarazioni di Amara sulla loggia Ungheria le strade erano due. Se non lo si riteneva attendibile, si poteva indagarlo per calunnia, altrimenti si sarebbe dovuto aprire un fascicolo di indagine a carico dei presunti membri della loggia. Per circa sei mesi, però, la procura non ha aperto fascicoli.

Questo, secondo Storari, sarebbe servito a preservare integra l’attendibilità di Amara nel processo principale a Eni, che comunque si è concluso con l’assoluzione in primo grado dei vertici dell’azienda.

Secondo Greco, invece, l’iscrizione nel registro delle notizie di reato è avvenuto appena si è ritenuto che ci fossero sufficienti elementi per farlo, senza che altre inchieste influissero sulla decisione.

IL CSM

Tutt’ora in corso a Milano è anche un procedimento per incompatibilità ambientale, aperto dalla prima commissione dell Csm a carico di Storari e del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. 

Il Csm deve valutare se i magistrati possano rimanere a lavorare in quell’ufficio oppure se la vicenda della gestione del processo Eni possa turbare la serenità della procura e dunque debbano essere trasferiti. La decisione del Csm è attesa a settimane.

Storari, inoltre, è anche sotto procedimento disciplinare al Csm: le contestazioni solo di divulgazione dei verbali e di «comportamento gravemente scorretto» nei confronti di Greco e Pedio da lui accusati di immobilismo «omettendo, però, di comunicare a questi il proprio dissenso per la mancata iscrizione» di Amara, e di formalizzare con una lettera agli organi competenti il suo disappunto «circa le modalità di gestione delle indagini».

Storari si è difeso presentando memorie e non è stata accolta la richiesta del pg di cassazione – che sostiene l’accusa nei procedimenti disciplinari – di trasferimento cautelare da Milano e cambio di funzioni. Tuttavia, il procedimento disciplinare è ancora in corso. 

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

La sentenza. Caso Loggia Ungheria, assolto il pm Paolo Storari: sui verbali di Amara “il fatto non costituisce reato”. Redazione su Il Riformista il 7 Marzo 2022. 

Assoluzione. È il verdetto arrivato questa mattina per il pm di Milano Paolo Storari, come deciso dal gup di Brescia Federica Brugnara. Storari, accusato di rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali secretati di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria, è stato assolto al termine del processo celebrato con rito abbreviato con la formula “il fatto non costituire reato”. 

Al centro del processo c’erano i verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, che Storari consegnò nell’aprile 2020 al consigliere del Csm Piercamillo Davigo (ora in pensione, per lui il processo inizia il 20 aprile prossimo, ndr) per “autotutelarsi” dalla presunta inerzia dei vertici della procura di Milano guidata ai tempi da Francesco Greco ad indagare sulla cosiddetta loggia Ungheria.

Erano cinque i verbali coperti da segreto che Storari ha consegnato a Davigo, interrogatori resi da Amara tra il 6 dicembre 2019 e il 11 gennaio 2020, in cui l’ex avvocato esterno di Eni svelava proprio al pm milanese l’esistenza della presunta loggia Ungheria facendo nomi noti, tra cui quelli di alcuni magistrati.

Il giudice ha dunque respinto la richiesta della pubblica accusa, rappresentata dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi, che avevano chiesto la condanna a sei mesi di reclusione. Secondo l’accusa Storari aveva agito “al di fuori di ogni procedura formale”, “in assenza di una ragione d’ufficio che autorizzasse il disvelamento del contenuto di atti coperti dal segreto investigativo e senza investire i competenti organi istituzionali deputati alla vigilanza sull’attività degli uffici giudiziari”, si leggeva nell’avviso di conclusioni delle indagini. Le motivazioni saranno rese tra quindici giorni.

Per Paolo Della Sala, avvocato di Storari, visibilmente commosso dopo la lettura del dispositivo, si è trattato di una “battaglia veramente difficile e l’assoluzione è la decisione più corretta”.

“La buona fede era stata riconosciuta dalla stessa procura – ha aggiunto il legale del pm di Milano -. Spero che questa decisione ponga fine al calvario a cui Storari è stato sottoposto per aver fatto il proprio dovere dal suo punto di vista“.

Una decisione, quella odierna, che “ridà equità a un ambito che è stato anche forse un po’ strumentalizzato da una certa stampa”, ha rivendicato Della Sala. Il difensore ha ricordato, riferisce l’Ansa, come anche il Csm la scorsa estate aveva rigettato la richiesta di un provvedimento disciplinare di tipo cautelare nei confronti di Storari. A chi ha chiesto se sia la fine di un calvario e se sia stata riconosciuta la buona fede, il legale ha replicato: “Qualcosa di più. Qui c’è stata una assoluzione piena, nemmeno con un richiamo alla contraddittorietà della prova, il che vuol dire che sostanzialmente è priva di dubbi interpretativi“.

Con l’assoluzione di Storari, l’unico sotto processo per la vicenda della loggia Ungheria resta Piercamillo Davigo.

Il commento del direttore Sansonetti. Scontro Davigo, Ardita e Di Matteo, la guerra in magistratura: “Finiranno per arrestarsi tra loro”. Redazione su Il Riformista il 21 Febbraio 2022.  

Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista, commenta in merito allo scontro furioso tra Davigo, Ardita e Di Matteo sulla Loggia Ungheria.

Massimo Bordin, direttore di radio Radicale, una volta fede una battuta divertente: ‘Finiranno per arrestarsi tra di loro’. E si riferiva ai pm che arrestavano tutti. Mica si sbagliava tanto. Avete visto questa rissa furiosa che c’è adesso con Piercamillo Davigo? Davigo da una parte e Sebastiano Ardita dall’altra, Nino Di Matteo dall’altra ancora. David Ermini, il vicepresidente del Csm, soprattutto, è in scontro furioso con Davigo.

Sono uscite le indiscrezioni sull’udienza che c’è stata a Brescia in cui si è deciso il rinvio a giudizio di Davigo per aver diffuso questo materiale segreto, che erano poi le dichiarazioni dell’avvocato Amara che rivelano l’esistenza di quella che si chiamerebbe la ‘Loggia Ungheria’ e che sarebbe al vertice della magistratura italiana. Noi naturalmente non sappiamo se sia vero o no, siamo preoccupati perché se è vero significa che tutta la giustizia in Italia è clandestina e illegale. Ma anche se non è vero è la prova in ogni caso di questo scontro furibondo.

Davigo sostiene che la Loggia c’è e che dentro siano tutti suoi nemici. Attacca Ermini che peraltro era suo amico, andavano in vacanza insieme. Poi ci ha litigato perché Ermini non lo ha difeso dalla decisione del Csm di mandarlo in pensione. Ora Davigo lo accusa di cose gravissime. Dice che lui ha preso il materiale e non l’ha denunciato. Non solo, ma è andato da Sergio Mattarella a parlarne, quindi tira in ballo anche il capo dello Stato.

Si può anche ridere di questi magistrati che sembravano grandi autorità, ma fino a un certo punto. Perché vi rendete conto a chi è ancora in mano la magistratura? Sospetto che Luca Palamara abbia detto solo il 10% di quello che andava detto. Ogni giorno che passa e ogni volta che una notizia diventa ufficiale, capiamo che la magistratura è un luogo esclusivamente di potere, talvolta semplicemente di gioco di potere, che non ha nulla a che fare con la giustizia ma con le nostre vite. Questi hanno in mano le nostre vite e se le giocano a domino.

Traffico di influenze, l’ex avvocato Amara rinviato a giudizio a Roma. Il Dubbio il 24 febbraio 2022.  

L’ex legale esterno di Eni (lo stesso dei verbali sulla presunta "Loggia Ungheria") sarà anche sentito a Milano nell’ambito del “Falso complotto”.

L’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara è stato rinviato a giudizio dal gup di Roma per l’accusa di influenze illecite, assieme all’ex poliziotto Filippo Paradiso. Per i due il processo inizierà il 3 maggio 2023. I fatti risalgono al periodo compreso tra il 2015 e il 2018. Secondo l’accusa, Paradiso, «sfruttando e vantando relazioni con pubblici ufficiali in sevizio presso ambienti istituzionali si faceva indebitamente promettere e consegnare denaro o altre utilità indebite da Piero Amara come prezzo della propria mediazione».

Utilità consistite in somme di denaro per un valore non inferiore a 2mila euro e nella messa a disposizione di carte di credito per viaggi aerei, e di un appartamento a Trastevere, nel cuore della Capitale, per oltre un anno, di cui Amara aveva avuto la disponibilità. Reato aggravato, secondo i pm, per Paradiso nella sua qualità di pubblico ufficiale. Nell’udienza preliminare di ieri mattina, gli avvocati Salvino Mondello e Gianluca Tognozzi, difensori di Amara e Paradiso, avevano chiesto, oltre all’insussistenza del reato così come contestato, anche la trasmissione degli atti per competenza a Potenza ravvisando una connessione con l’inchiesta lì in corso. Il gup ha invece deciso per il rinvio a giudizio nella Capitale.

Amara, nelle prossime settimane, sarà anche interrogato dalla procura di Milano, che sentirà anche il suo collaboratore Giuseppe Calafiore, tra gli indagati nell’inchiesta sul cosiddetto “Falso complotto Eni”, chiusa lo scorso dicembre, dopo circa cinque anni di indagini. In quell’occasione è stata stralciata la posizione dell’ad della compagnia petrolifera Caludio Descalzi e del capo del personale Claudio Granata, ora parti offese per le calunnie contestate allo stesso Amara e all’ex manager del gruppo Vincenzo Armanna, grande accusatore dei vertici della compagnia nel processo sulla presunta tangente nigeriana, conclusosi con con 15 assoluzioni. I pm hanno convocato Calafiore il prossimo 28 febbraio e Amara l’11 marzo. Nell’ambito di questa vicenda è maturata la consegna dei verbali di Amara, al centro dello scontro tra toghe che ha fatto deflagrare la procura meneghina, caso sul quale la procura di Brescia sta ancora indagando e per il quale l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo è finito a processo.

Versioni opposte sui verbali di Amara. Loggia Ungheria, duro scontro tra Davigo ed Ermini: chi dei due mente? Paolo Comi su Il Riformista il 22 Febbraio 2022. 

Nel procedimento incardinato al tribunale di Brescia per la rivelazione del segreto circa la diffusione dei verbali delle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara sulla loggia Ungheria, uno fra Piercamillo Davigo ed il vice presidente del Csm David Ermini non dice la verità. Al momento questa è l’unica certezza in una vicenda che non ha molti precedenti nella storia Repubblica. I fatti sono noti.

Agli inizi del mese di aprile del 2020, il pm milanese Paolo Storari, dopo aver ultimato gli interrogatori di Amara insieme alla vice del procuratore Francesco Greco, Laura Pedio, percepisce che le indagini per verificare l’esistenza o meno della loggia Ungheria stanno battendo il passo. “Non bisognava toccare Amara”, racconterà poi Storari. Essendo in quel momento l’avvocato siciliano uno dei testimoni principali nel processo contro i vertici dell’Eni, accusati di corruzione internazionale, una sua eventuale incriminazione per calunnia, in caso si accertasse che la loggia non fosse mai esistita, avrebbe messo in grande difficoltà la Procura di Milano. Come il soldato Ryan, era allora fondamentale “preservarlo” da qualsiasi inciampo giudiziario.

Storari, già allievo prediletto di Ilda Boccassini, preso atto che il clima per fare indagini a Milano non era dei migliori, decide di consegnare i verbali delle dichiarazioni di Amara a Davigo, all’epoca potente consigliere del Csm. Lo scambio dei verbali avviene a Milano, fatto che radicherà la competenza a Brescia. Davigo, in particolare, avrebbe tranquillizzato Storari dicendogli di non preoccuparsi per la possibile violazione del segreto d’ufficio in considerazione della pendenza delle indagini. Il segreto, secondo Davigo, non valeva per i componenti del Csm. Una volta ricevuti i verbali, invece di informare il Comitato di presidenza, come prevede la circolare in caso di esistenza di contrasti negli uffici giudiziari, Davigo inizia un’opera di loro diffusione a tappeto a Palazzo dei Marescialli. Uno dei primi ad essere edotto del contenuto di questi verbali, con l’incarico di “custodirli”, è il giudice Giuseppe Marra, un suo fedelissimo ed esponente di Autonomia&indipendenza, entrato al Csm a seguito delle dimissioni dei consiglieri che avevano partecipato all’incontro dell’ hotel Champagne.

Poi viene il turno di Ilaria Pepe, altra davighiana – anche lei entrata al Csm come Marra – di Giuseppe Cascini, numero uno della sinistra giudiziaria, di David Ermini, e quindi di Fulvio Gigliotti, laico in quota M5s e relatore della sentenza con cui si decise la cacciata di Luca Palamara dalla magistratura. Davigo parla anche con Stefano Cavanna, laico della Lega, informandolo però solo dell’esistenza di una indagine sulla loggia dove era coinvolto il pm antimafia Sebastiano Ardita, suo ex amico e collega. Del contenuto dei verbali Davigo informerà in seguito il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (M5s) e, per non farsi mancare nulla, le funzionarie amministrative del Csm Giulia Befera e Marcella Contraffatto. Quest’ultima successivamente accusata di averli spediti alle redazioni del Fatto Quotidiano e di Repubblica. Le testimonianze di Davigo e di Ermini sono quelle maggiormente divergenti.

“Ho riflettuto a lungo se potevo fidarmi perché la provenienza politica era la stessa di Lotti”, racconta Davigo al giudice dell’udienza preliminare la scorsa settimana. “Un giorno mi abbracciò perché in tv avevo detto, come per il presidente Usa, che lui era anche il mio vicepresidente, anche se la sua elezione promana da Mi e Unicost, la sentina di Palamara. Riteneva che in qualche modo lo avessi legittimato E poi aveva preso le distanze da quel gruppo di potere, perché in una intercettazione Lotti diceva ‘Ermini è morto’ facendogli fare un figurone”, prosegue Davigo, riferendosi alle modalità che avevano portato ad ottobre del 2018 all’elezione dell’ex responsabile giustizia del Pd a vice di Sergio Mattarella. Ermini, sempre secondo Davigo, a maggio del 2020 si era fatto fare una sintesi dell’indagine milanese per poter informare il capo dello Stato. In un secondo momento il vice presidente del Csm avrebbe chiesto i verbali a Davigo. Ermini sarebbe rimasto “impressionato dai nomi” degli appartenenti alla loggia contenuti nei verbali e, “dopo averli presi li ha portati in uno stanzino che aveva dietro il suo ufficio”.

A distanza di due mesi da questo scambio, Ermini e Davigo andranno insieme alle terme di Merano. “Non era particolarmente turbato”, ricorda l’ex pm di Mani pulite, affermando anche che Mattarella gli avrebbe detto di ringraziarlo “per quanto fatto”, essendo le notizie avute sulla loggia “sufficienti”. Nulla di tutto ciò si sarebbe verificato per Ermini. Il vice presidente, ricevuti i verbali da Davigo, li aveva “immediatamente distrutti”. E sempre per Ermini, il presidente della Repubblica, ascoltando le notizie su Ungheria, sarebbe rimasto mummificato, “come una statua”, senza proferire verbo alcuno. Ermini, per la cronaca, fu determinante per la decadenza di Davigo il 20 ottobre 2020, giorno del settantesimo compleanno del magistrato, età massima per il trattenimento in servizio.

Fino a dieci giorni prima del voto del Plenum per il pensionamento di Davigo, i rapporti erano ottimi. Oltre ai bagni turchi alle terme di Merano, Ermini e Davigo infatti si frequentavano anche fuori dalla sala del Plenum. Durante una cena, Ermini avrebbe detto: “Oggi Piercamillo ha fatto il suo capolavoro: ha collocato a riposo il segretario generale (del Csm, ndr) e lui rimasto”. Dopo il voto del 20 ottobre “Ermini era molto dispiaciuto”, aggiunge comunque Davigo, prima di andare a ruota libera, svelando particolari inediti: “Io non volevo andare al Csm mi veniva il mal di stomaco alle 11 di mattina per le cose che vedevo”. Per sapere chi ha detto la verità fra Ermini e Davigo sarà necessario attendere il prossimo 20 aprile, giorno in cui si aprirà il dibattimento a Brescia. Paolo Comi

Storari svela il metodo Milano. Quelle trame sul processo Eni. Redazione il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'interrogatorio del pm a Brescia: "De Pasquale mi disse di tenere fermo il fascicolo sulla loggia Ungheria...".

Fu la Procura di Milano a permettere a Piero Amara, il grande calunniatore del caso Eni, di evitare il carcere e ottenere l'affidamento ai servizi sociali: per i pm milanesi Amara era sincero. E questa benedizione gli venne concessa perché salvare Amara serviva a ottenere la condanna dei vertici dell'Eni. Che questo fosse lo scenario lo si era ipotizzato. A dirlo esplicitamente, e quasi con crudezza, è nei suoi verbali il pm Paolo Storari, che Amara invece voleva incriminarlo insieme al suo complice di manovre Vincenzo Armanna.

Il 21 maggio 2021 Storari viene interrogato dalla Procura di Brescia che lo accusa di avere rivelato i verbali segreti di Amara a Piecamillo Davigo. E spiega così il suo stato d'animo, quando chiedeva invano ai suoi capi di scavare sulla loggia Ungheria di cui gli aveva parlato Amara: «Io non vengo manco considerato, un muro di gomma sui sbatto e ho sbattuto fino all'altro giorno». A essere inaccettabile per Storari è che intanto i verbali di Amara vengano usati contro il giudice del processo Eni: «Perchè quando si tratta di andare a verificare la bontà o la falsità delle dichiarazioni di Amara su Ungheria si sta fermi immobili e poi invece quando si tratta di utilizzare quelle medesime dichiarazioni provenienti dal medesimo soggetto lo si fa in serenità?».

Per smuovere le acque «prendo la decisione di parlare con un consigliere del Csm, non con un amico, io Davigo lo conosco ma lo conosco diciamo in via per Alessandra Dolci (capo del pool antimafia di Milano, ndr) con cui ho lavorato. Prima gli chiedo telefonicamente senti qua c'è uno che sta parlando di una loggia che è una cosa grave, Piercamillo (... ) poi sono andato due volte a casa sua. Gli chiedo: ma io Piercamillo di queste cose posso parlare con te? E lui mi dice sì Paolo io sono un consigliere del Csm a me questo segreto non è opponibile (...) allora vado a casa prendo la chiavetta con sopra i verbali e gli spiego (...) io ho fatto quello che dovevo fare in coscienza».

Su suggerimento di Davigo, Storari inizia a mettere le sue richieste per iscritto e un po' alla volta le cose si muovono. Ma intanto l'avvocato di Amara scrive alla procura di Milano segnalando che il 5 maggio il torbido ex legale di Eni doveva affrontare davanti al tribunale di sorveglianza di Roma un'udienza decisiva per evitare il carcere, e chiede che la Procura di Milano attesti «la effettività della condotta collaborativa dell'Amara rispetto alle indagini che lo vedono coinvolto», la «utilità e la rilevanza del contributo fornito». È un contributo, come è noto, farcito di falsità, Storari ha già scritto ai suoi capi che «Amara e Armanna sono due grandissimi calunniatori». Ma il 24 aprile la Procura dà il via libera, «Amara - viene messo per iscritto - è un soggetto che ha rescisso ogni legame con ambienti criminali». Grazie a quel riconoscimento l'avvocato siciliano ottiene l'affidamento ai servizi sociali.

Nel suo interrogatorio, Storari sostiene di avere chiesto ripetutamente conto ai suoi capi della «attendibilità a geometria variabile», per cui sulle rivelazioni di Amara su Ungheria non si indagava ma le si usava nel processo Eni. «Secondo me, allora ce la diciamo proprio tutta? Me ne assumo le mie responsabilità, ok? Dicembre 2019, Amara sta parlando di Ungheria, ho una interlocuzione col dottor De Pasquale che mi dice: questo fascicolo per due anni dobbiamo tenerlo nel cassetto». D'altronde «io sempre avuto non un buon rapporto con il dottor De Pasquale ci litigavo spesso, e a un certo punto mi sono fatto un file sul mio computer in cui mi segnavo le porcherie che faceva». E perché De Pasquale avrebbe avuto interesse a tenerlo due anni nel cassetto? «Non bisognava disturbare il processo Eni-Nigeria. Se noi avessimo avuto la prova che Amara e Armanna dicevano delle palle le chiamate in correità di quel processo Eni-Nigeria finivano e questo non poteva essere consentito. Adesso forse può capire la condizione in cui mi sono trovato, una roba del genere a me non è stata detta mai in tutta la vita (...) questa è una vergogna (..) se si fosse scoperto che Armanna e Amara erano due calunniatori questo voleva dire la morte di quel processo che la Procura di Milano non poteva e doveva perdere».

Più che un interrogatorio quello di Storari diventa uno sfogo «non volevo dargliela vinta, mi sono battuto fino alla fine, in pieno Covid andavo in giro come un coglione da solo per l'Italia cercando riscontri e smentite» perchè «siamo di fronte a un fascicolo in grado di far cadere il paese, ci sono i massimi vertici delle forze dell'ordine, i componenti del Csm». Morale: «Io sono veramente convinto che questa roba è stata gestita una merda».

Giacomo Amadori per “La Verità” il 9 febbraio 2022.

Le incontenibili dichiarazioni, che appaiono sempre meno credibili, del faccendiere Piero Amara hanno mandato in tilt il gotha della magistratura italiana. L'avvocato siracusano per un mesetto, tra dicembre 2019 e gennaio 2020, ha riempito con le sue confessioni sulla fantomatica loggia Ungheria sei verbali della Procura di Milano. I suoi resoconti hanno prima creato un cortocircuito tra i magistrati meneghini, tanto che il pm Paolo Storari a causa della presunta «inerzia investigativa» attuata dai suoi superiori, decise di consegnare sottobanco i verbali di Amara all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo.

Quest' ultimo con quelle carte in mano ha iniziato a rendere partecipi molti colleghi del contenuto di quei verbali riservati e a spingere per un'accelerazione delle indagini. Il telefono senza fili è arrivato, attraverso il vicepresidente del Csm David Ermini su su sino al Quirinale. 

E mentre Davigo diffondeva il verbo di Amara, molte toghe venivano inzaccherate da quelle propalazioni tanto da rendere necessaria una riunione informale del Csm con uno degli «accusati», il consigliere Sebastiano Ardita, sottoposto a una specie di surreale processo basato sul nulla. 

Ma dopo che gli inquirenti milanesi avevano dato credito ad Amara e avevano sottoposto le sue chiacchiere all'attenzione della Procura di Brescia nel tentativo di disarcionare il presidente della Corte che stava giudicando i vertici dell'Eni, quell'arma non convenzionale si è rivoltata contro chi l'aveva maneggiata forse con troppa disinvoltura. E così sono andati a processo per rivelazione di segreto Davigo e Storari, mentre chi aveva cercato di usare Amara contro l'Eni è finito sotto accusa per rifiuto di atti d'ufficio, come il procuratore aggiunto Fabio de Pasquale.

Nel frattempo Amara e altri suoi sodali sono stati iscritti per calunnia. È di queste ore l'avviso di chiusura delle indagini per le accuse rivolte all'ex consigliere del Csm Marco Mancinetti, uno dei colleghi di cui Davigo sembrava particolarmente ansioso di conoscere le magagne. 

 Ma il vero duello da mezzogiorno di fuoco è stato quello tra l'ex procuratore di Milano Francesco Greco, prosciolto dalle accuse di omissione di atti d'ufficio, e un altro pezzo da 90 della magistratura, il compagno di corrente (sono entrambi di Magistratura democratica) Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, una delle toghe che fanno parte del ristrettissimo comitato di presidenza del Csm. Gli occhi, le orecchie e la voce del Quirinale a Palazzo dei marescialli. Salvi ha assicurato ai pm di aver contribuito, sollecitando Greco, alle iscrizioni di Amara & C. nel procedimento milanese per la violazione della legge sulle associazioni segrete.

L'ex procuratore meneghino ha negato tutto. Il Pg ha raccontato quello che fece dopo aver parlato con Davigo: «Chiamai al telefono il procuratore Greco per avere da lui chiarimenti su quello che stava accadendo. 

Greco, sia al telefono sia in un incontro successivo avvenuto presso il mio ufficio il 16 giugno 2020, mi spiegò che in realtà non vi era stata da parte loro alcuna inerzia e che anzi le indagini erano proseguite, sia pure rallentate dal lockdown».

A questo punto i magistrati di Brescia chiedono se la prima telefonata a Greco si collochi temporalmente tra l'incontro con Davigo del 4 maggio e le iscrizioni di Amara & C. del 12 maggio. Salvi risponde che «è verosimile», lasciando intendere di aver favorito quell'atto investigativo. 

Quando gli inquirenti hanno insistito e gli hanno domandato se avesse stimolato le iscrizioni, il Pg ha replicato: «A me interessava in particolare che il procedimento seguisse alacremente il suo corso e ricordo di avere più che altro sollecitato che le indagini venissero condotte con un certo ritmo. Abbiamo parlato delle iscrizioni e Greco mi ha risposto nei termini sopra riportati; io mi sono tranquillizzato nel momento in cui mi ha detto che le indagini comunque non erano ferme».

 La versione di Greco è del tutto diversa e nella sua memoria c'è un capitolo dedicato proprio alla «questione Salvi». Dove si legge: «Sia nella eventuale telefonata [] sia nell'incontro del 16 giugno Salvi non mi ha mai parlato di Davigo e di Storari né tantomeno di contrasti o indagini». 

Al contrario il Pg aveva affermato: «È possibile che abbia fatto riferimento a Davigo come fonte delle mie informazioni, ma non ne sono sicuro».Secondo Greco, il collega era interessato più che a dare un'accelerata all'inchiesta, «ad avere ulteriori documenti su Mancinetti» e per questo aveva affermato «genericamente che circolava voce di una indagine delicata che stavamo conducendo a Milano su diversi magistrati».

Lo stesso Greco si sarebbe impegnato «a mandare quello che avevano» sul consigliere. Alla fine della memoria l'ex procuratore di Milano si sfoga: «Purtroppo, siamo stati vittime di uno sconcertante episodio di inquinamento probatorio che ha sicuramente danneggiato ben due delicatissime indagini».A Brescia, di fronte al collega Prete, vedendo tra le fonti di prova contro di lui proprio le dichiarazioni del Pg, Greco ha rincarato la dose: «Ho letto questa cosa sul capo d'imputazione, ma e totalmente infondata e ripeto se Salvi ha detto il contrario... se ha detto che mi ha chiesto di accelerare l'indagine, di fare le iscrizioni, che Davigo compulsava o Storari si lamentava se ne assumerà la responsabilità».

Il procuratore Prete, durante le indagini, ha convocato come testimoni coloro i quali erano stati informati dell'esistenza dei verbali sulla loggia o, addirittura, li avevano visionati. Il consigliere Giuseppe Cascini ha ricordato come ne fu informato: «La prima volta che me ne parlo, mi chiese quale fosse la mia opinione su Amara, avendolo io indagato quando ero alla Procura di Roma. 

In pratica, voleva la mia opinione sull'attendibilità del dichiarante». Era come se Davigo stesse effettuando delle indagini parallele. Per Cascini le accuse del faccendiere erano più o meno carta straccia, anche se in passato aveva ritenuto che «difficilmente diceva cose non vere o non verificabili»: «Quando poi ho letto i verbali, mi sono stupito perché ho ritrovato dichiarazioni che non rispecchiavano la persona che io ricordavo nelle mie indagini.

Avevo infatti tratto l'impressione che fornisse elementi generici e un po' enfatizzati che non corrispondevano a questa mia valutazione sul personaggio». E Davigo riteneva fondate le accuse di Amara? «Devo dire di aver tratto l'impressione che egli credesse a quelle dichiarazioni». Cascini ha anche ammesso di aver sùbito compreso, vedendo le copie dei verbali, che «si trattava di materiale riservato». 

E ha aggiunto: «Poiché Davigo mi aveva chiesto un'opinione sul da farsi, ricordo di avergli detto che, trattandosi di materiale informale, ricevuto per vie non ufficiali, noi non avremmo potuto farci nulla». Come detto, Davigo era particolarmente interessato alla posizione di possibile affiliato della loggia dell'allora compagno di corrente Ardita. Peccato che, a giudicare dalle parole del consigliere Nino Di Matteo, fosse in conflitto di interessi.

L'ex pm palermitano ha, infatti, riferito a Brescia quanto accaduto appena un mese e mezzo prima della diffusione dei verbali, in occasione dell'elezione del procuratore di Roma Michele Prestipino. Di Matteo e Ardita erano contrari a quella candidatura. Il primo però non era organico alla corrente di Autonomia e indipendenza, il secondo sì. 

Appartenenza che espose Ardita alla furia di Davigo: «Nel corso della riunione, quando io e Ardita confermammo che non avremmo votato per Prestipino, Davigo alzo la voce in maniera molto decisa contro Ardita [] si scaglio violentemente contro [] ebbe una reazione furibonda e con un tono di voce alterato disse chiaramente ad Ardita, ripetendolo più volte, che se avesse votato per Creazzo "sarebbe stato automaticamente fuori dal gruppo"». Secondo Di Matteo gridò anche: «Tu mi nascondi qualcosa».

Un'accusa che, accompagnata ai «toni rabbiosi», ha portato il sostituto procuratore della Trattativa Stato-mafia a sospettare che, già a fine febbraio del 2020, Davigo «potesse essere stato messo a conoscenza di quanto dichiarato dall'avvocato Amara». 

Piercamillo a Brescia ha raccontato di aver avvicinato, con i suoi verbali sotto braccio, anche il vicepresidente del Csm: «lo ho pensato a lungo se potevo fidarmi di Ermini, ma ho concluso di poterlo fare». Il motivo? In un'intercettazione di Palamara & C. era stato indicato come «"morto" per essersi rifiutato di assecondare una qualche richiesta che gli era stata formulata». 

Ecco così che Davigo ha portato all'ex parlamentare Pd una copia degli atti milanesi e l'avvocato toscano li avrebbe schivati, come in una partita di palla avvelenata: «Ero molto in difficoltà e non avevo alcuna voglia di leggere quelle carte perché consegnate in modo irricevibile e totalmente inutilizzabile []. Appena uscito Davigo, presi la cartellina che mi aveva lasciato sul tavolo e, per i motivi sopra indicati [] la cestinai. Voglio sottolineare che io quei verbali non li ho mai voluti leggere e li buttai nel cestino senza aver preso conoscenza del loro contenuto».

Anche al consigliere Giuseppe Marra era stata affidata una copia delle dichiarazioni: «Davigo mi disse: "Ti ho lasciato i verbali sulla scrivania", senza aggiungere altro. Quando tornai in ufficio, trovai una cartellina contenente i verbali di Amara. [] Dopo qualche settimana li ho strappati». 

Pure la collega Ilaria Pepe si era tirata indietro: «Perché non ho voluto leggere i verbali? Mi sentivo coinvolta in qualcosa di più grande di me». Qualcosa di cui al Csm si parlava in modo carbonaro.Come ha specificato Marra e non solo lui: «Preciso che al telefono con Davigo non si poteva parlare di questa vicenda». E anche quando i due andarono a pranzo in un chioschetto a pochi metri dal Csm ebbero «l'accortezza di lasciare i cellulari in ufficio di modo da avere un dialogo piu libero». Pure Cascini ha spiegato di essere stato invitato «a parlarne in cortile e senza telefoni». 

Ermini ha raccontato lo stesso film e cioè che Piercamillo gli aveva chiesto di conferire «riservatamente», «lasciando i telefoni in stanza proprio perché la questione era molto delicata». 

Davigo ha confermato di averlo fatto perché temeva «intercettazioni illegali». Non è chiaro da parte di chi. Greco alla fine della sua memoria ha scritto: «Non ho contezza di denunzie nel rispetto dell'articolo 331 del codice di procedura penale (quello che obbliga il pubblico ufficiale a denunciare le notizie di reato, ndr) da parte di coloro che hanno visto i verbali». Come dire: nessuno ha riferito all'autorità giudiziaria di aver visto Davigo mettere in piazza documenti coperti da segreto. 

Gran parte dei consiglieri si è difesa dall'accusa sostenendo che Storari fosse autorizzato da una vecchia circolare a riferire ai consiglieri del Csm notizie di indagini su magistrati anche in fase istruttoria. 

Ma il procuratore di Brescia Prete ha dovuto spiegare a più d'uno il contenuto della norma come si fa con gli studenti del primo anno di Legge, anche se quelli di fronte a lui erano la crème de la crème della magistratura, e cioè che la circolare prevede che il pm possa comunicare con il Csm solo a iscrizioni avvenute. Il consigliere Stefano Cavanna ha ammesso: «Certamente il fine (di Davigo, ndr) non era istituzionale o comunque collegato alle sue funzioni di consigliere».

Ma l'ex pm del Pool di Mani pulite avrebbe tranquillizzato alcuni colleghi titubanti dicendo di «averne parlato prima con Ermini e poi con Salvi aggiungendo che Ermini aveva riferito la vicenda al Quirinale» 

Cascini, sentendo puzza di bruciato, si è giustificato davanti al procuratore Prete sostenendo che quando Davigo gli aveva parlato delle dichiarazioni di Amara non si sentiva un pubblico ufficiale: «Era chiaro a tutti e due che non ricevevo quelle informazioni nell'esercizio delle mie funzioni. La ritenni infatti una confidenza tra colleghi». 

Deve averla pensata allo stesso anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Infatti a Brescia Ermini ha spiegato: «Mi recai al Quirinale, saltando il consigliere giuridico. Parlai personalmente al Presidente di varie questioni e lo informai anche di quanto Davigo mi aveva raccontato. Il Presidente mi ascolto senza fare commenti». Tutti zitti e buoni per dirla con i Maneskin.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 10 febbraio 2022.

Si danno del tu, si scambiano tonnellate di whatsapp, si indignano quando le cose non vanno per il verso giusto, concordano le interviste, si creano alibi. Uno è Vincenzo Armanna, ex avvocato dell'Eni, già teste d'accusa nel processo ai vertici del gruppo, ora imputato di calunnia e indagato per complotto. 

 L'altro è il giornalista di Report che lo intervista per la trasmissione di Sigfrido Ranucci che il 15 aprile 2019 manda in onda una superinchiesta contro le malefatte dei vertici Eni. L'intervista ad Armanna è il piatto forte della puntata. Allora l'avvocato siciliano non è ancora finito nei guai, e le sue rivelazioni sugli affari oscuri del cane a sei zampe fanno un botto di share.

Ma ora la Procura di Milano ha depositato, nello sterminato materiale dell'indagine sul complotto contro Eni, anche i messaggi che Armanna e il giornalista si scambiano tra il 7 febbraio 2018 e l'8 dicembre 2019. Centinaia di messaggi che raccontano bene il backstage non solo dell'intervista ad Armanna ma dell'intero «sistema Report»: e che vengono alla luce proprio quando la trasmissione di Ranucci è accusata da membri della commissione di vigilanza Rai di metodi non ortodossi. 

Armanna ne emerge non come un intervistato ma come una sorta di consulente del programma. È lui, il mestatore del caso Eni, a indicare al giornalista le domande da porre, a indicargli le piste da seguire, persino a fornire i numeri di telefono. Tutto all'interno di un suo piano ben noto al giornalista: «Credo di averti detto quale fosse il mio interesse», gli scrive Armanna il 23 luglio, «non ti ho preso in giro».

L'analisi delle chat è contenuta nel rapporto che il 14 gennaio 2021 la Guardia di finanza invia ai pm milanesi dopo avere analizzato l'iPhone sequestrato ad Armanna. Nelle chat a ridosso della puntata di Report «si evince chiaramente che il giornalista sospetti un accordo tra Amara e lo stesso Armanna per fregare Granata (Claudio Granata, potente capo del personale Eni, ndr). 

"Buongiorno, ma non è che tu e Amara vi siete messi d'accordo per fregare Granata? Le vostre interviste sono fin troppo uguali". A tale affermazione Armanna risponde negando qualsiasi coinvolgimento con Amara (...) Come è noto, nonostante la perplessità del giornalista, il servizio va in onda il giorno 15.4.2019».

In più di un passaggio, reporter e «gola profonda» appaiono schierati dalla stessa parte: quella che punta alla condanna dei vertici Eni. Il 30 ottobre l'inviato di Report si infuria per una decisione del presidente del tribunale: «Ma scusa hanno bocciato la richiesta di sentire il vero Victor (presunto 007 nigeriano, ndr)? Ma siamo matti?». Gli risponde sullo stesso tono Armanna: «Comunque il presidente è venduto proprio, riusciremmo a farlo sentire lo stesso ma è proprio a favore di Eni il presidente... Pazzesco». 

Armanna tiene al corrente il giornalista di tutte le sue mosse giudiziarie, gli preannuncia le convocazioni in Procura, «sto andando dalla Pedio», gli dà le chiavi di lettura: «Posso dire che Granata è il braccio destro di Descalzi?» «Sì certo, è l'unico di cui si fida». Il top viene raggiunto la notte del 23 luglio. Armanna è stato appena colto in castagna a mentire ai giudici su un dettaglio chiave, la data della sua conoscenza con Amara. 

E chiede aiuto al giornalista per crearsi una spiegazione credibile: «A me basterebbe dire che tu mi facesti domande su quel documento e che ti confermai incontro e che sapevo fosse luglio (...) posso dirlo?». «Valuta tu. È vero che te ne ho parlato e chiesto di quel documento» «Posso dire che me lo girasti»? «Non è il massimo». «Solo se mi costringono a farlo dirò che ne ero a conoscenza perché mi chiedesti spiegazioni». «Ok». «È fondamentale per la mia credibilità».

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” l'11 febbraio 2022.

Prima dell'inizio nel marzo 2021 del processo abbreviato d'Appello ai coimputati del processo Eni-Nigeria Emeka Obi e Gianluca di Nardo (assolti in giugno su richiesta stessa del sostituto pg Celestina Gravina molto critica con i pm del primo grado), il procuratore di Milano, Francesco Greco, prospettò al procuratore generale Francesca Nanni l'inopportunità a suo avviso che a rappresentare l'accusa fosse Gravina, ritenuta non in sintonia con la linea del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale titolare del primo grado concluso con la condanna a 4 anni e 100 milioni di confisca.

Lo ha riferito Nanni al Csm, aggiungendo che mai le fu avanzata formale richiesta di applicazione in Appello di De Pasquale, mentre conserva invece copia di una segnalazione (mostratale da Greco) in cui De Pasquale lamentava la designazione di Gravina benché non facesse parte del gruppo «pubblica amministrazione» previsto da criteri interni.

Nanni dice che confermò Gravina (indicata dalla precedente dirigente Nunzia Gatto) dopo aver verificato corrispondesse alla prassi, se non a precisi criteri, affidare processi in comune ai pg dei due gruppi «affari economici» e «pubblica amministrazione».

Processo Eni, le intercettazioni in onda da Giletti: «Una valanga di m...» A «Non è l’Arena» su La7 un filmato in cui si pianifica la bufera sui vertici Eni. CorriereTv il 13 Febbraio 2022.

Un video risalente al 18 dicembre 2014, registrato nello studio dell’imprenditore Ezio Bigotti, mostrato domenica sera da Massimo Giletti a «Non è l’Arena» su La7. Nel filmato (qui l’articolo apparso sul Corriere a giugno) si sentono l’avvocato Piero Amara e Vincenzo Armanna parlare della bufera in arrivo sui vertici Eni, come se la stessero pianificando: «Arriverà una valanga di m...».

La domanda che si pone Giletti è: «Come mai questi documenti che avrebbero scagionato i vertici Eni sono stati tenuti segreti dai magistrati?»

Caso Eni, Giletti mostra i video nascosti alle difese. Per questa vicenda i pm De Pasquale e Spadaro sono indagati a Brescia. Il Dubbio il 13 febbraio 2022.

Nella puntata di questa sera alle 21.15 di Non è l’Arena, Massimo Giletti mostra i video girati in maniera clandestina da Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza di una fantomatica loggia denominata “Ungheria”, che testimonia un fatto clamoroso: la volontà di Vincenzo Armanna, grande accusatore nel processo per le presunte tangenti nell’affare Opl245, di ricattare i vertici Eni, per gettare su di loro «valanghe di merda» e avviare una devastante campagna mediatica.

Di questa notizia vi avevamo già parlato qui . Per questo motivo, i pm che hanno rappresentato l’accusa al processo, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati, sono indagati con l’ipotesi di rifiuto d’atti d’ufficio. Si tratta del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e del sostituto Sergio Spadaro, ora in forza alla procura europea.

R.C. per il "Corriere della Sera" il 14 febbraio 2022.

Un filmato registrato in modo clandestino nel luglio del 2014. Protagonisti l'avvocato Piero Amara e il dirigente Vincenzo Armanna, fra i principali testimoni d'accusa nel processo Eni-Nigeria per corruzione internazionale. Dalla videoregistrazione, effettuata nello studio dell'imprenditore Ezio Bigotti e mandata in onda ieri da Massimo Giletti a «Non è l'Arena» su La7, sembra emergere un piano per ricattare i vertici della società petrolifera preannunciando l'intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare «una valanga di m... che tu non ne hai idea» ad alcuni dirigenti apicali della compagnia.

Si sentono Armanna e Amara, più volte indagato e condannato e al centro a Milano di aspre diversità di vedute tra il pm sulla sua attendibilità, parlare della bufera in arrivo ai vertici dell'Eni. Questo video, come sostennero durante il processo le difese nel 2020 una volta che lo avevano trovato per caso in un altro procedimento, avrebbe costituito una prova rilevante a discarico degli imputati poi del processo. Ma la Procura di Milano, che ne era in possesso, lo avrebbe celato al Tribunale.

La vicenda era stata rimarcata dai giudici del processo Eni-Nigeria, che nelle motivazioni della sentenza di assoluzione avevano censurato i pm del processo: «Risulta incomprensibile la scelta del pm di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l'uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell'auspicata conseguente attivazione dell'autorità inquirente, ha straordinari elementi in favore degli imputati - scrissero i giudici-. Una simile decisione processuale avrebbe avuto quale effetto la sottrazione alla conoscenza delle difese e del Tribunale di un dato processuale di estrema rilevanza».

Secondo il Tribunale, dalla videoregistrazione si capisce che Armanna «aveva interesse a "cambiare i capi della Nigeria" (in Eni) per sostituirli con uomini di suo gradimento ed essere così agevolato negli affari petroliferi che aveva in tandem con Amara». La domanda di Giletti è una sola: «Come mai questi documenti sono stati tenuti segreti dai magistrati?».

Fabio Amendolara per "la Verità" il 14 febbraio 2022.

Le prassi mai codificate del rito ambrosiano, in vigore nella Procura più a sinistra d'Italia, ovvero quella di Milano, procedure che in altre zone d'Italia manderebbero sulle barricate gli avvocati, sono state riassunte per la prima volta in un verbale d'interrogatorio firmato lo scorso 19 maggio dal pm Paolo Storari, indagato per rivelazione del segreto d'ufficio dopo aver maneggiato il fascicolo sulla loggia Ungheria. La storia che Storari prospetta al procuratore di Brescia Francesco Prete parte dalle indagini sul complotto Eni e dalle ritrattazioni di Vincenzo Armanna.

E passa per le verità dell'avvocato Piero Amara, arrivato in Procura a Milano per confermare la ritrattazione di Armanna e finito a svelare l'esistenza della loggia Ungheria. Sono i primi giorni del mese di dicembre del 2019, quando, dopo l'ennesimo verbale riempito da Amara, Storari segnala alla collega, procuratore aggiunto, Laura Pedio, la necessità di affidare alcune deleghe per identificare le persone che l'avvocato siracusano indicava come appartenenti alla loggia. La comunicazione alla collega, però, stando al racconto di Storari, sarebbe caduta nel nulla: «Mai risposto».

«Ma questo», annuncia, «è un cinquantesimo di quanto ho vissuto». Storari parte da un assunto: c'erano delle dichiarazioni da approfondire. E mostra un articolo della Verità sulle chat di Luca Palamara, dalle quali era emerso che l'ex consigliere del Csm Marco Mancinetti avrebbe brigato per ottenere le tracce del test di Medicina per suo figlio. «Noi», spiega Storari, «avevamo dichiarazioni di Amara che diceva esattamente questo». Il pm sembra ragionare tra sé: «Come per dire... guarda che forse qualche riscontro fesso fesso iniziamo ad averlo... dobbiamo fare qualcosa».

Ma anche in questo caso, lamenta la toga, «non ho mai ricevuto risposta [...] io non vengo manco considerato... un muro di gomma...». Non è finita. Arriva febbraio 2020. Storari interroga Giuseppe Calafiore, l'uomo un tempo più vicino ad Amara. «Gli viene fatta una domanda», spiega Storari, «esiste Ungheria? «Sì esiste ungheria», questa è la risposta [...] abbiamo già due soggetti che si autoaccusano e a tre mesi circa dalle dichiarazioni non si iscrive nessuno... non si fa nulla».

Ma Storari comincia a tremare quando Armanna si presenta in Procura con una foto del primo verbale di Amara sulla loggia: «Iniziano le fughe di notizie...», dice. E spiega come avrebbe agito se avesse potuto farlo a modo suo: «Il tempo non gioca a nostro favore...queste robe son da fare in un mese... giorno e notte». E siccome «questi», argomenta Storari riferendosi ai suoi capi, «si sono infrattati il fascicolo per cinque mesi», aggiungendo, «mi perdoni dottor Prete, non c'è un atto istruttorio per un anno e mezzo», comincia a preoccuparsi non poco.

«Questo (riferito ad Amara, ndr) ha cominciato a parlare a dicembre 2019, il fascicolo è andato a Perugia, con quattro sit schifose, a gennaio 2021. Le sembra una cosa ammissibile con quelle dichiarazioni?». A quel punto si è chiesto: «Ma scusate, non è che dopo ci vado di mezzo io alle mancate iscrizioni?». E ha deciso di parlare con Piercamillo Davigo, all'epoca consigliere del Csm. Il procuratore Prete gli spiega che «di fronte a una situazione del genere aveva delle strade possibili da percorrere... la prima: rinuncio alla coassegnazione... la seconda: riferisco al procuratore generale perché eserciti i poteri di vigilanza... la terza... investo il Csm ufficialmente... perché lei sceglie una quarta informale, irrituale... forze illegittima... Perché?».

Storari risponde: «Io a Greco (il capo della Procura di Milano, prosciolto dalle accuse, ndr) l'ho detto e la risposta che ho avuto [...] «ti faccio il procedimento disciplinare»... seconda cosa, non lo dico a Greco perché è la stessa persona che mi ha detto "teniamo questo fermo"». Inoltre, «il procuratore generale in quel momento non c'era». E spiega anche perché non ha scelto di rinunciare al fascicolo: «Non volevo dargliela vinta e lasciarli da soli. Io ho sempre cercato di portare avanti questo fascicolo... In pieno Covid andavo in giro come un coglione, da solo, per l'Italia... cercando riscontri e smentite».

Poi si sfoga: «E l'unica volta, cazzo, in cui mi sono permesso di dire facciamo i tabulati, questi mi volevano aprire un disciplinare... di fronte a un fascicolo di questa portata. Non stiamo parlando di una truffa alle assicurazioni... stiamo parlando di robe devastanti per il Paese... e gliel'ho detto 200 volte... facciamo veloce che ci esplode tra le mani... e così è successo. Ma non per colpa mia. Perché è rimasto un anno e due mesi nel cassetto». 

Quando Prete gli chiede lumi sulla competenza territoriale, Storari scatta: «Ma ha visto chi c'è in questa loggia? Asseritamente chi ne fa parte? Il dottor Luigi De Ficchy. Cosa faceva? Il procuratore di Perugia. Allora... Perugia poteva essere competente? Dottor Prete lo chiedo a lei?». Prete all'improvviso, per un attimo, deve essersi trovato in una situazione scomoda, a ruoli invertiti. E bofonchia: «Ma io...». Storari lo toglie dall'imbarazzo: «Mi perdoni... la mia domanda è retorica ovviamente».

Ma rilancia: «E allora di che cosa stiamo parlando? Roma non è competente perché ci sono due aggiunti... ma nemmeno Perugia perché c'è De Ficchy. Perché se vogliamo proprio fare i precisini sulla competenza li facciamo... neanche Perugia è competente e sa qual è il grande stratagemma trovato per mandarla a Perugia? Grande, fantasioso... si separa De Ficchy, si manda a Firenze... e tutto il resto si manda a Perugia».

Con questo principio avrebbero dovuto spacchettare e inviare fascicoli per mezza Italia con le posizioni di tutte le toghe citate da Amara. «A fine agosto», ricorda Storari, «si decide: va a Perugia, punto. Con quel mastruzzo di De Ficchy [...] da settembre altri quattro mesi questo fascicolo rimane fermo». A gennaio 2021 cominciano le riunioni a Perugia. Ma Storari le vede così: «Scusate... che qui si sta vendendo fumo... sì, facciamo le riunioni... vediamo gente... questo ha iniziato a parlare a dicembre 2019... e siamo di fronte a un fascicolo in grado di far cadere il Paese. Lì dentro ci sono i massimi vertici delle forze dell'ordine, componenti del Csm... prelati... questa roba è stata gestita una merda...».

Storari non le risparmia anche alla Pedio, per un documento inviato al Tribunale di Sorveglianza di Roma: «E poi quella scrive... «ha fornito ampia collaborazione (riferendosi ad Amara, ndr)»... e poi non fa un cazzo... è questo che mi dà fastidio». A Brescia però a un certo punto devono avere avuto l'impressione che qualche indagine, invece, era stata compiuta. 

Ma Storari precisa: «Ho l'impressione, ma posso sbagliarmi, che vi hanno venduto delle attività di un altro procedimento (indicando intercettazioni che riguardavano personaggi citati da Amara, ma provenienti da un altro fascicolo, ndr). Voi dovreste essere in grado di vedere se quello che loro dicono di aver fatto si riferisce o meno a Ungheria, perché se non si riferisce a quello è l'ennesima truffa che vi stan facendo».

Amara, pentito a orologeria: «Credibile solo se faceva comodo nel processo contro Eni». Nelle dichiarazioni di Storari al gup di Brescia il caso delle accuse dell'ex legale di Eni al giudice Tremolada: «Mi dissero: è troppo aderente alle difese». Simona Musco su Il Dubbio il 15 febbraio 2022.

Piero Amara, ex legale esterno di Eni, è un pentito che si usa solo quando fa comodo. Quando, ovvero, potrebbe tornare utile nel processo più grosso degli ultimi anni, quello contro il colosso energetico. E che si tiene fermo, invece, quando c’è da verificare fatti gravissimi, così come quelli da lui descritti svelando l’esistenza della presunta Loggia Ungheria.

Si potrebbe riassumere così quanto sostenuto dal pm milanese Paolo Storari davanti al gup di Brescia, dov’è a processo per rivelazione di segreto d’ufficio assieme all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Parole, le sue, che danno conto del «muro di gomma» in cui si sarebbe imbattuto allorquando avrebbe tentato di approfondire le dichiarazioni di Amara, senza successo.

«Quando le cose fanno comodo in Eni-Nigeria, buttiamola al processo (…), quando si deve indagare su Ungheria che potrebbe portare al calunnione gravissimo, no», spiega lo scorso 3 febbraio alla giudice Federica Brugnara, davanti alla quale descrive in lungo e in largo la frustrazione provata nell’ultimo anno e mezzo. Uno stato d’animo causato dal presunto ostruzionismo dei vertici dell’ufficio, su tutti l’ex procuratore Francesco Greco (la cui posizione è stata archiviata) e l’aggiunta Laura Pedio (indagata per omissione di atti d’ufficio), coassegnataria del fascicolo sul “Falso complotto Eni”, indagine parallela a quella principale sulla presunta corruzione nigeriana, nel quale sono maturate le dichiarazioni di Amara. E proprio il «ritardo» nelle iscrizioni dei primi indagati, più volte richieste da Storari, ha spinto il pm a rivolgersi a Davigo, al quale consegnò i documenti contenenti le dichiarazioni di Amara innescando, involontariamente, l’iter che portò alla fuga di notizie.

Il caso Tremolada

Storari, davanti alla giudice, sottolinea di essersi sentito «solo», «rimbalzato» da un punto all’altro. E per far comprendere il suo punto di vista sulla gestione di Amara fa l’esempio più lampante, ovvero quello relativo alle dichiarazioni su Marco Tremolada, presidente del collegio nel processo Eni-Nigeria, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati. Su di lui Amara riferì di aver saputo che le difese del processo erano state in grado di «avvicinarlo».

Così i vertici della procura, a fine gennaio 2020, decidono di spedire le dichiarazioni di Amara – contenute in «due o tre righe» – a Brescia (che poi archivierà senza iscrivere nessuno), competente per i reati commessi dai o a danno dei magistrati milanesi. Di ciò Storari viene tenuto all’oscuro, tant’è che protesta con Greco e Pedio per iscritto. Ma l’episodio, afferma il pm., certifica una cosa: Amara viene preso sul serio dai vertici della procura. Tant’è che Fabio De Pasquale, il procuratore aggiunto che ha rappresentato l’accusa nel caso Eni-Nigeria, propone ai colleghi di usare quelle sue dichiarazioni al processo, soluzione che ancora una volta non trova d’accordo Storari. Che attacca: «Ma scusate, voi praticamente davanti al mondo infangate il magistrato, il presidente del Tribunale (…) e loro mi rispondono: “Tu, Paolo, sei un corporativo, noi vogliamo farlo perché crediamo che Tremolada sia un soggetto che è troppo aderente alle difese”, io rispondo: “Guarda, dovete passare sul mio corpo (…) faccio casini perché queste cose non si fanno”. Ho detto: “Volete farle voi? Sapete cosa c’è? Vi chiamate voi Amara nel vostro verbale (…) ma non usate il verbale che ho fatto io per mascariare un collega su nulla”».

La cosa si chiude rassicurando Storari che quel verbale non verrà utilizzato. Durante il processo, però, De Pasquale chiede di poter sentire Amara come teste, per riferire anche sulle presunte interferenze nei confronti dei giudici del processo. Una cosa «estremamente scorretta nei miei confronti», sostiene il pm, secondo cui «l’obiettivo» sarebbe stato ottenere l’astensione del giudice. La cosa non va in porto, perché la testimonianza di Amara non viene ammessa. Ma la richiesta, secondo Storari, vuol dire ancora una volta consegnare all’ex avvocato esterno di Eni una patente di credibilità, la seconda.

La terza arriva direttamente da Pedio, che fornisce alla difesa dell’ex legale un certificato di fattiva collaborazione per sostenere la domanda di affidamento ai servizi sociali. «L’atteggiamento collaborativo ad oggi tenuto dall’indagato e la rilevanza del contenuto delle sue ampie dichiarazioni – si legge nel documento – consentono fondatamente di ritenere che egli abbia rescisso i legami con l’ambiente criminale nel quale sono maturate le condotte illecite per le quali è indagato e che egli si sia effettivamente ravveduto rispetto a scelte devianti». Amara, dunque, non è un pazzo, sembra dire tutta la procura. Ciononostante, le iscrizioni tardano ad arrivare. E Storari si rivolge a Davigo, presidente della Commissione deputata all’interpretazione dei regolamenti del Csm e, dunque, la persona dal suo punto di vista più qualificata, evidenziando il problema dell’omessa iscrizione, date le sue conseguenze disciplinari, dalle quali vuole smarcarsi.

Anche perché, spiega il magistrato, «a un certo punto mi sono accorto (…) di essere stato preso in giro più volte» dal «procuratore della Repubblica e due procuratori aggiunti, con cui lavoravo». A oltre cinque mesi dalle prime dichiarazioni di Amara sulla Loggia e sei interrogatori, infatti, non c’è traccia di atti investigativi o indagati, «neanche coloro che si autoaccusavano di queste cose». E sebbene sia vero che spesso si attende anche di più per un’iscrizione, «qui si coinvolgevano le istituzioni».

Le indagini

Ma nello scambio di mail tra Storari, Greco e Pedio emerge un fatto, evidenziato dal giudice che ha archiviato la posizione dell’ex procuratore: è proprio quest’ultimo, e non Storari, a proporre l’iscrizione di Amara, Giuseppe Calafiore e Alessandro Ferraro. La loro iscrizione, spiega però Storari, era scontata. Serviva, invece, recuperare i tabulati degli altri soggetti coinvolti, per certificare i loro rapporti, cosa mai avvenuta. «L’iscrizione di Amara, Calafiore e Ferraro era ovvia, di questi tre io non volevo fare i tabulati perché sapevo che erano estremamente prudenti con i cellulari – spiega -, usavano sistemi criptati, era assolutamente inutile fare i tabulati di questi qua».

Mentre Storari sostiene che nulla sia stato fatto per verificare le parole di Amara, Greco e Pedio elencano una serie di attività che rientrerebbero nell’indagine sulla presunta Loggia. Ma il pm smentisce tutto, indicando data per data come starebbero i fatti. Il fascicolo, rimasto a Milano dal dicembre 2019 al gennaio 2021, non contiene alcuna delega alla Polizia giudiziaria, se non quelle fatte da Storari per identificare i soggetti.

Insomma, il fascicolo sarebbe rimasto a «galleggiare» per un anno, nonostante la fuga di notizie del 17 febbraio. E ciò che viene definito atto di indagine sarebbe ben altro: gli incontri con i colleghi di Perugia, dove peraltro «non si è parlato di Ungheria», le intercettazioni e le perquisizioni compiute nell’inchiesta sul “Falso complotto”, i cui decreti erano finalizzati «a totalmente altro», la trasmissione dei verbali a Greco, la rilettura degli stessi da parte di Amara, nonché la loro trascrizione. E senza voler accusare nessuno, conclude Storari, «ho avuto l’impressione (…) che si è voluto gabellare per atti istruttori Ungheria robe che non c’entrano niente».

Le prove di Eni-Nigeria

Storari racconta anche del tentativo di avvisare i pm del processo Eni-Nigeria delle presunte falsità raccontate da Amara e Vincenzo Armanna, grande accusatore della società petrolifera. «Cerco di riscontrare le dichiarazioni di Amara e Armanna nel mio procedimento e vengo a scoprire grazie alle attività investigative che ho fatto io che sia Amara che Armanna sono due calunniatori», spiega Amara, che invia una mail a De Pasquale (ora indagato assieme al collega Sergio Spadaro) per avvisarlo, chiedendo di convocare una riunione. Ma «non vengo neanche considerato».

Storari invia ulteriori elementi, dal presunto pagamento di un teste alle chat false, elementi da sottoporre dalla difesa, ma non avviene nulla. «Ma lei consideri come si trova a vivere una persona, cerchi di fare il tuo lavoro, tu cerchi di fare il tuo lavoro perché portare elementi al collega, ma non lo faccio per distruggerlo il processo, ma che sono elementi obiettivi», conclude. Anche perché poi il tutto viene «confermato a un anno di distanza».

Da Mani Pulite all’inchiesta di Brescia, Davigo: «Non cambio idea: ho fiducia nella giustizia italiana».  

L'ex pm di "Tangentopoli" parla del suo presente: «Nonostante il tripudio di coloro che pensano che essere indagato mi faccia cambiare idea sull’inefficienza del processo penale italiano, non ho perduto la fiducia nella giustizia». Il Dubbio il 15 febbraio 2022.

Mani Pulite iniziò il 17 febbraio del 1992. Trent’anni dopo si tirano le somme. Quale è la lezione di Tangentopoli? «Nel tempo ho compreso che le difficoltà che i miei colleghi e io abbiamo incontrato sono state enormi per una ragione semplice: non si può processare un sistema prima che sia caduto». A rispondere all’Adnkronos è Piercamillo Davigo, all’epoca uno dei pm dell’inchiesta del pool guidato da Francesco Saverio Borrelli che nel 1992 sconvolse l’Italia, il suo sistema politico ed economico.

«All’inizio delle indagini sembrava che i guasti fossero limitati ai partiti politici, neppure tutti, e alle imprese che avevano rapporti esclusivi o prevalenti con la pubblica amministrazione. In seguito tuttavia ci siamo resi conto che il malaffare era dilagato ben oltre questi limiti: le falsità contabili erano diffuse. Oggi l’evasione fiscale riguarda, secondo alcune stime, 12 milioni di persone, cioè un quinto della popolazione italiana».

«Il merito cede il passo a clientele, raccomandazioni e servilismo, sia nel settore pubblico, sia in quello privato. Nella cittadinanza non sembra esservi riprovazione e neppure la consapevolezza che tali comportamenti, oltre a essere illegali, sono dannosi».

Lei sta dicendo che non c’è più etica? «Nessun popolo, cioè l’insieme dei cittadini, può vivere se non vi è un’etica condivisa e in Italia non sembra più esserci. Fra i valori predicati e i comportamenti praticati vi è una differenza abissale».  «E anche nel caso in cui si conviene su alcuni principi, come per esempio “non rubare”, scattano poi i distinguo nella sfera pubblica e interviene lo spirito di fazione, così radicato in nel nostro Paese. Si ricorre a un cavilloso richiamo a norme costituzionali anche quando si va in campi diversi da quelli regolamentati dalla Costituzione».

A cosa si riferisce? «Quando a carico di qualcuno emergono indizi di reato, è frequente che costui (e i suoi sostenitori) invochino la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva di condanna (art. 27 della Costituzione), anche al di fuori del processo penale, quando non si discute di diritti dell’imputato, ma di valutazioni di opportunità o di prudenza nella vita sociale». «I cattivi non vincono sempre – sostiene Davigo – La consolazione, per quanto magra, è che neppure loro sono (per ora) riusciti a vincere. Le leggi per farla franca hanno attirato l’attenzione di organismi internazionali e i loro rilievi sono stati un deterrente a continuare su quella strada».

«Numerose leggi sono cadute sotto le pronunzie della Corte costituzionale che ne ha dichiarato l’illegittimità. I tribunali e le corti italiane hanno adottato interpretazioni volte a salvaguardare il sistema legale. Le elezioni hanno messo in evidenza una minore presa dei poteri locali e nazionali sull’elettorato, molto più volatile che in passato, consentendo anche un’alternanza di schieramenti al governo del Paese che è un’esperienza relativamente nuova in Italia».

Rimangono i poteri criminali e le loro collusioni con la politica e l’economia, i più difficili da affrontare. «La magistratura italiana ha fronteggiato varie emergenze come la criminalità organizzata, il terrorismo, la corruzione pervasiva e il degrado ambientale, senza riuscire a eliminarle del tutto. Ma anche senza farsene travolgere.

Dopo la vicenda Palamara che accade? «Il discredito gettato sull’ordine giudiziario dalle intercettazioni operate nei confronti di Luca Palamara, e ancor più la sua linea difensiva di tentare di accreditare l’idea che i suoi comportamenti fossero condivisi e perpetrati da larga parte della magistratura -cosa non vera- richiederà molto tempo per essere superato». «Il bilancio complessivo rischia di assomigliare a uno stallo, in cui nessuno dei vari soggetti e dei loro valori riesce a prevalere sugli altri, e ciò è fonte di scoramento».

Lei stesso sta attraversando una vicenda giudiziaria complessa, non ancora chiarita: quella collegata alle dichiarazioni di Pietro Amara sull’esistenza della loggia massonica segreta “Ungheria” e alla sua iscrizione nel registro degli indagati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio. A che punto è? «Attualmente sono in udienza preliminare che dovrebbe concludersi proprio il 17 febbraio con il rinvio a giudizio o con il proscioglimento. Nonostante il tripudio di coloro che pensano che essere indagato mi faccia cambiare idea sull’inefficienza del processo penale italiano, non ho perduto la fiducia nella giustizia e attendo il corso del procedimento» (di Rossella Guadagnini/Adnkronos)

Roma, l’ex pm di Manipulite Francesco Greco consulente alla legalità del sindaco Gualtieri. Redazione Roma su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2022.

L’ex pm del pool Manipulite ed ex capo della Procura di Milano (fino al novembre 2021) Francesco Greco sarà il consulente alla legalità del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri. La decisione verrà formalizzata in una conferenza stampa annunciata dal primo cittadino della capitale per le 14 di giovedì 17 febbraio. Greco, 70 anni , napoletano trapiantato da sempre nel capoluogo lombardo, fino a pochi mesi fa alla guida della Procura meneghina, diventò famoso nei primi anni Novanta per le inchieste di Tangentopoli, che sancirono il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Il primo arresto di autorevoli esponenti della politica risale a metà degli anni Ottanta, quando condusse l’inchiesta contro il segretario del Psdi Pietro Longo, accusato di aver intascato una bustarella. Specializzato in reati finanziari, Greco di recente si è battuto affinché i colossi della Rete paghino le tasse. E ora arriva l’impegno romano, fronte molto impegnativo per le infiltrazioni del crimine organizzato dal Sud Italia e per gli illeciti nella pubblica amministrazione.

Prima di Greco in Campidoglio un altro magistrato, Alfonso Sabella, siciliano, noto come «cacciatore di mafiosi» per le sue indagini anti-mafia, aveva lavorato al fianco di un sindaco, in quel caso Ignazio Marino. L’annuncio della collaborazione tra l’ex procuratore di Milano e l’attuale primo cittadino di Roma, che sarà a titolo gratuito, arriva dopo numerosi rumors sulla nomina di un alto magistrato come consulente nella lotta alla legalità. Tra i profili ipotizzati c’erano quello di Piero Grasso, ex capo della Direzione nazionale antimafia, e dell’ex assessore ai Trasporti nella giunta Rutelli, Walter Tocci, immaginato come di supporto alla realizzazione delle infrastrutture su ferro per il Giubileo ed Expo. Indiscrezioni fuorvianti, il vero nome era un altro: quello dell’ex pm in squadra 30 anni fa con Saverio Borrelli, Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo.

Fabio Amendolara per “La Verità” il 16 febbraio 2022.

Le randellate in punto di fatto e di diritto tra gli ex di Mani Pulite sono volate sul ring della Procura di Brescia. Quando Francesco Greco viene convocato dal procuratore di Brescia Francesco Prete come persona indagata (verrà poi prosciolto dal gip) ha ancora la toga sulle spalle. 

È il 27 luglio 2021 e il suo ufficio è appena stato fatto a pezzi dallo scontro innescato dalle dichiarazioni, anche contro di lui, di un suo sostituto, Paolo Storari, che a sua volta è finito in un cortocircuito scatenato dalle propalazioni dell'ex avvocato dell'Eni Piero Amara sull'esistenza della presunta loggia Ungheria. Cinque pubblici ministeri meneghini, per quelle vicende, finiscono sul registro degli indagati della Procura di Brescia.

E l'ex ragazzo dell'ultrasinistra che in quel momento era il penultimo ancora in toga di quel pool di cacciatori di presunti mazzettari degli anni Novanta (in servizio c'è ancora il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo), colpisce duro contro il suo ex collega più anziano che la stampa all'epoca aveva soprannominato il «dottor sottile», perché considerato la mente giuridica del metodo del gruppo guidato da Francesco Saverio Borrelli. 

«Questo signor Davigo (accusato insieme a Storari di rivelazione di segreti d'ufficio per aver fatto circolare i verbali di Amara, ndr) è andato in giro per tutto il Consiglio superiore della magistratura, dal procuratore generale dicendo che io insabbio le indagini, contrariamente a 45 anni di onorata carriera, no?...

È andato in giro... e poi adesso se ne esce fuori che era una procedura di auto tutela? Tu mi devi avvisare... mi devi permettere il contraddittorio prima di sputtanarmi, scusate il termine, davanti a tutta questa gente qui ma stiamo scherzando? E non dimentichiamoci che hanno avuto sette mesi di tempo per costruirsi la loro versione questi ragazzi». 

Greco deve aver preso un colpo quando ha scoperto che Storari si era lamentato con Piercamillo Davigo, in quel momento consigliere del Csm, perché i suoi capi, a suo dire, traccheggiavano con le iscrizioni sul registro degli indagati. Storari, che consegnò a Davigo i verbali di Amara (poi spediti in modo anonimo dalla segretaria ai giornalisti), spiegò di aver parlato con il componente del Csm agendo in «autotutela».

Un ragionamento che Greco sembra proprio non riuscire a ingoiare: «No, ma io vorrei capire una cosa ... il punto è questo... la cosiddetta autotutela, che si fa in un altro modo, sicuramente esclude la consegna di contenuti di verbali». E argomenta la sua visione di quella procedura, senza risparmiare qualche altra stoccata all'ex collega del pool: «Cioè se io mi lamento perché il procuratore non mi ha voluto mettere il visto su una misura cautelare o cose di questo genere, io mi lamento dell'atto ma non è che devo necessariamente produrre la misura cautelare, a meno che non mi venga chiesto.

A maggior ragione nei confronti del Csm che, come voi sapete, non può chiedere, checché ne dica Davigo, atti di un processo se non chiedendo il permesso di poterli avere. Va bene? Allora il punto qual è? Che non è necessario in autotutela consegnare[...]». Greco sembra avere un sospetto. E durante l'interrogatorio mette la classica pulce nell'orecchio ai colleghi bresciani: «Allora, francamente, questa consegna dei verbali, a mio avviso, ha un'altra motivazione. Quale non lo so, ma non è quella che viene propagandata sui giornali».

Subito dopo l'ex procuratore di Milano alza i toni: «Mi hanno tirato in ballo senza che io mi potessi difendere da queste accuse e su questo io non avrò alcuna... sarò molto fermo, perché non e possibile che un magistrato venga messo alla berlina davanti a tutti i Consiglieri del Csm, davanti al presidente della commissione Antimafia, davanti al presidente della Cassazione, davanti al procuratore generale della Cassazione in questo modo, per interessi di parte». 

Il procuratore Prete 20 giorni prima aveva ascoltato l'altra campana, quella di Davigo, convocato pure lui da indagato. E anche in questo verbale sono volate bordate: «Io», afferma Davigo, «Greco lo conosco da una vita... qualcuno mi ha anche detto: "Ma non potevi telefonare a Greco?''. Non mi ricordo chi... ho detto: "Ma scusate... ma è il festival dell'amicizia o stiamo parlando di istituzioni?"... per come lo conosco io Greco non è un delinquente... forse un po' superficiale perché se no non si sarebbe cacciato in questo pasticcio».

Fatto sta che Davigo sembra essersi convinto che le iscrizioni sul registro degli indagati furono formalizzate dopo aver informato il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. «Allora... io sono convinto che il procuratore generale ha fatto quello che io ho auspicato che lui facesse, cioè che lo abbia chiamato... lui ha detto di avere avuto un incontro con Greco... sta di fatto che poi l'iscrizione avviene dopo il colloquio tra il procuratore generale della Cassazione e il procuratore della Repubblica. Che poi abbiano fatto le indagini non credo... cioè qualcosa han fatto che ha dimostrato... da quel che leggo sui giornali».

Ma Greco non è della stessa idea. E rimanda la palla nel campo avversario: «L'hanno distrutta questa indagine. Andate a chiedere a Cantone (Raffaele Cantone, procuratore di Perugia, dove il fascicolo è stato trasmesso per competenza, dopo aver stralciato la posizione dell'ex capo della Procura Luigi De Ficchy, ndr) cosa ne pensa da questo punto di vista. L'hanno distrutta e hanno permesso che circolasse in tutta Italia il contenuto di verbali piuttosto delicati». 

Anche sulla competenza a Perugia le posizioni sono opposte. Ecco cosa ne pensa Davigo: «Io sono tuttora sconcertato dal fatto che si sia potuto tenere ferma quella roba lì per cinque mesi prima di iscrivere e per altri sei mesi dopo l'iscrizione... prima di mandarla alla Procura di Perugia che tra l'altro, per quanto ne capisco io, non è competente perché... siccome era indicato tra gli affiliati anche l'ex procuratore della Repubblica (De Ficchy, ndr)... io non ho mai visto che si può fare per un reato associativo togli quello e tieni gli altri [...]».

D'altra parte, con questo principio, avrebbero dovuto stralciare le posizioni di tutti i magistrati citati da Amara e inviare il fascicolo alle Procure di mezza Italia. La conclusione alla quale giunge Davigo è questa: «Certamente Milano non se lo poteva tenere (il fascicolo, ndr)... sono indicati magistrati di Milano come affiliati... ma non potevano neanche tenerselo senza iscrivere... questo è il punto». Ipse dixit.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 17 febbraio 2022.

Violento atto d'accusa del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo a Perugia contro il collega Stefano Fava. Il magistrato capitolino è parte civile nel processo contro lo stesso Fava e Luca Palamara, accusati di rivelazione di segreto relativamente a un esposto che riguardava un presunto conflitto di interessi del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. 

Ma la segnalazione, quanto meno negli allegati, chiamava in causa anche Ielo per i rapporti di lavoro del fratello Domenico con Eni. Ieri il magistrato, davanti ai giudici umbri, si è concesso un lungo sfogo: «Sono tre anni che ricevo fango in faccia. Io penso che la cifra di un magistrato debba essere la sobrietà. Un magistrato deve difendersi nei tribunali e non sui giornali. Sono anni che covo e sto zitto». 

Poi ha continuato, descrivendo l'ex collega come un fanatico delle manette: «Io mi fidavo di Fava, cercavo di difenderlo anche da sé stesso. Con lui si andava d'accordo fino a quando c'erano da fare richieste di misure cautelari, fino a quando si andava a testa bassa, ma le buone indagini non sono quelle in cui si manda in carcere qualcuno, sono quelle in cui si prendono i cattivi, ma sono anche quelle in cui si tira fuori dai guai chi non ha fatto niente, un innocente».

Quindi il discorso è passato sul faccendiere Piero Amara, suo vecchio «cliente»: «Io dissi che le dichiarazioni di Amara si potevano utilizzare se riscontrate, altrimenti ora mi ritroverei sulla vicenda Mediolanum a dibattimento contro Berlusconi in base ad accuse non riscontrate». Silvio Berlusconi venne prosciolto e Fava non firmò la richiesta di archiviazione.

«Mio fratello non ha mai avuto rapporti di lavoro con Amara» ha sottolineato Ielo. Anche se nessuno ha mai scritto il contrario. I due legali erano semplicemente consulenti della stessa azienda. L'aggiunto romano ha poi spiegato di avere «sempre pensato che i magistrati si possono dividere, possono discutere ma stanno sempre dalla stessa parte [] E invece ho scoperto poi che c'era qualcuno nell'ufficio contro di me».

Ielo ha accusato Fava di avergli «teso una trappola»: «Disattese la richiesta di fare uno stralcio sulla vicenda Eni-Napag sapendo che su quella vicenda mi sarei astenuto. Lui mi disse che c'era una tale interconnessione da non poterlo fare: questa cosa qui puoi dirla a uno che non fa il mestiere non a uno che fa questo lavoro». 

Ielo ha, infine, offerto una sua rilettura della guerra per la nomina del procuratore di Roma del 2019, dandogli una chiave originale: «L'hotel Champagne non è stato un fatto di correnti. Bisognava nominare un procuratore della Repubblica di Perugia che fosse disponibile a fare indagini nei miei confronti, probabilmente perché io non vado a cene, non faccio incontri».

Questo autoritratto cozza un po' con i suoi stretti rapporti di lavoro con la stampa, con i suoi appuntamenti (magari non cene, ma certamente pranzi) con diversi giornalisti. Categoria che non di rado ne canta le gesta. Inoltre è il punto di riferimento di molti inquirenti, anche di altre città, che lo stimano e amano confrontarsi con lui. È considerato dai suoi capi un fuoriclasse nel contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione, anche se sempre più spesso il suo ufficio, nei procedimenti che sfiorano la politica, contesta il traffico di influenze illecite, una ipotesi fumosa, una corruzione che non ce l'ha fatta. 

E non mancano, nelle sue inchieste, gli alti e i bassi come confermano le accuse a Virginia Raggi e Tiziano Renzi. Il problema di Ielo è che a congetturare suoi fantomatici conflitti d'interesse (ipotesi che il Csm cestinato) non era solo Fava, bensì una banda di faccendieri su cui stava indagando.

Come l'avvocato Vincenzo Armanna, ex manager di Eni e grande accusatore della compagnia petrolifera. Un professionista oggi sotto procedimento per diversi episodi di calunnia. In una chat depositata agli atti del procedimento sul finto complotto ai danni dei vertici dell'Eni, Armanna spiega al giornalista di Report Luca Chianca quale sia il segreto della banda per provare a ridurre al minimo i danni delle inchieste giudiziarie. 

La conversazione risale al 29 maggio 2019 quando sulla Verità e sul Fatto quotidiano erano stati pubblicati due articoli su un esposto del pm Stefano Fava al Csm in cui si faceva riferimento anche al presunto conflitto di interessi del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, a causa dei rapporti professionali del fratello Domenico con l'Eni. Ricordiamo che nella Capitale c'era un'inchiesta che riguardava Amara e gli affari illeciti della Napag, società a lui riconducibile, con alcuni manager infedeli della compagnia petrolifera.

Armanna suggerisce al cronista alcune domande, tra cui queste due: «L'Eni che controlla tutti i conflitti di interessi come fa ad affidare un contratto al fratello di Ielo? Amara come ha fatto a prendere tutti quei contratti senza che nessuno se ne accorgesse?». Chianca ribatte: «Però il fratello di Ielo lavora lì da una vita». 

Ma Armanna spiega il meccanismo che con quelle consulenze la banda farebbe scattare: «In ogni caso lo rende "in conflitto di interessi" e anche se non facesse nulla così riescono ad "escluderlo" dalle indagini... non penso a corruzione penso a strategia per escludere i pm più aggressivi». Una tattica per far astenere i magistrati più «pericolosi». 

Quindi fa un commento sibillino su quanto accaduto nell'inchiesta Napag, di cui Ielo era titolare: «E in ogni caso l'indagine su Amara finisce troppo presto, con un patteggiamento (del faccendiere e del suo coindagato Giuseppe Calafiore, ndr) tagliando fuori Napag, 80 milioni». Ovviamente potrebbe trattarsi di millanterie, tipiche del personaggio. L'avvocato Ielo ha sempre negato di avere rapporti con Amara, nonostante fossero entrambi consulenti dell'Eni.

Il professionista è consulente da circa 20 anni (periodo in cui ha cambiato tre diversi studi) dell'Eni, con cui lavora tuttora e da cui è considerato «un ottimo professionista». Da parte sua Amara, due anni dopo, ha descritto una strategia non molto diversa da quella evocata da Armanna, la stessa che utilizzava per sterilizzare i pm quando doveva difendere gli interessi dei propri clienti: «Cercavo di nominare persone (avvocati, ndr) che erano vicine perché erano testimoni di nozze, matrimoni, che a qualche magistrato». Come aveva fatto lui stesso con il suo difensore Salvino Mondello, ex compare di nozze di Ielo. 

Davigo: «Nessuno si è sognato di dirmi che non potevo farlo». L’ex pm di Mani Pulite racconta la sua versione dei fatti sulla consegna dei verbali di Piero Amara sulla Loggia Ungheria. «Se mi avessero chiesto una relazione l’avrei fatta». Simona Musco su Il Dubbio il 16 febbraio 2022.

«Io non credo di aver sbagliato perché nessuno si è sognato di dirmi: “Guarda che non potevi fare quello che dovevi fare”, ma fosse anche che mi fossi sbagliato sono scriminato dall’adempimento di un dovere perché avevo il dovere di denunciare la notizia di reato al Procuratore generale e avevo il dovere di informare il Consiglio superiore della magistratura».

Nessuno, tra i componenti del Comitato di presidenza del Csm, avrebbe invitato Piercamillo Davigo a formalizzare la vicenda relativa ai verbali di Piero Amara, consegnatigli dal pm milanesi Paolo Storari. Verbali nei quali veniva svelata l’esistenza di una presunta Loggia, denominata “Ungheria” e della quale, a dire di Amara, avrebbero fatto parte anche due componenti del Csm attuale, i togati Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti, poi dimessosi a settembre del 2020.

Quei documenti, ad aprile dello stesso anno, erano stati affidati a Davigo da Storari, che lamentava l’inerzia dei vertici della procura (il procuratore Francesco Greco, la cui posizione è stata archiviata, e l’aggiunta Laura Pedio, che è ancora indagata per omissione d’atti d’ufficio) nel procedere con le iscrizioni. E da lì tutto ha iniziato a precipitare, con la pubblicazione dei verbali sui giornali, le indagini che hanno coinvolto diversi magistrati e una nuova crisi interna a Palazzo dei Marescialli. Il tutto mentre sulla credibilità di Amara non è stata fatta ancora chiarezza.

Davigo aspettava dunque «indicazioni», anche perché fare una relazione di servizio, ha spiegato al gup di Brescia, dov’è indagato assieme a Storari per rivelazione di segreto d’ufficio, avrebbe significato far conoscere a tutti la situazione, comprese le persone indicate da Amara nel verbale. «Però se mi dicevano fai una relazione di servizio, come ho fatto tante volte nella vita (…) l’avrei formalizzata». Fu l’ex pm di Mani Pulite a convincere Storari che la consegna di quel materiale era legittima. Tant’è, ha sostenuto l’ex magistrato, che «non mi capacito (…) come Storari sia qui. Storari si è fidato di un componente del Consiglio superiore della magistratura, ma che cosa deve fare un magistrato di fronte a un comportamento che reputa illegale dei suoi superiori se non parlare con l’Organo di autogoverno?». Davigo, «impressionato dalla mancata iscrizione» disse a Storari «che se non fosse avvenuta» bisognava «necessariamente informare dell’accaduto il comitato di presidenza», col quale si propose, «se lui riteneva» di «fare da tramite».

Così il pm consegnò i verbali e Davigo li portò con sé, il 4 maggio 2020, a Palazzo dei Marescialli, nella convinzione di dover agire in maniera urgente. «Amara dice che il precedente Consiglio era… quello di Palamara e Forciniti per intenderci, era sostanzialmente sotto il controllo di questa loggia», ha spiegato. E a fronte delle «circa mille nomine» fatte dallo stesso «poteva sorgere la necessità (…) di eventuale annullamento in via di autotutela di qualcuna». Il tempo a disposizione era però poco: «La legge impone un termine di un anno e mezzo, che stava per giungere alla fine».

La prima persona con la quale Davigo parlò della situazione fu David Ermini, vicepresidente del Consiglio, che poi «chiamò il Presidente della Repubblica». Ma la consegna dei verbali sarebbe avvenuta solo in un secondo momento e non subito, come sostenuto da Ermini, in quanto «continuava a chiedermi i nomi». Ermini dichiarò di averli buttati nel cestino, senza leggerli. Una cosa «stravagante», in quanto sarebbe stato più appropriato usare il «tritacarta». E secondo Davigo, nel «momento in cui Ermini distrugge la prova del mio reato lo dovete incriminare per favoreggiamento. Non mi consta che sia avvenuto, l’hanno sentito a sommarie informazioni testimoniali. Sarebbe un illecito disciplinare, ma comunque…». Dopo qualche giorno Davigo ne parlò anche con il pg della Cassazione Giovanni Salvi.

«Io mi sono illuso (…) che informando il procuratore generale», che è anche «titolare dell’azione disciplinare insieme al ministro della Giustizia, la situazione si sarebbe sbloccata, cioè le iscrizioni sarebbe finalmente avvenute, cosa che è puntualmente avvenuta, anche se negano di aver parlato di questo e hanno perso i telefoni (Salvi e Greco, ndr) ».

Davigo è convinto dunque di aver agito secondo la legge, dal momento che «il Consiglio è organo di garanzia dell’ordine giudiziario e siccome per poter garantire il funzionamento dell’ordine giudiziario ha bisogno di conoscere, a esso Consiglio e ai suoi singoli componenti non è opponibile il segretario d’ufficio». Ma perché, dunque, dirlo anche al senatore Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare Antimafia? Nessuna notizia di dettaglio, ha specificato Davigo, secondo cui le dichiarazioni di Morra sarebbero in gran parte «frutto di fantasia».

L’ex pm, infatti, informò il senatore quando questi si presentò al Csm chiedendo se fosse possibile una pacificazione con Ardita. «Io gli dissi: “Guarda, senti, abbi pazienza, ci sono delle cose che tu non sai, io non posso in questo momento riprendere i rapporti con Ardita, che tra le altre cose sarebbe tacciato di appartenere a una struttura massonica”». E ciò senza mostrare i verbali, che invece, secondo la versione di Morra, gli sarebbero stati fatti vedere nel sottoscala di Palazzo dei Marescialli. «Se ha visto i verbali dovrebbe dire che cosa c’è scritto sopra», ha affermato, dato che «c’è scritto a caratteri grossi» sia quale fosse la procura sia il nome del dichiarante. «Lui ha detto che non sapeva né qual era la Procura né qual era il dichiarante, come fa ad averli visti?», si è chiesto Davigo.

(ANSA il 17 febbraio 2022) - Piercamillo Davigo, l'ex consigliere del Csm accusato di rivelazione del segreto d'ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta 'Loggia Ungheria', è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia Federica Brugnara. La decisione arriva nel giorno in cui cade il trentennale dell'inizio dell'inchiesta Mani Pulite di cui Davigo è stato uno dei pm in prima linea.

(ANSA il 17 febbraio 2022) - Il pm di Milano Paolo Storari nel consegnare i verbali di Piero Amara all'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo con lo scopo di essere tutelato lamentando l'inerzia dei vertici del suo ufficio, ha tenuto una "condotta legittima".

Lo ha spiegato l'avvocato Paolo Della Sala, legale di Storari, riassumendo a grandi linee la sua arringa difensiva con cui ha chiesto al gup di Brescia Federica Brugnara di assolvere il pubblico ministero imputato per rivelazione del segreto d'ufficio nel processo in abbreviato. 

Il difensore ha aggiunto che Storari ha agito dopo aver ricevuto da "importanti esponenti del Consiglio Superiore della Magistratura " la conferma della correttezza del suo gesto, per altro "compatibile" con il compendio normativo, ossia con le circolari dello stesso Csm. Gesto che "poi ha trovato il suo avallo nei comportamenti di altre persone" che siedono a Palazzo dei Marescialli e delle quali "nessuna ha sollevato obiezioni formali" al modo in cui è stata chiesta tutela.

(AGI il 17 febbraio 2022) -L'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, che e` stato rinviato a giudizio per rivelazione di segreto di ufficio per il caso della diffusione dei verbali secretati sulla presunta esistenza della `loggia Ungheria`, comparira` il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Brescia per l`inizio del processo con rito ordinario

(ANSA il 17 febbraio 2022) - I pm di Bresca Donato Greco e Francesco Milanese hanno chiesto una condanna a sei mesi, il minimo della pena prevista nei confronti del loro collega milanese Paolo Storari, accusato di rivelazione del segreto d`ufficio in concorso con l`ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria.  La richiesta è stata fatta al gup bresciano Federica Brugnara nel corso del processo in abbreviato. 

Luca Fazzo per “il Giornale” il 17 febbraio 2022.

Se nei giorni a ridosso del trentennale di Tangentopoli tra i tanti amarcord è mancato quello di Piercamillo Davigo c'è anche un motivo semplice: l'anniversario dell'arresto di Mario Chiesa potrebbe coincidere con il rinvio a giudizio di colui che fu il Dottor Sottile del pool milanese, protagonista delle indagini scaturite dall'arresto del presidente della «Baggina». 

Per oggi è infatti fissata a Brescia la conclusione dell'udienza preliminare che dovrà decidere la sorte di Davigo, nei cui confronti la Procura locale ha avanzato la richiesta di rinvio a giudizio per rivelazione di segreto d'ufficio. Per il grande accusatore divenuto accusato potrebbe essere dunque un «compleanno» piuttosto amaro.

Insieme a quella di Davigo il gip dovrà decidere la sorte di Paolo Storari, il pm milanese imputato insieme all'illustre collega per la diffusione, quando erano ancora coperti dal segreto istruttorio, dei verbali in cui l'avvocato Piero Amara parlava della presunta «loggia Ungheria». Storari ha ammesso di avere passato i verbali a Davigo e ha scelto di limitare i danni, anche mediatici, optando per il giudizio abbreviato (a porte chiuse e con sconto di pena).

E a ridosso dell'anniversario, ieri compare in un'aula di tribunale il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, che del pool di Mani Pulite fu uno dei componenti più giovani. Ielo viene interrogato a Perugia nel processo contro l'ex pm Stefano Fava e contro Luca Palamara. Anche Fava, come Storari, sostiene di essere stato ostacolato nelle sue indagini sulle rivelazioni di Amara. 

In aula, lo sfogo di Ielo è amaro: «Sono tre anni che prendo fango in faccia, ma un magistrato deve difendersi nei tribunali e non sui giornali. Sono anni che covo e sto zitto». Parlando di Fava, Ielo ha detto: «Io mi fidavo e mi fido dei colleghi. Io mi fidavo di Fava, cercavo di proteggerlo anche da se stesso».

Con Fava «si andava d'accordo fino a quando c'erano richieste di misure cautelari, fino a quando si andava a testa bassa (...) io dissi che le dichiarazioni di Amara si potevano utilizzare solo se riscontrate». «Fava arrivò a scrivermi una mail mentre ero in montagna in cui mi diceva che si doveva denunciare il procuratore Pignatone a Perugia e alla procura generale. Se fossi stato su una seggiovia avrei rischiato di cadere».

Piercamillo Davigo a processo, il terrore della gattabuia: "Tanto ho 70 anni...", quella frase dopo il rinvio a giudizio. Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022

La prima udienza è fissata il 20 aprile a Brescia. Sarà il momento in cui si entrerà nel vivo del dibattimento nei confronti di Piercamillo Davigio, l'ex simbolo di Mani Pulite rinviato a giudizio ieri per «rivelazione del segreto d'ufficio» per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta "Loggia Ungheria". Lo ha deciso ieri il gup Federica Brugnara: ora saranno i giudici a stabilire se Davigo abbia davvero rassicurato il pm milanese Paolo Storari, che chiedeva di essere tutelato rispetto alla inerzia dei suoi capi. 

Gli atti vennero consegnati dal pubblico ministero a Davigo nell'aprile 2020 e poi - così sostiene l'accusa dei pm Donato Greco e Francesco Milanese - «violando i doveri» legati alle sue funzioni e «abusando delle sue qualità» Davigo li avrebbe diffusi ad altri componenti di Palazzo dei Marescialli in modo «informale e senza alcuna ragione ufficiale». Sebastiano Ardita, allora consigliere del Csm, si ritiene danneggiato da quella diffusione e si è costituito parte civile nel procedimento: ora è pronto a chiedere i dani. «Davigo si difenderà in dibattimento essendo certo della propria innocenza» dice l'avvocato di Davigo, Francesco Borasi. 

Per Storari invece, il coimputato che ha scelto il processo con rito abbreviato, è stata chiesta una condanna a 6 mesi, il minimo della pena prevista dal codice. In questo caso la sentenza è prevista per il 7 marzo, con la difesa di Storari che - attraverso l'avvocato paolo Della Sala- ha ribadito la legittimità della condotta compatibile «con il compendio normativo» e «avallata nei comportamenti di altre persone del Consiglio superiore della magistratura». 

Nessuno avrebbe «sollevato obiezioni formali» e nessuno ha invitato a formalizzare la pratica Storari. In attesa del processo, ieri Davigo ha parlato di Tangentopoli a una tavola rotonda a Pisa: «Emerse non perché arrivarono i magistrati ma perché quel sistema politico fondato sulla corruzione non resse dal punto di vista economico» ha detto. «Nel nostro ordinamento non esiste un efficace deterrente alla corruzione. Io stesso sono sotto processo, ma a parte che sono innocente, non ho alcuna preoccupazione, perché ho compiuto 70 anni e quindi resterei a casa».

Caro Davigo, nelle nostre carceri ci sono quasi mille ultrasettantenni. La detenzione domiciliare non è automatica e sono tanti gli anziani reclusi per reati minori. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 22 febbraio 2022.

«Avendo compiuto 70 anni, non posso neanche andare in carcere e starei comunque a casa mia», ironizza l’ex magistrato Piercamillo Davigo a proposito di una sua eventuale condanna. Augurandoci la sua completa assoluzione, in realtà dipende dai giudici. Non c’è alcun automatismo. Infatti esistono quasi 1000 detenuti (993 nel 2021, secondo dati Dap) che sono reclusi nelle patrie galere nonostante siano ultrasettantenni. Molti di loro, non hanno commesso gravissimi reati.

L’ipotesi di detenzione domiciliare non vale per tutti

Il riferimento di Davigo, è l’articolo 47 ter dell’ordinamento penitenziario, la parte in cui prevede che la pena – se il reato non rientra tra alcune eccezioni – “può” essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando il condannato abbia compiuto i settant’anni d’età. Ma si tratta di una possibilità e non sempre i giudici la concedono. E infatti non mancano casi di persone che varcano la soglia del carcere, nonostante non si siano macchiati di reati feroci. L’ ipotesi di detenzione domiciliare per gli anziani ha una finalità umanitaria dettata dalla circostanza che il superamento di una certa soglia di età comporta delle difficoltà maggiori per chi si trova in carcere. Però non vale per tutti.

Nel 2019 Mattarella concesse la grazia a 3 ultraottantenni

Ci sono gli anziani senza fissa dimora e senza alcuna struttura pronto ad accoglierli, ci sono coloro che i giudici li considerano recidivi, oppure pericolosi socialmente. Ci sono anche casi particolari, come i tre detenuti anziani che nel 2019 hanno ricevuto la grazia dal presidente Mattarella. Pensiamo all’88enne Graziano Vergelli, che era stato condannato a 7 anni e 8 mesi per aver ucciso la moglie malata di Alzheimer. La strangolò con una sciarpa e rimase accanto al cadavere circa un’ora, poi andò a costituirsi dalla polizia dicendo agli agenti “Non ce la faccio più” e spiegando di non reggere a un repentino aggravamento della malattia della moglie. Storia analoga quella di Vitangelo Bini, 89 anni, che doveva scontare una condanna a 6 anni e 6 mesi per l’omicidio della moglie, che era malata di Alzheimer: l’uomo la uccise per non vederla più soffrire. Persone quasi novantenni che sono stati reclusi in carcere. Ma poi c’è il caso come quello della sarda Stefanina Malu, 83 anni, morta dopo una carcerazione per aver custodito droga per conto di qualche banda.

Nel 2020, secondo la garante Gabriella Stramaccioni, c’erano almeno 60  ultrasettantenni

Parliamo di anziani che decidono si superare le ristrettezze economiche attraverso la detenzione di stupefacenti. E questo perché, per via dell’età, è un reato più accessibile, non richiedendo un’elevata prestanza fisica. In Italia, è sempre più facile che un ultrasettantenne finisca in carcere e spesso il giudice di sorveglianza non conceda la detenzione domiciliare. Solo fra il carcere romano di Rebibbia penale e Nuovo Complesso, almeno secondo quanto denunciato nel 2020 dalla garante Gabriella Stramaccioni, ci sono almeno 60 uomini ultrasettantenni. Si tratta di persone sole che non hanno più legami familiari, molte provenienti dalla strada. Vista l’età e la malattia, potrebbero accedere alle misure alternative, il problema è che non ci sono posti. E il carcere, che rimane l’unica accoglienza possibile, si trasforma inevitabilmente un deposito.

Davigo al massimo potrebbe essere affidato al servizio sociale

Ma com’è detto, diventa un contenitore di tutti gli anziani che usati dalle organizzazioni criminali, quelle che approfittano del loro disagio economico – pensione sociale che non basta nemmeno per la sopravvivenza – per nascondere la droga. Senza parlare dei reati ostativi, che non riguardano solo quelli mafiosi, dove gli anziani non hanno la possibilità di fare richiesta per la misura alternativa. Ovviamente Davigo, in caso di condanna, può dormire sogni tranquilli. Anche perché la pena massima sulla rivelazione di segreto d’ufficio è di due anni. Al massimo potrebbe essere affidato al servizio sociale come è accaduto con Berlusconi. Ma l’età non c’entra. Come abbiamo visto, i detenuti ultrasettantenni – anche bisognosi di badanti per via della fragilità fisica – non mancano.

Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" il 21 Febbraio 2022.  

«No comment. Nel processo di Brescia sarò testimone, lì dirò la verità», risponde David Ermini, a proposito dell'interrogatorio di Davigo, imputato per l'illecita divulgazione degli atti sulla loggia Ungheria. Ma la verità del vicepresidente del Csm emerge dal verbale reso durante le indagini. I fatti risalgono al maggio 2020 quando i loro rapporti erano ottimi, tanto che per due volte Davigo invitò Ermini e consorte per un weekend a Merano («Pagato alla romana»). Si interromperanno a ottobre, dopo il voto di Ermini per la decadenza di Davigo dal Csm.

All'inizio le versioni cristallizzate nei verbali coincidono: «Il 4 maggio 2020 Davigo mi chiese un colloquio riservato tanto che mi invitò ad andare giù in cortile, lasciando i telefoni in stanza perché la questione era molto delicata». Anche altri consiglieri riferiscono di cautele anti intercettazioni di Davigo in quel periodo. In cortile Davigo rivelò l'indagine «che però andava a rilento», suggerendo di informare il presidente della Repubblica. Cosa che Ermini fece la sera stessa. 

«Parlai personalmente al presidente di varie questioni e lo informai anche di questa. Mi ascoltò senza fare commenti». Davigo ed Ermini si rividero qualche giorno dopo. Da qui in poi le versioni divergono. Davigo sostiene che gli consegnò i verbali per soddisfarne la curiosità sui nomi citati. Ermini obietta che «i nomi me li fece lui nel primo colloquio, anche perché altrimenti non avrebbe avuto senso riferire genericamente al Quirinale».

Quanto alla consegna, dice ai pm: «Il giorno dopo o qualche giorno dopo la segretaria mi avvisò che era arrivato Davigo per parlarmi. Lo feci entrare, aveva una cartellina arancione con dentro fogli di carta. Mi disse: "Ti ho portato le carte perché vorrei che leggessi le dichiarazioni di Amara". Io ero in difficoltà e non avevo voglia di leggere carte consegnate in modo irricevibile e inutilizzabile».

Ermini racconta il disagio «per il problema di cosa farne e per l'insistenza di Davigo perché le leggessi. Sfogliava i verbali davanti a me e ripeteva quanto detto in cortile». Nome dopo nome, si arrivò a quello di Sebastiano Ardita, membro del Csm con cui Davigo aveva burrascosamente rotto i rapporti. «Mi ribadì che, secondo le dichiarazioni dell'avvocato Amara, apparteneva a questa loggia a cui si era affiliato già ai tempi di Tinebra (magistrato morto nel 2017, ndr), quando era in Sicilia».

Ermini ricorda che alla sua obiezione («Non ci credo»), Davigo replicò: «Guarda che esistono anche i massoni in sonno». Anche altri consiglieri hanno riferito ai pm che Davigo sembrava attribuire un primo vaglio di credibilità alle rivelazioni sulla loggia Ungheria, a dispetto di obiezioni anche specifiche come quella del procuratore generale Giovanni Salvi, che mette a verbale: «Gli risposi che mi sembrava molto improbabile, ben conoscendo le frizioni che si erano determinate tra Tinebra e Ardita».

Al contrario, Davigo era scettico sull'attendibilità delle dichiarazioni di Amara a proposito dell'allora premier, almeno stando a un dettaglio ricostruito da Ermini successivamente alla sua testimonianza ai pm. «Quando sfogliando i verbali arrivò al nome di Conte, io gli dissi "C'è anche lui?". E Davigo rispose: "No, lui l'hanno messo dentro, ma non c'entra niente". Rimasi perplesso». La tesi della Procura è che Davigo violò il segreto istruttorio con sette consiglieri del Csm, due segretarie e il deputato Morra per isolare Ardita, parte civile nel processo perché danneggiato «dalla massiva e infamante divulgazione».

Verbali Amara, chiesta la condanna a sei mesi per il pm Storari. La procura di Brescia ha invocato una condanna a sei mesi di carcere per il pm di Milano Paolo Storari accusato di aver rivelato notizie coperte dal segreto istruttorio. Il Dubbio il 17 febbraio 2022.

Condannare a sei mesi il pm di Milano Paolo Storari, imputato per rivelazione del segreto d’ufficio per aver consegnato nell’aprile 2020 dei verbali segreti sulla presunta loggia Ungheria all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. E la richiesta pronunciata dai pm di Brescia Donato Greco e Francesco Milanesi nell’udienza con rito abbreviato che si celebra a porte chiuse.

Per i rappresentanti della pubblica accusa il sostituto procuratore milanese, che con la sua condotta potrebbe aver leso l’immagine della magistratura, non avrebbe rispettato il vincolo di riservatezza e «violando i doveri inerenti alle funzioni rivestite rivelava notizie di ufficio che dovevano rimanere segrete, rivelava il contenuto di atti coperti dal segreto istruttorio», consegnando a Davigo, copia in formato word dei verbali di cinque interrogatori (tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020) resi dall’avvocato Piero Amara, persona sottoposta a indagine, nel procedimento su una presunta loggia segreta di cui avrebbero fatto parte magistrati e varie personalità. Ora la parola passa alla difesa.

Innocente fino a prova contraria. Anche lui…Su questo giornale mai nessuno ha esultato per l'arresto o il semplice sputtanamento di qualcuno. Nemmeno se a finire nel tritacarne mediatico è chi, come l'ex pm di Mani Pulite, incarna un'idea “manettocentrica” della giustizia, distante anni luce dalla nostra. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 18 febbraio 2022.

Chi stamattina ha sfogliato il Dubbio solo per cercare una nota di compiacimento e soddisfazione per la notizia del rinvio a giudizio di Piercamillo Davigo sarà rimasto deluso. Su questo giornale mai nessuno ha esultato per l’arresto o il semplice sputtanamento di qualcuno. Nemmeno se a finire nel tritacarne mediatico è chi, come l’ex pm di Mani Pulite, incarna un’idea “manettocentrica” della giustizia, distante anni luce dalla nostra.

Per noi Davigo, rinviato a giudizio a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio in relazione ai verbali nei quali Piero Amara parlava della Loggia Ungheria, resta innocente fino a prova contraria. E ci auguriamo che sia in grado di chiarire la sua posizione a processo. Saranno altri giudici a stabilire – e solo dopo tre gradi di giudizio se le sue condotte furono legittime o no. Perché non importa sapere a quanti consiglieri del Csm e segretarie Davigo ha mostrato i verbali ricevuti dal pm Paolo Storari, né scoprire se è vero o meno che persino il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra, fu reso edotto del contenuto di quei documenti secretati in un sottoscala.

Un Tribunale deve solo stabilire se c’è reato o no. Giudicare l’opportunità “politica” di un comportamento non compete alla giustizia. La moralizzazione di un Paese non può passare dalle mani di un potere dello Stato, la pubblica accusa, autoproclamatosi ontologicamente superiore a tutti gli altri poteri concorrenti sulla base di una presunzione. Non basta gettare fango davanti al ventilatore per chiudere un processo. Servono le prove. Solo quelle è tenuto a cercare un pm. Persino quelle a discolpa dell’imputato.

«Non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca», diceva Davigo fino a poco tempo fa. Speriamo abbia cambiato idea nel frattempo. E speriamo abbia cambiato idea pure sull’ «orda inutile degli avvocati», ora che anche lui avrà bisogno di una difesa in un’aula di Tribunale, non per “ingolfare” la giustizia ma per esercitare un diritto costituzionale.

Deciso il giudice che processerà Davigo: nel 1996 prosciolse Di Pietro. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie. Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Sarà il giudice Roberto Spanò il presidente del collegio che dal prossimo 20 aprile giudicherà Piercamillo Davigo, rinviato a giudizio dal gup di Brescia per rivelazione di atti di ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta Loggia Ungheria e sui verbali dell’avvocato Amara consegnati all’ex componente del Csm dal pm di Milano Paolo Storari, che ha invece scelto il rito abbreviato, e che il sette marzo conoscerà il suo destino dopo che l’accusa ha chiesto per lui la condanna a sei mesi.

Roberto Spanò è lo stesso giudice che nel 1996 da gup prosciolse con una sentenza di non luogo a procedere Antonio Di Pietro, che era accusato a Brescia di abuso di ufficio e concussione. Spanò, motivando la sua decisione, parlò di «anemia probatoria» e «azzardato esercizio dell’azione penale» per smontare la ricostruzione dell’accusa. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie.

A 30 anni esatti da Tangentopoli. Hanno rinviato a giudizio Davigo, il più puro dei puri. Redazione su Il Riformista il 17 Febbraio 2022.

L’ex consigliere del Csm accusato di rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, su una presunta “Loggia Ungheria”, è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia Federica Brugnara. A 30 anni esatti dall’inizio dell’inchiesta di Mani pulite è ripresa a Brescia l’udienza preliminare nei confronti di Piercamillo Davigo.

Il direttore Piero Sansonetti ha commentato: “Hanno rinviato a giudizio Davigo. Piercamillo Davigo. Avete presente chi è? Torquemada, quello che doveva mandare a giudizio tutti, quello che diceva che quando si fa un’indagine gli indiziati possono o essere condannati o possono farla franca. Senza prendere neanche in considerazione l’ipotesi che potessero esistere innocenti”.

“Davigo ha frustato i politici, ha frustato gli imprenditori. Ha frustato tutti, anche i suoi colleghi. Si è sempre impancato per dire ‘Io sono la legge’, poi quando stava per andare in pensione voleva cambiare la legge perché voleva restare al Consiglio superiore della magistratura, è finito lui stesso non solo indagato ma rinviato a giudizio per aver rivelato un segreto di ufficio e per aver fatto conoscere e aver dato spazio non si sa bene a chi, in che modo e in che forma i verbali Amara che sono i verbali dell’interrogatorio di questo signore che dice cose pesantissime sulla magistratura“.

“Addirittura ipotizza che esiste una loggia che si chiama Loggia Ungheria, che sarebbe una specie di ‘Spectre’ che comanda la magistratura italiana. L’hanno rinviato a giudizio. Un pochino viene da ridere. E poi ripenso a Pietro Nenni, grande socialista, segretario del Psi per molti anni, partigiano combattente che diceva ‘Attenti puri, perché verrà uno più puro di voi e vi epurerà. Ecco qua, ci è caduto proprio Davigo”.

Caso Amara, Piercamillo Davigo rinviato a giudizio. L'ex pm di Mani Pulite a processo nell'anniversario di Tangentopoli. Il Tempo il 17 febbraio 2022

Guai giudiziari in vista per l'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ex pm simbolo di Mani Pulite. A 30 anni dall'inizio di Mani pulite con l'arresto dell'ex presidente del Pio Albergo Trivulzio, il socialista Mario Chiesa, che diede il via alla stagione di Tangentopoli, Davigo è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia, Francesca Brugnara, per rivelazione di segreto d'ufficio. Il processo a carico dell'ex magistrato del pool milanese prenderà il via il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del tribunale di Brescia. Al centro del procedimento ci sono i verbali secretati nei quali l'avvocato Piero Amara parlava della Loggia Ungheria. Materiale che, nell'aprile 2020, il pm milanese Paolo Storari, che insieme all'aggiunto Laura Pedio aveva raccolto quelle dichiarazioni, aveva consegnato a Davigo. Una iniziativa che Storari aveva preso per "tutelarsi" a suo dire dalla presunta "inerzia" dei vertici della procura milanese nell'avviare indagini sulle rivelazioni di Amara.

"Il dottor Davigo, anche per mio tramite, si difenderà fortemente", ha ribadito l'avvocato Francesco Borasi, difensore di Davigo, al termine dell'udienza. Il legale in aula aveva sottolineato le "contraddizioni" che a suo avviso sono emerse dal capo d'imputazione stilato dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi, precisando come "faccia sorridere l'ipotesi di commettere il reato di rivelazione di segreto d'ufficio" confrontandosi su un'inchiesta con il vicepresidente del Csm David Ermini, al quale Davigo aveva mostrato i verbali di Amara, sollecitando un impulso nelle indagini.

L'avvocato ha anche chiarito che "Davigo ha agito secondo la legge" e ha chiesto il proscioglimento per l'ex magistrato che non era in aula perché impegnato in un convegno per i 30 anni di Tangentopoli a Pisa.

Bisognerà attendere fino al prossimo 7 marzo, invece, per una decisione sulla posizione del pm Storari. Il gup, infatti, ha rinviato il processo a suo carico, celebrato con rito abbreviato, per dare spazio ad eventuali repliche. Poi si ritirerà in camera di consiglio per emettere la sentenza.

Era stato proprio Storari ad interrogare l'avvocato Amara insieme all'aggiunto Laura Pedio nell'ambito dell'inchiesta sul 'falso complotto Eni', mentre a Milano era in corso il processo Eni Nigeria. In quelle audizioni, l'avvocato siciliano aveva parlato della loggia coperta, che avrebbe riunito alti magistrati, avvocati e altri personaggi di spicco e sarebbe stata in grado di condizionare nomine e appalti. Convinto della necessità di aprire immediatamente un fascicolo autonomo su Ungheria, ad aprile 2020, a suo dire per "autotutelarsi" dalla presunta inerzia dei vertici della procura, Storari "fuori da ogni procedura formale" ha consegnato i verbali a Davigo, il quale, come si legge nel capo d'imputazione, "lo ha rassicurato di essere autorizzato a ricevere copia degli atti" in quanto "il segreto investigativo su di essi non era a lui apponibile perché membro del Csm".

Tra i componenti della loggia coperta - che secondo Amara sarebbe stata guidata dall'ex procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, ormai deceduto - ci sarebbe stato anche il consigliere del Csm Sebastiano Ardita.

Rappresentato dall'avvocato Fabio Repici, Ardita si è costituito parte civile. Ritenendo di essere stato "danneggiato" da Davigo, che avrebbe portato i verbali a Roma e li avrebbe mostrati al vicepresidente del Csm David Ermini e ad altri magistrati per "screditarlo" agli occhi dei colleghi. Sempre Davigo aveva esortato Ermini a parlare della vicenda al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Copie dei verbali, infine, erano state recapitate a due quotidiani e al consigliere del Csm Nino Di Matteo. Operazione per la quale l'ex segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto è indagata dalla procura di Roma per calunnia. La donna, per i pm romani, infatti, avrebbe inviato le carte alla stampa e a Di Matteo, accompagnandole con alcuni biglietti nei quali veniva indicato l'ex procuratore di Milano, Francesco Greco, come il responsabile dei ritardi nelle indagini lamentati da Storari.

Caso Amara: Davigo mandato a processo il giorno del Trentennale anniversario di Mani pulite. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Febbraio 2022.  

Fissata per il 20 aprile la prima udienza. L'ex consigliere del Csm è accusato di rivelazione di segreti d'ufficio sulla vicenda della presunta "loggia Ungheria" resi a Milano dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara, che vennero consegnati a Piercamillo Davigo dal pm milanese Paolo Storari il quale lamentava lo scarso tempismo del procuratore Francesco Greco e dell'aggiunto Laura Pedio nell’indagare per accertare in fretta e distinguere tra verità e calunnie di Amara

L’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, 71 anni, magistrato in pensione, è stato mandato a processo dal Gup di Brescia, Federica Brugnara, imputato per rivelazione di segreto di ufficio per la vicenda della diffusione dei verbali coperti da segreto istruttorio resi dall’avvocato siciliano Piero Amara sulla presunta esistenza della loggia “Ungheria”. Il rinvio a giudizio nei confronti del magistrato in pensione e noto per essere stato il ‘Dottor Sottile‘ del pool milanese ‘Mani Pulite‘ coincide casualmente con il giorno del trentennale dell’arresto di Mario Chiesa a quell’epoca presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano , da cui scaturì l’inchiesta Tangentopoli. 

La giudice per le udienze preliminari dr.ssa Brugnara ha quindi accolto la tesi accusatoria sostenuta dal procuratore di Brescia Francesco Prete e dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi e cioè che la consegna dal pm Storari all’ex consigliere del Csm Davigo nell’aprile 2020 delle copie in formato di testo (word) dei verbali privi di firma, resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020 da Amara, non potesse venire giustificata né dal fatto che fosse stato Davigo a rassicurare Storari sulla liceità della consegna e sulla non opponibilità del segreto investigativo a un consigliere Csm; né tantomeno dal movente del pm Storari di lamentare i contrasti con i vertici della Procura sui ritardi (a suo avviso) nell’avviare concrete indagini.

Tra le successive varie rivelazioni di segreto a suo carico, Davigo verrà processato  non per quelle al procuratore generale Giovanni Salvi e al primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio, che non gli sono mai state contestate dall’accusa, ma bensì per quella al vicepresidente del Csm David Ermini, il quale compone il Comitato di Presidenza del Csm insieme a Salvi e Curzio .  Ermini ricevette da Davigo anche la copia dei verbali, che si affrettò poi a distruggere ritenendoli irricevibili, pur parlando della vicenda con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che è anche il presidente del Csm. 

Come rivelazioni di segreto sono state contestate le rivelazioni di Davigo ai consiglieri togati del Csm Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, ed ai laici Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna; alle sue due segretarie al Csm Giulia Befera e Marcella Contraffatto , al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il senatore Nicola Morra (in quel momento esponente del Movimento 5 Stelle), in un colloquio privato, secondo i magistrati della procura di Brescia al di fuori da qualsiasi regola, con l’intento di motivare i contrasti insanabili con il consigliere Csm Sebastiano Ardita che si è costituito assistito dall’avvocato Fabio Repici, quale parte civile nel procedimento contro Piercamillo Davigo, lamentando che la disponibilità dei verbali segreti di Amara sia stata strumentalizzata da Davigo per screditare al Csm la figura dell’ex collega di Csm ed ex compagno di corrente Ardita, con il quale aveva anche scritto il libro “Giustizialisti” ma successivamente si erano scontrati insanabilmente. 

“È evidente che qualunque cittadino ha il diritto che il proprio nome non venga fatto oggetto di divulgazione pubblica di notizie relative a una indagine finché quella indagine non trovi discovery e conclusione – ha spiegato nei giorni scorsi al Corriere della Sera l’avv. Repici difensore di Sebastiano Ardita, – Nel caso di specie, senza le condotte illecite compiute dai due imputati Ardita non avrebbe subìto la massiva infamante divulgazione di quelle informazioni riservate. E il fatto che Amara avesse indicato Ardita quale componente della presunta loggia Ungheria sarebbe diventato di pubblica conoscibilità solo al momento in cui i magistrati avessero attestato l’infondatezza di quelle dichiarazioni e avessero proceduto per calunnia a carico di Amara“.

Davigo comparirà il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Brescia per l’inizio del processo con rito ordinario per aver fatto circolare nella primavera 2020 all’interno ed all’esterno del Consiglio Superiore della Magistratura di cui è stato componente sino all’ottobre 2020, i verbali sulla fantomatica presunta associazione segreta “loggia Ungheria” resi a Milano dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara, che vennero consegnati a Piercamillo Davigo dal pm milanese Paolo Storari il quale lamentava lo scarso tempismo del procuratore Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio nell’indagare per accertare in fretta e distinguere tra verità e calunnie di Amara. 

“Ho semplicemente ribadito le contraddizioni del capo di imputazione“, ha spiegato l’avvocato Francesco Borasi, difensore di Davigo, sintetizzando ai cronisti il suo intervento durato un’ora e culminato con la sua richiesta di ‘non luogo a procedere‘ per l’ex consigliere del Csm, sostenendo che  “Davigo ha agito secondo la legge“. 

Il pm milanese Paolo Storari durante l’udienza preliminare bresciana a differenza di Davigo ha scelto di non aspettare l’esito di un dibattimento ordinario e di giocarsi invece subito il tutto per tutto in un rito abbreviato dunque con una sentenza penale di primo grado, conoscerà il verdetto nella prossima udienza, rinviata al prossimo 7 marzo, dopo che ieri il suo legale Paolo Della Sala ha replicato con la sua arringa alla richiesta della Procura di condannarlo al minimo della pena, cioè a 6 mesi. Redazione CdG 1947

Piercamillo Davigo rinviato a giudizio per il caso Loggia Ungheria con l’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 17 Febbraio 2022.  

Caso Amara, l’inchiesta sui verbali fatti circolare nella primavera 2020 e consegnati a Davigo dal pm milanese Paolo Storari. Il processo inizierà il 20 aprile. Il verdetto su Storari aggiornato al 7 marzo. Il rinvio a giudizio di Davigo nel giorno del trentennale di Mani Pulite 

Piercamillo Davigo, 71 anni

«Cento di questi anni» proprio no, visto che già il giorno del trentesimo convenzionale «compleanno» di Mani pulite (arresto di Mario Chiesa il 17 febbraio 1992) finisce «festeggiato» dall’allora pm Piercamillo Davigo con un testacoda inimmaginabile persino nei più sfrenati sogni dei suoi indagati dell’epoca: rinviato a giudizio proprio lui, mandato a processo dalla giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia Federica Brugnara per l’ipotesi di reato di «rivelazione di segreto d’ufficio». Cioè per aver fatto circolare nella primavera 2020 (dentro e fuori al Consiglio Superiore della Magistratura di cui fu membro sino all’ottobre 2020) i verbali sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria» resi a Milano dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara, e consegnati a Davigo dal pm milanese Paolo Storari che lamentava lo scarso dinamismo del procuratore Francesco Greco e della sua vice Laura Pedio nell’indagare per distinguere in fretta tra verità e calunnie di Amara. Storari, che a differenza di Davigo durante l’udienza preliminare bresciana ha scelto di non aspettare l’esito di un dibattimento ordinario e di giocarsi invece subito il tutto per tutto in un rito abbreviato dunque con gia sentenza penale di primo grado, avrà il verdetto nella prossima udienza, dopo che ieri il difensore Paolo Della Sala ha replicato in arringa alla richiesta della Procura di condannarlo seppure al minimo della pena, 6 mesi.

La decisione della giudice

La giudice ha dunque accolto la tesi giuridica —prospettata dal procuratore bresciano Francesco Prete e dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi — che la consegna nell’aprile 2020 da Storari a Davigo delle copie word dei verbali resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020 da Amara non potesse essere scriminata né dal fatto che fosse stato Davigo a rassicurare Storari sulla liceità della consegna e sulla non opponibilità del segreto investigativo a un consigliere Csm; né dal movente di Storari di lamentare i contrasti con i vertici della Procura sui ritardi (a suo avviso) nell’avviare concrete indagini. Tra le successive rivelazioni di segreto imputategli, Davigo va dunque a giudizio non per quelle al procuratore generale e al presidente della Cassazione, Giovanni Salvi e Pietro Curzio, che non gli sono mai state contestate dall’accusa, ma quella al vicepresidente del Csm David Ermini, che al pari di Salvi e Curzio compone il Comitato di Presidenza del Csm: Ermini ricevette da Davigo anche copia dei verbali, che si affrettò poi a distruggere ritenendoli irricevibili, pur se parlò della vicenda con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Le rivelazioni di segreto

Sempre come rivelazioni di segreto sono poi contestate a Davigo quelle ai consiglieri Csm Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna; alle sue due segretarie al Csm Marcella Contraffatto e Giulia Befera; e al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il senatore (allora nel Movimento 5 Stelle) Nicola Morra, in un colloquio privato, fuori (per i pm) da qualunque regola, e solo per motivare i contrasti insorti con il consigliere Csm Sebastiano Ardita. Il quale si è costituito (con l’avvocato Fabio Repici) parte civile nel procedimento contro Davigo, appunto lamentando che la disponibilità dei verbali segreti di Amara sia stata utilizzata da Davigo per screditare al Csm la figura dell’ex collega di Csm ed ex compagno di corrente, con il quale aveva anche scritto un libro («Giustizialisti») ma era poi entrato in urto.

La linea difensiva

Al processo Davigo riproporrà la propria linea difensiva, già esposta negli interrogatori a Brescia: a suo avviso le circolari Csm sono state rispettate dal suo modo di informare i vertici di quanto stava (non) accadendo alla procura di Milano; e comunque, «se io ho commesso il delitto di rivelazione di segreto d’ufficio, allora loro (cioè i vertici del Csm e della Procura generale di Cassazione, ndr) avrebbero dovuto denunciarmi», visto che «l’omessa denuncia di reato da parte di un pubblico ufficiale è reato», e dunque «dovrebbero essere incriminati per omissione d’atti d’ufficio», ma «a nessuno di loro venne in mente di doverlo fare perché nessuno di loro pensò che il mio fosse un reato». E a proposito della distruzione dei verbali raccontata dal vicepresidente Csm Ermini: «Bravo... complimenti... Ermini evidentemente non è precisamente un cuor di leone: se io avessi commesso un reato, quella era la prova del reato, dovevi trasmetterla all’autorità giudiziaria, se no è favoreggiamento personale».

L’archiviazione di Greco

La decisione odierna arriva dopo l’archiviazione dell’indagine sull’allora procuratore milanese Francesco Greco per l’ipotesi di omissione d’atti d’ufficio nel trattare il fascicolo sulla loggia Ungheria (trasmesso un anno fa per competenza territoriale a Perugia; e prima che sempre la Procura di Brescia decida la sorte del procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, indagati per «rifiuto d’atti d’ufficio» nell’ipotesi abbiano tenuto il Tribunale del processo Eni-Nigeria all’oscuro di elementi potenzialmente favorevoli alle difese (benché segnalati da Storari ai due pm) sulla figura di Vincenzo Armanna. Cioè dell’ex dirigente Eni coimputato ma anche accusatore di Eni valorizzato nel processo Eni-Nigeria da De Pasquale, e nell’inchiesta sui presunti depistaggi giudiziari Eni da Pedio, pure indagata per omissione d’atti d’ufficio nell’ipotesi non abbia indagato tempestivamente su Armanna per calunnia dei vertici Eni.

Caso Loggia Ungheria/Amara, l'ex consigliere Csm Davigo rinviato a giudizio nel giorno dell'anniversario di Mani Pulite.  Luca De Vito su La Repubblica il 17 Febbraio 2022.  

La procura di Brescia: "Condannare pm Storari a 6 mesi". Processi paralleli per l'ex consigliere del Csm e per il pm milanese per la vicenda della rivelazione di segreto d'ufficio per i verbali di Amara 

L'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, imputato per rivelazione di segreto di ufficio, è stato rinviato a giudizio dalla gup di Brescia, Federica Brugnara, per la vicenda della diffusione dei verbali di Amara sulla Loggia Ungheria. Una richiesta, quella nei confronti dell ex pm del pool di Mani Pulite, che arriva casualmente in una giornata simbolica, quella del trentennale dell'arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, da cui scaturì l'inchiesta Tangentopoli. Davigo comparirà in aula il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Brescia per l'inizio del processo con rito ordinario. 

A metà mattina si è anche celebrata l'udienza del processo in abbreviato per il pm milanese Paolo Storari,  accusato dello stesso reato: fu lui a consegnare nell'aprile del 2020 a Davigo quei verbali di Amara. Un gesto che Storari ha sempre definito di "autotutela" nei confronti di una presunta inerzia nelle indagini da parte dei vertici della procura milanese: i pm hanno chiesto per lui una condanna a sei mesi, il minimo della pena prevista. Per Storari la decisione è rinviata al 7 marzo.

L'avvocato Paolo Della Sala, difensore di Storari, ha spiegato che il pm ha agito dopo aver ricevuto da un "importante esponente del Consiglio Superiore della Magistratura" la conferma della correttezza del suo gesto, per altro "compatibile" con il compendio normativo, ossia con le circolari dello stesso Csm. Gesto che "poi ha trovato il suo avallo nei comportamenti di altre persone" che siedono a Palazzo dei Marescialli e delle quali "nessuna ha sollevato obiezioni formali" al modo in cui è stata chiesta tutela.

Davigo a processo per le rivelazioni sul caso Amara nell'anniversario di Tangentopoli. Luca Fazzo il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Un processo con un solo imputato ma con una sfilza di testimoni tale da trasformarlo in un docu-movie sul reale funzionamento della giustizia italiana.

Un processo con un solo imputato ma con una sfilza di testimoni tale da trasformarlo in un docu-movie sul reale funzionamento della giustizia italiana. L'imputato si chiama Piercamillo Davigo, ex Dottor Sottile della Procura di Milano, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, ex giudice di Cassazione: che ieri, proprio nel trentesimo anniversario dell'indagine Mani Pulite, viene rinviato a giudizio per rivelazione di segreti d'ufficio. E i testimoni sono quelli che Davigo - deciso a «difendersi fortemente» secondo il suo legale Francesco Borasi - si prepara a citare in aula per dimostrare di non avere commesso alcun reato nel ricevere e divulgare i verbali del «pentito» Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria.

E qui la cosa si fa interessante, perché la linea difensiva di Davigo rischia di chiamare in causa una lunga serie di personaggi eccellenti: dai magistrati di Milano, a partire dal suo collega ed ex amico Francesco Greco, fino ai vertici della Cassazione e del Csm che potrebbero spiegare quanto e come sapessero delle rivelazioni di Amara già prima che il pm milanese Paolo Storari, logorato dai timori di insabbiamento, passasse a Davigo i verbali sulla «loggia Ungheria».

«Non staremo qui a girare la minestrina», è la linea della difesa di Davigo: modo un po' bersaniano per dire che l'ex pm intende combattere fino alla fine, costi quel che costi. Nella impostazione dell'accusa il «Dottor Sottile» è colpevole di un doppio ruolo, di una doppia violazione della legge: prima convince Storari a violare il segreto, garantendogli che la consegna è legittima; poi provvede personalmente a divulgare le carte a Roma, o comunque a renderne noto il contenuto. A queste accuse la tesi difensiva di fondo è che essendo all'epoca ancora membro del Csm, Davigo aveva il diritto di ricevere i verbali dell'inchiesta milanese che tiravano in ballo, come presunti membri della loggia, altri appartenenti al Consiglio superiore. E che il metodo assai informale scelto da Davigo e Storari, il passaggio brevi manu della brutta copia dei verbali, si giustificasse proprio con la delicatezza della situazione.

La sostanza, insomma, doveva prevalere sulla forma. Peccato che questo faccia a pugni con l'applicazione rigorosa e letterale del Codice penale di cui Davigo è stato per decenni protagonista, e che ora rischia di ritorcersi contro di lui. Allo stesso modo in cui la famosa battuta «non esistono innocenti ma colpevoli che l'hanno fatto franca» riecheggia ora che ad essere imputato è il suo autore: che ieri, colto a margine di un convegno dalla notizia del rinvio a giudizio, dice proprio così: «Sono sotto processo ma sono innocente».

Davigo sa di non avere, in questo frangente difficile, molti alleati. I suoi ex compagni di corrente lo hanno abbandonato da tempo, con gli amici del pool non si parla più, persino Gherardo Colombo - che all'epoca di Tangentopoli faceva con lui quasi coppia fissa - ieri, braccato dai cronisti al dibattito sul trentennale di Mani Pulite, non sgancia mezza parola di sostegno. Davigo è solo. Anche il pm Storari, imputato insieme a lui, ha separato il suo destino processuale, chiedendo il rito abbreviato un po' per limitare i danni, un po' per non essere trascinato nell'aula del processo mediatico che Davigo vuole mettere in scena. Già nel corso dell'udienza preliminare aveva chiesto che venissero ammesse in aula le telecamere, il giudice aveva detto di no. Ma il 20 aprile, quando inizierà il processo vero e proprio, sarà ben difficile lasciare i media fuori dall'aula.

Davigo non ha molto da perdere. La sua carriera è finita, il reato che gli viene contestato è punito blandamente, da sei mesi a tre anni. E comunque, come tiene lui stesso a sottolineare ieri, in caso di condanna non andrà in carcere: «non ho alcuna preoccupazione perché ho compiuto 70 anni e quindi resterei a casa». Ma a essere evidente è che Davigo non ha intenzione di incassare senza combattere una condanna che segnerebbe comunque la fine ingloriosa di una carriera grondante successi. E se per combattere dovrà trascinare sotto i riflettori il sistema di cui lui stesso ha fatto parte per quarant'anni, amen.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Ricorrenza amara per il 'Dottor Sottile'. Davigo a processo per loggia Ungheria, rinviato a giudizio nel trentennale di Tangentopoli. Fabio Calcagni su Il Riformista il 17 Febbraio 2022 

Una tempistica che rovina le ‘celebrazioni’ del trentennale di Tangentopoli, o meglio dell’arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa, da cui scaturì l’inchiesta che fece crollare la Prima Repubblica. Piercamillo Davigo, l’ex consigliere del Csm ed ex membro del pool di Mani Pulite, è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia per rivelazione di segreto di ufficio in relazione alla diffusione dei verbali coperti da segreto istruttorio resi dall’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara sulla presunta esistenza della loggia Ungheria.

A consegnarglieli i verbali era stato, ad aprile 2020, il pubblico ministero milanese Paolo Storari: nelle dichiarazioni rilasciate a lui e al procuratore aggiunto Laura Pedio, Amara faceva riferimento a una presunta associazione massonica, la loggia Ungheria, in grado di condizionare l’operato della magistratura e di altri burocrati della Stato. Storari, al contrario di Davigo, ha scelto il rito abbreviato: il verdetto ci sarà nella prossima udienza fissata il 7 marzo.

Come ormai noto Storari lamentava lo scorso ‘attivismo’ dell’allora procuratore capo di Milano Francesco Greco e della sua vice Pedio nell’indagare sulle dichiarazioni rese da Amara.

La richiesta di mandare a processo il ‘dottor Sottile’ era arrivata in aula dai pm bresciani ed è stata accolta dal giudice Federica Brugnara. Davigo comparirà il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Brescia per l’inizio del processo con rito ordinario. Al processo sarà presente come parte civile anche il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, assistito dall’avvocato Fabio Repici.

Davigo oggi non era presente in aula perché impegnato in un convegno a Pisa sui trent’anni di Mani Pulite.

L’ex magistrato “si difenderà fortemente”, ha commentato all’Adnkronos Francesco Borasi, difensore di Davigo. “L’avvocato Borasi aveva chiesto la pubblicità dell’udienza preliminare perché tutto si svolga nella massima chiarezza e trasparenza e quando sarà il caso il dottor Davigo si difenderà in dibattimento, essendo certo della propria innocenza“, ha spiegato l’avvocato Marco Agosti, che in udienza ha sostituito l’avvocato Francesco Borasi, legale dell’ex consigliere del Csm.

“Non poteva quasi che finire in questa maniera“, ha aggiunto il legale precisando che in dibattimento Davigo avrà modo di chiarire meglio la sua posizione. “La cosa che lascia perplessi – ha concluso l’avvocato Borsai – è come Davigo abbia potuto compiere il reato di rivelazione di segreto d’ufficio mostrando i verbali secretati dell’avvocato Piero Amara al vicepresidente del Csm David Ermini“.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 18 febbraio 2022.  

Per una sorta di perfido contrappasso, nel trentesimo anniversario dell'arresto di Mario Chiesa e dell'inizio di Tangentopoli, uno dei campioni del pool di Mani pulite, Piercamillo Davigo, è stato mandato alla sbarra. Le sue ultime parole famose con le quali si era assolto durante il suo interrogatorio da indagato a Brescia, erano state queste: «Ritenevo e ritengo che l'unica cosa indiscutibile [] è che al Csm non è opponibile il segreto investigativo. È stato ripetuto da un'infinita di circolari».

Ieri il giudice dell'udienza preliminare Federica Brugnara, accogliendo la richiesta della Procura guidata da Francesco Prete, l'ha rinviato a giudizio con l'accusa di rivelazione del segreto d'ufficio per aver «volantinato» nella primavera del 2020 i verbali del faccendiere Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria. 

Quelle carte sensibili gli furono consegnate da chi indagava, ovvero il pm milanese Paolo Storari, preoccupato di restare col cerino in mano, visto che, a suo dire, il procuratore Francesco Greco e l'aggiunto Laura Pedio traccheggiavano con le iscrizioni sul registro degli indagati. E mentre Davigo dovrà presentarsi in Tribunale il 20 aprile per la prima udienza del suo processo, Storari, che ha optato per il rito abbreviato, tornerà davanti al gup il 7 marzo. 

La Procura ha chiesto di condannarlo a sei mesi di reclusione. Davigo, invece, «si difenderà in dibattimento, essendo certo della propria innocenza», hanno precisato i suoi difensori, gli avvocati Francesco Borasi e Marco Agosti. L'ipotesi della Procura bresciana è che Davigo abbia convinto Storari a consegnargli i verbali per poi diffonderli all'interno del Csm. 

Nelle scorse settimane Piercavillo aveva sostanzialmente fatto una chiamata di correo per chi aveva avuto da lui la notizia delle clamorose dichiarazioni di Amara: «L'omessa denuncia di reato da parte di un pubblico ufficiale è reato... a nessuno di loro e venuto in mente di doverlo fare perché nessuno di loro ha pensato che fosse un reato», aveva detto in Procura, schermandosi dietro a tutti quelli con cui aveva parlato.Ovvero il vicepresidente del Csm David Ermini, ma anche altri cinque consiglieri.

Davigo probabilmente era davvero convinto di poter far filtrare quei documenti, tanto che in udienza ha anche affermato che Storari gli aveva fatto «una richiesta preventiva sulla legittimità del suo comportamento». Il pm milanese temeva che quella bomba gli potesse scoppiare tra le mani. 

E in uno dei suoi tre lunghi verbali resi a Brescia aveva raccontato, come anticipato dalla Verità, che, quando aveva provato a chiedere di acquisire i tabulati telefonici, il procuratore Francesco Greco (indagato e poi prosciolto, oltre che, è notizia di ieri, nuovo consigliere alla legalità del sindaco di Roma Roberto Gualtieri) gli aveva risposto che sarebbe partito contro di lui «un procedimento disciplinare».

Tra i colleghi, qualcuno gli avrebbe persino consigliato di lasciare a bagnomaria quell'inchiesta: «Mi ricordo benissimo quello che Fabio De Pasquale (l'aggiunto del processo Eni-Nigeria, terminato con tutte assoluzioni, ndr) mi ha detto... quello me lo ricordo... di tenere nel cassetto due anni questo fascicolo...». Al pm viene in mente persino una data, il 27 dicembre 2019: «"Meglio insabbiare il fascicolo Ungheria" e questo me lo dice De Pasquale». 

Storari, a Brescia, ha ricostruito i presunti escamotage di Greco per procrastinare le indagini: «Allora, lui diceva: "Fai la cosa e predisponi un cronoprogramma.".. e io faccio il cronoprogramma... "Fammi la memoria sulla competenza"... "Mi sono perso la memoria sulla competenza"... "Rimandami la memoria sulla competenza.".. tutto così». E quando Storari ha predisposto delle schede di iscrizione l'aggiunto Pedio avrebbe fatto «la matta» dicendo: «Ma come ti permetti, Paolo è un fatto gravissimo». Cosa che gli avrebbe ribadito pure Greco. E, così, il pubblico ministero sotto inchiesta avrebbe cominciato a sentirsi fuori luogo: «Io ero un corpo estraneo lì dentro... loro se la cantavano, De Pasquale, Pedio e Greco. Loro si facevano le riunioni per i fatti loro...».

 Ma il clima peggiora quando iniziano «a uscire le chat di Palamara sulla Verità», ha spiegato Storari, in cui sembrava che «Greco sostanzialmente si fosse sistemato i suoi alla Procura di Milano», cioè De Pasquale, Pedio e Eugenio Fusco. In una conversazione telefonica, l'ex presidente dell'Anm specifica che «la Pedio è sua», di Greco. Storari si insospettisce e chiede l'acquisizione delle chat e degli atti perugini, ma i colleghi «manco quello» volevano fare, forse perché «andare a sfruculiarci dentro» avrebbe comportato «una situazione brutta, antipatica», ovvero avrebbe significato rischiare di dover «indagare su se stessi».

A questo punto il pm avrebbe chiesto di sentire l'ex stratega delle nomine per verificare se confermasse quanto scritto nei suoi messaggi: «Se Palamara, che vabbé... sarà un pazzo, però dice io questo manco lo conosco... eh insomma... iniziamo a discutere di qualcosa...». Ma i colleghi avrebbero bocciato la sua idea: «Ecco, loro non hanno mai voluto... mai... mai... io due o tre volte l'ho chiesto, poi... la motivazione era... diamo un palcoscenico a uno così... questo mi è stato detto...».

Storari avrebbe replicato: «Vabbé, non è che dobbiamo mettere i cartelli quando sentiamo Palamara... possiamo farlo in maniera...». Ma gli altri, continua il verbale, non hanno «mai voluto», forse perché si trattava di «andare a sfruculiare una vicenda in cui anche loro erano coinvolti...». E qui il magistrato indagato lascia intendere che lo stesso Greco avrebbe ammesso di aver piazzato i suoi pupilli, Pedio in testa: «Perché, e qui dico una cosa che fa parte del notorio e del bagaglio di esperienza e di conoscenza fatto alla Procura di Milano, perché Greco ha un difetto, parla troppo. A me Greco ha detto... ma non solo a me... che lui in effetti si era prodigato... con chiarezza... perché doveva mettere questi tre suoi». 

Con la Pedio, definita «amica da trent' anni» ed ex compagna di università, Storari è impietoso. Sottolinea che, mentre indagava insieme con lei, i pochi atti e le uniche sommarie informazioni sono stati acquisiti su propria iniziativa e quando il procuratore Prete ricorda che la collega lo seguì in Sicilia per un'attività investigativa, Storari è impietoso: «Sì, perché il marito doveva fare una gara di nuoto a Catania».

Il pm ne ha anche per Amara, uno dei presunti grembiulini di Ungheria. Vederlo nella trasmissione Piazzapulita gli ha fatto ribollire il sangue: «In televisione va a dire: "La Pedio... la dottoressa più intelligente che abbia mai conosciuto"». Quindi sbotta: «Ieri sera ho visto quel faccia di merda che continuava: "Storari... Storari... Storari..."».Che adesso, insieme con Davigo, rischia una condanna.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 18 febbraio 2022.

Mi chiama un amico per mettermi a parte del rinvio a giudizio di Piercamillo Davigo. Non mi importa, rispondo. Insiste: sai quanti ne abbiamo oggi? 

Sì, dico, è il 17 febbraio, sono trent' anni esatti dall'arresto di Mario Chiesa, ma non mi importa, da molti anni ritengo Mani pulite un grande abbaglio, l'alibi per tutti noi di considerarci dei poveri sgobboni taglieggiati dalla casta, l'occasione per la magistratura di assumere l'osceno ruolo di moralizzatrice del paese, per i giornalisti di sferruzzare i loro articoli da tricoteuse, una gara invereconda a chi era più onesto, praticamente un paese di 59 milioni e 950 mila onesti messi nel sacco da 50 mila disonesti, per i quali abbiamo invocato e ottenuto il patibolo preventivo.

Eravamo già grillini, prima di Grillo, altroché. Gli dico, vatti a risentire il discorso di Craxi passato meschinamente alla storia come quello del così fan tutti, in cui in realtà diceva che la magistratura doveva indagare i reati, cercare i colpevoli, eventualmente condannarli, ma la politica doveva fare la politica, e riversare tutto sul capro espiatorio socialista significava ripartire dalla menzogna e prepararsi un futuro di menzogne: ecco, il ladro aveva ragione e gli onesti avevano torto.

Ma non mi importa più. Non voglio più rovinare a nessuno la sua storia di Zorro, auguro a Davigo una pronta assoluzione e passo oltre. Ma io, dice l'amico, volevo solo leggerti una frase di Edmund Burke: «Qui finiscono tutti gli ingannevoli sogni e visioni di eguaglianza e di diritti dell'uomo. Nella palude Serbonia di questa vile oligarchia tutti saranno assorbiti, soffocati e perduti per sempre».

Davigo il “furbetto” rimasto senza toga e poltrona e i verbali della “loggia Ungheria”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Febbraio 2022

Il caso aveva sollevato una vera e propria bufera tra le fila della magistratura mentre lui manifesta serenità come ha dichiarato è stato proprio lui, consapevole anche il fatto di aver raggiunto il compimento di 70 anni di età. Un requisito che, in molti casi, scongiura la galera di fronte a un'eventuale condanna. Di fatto una sorte di impunità.

Il destino delle volte è atroce, ma talvolta è tempestivo come nel caso del rinvio a giudizio per l’ex magistrato (ora in pensione) Piercamillo Davigo, arrivato a 30 anni da Mani pulite è arrivato il rinvio a giudizio con l’ipotesi di reato di rivelazione di segreto di ufficio. La decisione è è stata adottata dal Gup di Brescia, Federica Brugnara, e quindi l’ex consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura dovrà essere processato per la vicenda della diffusione dei verbali coperti da segreto istruttorio resi dall’avvocato siciliano Piero Amara sulla presunta esistenza della fantomatica “loggia Ungheria“. 

Il caso aveva sollevato una vera e propria bufera tra le fila della magistratura mentre lui manifesta serenità come ha dichiarato è stato proprio lui, consapevole anche il fatto di aver raggiunto il compimento di 70 anni di età. Un requisito che, in molti casi, scongiura la galera di fronte a un’eventuale condanna. Di fatto una sorte di impunità.

Come ricorda il Corriere della Sera, l’ex consigliere del Csm lo ha detto senza giri di parole. Si è espresso in maniera chiarissima e si è mostrato piuttosto spensierato, anche perché ha ribadito la totale convinzione di essere innocente: “Io sono sotto processo penale e non ho la minima preoccupazione. A parte il fatto che sono innocente, ma so che comunque non mi accadrebbe niente perché – avendo compiuto 70 anni – non posso neanche andare in carcere e starei comunque a casa mia“. Davigo lo ha dichiarato in occasione di un intervento all’Università di Pisa, per una tavola rotonda sul convegno Tangentopoli 30 anni dopo.

“La vicenda del rinvio a giudizio del dr. Davigo ha ad oggetto fatti gravi che è giusto che siano valutati davanti a un Tribunale, nella parità tra accusa e difesa. Indipendentemente dalla contestazione all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e della sua eventuale responsabilità, tutta da dimostrare, trovo da ex pubblico ministero davvero inaudito che verbali coperti da segreto investigativo, tra l’altro in un’indagine delicatissima come quella della cd. Loggia Ungheria, siano circolati tra persone che non avevano alcun titolo giuridico ad entrarne in possesso». Così Luigi de Magistris all’ agenzia Adnkronos “Poi -aggiunge l’ex magistrato già sindaco di Napoli – sono anche finiti sui giornali e l’indagine, forse anche tenuta troppo tempo negli armadi, è andata completamente “bruciata”. Redazione CdG 1947

Piercamillo Davigo a processo tira in ballo Sergio Mattarella: "Mi fece ringraziare sulla Loggia Ungheria". Libero Quotidiano il 19 febbraio 2022

L'accusa è di rivelazione si segreto d'ufficio. E Piercamillo Davigo le tenta tutte e affonda gli artigli su ex amici ed ex colleghi. L'ex magistrato, rinviato a giudizio proprio nel trentennale di Mani Pulite, ha chiamato in causa Sergio Mattarella, l'ex capo Francesco Saverio Borrelli e David Ermini. Di fronte al biasimo di aver fatto pervenire i verbali segreti della Procura di Milano a membri del Consiglio superiore della magistratura, Davigo si difende: "Al Consiglio superiore non è opponibile il segreto investigativo (...) il precedente specifico cui faccio riferimento riguarda il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli che quando venne iscritto nel registro delle notizie di reato Silvio Berlusconi informò per le vie brevi il presidente della Repubblica in quanto presidente del Csm", è stata la replica riportata dal Giornale.

Ma non è tutto, perché venuto a sapere che della Loggia Ungheria facevano parte anche due membri del Csm, Davigo si apprestò a farlo sapere al Quirinale. Il motivo? "Ritenni necessario informare immediatamente il vicepresidente del Csm (David Ermini, ndr) e per suo tramite il Presidente della Repubblica in quanto presidente del Csm. Ermini ha condiviso questa mia valutazione che tacere questa notizia al presidente della Repubblica avrebbe potuto essere interpretato come sospetto nei suoi confronti e quindi intollerabile (...) lui andò direttamente al Quirinale, al ritorno mi disse che il presidente della Repubblica mi ringraziava delle informazioni fornite e che riteneva per il momento sufficienti quelle informazioni". Peccato però che il capo dello Stato abbia sempre negato di aver appreso secondo quelle modalità la notizia.

Dalle accuse non viene risparmiato neppure Ermini che, a detta dell'ex toga, mentirebbe. A suo dire il vicepresidente del Csm non può aver distrutto subito i verbali milanesi, visto che "quei file glieli ho dati dopo". In ogni caso la tesi di Davigo rimane sempre la stessa, ossia "se una loggia massonica decide le nomine di centinaia d magistrati italiani sarà bene un problema del Consiglio o no che deve essere segnalata?". A deciderlo il Tribunale di Brescia, chiamato a fare luce sulla vicenda il 20 aprile.

La difesa spericolata dell'imputato Davigo: tira in ballo Mattarella. "Mi fece ringraziare sulla loggia Ungheria". Luca Fazzo il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Chiama in causa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E per difendersi dalle accuse, evoca persino Francesco Saverio Borrelli, suo capo all'epoca del pool Mani Pulite.

Chiama in causa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E per difendersi dalle accuse, evoca persino Francesco Saverio Borrelli, suo capo all'epoca del pool Mani Pulite. Per capire meglio la linea difensiva con cui Piercamillo Davigo - dopo il rinvio a giudizio disposto l'altro ieri - si prepara ad affrontare il 20 aprile il processo per rivelazione di segreto d'ufficio, la lettura più interessante è il verbale di interrogatorio reso il 7 luglio davanti alla Procura di Brescia. Ventisei pagine in cui Davigo si difende attaccando a destra e manca: ex amici, ex colleghi. Dando del bugiardo al vicepresidente del Csm David Ermini. E rivendicando di avere agito solo a fin di bene.

LO FECE ANCHE BORRELLI

All'accusa di avere fatto pervenire i verbali segreti della Procura di Milano a membri del Csm, Davigo ribatte: «Al Consiglio superiore non è opponibile il segreto investigativo (...) il precedente specifico cui faccio riferimento riguarda il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli che quando venne iscritto nel registro delle notizie di reato Silvio Berlusconi informò per le vie brevi il presidente della Repubblica in quanto presidente del Csm».

IL GRAZIE DI MATTARELLA

Dopo avere letto che della loggia Ungheria facevano parte anche due membri del Csm, Davigo racconta di avere avvisato il Quirinale. «Ritenni necessario informare immediatamente il vicepresidente del Csm (David Ermini, ndr) e per suo tramite il Presidente della Repubblica in quanto presidente del Csm. Ermini ha condiviso questa mia valutazione che tacere questa notizia al presisente della Repubblica avrebbe potuto essere interpretato come sospetto nei suoi confronti e quindi intollerabile (...) lui andò direttamente al Quirinale, al ritorno mi disse che il presidente della Repubblica mi ringraziava delle informazioni fornite e che riteneva per il momento sufficienti quelle informazioni». Mattarella ha sempre negato di avere appreso notizie sull'indagine milanese.

ERMINI MENTE

David Ermini ha dichiarato a verbale di avere distrutto immediatamente i verbali milanesi. «Io solo nei giorni successivi - ribatte Davigo - diedi quei file ad Ermini, forse perchè mi chiese circostanze che io non ricordavo e io gli ho detto: senti non me li posso ricordare tutti questi nomi quindi faccio prima se ti do copia del file. Quindi non può avere distrutto immediatamente un bel niente perché glieli ho dati dopo».

CASCINI E AMARA

Davigo spiega di avere parlato della loggia Ungheria con Giuseppe Cascini, membro del Csm in quota sinistra. «Gliel'ho detto perchè si è occupato a lungo di Amara (...) mi disse: Amara non dice tutto ma è troppo intelligente per farsi prendere a dire cose non vere. Quindi probabilmente tutto quello che ha detto è vero". Il che aumentò la mia ansia per quello che emergeva da quelle dichiarazioni»

CONTRO LA PROCURA DI MILANO

Davigo si giustifica per avere portato i verbali al Csm parlando dell'inerzia dei suoi ex colleghi: «La Procura di Milano non ha fatto niente (...) dà una figura di pubblico ministero che è lontana mille miglia da quella che io ho sempre pensato essere, il pm è al servizio della legge, non deve portare a casa dei risultati, non deve portare a casa delle condanne e comunque non può sottrarre prove al giudice e neanche alla difesa». Secondo Storari, come è noto, i verbali di Amara venivano insabbiati per non compromettere l'esito del processo Eni. «Lui mi ha detto che è stato detto in sua presenza: no, questa roba la teniamo qui due anni e poi si vede". Ma come ti viene?»

IL CSM DOVEVA SAPERE

É il tema chiave dell'autodifesa di Davigo. «Se una loggia massonica decide le nomine di centinaia d magistrati italiani sarà bene un problema del Consiglio o no che deve essere segnalata?»

«NON ERANO VERBALI»

All'accusa di avere passato i verbali a alcuni membri del Csm Davigo replica: «Quelli non erano verbali in senso formale.. nulla aggiungevano e nulla toglievano a ciò che io dicevo a voce, erano una guida alla memoria (...) se tutti ritenevano che questo fosse illecito, sono pubblici ufficiali, nessuno si è sognato di fare una segnalazione a mio carico. Ma di che cosa parliamo?»

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

"Da pm disse che gli innocenti non esistono. Se lo ricordi adesso che è un imputato". Luca Fazzo il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'avvocato: "Se ha rivelato i verbali a politici estranei al Csm è una violazione del segreto d'ufficio. Ma sappiamo che certi procedimenti vengono usati come arma".

Come avvocato e come parlamentare, Gaetano Pecorella ha consacrato una carriera al garantismo. E non cambia registro neanche ora davanti al processo che attende Piercamillo Davigo, con cui - in entrambe le proprie vesti - si è scontrato più volte nel corso degli anni. «Il rispetto della presunzione di innocenza - dice Pecorella - non è un vestito che si possa dismettere a seconda delle occasioni».

Quindi anche Davigo è un presunto innocente?

«Assolutamente sì, anche se è inevitabile ricordargli che secondo lui non esistevano imputati innocenti ma solo magistrati che non avevano saputo fare bene il loro lavoro».

Però qui c'è un dato di fatto inoppugnabile: Davigo riceve i verbali segreti dal pm Storari, e poi li divulga a destra e manca.

«Davigo all'epoca faceva parte del Consiglio superiore della magistratura e dubito che consegnare o mostrare questi verbali a un componente del Csm possa venire considerata una violazione del segreto d'ufficio. È vero che non ha seguito le vie delle regole ufficiali, non li ha messi a disposizione secondo le procedure di legge. Ma comunque fino a quel momento i verbali sono rimasti all'interno di un organo istituzionale che ha tra i suoi doveri disciplinari quello di vigilare su quanto avviene nelle Procure».

Davigo è accusato anche di avere istigato Storari a commettere a sua volta un reato, consegnandogli i verbali.

«Vale in buona parte lo stesso discorso. Il fatto che un pubblico ministero consegni a un componente del Csm la prova che un'indagine in corso subiva dei rallentamenti è assai discutibile che possa costituire una rivelazione di segreto d'ufficio. I verbali vengono consegnati a un magistrato da un altro magistrato che vuole dimostrare la propria estraneità a una data vicenda. Se per Storari era un atto difesa legittima portare il contenuto dei verbali a conoscenza di Davigo, senza farli uscire all'esterno dell'istituzione, la conclusione è ovvia: se non era reato per Storari, non lo era neanche per Davigo».

Sta dicendo che Davigo potrebbe essere assolto?

«Il vero problema per lui è costituito dalla decisione di mostrare i verbali a un politico, a un personaggio esterno alla magistratura e al Csm come il presidente della Commissione antimafia Nicola Morra. Per quello non vedo giustificazione. Se il contenuto dei verbali è stato rivelato a politici che nulla avevano a che fare con il Csm siamo sicuramente di fronte a una rivelazione di segreto d'ufficio».

Lei ha conosciuto bene Davigo.

«La prima volta ero ancora un giovane avvocato, mancavano anni a Mani Pulite. Mise sotto processo un avvocato svizzero. È una vicenda che ricorderò per tutta la vita perché l'avvocato fu fatto oggetto di un'imputazione del tutto infondata, tanto che venne assolto in primo grado. Fu un'esperienza traumatica per me e soprattutto per il collega che essendo svizzero probabilmente non era abituato a certe forme di giustizia all'italiana».

Era già il Davigo che conosciamo.

«Quel tipo di rigore evidentemente fa parte della sua personalità. Mi auguro che quella frase sugli innocenti che non esistono gli torni in mente adesso che si trova a sua volta accusato da un magistrato».

Come si spiega che un uomo di palese intelligenza si sia andato a infilare in un pasticcio del genere?

«Nel caso specifico mi sembra ipotizzabile che sia stato spinto per motivi di corrente o di tutela dei suoi amici a tenere certi comportamenti, pensando che fossero leciti. Ma aspetterei a giudicare. Quando un magistrato finisce sotto processo, a parte situazioni evidenti di corruzione o di atti di libidine, va sempre valutata con molta prudenza l'accusa che gli viene mossa. Sappiamo benissimo come i procedimenti disciplinari e penali siano anche strumenti per scontri di potere, come vengano usati da una parte contro un'altra».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Robespierre e Beccaria. Augusto Minzolini il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

A volte la Storia è complice di strane coincidenze che sorprendono anche l'animo più cinico. A volte la Storia è complice di strane coincidenze che sorprendono anche l'animo più cinico. Chi avrebbe mai immaginato che il giorno del trentesimo anniversario di Tangentopoli, Piercamillo Davigo, l'ex pm del pool di Milano, sarebbe stato rinviato a giudizio e sottoposto a processo? Pochi. Sicuramente Bettino Craxi e Francesco Cossiga, che davanti ai meccanismi perversi di Tangentopoli profetizzarono che un giorno «i giudici si sarebbero arrestati tra loro».

Di quei meccanismi Davigo è stato il vero teorico, l'artefice di una visione messianica della giustizia, che non ammetteva dubbi e si rapportava con fastidio ad ogni garanzia, secondo una filosofia che affida al magistrato, solo a lui, una missione salvifica della società, anche in contrapposizione alla politica, cioè alla rappresentanza del popolo, considerata una sorta di letamaio secondo lo schema che «non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state trovate le prove». Insomma, la cultura del sospetto, dell'indizio che si trasforma in prova, dell'imputato che è colpevole, appunto, solo perché fa parte della categoria dei politici o giù di lì. Davigo è stato una sorta di Maximilien Robespierre redivivo, che dopo poco più di due secoli dall'originale, ha indossato la toga per dare vita ad una nuova Rivoluzione, falsa o vera poco importa, che però non aveva nulla a che vedere, questo è il punto, con la giustizia, con il diritto e, a ben vedere, neppure con la democrazia.

E la ragione è semplice: quando mischi la giustizia con la rivoluzione, finisci ai tribunali del popolo, ai regimi totalitari. Motivo per cui alla fine l'epilogo del novello Robespierre era scritto, perché anche una democrazia malata, pavida e minata da trent'anni di populismi di ogni colore ha i suoi anticorpi per sopravvivere. E il primo è il giudizio di un'opinione pubblica che per qualche anno, magari anche qualche decennio, può essere incantata dalla retorica di Tangentopoli, complice anche una certa stampa sempre pronta ad inginocchiarsi di fronte ad ogni nuovo regime, ma poi si guarda intorno e si accorge che non è cambiato granché. O peggio, scopre che neppure più dei giudici si può fidare. Così ciò che avvenne al vecchio Robespierre è capitato anche al nuovo: Davigo, più precisamente, il giustizialismo in toga, ha perso il consenso popolare (il sì della Consulta ai referendum sulla giustizia è un'altra coincidenza da non sottovalutare) e rischia di essere crocifisso per un reato, sembra la legge del contrappasso, che non è mai stato perseguito (è il primo giudice che vi incappa) ma che è stato lo strumento usato per imbastire quei processi mediatici, di piazza, che sono stati l'essenza di Tangentopoli.

Il Re è nudo e la nemesi storica si consuma. Solo che nelle democrazie, quelle vere, non esistono né ghigliottine, né plotoni d'esecuzione e neppure si getta la chiave della cella per far confessare un imputato. Ci si ispira per impostare un processo giusto, per garantire i diritti di ogni imputato a Cesare Beccaria, al Dei delitti e delle pene, che fu pubblicato esattamente trent'anni prima che il povero Maximilien salisse sul patibolo. Ecco perché mai come ora bisogna essere «garantisti» innazitutto, e soprattutto, con l'ex magistrato Piercamillo Davigo nel ruolo di imputato. Augusto Minzolini

La stoccata di De Magistris: «Davigo a processo? Fatti gravi, inevitabile». L'ex sindaco di Napoli intanto pensa al suo futuro politico. Sarà il leader di "Manifesta". Ecco di cosa si tratta. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 18 febbraio 2022.

«La vicenda del rinvio a giudizio del dr. Davigo ha ad oggetto fatti gravi che è giusto che siano valutati davanti a un Tribunale, nella parità tra accusa e difesa. Indipendentemente dalla contestazione all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e della sua eventuale responsabilità, tutta da dimostrare, trovo da ex pubblico ministero davvero inaudito che verbali coperti da segreto investigativo, tra l’altro in un’indagine delicatissima come quella della cd. Loggia Ungheria, siano circolati tra persone che non avevano alcun titolo giuridico ad entrarne in possesso». Così all’Adnkronos Luigi de Magistris. «Poi -aggiunge l’ex magistrato già sindaco di Napoli – sono anche finiti sui giornali e l’indagine, forse anche tenuta troppo tempo negli armadi, è andata completamente “bruciata”».

De Magistris e la politica: nasce “Manifesta”

Il già sindaco di Napoli e già candidato alla guida della Regione Calabria, Luigi De Magistris, è pronto all’ennesima battaglia. Questa volta ancora più tosta, e ancora più difficile, visto che si candida a guidare un’ala all’estrema sinistra che definisce «antisistema». L’ex pm ha detto che «sicuramente» si candiderà alle Politiche del 2023 e che «stiamo provando a mettere insieme i non allineati, quelli che non si riconoscono nel modo di praticare la politica nazionale degli ultimi anni». Tradotto: sarà lui il leader di “Manifesta”, la nuova sigla presentata mercoledì alla Camera della quale fanno parte quattro deputate ex Movimento 5 Stelle e alla quale si è unito anche Matteo Mantero, già potere al popolo.

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Le quattro deputate sono Simona Suriano, Doriana Sarli, Yana Ehm e Silvia Benedetti e la nuova componente si è formata sotto le insegne di Rifondazione comunista e, appunto, Potere al popolo. Una formazione dunque in piena opposizione al governo Draghi e agli schemi politici conosciuti finora, e proprio per questo De Magistris sarebbe la persona giusta per guidarla.

A palazzo San Giacomo l’ex magistrato ha governato infatti in piena opposizione sia al centrodestra che al centrosinistra, ispirandosi a quel popolo viola che tanti consensi raccoglie tra gli anti sistema orientati a sinistra della sinistra. Ed è quindi proprio da quel bacino di elettori che la nuova formazione punta a raccogliere consenso in vista delle prossime Politiche.

Ma vista la provenienza delle quattro deputate, Manifesta guarda anche dagli elettori delusi del Movimento 5 Stelle, sotto un nome che richiama apertamente il Manifesto del partito comunista di Karl Marx. Quanti sono gli elettori già grillini che ora non si riconoscono più nel governo Draghi, nell’appoggio al Tap, nella volontà di rompere la regola del doppio mandato? Difficile dirlo, ma certamente non pochi.

Il Movimento è dato ormai stabilmente sotto al quindici per cento, e le invettive contenute nel libro di Enrica Sabatini, compagna di Davide Casaleggio e storica attivista del M5S, contro Luigi Di Maio e pubblicate ieri non aiutano certo ad abbassare la tensione. Tanto che è proprio nei duri e puri che si guarda per portare nomi di peso in Manifesta. E chi se non Alessandro Di Battista può essere la persona giusta per dare una svolta radicale e antisistema in vista della campagna elettorale? Più volte l’ex fedelissimo di Beppe Grillo ha reso pubblico il suo disagio nei confronti di un Movimento che non è più quello degli inizi, ormai da tempo, e che con il sostegno al governo Draghi ha definitivamente perso la sua verginità. Manifesta, ha detto De Magistris, «è un gruppo nato con un’iniziativa molto opportuna, perché manca uno spazio di alternativa alla maggioranza del “tutti insieme” e con una situazione gravissima che c’è nel Paese». Più chiaro di così.

Dal banco del pm alla sbarra dell'imputato. Perché Davigo va a processo, cosa c’è dietro le accuse al dottor Sottile. Paolo Comi su Il Riformista il 18 Febbraio 2022. 

Nel pieno delle celebrazioni in pompa magna per il trentennale di Mani pulite, ecco arrivare dal tribunale di Brescia il rinvio a giudizio per Piercamillo Davigo, imputato per rivelazione di segreto di ufficio per la vicenda della diffusione dei verbali delle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara sulla Loggia Ungheria. Lo ha deciso ieri la gup Federica Brugnara. Il dibattimento inizierà il prossimo 20 aprile.

E sempre ieri si è celebrata l’udienza del processo nei confronti del pm milanese Paolo Storari, accusato dello stesso reato, che aveva invece scelto il rito abbreviato. La Procura ha chiesto il minimo delle pena: sei mesi di prigione. La sentenza il prossimo 7 marzo. Finisce così, alla sbarra, la parabola del magistrato simbolo di Tangentopoli che solo l’altro giorno aveva rilasciato l’ennesima intervista fiume al Fatto Quotidiano in cui ripercorreva quel periodo eroico.

La vicenda nasce a marzo del 2020, una volta terminati in Procura a Milano gli interrogatori di Amara, noto alle cronache per essere anche fra i principali accusatori di Luca Palamara nel processo di Perugia.

Amara aveva rivelato ai magistrati, che lo interrogavano sui suoi rapporti con l’Eni, l’esistenza di una loggia massonica super segreta denominata “Ungheria” e composta da magistrati, imprenditori, professionisti, alti ufficiali delle Forze di polizia, il cui scopo sarebbe stato quello di pilotare le nomine dei capi degli uffici giudiziari al Consiglio superiore della magistratura e aggiustare i processi. Ad interrogare Amara erano stati Laura Pedio, vice del procuratore Francesco Greco, e Storari. Visto che verbali, dove Amara aveva fatto i nomi di decine di appartenenti alla loggia, erano rimasti sulla scrivania dei magistrati senza che ci fosse alcun sviluppo investigativo, Storari decise di giocare il jolly, informando dell’accaduto Davigo, all’epoca consigliere del Csm e con il quale era in grande confidenza.

Ricevuti da Storari i verbali di Amara, Davigo cominciò a fare il giro delle sette chiese al Csm, portandoli a conoscenza del vice presidente del Csm David Ermini, del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, di alcuni consiglieri, e addirittura del presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (M5s) in un colloquio sulle scale di Palazzo dei Marescialli per paura di essere intercettati da qualche trojan. Andato in pensione Davigo per raggiunti limiti di età ad ottobre del 2020, i verbali di Amara, che erano conservati fino a quel momento nel suo ufficio al Csm, arrivarono alle redazioni di Repubblica e del Fatto Quotidiano che, però, decisero di non pubblicarli. La postina sarebbe stata la segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto. Storari, per giustificare la sua azione irrituale aveva affermato che, terminata la verbalizzazione di Amara, era intenzionato ad effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati dei soggetti che avrebbero fatto parte dalla loggia e all’acquisizione dei loro tabulati telefonici.

Ma i suoi capi, intenzionati a “salvaguardare” Amara da possibili indagini in quanto utile come teste nel processo Eni-Nigeria in corso all’epoca a Milano, avevano stoppato sul nascere le sue voglie investigative. Davigo, invece, si era giustificato dicendo che «se c’è un soggetto che fa delle dichiarazioni di estrema gravità, che siano vere o false, o che siano in parte vere e in parte false, è necessario fare le indagini per saperlo». Tutto finto per la Procura di Brescia: lo scopo di Davigo non sarebbe stato far luce su quanto accadeva in Procura a Milano ma solo trovare una scusa per motivare al Csm la rottura dei rapporti con il pm Sebastiano Ardita il cui nome compariva nell’elenco di Amara. Una rottura drammatica dal momento che i due avevano scritto insieme un libro, edito dalla casa editrice del Fatto Quotidiano, e avevano condividendo le medesime scelte correntizie.

«Senza le condotte illecite compiute da Davigo e Storari, Ardita non avrebbe subìto la massiva infamante divulgazione di quelle informazioni riservate», hanno sostenuto i legali di Ardita che si è costituito parte civile. La consegna dei verbali, e la successiva diffusione sulla stampa, avrebbero determinato “evidenti danni” ad Ardita vista l’infondatezza delle dichiarazioni di Amara. Le indagini su Ungheria, però, non le ha fatte ancora nessuno. Paolo Comi

DiMartedì, Sallusti contro Davigo: "Diffamato? Lei è stato condannato a risarcirmi". Libero Quotidiano il 16 febbraio 2022

Lo scontro tra Alessandro Sallusti e Piercamillo Davigo si accende in diretta da Giovanni Floris a DiMartedì, su La7, nella puntata di ieri sera 15 febbraio. "Luca Palamara racconta come il sistema della giustizia sia a sua volta inquinato da logge, servizi segreti, pentiti. Insomma è inquinato", spiega il direttore di Libero. "Io ho sporto una querela per il primo libro di Sallusti". 

E ancora, contrattacca l'ex pm di Mani pulite: "Lei mi ha diffamato un sacco di volte ed è stato condannato. Poi il presidente della Repubblica ha cambiato la pena detentiva in pecuniaria. Quindi non dica che lei non mi diffama". A quel punto Alessandro Sallusti lo inchioda: "Vorrei aggiungere che la Corte dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano, e quindi lei che rappresenta lo Stato, a risarcirmi per ingiusta detenzione. Le ricordo questo dottor Davigo". 

Lo scontro prosegue. "Luca Palamara documenta come tutti i magistrati coinvolti in scandali sono stati archiviati dal Csm", continua il direttore di Libero. "Perché non inquisite mai i magistrati che si trovano in quelle situazioni? I magistrati che chiedevano piaceri... Questo le sto chiedendo". Ma Davigo non risponde alla domanda. Tergiversa sul Csm.

MAlf. per "il Giornale" l'8 febbraio 2022.  

Ancora una assoluzione per Vittorio Sgarbi contro Piercamillo Davigo che lo aveva querelato per un articolo pubblicato su «Il Giorno». (Quattro in tutto le querele presentate dal magistrato relative ad altrettante versioni on line e cartacee dello stesso articolo). E dunque dopo Bologna, Milano. 

E così, come per il primo match per cui l'articolo scritto da Sgarbi il 10 marzo 2017 sul sito web «Quotidiano.net» non conteneva niente di male, tanto da assolverlo dal reato di diffamazione, perché il fatto non sussiste, così l'ordinanza del Gip del Tribunale di Milano ha disposto l'archiviazione del procedimento.

L'ex magistrato non aveva gradito l'articolo scritto da Sgarbi dal titolo «Davigo e i detenuti dimenticati». L'ex pm si è sentito attaccato, colpito personalmente da quelle righe. Trattasi invece secondo il Gip di diritto di critica politica.

Piercamillo Davigo a processo in tribunale a Brescia. Il Corriere del Giorno il 7 Febbraio 2022.  

Secondo i magistrati di Brescia, Davigo avrebbe violato “i doveri inerenti alle proprie funzioni» abusando «della sua qualità di componente del Csm”, pur avendo «l’obbligo giuridico ed istituzionale di impedire l’ulteriore diffusione» dei verbali di Amara”. Si tornerà in aula il prossimo 17 febbraio

di Redazione Politica

Si celebra questa mattina dinnanzi al Tribunale penale a Brescia l’udienza preliminare nei confronti dell’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo accusato di rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. Secondo i magistrati di Brescia, Davigo avrebbe violato “i doveri inerenti alle proprie funzioni» abusando «della sua qualità di componente del Csm“, pur avendo «l’obbligo giuridico ed istituzionale di impedire l’ulteriore diffusione» dei verbali di Amara“. Anche perché l’ex pm Davigo non si limitò a ricevere i verbali ma ne “rivelava il contenuto a terzi, consegnandoli senza alcuna ragione ufficiale al consigliere del Csm Giuseppe Marra, con lo scopo di motivare la rottura dei propri rapporti personali con il consigliere Sebastiano Ardita“, che in realtà è precedente alla vicenda Amara. 

Dall’inchiesta dalla quale scaturisce il procedimento in scorso, è uscito l’ex capo della Procura milanese Francesco Greco, accusato dal pm della procura di Milano Storari di aver ritardato le iscrizioni sul registro degli indagati, con la contestazione di una presunta omissione d’atti d’ ufficio. Accusa per la quale è stata poi richiesta l’archiviazione dai pm bresciani accolta dal gup Andrea Gaboardi. Il pm Storari oltre al processo penale , rischia un complicato procedimento disciplinare: il Csm entro la metà del mese deciderà se trasferirlo via da Milano. 

Con l’interrogatorio di Piercamillo Davigo, l’ex consigliere del Csm, imputato a Brescia con il pm di Milano Paolo Storari per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria, è ripresa stamane l’udienza preliminare. Il pm di Milano Paolo Storari, imputato a Brescia con l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo per il caso dei verbali dell’avvocato Piero Amara, ha chiesto di essere processato con rito abbreviato. La richiesta è stata presentata stamane al giudice per le indagini preliminari, Federica Brugnara che ha stralciato la posizione del pubblico ministero che risponde di rivelazione del segreto d’ufficio, reato contestato anche a Davigo nei cui confronti proseguirà l’udienza preliminare.

“Questa vicenda è di interesse pubblico e siccome io non ho nulla da nascondere pretendo l’udienza a porte aperte” aveva dichiarato Davigo dall’alto…della sua proverbiale spocchia ai giornalisti. Davigo è assistito dall’avvocato Francesco Orasi. Ma il Gup di Brescia Federica Brugnara con rigore ha respinto la richiesta di celebrare l’udienza preliminare a porte aperte avanzata da Piercamillo Davigo e disposto la lo svolgimento dell’udienza in camera di consiglio quindi a porte chiuse, accogliendo anche la richiesta di costituzione di parte civile presentata dal consigliere del Csm Sebastiano Ardita. La sua presenza nel processo si giustifica col fatto che il nome di Ardita fosse presente nei verbali di Amara e che proprio a causa di questo la notizia è diventata pubblica. 

Davigo ne avrebbe parlato anche ad un’altra consigliera del Csm, Ilaria Pepe, per “suggerirle “di prendere le distanze” da Ardita, invitandola a leggerli”; con il consigliere Giuseppe Cascini, al quale Davigo ha chiesto “un giudizio sull’attendibilità di Amara”, mentre ai consiglieri laici del Csm Fulvio Gigliotti (M5S) e Stefano Cavanna (Lega) avrebbe riferito di una “indagine segreta su una presunta loggia massonica, aggiungendo che “in questa indagine è coinvolto Sebastiano Ardita””. Davigo non contento consegnò quei verbali anche al vicepresidente del Csm David Ermini, il quale correttamente “ritenendo irricevibili quegli atti immediatamente distruggeva la «documentazione”, informando dell’accaduto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che è anche presidente di diritto del Consiglio Superiore della Magistratura , e consegnandoli al magistrato antimafia Nino Di Matteo consigliere del Csm , il quale ne diede pubblica informazione durante un plenum del Csm, citando le informazioni considerate diffamatorie contenute nei confronti di Ardita. 

La mancata riservatezza di Davigo non si limitò a tutto ciò informando anche un componente esterno al Csm, il sen. Nicola Morra (ex M5S) presidente della Commissione nazionale antimafia, per chiarire i motivi dei “contrasti insorti tra lui e Ardita”, e le segretarie di Davigo, Giulia Befera e Marcella Contrafatto quest’ultima secondo gli accertamenti della procura di Roma avrebbe spedito anonimamente quei verbali al consigliere del Csm Nino Di Matteo ed ai giornalisti. Venerdì scorso il pm Paolo Storari ha risposto per quasi tre ore alle domande delle parti, respingendo le accuse e ribadendo la correttezza del proprio operato. Oggi invece sarà a Davigo a dover ripercorrere tutte le tappe di un caso che ha provocato una una frattura tra i magistrati della procura di Milano, ma sopratutto portato alla luce ancora di più i “veleni” interni alla magistratura. 

Nel 2017 Davigo dichiarava in televisione a “Piazza pulita”, il programma condotto su La7 da Corrado Formigli che quando un innocente viene condannato non è colpa dei magistrati: “Il giudice non è presente quando viene commesso il reato, sa le cose che gli raccontano. Se si scopre dopo che un teste ha mentito, non lo può sapere. E’ stato ingannato”. La vera vittima dell’errore giudiziario è quindi il magistrato, fuorviato e ingannato dai testimoni. In seguito sempre Davigo, ospite di Bruno Vespa a “Porta a porta” su RAIUNO per commentare dei 42 milioni di euro pagati dallo Stato italiano per risarcimenti giudiziari nel 2016 (648 milioni dal ’92), aveva allargato il campo della sua visione alle ingiuste detenzioni: come gli errori giudiziari non sono errori, così le ingiuste detenzioni non sono ingiuste (in pratica a suo parere l’unico errore sembra quello di pagare le vittime). 

Secondo Davigo tutti questi risarcimenti a persone incarcerate e poi assolte avvengono perché nel nostro sistema “le prove assunte nelle indagini preliminari di regola non vale nel processo”. C’è questo problema del dibattimento e di dover ripetere le testimonianze rilasciate agli inquirenti davanti a un giudice. Quindi succede che una persona viene arrestata sulla base di prove schiaccianti, come le accuse di tre testi, “dopodiché questi testi magari minacciati dicono che si sono sbagliati. Le loro indicazioni non possono essere più utilizzate. È un innocente messo in carcere – si chiede retoricamente Davigo – o è un colpevole che l’ha fatta franca?”. Ovviamente per lui vale la seconda ipotesi, da cui si capisce che gli unici errori giudiziari sono le assoluzioni. Le ingiuste detenzioni sono quindi quelle in cui una persona ha subìto un provvedimento di custodia cautelare e poi è stato assolto, “il che – dice Davigo – non significa che siano tutti innocenti, anzi”. e quindi, per l’ex-pm “lumbard” prevale una presunzione di colpevolezza che va anche oltre l’assoluzione definitiva. Cosa dirà adesso che sotto processo c’è lui?

Verbali Amara, Piercamillo Davigo si difende: «Ho rispettato solo la legge». “Ungheria gate”, l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo ieri davanti al gup. Il magistrato della procura di Milano, Storari sceglie il rito abbreviato. Simona Musco su Il Dubbio l'8 febbraio 2022.

«Tutto quello che ha fatto, lo ha fatto nel rispetto della legge». Dopo tre ore davanti al giudice per l’udienza preliminare di Brescia, Federica Brugnera, l’avvocato Francesco Borasi riassume così le dichiarazioni dell’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, imputato insieme al pm milanese Paolo Storari per rivelazione del segreto di ufficio per aver fatto circolare i verbali di Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria. «Il dottor Davigo, in una situazione pericolosissima per le istituzioni – ha spiegato Borasi al Dubbio -, ha rispettato quanto le leggi impongono e certamente non ha violato la normativa».

L’ex pm di Mani Pulite, davanti ai pm di Brescia, si era infatti difeso richiamandosi a due circolari di Palazzo dei Marescialli, «che prevedono che il segreto d’ufficio, segnatamente il segreto investigativo, non è opponibile al Csm». Ieri, dunque, ha negato di aver indebitamente diffuso i verbali sulla presunta Loggia sostenendo che Storari avrebbe agito in modo legittimo, consegnando i verbali ad una persona titolata a riceverli e che aveva l’intento di informare il Comitato di presidenza del Csm. Dal Comitato, però, non sarebbe arrivato alcun invito a formalizzare, né sarebbero stati manifestati dubbi sulla procedura seguita.

Secondo la procura, le due circolari non possono però essere applicate al caso specifico, in quanto non fanno riferimento a consegne informali di atti a singoli consiglieri del Csm, ma riguardano i rapporti tra segreto investigativo e poteri del Csm in tema di acquisibilità di elementi coperti da segreto istruttorio. Una scelta discutibile anche secondo il vicepresidente del Csm David Ermini, che giudicò quegli atti irricevibili, non essendo arrivati al Consiglio seguendo le vie formali. Il pm milanese, difeso dall’avvocato Paolo Dalla Sala, ha chiesto e ottenuto di poter essere giudicato con rito abbreviato, mentre Davigo ha scelto il rito ordinario, perseverando dunque nella scelta di rendere pubblico il processo che lo riguarda. Volontà che aveva manifestato anche in relazione alla fase dell’udienza preliminare, nella convinzione che «la pubblicità è di per sé una garanzia: questa vicenda è di interesse pubblico e siccome io non ho nulla da nascondere pretendo l’udienza a porte aperte». Il gup, lo scorso 3 febbraio, ha deciso però di respingere la richiesta.

La posizione dei due imputati, dunque, viene ora separata, in attesa della decisione del giudice. La prossima udienza è fissata il 17 febbraio. Il processo, intanto, conta già una certezza: la presenza del magistrato Sebastiano Ardita, consigliere del Csm, ammesso come parte civile al processo. Sarà quella, dunque, la sede forse finale dello scontro tra lui e Davigo, precedentemente suo grande amico e cofondatore, assieme a lui, della corrente Autonomia & Indipendenza. Un rapporto che si è interrotto prima della consegna dei verbali di Amara, verbali che secondo l’avvocato Fabio Repici Davigo avrebbe usato per delegittimare il magistrato all’interno del Csm. Secondo il legale, l’ex pm di Mani Pulite avrebbe agito con «dolo» con il fine «di screditare il ruolo istituzionale di consigliere del Csm» di Ardita «e la sua immagine personale e professionale», attraverso «una pervicace operazione mirata di discredito – ha aggiunto -, cercando così perfino di condizionarne il ruolo di consigliere del Csm e addirittura arrivando a condizionare l’intero Csm».

Secondo quanto emerso dagli interrogatori dei vari consiglieri del Csm, auditi a Brescia per chiarire i contorni della vicenda, la posizione di Ardita sarebbe finita anche al centro di una riunione informale convocata dal vicepresidente Ermini a Palazzo dei Marescialli, nel maggio 2021. Davigo, all’epoca, aveva già riferito della presunta affiliazione di Ardita alla Loggia a diversi consiglieri, invitando alcuni di loro a prendere le distanze dal pm catanese. «Arrivo al giorno in cui Di Matteo prese la parola in plenum – raccontò Ermini ai pm di Brescia -. Dopo tale intervento, si ripropose il problema di tutelare il buon nome del Consiglio e per far ciò ritenni di convocare, seppur informalmente, tutti i consiglieri al fine di cercare un confronto sincero su quello che stava emergendo. Nel corso di tale incontro, Ardita prese la parola e con una evidente partecipazione emotiva rifiutò l’idea di aver avuto comportamenti opachi e si lamentò del fatto che qualcuno potesse aver creduto a delle dichiarazioni calunniose addirittura togliendogli il saluto. Era molto alterato di ciò e molti consiglieri gli ribadirono la loro stima e fiducia. Emerse anche che qualcuno aveva già ricevuto da Davigo delle informazioni sulla cosiddetta loggia Ungheria».

LA RIVELAZIONE DEI VERBALI DI AMARA. GIULIA MERLO su Il Domani il 07 febbraio 2022.

Il 17 febbraio si deciderà se ci sarà un rinvio a giudizio per il caso dei famosi “verbali”. Piercamillo Davigo conferma di volere un processo ordinario, mentre il magistrato Paolo Storari ha scelto il rito abbreviato e un processo a porte chiuse

L’ex consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, è stato interrogato durante l’udienza preliminare al tribunale di Brescia e ha raccontato la sua verità sui passaggi di mano dei verbali di interrogatorio dell’ex legale Piero Amara, in cui parlava della presunta loggia Ungheria.

Davigo è indagato insieme al pm milanese Paolo Storari per rivelazione di segreto d’ufficio per aver portato fuori dal tribunale di Milano e poi diffuso i verbali degli interrogatori dell’avvocato Piero Amara, nei quali si dava conto dell’esistenza della presunta loggia e di chi ne faceva parte.

La gup, Federica Brugnara, dovrà decidere sul rinvio a giudizio di entrambi e ha già accolto la richiesta di costituzione di parte civile del consigliere togato del Csm, Sebastiano Ardita, citato nei verbali.

Intanto, però, le posizioni processuali dei due indagati si sono separate. Storari, infatti, ha scelto il rito abbreviato: nel caso in cui venga rinviato a giudizio, il processo si svolgerà a porte chiuse e sarà basato solo sugli atti d’indagine fin qui raccolti, inoltre in caso di condanna beneficerà di uno sconto di pena di un terzo. Anche lui si è sottoposto all’interrogatorio e ha confermato di aver consegnato i verbali a Davigo come forma di «autotutela», visto l’«immobilismo» dei vertici della procura di Milano nel procedere all’iscrizione della notizia di reato.

LA SCELTA DI DAVIGO

Opposta, invece, è la strategia processuale scelta da Davigo. L’ex pm di Mani Pulite, infatti, aveva fatto richiesta che l’udienza preliminare si svolgesse in forma pubblica ma gli è stato negato. Oggi ha sostenuto l’interrogatorio di circa tre ore in cui ha ribadito la sua versione dei fatti: «Tutto quello che ha fatto lo ha fatto per conto della legge», è stato il riassunto del suo legale. Davigo, infatti, sostiene che la consegna dei verbali sia stata legittima perché a un consigliere del Csm non è opponibile il segreto d’ufficio.

Inoltre, non ha fatto richiesta di riti alternativi, dunque in caso di rinvio a giudizio il processo si svolgerà con rito ordinario e in forma pubblica, con giornalisti ammessi in aula.

Evidente la volontà dell’ex magistrato: convinto della correttezza del suo operato, ritiene di voler dare la massima divulgazione al processo, nel caso in cui si svolga.

Tutto, ora, è rinviato all’udienza del 17 febbraio, in cui la gup deciderà sulla richiesta di rinvio a giudizio di Davigo confermata dai pm bresciani e si svolgerà la prima udienza in rito abbreviato per Storari. 

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

La verità di Palamara su Berlusconi, Morisi e Loggia Ungheria. GIULIA MERLO su Il Domani il 07 febbraio 2022.

Dalle anticipazioni del suo libro in uscita dal titolo “Lobby e Logge”, l’ex magistrato romano Luca Palamara racconta fatti legati all’ex legale Pietro Amara ma anche a casi più recenti di cronaca giudiziaria

Il nuovo libro dell’ex magistrato di Roma, Luca Palamara, al centro dello scandalo sulle nomine pilotate al Csm, punta a provocare lo stesso scalpore del volume precedente, “Il Sistema”.

Scritto di nuovo in forma di intervista con Alessandro Sallusti, il titolo è “Lobby e Logge” e affronta i temi delicati che nell’ultimo anno hanno terremotato la magistratura.

Dalle anticipazioni è possibile ricostruire alcuni dei punti che nei prossimi giorni saranno al centro della polemica. 

LA LOGGIA UNGHERIA

A proposito della presunta Loggia Ungheria, Palamara dice che «Davanti a una vicenda simile i casi sono solo due: o iscrivi Amara per calunnia o iscrivi tutti i nomi da lui fatti per appartenenza alla loggia. Dopo quanto? Il tempo di preliminari accertamenti, diciamo da uno a un massimo di sei mesi, Covid o non Covid. Le faccio un esempio così capiamo meglio come funziona: dalla sera in cui alla questura di Milano è scoppiato il caso Ruby al giorno in cui Ilda Boccassini ha chiesto non un avviso di garanzia ma il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi sono passati solo sei mesi».

Secondo Palamara è tutto molto strano: «istituzioni e giornali alleati nel non fare uscire la notizia di una possibile loggia segreta specializzata in depistaggi. Strano soprattutto se pensiamo alla potenza di fuoco messa in campo dall'asse tra procure e giornalisti su altre inchieste, quelle per esempio del passato su Berlusconi e oggi quelle su Renzi». Mentre sul ruolo di Amara dice che «a volte usa le procure e a volte è usato in un gioco degli specchi nel quale ci si perde. Ma la domanda importante è un'altra. Quando usa per conto di chi lo fa, chi è il suo mandante? E quando è usato chi è il burattinaio che muove i suoi fili?». 

IL CASO MONTANTE

«Sul caso Montante il CSM, dove io stavo all'epoca dei fatti, non ha avuto il coraggio e in ogni caso non è stato messo nelle condizioni di potere approfondire i rapporti tra Montante e alcuni magistrati», dice Palamara, che descrive Montante come uno che frequenterebbe politici, ministri, alti prelati, ovviamente magistrati e giornalisti «e in breve diventa il paladino dell'antimafia seducendo anche un osso duro come don Ciotti, nonostante nel 2009 alcuni pentiti lo avessero chiamato in causa per questioni di mafia».

«Nessuno però sa che Montante registra e conserva con precisione maniacale ogni incontro, ogni colloquio, ogni confidenza in un gigantesco archivio che poi userà per ricattare, blandire, ottenere favori per se è per i propri adepti irretiti, consapevoli o meno non importa, in una delle più grandi reti di potere occulto e parallelo a quello ufficiale mai allestite da un uomo solo».

Nel libro si cita anche l’inchiesta di Attilio Bolzoni del 2015, in cui annuncia che «Montante è indagato per mafia dalla Procura di Caltanissetta». Quello è descritto come «un terremoto che travolge i suoi complici: politici, ufficiali dei carabinieri, della Polizia, uomini dei servizi segreti e della Direzione distrettuale antimafia».

IL CASO MORISI

Nel libro si tocca anche il caso recente di Luca Morisi, lo spin doctor di Matteo Salvini indagato per droga e poi archiviato, ma con grande clamore d’indagine sui giornali. Palamara propone il caso come esempioi per spiegare il meccanismo che regge «il sistema».

«I vertici delle tre forze dell’ordine sono in grado di sapere che cosa si sta muovendo nelle procure» e «inevitabilmente finiscono per avere i propri referenti politici» ovvero i ministri nominati dal governo. «Quando una notizia risale la scala gerarchica, a ogni tappa c'è un rischio di fuga di notizie casuale o voluto perché a ogni tappa ci sono in agguato i servizi segreti, le lobby politiche ed economiche, ognuna delle quali ha i propri giornalisti di riferimento». Secondo Palamara, quindi, qualcuno che conosceva i fatti si sarebbe accorto del ruolo di Morisi e del fatto che «colpire lui significava indebolire Salvini». 

L’AVVISO DI GARANZIA A BERLUSCONI

Curioso è lo scambio tra Sallusti, che nel 1994 lavorava al Corriere della Sera, per la pubblicazione della fotocopia dell’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi. Palamara dice a Sallusti di sapere che lui era stato «avvertito in modo discreto che di lì a poco avrebbero perquisito casa sua in cerca della fotocopia e di alcuni nastri di registrazione, da cui sarebbe stato possibile, ammesso di averne la volontà, risalire al procuratore o al carabiniere infedele. Avvertimento che le permise di disfarsi di quel materiale, che uscì di casa nella borsetta di sua moglie e finì poi bruciato nel cesso del di lei parrucchiere». Sallusti risponde «Non confermo e non smentisco», «so per certo che di quell'avviso di garanzia fu informato anche l'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro».

Questo, per Palamara, è la dimostrazione dell’esistenza del sistema di cui lui parla. 

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Palamara, atto secondo: «Così il Csm provò a usarmi per silurare Greco». Le nuove rivelazioni dell'ex capo dell'Anm nel sequel del libro il “Sistema”, dal titolo “Lobby & Logge”. Simona Musco su Il Dubbio l'8 febbraio 2022.

«Sono convinto che il Csm avrebbe voluto cacciare, o quantomeno punire, Francesco Greco per la malagestione del caso Ungheria, o magari anche per altro, prima del suo pensionamento. Ho avuto la sensazione che abbiano provato a usarmi per raggiungere l’obiettivo». Una delle ultime bombe di Luca Palamara sul “Sistema” giustizia arriva a pagina 37 del suo nuovo libro, dal titolo “Lobby & Logge – Le cupole occulte che controllano “il Sistema” e divorano l’Italia” (Rizzoli), scritto a quattro mani con il giornalista Alessandro Sallusti, da oggi in libreria.

Bomba che racconta l’ennesimo retroscena dell’intricata e oscura vicenda dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno dell’Eni, “pentito” utilizzato dalle procure di mezza Italia, considerato credibile a momenti alterni, che ha provocato un terremoto all’interno della procura di Milano, spaccando – per l’ennesima volta – il Csm. Il procuratore Greco, da novembre scorso in pensione, è uscito pulito dalla vicenda relativa alla gestione del caso della presunta “Loggia Ungheria” con un’archiviazione rimediata in virtù della «infondatezza», secondo il gup di Brescia, delle accuse mosse dal pm Paolo Storari, colui che raccolse le dichiarazioni di Amara lamentando l’inerzia dei vertici del Palazzo di Giustizia. Presunta inerzia che lo spinse a consegnare quei verbali all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo.

L’opinione di Palamara, però, è diversa. E forse lo era anche quella del Csm, stando al suo racconto, al punto da ipotizzare una “trappola” nella quale qualcuno avrebbe voluto coinvolgerlo. Il fatto, inedito, riguarda la sua convocazione proprio a Palazzo dei Marescialli, che ad ottobre del 2020 aveva decretato la sua espulsione dall’ordine giudiziario per i fatti dell’Hotel Champagne e il mercato delle nomine. «Siamo nel marzo del 2021, il libro Il Sistema è in giro da due mesi e sta minando l’ipocrita equilibrio di chi prova a salvarsi dal caso Palamara. Per di più, come abbiamo visto, sotto la cenere cova la brace della loggia Ungheria sfuggita dalle mani al procuratore di Milano Francesco Greco. Con mia grande sorpresa mi convoca, dall’oggi al domani, la prima commissione del Csm, quella che si occupa delle incompatibilità dei magistrati – racconta -. Mi presento, la presidente è Elisabetta Chinaglia (della corrente Area, la stessa di Greco, ndr), entrata al Csm grazie alle dimissioni di consiglieri coinvolti nel mio caso. Pronti via, la prima domanda che mi fa è contro Francesco Greco. Resto incredulo, la guardo negli occhi e vorrei dirle: ma lei signora, mi prende per un cretino?».

La sensazione di Palamara è chiara: qualcuno vuole usarlo. Anzi, ne è convinto. E chiarificatrice, per lui, è la domanda che gli viene posta, che nulla ha a che fare con la vicenda Ungheria e arriva a tempo quasi scaduto rispetto alla carriera di Greco, ma anche a notevole distanza dai fatti dell’Hotel Champagne, per i quali i procedimenti disciplinari sono ormai avviati da un pezzo. La domanda di Chinaglia è precisa: «Mi chiede: quando lei era al Csm Francesco Greco le ha mai dato indicazione, o lei si è mai accordato con Francesco Greco, per la nomina dei procuratori aggiunti di Milano?». Palamara è consapevole che per affossare Greco basterebbe una sillaba, che distruggerebbe anzitempo la sua carriera, ormai agli sgoccioli. «Un mio sì e Greco sarebbe morto all’istante. Penso: è della stessa corrente di Greco, è arrivata dove è arrivata all’interno della spartizione tra le correnti – lo so, c’ero e l’ho fatto – con cui si nominano i procuratori e i loro vice, e viene a fare a me questa domanda. Mi sembrava di essere su Scherzi a parte. Controllo lo sdegno e la rabbia e rispondo “ovviamente no”. Delusione generale, ma ancora oggi mi chiedo: chi in quel momento voleva fare fuori Greco – ovviamente Chinaglia stava solo eseguendo degli ordini – a pochi mesi dalla pensione? Anche perché dalle domande successive era palese che qualcuno voleva mettere in difficoltà Greco per il suo rapporto con Laura Pedio, la pm che aveva interrogato Amara sulla loggia Ungheria insieme a Storari, ma che a differenza di Storari non dava di matto per accelerare l’inchiesta».

L’obiettivo, dunque, non è solo Greco, ma forse anche Pedio. La cui posizione a Brescia è ancora aperta e che, nonostante questo, continua ad avere in mano il fascicolo sul “Falso complotto Eni”. Della nomina di Pedio, avvenuta nel 2017, Palamara ammette di averne parlato con Greco, al quale la magistrata era vicina: «Per me era fisiologico farlo, faceva parte del mio ruolo di regista del Sistema». L’interrogatorio di Palamara finisce nel buco nero del segreto, che Chinaglia raccomanda vivamente all’ex pm di mantenere. Un’ipocrisia che l’ex zar delle nomine non manca di evidenziare, ricordando come tutto, a tempo debito, sia uscito fuori dalle stanze di Palazzo dei Marescialli, compresa l’audizione del procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, sulle intercettazioni mancanti nel caso Palamara, in particolare quella riguardante il suo incontro con l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Insomma, un clima surreale, quasi si tentasse di nascondere la polvere, per l’ennesima volta, sotto il tappeto, in una situazione che gli appare ridicola anche per un altro fatto: la vera domanda, afferma, avrebbe dovuto riguardare proprio la nomina di Greco.

«Invece di chiedermi dei vice di Greco avrebbe dovuto chiedermi: scusi, ma lei nel 2016 ha per caso trattato o partecipato a trattative per la nomina del procuratore Greco? E io avrei risposto: certo che sì, con lui direttamente, con molti di voi che oggi sedete qui a fare i miei giudici». E snocciola anche altri nomi: di quella nomina, afferma, parlò anche «con l’attuale presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, allora membro laico del Csm in quota Forza Italia, e poi con l’attuale ministro del Lavoro Andrea Orlando, all’epoca dei fatti ministro della Giustizia e mio referente informale per le politiche giudiziarie nel Pd. E ultimo, non in ordine di importanza, anche con l’attuale presidente del tribunale vaticano Giuseppe Pignatone, allora procuratore di Roma». Una nomina in continuità con l’uscente Bruti Liberati e contro chi, invece, «cercava un papa straniero per provare a intaccare quella fortezza autonoma che era la procura di Milano». Alla fine vinse Greco, candidato di sinistra, al termine di «un lavoro certosino», frutto di incontri a tutti i livelli, con il placet anche dei laici del centrodestra, che «convogliarono su Greco, evidentemente ritenuto il minore dei mali».

Il caso verbali

La procura di Milano, all’epoca di questa audizione, è già lacerata dalla vicenda Amara. Una vicenda che, secondo Palamara, non sarebbe stata gestita in maniera chiara. Da un lato, a distanza di due anni, sulla presunta Loggia nulla è ancora stato chiarito a livello giudiziario, dall’altro la stampa ha silenziato la vicenda sino ad aprile scorso, quando il quotidiano Domani ha rotto il silenzio tirando in ballo le consulenze dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Solo allora iniziarono a parlarne anche Repubblica e Fatto Quotidiano, che quei verbali li avevano ricevuti mesi prima, spediti in forma anonima – secondo la procura di Roma – dall’ex segretaria di Davigo. Plichi che però i giornalisti consegnarono subito in procura, temendo una polpetta avvelenata. Una scelta incomprensibile per Palamara, secondo cui per verificare molte delle notizie contenute in quegli atti segreti sarebbero bastati pochi attimi. «Mi domando: ma se in quelle carte ci fossero stati nomi altisonanti della politica italiana, attuali leader, i giornali avrebbero fatto la stessa melina? E soprattutto: la procura di Milano prima e il Csm poi si sarebbero comportati allo stesso modo, cioè avrebbero tenuto tutto fermo tutto per due anni? Oppure i leader politici sarebbero stati iscritti nel registro degli indagati un secondo dopo?».

La risposta, sembra dire tra le righe Palamara, è no. Le strade possibili erano due: iscrivere Amara per calunnia o indagare su tutti coloro indicati come appartenenti alla loggia, in un lasso di tempo che va da uno a un massimo di sei mesi. «Le faccio un esempio, così capiamo meglio come funziona: dalla sera in cui alla questura di Milano è scoppiato il caso Ruby al giorno in cui Ilda Boccassini ha chiesto non un avviso di garanzia bensì il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi sono passati solo sei mesi. E invece noi oggi dopo due anni non sappiamo nulla, o peggio ci si è mossi con avvisi di garanzia per appartenenza a una loggia segreta solo nei confronti di alcune delle persone citate da Amara, i soliti Verdini e Bisignani, come se esistessero cittadini di serie A e altri di serie C. Ma gli italiani hanno diritto di saperne di più. Conte c’entra, sì o no? E la Severino, e Lotti? Se la risposta è “no” ci vuole un pezzo di carta che lo dica».

La vicenda, intanto, ha fatto cadere il prestigio e la credibilità di quelli che Palamara definisce «due mostri sacri del Sistema: la procura di Milano da una parte, Davigo e il suo mondo dall’altra. Più che un crollo è un terremoto, anche per i giornali che lì avevano i loro terminali. Conosco per esperienza diretta le triangolazioni tra magistrati e giornali. Dover mettere in discussione la rettitudine di Davigo per “il Fatto Quotidiano”, giornale su cui Davigo scrive, è un colpo al cuore. E lo stesso vale per il “Corriere della Sera” nei confronti di Greco». E forse è anche per questo che i giornali, in questa vicenda, si sono mossi in maniera strana, dopo aver pubblicato per anni qualunque cosa in barba a qualsiasi segreto istruttorio: «Ricorda la regola del tre raccontata nel Sistema? – spiega Palamara – Per gestire il potere ci vogliono tre elementi: una procura, un uomo della polizia giudiziaria o dei servizi segreti e un giornalista. E questa che stiamo raccontando è una storia in cui l’informazione ha agito o non agito a orologeria».

Il ragionevole dubbio. Appello Eni, la procura generale sbarra la strada al pm De Pasquale. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Febbraio 2022. 

Non ci sarà il pubblico ministero Fabio De Pasquale sullo scranno dell’accusa al processo d’appello che si terrà nel prossimo autunno nei confronti dei dirigenti Eni, assolti in primo grado il 17 marzo 2021. La procuratrice generale di Milano Francesca Nanni ha deciso diversamente, affidando il ruolo dell’accusa a Celestina Gravina, magistrato di esperienza non seconda a quella di De Pasquale e che, almeno quanto lui, conosce la materia. Un doppio schiaffo morale per il pm che vanta nel suo curriculum la soddisfazione di esser stato l’unico ad aver portato alla condanna definitiva di Silvio Berlusconi fino alla sua espulsione dal Senato.

Il primo schiaffo deriva dal fatto che De Pasquale nel processo Eni-Nigeria aveva messo l’anima, la sua parte più pura e anche quella più discutibile, che lo vede oggi indagato a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio, e anche oggetto di attenzione da parte della prima commissione del Csm che lo ha ascoltato a lungo nella giornata di lunedì, prima di decidere una sua eventuale incompatibilità con la sua permanenza in procura. Situazione non facile, per un pm che a Milano ha costruito tutta la sua carriera e la sua reputazione di uomo di sinistra inflessibile e senza paura di nessuno. Neanche del “dominus” Di Pietro, ai tempi di Mani Pulite, tanto da mettersi con lui in competizione per la gestione di un certo indagato e non aver timore di prenderlo a urlate nel corridoio.

Ma la ferita che oggi brucia di più è dovuta al fatto che De Pasquale teneva così tanto a questo processo da non aver avuto la forza di mettersi da parte dopo la sconfitta processuale subita nel primo grado. Tanto da non limitarsi a fare il ricorso in appello, cosa che in un paese da Stato di diritto non dovrebbe neanche essere consentita al pubblico ministero, se gli imputati sono stati assolti. Se il “ragionevole dubbio” avesse un senso. Ma il pm De Pasquale ha voluto strafare, chiedendo alla procura generale di essere proprio lui, personalmente, a rappresentare di nuovo l’accusa, anche nel secondo grado. La legge non lo vieta, purtroppo, e la contraddizione con il principio del “ragionevole dubbio”, che sta alla base della decisione del giudice, è palese. Come evitare, soprattutto nei processi di grande impatto mediatico, che l’opinione pubblica non veda da parte degli uffici dell’accusa una sorta di accanimento, se lo stesso pm, cioè la stessa persona in carne e ossa che è uscita sconfitta dal processo di primo grado, dà la sensazione di cercare di “rifarsi” nel secondo?

Una vittima di questo meccanismo è stato per esempio il povero Angelo Burzi, l’ex consigliere e assessore di Forza Italia in Regione Piemonte, morto suicida nello scorso dicembre, il cui testamento politico aveva rappresentato un atto d’accusa sull’amministrazione della giustizia. Burzi era finito, insieme a tanti, nella tenaglia dei processi chiamati “Rimborsopoli”. Era stato assolto in primo grado da un tribunale la cui presidente Silvia Begano Bersey, in seguito deceduta, era stata da lui apprezzata nelle sue lettere d’addio come “magistrato simbolo della terzietà del giudice”. Era poi accaduto l’imprevisto, l’imprevedibile. Il procuratore Giancarlo Avenati Bassi, che aveva sostenuto l’accusa nel primo processo, aveva chiesto e ottenuto di sedere sullo stesso scranno una seconda volta, fino a che aveva potuto portare a casa la soddisfazione del vedere condannati gli imputati.

E i dubbi ragionevoli? Pareva non averne avuti neppure il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo, il quale, piccato per la grande evidenza data dai giornali sul suicidio di Burzi e dalla diffusione delle sue lettere, aveva inondato le redazioni con un comunicato di due pagine che parevano una requisitoria. In cui aveva ignorato persino il fatto che una sua ex prestigiosa collega, stimata da tutti e compianta da numerosi messaggi su la Stampa quando era deceduta, aveva scritto parole molto precise e inoppugnabili sulla non colpevolezza degli ex assessori e consiglieri regionali piemontesi.

Possiamo dire, in senso lato, che Claudio De Scalzi, Paolo Scaroni e gli altri imputati dell’Eni che, se pur assolti “oltre ogni ragionevole dubbio” il 17 marzo 2021, torneranno di nuovo alla sbarra il prossimo autunno, sono stati più “fortunati” di Angelo Burzi. Perché la procuratrice generale di Milano Francesca Manni ha spezzato il meccanismo della coazione a ripetere che avrebbe potuto portare di nuovo Fabio De Pasquale sulla poltrona dell’accusatore nell’appello Eni-Nigeria. Lui aveva motivato la richiesta con l’esperienza e la conoscenza delle carte. Forse sottovalutando tutto quel che quel processo, con accuse e contro-accuse tra toghe, ha pesato per Milano e la sua procura. Tanto da aver comportato l’apertura di inchieste giudiziarie da parte della procura della repubblica di Brescia, competente nelle cause che riguardano i magistrati milanesi.

De Pasquale dovrà, insieme all’ex collega Fabio Storaro, dare tante le spiegazioni. Si dovrà accertare se i due pm d’aula del processo Eni hanno tenuto nascoste prove importanti a discarico degli imputati, e se hanno “protetto” le testimonianze di due personaggi discutibili come Pietro Amara e Vincenzo Armanna anche quando erano palesi le loro intenzioni calunniatorie. Che continuano a emergere, anche in questi giorni. Certo non migliorerà il suo umore sapere che quel ruolo di pg nel processo d’appello Eni sarà assunto dalla collega Celestina Gravina. Proprio lei che, nell’aprile dell’anno scorso, a ridosso della sentenza che aveva assolto Scaroni e De Scalzi, aveva svolto il ruolo dell’accusa nell’appello di un filone dello stesso processo, quello nei confronti di Gianluca Di Nardo e Emeka Obi, considerati intermediari della tangente Eni, che erano stati giudicati a parte perché avevano scelto il rito abbreviato. Il primo grado erano stati condannati. Ma nel secondo grado la procuratrice Gravina aveva completamente rovesciato l’ipotesi dell’accusa.

Intanto partendo all’attacco della Procura della repubblica per “l’enorme dispiego e spreco di risorse” che l’ufficio allora retto da Francesco Greco aveva dedicato alla vicenda Eni. E poi per la testimonianza di Vincenzo Armanna, quello che per i pm De Pasquale e Storari era un collaboratore preziosissimo. E che la pg invece considerava “un avvelenatore di pozzi bugiardo”, uno “che mescola verità e bugie”, “totalmente inaffidabile”. Poi, dopo aver spiegato a pm a giudici gli errori commessi anche nella qualificazione dei reati, la stoccata finale. “Sono stati assunti superficialmente dei fatti privi di prova fondati sul chiacchiericcio, sulla maldicenza, su elementi che mai sono stati valorizzati in alcun processo penale”.

Era stata inseguita “un’impostazione ideologica”, era stata la conclusione. Una bella lezione. L’assoluzione dei due imputati era stata richiesta e ottenuta. Queste sono le premesse di quel che sarà il processo d’autunno. Che forse si sarebbe potuto evitare, evitando anche l’ulteriore dispendio di denaro. Comunque andrà quel dibattimento, aver spezzato quella tentazione da parte del pm che perde il processo ad andare a rifarsi in appello, è stato un bel gesto da parte della procuratrice generale di Milano. Grazie, dottoressa Francesca Nanni. Chissà che non abbia aperto una strada che eviti, un domani, altre tragedie come quella di Angelo Burzi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Si erano tanto amati...La famiglia Travaglio si sfascia: finisce in “rissa” tra Davigo e Ardita. Paolo Comi su Il Riformista il 4 Febbraio 2022. 

È finito nel peggiore dei modi, a “carte bollate”, il legame fra Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. Dopo aver condiviso per anni tutte le scelte dell’ex idolo di Mani pulite, Ardita ha deciso ieri di costituirsi parte civile nel processo che vede Davigo, insieme al pm milanese Paolo Storari, imputato a Brescia con l’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio per i verbali delle dichiarazioni di Piero Amara sulla loggia Ungheria.

I due magistrati erano stati nel 2015 tra i fondatori di Autonomia&indipendenza, la corrente nata dalla scissione da Magistratura indipendente, il gruppo di destra all’epoca guidato da Cosimo Ferri, ora deputato di Italia viva. Proprio la leadership di Ferri era stata fra i motivi della separazione. Il rapporto fra loro si consolidò nel 2017 allorquando scrissero insieme il libro Giustizialisti, così la politica lega le mani alla magistratura, edito da Paperfirst, la casa editrice del Fatto Quotidiano. L’anno successivo, poi, si candidarono al Consiglio superiore della magistratura, venendo eletti entrambi. Per Davigo si trattò di un plebiscito, dal momento che circa 2500 toghe indicarono il suo nome sulla scheda.

Tutto sembrava andare per il meglio fino allo scoppio del Palamaragate e delle indagini della Procura di Perugia. Interrogato dal procuratore Raffaele Cantone il 19 ottobre del 2020, il giorno stesso giorno in cui al Csm si stava discutendo della sua permanenza a Palazzo dei Marescialli anche dopo il compimento dei settanta anni, età massima per il trattenimento in servizio dei magistrati, Davigo esternò infatti grande imbarazzo nei confronti Ardita, raccontando particolari inediti del loro rapporto. Davigo disse che Ardita, volendo fare proselitismo a Roma, dove A&i era debole, in vista delle elezioni dell’Anm, aveva organizzato a marzo del 2019 un pranzo con l’ex pm Stefano Rocco Fava e un altro pm. Durante il pranzo si parlò di questione associative e “non posso escludere che si parlò delle problematiche dell’ufficio di Roma”. “Escludo categoricamente che il dottor Fava mi disse che voleva presentare un esposto contro Pignatone e Ielo. Ovviamente se mi avesse detto che intendeva presentare un esposto contro Ielo, me ne sarei ricordato, visto che conosco quest’ultimo da anni”, precisò Davigo.

“Ha parlato con Ardita dell’esposto presentato da Fava contro Pignatone?”, aggiunse Cantone. “Ho parlato con Ardita dell’esposto contro Ielo e non contro Pignatone una volta uscite le intercettazioni”, rispose Davigo per poi aggiungere: “Siccome lo avevo visto agitato dopo la pubblicazione delle intercettazioni, gli chiesi di indicarmi se aveva avuto un ruolo nel gestire tale esposto. Lui mi disse che il suo ruolo era stato istituzionale”. “Perché Ardita era preoccupato?”, chiese allora Cantone “Io non posso spiegare interamente la vicenda, in quanto coperta da segreto d’ufficio”, rispose secco Davigo. E ancora Cantone: “Il dottor Ardita esternò le ragioni delle sue preoccupazioni?” Davigo: “Questa è la parte coperta da segreto d’ufficio su cui non posso rispondere”. Per poi sparare il colpo: “Si tratta della ragione per cui non parlo più con il consigliere Ardita dal marzo del 2020. Non mi spiegavo le ragioni delle sue preoccupazioni in quanto ho sempre pensato ‘male non fare, paura non avere’”.

A cosa si riferiva Davigo? Quale segreto non poteva essere rivelato e ha costretto l’ex pm di Mani pulite a togliere il saluto ad Ardita? Per avere la risposta bisognerà aspettare qualche mese, quando diventeranno di dominio pubblico i verbali di Amara che aveva rivelato ai magistrati milanesi l’esistenza della loggia Ungheria. Verbali consegnati da Storari, che aveva interrogato Amara, a Davigo proprio a marzo del 2020. E chi avrebbe fatto parte di questa loggia paramassoniaca? Ardita. Davigo iniziò a far girare al Csm questi verbali. Il contenuto venne portato a conoscenza del vice presidente del Csm David Ermini, di diversi togati, del procuratore generale Giovanni Salvi. Un comportamento che ha fatto andare su tutte le furie Ardita.

“È evidente che qualunque cittadino ha il diritto che il proprio nome non venga fatto oggetto di divulgazione pubblica di notizie relative a una indagine finché quella indagine non trovi discovery e conclusione – ha detto il legale di Ardita -. Nel caso di specie, senza le condotte illecite compiute dai due imputati Ardita non avrebbe subìto la massiva infamante divulgazione di quelle informazioni riservate. E il fatto che Amara avesse indicato Ardita quale componente della presunta loggia Ungheria sarebbe diventato di pubblica conoscibilità solo al momento in cui i magistrati avessero attestato l’infondatezza di quelle dichiarazioni e avessero proceduto per calunnia a carico di Amara”. Paolo Comi

Caso Amara, Di Matteo e i verbali su Davigo: "Aggredì verbalmente Ardita e..." Da Affari Italiani il 5 febbraio 2022.

Le verità dell'ex pm di Palermo sulla vicenda della procura di Roma nei verbali pubblicati da Il Fatto Quotidiano

Verbali di Amara, Di Matteo: "Davigo disse ad Ardita che o votava Prestipino o stava con Ferri & co"

Novità sui verbali di Amara, con la posizione di Nino Di Matteo che emerge nelle sue deposizioni, riportate in maniera dettagliata da il Fatto Quotidiano. In particolare quelle che riguardano Piercamillo Davigo, ex consigliere del Csm ed ex pm, indagato a Brescia per rivelazione di segreto in merito alla vicenda dei verbali di Amara consegnati dal pm di Milano, Paolo Storari.

Il Fatto riporta il racconto di Di Matteo, che riprendiamo qui in modo parziale, sul processo di scelta prima del voto per la procura di Roma. “Davigo iniziò chiedendoci che posizione intendevamo assumere in vista della votazione del 4 marzo e, quando sia io che Ardita (...) manifestammo un orientamento in favore di un candidato diverso da Prestipino, la riunione assunse toni particolarmente accesi”. Di Matteo la definisce “una vera e propria aggressione verbale” nei confronti di Ardita. “Alzò la voce in maniera molto decisa contro Ardita, orientato semmai a votare Creazzo. Non criticò il mio orientamento, avendo io una posizione di indipendente all’interno del gruppo (...). Ebbe una reazione furibonda e con un tono di voce alterato disse chiaramente ad Ardita, ripetendolo più volte, che se avesse votato per Creazzo ‘sarebbe stato automaticamente fuori dal gruppo’ (...). Gli disse: ‘Se non voti per Prestipino vuol dire che stai con quelli dell’hotel Champagne’. 

Prosegue Di Matteo, come riportato da il Fatto: “Contestai a Davigo la sua pretesa di condizionare opinioni e voti degli altri appartenenti al gruppo”. Sempre il Fatto ricorda come "il giorno della votazione Pepe e Marra si schierarono con Davigo votando Prestipino. Io e Ardita facemmo una scelta diversa”. E il Fatto conclude: "Di Matteo ritiene importante questo episodio: pensa che forse Davigo conoscesse il contenuto dei verbali di Amara già a febbraio e quindi prima di qualsiasi inerzia nelle iscrizioni dei vertici della procura".

Amara accusato di calunnia per il “falso complotto Eni”. E Genchi difende Armanna. Piero Amara e Vincenzo Armanna, difeso da Gioacchino Genchi, sono accusati di aver calunniato l'avvocato Luca Santa Maria, ex legale di uno degli imputati. Il Dubbio l'8 febbraio 2022.

È stata aggiornata al 4 aprile l’udienza preliminare, davanti al gup di Milano Carlo Ottone De Marchi, a carico di Piero Amara, Vincenzo Armanna, rispettivamente ex legale esterno ed ex manager di Eni, e altre persone accusate di calunnia nei confronti dell’allora avvocato dello stesso Armanna, il legale Luca Santa Maria, in una tranche dell’inchiesta sul cosiddetto «falso complotto Eni». Ieri la parte offesa della presunta calunnia, l’avvocato Santa Maria, ha chiesto la citazione come responsabile civile di Eni e il gup l’ha disposta. La società nella prossima udienza potrà chiedere l’esclusione dal procedimento.

Nel frattempo, il nuovo legale di Armanna, Gioacchino Genchi, ex consulente di tanti pm ed esperto nell’analisi delle intercettazioni, ha sollevato una questione preliminare relativa al telefono sequestrato ad Armanna, già oggetto di una consulenza tecnica dei pm. E da cui erano emerse chat finite anche al centro dello scontro tra il pm Paolo Storari, un tempo titolare con l’aggiunto Pedio del fascicolo ‘falso complottò, e l’aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, ora alla Procura europea, che hanno coordinato le indagini che hanno portato al processo Eni-Shell/Nigeria, finito con 15 assoluzioni.

La Procura ha chiesto il processo per Amara, Armanna, per l’ex direttore degli affari legali della compagnia petrolifera Massimo Mantovani e altre tre persone, che rispondono anche a vario titolo di intralcio alla giustizia, induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria e false informazioni a pm.

Secondo l’accusa, sarebbe stata depositata «nelle mani del Procuratore della Repubblica di Milano una e-mail dal contenuto calunnioso» con la quale Amara e Armanna avrebbero incolpato, «consapevoli della sua innocenza», l’avvocato Santa Maria «di infedele patrocinio nei confronti di Armanna» di cui era il difensore. Il 10 dicembre scorso, poi, l’aggiunto Pedio e i pm Civardi e Di Marco hanno anche chiuso il filone principale (tra gli indagati sempre Amara e Armanna) delle indagini sul cosiddetto “falso complotto Eni”.

Il poliziotto dei misteri e l'avvocato dei misteri: Armanna nomina Genchi suo nuovo difensore. Luca Fazzo il 5 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'ex consulente di De Magistris ha ricevuto l'incarico di rappresentare l'imputato ora alla sbarra: dopodomani l'udienza davanti al giudice.

Adesso, anche se un po' in ritardo, arriva il momento del redde rationem: quello in cui la stagione di veleni che ha attraversato la magistratura italiana esce dai corridoi delle Procure e dalle trame di corrente per uscire alla luce del sole, in processi pubblici. Sperando che almeno qualche pezzo di verità venga a galla. Qualche anticipazione si era avuta l'altro ieri, con l'udienza preliminare a Brescia a carico dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo e del pm Paolo Storari, imputati entrambi di rivelazione di segreto d'ufficio per avere divulgato i verbali del «pentito» Piero Amara sulla loggia Ungheria. Ma il piatto forte arriva dopodomani, quando davanti al giudice milanese Ottone De Marchi inizierà un'altra udienza preliminare: quella a carico proprio dell'avvocato Amara e del suo collega Vincenzo Armanna. Sono i due protagonisti del complotto che ha intorbidito il processo Eni, e i cui veleni si sono poi estesi a macchia d'olio nella Procura di Milano. Per anni la Procura ha trattato con i guanti i due avvocati siciliani, poi si è rassegnata a chiedere il loro rinvio a giudizio per calunnia. Amara è in carcere, Armanna è a piede libero e difficilmente si presenterà in udienza. Dalla linea difensiva dei due, già protagonisti di doppi e tripli giochi, dipende in parte la possibilità di capirci qualcosa.

A ridosso dell'udienza contro la strana coppia arriva una novità tutta da interpretare. Vincenzo Armanna ha fatto pervenire al giudice la nomina di un nuovo difensore, e non è un avvocato qualunque. Si chiama Gioacchino Genchi, faceva il funzionario di polizia e divenne famoso come consulente del pm Luigi De Magistris nelle gigantesche inchieste Poseidone e Why Not, e della procura di Palermo sulle stragi. In quella veste, Genchi ha attraversato molti misteri d'Italia. Anche perché il software da lui utilizzato gli permetteva di mettere in collegamento protagonisti e comprimari di indagini diversissime, disegnando reti quasi sterminate di complicità. Il Garante per la privacy calcolò che Genchi aveva accumulato l'incredibile totale di 351 incarichi dalle Procure, e lo accusò di avere conservato illecitamente i dati in una sorta di data base parallelo, multandolo per 192mila euro: multa annullata dal tribunale di Palermo con una sentenza confermata pochi giorni fa dalla Cassazione. Ma di Genchi è rimasta la descrizione che ne fece Ilda Boccassini testimoniando al processo Stato-Mafia: «Non mi piaceva, diffidavo di lui. Era una persona pericolosa per le istituzioni, aveva conservato un archivio con i tabulati raccolti, vedeva complotti e depistaggi ovunque».

Adesso il poliziotto dei misteri difende l'avvocato dei misteri. Cosa ne salterà fuori?

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Caso Eni, duello fra le Procure di Milano e Brescia sul telefono di Vincenzo Armanna. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 3 febbraio 2022.  

Milano lo consegna dopo che Brescia minaccia sequestri. L’udienza su Storari e Davigo 

Le Procure della Repubblica di Brescia e Milano a un passo dal replicare lo scontro Salerno-Catanzaro, quando nel 2008 l’una sequestrò all’altra atti di cui le era stata rifiutata la consegna: e alla fine di un teso carteggio attorno al cellulare dell’ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, la situazione si sblocca dopo che Brescia ventila l’alternativa di venirselo a prendere non con le buone, dopo che il reggente della Procura milanese Riccardo Targetti esercita «moral suasion» sui colleghi, e dopo che il procuratore generale Francesca Nanni lascia intendere di essere pronta a esercitare i propri poteri in caso di contrasti tra uffici. Milano consegna allora il cellulare a Brescia, che lo chiedeva peraltro nell’interesse del procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale, indagato nell’ipotesi che non avesse voluto depositare al processo Eni-Nigeria alcune chat del telefono di Armanna dalle quali il pm Paolo Storari traeva indici di calunniosità di Armanna ai danni di Eni.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 4 febbraio 2022.

Le Procure della Repubblica di Brescia e Milano a un passo dal replicare lo scontro Salerno-Catanzaro, quando nel 2008 l'una sequestrò all'altra atti di cui le era stata rifiutata la consegna: e alla fine di un teso carteggio attorno al cellulare dell'ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, la situazione si sblocca dopo che Brescia ventila l'alternativa di venirselo a prendere non con le buone, dopo che il reggente della Procura milanese Riccardo Targetti esercita «moral suasion» sui colleghi, e dopo che il procuratore generale Francesca Nanni lascia intendere di essere pronta a esercitare i propri poteri in caso di contrasti tra uffici.

Milano consegna allora il cellulare a Brescia, che lo chiedeva peraltro nell'interesse del procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale, indagato nell'ipotesi che non avesse voluto depositare al processo Eni-Nigeria alcune chat del telefono di Armanna dalle quali il pm Paolo Storari traeva indici di calunniosità di Armanna ai danni di Eni. 

A Brescia De Pasquale si era difeso sia contestando il significato annesso da Storari a quelle chat, sia affermando che comunque non sarebbe stato tecnicamente possibile estrarre dal cellulare e depositare in tribunale solo quelle chat. Perciò il procuratore bresciano Francesco Prete aveva deciso una perizia sul telefono, chiedendone a Milano una copia integrale.

Ma Milano non la consegna: perché trova generica la richiesta, adduce la privacy dell'indagato nei recenti orientamenti di Cassazione sui sequestri di telefoni, e valorizza che la gip milanese Anna Magelli già abbia rigettato analoga richiesta di Eni. Ma Brescia obietta di non poter essere assimilata a un privato come Eni, e torna a chiedere collaborazione, lasciando trasparire altrimenti il sequestro.

Targetti, che guida i pm di Milano dopo la pensione di Greco, li esorta a evitare uno scontro così violento e l'onta di un sequestro, oltretutto per una richiesta nell'interesse della difesa di De Pasquale. 

La pg Nanni a sua volta fa presente i propri poteri di coordinamento e chiede di essere aggiornata per valutare se esercitarli. A questo punto il telefono viene consegnato a Brescia dalla firma dei pm Stefano Civardi e Monia Di Marco, non anche del procuratore aggiunto Laura Pedio.

Che a Milano è titolare dell'indagine contenente il telefono di Armanna chiesto da Brescia, e nel contempo a Brescia è indagata (per ipotesi di tardiva indagine su Armanna per calunnia) in un fascicolo in cui peserà l'esito della perizia sul telefono. 

A Brescia ieri è intanto iniziata l'udienza preliminare nella quale la gup Federica Brugnara deve decidere se rinviare a giudizio per rivelazione di segreto Storari e l'ex consigliere Csm Piercamillo Davigo, al quale Storari nell'aprile 2020 consegnò i verbali resi da un sodale di Armanna, l'avvocato Piero Amara, sull'asserita associazione segreta «loggia Ungheria».

Respinta l'istanza di Davigo di svolgere l'udienza in pubblico anziché in camera di consiglio, la giudice ha invece accolto la costituzione di parte civile del consigliere Csm Sebastiano Ardita: motivata, spiega il legale Fabio Repici, dal fatto che le condotte di Storari (consegna) e Davigo (divulgazione a molti consiglieri Csm e all'onorevole Morra) sarebbero state le premesse di «una operazione mirata di discredito ai danni di Ardita, cercando perfino di condizionarne il ruolo e l'intero Csm». Davigo ha chiesto di essere interrogato lunedì, Storari si è fatto interrogare ieri ripetendo le ragioni per le quali si indusse a consegnargli i verbali di Amara: la decisione della giudice potrebbe arrivare il 17 febbraio.

Loggia Ungheria, il legale di Ardita: «Davigo agì per screditarlo». Oggi l’udienza preliminare del processo contro l’ex consigliere del Csm e il pm Storari. Il magistrato catanese ammesso come parte civile. Simona Musco su Il Dubbio il 4 febbraio 2022.

Una resa dei conti interna al Csm. E l’occasione per chiarire cosa sia avvenuto nel Palazzo di Giustizia di Milano, diventato nel giro dell’ultimo anno teatro di uno scontro senza esclusioni di colpi, che ha visto schierarsi l’uno contro l’altro colleghi della stessa procura e perfino il procuratore. Può essere interpretato così il processo aperto ieri a Brescia, dove si è tenuta la prima udienza preliminare sulla diffusione dei verbali dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, “pentito” le cui dichiarazioni un giudice dello stesso tribunale ha già definito «fluide e generiche», non nascondendo dubbi sulla sua credibilità. A comparire davanti al gup Federica Brugnara sono stati l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo (difeso dall’avvocato Francesco Borasi) e il pm milanese Paolo Storari (assistito da Paolo Dalla Sala), accusati di rivelazione di segreto d’ufficio per aver diffuso i verbali di Amara sull’esistenza della presunta loggia Ungheria. Un processo delicatissimo, che rappresenta anche il confronto (forse) finale tra due ex amici – Davigo e il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, fondatore assieme a lui della corrente “Autonomia e Indipendenza” -, data la decisione del gup di ammettere il magistrato catanese come parte civile.

L’accusa

L’udienza preliminare arriva dopo l’archiviazione della posizione dell’ex procuratore Francesco Greco, accusato da Storari di aver ritardato le iscrizioni sul registro degli indagati, accusa infondata, secondo il gup Andrea Gaboardi. Proprio per tale inerzia, Storari, che stava sentendo Amara nell’ambito dell’indagine sul “falso complotto Eni”, decise di consegnare, ad aprile 2020, quegli atti segreti, senza firma e senza timbro, all’allora consigliere del Csm, convinto di un voluto lassismo da parte di Greco e dell’aggiunta Laura Pedio nel procedere con le prime iscrizioni sul registro degli indagati. Secondo i magistrati di Brescia, Davigo avrebbe violato «i doveri inerenti alle proprie funzioni» abusando «della sua qualità di componente del Csm», pur avendo «l’obbligo giuridico ed istituzionale» di impedire «l’ulteriore diffusione» dei verbali di Amara. Anche perché l’ex pm di Mani Pulite non si limitò a ricevere i verbali ma ne «rivelava il contenuto a terzi», consegnandoli senza alcuna «ragione ufficiale» al consigliere del Csm Giuseppe Marra, con lo scopo «di motivare la rottura dei propri rapporti personali con il consigliere Sebastiano Ardita», che in realtà è precedente alla vicenda Amara.

Ma non solo: l’ex pm ne avrebbe parlato anche ad un’altra consigliera del Csm, Ilaria Pepe, per «suggerirle “di prendere le distanze”» da Ardita, invitandola a leggerli; con il consigliere Giuseppe Cascini, al quale Davigo ha chiesto «un giudizio sull’attendibilità» di Amara, mentre ai consiglieri Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna avrebbe riferito di una «indagine segreta su una presunta loggia massonica, aggiungendo che “in questa indagine è coinvolto Sebastiano Ardita”». Ma non solo: quei verbali furono consegnati anche al vicepresidente David Ermini, che «ritenendo irricevibili quegli atti» immediatamente «distruggeva» la «documentazione», pur riferendo il fatto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ad essere informati furono anche un componente esterno al Csm, Nicola Morra, presidente della Commissione nazionale antimafia, per chiarire i motivi dei «contrasti insorti tra lui» e Ardita, e le due segretarie di Davigo, Marcella Contrafatto – che secondo la procura di Roma avrebbe spedito anonimamente quei verbali al consigliere del Csm Nino Di Matteo e alla stampa – e Giulia Befera.

La scelta di Ardita

Il consigliere del Csm, assistito dall’avvocato Fabio Repici, ha dunque scelto di prendere parte al processo, per via degli «evidenti danni» derivati da quella fuga di notizie. «Risulta in atti – si legge nell’atto di costituzione di parte civile – che entrambi gli imputati fossero consapevoli che le dichiarazioni di Amara, tanto più quelle sul dottor Ardita, potessero essere false e, anzi, calunniose». Secondo quanto dichiarato dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, nonché da Cascini e Marra, alla procura di Brescia, Davigo avrebbe raccolto «altri elementi che deponevano per la falsità delle dichiarazioni» su Ardita. «È evidente che qualunque cittadino ha il diritto che il proprio nome non venga fatto oggetto di divulgazione pubblica di notizie relative a una indagine finché quella indagine non trovi discovery e conclusione – ha aggiunto Repici -. Nel caso di specie, senza le condotte illecite compiute dai due imputati il dottor Ardita non avrebbe subìto la massiva infamante divulgazione di quelle informazioni riservate». Secondo il legale, dunque, Davigo avrebbe agito con «dolo» con il fine «di screditare il ruolo istituzionale di consigliere del Csm» di Ardita «e la sua immagine personale e professionale», attraverso «una pervicace operazione mirata di discredito – ha aggiunto -, cercando così perfino di condizionarne il ruolo di consigliere del Csm e addirittura arrivando a condizionare l’intero Csm». E sul punto ha citato quanto riferito da Ilaria Pepe, «che ha affermato di essere rimasta “condizionata” dalle informazioni illecite rivelate dal dottor Davigo sul dottor Ardita e che in conseguenza di ciò troncò i rapporti» con lui. Dunque, «è circostanza incontrovertibilmente accertata la commissione di quelle condotte da parte degli imputati (che al riguardo sono rei confessi)», ha aggiunto Repici, che ha chiesto «l’affermazione della responsabilità penale degli imputati» e il risarcimento di tutti i danni subiti.

Interrogato Storari

Ieri, in aula, è stato il giorno di Storari, che è stato sentito per diverse ore dal gup. «Sono lieto come cittadino dell’archiviazione di Francesco Greco ma questo non interferisce in modo inevitabile con la posizione del mio assistito», ha affermato Dalla Sala al termine dell’udienza, senza però aggiungere nulla sulle dichiarazioni del pm, data la scelta del gup di respingere la richiesta di Davigo di svolgere il processo a porte aperte. L’ex pm si era richiamato alla Corte di Strasburgo, secondo cui «la pubblicità è di per sé una garanzia: questa vicenda è di interesse pubblico e siccome io non ho nulla da nascondere pretendo l’udienza a porte aperte». Ma il giudice ha respinto la richiesta, proseguendo in camera di consiglio. La prossima udienza è prevista il 7 febbraio, giorno in cui sarà proprio Davigo a raccontare la sua verità.

Le dichiarazioni di Amara «fluide e generiche»: ecco perché Greco è stato archiviato. Nel decreto d'archiviazione sul caso Greco, il gup di Brescia palesa forti dubbi sulle affermazioni di Piero Amara in merito all'esistenza della presunta Loggia Ungheria. Simona Musco su Il Dubbio il 2 febbraio 2022.

Le dichiarazioni di Piero Amara, ex avvocato esterno dell’Eni e “autore” delle dichiarazioni sull’esistenza di una presunta loggia segreta denominata “Ungheria”, sarebbero fluide e generiche e praticamente prive di riscontri concreti. È quanto emerge dal decreto di firmato dal gup di Brescia Andrea Gaboardi, che ha disposto l’archiviazione dell’ex procuratore di Milano, Francesco Greco, indagato per aver ritardato le iscrizioni sul registro degli indagati dei presunti appartenenti alla loggia. Accusa che era stata mossa dal pm Paolo Storari – indagato assieme all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo per rivelazione di segreto d’ufficio -, che lamentava l’inerzia dei vertici della procura di fronte alle gravi affermazioni dell’ex legale, ritenuto dal giudice, di fatto, poco credibile.

Nelle 27 pagine del decreto sono molti gli aspetti che emergono e che aggiungono un tassello ad una vicenda contorta, che ha provocato un vero e proprio terremoto nella procura meneghina. Il giudice, nello spiegare per quale motivo ritenga «infondata» la notizia di reato, ricostruisce gli scambi tra il pm e i suoi colleghi, ovvero l’aggiunta Laura Pedio, all’epoca co-titolare del fascicolo sul “Falso complotto Eni” ( anche lei indagata), e il procuratore Greco. Scambi che evidenzierebbero un clima disteso e tranquillo e nessun lassismo in merito all’iscrizione dei primi indagati, tra i quali lo stesso Amara, smentendo dunque, secondo il gup, l’ipotesi che si volesse tutelare uno degli accusatori di Eni mentre era in corso il processo (conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati) sulla presunta maxi tangente pagata in Nigeria.

Gaboardi non nasconde i dubbi su Amara, evidenziando il «contenuto assai “fluido’ e generico» delle sue dichiarazioni, limitandosi «perlopiù ad elencare ( con asserti il più delle volte confusi e de relato) le occasioni e le vicende in cui si sarebbe dispiegato il potere di influenza dell’evocata associazione». Il tutto «senza fornire elementi circostanziali di particolare pregnanza e ( soprattutto) immediatamente verificabili, i quali fossero dotati di specifica valenza indiziante circa l’esistenza stessa dell’associazione».

Ad autoaccusarsi di far parte della loggia anche l’ex socio di Amara, l’avvocato Giuseppe Calafiore, che ascoltato dalla procura il 4 e il 14 febbraio 2020 riferiva di possedere una lista degli affiliati alla loggia e consegnava tre file audio che contenevano dialoghi ritenuti utili alle indagini. Altro presunto affiliato Alessandro Ferraro, stretto collaboratore di Amara, che convocato dalla procura per consegnare l’elenco dei presunti affiliati non si è però mai presentato, lasciando quella lista avvolta dal mistero. Secondo Storari, il ritardo nelle indagini avrebbe impedito di «assumere iniziative istruttorie tempestive e adeguate alla gravità e alla complessità dei fatti riferiti da Amara».

Agli atti della procura di Brescia – che ha chiesto l’archiviazione di Greco – vi sono diversi scambi di email e messaggi whatsapp che dimostrerebbero, però, un clima tutt’altro che negativo. Scambi che partono dal dicembre 2019 e si protraggono oltre l’iscrizione dei primi indagati – Amara, Calafiore e Ferraro -, avvenuta a maggio 2020, molti dei quali, sostiene Storari, non avrebbero «mai ottenuto risposta, neppure oralmente». Motivo per cui, ad aprile del 2020, Storari si rivolse all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, a cui consegnò i verbali di Amara. Quei verbali, come noto, finirono a diversi giornalisti, che però si rivolsero alla procura, senza pubblicare il contenuto delle dichiarazioni di Amara.

Nei suoi messaggi, Storari evidenziava l’urgenza di avviare l’indagine con l’iscrizione dei primi indagati, lamentando un pericoloso ritardo, date anche le pesanti affermazioni di Amara, secondo cui la loggia sarebbe stata in grado di condizionare nomine ai più alti livelli, dal Csm ai vertici delle Forze di Polizia. Il tutto «sempre tenendo la mente aperta alla possibile calunnia» da parte di Amara. Pedio, che aveva manifestato perplessità sulla competenza territoriale, evidenziando la necessità di «definire il procedimento Eni con priorità assoluta», sottolineò l’esigenza di informare Greco. Da lì una serie di ulteriori scambi, tra i quali quello del 27 aprile, con il quale Storari proponeva una prima lista di soggetti sui quali indagare, tra i quali non compariva, però, lo stesso Amara.

Dopo due rinvii, il primo incontro di coordinamento fu convocato l’ 8 maggio 2020, all’esito del quale sarebbero avvenute le prime iscrizioni sul registro degli indagati, formalizzate il 12 maggio. Da qui il coordinamento con la procura di Perugia, alla quale poi è stato trasmesso il fascicolo per competenza territoriale, a dicembre del 2020. Per il gup, da un lato non ci sarebbe stato un espresso rifiuto da parte di Greco né ostracismo. Sarebbe toccato, anzi, a Storari e Pedio procedere.

A ciò si aggiunge il fatto che per formalizzare l’iscrizione sarebbe servito un preventivo approfondimento, «contrariamente a quanto sostenuto, in via solitaria e con sbrigativa sicurezza, dal consigliere Davigo nel corso del suo interrogatorio in data 7.7.2021», dato che le dichiarazioni «piuttosto anodine» di Amara si sostanziavano «in meri elementi di sospetto, da valutare peraltro con un approccio ispirato alla massima prudenza». All’epoca dei fatti, dunque, «l’obbligo di iscrizione non era ancora sorto in costanza dell’attività di valutazione e riscontro degli elementi di sospetto introdotti da Amara, attività funzionale a verificare l’idoneità degli stessi a fungere da indizi e, in quanto tali, a dar corpo ad una notizia di reato».

Secondo il gup, infatti, non appare «sostenibile né che dalle dichiarazioni rese da Amara nei citati interrogatori (di per sé sole considerate) fossero ricavabili specifici elementi indizianti di condotte partecipative (a vario titolo) ad un’associazione segreta – si legge – né che i suddetti magistrati, prima di iscrivere la notizia di reato in data 12.5.2020, siano stati colpevolmente inerti». E la necessaria attività di preliminare verifica «doveva, peraltro, nel caso di specie essere condotta con estrema prudenza e cautela, considerata la scarsa affidabilità soggettiva del dichiarante, coinvolto in altre gravi vicende penali (a Roma e a Messina) da forme di indebita interferenza su processi in corso ( e poi rivelatosi, sulla base degli accertamenti effettuati proprio da Storari nel prosieguo delle indagini, totalmente inattendibile)». 

Emerge dall’ordinanza di archiviazione. Storari voleva indagare Vietti e Patroni Griffi, per Amara erano membri della Loggia Ungheria. Paolo Comi su Il Riformista il 2 Febbraio 2022.

Il pm milanese Paolo Storari era convinto che Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni, non fosse un millantatore quando raccontava l’esistenza di una super loggia massonica coperta denominata “Ungheria”. Lo si è appreso leggendo il decreto di archiviazione nei confronti dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco, accusato di omissione di atti d’ufficio proprio per aver ritardato le iscrizioni nel registro degli indagati dei nomi fatti da Amara.

Quest’ultimo, infatti, a dicembre del 2019, interrogato da Storari nell’ambito del procedimento sul falso complotto ai danni del colosso petrolifero di San Donato, aveva elencato decine di alti magistrati, professionisti, ufficiali delle forze di polizia, che avrebbero fatto parte di questa loggia che aveva lo scopo di pilotare le nomine ai vertici dello Stato ed aggiustare i processi. Amara, già ideatore del “Sistema Siracusa”, il sodalizio finalizzato a condizionare le sentenze al Consiglio di Stato, è la gola profonda delle Procure di mezza Italia: a Perugia è fra i principali testi d’accusa nel processo contro Luca Palamara, a Milano in quello contro i vertici dell’Eni. Interrogato, come detto, da Storari alla fine del 2019, aveva svelato i retroscena della loggia.

Il fondatore di Ungheria sarebbe stato Giovanni Tinebra, ex procuratore di Caltanissetta e poi capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), morto qualche anno fa. Ungheria, come raccontò Amara a Storari, doveva battersi per uno “Stato liberale, ispirato da principi garantisti, contro la deriva giustizialista”. Per contrastare i giustizialisti, Tinebra aveva fatto, sempre secondo Amara, opera di proselitismo dietro il paravento di Opco (Osservatorio permanente sulla criminalità organizzata), una associazione che riceveva finanziamenti dalla Regione siciliana. Un racconto suggestivo. «Io facevo quello che chiedeva Tinebra e non conoscevo le gerarchie interne alla loggia», precisò l’ex avvocato dell’Eni, illustrandola formula per il riconoscimento fra gli appartenenti ad Ungheria: «Stringersi la mano premendo con il dito indice tre volte sul polso dell’altro e pronunciando la frase “sei mai stato in Ungheria?». Alla frase, in caso di riconoscimento, non doveva seguire alcuna risposta. «La domanda “sei mai stato in Ungheria?” non doveva essere ripetuta dopo la prima presentazione, mentre rimaneva sempre il gesto con la mano».

Ma torniamo agli appartenenti alla loggia secondo Amara. «Michele Vietti (deputato dell’Udc e vice presidente del Csm dal 2010 al 2014), Enrico Caratozzolo (avvocato di Messina) e Giancarlo Elia Valori (presidente di Autostrade)». «Tinebra, Vietti, Caratozzolo ed Elia Valori erano anche massoni», puntualizzò Amara. «Quali erano le regole di affiliazione?», domandarono i pm. «La persona che poteva essere utile per gli scopi dell’associazione era ‘avvicinata’, come nel caso di Lucia Lotti (presidente sezione Tribunale di Roma)». Altri esponenti di Ungheria, secondo Amara, il presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, il presidente della Corte dei Conti Pasquale Squitieri ed il suo vice Luigi Caruso. Poi i generali dei carabinieri Tullio Del Sette ed Emanuele Saltalamacchia, e della guardia di finanza Giorgio Toschi. E Pasquale Dell’Aversana, dirigente agenzia delle entrate.

Anche Giovanni Legnini, ex vice presidente del Csm e ora commissario straordinario per la ricostruzione dopo il terremoto in Abruzzo avrebbe fatto parte di Ungheria. «Vi sono prelati in Ungheria?», chiese Storari ad Amara.

«Il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano”, rispose Amara. Molti di questi nomi, come Patroni Griffi, Vietti, Elia Valori, sarebbero allora dovuti finire nel registro degli indagati secondo Storari per violazione della legge sulle società segrete. Il fascicolo, però, verrà assegnato ad altri pm e mandato per competenza ad altre Procure, come quella di Perugia, e tutti hanno tirato un sospiro di sollievo. Paolo Comi

Giuseppe Salvaggiulo e Monica Serra per "la Stampa" il 2 febbraio 2022.

Se fosse una partita di tennis e non uno scandalo giudiziario, l'ex procuratore di Milano Francesco Greco sarebbe in vantaggio due set a zero sul pm Paolo Storari. 

Il campo di gioco è il tribunale di Brescia: mentre Storari comparirà domani per difendersi con l'ex membro del Csm Piercamillo Davigo dall'imputazione di rivelazione di segreto d'indagine, Greco incassa l'archiviazione dell'accusa, avanzata dallo stesso Storari e corroborata da Davigo, di omissione di atti d'ufficio per «immobilismo investigativo» sulla presunta loggia Ungheria.

Il gip, anziché limitarsi ad affermare la «radicale infondatezza» dell'accusa a Greco, ipotizza che l'iniziativa di Storari - su cui però deciderà un altro giudice - «sia stata indotta da una suggestione e dalla frustrazione di non poter svolgere più penetranti investigazioni» causa lockdown.

Le due vicende originano dagli interrogatori, resi a Storari tra 2019 e 2020, in cui l'ineffabile avvocato Piero Amara rivelava l'esistenza di una loggia segreta paramassonica denominata Ungheria con decine di magistrati, politici, grand commis, militari. Una specie di P2 del nuovo millennio, tanto che Storari (scrive il gip) andò a rileggersi la relazione parlamentare dell'epoca di Tina Anselmi, per farsi un'idea.

Da quei verbali nacque nella Procura di Milano un contrasto poi deflagrato e su cui ora il Csm sta cercando di mettere ordine. Nell'aprile 2020 Storari, ritenendo Greco colpevolmente (se non dolosamente) inerte, consegnò i verbali a Davigo. Un'iniziativa che il gip definisce «improvvida e con finalità resa ancor più opaca dalle vicende successive».

A maggio Davigo, tacciato dal gip di «sbrigativa sicurezza», portò i verbali al Csm, da dove uscirono sei mesi dopo, con scandalo e danno alle indagini. La Procura di Brescia, diretta da Francesco Prete e competente sui magistrati milanesi, dopo aver ricostruito i fatti con testimonianze, documenti, mail e chat, aveva concluso con la richiesta di archiviazione per Greco. Il gip, accogliendola, va ben oltre. 

Dice che, contrariamente a quanto sostenuto da Storari, Greco non fu inerte ma solo «giustamente prudente», esercitando il necessario «vaglio critico su dichiarazioni anodine, fluide, confuse e generiche di un soggetto inattendibile» come Amara senza ostacolare «le attività preliminari di riscontro», sia pure nell'ambito di un altro fascicolo: riunioni con i pm di Perugia, intercettazioni telefoniche, interrogatori di altri presunti affiliati a Ungheria.

Ciò a gennaio 2020, e le attività - scrive il gip - sarebbero proseguite senza lockdown. Storari accusa Greco di non aver dato seguito alle iscrizioni nel registro degli indagati, «precludendo investigazioni efficaci con rischio di compromissione irrimediabile delle indagini» tanto da indurlo a rivolgersi a Davigo per chiedergli aiuto. 

Ma per il gip, Greco «non rientrava tra i soggetti titolari dell'obbligo di iscrizione» e in ogni caso non ha mai «opposto alcun espresso rifiuto alla stessa iscrizione né concretamente impedito o indebitamente ritardato in qualunque forma» l'azione dei pm, con cui aveva «continue e opportune interlocuzioni in un clima di piena e fattiva collaborazione in un clima sereno».

Smontata dal gip anche l'accusa, rivolta da Storari a Greco, di essersi deciso ad aprire un fascicolo sulla loggia Ungheria solo su input del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, informato a Roma da Davigo. Scrive il giudice: «Pur non conoscendosi il contenuto degli sms tra Greco e Salvi in quanto entrambi non dispongono più dei cellulari che avevano all'epoca e nessuno dei due ha uno specifico ricordo, appare implausibile che un'eventuale comunicazione riservata sul procedimento Ungheria possa essere stata affidata a semplici messaggi nell'arco di pochissimi secondi». 

Il decreto del gip sarà acquisito dal Csm, che valuta l'ipotesi di incompatibilità ambientale per Storari e il procuratore aggiunto De Pasquale, fedelissimo di Greco.

Loggia Ungheria, archiviazione per Greco. Storari e De Pasquale rischiano il trasferimento. Ieri la Prima Commissione del Csm in missione a Milano per audire il pm Storari e l’aggiunto De Pasquale: rischiano un trasferimento per incompatibilità ambientale. Simona Musco su Il Dubbio l'1 febbraio 2022.

Il gip di Brescia ha archiviato l’indagine sull’ex procuratore di Milano Francesco Greco, indagato per omissione di atti d’ufficio per il caso dei verbali dell’avvocato Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria. Il giudice Andrea Gaboardi ha depositato ieri mattina il suo provvedimento di 27 pagine, con cui ha accolto la richiesta avanzata dal procuratore Francesco Prete e dal pm Donato Greco, che nei mesi scorsi hanno invece chiesto il rinvio a giudizio dell’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e del pm Paolo Storari, accusati di rivelazione del segreto d’ufficio per aver fatto circolare, nella primavera del 2020, quei verbali. Il decreto di archiviazione verrà prodotto all’udienza preliminare fissata il 3 febbraio davanti al gup Federica Brugnara.

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L’iscrizione di Greco era stata presentata come un atto dovuto a seguito delle denunce formulate davanti ai pm bresciani da Storari, che aveva lamentato l’inerzia dei vertici della procura nell’apertura del fascicolo sulla presunta associazione segreta. Una scelta, secondo il pm, dettata dalla necessità della procura di tutelare la credibilità di Amara e Vincenzo Armanna, grande accusatore di Eni, ritenuto però dal Tribunale di Milano, che ha assolto tutti gli imputati del processo Eni- Nigeria, un inquinatore di pozzi. Storari, a febbraio 2021 secondo quanto emerso dalle precedenti audizioni davanti al Csm – avrebbe preparato una bozza di richiesta di misura cautelare per calunnia a carico di Amara, Armanna e Giuseppe Calafiore. Richiesta mai controfirmata da Greco e dall’aggiunta Laura Pedio (anche lei indagata) e, pertanto, rimasta in un cassetto. Storari, dunque, consegnò i verbali a Davigo con l’intento di «autotutelarsi», convinto di poter così smuovere le acque al Csm.

Quei verbali, però, furono spediti a due quotidiani, nonché al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che denunciò pubblicamente la circostanza, ipotizzando un’operazione di dossieraggio ai danni del consigliere togato Sebastiano Ardita, indicato da Amara tra i membri della loggia, circostanza smentita da Ardita e confutata anche dalle incongruenze delle dichiarazioni dell’ex avvocato.

Il Csm interroga Storari e De Pasquale

Nel frattempo ieri la prima commissione del Csm si è recata a Milano per sentire il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e Storari, nei confronti dei quali è stata aperta dal Csm una procedura per incompatibilità ambientale e funzionale, dopo i contrasti sorti tra i magistrati milanesi per la gestione del procedimento Eni.

Anche De Pasquale, assieme al collega Sergio Spadaro (ora passato alla procura europea), è indagato per la gestione delle prove del caso Eni, con l’ipotesi di rifiuto d’atti d’ufficio. La Prima Commissione ha sentito a lungo i due magistrati, con l’intento di capire cosa abbia generato le frizioni all’interno della Procura e se la serenità del luogo di lavoro possa essere stata compromessa. Motivo per cui ha ascoltato anche l’aggiunta Alessandra Dolci, capo della Dda, il dipartimento di Storari, e il procuratore facente funzione Riccardo Targetti.

L’anno scorso, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi aveva già chiesto il trasferimento cautelare di Storari sulla base di tre presupposti: il mancato rispetto delle procedure, la scorrettezza nei confronti dei vertici dell’ufficio e la mancata astensione nell’indagine sulla fuga di notizie. E a ciò aveva aggiunto «la risonanza mediatica» delle condotte di Storari, esigenza cautelare non prevista dal codice di procedura penale. La Prima Commissione, in quell’occasione, respinse la richiesta, evidenziando come non ci fosse alcuna incompatibilità ambientale, anche sulla scorta della lettera con la quale una sessantina di pm si erano schierati dalla sua parte.

Dal fascicolo Eni alla Loggia Ungheria. Il Csm indaga a Milano due anni dopo gli scandali, sentiti Storari e De Pasquale. Paolo Comi su Il Riformista l'1 Febbraio 2022. 

Il Consiglio superiore della magistratura ha deciso – finalmente – che è giunto il momento di verificare quale sia il clima al Palazzo di giustizia di Milano. A distanza di quasi due anni da quando esplosero i primi scontri fra i pm, il Csm ha inviato ieri a Milano una nutrita delegazione con il compito di procedere alle loro audizioni. Una trasferta “a scoppio ritardato” dal momento che il procuratore Francesco Greco, che ha gestito in prima persona quella fase conflittuale, è andato in pensione da oltre due mesi, ed il facente funzioni Riccardo Targetti farà lo stesso fra poche settimane.

Diversi i fronti che saranno toccati della delegazione composta dai laici Alberto Maria Benedetti (M5s) e Michele Cerabona (FI), e dai togati Paola Maria Braggion, Nino Di Matteo, Elisabetta Chinaglia e Carmelo Celentano. Ad esempio, la posizione del pm Paolo Storari, l’erede di Ilda Boccassini. Il magistrato aveva accusato i colleghi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro di aver frenato le indagini sulle dichiarazioni rilasciate da Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni. Amara aveva descritto con dovizia di particolari l’esistenza di una associazione paramassonica, la loggia Ungheria, che avrebbe avuto lo scopo di pilotare le nomine dei magistrati al Csm e di aggiustare i processi. «Questo fascicolo dobbiamo tenerlo chiuso nel cassetto per due anni», sarebbero state le parole di De Pasquale, capo del dipartimento che si occupa di corruzione internazionale, a Storari.

Amara era stato interrogato molte volte alla fine del mese di dicembre del 2019 da Storari e dalla vice di Greco, Laura Pedio. L’avvocato esterno del colosso petrolifero aveva elencato oltre quaranta nomi fra alti magistrati, generali, professionisti, avvocati, che avrebbero fatto parte di questa loggia super segreta. Storari, riletti i verbali, aveva quindi chiesto ai suoi capi di poter effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati e l’acquisizione dei tabulati telefonici. Alle richieste investigative di Storari sarebbe seguito un rifiuto perché, sempre secondo il diretto interessato, all’epoca vi era una precisa linea da parte dei vertici della Procura di Milano che prevedeva di “salvaguardare” Amara da possibili indagini per calunnia, dal momento che costui poteva tornare utile come teste in altri processi.

Tutte le prove raccolte sull’ex manager dell’Eni Vincenzo Armanna, tra cui chat falsificate e molto altro, finite nel fascicolo sul cosiddetto “falso complotto Eni”, inoltre, non vennero prese in considerazione da Greco, De Pasquale, Pedio e Spadaro, e di conseguenza non furono depositate nel processo per corruzione a carico dell’ad Claudio Descalzi, poi assolto con formula piena. Anche in questo caso perché Armanna, “grande accusatore” dei vertici del cane a sei zampe, non poteva correre il rischio di essere “screditato”. De Pasquale e Spadaro a seguito di ciò sono stati iscritti nel registro degli indagati per omissione di atti d’ufficio a Brescia. I due si sono difesi dicendo che non era tecnicamente possibile il deposito di tali chat: la copia forense del cellulare di Armanna non avrebbe permesso stralci delle sue conversazioni senza disvelarne tutto il contenuto in un momento in cui le investigazioni erano in corso.

Il procuratore di Brescia Francesco Prete ed il pm Donato Greco, titolari del fascicolo, preso atto delle loro dichiarazioni, hanno ottenuto dal giudice sei mesi di tempo in più per «per verificare l’attendibilità di Storari» e decidere se De Pasquale e Spadaro dovranno essere processati o meno. In questa vicenda sono stati indagati anche l’ex procuratore Greco, per il quale il gip di Brescia ieri ha disposto l’archiviazione, e anche l’aggiunto Pedio, titolare del fascicolo “falso complotto”, a cui viene contestata, tra l’altro, la gestione di Vincenzo Armanna, grande accusatore dei vertici Eni.

Terminate le audizioni, verosimilmente già questa mattina, la delegazione di Palazzo dei Marescialli farà ritorno a Roma. E solo allora si saprà se qualche pm sarà costretto a lasciare Milano per incompatibilità ambientale o, invece, tutto sarà stato risolto. La nomina del nuovo procuratore di Milano, invece, è attesa a breve. Quando andrà in pensione Targetti, vista l’anzianità di servizio, a succedergli come facente funzioni dovrebbe essere proprio De Pasquale. Un incarico che scatenerebbe polemiche a non finire alla luce delle accuse che gli pendono sulla testa. Paolo Comi

 Craxi aveva ragione: si arrestano fra loro. Luca Fazzo il 2 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Non è solo una coincidenza se in questi stessi, tumultuosi mesi da due versanti della vita giudiziaria del Paese arrivano cronache che sembrano dare corpo, a oltre vent'anni di distanza, alla cupa profezia di Bettino Craxi.

Non è solo una coincidenza se in questi stessi, tumultuosi mesi da due versanti della vita giudiziaria del Paese arrivano cronache che sembrano dare corpo, a oltre vent'anni di distanza, alla cupa profezia di Bettino Craxi: «Verrà il giorno in cui i magistrati si arresteranno tra di loro». Il film catastrofico che ha per set la Procura di Milano, l'implosione di quello che fu il tempio del pool Mani Pulite, non per caso arriva pochi mesi dopo che su Roma si è abbattuto il «ciclone Palamara», il cui eroe eponimo - trasformatosi in un lampo da accusato a accusatore - ha rivelato a un'incredula opinione pubblica il marcio che regnava nel Consiglio superiore della magistratura. I due psicodrammi sono intimamente legati, ognuno illumina l'altro e aiuta a comprenderlo. E non solo perché vi ricorrono nomi e volti, a partire da quelli dei grandi mestatori, gli avvocati Amara e Armanna: che nonostante le apparenze sono personaggi minori nell'economia generale, maschere da commedia di cui l'Italia pullula, pronte a svolgere due o tre o quattro parti in contemporanea. No, a unire i due film nella stessa trama - e non si capisce bene quale sia il prequel e quale il sequel - sono i meccanismi che hanno reso possibile tutto quanto, la trasformazione della Procura di Milano in una palestra di agonismo giudiziario e del Csm in un covo di traffici e accordi: ovvero il trionfo all'interno della magistratura italiana del correntismo e della autoreferenzialità, il ripudio organizzato e santificato di qualunque forma di controllo democratico sull'esercizio del potere giudiziario. Solo l'autocrazia del sistema in toga - a partire dal suo braccio secolare, l'Associazione nazionale magistrati, talmente potente da ridurre a volte in posizione subalterna il Csm - ha permesso che le posizioni dominanti venissero occupate sistematicamente dagli uomini delle correnti. Solo l'impermeabilità a qualunque refolo di rinnovamento ha consentito che a Milano lo stesso gruppo di magistrati gestisse senza soluzione di continuità per trent'anni la Procura della Repubblica. Il Consiglio superiore ha benedetto questa occupazione un po' per pavidità, e un po' perché funzionale al sistema di valori che nel Csm lottizzato aveva la sua consacrazione. Ora crolla tutto, e c'è poco da gioirne. C'è semmai da restare stupiti di quanto le correnti organizzate dei giudici non si rendano conto che la loro epoca è finita. Chissà se dopo l'esito sorprendente del referendum indetto dall'Anm domenica scorsa, con il 41 per cento che vota a favore del sorteggio del Csm, qualcuno inizierà a farsi delle domande.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

L'irriducibile De Pasquale ossessionato dal processo Eni. Luca Fazzo il 2 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il pm senza freni: dopo il flop in primo grado, voleva sostenere l'accusa bis in Appello. Fermato dalla Pg. Arrivati a questo punto, forse solo uno studioso di dinamiche mentali può capire il percorso che ha portato la Procura di Milano, e in particolare il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, a trasformare le indagini sull'Eni in una questione di vita o di morte; a fare della condanna per corruzione internazionale un obiettivo che rendeva lecito omettere le prove, premere sui giudici, assoldare come testimoni d'accusa personaggi inaffidabili. Ieri, mentre il Consiglio superiore della magistratura si prepara a tirare le fila della sua indagine sui veleni milanesi, emerge un documento significativo. É firmato dal procuratore generale di Milano, Francesca Nanni, e segna una nuova sconfitta per De Pasquale: ma è un colpo che il procuratore aggiunto si sarebbe risparmiato, se avesse preso atto più serenamente dell'assoluzione dei vertici dell'Eni.

Contro la sentenza che il 17 marzo scorso riconobbe l'innocenza dell'ad di Eni, Claudio Descalzi, e del suo predecessore Paolo Scaroni, De Pasquale aveva proposto, come prevedibile, il ricorso in appello. Ma aveva aggiunto una richiesta: di essere lui a rappresentare anche in appello la pubblica accusa. Solo io, diceva in sostanza De Pasquale, conosco per intero lo sterminato fascicolo, solo io posso dimostrare la colpevolezza di Eni.

Ebbene, il procuratore generale gli risponde che non è affatto così. Le carte di Eni le conosce altrettanto bene un altro magistrato, il sostituto pg Celestina Gravina, che ha gestito il processo d'appello «nei confronti di due imputati per lo stesso fatto, affrontando lo studio del copioso materiale probatorio raccolto». Il problema è che in quel processo la Gravina «ha presentato conclusioni contrastanti con le richieste contenute nell'atto d'appello del dottor De Pasquale»: ovvero ha chiesto e ottenuto l'assoluzione dei due imputati perché «il fatto non sussiste». Quindi nell'aula del processo d'appello a Descalzi e Scaroni, previsto per il prossimo autunno, ci andrà lei, la Gravina. E De Pasquale dovrà rassegnarsi a vederla chiedere la conferma delle assoluzioni che per lui costituiscono - nella migliore delle ipotesi - un colossale errore giudiziario.

Ammesso e non concesso che per quella data De Pasquale sia ancora al suo posto di procuratore aggiunto. Sulla sua testa pesa la proposta della prima commissione del Csm di dichiararlo «incompatibile» con la Procura milanese, come pure il collega che si è scontrato più frontalmente con lui, il pm Paolo Storari. Gli interrogatori dell'altro ieri, in un palazzo di giustizia blindato, hanno convinto il Csm che invece De Pasquale e Storari possono continuare a convivere serenamente nella stessa Procura? Sulla decisione finale del Consiglio superiore peserà, insieme alle colpe dei singoli, l'intero quadro - per alcuni aspetti disarmante - delle lacerazioni cui la Procura milanese è andata incontro nella gestione dei fascicoli sull'Eni e sulla fantomatica «loggia Ungheria» descritta da Piero Amara, ex avvocato di Eni.

Sono i verbali che Storari consegnò a Piercamillo Davigo - finendo per questo anche lui sotto inchiesta - accusando il suo capo Francesco Greco di non permettergli di indagare né su Amara né sulla loggia. Anche Greco era finito per questo sotto indagine, lunedì la sua posizione è stata archiviata: nel provvedimento il gip di Brescia scrive che risultano «smentite o comunque grandemente ridimensionate le propalazioni accusatorie di Storari in ordine a presunti ritardi o inerzie degli organi di vertice della procura di Milano». Nel provvedimento si scopre che oltre che iscrivere nel registro degli indagati Amara e il suo collega Vincenzo Armanna, Storari intendeva indagare per associazione segreta anche alcuni dei personaggi indicati da Amara come appartenenti alla loggia, tra cui l'ex vicepresidente del Csm Michele Vietti e l'allora presidente del Consiglio di Stato Giuseppe Patroni Griffi. Ma per il gip fece bene Greco a andarci piano, trattandosi di «meri elementi di sospetto, da valutare con un approccio ispirato da massima prudenza».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Il Csm fa il processo ai pm. E la Procura diventa un bunker. Luca Fazzo l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Trasferta della I Commissione per interrogare Storari e De Pasquale. Rischiano il trasferimento punitivo.

Neanche quando venne interrogato Berlusconi la Procura di Milano era così blindata. Il momento topico del disastro che ha investito la giustizia ambrosiana, con i pm-indagati Fabio De Pasquale e Paolo Storari interrogati dal Consiglio superiore della magistratura in trasferta al nord, deve avvenire lontano da sguardi indiscreti. Corridoi e scale chiuse, carabinieri a bloccare i varchi. Come se evitando la pubblicità si alleggerisse di un'oncia la gravità di quanto è accaduto.

Sul tavolo c'è da decidere la sorte di De Pasquale, procuratore aggiunto, uno degli uomini più potenti della Procura; e del soldato semplice Paolo Storari, che contro De Pasquale e la sua gestione dei processi all'Eni è partito con furia donchisciottesca. Sono finiti tutti e due nei guai: De Pasquale con l'accusa di avere nascosto prove che scagionavano Eni, Storari per avere passato illegalmente a Piercamillo Davigo le carte che facevano capire come i testimoni usati da De Pasquale fossero dei conclamati ciarlatani. I guai di De Pasquale e Storari viaggiano su tre binari: c'è l'inchiesta penale a Brescia, c'è il procedimento disciplinare. E poi c'è la terza strada, più blanda ma anche più insidiosa, imboccata dal Csm per cercare di disinnescare il caso Milano: la procedura di trasferimento per incompatibilità. Nelle settimane scorse è stata notificata a entrambi l'avvio di una procedura per la rimozione dall'incarico.

È quest'ultima procedura che ieri porta una intera commissione del Consiglio - la prima, presieduta dal pm palermitano Nino Di Matteo - in missione a Milano. I due vengono sentiti a lungo, assistititi da loro legali. Una serie di interrogatori erano già stati fatti prima dell'estate. Ma poi, a quanto si capisce, il Csm si è spaccato. Le correnti di centro e di destra, Unicost e Magistratura Indipendente, erano convinti della necessità di mandare un segnale forte, cacciando De Pasquale dalla carica di procuratore aggiunto; ma Area, ovvero la sinistra, si è opposta risolutamente. D'altronde il baffuto pm per un pezzo di magistratura è l'eroe dei processi a Berlusconi, l'unico che ha ottenuto la condanna del Cav. Farlo fuori non è facile. Ma quanto emerso in queste settimane sulla sua gestione dei processi ai vertici Eni è difficile da insabbiare.

Con la missione di ieri a Milano, il Csm sembra preparare una doppia botta, bilanciando il provvedimento contro De Pasquale con quello contro Storari: di fronte al gigantesco pasticcio, si colpiscono i due più esposti dei fronti in lotta. Certo, per dichiarare Storari incompatibile con la Procura milanese ci sarà da superare l'ostacolo della raccolta di firme con cui quasi all'unanimità i suoi colleghi sono intervenuti in sua difesa. Ma la Procura di Milano è ormai da mesi senza capo, il 15 febbraio il Csm affronterà la delicata nomina del successore di Francesco Greco. Presentare al nuovo capo una Procura epurata dai reprobi potrebbe essere l'unico modo per svelenire il clima e guardare con fiducia al futuro.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

L'anomalia: Milano indagava su se stessa. Luca Fazzo l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale.

I veleni di Armanna contro i pm di Eni non vennero trasmessi a Brescia

È possibile che una Procura indaghi su se stessa? Che a scavare su episodi di gravità inaudite siano i colleghi dei magistrati che ne sono rimasti vittime, o che ne sono responsabili? Ovviamente no. Eppure questo è quanto accaduto per anni a Milano, in quel gigantesco contenitore che era diventata l'indagine sul complotto che i vertici dell'Eni avrebbero organizzato per affossare le inchieste sulle tangenti distribuite in Africa. Complotto che ora si scopre non essere mai esistito se non nei piani di Piero Amara e Vincenzo Armanna (nel tondo a destra), avvocati-calunniatori, e dei loro sodali nel sottobosco del colosso del cane a sei zampe.

Almeno due, ed eclatanti, sono i passaggi in cui l'inchiesta della Procura milanese avrebbe dovuto essere interrotta e immediatamente trasmessa a Brescia, alla Procura competente per i reati commessi o subiti dai magistrati milanesi. La prima è quando in una intercettazione un sodale dei due mestatori accusa il pm Fabio De Pasquale (nel tondo a sinistra) di avere ricevuto dei soldi. La seconda è quando compare una strana mail, a firma dello stesso De Pasquale. Sulla prima, la Procura di Milano non fa nulla. Sulla seconda, avvia una serie di accertamenti per verificare se De Pasquale sia effettivamente il titolare della mail da cui è partito il messaggio.

La calunnia a carico di De Pasquale spunta nell'intercettazione che il 27 marzo 2017 la Finanza realizza all'aeroporto di Linate. A parlare sono Massimo Gaboardi, l'improbabile personaggio (tipo: sessantamila euro di debiti in sala corse) arruolato dall'avvocato Amara per le sue trame. Gaboardi incontra Gaetano Drago, un altro dell'entourage di Amara. Parlano delle indagini e degli articoli che stanno iniziando a uscire. «Da due anni De Pasquale - dice Gaboardi - sta usando Armanna per accusare quei due lì», ovvero l'amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni. E poi: «Bisogna dare i soldi al pm di sotto, che oltretutto si è beccato...». Ribatte Drago: «Anche De Pasquale si è preso i soldi». Gaboardi: «Sicuramente prima». Perché i due chiamano in causa il procuratore aggiunto di Milano? Sanno di essere ascoltati e vogliono far transitare il loro fango nelle trascrizioni? L'intercettazione dovrebbe essere subito mandata a Brescia, perché incrimini i due. Invece non succede niente, e il dialogo rimane sepolto per anni nel gigantesco faldone del procedimento sul presunto complotto.

Ancora più surreale è quanto avviene quando sul cellulare di Vincenzo Armanna, l'altro ex avvocato di Eni oggi imputato per calunnia, spunta lo screenshot di una mail che sembra provenire da De Pasquale, e che denoterebbe una confidenza eccessiva tra magistrato e indagato. È lo stesso telefono che custodisce molti dei segreti di Armanna, compresa la falsa chat con Descalzi. Il pubblico ministero milanese Paolo Storari, che ha fatto sequestrare lo smartphone dell'avvocato, inizia una serie di accertamenti sulla casella di posta fabio.depasquale@gmail.com, da cui pare provenire il messaggio per Armanna. Partono le rogatorie in direzione di Google, per capire se l'intestatario sia effettivamente il pm milanese. Emergono una serie di omonimi, tra cui un pilota residente a Doha, ma che non ha mai avuto contatti con Armanna in vita sua. Il 10 febbraio dell'anno scorso, la Guardia di finanza scrive alla Procura di Milano che l'accertamento «non ha rilevato alcun collegamento tra il citato Fabio De Pasquale e gli eventi relativi al procedimento penale in oggetto né tantomeno ha individuato alcuna evidenza su eventuali contatti intercorsi tra lo stesso e l'indagato Armanna. Pertanto non si può escludere che lo screenshot della mail inviata dall'account fabio.depasqualeatgmail.com non sia riferibile ad una reale comunicazione pervenuta all'indagato quanto piuttosto ad una mera indagine artefatta».

Armanna, insomma, avrebbe realizzato al computer una finta mail, in modo tale che sembrasse inviata dal pm che in quel momento indagava su Eni. È un episodio inquietante, di cui evidentemente De Pasquale è vittima. E tutto doveva venire trasmesso immediatamente a Brescia. Ma il processo Eni, basato anche sulle rivelazioni di Armanna a De Pasquale, sarebbe stato compromesso. Così la finta mail rimase lì, nei cassetti della Procura milanese. E i miasmi di quel veleno contribuirono ad appestare il clima.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 18 gennaio 2022.

«Il cittadino non è più in grado di comprendere se il proprio magistrato inquirente o il proprio giudice esercitino legittimamente la propria funzione». A dirlo sono gli avvocati dell'Unione delle camere penali, commentando questa settimana le ultime disavventure dei magistrati italiani. 

Come esempio di questo stato di confusione, i penalisti hanno ricordato quanto accaduto recentemente a Francesco Greco, l'ex capo della Procura di Milano, in pensione dallo scorso mese di novembre, e a Giovanni Salvi, attuale procuratore generale della Cassazione e titolare dell'azione disciplinare, «i vertici della Magistratura inquirente del Paese», entrambi di Magistratura democratica, la sinistra giudiziaria.

«Si tratta di una vicenda semplicemente incredibile e che nessuno ha smentito», affermano i penalisti. Per capire, allora, cosa è successo è necessario fare un passo indietro di qualche mese ed andare a Brescia. Nella città Leonessa d'Italia i pm stavano indagando sul modo in cui i colleghi milanesi avevano svolto le indagini sulle dichiarazioni dell'avvocato esterno dell'Eni Piero Amara circa l'esistenza della loggia Ungheria, l'associazione paramassonica finalizzata ad aggiustare i processi e pilotare le nomine dei magistrati.

IL RIFIUTO

 Il pm Paolo Storari, allievo prediletto di Ilda Boccassini all'antimafia, era il titolare del fascicolo. Secondo la sua ricostruzione davanti ai pm bresciani, dopo aver concluso gli interrogatori di Amara, alla fine di dicembre del 2019, aveva chiesto ai suoi capi, e quindi a Greco, di poter effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati e di svolgere delle indagini a riscontro delle parole dell'avvocato. 

La risposta sarebbe stata un secco rifiuto. Il motivo, sempre secondo Storari, sarebbe stato quello di "salvaguardare" Amara da possibili indagini per calunnia, perché poteva tornare utile più avanti come teste nel processo sulla maxi tangente nel processo Eni-Nigeria. Processo poi finito in un flop clamoroso per la Procura di Milano con l'assoluzione di tutti gli imputati.

Storari, vista l'inerzia dei propri superiori, aveva deciso allora, nella primavera del 2020, di consegnare i verbali delle dichiarazioni di Amara a Piercamillo Davigo, in quel periodo potente consigliere del Csm e con il quale aveva da anni un consolidato rapporto di amicizia e stima reciproca. Davigo, ricevuti i verbali, aveva a sua volta informato il vice presidente del Csm David Ermini, alcuni colleghi magistrati a Palazzo dei Marescialli, il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (M5s), il procuratore generale della Cassazione Salvi.

I pm bresciani, sulla base del racconto di Storari, avevano ritenuto necessario iscrivere nel registro degli indagati Greco per omissione di atti d'ufficio, disponendo l'acquisizione dei tabulati del suo telefono. Dalla loro lettura erano emersi nel periodo citato da Storari numerosi contatti, sia telefonate che messaggi, con Salvi. 

Dal momento che il tabulato riportava solo il giorno e l'ora delle telefonate e dei messaggi inviati e ricevuti ma non il contenuto, il procuratore di Brescia Francesco Prete aveva deciso di interrogare sia Salvi che Greco. Il primo aveva detto di aver «sollecitato» Greco, sia di persona che telefonicamente, affinché le indagini su quanto riferito da Amara venissero condotte con un certo ritmo.

LO SMARRIMENTO

 Il secondo aveva smentito tale ricostruzione, affermando invece che il pg della Cassazione era solo interessato ad avere notizie su procedimenti a carico Marco Mancinetti, un giudice del tribunale di Roma diventato consigliere del Csm e vicino a Luca Palamara, e se fossero state aperte a Milano indagini sensibili su altri magistrati. Nulla sui contrasti all'interno della Procura di Milano sulla gestione del caso Amara.

Per capire chi stava mentendo, Prete chiese ai due alti magistrati di esibire il cellulare. Purtroppo per Prete, sia Salvi che Greco proprio in quei giorni l'avevano perso. Si tratta di «una coincidenza statisticamente prossima all'impossibile», puntualizzano i penalisti. Il miglior commento su queste "perdite sincroniche" è sicuramente del giudice veronese Andrea Mirenda. 

«I gemelli demokratiki sono distratti e perdono tutto: porelli!», scrive Mirenda in un post. «Se fossero stati di altra parrocchia, stile Champagne (hotel da dove è nato lo scandalo Palamara sulle nomine, ndr), ti immagini che fine avrebbero fatto, con tutta la fanfara di Repubblica a spezzare le reni al nemiko di turno delle visioni culturali giudiziarie?»

Loggia Ungheria, vertice tra i magistrati milanesi e il procuratore Cantone. Lungo faccia a faccia tra gli inquirenti perugini e quelli milanesi, che hanno appena concluso le indagini sul “falso complotto Eni”. Il Dubbio il 14 gennaio 2022.

Lungo vertice ieri in Procura a Milano tra gli inquirenti milanesi e quelli perugini che indagano sulla presunta “Loggia Ungheria” svelata dall’ex legale esterno di Eni Piero Amara ai magistrati meneghini titolari dell’inchiesta sul cosiddetto “falso complotto Eni” tra dicembre 2019 e gennaio 2020. Verbali poi trasmessi a Perugia per competenza territoriale.

Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone si è confrontato per ore con gli aggiunti milanesi Maurizio Romanelli e Laura Pedio, assieme anche ai pm Stefano Civardi e Monia Di Marco. Questi ultimi tre magistrati hanno chiuso nelle scorse settimane le indagini sul “falso complotto”, un fascicolo aperto nel 2017 e finito anche al centro del noto scontro tra pm milanesi che ha portato la Procura di Brescia ad aprire più filoni di indagine. Si sarebbe trattato di un incontro interlocutorio di coordinamento investigativo, anche perché gli inquirenti milanesi si trovano a dover gestire diversi fascicoli con l’ipotesi di calunnia a carico di Amara proprio per le sue parole sulla presunta “loggia Ungheria”. Amara, infatti, indagato per associazione segreta assieme al suo ex collaboratore Alessandro Ferraro e al suo ex socio Giuseppe Calafiore, aveva tirato in ballo con le sue dichiarazioni, tra gli altri, alti esponenti delle forze dell’ordine e delle istituzioni, i quali nel frattempo lo hanno denunciato. Intanto è prevista per il prossimo 7 febbraio l’udienza preliminare a carico di Amara, Vincenzo Armanna – ex manager di Eni – e le altre persone accusate di calunnia nei confronti dell’allora avvocato dello stesso Armanna, il legale Luca Santa Maria, in una tranche dell’inchiesta della procura di Milano sul cosiddetto “falso complotto”.

Udienza che si terrà davanti al gup milanese Carlo Ottone De Marchi. Nelle scorse settimane la procura ha chiesto il processo per Amara, Armanna, per l’ex direttore degli affari legali della compagnia petrolifera Massimo Mantovani e altre tre persone, che rispondono anche a vario titolo di intralcio alla giustizia, induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria e false informazioni a pm.

Le indagini. Loggia Ungheria: Salvi, Greco e la maledizione dei cellulari spariti…Paolo Comi su Il Riformista il 13 Gennaio 2022.  

Non sapremo mai cosa si sono detti, e soprattutto cosa si sono scritti nella primavera del 2020, Francesco Greco, l’ex capo della Procura di Milano, in pensione dallo scorso mese di novembre, e Giovanni Salvi, attuale pg della Cassazione e titolare dell’azione disciplinare. Perché? I due alti magistrati oggi non hanno più il cellulare che usavano all’epoca e, verosimilmente, non hanno mai fatto un backup perdendo così tutti i dati. La circostanza, alquanto sorprendente, è stata riportata da La Verità.

La Procura di Brescia, indagando sull’eventuale inerzia da parte della Procura di Milano nello svolgere le indagini sulle dichiarazioni dell’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara sull’esistenza della Loggia Ungheria, aveva acquisito i tabulati telefonici di Greco. Il pm Paolo Storari, titolare del fascicolo su Amara, sentito dai pm bresciani aveva raccontato che dopo aver concluso gli interrogatori di Amara chiese ai suoi capi di poter effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati e l’acquisizione dei tabulati telefonici a riscontro delle parole dell’avvocato siciliano. La risposta sarebbe stata un secco rifiuto. Il motivo, secondo Storari, sarebbe stato quello di “salvaguardare” Amara da possibili indagini per calunnia, perchè poteva tornare utile più avanti come teste nel processo sulla maxi tangente nel processo Eni-Nigeria. Storari, allora, aveva consegnato i verbali di Amara a Piercamillo Davigo, in quel periodo consigliere del Csm e con il quale era in rapporto di amicizia risalente nel tempo.

Davigo, a sua volta, ricevuti i verbali, aveva deciso di informare il vice presidente del Csm David Ermini, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, alcuni consiglieri togati di Palazzo di Marescialli, il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra. Ermini, in questa catena comunicativa senza fine, pare che avesse poi avvisato il capo dello Stato Sergio Mattarella. Ma torniamo ai tabulati del cellulare di Greco. Dalla loro lettura erano emersi numerosi contatti in quel periodo proprio con Salvi. In particolare un lungo messaggio del 7 maggio 2020. Ovviamente, trattandosi di tabulati appariva solo il giorno e l’ora del messaggio inviato e non il suo contenuto. Partendo da questo dato, sia Salvi che Greco erano stati interrogati dai colleghi bresciani per fornire chiarimenti su quanto accaduto. Salvi aveva detto di aver “sollecitato” Greco, sia di persona che telefonicamente, affinché le indagini su quanto riferito da Amara venissero condotte con un certo ritmo, parlando anche delle iscrizioni.

Scenario completamente diverso per Greco, secondo il quale il pg della Cassazione era solo interessato ad avere notizie su procedimenti a carico Marco Mancinetti, un consigliere del Csm della corrente di Luca Palamara, e se ci fossero state indagini alquanto delicate su altri magistrati. Nessun accenno, dunque, a Davigo e Storari e ad eventuali contrasti all’interno della Procura di Milano sulla gestione del caso Amara. Non avendo più, come detto, nessuno dei due magistrati il cellulare dell’epoca, verosimilmente perso o gettato, su questo aspetto non si hanno notizie precise, non sapremo mai chi fra Greco e Salvi ha detto la verità. E se almeno uno dei due l’ha detta. Peccato. Greco, dalla sua, ha comunque la testimonianza della propria vice Laura Pedio. Dopo le interlocuzioni con Salvi, l’ex procuratore di Milano si sarebbe infatti confidato con la sua stretta collaboratrice esprimendo preoccupazione per la tenuta del segreto. Paolo Comi

Magistrati e marchesi del grillo. Salvi e Greco hanno perso i cellulari, inchiesta su Loggia Ungheria chiusa. Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Gennaio 2022.  

Ma guarda che certe volte succedono cose curiose. Molto curiose. C’è una inchiesta a Brescia che riguarda dei grandi pasticci che sono stati combinati dai magistrati milanesi, e forse non solo da loro, sui famosi interrogatori dell’avvocato Amara che denunciava l’esistenza di una certa Loggia Ungheria, che sarebbe stata (o forse ancora sarebbe) al comando del sistema Giustizia. I magistrati di Brescia vorrebbero sapere di alcuni scambi di messaggi che forse ci sono stati tra il procuratore di Milano Greco e il Procuratore generale della Cassazione Salvi.

Per accertare come sono andate le cose chiedono di poter controllare i cellulari di Salvi e Greco. Si fa sempre così (poi in alcuni casi si va anche oltre e si distribuiscono alla stampa pezzi di messaggi, i più scabrosi e privati e che non c’entrano niente con l’inchiesta, ma servono a fare spettacolo… In questo caso, certamente, questo non sarebbe avvenuto).

I magistrati di Brescia – ha rivelato ieri “La Verità” – chiedono a Greco di consegnare il suo cellulare. Ma lui risponde: “No, l’ho perduto”. Vabbé, poco male, tanto se ci sono scambi di messaggi si trovano anche sul cellulare di Salvi. Beh, ci crederete? Anche Salvi purtroppo ha perduto il cellulare. E allora niente. Su questo punto, indagini chiuse.

Voi potete pensare forse che Salvi e Greco abbiano per qualche motivo potuto mentire ai Pm di Brescia per nascondere i loro scambi? Spero francamente che la vostra sospettosità non giunga a tanto. E poi un’altra domanda: ma secondo voi che cosa sarebbe successo se a perdere il cellulare fosse stato magari un cittadino comune o addirittura un politico? A occhio e croce, in base all’esperienza, la scomparsa del cellulare sarebbe stata considerata prova certa di colpevolezza. Per fortuna i magistrati di Brescia sono garantisti. Almeno, questa volta lo sono.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

·        Gli Impuniti.

Shadow Diplomats: svelati terroristi, stupratori e trafficanti tra i consoli onorari con immunità diplomatica. I tesorieri di Hezbollah, gli oligarchi sanzionati, i riciclatori di soldi mafiosi. E poi truffatori, criminali, spie di regimi autoritari. Tutti con cariche consolari. Un’inchiesta internazionale de L’Espresso con Icij e ProPublica mostra i nomi di oltre 500 impresentabili: privati che rappresentano Stati e non si possono intercettare o perquisire. Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisti su L’Espresso il 14 Novembre 2022.

Il trafficante d'armi. Il tesoriere dei terroristi. Il riciclatore di narco-dollari. Lo stupratore seriale. L'oligarca con una rete personale di spie russe. Il ladro di antichità. Il trafficante di visti. E tanti altri protagonisti di storie criminali, intrighi politici, scandali economici. Rispetto ai comuni cittadini, hanno un titolo in più: la carica di console onorario. Uno status che garantisce una speciale protezione internazionale: una forma di immunità diplomatica.

Consoli onorari intoccabili: ecco politici e imprenditori italiani con l’immunità. Il renziano Marco Carrai per Israele. Il deputato di Fdi Comba e un industriale bresciano per la Bielorussia. Il banchiere Fallico per il regime di Putin. Carlo Sama per il Paraguay. Un’inchiesta internazionale de L’Espresso con Icij e ProPublica svela poteri e privilegi dei privati che rappresentano Stati esteri. Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisti su L’Espresso il 18 Novembre 2022.

Il 26 novembre 2019 la Guardia di Finanza si presenta negli uffici a Firenze di Marco Carrai, imprenditore e uomo di fiducia dell'ex premier Matteo Renzi. I militari mostrano un mandato di perquisizione firmato dai pm Luca Turco e Antonino Nastasi, che indagano sui finanziamenti ricevuti dalla fondazione Open, di cui Carrai è uno dei dirigenti. La perquisizione però è parziale: i magistrati riconoscono che una parte dell'immobile è inviolabile.

Csm, due pesi e due misure: un buffetto al pm molestatore, pugno duro per la visita al Cav. Paolo Comi su Il Riformista il 13 Novembre 2022.

Per il Consiglio superiore della magistratura il giudice che accompagna un collega da Silvio Berlusconi commette una “scorrettezza” molto più grave di colui che invece molesta sessualmente la collega contro la sua volontà. È questo, infatti, il ‘sorprendente’ responso della sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli che ieri pomeriggio, al termine di un processo lampo, ha disposto la perdita di anzianità di due anni nei confronti del giudice ed ex deputato di Italia viva Cosimo Ferri. Il magistrato, in particolare, era stato accusato dalla Procura generale di “grave scorrettezza” vero i colleghi della Cassazione per aver accompagnato il giudice Amedeo Franco, relatore della sentenza che nel 2013 aveva confermato la condanna di Silvio Berlusconi nel processo Mediaset, presso la residenza romana di quest’ultimo.

La circostanza, risalente ad un periodo compreso fra la fine del 2013 e i primi mesi del 2014, quando Ferri era sottosegretario alla Giustizia, era divenuta di pubblico dominio nell’estate del 2020, dopo la pubblicazione di alcuni audio registrati dallo staff dell’ex premier all’insaputa del giudice. Questi audio erano poi stati depositati nel ricorso alla Cedu da parte dei legali di Berlusconi contro tale sentenza che ne aveva determinato la decadenza dal Senato per effetto della legge Severino. Franco, poi deceduto nel 2019, davanti a Berlusconi si era mostrato molto amareggiato per essersi lasciato indurre a condividere un palese errore giudiziario, descrivendo la Corte presieduta da Antonio Esposito come “un plotone d’esecuzione”. La difesa di Ferri, rappresentata dall’avvocato romano Luigi Antonio Panella, aveva sottolineato che l’atteggiamento critico di Franco nei confronti della decisione della condanna di Berlusconi era noto a tutti in quegli anni. Nulla di nuovo, insomma. Se, dunque, aver accompagnato un collega in crisi di coscienza dal suo imputato deve essere sanzionato con la mano pesante, chi importuna sessualmente una collega, come fece il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo con la pm palermitana Alessia Sinatra, se la cava con la perdita di appena due mesi di anzianità.

Una “sperequazione” che difficilmente trova giustificazioni plausibili. Ma essendo Berlusconi da sempre nel mirino dei magistrati, per la proprietà transitiva anche tutti coloro che vi entrano in contatto rischiano di incorrere nelle medesime conseguenze. A nulla è servito da parte di Ferri citare allora i differenti trattamenti posti in essere da parte del Csm. Come l’aver ‘assolto’ la pm Anna Canepa che aveva definito “banditi ed incapaci” alcuni colleghi. Considerata la situazione, pare sempre più inevitabile che dopo il prossimo 13 dicembre, giorno in cui finirà la consiliatura, saranno molti i magistrati che chiameranno per azioni risarcitorie alcuni degli attuali componenti del Csm per per ‘manifesta disparità di trattamento’. Disparità evidenziata, ad esempio, dalla giudice romana Silvia Albano che si era spesa a sostegno della presidente della sezione protezione internazionale del tribunale di Roma, ‘rea’ di aver chattato con Luca Palamara e per questo motivo rimossa dall’incarico a differenza di tanti altri che erano stati graziati in passato. Paolo Comi

David Rossi, un tracollo giudiziario. Ma il Csm non fa nulla? Davide Vecchi su Libero Quotidiano il 13 novembre 2022

Aldo Natalini, Salvatore Nastasi e Nicola Marini sono i tre magistrati indagati dalla procura di Genova per aver commesso "falsità ideologica e omissioni sul sopralluogo" nell'ufficio di David Rossi, il manager di Monte dei Paschi di Siena trovato morto la sera del 6 marzo 2013. Sono accusati di aver fatto male il loro lavoro. Anzi, di averlo svolto parecchio male. Considerato che è contestato loro il "falso aggravato". Bene, si dirà, finalmente qualcuno decide di far luce sul caso più controverso dell'ultimo decennio. Male, invece. Malissimo. Perché è l'ennesima conferma delle tragiche condizioni in cui versa la giustizia italiana.

 Per numerosi motivi. Mi limito a indicarne tre. Il primo: i rilievi contestati ora ai tre pm erano già noti sin dal luglio 2013, quindi si poteva intervenire subito. Il secondo: la Procura di Genova che oggi li indaga è la stessa Procura che aveva già aperto nel 2019 un fascicolo sui tre, archiviandolo. Il terzo: il Consiglio Superiore della Magistratura, che sin dal 2015 è stato interpellato per valutare l'operato dei tre, è rimasto inerme. L'aspetto forse più preoccupante è che di tutti questi organismi che avrebbero dovuto (perché è un loro dovere) compiere gli accertamenti, nessuno è arrivato a nulla: il lavoro che ha portato a indagare i tre magistrati è stato svolto da dei politici. Sì, i tanto odiati politici. Il merito è infatti della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di David Rossi presieduta da Pierantonio Zanettin e della quale è stato consulente anche l'attuale ministro della Giustizia, Carlo Nordio.

I commissari- in particolare Luca Migliorino dei Cinque Stelle (che Giuseppe Conte ha pensato bene di non rieleggere) o Walter Rizzetto di Fratelli d'Italia (che ha già chiesto con Zanettin la ricostituzione della commissione), ma anche Claudio Borghi della Lega e Cosimo Ferri di Italia Viva - hanno scoperto in meno di un anno più di quanto abbiano scoperto due Procure (e il Csm) dal 2013 in poi. Un lavoro sintetizzato nella relazione conclusiva che, va ricordato, è stata approvata da tutti tranne che dagli esponenti del Pd (chissà come mai). Logica vorrebbe che il Csm adotti dei provvedimenti immediati per i magistrati coinvolti. Almeno per i tre di Siena indagati da ieri, perché negli ultimi nove anni hanno pure fatto carriera. Nastasi è ora a Firenze, per esempio. Marini oggi è addirittura procuratore capo di Siena

. Non ha dell'incredibile? Si dirà che la presunzione d'innocenza vale per tutti e che i reati sono ormai prescritti ma quale e quanta credibilità ha o potrebbe avere un magistrato che si nasconde dietro la prescrizione? E come può un pm accusato di aver fatto male il proprio mestiere continuare a farlo sostenendo di "attendere fiducioso gli accertamenti" di suoi colleghi? Dovrebbero autosospendersi. Almeno il terzo pm indagato, Aldo Natalini, anni fa ha cambiato mestiere: non è più un magistrato inquirente ed è andato al massimario della Corte di Cassazione. Natalini, del resto, era riuscito nel capolavoro di distruggere reperti fondamentali senza analizzarli e persino a indagare e mandare a processo con un giornalista la vedova di David Rossi, Antonella Tognazzi, con un'accusa ridicola (violazione della privacy dell'ex ad di Mps, Fabrizio Viola) per la pubblicazione sulla stampa delle mail con cui il marito ancora vivo chiedeva aiuto a Viola. Ovviamente è stata pienamente assolta. Era il luglio 2013. Rossi era morto quattro mesi prima. Invece di indagare su cosa era accaduto a David, Natalini ha preferito indagare la vedova. Questa era la Procura della Repubblica di Siena. E questo è come hanno operato (e operano ancora?) alcuni magistrati. 

Il Csm organo di (mancato) controllo della Magistratura, in mano alle correnti. Redazione CdG 1947 e Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 12 Novembre 2022.

Nel limbo dell'attesa delle nomine del parlamento dei nuovi membri laici, ci troviamo di fronte ad un paradosso: sono stati eletti i nuovi consiglieri "togati" (cioè pm e giudici) ma nel frattempo continuano ad operare i consiglieri scaduti, che stanno mettendo in scena una nuova riedizione del dopo "hotel Champagne", allorquando le correnti di sinistra ripresero per via giudiziaria e non elettorale il controllo del plenum del Csm.

La fedeltà alla Costituzione “è l’unica fedeltà richiesta ai servitori dello Stato. L’unica fedeltà alla quale attenersi e sentirsi vincolati” aveva detto il presidente della repubblica Sergio Mattarella durante la cerimonia per gli anniversari dell’uccisione di Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato Gaetano Costa e Rosario Livatino. Superare le correnti. Il Capo dello Stato, in un altro passaggio molto  rilevante del suo discorso, aveva anche mosso un puntuto appunto a chi lo tira per la giacca. Serve il “rispetto rigoroso delle regole della Costituzione“,”Questo è il momento di dimostrare, con coraggio, di voler superare ogni degenerazione del sistema delle correnti per perseguire autenticamente l’interesse generale ad avere una giustizia efficiente e credibile. E’ indispensabile porre attenzione critica sul ruolo e sull’utilità stessa delle correnti interne alla vita associativa dei magistrati“.

Mattarella in uno dei suoi discorsi più duri aveva evidenziato che sono emerse “gravi e vaste distorsioni” nelle decisioni del Csm oggetto dell’inchiesta di Perugia, aggiungendo: “La documentazione raccolta dalla Procura della Repubblica di Perugia – la cui rilevanza va valutata nelle sedi proprie previste dalla legge – sembra presentare l’immagine di una magistratura china su stessa, preoccupata di costruire consensi a uso interno, finalizzati all’attribuzione di incarichi. Questo fenomeno- continua Mattarella- si era disvelato nel momento in cui il Csm è stato chiamato, un anno addietro, ad affrontare quanto già allora emerso. Quel che è apparso ulteriormente fornisce la percezione della vastità del fenomeno allora denunziato; e fa intravedere un’ampia diffusione della grave distorsione sviluppatasi intorno ai criteri e alle decisioni di vari adempimenti nel governo autonomo della magistratura. Sono certo che queste logiche non appartengono alla magistratura nel suo insieme, che rappresenta un ordine impegnato nella quotidiana elaborazione della risposta di giustizia rispetto a una domanda che diventa sempre più pressante e complessa“.

Un discorso che sembra essere scivolato nel dimenticatoio del parlamentino dei magistrati dove invece hanno continuato imperterriti ad applicare il “bilancino” degli equilibri correntizi, usando sempre due pesi e due misure, sopratutto in sede disciplinare, dove si “azzoppano” o “salvano” le carriere delle toghe. Come non si può dare ragione a chi oggi ha criticato la mano pesante usata contro Cosimo Ferri “colpevole” di aver aiutato un giudice a far emergere la verità.

Usare la mano “pesante” con Ferri, e quella “leggera” con il magistrato Giuseppe Creazzo che quando si trovò in ascensore con un’avvenente collega, cioè Alessia Sinatra, si lancio in avances imbarazzanti che indussero la magistrata a definire Creazzo “un porco essere immondo“, dopo che questi le aveva allungato le mani addosso. In quel caso il Csm aveva sanzionato Creazzo con la perdita di soli due mesi di anzianità. Più che una pena, una “carezza” disciplinare. Ieri la sezione disciplinare ha condannato Ferri alla perdità di due anni di anzianità, cioè 12 volte la pena di Creazzo ! Ferri viene ritenuto colpevole per aver accompagnato a casa di Berlusconi il giudice Antonio Franco, componente della sezione della Cassazione che aveva condannato il Cavaliere per la vicenda dei diritti televisivi. Per questo accompagnamento Ferri è stato accusato “di aver tenuto un comportamento gravemente scorretto in violazione dei doveri di imparzialità e correttezza“. Per fortuna Ferri non ha calato le mani al giudice Franco, altrimenti avrebbe rischiato la fucilazione !

Nel limbo dell’attesa delle nomine del parlamento dei nuovi membri laici, ci troviamo di fronte ad un paradosso: sono stati eletti i nuovi consiglieri “togati” (cioè pm e giudici) ma nel frattempo continuano ad operare i consiglieri scaduti, che stanno mettendo in scena una nuova riedizione del dopo “hotel Champagne“, allorquando le correnti di sinistra ripresero per via giudiziaria e non elettorale il controllo del plenum del Csm.

Un Csm che impedisce alla libera stampa di trasmettere in diretta streaming le udienze del plenum e della sezione disciplinare del Csm (che sono per Legge pubbliche) accampando le scuse più ridicole e squallide come “la privacy dei magistrati“, la “mancanza di un regolamento” mentre consente a Radio Radicale di registrare e mandare in onda quando e come vuole le dirette radio, e tutto ciò avvalendosi della consulenza…di un incompetente ufficio studi, del quale si nasconde (negando il diritto di accesso) la presa visione del parere, sostenendo che la pratica non si è conclusa, manifestando quella incompetenza ed ignoranza specifica, che ha indotto più volte il Tar del Lazio ed il Consiglio di Stato ad annullare e radere al suolo i teoremi giuridici imbarazzanti utilizzati a difesa degli accordi sottobanco concordati fra le correnti.

Ma non solo. Il padre (Giovanni) del dr. Marco Bisogni uno dei magistrati eletti nel nuovo Csm, risulta indagato dal pm dr. Mario Palazzi dalla Procura di Roma . Circostanza emersa durante l’interrogatorio del dr. Luca Palamara dinnanzi al Gip di Perugia. Bisogni, pm della DDA di Catania, si è costituito parte civile a Perugia, sentendosi danneggiato dai comportamenti di Palamara, allorquando questi era componente del Csm. Bisogni aveva mosso delle gravi accuse nei confronti di Palamara accusandolo di essersi attivato insieme al fantomatico avv. Amara per bloccargli la carriera. Accuse però che non state ritenute fondate e quindi inutilizzate dalla Procura di Perugia. Se la circostanza che il padre di Bisogni sia indagato a Roma si rivelasse fondata, ci troveremmo di fronte ad una altro paradosso, e cioè che il magistrato Marco Bisogni , figlio dell’indagato , si troverebbe a dover esprimere nel Csm giudizi e valutazioni nei confronti di colleghi magistrati in forza all’ufficio giudiziario dove stanno processando suo padre.

Abbiamo raccontato ieri le vicende del pm Dario Scaletta dietro le quali si cela il tentativo della sinistra giudiziaria di sovvertire l’esito delle recenti elezioni, rendendo noto quelle dell’ aggiunto di Taranto Maurizio Carbone. E potremmo aggiungere una valanga di altre ipocrisie di una certa magistratura che usa il codice penale e la polizia giudiziaria come un manganello ad uso strumentale e politicamente scorretto. Potremmo parlare ancora una volta della procura di Taranto in cui regnano conflitti d’interesse da anni, e di un attuale indagine sulle consulenze d’oro in corso di accertamento dalla Guardia di Finanza che vede fra gli indagati anche un commercialista sposato con una pm della stessa procura che sta indagando. E la Procura di Potenza cosa ne pensa ? Questa la chiamiamo ancora giustizia ?

Sarebbe questa la magistratura libera, specchiata, indipendente, che vorrebbe godere della fiducia degli italiani e dell’impunità totale ? A voi cari lettori ogni riflessione del caso. Redazione CdG 1947

La delibera ad hoc. Gli esposti dei cittadini contro le toghe non saranno cestinati: ecco perché. Paolo Comi su Il Riformista il 20 Ottobre 2022. 

Domanda secca: ma che fine fanno gli esposti inviati dai cittadini al Consiglio superiore della magistratura per segnalare, ad esempio, il comportamento scorretto di un magistrato o di un ufficio giudiziario in genere? Prima di questa settimana, ma nessuno ovviamente lo ammetterà mai, il cestino era la probabile destinazione finale. C’è voluto l’intervento dei cinque togati progressisti di Area, che hanno fatto approvare ieri in Plenum una delibera ad hoc, per mettere fine alla prassi di “archiviare” gli esposti indirizzati al Csm di default.

Le disposizioni adesso abrogate, infatti, prevedevano che gli esposti indirizzati al Csm venissero preventivamente sottoposti al vaglio del Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli. Il Comitato, composto dal vice presidente del Csm e dai capi di Corte, il primo presidente della Cassazione ed il procuratore generale, a suo insindacabile giudizio decideva allora se archiviarli o se trasmetterli alle Commissioni competenti, ad iniziare dalla prima, incaricata proprio di valutare i comportamenti tenuti dai magistrati. In questo modo, senza il vaglio delle Commissioni e quindi del Plenum, un esposto aveva ad oggetto “censure” nei confronti di una toga poteva finire direttamente in archivio.

In altre parole, il cittadino che si era rivolto al Csm per chiederne l’intervento, non aveva alcuna certezza che fosse stata effettuata la benché minima attività istruttoria. Dalla prossima settimana, come detto, tutti gli esposti (tranne gli esposti anonimi che non verranno presi in considerazione) dovranno invece essere “obbligatoriamente” trasmessi alle Commissioni per le attività più opportune. Dopo il Csm, la “trasparenza” dovrebbe adesso estendersi anche alla Procura generale della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati.

Si dà il caso, infatti, che una circolare dell’allora procuratore generale Giovanni Salvi impedisca al cittadino che ha segnalato un illecito a carico di un magistrato di avere la copia del provvedimento di archiviazione se non è stata esercitata l’azione disciplinare. Il pg si è riservato il potere assoluto di rilasciare o meno copia di qualsiasi archiviazione. Anche se a chiederla è lo stesso Csm che in quel momento si trova a valutare il magistrato finito sotto disciplinare per un incarico o una promozione. Un eccesso di privacy che non ha eguali. È sufficiente ricordare che nel processo penale i provvedimenti di archiviazione sono accessibili a chiunque ne abbia interesse.

Un “oblio tombale” di migliaia di archiviazioni l’anno che è stato stigmatizzato dagli stessi magistrati, i primi a voler conoscere come viene esercitato il potere disciplinare da parte del pg della Cassazione. Un riserbo che stride con quanto avviene nelle professioni ordinistiche: le archiviazioni emesse dai competenti Ordini forensi nei confronti degli avvocati sono comunicate d’ufficio a coloro, i clienti, che hanno presentato la denuncia. Paolo Comi 

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Per tutti coloro che si limitano a diffondere e condividere articoli di cronaca attinenti la mafia, che provino a leggere, ed eventualmente diffondere, i capitoli dei miei libri: "Contro Tutte Le Mafie" o "La Mafia dell'Antimafia" o “Mafiopoli. L’Italia delle mafie” o di “Palermo e la Sicilia. Quello che non si osa dire”. Non mi arrischio a dire che costoro devono leggere tutto il trattato, ma almeno conoscere il contenuto di soli due capitoli: LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET; LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA. Per i malpensanti che credono che voglia pubblicizzare le mie opere, a loro dico che possono leggerli in parte gratis su Google libri.

Poi ai grillini dico: che il vostro guru sia di Genova e che badi solo ai soldi è un dato di fatto. Che voi veniate da Marte e non siete macchiati dall’italica vergogna e quindi siete di specchiata illibatezza ed onestà è una vostra presunzione. Però fareste cosa giusta se, anziché combattere contro i privilegi della sola casta dei politici, lottaste per togliere i privilegi di tutte le caste e le lobbies e cosa più importante togliere loro il potere, specialmente alla magistratura. Sempre che abbiate il coraggio e la capacità di farlo.

Se la vittima non fosse stata una toga sarebbe andata nello stesso modo? Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 18 Settembre 2022 

Occorre certamente salutare con favore la recentissima sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha ampliato l’area dei danni risarcibili causati al cittadino indagato/imputato dalla azione ingiusta del magistrato. Senza perderci nei dettagli tecnici, un po’ più complessi di quanto possano apparire, andiamo al punto: il cittadino vittima di un ingiusto processo o di una ingiusta indagine ha diritto, oltre che al risarcimento dei danni patrimoniali, al risarcimento dei danni non patrimoniali conseguenti alla lesione dei fondamentali diritti della persona anche diversi -ecco la novità- dal diritto alla libertà personale.

In altri termini, è incostituzionale la legge sulla responsabilità civile dei magistrati che limitava i danni non patrimoniali risarcibili solo alla ipotesi che il cittadino ingiustamente inquisito fosse stato per di più privato della libertà personale. La Corte dice con chiarezza quanto sia ingiustificata questa limitazione. Un cittadino messo alla gogna da una accusa ingiusta, anche se non raggiunto da una misura cautelare, vede egualmente calpestati diritti non meno importanti di quello alla libertà personale, quali quello alla propria dignità, alla propria reputazione personale e professionale, alla propria salute (fisica e mentale). La notizia mi ha colpito ed al tempo stesso incuriosito, per una ragione molto semplice. Per far sì che la Corte Costituzionale si pronunci sulla costituzionalità di una legge, occorre vi sia stato un magistrato che abbia sollevato la questione.

Aggiungo che la legge in discussione è una delle meno applicate e meno digerite dalla magistratura italiana: fu scritta (malissimo, in verità) da Giuliano Vassalli dopo il vergognoso massacro giudiziario di Enzo Tortora ed il conseguente referendum, e poi blandamente rafforzata nel 2015. Quindi ho voluto capire meglio, ed ho appreso che la persona vittima della ingiusta ed infamante inchiesta giudiziaria alle origini della causa di responsabilità civile del magistrato inquirente è …. un magistrato. La vicenda si svolse, manco a dirlo, in Calabria. Protagonista, manco a dirlo, l’allora Pm dott. de Magistris presso la procura di Catanzaro, insieme all’allora Procuratore capo Mariano Lombardi e al Pm Mario Spagnuolo. Alle 5 di mattina (si, accade sempre a quell’ora, soprattutto quando non ce ne è nessun bisogno) dell’11 novembre 2004 costoro mandano la Guardia di Finanza a perquisire l’abitazione del dott. P.A.B., magistrato di origini calabresi in servizio presso la Corte di Cassazione. L’accusa è di concorso esterno in associazione mafiosa, qualunque cosa ciò possa significare. Leggo dalle cronache che il magistrato, non solo perché scioccato, non riuscì nemmeno a comprendere il senso della incolpazione provvisoria confusamente descritta nel decreto di perquisizione e sequestro. Ma anche qui nulla di nuovo, visto che l’estensore era de Magistris, aduso a formulare ipotesi delittuose che forse lui stesso faticava a comprendere.

Dopo il tremendo colpo, più nulla, non una convocazione per essere interrogato, nulla di nulla. Anche qui, vi prego di credermi, siamo nell’ambito dei più diffusi costumi giudiziari di questo Paese, e di alcune sue Procure in particolare. Quando finalmente, dopo due anni, la sua posizione viene stralciata e trasmessa al Giudice competente (chiaro? Erano anche territorialmente incompetenti; ma anche questo, è un film visto e stravisto mille volte), cioè la Procura di Roma, che legge le fumisterie incomprensibili della imputazione provvisoria e richiede subito, ottenendola, l’archiviazione. Il dott. P.A.B. cita in giudizio lo Stato per la sua responsabilità sussidiaria ed il Tribunale di Salerno liquida i danni patrimoniali, ma non quelli morali perché il dott. P.A.B. non era stato arrestato. Questi si ribella, ed infine la terza sezione civile della cassazione manda alla Corte Costituzionale, ed ora la vittima di quella ingiustizia avrà diritto anche al risarcimento dei danni non patrimoniali. Ne siamo tutti lietissimi, ed è un buon passo avanti di civiltà. Tuttavia avverto nitidamente che ciascuno di voi, letta questa storia, si stia chiedendo: ma se la vittima non fosse stato un magistrato, sarebbe andata nello stesso modo? Ecco, chissà come mai, me lo stavo chiedendo anche io.

Gian Domenico Caiazza Presidente Unione Camere Penali Italiane

Csm, per le toghe quella disciplinare è una giustizia “domestica”. Lo studio degli avvocati Radi e Giglio sulle decisioni di Palazzo dei Marescialli. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 7 settembre 2022.

«L’intera responsabilità disciplinare è dominata da una logica profondamente sbagliata: quella che operi esclusivamente all’interno del circuito giudiziario e sia del tutto indifferente agli effetti che le condotte dei magistrati producono su chi attende giustizia, quale che sia il suo ruolo».

A dirlo sono gli avvocati Vincenzo Giglio e Riccardo Radi che sul loro blog “Terzultima fermata” hanno pubblicato questa settimana una interessante raccolta di sentenze di assoluzione della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, tutte con motivazioni a dir poco sorprendenti.

«Nella selezione del campione delle decisioni – proseguono i due avvocati – ci siamo fatti guidare da alcuni criteri: abbiamo preso in considerazione l’ultimo massimario disponibile, volendo privilegiare la giurisprudenza più recente e abbiamo selezionato quasi solo provvedimenti che riteniamo più distanti dal sentire comune o dal ciò che normalmente accade in altri ambiti giudiziari e disciplinari».

La casistica prodotta, come detto, è quanto mai variegata. In questa sede vale la pena soffermarsi solo sulle assoluzioni che hanno riguardato magistrati che, per un motivo o per l’altro, si erano “dimenticati” di liberare le persone che si trovavano in quel momento sottoposte allo loro custodia. Una azione quanto mai fastidiosa, essendo la libertà personale uno dei maggiormente tutelati dalla Costituzione.

La giustificazione usata dalla Sezione disciplinare del Csm per assolvere il magistrato “sbadato” è quasi sempre la ‘ scarsa rilevanza del fatto”. Ma andiamo con ordine. Il primo caso preso in esame è quello di un pm presso il Tribunale dei Minori «che ha omesso di richiedere la cessazione della misura della permanenza in casa». Per il Csm, tale «condotta non ha determinato alcun discredito per l’ordine giudiziario essendo emersa solo in sede di ispezione ministeriale, non è stata presentata istanza di riparazione per ingiusta detenzione, il fatto non ha avuto eco o risonanza mediatica e non vi è stato alcun pregiudizio per il minore per il quale la prosecuzione si è, invece, rivelata vantaggiosa».

Il secondo, invece, riguarda un giudice del dibattimento «che dispone la scarcerazione dell’imputato oltre il termine di durata massima custodiale». Sempre per il Csm, si è trattato di un «unico episodio nella carriera del magistrato» ed è «mancata ( la) compromissione dell’immagine del magistrato, essendo stato accertato il ritardo solo in sede di ispezione ministeriale». L’ultimo caso, infine, riguarda un gip che non ha rispettato i termini di durata massima della custodia. Anche in questo «l’accertamento dell’illecito è avvenuto dopo oltre tre anni a seguito di ispezione ministeriale e, quindi, la condotta non ha creato alcun discredito per l’ordine giudiziario».

Leggendo con attenzione le motivazioni di assoluzione, i due avvocati provano a ripercorrere quale possa essere stato il criterio argomentativo. «Nel caso del minore sottoposto alla misura della permanenza in casa, quello che conta è che il fatto era emerso solo dopo un’ispezione, che non è stata presentata alcuna istanza di riparazione per ingiusta detenzione, che è mancata l’eco mediatica e che infine la prosecuzione della misura è stata addirittura vantaggiosa per il minore. Se un giudice dibattimentale o un gip dimenticano in carcere un imputato – puntualizzano Giglio e Radi – quello che conta è che si è saputo della dimenticanza solo a distanza di anni dal fatto e di conseguenza non ne ha sofferto la credibilità dell’ordine giudiziario» .

Queste sentenze di assoluzione, soprattutto dopo il Palamaragate, non possono comunque non indurre ad una riflessione. «Si dice spesso – aggiungono i due avvocati – che la valutazione della condotta del magistrato incolpato deve essere fatta ex post e non capiamo perché non debba essere ex ante. Forse perché la valutazione ex post consente di ampliare il novero delle possibili giustificazioni». Ma non solo: «Si parla spesso di assenza di danni, di eco mediatica, di discredito. Non capiamo come sia stata verificata questa assenza. Tanto per capirci, qualcuno ha chiesto alle persone che hanno aspettato per anni un provvedimento che non arrivava mai se l’attesa sia stata dannosa per i loro interessi oppure no?». Ed infine: «Si accenna spesso all’emersione tardiva delle condotte incolpate e la si usa come causa di giustificazione. A noi pare un’aberrazione concettuale e non aggiungiamo nient’altro».

In altre parole, concludono Giglio e Radi, «dire che è irrilevante che una persona rimanga illegittimamente in carcere significa che non si vuole considerare gli effetti che ciò comporta». Una giustizia disciplinare, non a caso “domestica”, contraddistinta poi da numeri impietosi. Su oltre duemila segnalazioni di media, la percentuale di casi che finisce davanti alla Sezione disciplinare del Csm è pari ad appena il 5 percento. Prendendo come rifermento l’anno 2020, la sezione disciplinare ha concluso 114 giudizi: le condanne sono state 25, mentre tutti gli altri esiti sono stati di assoluzione, non doversi procedere, non luogo a procedere.

La musica disturba il sonno di due magistrati: arriva la mega multa. Altro che giustizia lumaca, il tribunale interviene in tempi record nella battaglia legale tra le tue toghe e lo stabilimento balneare. Giuseppe Bonaccorsi su Il Dubbio il 7 settembre 2022.

E’ battaglia a suon di decibel sotto il “mongibello” Etna. Non accenna a diminuire il livello dello scontro giudiziario tra una coppia di magistrati catanesi e una imprenditrice ravennate che all’inizio della stagione balneare ha rilevato la gestione del “Faro di Capomulini”, uno tra gli stabilimenti più suggestivi e in voga della riviera acese. Oggetto del contendere la musica dal vivo e il rumore che, secondo i due coniugi magistrati, ostacola la serenità estiva di chi si trova a convivere accanto a un locale.

I legali della signora Caterina Mendolia Pirandello (con origini dall’Agrigentino) hanno depositato in cancelleria altri documenti relativi al procedimento che ha già avuto tre udienze in poco più di un mese e attenderanno il nuovo e ultimo provvedimento che sarà disposto dal Tribunale, si pensa entro la fine di settembre vista la sorprendente velocità che ha avuto l’intero procedimento. Al momento i legali della signora non intendono parlare, ma a parlare sono soprattutto i fatti di una storia che ha valicato i confini cittadini e regionali soprattutto per la velocità con cui sono stati adottati i provvedimenti in un sistema giudiziario che si è sempre distinto per la sua lentezza pachidermica.

Tutto ha inizio quando il 2 agosto l’imprenditrice Caterina Pirandello divulga sui social un lungo post in cui denuncia che il 6 luglio scorso, durante la preparazione di un evento con musica in filodiffusione «una persona importante che abita al confine con la mia struttura, un magistrato – racconta – viene qui in modo aggressivo e mi urla che il giorno dopo mi avrebbe fatto chiudere se non abbassavo la musica…». L’imprenditrice racconta di aver risposto all’alto giudice che stava lavorando «ma il magistrato – continua – mi risponde che è qui per leggere il suo libro non per ascoltare la mia musica». «E mi fa avere – continua la titolare – un provvedimento del 2015 in cui è scritto che non posso fare eventi musicali e non posso fare musica superiore ai 3 decibel di notte e i 5 di giorno, – (Il rumore della ventola di un computer, commenta) – . Nel provvedimento c’è scritto inoltre che ogni volta che la società avesse fatto musica deve versare 5mila euro di sanzione». Da quel momento è cominciata una battaglia legale che non si è ancora conclusa.

Il 20 luglio, 14 giorni esatti dall’accesso del magistrato al “Faro”, con una singolare efficienza della macchina giudiziaria, l’imprenditrice ravennate viene convocata in Tribunale dove qualche giorno dopo viene fissata una cauzione di 50mila euro con l’obbligo per la titolare, se volesse fare musica, di provvedere a installare un sistema fonoassorbente di bambù dal fusto di 10 cm e alto tre metri, da issare a barriera con il confine della casa del magistrato. Inoltre vengono confermati i 5mila euro di sanzione qualora si dovesse fare della musica oltre i decibel fissati. Il provvedimento viene disposto da alcuni giudici della stessa sezione del presidente che ha avviato l’azione legale nei confronti dello stabilimento. Passa soltanto qualche settimana e nella nuova udienza d’appello richiesta dalla signora Pirandello, stavolta la sezione feriale del Tribunale riduce la cauzione da 50mila a 10mila euro ed elimina la sanzione di 5mila euro al giorno se si dovesse fare ugualmente della musica, ma al contempo conferma i dettati previsti nel precedente provvedimento.

Nel frattempo la stagione procede e cominciano a saltare le serate perché la titolare non ha fondi necessari per il risarcimento: 9 impiegati stagionali vengono licenziati, ma la Pirandello, forte del suo illustre cognome e anche della solidarietà di moltissimi professionisti, persone comuni e artisti, decide di procedere nella sua battaglia legale che adesso dovrebbe concludersi da qui a breve. Ma a stagione turistica ormai conclusa. Nel frattempo i riflettori mediatici hanno acceso un altro “faro”. La capitaneria di Porto si è accorta che nel complesso di abitazioni limitrofe allo stabilimento il Faro, dove abitano anche i due magistrati, l’accesso al mare non ha alcuna autorizzazione di legge e procede a sequestrare la passerella. La battaglia di decibel in cui è incappata l’imprenditrice è soltanto una delle tante che percorrono la penisola in lungo e in largo nelle calde serate estive. A Lipari, capitale delle isole Eolie, ad inizio luglio, il neo sindaco Riccardo Gullo ha emesso una ordinanza che a tutela della quiete degli abitanti del centro storico vieta ai locali di organizzare spettacoli con musica dal vivo al di sopra di un tot di decibel e bandisce categoricamente l’utilizzo di strumenti a percussione, di fatto scartando a priori tutti i musicisti a percussione dalle isole e sancendo un obolo da 100 euro per ogni titolare di locale che volesse ugualmente organizzare una serata musicale. Il sindaco, però, tiene fuori dal provvedimento gli spettacoli organizzati dall’amministrazione. Quelli possono organizzarsi con qualsiasi tipologia di strumenti. Insomma due pesi e due misure…

Giustizia, "poverino, era sconvolto". E il pm sfanga la punizione. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 04 settembre 2022

Su internet non ne trovi traccia, perché sul sito del Csm è confinato in un documento Pdf. La sentenza comunque non te la danno, perché è pubblica, sì, ma hanno detto di richiamare tra una settimana. Il nome del magistrato tanto non puoi scriverlo, perché gli articoli 137 e 52 del Codice sulla privacy obbligano a «omettere i dati identificativi personali», e in pratica, cioè, i giornalisti possono nominare un magistrato solo se lui lo concede, o se ciò che lo riguarda è al centro della cronaca. Non abbiamo ancora dato la notizia, ma già basterebbe per capire come i magistrati tutelino se stessi in modi che nulla spartiscono con l'indipendenza della categoria.

IN GIURIDICHESE Per fortuna l'onorevole Enrico Costa (Azione) è un ficcanaso che ha scovato l'ennesima sentenza della collezione, la 154 del 2001 istruita l'anno precedente. Dice, in pratica: un magistrato indagato può andare in cancelleria, può farsi dare gli atti che lo riguardano - e magari fotocopiarli, senza dirlo, o passarli alla stampa - e poi restituirli con tutta calma: non c'è nulla di illecito. L'abbiamo scritto in linguaggio che auspichiamo comprensibile, ecco poi il testuale in giuridichese: «Non integra l'illecito disciplinare nell'esercizio delle funzioni della grave scorrettezza nei confronti dei colleghi il comportamento del Sostituto procuratore che acquisisce copia degli atti di un procedimento che lo riguarda avvalendosi delle relazioni di ufficio con il personale di cancelleria laddove tale condotta sia stata posta in essere in uno stato di evidente turbamento che ha portato a una scarsa ponderazione dell'agire a cui, però, è seguita la restituzione delle carte, circostanza che escludono la sussistenza del requisito della gravità della condotta». Il decisore è il vicepresidente del Csm David Ermini, che al pari dell'estensore David Ermini di Magistratura democratica non si offenderà se abbiamo aggiunto due virgole e una vocale mancante: l'hanno pure scritta male. L'importante è che si capisca il cuore del problema, che «l'evidente turbamento» che giustifica la clamorosa violazione. Scusi, lei ha per caso violato il segreto d'indagine, compromettendola? «Sì, ma ero turbato». Sinonimi dalla Treccani: ero agitato, ansioso, costernato, inquieto, perturbato, sgomento, smarrito. Dopodiché sorge il momento della celebre comparazione con il cittadino comune, nel caso un indagato, per esempio un presunto rapinatore, molestatore, usuraio; immaginare, cioè, che si presenti in cancelleria e dica: buongiorno, mi hanno detto che c'è un'indagine su di me, vorrei gli atti del fascicolo che poi domani ve li riporto. Ma certo. Serve un sacchetto?

Ma non c'è solo questa, di sentenza. Anche da queste parti vantiamo una discreta collezione, iniziata col decreto legislativo 109 del 2006 che all'articolo 1 («Doveri del magistrato») spiegava che i togati dovevano essere e mostrarsi «imparziali, corretti, diligenti, laboriosi, riservati, equilibrati e rispettosi della dignità della persona». Hanno la Treccani anche loro. Dopodiché c'è la sentenza 125 del 2019, per esempio, che dice la stessa cosa di quella sopra, ma qui non si parla di turbamento, si giustifica se l'indagine riguarda la moglie del magistrato: « Non integra l'illecito disciplinare... la condotta del giudice che richiede al titolare delle indagini notizie in merito a un procedimento penale nel quale risulta coinvolta sua moglie». E in caso convivenza? O separazione? Segue rapidissima carrellata con solamente numero e anno della sentenza non-disciplinare del Csm. Un magistrato (n.10/2019) può minacciare indagato e avvocato dicendogli che non hanno speranze, genere "lei deve abbandonare... io sono e sarò la sua bestia nera... è inutile che fosse pronunciata ordinanza di non luogo a procedere nei confronti del giudice civile che abbia, con fare scherzoso ed in guisa di semplice battuta estemporanea, tentato di stemperare il clima dell'udienza, tenuto conto dei rapporti critici tra le parti». Un magistrato (n. 87/2019) può guidare ubriaco ed essere condannato senza che questo ne comprometta il prestigio: «Non integra l'illecito disciplinare... la condotta del giudice che sia stato condannato per guida in stato di ebbrezza laddove le circostanze del caso concreto inducano a ritenere che il fatto sia di scarsa lesività e che non vi sia stata in concreto alcuna compromissione dell'immagine». Un magistrato (n. 88/2019) può chiedere di mandarti a processo sulla base di un reato che non esiste: «Non integra l'illecito disciplinare il sostituto procuratore che... abbia incluso imputazioni riferite a una fattispecie non ancora entrata in vigore al momento della commissione del fatto laddove, valutata la complessità dell'atto redatto, si possa riconoscere il carattere della mera disattenzione e, dunque, l'assenza della gravità».

INCONDANNABILI Un magistrato (n. 42/2019) può lasciarti in carcere perché semplicemente non va a depositare l'ordinanza di scarcerazione che ti riguarda, non ci va e basta, e con la stessa dinamica può far scarcerare gente che in galera doveva restarci, e questo perché è stanco e ha problemi a casa: «Non integra l'illecito... il giudice che abbia ritardato il deposito della motivazione dell'ordinanza che aveva rigettato l'istanza di riesame... che interveniva con un ritardo di sei giorni, allorquando sia risultata la sussistenza di impedimenti gravissimi che abbiano precluso al magistrato di assolvere il dovere di garantire il diritto costituzionale alla libertà personale, quali una grave debilitazione fisica del magistrato e una situazione familiare critica, fonte di preoccupazione e di impegno per l'interessato». Non integra, in definitiva, la seguente domanda: che cosa deve fare un magistrato per essere condannato in sede disciplinare dal Csm, quando - ricordiamo - la condanna massima, in crescendo di gravità, resta soltanto: ammonimento, censura, perdita di anzianità, impedimento temporaneo di esercitare incarichi direttivi, sospensione temporanea dalle funzioni, rimozione dall'incarico e trasferimento. Che cosa deve fare. 

Matera, presidente del Tribunale nel mirino del Csm. Catalani rischia il trasferimento per incompatibilità per i rapporti con l’ex assessore regionale Castelgrande. LEO AMATO su Il Quotidiano del Sud il 22 ottobre 2022. 

Il presidente del tribunale di Matera, Gaetano Catalani, rischia il trasferimento da parte del Csm per incompatibilità ambientale

Rischia il trasferimento d’ufficio il presidente facente funzioni del Tribunale di Matera, Gaetano Catalani. A causa di una serie di circostanze emerse dalle indagini a carico dell’amico ex assessore regionale alle infrastrutture, Carmine Castelgrande (Pd), che avvolgono di un’ombra di sospetto la gestione del processo sui concorsi truccati nella sanità. E in particolare delle accuse a carico di un sodale di Castelgrande come l’ex governatore Marcello Pittella, assolto a dicembre dell’anno scorso dal collegio presieduto dallo stesso Catalani.

Mercoledì prossimo, infatti, sarà al vaglio del plenum del Consiglio superiore della magistratura una proposta di trasferimento ad altra sede del giudice materano. Proposta già approvata il mese scorso dalla I commissione, competente per i casi di incompatibilità ambientale delle toghe. Col voto favorevole dei consiglieri Elisabetta Chinaglia (togato della corrente di sinistra di Area), Nino Di Matteo (togato indipendente) e Alberto Maria Benedetti (laico del Movimento 5 stelle), l’astensione di Carmelo Celentano (togato di Unicost), e il voto contrario de Paola Maria Braggion (togata di Magistratura indipendente).

L’APERTURA DELLA PRATICA DEL CSM A CARICO DEL PRESIDENTE DEL TRIBUNALE DI MATERA

L’apertura della pratica per incompatibilità ambientale risale agli inizi di giugno, quando la procura di Catanzaro, competente per le indagini sui magistrati del distretto giudiziario lucano, ha informato l’organo di autogoverno delle toghe, per le sue autonome valutazioni di carattere disciplinare e quant’altro, dell’esistenza di un fascicolo a carico di Catalani per corruzione in atti giudiziari e peculato. Giusto tre giorni prima che il gip del tribunale calabrese decidesse di archiviare la prima ipotesi, «non essendo stati acquisiti elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio», e la seconda perché il fatto contestato, sebbene accertato, non costituirebbe reato.

Il grosso del fascicolo era costituito da intercettazioni trasmesse dalla procura di Potenza, che tra il 2018 e il 2019 aveva preso di mira un presunto giro di tangenti tra l’ex genio civile di Melfi e il Comune di Venosa.

È proprio indagando sull’amministrazione dell’epoca della città di Orazio, quindi, che sarebbe finito sotto la lente degli investigatori l’attivismo dell’ex sindaco ed ex assessore regionale dell’allora giunta Pittella, Castelgrande.

«Nel corso delle indagini – si legge nella bozza di delibera trasmessa al plenum del Csm per l’approvazione finale – venivano intercettate diverse conversazioni che riguardavano dialoghi tra Miranda Catelgrande Carmine ed il dottor Gaetano Catalani, magistrato in servizio alla sezione penale del Tribunale di Matera, sicché l’autorità giudiziaria di Potenza trasmetteva gli atti (…) alla competente Procura di Catanzaro, che a sua volta procedeva ad iscrizione del procedimento e ad ulteriori indagini tecniche».

LE TELEFONATE DEL PRESIDENTE DEL TRIBUNALE DI MATERA INTERCETTATE

Tra il 2020 e il 2021, quindi, gli investigatori di Catanzaro avrebbero ascoltato una a una le telefonate di Catalani, registrando «l’interessamento» di Castelgrande per il processo più importante gestito dall’amico giudice. Processo che vedeva come imputato illustre proprio il suo ex governatore.

A farsi largo tra gli inquirenti, pertanto, è stato il sospetto di «un illecito scambio di reciproche utilità» tra il giudice e l’ex assessore, «il quale – si legge ancora nella bozza di delibera -si sarebbe prestato ad aiutare, in alcune pratiche amministrative, il dottor Catalani, al fine di ottenere che il medesimo si orientasse favorevolmente nel processo a carico di Pittella, dal quale, a sua volta, Miranda voleva ottenere, come contropartita di tale interessamento, l’appoggio politico per la sua ri-candidatura al Consiglio regionale della Basilicata».

Dunque sollecitazioni per un’assoluzione dell’ex governatore, ma non solo. Perché da alcune intercettazioni sarebbero emersi anche l’interesse di Pittella e Castelgrande, e i solleciti di quest’ultimo su Catalani, per la tempestività dell’assoluzione in questione. In modo da permettere la candidatura di Pittella alle elezioni politiche, previste per il 2023, «così da essere aiutato nella successiva campagna elettorale per la Regione», prevista per il 2024.

L’ARCHIVIAZIONE

La delibera trasmessa dalla I commissione al plenum del Csm prosegue spiegando che «la tesi accusatoria relativa all’ipotesi di corruzione non trovava, però, conferma nel materiale probatorio acquisito».

«Come emerge dalla richiesta di archiviazione, accolta dal gip – si legge ancora -, dal materiale intercettivo e dalle indagini “non emerge(ndo) l’esistenza di un accordo corruttivo tra gli indagati finalizzato all’esito favorevole del giudizio a carico del Pittella”; in particolare, “le indagini svolte hanno acclarato l’esistenza di un pregresso e solido rapporto amicale tra il dottor Catalani e Miranda Castelgrande. Ed è in questa ottica che sembrerebbero inquadrarsi – da un lato – la consulenza legale fornita dal CatalanI in merito alle vicende giudiziarie del Miranda Castelgrande su Potenza (certamente censurabile sotto il profilo deontologico) e – dall’altro – l’interessamento di quest’ultimo per le vicende riguardanti il Catalani, escludendo che possano, invece, inserirsi nell’ottica di un illecito scambio di utilità, ovvero di un accordo corruttivo complesso come quello ipotizzato”».

Al netto dei profili penali della vicenda, insomma, all’organo di autogoverno delle toghe sono rimasti da valutare in maniera del autonoma una seri di fatti. Come la consulenza legale fornita da Catalani a Castelgrande rispetto alla richiesta di arresto formulata nei suoi confronti dai pm di Potenza, e reiterata dopo un’iniziale rigetto del gip titolare del fascicolo sul Comune di Venosa. O la sua presunta intercessione su un noto penalista materano, Nicola Buccico, perché convincesse un «avvocato di indiscussa fama professionale» come Franco Coppi, ad assumere la difesa di Castelgrande, in Cassazione, contro quella richiesta di arresti pendente nei suoi confronti.

«Inoltre, ed in parte nello stesso contesto temporale – prosegue il testo al vaglio del plenum -, emergevano un serie di richieste di aiuto da parte del Catalani nei confronti del Miranda Castelgrande, al fine di risolvere alcune questioni di carattere amministrativo relative a propri famigliari».

E giù un elenco con una pratica riferita ad alcuni terreni agricoli, per cui Castelgrande avrebbe organizzato un incontro con un funzionario del Comune di Genzano; un’altra pratica per la rateizzazione dell’imposta comunale sugli immobili del cognato, sempre a Genzano; e poi la «richiesta di Catalani, del luglio 2020, circa la possibilità di avere un contatto con il funzionario competente con cui interloquire in merito alla realizzazione di un parco fotovoltaico nell’interesse di un terzo soggetto, richiesta che anch’essa trovava Miranda condiscendente e pronto, anche, a “fare una telefonata”».

SANITOPOLI

Il Csm ha riscontrato anche le conversazioni «dalle quali si evinceva che effettivamente Miranda si interessava presso il magistrato circa l’andamento del processo Sanitopoli a carico di Pittella, pendente avanti il collegio presieduto da Catalani, ricevendo anche alcune brevi informazioni, peraltro esclusivamente riferite alle difficoltà di celebrazione connesse alla pandemia e mai al merito del processo».

«Emerge che, contemporaneamente – prosegue la delibera -, lo stesso Miranda era in contatto e frequentazione con Pittella, con il quale si incontrava e con il quale discuteva anche circa le loro rispettive opportunità di elezione nell’ambito regionale e nazionale».

Significative, in questo senso, sarebbero alcune intercettazioni da cui è emerso che in almeno un paio di occasioni Castelgrande sarebbe andato a trovare Catalani a Spinazzola, dove risiede, poche ore dopo le udienze del processo sui concorsi truccati nella sanità lucana, raccogliendo, con discrezione, le sue impressioni.

«Ha detto: purtroppo, ha detto, il tempo ci vuole! Il cazzo del covid mo doveva capitare!» Questo il resoconto che l’ex assessore regionale avrebbe fatto alla moglie dopo uno di questi incontri post-udienza. Per poi aggiungere che «più di tanto non gli chiede», e che «me le dice lui le cose». Come pure un «io glielo feci conoscere a Marcello», su cui i componenti del Csm hanno ipotizzato che fosse avvenuta una presentazione tra giudice e imputato al di fuori dell’aula del Tribunale di Matera.

IL VACCINO SALTANDO LA FILA…

Un’ultima vicenda affrontata dai membri della I commissione del Csm, poi, è stata quella ricostruita tramite alcune intercettazioni tra Catalani e il presidente dell’Ordine degli avvocati di Matera, Ferdinando Izzo, che inizialmente era costata un’iscrizione per peculato a carico del giudice.

Ad aprile 2020, infatti, il presidente facente funzioni del Tribunale avrebbe chiesto al legale «se vi fosse la possibilità, pur essendo egli residente in Puglia, di essere sottoposto a vaccinazione contro il covid 19, in occcasione della giornata organizzata dalla Regione Basilicata (cd “open day”) per il giorno successivo, finalizzata alla vaccinazione aperta ai soli cittadini ultrasessantenni residenti in tale regione».

«L’avvocato, ricordando a Catalani di avere sempre “quel contatto” – prosegue la delibera del Csm -, si offriva di fare una telefonata onde accertare la possibilità o meno di sottoporre il dottor Catalani alla vaccinazione; dopo qualche ora lo richiamava e gli confermava la possibilità, estendendola anche alla moglie del dottor Catalani, onde i due si davano appuntamento per la mattina successiva nel garage del Tribunale di Matera, per recarsi insieme alla vaccinazione».

Dall’ascolto delle successive conversazioni, però, sarebbe emerso anche altro. Perché non solo «Catalani e sua moglie avevano effettivamente avuto la possibilità di vaccinarsi il 12 aprile 2021, nonostante non fossero residenti in Basilicata», ma «da una conversazione dello stesso Catalani con la sorella emergeva che lui e la moglie erano stati accompagnati direttamente alla vaccinazione dal direttore generale dell’Asl, saltando la “coda”».

«Non ti dico che macello stava!» Questo il testo della telefonata trascritta. «E quindi siamo andati io e Anna… e quindi lo abbiamo fatto! Lo abbiamo fatto, lui conosceva il direttore generale… e il direttore generale ci ha accompagnati là e abbiamo…»

Stessa circostanza riferita anche in una seconda telefonata dalla moglie del giudice a loro figlia: «Non abbiamo fatto nessuna coda… perché il direttore generale della Asl hai capito? E’ venuto a prenderci… hai capito?… Nessuno la sa questa cosa, evitiamo di dirla in giro perché…»

…GRAZIE ALL’EX DG IMPUTATO, QUINTO

Ed ecco materializzarsi, a questo punto, l’ennesimo colpo di scena. Perché dalle indagini sarebbe emerso che, «nel breve intervallo temporale tra la telefonata di richiesta di Catalani all’avvocato Izzo e la successiva telefonata di Izzo a Catalani, che confermava la possibilità di sottoporre Catalani e la moglie al vaccino, l’avvocato aveva contattato il numero telefonico intestato al dottor Pietro Quinto, già direttore generale dell’Azienda sanitaria di Matera e successivamente direttore dell’unità operativa complessa Attività amministrative distrettuali e direttore Dell’unità operativa complessa Provveditorato-economato della medesima azienda, nonché, al momento del fatto, uno degli imputati nel processo Sanitopoli in corso di celebrazione avanti il dottor Catalani». Un imputato, annota ancora la I commissione, poi «solo parzialmente» condannato.

MA NON È REATO

La delibera dell’organo di autogoverno delle toghe prosegue riportando le ragioni dell’archiviazione chiesta e ottenuta dai pm di Catanzaro per questa ipotesi di peculato a carico di Catalani. Ragioni che evidentemente non sono state ritenute valide dalla procura di Potenza che invece, di recente, ha reiterato la richiesta di rinvio a giudizio del vescovo del capoluogo lucano e altre persone proprio per un vaccino ricevuto anzitempo.

Secondo i magistrati calabresi, infatti, sarebbe stato, sì, «documentato che l’indagato unitamente alla moglie ottenevano la vaccinazione anti Covid 19 in violazione delle disposizioni emanate dalla Regione Basilicata». Tuttavia: «l’utilizzo delle dosi non può considerarsi condotta distrattiva atteso che sebbene utilizzate “irregolarmente”, le stesse non sono state sottratte alla loro funzione e destinazione e a vantaggio di soggetti che comunque ne avrebbero avuto diritto, atteso che la campagna vaccinale ha riguardato tutta la popolazione. Per le stesse ragioni, non può esserci alcun danno di natura patrimoniale».

L’INCOMPATIBILITA’

Nel formulare la sua contestazione in termini di incompatibilità ambientale per il venir meno dell’«immagine di indipendenza ed imparzialità» che dovrebbe avere un magistrato, a seguito dei fatti appena ricostruiti, la I commissione del Csm si è soffermata anche su altro ancora.

Come le telefonate col collega relatore del processo Sanitopoli al quale Catalani avrebbe anticipato «le ragioni che la inducevano a ritenere insussistenti le accuse fatte al Pittella», sulla cui assoluzione resta comunque pendente un appello proposto dalla procura di Matera. O ancora alcuni commenti apparentemente diretti al procuratore capo di Potenza, Francesco Curcio, che verrebbe definito «un folle che intimorisce i giudici» davanti ai quali rappresenta la pubblica accusa.

LA DIFESA

Di fronte alla I commissione Catalani si è difeso denunciando che «i dati e le affermazioni presenti nella comunicazione di apertura della procedura siano via via “gravi falsità”, circostanze “invieritiere o addirittura diffamatorie” o “assolutamente falso”, affermazioni “apodittiche”, tali in sostanza da integrare una “saga delle congetture”».

Il giudice ha aggiunto di conoscere Castelgrande perché sarebbero stati compagni di scuola, e ha liquidato come del tutto legittime le richieste avanzate all’ex assessore.

«Ha osservato – prosegue la bozza di delibera – come fosse, a suo avviso, del tutto normale che egli, stante il rapporto di amicizia, abbia richiesto al Miranda tutte le informazioni sopra indicate, trattandosi di persona che “gravitava sul potentino” mentre Catalani era residente in Puglia, e, comunque, non avendo mai richiesto trattamenti privilegiati o interventi in suo favore (come confermato dagli accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria in relazione alle pratiche sopra indicate)».

Poi ha definito «fisiologico» che l’amico Castelgrande gli chiedesse lumi sulla sua vicenda giudiziaria, e sul processo Sanitopoli «si è riportato a quanto osservato nella richiesta di archiviazione, non avendo mai parlato del merito del processo con il Miranda Castelgrande, avendo solo, al massimo, fornito informazioni sull’andamento del processo, con riferimento alle difficoltà generate dalla pandemia».

«Ha, in particolare, negato – prosegue la delibera riferendo la difesa di Catalani – di aver preso un caffè con il Pittella il giorno dell’udienza, di aver accelerato la trattazione del processo “Sanitopoli”, o di aver in qualche modo condizionato il giudice relatore della sentenza sull’esito della decisione».

Quanto al vaccino, infine, ha «escluso di essere stato mai conoscenza del rapporto esistente tra l’avvocato Izzo e il dottorQuinto, effettivamente imputato nel processo “Sanitopoli”, osservando che egli credeva che l’avvocato Izzo si fosse rivolto alla dottoressa Pulvirenti (Sabrina), ndr), commissario straordinario della Asl (di Matera, ndr)».

«Il dottor Catalani – prosegue ancora la delibera -ha concluso sostenendo che alcun addebito può essergli mosso e che la vera ragione della apertura della presente procedura risiede solo nel pregiudizio sorto in esito al procedimento penale, il quale, invece, ha dimostrato, nonostante la persistente attività captativa, che egli non ha commesso alcun illecito. Ha ribadito di essersi limitato ad aiutare, nei limiti del lecito, un caro amico in difficoltà, non sentendo la necessità di rompere i rapporti solo perché era indagato da una diversa autorità giudiziaria, e che il suo rapporto amicale non ha influenzato in alcun modo le sue decisioni, tra l’altro collegiali».

Ma non è bastato.

NIENTE SCONTI DAL CSM PER IL PRESIDENTE DEL TRIBUNALE DI MATERA

«Le conversazioni tra il dottor Catalani e il Miranda – conclude la I commissione – evidenziano non già degli scambi illeciti di favori (che sono stati esclusi in sede penale e che in questa sede non si ritiene affatto di voler nuovamente ipotizzare), quando, piuttosto, un habitus mentale poco consono a chi amministra funzioni pubbliche, soprattutto in un centro di piccole dimensioni».

La I commissione ha dato atto che «le motivazioni che hanno indotto il dottor Catalani ad esporsi per il Miranda, (…) appaiono legate a un nobile sentimento di amicizia».

Quanto all’ex governatore Pittella, «pur non essendo stata rilevata alcuna anomalia nella gestione del processo» a cui è stato sottoposto, nella bozza di delibera si legge che «dalle conversazioni risulta anche che il Miranda avrebbe presentato il Pittella al dottor Catalani, circostanza non contestata nella memoria depositata dal magistrato, con ciò fugando ogni dubbio sulla consapevolezza da parte del dottor Catalani del tipo di rapporto intercorrente tra l’amico e l’imputato».

Quanto al vaccino saltando la fila invece, sempre secondo la I commissione: «poco rileva se sia stato effettivamente il dottor Quinto ad acconsentire alla vaccinazione di Catalani e consorte o addirittura se sia stato lui o meno ad accompagnarli per saltare la fila. Ciò che rileva è che il dottor Catalani ha espressamente richiesto un favore per sè e per sua moglie, ottenendolo, e non solo lo ha richiesto tramite il presidente del consiglio dell’Ordine degli avvocati, ma lo ha richiesto alla stessa azienda sanitaria nell’ambito della quale erano maturati i fatti oggetto del processo che egli stava celebrando, e la vicenda è stata quanto meno oggetto di conoscenza da parte di uno dei principali imputati del processo».

In conclusione: «emergono circostanze di fatto che inducono a ritenere che si sia creata una situazione di perdita di credibilità e di caduta dell’immagine di indipendenza ed imparzialità del magistrato, percepita all’esterno o comunque percepibile».

Di qui la richiesta di trasferimento su cui l’ultima parola spetterà, mercoledì prossimo, al plenum del Csm.

Tribunale di Potenza, il presidente del Riesame Aldo Gubitosi trasferito per incompatibilità ambientale. Carlo Macrì su Il Corriere della Sera il 29 Luglio 2022.

Al magistrato, spostato d’ufficio dal Csm, contestata l’amicizia con l’ex sindaco di Ruoti, Angelo Salinardi, arrestato lo scorso febbraio. Le intercettazioni e i giudizi sui colleghi.

Bufera giudiziaria sul tribunale di Potenza. Il presidente del Riesame Aldo Gubitosi, è stato trasferito d’ufficio dal Consiglio Superiore della magistratura per «incompatibilità ambientale». Il plenum si è espresso a maggioranza dopo aver esaminato l’istruttoria dei magistrati di Catanzaro che hanno valutato, per competenza territoriale, le accuse mosse al presidente Gubitosi. Alla base del provvedimento del Csm, ci sarebbe l’amicizia con l’ex sindaco di Ruoti, Angelo Salinardi, 73 anni, imprenditore e potentissimo notabile del posto, arrestato lo scorso febbraio e posto ai domiciliari, con l’accusa di corruzione, atti persecutori e calunnia nei confronti dell’ex sindaco del paesino dell’Appennino Lucano, Anna Scalise.

Le intercettazioni telefoniche

Tra il presidente Gubitosi e l’ex primo cittadino di Ruoti, dal 1973 sindaco quasi ininterrottamente, ci sarebbe stata una forte amicizia che i magistrati avrebbero descritto annotando le conversazioni telefoniche captate tra i due. Una in particolare l’intercettazione scrivono i magistrati di Catanzaro, dove i due parlavano di assumere una signora, conoscente di Gubitosi, in un laboratorio di mascherine, di proprietà di Salinard i. Inoltre, «nel colloquio affioravano richiami a vicende interne e private all’ufficio di Potenza dove erano coinvolte altri magistrati». Per cercare di allontanare i sospetti su questa amicizia «ingombrante», il presidente del Riesame, dopo l’arresto di Salinardi e dopo che il Quotidiano del Sud aveva pubblicato stralci della conversione tra lui e l’ex sindaco, il giudice ha depositato in cancelleria la richiesta di astenersi dal giudicare il suo «amico» arrestato. Ma, per tutta risposta, il presidente facente funzioni Rosario Baglioni, ha rigettato la richiesta e così il presidente del Riesame è stato costretto a giudicare Salinardi, respingendo la richiesta di annullare i domiciliari all’ex sindaco.

L’intervento del Csm

La 1° commissione del Csm, per far chiarezza su questi rapporti ha ascoltato i vertici giudiziari potentini del tribunale e della procura. Dalle loro dichiarazioni e in particolare dal presidente della sezione penale Pasquale Materi è venuto fuori una descrizione fatta dal presidente Gubitosi e dall’ex sindaco Salinardi abbastanza «dura» nei confronti della magistratura potentina che i due avevano diviso in due categorie: «i buoni e i cattivi». Tra i «cattivi» c’era per l’appunto Materi e la collega Annagloria Piccinnin i. Quelli in sostanza che avevano combattuto il potere del notabile Salinardi e quelli che lo avevano più volte «salvato» dalle inchieste. L’ex sindaco, forte delle amicizie non solo dentro le stanze del tribunale, ma anche tra i carabinieri (tra le 16 persone raggiunte dal provvedimento restrittivo insieme a lui sono finiti 4 consiglieri comunali, l’addetto stampa della provincia, 4 funzionari pubblici, un sottufficiale dei carabinieri e alcuni imprenditori) ha cercato in tutto i modi di buttare fango addosso alla sindaca Anna Scalise.

Il dossier sulla sindaca

Contro di lei Angelo Salinardi avrebbe provato a riversare maldicenze ripetute che riguardavano anche la sua sfera coniugale. Avrebbe fabbricato un «fascicolo» riempito di elementi fasulli, poi girato ai giornali locali (con la compiacenza dell’addetto all’ufficio stampa della Provincia che, per questi servizi, incassò 33 mila euro). Per costruire quel dossier si rivolsero a un vice brigadiere dell’Arma che fece avviare abusivamente dei controlli presso la banca dati delle forze dell’ordine per verificare la presenza della sindaca e di un assessore in un bed&breakfast. Il motivo: la sindaca dopo la sua elezione voleva fare pulizia delle vecchie logiche e abitudini, cosa che non andava bene all’ex sindaco Salinardi.

«Quella coltre di fumo sul mancato esercizio dell’azione disciplinare». Nuovo Orizzonte Giustizia (associazione di magistrati) su Il Dubbio il 18 luglio 2022. L'associazione "Nuovo Orizzonte Giustizia", nata dopo lo scandalo Palamara, pone alcune questioni che riguardano i procedimenti dei singoli magistrati.

Alcuni mesi fa dei colleghi di una Procura della Repubblica hanno registrato alcune conversazioni intrattenute col loro Procuratore, allo scopo di poter riscontrare – da anelli più deboli della catena giudiziaria – la veridicità di comportamenti ritenuti gravemente scorretti ed offensivi ai loro danni da parte del capo dell’ufficio. Quest’ultimo è stato poi allontanato a seguito dell’applicazione di una misura cautelare disciplinare – richiesta dal Ministro della Giustizia – proprio per i fatti denunciati.

Ebbene, i colleghi di cui sopra sono stati destinatari di un’incolpazione disciplinare per il solo fatto di avere registrato quei colloqui. Altri magistrati hanno posto in essere plurime condotte di varia natura ispirate ad una logica spartitoria di incarichi direttivi e semi-direttivi. Costoro, invece, come recentemente stigmatizzato su diversi organi di stampa, non hanno ricevuto alcuna incolpazione disciplinare.

Non intendiamo dare giudizi sommari sugli uni e sugli altri. Di certo, queste notizie disorientano profondamente tanti magistrati che mai sono stati sfiorati da alcuno scandalo e che auspicano un obiettivo minimo ed irrinunciabile: la prevedibilità delle decisioni degli organi titolari dell’azione disciplinare. Le eventuali responsabilità si accerteranno nei processi. Purché gli stessi vengano celebrati. O che, comunque, siano resi noti – dato il delicatissimo momento storico in cui versa la magistratura – i motivi per i quali si è ritenuto di non celebrarli.

E’ evidente che non contestiamo il potere del procuratore generale presso la Corte di cassazione di c.d. auto-cestinazione in quanto tale, ma la coltre di fumo innalzata dalla non ostensione degli atti, che non consente di comprendere le motivazioni sottese al mancato esercizio dell’azione disciplinare in casi che appaiono dall’esterno particolarmente eclatanti, alimentando dubbi sulla effettiva imparzialità dei titolari dell’azione disciplinare.

Dubbi che, al contrario, vanno dissipati nell’interesse dell’intera magistratura. L’eventuale esistenza di ostacoli normativi all’ostensione dei provvedimenti di auto-archiviazione relativi alle vicende emerse dalle chat di Palamara non può essere un alibi per eludere l’adempimento di un obbligo di trasparenza nei confronti di tutti i magistrati italiani.

D’altra parte, fu questa logica che ispirò la conferenza stampa del 25 giugno 2020 della Procura Generale della Cassazione, in cui vennero resero noti i criteri di valutazione in sede disciplinare di quelle chat. Ed è pertanto su questa strada che chiediamo si faccia chiarezza. Immediatamente.

Rendendo note le scelte effettuate, nelle forme che si riterranno opportune, per consentire a tutti i magistrati, nonché ai cittadini – in nome dei quali è amministrata la giustizia – di valutarne la coerenza ed allontanare lo spettro di una magistratura autoreferenziale e refrattaria ad un autentico rinnovamento. 

Disciplinari segreti, la denuncia di un legale: «Toghe intoccabili». Secondo Palazzo Spada «non è straordinaria la presenza di un giudice estraneo in camera di consiglio». Simona Musco su Il Dubbio il 13 luglio 2022.

«Questa decisione ribadisce l’assoluta intoccabilità della magistratura, unica categoria nel nostro Paese della quale è impossibile esser messi a conoscenza degli sviluppi e degli atti disciplinari anche per chi ha denunciato l’illecito e, quindi, ha interesse ad apprendere il loro contenuto per esercitare soprattutto il proprio diritto alla difesa». A dirlo è l’avvocato Giancarlo Murolo, del foro di Reggio Calabria, alle prese con la decisione della procura generale della Cassazione – confermata dal Tar del Lazio e dal Consiglio di Stato – di non rendere noto l’esito di un procedimento disciplinare a carico di quattro magistrati reggini per ragioni di riservatezza. Una decisione importantissima, per il legale, dal momento che la stessa avrebbe potuto essere utile a stabilire la nullità della sentenza di condanna in appello a carico di un suo assistito, Rocco Ripepi, coinvolto nell’operazione antimafia “Gambling. La vicenda risale al 2019, quando Ripepi, in attesa della decisione della Corte d’Appello di Reggio Calabria, vide entrare in camera di consiglio un magistrato estraneo al collegio giudicante, ma anzi impegnato in precedenza come giudice del Riesame nel definire la posizione cautelare di un coimputato. Una “visita” durata circa un’ora e mezza, con la conseguente «violazione della segretezza della camera di consiglio», denunciava Murolo. Nel suo ricorso al Consiglio di Stato, il legale ha citato l’articolo 24, comma 7, della legge 241/1990, «a mente del quale “Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”», ribadendo la necessità di entrare in possesso di tali atti per garantire al suo assistito un giusto processo. Per Palazzo Spada, però, nel caso in questione mancherebbe «tanto la previa dimostrazione della sussistenza di un interesse personale, concreto e attuale in connessione con la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, quanto la relazione di stretta ed esclusiva strumentalità agli interessi individuali dell’istante». Anche perché, affermano i giudici amministrativi, «la circostanza esterna, accidentale e del tutto irrilevante concernente l’asserita permanenza, per un certo tempo, nei locali ove si era già svolta la camera di consiglio» di un altro magistrato non sarebbe da considerare «affatto ingiustificata, straordinaria o singolare (…) trattandosi del Presidente della stessa Sezione penale di cui facevano parte i componenti del collegio giudicante». Inoltre, non sarebbero state portate a sostegno di tale tesi delle prove concrete. «Quale prova si poteva offrire, oltre che dimostrare l’interesse con la produzione documentale del ricorso per Cassazione, la denuncia dell’interessato e le laconiche risposte del Pg presso la Corte di Cassazione, dimostrative della assoluta necessità di sostenere il motivo di ricorso inerente la nullità della sentenza per l’intrusione prolungata in camera di consiglio di un quarto magistrato? – si chiede Murolo – Di certo non si poteva pretendere che si fosse a conoscenza di quanto in tale sede fosse accaduto non essendo il mio assistito ovviamente presente». Per il CdS, Ripepi avrebbe dovuto tutelare i propri diritti mediante azione civile. E secondo la legge 241 del 1990 «un controllo generalizzato dell’azione amministrativa» sarebbe estraneo «alla tutela dell’interesse privato ed individuale che legittima e giustifica l’ostensione documentale». Ma Murolo non ci sta: «Vorrei chiedere al Consiglio di Stato perché insistere sulla tesi della natura giurisdizionale degli atti disciplinari, compreso il provvedimento di archiviazione – conclude -, laddove in altri paesi l’ostensibilità di essi è resa possibile dalla loro cultura democratica: solo in Italia ciò non è possibile, in quanto risulta più importante non delegittimare la funzione giudiziaria, anziché consentire al cittadino di potersi difendere».

Raccomandazioni dei magistrati “sdoganate” in quattro mosse: soluzione condivisa da Csm e Anm. Non solo la scelta di non perseguire chi promuove se stesso o i colleghi ma anche l’imperscutabilità dell’archiviazione: screening di un metodo che fa delle toghe una “eccezione”. Rosario Russo (GIÀ SOSTITUTO PROCURATORE GENERALE CASSAZIONE) su Il Dubbio il 6 luglio 2022.

Caro Giudice Ordinario, ti è stato contestato un sensibile ritardo nel deposito di un provvedimento? Sei nei guai. Ti conviene affidarti a un bravo Difensore, che sappia districarsi nell’aggrovigliata giurisprudenza della Sezione disciplinare del Csm. Ma se non hai scrupoli, infine ti sarà suggerita altra più comoda soluzione ( v. infra). Sei invece coinvolto nelle chat del dott. Palamara, allora autorevole componente del Csm, perché gli hai chiesto ‘ raccomandazioni’ per te o per altri? No problem. Il Sistema ti scagiona in quattro mosse.

1. Dopo avere sequestrato nel 2019 le chat, la Procura competente non vi ha ravvisato alcun reato, neppure quello previsto dagli articoli 110 e 323 c. p., il cui perimetro di azione è stato frattanto “provvidenzialmente” ristretto (con Dl n. 76 del 16 luglio 2020, convertito con legge n. 120 del 2020). La Suprema Corte non concorda sul sostanziale annichilimento introdotto, secondo taluni, dalla riforma (Cass. Pen. sent. n. 442 del 2021, pag. 5.). Peraltro proprio l’art. 10 del codice etico dell’Anm – imperativo anche per i magistrati che non ne facciano parte – prevede espressamente il divieto di raccomandare e di farsi raccomandare. Inoltre proprio il menzionato delitto viene contestato nei procedimenti a carico dei professori universitari, taluni dei quali – in tema di raccomandazioni – non hanno niente da “invidiare” ai numerosi magistrati coinvolti nelle chat. Può non piacere e… non piace, ma dopo tre anni bisogna arrendersi al dato fattuale: i pm considerano reato e perseguono le abusive o spartitorie interferenze fra docenti universitari, non quelle tra magistrati!

2. Tenuto per legge a esperire l’azione disciplinare, il Procuratore generale presso la Suprema Corte (infra Pg) – ricevuto le chat – ha emesso due “editti”. Con il primo ha statuito in linea generale che l’interferenza diretta – quella cioè con cui il magistrato si raccomandava personalmente con il dott. Palamara (c. d. autopromozione) – non è scorretta e quindi comporta l’archiviazione. Con il secondo “editto” egli ha prescritto la segretezza dell’archiviazione, per cui nessuno (neppure il Csm e a fortiori il denunciante e lo stesso magistrato indagato) ha il “diritto” di accedere alle archiviazioni.

Per conseguenza nessuno ha il diritto di sapere se anche le eteroraccomandazioni – cioè quelle triangolari (il giudice X raccomanda a Palamara il giudice Y per la nomina ad un importante Ufficio) – siano state oggetto di esplicita archiviazione. Buio pesto. Il Consiglio di Stato, dopo avere sostenuto nel 2020 la natura amministrativa dell’archiviazione, ha con nonchalance decretato nel 2021 il suo carattere giurisdizionale, affermando che è disciplinata dal codice di rito penale. Ma allora per ovvia conseguenza – il Pg è tenuto ad applicare l’art. 116 c. p. p. Norma che tutto fa tranne che impedire a priori la conoscenza dell’archiviazione, perché anzi – per rendere verificabile l’obbligatorietà dell’azione – ha anticipata nel procedimento penale l’attuazione del principio di trasparenza, poi introdotto anche nel settore amministrativo. Fatto si è che migliaia di archiviazioni predisciplinari emesse dal Pg silentemente sfuggono ogni anno a qualunque “controllo”, giacché quello (comunque improprio) del ministro della Giustizia (l’unico espressamente previsto) non è obbligatorio (art. 107, 2° Cost.). Il Pg resta così l’esoterico dominus non solo dell’archiviazione, ma anche della sanzione disciplinare, giacché l’apposita Sezione del Csm non può agire d’ufficio.

3. La Procura di Perugia ha trasmesso per competenza le chat anche al Consiglio superiore della magistratura. Il suo Comitato di Presidenza (composto dal Vicepresidente nonché dal Pg e dal Primo presidente della Suprema Corte) si è attivato, assegnando l’esame delle chat alla valutazione della Prima commissione, competente sui procedimenti amministrativi per incompatibilità oggettiva (ambientale o funzionale), cioè incolpevole. È di tutta evidenza un «binario morto», giacché niente è più intenzionale di una (auto o etero) raccomandazione. In concreto la Prima commissione si limita a chiedere ai dirigenti degli Uffici interessati se la raccomandazione del magistrato indagato – che frattanto è stata divulgata su tanti giornali e su libri di grande successo, creando grave sconcerto – abbia creato strepito o “turbamenti”! “Ovviamente” gli stupefatti magistrati interpellati rispondono negativamente, dicendo – per esempio – che le chat «non hanno suscitato alcun commento presso la sua sezione» o addirittura ‘ sentenziando’ che «non vi è nessuna incompatibilità, né ambientale né funzionale» (così si legge nella delibera attinente alla dott. ssa D. Ferranti).

Quindi la Commissione propone l’archiviazione, che viene normalmente condivisa dal Plenum. D’altronde, mentre nessuno ha interesse ad impugnare l’archiviazione, al Csm non può sfuggire che qualunque trasferimento coattivo non resisterebbe davanti al giudice amministrativo, fondato essendo su atti decisamente intenzionali, quali sono (per definizione) le raccomandazioni. Si ha notizia che – almeno in due casi ( procedimenti nei confronti del dott. Forciniti e della dott. ssa Canepa) – alcuni benemeriti consiglieri del Csm hanno pubblicamente lamentato che il Pg avrebbe dovuto promuovere l’azione disciplinare. Ne ha data pubblica conferma un consigliere non togato, l’avvocato Stefano Cavanna (Il Foglio, 1° luglio 2022).

4. Infine, caro Giudice ordinario, non temere neppure gli strali dell’Anm, se tu ne faccia parte. Intanto essa ti concede – in frontale contrasto con il proprio statuto l’opportunità di dimetterti per evitare la sanzione exit strategy di cui non si avvalse il dott. Palamara), come ha fatto la dott. sa Donatella Ferranti (consigliere della Suprema Corte). Ma anche se pensi di non potere ‘ reggere’ al distacco dall’associazione, qualunque sia la decisione dei Probiviri o del C. d. c., non temere alcunché. In disparte il caso personale di Palamara, l’Anm ti protegge, rendendo nei secoli dei secoli segreta, anche nei confronti degli associati, tanto l’archiviazione quanto l’eventuale e (probabilmente) più sporadica sanzione! A questo punto – infatti – è probabile che anche i Probiviri attendano l’immancabile archiviazione del Pg e del Csm per disporre anche l’inazione endoassociativa.

Dunque, in quattro mosse, nell’ombra del segreto e con una serie di concatenate archiviazioni, il Sistema ha, in fatto e in diritto, riabilitato la “raccomandazione” all’interno dell’ordinamento giuridico, per cui qualunque magistrato ordinario potrà impunemente avvalersene, anche colui cui siano contestati ritardi nel deposito di provvedimenti. Pochi rammentano che tuttavia, a seguito dello scandalo delle «Toghe sporche», il Capo dello Stato non ha proceduto allo scioglimento del Csm soltanto per rendere più sollecita, a tutti i livelli, la legittima reazione alle scandalose chat del dott. Palamara e dei suoi numerosi correi. Resta smarrito l’Utente Finale della Giustizia, in nome del quale i giudici decidono: aveva letto che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art. 104 Cost.) e che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge» (art. 101 Cost.)! Qualcuno potrà salvare la Magistratura, la Democrazia e la Repubblica da così “raffinatissima” perversione istituzionale? Certamente sì: il buon Dio, il più Alto Magistrato, Presidente del Csm per volontà dei lungimiranti Costituenti, e la libera Stampa. «Per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte» (Khalil Gibran), anche quella… della Magistratura.

Il Csm salva la toga rossa finita nelle chat di Palamara. Lodovica Bulian il 26 Giugno 2022 su Il Giornale.

"Graziata" la Canepa, che raccomandava i colleghi amici. Ma il plenum si è spaccato: 11 sì, 7 no e 4 astenuti.

Finisce con un'altra archiviazione l'ennesimo procedimento aperto dal Csm sulle chat di Luca Palamara. Il plenum ha deciso con 11 voti a favore, 7 contrari e 4 astenuti, di non trasferire per incompatibilità ambientale Anna Canepa, sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia, perché i messaggi scambiati con l'ex consigliere sono stati sì «inopportuni», come ammesso dalla stessa Prima commissione, ma non avrebbero compromesso lo svolgimento delle funzioni e l'immagine di imparzialità della toga. E così, dopo il caso di Donatella Ferranti, ex parlamentare del Pd e oggi magistrato alla Corte di Cassazione, «graziata» dal trasferimento d'ufficio dopo i messaggi inviati a Palamara, anche Canepa, già segretaria di Magistratura democratica, resta al suo posto.

Dalle chat intercorse tra 2017 e il 2019, cioè sia quando Palamara era consigliere del Csm, sia dopo, quando evidentemente si riteneva avesse ancora un'influenza sul consiglio, emergerebbe un interessamento di Canepa, responsabile del coordinamento della Dna con il distretto in Liguria, dove aveva anche lavorato per dieci anni come pm, prima per la nomina del procuratore di Savona e poi per quella del procuratore aggiunto alla Dna, il suo stesso ufficio. Nel luglio 2018: «Scusa se ti disturbo, domani dovreste discutere del procuratore di Savona, è uno snodo fondamentale. Sono in corsa Arena e Landolfi uno di Mi, l'altro di AeI, ma non è questo il problema. Sono 2 banditi incapaci Il migliore è Ubaldo Pelosi, attuale facente funzioni». Risponde Palamara: «Ok tesoro». E lei: «Mi raccomando». Poi, a gennaio 2019, Canepa si rivolge a Palamara sulla nomina del procuratore aggiunto alla Dna: «Ti chiedo di provarci». E Palamara: «Lo farò fino all'ultimo». E gli chiede di intervenire «su quelle pecore che stanno al Csm». Lei si è difesa in prima commissione ammettendo di aver usato espressioni e modi «inopportuni» e «infelici», ma di averlo fatto nell'interesse e per il bene degli uffici. Perché riteneva che i due colleghi definiti «banditi incapaci» - per cui è stata anche querelata da uno degli interessati - non fossero adatti al ruolo. Il Csm ha sentito sia i due magistrati «denigrati» sia i colleghi di Canepa, e non è stato ravvisato alcun turbamento negli uffici e nello svolgimento delle funzioni della toga. Per il laico Stefano Cavanna «è il solito meccanismo, si chiamano i colleghi e si chiede com'è l'ufficio, funziona bene? Canepa lavora bene? - ha detto in plenum - Qui è come si stessimo dicendo, sì lo sappiamo che è inopportuno ma che ci importa. C'è un magistrato che ha dato prova oggettiva di muoversi come se fosse in un ufficio proprio, in maniera privatistica, in base all'amicizia. Questo nell'ufficio più importante che abbiamo in Italia, vi sembra normale? È una condotta che non può non impattare pesantemente sulla credibilità dell'ufficio».

Contrario all'archiviazione anche il laico Fulvio Gigliotti: «Come si possa in una situazione del genere affermare che l'imparzialità non sia stata scalfita faccio fatica a comprenderlo». Hanno votato contro l'archiviazione anche i togati Sebastiano Ardita (AeI), Antonio D'Amato e Maria Tiziana Balduini (Mi); oltre a Gigliotti (M5s) e Cavanna (Lega), anche i laici Filippo Donati (M5s) ed Emanuele Basile (Lega).

Invece il Csm ha deciso a maggioranza che si è trattato di inopportunità, ma senza alcun impatto sul lavoro della toga. Anche in questo caso come in quello di Ferranti e altri, la Procura generale della Cassazione non ha ritenuto di avviare l'azione disciplinare (diversa dal procedimento di trasferimento per incompatibilità). Pratica chiusa.

Natale Bruno per agi.it il 22 giugno 2022.

Le voci si sono rincorse per settimane nel Palazzo di giustizia di piazza Verga, a Catania, in concomitanza con l'arrivo in città dei nuovi funzionari dell'Ufficio per il processo. 

La ricerca spasmodica di uffici, stanze e scrivanie in cui allocare i nuovi 'addetti' ha creato una sorta di trasloco continuo che alla fine ha messo a nudo una verità inaspettata e incredibile. 

Dentro un armadio c'erano decine di bottiglie da mezzo litro piene di un liquido di colore giallastro. Il trasloco si ferma, iniziano le indagini che alla fine si concludono con una imbarazzante scoperta: quelle bottigliette erano piene di urina, di un giudice che nell'era della pandemia da Covid, temendo per il rischio di 'promiscuità' dei bagni del tribunale, ne ha fatto una sorta di improprio water privato ed esclusivo.

L'istruttoria va avanti, il giudice civile ammette e a sua volta apre un altro armadio, chiuso a chiave, con altre bottiglie. La notizia, riportata stamane dal quotidiano La Sicilia, non è confermata, ma neppure smentita dal presidente del tribunale di Catania, Francesco Mannino. Per il giudice sotto indagine, forse un provvedimento disciplinare, anche se è difficile ipotizzare il reato.

 Catania, giudice teme il Covid e fa pipì dentro bottiglie che conserva in un armadio. La Repubblica il 22 Giugno 2022.  

La scoperta nelle stanze del Palazzo di giustizia del capoluogo etneo.

Le voci si sono rincorse per settimane nel Palazzo di giustizia di piazza Verga, a Catania, in concomitanza con l'arrivo in città dei nuovi funzionari dell’Ufficio per il processo. La ricerca spasmodica di uffici, stanze e scrivanie in cui allocare i nuovi 'addetti' ha creato una sorta di trasloco continuo che alla fine ha messo a nudo una verità inaspettata e incredibile.

Dentro un armadio c'erano decine di bottiglie da mezzo litro piene di un liquido di colore giallastro, dal contenuto incerto. Il trasloco si ferma, iniziano le indagini che alla fine si concludono con una imbarazzante scoperta: quelle bottigliette erano piene di urina, di un giudice che nell'era della pandemia da Covid, temendo per il rischio di promiscuità dei bagni del tribunale, ne ha fatto una sorta di improprio water privato ed esclusivo.

L'istruttoria va avanti, il giudice civile ammette e a sua volta apre un altro armadio, chiuso a chiave, con altre bottiglie. La notizia, riportata stamane dal quotidiano La Sicilia, non è' confermata, ma neppure smentita dal presidente del tribunale di Catania, Francesco Mannino. Per il giudice sotto indagine, forse un provvedimento disciplinare, anche se è difficile ipotizzare il reato.

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 27 giugno 2022.

Forse il giudice Giuseppe Artino Innaria rivendicherà «le sue minzioni» ricordando che, durante la pandemia, Amazon forniva ai fattorini le bottiglie per urinare non solo per non perdere tempo - «il tempo degli operai - diceva Brecht - appartiene al padrone» - ma anche per proteggerli.

Forse il giudice civile di Catania, che nei mesi della pandemia si scaricava in bottiglia, si era ispirato alla speedy-loo della gig economy raccontata, già nel 2019, da Ken Loach in Sorry We Missed you. 

Si sa che fare la pipì non è solo fare la pipì, e infatti i "viccì" diventano "bagni" nel Palazzo di Giustizia dove i giudici ne hanno a disposizione almeno uno per Sezione. Non bagni penali, ma bagni culturali, pensatoi di conforto, dove, come in quelli di casa, si può nel frattempo risciacquare il Codice.

Ma il virus, che più della legge è uguale per tutti, li rese ostili. Dunque il giudice, per distanziarsi dai droplet nebulizzati e dagli asciugatori, la faceva, chiuso nel suo ufficio, dentro le bottigliette dell'acqua minerale che poi, per imprudente o impudente comodità, riponeva nell'armadio.

Il quotidiano La Sicilia che ha raccontato la vicenda e ha mostrato le bottiglie allineate come nei laboratori clinici, ha scritto che il giudice è stato sentito dal presidente del Tribunale, il quale, ipotizzando «una rilevanza disciplinare», ha rinviato gli atti alla Cassazione.

Urinare in bottiglia non è di per sé disdicevole e il giudice, che ha sempre onorato la magistratura, è anche l'apprezzato autore di un romanzo che, per innocente coincidenza, si intitola Non ho tempo da perdere.

Né esistono precedenti giudiziari e riferimenti storici sull'acrobazia della minzione. Nessuno ha mai chiarito, per esempio, come furono raccolte «in una bottiglia di cristallo smerigliato» le «occorrenze» della regina Maria Teresa che, in visita a Ischia, "onorò" la casa di un negoziante.

Il giudice ha usato un imbuto? I social si sono sbizzarriti e i goliardi hanno recitato le filastrocche sulla forma di «San Cirillo che l'aveva a spillo per infilzare i microbi», di «Sant'Isidoro che l'aveva d'oro per svalutare il dollaro» e di «Sant'Astuto che l'aveva a imbuto». 

Se, alla fine, il procedimento disciplinare ci dovesse essere davvero, non sarebbe facile per il procuratore generale della Suprema Corte scrivere "il capo di incolpazione".

Immaginiamolo: "Dell'illecito disciplinare di cui all'art.2 lett. d, D.lvo 109/2006, perché urinava abitualmente in ufficio usando bottigliette di plastica che poi riponeva nell'armadio dove venivano ritrovate in numero di circa 50 e così, nell'esercizio delle sue funzioni di giudice civile del Tribunale di Catania, manteneva un comportamento gravemente scorretto, anti-igienico e indecoroso nei confronti dei collaboratori, degli altri magistrati e, in genere, degli utenti della Giustizia con cui intratteneva rapporti d'ufficio e di lavoro". Secondo me lo assolvono. Secondo voi? 

Procura e organi di stampa, come cambia la disciplina dei rapporti: tutte le regole nel dettaglio. Libero Quotidiano il 31 maggio 2022

Aggiornata la disciplina dei rapporti degli Uffici di Procura con gli organi di stampa. La normativa in esame, nel recepire le disposizioni della direttiva 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 marzo 2016 in materia di presunzione di innocenza, regolamenta nel dettaglio le modalità con cui possono essere riferite agli organi di stampa le informazioni relative ai procedimenti penali e agli atti di indagine compiuti.

Nel dettaglio:

-la diffusione di informazioni sui procedimenti penali può avvenire esclusivamente tramite comunicati ufficiali, oppure nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenza stampa

-la diffusione delle medesime informazioni è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico

-la comunicazione può avvenire a mezzo comunicato stampa o conferenza stampa ad opera del Procuratore della Repubblica, in tale ipotesi, solo la conferenza stampa deve essere preceduta da un provvedimento motivato in cui viene dato atto delle specifiche ragioni di interesse pubblico che giustificano la divulgazione delle informazioni

-la Polizia Giudiziaria può fornire informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali ha partecipato, compresi gli arresti in flagranza, con entrambi i mezzi, ma sempre previa autorizzazione motivata del Procuratore della Repubblica

-le comunicazioni in qualunque forma vengano effettuate, devono sempre essere corrette, imparziali, rispettose della dignità della persona e devono chiarire la fase in cui il procedimento pende e assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta alle indagini e dell’imputato a non essere indicati colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale passati in giudicato

-resta fermo il divieto di diffondere immagini o fotografie di persone in manette, di pubblicare l’immagine e le generalità dei minori e vanno adottate tutte le misure utili ad evitare l’ingiustificata diffusione di notizie ed immagini potenzialmente lesive della dignità e della riservatezza delle persone offese.

Giustizia, la guida di Filippo Facci: ecco come cancellare l'intoccabilità dei magistrati. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 02 giugno 2022

Seconda puntata della mini-guida ai referendum sulla giustizia, necessaria anche perché i cinque testi dei quesiti che troverete il 12 giugno sono lunghi e incomprensibili. I dettagli per votare li trovate nello specchietto grafico. Ricordiamo che contemporaneamente si voterà anche in 978 comuni per le elezioni amministrative, e che la strategia dei nemici dei referendum (grillini, parte del Pd e l'Associazione magistrati) è che non si raggiunga il necessario quorum del 50 per cento + 1, senza il quale l'esito del referendum non avrebbe valore. Il loro obiettivo è palesemente lasciare tutto così com'è, quindi lasciare solo alla corporazione togata la facoltà di cambiare le proprie regole, come hanno sempre fatto: coi risultati disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti, e che non si traducono solo in una giustizia ingiusta e con tempi che farebbero spazientire un monaco tibetano, masi traducono anche in un danno economico per l'economia del Paese che è necessario contenere per tenere il passo con gli altri paesi europei, in nessuno dei quali c'è così tanta inefficienza e soprattutto un assetto della magistratura paragonabile al nostro.

QUALE PROFESSIONALITÀ

Il referendum sulla professionalità dei magistrati. O, se vogliano, su una equa valutazione dei magistrati. Oggi funziona così: ogni quattro anni (non si sa perché proprio quattro) l'efficienza, la professionalità e l'idoneità dei singoli magistrati sono oggetto di una valutazione da parte del Consiglio superiore della magistratura (Csm) con una procedura che è data per scontata nei suoi esiti medi (quasi sempre positivi) e che, detto meno rispettosamente, viene considerata una barzelletta o poco più di un passaggio burocratico. Ci si esprime sul singolo magistrato sulla base di pareri elaborati dal Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dai Consigli giudiziari, due organi che hanno una composizione mista: oltre ai membri fissi, sono formati da magistrati (i togati) e poi da altri soggetti che non lo sono (i laici) che spesso sono avvocati o professori universitari in materie giuridiche. Ecco: quando c'è da valutare un magistrato, il parere di quest'ultimi laici (avvocati e professori) non conta nulla, anzi non è proprio previsto, non hanno diritto di voto: solo i magistrati - generica regola italiana - possono giudicare altri magistrati, nessun altro è degno. I laici possono dire la loro solo su questioni generali, organizzative, tecniche, parlare di tabelle e di criteri per l'assegnazione degli affari, vigilare sull'andamento degli uffici giudiziari e di quelli dei giudici di pace. Ma per quanto riguarda i «pareri per la valutazione di professionalità dei magistrati ai sensi dell'art. 11 del d.lgs. 160/2006», cioè i pareri che poi saranno trasmessi al Csm, loro non possono mettere becco. Il quesito referendario chiede semplicemente che anche avvocati e professori - e non solo magistrati- possano dire la loro.

PERCHÉ SÌ

Perché votare Sì. In tal caso significherebbe appunto che anche i citati laici, che del resto fanno già parte dei consigli giudiziari e degli organi direttivi, avrebbero diritto di voto, e la valutazione completamente autoreferenziale dei magistrati, che unicamente giudicano se stessi, finirebbe di essere la barzelletta che viene considerata oggi, e magari si comincerebbe addirittura a pensare che possa essere una cosa seria e attendibile e non solo un «cane non mangia cane». Perché votare No. Sono molto interessanti le motivazioni di chi vorrebbe che tutto continuasse com'è ora, perché fanno capire la sacralità e l'intangibilità che certi magistrati, semplici vincitori di un concorso, ritengono che riguardi solo e unicamente la loro casta.

QUESTIONI DI CASTA

In pratica dicono che gli avvocati non possono occuparsi delle valutazioni dei magistrati perché rappresentano la loro fisiologica «controparte» all'interno dei processi: quindi potrebbero esprimersi con opinioni preconcette e ostili. I professori di materie giuridiche non vengono citati, ma il sottinteso è che chiunque, su un piano teorico, rappresenti una potenziale controparte perché loro, i magistrati, rappresentano lo Stato mentre altri, per esempio gli avvocati, rappresentano solo i loro clienti: una superiorità sancita in molti altri ambiti (si pensi alle perizie: quelle dei pm, secondo la Cassazione, cioè secondo altri magistrati, hanno maggior valore di quelle degli avvocati: anche se le avesse redatte il Creatore in persona) e il concetto non fa che ribadire la sostanziale negazione di quella «pari dignità giuridica» tra accusa e difesa che il Codice del 1989 aveva tanto auspicato. Nessuno ci può giudicare, è il messaggio. 

Disciplinari farsa: le toghe vengono sempre assolte. Su 50 procedimenti in tre anni nessuna condanna, ma nessuno paga per le ingiuste detenzioni. Costa (Azione): «Con il fascicolo delle performance cambierà tutto». La riforma in Aula il 14 giugno. Simona Musco su Il Dubbio il 20 maggio 2022.

Cinquanta azioni disciplinari a carico di magistrati in tre anni e nessuna condanna. Il dato emerge dalla Relazione annuale sulle “Misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione – 2021”, che il ministero della Giustizia ha presentato nei giorni scorsi al Parlamento. Un dato riferito alle sole scarcerazioni intervenute oltre i termini di legge, senza dunque valutare tutti gli altri casi previsti dalla legge, ovvero quelli più gravi, che vanno dalla violazione di legge per ignoranza o negligenza inescusabile ai provvedimenti privi di motivazione. «Un’indecenza», commenta il vicesegretario di Azione Enrico Costa, tra i principali protagonisti della riforma del Csm, che il 14 giugno dovrebbe arrivare in Aula al Senato, lasciando così spazio per una valutazione dell’esito dei referendum, come voluto dalla Lega. Una riforma che, con il fascicolo delle performance, mira anche ad un monitoraggio più efficace delle distorsioni, secondo Costa ignorate allo stato attuale, se è vero com’è vero che i dati ripropongono – pur con le dovute variazioni dettate anche dalla pandemia – sempre lo stesso quadro. Ma andiamo con ordine: su 50 procedimenti avviati tra il 2019 e il 2021, nove si sono conclusi con una assoluzione e 14 con un non doversi procedere. Sono 27 quelli tuttora pendenti, il cui esito, stando alle statistiche, appare quasi scontato.

Ad avviare i procedimenti con la contestazione di ritardi nella scarcerazione è stata quasi sempre via Arenula, che ha promosso 45 iniziative. Le altre cinque, invece, sono opera del procuratore generale della Cassazione, che con il ministero condivide la titolarità dell’azione disciplinare. Lo scorso anno sono stati cinque i procedimenti, due dei quali conclusi con assoluzione e uno con un non doversi procedere. Mentre sul fronte delle riparazioni per ingiusta detenzione, lo Stato ha sborsato 24.506.190 euro, poco più di 12mila euro in meno rispetto l’anno precedente, in riferimento a 565 ordinanze, con una media di 43.374 euro per ogni indennizzato. Casi, questi, per i quali invece non c’è stato alcun procedimento disciplinare: il ministero ha infatti evidenziato come il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione «non è di per sé, indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto». E ciò perché «la riparazione può riconnettersi ad ipotesi del tutto legittime di custodia cautelare accertata ex post come inutiliter data: di frequente, la richiesta e la conseguente adozione di misure cautelari si basa su emergenze istruttorie ancora instabili e, comunque, suscettibili di essere modificate o smentite in sede dibattimentale».

Parole che fanno indignare Costa: «Il punto è che i magistrati della Corte d’Appello tutelano i loro colleghi, dicendo nel quasi 70% dei casi che c’è concorso di colpa nelle ingiuste detenzioni – sottolinea -, esentando così da ogni responsabilità il magistrato, che è una follia pura. Ma ciò vuol dire anche che nel restante 30% ci dovrebbe essere la responsabilità esclusiva. Allora com’è che nessuno viene punito? Il ministero e la procura generale non muovono un dito. E quando questi casi arrivano al Csm è ancora peggio. È deprimente leggere questi dati». Insomma, le responsabilità non vengono affatto esplorate, secondo il deputato di Azione, sulla base di una «logica conservativa». Ma anche perché, fino ad oggi, «mancava la fattispecie disciplinare, che noi abbiamo inserito nella legge: un conto è parlare di applicazione della custodia cautelare fuori dai casi previsti per legge, un altro parlare di custodia fuori dai presupposti di legge». I dati forniscono alcune costanti: il distretto di Reggio Calabria, ad esempio, conta ben 84 ricorsi accolti sui 135 definiti nel 2021, ovvero il 62% del totale, per un totale di quasi 7 milioni di euro di indennizzo. E subito dopo, con 45 ricorsi accolti, troviamo Catania, seguita da Roma (47), Napoli (40) e Catanzaro (35). «Perché non viene disposta un’ispezione a Reggio Calabria, che detiene questo record da anni? – si chiede Costa – Perché non analizzare i fascicoli? Com’è possibile che l’ufficio gip non si ponga il problema di far pagare queste somme allo Stato, ogni anno? La risposta è semplice: perché non ha mai pagato nessuno per tutto questo». Proprio per tale motivo, sostiene il deputato, era necessario il fascicolo delle performance, che andrà ad analizzare proprio le gravi distorsioni, introducendo anche una sanzione disciplinare per il magistrato che ha indotto l’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale in assenza dei presupposti previsti dalla legge, omettendo di trasmettere al giudice, per negligenza grave ed inescusabile, elementi rilevanti. «Con il fascicolo cambierà molto – conclude Costa -. A Reggio Calabria non c’è una grave anomalia? Parliamo di questo».

Via Arenula presenta la “Relazione sulle misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione - 2021” al Parlamento. Ecco i dati. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 20 maggio 2022.

Calano le “misure cautelari coercitive” negli anni 2020-2021 rispetto al biennio precedente. La «diminuzione significativa» è «probabilmente dovuta agli effetti della pandemia». A rilevarlo è la “Relazione sulle misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione – 2021”, presentata dal ministero della Giustizia al Parlamento. I dati esaminati parlano chiaro: nel 2021 le misure coercitive sono state 81.102, mentre nel 2018 hanno raggiunto quota 95.798.

In diminuzione, in particolare, le misure di custodia cautelare in carcere: 24.126 nel 2021, 31.970 nel 2018. Dal report emerge che una misura cautelare coercitiva su tre è di tipo carcerario (32%). Gli arresti domiciliari sono invece il 25%. Mentre il controllo a distanza con il braccialetto elettronico non è molto diffuso. Questo tipo di provvedimento riguarda solo nel 14% dei casi.

La distribuzione geografica vede il Nord Italia in testa con il maggior numero di misure coercitive personali (40,7%). Nel Sud la percentuale scende al 25,3%, al Centro si attesta al 20,4% e nelle Isole si arriva al 13,6%. I distretti di Roma e Milano sono quelli con il maggior numero di misure emesse.Via Arenula si sofferma nella propria relazione anche sui casi di ingiusta detenzione: ammonta a 24,5 milioni la somma relativa ai risarcimenti pagati nel 2021, relativi a un totale di 565 ordinanze. Anche qui il dato, elaborato dal ministero della Giustizia insieme con il Mef, è in calo rispetto al benchmark, cioè all’importo versato nel 2020, che era stato pari a 36 milioni. L’anno scorso l’importo medio dei ristori è stato di 43.374 euro (a fronte dei 49.278 euro del 2020).

Un capitolo rilevante, e significativo, riguarda i provvedimenti emessi nei confronti dei magistrati responsabili di queste misure afflittive. Nel triennio 2019-2021 le azioni disciplinari promosse per le scarcerazioni intervenute oltre i termini di legge hanno interessato 50 giudici. Si tratta di un dato al quale, però, non corrisponde una conclusione dei procedimenti, che finiscono su un vero e proprio binario morto. Nessuna condanna e tempi dilatati. Sono 27 i procedimenti tuttora in corso. La sezione disciplinare del Csm in nove casi esaminati ha emesso una sentenza di assoluzione. Altri 14 fascicoli sono stati chiusi con la formula di “non doversi procedere”.

Altra sezione riguarda i procedimenti con la contestazione di ritardi nella scarcerazione. Il ministero della Giustizia ha promosso 45 iniziative: per 5 di questi casi si è attivato il pg della Cassazione, che ha anch’egli la titolarità dell’azione disciplinare. Dei 5 casi promossi nel 2021, ne sono stati definiti 3 (2 con l’assoluzione e uno con l’ordinanza di non doversi procedere). Restano in attesa di definizione 2 casi. In attesa di decisione, inoltre, i 21 procedimenti avviati nel 2020. Il ministero della Giustizia ha chiarito nella relazione presentata al Parlamento che il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione «non è di per sé indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto».

Che fine ha fatto il figlio del giudice che condannò Berlusconi: fuori dalla magistratura. Paolo Ferrari Libero Quotidiano l'08 maggio 2022.

Il padre magistrato è stato l'artefice della cacciata di Silvio Berlusconi dal Parlamento. A distanza di circa dieci anni gli ex colleghi del padre hanno cacciato lui dalla magistratura. La vicenda riguarda l'ex pm milanese Ferdinando Esposito, figlio di Antonio, il presidente del collegio della Cassazione che aveva reso definitiva la condanna a quattro anni per frode fiscale nei confronti di Berlusconi nel processo per i diritti Mediaset. Condanna che, perla legge Severino, costrinse poi il Cav ad abbandonare il Senato per andare in affidamento in prova presso una casa di riposo a Cesano Boscone.

Tutto inizia nel 2014 quando la Procura generale della Cassazione decide di avviare l'azione disciplinare nei confronti di Esposito junior. Ad accusarlo è un ex amico, l'avvocato piacentino Michele Morenghi. L'allora pm, che abitava in affitto in un super attico di oltre cento metri quadri con vista direttamente sulle guglie del Duomo, aveva chiesto a Morenghi, che in passato gli aveva dato dei soldi per fare delle vacanze, di pagargli direttamente il canone di locazione, pari a 32mila euro l'anno. Visto che Morenghi, all'epoca titolare di una società di integratori, si era rifiutato di provvedere al pagamento, Esposito lo apostrofò dicendo che in Procura «con l'inchiesta "sbagliata" può capitare di tutto alle aziende».

L'avvocato piacentino, scosso per quanto accaduto, decise di andare davvero in procura per vuotare il sacco con il procuratore Edmondo Bruti Liberati e la sua vice Ilda Boccassini. Esposito in quel periodo era in buoni rapporti con Arcore ed era stato anche fotografato con l'ex consigliera regionale di Fi Nicole Minetti.

VOGLIA DI POLITICA

Come appurarono le indagini dei colleghi, si recava spesso a Villa San Martino ed aveva espresso al leader di Forza Italia il desiderio di entrare in politica o di avere un posto in qualche ministero romano.

Uno di questi incontri avvenne il 22 maggio 2013, dopo giorni di passione per Berlusconi.

L'11 marzo si era svolta una manifestazione dei deputati azzurri davanti al Palazzo di giustizia. Il 6 maggio c'era stato il rigetto da parte della Cassazione della richiesta dei suoi avvocati di spostare i processi da Milano. L'8 maggio era arrivata la condanna in appello sui diritti tv. E il 13 maggio, infine, era terminata la requisitoria nel processo Ruby, dove il Cav sarà condannato in primo grado a sette annidi prigione. Esposito dichiarò sempre di non aver mai discusso con Berlusconi dei suoi processi milanesi. Terminati gli accertamenti, comunque, a luglio del 2016 venne fissata l'udienza davanti alla Sezione disciplinare del Csm.

Le accuse erano pesantissime: «Ottenere direttamente o indirettamente prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato sa essere indagato in procedimenti penali; l'uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per se o per altri; comportamenti scorretti nei confronti di altri magistrati; comportamenti che arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio delle parti». Il disciplinare rimase sospeso fino alla definizione del procedimento penale che nel frattempo si era aperto al tribunale di Brescia, al termine del quale Esposito sarà condannato per il reato di tentata induzione indebita.

Riprese le udienze al Csm, i difensori di Esposito sollevarono anche una questione di costituzionalità, che la Consulta, nel novembre del 2018, dichiarò non fondata.

IL DISCIPLINARE

Terminata la consiliatura al Csm, il processo disciplinare era ripartito davanti ad un nuovo collegio, presieduto al vice presidente David Ermini. La sentenza, come per Palamara, fu quella della rimozione dalla magistratura e venne depositata a fine gennaio dello scorso anno «Le condotte di notevole risalto mediatico hanno prodotto evidenti gravissimi e non ripristinabili riflessi sul prestigio della funzione esercitata. È del tutto incompatibile con la sua permanenza nell'ordine giudiziario», scrissero al Csm. Contro questa decisione Esposito ha giocato nei mesi scorsi l'ultima carta, quella del ricorso in Cassazione, ma il collegio, presieduto dall'ex presidente della Cedu Guido Raimondi, lo ha respinto e la rimozione della magistratura è diventata definitiva.

Giudice Esposito e gli insulti a Berlusconi "chiavica", il verdetto in tribunale: la clamorosa vittoria dei camerieri. Libero Quotidiano il 07 luglio 2021.

Archiviata la denuncia del giudice Antonio Esposito contro tre camerieri di un hotel di Lacco Ameno, la cui proprietà appartiene a Domenico De Siano (senatore di Forza Italia). A riportarlo è Il Fatto Quotidiano, che ricorda come i tre dipendenti misero a verbale di aver ascoltato Esposito mentre insultava gratuitamente in pubblico Silvio Berlusconi. 

Il giudice aveva risposto accusandoli di false dichiarazioni rese al pubblico ministero e aveva accusato l’avvocato Bruno Larosa di abuso d’ufficio e usurpazione di funzione del pm. Il gip ha archiviato tutto con quattro pagine di motivazioni dalle quali si evince che le indagini difensive di Larosa non violarono il codice. Era il 3 aprile 2014 quando i tre camerieri - Giovanni Fiorentino, Michele D’Ambrosio e Domenico Morgera - dichiararono che Esposito era solito insultare in pubblico e ad alta voce Berlusconi e De Siano. “Il tuo datore di lavoro - avrebbe detto tra il ristorante e la hall dell’albergo - sta con quella chiavica di Berlusconi… ancora li devono arrestare… a Berlusconi se mi capita l’occasione devo fargli un mazzo così”. 

Nella denuncia presentata dal giudice si parlava di “ricostruzioni inverosimili”, ma il gip ha messo nero su bianco che “non possono comunque considerarsi ‘false’ non solo sulla base degli elementi di prova disponibili, ma anche di quelli che l’opponente collega agli accertamenti patrimoniali ‘trascurati’ nelle indagini”.

Da lastampa.it il 6 maggio 2022.

Ha offeso la reputazione di Carlo Giuliani, ucciso dal carabiniere Mario Placanica nel corso degli eventi del G8 del 2001, con commenti pubblicati sul suo profilo Facebook. Con questa accusa la Sezione disciplinare del Csm ha condannato l'ex senatore Luigi Bobbio, oggi giudice al tribunale di Nocera Inferiore, alla perdita di anzianità di due mesi.

Una sanzione superiore a quella chiesta dalla procura generale della Cassazione, che aveva sollecitato la condanna alla censura. 

Per questa vicenda Bobbio era stato condannato nel 2016 dal tribunale di Torre Annunziata a 8 mesi di reclusione, confermati tre anni dopo in appello, ma la sentenza era stata in seguito annullata dalla Cassazione, che aveva dichiarato estinto il reato per rimessione di querela.

Bobbio è stato capo di gabinetto di Giorgia Meloni quando era ministra nonché esponente di Alleanza Nazionale, senatore e magistrato.

“Era una feccia”. Il Csm “condanna” Bobbio per la frase su Carlo Giuliani. La Procura generale della Cassazione aveva sollecitato la sola condanna alla censura per l'ex senatore di Alleanza Nazionale, oggi giudice al Tribunale di Nocera Inferiore. Valentina Stella su Il Dubbio il 6 maggio 2022.

Carlo “Giuliani era una feccia di teppista da strada”: così scriveva nel 2014 sul proprio profilo Facebook l’ex senatore di An Luigi Bobbio, oggi giudice al Tribunale di Nocera Inferiore. Avendo così offeso la reputazione del giovane di 23 anni, ucciso da un carabiniere – poi prosciolto per legittima difesa –  nel corso degli eventi del G8 del 2001, Bobbio è stato condannato dalla Sezione disciplinare del Csm alla perdita di anzianità di due mesi.

Si tratta di una sanzione superiore a quella chiesta dalla Procura generale della Cassazione, che aveva sollecitato la condanna alla censura. Per questa vicenda Bobbio, già capo di gabinetto dell’allora ministro Giorgia Meloni, era stato condannato nel 2016 dal tribunale di Torre Annunziata a 8 mesi di reclusione (pena sospesa), confermati tre anni dopo in appello, ma la sentenza era stata in seguito annullata dalla Cassazione, che aveva dichiarato estinto il reato per remissione di querela. Bobbio si era espresso due volte su Facebook contro il manifestante no-global, tra luglio e settembre 2014: “questa è la risposta che meritano quei vigliacchetti che hanno sporcato con quel lurido cartello il monumento all’Arma! Giuliani era una feccia di teppista da strada”.

Il tutto nasceva dal fatto che il giorno prima del post un cartello con su scritto “Ho ucciso Carlo Giuliani” era stato legato al monumento dei carabinieri inaugurato a Taranto nel giorno dei festeggiamenti del bicentenario. Ma Bobbio si difende e dice al Dubbio: “con il mio avvocato faremo sicuramente ricorso in Cassazione. Il provvedimento mi lascia un grande amaro in bocca e rafforza in me la percezione di essere da molti anni malevolmente attenzionato dalla corporazione, a causa della mia non breve esperienza politica nelle fila della destra e per le mie posizioni a favore di una dura e necessaria riforma dell’ordinamento giudiziario e del potere dei magistrati”. Martedì potrete leggere l’intervista integrale a Bobbio.

«Io, giudice, preso di mira dai magistrati perché ho militato a destra». Intervista a Luigi Bobbio, il giudice "condannato" dal Csm alla perdita di due mesi di anzianità per gli insulti a Carlo Giuliani nel 2014. Valentina Stella su Il Dubbio il 10 maggio 2022.

Il magistrato Luigi Bobbio, giudice al Tribunale di Nocera Inferiore, quindici anni in Procura, di cui otto in DDA,  ha ricevuto dalla sezione disciplinare del Csm una sanzione pari alla perdita di anzianità di due mesi. Nel 2014 sulla sua pagina Facebook aveva scritto un post in cui  si leggeva: “Carlo Giuliani era una feccia di teppista da strada”. Così avrebbe offeso la reputazione del giovane, ucciso da un carabiniere – poi prosciolto per legittima difesa –  nel corso del G8 del 2001. Per questa vicenda Bobbio è stato condannato nel 2016 dal Tribunale di Torre Annunziata a 8 mesi di reclusione (pena sospesa), confermati in appello. La sentenza è stata annullata dalla Cassazione, che ha dichiarato estinto il reato per remissione di querela. Bobbio ha un lungo passato politico: senatore con An, capo di gabinetto della Ministra Meloni, sindaco di Castellammare di Stabia.

Dottor Bobbio, come giudica questo provvedimento nei suoi confronti?

Con il mio difensore faremo sicuramente ricorso in Cassazione. Il provvedimento mi lascia un grande amaro in bocca e rafforza in me la percezione di essere da molti anni malevolmente attenzionato dalla corporazione.

E come mai?

A causa della mia non breve esperienza politica nelle fila della destra e per le mie posizioni a favore di una dura e necessaria riforma dell’ordinamento giudiziario e del potere dei magistrati. Io sono stato l’autore di quello che è passato alla storia come l’emendamento anti-Caselli che gli impedì di diventare Procuratore Nazionale Antimafia. Poi l’esperienza di sindaco di Castellammare di Stabia mi ha messo sotto scacco della Procura e da allora ho la sensazione di non essere trattato benevolmente dai colleghi. Del resto, ancora oggi mi esprimo pubblicamente contro la corporazione e le sue devianze e sostengo, ad esempio, che il tema della separazione delle carriere è ormai superato: va, infatti, attuato l’art.107 della Costituzione con espulsione del PM dall’ordine giudiziario.

Ma tutto questo come avrebbe influito con la sanzione disciplinare?

Partiamo dal fatto che io in primo grado al Tribunale di Torre Annunziata sono stato condannato a 8 mesi di reclusione, con la pena sospesa, da un giudice onorario monocratico senza neanche la prova che lo avessi scritto io quel post, perché sarebbe stata necessaria una rogatoria internazionale.  Otto mesi è una pena assurda e abnorme, che oggi i tribunali non danno nemmeno agli spacciatori, e a me non sono state neanche concesse le attenuanti generiche.

E al Csm?

Dopo Palamara e quello che è emerso il Csm si impegna a sanzionare un magistrato per un post su una vicenda lontana del tempo. Dopo la remissione della querela la sezione avrebbe potuto e forse dovuto rivalutare i fatti e non addirittura infliggermi una sanzione più grave di quella richiesta dalla Procura generale. Tutto questo mi lascia ben più di una perplessità. Non si può accettare di essere condannato da un Consiglio Superiore composto da magistrati che continuano, malgrado gli scandali che lo hanno attraversato, a restare ancorati al vecchio stile. Pensiamo solo alla nomina del Procuratore Nazionale Antimafia: violando una consolidata prassi, hanno votato sia il Procuratore Generale che il Primo Presidente di Cassazione a favore della nomina del collega Melillo che appartiene alla loro stessa corrente. Senza quei due voti, infatti, Melillo sarebbe andato al ballottaggio con Russo e tutto sarebbe cambiato.

Sul merito del post cosa ha da dire? Come si difende?

Quando scrissi quel post ero rientrato in magistratura da circa un anno, dopo 14 anni di fuori ruolo per attività politica ad alto livello. Il consesso civile non mi aveva ancora riconosciuto dal punto di vista sociale nuovamente come magistrato, per un sacco di persone ero ancora un politico. Per cui non condivido l’accusa che con quel post avrei violato il mio dovere di imparzialità: quello che ho scritto non si riferisce poi ad un soggetto politico perché Giuliani non lo era. Inoltre si tratta della manifestazione della libertà del pensiero, tanto più a valle di una serie di processi che avevano prosciolto il carabiniere che aveva cagionato la morte di Giuliani.

Perché scrisse quel post?

Perché a Taranto il giorno prima un cartello con su scritto “Ho ucciso Carlo Giuliani” era stato legato al monumento dei carabinieri nel giorno dei festeggiamenti del bicentenario. Io sono da sempre molto legato all’Arma dei Carabinieri.

Dalla contestazione lei avrebbe leso l’immagine del magistrato.

Sì, ma per farlo hanno dovuto legarlo con l’imparzialità. Ma quest’ultima va valutata in relazione al mio esercizio della funzione giurisdizionale e non era quindi quello il caso. D’altronde, imparzialità non può significare assenza o divieto di opinioni. Lo ha affermato anche la Corte costituzionale.

A rifletterci con il senno di poi non crede che quell’espressione sia stata molto inopportuna al di là del libero pensiero, che è intangibile?

Il senno di poi lascia il tempo che trova…

Cosa succede nelle Procure della Liguria? La toga antimafia in chat: “Quei magistrati sono banditi”, ma il Csm archivia tutto. Paolo Comi su Il Riformista il 20 Aprile 2022. 

Cosa succede nelle Procure della Liguria? Ci sono dei segreti che non possono essere raccontati? Alcuni pm hanno qualcosa di indicibile da nascondere? Sono tutte domande che non avranno mai una risposta perché il Consiglio superiore della magistratura ha deciso di archiviare frettolosamente la pratica aperta nei confronti di Anna Canepa, attuale sostituto presso la Procura nazionale antimafia. L’inquietante vicenda, mai raccontata sui grandi giornali, inizia a luglio del 2018 e, come capita spesso, vede coinvolto Luca Palamara. Siamo alla vigilia della nomina del nuovo procuratore di Savona e Anna Canepa, toga di punta di Magistratura democratica, decide di scrivere allo zar delle nomine, in quel momento potentissimo e super riverito componente della Commissione per gli incarichi direttivi di Palazzo dei Marescialli.

«Scusa se ti disturbo, domani dovreste discutere del procuratore di Savona, è uno snodo fondamentale», scrive Canepa a Palamara. «Sono in corsa Arena (Giovanni) e Landolfi (Alberto), uno di Mi (Magistratura indipendente) e l’altro di Ai (Autonomi&indipendenza)», prosegue la magistrata antimafia. «Ma non è questo il problema. Sono 2 banditi incapaci», puntualizza, ricordando che «il migliore è Ubaldo Pelosi, attuale facente funzioni». Il messaggio si chiude con un «grazie e buon lavoro». «Ok tesoro», gli risponde subito Palamara, lasciando trasparire grande confidenza. «Mi raccomando», aggiunge allora la magistrata. E Palamara: «Assolutamente si». La segnalazione, per la cronaca, andrà in porto e Pelosi verrà nominato procuratore di Savona e i due continueranno a fare servizio a Genova.

La chat fra Canepa e Palamara diventa di pubblico dominio nel 2020, con la pubblicazione della messaggistica dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Il Csm, non potendo fare altrimenti, decide di vederci chiaro. In particolare su cosa volesse intendere la toga della Dna con il termine “banditi”. L’accertamento viene svolto con tutta calma: il 7 dicembre dello scorso anno. «Io ho lavorato per 10 anni alla Dda di Genova», dice la magistrata davanti ai consiglieri del Csm, affermando di conoscere bene il territorio ligure e, verosimilmente, i due colleghi. «Ci voleva una figura molto specchiata di procuratore», prosegue. «Ho ritenuto – aggiunge – di dover esprimere un parere, non li ritenevo soprattutto dal punto di vista morale», evidenziando dunque che non era un problema di «appartenenza correntizia ma di opportunità: ci voleva una persona specchiata moralmente». In pratica la segnalazione nasceva dalla preoccupazione che a Savona vi potesse finire «una figura così discutibile».

A queste affermazioni, i togati del Csm decidono sorprendentemente di non replicare, e passano ad interrogare i vertici della Dna, ad iniziare dall’allora procuratore Federico Cafiero De Raho, che però non fornisce particolare significativi. Dei diretti interessati viene sentito solo Arena che ha affermato di essere «stupito del giudizio» della collega e di non ritenersi «assolutamente un bandito». Arena avrebbe poi presentato querela nei confronti della toga antimafia. E non è stato sentito Palamara che, dal tenore delle risposte, pareva fosse a conoscenza di quanto affermato dalla magistrata. Nei libri di Palamara, pieni di particolari di ogni genere, di questo episodio non c’è traccia. Circostanza alquanto sospetta.

Se Arena è rimasto a Genova, Landolfi, invece, nel frattempo ha lasciato il capoluogo ligure e rappresenta il governo italiano in Marocco, nominato dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. In servizio a Rabat si occupa di terrorismo internazionale, traffico di droga e foreign fighters. Incarico di assoluto prestigio che difficilmente il governo avrebbe potuto affidate ad un bandito. Senza altri approfondimenti, come detto, il Csm ha deciso di archiviare la pratica. Il voto del Plenum è previsto per stamani. In Commissione non aveva partecipato al voto per l’archiviazione il pm antimafia Nino Di Matteo. Forse proprio perché ha prestato servizio alla Procura nazionale antimafia, ufficio dove tornerà fra qualche mese e vi troverà la magistrata. Paolo Comi

Nicola Zingaretti? Alessandro Sallusti: se c'è il Pd di mezzo, l'inchiesta non si fa. Libero Quotidiano il 03 aprile 2022.

Ci sono indizi o supposizioni in base ai quali le procure si mobilitano con grande spiegamento di forze investigative sostenute dalla gran cassa mediatica di giornali compiacenti e complici. Poi ce ne sono altri che rimangono nel limbo, nei cassetti delle scrivanie dei magistrati e i cui verbali non vengono fotocopiati e diffusi. È il gioco sporco della magistratura e dell'informazione italiane per cui una donazione in chiaro alla fondazione, per fare un esempio tra i tanti possibili, di Matteo Renzi viene passata ai raggi X e diventa in sé prova di colpevolezza mentre su altri passaggi di denaro, legittimi fino a prova contraria, nulla si accerta.

Oggi pubblichiamo tre storie che i giornalisti segugi sì ma solo a comando si sono ben guardati dal rendere pubbliche. Si tratta di verbali secretati in cui due faccendieri già al centro di intricate vicende giudiziarie nelle quali sono stati ritenuti attendibili, Fabrizio Centofanti e Piero Amara, parlano, e forse sparlano, di favori economici fatti all'ex segretario del Pd e governatore del Lazio Nicola Zingaretti durante la sua campagna elettorale, a un attuale membro del Csm fondatore della corrente "grillina" di Piercamillo Davigo, Sebastiano Ardita, a cui avrebbero pagato le vacanze, e di una magistrata romana al centro di vicende sospette. Bene, a distanza di oltre un anno dall'acquisizione di queste informazioni nulla è stato fatto per accertare la verità e quindi noi non sappiamo se Amara e Centofanti hanno mentito - e quindi andrebbero accusati di calunnia - o se viceversa Zingaretti e Ardita hanno commesso degli illeciti e di conseguenza dovevano essere indagati.

Questo non è un caso di sciatteria o di ritardi della giustizia, questo è un metodo ben collaudato di uso della giustizia per altri fini, quelli di abbattere i nemici e proteggere gli amici del momento. Tutto ciò rende più comprensibile il perché i magistrati stiano alzando le barricate, con l'aiuto in parlamento non a caso di sinistra e Cinque Stelle, per impedire la riforma della giustizia. Solo questo dovrebbe essere un buon motivo per andare in massa a giugno a votare "sì" al referendum per abbattere questo sistema perverso. Lo capiranno gli italiani? Me lo auguro, conscio che la congiura del silenzio in atto sul tema non faciliterà il raggiungimento dell'obiettivo.

Il silenzio assordante della Disciplinare del Csm e della Procura generale della Cassazione sulle omissioni della Procura di Milano. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 marzo 2022.

Carte e documenti insabbiati per anni nella palude della Procura di Milano. Carte che secondo la Procura generale - superiore gerarchico della Procura, chiamata a vigilare sul suo operato - dimostravano come intorno al lungo dissesto del Monte dei Paschi di Siena si fosse verificato un caso senza precedenti di insabbiamento assolutorio, con un trattamento inspiegabilmente omissivo da parte degli inquirenti milanesi verso i massimi vertici di Mps

E’ il collega Luca Fazzo sulle pagine online del quotidiano IL GIORNALE ad aprire un nuovo squarcio sulla procura di Milano, che sembra essere diventato il nuovo “porto delle nebbie” della magistratura italiana, nell’indifferenza preoccupante della sezione disciplinare del Csm che sembra non accorgersi di nulla. Così come l’ ANM, l’ associazione nazionale magistrati stranamente non ha nulla da dire. 

Carte e documenti insabbiati per anni nella palude della Procura di Milano. Carte che secondo la Procura generale – superiore gerarchico della Procura, chiamata a vigilare sul suo operato – dimostravano come intorno al lungo dissesto del Monte dei Paschi di Siena si fosse verificato un caso senza precedenti di insabbiamento assolutorio, con un trattamento inspiegabilmente omissivo da parte degli inquirenti milanesi verso i massimi vertici di Mps, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, nominati dal governo Renzi per mettere ordine nella banca toscana, e che invece hanno lavorato nell’operato di occultamento dei conti reali.

Facciamo un passo indietro e torniamo al 13 novembre 2021, quando il procuratore Francesco Greco va in pensione al suo posto, in attesa della nomina del nuovo capo della procura ambrosiana, si insedia come facente funzione il più anziano dei vice, Riccardo Targetti. che si trova sul tavolo i fascicoli rimasti “dormienti” per anni. IL GIORNALE racconta che corre voce che Targetti trasecola e decide di trasmettere tutto a Brescia, cioè alla procura che giudica i reati commessi o subiti dai magistrati milanesi.

L’iscrizione di Greco emerge dalla proroga indagini notificata agli indagati. L’ipotesi della procura di Brescia, con il procuratore Francesco Prete e il pm Erica Battaglia, è che non sarebbero stati svolti tutti gli accertamenti necessari nell’inchiesta sui dirigenti della banca, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, rispettivamente ex presidente e ex ad dell’istituto. Incredibilmente Greco è stato nominato “consulente alla legalità” del sindaco di Roma Roberto Gualtieri, ex ministro Pd nel secondo Governo Conte.

Targetti trova tra le carte “dormienti” la richiesta della Procura generale di incriminare Roberto Tasca e Lara Castelli, i due consulenti che avevano firmato la perizia che scagionava i massimi vertici di Mps, presunti responsabili di avere falsificato la perizia sul Monte dei Paschi di Siena Ma la richiesta della Procura generale venne disattesa, ed infatti la procura di Milano guidata da Greco non ha mai proceduto all’iscrizione di Tasca (ex assessore al Bilancio del sindaco Beppe Sala, docente universitario e consulente di “fiducia” degli inquirenti milanesi) nel registro degli indagati. Adesso ha provveduto la Procura di Brescia ad incriminare Tasca e la sua collega Castelli per un motivo senza precedenti: la vittima della falsa perizia sarebbe Gemma Gualdi, il sostituto procuratore generale di Milano che aveva commissionato quella consulenza fidandosi di Tasca, dal quale avrebbe invece ricevuto una sfilza di omissioni. 

La Gualdi dopo aver ricevuto la relazione-consulenza si era subito resa conto che nella perizia molte cose non collimavano. A partire da quella che viene ritenuta omissione più vistosa: e cioè non vi era alcun cenno alla relazione della Banca Centrale Europea che al termine della ispezione del 2 giugno 2017 aveva verificato e certificato l’esistenza di un megabuco da 7 miliardi e mezzo per crediti inesigibili privo di accantonamenti, concludendo drammaticamente che “il Monte dei Paschi di Siena, la più antica banca de mondo, è esposta a rischi tali da pregiudicarne l’esistenza“.

Ed invece cosa fa la Procura di Milano ? Chiede l’archiviazione delle indagini su Viola e Profumo. E come la legge le consente, archivia direttamente lei stessa tutte le indagini nei confronti del Monte dei Paschi di Siena come ente giuridico. Allorquando la Procura generale si rende conto che tutto è basato su un clamoroso “falso”, chiede al procuratore Greco (quello che per sfuggire a delle indagini a suo carico ha dichiarato di aver perso il telefono…) di revocare quei decreti di archiviazione. Ma anche quella richiesta, finisce come quella di incriminare il consulente Roberto Tasca, resta inevasa: fino a quando il procuratore aggiunto Targetti non prende il posto di Greco, come facente funzione, quando va in pensione. 

Risultato che adesso sono tutti indagati a Brescia: Greco ed i pm di Milano Stefano Civardi, Giordano Baggio e Maurizio Clerici (già indagati) che lavoravano con lui, ed i suoi consulenti Tasca e Castelli. Le carte arrivate da Milano si aggiungono a quelle che Brescia aveva già in mano, come gli esposti in procura del consulente dei piccoli azionisti Mps Giuseppe Bivona, che definiva fin dal 2020 le affermazioni di Tasca “fantasiose“. La procura di Milano aveva chiesto l’assoluzione anche in un altro filone del procedimento, quello sulla contabilizzazione dei crediti deteriorati, che invece era stata respinta dal gip Guido Salvini. Anche in questo caso una nuova perizia aveva ribaltato la valutazione degli indagati. L’inchiesta ora è portata avanti da altri due pm della procura bresciana , i magistrati Roberto Fontana e Giovanna Cavalleri, che hanno iscritto nel fascicolo altri sette indagati.

Adesso mettere tutto a tacere si annuncia molto difficile. Incredibilmente le due inchieste più importanti della Procura di Milano, cioè quelle su Eni e su Monte dei Paschi di Siena, si sono rivelate in una vera e propria guerra tra toghe contrapposte. Mentre per l’accanimento accusatorio su Eni c’era una certa logica, per Mps la domanda è diametralmente opposta: perché si voleva salvare a tutti i costi Profumo e Viola ? Il fatto che nel 2017, all’epoca della relazione occultata dalla Procura di Milano, la Bce fosse presieduta dall’attuale capo del governo Mario Draghi dà corpo, inevitabilmente, alla necessità di fare luce e chiarezza totale su quanto accaduto.

Chissà come mai alla Procura Generale della Cassazione ed alla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura tutto tace…Redazione CdG 

Maddalena Berbenni per bergamo.corriere.it il 27 settembre 2022.

Non lo rifarebbe, «viste le conseguenze». Ma sulla bontà dell’idea, ora che è stato prosciolto, Francesco Bellomo resta convinto. Giudice barese del Consiglio di Stato, 52 anni, sospeso dal 2017 — «Adesso scrivo libri e insegno» — , era imputato per stalking e violenza privata nei confronti di quattro ex allieve della scuola per aspiranti magistrati «Diritto e scienza». 

Con loro c’era stato anche un legame sentimentale. Secondo l’accusa, esercitò pressioni, imponendo, fra l’altro, rigide regole sull’abbigliamento. Ecco. Sul punto, fuori dal Tribunale di Bergamo dove il procedimento era stato trasferito a inizio 2021 per competenza territoriale (la prima parte offesa vive in città), è chiaro: «Stabilire un dress code non è reato — afferma Bellomo —. Era un contorno. Io ti faccio frequentare la scuola gratis e tu ti vesti in un determinato modo quando devi rappresentarla, per esempio alle manifestazioni istituzionali o in tribunale». Oppure alle feste. «Erano previsti tre target — chiarisce Bellomo —: uno per il tribunale, uno per occasioni come convegni e il terzo per le feste, ma non ho mai chiesto di andare scollate o con i tacchi a spillo. Per le feste, il dress code era colori, tacchi normali e gonne. E poi era previsto anche per gli uomini».

La scuola c’è ancora, «ed è frequentata», puntualizza l’avvocato Beniamino Migliucci di Bolzano, che con il collega Gianluca D’Oria ha assistito Bellomo anche nei filoni già chiusi a Piacenza e Milano (aveva anche trascorso un periodo agli arresti domiciliari) : «In tutti i casi è stato assolto», sottolinea Migliucci. Archiviato a Roma, pure, il fascicolo per minacce e calunnia nei confronti dell’ex premier Giuseppe Conte, legato al procedimento disciplinare in seguito al quale Bellomo è stato destituito. Ha poi impugnato e la causa è tuttora aperta. 

Oggi 27 settembre 2022, in udienza preliminare davanti al gup Vito Di Vita, la Procura aveva chiesto il rinvio a giudizio, i legali insistito sul non luogo a procedere. Il giudice ha accolto la richiesta della difesa e prosciolto Bellomo «perché il fatto non sussiste» per quanto riguarda tre parti offese — anche rispetto a un episodio prescritto — e rimandato gli atti a Massa Carrara, di nuovo per competenza territoriale, su una quarta allieva. In quest’ultimo caso, per il quale Bellomo rispondeva solo di violenza privata, il reato è stato derubricato in un tentativo. «È la fine di un incubo», sintetizza l’avvocato Migliucci. Con Bellomo era imputato il pm Davide Nalin: assolto anche lui. 

Ma perché era così importante il dress code? «Prima di tutto — risponde il magistrato — c’è una questione di promozione: devi piacere per creare consenso. E poi, di didattica: per me il magistrato non deve riempirsi la testa di libri e chiudersi in una torre d’avorio, ma deve sviluppare capacità di ragionamento e neutralità. È questo che insegno e non per niente tutti i miei allievi hanno passato l’esame».

 «Il dress code non è reato», assolto l'ex giudice barese Bellomo. Il gup di Bergamo: niente processo per tre dei quattro episodi di stalking alle studentesse. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Settembre 2022.

Non è reato il dress code imposto alle aspiranti magistrate. Lo ha stabilito il gup di Bergamo, Vito Di Vita, che al termine dell'udienza preliminare ha prosciolto "perché il fatto non sussiste" l'ex giudice amministrativo barese Francesco Bellomo e l'ex pm Davide Nalin (oggi trasferito ad altro incarico), per tre dei quattro episodi di stalking e violenza privata nei confronti di altrettante ex allieve della scuola per aspiranti magistrati "Diritto e scienza". Per il quarto episodio il gup lombardo ha disposto il trasferimento degli atti a Massa Carrara, derubricando l'accusa in tentativo di violenza privata. Per Bellomo, che nel 2019 finì anche agli arresti domiciliari, si tratta della terza assoluzione dopo quelle di Piacenza e Milano: lo scorso anno il Tribunale di Bari si era dichiarato incompetente, trasmettendo gli atti a Bergamo dopo che la stessa Procura aveva mandato a Roma le carte sulle presunte calunnie ai danni dell'allora premier Giuseppe Conte, nel frattempo archiviate.

Bellomo prosciolto: non era un reato il dress code alle allieve. L'ex magistrato era accusato di stalking. Il gup di Bergamo: "Il fatto non sussiste". Patricia Tagliaferri il 28 Settembre 2022 su Il Giornale.

Per la vicenda del dress code che imponeva alle sue allieve e per le accuse di stalking e violenze privata nei confronti di tre borsiste della scuola per magistrati «Diritto e scienza» e una ricercatrice, l'ex consigliere Francesco Bellomo nel 2019 era finito agli arresti domiciliari ed era stato sospeso dal Consiglio di Stato oltre che sospeso dall'insegnamento per un anno.

Uno scandalo di cui si è parlato per settimane. Ieri Bellomo è stato prosciolto in udienza preliminare dal gup di Bergamo, dove il processo era stato spostato da Bari per competenza perché vi risiede una delle ragazze che lo accusava, nessuna delle quali ha poi presentato denuncia né si è costituita parte civile. Il gup ha accolto le tesi della difesa e ha stabilito il proscioglimento con la formula più ampia del «perché il fatto non sussiste». Per un altro episodio relativo ad una presunta violenza privata, il gup ha stabilito invece la riqualificazione del reato in tentata violenza rinviando gli atti alla Procura di Massa Carrara competente per territorio.

«La fine di un incubo durato cinque anni», ha commentato l'ex giudice, che nel frattempo ha impugnato la sospensione ed ora spera di essere reintegrato alla luce della nuova sentenza. Anche il pm Davide Nalin, ritenuto corresponsabile di un episodio di stalking e violenza privata, è stato prosciolto.

L'inchiesta era partita dalle dichiarazioni finite sui giornali del fidanzato di una delle vittime, il quale aveva raccontato di come Bellomo imponesse alle borsiste che frequentavano la sua scuola per la preparazione al concorso in magistratura rigidi codici di comportamento e un particolare dress code che prevedeva minigonna e tacchi a spillo. Oltre a controllare i loro profili social e le loro frequentazioni. Secondo la Procura di Bari, inoltre, avrebbe maltrattato alcune sue allieve, con alcune delle quali intratteneva delle relazioni intime. «Non credo sia un reato chiedere alle proprie allieve di vestirsi in un certo modo, anche perché chiedevo anche ai ragazzi un certo stile. E non pretendevo che venissero a lezione così, ma lo chiedevo quando c'erano appuntamenti esterni. Diciamo che era un modo per presentarsi e rappresentare la scuola, che frequentavano gratis, nel modo migliore in occasione di eventi con altre persone», il commento di Bellomo al termine dell'udienza riportato da BergamoNews.

Per questi fatti l'ex consigliere di Stato era stato arrestato il 20 luglio del 2019 ed ha trascorso 20 giorni ai domiciliari, prima che il Tribunale del Riesame di Bari li revocasse disponendo la misura alternativa dell'interdizione all'insegnamento per 12 mesi. Alla vicenda se n'era intrecciata un'altra che riguardava l'accusa di calunnia e minaccia nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, già presidente dell'organo di giustizia amministrativa che aveva esaminato la vicenda disciplinare conclusasi con l'allontanamento di Bellomo dalla magistratura. Questo pezzo di indagine venne stralciato e inviato a Roma per competenza, dove venne archiviato.

La rivincita di Bellomo: i suoi corsi sold out. E adesso sogna il ritorno in magistratura. Giuliano Foschini su La Repubblica il 03 ottobre 2022. 

Dopo l’assoluzione a Bergamo per stalking e violenza privata verso alcune allieve, torna con le sue lezioni ma stavolta senza dress code imposto

Sono giorni importanti per chi in Italia sogna di fare il magistrato. Torneranno infatti le lezioni in presenza con "l'agente superiore generale", "il Sommo", insomma sì l'ex magistrato Francesco Bellomo, quello delle minigonne e i tacchi imposte alle corsiste, che dopo essere stato espulso dalla magistratura e assolto dalla magistratura (nessuno stalking o violenza privata, le ragazze erano consenzienti, hanno stabilito i giudici dopo che Bellomo era stato anche arrestato: comportamenti sconvenienti non sono per forza di cose reati), ha ripreso a organizzare corsi da

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 3 ottobre 2022.

Sono giorni importanti per chi in Italia sogna di fare il magistrato. Torneranno infatti le lezioni in presenza con «l'agente superiore generale», «il Sommo», insomma sì l'ex magistrato Francesco Bellomo, quello delle minigonne e i tacchi imposte alle corsiste, che dopo essere stato espulso dalla magistratura e assolto dalla magistratura (nessuno stalking o violenza privata, le ragazze erano consenzienti, hanno stabilito i giudici dopo che Bellomo era stato anche arrestato: comportamenti sconvenienti non sono per forza di cose reati), ha ripreso a organizzare corsi da tutto esaurito. 

Le lezioni ricominceranno tra l'8 e il 14 ottobre nelle tre sedi: Bari, Roma e Milano con costi che girano attorno ai duemila euro. Bellomo promette risultati straordinari con formule matematiche che documentano come chi partecipa alle sue lezioni ha possibilità altissime di diventare magistrato.

D'altronde, si legge nel volantino che gira in queste ore, queste sono «le performance del direttore scientifico»: «17 anni componente della nazionale juniores di scacchi, premio miglior giocatore under 18». Addirittura (!) «tre volte campione italiano Uisp», l'Unione italiana sport per tutti. 

«Vincitore di tre concorsi in magistratura», «magistrato di grandissimo valore che unisce doti elevatissime di intelligenza, intuizione, applicazione» scrive di sé stesso, omettendo però di raccontare che dalla magistratura è stato cacciato. Ma evidentemente il particolare non conta visto che i suoi corsi, giurano le ragazze che si occupano del reclutamento studenti, attivissime sui social, sono praticamente al tutto esaurito. 

Così come non contano quelle «condotte incompatibili con il rispetto dell'obbligo in capo a un magistrato» di cui ha parlato il Tar nella sentenza dell'aprile scorso, confermando il provvedimento con cui appunto veniva destituito dalla magistratura. Il riferimento era ai documenti dell'indagine interna dai quali sarebbero emerse una serie di circostanze: il dress code, appunto «l'obbligo di immediata reperibilità», il «divieto di avere rapporti con persone con un quoziente intellettivo inferiore ad uno standard da lui insindacabilmente stabilito», l'obbligo di «indossare un determinato abbigliamento e di attenersi a determinati canoni di immagine, anche attraverso la pubblicazione sui social network di foto da lui scelte».

Tutte circostanze, si diceva, che hanno portato i giudici penali ad assolverlo, accogliendo la tesi dei suoi legali Beniamino Migliucci e Gianluca D'Oria. Ma potrebbe non bastare: Bellomo sta cercando di tornare anche al suo lavoro di magistrato perché, spiega il suo avvocato amministrativista, Angelo Clarizia, «se il Consiglio di Stato dovesse confermare la sentenza sarebbe il primo caso di magistrato destituito senza neppure essere condannato». 

Fatto sta che agli aspiranti magistrati (ma anche procuratori dello Stato, giudici amministrativi, avvocati: Bellomo ha un corso per tutti) tutto questo non interessa. Anzi: affollano le sue lezioni. E per guadagnare una borsa di studio sono pronti anche a firmare il famigerato "contratto", quello che tanti guai ha dato a Bellomo. Esiste infatti anche nell'edizione 2022 ma qualcosa però è cambiato. È sparito il dress code e sono comparse nuove indicazioni per chi riuscirà a guadagnare le borse di studio che il "Sommo" mette a disposizione in un numero «non superiore a cinque per sede». Che serve?

«Rispetto del principio di non contraddizione (intelligenza logico - razionale); - comprensione dei rapporti di causalità (intelligenza del reale); - controllo dell'emotività (neutralità); - abilità nelle pubbliche relazioni, con particolare riferimento all'utilizzo del web (attitudine sociale)». 

Cosa significhi esattamente non è chiarissimo. Mentre leggendo alcune delle dispense consegnate a chi sta per iscriversi ai suoi corsi, appare più chiaro un pezzo della sua storia. In un suo scritto sull'"equilibrio di genere" il professor Bellomo scrive: «Avevo cinque anni e frequentavo la prima elementare in un collegio ecclesiastico. Mi ritrovai nel banco insieme a una bambina bionda con gli occhi azzurri, slanciata, lineamenti angelici. Insomma, l'ideale femminile per definizione. Si chiamava Elena. Diventammo presto inseparabili, fisicamente - come possono esserlo due bambini - e mentalmente. Un giorno Elena si assentò. 

Chiesi alla suora: "Perché non c'è?". "Elena non verrà più. La famiglia si è trasferita al Nord". In quell'attimo, compresi qualcosa che non mi avrebbe più abbandonato: il mondo se ne frega di te e dei tuoi desideri. Sei solo un granello di sabbia nell'ingranaggio dell'universo. Se vuoi sottrarti a questo orrendo destino devi imparare a capire, a controllare. La società, gli individui, la natura. Gli altri diranno che sei un infelice, ma tu compatirai l'inutilità della loro esistenza. Quel giorno a scuola senza dire una parola, in quel freddo corridoio, scoppiai a piangere. Per la prima e ultima volta nella mia vita».

Indignazione preventiva. L’assoluzione di Francesco Bellomo è un’eccezione nell’era della suscettibilità. Cataldo Intrieri su l'Inkiesta il 29 Settembre 2022

L’ex magistrato, radiato dal suo ordine per accuse di presunte violenze sulle donne, è stato giudicato innocente. Questa vicenda giudiziaria richiede una riflessione su come vengono condotti e definiti un certo tipo di processi 

Chissà se, come per il trionfo elettorale di Giorgia Meloni, per la condizione femminile l’incredibile vicenda giudiziaria di Francesco Bellomo servirà a infrangere un altro seppur meno scintillante tetto di cristallo: quello del pregiudizio giudiziario nei confronti degli uomini imputati di violenza sulle donne.

Ieri Bellomo è stato definitivamente assolto dopo quattro diversi processi celebrati ai quattro angoli del Paese da una serie di accuse infamanti provenienti da giovani sue allieve.

La vicenda dell’ex magistrato, radiato dal suo ordine con un provvedimento di insolita durezza, sino a oggi utilizzato in pochissimi casi, come quello di Luca Palamara, servirà a una riflessione necessaria sulle modalità con cui vengono condotti e soprattutto definiti un certo tipo di processi.

Dal caso Bellomo a quello di Ciro Grillo, per finire alla vicenda ancora in fieri del politico Matteo Richetti, per gli indagati/imputati/sospettati di condotte di reati come lo stalking e le violenze contro le donne (termine di vasto uso che copre una enorme gamma di ipotesi dalle molestie a vere e proprie forme di coartazione, in barba al principio di determinatezza dei reati previsto dal diritto penale) grava sin dall’inizio la cappa del pregiudizio colpevolista e della condanna anticipata.

Perfino nei casi più dubbi come quello recente del senatore di Azione non manca chi con il ditino alzato ha già emesso il verdetto («qualcosa comunque ha fatto») anche di fronte a seri dubbi e precedenti sulla attendibilità della presunta vittima.

Il caso Bellomo è esemplare: è assurto alla indesiderata fama della gogna per aver gestito con singolari modalità i suoi corsi di preparazione all’esame di magistrato dove, secondo l’accusa, avrebbe coartato ai limiti del plagio la libera volontà di alcune iscritte alla sua scuola inducendole ad adottare regole di comportamento, come l’adozione di mise scollacciate e a subire le sue imposizioni durante le relazioni sentimentali allacciate con alcune di esse.

In un caso un procuratore, piuttosto immaginifico, aveva ipotizzato il reato di estorsione per avere il docente preteso da una sua allieva che rinunciasse a una prestigiosa carriera di valletta in una tv locale del barese per costringerla (ohibò) a studiare seriamente da magistrato.

Ora, questo caso è esemplare non perché il malcapitato sia un nuovo Tortora ma proprio perché le condotte di Bellomo sono censurabili sotto il profilo della buona educazione e dei canoni politicamente corretti da osservare secondo la morale corrente nei rapporti tra i sessi o di genere.

Bellomo sarà stato petulante e assillante, invadente e talvolta scostumato e svilente, ma con un non insignificante tratto comune in tutte le sue storie: l’assenza di ogni risvolto penale.

Nessuna delle sue vittime lo ha mai denunciato e si è presentata in tribunale a reclamare giustizia (e alcune di loro sono stimatissime magistrate che certamente hanno chiaro l’obbligo di fare giustizia e contribuire alla verità).

Ben 5 giudici in varie parti d’Italia hanno emesso sentenze assolutorie e di proscioglimento, senza neanche arrivare a celebrare un processo: per il semplice motivo che ciò che veniva contrabbandato per reato era solo una vicenda privata da censurare, o riprovare, magari, ma dove di penalmente rilevante non c’è mai stato nulla.

Si può pensare di archiviare tutto come un semplice incidente, un fatale inconveniente, forse spingersi alla commiserazione e chiuderla lì?

Beh, quest’uomo è stato arrestato due volte, umiliato con perquisizioni e inchieste televisive irridenti, sono stati importunati i suoi genitori, lui stesso bollato come «un gran porco» da un popolare conduttore televisivo (senza che ovviamente costui si fosse degnato di sentire la sua versione) e alla fine scacciato dall’ordine giudiziario come un reietto, laddove suoi colleghi magistrati e colpevoli di atti di violenza domestica, hanno goduto di maggiore indulgenza.

A ben pensarci questa storia ha un tratto in comune con un altro storico caso giudiziario, rievocato sugli schermi proprio in questi giorni, che aiuta a capire perché sia necessaria una riflessione e qualcosa più di frettolose scuse.

Aldo Braibanti, singolare figura di studioso scostante e prevaricatore, circa mezzo secolo fa fu processato con l’accusa di plagio, reato che non è stato contestato a Bellomo, semplicemente per il fatto che è stato nel frattempo abrogato dalla Corte costituzionale, in ragione dell’assoluta vaghezza dell’ipotesi di delitto difficile da provare perché attiene alla complessità dei rapporti umani più che ai libri di diritto.

In realtà ciò che si contestava a Braibanti, e il bel film di Amelio “Il signore delle formiche” lo spiega efficacemente, era la sua omosessualità, il vizio indicibile e inaccettabile per la società del tempo.

Oggi l’etica dominante condanna senza appello condotte e comportamenti moralmente riprovevoli ed esige che la censura si trasformi in reato esattamente come mezzo secolo fa il ruolo di Braibanti, intellettuale dominante sul giovane ammiratore suo amante, doveva essere un reato.

Qualcuno obietterà che così ragionando si rischia di abbassare l’allarme sulle violenze vere, che nascono proprie da condotte invasive anche se non criminali.

Bene, una società che non distingua il reato dal peccato e dalla morale è essa stessa pericolosa e criminogena.

Sia consentito chiedersi se sia un caso che tacciono le voci di fronte alle gravi violenze che le donne subiscono in Iran ed in Afghanistan , in nome proprio della morale la cui violazione diventa crimine.

Quando tutto si annebbia, e si perde il confine tra violenze vere e falsi crimini, è il senso di realtà che sparisce e tutto diviene indistinto e uguale, e l’indignazione, quella vera e giusta, sparisce nell’incapacità di ragionare.

L’autore è stato difensore di Francesco Bellomo

Brunella Bolloli per “Libero Quotidiano” il 25 marzo 2022.

Per l'accusa era il collaboratore fedele del potente dominus della scuola "Diritto e Scienza" a cui si iscrivevano decine di aspiranti magistrate nella prospettiva di una sfolgorante carriera in ambito giudiziario. 

Davide Nalin, quarantenne pubblico ministero veneto, con l'autorevolezza della sua toga e il viso pulito da bravo ragazzo del profondo nord, nella vicenda dello scandalo dress code scoppiato nel 2017 era il braccio destro dell'astuto consigliere di Stato Francesco Bellomo, quello delle minigonne e dei tacchi a spillo imposti nella sua scuola per entrare in magistratura.

E Nalin, autore di articoli sulla rivista dell'istituto al centro dell'indagine, vincitore di tutti i concorsi e pm del pool di Rovigo contro i reati sessuali, era colui che riusciva a indurre le borsiste ad accettare le clausole vessatorie decise da Bellomo il conquistatore. 

Al vaglio degli inquirenti ci sarebbe stata anche una frase in cui Nalin faceva pressione sulle ragazze con moniti tipo «L'agente superiore ordina, voi dovete eseguire», oltre alla richiesta inoltrata a una delle borsiste di inviare a Bellomo una foto sexy.

Ora, e qui sta la notizia, dopo pagine piene d'indignazione, fascicoli aperti in quattro città diverse, accuse di lesioni e stalking archiviate, destituzioni e sospensioni accorciate, Davide Nalin è tornato ufficialmente al suo posto, cioè in carica alla procura di Rovigo. 

Ieri alle 9.30, di fronte al Collegio presieduto dal giudice Angelo Risi affiancato dalle colleghe Sara Zen e Nicoletta Stefanutti, è stata celebrata l'immissione in possesso, l'atto con il quale il pubblico ministero padovano è rientrato a pieno titolo nelle sue funzioni giuridiche. Come se niente fosse. Perfino con tante scuse dal ministero della Giustizia e tutti gli arretrati non percepiti dal dicembre 2017 ad oggi.

È così che si conclude alla tipica maniera italiana quella che era nata come una tragedia per uno stuolo di fanciulle, laureate in Legge, cadute - consapevolmente o no - nella rete del giudice Bellomo, (nomen omen ad accrescere l'ego di questa vanitosissima Wanda Osiris del Consiglio di Stato, come lo ha definito Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera). 

C'è da dire che, a differenza del direttore di "Diritto e Scienza", inguaiato e cacciato da Palazzo Spada, per Nalin le conseguenze dello scandalo "dress code" sono state più leggere. Subito il Csm lo aveva sospeso per due anni e trasferito dal Veneto a Bologna, più di recente la sezione disciplinare del Consiglio superiore della Magistratura ha rivisto il caso e ridotto a sei mesi la sospensione.

Non essendoci alcuna misura cautelare a suo carico, mancava solo di conoscere la sede a cui era destinato: o Bologna o la sua "storica" Rovigo e alla fine è stato deciso per la seconda. Praticamente a casa. Per ricominciare da dove aveva interrotto.

«Non ho mai chiesto foto hard alle allieve, non ho mai abusato del mio ruolo di magistrato e non ho mai minacciato nessuno». Così Nalin si era difeso il 15 dicembre del 2017 di fronte al plotone di esecuzione di Palazzo dei Marescialli mentre nei principali tg nazionali l'allora Pg della Cassazione definiva lui e il suo mentore «una setta» paragonando la scuola per magistrati messa in piedi da Bellomo a Roma, Bari, Milano ai fanatici di Scientology con aggiunta di presunte molestie sessuali perché tutte o quasi le partecipanti alla fine cedevano al fascino del magnetico direttore, il quale infatti è stato denunciato pure per lesioni e stalking e "processato" sui principali talk, come un Weinstein de noantri, un orco e che le plagiava e pretendeva che non si fidanzassero e fossero fedeli solo a lui se volevano passare il concorso.

Non mettiamo in dubbio che alcune abbiano patito conseguenze dalla vicenda, ma nel frattempo Nalin è stato assolto a Piacenza dalle accuse di stalking e lesioni in concorso con Bellomo, mentre nel processo che si era aperto a Bari, tutto è stato inviato alla Procura di Brescia per competenza territoriale. Il caso non è del tutto chiuso, ma da ieri Nalin è al suo posto. Tanto rumore per nulla.

Lodovica Bulian per "il Giornale" il 22 febbraio 2022.

Sono volati gli stracci nell'ultimo plenum del Csm. Sul tavolo di Palazzo dei Marescialli c'era da approvare la delibera con cui autorizzare il prestigioso incarico di consiglieri della Corte di Cassazione a due magistrati nella quota riservata alle giovani toghe.

Alcuni membri del Csm sono saltati sulla sedia quando hanno visto tra i papabili selezionati dalla commissione competente anche il nome di un giovane magistrato già «accusato» di aver copiato ampi stralci di articoli scientifici firmati da uno stesso membro del consiglio, il laico Fulvio Gigliotti.

Il quale alla notizia aveva già informato la commissione che doveva selezionare la rosa di candidati da portare poi al plenum. La proposta di mandare la giovane toga in Cassazione poi non è passata ma si è consumato lo scontro a colpi di reciproca indignazione per una proposta che, secondo molti, in plenum non ci sarebbe nemmeno dovuta arrivare.

Basito lo stesso Gigliotti, il consigliere «copiato» dal magistrato junior che ambiva alla Cassazione. «Il problema non è un mio risentimento per non essere stato citato, non è questo il problema - ha detto - Il problema è che qui parliamo di una selezione che dovrebbe riguardare l'eccellenza scientifica dei magistrati.

La domanda che ci si deve porre e non immaginavo fosse necessario porsi, è se un magistrato che pretende di partecipare a una selezione sulla base di titoli scientifici di eccellenza veramente possieda questa eccellenza, quando il metodo di costruzione dei suoi lavori è quello di assemblaggio di parti proprie con parti altrui, almeno per quello che ho potuto verificare in più di una circostanza».

Anche il laico Stefano Cavanna esprime indignazione da «un punto di vista di un cittadino di fronte a questa situazione. Gigliotti ha rilevato la copiatura nei suoi lavori. Il mio interesse è quello di verificare che procedimenti amministrativi in questo consiglio abbiano una logica e una moralità almeno questo è quello che spinge la mia azione da quando sono entrato qui dentro. Io posso capire tutto, ma col mio voto lui non ci va.

Io la proposta che porta in Cassazione un magistrato che ha copiato delle parti di opere altrui non la voto. È in gioco il valore scientifico di questo magistrato e se ci sono episodi del genere per me il valore scientifico di un copiatore è pari allo zero, la commissione evidentemente non si è avveduta di questi profili». 

Furioso anche il togato Nino di Matteo: «Esprimo il mio disagio e la mia profonda amarezza, in un momento nel quale la nostra credibilità come consiglio è fortemente incrinata da varie vicende, noi discutiamo per ore se premiare, perché di questo si tratta, con l'accesso in Cassazione un giovane magistrato che evidentemente alla spasmodica ricerca di un conseguimento dei titoli per la carriera è incorso in evidenti passi falsi. Speravo non si arrivasse nemmeno a questa discussione».

"Promuovete il magistrato copione". L'ultimo caso che manda in tilt il Csm. Lodovica Bulian il 22 Febbraio 2022 su Il Giornale. 

Era tra i papabili selezionati dalla Commissione: fermato. Sono volati gli stracci nell'ultimo plenum del Csm. Sul tavolo di Palazzo dei Marescialli c'era da approvare la delibera con cui autorizzare il prestigioso incarico di consiglieri della Corte di Cassazione a due magistrati nella quota riservata alle giovani toghe. Alcuni membri del Csm sono saltati sulla sedia quando hanno visto tra i papabili selezionati dalla commissione competente anche il nome di un giovane magistrato già «accusato» di aver copiato ampi stralci di articoli scientifici firmati da uno stesso membro del consiglio, il laico Fausto Gigliotti. Il quale alla notizia aveva già informato la commissione che doveva selezionare la rosa di candidati da portare poi al plenum. La proposta di mandare la giovane toga in Cassazione poi non è passata ma si è consumato lo scontro a colpi di reciproca indignazione per una proposta che, secondo molti, in plenum non ci sarebbe nemmeno dovuta arrivare. Basito lo stesso Gigliotti, il consigliere «copiato» dal magistrato junior che ambiva alla Cassazione. «Il problema non è un mio risentimento per non essere stato citato, non è questo il problema - ha detto - Il problema è che qui parliamo di una selezione che dovrebbe riguardare l'eccellenza scientifica dei magistrati. La domanda che ci si deve porre e non immaginavo fosse necessario porsi, è se un magistrato che pretende di partecipare a una selezione sulla base di titoli scientifici di eccellenza veramente possieda questa eccellenza, quando il metodo di costruzione dei suoi lavori è quello di assemblaggio di parti proprie con parti altrui, almeno per quello che ho potuto verificare in più di una circostanza».

Anche il laico Stefano Cavanna esprime indignazione da «un punto di vista di un cittadino di fronte a questa situazione. Gigliotti ha rilevato la copiatura nei suoi lavori. Il mio interesse è quello di verificare che procedimenti amministrativi in questo consiglio abbiano una logica e una moralità almeno questo è quello che spinge la mia azione da quando sono entrato qui dentro. Io posso capire tutto, ma col mio voto lui non ci va. Io la proposta che porta in Cassazione un magistrato che ha copiato delle parti di opere altrui non la voto. È in gioco il valore scientifico di questo magistrato e se ci sono episodi del genere per me il valore scientifico di un copiatore è pari allo zero, la commissione evidentemente non si è avveduta di questi profili». Furioso anche il togato Nino di Matteo: «Esprimo il mio disagio e la mia profonda amarezza, in un momento nel quale la nostra credibilità come consiglio è fortemente incrinata da varie vicende, noi discutiamo per ore se premiare, perché di questo si tratta, con l'accesso in Cassazione un giovane magistrato che evidentemente alla spasmodica ricerca di un conseguimento dei titoli per la carriera è incorso in evidenti passi falsi. Speravo non si arrivasse nemmeno a questa discussione». Lodovica Bulian

Il no alla responsabilità dei magistrati. "Referendum manipolativo e creativo". Luca Fazzo il 3 Marzo 2022 su Il Giornale.

La Consulta spiega le bocciature anche dei quesiti su droghe e fine vita. In Aula Pd, 5s e Iv votano compatti sull'eutanasia.  

Meno male che prima della decisione sui referendum della Corte Costituzionale, il suo neopresidente Giuliano Amato aveva invitato i suoi colleghi a «impegnarsi al massimo per consentire il voto popolare» diffidandoli dal cercare «il pelo nell'uovo per buttarli nel cestino». Ora si scopre che se agli elettori italiani non è stato permesso di esprimersi sulla responsabilità civile dei giudici, ovvero sull'obbligo per i magistrati di pagare di tasca propria per i propri errori, è perché il quesito proposto da radicali e Lega è stato considerato «manipolativo e creativo». Secondo la sentenza della Consulta, si puntava non a abolire una legge esistente ma a crearne una nuova con la tecnica del «ritaglio abrogativo». Si tratta in realtà di una tecnica che da sempre viene usata per formulare i quesiti referendari, e che in passato è stata bocciata dalla Corte solo quando ne risultava una domanda talmente complessa da risultare incomprensibile all'elettore medio, mentre in questo caso il quesito che l'elettore si sarebbe trovato sulla scheda era di poche e semplici righe. Invece viene bocciato, mentre è stata data via libera a un altro quesito sulla giustizia, quello sulla separazione delle carriere: interminabile (oltre mille parole) e tecnicamente assai complicato.

Invece qui la domanda era semplice. La legge sui danni da malagiustizia ingiusta oggi stabilisce che chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un atto posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave» «può agire contro lo Stato per il risarcimento dei danni». Il referendum abrogava le parole «contro lo Stato», e indicava così il magistrato come destinatario diretto delle richieste di risarcimento. Una conseguenza che la Consulta ha considerato «privo della necessaria chiarezza e univocità». Che in realtà fosse proprio il risultato finale a non essere particolarmente apprezzato dai giudici di Amato lo rivela un passaggio in cui la sentenza rimarca come la normativa attuale, per cui a risarcire la vittima degli errori giudiziari non è il giudice che li commette ma lo Stato, è «largamente presente negli ordinamenti degli Stati europei». E questa resterà la situazione anche in Italia.

Ieri la Consulta ha depositato anche le motivazioni di altri due dinieghi alle consultazioni referendarie: la inammissibilità dei quesiti sulla depenalizzazione della cannabis e sul suicidio assistito. Su questi due versanti le sentenze rispecchiano quanto anticipato nelle dichiarazioni di Giuliano Amato subito dopo la camera di consiglio. Il quesito sulla droga leggera viene bocciato perché in contrasto con le convenzioni internazionali sugli stupefacenti, in quanto il risultato sarebbe stato liberalizzare la coltivazione anche delle sostanze base delle droghe pesanti.

Il referendum sul suicidio assistito, che in realtà depenalizzava il reato di omicidio del consenziente, secondo la Consulta «avrebbe reso lecito l'omicidio di chi vi abbia validamente consentito, a prescindere dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell'autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata. In questo modo si sarebbe messo a rischio il diritto alla vita «soprattutto, ma non soltanto, delle persone più deboli e vulnerabili di fronte a scelte estreme, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate». Dopo il niet della Corte, il tema torna a essere affidato al Parlamento dove una proposta di legge è già presente: e dove l'asse tra sinistra e grillini ieri ha respinto alcuni emendamenti del centrodestra che puntavano a ridurre ai casi di «prognosi infausta» e «a breve termine» i casi di suicidio assistito.

L'ultimo privilegio. Augusto Minzolini il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Non c'è dubbio che la decisione della Consulta di giudicare ammissibili cinque dei sei referendum sulla giustizia offre una grande occasione.

Non c'è dubbio che la decisione della Consulta di giudicare ammissibili cinque dei sei referendum sulla giustizia offre una grande occasione: se i cittadini diranno «sì» ai quesiti si potrà davvero scrivere la parola fine su un'epoca. Sarebbe il segno evidente del passaggio dalla fase del giustizialismo più becero, definiamolo del Terrore, al ritorno ad una normalità in cui i magistrati non si improvvisano politici, i giudici fanno i giudici e i Pm tornano ad essere Pm: la normalità del Termidoro. E, come avvenne allora, quando, per chiudere la fase più cruenta della Rivoluzione francese, i giacobini furono mandati al patibolo, anche oggi per fare i conti con la falsa Rivoluzione italiana, c'è stato bisogno che i protagonisti di un certo modo di indossare la toga - da Ingroia a Davigo, a De Pasquale - finissero alla sbarra. Per capire quelle migliaia e migliaia di cittadini che si sono sentite vittime di un'inchiesta o di una sentenza sbagliata, infatti, anche loro dovevano provarlo sulla propria pelle.

Dico questo non per spicciola retorica «garantista» ma per spezzare una lancia in favore dell'unico quesito che purtroppo non è stato ammesso: quello sulla responsabilità civile dei giudici. Sarebbe stato molto meglio se anche questo referendum avesse superato il vaglio della Corte perché un magistrato per esercitare bene la sua missione nella società (perché di questo si tratta) deve essere messo - e sentirsi - nei panni di un cittadino comune di fronte alla giustizia. Come capita ad un medico, ad un ingegnere, ad un fiscalista, ad un artigiano o all'esponente di una qualsiasi altra categoria, financo ad un politico. Deve essere premiato per i meriti e deve pagare per gli errori. In prima persona, come tutti gli altri. E non nascondersi dietro lo Stato, come prevede il meccanismo con cui si è aggirato un altro referendum sullo stesso tema che ha ricevuto il «sì» degli italiani. Deve mutare, insomma, la mentalità con cui un magistrato si rapporta ad un indagato, ad un imputato: un cittadino che non ha solo presunte colpe ma anche diritti. Perché, diciamoci la verità, una toga che si sente onnipotente e irresponsabile delle proprie azioni ci mette poco a prendere la tangente e a pronunciare frasi del tipo (citazione di Davigo): «Non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state raccolte prove».

Purtroppo la Consulta non ha avuto il coraggio di pronunciare quell'ultimo sì. E la valutazione deve essere stata politica o di opportunità, visto che non possono esserci state riserve sul testo rispetto ad un quesito che fu già ammesso e addirittura approvato dagli italiani diverse decadi fa. È l'ultimo privilegio lasciato alla «casta» che fa il bello e il cattivo tempo in Italia, l'unica che davvero conta, e che ha soppiantato la «casta» dei politici (pavida) nel nome di Tangentopoli - ormai è preistoria - trent'anni fa. Augusto Minzolini

Fabrizio Cicchitto bacchetta Giuliano Amato: l'errore della Corte Costituzionale sulla responsabilità civile. Fabrizio Cicchitto su Il Tempo il 19 febbraio 2022.

Caro direttore, tranne che su un punto, a nostro avviso la Consulta ha fatto una pronuncia equilibrata sia sui referendum ammessi che su quelli non ammessi. Le questioni riguardanti sia la sostanza che la forma con cui erano stati redatti i referendum sul fine vita e sulla cannabis (o su tutte le droghe come ha affermato il presidente Amato) sono così delicate che è giusto vengano affrontate e sciolte dal parlamento. Francamente non condividiamo i toni polemici usati da Cappato (che abbiamo apprezzato in altre occasioni) nei confronti di Giuliano Amato. Lo ha attaccato addirittura per aver parlato in modo anticipato rispetto alle motivazioni scritte. Al contrario a nostro avviso è stata una prova di «laicità» e di disponibilità al dibattito. Così la Corte perde una parte della sua «sacralità» irraggiungibile e il suo presidente scende fra i comuni mortali esprimendo subito le sue ragioni, a cui evidentemente è lecito contrapporre altre ragioni. Anche noi in ben altre materie e in ben altre occasioni (su tutta la vicenda politica degli anni '92-'94 e sul suo atteggiamento «finale» - 1993 - nei confronti di Bettino Craxi) abbiamo affermato che in Giuliano Amato c'è uno squilibrio fra la sua straordinaria cultura, la sua straordinaria intelligenza e il suo coraggio (per dirla scherzosamente si sono incontrati quando il nostro aveva tre anni, presi e schiaffi, e mai più visti).

Invece dove contestiamo il deliberato della Corte non per una questione di coraggio, ma per una ragione più profonda, è sul rifiuto di ammissione per il referendum sulla responsabilità civile dei giudici. La Corte non lo ammette per una ragione «sistemica» già spiegata nel libro di Palamara e Sallusti. Da sempre la Corte Costituzionale si sente parte di un sistema in qualche modo collegato alla Cassazione e al quadro di potere della magistratura. In nome di questo sistema poi la Corte Costituzionale nella sua storia ha agito in modo più rigido e fazioso oppure in modo più flessibile ed aperto. In questo caso a nostro avviso si è mossa con maglie più larghe, visto che poi ha dato via libera a tutti gli altri referendum riguardanti la giustizia. Di conseguenza l'apertura va riconosciuta alla Corte e il merito è dei radicali e di Matteo Salvini (al quale riconosciamo di essersi esposto in una materia decisiva, anche se manteniamo il nostro dissenso su tutte le sue posizioni riguardanti il Covid). Una riserva abbiamo anche sugli eccessivi limiti dati non dalla Corte Costituzionale, ma dagli estensori dei testi dei referendum per ciò che riguarda l'intervento sulla legge Severino. Su di essa abbiamo un parere opposto a quello del potentissimo procuratore Cantone: a nostro avviso è una legge iniqua in tutta la sua impostazione perché fa venir meno i tre gradi di giudizio. Poi nell'impostazione referendaria si esclude l'automatismo derivante dalla prima sentenza, ma si consegna tutto il potere di decisione ai giudici: dalla padella alla brace.

Comunque sono rimasti in piedi gli altri referendum e a nostro avviso è decisivo quello sulla divisione delle carriere. Per noi sdoppiamento delle carriere deve avere come conseguenza anche lo sdoppiamento dei Csm. Larga parte del nodo giustizia deriva dal connubio di magistratura giudicante e magistratura inquirente. Per assicurare l'effettiva terzietà del magistrato giudicante occorre sdoppiare le carriere. Per quanto è possibile l'accusa e la difesa devono essere messi sullo stesso piano. Questa parificazione non avverrà mai in modo completo perché i pm sono «dominus» del processo nella decisiva fase delle indagini preliminare e, avendo una connessione strettissima con almeno un paio di cronisti giudiziari e qualche talk show, gestiscono anche tutte le violazioni del segreto istruttorio che oramai sono parte organica di tutti i processi significativi. Inoltre se c'è lo sdoppiamento delle carriere e dei Csm viene meno uno snodo decisivo del potere interno alla magistratura. Attualmente il Csm è fatto dalle correnti e a loro volta le correnti sono dominate dai magistrati inquirenti, che quindi sono i padroni del Csm. Ma il Csm in quanto tale è la struttura decisiva per le carriere di tutti i magistrati, quindi in ultima analisi i pm, che dominano il Csm, sono determinanti per la carriera dei magistrati giudicanti. È inutile spendere altre materie sull'argomento.

Adesso la partita si sposta anche sul terreno del quorum. È sacrosanta la proposta di un election day per amministrative e referendum. Infine mentre è evidente che il centrodestra sui referendum per la giustizia si divide (da un lato Lega e Forza Italia, dall'altro la Meloni), sarà interessante vedere quale sarà la linea del Pd. Fino a qualche tempo fa prima il Pds e poi il Pd sono stati il partito della procura di Milano, anche perché essa li aveva salvati e aveva anche realizzato quello che era l'obiettivo di fondo di Berlinguer e dei suoi «ragazzi» (Occhetto, D'Alema, Veltroni): rovesciare per via giudiziaria il verdetto della storia, distruggere il Psi e affermarsi come unico partito della sinistra. Siccome però la ghigliottina giudiziaria non si ferma mai, negli ultimi tempi essa ha investito anche esponenti del Pd. Allo stato Enrico Letta è schiacciato sull'Anm e sul Csm. Il silenzio del Pd sulla pubblicità data dai pm fiorentini alla lettera privata di Tiziano Renzi è insieme assordante e indecente. Comunque sarà interessante vedere se all'interno del Pd sulla vicenda dei referendum emergerà o meno un'area garantista. 

Rivalsa impossibile sulle toghe che sbagliano. La casta resta impunita: 8 condanne in 11 anni. Stefano Zurlo il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Già nel 1987, i cittadini chiesero che il magistrato pagasse per i propri errori. Ora è lo Stato a risarcire le vittime ma solo l'1,4% delle cause arriva in porto. 

Si contano sulle dita di due mani. Otto condanne in 11 anni. Briciole, quasi elemosine. Con tutto il rispetto, un'offesa verso i cittadini che si sono visti calpestare nei loro diritti e verso la collettività che chiede giustizia. La legge sulla responsabilità civile dei magistrati non funziona anche se un referendum, nell'87, aveva annunciato fra squilli di tromba il vento del cambiamento. I sì raccolsero l'80,2% e tutti immaginavano quel che poi puntualmente non è successo. La corporazione non si tocca. Nell'88 con la legge Vassalli viene introdotto un meccanismo risarcitorio, ma è indiretto: il cittadino propone la condanna dello Stato e poi sarà quest'ultimo, semmai, a rivalersi sulla toga che ha commesso errori imperdonabili.

Non si tratta di punire in modo astratto, ma di colpire situazioni obiettivamente vergognose se non inguardabili. Un esempio? Ha fatto scuola la storia di Marianna Manduca che a Caltagirone aveva denunciato il marito violento dodici volte e poi è stata uccisa. Si possono ignorare dodici campanelli d'allarme?

Arrivare a una sanzione è impresa difficilissima. Parliamo di undici condanne dello Stato fra il 2010 e il 2021, ma nessuno sa se ci sia stato il secondo passaggio. Le toghe che hanno dovuto mettere mano al portafoglio sono ancora meno e si avvicinano allo zero.

Surreale. E, peggio, ora par di capire che la Consulta si sia attaccata proprio al passato per mantenere lo status quo; poiché c'è sempre stata la responsabilità indiretta ora non si può per via referendaria passare a quella diretta: il cittadino contro la toga. «Sarebbe - ha spiegato il Presidente della Consulta Giuliano Amato - un referendum innovativo e non abrogativo».

Eminenti giuristi sottolineano che meccanismi di risarcimento spicci suonerebbero poi come forme di intimidazione per i giudici che fanno il loro lavoro e, talvolta, sbagliano. Tutto può essere, ma i dati sono sconfortanti. La punizione pecuniaria del magistrato negligente e impreparato, anche di quello che ha combinato un disastro, è per quanto se ne sa, rarissima. Affidata a procedure lente e farraginose. Con quei due procedimenti civili che richiedono tempi lunghissimi - e il secondo segmento è di fatto un mistero - e la pazienza di Giobbe. Gli importi poi sono contenuti: una media, fra il 2005 e il 2014, di 54 mila euro.

Nel 2015 l'allora Guardasigilli Andrea Orlando aveva eliminato la strozzatura rappresentata dal filtro di ammissibilità e il presidente dell'Anm Rodolfo Sabelli aveva tuonato contro la norma: «È una rivoluzione contro la giustizia e contro l'autonomia della magistratura». Previsioni apocalittiche smentite dai fatti.

I numeri sono sempre modesti, modestissimi, quasi insignificanti. Otto condanne negli anni precedenti e in quelli successivi. Tre nei tribunali, cinque in Cassazione. A conti fatti, solo l'1,4% delle 544 cause avviate in quel periodo. Una miseria e parliamo sempre del primo round. Anche per questo quello sulla responsabilità diretta era il più popolare dei referendum. L' hanno bocciato un'altra volta. L'ultima chance è affidata a un emendamento del deputato di Azione Enrico Costa che vorrebbe introdurre il correttivo nel testo della riforma Cartabia del Csm. L'emendamento è già stato presentato, ma è facile pensare che prima o poi si arenerà. Stefano Zurlo

"I magistrati si danno i voti da soli: anche gli avvocati tra i controllori". Stefano Zurlo il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'avvocato ed ex parlamentare di Fi: "La Disciplinare del Csm va aperta ai legali: operano nello stesso campo e conoscono la realtà". Sono fuori controllo. «Il punto - afferma Maurizio Paniz, parlamentare di Forza Italia per tre legislature e avvocato oggi impegnato sul fronte dei vitalizi - è che la magistratura ha acquisito un potere enorme ma non ne risponde. C'è uno squilibrio evidente».

Ora arrivano i referendum. Saranno una forma di vendetta affidata al popolo?

«No, nessuna vendetta o ritorsione, ci mancherebbe. Il problema è che l'opinione pubblica è disorientata, ci sono stati troppi scandali, troppi abusi, troppe persone finite in carcere per errore. Adesso dobbiamo riequilibrare il sistema».

Ma non ci sono già le riforme della ministra Cartabia?

«Per quanto mi riguarda sono deboli, affrontano alcuni aspetti del problema ma non incidono in profondità sulle cause di queste gravi disfunzioni».

E quali sono le cause?

«Semplice: la magistratura funziona come una corporazione che si amministra da sola, si dà i voti da sola, si processa da sola. E non tollera non dico intrusioni, ma critiche o osservazioni. In questo modo purtroppo i giudici italiani hanno dilapidato il capitale di stima che avevano conquistato sul campo della lotta alla mafia, al terrorismo, alla corruzione».

Adesso?

«Il parlamento si metta al lavoro per rinnovare il Consiglio superiore della magistratura. Modificando anche l'ingresso, magari con il sorteggio, e sottraendolo ai capricci delle correnti».

I partiti si divideranno?

«Gli uomini bravi e preparati ci sono in tutte le formazioni. Ma il Consiglio superiore della magistratura non può rimanere quello di oggi. Due sono gli interventi necessari, sollecitati indirettamente dalle firme raccolte per i referendum: ci vuole una Disciplinare che dia sanzioni adeguate alle mancanze che via via vengono scoperte e vanno introdotti criteri di merito per la progressione in carriera. Oggi le valutazioni sono tutte applausi e lodi. Possibile?».

Ma come si fa a cambiare?

«Ripeto: non possono essere solo i magistrati a dare le pagelle sui loro colleghi. Così l'apparato proteggerà sempre se stesso. Ci vogliono anche controllori esterni, anzitutto avvocati, perché gli avvocati si muovono sullo stesso campo e conoscono la realtà».

Al posto della Disciplinare anche lei immagina, come altri, un'Alta corte esterna?

«No, possiamo pure lasciare la Disciplinare dentro il Consiglio superiore, ma anche qui la sua composizione va integrata con avvocati e immettendo energie positive che non appartengano alla magistratura».

È giusto intervenire sulla custodia cautelare?

«Certo che è giusto. Il carcere preventivo dev'essere un'eccezione e invece più di una toga mi ha confessato che la custodia cautelare alla fine è figlia dell'inefficienza del sistema».

La si scambia per il verdetto?

«È un'amata verità. Poiché le pene, ancora di più quelle definitive, arrivano se arrivano dopo anni e anni e spesso il procedimento si perde prima, allora alcuni anticipano nella prima fase, quella dell'inchiesta, la condanna che non ci sarà».

Sulla Severino Forza Italia, che all'epoca votò la nuova norma, ha ingranato la retromarcia?

«Io non l'avevo votata e per due ragioni. La prima: mancava quella che si chiama tipizzazione di alcuni reati, perché il rischio di sconfinare nell'illecito è sempre alto, a maggior ragione in un Paese che è lastricato di norme di tutti i tipi, pasticciate e confuse. E poi non si capisce perché il politico debba essere affondato da sanzioni peggiorative come la Severino rispetto agli altri».

Lei è l'avvocato dei vitalizi e molti ex deputati e senatori fanno la fila nel suo studio.

«Guardi, chi ha sbagliato deve pagare e scontare la condanna. Ma non mi sta bene che l'ergastolano riceva la pensione e un ex della politica, anche se ha pagato i contributi, debba perdere il vitalizio».

Ma dal Palazzo non sarebbe lecito aspettarsi standard più elevati di moralità?

«Va bene, ma lo si faccia con codici etici, non per legge. Invece, la politica, non più sostenuta dalla vecchia immunità, ha paura a contestare le toghe. Ora però è giunto il momento di rimettere anche quel contrappeso». Stefano Zurlo

Responsabilità civile dei magistrati, niente referendum: vi ricordate in che partito militava Giuliano Amato? Iuri Maria Prado Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022. 

Saranno sicuramente molto sottili le argomentazioni con cui la Corte costituzionale motiverà la propria decisione di impedire ai cittadini di votare per il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Ma quella sottigliezza non renderà ragione di un fatto che l'Italia incanutita ricorderà: un quesito analogo fu dalla Corte ritenuto perfettamente ammissibile nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso, il "Referendum Tortora". Sappiamo delle abilità della Consulta nel maneggio delle norme. 

Ma lascia un sottile sospetto il fatto che la decisione di inammissibilità sia ricaduta proprio su quel quesito: un argomento che la Corte di quasi quarant'anni fa aveva affrontato con qualche grossolanità se non aveva individuato motivi sufficienti per respingere la richiesta. Amen. 

Serve aggiungere che qualche malizioso ora ricorda che un certo Partito Socialista Italiano sostenne quel passato referendum: con il quale si richiedeva che il magistrato rispondesse direttamente dei danni causati dal proprio comportamento abusivo o negligente. Non ricordiamo in quale partito militasse allora il presidente Giuliano Amato.

Giustizia, Roberto Calderoli: "Sono stupito, nel 1987...". Gioco sporco della Consulta per "proteggere" i magistrati? Libero Quotidiano il 17 febbraio 2022

La Consulta ha ammesso cinque quesiti sulla giustizia. Proposti e depositati dalla Lega e dai Radicali, i due partiti hanno visto bocciare solo la responsabilità civile dei magistrati. Un buon risultato per il Carroccio, anche se Roberto Calderoli non nasconde una certa amarezza. In collegamento con L'Aria Che Tira su La7, il leghista vicepresidente del Senato esordisce: "Avrei preferito fosse un 6 a zero e non un cinque a 1, diciamo che il bicchiere è quasi pieno". Nonostante questo Calderoli tiene a precisare con Myrta Merlino che "le difficoltà sui referendum ci sono sempre, ma io i 'no' li rispetto e invito ad andare a votare".

L'unica rimostranza? Un po' di stupore. "Mi ha sorpreso che la Consulta abbia bocciato la responsabilità diretta civile dei magistrati, per dolo o per colpa, perché il referendum che si è svolto nel 1987 era assolutamente analogo e dichiarato ammissibile, quindi non si capisce perché nel 2022 invece diventa inammissibile". Invitato dalla conduttrice, Calderoli scende nel dettaglio e spiega la differenza tra responsabilità diretta e indiretta. "In questo momento chiunque si senta danneggiato per colpa di un magistrato deve agire contro lo Stato. Se lo Stato viene condannato, allora può rivelarsi sul magistrato ma solo in parte nel suo stipendio. Il nostro obiettivo era invece quello di far cadere la responsabilità sia sullo Stato che sul magistrato".

Un quesito molto vicino alla sensibilità popolare, tanto che ora si teme il non raggiungimento del quorum. Se questo non viene raggiunto, la disposizione in oggetto non può essere abrogata. Intanto sono stati approvati i quesiti sulle funzioni da riconoscere ai consigli giudiziari, sull'indebolimento delle correnti, sulla separazione delle funzioni dei magistrati, sull'abrogazione della legge Severino e sui limiti della custodia cautelare in carcere.

Nei 5Stelle vince la linea manettara. Pasquale Napolitano il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Ennesimo schiaffo a Di Maio che aveva aperto a tesi garantiste. Il blocco giustizialista impone il no ai referendum sulla giustizia nel M5s. La linea Travaglio-Conte-Bonafede regge. Anzi, appare invalicabile anche per l'ex leader dei Cinque stelle Luigi Di Maio, che resta isolato dopo le sue (seppur timide) aperture al fronte garantista.

Il diktat arriva netto dalle pagine del Fatto Quotidiano, la voce più ascoltata nel Movimento a trazione Conte-Di Battista: «Volete i ladri liberi e pure in Parlamento?», titolava ieri il quotidiano diretto da Marco Travaglio. Un monito. Non aprire varchi e cedimenti sul fronte garantista. Una linea già preannunciata nelle parole del leader Giuseppe Conte: «Da ampio confronto interno è emersa una valutazione: i quesiti referendari sulla giustizia offrono una visione parziale e sicuramente sono inidonei a migliorare il servizio e a rendere più efficiente e più equo il servizio della giustizia».

L'ala giustizialista è ancora la maggioranza tra i Cinque stelle. Restano da capire le opzioni: no al quesito o astensione, per impedire il raggiungimento dei quorum. Si aspetterà anche l'esito delle valutazioni in casa Pd. Enrico Letta convocherà la direzione per capire quale posizione assumere sui referendum sulla giustizia. Nel Pd il fronte garantista è più solido. La difesa del fortino giustizialista, ragionano gli spin di Conte, servirà a recuperare anche uno spicchio di identità e voto degli ortodossi.

Si consuma così un nuovo schiaffo al ministro degli Esteri. Di Maio, non più tardi di un anno fa, in una lettera al Foglio, aveva aperto la stagione garantista nel Movimento con le letture di scuse all'ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, condannato e poi assolto in appello dall'accusa di turbativa d'asta. L'ex capo politico si era detto pentito per aver «esacerbato il clima» e trova oggi «grottesche e disdicevoli» le modalità scelte allora per combattere la battaglia politica. Ma ora il suo partito imbocca, di nuovo, la strada del giustizialismo urlato. Di Maio sarebbe orientato a votare solo il quesito sulla Severino.

L'ex leader è finito in un cul de sac. Schiacciato dalla fronda giustizialista e anti-Draghi nel Movimento, rischia di finire nella trappola del limite al doppio mandato. Di Maio ha già alle spalle due legislature. E in base alla regola madre del Movimento, blindata in questi giorni da Beppe Grillo, nel 2023 dovrà mollare la poltrona. Si ragiona su un lodo per concedere alcune deroghe. Di Maio, Fico e lo stesso Bonafede. Di Maio ci spera. È a un bivio: lanciare la sfida a Conte per strappargli la leadership o trovare rifugio in un altro partito. I centristi lo corteggiano sfacciatamente. Di Maio per ora non cede. Pasquale Napolitano

Immunità parlamentare, da Renzi a Giovanardi vietato indagare sugli eletti. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 18 febbraio 2022

Nei giorni in cui la politica dibatte sulla storia di Mani Pulite, la giunta per le immunità del Senato si è resa protagonista una raffica di no a procure e tribunali, che vanno ad aggiungersi a quelli della Camera e di Palazzo Madama dall’inizio della legislatura.

Martedì 22 febbraio l’Aula dovrà esprimersi su Matteo Renzi (Iv), accusato di finanziamento illecito ai partiti. La giunta a dicembre aveva appoggiato il senatore e respinto la richiesta di arresto per Cesaro (Fi).

Mercoledì scorso, dopo che l’Aula ha salvato Giovanardi, la giunta ha deciso su Siri accusato di corruzione: le intercettazioni per i parlamentari non risultano necessarie né casuali, e così è stata negata l’autorizzazione al loro utilizzo. 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore. 

Giustizia, Marcello Sorgi: "L'anima filo-magistrati nel Pd", ecco perché Matteo Salvini deve fare attenzione. Libero Quotidiano il 17 febbraio 2022

Esclusa la vicenda di Open arms, "non si capisce cosa abbia spinto Salvini - che ieri ha proclamato vittoria - a sottoscrivere i referendum sulla giustizia e sulla legge Severino e andare incontro a una sconfitta più che probabile", scrive Marcello Sorgi nel suo editoriale su La Stampa. Perché il leader della Lega, rischia di andarsi a schiantare. Il Pd del resto non lo voterà, per la storica vicinanza con la magistratura, e i Cinque stelle nemmeno. 

Spiega ancora Sorgi nel suo articolo che "la storia dei referendum dimostra infatti che la vittoria di uno o dell'altro schieramento è garantita dalle percentuali dei partiti che sottoscrivono il Sì o il No" e stando agli "ultimi test di partecipazione", "meno di metà dei cittadini" sono andati a votare. Insomma, anche questa volta, si rischia di non raggiungere il quorum e dunque il fallimento.

Ma non solo Matteo Salvini, ragiona Sorgi rischia di uscirne battuto per il concreto flop delle consultazioni anche se "non potrebbe essere caricato tutto sulle sue spalle". Il leader della Lega potrebbe uscirne male nel "merito". Qui, osserva l'editorialista, "la solitudine del Capitano leghista rende ancora più incomprensibile la sua strategia. Dopo il 'no' parziale di Meloni, che ha subito imbracciato la bandiera del 'legge e ordine' tipica della destra, con Salvini, oltre ai radicali che hanno promosso la raccolta delle firme, si son schierati i soli Berlusconi e Renzi". Il Pd infatti, punta all'astensionismo "in nome de 'le riforme si fanno in Parlamento', perché il contrario, nel caso del 'Si', vorrebbe dire dare una mano a Salvini, e nel caso del 'No' a Meloni. Inoltre schierarsi sarebbe impossibile, dato che nel partito convive un'anima filo magistrati e una contraria. ". E per quanto riguarda i 5 stelle, "è più logico immaginarli con il 'No', in nome della loro tradizionale solidarietà con i giudici".   

Il Pd blinda le toghe rosse: vogliono insabbiare la richiesta di indagini sugli scandali giudiziari. F.S. su Il Tempo il 17 febbraio 2022

No, non ne vogliono sapere di indagare sulla magistratura di parte. Pd, Cinque stelle, Leu, stanno tentando di affossare nella commissione giustizia del Senato la proposta di un’inchiesta parlamentare sui recenti scandali giudiziari emersi anche con l’indagine su Luca Palamara. Ci sono tre proposte di commissione d’inchiesta presentate dai vari gruppi del centrodestra: la prima a firma di Annamaria Bernini di Forza Italia, quella di Fratelli d’Italia, sottoscritta da Alberto Balboni, e quella depositata dal presidente della commissione giustizia, il leghista Andrea Ostellari. Ieri si è cominciato a discuterne a Palazzo Madama e dai primi interventi in commissione da Pd e Cinque stelle si è alzato un muro: ci sono altre priorità, è il ritornello di chi non vuole che si vada a fondo sulle distorsioni del sistema giudiziario emerse anche con l’inchiesta Palamara.

Quell’indagine – ha denunciato il relatore delle proposte di legge – il leghista Pepe, mette a nudo le ombre esistenti “sul principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, descrivendolo come un usbergo dietro il quale si nasconde in realtà il massimo della discrezionalità dei pubblici ministeri”. E dal ddl Ostellari si nota come Palamara, nel tentativo di articolare la propria difesa in seno al pro- cedimento disciplinare che lo riguardava, “aveva depositato una lista testi di ben 133 persone, tutte individuate tra magistrati ed esponenti politici, al dichiarato scopo di dimostrare che la contestazione disciplinare a lui singolarmente mossa altro non era che il normale modo di agire del sistema delle correnti allorquando andava trovato un accordo per la designazione di un magistrato ad un incarico direttivo”. Ma il Csm evitò di sentirli. La contraerea rispetto al tentativo di fare luce con un’inchiesta parlamentare monocamerale ha visto come alfiere il senatore Mirabelli dei Pd. E’ sato proprio lui a indicare “altre priorità per il sistema   giustizia come la legge sull’ordinamento giudiziario, la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, l’impatto dei referendum sulla giustizia”, ed altro ancora. Come se la verifica dell’esercizio corretto dell’azione giudiziaria non debba essere considerato doveroso.

Ovviamente, a braccetto con Mirabelli è andata la senatrice grillina Maiorino, senza alcun intervento concreto sul tema. Invece, ha detto sì alla commissione d’inchiesta il parlamentare di Italia Viva Cucca, che ha evidenziato come l’eventuale riforma del Consiglio Superiore della Magistratura non cancellerà nei cittadini le perplessità che determinati fatti hanno fatto emergere. Se ne tornerà a parlare nelle prossime sedute, auspicando una celere definizione dell’iter delle proposte che giacciono in commissione. Se il Parlamento accetterà di verificare le anomalie emerse, ne guadagneranno la credibilità della politica e della stessa giustizia. Perdere un’occasione del genere non rappresenterebbe altro che una resa a sistemi in voga da troppo tempo e che i cittadini chiedono di cancellare definitivamente. F.S.

Giulia Bongiorno, "quanti magistrati sono indagati": lo scandalo di cui nessuno parla. Libero Quotidiano il 15 febbraio 2022.

“Partiamo da un presupposto: è il momento più buio della magistratura”. Parole di Giulia Bongiorno, che ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera sul delicato tema della giustizia. “È necessario un reale cambiamento - ha dichiarato la senatrice della Lega - la degenerazione del correntismo ha conseguenze gravi, infonde sfiducia nei cittadini e non rende merito a moltissimi magistrati per bene”.

La Bongiorno ha fatto notare che la crisi della magistratura è addirittura sfociata in una guerra intestina: “Se prima si parlava della guerra tra politici e magistrati, oggi il conflitto è interno: ha visto lo scontro tra Consiglio di Stato e Csm? E non ha idea di quanti siano i magistrati indagati. Dunque, non è il momento di ritocchi. La casa del Csm non va puntellata ma abbattuta e ricostruita”.

Inoltre la senatrice leghista ha spiegato perché è stato proposto un referendum sulla giustizia se c’è la riforma della ministra Marta Cartabia: “Possono procedere in parallelo. Ma noi con i referendum vorremmo arrivare ad una vera separazione delle carriere dei magistrati e affrontare temi neppure sfiorati come il contrasto all'abuso delle misure cautelari o la responsabilità civile dei magistrati… Io non contesto il lavoro della Cartabia, si trova in una situazione davvero complicata: in maggioranza ci sono sensibilità diverse. Le riforme richiederebbero coesione e tempo. E invece, non c'è né l'una né l’altro”.

Gratteri “assolto” dal Plenum del Csm: bocciato l’esposto di Caiazza. Il Plenum del Csm con 14 voti a favore archivia l'esposto presentato dall'Unione delle Camere penali italiane contro il procuratore Nicola Gratteri. Il Dubbio il 9 febbraio 2022.

Il Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura ha deciso di archiviare l’esposto dei penalisti italiani contro il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, a seguito di un’intervista rilasciata al Corriere della Sera il 21 gennaio 2021. La votazione finale (14 a favore dell’archiviazione e 10 astenuti) ha sostanzialmente spaccato il Csm.

Caiazza, nella denuncia presentata per conto dell’Unione delle Camere penali italiane, lamentava il fatto che Gratteri avrebbe reso dichiarazioni equivoche ed allusive nei confronti della magistratura giudicante del Distretto di Catanzaro.

L’esposto era stato inviato dal Comitato di Presidenza, presieduto dal vicepresidente David Ermini, alla prima commissione, competente per i profili disciplinari, la quale all’esito dell’istruttoria ha proposto l’archiviazione della pratica.  Come ha riferito il consigliere laico Alesso Lanzi, nella lettera scritta a nome dell’Ucpi Caiazza evidenziava «rilievi che da parte dell’Unione dalle Camere penali sono stati recepiti come “disdicevoli”» sia per il «comportamento del dichiarante», «sia per le» ripercussioni nei confronti dei giudici oggetto di queste dichiarazioni. Da qui la richiesta del consigliere di un approfondimento in commissione.

Non sono mancati gli scontri durante la discussione, ad esempio, tra Alessio Lanzi e Sebastiano Ardita, il primo a favore del ritorno in commissione e il secondo a favore dell’archiviazione, e tra Antonio D’Amato e Nino Di Matteo. Caso chiuso, tuttavia, dopo quasi due ore di dibattito. Il plenum ha archiviato anche un altro esposto nei confronti di Gratteri, presentato da Nicola Adamo, esponente politico calabrese, che, sempre in riferimento a dichiarazioni rilasciate dal Capo della procura di Catanzaro a organi di stampa, aveva lamentato la violazione del «dovere di riserbo incombente sui magistrati».

Il caso Gratteri “divide” il Csm, Lanzi: «Polvere sotto il tappeto». Archiviati gli esposti contro il procuratore di Catanzaro, ma il plenum si spacca: «Motivazioni lacunose». Di Matteo: poco trasparente è che vuole zittire i magistrati. Simona Musco su Il Dubbio il 10 febbraio 2022.

Due esposti contro il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e altrettante archiviazioni. Ma non senza passare da una lunga discussione, che ha diviso il plenum in due: da un lato chi ha votato favorevolmente alla proposta di archiviazione facendosi bastare la classica formula «non ci sono provvedimenti di competenza del Csm da adottare», dall’altro chi ha deciso di astenersi, come forma di “protesta” nei confronti di un metodo poco trasparente.

Al centro della discussione, in particolare, l’esposto presentato dal presidente dell’Unione delle Camere penali Gian Domenico Caiazza, che lamentava le «improvvide e gravi dichiarazioni» di Gratteri in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera dopo l’operazione “Basso profilo”, nella quale era coinvolto, tra gli altri, anche il segretario nazionale dell’Udc, Lorenzo Cesa, la cui posizione è stata recentemente archiviata. Un’intervista allusiva, secondo Caiazza: alla domanda di Bianconi, che chiese al procuratore come mai «le indagini della sua Procura con decine o centinaia di arresti, vengono spesso ridimensionate dal tribunale del riesame o nei diversi gradi di giudizio», il procuratore rispose facendo riferimento a non meglio precisate “situazioni” che avrebbero riguardato i giudici. «Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti – aveva sottolineato -. Così è avvenuto anche in questo caso. Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni». All’ulteriore domanda se intendesse riferirsi a indagini in corso su giudici, il procuratore aveva replicato: «Su questo ovviamente non posso rispondere».

Subito dopo l’intervista, l’Ucpi decise di rivolgersi al Csm, chiedendosi se «dobbiamo immaginare che il tema della indipendenza e della autonomia della magistratura vale solo a salvaguardia delle iniziative giudiziarie delle procure, ma non dei giudici che ne vagliano il fondamento». Ad infiammare la discussione a Palazzo dei Marescialli non è stato però tanto il merito della questione, che si è chiusa con 14 voti a favore dell’archiviazione e 10 astensioni – tra le quali anche quelle del primo presidente Pietro Curzio e del Pg della Cassazione Giovanni Salvi -, ma proprio il mancato approfondimento della stessa. Secondo i consiglieri astenuti, la delibera sarebbe infatti monca, in quanto priva di motivazione. Così il laico di Forza Italia Alessio Lanzi ne aveva richiesto il ritorno in prima Commissione, evidenziando che non si può «liquidare con una battuta» l’esposto dei penalisti e sottolineando la necessità di svolgere «indagini per capire cosa è successo». Secondo Lanzi, inoltre, sarebbe stato doveroso aprire anche una pratica a tutela dei giudici di Catanzaro, «anche perché in passato lo si è fatto per molto meno».

Il plenum, però, ha respinto a maggioranza la richiesta, accogliendo la posizione del relatore Carmelo Celentano, secondo cui «in tutti i casi» in cui il Csm archivia un fascicolo perché non ci sono provvedimenti di sua competenza da adottare, «non dà una motivazione compiuta». Secondo il togato Sebastiano Ardita, un approfondimento sarebbe stato inoltre impossibile, perché «sono state svolte indagini su alcuni magistrati che hanno portato a contestazioni per falso e corruzione – ha evidenziato -. Si tratta di fatti successivi a queste dichiarazioni, che hanno dimostrato che il problema c’era e non riguardava certo il procuratore». A luglio scorso, infatti, proprio il presidente del Riesame di Catanzaro, Giuseppe Valea, fu accusato di falso dalla procura di Salerno e interdetto nell’ambito di un’inchiesta scaturita proprio da una segnalazione di Gratteri al Consiglio giudiziario di Catanzaro.

Al momento delle dichiarazioni di voto, Lanzi ha dunque dichiarato la propria astensione definendo «strano» che si possa decidere «una questione di questo rilievo» senza avere a disposizione alcuna motivazione. «La sensazione – ha sottolineato – è che di queste cose proprio non si voglia parlare» e che si voglia mettere «la polvere sotto i tappeti. Non parliamo assolutamente, andiamo avanti così. Io non ho niente da dire o aggiungere rispetto all’esito, perché non può prescindere da una valutazione istruttoria». Favorevole all’archiviazione la togata di Area Alessandra Dal Moro, che però ha condiviso l’obiezione sulla lacunosità della motivazione, così come Ilaria Pepe, di Autonomia & Indipendenza, che ha votato sì «con profondissimo disagio perché questa non motivazione indebolisce anziché rafforzare questa pratica».

Per il laico Filippo Donati, che si è astenuto dal voto, «questa proposta di delibera è laconica», mentre per Loredana Miccichè, di Magistratura Indipendente, «questa vicenda avrebbe dovuto avere lo spazio e anche il rilievo che meritava nell’interesse di chi era coinvolto, compreso il procuratore Gratteri. Penso che forse oggi non abbiamo fatto un buon servizio». A lamentare la mancanza di trasparenza Antonio D’Amato, anche lui di Mi, secondo cui «quando analisti e commentatori leggeranno questo tipo di decisione noi avremo perso un’altra occasione per dimostrare la trasparenza del nostro operato». Accusa che il togato indipendente Nino Di Matteo ha però rispedito al mittente, criticando, invece, i limiti posti ai procuratori dalla nuova norma sulla presunzione d’innocenza, quella sì, dal suo punto di vista, un modo per rendere la giustizia meno trasparente. «Io penso che la polvere sotto i tappeti forse la vogliono riporre altri, coloro i quali auspicano che in nessun caso un procuratore della Repubblica possa illustrare i risultati delle inchieste, coloro i quali vogliono approfittare di queste situazioni di eventuali dichiarazioni per cercare di creare una tensione generalizzata in contesti già opachi e difficili che contrapponga i pm ai giudici», ha affermato.

Una norma, ha evidenziato, scritta anche dai penalisti, dal momento che il Parlamento «è composto da 132 avvocati e molti di questi sono penalisti e molti di questi sono aderenti all’Ucpi e continuano a svolgere la loro professione di avvocato mentre ricoprono importanti incarichi parlamentari. Ho sentito parlare anche di strumentalizzazioni da parte del consigliere D’Amato. Dico che purtroppo le strumentalizzazioni sono inevitabili: questo dibattito verrà prospettato come il dibattito di un Csm che si spacca sulla posizione, la condotta e le esternazioni del dottor Gratteri. Io invece credo che questo dibattito abbia allargato anche troppo i profili di approfondimento di una questione che dopo l’illustrazione del consigliere Celentano forse non meritava e non merita ulteriore dibattito».

Pd e Forza Italia dicono di sì. Un’Alta Corte per giudicare pure toghe, tanti consensi bipartisan. Angela Stella su Il Riformista l'8 Febbraio 2022. 

Mentre ieri la Ministra Cartabia incontrava per l’ennesima volta il premier Mario Draghi per fare il punto sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, nel dibattito rispuntava da più parti il tema, lanciato tempo fa da Luciano Violante, di un’Alta Corte, che funga da giudice di appello sulle decisioni disciplinari e amministrative del Consiglio Superiore della Magistratura.

La questione è tornata alla ribalta soprattutto dopo l’ultima pesante frizione tra Csm e Consiglio di Stato che ha decapitato i vertici della Cassazione a pochi giorni dall’inaugurazione dell’anno giudiziario. A rilanciare la proposta è stata ieri la responsabile giustizia del Partito democratico e vicepresidente del Senato, Anna Rossomando, dalle pagine di Repubblica: «Siamo talmente a favore, che abbiamo già presentato al Senato un disegno di legge a mia prima firma per istituirla. Nel Csm resterà una sezione disciplinare che giudica i magistrati – ha spiegato l’esponente dem – mentre l’Alta corte sarà un giudice di appello e ricorso per tutte le magistrature. Tutte le impugnazioni sia contro le decisioni disciplinari, che sulle nomine contestate saranno trattate lì».

La composizione ricalcherebbe quella della Corte Costituzionale: un terzo dei componenti eletti dal Capo dello Stato, un terzo dalle Camere e un terzo dalle magistrature. Al Senato è incardinato appunto un ddl di natura costituzionale proprio a firma Rossomando: «Modifiche al Titolo IV della Parte II della Costituzione in materia di istituzione dell’Alta Corte», annunciato nella seduta del 28 ottobre 2021, ma anticipato in un documento di maggio su tutte le riforme della giustizia da mettere in cantiere. E confermato da una recente dichiarazione sempre a questo giornale del dem Walter Verini.  Sulla possibilità che possa essere approvata una legge, occorre un’ampia volontà politica: «Sarebbe una bella dimostrazione di reale volontà riformatrice del Parlamento» ha concluso la Rossomando.

Nello specifico, secondo l’articolo 138 della Costituzione, «Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione». Quindi bisognerebbe davvero accelerare per raggiungere l’obiettivo in questa legislatura, non contando il possibile ostruzionismo della lobby della magistratura. Ma sulla primogenitura della proposta dell’Alta Corte, ieri è arrivata anche una nota della presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini: «Apprendo con soddisfazione che il Pd aderisce alla nostra proposta di un’Alta Corte esterna che funga da giudice di appello sulle decisioni disciplinari e amministrative del Csm. La commistione tra parte amministrativa e disciplinare è un elemento distorsivo che ha condizionato nel tempo nomine e carriere a piacimento della maggioranza, e dunque superare questo meccanismo va nella direzione da noi sempre indicata per arrivare a una reale riforma della giustizia. Vogliamo credere alle buone intenzioni e confidiamo sia la volta buona».

Ad accogliere positivamente l’iniziativa parlamentare sull’Alta Corte è stato il Presidente dell’Unione delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza, parlando all’Adnkronos: «L’ho sempre considerata una proposta sensata e interessante sulla quale si può lavorare. Bisognerà vedere nel dettaglio, naturalmente, come verrebbe strutturata e da chi sarà composta, ma il fatto di creare un soggetto giudicante in qualche modo esterno al Csm mi sembra una buona idea. Dunque l’apertura del Pd va salutata positivamente». Tra il dire e il fare la distanza è lunga e il leader dei penalisti ne è consapevole: «Mi auguro – conclude Caiazza – che non rimarrà tutto sulla carta, ma in ogni caso il varo dell’Alta Corte segnerebbe un passo ma ancora insufficiente. Bisogna comunque affrontare con coraggio i grandi temi della modifica dell’attuale automatismo dell’avanzamento delle carriere e il tema del distacco dei magistrati presso l’esecutivo. Sono due grandi temi che se non vengono affrontati non consentiranno una riforma autentica della crisi della magistratura italiana». Angela Stella

Alta Corte per i magistrati, Santalucia alza il muro: «Proposta inaccettabile». Il Dubbio l'8 febbraio 2022.

Il presidente dell'Anm, Giuseppe Santalucia al "Fatto" di Travaglio affida la sua opinione circa l'istituzione di un'Alta Corte che controlli il Csm. «Sarebbe incoerente con l'apparato costituzionale».

«È una proposta inaccettabile. Non è che il Csm oggi sia un luogo ideale o che non si debbano pensare delle riforme, ma devono essere collocate dentro la cornice costituzionale attuale che garantisce autonomia e indipendenza alla magistratura». Lo dice al Fatto Quotidiano il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia, bocciando l’idea di Luciano Violante di un’Alta Corte delle magistrature, un organismo con funzioni di giudice d’appello per le sentenze disciplinari emesse dal Csm e dai consigli delle altre magistrature, oltre che di giudice dei ricorsi contro le nomine delle magistrature.

«Anche se venisse attuata con modifica costituzionale – sottolinea Santalucia – l’Alta Corte introdurrebbe nel sistema un elemento di incoerenza rispetto all’impianto della Costituzione che ha pensato il Csm con una composizione maggioritaria di membri togati in ossequio proprio al principio di autonomia e indipendenza della magistratura. Attualmente contro le sentenze disciplinari si può ricorrere alle sezioni unite civili della Cassazione per questioni di mera legittimità; con l’Alta Corte ci troveremmo a un secondo giudice di merito e pure con composizione ben diversa rispetto al Csm».

«Se c’è una indicazione di ridimensionamento della magistratura – prosegue il presidente dell’Anm – se si vuole fare fuori il Csm, non posso che rispondere con le parole del presidente Sergio Mattarella, che ha ricordato l’irrinunciabilità dei valori di autonomia e indipendenza della magistratura che compongono il nucleo forte del sistema democratico. Mettere accanto al Csm un giudice d’appello con diversa composizione non ha senso, sarebbe uno strappo fortissimo rispetto ai principi costituzionali appena enunciati. E anche come organo che esamina i ricorsi contro le nomine, l’Alta Corte eroderebbe le competenze che spettano agli organi dei magistrati amministrativi, peraltro comprimendo il dritto del ricorrente che, in questo modo, avrebbe un unico grado».

Quello di Mattarella di recuperare rigore e di dare fiducia ai cittadini, prosegue Santalucia, «più che un rimprovero ai magistrati è una esortazione del presidente a cui noi rispondiamo con convinta consapevolezza. Ha tutelato il principio dell’indipendenza, mettendolo al riparo da qualsiasi riforma, dopo di che ha richiamato la magistratura e non solo alla necessità di tenere fede ad alcuni principi. Da parte nostra non possiamo che essere grati al presidente e ci impegniamo per essere all’altezza del nostro compito».

Caiazza: «Sì all’Alta Corte per giudicare l’operato del Csm». Il Dubbio l'8 febbraio 2022.  

Il presidente dei penalisti italiani, Gian Domenico Caiazza, è soddisfatto dell'apertura del Pd all'istituzione di un'Alta Corte per giudicare l'organo di autogoverno della magistratura. Diventerebbe una sorte di appello nei confronti delle decisioni disciplinari e amministrative.

«L’ho sempre considerata una proposta sensata e interessante sulla quale si può lavorare. Bisognerà vedere nel dettaglio, naturalmente, come verrebbe strutturata e da chi sarà composta, ma il fatto di creare un soggetto giudicante in qualche modo esterno al Csm mi sembra una buona idea. Dunque l’apertura del Pd va salutata positivamente». Così all’AdnKronos il presidente dell’Unione delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza, a proposito dell’apertura del Pd alla proposta dell’ex presidente della Camera, Luciano Violante, su un’Alta corte da affiancare al Consiglio superiore della magistratura e che sia giudice di appello nei confronti delle decisioni disciplinari e amministrative del Csm.

Quanto all’ipotesi che l’apertura del Pd e quella che sembra un’accelerazione sulla proposta di Violante siano anche conseguenza delle parole del presidente Mattarella su giustizia e Csm, Caiazza sottolinea: «Non lo so, ma me lo auguro, nel senso che, come abbiamo detto da mesi in ogni sede, il testo di riforma dell’ordinamento giudiziario licenziato dalla commissione Luciani è gravissimamente insufficiente e lontano da ogni possibilità di determinare autentici cambiamenti tali da risolvere la crisi della magistratura. Stiamo dicendo da mesi che i temi più importanti sono elusi, che l’illusione che discutere solo del sistema elettorale possa cambiare qualcosa è veramente incomprensibile per noi, e dunque se si comincia a fare qualche passo avanti un pò più concreto ci fa piacere».

«Mi auguro – conclude Caiazza – che non rimarrà tutto sulla carta, ma in ogni caso il varo dell’Alta corte segnerebbe un passo ma ancora insufficiente. Bisogna comunque affrontare con coraggio i grandi temi della modifica dell’attuale automatismo dell’avanzamento delle carriere e il tema del distacco dei magistrati presso l’esecutivo. Sono due grandi temi che se non vengono affrontati non consentiranno una riforma autentica della crisi della magistratura italiana»

Tre innocenti al giorno finiscono in carcere. I pm si autoassolvono ma i loro errori costano 40 milioni ogni anno. Massimo Malpica il 5 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Nel suo discorso di insediamento Mattarella ha puntato il dito anche "sulle decisioni arbitrarie o imprevedibili in contrasto con la certezza del diritto". Da Zamparini a Melis: ecco i casi più eclatanti di malagiustizia.

«I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l'Ordine giudiziario. Neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone. Va sempre avvertita la grande delicatezza della necessaria responsabilità che la Repubblica affida ai magistrati».

Parole del vecchio/nuovo presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che nel suo discorso di insediamento non ha risparmiato critiche alla giustizia, dedicando un passaggio importante agli errori giudiziari, a quelle «decisioni arbitrarie o imprevedibili» che, purtroppo, sono ancora numerose ogni anno. Così l'appello di Mattarella è un registro dei desiderata, non la proiezione della realtà, se solo nel biennio 2019/2020 le ordinanze di riparazione per ingiusta detenzione sono state 1.750, con un esborso per lo Stato di oltre 80 milioni di euro. E a fronte di questa messe di provvedimenti ingiusti che lo Stato ha riconosciuto come tali, sono state promosse solo 45 azioni disciplinari contro i magistrati: di queste 7 si sono concluse con l'assoluzione, 13 con il non doversi procedere (per esempio perché il magistrato incolpato ha lasciato la toga) e 25 erano ancora in corso al momento dell'ultima relazione al Parlamento del ministero della Giustizia. Finora, insomma, per 1.750 errori conclamati, 283 dei quali non più impugnabili, non c'è stata una sola censura, un solo ammonimento: per trovarne tocca risalire al 2018, anno in cui a fronte di 509 indennizzi per ingiusta detenzione riconosciuti sono stati sottoposti ad azione disciplinare 16 magistrati, quattro dei quali censurati.

Malagiustizia e scarsa incisività dell'azione disciplinare, insomma, che giustificano, quando meno, l'opportunità del richiamo del capo dello Stato. E in fondo per capire come gli errori giudiziari non siano microscopiche macchioline in un sistema altrimenti perfetto basta scorrere le cronache. Anche quelle recenti, se appena a inizio settimana Pietro Grasso, ex presidente del Senato e già procuratore nazionale Antimafia, ha ricordato su Repubblica lo scomparso Maurizio Zamparini, ex presidente del Palermo, sostenendo che l'imprenditore era diventato «un obiettivo di chi aveva deciso che dovesse lasciare» il capoluogo siciliano, e che quell'obiettivo era stato «raggiunto anche attraverso l'azione della magistratura» che «credo ha proseguito Grasso abbia risentito dell'atmosfera che si respirava in città e che era portatrice della volontà di fargli lasciare il club». Obiettivo riuscito alla fine del 2018, con conseguenze disastrose anche per la squadra, fallita poco dopo e costretta a ripartire dalla serie D. Ma di storie ce ne sono tante, così tante che ad alcune tra le più eclatanti Stefano Zurlo ha dedicato «Il libro nero delle ingiuste detenzioni», uscito lo scorso autunno per Baldini e Castoldi, raccontando nove odissee giudiziarie di vittime della malagiustizia, scelte tra quelle delle 30mila persone che, come ricorda il deputato di Azione Enrico Costa, tra 1991 e 2020 sono finite in cella per poi vedersi assolvere o prosciogliere. Ecco dunque il caso di Pietro Paolo Melis, allevatore del Nuorese, arrestato nel 1997 da incensurato per un sequestro che non aveva commesso, condannato a 30 anni a causa di una intercettazione coperta da «un rilevante e continuo rumore di fondo» sciattamente ed erroneamente attribuita a lui dai giudici, e tornato libero solo 18 anni, sei mesi e cinque giorni più tardi, il 15 luglio 2016, quando di anni ne aveva 56. O quello di Angelo Massaro, finito dietro le sbarre dal 15 maggio 1996 al 23 febbraio 2017 perché sette giorni dopo la sparizione di un suo amico e sodale viene intercettato mentre dice alla moglie una frase in dialetto: lui dice di aver detto «muerse» (pesante), riferendosi a una pala meccanica, per gli inquirenti ha detto invece «muerte», riferendosi appunto alla morte dello scomparso. Quanto basta, insieme alle dichiarazioni de relato di un pentito, per condannarlo e buttare via la chiave fino a quando a salvarlo arriva la revisione del processo, e una nuova sentenza che, nel 2017, gli restituisce la libertà. Non quei 21 anni rubati. Massimo Malpica

La riflessione. Contro la malagiustizia non basterà l’ufficio del processo. Gennaro De Falco su Il Riformista il 6 Gennaio 2022.  

L’inquietante successo del concorso per l’introduzione nel nostro sistema giudiziario dell’ufficio del processo merita la narrazione di una storia purtroppo dolorosamente vera. Tempo fa una collega mi chiese di sostituirla in un’udienza di un grave processo per violazione legge droga innanzi a una grossa sede giudiziaria del nord Italia. Io prima dell’esplosione del Covid amavo andare in giro e quindi accettai di buon grado e, forte della sola delega e del decreto che dispone il giudizio, mi apprestai a presentarmi in aula. In altri termini non sapevo nulla del processo se non le accuse rivolte al mio rappresentato, che era uno dei pochissimi che non aveva definito il processo nelle forme del giudizio abbreviato riportando, come avrei appreso successivamente, pesanti condanne a pene detentive.

Leggendo l’unico atto a mia disposizione, la prima cosa che mi colpì fu l’epoca della contestazione che risaliva, come spessissimo accade, a molti anni orsono. Di notte, in albergo, mi misi a fare un po’ di calcoli e mi convinsi che il processo fosse tutto prescritto da tempo. Va detto che nel nostro sistema le leggi cambiano con una rapidità vorticosa e che comunque vige il principio della legge più favorevole, in altri termini allorché vi sia un avvicendamento di norme nel tempo andrà applicata la normativa più favorevole all’imputato. Ciò detto, devo aggiungere che una delle norme che negli ultimi anni è cambiata più spesso è proprio quella sulla prescrizione e, applicando la legge più favorevole all’imputato, a me sembrò evidente che il processo fosse ormai tutto prescritto. Il giorno dopo mi presentai in udienza ed esposi la mia teoria ad un gentilissimo pm della locale Direzione distrettuale antimafia che lì per lì mi prese per un visionario. Io, garbatamente, insistetti sotto lo sguardo incuriosito e perplesso del collegio cui non era sfuggita una certa agitazione.

Nelle more un ingrisagliattissimo difensore di ufficio, cui mi ero sostituito e che ancora non riusciva assolutamente a capire neppure cosa stessimo dicendo, si aggirava nervosamente intorno a noi dicendo al pm con tono supplichevole: «E ma sa… io glielo avevo detto di fare l’abbreviato, avevo insistito in tutti i modi, ma lui niente: è un ostinato, non mi ha dato retta, è un pazzo». A questo punto il pm, incurante dei miagolii disperati del collega, si mise a leggere gli atti che aveva salvato sul pc e a saltare da una pagina all’altra del codice. «Avvocato, ma non è possibile! Gli altri hanno fatto l’abbreviato ed ora sono tutti in carcere ma come si fa, ma come faccio, come faccio?». Ed io le dissi sollevandola: «Dottoressa, lei fa il pm non l’avvocato e non è responsabile di eventuali errori delle altre parti; se nessuno sino ad ora se ne è accorto non è certamente colpa sua». Queste considerazioni la risollevarono un pochino.

Giudici distratti, avvocati inascoltati: in appello va così…

Finalmente il Tribunale mi diede la parola, esposi le mie opinioni – che a dire il vero a me parevano anche piuttosto banali-, il processo venne sospeso per la pausa pranzo e nel frattempo ebbi la netta sensazione che in qualche modo il Tribunale e il pm avessero comunicato e si fossero convinti che avevo ragione. Passò qualche ora e al ritorno in aula il collegio uscì sorridente e lesse il dispositivo: «Il Tribunale dichiara il reato estinto per intervenuta prescrizione». Insomma vittoria su tutta la linea. Racconto questa storia assolutamente vera, che mi sono tenuto per me per diversi anni, non per autocelebrarmi o per ricavare un’inutile fama di fine carriera, ma per dimostrare come stanno effettivamente le cose.

Un fatto è certo: nel nostro Paese molto probabilmente sono ancora detenute, a nostre spese, alcune di quelle persone coimputate con il mio ex cliente che sicuramente non ha compreso né mai comprenderà il terribile rischio che ha corso, la fortuna che ha avuto e dalla cui assoluzione non ho ricavato assolutamente nulla. Dico questo per spiegare ai miei eventuali lettori che almeno due pubblici ministeri non di prima nomina (perché quelli di prima nomina non vanno alla Dda), il gup, tre giudici del Tribunale ed un numero imprecisato di avvocati che difendevano i coimputati non si sono mai accorti che stavano trascinando da anni un processo morto e sepolto da tempo. Una volta raccontai a un magistrato napoletano questa vicenda e lei candidamente rispose: «Da noi questo non succede, noi la prima cosa che ci andiamo sempre a guardare è questa». Sarà, pensai io, ma non le dissi che le ultime due sentenze di annullamento che ho avuto in Cassazione erano proprio per errori sulla prescrizione.

Ora, se nessuno si era accorto di un fatto che una volta spiegato con il cucchiaino diventava banale, dovete dirmi come possono 10.000 giovinotti di prima nomina dell’età minima di diciotto anni e senza alcuna esperienza processuale aiutare ragionevolmente a smaltire gli arretrati che si sono via via accumulati negli anni. Questi giovinotti, una volta in servizio, rappresenteranno un vero pericolo sociale e allora aveva ragione il magistrato napoletano di cui sopra quando diceva che la giustizia da noi è solo un ammortizzatore sociale. Sì , è vero, è solo un pericolosissimo ammortizzatore sociale, in questo almeno siamo d’accordo. Tutto sta a non incapparci dentro.

Gennaro De Falco 

Malagiustizia, migliaia di errori ma pagano solo quattro magistrati. Viviana Lanza su Il Riformista l'11 Luglio 2020. 

I casi di ingiusta detenzione sono un migliaio all’anno in tutta Italia. Le azioni disciplinari nei confronti dei magistrati sono 53 in tutto, ma in tre anni, cioè nel periodo 2017-2019. Il dato napoletano è tra quelli non indicati nel bilancio dell’Ispettorato del ministero della Giustizia. Resta il fatto che non bisogna essere sofisticati matematici per cogliere una sproporzione tra questi numeri. Se a Napoli, solo nel 2019, ci sono state 129 ordinanze che hanno disposto indennizzi per un totale di oltre tre milioni di euro (3.207.214 a voler essere precisi), vuol dire che ci sono stati 129 casi accertati di ingiusta detenzione. Vuol dire che ci sono state 129 persone che hanno subìto l’arresto e il carcere, senza che vi fossero accuse o presupposti fondati ma sicuramente per disposizione di un magistrato, pm o giudice.

E allora viene da chiedersi come mai sono soltanto 53 i magistrati, che in tutta Italia e non solo a Napoli, e in tre anni non in uno solo, sono stati sottoposti ad azioni disciplinari, considerando anche che di questi 7 sono stati assolti, 4 hanno avuto la censura, 9 non doversi procedere e 31 procedimenti sono in corso. Di chi è allora la responsabilità delle centinaia di ingiuste detenzioni risarcite nello scorso anno a Napoli e del migliaio risarcito in tutta Italia? Pur volendo considerare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il diritto alla riparazione è configurabile anche nel caso di un atto di querela successivamente oggetto di remissione, nel caso di reati in prescrizione o derubricati, resta una sproporzione. Come si spiega? «Vuol dire che c’è un abuso della custodia cautelare», afferma Raffaele Marino, magistrato di lunga esperienza, attualmente in servizio presso la Procura generale di Napoli.

«Bisogna distinguere tra ciò che è fisiologico e ciò che è invece patologico. Se un imputato viene assolto in Appello siamo di fronte a un errore fisiologico ma se viene scarcerato dal Riesame e la posizione archiviata si tratta di un errore patologico, a mio avviso». Il procuratore Marino sottolinea tuttavia la singolarità di ciascun caso. «Bisogna valutare caso per caso sulla base delle carte, non si può generalizzare». Ma pur restando distanti da facili generalizzazioni, un problema c’è. «Sta nella mancanza di controlli da parte dei capi degli uffici giudiziari o di volontà di fare controlli – aggiunge Marino – Se, per esempio, l’indagine di un pm viene ridimensionata già al Riesame vuol dire che il pm non ha lavorato bene, e se non ha lavorato bene il pm non deve stare dove sta oppure va controllato. C’è tutto un ragionamento da fare che non viene fatto».

Cosa si può fare? «Bisognerebbe introdurre meccanismi di controllo seri, ora invece tutto è affidato al capo dell’ufficio che dovrebbe essere Superman per controllare tutto e tutti». Di fronte ai numeri del report ministeriale, Marino non ha dubbi: «Quando abbiamo numeri di questo genere c’è qualcosa che non funziona nella resa giudiziaria e rispetto alla lesione dei diritti primari dei cittadini, perché chi viene messo in galera subisce danni che sono notevolissimi. Per non parlare del processo penale, che oggi ha un fine processo mai grazie a nostro ministro della Giustizia, ed è di per sé un danno, un danno notevole. Al di là del dato economico, quindi, il costo sociale della giustizia in Italia è enorme e questo Paese non può più sopportarlo». «Ben vengano – conclude il magistrato – proposte come quella di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta che cerchi di capire cosa non funziona e come il progetto di una riforma che parta anche dal Csm per eliminare il potere delle correnti».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).