Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LA GIUSTIZIA
SESTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA GIUSTIZIA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)
Una presa per il culo.
Gli altri Cucchi.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Un processo mediatico.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Senza Giustizia.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Qual è la Verità.
SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Parliamo di Bibbiano.
Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.
La Sindrome di Stoccolma.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Giustizia Ingiusta.
La durata delle indagini.
I Consulenti.
Incompatibilità ambientale: questa sconosciuta.
Il Diritto di Difesa vale meno…
Gli Incapaci…
Figli di Trojan.
Le Mie Prigioni.
Le fughe all’estero.
Il 41 bis ed il 4 bis.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Simone Renda spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Angelo Vassallo spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Mario Paciolla spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.
Ingiustizia. L’inchiesta "Why not" spiegata bene.
Ingiustizia. Il caso di Novi Ligure spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Garlasco spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Pietro Maso spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Marcello Pittella spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Angelo Burzi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Cogne spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Ciatti spiegato bene.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il tribunale dei media.
Soliti casi d’Ingiustizia.
Angelo Massaro.
Anna Maria Manna.
Cesare Vincenti.
Daniela Poggiali.
Diego Olivieri.
Edoardo Rixi.
Enrico Coscioni.
Enzo Tortora.
Fausta Bonino.
Francesco Addeo.
Giacomo Seydou Sy.
Giancarlo Benedetti.
Giulia Ligresti.
Giuseppe Gulotta.
Greta Gila.
Mario Tirozzi.
Massimo Garavaglia e Mario Mantovani.
Mauro Vizzino.
Michele Iorio.
Michele Schiano di Visconti.
Monica Busetto.
Nazario Matachione.
Nino Rizzo.
Nunzia De Girolamo.
Piervito Bardi.
Pio Del Gaudio.
Samuele Bertinelli.
Simone Uggetti.
INDICE SESTA PARTE
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Giustizialisti.
I Garantisti.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Cupola.
Gli Impuniti.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.
Palamaragate.
Magistratopoli.
Le toghe politiche.
INDICE NONA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero di piazza della Loggia.
Il Mistero di piazza Fontana.
Il Mistero della Strage di Ustica.
Il mistero della Moby Prince.
I Cold Case italiani.
Il Caso del delitto del Circeo: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez.
La vicenda della Uno Bianca.
Il mistero di Mattia Caruso.
Il caso di Marcello Toscano.
Il caso di Mauro Antonello.
Il caso di Angela Celentano.
Il caso di Tiziana Deserto.
Il mistero di Giorgiana Masi.
Il Giallo di Ponza: Gian Marco Pozzi.
Il caso di Cristina Mazzotti.
Il Caso di Marta Russo.
Il giallo di Polina Kochelenko.
Il Mistero di Martine Beauregard.
Il Caso di Davide Cervia.
Il Mistero di Sonia Di Pinto.
La vicenda di Maria Teresa Novara.
Il Caso di Daniele Gravili.
Il mistero di Giorgio Medaglia.
Il mistero di Eleuterio Codecà.
Il mistero Pecorelli.
Il Caso di Ernesto Picchioni: il primo assassino seriale italiano del '900.
Il Caso Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.
Il Caso Bruno Caccia.
Il mistero di Acca Larentia.
Il mistero di Luca Attanasio.
Il mistero di Evi Rauter.
Il mistero di Marina Di Modica.
Il mistero di Milena Sutter.
Il mistero di Tiziana Cantone.
Il Mistero di Sonia Marra.
Il giallo di Giuseppe Pedrazzini.
Il giallo di Mauro Donato Gadda.
Il giallo di Piazzale Dateo, la strage di Capodanno a Milano.
Il Mistero di Nada Cella.
Il Mistero di Daniela Roveri.
Il caso di Alberto Agazzani.
Il Mistero di Michele Cilli.
Il Caso di Giorgio Medaglia.
Il Caso di Isabella Noventa.
Il caso di Sergio Spada e Salvatore Cairo.
Il caso del serial killer di Mantova.
Il mistero di Andreea Rabciuc.
Il caso di Annamaria Sorrentino.
Il mistero del corpo con i tatuaggi.
Il giallo di Domenico La Duca.
Il mistero di Giacomo Sartori.
Il mistero di Andrea Liponi.
Il mistero di Claudio Mandia.
Il mistero di Svetlana Balica.
Il mistero Mattei.
Il caso di Benno Neumair.
Il mistero del delitto di via Poma.
Il Mistero di Mattia Mingarelli.
Il mistero di Michele Merlo.
Il Giallo di Federica Farinella.
Il mistero di Mauro Guerra.
Il caso di Giuseppe Lo Cicero.
Il Mistero di Marco Pantani.
Il Mistero di Paolo Moroni.
Il Mistero di Cori: Elisa Marafini e Patrizio Bovi.
Il caso di Alessandro Nasta.
Il Caso di Mario Bozzoli.
Il caso di Cranio Randagio.
Il Mistero di Saman Abbas.
Il Caso Gucci.
Il mistero di Dino Reatti.
Il Caso di Serena Mollicone.
Il Caso di Marco Vannini.
Il mistero di Paolo Astesana.
Il mistero di Vittoria Gabri.
Il Delitto di Trieste.
Il Mistero di Agata Scuto.
Il mistero di Arianna Zardi.
Il Mistero di Simona Floridia.
Il giallo di Vanessa Bruno.
Il mistero di Laura Ziliani.
Il Caso Teodosio Losito.
Il Mistero della Strage di Erba.
Il caso di Gianluca Bertoni.
Il caso di Denise Pipitone.
Il mistero di Lidia Macchi.
Il Mistero di Francesco Scieri.
Il Caso Emanuela Orlandi.
Il mistero di Mirella Gregori.
Il giallo del giudice Adinolfi.
Il Mistero del Mostro di Modena.
Il Mistero del Mostro di Roma.
Il Mistero del Mostro di Firenze.
Il Caso del Mostro di Marsala.
La misteriosa morte di Gergely Homonnay.
Il Mistero di Liliana Resinovich.
Il Mistero di Denis Bergamini.
Il Mistero di Lucia Raso.
Il Mistero della morte di Mauro Pamiro.
Il mistero di «Gigi Bici».
Il Mistero di Anthony Bivona.
Il Caso di Diego Gugole.
Il Giallo di Antonella Di Veroli.
Il mostro di Foligno.
INDICE DECIMA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero di Ilaria Alpi.
Il mistero di Luigi Tenco.
Il Caso Elisa Claps.
Il mistero di Unabomber.
Il caso degli "uomini d'oro".
Il mostro di Parma.
Il caso delle prostitute di Roma.
Il caso di Desirée Mariottini.
Il caso di Paolo Stasi.
Il mistero di Alice Neri.
Il Mistero di Matilda Borin.
Il mistero di don Guglielmo.
Il giallo del seggio elettorale.
Il Mistero di Alessia Sbal.
Il caso di Kalinka Bamberski.
Il mistero di Gaia Randazzo.
Il caso di Giovanna Barbero e Maria Teresa Bonaventura.
Il mistero di Giuseppina Arena.
Il Caso di Angelo Bonomelli.
Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.
Il caso di Sabina Badami.
Il caso di Sara Bosco.
Il mistero di Giorgia Padoan.
Il mistero di Silvia Cipriani.
Il Caso di Francesco Virdis.
La vicenda di Massimo Alessio Melluso.
La vicenda di Anna Maria Burrini.
La vicenda di Raffaella Maietta.
Il Caso di Maurizio Minghella.
Il caso di Fatmir Ara.
Il mistero di Katty Skerl.
Il caso Vittone.
Il mistero di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi.
Il Caso di Salvatore Bramucci.
Il Mistero di Simone Mattarelli.
Il mistero di Fausto Gozzini.
Il caso di Franca Demichela.
Il Giallo di Maria Teresa “Sissy” Trovato Mazza.
Il caso di Giovanni Sacchi e Chiara Barale.
Il caso di Luigia Borrelli, detta Antonella.
Il mistero di Antonietta Longo.
Il Mistero di Clotilde Fossati.
Il Mistero di Mario Biondo.
Il mistero di Michele Vinci.
Il Mistero di Adriano Pacifico.
Il giallo di Walter Pappalettera.
Il giallo di Rosario Lamattina e Gianni Valle.
Il mistero di Andrea Mirabile.
Il mistero di Attilio Dutto.
Il mistero del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino.
Il mistero di JonBenet Ramsey.
Il Caso di Luciana Biggi.
Il mistero di Massimo Melis.
Il mistero di Sara Pegoraro.
Il caso di Marianna Cendron.
Il mistero di Franco Severi.
Il mistero di Norma Megardi.
Il caso di Aldo Gioia.
Il mistero di Domenico Manzo.
Il mistero di Maria Maddalena Berruti.
Il mistero di Massimo Bochicchio.
Il mistero della morte di Fausto Iob.
Il Delitto di Ceva: la morte di Ignazio Sedita.
Il caso di Stefano Siringo e di Iendi Iannelli.
Il delitto insoluto di Piera Melania.
Il giallo dell'omicidio di Nevila Pjetri.
Il mistero di Jessica Lesto.
Il mistero di Stefania Elena Carnemolla.
L’omicidio nella villa del Rastel Verd.
Il Delitto Roberto Klinger.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il mistero della strage della Stazione di Bologna: E’ Stato la Mafia.
LA GIUSTIZIA
SESTA PARTE
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il moralismo fasciocomunistoide ipocrita e giustizialista tende a stratificare di norme l’ordinamento giuridico dello Stato senza soluzione di continuità, nonostante cambino i Governi. L’eccesso di norme liberticide mi porta a pensare al colesterolo. Tanto più si accumula sulle pareti delle arterie, tanto aumenta il rischio di coronaropatie.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini e donne senza vergogna. Antonio Giangrande
Tommaso Greco: «Dominati da chi guarda soltanto a sanzioni e carcere». Il professore dell’Università di Pisa è autore del saggio “La Legge della fiducia”. «Tutto ormai si basa sulla diffidenza nei confronti del cittadino». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 7 novembre 2022
Tommaso Greco, ordinario di Filosofia del diritto nell’Università di Pisa, è autore di un saggio – “La legge della fiducia. Alle radici del diritto” (Laterza) – molto utile per comprendere quanto accade intorno a noi. Il volume ha vinto pochi giorni fa la 66ma edizione del “Premio nazionale letterario Pisa” per la sezione saggistica. Un segnale confortante per la cultura giuridica.
Professor Greco, nell’evoluzione del pensiero giuridico moderno l’uomo è potenzialmente un reo. Un assunto che influenza anche il legislatore?
Direi di sì. Anche se non dovrebbe essere così, se guardiamo alla nostra Costituzione. Non solo con riguardo alla funzione rieducativa della pena, ma in generale pensando all’impianto personalistico della Carta costituzionale. Nonostante questo, una sorta di ‘machiavellismo giuridico’ condiziona la legislazione, che si basa su una diffidenza di fondo nei confronti dei cittadini e dei funzionari chiamati ad applicare le regole. Lo stiamo vedendo anche in questi giorni, nei quali abbiamo avuto interventi normativi dall’evidente impianto sfiduciario. Un impianto che fa passare il senso del diritto dalla sua dimensione coattiva e sanzionatoria piuttosto che dalla sua dimensione relazionale.
L’ostatività del carcere mette da parte la funzione rieducatrice della pena. Ritorna il concetto dell’uomo reo e, in alcuni casi, eternamente reo?
Il carcere è il luogo fisico e ideale nel quale teoricamente si dovrebbe realizzare il passaggio dall’uomo reo all’uomo che ha ritrovato la sua inclinazione positiva verso la società e verso l’altro. Purtroppo, non sempre è così. Nella maggioranza dei casi, anzi, non è così, perché le condizioni nelle quali versano i detenuti non aiutano a far ritrovare quella fiducia che è necessaria a riabilitare una persona costretta dentro un istituto penitenziario. Nonostante alcuni sforzi che sono stati fatti in questa direzione, persiste la considerazione del carcere come luogo totalmente afflittivo, come luogo dove si deve provocare una sofferenza ritorsiva nei confronti di chi ha compiuto un delitto. Si fa fatica a pensarlo e soprattutto a realizzarlo, ammesso che ciò sia possibile, come un luogo davvero di rinnovamento, in cui le persone che hanno commesso dei reati possano vincere una sfida con sé stessi e ritrovare una nuova via per rifarsi una vita.
Prendiamo il caso di un ergastolano. Dopo 25 o 30 anni di carcere, cosa si può pretendere ancora da lui in termini di fiducia verso la legge e la società?
Anche se qui è difficile fare discorsi in termini generali e bisognerebbe fare riferimento ai singoli percorsi, indubbiamente è difficile pensare che si possa sperare di ottenere qualcosa solo aumentando l’afflizione. Ricollegandoci alle ultime vicende politiche e legislative, è chiaro che alcune misure si spiegano solo con una idea della pena che non è quella della riabilitazione, ma è quella della retribuzione più severa, del far pagare il male compiuto con altrettanto male o addirittura con un male che non deve finire. È come se alcune persone che hanno commesso certi delitti venissero considerate non redimibili, cioè perdute per sempre, come se non potessero più ritrovare quel bene, la cui possibilità muove il discorso costituzionale della pena.
Lei affronta il tema del “modello sfiduciario”. Verso la legge? Di cosa si tratta? E cosa fa da contraltare a tale modello?
Io parlo di “modello sfiduciario”, perché vedo che il nostro diritto e la nostra cultura giuridica, sia quella dei giuristi di professione sia quella dei cittadini in generale, considerano il diritto essenzialmente come uno strumento per punire i soggetti, piuttosto che per agevolare le forme della cooperazione. La sanzione, certo, è qualcosa di essenziale per il diritto, ma concentrare tutto su un “modello sfiduciario” e verticale, cioè sulladimensione della punizione, fa perdere in fondo l’elemento della responsabilità reciproca. Quello che si perde di vista nel “modello sfiduciario” è il fatto che ogni norma giuridica si rivolge sempre a qualcuno che deve fare qualcosa verso qualcun altro. Ogni norma ci chiede sempre di fare qualcosa nei confronti di un altro soggetto. Pensare al diritto in termini di sanzioni ci fa vedere il nostro rapporto con lo Stato, ma ci fa perdere il senso di ciò che facciamo agli altri. Se cambiassimo il nostro sguardo, saremmo più attenti anche all’aspetto del consenso necessario alla base del diritto e quindi alla chiarezza della sua formulazione.
Per tornare al decreto legge di qualche giorno fa: si è detto che è scritto male, che vengono usate espressioni vaghe. Tutte cose verissime. Ma si deve aggiungere che è letteralmente illeggibile per un cittadino normale perché si tratta di un testo composto da infiniti rimandi legislativi. È davvero impossibile scrivere le norme in un modo comprensibile per tutti? Pensare al diritto, a partire da un “modello fiduciario”, vuol dire prendere sul serio il fatto che le norme servono innanzitutto ai cittadini per cooperare e svolgere la loro vita di relazione.
Ci si appassiona e ci infervora di fronte a certi temi solo quando il legislatore fa passi sbagliati. È il segnale che la cultura giuridica è stata posta negli anni ai margini per fare spazio ad altro? La scomparsa di un grande giurista come Paolo Grossi, già presidente della Corte costituzionale, ha lasciato un vuoto incolmabile?
Purtroppo, la cultura giuridica in Italia è molto trascurata ed è considerata una cultura di nicchia che riguarda solo gli specialisti. Questo è avvenuto in gran parte per responsabilità dei giuristi, che, spesso, usano un linguaggio complicato ed esoterico. Ma la responsabilità è anche di chi, nelle occasioni in cui potrebbe farlo, tiene ai margini la cultura giuridica. Nelle ultime vicende i giuristi avrebbero potuto dire molte cose. Prima in occasione del Covid, poi con la guerra e ora con le vicende legislative italiane si ascoltano molti commentatori, ma solo in rare occasioni vengono interpellati i giuristi.
Una conferma eclatante di questa messa ai margini della cultura giuridica l’abbiamo avuta in occasione della morte di Paolo Grossi, ex presidente della Corte costituzionale, un giurista importantissimo molto conosciuto anche all’estero. La sua scomparsa è stata quasi del tutto trascurata dagli organi di informazione. Peccato per questo atteggiamento. Nel nostro Paese non mancano giuristi raffinati e capaci di parlare al grande pubblico. Bisogna però dargli l’occasione di esprimersi. Occorre insistere sul fatto che la cultura giuridica riguarda tutti noi, dato che ogni giorno, anche se non ce ne accorgiamo, abbiamo a che fare con il diritto. Se il sistema dell’informazione si impegnasse un po’ di più su questo fronte, sarebbe un’ottima notizia.
E' necessario depenalizzare. Il giustizialismo moralista non è giustizia: non servono nuovi reati, serve depenalizzare. Giuseppe Cioffi su Il Riformista il 3 Novembre 2022
All’indomani dell’insediamento del nuovo Governo, nella mia veste di magistrato con trentasei anni di servizio in alcune tra le sedi più complesse della penisola e nelle commissioni parlamentari di inchiesta, ma soprattutto in quella di cittadino che aspira ad una giustizia equa, efficiente e fruibile, avverto la necessità di definire un’agenda di interventi che ritengo doverosi per il sistema giudiziario, e in particolare per il settore penale. Non si tratta dell’ennesima tabella delle “urgenze” a cui far fronte frettolosamente, ma di proposte di ampio respiro, destinate ad agire sinergicamente e di cui sostengo la necessità come ho più volte scritto oltre vent’anni fa.
L’obiettivo non è puntare ad un sistema di giustizialismo salvifico e moralista, ma deve essere la realizzazione di un ordinamento giuridico pragmaticamente al servizio del cittadino, dei suoi diritti e doveri, e dello sviluppo economico e sociale del Paese: sono queste, infatti, le finalità a cui tende anche la nostra Costituzione, un testo tutt’altro che astratto. Volendo enucleare i punti fondamentali, innanzitutto ritengo necessaria una riduzione del catalogo dei reati. Di solito, la depenalizzazione viene giustificata con l’eccessivo carico di lavoro che grava sugli uffici giudiziari per ridurre l’arretrato. Al contrario, la depenalizzazione obbedisce al principio costituzionale di offensività, secondo cui il codice penale deve punire solo se c’è un’offesa veramente grave contro un individuo o direttamente contro un valore fondamentale della società.
Ciò è previsto sia a tutela della libertà come bene supremo della persona, sia in un’ottica di sfruttamento intelligente delle risorse anche economiche della giustizia penale che, in ragione della delicatezza dei diritti che coinvolge, devono essere necessariamente ingenti e ponderate. Eventualmente, perciò, si potrà procedere in altri settori, come quello civile, per assicurare alla vittima il risarcimento dei danni, ma senza che sia necessario, per ogni pur lieve offesa, ricorrere anche a strumenti penali. Altrettanto importante è l’umanizzazione delle pene. Non è questione di buonismo o una tendenza a diminuire la portata afflittiva della pena. È la Costituzione che, ancora pragmaticamente, la richiede, affermando che la pena deve avere una funzione rieducativa, cioè deve tendere a reinserire nella società un soggetto che si è reso conto di non doverne più ledere la pacifica convivenza.
Pubblica amministrazione, superare il rapporto di soggezione patologica del cittadino: mai più schiavi della burocrazia
Perché ciò avvenga è necessario che la durata della pena non sia esemplare, ma che il condannato possa percepirla come meritata, perché proporzionata alla gravità effettiva dell’offesa che ha determinato; che le carceri siano luoghi vivibili; che la pena sia effettiva, ma lasci anche la speranza di recupero di una vita normale. Diversamente, le carceri sono destinate a rimanere luoghi criminogeni, dove si “parcheggiano” a spese collettive i detenuti. Il terzo punto, che trova anche esso una giustificazione nella Costituzione, all’articolo 107, è la separazione delle carriere tra magistratura giudicante e pm, in modo che queste due figure siano regolate da norme di garanzia differenti, e non si percepiscano come colleghi appartenenti ad un unico ordine, nonostante i differenti ruoli che svolgono nel processo. Separazione (ovvero divorzio) non significa, però, privare il pm delle connotazioni di indipendenza che la Costituzione assegna.
Significa, piuttosto, operare una differenziazione delle garanzie in ragione della diversa natura delle funzioni e delle diverse modalità con cui esse rischiano di incidere sui diritti dei cittadini. Mentre del giudice si dovrà assicurare innanzitutto l’indipendenza come libertà ed imparzialità del giudizio, per il pm vi deve essere riconoscimento di indipendenza da strumentalizzazioni che il potere esecutivo potrebbe operare per perseguire soggetti a lui sgraditi nonché l’esigenza di impedire che il pm agisca con proprio arbitrio, ignorando le direttive di politica criminale del legislatore. Molte delle proposte avanzate dal nuovo Guardasigilli sono orientate nelle direzioni evidenziate e la sua autorevolezza ed esperienza in lunga carriera giudiziaria, nonché la determinazione e la chiarezza con la quale esprime anche posizioni coraggiose e impopolari, lasciano sperare che finalmente si possa assistere ad un cambio di passo nella direzione auspicata.
Tuttavia, né un singolo ministro né un intero Governo – forse neppure un intero Parlamento – possono fare tutto da soli: al cittadino è richiesto di riflettere ed accogliere l’opportunità di misure come quelle indicate, spesso tacciate di essere una resa della giustizia davanti alla propria inefficienza. Si tratta, invece, non solo di principi di civiltà giuridica, ma anche di elementi necessari al corretto, veloce ed efficace funzionamento della giustizia penale, in quegli snodi in cui il suo intervento è opportuno ed insostituibile. A beneficio della collettività. Giuseppe Cioffi
Legge, ordine, buttare la chiave: l’idea di Giustizia secondo il governo Meloni. Dalla norma anti rave all’ergastolo ostativo, Caiazza: "Chi ha concepito e scritto questo decreto mostra senza riserve una naturale, istintiva insofferenza verso alcuni principi costituzionali". Il Dubbio il 4 Novembre 2022.
Il primo decreto-legge del Governo Meloni in tema di giustizia penale segnala problemi che vanno ben al di là della sgrammaticatura a tratti delirante del nuovo reato cosiddetto “anti-rave” (anche se dei rave-party non registra il benché minimo accenno). Certo, ci vuole davvero coraggio a scrivere in una norma penale che «l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica e la salute pubblica consiste nella invasione arbitraria di terreni … allo scopo di organizzare un raduno quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica».
Grazie tante. Monsieur De La Palisse impallidisce e si ritira definitivamente da ogni metafora sulle ovvietà tronfiamente inutili. Senonché le norme penali che descrivono la condotta da incriminare con queste grottesche tautologie sono pericolosi fogli bianchi, dove qualsiasi agente di polizia giudiziaria, Pubblico Ministero o giudice potrà scrivere ciò che vuole. E bisogna aver esagerato nei brindisi di festeggiamento post-elettorale per inserire questo sgorbio di reato addirittura nel catalogo di quelli, micidiali, contemplati nel codice antimafia ai fini della applicabilità delle misure di prevenzione personale. Quindi un rave, secondo gli incontinenti estensori di questa roba qui, crea lo stesso allarme sociale di una cosca mafiosa, o di una associazione finalizzata alla tratta di esseri umani o alla riduzione in schiavitù, o di un sequestro di persona a scopo di estorsione. Chiamate la neurodeliri.
Ma la questione che deve davvero preoccupare è un’altra, e trova coerente conferma in tutto il decreto-legge, dunque anche nella parte relativa all’ergastolo ostativo (ma in realtà a tutti i reati ostativi, compresi ad esempio quelli contro la Pubblica Amministrazione). Intendo dire che chi ha concepito e scritto questo decreto mostra senza riserve una naturale, istintiva insofferenza verso alcuni principi costituzionali, percepiti come un ostacolo fastidioso alla narrazione “law and order” che si vuole chiaramente proporre come tratto identitario del nuovo corso politico. Il primo di quei principi mal digeriti è l’articolo 17, che sancisce la libertà di riunione dei cittadini, e che limita il potere di veto da parte dello Stato esclusivamente a “comprovati motivi di sicurezza ed incolumità pubblica”. Il nuovo reato estende questi limiti a motivi di “ordine pubblico”, che è una categoria giuridica incommensurabilmente più ampia della “sicurezza pubblica”. Non sono cavillosità avvocatesche, stiamo parlando di potestà limitative di quel fondamentale diritto costituzionale che manifestamente si espandono ben oltre i limiti costituzionali. Non faccio processi alle intenzioni, segnalo – come dire – la naturalezza istintiva di un pensiero incostituzionale (al quale in verità già ci aveva abituato il governo gialloverde Conte uno).
Lo stesso vale per il tema delle ostatività. La Corte Costituzionale, piaccia o no, ha stabilito che il divieto assoluto di concessione di benefici per i reati ostativi, anche i più gravi, in assenza di condotte collaborative del detenuto, viola l’articolo 27 della Costituzione, ed invita il legislatore ad uniformarsi, curando di armonizzare questo principio con la complessità del quadro normativo di riferimento. Questo decreto-legge rimuove formalmente l’automatismo, ma al contempo si industria nell’ introdurre una tale serie di condizioni impossibili ed inesigibili per la concessione dei benefici, da ottenere lo stesso risultato (anzi, più grave) che la Corte aveva inteso rimuovere. Vedremo cosa ne penserà la Corte il prossimo 8 novembre, ma questo è il segnale politico, questo è l’intento del legislatore, d’altronde reso esplicito dal solenne deposito, in esordio di legislatura, di una proposta di legge costituzionale di riforma dell’articolo 27 sulla finalità rieducativa della pena.
Dunque: legge, ordine, e buttare la chiave sono i chiarissimi messaggi identitari di questo decreto, legittimi perché voluti dalla maggioranza degli elettori. Ma i limiti costituzionali non sono un optional, e le statuizioni del Giudice delle Leggi non sono opinioni che aprono un contenzioso con il legislatore. Sono atti aventi forza di legge, anche se quella legge non piace. Sarà buona cosa farsene una ragione.
La norma anti-rave. Dall’omicidio stradale al femminicidio: quando la risposta più comoda sono le manette. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Novembre 2022
“Occorre eliminare il pregiudizio che la sicurezza e la buona amministrazione siano tutelate dalle leggi penali. Questo non è vero. L’abbiamo sperimentato sul campo, soprattutto quelli come me che hanno fatto per quarant’anni i pubblici ministeri”. Aveva appena giurato fedeltà alla Costituzione nelle mani del Presidente Mattarella, Carlo Nordio, ed era da pochi minuti il nuovo ministro guardasigilli del governo Meloni, quando pronunciando queste parole si impegnava per una “forte depenalizzazione” e una “riduzione dei reati”, soprattutto per velocizzare i processi. E anche sfoltire un po’ le carceri e quella piaga tutta italiana dei suicidi. È passata solo una settimana e un decreto del governo ha creato una nuova fattispecie di reato.
Il frettoloso scombiccherato decreto di “occupazione musicale” di proprietà privata come risposta a botta immediata a un fatto di cronaca, ne porta alla mente decine di altri cui si sono esercitati governi di destra e di sinistra. E altrettanti Parlamenti, pronti a legiferare con le agenzie di stampa tra le mani. Esilarante, pur in presenza di fatti tragici, fu il dibattito che seguì alcuni episodi di teppismo di ragazzi che si divertivano a tirare sassi dai ponti autostradali sulle auto di passaggio. Ci furono parecchi che seriamente proposero un reato specifico per i sassi dal ponte. Sono molti gli esempi delle scorse legislature in cui, fallito ogni tentativo di sfrondare un codice nato già in epoca “pesante” come fu quello degli anni del fascismo in cui fu creato il codice Rocco, sono spuntati come funghi nuovi tipi di reato ad appesantire le ipotesi già esistenti.
Il più clamoroso degli ultimi anni è quello dell’”omicidio stradale” del 2016. Ma potremmo ricordare degli stessi anni la nuova legge sul cyberbullismo piuttosto che quella sul caporalato o sul “femminicidio”. Per non parlare del decreto Zan. Stiamo parlando di fenomeni gravissimi su cui è giusto intervenire, da parte dello Stato, così come dagli Enti locali e anche del Terzo settore. Ma soprattutto sulla prevenzione, fondamentale, sugli omicidi stradali, per il controllo delle condizioni fisiche e mentali con cui ci si mette al volante. Non per sanzionare il comportamento di chi beve un bicchiere di troppo o assume sostanze psicotrope, ma per impedire che si salga in auto nelle condizioni conseguenti ai comportamenti, ubriachi o sballati. Così è importante avere la capacità di saper fermare, magari anche con l’uso del braccialetto elettronico, lo stalker pericoloso che può trasformarsi in omicida.
Naturalmente poi, in presenza di reati, il codice penale deve farla da padrone. Ma la domanda è: non esistono già da sempre le norme del codice penale che puniscono i fatti più gravi? Non esiste già il gioco delle attenuanti e delle aggravanti per tipicizzare ulteriormente comportamenti e situazioni? C’è poi un altro problema, anzi una statistica affermata non solo in Italia: mai l’aggravamento delle pene ha dissuaso alcuno dal commettere il reato. E bisogna ammettere che tutti questi nuovi reati, che arricchiscono ipotesi già esistenti, sono finalizzate sostanzialmente a un aumento delle pene. È così anche in questa nuova fattispecie sulle occupazioni coniata sulla scia del rave party di Modena, problema tra l’altro risolto anche con la vecchia legge e con sanzioni amministrative. Qualcuno può immaginare i ragazzi arrivati da tutta Europa per la musica e un po’ di sballo, consultare freneticamente il codice penale lungo il viaggio per conoscere la pena rischiata? E magari tornare indietro per paura della nuova legge?
La creazione del reato di “omicidio stradale” nel 2016 dal governo Renzi (che pure aveva tentato anche qualche depenalizzazione) è l’esempio dell’inutilità dell’inasprimento delle pene. I morti sulle strade sono ancora migliaia, l’ultimo proprio ieri, e i dati parziali e un po’ propagandistici diffusi dall’Anci segnalano un’apparente diminuzione del numero delle vittime, ma solo negli ultimi due anni a causa delle restrizioni conseguenti all’epidemia da covid e la scarsa circolazione stradale. Pare però che le forze politiche, quasi tutte, non si rassegnino. Certo, la prevenzione è più faticosa, impegnativa e costosa. Più facile la propaganda.
Quella di Fratelli d’Italia quando era all’opposizione, e oggi quella del Pd, i cui governi hanno più di altri rimpinzato il codice penale di norme vessatorie e inutili, oggi dall’opposizione. Servisse almeno per seminare anche nella sinistra più forcaiola qualche briciolo di senno. Una volta, nelle campagne elettorali, si promettevano riforme sociali, oggi solo manette. Ma che Paese è mai questo? Coraggio, ministro Nordio, faccia quel che ha detto dopo il giuramento. In fondo anche quelle sue parole erano una sorta di giuramento.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il sangue della vendetta. Massimo Carugno, Avvocato e scrittore, su Il Riformista l'1 Giugno 2022
Non basterebbe una vita per raccontare i fiumi di scienza e cultura giuridica che danno un fondamento al principio di non colpevolezza (o presunzione di innocenza) nei quali si sono bagnati tutti i più grandi pensatori della storia moderna che si sono cimentati nelle ragioni dell’etica, della morale e del diritto.
Potremmo spingerci addirittura a Platone e al racconto, narrato nella sua “Apologia a Socrate”, delle tre difese che il filosofo ateniese fece a sé stesso in altrettanti processi a lui mossi (abbastanza campati in aria) e che si conclusero con la sua condanna a morte. Era il 399 a.C. ma già da allora Socrate teorizzava che una persona è da considerarsi innocente sino alla condanna definitiva, che le prove devono essere addotte da chi accusa e non da chi si difende e che, in mancanza di prove, una persona non può essere condannata e deve essere considerata innocente.
Quanta fatica e quanto sudore sono costati a noi, studenti di giurisprudenza, fustigati dal severo professor Mercadante, quegli studi matti e disperatissimi nella filosofia del diritto, tutti protesi, a partire da Socrate, passando per Hobbes, Locke, Poitier, Rousseau, per finire al mio concittadino Capograssi, nel cercare di capire che uno Stato, nell’adottare tali principi sceglie, scientemente e consapevolmente, di preferire il rischio che un colpevole vada in giro piuttosto che un innocente sieda, anche per un solo giorno, in carcere.
Poi d’un tratto scopriamo, alla tenera età di 65 anni, che un tizio (uno che se non avesse avuto l’astuzia di brandire la sete di sangue che alberga, ahimé, in tutti i popoli dai tempi di Barabba ad oggi, facendo del populismo giustizialista il suo vessillo e il carro trionfale della sua notorietà, sarebbe un ordinario quisque de populo,) ha di fatto stracciato e buttato nel cestino secoli di sapere e, per quanto ci riguarda, anni di esperienza nelle aule dei tribunali.
“Non c’è nulla di scandaloso se un presunto innocente finisce in carcere” avrebbe sentenziato l’uomo che ha per cognome la prima fase del parto.
La vicenda è di diverso tempo fa, ma torna di prepotente attualità nella imminenza del referendum del prossimo 12 giugno.
Di primo acchito la frase disorienta e fa stropicciare gli occhi. Ma subito dopo, a ben ragionarci sopra, ci si rende conto che non è il delirio di un folle e neanche lo sproloquio del più classico degli ignoranti che tuttoleggia a destra e manca. No. Una frase del genere, nel pieno della sua aberrante dimensione che lacera dal diritto, all’etica, alla morale, non è altro che la sintesi ideologica di un modo di pensare che non è nuovo, purtroppo, dalle parti del bel paese.
Fa il paio con la pesca a strascico che certi pubblici ministeri, anche abbastanza mitizzati, fanno quando ordinano retate di tre, quattrocento persone, perché tanto una “decina che sono davvero colpevoli in mezzo ci capiteranno sicuro”.
Fa il paio con il “non poteva non sapere” che fece da teorema per la mattanza di mani pulite.
Fa il paio con il “concorso esterno in associazione mafiosa” che fece mettere sotto accusa chi i mafiosi li incontrava senza saperlo in mezzo a migliaia di persone presenti a un comizio o a una conferenza.
Insomma fa il paio con chi pensa che la giustizia sia un rituale sommario e non la strenua ricerca della verità perché l’importante è avere “un colpevole da linciare” e non “il colpevole” da condannare.
A ben pensare roba antica; in fondo fu la storia di Gesù.
E non serve rimembrare, ripescandole dai cassetti della nostra memoria universitaria, che la civiltà giuridica, quella stessa che da Socrate in poi ha tessuto le difficoltose trame dell’etica di Stato, recita che la condanna non è una vendetta ma ha il fine di sottoporre il colpevole alla fase della rieducazione e del recupero al vivere civile.
Quella brutta frase è la sintesi di un modo di pensare, e merita una risposta. Che non può essere sommaria e rozza come loro sono stati, o meglio come lui è stato. La risposta vera, civile, riformista è discuterne, parlarne, convincere le persone che certi principi non sono negoziabili.
Insegnare che il garantismo è un valore e non può essere bollato con il marchio della difesa dell’impunità. Chi è garantista non è complice di un delinquente. Non si tratta di aiutare un colpevole a sfuggire alla giustizia. Il fine, nobile, è di esigere che per condannare una persona bisogna rispettare tutte, ma proprio tutte, le regole che fanno funzionare le indagini e i processi, senza trucchi, senza scorciatoie, senza furbate e soprattutto cercando il colpevole, quello vero, e non uno qualunque che faccia da colpevole. Si tratta di far comprendere alle persone che la giustizia non è un carnefice che fa scorrere il sangue della vendetta per assetare il popolo inferocito, ma un sistema che deve garantire la convivenza tra i cittadini. Punendo chi viola tali regole di convivenza ma cercando di recuperarlo alla capacità di tornare a viverla nuovamente.
Certo, poi viene il dubbio che con alcuni personaggi tale sforzo potrebbe risultare drammaticamente vano e che magari risparmiarselo non sarebbe sbagliato.
E allora diciamocelo francamente, se così fosse, nel frattempo e nell’immediato, non sarebbe sbagliato accodarsi alla signora Gaia Tortora. Un bel “ma chi ca…o me lo fa fa…” sarebbe orfano se non venisse accoppiato a quel “Travà…ma vaff….lo va…”, pronunciato all’epoca dalla figlia di Enzo Tortora.
Quantomeno sarebbe liberatorio.
Filippo Ceccarelli per la Repubblica il 10 dicembre 2022.
È ormai sicuro che a tirare le monetine a Craxi davanti all'hotel Raphael c'erano anche dei missini: Teodoro Buontempo arrivò trafelato da Montecitorio con due sacchetti pieni. Era il 30 aprile del 1993 e i camerati erano scatenatissimi contro i "ladri di regime". All'inizio del mese un presidio di giovani del Fronte della Gioventù tentò l'assalto a Montecitorio. Indossavano magliette con la scritta: "Arrendetevi, siete circondati". A un certo punto una monetina da 100 lire fischiò sopra la testa dei granatieri di guardia infrangendo il lunotto sopra l'ingresso della Camera. Non si è in grado di stabilire se fra gli assaltatori del Fronte vi fosse quel pomeriggio la giovanissima Giorgia Meloni, che oggi si proclama garantista.
A proposito del cappio, d'altra parte, è nella storia ciò che accadde sempre a Montecitorio il 16 marzo 1993. Da giorni in aula i missini mostravano manette e tiravano finte banconote, spugne gialle, guanti. I leghisti pativano la concorrenza e ne avevano qualche ragione, considerato che il loro ispiratore, professor Gianfranco Miglio, aveva da poco sostenuto che il linciaggio era «la forma più alta di giustizia».
Nel suo "La guerra dei trent' anni" (Marsilio, 2022) Filippo Facci ricostruisce in che modo, per recuperare il terreno perso nel campionato del giustizialismo selvaggio ad alto impatto mediatico, l'onorevole Leoni Orsenigo, un marcantonio che installava antenne tv in provincia di Como, arrivò a Roma con un vistoso nodo scorsoio preso in prestito da un suo amico alpinista. Così mentre i deputati della fiamma iniziavano la solita caciara, Leoni si alzò in piedi, espose il cappio e lo sventolò.
Bossi, più tardi, la buttò sulla goliardia. Disse invece Miglio: «I nostri hanno apprezzato. Se fossi stato lì, l'avrei aiutato a far ballare la corda».
Questi tre simbolici episodi per ricordare che il Msi e la Lega si affermarono in quegli anni cruciali nel nome della colpa, della punizione, della galera e peggio.
Non solo loro, veramente. Tutti, comprese le tv di Berlusconi che facevano il tifo per Di Pietro.
Quando il Cavaliere vinse le elezioni Previti gli offrì un posto di ministro, meno noto è che La Russa voleva al governo anche Davigo.
Molti anni sono passati da allora, il tempo di una generazione. Tra ieri e oggi mille vicende, mille processi, mille polemiche, riforme promesse, sgangherate, abbandonate. Ma in mezzo c'è stata soprattutto l'età berlusconiana, con i suoi avvocati, i suoi scandali, dal fisco alle minorenni, un paio di lodi andati a male, un paio di bicamerali, la lunga guerra contro le toghe rosse.
È difficile tagliare la storia con l'accetta, tanto più nel paese dei trasformismi, dei travestitismi, delle maschere e delle mascherine.
E forse sarebbe anche ingiusto sostenere che il Cavaliere ha "attaccato" il garantismo ai suoi alleati come se fosse una malattia - e non solo perché un supplemento di scrupolo, nella giustizia, è un fatto di civiltà e umanità.
E tuttavia non c'è un momento preciso in cui gli ex missini e i leghisti hanno segnato un ripensamento e ancor meno tentato un'autocritica. È successo, piano piano, caso dopo caso, inavvertitamente. Chi sta all'opposizione fa presto a invocare le manette; se invece sta nel potere ecco che perde carica e ferocia senza per questo diventare migliore, anzi, finendo per assomigliare a quelli che combatteva negli anni della gioventù. Vedi la casa di Montecarlo e i gioielli della Tanzania; vedi gli impicci di Alemanno e i 49 milioni di Salvini spariti; vedi la girandola di traffici, da Mosca al litorale pontino. Forse è qualcosa che attiene alla vita, ma a un certo punto si guarda alle convenienze, al quieto vivere, prevalgono le ragioni "politiche", per così dire, quindi s' invoca l'assoluzione per gli amici e l'inferno per i nemici.
Vale per tutti, ma alla fine da garantismo "peloso" o "a intermittenza" anche quello dei padani e dei patrioti tricolore s' è fatto "gargarismo", "para-culismo". Il solito percorso delle faccende italiane, il diritto penale come strumento della lotta politica. Nella Nazione scettica e immalinconita, è comunque arduo presentarlo come una virtù.
Riforma giustizia: agenda ottima ma tempi incerti. Nordio, l’Armadillo di Zerocalcare e la doppia anima della destra: garantista per sé, forcaiola per tutti gli altri. Valerio Spigarelli su Il Riformista il 10 Dicembre 2022.
Le dichiarazioni di Nordio hanno risbattuto in prima pagina la giustizia. La cosa che impressiona non è tanto la rapidità con la quale il tema ha scalato la classifica mediatica ma l’immobilità assoluta dei contenuti ed il riflesso pavloviano che condiziona le forze politiche quando se ne parla. Una reazione che immiserisce la questione e la riduce a politica politicante. Come nel Deserto dei Tartari il protagonista invisibile è sempre lo stesso: la riforma del Titolo Quarto della Costituzione. Qualcuno la evoca, qualcuno la teme, ma nessuno la mette sul piatto.
Eppure di ricette pronte, dosate persino nei particolari, da qualche lustro ne esistono più di una. Agli atti parlamentari sono depositate, tra le altre, le proposte della commissione Boato, e quelle del ministro Alfano del 2011, che hanno entrambe il pregio di essere state terreno di confronto trasversale tra le forze politiche nelle commissioni bicamerali che ci hanno lavorato. Senza dimenticare che in Parlamento giace anche la legge di iniziativa popolare dell’Unione delle Camere Penali, che nei contenuti è sovrapponibile a quella di Alfano il quale, a suo tempo, proprio un progetto dei penalisti italiani aveva fatto proprio.
Ed allora, l’iniziativa dell’attuale ministro – che sul piano dei contenuti, o meglio dei terreni programmatici, appare largamente condivisibile – ha un solo difetto, quello di aver rinviato ad un indefinito secondo tempo della legislatura la risoluzione dei problemi strutturali che ha evocato parlando di intercettazioni, obbligatorietà dell’azione penale, separazione delle carriere, ventilazione della magistratura, Alta Corte di giustizia disciplinare. Sui tempi Nordio è stato vago, ha concesso alla retorica imperante la necessità di mettere a regime la riforma Cartabia – che invece meriterebbe di essere revisionata in maniera molto più radicale – se non altro per passare alla cassa europea, ma non ha indicato il crono programma della riforma di struttura.
Ciò posto, se le parole dell’ex pm sono da intendersi come un reale impegno politico, e non il tentativo di recuperare terreno dopo l’infortunio della inguardabile legge sui rave e le preclusioni ai benefici dell’ordinamento penitenziario, l’unico modo politicamente serio per dimostrarlo è quello di far partire la macchina della riforma varando, subito, una commissione bicamerale. Altrimenti c’è il rischio che la doppia anima del centrodestra, quella che strepita sul garantismo e poi fa legge forcaiole, ovvero indossa le vesti dei grandi riformatori, da Hammurabi a Napoleone, e poi le getta alle ortiche per risolvere le grane giudiziarie del capo di turno, da Previti alle olgettine fino alle case a Montecarlo, alla fine prevalga. Non sarebbe la prima volta, come dimostra proprio la mala sorte della proposta Alfano.
Una doppia anima che, a complicare le cose, sul versante forcaiolo oggi vede l’ingresso di una componente ulteriore ben rappresentata dal non meno inguardabile slogan varato dal sottosegretario Del Mastro e subito fatto proprio dalla Meloni: quello che vuole i governativi “garantisti nel processo e giustizialisti sulla pena”. Un ossimoro degno del lettino di uno psicanalista in qualsiasi altro paese, dove personaggi come il citato sottosegretario – che a suo tempo andò sotto il carcere di Santa Maria Capua Vetere a portare solidarietà agli agenti della polizia penitenziaria dopo la mattanza del 2020 e che idolatra il 41 bis, cioè fa quello che fa anche Salvini – difficilmente si ritroverebbero dalle parti di un liberale vero come Carlo Nordio.
Però da noi così va il mondo e bisogna far di necessità virtù. Proprio come fa, o tenta di fare, il ministro nella parte più ambigua delle sue dichiarazioni, quando concede ai “giustizialisti” del suo governo che nel nostro sistema la pena avrebbe nella “retribuzione” il suo tratto più marcato. Affermazione su cui si potrebbe discutere a lungo, visto che l’unica funzione che sottolinea l’articolo 27 della Costituzione è che le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione.” Punto. Del resto è lo stesso Nordio ad aggiungere, sempre in tema di sanzioni, che sarebbe opportuno superare il panpenalismo, in favore di ampia depenalizzazione che privilegi sanzioni amministrative ben più effettive. Tra l’altro, anche se la questione non è stata colta dalle cronache, il ministro ha ripreso anche una vecchia proposta di Ettore Randazzo sulla necessità di creare un circuito carcerario realmente diversificato per coloro i quali sono in custodia cautelare.
A fronte di tutto questo la reazione di larga parte dell’informazione “progressista”, e del PD nel campo politico, hanno l’unico merito di farci fare un salto all’indietro nel tempo riportandoci al periodo della gioventù. I commenti “a sinistra” seguiti alle parole di Nordio sono sconfortanti. Come se non fossero passati lustri dai tempi dei girotondi, come se anche la parte “progressista” del paese non avesse potuto constatare – grazie alle imprese dell’impresentabile Bonafede – quanti guai alla causa porti la decisione di delegare al Travaglio di turno, e all’ANM in ogni epoca, l’agenda sulla politica giudiziaria. E’ tutto un fiorire di allarmi democratici, vecchi cliché antiberlusconiani, slogan ancor più triviali di quelli dei forcaioli governativi, e tribune concesse ai super procuratori appena eletti in parlamento. Non c’è nulla da fare, pur di assicurarsi qualche click, ovvero tentare di raccattare qualche voto in libera uscita dal partito del Robespierre con la pochette, la sinistra nel nostro paese rinuncia a ragionare sulla giustizia ormai da decenni. Però stavolta dovrebbe, se non altro perché Renzi e Calenda rendono la strada della riforma costituzionale percorribile a prescindere.
Eppure anche a sinistra, sia pur in senso molto lato, qualcosa si muove. Partendo dalla vicenda dell’anarchico Cospito è comparsa sul web una strip di Zerocalcare pubblicata su Internazionale che riflette sull’aberrazione del 41 bis, il totem dell’antimafia. A modo suo, e col suo linguaggio, il fumettista interroga il suo pubblico, che certo non comprende amici dei mafiosi, sul fatto che è inutile girarci attorno: quella misura è una tortura per tutti, anarchici e malacarne, senza distinzioni pelose che dovrebbero salvare l’anima alla parte buona del paese. Augurandoci che il disegnatore romano non venga subito sottoposto ad intercettazione preventiva, se non altro perché vive a Rebibbia, quartiere ad alta densità deviante, c’è da sperare che a sinistra qualcuno tragga ispirazione per sottrarre il cervello dall’ammasso dei luoghi comuni che subito si è formato da quelle parti appena Nordio ha avanzato le sue proposte.
Certo in tema di giustizia gli ci vorrebbe una coscienza critica, un Armadillo dietro le spalle, sempre per citare Zerocalacare, a suggerirgli un pensiero libero dalla necessità di grattare consensi ai Cinque Stelle, e dalle parti del PD proprio non si vede. Anzi, quando si affrontano questi temi quel partito riparte sempre dal via, dimenticando gli stessi passi in avanti fatti nel frattempo. L’esempio dell’Alta Corte di Giustizia è illuminante. Durante lo tsunami Palamara la questione sembrava aver mietuto consensi anche in campo democratico, ora che ne parla Nordio ridiventa una proposta demoniaca. Quanto all’ANM niente di nuovo sotto il sole. Le reazioni sono quelle di sempre, compreso il riflesso proprietario sulla giustizia italiana che le condiziona. Speriamo che in questo frangente la realtà gli dia torto: fino ad oggi hanno avuto ragione a pensarla così.
Valerio Spigarelli
Va superata la contrapposizione garantisti/giustizialisti. Superare la sottomissione e la fedeltà della politica ai sacerdoti della magistratura militante. Roberto Cota su Il Riformista il 9 Dicembre 2022
Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio intervenendo in Commissione Giustizia al Senato ha di fatto esposto le sue linee programmatiche. I punti toccati sono stati diversi: la esigenza di limitare l’uso delle intercettazioni, quella di intervenire rispetto ad un uso smodato della custodia cautelare, la separazione delle carriere, la inappellabilità da parte del pm delle sentenze di assoluzione. Si tratta di argomenti che sono sul tappeto da anni e che non sono mai stati affrontati sul serio dalla politica.
Ad ogni modo, il discorso del ministro è assolutamente condivisibile, anche se tutti sanno che ci si muove in un campo minato. Come fare a bonificare l’area? La Premier Meloni sembra proporre di avanzare con cautela. E’ una donna saggia, ma questo approccio non basta in quanto sono troppi anni che si dicono le stesse cose. L’argomento andrebbe affrontato in una prospettiva nuova, uscendo da certi schemi. In primis, da un certo modo di intendere la interlocuzione con il mondo della magistratura. La Anm parla davvero a nome di tutti i magistrati? Anche di quella stragrande maggioranza che pensa solo a lavorare dovendo sopportare il carico di lavoro di chi predilige la convegnistica? I segnali di “una crisi di rappresentanza” sono ormai molteplici. La politica di questo dovrebbe tenere conto ed assumere un atteggiamento più autonomo e meno accondiscendente verso i sacerdoti della magistratura militante.
Poi, è necessario spiegare sistematicamente alla gente di che cosa si sta discutendo evitando che si possa raccontare il falso sostenendo che ogni intervento garantista serve ad aiutare i mafiosi e la criminalità organizzata. Sulla vicenda delle intercettazioni telefoniche, ad esempio, occorre evidenziare che la nostra Costituzione all’art. 15 molto chiaramente stabilisce che “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. Si tratta di una tutela fortissima che pero’ non viene garantita proprio dallo Stato che ha esteso nel tempo la possibilità di spiare diffusamente i propri cittadini, non soltanto intercettandone il telefono, ma anche captandone le conversazioni ambientali attraverso il cosiddetto trojan. Non solo in presenza di ipotesi di reato di mafia e terrorismo, ma anche di altri reati, utilizzando le intercettazioni come unico metodo di indagine e intercettando anche le persone non indagate.
Da ultimo, andrebbe superata la contrapposizione garantisti/ giustizialisti, i secondi sempre storicamente e un po’ furbescamente schierati con la magistratura organizzata. Mentre Calenda sembra cogliere questa prospettiva con dichiarazioni di apertura verso le posizioni di Nordio, il PD (dai Cinque Stelle sul punto non c’ è nulla da aspettarsi) ha assunto ancora una volta una posizione politicamente misera. Riformare la giustizia, infatti, è nell’interesse di tutti, non di un partito piuttosto che di un altro. Roberto Cota
La forca siamo noi. La minuscola differenza tra l’inciviltà giuridica di sinistra e quella di destra. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 10 Dicembre 2022.
Una parte di italiani gode nel trionfo del potere giudiziario, mentre un’altra parte vuole che venga regolamentata la compressione dei diritti individuali
C’è una differenza fondamentale nell’inciviltà giuridica di cui rispettivamente fanno mostra la destra e la sinistra. Spesso quelle due diverse impostazioni tollerano identici sacrifici dei diritti individuali, e persino li reclamano in nome del valore di turno, la sicurezza, la giustizia sociale, la tutela delle vittime, insomma una o l’altra delle fungibili esigenze prioritarie puntualmente poste a giustificare il ripiegamento autoritario del potere pubblico. Ma quella predisposizione, mentre a sinistra si realizza per via arbitraria, appaltando al tribunale di rimettere in sesto la società pervertita rispetto al canone democratico, a destra si attua mediante una disciplina specifica, che regolamenta e rende esplicite, tipiche le compressioni dei diritti individuali.
Una, quella di sinistra, è una specie di common law dell’ingiustizia; l’altra, quella di destra, non se ne accontenta e si rassicura nel codificarla. Micidiali entrambe, una – quella di sinistra – è temibile perché produce un’ingiustizia meno suscettibile di rimedio, perché determina una temperie che tira all’irreversibilità siccome è affidata appunto all’arbitrio, al trionfo del potere giudiziario lasciato libero di orientare il proprio lavoro in modo finalistico (le sentenze democratiche, piuttosto che legittime), laddove l’altra – quella di destra – è pericolosa invece nella misura in cui può mettere in legge l’ingiustizia che la sinistra può lasciar correre ma non stabilire formalmente. Una può lasciare che si mettano in catene i condannati, l’altra può scrivere che è giusto farlo.
Che agli effetti pratici non ci siano differenze non vuol dire che l’una valga l’altra, per il motivo dianzi accennato: in un caso, è ingiustizia sfrenata perché non prevede limiti entro i quali può essere esercitata; nell’altro è sfrenata perché ha limiti amplissimi di esercizio. Il giudice, per una è un ausiliario più o meno fantasioso del partito, officiato a rimettere a posto le leggi non funzionali alla verità democratica; per l’altra è l’esecutore che provvede sulla linea di un protocollo il quale, essendo intrinsecamente ingiusto, per attuarsi non ha neppure bisogno del ricorso all’arbitrio.
Nei due casi buttano le chiavi, ma in un caso perché il giudice ha il potere di decidere in quel modo, nell’altro perché ha il dovere di farlo. In un caso è la forca a capriccio; nell’altro è la forca per legge. In un caso è ingiustizia senza bisogno di legge; nell’altro è l’ingiustizia che si fa legge.
Occhi bendati. Il giustizialismo non è solo una piaga ideologica, ma anche linguistica. Maurizio Assalto su L’Inkiesta il 5 Dicembre 2022
Chi è a favore di una giustizia penale spiccia e sommaria viene definito giustizialista. Il termine è stato importato dal justicialismo argentino che però è tutt’altra cosa
L’immagine della giovane donna dagli occhi bendati è la rappresentazione tradizionale della giustizia che non guarda in faccia a nessuno ed è (dovrebbe essere) uguale per tutti. Per tutti, tranne che per la giustizia stessa. Non solo la vediamo troppo spesso tirata di qua e di là nel confronto politico e nelle battaglie in tribunale, a seconda delle convenienze: lo stesso avviene anche nel linguaggio.
C’è il caso del verbo giustiziare, che rimanda a una dimensione estrema della sanzione penale dove il ristabilimento della giustizia coincide con l’eliminazione fisica della persona ingiusta. Ma non sempre l’ingiusto è davvero tale: Sacco e Vanzetti, per citare un caso celebre, erano forse colpevoli? E quindi si può plausibilmente dire che furono giustiziati? O non piuttosto ingiustiziati? Certo, finirono i loro giorni sulla sedia elettrica in seguito a un legittimo procedimento penale che, sia pure attraverso forzature e omissioni, li aveva giudicati colpevoli, e quindi formalmente (e lessicalmente) l’esecuzione della condanna avvenne “secondo giustizia”. Ma quando, come è accaduto e può sempre accadere in qualche regime autoritario, la pena viene eseguita in assenza di un regolare processo, ossia bypassando il momento in cui la giustizia si reifica e viene sancita?
Di quanti desaparecidos argentini, nei vuelos de la muerte pianificati dal regime sanguinario del generale Videla, si usa dire impropriamente – paradossalmente, offensivamente – che sono stati giustiziati? Per tacere dell’uso estensivo del verbo – che anche il vocabolario Treccani qualifica come “erroneo” ma che è comune nel linguaggio giornalistico – come sinonimo di uccidere, assassinare: “commerciante reagisce a una rapina, giustiziato a colpi di pistola da uno dei banditi”. Al verbo giustiziare può essere accostato il sostantivo giustiziere, che è l’esecutore di una condanna capitale, in quanto tale sinonimo di boia, carnefice, ma anche “chi pretende di farsi giustizia da sé, di vendicare torti fatti a sé o ad altri” (vocabolario Zingarelli). Che ne è in questi casi della giustizia, della giovane donna bendata? Forse si tiene gli occhi coperti per non leggere, per non vedere la deriva linguistica che le viene inflitta.
Ma se per avventura le cascasse la benda, potrebbe pensare, a forza di venire tirata di qua e di là, di essere finita dall’altra parte del mondo: in Sud America. Nella sua famiglia lessicale allargata troverebbe infatti due sostantivi che stenterebbe a riconoscere, per ragioni semantiche come pure morfologiche: giustizialismo e giustizialista.
Complice il linguaggio giornalistico – che, se non le ha inventate, a partire almeno dagli anni dell’inchiesta Mani Pulite ne ha canonizzato l’accezione e propagato l’uso – queste due parole sono entrate prepotentemente nel nostro linguaggio. Nel dibattito pubblico l’accusa di giustizialismo è l’arma semanticamente impropria brandita da garantisti più o meno sinceri (generalmente ascrivibili allo schieramento di centro-destra) contro i presunti fautori (generalmente ascrivibili al centro-sinistra) di una giustizia penale spiccia e inflessibile, talora sommaria, poco ponderata, ignara di cautele e distinguo, magari neppure sorretta da prove inconfutabili.
Lasciamo impregiudicata la questione di diritto. Sta di fatto, però, che nella lingua e nel paese da cui la parola è stata importata, lo spagnolo e (di nuovo) l’Argentina, il justicialismo è tutt’altra cosa. Lo ricordava Alessandro Galante Garrone, giurista e storico di antica matrice azionista, in un fondo pubblicato sulla Stampa del 31 dicembre 1996: «Si dimentica un po’ da tutti che questo termine è storicamente nato con riferimento preciso al comportamento e alla figura umana del dittatore argentino Perón e al suo regime piuttosto nefasto e ridicolo, quasi sfiorante l’operetta».
Il generale Juan Domingo Perón, presidente dell’Argentina dal 1946 al ’55 e poi ancora, dopo l’esilio, dal ’73 fino alla morte nel ’74, aveva costruito il suo movimento politico come una terza via tra capitalismo e socialismo, ispirandosi alla “giustizia sociale” delle encicliche papali: giustizialismo è appunto una “parola macedonia”, nata dalla fusione di giustizia e socialismo. Soltanto la consapevolezza di questa origine sincratica rende ragione della desinenza -lismo, che nell’accezione più comune data alla parola in Italia resta morfologicamente inspiegata e inspiegabile; a meno di ricondurla all’infrequente aggettivo giudiziale, detto di “ciò che è relativo alla giustizia” (sistema giudiziale, ordinamento giudiziale), che è però un vocabolo neutro, alieno dalle connotazioni peggiorative-afflittive riversate nel nostro giustizialismo (semmai si potrebbe ipotizzare, per esprimere il concetto, un più esplicito “giustiziarismo” che si riallaccerebbe al verbo cruento di cui sopra).
La protesta filologica di Galante Garrone non ha mai prodotto risultati, nonostante questo “uso disinvolto” del termine in questione sia stato discusso anche in un convegno del 2002 a Milano e l’anno seguente in un saggio del filosofo del diritto Mario G. Losano (“Peronismo e giustizialismo: significati diversi in Italia e in Sudamerica”, in Teoria politica, XIX, 2003). E così questa parola, nella sua accezione impropria, ha proseguito indisturbata la sua marcia inarrestabile ed è oggi registrata in tutti i dizionari, accanto all’accezione propria – sebbene negli ultimi tempi venga pronunciata meno, in concomitanza forse con lo smarrimento di una sinistra così sfiduciata da aver perso pure la tentazione di ricorrere alla via giudiziaria per ribaltare il risultato elettorale.
È inevitabile, sono i parlanti che decretano il significato delle parole, anche contro ogni ragione linguistica. Una parola sbagliata è un po’ come la Coca-Cola, inventata quale medicina contro il mal di testa e diventata invece la bevanda di successo che ben conosciamo; giustizialismo è un termine efficace, ormai accettato e compreso da tutti nel suo significato secondario, più pregnante e anche più appropriato di forcaiolo o manettaro. Alla giovane donna con gli occhi bendati non resta che adeguarsi: tuttalpiù potrà dotarsi di una seconda benda e usarla per coprirsi le orecchie.
Gli agenti invocano “Gratteri al Dap”, ma il governo vuole Riello. Il Sappe “sceglie” il procuratore di Catanzaro facendo il tifo come allo stadio. Ma il rischio è di mettere in ombra Nordio. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 19 novembre 2022.
Nicola Gratteri, Luigi Riello, o ancora Carlo Renoldi. La partita del nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), uno degli incarichi più importanti (e remunerati) della pubblica amministrazione, si giocherà molto probabilmente su questi tre nomi, tutti di magistrati. La procedura prevede che la proposta venga formulata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio per poi essere ratificata dal Consiglio dei ministri. Sul nome del procuratore di Catanzaro c’è stato in questi giorni l’endorsement dei sindacati della polizia penitenziaria.
Il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) a tal proposito ha pubblicato un lungo articolo sulla propria rivista online, poliziapenitenziaria.it, dal titolo particolarmente esplicito: “Gratteri, Gratteri, Gratteri”. Richiamandosi alla torcida degli stadi, i sindacati di polizia stanno facendo apertamente il tifo per il magistrato che in passato Matteo Renzi, prima di essere stoppato, avrebbe voluto come Guardasigilli nel suo governo. «Non siamo mai entrati (e mai vogliamo entrarci) nell’agone politico italiano ma per il bene e a salvaguardia della polizia penitenziaria che rappresentiamo saremmo i primi ad alzarci in piedi sugli spalti dello Stadio Penitenziario e gridare in coro: Gratteri! Gratteri! Gratteri», scrivono i dirigenti del Sappe.
La liason fra Gratteri e la polizia penitenziaria è nota da tempo. Sul sistema carcerario il procuratore ha le idee molto chiare. Intervenendo ieri a Milano ad una manifestazione letteraria svoltasi all’interno proprio del carcere di San Vittore, Gratteri ha illustrato le sue proposte, ad esempio «mettere ai domiciliari i detenuti tossicodipendenti, con percorsi di terapia», facendo poi «una formazione adeguata agli agenti». La polizia penitenziaria, per Gratteri, necessita di una profonda riorganizzazione. Pur essendo una della quattro forze di polizia nazionali (erano cinque prima dello scioglimento del corpo forestale dello Stato, secondo il procuratore calabrese è di «Serie C» , gettata in uno stato di «depressione e frustrazione» dalle istituzioni che non se ne curano. A cominciare dalle scuole di formazione: «Nelle scuole ci deve andare gente che sul campo ha dimostrato di saper fare qualcosa, non gli amici degli amici. Altrimenti le lezioni diventano una passerella e i ragazzi non imparano nulla».
Il procuratore ha, ovviamente, anche la ricetta per risolvere il sovraffollamento nelle carceri: «La costruzione di nuove strutture detentive o l’ampliamento di quelle esistenti». Una idea da sempre sostenuta dalla Lega e da Fratelli d’Italia con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Una proposta, pur utilizzando i fondi del Pnrr, allo stato però difficilmente realizzabile. Sono anni, infatti, che in Italia non si costruisce un’opera pubblica. Le normative, ad iniziare dal codice degli appalti, con il prevedibile strascico di contenzioni amministrativi, rendono impossibile porre in essere opere del genere in tempi relativamente brevi. Le uniche opere pubbliche, infatti, vengono realizzate quando si sospendono le procedure di legge e si nomina, come per il ponte di Genova, un commissario. Ma sul punto serve una volontà politica forte. Gratteri, comunque, ha incassato anche l’appoggio della segretaria nazionale dell’Associazione dirigenti e funzionari di polizia penitenziaria, Daniela Caputo, secondo cui serve «un capo per il nostro corpo operativo, unico tra le forze dell’ordine a non averlo. Un problema non più rinviabile, come hanno dimostrato le rivolte carcerarie del 2020. Il sistema di prevenzione penitenziario è parte integrante dell’ordine pubblico ed è giusto che abbia un vertice a regolarlo e organizzarlo».
L’outsider della contesa potrebbe allora essere Riello, procuratore generale di Napoli, recentemente “scottato” dalla mancata nomina a procuratore generale della Cassazione. Riello, in un duro articolo, aveva recentemente criticato il Consiglio superiore della magistratura. Una presa di posizione che potrebbe agevolarlo nel trovare sponda nell’attuale maggioranza che non ha mai lesinato critiche verso l’attuale gestione di Palazzo dei Marescialli post Luca Palamara. Per Renoldi, invece, l’eventuale conferma andrebbe letta nel segno della continuità, essendo stato scelto dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia con cui Nordio ha sempre avuto un buon rapporto. Tornado, comunque, a Gratteri, la sua scelta non potrebbe non mettere in “difficolta” lo stesso Nordio. La forte personalità del procuratore, molto mediatica e che non ha bisogno di comunicatori, metterebbe sicuramente in ombra il ministro. Con conseguenze facilmente immaginabili.
Riecco Nicola Gratteri: «Datemi il Dap, ma voglio pieni poteri». Il procuratore si candida alla guida del Dipartimento che si occupa di carcere e la cui poltrona vale più di 300mila euro. E si dichiara «vero garantista». Il Dubbio il 25 novembre 2022.
«Con Nordio ho parlato di arte, lui è un grande conoscitore di Storia. Anche io mi considero un garantista, io e il mio ufficio osserviamo in modo ortodosso le norme del codice. Ci sono diffamatori quotidiani che scrivono notizie false, ho iniziato cause civili contro questi diffamatori seriali. Da quando sono a capo della procura di Catanzaro non c’è una sola condanna per ingiusta detenzione, lo dice il presidente della corte d’appello. Non ci sarebbero le carceri piene in Calabria se le mie indagini fossero tutte un bluff». Così il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7.
Dal ponte sullo Stretto – «che i calabresi non vogliono mentre i siciliani non ne hanno bisogno perché i turisti arrivano coi voli low cost» -, alla questione migranti. Insomma, Gratteri, gran frequentatore di salotti televisivi dai quali lancia le sue nuove fatiche letterarie, non smette di stupire e ormai parla come un tuttologo qualsiasi. Non solo, sull’immigrazione e sullo scontro tra Roma e Parigi, veste i panni di ministro degli esteri e invita al silenzio Francia e Inghilterra che, dice, “non possono parlare per il loro passato coloniale”.
Poi il velato, ma neanche troppo, apprezzamento al governo Meloni – «l’unico che ha parlato di mafia” – e l’ammiccamento per la poltrona di capo del Dap, che vale più di 300mila euro l’anno: «Nessuno mi ha chiesto di fare il capo del Dap. Forse è un desiderio della polizia penitenziaria ma dipende da che libertà mi danno, devo avere mani libere». Il che ricorda il poco fortunato voglio pieni poteri di una Salvini convinto di vincere le elezioni, salvo poi scoprire di stare sotto il 10%. Insomma, il solito Gratteri, che tra un giudizio e l’altro, non dimentica di ricordare che lui è un «vero garantista» (sic!), che la separazione delle carriere sarebbe una iattura e che la riforma Cartabia andrebbe cancellata. Punto.
Un passaggio il procuratore di Catanzaro lo dedica anche all’annunciata modifica dell’abuso d’ufficio. «L’abuso d’ufficio è un reato difficile da dimostrare, così come è formulato – ha sottolineato -. Ma è un reato spia, e secondo me serve. Non vorrei che alcuni sindaci scegliessero di usare il Comune come casa propria. Dovremmo accorpare i comuni più piccoli, poi i sindaci se vogliono un parere tecnico prima di apportare una firma possono chiederlo, se invece vogliono favorire il parente o l’amico è giusto che gli arrivi l’avviso di garanzia».
Faccia causa prima di tutto ai giudici del Riesame. Lo show di Gratteri da Lilli Gruber, le bufale del pm: “Io garantista, tra i miei arresti non ce ne è uno infondato”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Novembre 2022
Nicola Gratteri a capo del Dap? Nessuno glielo ha chiesto ufficialmente, ma lui accetterebbe solo a determinate condizioni: “Voglio la mano libera, voglio poter fare la rivoluzione”. Vedremo. Ma intanto dobbiamo constatare con rammarico che la domanda su Marcello Manna non gliela hanno fatta, né Lilli Gruber né Massimo Giannini. Così il procuratore di Catanzaro, ospite di “Otto e mezzo” giovedì sera, ha potuto affermare che, sulla base anche di affermazioni del Presidente della Corte d’appello, a Catanzaro non esiste una sola custodia cautelare infondata. E aggiunge: le carceri calabresi sono piene!
Se i miei arresti fossero dei bluff, non lo sarebbero, no? Allora quei 120 che hanno richiesto il rimborso per ingiusta detenzione cautelare nel 2021, e che rendono Catanzaro terza in Italia dopo Napoli e Roma, sono tutti matti? Ma il procuratore è uso a tirare dritto, così non manca di annunciare ai “miei denigratori quotidiani e seriali”, che pubblicano notizie false almeno al 99%, di avere in cantiere un po’ di cause civili. Peccato, così si omologherà a tutti gli altri magistrati, quelli da cui lui ha sempre preso le distanze, quelli che si nutrono di correnti e carrierismo e poi, chissà perché, quando decidono di ricorrere contro affermazioni giornalistiche che ritengono diffamatorie, preferiscono la causa civile, cioè la via del risarcimento economico, rispetto a quella penale. Se avevamo suggerito a Lilli Gruber la domanda su Marcello Manna, non era solo perché la sua vicenda è stata solo l’ultimo caso di sconfessione di un provvedimento di custodia cautelare (domiciliare) eseguito da un gip su richiesta della Dda di Catanzaro, ma in particolare per le motivazioni di quella “scarcerazione”, depositate dal tribunale del riesame nei giorni scorsi. Il sindaco di Rende, cittadina del cosentino, aveva subito la misura cautelare all’interno di un blitz chiamato “Reset”, con 253 indagati, di cui 139 finiti in carcere, 51 ai domiciliari e 12 sottoposti all’obbligo di firma, che era stato presentato come importante azione contro la ‘ndrangheta del cosentino.
Il sindaco e due assessori erano indicati come “tre professionisti” che avrebbero favorito con la loro attività amministrativa le ‘ndrine. Ora, il dottor Gratteri se la può prendere con i suoi colleghi giudici del tribunale del riesame se, dopo aver reso libero il sindaco di Rende, avevano motivato la decisione asserendo non solo che nei confronti dell’avvocato Manna non esistevano elementi che lo potessero mostrare come contiguo alle mafie, ma addirittura esistevano motivazioni del contrario. Cioè, il procuratore e il gip di Catanzaro avevano arrestato come mafioso uno che invece la mafia la combatteva. Il procuratore Gratteri vuole fare causa a chi dice o scrive che ha preso un abbaglio? Allora faccia causa prima di tutto a quei giudici. Diversamente ammetta che quanto meno ci si può sbagliare. Nell’intervista a Lilli Gruber si è definito “garantista”, perché “lavoro con il codice in mano”. Certo, ci mancherebbe, ma forse potremmo fare insieme un ripasso degli articoli del codice di procedura penale sulle misure cautelari. E poi, andando a ritroso, andare a riesaminare tutti i casi, soprattutto di amministratori pubblici, in cui le misure da lei richieste a dal gip accolte, sono state poi sconfessate dai giudici, a partire dal processo “Rinascita Scott”, ma forse anche precedenti. I nomi Oliviero e Tallini le dicono qualcosa?
C’è stato un altro aspetto preoccupante nella sua intervista dell’altra sera, del resto interessante, perché sintomatico di una cultura giuridica che ci è difficile definire come appartenente a un “garantista”. Il discorso sulle intercettazioni. Il famoso decreto frettolosamente approvato dal governo Meloni nella sua prima seduta, per sanzionare più severamente i rave party, prevedendo reati con pena edittale massima di sei anni, includevano la possibilità di intercettare. Cosa che al procuratore Gratteri non dispiace affatto, perché, benché definisca la norma come “non impeccabile”, ritiene importante che le intercettazioni vadano fatte “prima” dell’avvenimento, cioè quando si intuisce che le persone stiamo per commettere reati. E’ proprio quella che, fin dai tempi del terrorismo nostrano, anche ampi ambienti della stessa magistratura denunciavano come la “cultura del sospetto”. Cioè quella ricerca del reato, un vero processo alle intenzioni, che dovrebbe essere estraneo ai compiti del pubblico ministero. Falcone docuit.
Il problema non si porrà per quel decreto sui rave, visto che il Parlamento sicuramente lo modificherà in direzione contraria a quella auspicata dal dottor Gratteri. Ma il problema della cultura giuridica di tanti magistrati, in particolare pm, rimane. Altro che cultura delle giurisdizione, il concetto usato non solo dal procuratore di Catanzaro per giustificare la propria contrapposizione a chi, come il ministro Nordio e forse tutto il governo Meloni, auspica una vera separazione delle carriere tra funzioni giudicanti e requirenti. A proposito di questo argomento, nella trasmissione, che probabilmente era registrata, si è citato il caso della Francia, dove i pubblici ministeri dipendono direttamente dal ministro di giustizia.
Anche Gratteri, come la gran parte dei suoi colleghi, paventa come rischio assoluto e disastroso la sottoposizione del pm al governo, come inevitabile passo successivo alla separazione delle carriere. A parte il fatto che questo passaggio non è inevitabile (per quanto auspicabile, come in ogni sistema occidentale moderno), perché si potrebbero istituire due diversi Csm, il caso Francia è esemplare. Perché proprio nei telegiornali, La7 compreso, della stessa serata, veniva data la notizia che il presidente Macron è indagato per finanziamenti irregolari durante la campagna elettorale. Quindi, un pubblico ministero che dovrà rispondere dei suoi atti a un ministro sta tranquillamente indagando in sede penale sul Capo dello Stato. Saremo dunque noi da meno dei francesi?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
L'amministrazione penitenziaria merita ben altro. Gratteri non può andare al Dap, non si affidano le carceri a chi ha fatto inchieste show senza costrutto. Otello Lupacchini su Il Riformista il 18 Novembre 2022
A fronte dei rumors raccolti e rilanciati da il Riformista, circa le grandi manovre in corso per insediare il dottor Nicola Gratteri al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, mi sorge spontanea la domanda, considerata la vocazione di «Rattenfänger» o «ciaparat» che dir si voglia, confessata ore rotundo dall’odierno procuratore della Repubblica di Catanzaro, se sia assurta, fra le altre, a irrinunciabile «priorità» del Gabinetto Meloni, anche la «derattizzazione» degli Istituti di pena della nostra amata Patria.
Il pretesto per avanzare un simile interrogativo mi è offerto dalla lettura di un passo delle Memorie dell’architetto Andreï Mikhaïlovitch Dostoevskï, fratello del più noto Fëdor, relativo a una delle brutte «sorprese» riservategli dalla cella in cui era stato rinchiuso dopo una giornata e parte della notte trascorse nella «terza sezione» degli uffici della polizia moscovita, a seguito dell’arresto per motivi politici patito il 23 aprile del 1849, «Non appena si fece buio, e mi portarono il lumino», racconta, infatti, Andreï Mikhaïlovitch, «piano piano cominciarono a comparire dei ratti di dimensioni enormi (…). Talora ce n’erano dieci alla volta e io, temendo che si arrampicassero nella mia cuccetta, non dormivo, fino all’alba. Non riuscivo a capire da dove saltassero fuori (…). Alla luce del giorno non si vedevano. Ma bisogna pur dire che era fine aprile e inizio maggio faceva giorno presto, l’avevo, il tempo per dormire. Oltretutto, dormivo sempre anche di pomeriggio, dopo pranzo». Non mi nascondo il rischio che qualcuno dei tanti, per dirla con Friedrich Nietzsche (Götzen-Dämmerung, 1889), «fari nel mare dell’assurdo», magari un Maitre ein Stifter dell’«io sto con…», incistati da grassi parassiti nelle Istituzioni, «mito impossibile», d’«esaltazione che si toglie la sottana», potrebbe muovermi la resistibile obiezione che n’è passato di tempo da quando l’architetto Dostoevskï era ospite non di un carcere di questa Nazione, ma di una prigione della Russia zarista, potrebbe muovermi l’accusa, è già successo, del resto, di essere «sarcastico». Poco male. Conservare la propria allegria in mezzo a faccende oscure e oltremodo gravide di responsabilità, non è artificio da poco, ma del resto cos’è più necessario dell’allegria?
Com’è ovvio che sia, il dottor Carlo Nordio, che anche in virtù della sua generalmente riconosciuta cultura garantista è stato insediato al vertice del ministero della Giustizia, certamente, sempre che addirittura non l’abbia già fatto, smentirà sdegnosamente, non solo a parole, naturalmente, ma soprattutto con i fatti, la notizia diffusa da il Riformista. A meno che non voglia «perdere la faccia». L’Os aureum di Gerace, infatti, non perde occasione, nella sua bulimia mediatica nota lippis et tonsoribus, di ostentare l’allergia per la Costituzione, la fedeltà alla quale, nell’ambito della legislazione penale, è specchio dell’autentica democraticità dello Stato: a prescindere dal suo retorico pessimismo come rigurgito del pranzo sui futuribili in generale del processo penale e specialmente dei «maxiprocessi», per effetto dell’entrata in vigore della pur timidissima riforma Cartabia, aliena gli è l’idea stessa che teoria generale del reato e funzione della pena non siano due momenti concettuali distinti, posto che dal fine costituzionalmente attribuito alla pena può derivare una connotazione globale e sostanziale dello stesso illecito penale; è altresì fuori dai suoi orizzonti culturali il «nuovo volto» del reato, quale risulta dalla combinazione dei principi desumibili soprattutto, ma non solo, dagli articoli 2, 3, 13, 24, 25 e 27 della Costituzione, come fatto previsto in forma tassativa dalla legge, di realizzazione esclusiva dell’agente o in ogni caso al medesimo riconducibile tramite un atteggiamento colpevole (doloso o colposo), idoneo a offendere un valore costituzionalmente significativo, minacciato con una pena proporzionata anche alla significatività del valore tutelato e strutturalmente caratterizzato dal teleologismo costituzionalmente attribuito alla sanzione penale e, infine, intollerante rispetto ad ogni articolazione probatoria che faccia in qualche modo ricadere sull’imputato l’onere della prova o il rischio della mancata allegazione di elementi di ordine positivo che ne caratterizzano la struttura; al fondo di ogni suo discorso è dato leggere, del resto, il messaggio che tolti lui e quelli che la pensano come lui l’ordine decade a caos, la convinzione, cioè, ch’egli e quelli come lui stiano adempiendo a una sorta di missione salvifica: il male pullula nel mondo, dunque va represso, la scimitarra della giustizia non ha guaine, incombe continuamente.
Sintomatico di tutto questo è l’ossessivo susseguirsi, del resto, di «massicce operazioni» o «grandi retate» o «mega blitz» anti-’ndrangheta, con decine e decine, se non addirittura centinaia di arresti, abbattentisi sulla Calabria, per iniziativa della direzione distrettuale antimafia della quale l’Os aureum è a capo; blitz, operazioni e retate che, per dirla con Boncompagno da Signa, «evanescunt sicut umbra lunatica»: dopo le roboanti conferenze stampa promozionali, ben presto esse vengono irrimediabilmente ridimensionate, se non addirittura travolte e totalmente vanificate, nei procedimenti incidentali de libertate, quali riesame e Cassazione, e nei dibattimenti davanti ai tribunali o alle Corti d’assise o alle Corti d’appello o alla Corte di cassazione, le motivazioni dei cui provvedimenti evidenziano, in inquietante sintesi, l’incontenibile pulsione che prova il titolare della funzione d’accusa a punire, purtroppo, senza legge, senza verità, senza colpa. Pur non essendovi evidenza alcuna che il ministro Carlo Nordio sia in qualche modo disponibile a «perdere la faccia» chiamando il dottor Nicola Gratteri al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la vulgata, alimentata dal continuo rincorrersi di voci correnti nel pubblico, vedrebbe un bizzarro sodalizio, quello che chiamerò M.U.F., esercitare fortissime pressioni sia sul Governo sia sulle Opposizioni, per favorire la nomina dell’Os aureum di Gerace.
Pur in mancanza di evidenze in tal senso, non è tuttavia temerario intravvedere, sulla scorta dell’id quod plerumque accidit – si chiama, questa, «prova critica» – quale possa esserne il fondamento, non perdendo di vista né i posizionamenti politici dei membri del M.U.F. né l’influenza che ognuno di essi può avere, e su chi, per le funzioni da essi, sia precedentemente sia attualmente, svolte. Ma altri sono gli indici rilevanti dai quali non si può prescindere. La prigione, come evidenziato dalla letteratura scientifica e constatato, anche da me, nella pratica quotidiana, è di sicuro la più efficace e la più feconda fra tutte le istituzioni che producono illegalismi. Dalle carceri si esce quasi sempre più delinquenti di quando vi si è entrati: per via degli effetti del disinserimento sociale, dell’esistenza del casellario giudiziale, del formarsi di sodalizi delinquenteschi e di tant’altro. Il funzionamento interno delle prigioni, inoltre, è possibile solo a prezzo di un gioco di illegalismi, al tempo stesso molteplici e complessi: i regolamenti interni sono sempre assolutamente contrari alle leggi fondamentali che, nel resto della società, garantiscono i diritti umani; la galera è luogo di violenza fisica e sessuale esercitata sui detenuti, dai detenuti e dagli agenti di custodia; è luogo di commerci incessante e, ovviamente, illegale, tra detenuti, detenuti e agenti di custodia, tra questi e il mondo esterno; è, altresì, un luogo in cui l’amministrazione pratica quotidianamente l’illegalismo, fosse anche solo per coprire agli occhi della giustizia e dell’amministrazione superiore, da un lato, e dell’opinione pubblica, dall’altro, tutti gli illegalismi che si producono al suo interno; è finalmente un luogo di cui gli apparati polizieschi si servono per reclutare la loro manovalanza, i loro informatori, i loro scagnozzi, all’occorrenza i loro assassini e ricattatori.
La sempre maggiore consapevolezza che tra le tante priorità vi sia anche quella del carcere, grave e incivile situazione, indegna perché offende innanzitutto la dignità, a cui si accompagnano la richiesta, dai pulpiti più autorevoli, di riconsiderare il ricorso alla detenzione intramuraria come forma prevalente di esecuzione della pena e la stigmatizzazione del fatto che la restrizione in un penitenziario offende la dignità della persona, negando l’affettività, privando dello spazio e annullando il tempo, che cessa di esistere nel momento in cui chi è recluso in una cella viene anche privato della prospettiva del riscatto, vanno di pari passo con la progressiva perdita d’utilità del ruolo della prigione, quale macchina per la fabbricazione dei delinquenti in vista della diffusione e del controllo degli illegalismi. I grandi traffici di armi, di droga di valuta sfuggono, infatti, sempre più alla competenza di un ambiente di delinquenti tradizionali, che magari erano dei bravi ragazzi, ma forse incapaci, perché formatisi in galera, di diventare i grandi trafficanti internazionali di cui c’è bisogno ora. Qui, tuttavia, si profila prepotente un altro interrogativo: è concepibile un potere che non ami l’illegalismo, che non abbia bisogno di possedere gli illegalismi, controllarli e mantenersi saldo se non mediante il loro esercizio? La risposta, com’è ovvio è negativa, la domanda va dunque elusa. E chi, meglio dell’Os aureum di Gerace, o simili, al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, potrebbe compiere l’esorcismo? Ecco perché, paradossalmente, ma anche con buona pace di tutti, in nome della ragion di Stato, le chances di Nicola Gratteri potrebbero essere, nonostante tutto, molto concrete.
Otello Lupacchini, Giusfilosofo e magistrato in pensione
Manettari all'attacco del giornale dei detenuti. Il Fatto si scaglia contro Ristretti Orizzonti: “Colpevoli di scrivere” Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Novembre 2022
Sembra una vera istigazione a punire, quella lanciata ieri dal Fatto contro una serie di detenuti chiamati con nomi e cognomi, colpevoli di scrivere le proprie opinioni sulla rivista del carcere che va sotto il nome di Ristretti orizzonti. Vengono sfottuti, anche, “I boss diventano opinionisti”, e richiamati, in modo che chi di dovere si imprima bene l’elenco delle loro malefatte nella memoria, i tremendi reati commessi, quelli che, venti o trent’anni fa li hanno portati all’ergastolo. “Ostativo”, ecco la parola chiave. Detenuti al regime del “41-bis”, ecco l’altra parola chiave. Sembra un paradosso. Da una parte si legittima Roberto Saviano e il suo diritto a insultare con la parola più infame nel nome della libertà di pensiero e di parola. Dall’altra si mettono alla gogna gli ergastolani, come se non stessero comunque e da lungo tempo scontando la loro pena, perché osano pensare, avere opinioni, e persino comunicarle con la scrittura.
Lo spunto arriva da un atto più che discutibile di una onlus dal nome “Casa della carità”, diretta da Christian Abbondanza, che avrà sicuramente avuto il merito di studiare l’espansione delle mafie, in particolare la ‘ndrangheta, nelle regioni del nord, ma questa volta ha compiuto un atto violento e cinico. Secondo quanto raccontato dal Fatto questa onlus avrebbe presentato un esposto alla Dia, perché “attraverso Ristretti Orizzonti vengono promosse o diffuse pubblicazioni, anche scritte dagli stessi detenuti, di sistematico attacco all’ergastolo ostativo e al 41-bis”. Dunque, se abbiamo capito bene, la Direzione Investigativa Antimafia dovrebbe aprire indagini sulle carceri di mezza Italia e censurare il diritto di pensiero di parola e di scrittura dei detenuti che si esprimo sulla loro rivista. Perché questo è Ristretti Orizzonti, il luogo di espressione di chi è “ristretto” e spera che il proprio orizzonte non cominci e finisca dentro le mura di una prigione. È la rivista della speranza, del riscatto e del cambiamento, di quelli che hanno fatto un percorso autocritico, hanno lavorato, hanno studiato, alcuni si sono laureati. In giurisprudenza, spesso. E questo fa scandalo.
Lo stesso articolo del Fatto riconosce l’importanza dell’esistenza di un luogo del pensiero come quello. Ma il suo ruolo è anche di denuncia, andrebbe aggiunto, come il lavoro minuzioso e certosino di ricerca sul fine vita, oltre che sul fine pena. Sulle morti “naturali”, dietro cui si nasconde troppo spesso la non voglia di sopravvivere più se non si può vivere. E sui suicidi, tragico conteggio che quest’anno sta arrivando agli ottanta. Ristretti Orizzonti parla di libertà e di diritti. E perché non dovrebbe divulgare il proprio pensiero critico sia su quel laccio che stringe alla gola coloro che sono destinati dalla condanna all’ergastolo ostativo, vera pena di morte sociale, che sul trattamento previsto dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario che aggiunge chiusura a chiusura, catenacci a catenacci? Vogliamo togliere loro anche l’aria, oltre alla libertà? Singolare modo di ragionare, quello di coloro che hanno chiamato in causa la Direzione Investigativa Antimafia. Fanno le pulci mettendo il naso dentro la redazione della rivista. “Fino al 2014 – denunciano nell’esposto – vi scrivevano perlopiù detenuti comuni, dopo è cambiato tutto”.
Sarebbero stati i boss mafiosi a impadronirsi della rivista, a conquistare il potere (il potere?), a imporre le proprie battaglie. Pensate che osano persino comunicare concetti come questo: “Non si può comprimere la volontà di riscatto… a chi sta rivedendo la sua storia, riesaminando le sue scelte criminali, rendendosi disponibile a fare testimonianza della sua vita e del suo percorso in varie forme…”. Ma tra questa forme non è contemplata la collaborazione, fa subito notare il Fatto. Sta tutto qui il succo del discorso, lo scandalo da segnalare addirittura alla Dia. C’è da domandarsi a che tipo di sub-cultura appartengano gli aderenti alla onlus che ha presentato l’esposto. Sia per aver cercato di coinvolgere un’importante agenzia investigativa che ha il compito di prevenire l’espandersi delle attività criminali e non certo quello di soffocare la rivendicazione dei propri diritti da parte di chi sta scontando la pena e sta rivisitando in forma autocritica il proprio passato. Ma anche per l’ignobile divulgazione di nomi e cognomi con allegata casella giudiziaria. Una vera gogna cui, ma di che stupirsi, il Fatto si è prestato a fare da trombettiere.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Reati ostativi e dintorni: Stato di diritto verso il collasso per bulimia penale. Provvedimenti su onde emotive, inasprimento delle pene a ogni allarme sociale e leggi emergenziali diventate ordinarie e introdotte per ogni fattispecie ritenuta grave. E il carcere, ma non solo, esplode. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 7 Novembre 2022.
Non essendo in grado di fornire risposte di tipo politico, o sociale, o culturale, o educativo a determinati fenomeni di cronaca, la politica sceglie puntualmente la via più breve, tra l’altro di facile consenso: quella di introdurre sempre nuove figure di reato, indipendentemente da qualunque fenomenologia criminale, da qualunque osservazione degli effetti che nuove pene hanno in concreto.
Puntualmente, però, tali provvedimenti, a lungo termine non offrono la soluzione. E allora che fare? Si inaspriscono le pene. Ed è così che il governo ha subito emanato due decreti. Uno ‘conservativo”, ovvero rendere il più difficile possibile – se non impossibile – la concessione dei benefici penitenziari ai detenuti che rientrano tra i reati cosiddetti “ostativi”. L’altro è spacciato per “salvifico”, mentre in realtà è l’inasprimento di una pena già esistente per risolvere l’emergenza (dettata dai mass media) “rave party”. In realtà c’è il sospetto che anche il terzo decreto, quello che rimanda a fine dicembre l’attuazione della riforma Cartabia, non sia così distante dal panpenalismo. Sì, perché contempla anche la giustizia riparativa e le misure alternative. Alla luce del mantra della “certezza della pena”, potrebbero fare qualche ritocchino in senso restrittivo? Ma è solo un’ipotesi, e si spera che venga smentita dai fatti.
a conseguenza, tra l’altro dettata dalla retorica populista penale “certezza della pena”, è che pena significhi sempre più carcere, e soltanto carcere. Se la legislazione si è nel tempo evoluta, nel senso di affiancare alla detenzione pene e percorsi alternativi, nell’uso politico che si fa del tema tutto questo scompare, e fare giustizia significa quasi soltanto sbattere in galera e buttar via la chiave. Gli effetti concreti ce li abbiamo davanti ai nostri occhi: il sovraffollamento carcerario. Da ricordare sempre che, oltre al discorso dell’abuso della custodia cautelare (e quindi i relativi innocenti fino a prova contraria in carcere), abbiamo il dato che il garante nazionale delle persone private della libertà ha snocciolato nella sua recente relazione al parlamento: dei 54.786 detenuti registrati a giugno scorso e dei 38.897 che stavano scontando una sentenza definitiva, ben 1319 sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2473 per una condanna da uno a due anni.
L’emergenza carceraria, oggi ancora più esasperata per il numero abnorme di suicidi in carcere, è anche il frutto di una politica miope (e continua ad esserlo per ricercare il consenso) che ha voluto vedere nella sanzione penale, e, quindi, nel carcere, la soluzione di ogni problema. Il panpenalismo esasperato, una volta contestualizzato in un sistema che prevede l’obbligatorietà dell’azionepenale, una volta contestualizzato all’interno di un sistema sanzionatorio penale che è basato prevalentemente sulla privazione della libertà personale, e una volta contestualizzato in un sistema di misure, in cui non sono precisamente e tassativamente delineate le ipotesi di custodia cautelare in carcere, ci sta man mano riportando a quelle condizioni che fecero scattare la famosa sentenza Torregiani della Corte Europea dei diritti umani.
L’articolo 4 bis, quello ostativo, è l’esempio perfetto del panpenalismo. Una norma che nasce come una eccezione (le stragi di mafia) ma che con il passar del tempo si è ampliata e come una calamita ha attirato a sé tutti quei reati che diventano – a seconda le emozioni del momento – delle vere e proprie emergenze. Anche quando le emergenze, di fatto, non ci sono. Tant’è vero che siamo arrivati fino alla “spazzacorrotti”. La famigerata riforma Bonafede che ha allargato il 4 bis anche nei confronti di chi commette reati di corruzione nella pubblica amministrazione. Se si analizza il catalogo dei reati ostativi contemplati nelle versioni di volta in volta innovate, si può allora constatare come tale catalogo si estenda al verificarsi di fenomeni criminali che suscitano un particolare allarme sociale (traffico di immigrati, reati a sfondo sessuale, terrorismo fino ad arrivare, appunto, alla corruzione).
La norma evita le che persone condannate per determinati delitti (quindi non solo mafiosi), di volta in volta ritenuti sintomatici di pericolosità sociale, possano usufruire dei permessi premi (poche ore fuori dal carcere) o la liberazione condizionale: si è creata una presunzione di pericolosità superabile solo attraverso condotte collaborative o in presenza di determinati elementi e paletti quasi insormontabili per cercare di evitare che la sentenza della corte costituzionale si pronunci definitivamente.
Nulla cambia, il governo Meloni è in perfetta continuità con il passato: si continua a legiferare con decretazione d’urgenza, reiterando i provvedimenti e incidendo su quelli già vigenti in chiave di inasprimento. I problemi di ordine e sicurezza non vanno ignorati, ma è non si può rispondere sempre con i soliti strumenti penali. Non è una visione sovversiva, ma liberale. Il tempo passa, e si rischia di non controllare più il fenomeno della bulimia penale. E come ogni malattia non curata, si rischia il collasso definitivo.
Ennio Amodio: «L’ossessione panpenalista minaccia le nostre libertà». Il professore emerito di procedura penale all'Università di Milano: «Il diritto penale minimo è un principio che va raccordato con quello della proporzionalità». Valentina Stella su Il Dubbio il 7 Novembre 2022.
Il primo atto del governo in materia di giustizia, ossia la creazione del nuovo reato “anti rave party”, ha riacceso la vecchia polemica su uno dei grandi mali che affligge il nostro sistema giudiziario: il panpenalismo, ossia la tendenza di potere risolvere tutto con il codice penale. Ne parliamo con Ennio Amodio, avvocato penalista, professore emerito di procedura penale all’Università di Milano, che ci spiega il legame tra questo fenomeno e le derive autoritarie, populiste e vittimo-centriche.
Professore i primi atti del governo sono stati in materia di giustizia. Senza entrare per il momento nel merito dei tre provvedimenti, qual è il suo giudizio in generale?
Gli esponenti del nuovo corso politico, subito dopo la vittoria elettorale, hanno esibito un inappuntabile doppio petto. Appena messo piede a Palazzo Chigi hanno però abbandonato moderazione e ragionevolezza togliendosi la giacca e rimboccandosi le maniche della camicia. Ne è venuta fuori la loro autentica vocazione autoritaria che ha ispirato tre provvedimenti in tema di giustizia e sicurezza. Nel decreto-legge firmato dal nuovo governo c’è anzitutto la rimasticatura a denti stretti del regime dell’ergastolo ostativo, poi il rinvio della riforma Cartabia per quanto riguarda il processo penale e, infine, la creazione del reato di occupazioni abusive a fini di rave party. Sono tutti interventi che, a ben vedere, traducono nel legalese ministeriale la formula tanto cara a Matteo Salvini secondo cui «la pacchia è finita », usata spesso per annunciare la discontinuità rispetto alla tolleranza manifestata in passato verso una diffusa illegalità.
Scendiamo nel dettaglio ossia sul rinvio della riforma Cartabia. Era necessario?
Il rinvio della riforma Cartabia serve al centro destra per rimettere le mani nella pasta del lavoro legislativo. Il pretesto è quello di raccogliere il “grido di dolore” delle Procure tanto inquiete per l’imminente svolta nel senso della massima speditezza della macchina giudiziaria. Il vero obiettivo è però un altro, come conferma il richiamo della Presidente Meloni all’esigenza di migliorare il testo varato dal governo Draghi. Si vuole riscrivere la riforma evidentemente in ossequio ad un sano sentimento giustizialista
434 bis: è il nuovo reato illustrato dal ministro Piantedosi. Che ne pensa?
L’incriminazione delle occupazioni abusive di terreni o edifici per raduni illegali è davvero la scelta che esprime nettamente l’avvio sulla strada del diritto penale totale, come usava dire Filippo Sgubbi. Non solo: si dà vita ad una fattispecie che funge da grande contenitore di tutte quelle condotte di raduno generatrici di un qualche pericolo, anche del tutto estranee alla finalità di un rave party. C’è di più. Si capisce benissimo che è un intervento additivo che accresce l’efficacia punitiva già derivante da preesistenti norme penali.
Si tratta di una legge manifesto?
È fin troppo chiara l’opzione per una legge-manifesto, una previsione criminosa simbolica che impatta su un fatto recente come quello del grande raduno di Modena. Ciò che più rileva per chi scrive la norma bandiera non è tanto la sequenza delle parole che definiscono la fattispecie, ma l’etichettamento che ne deriva in termini di impronta criminosa cucita addosso a chi si trova in una certa situazione.
A proposito di simboli, ergastolo ostativo e pena: esiste la tentazione di utilizzare esseri umani imprigionati a vita come simbolo e funzionali alle esigenze preventive generali?
Si ha il timore che una persona, pur avendo scontato una lunga pena per un grave reato, torni a delinquere se lasciata libera. È questa una credenza molto diffusa e sta alla base dell’avversione dei benefici penitenziari. Nel carcere, come dice spesso pure Salvini, bisogna andarci e marcire, così i cittadini sono sereni e tranquilli. Poi c’è indubbiamente come diceva lei l’aspetto di prevenzione generale: si pensa che più si può sbandierare il fatto che pericolosi mafiosi e terroristi stanno in carcere segregati e più si dimostra che lo Stato difende la collettività.
Ma in realtà sono credenze errate.
Questo problema è stato studiato da tempo. Consiglio di leggere un libro molto famoso che nel 2007 uscì negli Stati Uniti: “Governing through Crime: How the War on Crime Transformed American Democracy and Created a Culture of Fear”: governare attraverso il crimine, enfatizzando la paura del delitto e quindi spingere i cittadini a mettersi nelle braccia dei governanti.
In che direzione stiamo andando?
Siamo quindi di fronte ai primi atti di una stagione politica che sembra puntare sulla leva del giustizialismo per governare la materia della sicurezza pubblica e del controllo della criminalità. Forse vedremo realizzarsi una fusione. Da un lato, il credo populista con il primato attribuito alla pena come risposta emotiva generata dalle vittime del reato. Dall’altro, l’autorità politica che usa il diritto penale come la medicina necessaria a combattere il virus della delinquenza.
Tutto questo scenario non stride con l’esigenza invece di una forte depenalizzazione del nostro sistema?
Certamente. È una posizione assolutamente antitetica ma risponde a una esigenza che è tipica della politica della destra di avere un diritto penale sempre pronto ad intervenire in qualsiasi evento di rilievo sociale per far vedere che lo Stato è sempre vicino alle vittime e riesce a colpire anche al di là del sistema vigente. È una immagine che si vuole dare dello Stato pronto a colpire il delinquente in qualsiasi momento e in qualsiasi occasione.
Il potere di punire, «tanto terribile quanto necessario » ha assunto «delle dimensioni esorbitanti e non solo in Italia: c’è un panpenalismo che connota il nostro tempo fatto di abuso e invasività del diritto penale» per cui «creare aggravanti o innalzare le pene è la scorciatoia» con cui si risponde ai problemi. Lo aveva detto lo scorso anno l’ex ministro Cartabia. Stiamo rafforzando questo quadro?
Condivido il pensiero dell’ex Guardasigilli. Siamo nella linea di una ricerca del diritto penale minimo, per riservare l’intervento punitivo alle violazioni più gravi proprio per far intendere a tutti che la pena carceraria è la sanzione più capace di incidere sulla vita delle persone. La pena dovrebbe rieducare ma di per sé distrugge l’individuo: il costo che implica per la persona che la deve scontare è talmente alto alcune volte da impedire che si realizzi la rieducazione voluta dalla Costituzione. Negli altri casi lo Stato può utilizzare sanzioni amministrative o le pene pecuniarie. La stessa riforma Cartabia del processo penale ha ridotto anche l’intervento penale aumentando i casi di perseguibilità a querela. È l’indice di una posizione contrapposta a quella che sembra aver sposato il governo di destra.
Diversi pubblici ministeri hanno criticato questa parte della riforma.
Evidentemente non sono a favore di un diritto penale minimo e lo trovo incomprensibile considerato che tale visione gioverebbe al fine di accrescere la funzionalità delle loro indagini.
La recente iniziativa del governo mette in evidenza non solo la creazione di un nuovo reato ma anche pene draconiane ad esso connesse.
Il diritto penale minimo è un principio che va raccordato con quello della proporzionalità. Nei regimi autoritari si calpesta la proporzionalità. Secondo questo principio la risposta punitiva deve essere graduata sull’effettivo disvalore che nasce dal reato. È tutto il contrario di quello che afferma il populismo, vale a dire che tutte le volte che viene commesso un reato, la sanzione deve essere espressa nella chiave reattiva ed emotiva della vittima stessa
E come?
Con la pena massima, che non può essere mai estinta o attenuata dal perdonismo del giudice, ma che va scontata fino in fondo.
In Italia soffriamo di vittimo-centrismo?
Certamente, abbiamo cominciato a soffrirne molto quando si è sviluppata la politica penale del Movimento Cinque Stelle e della Lega. Nel mio libro “ A furor di popolo” ho cercato di individuare la trama di questo nuovo pensiero populista che abbandona i principi dell’Illuminismo e predica una penalità sempre più severa, che sgorga appunto dalla sete di vendetta delle vittime e scavalca il potere dei giudici.
In che senso?
Si dubita persino che i giudici siano in grado di interpretare il desiderio di applicazione della pena che arriva dalle vittime. Quindi si cerca di circoscrivere l’intervento discrezionale del giudice, considerandolo come lassista, un atteggiamento che un sistema non si dovrebbe permettere, in quanto la sanzione penale deve essere sempre dura e inflessibile.
Tra partiti politici, quali si sono mossi nella direzione di un diritto penale minimo?
In passato è sempre stata la sinistra a orientarsi in questa direzione ma non con sufficiente consapevolezza. In teoria ci si proclama favorevoli a riservare la sanzione penale solo ai casi più gravi. Però quando accade un evento che impatta fortemente sulla coscienza dei cittadini ecco allora che molti invocano la pena di morte o pretendono interventi durissimi nei confronti del reo. E quindi c’è sempre questo andamento fluttuante: il diritto penale minimo viene proposto e coltivato dalla dottrina più illuminata, ma trova poi degli ostacoli nella pratica attuativa. A volte il legislatore riduce l’ambito di applicazione del diritto penale ma poi nel momento in cui ci sono gli scossoni emotivi allora si ritorna a pensare di introdurre nuovi reati, come accaduto adesso per i rave party.
Ma quali sono le ragioni per cui nel nostro Paese il diritto penale «totale» è invocato in ogni situazione come intervento salvifico?
Si tratta di una componente quasi connaturale alla fisionomia e al sentire degli individui. Non a caso l’antecedente storico del diritto è la vendetta. Essa è una risposta che scaturisce dall’animo di chi ha subìto un certo torto e considera la riparazione e la pena come interventi da calibrare sull’entità della sua sofferenza. Invece, la forza del diritto penale moderno è quella di portare tutto il sistema verso proporzionalità, razionalità e rispetto della dignità dell’uomo.
«Una simile espansione del sistema penale scriveva Filippo Sgubbi – comporta il sacrificio dei principi fondamentali di garanzia, con l’aiuto del vigente clima di populismo e giustizialismo ». Quali sono dal suo punto di vista i rischi che corrono le garanzie individuali?
Sono evidentemente quei rischi che derivano dalla moltiplicazione delle figure di reato. Il diritto penale è retto dai principi di legalità e tassatività, e quindi ciascuno si comporta nella vita ben avendo presente che se supera una certa soglia può rispondere di un reato. Ma se a un certo punto il legislatore con la bacchetta magica può far diventare reato qualsiasi atto, allora il cittadino è nelle mani dello Stato e quindi non ha più la garanzia della sicurezza e della sua libertà, perché questa gli può essere sottratta in ogni momento.
Una possibile via di uscita?
A far da diga agli oscuri pensieri che rinnegano la dottrina di Beccaria sarà la nostra Costituzione. Almeno fino a quando non si vorrà modificarla per farle dire che il processo è giusto solo quando tutela il bene della difesa sociale.
La democrazia penale costituzionale e quella reale. Nuovi reati dettati dai media: è questo il primato della politica? Massimo Donini su Il Riformista il 6 Novembre 2022
Tra gli addetti ai lavori, anche in ambito internazionale, mi è accaduto di proporre alla discussione il tema della democrazia penale e degli aspetti invece tradizionalmente aristocratici deteriori di una legislazione lontana dal dibattito pubblico. Ne è sortito un piccolo dibattito tra specialisti, che da noi ha avuto scarsa eco. In Italia c’è invece la democrazia penale reale, quella dei mass media e del populismo legislativo e giudiziario. Dopo una parentesi offerta miracolosamente dal “governo dei tecnici” (che ovviamente ha fatto a suo modo politica, anche sotto la copertura di commissioni di studio) siamo ora tornati alla dimostrazione di che cosa significhi il vero primato della “politica” sulla “tecnica”.
Il decreto-legge sui rave parties ne è la dimostrazione. Una norma non dettata da necessità e urgenza ha introdotto nel sistema una incriminazione non solo non discussa “democraticamente” prima della sua delibera in consiglio dei Ministri, ma non discussa neppure tra i ministri prima del giorno della votazione. Unità di tempo e luogo dell’azione come nel teatro greco. Nella tragedia. Le leggi penali sono vicine alle leggi costituzionali, perché mettono a rischio la libertà, e dovrebbero per questo tutelare davvero, e non semplicemente compromettere, i diritti fondamentali. Ma in genere producono entrambi questi effetti deteriori. Per questo è giusto che una vera discussione pubblica preceda la loro introduzione.
È un aspetto della riserva di legge in senso sostanziale: che ci importa se c’è una maggioranza formale autorizzata a legiferare, se manca la discussione e la verifica tecnica, scientifica e politica previa, che è la vera garanzia “democratica” dell’aver riservato al Parlamento, anziché al Governo o a organi subordinati, la materia dei delitti e delle pene? Il tema è così avvertito tra i penalisti che almeno una significativa rappresentanza di studiosi ha proposto di introdurre una riserva rinforzata da una maggioranza qualificata per le leggi penali: non per amnistiare (decisione una tantum che lascia in vigore i reati estinti, e per la quale l’art. 79 Cost. richiede la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera), ma proprio per introdurre i reati, anziché abbandonarli alla giostra massmediatica dei governanti di turno che, mediamente ogni due anni, si alternano nei palazzi delle istituzioni.
Ci sono molti modi per aggirare questa esigenza di democrazia sostanziale. Uno è quello di affidare a commissioni di studio che elaborano i testi “in segreto”, per poi immetterli in un decreto legislativo; un altro è quello di affidare le regole ai magistrati degli uffici ministeriali; un altro ancora è dato dalla scelta finale di adottare procedure deliberative che aggirano le discussioni in aula. Il decreto-legge è la forzatura più evidente. Intendiamoci. Oggi tutto è così terribilmente specialistico e tecnico che anche per vendere un panino, per confezionarlo o distribuirlo occorre rispettare una serie di regole di sicurezza alimentare. Una scuola di cucina non esiste più senza esperti di chimica organica. Non parliamo di un qualche apparato industriale più complesso, della sicurezza del lavoro, della circolazione o delle linee-guida sanitarie. Forse che per le leggi penali qualcuno si è immaginato che sia diverso? Ebbene è così. C’è chi pensa da tempo di affidare alla “democrazia massmediatica” la materia penale. Lo pensa e lo realizza.
Sarebbe questo il primato della politica sui professori, sui tecnici. Sì che tutti sono autorizzati a scrivere di penale senza nessuna competenza, e quando ne parlano i “c.d. esperti” la loro voce non ha risonanza, perché utilizzano quegli argomenti che non interessano appunto alla “democrazia penale reale”. Ci sono forse al massimo due milioni di persone che possono ascoltare e leggere una pagina di competenze giuridiche professionali redatte in modo divulgativo. Ma decine di milioni che neppure la considereranno. Ecco, la democrazia penale reale si rivolge a queste decine di milioni di consociati. Gli altri, invece, non hanno o non coltivano argomenti massmediatici.
Questo ”metodo” di fare legislazione e pubblicità delle norme è il contrario di una tecnica legislativa seria e condanna il Paese a non avere mai una riforma organica di fondo in materia penale. Il fatto è che non si è capito, anche per mancanza di cultura e di formazione della classe politica, e non solo per interessi di consenso elettorale o quotidiano, che è davvero un problema di democrazia penale il saper affidare a competenze sia tecniche e sia dialogiche, in un contesto più allargato di tipo parlamentare e di addetti ai lavori, una materia come quella penalistica, ormai sempre più debole nel sostenere gli arcana imperii, perché tutte le sue logiche più occulte di potere o interessi privati vengono presto scoperchiate. Vediamo ora di testare quanto detto sulla normativa riguardante i rave parties.
Sono feste deliranti, espressione dionisiaca della contemporaneità. In genere fanno molti meno danni di una serata alcolica tra pochi amici o in discoteca seguita da incidenti stradali. Tuttavia, aumentano il rischio dell’uso collettivo di droghe e alcoolici, con possibili effetti collaterali su ordine pubblico, salute pubblica, incolumità pubblica. Quando questa possibilità sia concreta nessuno può dirlo. Se lo si scrive in una norma, che le sanzioni scattano in presenza di questa possibilità, è come dare a polizia prima e magistratura poi un potere molto discrezionale, a meno che non si esiga che da un certo fatto sia davvero derivato un pericolo: il che esige una verifica ex post che assicura un’offesa apprezzabile. Per carità, anche clausole di questo tipo sono aggirate dalla prassi, che trasforma spesso i c.d. reati di pericolo concreto (con prova ex post di un pericolo) in reati di pericolo astratto-presunto.
Orbene la norma introdotta in cdm ha previsto un pericolo potenziale. Che è qualcosa di più di un pericolo presunto, ma di assai meno di un pericolo concreto. Sul piano tecnico non c’è nulla di scandaloso. Abbiamo norme di pericolo presunto tra i reati contro l’incolumità pubblica, dove non è richiesto che dal fatto derivi né il pericolo, né la possibilità del pericolo: un caso eclatante è la rimozione od omissione di cautele antinfortunistiche (art. 437 c.p.): mai la democrazia penale reale se ne è occupata, perché è regola a tutela dei lavoratori (pena fino a cinque anni, salvo aggravanti), e punisce il datore anche se non ci sia nessun pericolo per l’incolumità, a meno che venga reinterpretata in concreto in modo più “offensivo”.
Nel caso dei rave parties, però, l’uso simbolico del penale è evidente. Si dice ai “benpensanti” che sostengono la politica della destra, che ora anche queste manifestazioni di disordine urbano o extraurbano finiranno nel carcere. Law and order passano attraverso decisioni occulte, rivelate al pubblico, e anche agli addetti ai lavori, perfino ad alcuni ministri, il giorno della delibera. Accade spesso, in ogni contesto, che quando si arriva alla decisione senza la discussione previa, si “debba” votare per solidarietà politica. Votare di tutto. La democrazia penale può infine aggiustare le cose a posteriori. I tecnici e gli esperti faranno critiche e opposizioni. Il testo potrà essere migliorato. Ma non emendabile è che sia stato deciso al di fuori di ragioni di necessità e urgenza: ragioni esistenti per altre regole approvate (ergastolo ostativo e legge Cartabia), ma non per le feste deliranti.
Ora a noi non interessa qui dare consigli, che già in tanti, esperti e assai meno, si affrettano a proporre. Dopo diciotto mesi di aristocrazia penale del governo Draghi, nella quale un dialogo almeno tra esperti è stato tentato, è riesplosa la democrazia massmediatica sui criminali. Né vogliamo fare professione di garantismo “contro la destra” magari senza averlo fatto contro le leggi della sinistra prima: uno sport che sta crescendo in questi giorni. Certo. Una riunione alcolica e tossica di più di cinquanta persone non è un fatto che si possa dire irragionevolmente ritenuto pericoloso almeno quanto la consegna di un apparecchio non a norma ai lavoratori. Ma di fatto quella consegna è punita come contravvenzione, senza scomodare il sopra menzionato delitto di cui all’art. 437 c.p. (applicato “discrezionalmente”, nella prassi, solo quando i fatti pericolosi sono più intensi o seriali), e viceversa le invasioni abusive di edifici anche pubblici, se realizzate da studenti o lavoratori, non vengono perseguite, sempre di fatto, (non) applicando un delitto da sempre esistente come l’art. 633 c.p.
Questo delitto già basterebbe anche contro i rave parties che siano davvero, come scrive la norma, realizzati invadendo arbitrariamente edifici privati o pubblici, cioè realizzando, appunto, il reato previsto dall’art. 633 c.p., perseguibile d’ufficio (e punito fino a quattro anni) se commesso da più di cinque persone. Il fatto è, peraltro, che nel bilanciamento interno a una incriminazione nuova, tra i diritti lesi potenzialmente (per es. di terzi o per l’ordine pubblico), e quelli sacrificati realmente (per es. di occupanti animati da istanze non ludiche), si deve tener conto delle manifestazioni in scuole, università, fabbriche, sostenute da ragioni politico-sindacali che hanno sempre trattenuto la magistratura dall’applicare, salve eccezioni, un delitto come l’art. 633 c.p.
Non è in gioco, tuttavia, il diritto di associazione, se lo si esercita comunque commettendo un delitto comune come l’art. 633 c.p. In ogni caso una politica di destra potrebbe sostenere anche solo l’utilizzo delle norme esistenti, che non mancano affatto. Ciò di cui si deve discutere, a livello massmediatico, è della qualità e dello stile della legislazione, la democrazia penale costituzionale, non quella reale. Quella reale la conosciamo, quella costituzionale ce la siamo da tempo solo immaginata. Non sappiamo in un governo “politico” ci siano tecnici che al suo interno hanno un peso decisorio, o se abbia senso immaginare un dialogo a distanza con loro. Se neppure i ministri “garantisti” conoscono in anticipo le leggi che vanno a votare, mancano i presupposti, i fondamentali per discutere della democrazia penale costituzionale che abbiamo immaginato. Massimo Donini
In chi possiamo sperare? I giornali si piegano al fasciogrillismo: sembrano tutti confezionati da Marco Travaglio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Novembre 2022
Le prime pagine dei giornali di ieri fanno venire i brividi. Con sfumature varie sono tutti con la Meloni (tranne le mosche bianche del manifesto e del Dubbio). Anche i giornali che avanzano qualche critica non osano né mettere in discussione la decisione di rafforzare l’ergastolo, in violazione della Costituzione, né quella di rinviare la riforma Cartabia per ordine (è stata questa la giustificazione addotta dal ministro) delle procure generali. I giornali che più colpiscono da questo punto di vista sono quelli della destra. Il Giornale, Libero, la Verità. Che sussumono anche nel linguaggio la spinta fasciogrillina – come l’abbiamo definita ieri su questo giornale, credo senza nessuna forzatura – che è alla base ideologica ed emotiva dell’offensiva reazionaria e di attacco allo Stato di Diritto lanciata da Giorgia Meloni.
I grandi giornali, forse in imbarazzo, cercano di aggirare il problema con titoli generici, che non comunicano le notizie clamorose uscite dal Consiglio dei ministri. Che poi sono quattro. Prima: sfida alla Costituzione, alla Consulta e all’Europa sull’ergastolo e sulla necessità di pentirsi e di mettersi a disposizione delle Procure per ottenere i benefici di legge (con l’aggiunta che si deve dimostrare la futura buona condotta). Questa prima sfida, oltre che alla Costituzione, a ben vedere, è anche ad Aristotele e alla logica formale. Seconda: sfida di nuovo alla Costituzione con la decisione di proibire le riunioni di massa previste come legittime dall’articolo 17 della Carta. Terza: inginocchiamento davanti alla magistratura che chiede di bloccare la riforma Cartabia. Quarta: sfida alla scienza, sbeffeggiata per avere ridotto le conseguenze tragiche dell’epidemia di Covid.
Come possano politici, intellettuali e giornalisti applaudirle questa raffica di decisioni insensate e repressive, è un mistero. Anzi, è la prova della fine ingloriosa di quella che fu la arrembante intellettualità italiana dei tempi di Calvino, Sciascia, Biagi, Scalfari, Montanelli. Ora il mito di tutti, anche se magari senza dichiararlo, è Marco Travaglio. Ieri è stata la giornata del trionfo di Marco Travaglio. Lui, più di tutti gli altri, si è sempre e con coerenza assoluta battuto per una politica giudiziaria fortemente repressiva e giustizialista. Si è sempre detto convinto, con tutta la sua spavalderia un po’ spocchiosa, che solo una politica fermissima di carcere, e punizioni, e processi duri e talvolta un po’ sommari, e di riduzione di tutte le garanzie dello Stato di diritto (perché gli imputati sono dalla parte del torto e i giudici da quella della ragione), possa un giorno avviare la rigenerazione di questa società e aprire le porte alla modernità.
Onore a Marco, che ieri ha stravinto. Ha ottenuto da Giorgia Meloni e da un governo che sicuramente contiene al suo interno delle sfumature fasciste, quello che non era riuscito ad ottenere dai governi dell’avvocato Conte. Ciò che stupisce non è la vittoria di Travaglio: è la corsa al carro di Travaglio. Ma non ci avevano detto che il garantismo è una robaccia della destra? E i giornali della destra, effettivamente, non avevano fatto a gara a dichiararsi garantisti? Tanto che molte volte ci siamo trovati fianco a fianco in molte battaglie, contro lo strapotere della magistratura, contro i processi-persecuzione, contro l’incontrollabilità dei Pm, contro le inchieste ad orologeria, contro una infame politica carceraria e la violazione dei diritti dei condannati e degli imputati? Abbiamo fatto insieme – se non ricordo male – le battaglie per chiedere che Dell’Utri – innocente e vittima delle folli regole sulle aggravanti mafiose, anche in assenza di reato – fosse liberato dal carcere. E non abbiamo marciato assieme – sconfitti – per difendere Totò Cuffaro, anche lui vittima della persecuzione dell’antimafia professionale? E abbiamo denunciati i pentiti che travolsero Tortora, e quelli del depistaggio Scarantino. Ricordo male? Beh, amici miei, dove siete finiti? Scherzavate? Lo facevate solo così, magari perché avevate qualche amico nei guai?
Se è così devo dire che avevano ragione tanti amici che mi contestavano. Mi dicevano: guarda i tuoi compagni di viaggio, credi davvero che siano liberali? Io rispondevo di sì, perché davvero lo credevo. Che cretino, che sono stato, che illuso! Noi del Riformista, insieme agli amici radicali e a quelli delle Camere penali, evidentemente, sparuta pattuglia di acchiappanuvole, ci credevamo: non pensavamo di essere finiti dentro una grande finzione e un giochetto politico piccolo piccolo. Ho letto il titolo del Giornale del mio amico Minzolini. A tutta pagina: “Sistemati gli sballati, ora tocca ai fannulloni”. Augusto, che fai? Vuoi scavalcare il Fatto? Vuoi affermare che ormai il fasciogrillismo ha dilagato ed è inarrestabile? Tralascio di copiare i titoli del Tempo, di Libero (che pubblica in prima un titolo supergiustizialista, ma almeno piccolo piccolo…) della Verità. Diventerei noioso. Semplicemente mi faccio tre domande. la prima dettata dalla disperazione, la seconda e la terza dalla speranza.
1- Sarà possibile continuare a combattere una battaglia liberale – non esiste liberalismo senza garantismo – così isolati?
2 – Possiamo sperare che Forza Italia, che nel centrodestra è l’unica forza con radici garantiste (quasi tutte legate semplicemente alla forza e al pensiero del suo capo) rovesci il tavolo e gridi: “ora fermatevi, o vi fermate o noi dal carro fasciogrillino scendiamo perché non è roba nostra”.
3 – Il Pd, ora che è all’opposizione, avrà il coraggio di alzare la voce? Non solo sui rave, per carità. Il garantismo non è solo a favore dei giovani, anche dei disgraziati. Non solo di chi è a piede libero, anche degli ergastolani. Vi prego, amici del Pd, ora che non avete legami di governo, tornate ai vostri ideali, agli ideali di tutte le persone libere di pensiero: lanciate una freccia a difesa degli ergastolani vittime della propaganda dei fasci e dei pentastellati.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
“Organizzava cene con Palamara”: la caposegreteria di Nordio e la solita fatwa. L’avvocata Rubinetti, che ha appena assunto un ruolo di vertice nello staff del guardasigilli, bersagliata dal “Fatto” per aver provato a sostenere le ambizioni di un amico giudice: ma la retorica dello scandalo dovrebbe lasciare spazio ormai alla consapevolezza che, in quella stagione, chiunque avesse un ruolo nella giustizia poteva finire per partecipare a incontri promozionali. Errico Novi su Il Dubbio il 16 novembre 2022.
Forse è una lezione. Carlo Nordio, neoministro della Giustizia, in passato implacabile censore del suo mondo, cioè della magistratura, chiama a fianco a sé a via Arenula un’avvocata, Giuseppina Rubinetti, come caposegreteria, e viene travolto dalla solita “onda Palamara”.
Ecco, non riusciamo a definirla meglio, non troviamo un’espressione più efficace per descrivere la presunta disavventura del guardasigilli.
In pratica, l’avvocata Rubinetti è stata descritta sul Fatto quotidiano di oggi come “Lady Palamara” perché, nell’aprile 2019, qualche settimana prima del cataclisma Hotel Champagne, osò programmare insieme con l’ex capo Anm una cena a sostegno di un magistrato, Luigi Birritteri, aspirante segretario generale del Csm. Una cena alla quale sarebbero stati invitati evidentemente altri magistrati, e magari qualcuno di quelli che potevano orientare il voto del Csm stesso verso la nomina di Birritteri.
Un’attività di lobbying interna alla magistratura che è la semplice fotocopia di decine, centinaia, diciamo pure migliaia di occasioni analoghe createsi negli anni scorsi, e in parte tuttora in voga. Una fluidità relazionale e istituzionale da cui non è rimasto “immune” (ammesso che si trattasse di una così grave patologia) quasi nessuno.
Ecco l’“onda Palamara”. Secondo il Fatto, Nordio, l’irreprensibile Nordio, sarebbe scivolato sulla nomina sbagliata, avrebbe individuato una figura non adatta in quanto compartecipe, come promotrice di quell’incontro, del sistema delle nomine.
Lo stesso quotidiano diretto da Marco Travaglio deve pure riconoscere che la nuova caposegreteria di Nordio non è mai stata indagata (se organizzare cene a sostegno di magistrati fosse stata acquisita come condotta perseguibile, ora sarebbe sotto processo un buon 25 per cento dell’ordine giudiziario).
E se non c’è nulla di penalmente rilevante, vacilla anche l’idea che possa esserci alcunché in termini etici: è davvero vietato vedersi in contesti informali per agevolare ambizioni professionali di chicchessia? Non è quello che fanno continuamente i politici, senza che questo crei chissà quale scandalo? Non è quanto avviene, in piccolo o in grande, in qualunque ambito in cui si gestisca una pur minima quota di potere?
Naturalmente l’effetto-scandalo, sul piano giornalistico, è assicurato, e nemmeno si può capovolgere la questione etica addosso ai giornalisti del Fatto, che quell’effetto sono riusciti ancora una vota abilmente a riprodurre.
Viene da dire solo una cosa, e cioè che se Rubinetti, come pare, non sarà affatto sacrificata da Nordio per la presunta “macchia” della cena con Palamara, il caso dell’avvocata potrebbe diventare paradigmatico, e persino pedagogico. Potrebbe cioè costringerci ad accettare l’idea, dopo anni di prassi “fluide” nelle relazioni paraistituzionali interne alla magistratura, che persone con un peso specifico nel mondo della giustizia, come Rubinetti appunto (presidente del cda di Equitalia Giustizia, tra l’altro), possano, con buona probabilità, essere ricollegate a qualcuno degli episodi riconducibili alle prassi di cui sopra.
È inevitabile. Nel mondo della magistratura, quei comportamenti erano ordinari, abituali, e anche chi, pur non magistrato, faceva parte di una rete di relazioni sovrapponibile all’ordine giudiziario, può aver ipotizzato l’organizzazione di una cena per sostenere un amico giudice.
Dobbiamo abituarci all’idea che la diffusività di quella stagione, e di quel mondo, ha avuto un carattere quasi ecumenico. Se vogliamo, dovremmo considerare episodi del genere come una sorta di lenta terapia omeopatica. Una scoperta al giorno per renderci conto, una volta di più, che quelle condotte informali e istituzionali tipiche della magistratura potranno pure suonare a qualcuno esteticamente sgradevoli, ma non erano reati, né erano proibite. E forse, anzi, sono state tali da non giustificare neppure la radiazione di Palamara.
Hanno rappresentato un clima, una modalità di autogestione della magistratura dai risvolti più che altro sociopolitici, ma quasi mai a rilevanza disciplinare o penale.
Dovremmo rinunciare a un po’ di ipocrisia e prendere la realtà per quella che è stata. E al limite sforzarci di immaginare come la realtà della magistratura italiana potrà essere un po’ migliore, ma senza far finta di inorridire dinanzi a un passato che, altrimenti, finisce per restare indecifrato, anziché ricomposto con la sguardo maturo di chi vuole fare un passo avanti.
Parole miti, ma messaggi orribili. Nordio, la versione beneducata dell’odiatore fascio-leghista. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 15 Novembre 2022
Il governo ha il diritto di fare ciò che crede a contrasto dell’immigrazione clandestina, che è clandestina perché una legge la fa tale. Ma, accanto a quel diritto, il governo ha il dovere di non disinteressarsi delle accuse che ad esso rivolge chi sostiene che nell’apprestare le proprie misure di respingimento questo esecutivo, come altri che l’hanno preceduto, stia in molti casi andando contro la legge. Bisognerebbe, come si dice, rispondere nel merito: e il governo non lo sta facendo.
Ma un altro tratto dell’azione governativa lascia quanto meno perplessi. Ed è il carattere intollerabilmente propagandistico che assumono spesso le dichiarazioni dei plenipotenziari di centrodestra. Su quelle del ministro Salvini è salutare non dir nulla, non perché siano giustificabili ma perché non ci si può attendere qualcosa di diverso da un tipo che agita il rosario a tutela dei sacri confini della patria mentre uomini donne e bambini muoiono di sete e di fame davanti ai porti chiusi. Su quelle di altri è invece doveroso puntare un po’ di attenzione perché, sia pur meno truculente, condividono tuttavia la medesima portata rappresentativa: nell’idea, propugnata per esempio dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, secondo cui si tratterebbe di “mandare a tutti il messaggio” che ormai in Italia c’è un nuovo corso.
Il ministro, persona di buone coltivazioni liberali, comprenderà che in democrazia non si fanno leggi né si assumono provvedimenti di governo per “mandare messaggi”, ma per regolare la vita delle persone e delle istituzioni. E comprenderà che un’azione di governo sostenuta da una messaggistica di questo tipo rischia di essere la copia solo più beneducata, ma altrettanto populista, del proclama sulla fine della pacchia: una cosa con qualche problema di presentabilità quando si discute di ordinarie beghe comunitarie, ma semplicemente disgustosa quando – perché di questo si tratta – quella retorica da comizio è adoperata mentre si recupera il cadavere di un bambino di venti giorni. Il ministro Nordio dice che i migranti raccolti dalle Ong dovrebbero essere riportati negli Stati di bandiera delle imbarcazioni: “magari”, spiega, “dopo i primi soccorsi urgenti”.
Non so se è chiaro: “magari”. Non si sa se gli sia sfuggito di bocca, e lo dico con tutto il rispetto che porto alla sua persona, ma l’uso di quella parola denuncia pienamente il problema che si fa finta di poter trascurare, e cioè che qui occorre innanzitutto assumere e rispettare l’impegno di salvare questa gente. Ripeto, innanzitutto, cioè prima: perché se non si fa prima questo, se prima non si opera per salvarla dalla morte, se lo si fa “magari”, questa gente muore come continua a morire. Poi facciano tutti i decreti che vogliono, mandino tutti i messaggi che vogliono: ma dopo. Prima dichiarino che è prioritario obbligo salvare queste persone: e lo facciano. Altrimenti avremo il diritto di ritenere che il “messaggio” è che chi prova a venire in Italia muore. Iuri Maria Prado
Perchè la svolta antigiustizialista non ci sarà. Nordio vuole riformare il codice di Mussolini, ma potrebbe andare peggio…Astolfo Di Amato su Il Riformista il 5 Novembre 2022
Sorpresa e delusione. Il decreto legge approvato nel primo Consiglio dei ministri presieduto da Giorgia Meloni ha contraddetto, in materia di giustizia, tutte le attese per una svolta antigiustizialista, che si erano manifestate a seguito della scelta di Nordio come Guardasigilli. Ma c’è davvero da essere sorpresi? Uscendo dal Quirinale, dopo il giuramento, Carlo Nordio ha, tra le altre cose, affermato essere una priorità la “attuazione del codice Vassalli, un codice firmato da una medaglia d’argento della Resistenza”.
È la frase meno commentata, ma, forse, è quella più significativa del programma di riforma, che ha in mente il nuovo ministro della Giustizia. Per comprenderne appieno la portata è opportuno cercare di capire, innanzitutto, quanto grande sia stata la torsione subita nella prassi dal Codice Vassalli e, soprattutto, quale sia il ruolo della magistratura nel pensiero di Carlo Nordio. È necessario muovere da un dato di fatto. Vassalli, uno dei Maestri del diritto penale italiano e, al tempo stesso, uno dei più grandi avvocati dell’epoca, fu colui che, come componente del governo Craxi a quel tempo in carica, depotenziò gli effetti del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, che si svolse alla fine degli anni 80 con esito positivo.
Più testimoni hanno riferito che Craxi aveva un rispetto reverenziale verso Vassalli e che, per questo motivo, non ebbe la forza di contrastare la formulazione di quelle norme, tuttora vigenti, che hanno, di fatto, sterilizzato l’esito del referendum. Non si può, dunque, ritenere che Vassalli abbia mai avuto un atteggiamento punitivo nei confronti dell’Ordine giudiziario. A sua volta, il nuovo codice di procedura penale, varato anch’esso alla fine degli anni 80 e che è appunto noto anche come codice Vassalli, non aveva e non voleva avere alcun effetto erosivo sul ruolo e sull’indipendenza dei magistrati, sia di quelli giudicanti e sia di quelli appartenenti all’ufficio del pubblico ministero. Esso, anzi, si muoveva nella prospettiva di una maggiore e piena valorizzazione del ruolo degli uni e degli altri.
Da un lato, il ruolo del pubblico ministero era enormemente esaltato dalla circostanza che tutto l’apparato investigativo veniva posto alle sue dirette dipendenze. Una delle critiche più severe, che si faceva al sistema precedente, era che, essendo le indagini svolte da apparati subordinati all’Autorità amministrativa, le stesse potevano essere facilmente “addomesticate” con la conseguenza che ne restava vanificato il principio di indipendenza dell’Ordine giudiziario. L’inevitabile gigantismo della figura del pm avrebbe dovuto essere compensata, nel disegno del codice, dalla pari dignità della difesa in dibattimento, a partire dalla raccolta delle prove, e soprattutto da una posizione nettamente terza della figura del giudice, a partire dal giudice preposto al controllo delle indagini e all’udienza preliminare. Il dibattimento, a sua volta, avrebbe dovuto essere riservato a un numero limitato di casi da approfondire, e un ruolo decisivo per la decongestione avrebbe dovuto assumere il patteggiamento, al quale non era originariamente attribuita natura di condanna.
L’attacco al nuovo codice fu immediato, mediante la pubblicazione di alcune intercettazioni di mafiosi, secondo i quali il nuovo processo, con le garanzie processuali previste, avrebbe impedito qualsiasi condanna. Poi è seguita la stagione di Mani Pulite, e a furor di popolino debitamente aizzato e di intellettuali e politici che, per poter raggiungere il potere, non hanno esitato a rinnegare qualsiasi principio, quel codice, garantista e liberale, ha subito una imprevedibile torsione in senso illiberale e giustizialista. Così è avvenuto che il gigantismo del pubblico ministero non ha avuto alcun reale contrappeso, specie sui temi della libertà personale e di quello, non meno delicato, dei sequestri; la Corte di cassazione è giunta a dire che è vero che la carcerazione preventiva non doveva servire a estorcere la confessione, ma se interveniva la confessione era giustificato concedere la libertà; la Corte costituzionale ha ritenuto legittimo che una condanna potesse intervenire a seguito di una dichiarazione accusatoria, resa in carcere da un detenuto ai danni di un terzo al fine di poter ottenere la libertà, senza che l’accusatore fosse poi neppure contro esaminato da parte del difensore del terzo imputato; prima la prassi amministrativa e poi il legislatore hanno pienamente equiparato il patteggiamento a una sentenza di condanna, facendo così perdere al primo qualsiasi appeal soprattutto nei casi dubbi.
In questa prospettiva si comprende, allora, che la frase di Carlo Nordio, sulla necessità di dare attuazione al codice Vassalli, assume il significato di un manifesto di politica giudiziaria di una ampiezza e di una profondità di cui va colta fino in fondo la dimensione.
Nella stessa prospettiva, il ricordo della figura di Vassalli, come medaglia di argento della Resistenza, non è un mero sfoggio di cultura storica, ma ha un preciso significato politico. È servito a ricordare che figlio dei valori della Resistenza doveva essere considerato l’originario equilibrio del nuovo codice di procedura penale e non il frutto di quella oscena controriforma, che ha trasformato troppo spesso gli strumenti del processo penale in illiberali strumenti di oppressione. Ma quale è, e qui sta il punto, il ruolo della magistratura, nel pensiero di Carlo Nordio, in quell’equilibrio?
Come si legge nella quarta di copertina del libro Giustizia Ultimo Atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura la sintesi del suo pensiero è la seguente: «A trent’anni da Tangentopoli, siamo ben lontani dal progetto di ripristinare la legalità nelle istituzioni. I rimedi messi in atto coi processi di Mani Pulite si sono rivelati peggiori del male che dovevano curare: la corruzione non è diminuita, come dimostra il caso del Mose, anzi ha aumentato i suoi introiti. Ma l’effetto collaterale più pernicioso è stato portare la magistratura al controllo dei partiti e alla tutela del Paese, fino al punto di sovvertire il responso delle urne e modificare gli equilibri parlamentari. Un’investitura permessa dalla subordinazione codarda della politica, che ha voluto assegnare alle toghe un ruolo salvifico e dirimente. In questo modo alla divisione dei poteri, invocata dalla Costituzione, è subentrata invece la loro confusione pressoché totale. Quindici anni fa l’ottanta per cento degli italiani confidava ancora nei magistrati. Oggi, dopo gli ultimi scandali emersi nella Procura di Milano, le faide tra le correnti interne e gli innumerevoli episodi di protagonismo dei Pm, …. la percentuale è crollata».
Il punto centrale del suo pensiero non sta, dunque, nella preoccupazione per le garanzie dell’imputato, ma nella preoccupazione per il crollo di credibilità della magistratura. Alla quale è assegnato un ruolo sacrale. Che non è quello di un magistrato super potente a dispetto delle regole, quale si è delineato a seguito di Mani Pulite, ma quello di un magistrato rispettoso delle regole di un processo nel quale il giudice sia realmente terzo e non vassallo della pubblica accusa. Il garantismo costituisce allora, nella prospettiva di Nordio, prima ancora che l’espressione dell’esigenza che siano rispettate le regole a tutela dell’imputato, la precondizione affinché possa realizzarsi in pieno la neutralità del ruolo del giudice e, perciò, la sacralità del ruolo sia di quest’ultimo e sia dell’accusa.
È, questa, una concezione del processo, che può benissimo andare a braccetto con una visione disumana e disumanizzante della pena, quale è quella sottesa alla disciplina dell’ergastolo ostativo. Anzi, proprio una visione sacrale e non laica del ruolo del giudice e dell’accusa può costituire la base ideologica di un diritto penale sostanzialmente illiberale. Né queste considerazioni sono contraddette dalla preoccupazione, che lo stesso Nordio ha espresso, sulla condizione delle carceri, trattandosi di una preoccupazione che ben può coesistere con una concezione illiberale del diritto penale. Resta, tuttavia, una riflessione. Carlo Nordio è persona, come emerge da molti suoi articoli, che ha una ricca cultura umanistica. Il rispetto per la dignità delle persone dovrebbe, perciò, essere profondamente radicato nel suo animo e, se così è, non potrà permettergli di continuare ad essere, anche in futuro, corresponsabile di una legislazione rozzamente giustizialista. Astolfo Di Amato
Il nuovo ministro della... Giustizia. Su Nordio ci siamo sbagliati, siamo tornati all’epoca Bonafede. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Novembre 2022
I casi sono due: o tutti noi avevamo ricordi sbagliati sull’ex magistrato Carlo Nordio – sulle sue convinzioni, sulle sue idee, sulla sua cultura giuridica – oppure l’ex magistrato Carlo Nordio, che ora è diventato ministro della Giustizia, ha subito, abbastanza di recente, qualche shock che ha ribaltato tutte le sue idee.
Lo conoscevamo come garantista di prim’ordine, liberale, difensore strenuo dello Stato di diritto, e anche per questo non riuscivamo a capire perché Silvio Berlusconi si opponesse alla sua nomina a ministro della Giustizia e chiedesse che ministro (o ministra) diventasse la Elisabetta Casellati. Evidentemente Berlusconi sapeva molte più cose di noi su Nordio. Ed altrettanto evidentemente noi del “Riformista” ci siamo sbagliati clamorosamente, nei giorni scorsi, a scrivere ripetutamente che la nomina di Carlo Nordio era l’unica cosa da salvare del governo Meloni.
È successo che la svolta garantista che ci aspettavamo non c’è stata e invece, come un fulmine a ciel sereno, è avvenuta una svolta giustizialista che chiude l’epoca Cartabia e torna, ma ancora più sfacciatamente, all’epoca di Bonafede. Ieri, quando abbiamo letto che Nordio andava a visitare il carcere di Regina Coeli e poi quello di Poggioreale, avevamo sperato che finalmente pronunciasse qualche frase liberale. Chiudendo la settimana nera della legge anti-raduni, della conferma degli ergastoli e delle norme speciali per i reati contro la pubblica amministrazione (bidello o mafioso per me pari sono…) e del rinvio dell’entrata in vigore della riforma della giustizia varata dal precedente governo.
E invece Nordio è andato a Poggioreale a Regina Coeli e non ha promesso, come ci aspettavamo, riduzione delle pene, fine della moltiplicazione dei reati, scarcerazioni, pene alternative, freno alle misure cautelari. No. Ha detto: costruiremo più carceri e carceri più grandi, anche a costo – a Roma e a Venezia – di rovinare il patrimonio archeologico. Più carceri, più pene, più reati, più prigionieri, meno archeologia e storia. Ecco a voi servita la svolta. Voglio vedere chi ha il coraggio di sostenere che la nostra definizione della politica giudiziaria del nuovo governo (“fasciogrillina”) sia una esagerazione.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Il sottosegretario voleva premiare gli agenti delle violenze in carcere. NELLO TROCCHIA su Il Domani l’08 novembre 2022 • 21:12Aggiornato, 09 novembre 2022 • 05:18
«Se il Ministro interpellato intenda sollecitare da parte del direttore generale dell’amministrazione penitenziaria il conferimento dell’encomio solenne al corpo di polizia penitenziaria in servizio presso l’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere che, in operazione di particolare rischio, ha dimostrato di possedere, complessivamente, spiccate qualità professionali e non comune determinazione operativa».
Il primo firmatario era Andrea Delmastro Delle Vedove che, nel nuovo governo di Giorgia Meloni, è diventato sottosegretario alla Giustizia.
‘Pestaggio di stato’ è il libro di Nello Trocchia, in uscita l’11 novembre, editore Laterza, che ricostruisce l’inchiesta e svela le menzogne di stato.
«Se il ministro interpellato intenda sollecitare da parte del direttore generale dell’amministrazione penitenziaria il conferimento dell’encomio solenne al corpo di polizia penitenziaria in servizio presso l’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere che, in operazione di particolare rischio, ha dimostrato di possedere, complessivamente, spiccate qualità professionali e non comune determinazione operativa».
Recitava così l’interpellanza parlamentare, presentata nell’aula della camera dei Deputati, il 15 giugno 2020, dai deputati di Fratelli d’Italia che chiedevano l’encomio solenne per i poliziotti penitenziari coinvolti in una delle pagine più buie della storia carceraria italiana. Il primo firmatario era Andrea Delmastro Delle Vedove che, nel nuovo governo di Giorgia Meloni, è diventato sottosegretario alla Giustizia, il ministero che decide sulle sospensioni degli agenti.
L’interpellanza, rimasta senza risposta, era destinata proprio al dicastero dove l’allora deputato oggi occupa la poltrona di sottosegretario. Il deputato criticava l’operato della magistratura, arrivava a proporre un premio e ricostruiva le vicende seguendo le indicazioni dei vertici dell’amministrazione, dell’allora governo M5s-Pd e dei sindacati, ricostruzioni che si sono rivelate totalmente false e che erano già state messe in discussione dall’avviso di garanzia notificato a 44 agenti. Il reato contestato era quello più grave per chi indossa la divisa: tortura.
IL GIORNO DELLA MATTANZA
Il 6 aprile 2020, nel carcere Francesco Uccella, 283 poliziotti penitenziari entrarono e massacrarono di botte i detenuti inermi del reparto Nilo. Nell’aula bunker del tribunale di Santa Maria Capua Vetere è iniziato il processo a carico di 105 persone accusati di tortura pluriaggravata, lesioni, falso, calunnia. In 77 sono stati sospesi dal servizio, altri hanno continuato a lavorare con tanto di avanzamento di carriera. Decisioni che spettano al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e proprio al ministero della Giustizia. Ma cosa c’era scritto in quell’interpellanza?
I deputati di Fratelli d’Italia ricostruivano i fatti così: «Il giorno 5 aprile 2020 è esplosa una violentissima rivolta nell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere nel corso della quale circa 150 detenuti, dopo aver occupato alcuni reparti, hanno minacciato gli agenti della polizia penitenziaria con olio bollente e alcuni coltelli». Non era andata così. Nessuna protesta violentissima era esplosa, il dato era facilmente desumibile dalle parole pronunciate all’esterno del carcere dal magistrato di sorveglianza, Marco Puglia. «Il profilo dell’ordine e della sicurezza è sotto controllo, c’è stata solo una protesta, rientrata», aveva detto al tg regionale della Rai.
La ricostruzione dei deputati continuava riferendo dei fatti accaduti l’indomani. «Il giorno 6 aprile 2020, a seguito di una perquisizione straordinaria disposta dalla amministrazione penitenziaria, sono state ritrovate e sequestrate diverse spranghe, bacinelle piene di olio, numerosi pentolini per far bollire l’olio e altri oggetti contundenti nella disposizione dei detenuti; nel corso della predetta perquisizione gli animi si sono surriscaldati e vi sono stati alcuni contusi che, comunque, non hanno riportato conseguenze tali da essere ricoverati in ospedale fra i detenuti mentre 50 agenti della polizia penitenziaria sono stati refertati».
Le bacinelle piene d’olio non c’erano e neanche le spranghe, le fotografie erano state manipolate. I poliziotti erano stati refertati, ma le ferite erano le conseguenze dei pugni, degli schiaffi e delle botte sferrate ai detenuti inermi.
Quattro giorni prima della presentazione dell’interpellanza c’era stata la notifica di 57 decreti di perquisizione e di 44 avvisi di garanzia ad altrettanti agenti del carcere. Ma anche l’atto della magistratura, la perquisizione, veniva bollata come un’operazione «spettacolare di dubbia utilità investigativa», veniva citato anche l’intervento del procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, che «ha avvertito la necessità di intervenire sulle modalità spettacolari dell’azione diretta dalla procura».
GLI ALTRI FIRMATARI
Gli interroganti concludevano ricordando anche un’aggressione avvenuta, il 12 giugno 2020, ai danni di alcuni agenti prima di sottoporre all’attenzione del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, l’insolita richiesta perché «è necessario riaffermare, oltre alla indipendenza della magistratura, che nel caso di specie condurrà le indagini, anche l’indipendenza della politica». Il 6 aprile veniva definita «una necessaria operazione di contenimento della rivolta carceraria».
Abbiamo contattato il sottosegretario per chiedergli se intende promuovere l’iniziativa dell’encomio oppure si è pentito, ma non ha risposto. Tra gli interpellanti, oltre ad Andrea Delmastro Delle Vedove, c’erano Wanda Ferro ed Emanuele Prisco, diventati sottosegretari al ministero dell’Interno; Alessio Butti, nominato sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri e Galeazzo Bignami, diventato sottosegretario alle Infrastrutture. Sono stati tutti promossi.
NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
Il Nordismo. Le norme su rave e carcere ostativo svelano la concezione autoritaria del diritto di Nordio. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 3 Novembre 2022
Per il Guardasigilli, lo Stato è titolare della sicurezza che deve perseguire con massima fermezza, mentre cauta deve essere l’intromissione dell’indagine penale nella vita dei cittadini. Tipico pensiero di destra e securitario
Le grandi polemiche intorno al varo della norma che punisce con pene fino a sei anni «l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica» (già l’intestazione da mattinale questurino denota l’improba fatica sintattica oltre che giuridica, bastava porre l’aggettivo pubblici una sola volta alla fine) sono state accompagnate da manifestazioni di pubblico stupore per le prime mosse del neo guardasigilli Carlo Nordio, stimato garantista ed ex magistrato.
Fioriscono fantasiose leggende intorno al liberale tenuto prigioniero nelle segrete di via Arenula dai bravi dell’estrema destra Andrea Del Mastro Delle Vedove e Andrea Ostellari, come il Benito Cereno di Herman Melville, capitano apparente di un vascello sequestrato e guidato segretamente dagli schiavi liberatisi dai ceppi di una forzata adesione alla schiavitù del garantismo.
Orbene, duole deludere chi non si rassegna a vedere crollare il mito magari un tantino esagerato, ma le prime mosse del neo ministro sono perfettamente coerenti con il suo pensiero esternato nei suoi scritti e nel volume “Giustizia ultimo atto” (Guerini).
Nordio contrappone a una concezione certamente liberale e garantista del processo penale una visione fortemente autoritaria della pena finale così come della attività di prevenzione dei reati.
Nel suo libro ricorre il termine «certezza della pena» intesa come esigenza ineludibile anche se aperta a forme alternative di esecuzione per i reati minori, ma nella sostanza centrata sul carcere per i reati di maggiore allarme sociale in quanto sensibile come ai moti della pubblica opinione.
Così egli si è detto contrario alla pena a vita, ma non ha esitato a varare un decreto sul cosiddetto ergastolo ostativo che, apparentemente rispettoso degli inviti della Consulta ad aprire alla possibilità di recupero sociale di ergastolani e mafiosi, nella realtà sbarra a doppia mandata ogni possibilità di percorso alternativo finanche (ohibò) ai condannati per i reati contro la pubblica amministrazione, non certo espressione di sanguinaria ferocia, ma invisi al populismo dilagante.
Un ruolo centrale, poi, ha la prevenzione affidata a un rigido e fitto controllo del territorio e dei soggetti a rischio. Scrive, infatti, nel suo libro che «la sicurezza va garantita in modo preventivo e quindi attraverso il controllo del territorio, il potenziamento delle forze dell’ordine e di tutte quelle attività di prevenzione utili da utilizzare a patto che restino segrete, come le intercettazioni».
Proprio il «controllo del territorio» e l’uso di misure di prevenzione uniti alle intercettazioni (rese possibili per tutti i reati con pena sopra i cinque anni come, guarda caso, quello di «invasione») sono non casualmente i cardini su cui si regge la nuova fattispecie di reato, estensibile, senza ombra di dubbio, a una vasta schiera di raduni politici di ogni tipo.
Il forte garantismo che Nordio riserva al processo penale non è in contraddizione, in quanto esso è in funzione di limitazione della esasperata invasività dell’azione e del ruolo delle procure che egli ha sempre fortemente criticato sino a sfiorare lo scontro aperto con quella di Milano ai tempi di Mani pulite. Per Nordio, lo Stato è titolare della sicurezza che deve perseguire con massima fermezza mentre cauta deve essere l’intromissione dell’indagine penale nella vita dei cittadini. Tipico pensiero di destra, securitario e geloso della propria autonomia “del fare” in cui lo Stato impiccione non deve entrare.
Difficile definire come liberale tale visione che rimanda invece a una concezione autoritaria del diritto, quella dello Stato di eccezione di Carl Schmitt. A dire il vero, oggi viene da chiedersi se il diritto “positivo” del legislatore statale sia effettivamente la massima espressione del garantismo e della democrazia o se non sia tempo di guardare a un diverso diritto, erede del giusnaturalismo, basato sui valori universali e ossatura delle legislazioni sovranazionali come quella europea, non a caso violentemente attaccata dal sovranismo autoritario. Ci ritorneremo.
Il punto debole del “Nordismo” è che un pensiero autenticamente liberale non può distinguere tra diritti di serie A e di serie B: «La libertà è indivisibile», scriveva Luigi Einaudi, vive come aspirazione nei tribunali così come nei luoghi di restrizione. Come ci ricorda Angelo Panebianco, «ci sono troppi riscontri che ci obbligano a non avere dubbi: la libertà non è equiparabile a un salame».
Ma questo Carlo Nordio, che è un prestigioso membro della fondazione Einaudi, di certo lo saprà: il problema è il contorno del governo di cui fa parte.
Parla l'ex capogruppo azzurro in Commissione giustizia. Intervista a Pierantonio Zanettin: “Da Nordio ci aspettavamo altro, dov’è finito il garantismo?” Paolo Comi su Il Riformista il 2 Novembre 2022
«Se devo dirla tutta, sono rimasto molto perplesso. I primi passi del nuovo governo in tema di giustizia non mi pare proprio possano essere letti in chiave garantista». A dirlo è il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, ex capogruppo azzurro in Commissione giustizia alla Camera nella scorsa legislatura.
Senatore Zanettin, è deluso?
Guardi, da un campione del garantismo da tutti riconosciuto come Carlo Nordio ci si aspettava qualcosa di diverso. Posso solo augurarmi, però, che nei primi cento giorni arrivi dall’esecutivo un segnale forte sulla giustizia nel solco del patrimonio culturale di Forza Italia. Anche se non è affatto scontato.
Perché?
All’interno della compagine di governo ci sono sensibilità molto differenti su questi argomenti. E lo sappiamo bene. Comunque, ripeto, ho piena fiducia in Nordio e nel suo viceministro Francesco Paolo Sisto che, oltre essere ad essere di Forza Italia, è un garantista autentico.
A proposito di garantismo, il deputato forzista Giuseppe Mangialavori è stato escluso dal governo dopo che “Repubblica” e il “Fatto Quotidiano” hanno scritto che il suo nome compariva in alcuni atti processuali.
Nella vicenda di Mangialavori siamo abbondantemente oltre la cultura del sospetto. Io non ho letto questi atti, ho letto solo le cronache giornalistiche. Il collega ha subito un veto senza essere mai stato indagato e tantomeno imputato. È qualcosa che non si può accettare e dimostra ancora una volta il pregiudizio nei confronti dei politici che vengono da certe aree del Paese.
Il governo ha deciso di rinviare a fine anno l’entrata in vigore della riforma Cartabia sul processo penale. Ci sarebbe stato un ‘cortocircuito’ fra i lavori della Commissioni e quello dell’Ufficio legislativo di via Arenula, in particolare per quanto concerne le disposizioni transitorie.
Un rinvio di un paio di mesi ci può stare. Sono stati fatti sicuramente degli errori tecnici, è del tutto evidente. C’era fretta di fare le riforme in considerazione delle scadenze che erano state imposte dal Pnrr. Va poi ricordato che queste riforme sono state approvate con un bicameralismo ‘imperfetto’, in quanto arrivavano blindate nell’altro lato Parlamento, senza che fosse possibile alcuna discussione. A onor del vero, però, è sempre stato detto che se qualcosa non funzionava sarebbe stata corretta. C’era talmente tanta carne al fuoco…
E l’intervento sull’ergastolo ostativo?
Riprende il provvedimento che era stato votato alla Camera nella scorsa legislatura dopo le indicazioni della Consulta, che dovrà esprimersi definitivamente il prossimo 8 novembre. Si trattò, comunque, di un testo di compromesso. Ricordiamoci sempre che il primo partito della coalizione del governo Draghi era il M5s. Confido che si possa lavorare, sempre in chiave garantista e del rispetto dei diritti, sul nuovo testo e che non venga anche questa volta ‘blindato’. Ci sono modifiche da apportare assolutamente, come l’equiparazione dei reati contro la pubblica amministrazione a quelli di mafia e terrorismo. È aberrante, tipico della logica manettara e forcaiola dei grillini.
Un paio di provvedimenti invece da approvare subito?
Sicuramente la riforma o l’abolizione dell’abuso d’ufficio oltre a uno dei cavalli di battaglia del programma del centrodestra e di Forza Italia: l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Avevo presentato un emendamento a tal proposito anche in occasione della riforma Cartabia. Non è stato ammesso e l’ho già riproposto.
Veniamo al Csm. Lei è sempre favorevole al sorteggio temperato in chiave ‘anticorrenti’ per eleggere i componenti togati?
Sì, ho già depositato un disegno di legge a tal proposito che può essere tranquillamente approvato in quanto non richiede modifiche costituzionali.
Il suo nome gira fra i dieci che il Parlamento dovrà eleggere a dicembre per il Csm.
Non sono interessato a tornare al Csm. Sono stato appena rieletto dopo una campagna elettorale molto intensa e difficile. Gli elettori lo vedrebbero come un tradimento.
Ma se arrivasse la proposta di fare il vicepresidente con il beneplacito del Quirinale? Sarebbe la prima volta che tale ruolo venisse ricoperto da una figura non legata alla sinistra o al centro sinistra.
Non ho idea adesso, ma è una ipotesi che terrei in considerazione. Paolo Comi
Giustizia: l'inizio peggiore che si potesse temere. Nordio tradisce se stesso: diceva una cosa, ora ne fa e ne dice un’altra. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'1 Novembre 2022
“Questa norma sull’ergastolo ostativo è figlia dell’insegnamento di Falcone e Borsellino. E’ stata molto osteggiata dalla mafia, che ha inserito la richiesta di abolizione nei vari papelli…”. Ha voluto aprire con queste parole la prima conferenza stampa del primo consiglio dei ministri, Giorgia Meloni. Sulla giustizia e nel modo peggiore delle peggiori previsioni. Anche perché, subito dopo ha aggiunto, come era prevedibile, che il rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia sul processo penale non è solo tecnico, ma “servirà anche a valutare” se la normativa non vada modificata in qualche sua parte.
Dispiace dover contraddire, così, nel suo vero primo giorno di governo, la Presidente del consiglio. Non è questione di opinioni, ma di notizie. Né Borsellino né Falcone sono i padri di quella pena di morte sociale che ha preso le vesti, nel 1992, dopo che loro erano stati assassinati, dei reati “ostativi”, e in particolare dell’ergastolo. Anzi, lo stesso Falcone aveva messo mano a un provvedimento che diceva esattamente il contrario, lasciando al condannato sempre una vita d’uscita che non fosse quella della collaborazione. Del resto la Presidente del consiglio, che è entrata in politica proprio per l’emozione provata dopo l’assassinio di Borsellino e ha ricordato i depistaggi di Stato dopo la strage di via D’Amelio e l’uso del finto collaboratore Scarantino, avrebbe tutte le ragioni per diffidare della genuinità di certi “pentimenti”.
E credere di più, come ha mostrato di credere l’ex ministra Cartabia, nella forza di un percorso individuale di cambiamento della persona e nella progressiva presa di distanza da parte del condannato, comprovata dai soggetti che stanno vicini al detenuto nella quotidianità come i giudici di sorveglianza, dal proprio passato di trasgressione. Vogliamo sperare che qualche imbarazzo abbia provato nella conferenza stampa il ministro Nordio, cui la Presidente ha detto di aver “tolto il bavaglio”, alludendo a qualche titolo di giornale che salutava con gioia il fatto che quel cerotto sulle labbra gli fosse stato messo. Come conciliare il pensiero del Nordio-uno, quando definiva l’ergastolo ostativo “un’eresia contraria alla Costituzione”, con il Nordio-due quando ritiene che il Parlamento, con il disegno di legge approvato nei mesi scorsi, abbia accolto alcune “criticità” indicate dalla Corte Costituzionale e la Cedu? Eh no, signor ministro, l’Alta Corte aveva dichiarato l’incostituzionalità, proprio come lei nella fase Nordio-uno. Cioè la norma, e anche la legge approvata dal Parlamento, che è in alcuni punti addirittura peggiorativa rispetto alla norma del 1992, è contro la Costituzione, altro che criticità.
La domanda ora è: l’otto novembre, quando si riunirà per deliberare sulla materia, l’Alta Corte avrà la forza di dire al Parlamento che anche la nuova legge, votata “quasi” all’unanimità perché il partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, si era astenuto, è contro la Costituzione? E che l’Italia sta sprofondando nell’illegalità e ripristinando la pena di morte? Ma un’altra domanda sorge spontanea, dopo aver ascoltato anche le parole del ministro guardasigilli: esisterà ancora la riforma Cartabia sul processo penale dopo il 31 dicembre? La domanda non è inutile, dopo il rinvio deciso dal Consiglio dei ministri delle norme, indispensabili anche per l’osservanza dell’impegno assunto sul Pnrr, che avrebbero dovuto entrare in vigore proprio domani. Rinvio tecnico, apparentemente, anche per dare una mano alle difficoltà espresse nei giorni scorsi dai 26 procuratori generali, soprattutto per i provvedimenti che intervengono sulla fase delle indagini preliminari.
Ma è ormai chiaro che non sarà così, e che interverrà qualche “manina”, come ci avevano già informato i saputelli del Fatto quotidiano con le loro interviste anonime (ah, la passione di consultare i citofoni!) a dirigenti di Fratelli d’Italia ansiosi di fare a pezzetti la riforma già ribattezzata, anche dal Giornale, come “salvaladri” o “svuotacarceri”. Nel mirino del partito talebano, soprattutto la norma che prevede la necessità di querela per perseguire una serie di reati. Il che è apparentemente in linea con quel che ha sempre pensato e anche affermato fino ai giorni scorsi il ministro Nordio. Il quale, poche ore prima che la Presidente del Consiglio Meloni si dichiarasse contraria, aveva lanciato come primo provvedimento del suo nuovo incarico quello della depenalizzazione di una serie di reati. E aveva in seguito fatto proprio l’allarme sulle carceri dopo il suicidio numero settantadue dall’inizio dell’anno. Svuotare le carceri da persone in attesa di giudizio o condannate per pene inferiori a quattro anni è meno ancora che depenalizzare. Perché rinviare, quindi?
Tutta la riforma Cartabia del resto potrebbe essere la fotocopia, o viceversa, del Nordio-pensiero, basterebbe leggere i suoi libri. E buttare via la riforma Cartabia sarebbe veramente un insulto alla speranza di svuotare le carceri, che “ospitano” sempre almeno 5.000 detenuti in più del minimo vitale consentito per respirare, e perché la vita, anche da prigionieri, non sia pura sopravvivenza in attesa dell’ultimo giorno. Ma anche per favorire quella ricucitura, attraverso una sorta di patto tra il reo e lo Stato, spesso più utile delle grida manzoniane e del pugno di ferro nei confronti di chi quello strappo sociale ha prodotto. Su due punti precisi è intervenuta la riforma, il potenziamento delle pene alternative al carcere per condanne medio-basse e l’introduzione di una disciplina che regolamenti la giustizia riparativa. Provvedimenti che dovrebbero stare a cuore anche a coloro che vedono la pena solo in termini securitari, perché sono statisticamente quelli che abbattono la recidiva.
È certo invece che l’intervento ci sarà, e bisognerà vedere se la “manina” che avrà in mano il bisturi sarà quella del Nordio-uno o del suo successore Nordio-due. Ma ci sarà. Del resto bastava leggere la relazione allegata al testo del decreto, nel punto in cui diceva che lo slittamento comporterà anche la possibilità di “analisi delle nuove disposizioni normative, agevolando l’individuazione di prassi applicative uniformi e utili a valorizzare i molti aspetti innovativi della riforma”. Ci si domanda però, visto che neppure la stessa magistratura lo aveva chiesto, perché il ministro abbia sentito la necessità di un rinvio della legge in blocco e non abbia deciso di procedere in modo selettivo. Avrebbe potuto per esempio isolare solo la parte di più complessa applicazione, come quella sulle indagini preliminari. Se il motivo è politico, e se davvero nel nuovo governo c’è il problema di prendere le distanze da quella che fino a ora è stata la miglior guardasigilli, prevediamo tempi duri per il ministro Nordio-uno e l’ esordio del Nordio-due.
Possibile che dovremo assistere a scivolamenti come quello di confondere l’incostituzionalità con la criticità? Tra l’altro un ex procuratore non può non sapere che il differimento di una riforma così attesa anche dagli avvocati comporterà anche un bel po’ di confusione nelle aule di giustizia nelle prossime settimane. E ci saranno centinaia di richieste di rinvio a raffica nei processi, da parte dei difensori di imputati che avevano la speranza per esempio delle misure alternative o sulla nuova causa di non punibilità per la tenuità del fatto, su cui la riforma è intervenuta. E sarà quindi in grado il governo di confermare gli impegni presi in sede di Pnrr con la certezza della riduzione del 25% della durata dei processi entro il 2026? Perché occorre un impegno preciso e che abbia la forza di realizzare quel che è la norma nei Paesi anglosassoni, il cui processo ha ispirato la riforma nel 1989, sulle misure alternative al carcere, per ridurre i tempi.
Resisteranno all’intervento del bisturi della “manina” le quattro tipologie previste dalla riforma, cioè la semilibertà, la detenzione domiciliare, il lavoro di pubblica utilità e le pene pecuniarie? Il ministro Nordio ha ricordato il fatto che la vittima per esempio di un furto aggravato, uno dei reati per cui si prevede il passaggio dalla procedibilità d’ufficio a quella su querela, si limita alla denuncia, non sapendo di doversi anche querelare, magari anche solo contro ignoti. Ma la riforma aveva fissato un tempo congruo perché tutti fossero informati del cambiamento. Che cosa succederà adesso? Se nelle more di questi due mesi si ascolteranno le trombe di chi ha definito la riforma Cartabia una “salvaladri”, avremo ancora la speranza di ritrovare quel Nordio-uno, quello che voleva avviare una grande campagna di depenalizzazione, quello sensibile ai suicidi in carcere, quello in cui avevamo riposto tante speranze, o via Arenula sarà occupata dagli amici di Travaglio?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il garantista Nordio è già stato silenziato su carcere e riforma penale. GIULIA MERLO su Il Domani il 30 ottobre 2022
Meloni punta ad approvare in Consiglio dei ministri un decreto legge per mantenere l’ergastolo ostativo e il rinvio dell’entrata in vigore della riforma penale, dal 1 novembre al 1 gennaio, per andare incontro alle richieste dei magistrati. Occhi puntati sul guardasigilli, che aveva definito il carcere ostativo una «eresia contraria alla Costituzione»
Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è già stato scavalcato dal governo di cui fa parte. L’ex magistrato liberale che Giorgia Meloni ha voluto strenuamente sulla poltrona di via Arenula rischia di essere commissariato ancora prima di iniziare a lavorare e su due questioni di grande peso sia mediatico che concreto: l’ergastolo ostativo e la riforma penale.
Nel consiglio dei ministri di domani, lunedì 1 novembre, i punti all’ordine del giorno riguardano proprio due provvedimenti urgenti da assumere in materia di giustizia.
L’ERGASTOLO OSTATIVO
Il primo è un decreto legge sull’ergastolo ostativo, approvando un testo già votato durante il governo Draghi con un accordo quasi unanime visto che anche Fratelli d’Italia si era astenuta, ma solo alla Camera.
L’ergastolo ostativo, previsto dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e tra le misure di emergenza volute dal giudice Giovanni Falcone nel 1992, prevede che i condannati per alcuni reati gravi, in particolare mafia, terrorismo e associazione per delinquere, non abbiano la possibilità di accedere ad alcun beneficio penitenziario se non decidano di collaborare con la giustizia, dimostrando così il loro ravvedimento. La Consulta, però, ha stabilito che fare «della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo».
La ragione della fretta del nuovo esecutivo è che la riforma di questo istituto è resa obbligatoria dalla Corte costituzionale, che con ordinanza ne ha stabilito l’incostituzionalità ma ha aspettato a “decapitarla” definitivamente, lasciando il tempo al parlamento per approvare una legge che riordini la materia alla luce delle indicazioni della corte.
Il parlamento, però, non ha fatto in tempo ad approvare la riforma in via definitiva e il testo votato alla Camera è stato fortemente criticato dalla galassia garantista, visto che accoglie le indicazioni della corte ma introduce una serie di previsioni che, nei fatti, rischiano di non mutare nei fatti l’accesso ai benefici penitenziari. Il detenuto, infatti, deve dimostrare «elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria» che ne giustifichino l’inserimento nel percorso riabilitativo e l’esclusione «dell'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti». A valutare la richiesta sarà il Tribunale di sorveglianza, con il parere del pubblico ministero e del procuratore antimafia e l’acquisizione di informazioni presso il carcere.
Proprio questo testo, ora, entrerà nel decreto legge.
La nuova udienza della Consulta è fissata per l’8 novembre ed evidentemente il governo ha ritenuto improbabile la possibilità di ottenere un ulteriore rinvio della sentenza. Così, invece di far cancellare completamente l’istituto dai giudici costituzionali, il governo ha deciso di tamponare la situazione con un decreto legge. Poi avrà tempo - i sessanta giorni - di fare eventuali ritocchi in sede di conversione.
Con un problema, però: il rischio è che anche la nuova norma possa incorrere in una valutazione critica della Corte costituzionale.
La scelta, per altro annunciata indirettamente in aula in Senato da Meloni, quando ha detto che avrebbe difeso l’ergastolo ostativo considerandolo una misura imprescindibile per la lotta alla mafia, suona subito come un commissariamento del ministro Nordio.
IL PROBLEMA DI NORDIO
Nordio, quarantanni da pubblico ministero e posizioni “eretiche” sul carcere, tra le quali quella di voler abolire l’ergastolo, si è sempre espresso anche contro l’ergastolo ostativo. Nell’ultimo libro di Claudio Cerasa, Le catene della destra, lo definisce «un’eresia contraria alla Costituzione. Spiace per chi a destra la pensa così, ma il punto è evidente: il fine pena mai non è compatibile, al fondo, con il nostro Stato di diritto» e il principio di rieducazione della pena.
Peccato che a pensarla così sia proprio la sua premier e il partito che lo ha fatto eleggere alla Camera. Dopo la conferma dell’ergastolo ostativo, infatti, FdI ha messo nel mirino anche la finalità rieducativa della pena: il deputato Edmondo Cirielli, infatti, ha depositato una proposta di modifica costituzionale (già presentata nella passata legislatura) per «limitare la finalità rieducativa» e «salvaguardare e garantire il concetto di “certezza della pena”», di fatto comprimendo le garanzie dell’articolo 27 della Costituzione.
Per ora via Arenula tace. Anzi, nel giorno in cui è stato annunciato l’ordine del giorno del cdm, l’unico comunicato ufficiale ha riguardato proprio il carcere: «Il carcere è una priorità tra i miei compiti e ho deciso che la mia prima visita esterna non sarà in uffici giudiziari, ma in alcune carceri in particolare difficoltà». Il governo di cui fa parte rischia però di prenderlo in contropiede.
RIFORMA CARTABIA
L’altra questione che arriverà in consiglio dei ministri riguarda invece la riforma penale approvata con la ministra Marta Cartabia, di cui sono stati approvati anche i decreti attuativi e di cui alcune parti entreranno in vigore il 1 novembre.
Proprio questa scadenza vuole essere evitata dal governo, che differirà l’entrata in vigore al 1 gennaio 2023, su sollecitazione dei procuratori generali e dell’Associazione nazionale magistrati.
La nuova disciplina penale, infatti, introduce una serie di modifiche e di adempimenti procedurali che richiedono dotazioni informatiche adeguate che in questo momento sono carenti. I 26 procuratori generali hanno firmato una lettera al governo, in cui spiegano che gli adempimenti necessari stanno mandando nel caos gli uffici delle procure, non attrezzati in modo sufficiente e quindi non in grado di adempiere senza un tempo “cuscinetto” per adattarsi alle novità e per avere risposte ai dubbi.
Uno su tutti: le disposizioni sulle udienze filtro e sul deposito degli atti si applicano ai vecchi fascicoli? Il rischio è che ogni procura adotti la sua interpretazione, con il rischio di una applicazione differente della riforma.
In realtà, il sospetto è che anche questa iniziativa sia un modo per dirottare su un binario morto la riforma Cartabia o comunque di sabotarla. Per questo le opposizioni, in particolare il Partito Democratico con Debora Serracchiani, denuncia che «così si rischia di buttare a mare il lavoro di due anni e i fondi del Pnrr».
La riforma penale, infatti, è uno dei pilastri necessari per ottenere i fondi europei e rallentarla potrebbe metterli a rischio.
Intanto, il mondo giudiziario è in burrasca: l’Unione camere penali ha convocato una giunta urgente in vista del cdm per far sentire la voce anche dei penalisti.
Lo scontro si preannuncia duro e tutti gli occhi sono puntati su Nordio, per vedere se si allineerà alla premier, sconfessando le sue posizioni storiche.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
"Cosa ci fa un ministro garantista con questo governo?" A Giorgia Meloni piace il carcere, Nordio commissariato e inchino ai pm: stop riforma Cartabia e si all’ergastolo ostativo. Redazione su Il Riformista il 30 Ottobre 2022
La giustizia al centro del primo, vero, Consiglio dei Ministri del governo Meloni in programma lunedì 31 ottobre. E nonostante la nomina dell’ex magistrato Carlo Nordio alla guida del Dicastero di via Arenula, al primo punto ci sarà un decreto legge per mantenere l’ergastolo ostativo, che esclude dall’applicabilità dei benefici penitenziari (liberazione condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà) gli autori di reati particolarmente riprovevoli quali i delitti di criminalità organizzata, terrorismo, eversione, e rinviare a fine anno l’entrata in vigore della Riforma Cartabia.
Si tratterebbe un inizio in salita per lo stesso Nordio che nonostante i proclami in campagna elettorale, sembra adeguarsi alla linea di partiti come Fratelli d’Italia e Lega da sempre giustizialisti.
Sono sette gli articoli per rinviare al 30 dicembre prossimo l’entrata in vigore della intera riforma Cartabia sulla giustizia penale e soprattutto per mettere in sicurezza l’ergastolo ostativo. Il decreto che porta le firme della premier Giorgia Meloni e del Guardasigilli Carlo Nordio. Oltre alle scarcerazioni “facili”, l’obiettivo sarebbe anche quello di impedire che la riforma Cartabia entri in vigore senza che siano stati risolti le criticità e i problemi organizzativi messi in evidenza dai Procuratori generali di tutte le Corti d’appello in una lettera al governo e dall’Associazione nazionale magistrati.
ERGASTOLO OSTATIVO – Nonostante i pareri della Corte Costituzionale, che nel 2021, ha stabilito l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, e della Corte europea per i diritti umani (CEDU) che, nel 2019, aveva invitato l’Italia a rivedere la legge, ritenendola in contraddizione con la Convenzione europea dei diritti umani, che proibisce “trattamenti inumani e degradanti”, il nuovo esecutivo continua a considerare l’ergastolo ostativo, regolato dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, uno strumento essenziale nel contrasto alla criminalità organizzata.
Il testo in esame ricalca il disegno di legge n. 2574 già approvato nella passata legislatura dalla Camera dei Deputati e punta a evitare le scarcerazioni facili dei mafiosi, perché permette l’accesso ai benefici penitenziari al condannato che abbia dimostrato una condotta risarcitoria e la cessazione dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata. “Una corsa contro il tempo – fa filtrare Palazzo Chigi – per garantire sicurezza sociale e impedire che ai detenuti mafiosi possano aprirsi le porte del carcere pur in costanza del vincolo associativo“.
Nella bozza, visionata dall’Ansa, per accedere ai benefici penitenziari i condannati per reati di mafia che non collaborano con la giustizia dovranno aver riparato il danno alle vittime e dimostrare di aver reciso i rapporti con i clan, allegando “elementi specifici”.
SLITTAMENTO RIFORMA CARTABIA – Sempre sul tema della giustizia, il Consiglio dei Ministri domani affronterà il rinvio al 30 dicembre 2022 dell’entrata in vigore di alcune disposizioni della ‘Riforma Cartabia’, raccogliendo le criticità già emerse nel dibattito parlamentare e che sono state confermate in questi giorni dagli operatori del diritto con una lettera al Ministro della Giustizia. Il provvedimento intende rispettare le scadenze del PNNR e consentire la necessaria organizzazione degli uffici giudiziari.
Dura la posizione dell’Unione Camere Penali: “Non vi è alcuna ragione che giustifichi il differimento dell’entrata in vigore delle parti relative al sistema sanzionatorio e di esecuzione della pena, che non manifestano il benché minimo problema di natura organizzativa posto a fondamento delle ragioni d’urgenza del decreto” afferma la giunta in un documento approvato all’esito di una riunione convocata di urgenza.
Per quanto riguarda il secondo intervento l’Ucpi parla di “un inammissibile atto di ribellione del Governo e del Parlamento alle indicazioni del Giudice delle leggi“, facendo notare che il dl “introduce regole addirittura peggiorative del quadro normativo censurato dalla Corte costituzionale oltre che dalla Corte Europa dei Diritti dell’Uomo”. L’Unione sottolinea, infine, “la manipolazione informativa che sta accompagnando l’adozione di questo provvedimento, indicato come relativo al solo tema dell’ergastolo ostativo, quando invece esso riguarda ed aggrava gli effetti delle ostatività relativi ad un ben più ampio catalogo di reati, a cominciare da quelli contro la pubblica amministrazione”. La giunta chiederà di essere ricevuta dal ministro Nordio “per poter rappresentare compiutamente le ragioni di contrarietà al decreto legge, riservandosi ogni ulteriore iniziativa di contrasto e di protesta nei confronti di un provvedimento che giudica di straordinaria gravità”
NESSUNO TOCCHI CAINO – “Dopo le incoraggianti e condivisibili dichiarazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio per un’esecuzione penale finalmente orientata ai principi costituzionali, esprimiamo la più viva preoccupazione per il possibile rinvio della Riforma Cartabia nella parte in cui prevede l’introduzione delle misure sostitutive del carcere per pene brevi, secondo una visione ormai internazionalmente affermata della giustizia riparativa”. Nessuno Tocchi Caino “spes contra spem” chiede al governo di ripensarci e non rinviare la riforma.
“Per noi, che costantemente visitiamo le carceri e vediamo con i nostri occhi la disperazione e l’illegalità che vi regna – dicono Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti – il rinvio costituirebbe non un cambio di registro, ma il proseguimento della prassi consolidata di rimandare all’anno del poi che sempre si tramuta in quello del mai di riforme necessarie e urgenti. I 72 suicidi di detenuti mai verificatisi prima d’ora dovrebbero essere un monito per tutti”. “Altrettanto preoccupante – secondo Nessuno Tocchi Caino – è l’annuncio di varare un decreto in materia di ergastolo ostativo, demolitorio dell’ordinanza della Consulta che ha accertato la violazione di principi costituzionali italiani e convenzionali europei che, con una decisione di portata storica ha sancito il diritto civile e umano alla speranza anche per i condannati al fine pena mai”.
Su Twitter il segretario di Più Europa, Benedetto Della Vedova, scrive: “Il Ministro della Giustizia Nordio ha chiarito da subito il suo impegno sulle carceri, cosa che gli fa onore e che condividiamo. Ma cosa ci farebbe un ministro garantista nel Governo che insegue Salvini, rinvia la riforma Cartabia e comincia con il fuoco di sbarramento contro il superamento dell’ergastolo ostativo (fine pena mai), che Meloni per farsi capire meglio chiama direttamente carcere ostativo?”.
Riforma Cartabia mai. Il cieco giustizialismo del governo Meloni, la sinistra e i miserabili. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 31 Ottobre 2022
Bloccare il consolidamento della giustizia ripararativa, impedire il ricorso a misure alternative al carcere e reintrodurre l’ergastolo ostativo non sono solo i risultati di una cattiva ideologia giuridica, ma potrebbero anche compromettere la ricezione dei fondi del Pnrr. E con il sedicente liberale Nordio torna il fantasma dì Fofò Bonafede (leggere per credere)
Non è una pura coincidenza il fatto che tra i primi provvedimenti che vengono varati dal governo Meloni vi sia un decreto che blocchi la più importante riforma del processo penale degli ultimi tempi e contemporaneamente reintroduca l’ergastolo ostativo. E lo fa proprio alla vigilia di una nuova pronuncia della Corte Costituzionale in materia, che già aveva bocciato il sistema che vietava ogni accesso alle misure alternative al carcere per i condannati per reati più gravi.
Quanto alla riforma Cartabia, il pretesto ufficiale è la richiesta dei 26 procuratori generali preoccupati dell’assenza di alcune norme transitorie in relazione a novità procedurali e organizzative che bloccherebbero la già asfittica macchina della giustizia. In realtà, il blocco non investe solo la carenza di qualche computer ma colpisce tutto l’impianto della riforma, molto vasto, anche in punti incontroversi: tra essi la significativa riforma della giustizia riparativa, l’allargamento delle procedure di mediazione anche nel settore penale e di ricorso a misure alternative al carcere per l’esecuzione delle pene al di sotto dei quattro anni.
Va ricordato che la riforma fa parte del Programma di Resilienza e Rinascita per cui il paese sta ricevendo finanziamenti dall’Unione Europea e il professor Gianluigi Gatta, coordinatore dei gruppi di lavoro nominati dal ministro Cartabia per la redazione dei decreti attuativi, ha già espresso sul Corriere la sua forte preoccupazione che il rinvio “organizzativo” celi la malcelata volontà di modificare più profondamente l’impianto normativo. Non v’è dubbio che proprio gli articoli sul carcere siano una parte qualificante e innovativa in quanto stravolgono la prospettiva di stretta finalità repressiva e punitiva cui il processo è stato inchiodato da una sottocultura giuridica ben presente nella storia e nell’evoluzione del diritto italiano.
La riforma costituisce un disperato tentativo di evitare la definitiva bancarotta della giustizia, trovando dei modi per svuotare tribunali e carceri.
La riforma introduce la giustizia riparativa che è un istituto di derivazione americana nato negli anni ’70 e che persegue una finalità utopistica quanto nobile nel confronto su base volontaristica tra vittime e colpevoli.
In Italia è stato adoperato con fruttuosi risultati per quanto riguarda le vicende di terrorismo, ma è fin troppo agevole intuirne l’utilità ove si pensi a vicende di sinistri accidentali, reati infra familiari e di genere e si voglia intravedere nella giustizia scopi che non siano di pura realizzazione della vendetta dell’offeso.
Nessun vantaggio concreto in termini di riduzione di pena se non nell’obbligo per il giudice di tenere conto del favorevole esito del contatto in sede di pena. Il che è rimesso anche alla volontà positiva della vittima.
Accanto a essa vi sono alcune norme che rendono un percorso privilegiato quello di istituti come la detenzione domiciliare e lavori socialmente utili per scontare la pena.
Sono entrambi indirizzi espressivi di valori non puramente utopistici e cattolici, ma anche (e forse soprattutto) di principi sanciti dalla Costituzione italiana e dai trattati internazionali, come la Convenzione dei diritti umani e la Convenzione internazionale contro la tortura del 1984 che vieta espressamente «qualsiasi atto mediante il quale viene intenzionalmente inflitto, a una persona, un dolore o una sofferenza acuta, fisica o mentale, al fine di ottenere, da lui o da una terza persona, informazioni o una confessione, per punirlo per un atto che lui o una terza persona hanno commesso o sono sospettati di aver commesso».
In Italia, secondo le statistiche fornite dal Garante dei detenuti, sono circa sessanta i suicidi in carcere così come più volte il nostro Paese è stato sanzionato dalla Corte europea per le condizioni in cui vivono.
Ci volle la famosa sentenza CEDU Torregiani per garantire ai reclusi condizioni di vita minimamente decenti come uno spazio pro-capite di tre metri quadri!
Su di un altro versante si muove il movimento di opinione favorevole all’abrogazione dell’ergastolo che alcune fonti di stampa vorrebbero condiviso addirittura dal guardasigilli Carlo Nordio, sparito insolitamente dai radar dell’informazione negli ultimi giorni.
Il fine pena mai è di per se stesso un trattamento contrario alla dignità umana e in alcuni paesi europei come la Spagna addirittura non previsto.
Basterebbe chiedersi quanti innocenti abbiano finito la loro vita in galera per capirne l’iniquità ma in Italia la gravità del fenomeno mafioso ha sempre funto da deterrente a ogni seria rivalutazione del problema.
Negli ultimi tempi tuttavia la Corte costituzionale con due pronunce in tema di permessi e liberazione condizionale ha dato segni di apertura perché i benefici delle misure alternative al carcere venissero concesse anche i condannati per reati di mafia e altri crimini efferati.
A oggi la possibilità di ritornare alla vita è legata solo alla collaborazione con la giustizia, ma la Consulta nel suo ultimo intervento ha denunciato come incompatibile con la Costituzione «la presunzione che fa della collaborazione con la giustizia l’unica strada per l’ergastolano» ed ha lasciato al Parlamento italiano una finestra di tempo fino al prossimo 8 novembre per adeguare la legge a tale principio.
La risposta sta in un disegno di legge già varato a dire il vero dal governo Draghi con l’astensione di Fratelli d’Italia che è uno schiaffo in faccia alle ragioni umanitarie: esso nega ogni rilievo alla buona condotta in carcere per chiedere al detenuto ristretto da decenni di fornire lui la prova (impossibile e diabolica) di non essere più in contatto con le organizzazioni criminali.
Viene negato ogni rilievo e discrezionalità alla giurisdizione dei magistrati di sorveglianza ridotti al rango di meri burocrati sorveglianti.
Ma siccome siamo alle prese con dilettanti del diritto, Meloni e compagnia non si sono accorti che il decreto, in puro stile grillino, applica le stesse restrizioni per i condannati per i reati di corruzione, concussione peculato che vengono equiparati ai mafiosi. Il fantasma di Fofò Bonafede non più ministro ma sempre vivo a via Arenula che si sostituisce con uno sberleffo al liberale illuminato Nordio.
È la perfetta espressione di una “nazione” incarognita e rancorosa che sfoga sui mostri (immigrati, detenuti, meridionali sul divano) il proprio rancore sociale.
La sinistra sembra incapace di muovere contro di essa le ragioni del solidarismo e dell’utopia, del riscatto dei miserabili che popolano le galere, nel nome di un’utopia che non siano i soliti pistolotti ecclesiastici della domenica mattina.
La battaglia contro una società autoritaria e che nega la speranza dovrebbe essere un punto di partenza invece di fare il verso al peggior giustizialismo. Erano battaglie di principio anche l’aborto e il divorzio non a caso oggi bersaglio della destra pro-vita e famiglia: può esserlo pure la speranza per i miserabili.
Quei magistrati “combattenti” che forzano e danneggiano il processo penale. Il dibattito | Il professor Giovanni Fiandaca spiega le degenerazioni del processo penale, visto più come battaglia e non come strumento di accertamento dei singoli reati. Giovanni Fiandaca su Il Dubbio il 22 ottobre 2022.
In un recente intervento sul Dubbio del Lunedì, Giorgio Spangher ha delineato un quadro ricostruttivo delle direttrici di tendenza del sistema- giustizia, con particolare riferimento al processo penale.
Anticipo che condivido in larga misura l’analisi svolta dal valoroso processualista, a cominciare dalla pare in cui egli rileva che da una certa fase storica in poi – segnata prima dall’emergenza terroristica e poi dall’escalation della criminalità mafiosa – è emersa la tendenza a concepire il processo penale, più che come meccanismo di accertamento di singoli e circoscritti reati, come strumento di lotta e contrasto a fenomeni criminali di ampia portata: con conseguente rottura di quell’equilibrio tra finalità repressiva e rispetto delle garanzie individuali che ogni procedimento penale dovrebbe, almeno in linea teorica, riuscire a mantenere.
Ma vi è di più. La propensione a utilizzare il processo come mezzo di lotta ha, altresì, preso piede nell’ambito delle strategie di contrasto alla corruzione cosiddetta sistemica: come emblematicamente dimostra l’esperienza giudiziaria milanese di Mani Pulite, di cui quest’anno è stato celebrato il trentennale, anche in questo caso l’obiettivo principale preso di mira dai magistrati inquirenti è finito col consistere, più che nell’accertare singoli episodi corruttivi, nel colpire e disarticolare il sistema della corruzione come fenomeno generale.
Quale che sia il settore specifico di criminalità collettiva di vota in volta considerato, l’impiego del processo come una sorta di macchina da guerra è destinato a condizionare anche la fase preliminare delle indagini. Pubblici ministeri e polizia giudiziaria sono infatti indotti ad aprire grandi inchieste- contenitore ad amplissimo raggio su ambienti e persone potenzialmente sospettabili di relazioni criminose, ancor prima però di disporre di elementi di conoscenza relativi a possibili ipotesi specifiche di reato: piuttosto, l’indagine funge così da strumento esplorativo per andare alla ricerca di eventuali fatti penalmente rilevanti, con l’effetto di dilatare smisuratamente i tempi dell’accertamento giudiziario e di contestare non di rado reati di problematica e incerta configurabilità, con conseguente spreco di risorse materiali e umane. Prendendo implicitamente le distanze da un simile modello d’intervento, ad esempio il nuovo procuratore di Palermo Maurizio De Lucia ha dichiarato nel suo recente discorso di insediamento: «Indagheremo dove la legge ci impone di farlo e nel rispetto delle regole, ma processeremo dove saremo convinti di arrivare alle condanne. I processi che si devono fare saranno solo quelli che vanno fatti» (cfr. Giornale di Sicilia 16 ottobre 2022).
È una apprezzabile dichiarazione d’intenti, peraltro in linea con alcune innovazioni normative della riforma Cartabia che convergono nello scoraggiare le investigazioni esplorative. Certo, l’idea del processo come arma di lotta ha avuto motivazioni storiche che – come anticipato – riconducono alla presenza o recrudescenza nel nostro paese di gravi forme di criminalità sistemica, che il potere giudiziario si è trovato a dover fronteggiare anche per una specie di delega tacita ricevuta da un potere politico incapace di (o poco disposto a) mettere in campo strategie di intervento idonee a incidere in profondità sulle cause genetiche dei fenomeni criminali da contrastare e prevenire.
Ma – non soltanto a mio avviso – ha avuto in proposito un peso una componente soggettiva a carattere ideologico o latamente culturale, che ha a che fare con la auto- percezione di ruolo almeno di una parte della nostra magistratura penale e che in qualche misura perdura a tutt’oggi: mi riferisco alla concezione (presente in origine soprattutto tra i magistrati ‘ di sinistra’, ma poi estesasi con una certa trasversalità) che ravvisa la principale missione della giurisdizione penale nell’esercizio di un controllo di legalità a tutto campo (sull’attività dei pubblici poteri, prima ancora che sulle condotte dei cittadini comuni), nella difesa delle istituzioni democratiche dalle minacce della grande criminalità, nella promozione del rinnovamento politico e nella moralizzazione collettiva.
Questa concezione della giurisdizione, oltre a determinarne una sovra-esposizione politica con conseguenti squilibri nell’ottica della divisione dei poteri istituzionali, e a condizionare – come già detto – la gestione del processo penale strettamente inteso, produce in verità effetti pure sul modo di interpretare e applicare le norme del diritto penale sostanziale, che definiscono cioè i presupposti generali della punibilità e gli elementi oggettivi e soggettivi dei vari tipi di reato.
Quanto più infatti la giustizia penale assume un’impronta combattente di tipo simil-belligerante, tanto più il magistrato interprete-applicatore delle norme incriminatrici sarà tentato di cavarne il massimo della punibilità, adottando interpretazioni estensive o addirittura analogiche ( ancorché in diritto penale formalmente vietate!) che forzano o manipolano il contenuto testuale delle fattispecie legali; con buona pace dei principi di riserva di legge e tipicità, che dovrebbero in linea teorica fungere da presidi garantistici invalicabili. A neutralizzare o indebolire l’efficacia orientativa del principio della tipicità legale delle incriminazioni concorre un fenomeno connesso, che la dottrina di matrice professorale ha denominato processualizzazione delle categorie sostanziali.
Che vuol dire? Per rendere più accessibile il significato di questa espressione ostica, cerchiamo di esplicitarlo così: si allude alla mossa giudiziale di spostare sul terreno della prova processuale la soluzione di nodi problematici che attengono, invece, alla previa determinazione dei presupposti della responsabilità sul versante del diritto sostanziale, in conformità appunto al principio di tipicità penale.
Per esemplificare, si pensi al problema, ricorrente nei processi di mafia, di definire il partecipe punibile di un’associazione mafiosa. Orbene, il predetto fenomeno della processualizzazione si verifica ogniqualvolta l’organo procedente, piuttosto che partire da una precisa e vincolante definizione generale di che cosa secondo la legge penale debba intendersi per ‘ partecipe’, e ricercare poi gli elementi di prova corrispondenti, stabilisce con ampia discrezionalità se un certo soggetto rivesta tale ruolo: decidendo sulla base sia dei riscontri probatori contingentemente disponibili, sia delle esigenze repressive valutate di caso in caso (così, ad esempio, la soglia minima della partecipazione associativa punibile è stata dalla giurisprudenza più volte individuata nella mera sottoposizione al rito di affiliazione, non ritenendosi necessario anche il successivo ed effettivo compimento di concreti atti espressivi del ruolo di associato, come viceversa richiede ai fini della punibilità l’orientamento più garantistico predominante nella dottrina accademica).
È forse superfluo esplicitare che un tale stile decisorio contraddice, in maniera vistosa, i principi di un diritto penale di ascendenza illuministico- liberale. In una recente rievocazione, promossa dalla Camera penale di Palermo, del celebre maxiprocesso alla mafia siciliana istruito ormai più di un trentennio fa da Giovanni Falcone e da alcuni suoi colleghi di allora, si è ridiscusso del tormentoso problema di fondo di come rendere compatibile il contrasto giudiziario alle mafie con un modello di giustizia penale liberale e con i principi del giusto processo.
Partecipando alla discussione, ho ricordato che lo stesso Falcone – come risulta da svariati suoi scritti ricchi di acume analitico e propositivo, successivamente raccolti nel volume Interventi e proposte (Sansoni, 1994) – aveva ben chiari i non pochi inconvenienti dei maxiprocessi in termini di gigantismo processuale e di conseguente oggettiva difficoltà di accertare in maniera approfondita le colpevolezze individuali dei numerosi soggetti sottoposti a giudizio: e che, rendendosi altresì conto della tendenziale incompatibilità tra i processi di grandi dimensioni e il nuovo rito di stampo accusatorio (beninteso, considerato nella versione originaria) allora ancora in gestazione, egli raccomandava di privilegiare non già la strada dell’illecito di associazione (dispositivo di incriminazione comodo e servizievole anche per la sua idoneità a consentire scorciatoie probatorie), bensì la ricerca dei singoli reati- scopo rientranti nel programma associativo, e di concentrare su di essi la verifica processuale. Un metodo d’indagine, questo, a suo giudizio per un verso più efficace per rendere meno evanescente la prova e, per altro verso, più rispettoso delle istanze di garanzia.
Ritengo che questi suggerimenti di Giovanni Falcone meritino di essere, oggi, ripresi e rimeditati. A maggior ragione, considerando che la tendenza giudiziale all’utilizzo della fattispecie associativa è andato sempre più diffondendosi anche in settori criminosi che poco hanno a che fare con la criminalità organizzata, sovrapponendosi spesso in maniera indebita al concorso criminoso in uno o più reati specifici.
Quei davighiani dell’Ocse contro i giudici italiani: «Troppe assoluzioni». L’Organizzazione bacchetta l'Italia per il caso Eni. Ma le sue conclusioni si basano sull’appello dell’accusa, cassato come infondato dalla procura generale. Simona Musco su Il Dubbio il 20 ottobre 2022
L’Organizzazione per la cooperazione internazionale e lo sviluppo economico (Ocse) entra a gamba tesa sull’indipendenza dei magistrati italiani. E lo fa in due modi diversi: con un report nel quale bacchetta l’Italia per il basso numero di condanne nei processi per corruzione internazionale e una inusuale lettera scritta dal presidente del Gruppo di lavoro, Drago Kos, a sostegno di Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, l’accusa nel caso Eni-Nigeria, oggi a processo per rifiuto d’atti d’ufficio.
Due documenti che partono da un assunto: i giudici italiani – e quelli milanesi in particolare – non hanno lavorato bene nel valutare i grandi casi di corruzione, avendo avuto l’ardire di assolvere gli imputati. Perché basta formulare l’accusa, secondo quanto emerge da tale documento, a certificare l’esistenza di un accordo corruttivo. Poco importa se il processo dimostra il contrario.
Le critiche dell’Ocse riguardano soprattutto il procedimento contro Eni per la presunta tangente da oltre un miliardo nell’affare Opl245, fascicolo in mano a De Pasquale e Spadaro e naufragato oltre un anno fa con una sentenza che ha, di fatto, demolito il lavoro dei due magistrati. Quella tangente, secondo i giudici del Tribunale di Milano, non è infatti mai stata provata. Ma c’è di più: molte delle prove portate a processo sono risultate “manipolate”, mentre altre, ritenute estremamente utili alla difesa, sono state tenute nel cassetto, tanto da costare a De Pasquale e Spadaro una richiesta di rinvio a giudizio a Brescia.
Dove adesso arriva la mano dell’Ocse, con la lettera – a titolo personale – del numero uno del Gruppo di lavoro, depositata da De Pasquale in vista dell’udienza preliminare del 2 novembre. Kos esprime contrarietà nei confronti della pg Celestina Gravina, che ritirò l’appello contro Eni riducendo a «chiacchiere e opinioni generiche» l’intero processo. «Non c’è prova di nessun fatto rilevante», aveva affermato la pg, secondo cui motivi d’appello presentati da De Pasquale erano «incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità». Parole, quelle di Gravina, «improprie e contrarie alla Convenzione Ocse», secondo Kos, che invece indica De Pasquale e Spadaro come «esempi luminosi per altri pm in tutto il mondo».
Le critiche del rapporto Ocse
Ma quali sarebbero le colpe dei giudici italiani? Intanto aver assolto troppa gente: gli ultimi sette processi si sono chiusi con cinque assoluzioni, una sesta parziale e una condanna. Troppo poco, dunque, partendo evidentemente da un presupposto: la tesi dell’accusa è sempre corretta. Ciò, probabilmente, senza aver analizzato l’enorme mole di atti che porta con sé ogni processo, compreso Eni-Nigeria, che ha richiesto tre anni di udienze per giungere al termine. Nonostante, dunque, l’Italia abbia «rafforzato la sua legislazione» e mostrato «un livello significativo di applicazione della corruzione all’estero con un ritmo in aumento dal 2011», a sbagliare sono i giudici, colpevoli di non aver considerato «contemporaneamente la totalità delle prove fattuali», valutando «ciascun elemento di prova solo singolarmente». Parole che ricalcano in maniera quasi pedissequa le considerazioni fatte mesi fa da De Pasquale nel proprio appello contro le assoluzioni.
È infatti proprio il magistrato che, a pagina 7 della sua impugnazione, parla di una valutazione «atomistica e parcellizzata degli elementi di prova acquisiti». E nella stessa pagina cita proprio la posizione del gruppo di lavoro dell’Ocse, che da tempo collabora con il magistrato. C’è poi un altro “difetto”, secondo l’Ocse: pretendere «uno standard di prova molto pesante». Standard che, verrebbe da dire, consente di superare la soglia dell’oltre ogni ragionevole dubbio ed evitare clamorosi errori giudiziari. De Pasquale, invece, a pagina 10 dell’appello “confonde” fatti penalmente rilevanti con questioni etiche: «Il Tribunale non esprime un giudizio preciso sulla responsabilità di Eni e Shell (e i loro dirigenti) nell’ipotizzata attività di pressione – si legge – e neppure valuta se un simile comportamento corrisponda agli standard di etica degli affari richiesti dalla comunità internazionale».Il fronte in difesa di De Pasquale.
A novembre dello scorso anno era stato un gruppo di 15 magistrati e giuristi di dodici nazioni a sollecitare l’Ocse ad accendere un faro su De Pasquale. «La procura di Milano – scrivevano le toghe – è ora sotto attacco per aver perseguito casi di corruzione internazionale». La critica era diretta ai magistrati di Brescia, che avevano “osato” indagare i due magistrati del caso Eni per rifiuto d’atti d’ufficio. Una lettera dal tenore completamente diverso rispetto a quella di 27 colleghi milanesi, che il 3 marzo 2020 “puntavano il dito” contro il trattamento di favore riservato al dipartimento di De Pasquale, che poteva contare su un «carico di lavoro significativamente inferiore» rispetto a colleghi che pure si occupavano di reati gravi. Una sorta di “privilegio” contestato all’allora procuratore Francesco Greco, che si vide bocciare il progetto organizzativo della procura da parte del Csm. E dopo il suo pensionamento, fu lo stesso De Pasquale ad essere “bocciato” dal reggente Riccardo Targetti, che espresse parere non positivo sul magistrato per la riconferma a capo del pool affari esteri. Valutazione che, casualmente, è stata espressa proprio nella giornata in cui gli ispettori dell’Ocse si trovavano in missione in tribunale a Milano, lo scorso 6 aprile.
Le critiche della difesa
«La posizione assunta dal signor Kos, peraltro sembrerebbe a titolo “personale” e che di fatto sintetizza la tesi espressa dal dottor De Pasquale sia in primo grado sia nei motivi d’appello, mi ha sorpreso per vari motivi – spiega al Dubbio Enrico De Castiglione, legale di Paolo Scaroni, ex numero uno di Eni -. In primo luogo per esprimere un parere autonomo e fondato sul processo Eni Nigeria il signor Kos avrebbe dovuto leggere e studiare tutte le carte e le prove di un processo (che ha comportato anni d’istruttoria dibattimentale) nonché tutti gli argomenti sviluppati dalle difese. Cosa che ritengo difficile possa essere avvenuta», premette il legale. Che poi rileva come a «demolire l’impianto accusatorio non siano stati solo il procuratore generale e prima ancora il Tribunale di Milano», ma anche la Corte d’Appello, nel parallelo processo riguardante alcuni coimputati. Decisioni coerenti con quelle assunte dall’Alta Corte di Giustizia Inglese e l’Alta Corte Federale Nigeriana.
Dunque, «il grave errore in cui mi sembrano essere caduti il signor Kos e il suo gruppo di lavoro – conclude – sta nell’equiparare l’ipotesi accusatoria – che deve essere verificata e validata nel corso di un processo che in Italia, come nel resto del mondo democratico, soggiace a ben precise regole – con la verità dei fatti».
L’Ocse contro i giudici che assolsero i vertici Eni: interrogazione di Costa. Le reazioni della politica al rapporto che “sgrida” i giudici del caso Eni. «Ingerenza inammissibile». Valentina Stella su Il Dubbio il 21 ottobre 2022.
Come raccontato sul Dubbio da Simona Musco, l’Organizzazione per la cooperazione internazionale e lo sviluppo economico (Ocse) “è entrata a gamba tesa sull’indipendenza dei magistrati italiani”. E lo ha fatto “in due modi diversi: con un report nel quale bacchetta l’Italia per il basso numero di condanne nei processi per corruzione internazionale e una inusuale lettera scritta dal presidente del Gruppo di lavoro, Drago Kos, a sostegno di Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, l’accusa nel caso Eni-Nigeria, oggi a processo per rifiuto d’atti d’ufficio”.
Nonostante la gravità delle affermazioni contenute nel report, non ci sono state reazioni immediate né dal mondo della politica né da quello della magistratura. Solo su sollecitazione del Foglio, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, ha minimizzato la questione sostenendo che «per noi non si pone un problema di lesione dell’indipendenza dei giudici». Di parere opposto Andrea Reale, esponente dell’Anm con i 101: «Premetto che non ho avuto ancora tempo di leggere il rapporto dell’Ocse e la lettera del presidente Kos. Ma se quello che ho letto sui giornali corrisponde al contenuto del report, ritengo che quelle dichiarazioni siano assolutamente inopportune perché rischiano di delegittimare la giurisdizione italiana, sia per quanto riguarda l’operato dei giudici sia per quanto concerne quello dei pubblici ministeri». Reale fa riferimento al fatto che la Procuratrice generale di Milano ha ritenuto di non dover appellare la sentenza di assoluzione di primo grado del processo per la presunta maxi-tangente Eni: «Essendo quello della Procura generale l’organo deputato all’impugnazione, qualora la sua decisione fosse quella di non fare ricorso nei gradi successivi di giudizio, essa andrebbe rispettata perché è una prerogativa prevista nel nostro sistema giuridico. Certo, contro il nostro sistema si possono esprimere delle critiche, anche da parte di organismi internazionali non governativi, ma esse non dovrebbero mai riguardare procedimenti specifici».
Sul versante politico, l’onorevole Enrico Costa, vicesegretario e responsabile giustizia di Azione, ha annunciato che presenterà «una interrogazione al nuovo Guardasigilli non appena sarà insediato per evidenziare le singolari prese di posizione provenienti dall’Ocse, decisamente lesive dell’autonomia e indipendenza dei magistrati italiani. Non sta né in cielo né in terra che un organismo internazionale si permetta di contestare il numero di assoluzioni per il reato di corruzione internazionale, attribuendo la responsabilità al nostro ordinamento perché richiede una “prova solida” del fatto di reato (vorrebbero forse una prova flebile) ed ai giudici nella valutazione degli elementi di prova». Il parlamentare poi stigmatizza la mancata reazione del “sindacato dello toghe”: è ancora più grave da parte dell’Ocse «l’intromissione su procedimenti penali specifici con giudizi che solo l’Anm (forse abituata a difendere solo chi accusa e chi condanna) non ritiene lesivi dell’autonomia e indipendenza della magistratura». Dello stesso parere il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin: «Si tratta di una ingerenza inammissibile dell’Ocse nel nostro ordinamento giudiziario interno. L’efficienza della magistratura non si misura certamente nel numero di condanne emesse in merito ad una specifica tipologia di reato».
Quindi per Zanettin tale anatema dell’organizzazione internazionale nei confronti dell’Italia «va respinto con forza al mittente. Noi siamo ben contenti di vivere in un sistema basato sull’oltre ogni ragionevole dubbio. Non si condanna se la prova non è solida. Un Paese come il nostro, di grande tradizione giuridica garantista, è inaccettabile che venga messo sotto accusa in questo modo». A proposito di accusa, il senatore conclude: «La critica da parte dell’Ocse è rivolta chiaramente alla magistratura giudicante. Invece dovrebbero chiedersi perché siano state mandate avanti delle imputazioni da parte della magistratura requirente che ha istruito un processo poi rivelatosi inconsistente, tanto che la stessa Procura generale ha rinunciato all’appello». «Non c’è prova di nessun fatto rilevante», aveva affermato la pg, secondo cui i motivi d’appello presentati da De Pasquale erano «incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità». Per l’onorevole Andrea Delmastro Delle Vedove, responsabile giustizia di Fratelli d’Italia, «il tema è complesso. Per fortuna l’Ocse ha espresso delle considerazioni del tutto ininfluenti per il nostro sistema giudiziario». Il professor Giorgio Spangher, ex membro laico del Csm, ci dice: «Ormai da troppo tempo l’Europa, attraverso i suoi vari organismi, ci sta dicendo come dobbiamo amministrare la giustizia: dalla legge spazza-corrotti all’ultima riforma per diminuire l’arretrato, e ora ci accusano di assolvere troppo. Sono allibito, siamo sempre più un Paese a sovranità limitata. Quella dell’Ocse è una pesante ingerenza nell’autonomia e indipendenza della magistratura, che è un potere dello Stato. Noi abbiamo un grande sistema di legalità, a partire dalla nostra Costituzione. E quando si assolve, lo si fa spesso dopo il controllo di tre gradi di giudizio. Noi non siamo come gli Stati Uniti dove si patteggia per non rischiare il peggio».
Spangher in conclusione si pone due domande, forse anche un po’ retoricamente: «Esistono troppe assoluzioni o c’è una assoluzione che a qualcuno non è piaciuta? E chi tira le fila di questi discorsi, chi è la manina che ha spinto l’Ocse a fare quelle dichiarazioni?». Al momento nessun commento da parte di Pd e Movimento Cinque Stelle.
L’internazionale delle toghe che ha “ispirato” il rapporto Ocse. Ecco cosa c’è dietro il report che ha messo sotto accusa i giudici italiani, colpevoli di aver assolto i vertici Eni e di richiedere prove solide per condannare gli imputati. Simona Musco su Il Dubbio il 22 ottobre 2022.
Una sorta di “internazionale” in difesa dei magistrati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. Dietro il rapporto Ocse che critica l’Italia per le assoluzioni del caso Eni-Nigeria c’è una lettera di quindici magistrati e giuristi di dodici nazioni, una lettera durissima con la quale si punta il dito, in primis, contro i magistrati di Brescia, colpevoli di aver messo sotto accusa le due toghe per la gestione delle prove nel processo contro il colosso energetico. Un’azione dovuta, come ricorda anche il rapporto Ocse, ma «inesplicabile», scrivevano un anno fa figure del calibro di Eva Joly, Richard Messick, Silvio Antonio Marques, Maria Schnebli, Richard Findl e Alan Bacarese, che nella loro carriera hanno messo sotto accusa capi di Stato e di governo in casi di corruzione.
La lettera, lo scorso anno, invocava un intervento dell’Organizzazione, ipotizzando un attacco alla procura di Milano «per aver perseguito casi di corruzione internazionale». Un attacco che, dunque, verrebbe dallo stesso mondo della magistratura italiana e, addirittura, dalla stessa procura meneghina, spaccata dopo il caso della diffusione dei verbali di Piero Amara – ex avvocato esterno di Eni -, ma schierata quasi totalmente dalla parte di Paolo Storari, che aveva messo in guardia De Pasquale e Spadaro sulla credibilità di Amara e di Vincenzo Armanna, ex manager Eni, grande accusatore e, secondo la sentenza Eni, inattendibile. Per capire la posizione di chi ha sottoscritto quella lettera sono sufficienti due interventi, scritti da due dei firmatari. Il primo, pubblicato il 22 ottobre 2021 su globalanticorruptionblog.com, a firma del giurista Messick, parla di «prove schiaccianti» della corruzione (secondo i giudici, invece, non c’è prova) nel caso dell’affare Opl245.
«L’unico punto luminoso» sarebbe costituito dal terzo Dipartimento della procura di Milano, gestito proprio da De Pasquale e secondo Messick al centro di manovre da parte di «potenti aziende italiane per tagliare il budget». Le lamentele sulle risorse destinate al Dipartimento affari internazionali sono, in realtà, arrivate dalla stessa procura, con una lettera firmata da circa 30 magistrati nella quale veniva stigmatizzato l’eccessivo carico di lavoro per dipartimenti che si occupano di altri tipi di reati – anche gravi – e un trattamento di “favore” – in termini di fondi e forze a disposizione – per la squadra di De Pasquale. Ma Messick va oltre, ipotizzando un possibile trasferimento del procuratore aggiunto legato al tentativo di smantellare il suo ufficio. Il rischio trasferimento, invece, è legato al procedimento disciplinare aperto ormai più di un anno fa dal Csm e, dunque, legato ad eventuali comportamenti scorretti – ancora tutti da accertare – da parte del magistrato nella gestione del caso Eni. Tra le accuse mosse ai due pm, Messick cita solo il video non depositato al processo e che proverebbe il tentativo di Armanna di formulare false accuse a carico di Eni per screditarne i vertici, rei di averlo licenziato.
Video girato due giorni prima che l’ex manager si recasse in procura proprio per formulare accuse nei confronti della società energetica. Secondo il giurista, il mancato deposito di una prova a discarico sarebbe stato «un esercizio di discrezionalità». Un’idea non condivisa in primis dal Tribunale di Milano, che ha criticato la condotta dell’accusa, e poi dalla procura di Brescia, che ha chiesto il rinvio a giudizio dei due magistrati per rifiuto d’atti d’ufficio. Ma a mettere in dubbio la solidità delle accuse sono anche altri elementi, come chat false (usate strumentalmente da Armanna e consegnate ai giornali) e presunte mazzette per corrompere un testimone. Dettagli, forse. Ma fare luce su di essi aiuterà anche a preservare il lavoro dei due magistrati, qualora i colleghi accertassero l’assoluta bontà delle loro azioni.Un mese dopo l’intervento di Messick, a scrivere un lungo intervento sulla corruzione sul sito Project Syndicate è stata Joly, magistrata e politica norvegese naturalizzata francese ed ex membro del Parlamento europeo. Joly cita proprio De Pasquale e Spadaro e le accuse della procura di Brescia. Anche lei parla del video, «la cui trascrizione risulta essere nelle mani di Eni da anni», sostiene.
Ma Joly cita soprattutto la mancata ammissione di Amara come teste al processo, per confermare il tentativo di Eni di avvicinare i giudici e pilotare la decisione, tentativo mai provato, tanto che la procura di Brescia ha chiuso il fascicolo senza formulare alcuna accusa. Amara è un teste a dir poco fragile, considerando l’altissimo numero di procedimenti per calunnia a suo carico e la più volte asserita falsità di parte dei suoi racconti, come quello circa l’esistenza della presunta “Loggia Ungheria”. Storari aveva messo in guardia i colleghi circa la credibilità di Amara, al punto da preparare una bozza di richiesta cautelare, mai firmata dai suoi superiori. Una mossa, a suo dire, finalizzata proprio a tenere in piedi il processo Eni: «Questa indagine (su Amara, ndr) deve rimanere ferma due anni», avrebbe fatto sapere De Pasquale a Storari tramite l’aggiunta Laura Pedio, stando quando dichiarato a verbale davanti ai magistrati di Brescia. Storari aveva puntato il dito contro la collega e il procuratore Francesco Greco, rei, a suo dire, di «selezionare e trasmettere a De Pasquale quello che gli serve nel processo Eni-Nigeria e a non trasmettere quel che lo danneggia». Ma tutto questo l’Ocse, forse, non lo sa.
Chi pretese il carcere per Braibanti oggi va a caccia di nuove streghe da bruciare. Il professore piacentino, omosessuale dichiarato, fu colpevole per la convivenza con uno studente maggiorenne e consenziente. Per questo fu arrestato e condannato. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 16 settembre 2022.
Il film di Gianni Amelio presentato a Venezia sul “caso” Braibanti, ha indignato e commosso molte persone convinte però che oggi un caso analogo non potrebbe accadere. E si sbagliano. Sarebbe perciò necessario sommare all’indignazione e alla commozione, l’analisi rigorosa della realtà attuale e poi sulla base dei fatti, arrivare alla conclusione che “Braibanti” viene bruciato ogni giorno sulle nostre piazze e la percentuale degli indifferenti è oggi maggiore che mezzo secolo fa. Mentre quel ‘ Potere’ che segregò Braibanti nelle patrie galere è più forte che mai. Il professore piacentino, omosessuale dichiarato, fu colpevole per la convivenza con uno studente maggiorenne e consenziente. Per questo fu arrestato e condannato.
Credo che prendere posizione a favore di Braibanti sia stato difficile ovunque ma comprenderete quanto lo sia stato nel Sud Italia. Eppure un confronto aspro c’è stato anche nelle regioni meridionali e finanche nei più piccoli paesi e ciò ha consentito di aprire un varco nell’egemonia delle classi dominanti e di avviare una semina che ha portato alla vittoria sul divorzio e alla grande stagione dei diritti civili.
Ma andiamo con ordine. Braibanti era un ex partigiano, un poeta, uno scienziato ma era soprattutto una persona innocente che dinanzi a una accusa degna della peggiore caccia alle streghe fu difeso solo da pochi, o meglio da una coraggiosa minoranza costituita da intellettuali, da giovani- spesso irregolari- di Sinistra e da qualche liberale raro come i lupi bianchi. Braibanti fu marchiato a fuoco come pervertito, pederasta, degenerato, corruttore di giovani e il marchio divenne garanzia per l’infame condanna prima nelle piazze, quindi sui giornali e infine in Tribunale. La televisione fu il megafono della pubblica accusa.
Come abbiamo detto all’inizio, a 50 anni di distanza, qualche riflessione bisognerebbe pur farla. Innanzitutto quando esplose il “caso Braibanti” non abbiamo difeso solo il diritto naturale di dichiararsi omosessuale e vivere liberamente la propria vita ma anche e soprattutto il diritto alla Libertà e il rispetto dell’integrità della persona umana per come prescritto dalla Costituzione.
Oggi quelle stesse forze che pretesero il carcere per Aldo Braibanti vanno a caccia di nuove streghe da bruciare sul rogo. Così quasi ogni giorno, una certa stampa crea il “mostro”, la piazza (ormai solo virtuale) si scalda e pretende la purificazione attraverso il sacro fuoco, le procure non vanno per il sottile e le carceri si riempiono di innocenti. E per questa via lo Stato “degenera” e da Istituzione necessaria per la tutela dei cittadini, diventa un pericolo in quanto sceglie di legittimarsi con la giustizia sommaria, la galera e la guerra.
Oggi c’è l’aggravante che le minoranze che difesero Braibanti sono quasi sparite, spesso distratte, e a volte si sono trasformate in sentinelle di “regime”. Così chi dovesse capitare (e capita quotidianamente) nell’ingranaggio perverso che 50 anni fa distrusse l’ex partigiano è terribilmente solo. Provate voi a difendere una persona innocente finito nelle maglie della “giustizia”, o a esprimere qualche dubbio sulle frequenti retate che sanno più di teatro che di applicazione della legge. Provate a dire che una persona non può essere messa alla gogna per il reato di “parentela”, che un consiglio comunale non può essere sciolto senza una sentenza che stabilisca le responsabilità penali del sindaco e dei consiglieri comunali. Oppure che un imprenditore non può essere messo al lastrico con un semplice rapporto di polizia.
Chiunque lo faccia verrà marchiato come potenziale complice. Conosco almeno un migliaio di persone messe alla gogna e poi scagionati da ogni accusa. Cambia il capo di imputazione ma il metodo resta uguale e chi non ha la forza e il coraggio dell’ex partigiano muore di crepacuore. Credo che quel varco aperto in occasione del caso Braibanti grazie ad una minoranza coraggiosa, stia per essere definitivamente chiuso e ciò avrà come sbocco naturale un regime che già ha preso forma negli anni passati.
Il dottor Scarpinato candidato al Senato in Calabria, parlando alla festa del Fatto quotidiano ha affermato che la difesa della Costituzione deve essere la nuova linea del Piave. Si può e si deve essere d’accordo, premettendo però che c’è chi su quella linea c’è sempre stato. Sia quando s’è trattato di difendere la Costituzione contro la secessione di Bossi o per contrastare la legge sull’autonomia differenziata e ancora di più quando retate degne delle peggiori purghe staliniane hanno distrutto migliaia di vite. In Calabria molto più che altrove. La Costituzione è veramente una trincea… sempre! Anche quando un solo uomo (chiunque esso sia) dal profondo di una galera grida la sua innocenza, pretende la sua dignità, reclama la tutela della legge. Anche quando il carnefice è un magistrato o comunque un rappresentante di quel potere che è – in linea storica – erede di coloro che sacrificarono Aldo Braibanti.
Le incostituzionali proposte di Fratelli d'Italia. Il programma della Meloni per la giustizia: in galera e via la chiave. Salvatore Curreri su Il Riformista il 16 Settembre 2022
«Vorrei una campagna elettorale nella quale le forze politiche si confrontano su idee, progetti e visioni del mondo». Così Giorgia Meloni. Giusto: anziché demonizzarla, prospettando veri o presunti pericoli fascisti, occorre analizzarne le proposte. E allora esaminiamoli i progetti di Fratelli d’Italia sul tema della giustizia. Ce ne offre il destro quanto ha dichiarato durante il confronto con il segretario del Pd: «In Italia da indagato sei colpevole, se sei condannato cominciano gli sconti. Sono garantista in fase di celebrazione del processo e giustizialista in fase di esecuzione. Per risolvere il sovraffollamento si sono cancellati i reati e diminuite le pene, invece di costruire carceri».
Tralasciando altre osservazioni (il sovraffollamento è anche la conseguenza di nuovi reati e maggiori pene), invero nulla di nuovo sotto il sole. L’8 giugno 2021 Fratelli d’Italia (prima firmataria la stessa Meloni) ha infatti depositato alla Camera un progetto di legge (n. 3154) per modificare l’art. 27 della Costituzione sulla funzione della pena, affinché la sua “esecuzione (…) tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini”. Si tratta di una proposta di legge costituzionale…incostituzionale perché se approvata, pur lasciando (furbescamente) intatto il principio per cui le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”, gli toglierebbe l’attuale preminenza, affiancandogli, e quindi ponendo sullo stesso piano, l’esigenza di difendere la sicurezza dei cittadini dalla pericolosità sociale del condannato con cui andrebbe dunque contemperato ed equilibrato.
Quando i costituenti – alcuni dei quali avevano conosciuto il carcere – discussero della finalità della pena, convennero sulla cosiddetta teoria rieducativa. La pena, cioè, non deve avere una funzione prevalentemente vendicativa, perché “per il male dell’azione va inflitto il male della sofferenza” (Grozio), né intimidatoria, così da dissuadere il colpevole, e in generale l’intera comunità, dal commettere il reato, ma emendativa, nel senso che deve mirare non tanto alla conversione interiore o al riscatto morale del condannato quanto alla sua trasformazione da delinquente a soggetto pienamente reinserito nella società civile. Tali tre finalità della pena, dunque, non sono equivalenti (cosiddetta concezione polifunzionale) perché quella rieducativa non può mai essere sacrificata “sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena” (Corte cost. 149/2018) e la deve sempre caratterizzare “da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”, senza essere “ridotta entro gli angusti limiti del trattamento penitenziario”. Tale conclusione non è contraddetta dall’uso del verbo “tendere” che vuole solo significare “la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può verificarsi tra quella finalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione”, che quindi non può essere imposto (Corte cost. 313/1990).
Per avere un “volto costituzionale” la pena deve dunque essere: proporzionale anziché eccessiva, individuale anziché fissa; flessibile nel corso dell’esecuzione, anziché immodificabile. Non sconti per tutti, dunque, ma premi per chi dimostra la volontà di cambiare vita e reinserirsi nella società. Una pena, invece, che non riesce a promuovere e a valorizzare gli sforzi di riconciliazione e risocializzazione del condannato – quale quella che la proposta di Fratelli d’Italia prefigurerebbe in nome della difesa della sicurezza dei cittadini – non adempie alla sua funzione costituzionale. Ciò nella convinzione, sottesa all’art. 27 della Costituzione, che «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile; ma che non può non chiamare in causa – assieme – la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore – e la concreta concessione da parte del giudice – di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società» (C cost. 149/2018).
Sono principi di civiltà giuridica affermati anche a livello internazionale, ad esempio dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, secondo cui «anche gli individui responsabili dei crimini più odiosi conservano la loro umanità e quindi la possibilità di cambiare e di reinserirsi nella società aderendo al sistema di valori condiviso [per cui] se si impedisse a costoro di coltivare la speranza di un riscatto dall’esperienza criminale che li ha consegnati alla pena perpetua, si finirebbe col negare un aspetto fondamentale della loro umanità, si violerebbe il principio della dignità umana e quindi li si sottoporrebbe ad un trattamento degradante» (9.7.2013 Vinter e altri c. Regno Unito). Affermare dunque nel testo della proposta che essa non sarebbe in contrasto con la Cedu è quantomeno temerario e azzardato.
In definitiva, nessuno è perduto per sempre perché «nessun uomo è tutto nel gesto che compie, nessun uomo è uguale nell’attraversare il tempo» (H. Hesse). Per Costituzione, ogni condannato, nello scontare la pena, deve avere una speranza, un orizzonte, il diritto ad una seconda possibilità grazie a percorsi rieducativi individuali in grado di recuperarlo alla società. La pena, allora, «non è il male per il male, ma la limitazione della personalità è finalizzata ad una ragione superiore, che è la cancellazione del male stesso» (Aldo Moro). Conosco l’obiezione e la prevengo: il solito buonismo, infarcito di perdonismo da parte di chi vive nelle ZTL e sconosce le condizioni d’insicurezza delle periferie della città. Ora, a parte che i dati dimostrano che da dieci anni i reati più comuni (rapine, furti, borseggi, omicidi…) sono in calo (il che dimostra come qualcuno strumentalmente soffi sulla paura delle persone…), rieducare il condannato e favorirne il reinserimento sociale non è solo un obbligo morale (oserei ricordare “cristiano” a chi ama circondarsi di madonne…) ed un vincolo costituzionale ma costituisce il miglior investimento per assicurare la sicurezza sociale.
Difatti, è statisticamente dimostrato che i condannati anche per gravi delitti che abbiano potuto acquisire in carcere una professionalità lavorativa o fruito di permessi, premi e misure alternative alla detenzione non tendono a fuggire (con conseguenti minori costi di gestione) e, una volta scarcerati, in massima parte si reinseriscono più facilmente nella società e tornano meno a delinquere. Il che significa un minore tasso di recidività, che vuol dire più (vera) sicurezza sociale e, quindi, meno costi per lo Stato. Al contrario, il 70% di quanti hanno espiato fino all’ultimo giorno la pena in galera commettono nuovi reati. In tempi di “populismo penale” (Fiandaca) è facile raccogliere i consensi per chi considera il carcere come una “discarica sociale”, anziché comunità di rieducazione, un “cimitero dei vivi” (Turati), popolato da condannati per i quali si deve “buttare la chiave” perché devono “marcire sino all’ultimo giorno in galera” giustappunto in nome della sicurezza dei cittadini. Peccato che si tratti di soluzioni semplici e alla lunga contraddittorie (la stessa contraddittorietà di chi in nome della sicurezza dei cittadini vietava l’iscrizione anagrafica degli stranieri, impedendone così il controllo da parte dell’autorità pubblica).
Una settimana fa, nel silenzio quasi generale, un uomo di 44 anni, segnalato più volte per disturbi psichici, si è suicidato nel carcere di Caltagirone dove era stato rinchiuso per aver rubato un portafogli subito restituito. Nel mese di agosto i suicidi sono stati 15. Nel 2022 (finora) 59, cui vanno aggiunti 1078 tentativi, già superiori ai 57 nel 2021, di cui 5 agenti di polizia penitenziaria (v. il dossier curato dall’associazione Antigone). E da tempo ci si uccide molto di più in carcere che fuori. Allora, parafrasando Voltaire, se vogliamo capire che idea di giustizia (e forse della dignità umana) ha Fratelli d’Italia e, temo, l’intero centrodestra, chiediamoci che idea abbiano delle carceri, di come secondo loro ci debba vivere (e morire) la gente in nome di una pretesa asserita tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini. Solo così potremmo non lasciarci convincere da chi punta per calcoli elettorali sul rumore dell’albero quando cade, approfittando del silenzio quando invece cresce. Salvatore Curreri
Dai 5Stelle a Fdi, quando il carcere è feroce giustizialismo. Nei programmi elettorali è diversa l’attenzione all’universo carcerario: per la Lega servono più agenti e carceri. Terzo polo, Pd, Europa verde-Si e +Europa hanno proposte differenziate ma con una matrice progressista. Damiano Aliprandi Il Dubbio il 13 settembre 2022.
L’ex magistrato Roberto Scarpinato, candidato del Movimento Cinque Stelle, recentemente ha affermato: «Il carcere in Italia non sarà mai civile fino a quando i colletti bianchi non cominceranno a esserne ospiti». Dire che il grave problema penitenziario che attanaglia il nostro Paese è dovuto dalla poca presenza dei “colletti bianchi” ristretti, è sicuramente funzionale agli slogan elettorali, ma non è utile alla risoluzione del problema. Purtroppo non possiamo sapere quale sia la soluzione proposta dai grillini, anche perché – a differenza di tanti altri partiti – nel programma elettorale non se ne fa alcun cenno. Così come per il tema della riforma della giustizia, anche per quanto riguarda il carcere bisogna applicare un rigore scientifico. Troppo spesso – basti pensare alle rivolte carcerarie dove si è tirato fuori il teorema (sconfessato dalla commissione istituita dal Dap) della regia occulta – emergono visioni paranoiche della Storia che causano arretramenti culturali, non offrono soluzioni ai problemi e si rischia di essere funzionali allo Stato di polizia.
Fake news e teorie del complotto possono avere facile presa
Senza uno scrupolo scientifico dei fatti, inevitabilmente fa presa il “fantasma della memoria” che viene evocato attraverso suggestioni, immagini, suoni, parole. All’interno di spazi televisivi e convegni, come di consueto, avviene un’alchimia insieme modernissima e arcaica dove si evoca il passato per ottenere lumi sull’attualità e vaticini sul futuro, accostando – senza rigore alcuno – situazioni, personaggi, ipotesi stralunate, affermazioni presentate come fatti ma non verificate, “fake news”, leggende metropolitane, miti ingannevoli, post verità, teorie del complotto. Tutto ciò annulla il pensiero, il livello del dibattito pubblico si abbassa sempre di più e inevitabilmente ne risente anche la classe politica che teme di portare avanti qualsiasi riforma innovatrice. Lo abbiamo visto con la Riforma Orlando sull’ordinamento penitenziario, quando non si è avuto coraggio di approvare i vari punti innovativi come la modifica del 4 bis (l’ostatività ai benefici per alcuni reati) e renderci più vicini al dettato costituzionale. E infatti appare singolare evocare la Costituzione italiana, ma quando si vuole apporre riforme che seguono il solco tracciato dai padri costituenti, si fa una acerrima opposizione.
2022: l’annus horribilis delle carceri italiane
Ma ritorniamo al problema penitenziario. Questo 2022 è un anno caratterizzato dai numerosi suicidi, sovraffollamento, problemi sanitari, detenzioni degradanti. Tante, troppe morti potevano essere evitate. C’è un numero altissimo di detenuti reclusi per una pena breve. L’ultima relazione annuale del Garante Nazionale parla di ben 1319 presenze per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2473 per una condanna da uno a due anni. La risposta sarebbe quella di sbattere in galera più “colletti bianchi” possibili, oppure dare strumenti maggiori a quei detenuti, magari della fascia più debole della società, per ottenere misure alternative alla detenzione? Quando si è provato a farlo, i titoli di taluni giornali come il Fatto Quotidiano o La Verità, sono stati: “Vogliono scarcerare i delinquenti!”. E puntualmente, per ricevere ancora più consenso dalla fascia più giustizialista, parlano di leggi che rendono impuniti i colletti bianchi. La retorica della giustizia classista, di fatto, rende ancora più feroce il classismo. E in nome dell’impunità dei colletti bianchi, sono state varate riforme come “lo spazzacorrotti” che per un mini peculato, trattano come se fossero dei boss, i dipendenti della pubblica amministrazione. Sì, perché per fare una legge ancora più feroce, alla fine sono sempre gli ultimi della catena a pagarne le conseguenze.
Da un mese Rita Bernardini è in sciopero della fame
Da quasi un mese è in sciopero della fame Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, per chiedere un intervento da parte del ministero della Giustizia. Ci sono state adesioni trasversali, ma oggi più che mai, ritorna a fare da padrone la lotta all’ “impunitismo”, ovvero quel populismo giudiziario che ha creato e sta tuttora creando una profonda ingiustizia. In nome di quella lotta, ci rimettono gli ultimi che affollano le nostre patrie galere. Com’è detto, il Movimento Cinque Stelle non fa alcun cenno al carcere nel suo programma elettorale, così come Fratelli d’Italia. Parliamo, secondo i sondaggi, del primo partito e quindi sarebbe utile capire la loro posizione. Un indizio però l’abbiamo avuto recentemente quando Giorgia Meloni ha addirittura proposto di modificare l’articolo 27 della nostra Costituzione. Nel centrodestra solo la Lega ha menzionato il problema nel programma, ma promettendo «una riforma dell’ordinamento penitenziario che garantisca piena dignità al detenuto e sicurezza nelle carceri». Come? Attraverso assunzioni tra le fila della Polizia penitenziaria e la costruzione di nuovi istituti penitenziari, moderni e vivibili. La classica risposta di destra, che è molto simile al vecchio programma grillino. Non è un caso che durante il governo Conte 1, il tema penitenziario è stato quello dove trovarono più sintonia.
Per il Terzo polo serve una riforma nel rispetto della Costituzione
Il programma del Terzo polo, quello redatto da Azione di Carlo Calenda e Italia Viva di Matteo Renzi, ha invece affrontato il problema con un indirizzo progressista: ovvero la promozione di una riforma del sistema penitenziario che garantisca «il rispetto del principio della finalità educativa della pena, coerentemente con quanto previsto dalla Costituzione». Tra le misure proposte c’è un intervento sulla normativa della custodia cautelare, per evitare un abuso del sistema dal momento che oggi un terzo dei detenuti si trova in carcere pur senza condanna definitiva. Inoltre viene prospettata un’incentivazione nel ricorso alle pene alternative, così da ridurre la pressione sulle carceri, interventi di edilizia carceraria e una nuova legge sulle detenute madri che fermi la pratica dei bambini in carcere.
Giustizia riparativa e misure deflattive da valorizzare per il Pd
Nel centrosinistra primeggia il Partito Democratico che ha dedicato un capitolo sostanzioso sul tema carcere, proponendo di valorizzare (e va dato atto che la guardasigilli Marta Cartabia ne ha fatto un cavallo di battaglia) gli strumenti di giustizia riparativa anche per «superare l’impostazione di un sistema penale incentrato prevalentemente sul carcere». Parla anche di rendere strutturali le misure emergenziali applicate durante l’emergenza Covid-19, quelle che hanno contribuito a una – seppur minima – deflazione della popolazione carceraria. Importante anche il tema della valorizzazione del lavoro, coinvolgendo imprenditori responsabili nei percorsi formativi e alleggerire la burocrazia penitenziaria.
+Europa dedica ampio spazio alla questione penitenziaria
Anche Europa verde-Sinistra italiana affronta il tema penitenziario nel suo programma elettorale, recependo le indicazioni elaborate dall’associazione Antigone. Si punta molto sulla modifica della legge sulla droga e la cancellazione della Bossi-Fini, la norma che criminalizza e produce la cosiddetta “clandestinità” con la conseguenza di creare “devianze” e quindi più incarcerazioni. Inoltre chiedono la riduzione della custodia cautelare e la possibilità di avere un telefono per ogni cella. Questione importate, ben evidenziata da Antigone per ridurre l’isolamento del detenuto dai propri affetti: fondamentale per evitare malesseri esistenziali che portano anche al suicidio. Ovviamente anche il partito di +Europa dedica ampio spazio alla questione penitenziaria, attraverso proposte simili a quelle appena elencate. In più dedica attenzione sul trattamento psichico (ricordiamo la proposta di legge a firma di Riccardo Magi sull’abolizione del cosiddetto doppio binario) e il diritto all’affettività e alla sessualità in carcere. Temi tutti volti all’affermazione della Costituzione Italiana. Sì perché non basta evocarla strumentalmente, ma bisogna poi passare a proposte concrete.
Processo inquisitorio e manette facili: criminale è questa politica giustizialista. Giovanni Varriale su Il Riformista il 19 Agosto 2022
Pochi giorni fa il Consiglio dei Ministri ha approvato, in esame preliminare, un decreto legislativo di attuazione della Legge delega di riforma del processo penale che ha l’arduo obiettivo di ridurre i tempi dei processi penali e tentare di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri. Infatti, come emerso chiaramente dai dati del 2021 e dell’inizio del 2022, il numero di detenuti in carcere ancora in attesa di giudizio è sempre in aumento.
Tale dato è assolutamente in contrasto non solo con i principi costituzionali ma anche con le stesse disposizioni del codice di procedura penale che stabilisce come la custodia cautelare in carcere vada applicata quale extrema ratio. Ebbene, risulta singolare, analizzando attentamente i dati forniti, non solo come spesso e volentieri tali misure vengano applicate per reati di minore allarme sociale ma anche come vengano applicate a soggetti in attesa di giudizio e quindi, in ossequio al principio di non colpevolezza, potenzialmente innocenti. Tale modus agendi è evidentemente frutto di una politica criminale sempre più giustizialista ma assolutamente contro producente per lo Stato che vede, per altro, sempre in aumento i risarcimenti per ingiusta detenzione.
È evidente come tale politica criminale sia figlia di un retaggio cultural – popolare secondo cui un indagato è sicuramente colpevole prima ancora che sia fissata la prima udienza dibattimentale. Siamo tornati, quindi, secondo quanto riportato dai mass media, ad un processo penale di tipo inquisitorio. Ebbene è chiaro come ciò sia in completa antitesi con il modello accusatorio del processo penale che si fonda sul principio di non colpevolezza e sul rispetto dei diritti umani sanciti non solo dalla carta costituzionale ma anche dal Legislatore sovranazionale. In quest’ottica ed in applicazione di tale malsana politica, si innesca quale naturale conseguenza, il sovraffollamento delle carceri che si trovano ad ospitare un numero eccessivo di detenuti rispetto alla capienza massima prevista, per altro, in strutture fatiscenti, gelate d’inverno e roventi d’estate.
Ebbene, i detenuti sono costretti a condividere anche in nove celle adibite ad un massimo di cinque o sei persone; gli educatori sono pochi rispetto al numero di detenuti; gli spazi comuni non sono sufficienti, o addirittura inesistenti; in alcuni casi le docce possono essere utilizzate solo due volte a settimana. Appare chiaro come in un contesto del genere non solo il detenuto in custodia cautelare dichiarato innocente e scarcerato perderà fiducia nelle istituzioni, ma quello dichiarato colpevole non riuscirà ad intraprendere un percorso rieducativo così come richiesto dalla nostra carta costituzionale.
In tale contesto applicare la misura cautelare in carcere per un soggetto in attesa di giudizio per un reato di non particolare allarme sociale, nei casi in cui le esigenze cautelare potrebbero essere soddisfatti con, ad esempio, la misura degli arresti domiciliari, non solo viola le norme costituzionali e del codice di procedura penale, ma è sintomo di non conoscenza del contesto carcerario che può in questi casi soltanto peggiorare le cose. Sarebbe quindi auspicabile una riforma integrale dell’ordinamento penitenziario, una riforma strutturale delle case circondariali ed un utilizzo più moderato della misura cautelare in carcere.
Certamente il percorso intrapreso con la riforma Cartabia è promettente, ma è necessario ed assolutamente urgente che si intervenga sia sul tema dell’eccesivo utilizzo delle misure carcerarie sia, soprattutto, sulle condizioni di vita dei detenuti. Infatti, già la sola privazione della libertà rappresenta di per sé una grandissima limitazione ma se tale restrizione diventa inumana, se il detenuto viene privato dei propri affetti e della propria privacy, così come spesso accade nelle carceri italiane, significa privare i detenuti della speranza per un futuro migliore e quindi neutralizzare definitivamente lo scopo rieducativo della pena che verrebbe ad essere nuovamente una mera punizione. Giovanni Varriale
La purga dei dem radicali su garantisti e renziani. Fuori Lotti, Morani, Pittella, in bilico Marcucci. In campo Gentiloni per "salvare" Amendola. Pasquale Napolitano il 17 Agosto 2022 su Il Giornale.
Il commissario Ue agli Affari economici Paolo Gentiloni sta provando con tutte le armi a ripescare in posizione utile l'ex sottosegretario agli Affari europei Enzo Amendola. Il sottosegretario che ha seguito il dossier Pnrr è stato piazzato al numero tre al Senato in Campania (collegio di Napoli) dietro Dario Franceschini, che guiderà la lista, e Valeria Valente, senatrice uscente che sarà candidata anche nell'uninominale di Napoli città.
Per Amendola la sfida è proibitiva: si profila una trombatura bis dopo quella del 2018. Gentiloni è al lavoro per far salire di posizione Amendola, nome molto gradito anche dalle parti del Colle. Nelle liste del Pd, votata dalla direzione nazionale nella notte di Ferragosto, emerge il nuovo corso lettiano: fuori i garantisti. Dentro la sinistra radicale, che va da Laura Boldrini ad Alessandro Zan. A liste chiuse, il segretario versa le lacrime di coccodrillo: «Avrei voluto candidarvi tutti». Il nome che fa più rumore è sicuramente quello del napoletano Amendola che sta valutando la rinuncia. L'elenco dei trombati e semi-trombati è lunghissimo. Sul Nazareno piomba la rabbia degli esclusi. Ma soprattutto sono in tanti a sfilarsi comunicando ai vertici dem le rinunce. La capogruppo in commissione Cultura della Camera Rosa Maria Di Giorgi, esclusa dalle liste, medita l'addio. Nel Lazio la notte dei lunghi coltelli lascia sul tappeto Monica Cirinnà, la senatrice dell'unioni civili (all'epoca di Matteo Renzi) travasa bile: «Mi hanno proposto un collegio elettorale perdente in due sondaggi, sono territori inidonei ai miei temi e con un forte radicamento della destra. Evidentemente per il Pd si può andare in Parlamento senza di me, è una scelta legittima. Resto nel partito, sono una donna di sinistra ma per fortuna ho altri lavori». La senatrice uscente si infuria e annuncia il ritiro. Nel pomeriggio ci ripensa e accetta la candidatura nell'uninominale Roma 4: «Ho ricevuto uno schiaffo. Solo grazie ai tanti messaggi ricevuti ho deciso di correre lo stesso, anche se le possibilità di vittoria saranno minime». Il leader del Pd candida capolista in Veneto Alessandro Zan. Altri due big dem sono a rischio rielezione nel Lazio: Filippo Sensi, ex portavoce di Matteo Renzi, piazzato nel listino al proporzionale in posizione non utile, e Roberto Morassut. Scatta la tagliola per due parlamentari garantisti che hanno sposato la battaglia sui referendum: il senatore Gianni Pittella e il collega Salvatore Margiotta.
Marcello Pittella, fratello del senatore trombato ed ex presidente della Regione Basilicata, in un tweet, attacca: «Un delitto perfetto, sono calpestati i diritti, principi, territorio, storia e democrazia. Nella vita ci vuol dignità». Tra i garantisti salta anche la testa di Stefano Ceccanti, fuori dalle liste. In Toscana, Letta premia Laura Boldrini e mette fuori Luca Lotti che protesta: «Il segretario del mio partito ha deciso di escludermi dalle liste per le prossime elezioni politiche. Mi ha comunicato la sua scelta spiegando che ci sono nomi di calibro superiore al mio. La scelta è politica, non si nasconda nessuno dietro a scuse vigliacche». Sempre in Toscana è in bilico la rielezione di Andrea Marcucci, ex capogruppo dem al Senato: «Sarò candidato del Pd nel collegio uninominale del Senato Viareggio-Pisa-Livorno. Inizierò la mia campagna elettorale con spirito di servizio, per un'Italia capace, coraggiosa, libera e solidale. La sfida che mi attende è complessa ed entusiasmante». Alla Camera nello stesso collegio correrà Andrea Romano. Emanuele Fiano correrà a Milano nell'uninominale. «Collegio difficile ma accetto sfida», commenta il dem. Mentre Alessia Morani, piazzata in posizione non utile nelle Marche, si tira fuori: «Rinuncio». E se ne va anche Federico Conte, parlamentare uscente di Leu candidato al numero due al Senato in Campania dietro Susanna Camusso. Letta dovrà ora rimettere mano alle liste.
Il solito vizio della sinistra: arruola toghe e tifa manette. Della questione giustizia, e della sua anomalia, dopo il fallimento del referendum di qualche mese fa, nessuno vuole parlare. Marco Gervasoni il 17 Agosto 2022 su Il Giornale.
Della questione giustizia, e della sua anomalia, dopo il fallimento del referendum di qualche mese fa, nessuno vuole parlare. Eppure, come il convitato di pietra, essa si ripresenta. Tanto per cambiare nella sinistra. Conte, infatti, candida alle parlamentarie un gran numero di magistrati. In quanto cittadini, essi detengono il diritto all'elettorato passivo, ma in nessun paese democratico, salvo forse qualche Stato sudamericano, risulta un così elevato numero di giudici attivi in politica, come in Italia. Quando una categoria importante di funzionari è così presente nella sfera pubblica, il problema si deve porre, almeno da un punto di vista di sociologia politica. E se non è una grande novità (alzi la mano chi non ha mai candidato magistrati), lo è ora per i 5 stelle. Che sono sempre stati iper giustizialisti, anzi diremmo ferocemente manettari, ma mai avevano candidato dei pubblici ministeri. Benché ora siano diventati più pacati, le loro posizioni sulla giustizia sono rimaste conservatrici. Se non possiamo più definirli manettari, come ai tempi di Di Battista, certo ora i grillini sembrano un partito dei giudici, o almeno di una loro parte. Il Pd, stavolta, non ne ha candidati. Ma che sia animato da una visione profondamente giustizialista, lo vediamo da alcune esclusioni eccellenti: Luca Lotti, espulso dalle liste non tanto in quanto renziano, quanto perché rinviato a giudizio per l'inchiesta Open, come indirettamente ha ammesso lui stesso. E, crediamo la stessa ragione vi sia dietro l'esclusione dell'ex presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella. Il quale, dopo tre anni di calvario giudiziario, che lo costrinse a dimettersi, lo scorso anno è stato prosciolto da tutte le accuse. Prosciolto uguale innocente? Sì, esattamente come un rinviato a giudizio. Innocente fino a prova contraria. Ma nel Pd sembrano ragionare al contrario: il rinviato a giudizio sembra essere un presunto colpevole e il prosciolto un reo che l'ha fatta franca. Da un lato i 5 stelle, un partito carico di pm, dall'altro un Pd ritornato pienamente giustizialista: non sarà che, dovessero perdere le elezioni, invece di condurre un'opposizione nel merito, essi cominceranno ad agitare eventuali vicende giudiziarie contro il governo? La favola di Esopo ci spiega che la natura dello scorpione non cambia: punge a morte la rana. Aspettiamoci perciò di assistere ancora a lungo all'anomalia della giustizia. A meno che un governo di centrodestra non voglia finalmente risolverla.
Giustizia, centrodestra diviso tra garantismo e “manette facili”. Difficile, in prospettiva, una coabitazione serena tra Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, che hanno sensibilità diverse sul tema. Valentina Stella su Il Dubbio il 13 agosto 2022.
“Riforma della giustizia e dell’ordinamento giudiziario: separazione delle carriere e riforma del Csm – Riforma del processo civile e penale: giusto processo e ragionevole durata, efficientamento delle procedure, stop ai processi mediatici e diritto alla buona fama – Riforma del diritto penale: razionalizzazione delle pene e garanzia della loro effettività, riforma del diritto penale dell’economia, interventi di efficientamento su precetti e sanzioni penali”: sono questi i tre punti previsti dal programma di centrodestra per riformare la giustizia “secondo Costituzione” nella prossima legislatura. «Il centrodestra – ha spiegato il deputato di Forza Italia e sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto – ha messo in campo un programma autenticamente liberale, volto a fare del cittadino il punto di riferimento dell’intero sistema Paese.
Un obiettivo che ispira anche le nostre proposte sulla giustizia, che si nutrono della cultura garantista di Forza Italia e muovono da un richiamo vero, di sostanza, alla centralità della Costituzione». «L’ulteriore semplificazione e velocizzazione del processo penale e di quello civile – ha aggiunto -, la digitalizzazione e un intervento più incisivo sull’ordinamento giudiziario, unitamente ad una particolare attenzione alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, sono i cardini di quell’attività riformista che il centrodestra compirà una volta al governo. Questo, nella consapevolezza che dalla qualità della giustizia dipende il livello di civiltà del Paese e il suo sviluppo economico».
A leggere il programma e a sentire Sisto parrebbe un buon piano quello pensato dal centrodestra per la giustizia. Ma ci sono un paio di “però” da sollevare. Il primo: si parla di separazione delle carriere, obiettivo invocato ad alta voce dall’Unione delle Camere penali e posto come loro primo punto per una riforma della giustizia non più rinviabile. Tuttavia ci si può fidare, soprattutto di Silvio Berlusconi? Come non ricordare quel 18 maggio 2000, quando ci fu la cerimonia di consegna da parte dell’Unione Camere penali di Roma della “Toga Rossa” proprio al leader di Forza Italia per «la sciagurata ma efficace campagna astensionistica per sabotare i referendum sulla giustizia» promossi, tra gli altri, dal Partito Radicale, tra i quali c’era proprio quello sulla separazione delle carriere? Berlusconi non si fece neanche trovare e mandò avanti l’allora suo portavoce Paolo Bonaiuti a ritirare il “premio”. Promise che avrebbe fatto la riforma in Parlamento ma sappiamo come è andata a finire. Il secondo: vien da pensare che l’espressione “garanzia” della “effettività” della pena sia stata elaborata e scritta da Lega e Fratelli d’Italia, garantisti sul processo e giustizialisti sull’esecuzione penale, come da loro ammissione, o meglio confessione.
Ricordiamo che Giorgia Meloni è prima firmataria di una proposta di legge costituzionale per modificare l’articolo 27 della Costituzione (al terzo comma aggiungere: «La legge garantisce che l’esecuzione delle pene tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini»). Dunque il programma del centrodestra “secondo Costituzione” a quale carta fa riferimento? All’attuale o a quella eventualmente riscritta nei loro desiderata? Tornando all’esecuzione penale, non esistendo pene scontate virtualmente, la scelta è tra dentro o fuori il carcere. Quel proposito sta a significare che non verrà dato spazio alle misure alternative al carcere e/o si contrasterà quella parte di riforma del processo penale che prevede di irrogarle direttamente dal giudice di cognizione per condanne sotto i 4 anni? Vuol dire far cadere ogni speranza – letterale – di una legge conforme alla decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo? Se davvero Forza Italia ha abbandonato il suo garantismo classista in materia di carcere, lo scenario appena ipotizzato probabilmente non condurrà ad una coabitazione serena tra le varie forze che compongono il centrodestra.
Per quanto concerne gli altri punti dell’accordo quadro: sulla ragionevole durata del processo, fonti della coalizione ci dicono che al momento non è possibile dare una risposta all’Unione delle Camere penali in merito al ripristino della prescrizione sostanziale, come superamento dell’improcedibilità. Ribadiscono che quello è un programma di massima, i cui punti specifici andranno declinati e dettagliati una volta capita la composizione del Parlamento. Pertanto nessun approfondimento ci è stato dato neanche per quanto concerne la riforma del Csm, se non che bisognerà lasciarsi alle spalle la mediazione politica che ha forgiato le riforme dell’attuale ministro Marta Cartabia e puntare a riforme più incisive, sempre ovviamente nei margini della delega della riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario che scade a giugno 2023.
La polemica. Edmondo Cirielli e il delirio sulla Cartabia: “Pensa solo ai delinquenti in carcere, togliamo i benefici ai detenuti”. Francesca Sabella su Il Riformista il 12 Agosto 2022
Più carceri, certezza della pena, chiudiamoli lì dentro per sempre questi delinquenti. Forse è meglio che la politica non parli di carcere e giustizia. Forse meglio il silenzio. Davvero. Se quando parla i risultati sono questi… Arriva, come sempre, da Fratelli d’Italia nella persona del questore della Camera e deputato campano di Fratelli d’Italia, Edmondo Cirielli l’ultimo delirio: «Basta leggere i quotidiani per rendersi conto che la situazione peggiora costantemente. Scippi, rapine, aggressioni, soprattutto al centro o sul lungomare, sono all’ordine del giorno a Napoli e le vittime sono soprattutto visitatori, turisti e commercianti. E intanto, il ministro Cartabia, distratta su questo versante, continua a preoccuparsi quasi esclusivamente della condizione dei delinquenti in carcere».
I delinquenti in carcere… Magari questore Cirielli, magari il ministro Cartabia si stesse occupando dei criminali sbattuti in galera e stipati come animali nelle celle. Purtroppo non è così, il suo animo giustizialista dovrà ricredersi. Dall’inizio dell’anno ci sono stati 49 suicidi in cella, 3 negli ultimi cinque giorni solo in Campania, le carceri sono al limite del collasso, non c’è personale, non ci sono medici e perfino l’Europa ci dice che il nostro carcere non è umano. Sono mesi che da queste pagine invochiamo interventi concreti, non si muove una foglia… E poi, qualora, il ministro della Giustizia si stesse occupando davvero di quei delinquenti in carcere, quale sarebbe il demerito? È esattamente il suo dovere. Proprio questo deve fare: occuparsi e preoccuparsi della giustizia e di chi è ristretto nelle carceri che, ricordiamolo, fanno capo allo Stato. Sorprende che sia proprio il questore a sottolineare il (non) impegno della Cartabia verso chi sbaglia. Ma Cirielli ha anche la soluzione: «Prioritario è il potenziamento di presidi delle Forze dell’Ordine e la certezza della pena sarebbe già un ottimo».
Non solo, secondo Cirielli: «Bisognerebbe dotare gli agenti di polizia penitenziaria di taser e di ogni altro strumento tecnologico per garantire sicurezza». Repressione e manette, manette e repressione, un mantra che si ripete, si ripete e nessuno vede che queste soluzioni non portano a niente? Forse si dovrebbe iniziare a parlare di interventi preventivi, di giustizia sociale, di misure di aiuto da fornire prima che le persone in difficoltà entrino in carcere. Forse si dovrebbe iniziare a parlare di diritti. Ma non è finita, abbiamo un’altra soluzione geniale: «Occorrerebbe un aumento delle pene e la restrizione dei benefici carcerari ai delinquenti recidivi». Quali benefici? Nelle carceri manca l’acqua corrente, si vive ammassati come animali, d’estate si muore di caldo e non è un eufemismo. I detenuti non riescono a ottenere le visite mediche che gli spetterebbero di diritto, nessun favore, dovrebbe essere un loro diritto. Precisamente, quindi, di quali benefici carcerari parla il questore Cirielli? No, perché noi ogni giorno scriviamo di suicidi in cella e di altre atrocità. Forse i benefici li hanno e noi non lo sappiamo, può darsi. O può darsi che la politica non abbia la più pallida idea di cosa siano le carceri. Può anche darsi che la politica non sappia proprio da dove iniziare per cercare di arginare le azioni criminali a monte, intervenendo prima. Sono ipotesi eh…
Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
Piccola agenda penale per il prossimo governo. Elezioni, diritto penale come arma contro il nemico: la Giustizia sacrificata sull’altare del consenso. Massimo Donini su Il Riformista il 5 Agosto 2022.
Quando ho cominciato a scrivere sulle colonne del Riformista erano cambiati il clima politico, il clima della discussione giuridica e soprattutto penalistica. C’era una sorta di aspettativa di un qualche risorgimento. Qualcuno lo ha chiamato PNRR questo risorgimento, ma vorrei parlare di Risorgimento del Diritto. Perché si abbia un risorgimento del diritto e cioè si passi a un diverso modo di fare legislazione e discussione sul diritto penale, bisogna ricordare cos’eravamo fino a qualche mese prima del Governo Draghi e quali erano i temi dibattuti. Ci si attendeva una diversa politica, perché il diritto è fatto di scelte politiche e non è puro tecnicismo, anche se attua la Costituzione, e la stessa attuazione della Costituzione è piena di tante scelte. Certo alcune di queste sono precondizioni, e anche nuclei di regole non patteggiabili. Tuttavia, nella loro disciplina concreta “entra” la politica in tantissimi modi. A volte non succede nulla per vent’anni e poi in pochi mesi tutto sembra che cambi d’improvviso. Un letterato potrebbe descrivere come il giornalismo sia cambiato nei primi mesi del 2021: la narrazione pubblica ha trasformato il dibattito e gli stili. Questo il clima dell’anno 2021.
Le novità maggiori delle recenti riforme ancora in corso sono state rese possibili dall’assenza della tradizionale politica dei partiti: non dall’assenza dei partiti, che le hanno votate infine, ma della loro “vecchia politica”, perché c’è stata una politica eccome, ma affidata a commissioni tecniche e resa possibile da una crisi profonda del sistema dei partiti, per nulla superata oggi. Sotto il tecnicismo si sono nascoste così molte scelte politicamente discrezionali, presentate come attuazione di princìpi costituzionali o vincolate in sede Ue.
È la debolezza della politica a spiegare la forza della Magistratura in Italia e a contribuire a dar conto dell’alterazione del rapporto tra i poteri dello Stato dopo Tangentopoli. Per non ripiombare nella patologia, la politica deve però ritrovare sé stessa, oltre le coalizioni pre-elettorali ad captandum vulgus.
Nessun parlamento ha mai scritto il diritto, ma solo le leggi sulle quali il diritto si costruisce e che in parte ne condiziona dall’origine la formazione. Il diritto lo fanno gli interpreti; lo fanno le Costituzioni, le fonti sovranazionali, l’interpretazione e la dottrina anche, oltre che la giurisprudenza. Non solo le Corti Supreme fanno il diritto, ovviamente. È un’opera collettiva. Ciò lo salva dalle aristocrazie di singoli interpreti privilegiati e dal dominio delle stesse maggioranze. Tutte le riforme si nutrono di un ius preesistente nel pensiero o nella prassi degli interpreti.
Invece, la panpenalizzazione e anche il penale come etica pubblica sono assurti a sistema. Un diritto punitivo così sovradimensionato è il frutto di una più forte malattia e debolezza della classe politica non solo italiana, ma da noi forse più marcata e specifica, sicuramente prodotta anche dalla corruzione sistemica della prima Repubblica, poi frutto dell’ingresso del penale nei programmi di partito, o meglio dell’uso (rectius, dell’abuso) del penale come strumento di lotta politica.
È questa, del resto, la definizione più esplicativa del giustizialismo: l’uso del penale come strumento di lotta politica. Ora che sembra crollata l’immagine del magistrato penale supereroe, del pubblico ministero angelo vendicatore della giustizia, è più chiaro quanto sia erroneo affidarsi alle pene per costruire le regole comuni di etica pubblica e ancor più farlo secondo logiche divisive. La diminuzione dei poteri delle Procure, di cui oggi molti parlano, sicuramente non deve riguardare il potere di impedire i mali in atto, perché questo resta invece un ruolo fondamentale che il pubblico ministero svolge rispetto alla gestione dei processi criminali in fieri. Sono invece i poteri anomali, occulti, privi di controlli, a preoccupare. È il potere di fatto esercitato, anche se non con questa intenzione temporale, di tenere sotto accusa un individuo per molti anni, magari solo in primo grado, perché non ci sono reali controlli successivi e prima della sentenza definitiva tanti sono gli anni che possono trascorrere.
Le elezioni politiche continue sono state un fattore decisivo nell’uso del diritto penale nei programmi dei partiti con una gestione distorta e orientata a selezionare nemici da combattere: non solo mafiosi o stranieri, ma imprenditori, amministratori, politici etc. Il fatto che il Governo Draghi non abbia manifestato questa preoccupazione, o cercato consensi popolari attraverso il diritto penale, “normalizzandolo”, gli ha permesso effettivamente di affrontare materie e soluzioni di carattere generale e non contingente, più orientate al dialogo con l’accademia, con tecnici e studiosi, per costruire prodotti legislativi non ispirati soltanto dall’intento di guadagnare consenso elettorale. A noi piacerebbe che si mantenesse un Ministero tecnico della Giustizia nella consapevolezza che per riforme di sistema sono necessari, comunque, interventi che almeno neutralizzino il rischio che il penale ritorni terreno di battaglia di una partitocrazia vecchio stile. Avvertiamo il bisogno estremo di evitare la spartizione del tema giustizia in chiave elettorale e populistica, che produce disinformazione e una vera simonia, la vendita di cose magari non sacre, ma superiori, sull’altare di un facile consenso. È questo che vorremmo leggere nei programmi elettorali, oggi tutti concentrati su altri temi.
Tra le riforme occorre pensare a ridurre l’area del penalmente rilevante. “Depenalizzazione” non solo in concreto, che sarebbe una depenalizzazione giudiziale, ma legale, reale. La depenalizzazione giudiziale, affidata a meccanismi processuali deflativi, non smaltisce l’arretrato, ha scopi diversi. E sotto quel profilo meglio sarebbe una amnistia una tantum (Il Riformista, 23 febbraio 2021). Il penale è al collasso. I reati sono stati contati, almeno lo si è tentato. Nel 1999, una ricerca finanziata dal Ministero dell’Università ne ha registrati circa 5400 (norme-precetto) nella legislazione complementare, ai quali andavano aggiunti quelli contenuti nei vari codici: quindi sarebbero stati tra i 6 e i 7.000 complessivamente. Ovviamente si tratta di una ricerca già datata, e specificamente diretta alla riforma della legislazione complementare, ma da allora non è cambiato molto, secondo la percezione diffusa. Anzi, di certo si è registrato un ulteriore incremento delle fattispecie, e di procedimenti avviati che esigono radicali potature.
Bisogna cambiare strada. Non solo: a questo intervento andrebbe abbinata la riduzione del potere del Pubblico ministero, e l’attribuzione di un maggior potere al Giudice dell’udienza preliminare. È giustissima la regola che esige una ragionevole previsione di condanna introdotta dalla riforma Cartabia (nella legge delega e nei decreti ora all’esame), però è un criterio che vale per la richiesta di archiviazione e per la richiesta di non luogo a procedere. Per il rinvio a giudizio, nel caso di dubbio, il provvedimento immotivato del Gup rimane comunque un passe-partout.
C’è stato un ritorno proficuo delle Commissioni di studio per attuare riforme di sistema. Una flebile speranza che la ripresa della gestione della giustizia in chiave partitocratica potrebbe spegnere facilmente, e con essa la riscrittura di riforme più generali, che sono le meno spendibili nelle tribune elettorali. I professori negli anni hanno perso fiducia nella loro effettiva capacità di contribuire al cambiamento. Troppi sono i casi di strumentalizzazione delle intelligenze, nelle commissioni di studio, a scopi mai veramente chiari allo stesso committente, rimasti così incarichi di incerta ideazione, di propaganda, ridisegnati ex post, o più spesso falliti. È patetico scrivere nel curriculum che si è fatto parte di plurime commissioni i cui risultati giacciono negli annali dei progetti tentati che non sono mai approdati a nulla. Per questa ragione molti professori, insoddisfatti di attività puramente descrittive dell’esistente, hanno perso fiducia nel loro ruolo costruttivo, e si sono rassegnati a commentare la giurisprudenza, che citano più della stessa dottrina. Molti si occupano da tempo solo di sentenze, pur essendo e rappresentando un contropotere critico rispetto al dibattito complessivo. Ed è questo il ruolo che ritengo permanente e pubblico della loro missione, anche se appare normalmente come un atto di resistenza.
Nel complesso disegno legislativo in discussione in questi giorni si intravedono una nuova visione dell’uomo e del processo, un nuovo ruolo del pubblico ministero, attenzione umanistica per la dimensione sanzionatoria. Un cambio di passo. Si è avviato un grande cantiere di riforme dove nessuno si è posto “contro” qualcun altro, e attraverso questo metodo sono rinate le speranze di vedere realizzati disegni più generali e condivisi.
Il vero problema pregiudiziale a ogni riforma della giustizia è la permanente crisi del sistema dei partiti, oggi di nuovo emersa per la tempistica strozzata che ci conduce al voto e che il suo risultato non risolverà miracolosamente. Il silenzio sulla giustizia non è messaggero di pace. Se aver creduto di cambiare la politica attraverso la magistratura appartiene alle illusioni del tempo di Tangentopoli, altrettanto chiara è l’importanza che le questioni penali manterranno nel “corso” politico che verrà. Non si tarderà a prendere atto che la parentesi tecnica del Governo ora dimissionario è stata fortemente espressiva di valori collettivi, costituzionali ed europei, ma per nulla fonte di opzioni obbligate, quanto invece razionalizzate senza la distorsione permanente del populismo. Massimo Donini
Il giustizialismo degli operatori del diritto e della stampa. Giustizia non significa pena massima, carcere a vita o legge del taglione. Giovanni Varriale su Il Riformista il 10 Luglio 2022
Ancora una volta nei giorni scorsi abbiamo assistito all’ennesimo grido di giustizia questa volta nei confronti dei ragazzini (minori) che, a Napoli, avevano aggredito il rider. Non è la prima volta e non sarà l’ultima!!! È accaduto con il processo nei confronti di Matteo Salvini come nei confronti di Silvio Berlusconi o anche per l’uccisione del giovane Ugo, freddato da un carabiniere fuori servizio. In tutti questi casi e non solo, il litmotive è sempre lo stesso: giustizia!!!
Ma cosa si intende per giustizia? È quel sentimento popolare che inneggia quasi alla legge del taglione o l’applicazione delle Leggi sostanziali e processuali cui si basa il nostro ordinamento!?!? È evidente come in uno stato di diritto, è fondamentale che vengano tutelati i diritti di tutti: sia della vittima che del carnefice. Giustizia non vuol dire massimo della pena vuol dire applicazione corretta delle Leggi in ossequio ai principi cardine dell’ordinamento penale. D’altronde il sistema penale italiano si fonda su un principio cardine cui tutti, sempre, dovremmo far riferimento: la pena ha valore di risocializzazione e di reinserimento sociale del reo. Purtroppo ciò non sempre accade anche e soprattutto per lo smisurato e incomprensibile utilizzo della pena detentiva in carcere.
Le strutture carcerarie sono sature, i detenuti sono spesso abbandonati a sé stessi in luogo insalubri e in condizioni degradanti e disumane. Tali circostanze rendono difficile la risocializzazione del reo che, non solo viene privato della libertà personale, lontano dai propri affetti, ma viene costretto a vivere in un luogo privo di intimità in uno spazio vitale di poco più di 3 mtq. Sul punto svariati sono stati gli interventi del Legislatore sopranazionale con cui si è chiesto all’Italia di rendere più vivibili le carceri e di prevedere maggiori tutele per i detenuti ma in realtà a parere di chi scrive, sarebbe già sufficiente ridurre drasticamente l’utilizzo al carcere in particolare per quanto concerne le misure cautelari. Ridurre drasticamente l’utilizzo della misura cautelare in carcere, per altro prevista come extrema ratio anche dal nostro ordinamento, significherebbe rendere più vivibile le strutture carcerarie, facilitare il lavoro del personale amministrativo e della polizia penitenziaria.
D’altronde le ultime riforme della giustizia tendono evidentemente a questo risultato, con l’introduzione di istituti quali ad esempio la sospensione del procedimento con messa alla prova, o anche con la modifica del tetto massimo di pena (da tre a quattro anni) entro cui poter accedere alle misure alternative. Ebbene, per poter concretamente aspirare al rispetto delle garanzie costituzionali è necessario che gli operatori del diritto, ma anche gli organi di stampa, inizino un percorso di crescita culturale che concretamente applichi sempre quanto previsto dalla carta costituzionale. È necessario che proprio gli organi di stampa, per primi, si muovano in questa direzione evitando che una mera informazione di garanzia si trasformi in sentenza di condanna o che una sentenza di assoluzione passi sotto traccia. Solo con un percorso di pari passo tra gli organi di informazione e gli operatori del diritto potrà essere comprensibile per i cittadini come Giustizia non significhi massimo della pena, carcere a vita o la legge del taglione bensì il rispetto delle norme sostanziali e processuali nel rispetto delle garanzie previste dalla nostra carta costituzionale.
Giovanni Varriale
Un esercito variopinto, armato delle migliori intenzioni e di onestà intellettuale: “Iniziare è difficile, difficilissimo. Ma messo un primo seme, la pianta della pace si sviluppa sempre”, raccomanda Maurizio Colace. La giornata di ieri è stata però capace di restituire alle aspirazioni degli attivisti più di una conferma. Le istituzioni ucraine vogliono iniziare a ragionare di pace. “Non ci servono solo armi, no. Serve ragionare di altro, di medicine, di dotazioni sanitarie, di strumenti per scongiurare il dissanguamento”, dice Igor Torskyj, medico ucraino che ha lasciato il lavoro per condurre al sicuro, con la sua ambulanza, centinaia di feriti o di persone in pericolo, da evacuare. Con il dottor Torskyj e la sua Act 4 Ukraine gli attivisti di Mean sono stati ricevuti dal sindaco di Kiev. Lo sguardo di Vitalij Klyčko guarda oltre la cronaca quotidiana, prova a tracciare una prospettiva per il futuro. Parla con i pacifisti di diritti e di stato di diritto, della scelta della libertà e dell’adesione alla Ue come scelta di campo per la pace. Racconta di come l’Ucraina abbia rinunciato nel 1994 alle armi nucleari che si era trovata a possedere dal 1991. Di come sia necessario smettere di sparare, riprendere una vita fatta di convivenza tra le culture e le fedi.
Basata su un incontro di civiltà. Ed è un primo passo che promette bene, se nel vocabolario belligerante riescono a entrare le parole e perfino le idee del disarmo. Agli attivisti viene dato il Municipio intero per dispiegare le bandiere variopinte della pace. Il “Peace” trionfa, davanti agli occhi sorpresi dei militari. Giovani, giovanissimi. Ragazzi e ragazze che sembrano dirsi: “Fosse vero”. La giornata degli attivisti prosegue al museo di storia contemporanea. “La storia la stiamo facendo noi, adesso”, dice al gruppo la guida. Il coprifuoco affretta le cose e riporta tutti in albergo. Viene servita una zuppa di borsh. Tipicamente ucraino, tradizionalmente russo. Come la parola Mir, pace. È russa? È ucraina? E se fosse di entrambi? La riflessione viene interrotta dalle sirene. Un attacco missilistico partito dalla Bielorussia, forse diretto a Kiev. I pacifisti si devono chiudere nel bunker. Come sarebbe bello se là fuori la smettessero davvero.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Ingiustizialismo. L’improbabile garantismo classista della (presunta) destra moderata. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 2 Luglio 2022.
Da trent’anni, una frangia politica che si definisce liberale pretende rigore carcerario per canaglie e drogati. Ci fosse una volta in cui impugnino la causa di un disgraziato qualunque
Verso la metà degli anni Novanta, durante un convegno o assemblea o non so più cosa in materia di giustizia, mi si avvicina un caporione di Forza Italia e mi dice: «Prado, lei che scrive tanto di questi argomenti, deve spiegarlo bene: il carcere, per un delinquente, non è nulla, ma per uno come noi è un dramma!».
Onesto e sincero come il buon pane, l’intendimento civile di quel moderato, di quel liberale, spiegava benissimo e con esattezza preconizzava l’improbabilità garantista del partito e della cultura che avrebbero fatto della giustizia (la loro) il punto irriducibile della militanza, che parte dalla certezza della pena altrui e si polarizza verso lo Stato di diritto delle nipoti di Mubarak.
Il fatto che a sinistra non fosse e non sia stato meglio non dovrebbe oscurare (should not overshadow) la verità di una tradizione ormai trentennale che, sul fronte presunto opposto, per un verso reclama la guarentigia per i galantuomini e gli appartenenti alla cerchia e per altro verso il sano rigore carcerario per la canaglia e i drogati.
Ai leader progressisti che fanno il servizietto pubblico in favore degli amici togati, indugiando sulla deriva impunitista e rivendicando orgogliosamente il merito di far crepare in carcere un vecchio demente divorato dalle metastasi, si oppone il triste movimento alternativo in rappresentanza dei cittadini perbene: quello in versione hard che capeggia l’assalto squadrista alla casa del tunisino in odore di spaccio e annuncia via social l’invio delle ruspe, e quello soft delle riforme misurate sui perimetri delle residenze di centrodestra.
Né tutto questo poteva sorprendere, considerando come quel garantismo sostanzialmente classista insorgesse presso una discreta schiatta di ladroni socialisti e catto-affaristi, quella appunto confluita nel calderone moderato che non mostrava motivi di indignazione finché le toghe rosse riempivano le carceri di immigrati, zingari e piccoli spacciatori.
E ovviamente, a fronte della facile obiezione che il loro garantismo era afflitto da qualche notevole intermittenza, quelli ti spiegavano che no, non è la stessa cosa, perché è vero che Tizio era un privilegiato, ma difendere lui significava difendere anche tutti gli altri: col dettaglio che non funzionava mai il principio opposto. E ci fosse stata una volta in cui, a difesa dei diritti di tutti, gli eserciti dei parlamentari e parlamentaresse dei popoli e delle case e dei circoli della libertà hanno impugnato la causa di un disgraziato qualunque.
Allora, quasi quasi, son meglio quelli che vorrebbero tutti in catene. Almeno non ti avvicinano per chiederti di sposare la causa.
Il tormentone estivo contro la ministra. Travaglio si scaglia contro Cartabia, cosa prevede la riforma voluta dal ministro della giustizia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Giugno 2022.
Ci sono parole che ti riempiono la bocca prima ancora che tu riesca ad assaporarle. Per Marco Travaglio quella che dà più soddisfazione è “salvaladri”, tanto che ora ha coniato anche quella “d’estate”. Che sarebbe la stagione in cui, forse perché molti sono disattenti, si può randellare a piacere la ministra Marta Cartabia. Che è la sua preferita, quella che lo fa andare letteralmente fuori di testa. Perché è una donna, e conosciamo la misoginia di Marcolino, e anche perché è inattaccabile. Anche se sul Fatto siamo riusciti a sentir dire che l’ex Presidente della Consulta prepara bozze di legge fuori dal recinto della costituzionalità.
Così ieri, mentre tutti si affannavano a interpretare le ultime sulla guerra e, in sede nazionale, i risultati delle elezioni amministrative, pare che la notizia più rilevante per il Fatto quotidiano fosse l’“Ideona Cartabia: mettere fuori un condannato su 3”. Dove quel “mettere fuori” dava la sensazione di riempire la bocca degli indignati, proprio come il concetto di “salvaladri”. Il che dà l’idea di una visione di società. Quella in cui non si deve “salvare” l’altro, ma piuttosto dargli uno spintone, quella in cui non si devono aprire le porte, ma piuttosto sprangarle, dopo aver catturato i prigionieri. «Per Cartabia dunque –scrive la cronista del Fatto- in carcere non ci deve andare quasi nessuno». Intendendo con quel “quasi nessuno”, quel 30% della popolazione ristretta (cui potremmo aggiungere i tanti innocenti non ancora processati) che hanno subito condanne inferiori a quattro anni. Sono i tanti inutilmente parcheggiati a riempire le giornate di noia e di inerzia, ma anche di lugubri pensieri e di attesa, che vanno a riempire le statistiche solo quando qualcuno non ce la fa più e mette fine ai suoi giorni.
Sono quelli di cui ha riferito pochi giorni fa al Parlamento il Garante delle persone private della libertà. I numeri spiegano il perché di un sistema penitenziario italiano perennemente in affanno con il sovraffollamento e le inutili reprimende degli organismi europei. Che cosa stanno a fare dentro le prigioni 1.319 persone che devono scontare meno di un anno di pena, e altre 2.473 condannate alla reclusione per un periodo che sta tra uno e due anni? Possibile che lo stesso concetto di “pena” debba forzatamente coincidere con la privazione della libertà? Può sembrare stravagante, ma dopo i referendum, uno dei quali riguardava anche la custodia cautelare, e dopo la “riforma Cartabia”, di carcere si continua a parlare. Il tema non è stato accantonato, anche perché la ministra pare instancabile. E forse è proprio per questo che Marco Travaglio ha voluto lanciare l’allarme sui decreti attuativi della riforma e la possibilità che prevedano misure alternative al carcere per pene brevi, cioè fino a quattro anni, con l’applicazione di semilibertà, detenzione domiciliare o il lavoro di pubblica utilità. Tutti sistemi adottati negli altri Paesi, compresi i rigorosi Stati Uniti, senza che destino scandalo alcuno.
Nei giorni scorsi ha un po’ messo le mani avanti sul Corriere Aldo Cazzullo il quale, rispondendo a una lettera, ha invocato che si costruiscano nuove carceri, possibilmente lontano dai centri abitati, ma moderne e dignitose. Usando l’equidistanza tra “rigoristi” e “garantisti” (offensiva per i secondi, che semplicemente chiedono l’effettiva applicazione dei principi costituzionali), Cazzullo finisce per considerare tutti i detenuti come socialmente pericolosi. Come se i reati consistessero solo in stragi e omicidi, come se le prigioni non fossero piene invece di quelle migliaia di persone, spesso giovani e stranieri, che sono state condannate a pene lievi per reati contro il patrimonio e non contro le persone. Scrollarsi di dosso l’ossessione del carcere, per i reazionari tagliagole come Travaglio e i suoi cronisti, ma anche i sinceri aspiranti riformatori come Cazzullo (o anche Enrico Bellavia, che sull’Espresso si dice favorevole alla pena alternative purché si butti via la chiave che ha rinchiuso i mafiosi non pentiti), sarebbe una bella opera di igiene democratica. Un passettino per volta, Cartabia ce la farà.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Possiamo fidarci? Effettivamente è difficile. Sulla giustizia i 5 Stelle hanno scelto “la via facile” perché “il carcere non porta consensi”: Macina scopre il garantismo. Roberto Cota su Il Riformista il 25 Giugno 2022
La sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina ha abbandonato il M5S per seguire Luigi Di Maio. Al netto del significato politico complessivo di questa implosione, sono interessanti le sue posizioni espresse in un’intervista al Dubbio sulla questione giustizia dove ha ammesso che il suo ex movimento “in alcuni passaggi ha scelto la via del consenso facile”. L’ esponente del Governo Draghi ha anche rivendicato il fatto che occorre lavorare sul fronte carceri in quanto “ il fine rieducativo della pena è principio garantito dalla Costituzione “, specificando che “il tema carcere non porta consensi” .
Ha toccato, inoltre, le problematiche della “gogna mediatica” e della “presunzione di innocenza”. Anche Di Maio ha recentemente ammesso che sulla giustizia sono stati fatti degli errori. Ohibò. Verrebbe da dire, possiamo fidarci? Fidarsi è effettivamente difficile. Quello che è successo negli ultimi anni ha evidenziato una debolezza strutturale della politica e dei politici.
Gli ispiratori di principi quali quello del processo che può durare all’infinito, piuttosto che del trojan in grado di spiare le vite delle persone, sono riusciti ad approdare in Parlamento, facendo approvare leggi in grado di insidiare i più elementari principi dello stato di diritto. Dunque, parliamo di una situazione molto seria. Però, i segnali positivi vanno colti. Sempre. E questo lo è.
Sullo sfondo, va detto, che dietro il M5S, a parte la posizione sulla giustizia, vi era una spinta di politica di cambiamento che meritava attenzione e vedere Di Maio parlare come il più paludato dei centristi, fa veramente sorridere. Verrebbe voglia di solidarizzare un po’ con i Cinque Stelle. Ma con chi? Con Conte? Diventa complicato in quanto proprio Conte, che oggi è in contrasto con il filo atlantista/europeista Di Maio, è stato il Premier che pur di farsi riconfermare alla guida del governo dopo il cambio di maggioranza è arrivato al punto di ricercare l’endorsement proprio dagli USA e dagli altri leader europei. Allora rimane Grillo. Solidarizzare pare eccessivo. Ad ogni modo, se tiene al suo movimento dovrà farsi sentire. Roberto Cota
«Sulla giustizia M5S immaturo». Parla Macina, figura chiave per Di Maio. Intervista alla sottosegretaria di via Arenula che ha scelto di lasciare Conte e proseguire col ministro degli Esteri. «Spesso si è ceduto alla tentazione della condanna preventiva, a una comunicazione semplificata soprattutto sulle indagini relative alla politica. Poca solidarietà interna per le mie iniziative sul carcere? Forse è un tema che non porta consensi…» Valentina Stella Il Dubbio il 25 giugno 2022.
L’onorevole Anna Macina, sottosegretaria alla Giustizia, figura tra i nomi di spicco che hanno abbandonato il Movimento 5 Stelle per approdare nel nuovo gruppo parlamentare Insieme per il Futuro, fondato da Luigi Di Maio. I temi della giustizia sono tra quelli in cui dovremmo aspettarci una certa discontinuità rispetto al metodo tradizionalmente adottato dai pentastellati. Abbiamo cercato, in questa intervista, di capire se effettivamente sarà così.
Sottosegretaria Macina, come mai ha lasciato il Movimento ed è entrata nel nuovo gruppo fondato da Luigi Di Maio?
Può sembrare strano dirlo, ma io sono rimasta dov’ero. Se mi giro e guardo il nuovo gruppo vedo che ci sono le stesse persone con cui ho condiviso temi e battaglie per anni, anche fuori dal Parlamento. È il Movimento 5 Stelle invece che ha deciso di tornare indietro. Era stato annunciato un nuovo corso, quello della maturità politica, ma non mi sembra che sia mai partito.
Lei in questo ultimo anno ha lavorato fianco a fianco alla ministra Cartabia. Che bilancio fa? E si è sentita sostenuta, nella sua funzione di governo, dal Movimento?
Il lavoro è complesso, ho deleghe di grande responsabilità. Dalla ministra ho ricevuto da subito una grande apertura di credito che credo di aver ricambiato con l’impegno e la passione che da sempre ho avuto per il diritto e la giustizia, a cui ho dedicato studio e professione. Nell’ultimo anno sono state approvate riforme importanti. E in alcuni passaggi è vero che il Movimento ha scelto la via del consenso facile. Ma governare a mio avviso è una cosa diversa. I valori restano gli stessi ma le questioni, specialmente quando parliamo di giustizia, sono complesse e meritano di passare dal confronto.
È vero che non ha trovato una sponda sul tema del carcere? Lei visita regolarmente gli istituti di pena.
Forse perché il tema carcere non porta consensi. Eppure, il fine rieducativo della pena è un principio garantito dalla Costituzione.
Sia Di Maio che Spadafora hanno ripetuto che sono stati commessi degli errori in passato. Quali, in tema di giustizia?
Si può e si deve essere molto severi ed esigenti sui temi di giustizia e sull’etica in politica, io lo sono. E pretendo trasparenza e comportamenti limpidi da parte di chi amministra la cosa pubblica. Altra cosa invece è la condanna preventiva: su questo occorre il coraggio di saper riconoscere gli errori fatti in passato.
Si riferisce alla gogna mediatica?
Un conto è dare l’informazione di una indagine in corso, soprattutto quando i soggetti coinvolti sono amministratori pubblici, altro è emettere una sentenza di condanna prima ancora che ad esprimersi sia stato il giudice. Certo, da un punto di vista di opportunità politica chi ricopre incarichi pubblici ed è sotto processo dovrebbe fare un passo indietro, ma ciò non equivale a dire che quella persona è colpevole. E soprattutto bisogna stare attenti al tipo di comunicazione utilizzata. Delle volte sono state usate parole eccessive nei confronti di indagati e imputati.
Ricordiamo che infatti il Movimento 5 Stelle non era neanche favorevole al recepimento della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza, perché sosteneva che bastava il comma 2 dell’articolo 27 della Carta costituzionale.
Anche il governo precedente decise di non recepirla. Però, tornando alla sua domanda, le ripeto quanto dichiarai nel momento in cui la norma di recepimento è stata approvata. Quello raggiunto dal testo a mio parere è un giusto compromesso che tutela sia la libertà di informazione che i diritti degli indagati.
Diciamolo: il Movimento è partito con lo slogan del “Vaffa” che si è riverberato anche sul tema giustizia, dando vita a un populismo estremo. Forse in questi anni il M5S non è riuscito a fare un lavoro di tipo culturale, garantista sulla base elettorale.
Si sarebbe dovuta graduare la forza della comunicazione, argomentare e spiegare approfonditamente le questioni. Qualche volta invece ci si è lasciati andare a facili semplificazioni su temi così sensibili come quelli della giustizia e dell’esecuzione penale.
Dentro Insieme per il Futuro non ci sarà posto per i populismi e per gli slogan, è stato ribadito. Per situazioni complesse occorrono soluzioni complesse. Come si tradurrà questo nuovo metodo sul terreno della giustizia?
Ricordo mesi fa una delle prime riunioni del presunto nuovo corso del Movimento 5 Stelle in cui Conte disse chiaramente che dovevamo modificare certi atteggiamenti politici del passato per orientarli al pieno rispetto della Carta costituzionale. Poi però, nel raccontare alcune posizioni, ha scelto una strada diversa fatta di slogan. Peccato. Io ero d’accordo con quella impostazione e adesso conto di lavorare in quella direzione.
Secondo Lei perché Conte ha sterzato rispetto ai propositi iniziali?
Voglio sperare che non si sia basato sui facili consensi.
Cosa invece non cambierà sempre in tema di giustizia rispetto al passato?
Il nostro Paese è aggredito dalla corruzione e dalla criminalità organizzata. Su questo non ci sarà mai un arretramento di neanche mezzo centimetro. Pochi giorni fa ho contribuito alla realizzazione di un importante risultato per portare a Foggia i magistrati della Dda di Bari che indagano sulla mafia locale. È una piccola grande cosa che può aiutare molto quel territorio sofferente. Ed è la dimostrazione che si possono ottenere molte cose governando bene e senza bisogno di ricorrere a strumenti di propaganda.
Rimane aperto il grande capitolo sui decreti attuativi delle tre riforme di mediazione Cartabia. Quali sono le sfide più importanti?
Dobbiamo dare concretezza ai principi declinati nei testi di riforma. Il ministero è al lavoro da tempo e le posso dire che entro l’estate i decreti saranno inviati all’esame del Parlamento, per il parere delle commissioni di merito. È un traguardo ambizioso ma sono convinta che sia alla nostra portata.
(ANSA il 21 giugno 2022) - Una multa di 600 euro e un risarcimento di 10 mila euro da versare a Matteo Salvini. E' la decisione del Tribunale di Milano nei confronti di Maurizio Crippa, il vicedirettore de Il Foglio imputato per diffamazione nei confronti del leader della Lega per un botta e risposta su twitter che risale al 9 marzo del 2020.
Con il politico ed ex ministro dell'interno che era intervenuto per commentare le rivolte in moltissime carceri italiane con i detenuti che chiedevano di uscire per via del Covid dicendo: "occorre il pugno di ferro subito, chiusure di tutte le celle, sospensione di uscite e passeggiate e chi sbaglia paga il doppio". E il giornalista che aveva replicato: "questo irresponsabile delinquente, indegno di uno stato di diritto, va isolato come un virus cancerogeno".
Il pm Alessandro Oteri stamane ha chiesto di condannare Crippa a 2 mila euro di multa, condividendo quanto riportato nella memoria depositata da Claudia Eccher, legale di Salvini, ossia che nelle parole usate dal giornalista "non vie è" un intento di critica politica, "né "siamo di fronte" a una riposta a "una provocazione". "Si è voluto semplicemente denigrare una persona", ha aggiunto il pubblico ministero. Per la difesa, rappresentata dall'avvocato Francesco Sacco, "si è trattato di una risposta a quelle frasi provocatorie. È stata una critica, seppure fatta con un linguaggio molto forte". Il legale ha chiesto l'assoluzione "perché il fatto non sussiste, o in subordine per la tenuità del fatto".
Toghe rotte. Report Rai PUNTATA DEL 13/06/2022 di Giorgio Mottola Collaborazione di Norma Ferrara
Da Tangentopoli in poi, i rapporti tra politica e magistratura sono sempre stati molti tesi.
Come dimostrano i referendum costituzionali, si è creata una frattura che a trent’anni di distanza dalle indagini del pool di Mani Pulite sembra essersi sempre più allargata. Con la riforma della giustizia promossa dalla ministra Marta Cartabia, i complessi equilibri tra potere politico e potere giudiziario rischiano di saltare definitivamente. Secondo il progetto del governo, che verrà votato al Senato la prossima settimana, sarà infatti il Parlamento a indicare alle Procure quali reati perseguire in modo prioritario e l’organizzazione del lavoro dei Pm sarà sottoposta al controllo del Ministero della giustizia. Secondo le toghe, che poche settimane fa hanno scioperato, si tratta di un attacco senza precedenti all’autonomia della magistratura. Decine di migliaia di processi rischiano di andare in fumo: violenze sessuali semplici, reati ambientali, morti sul lavoro, vittime di incidenti stradali e omicidi colposi potrebbero rimanere per sempre impuniti. Tuttavia, la magistratura italiana non sembra ancora essersi ripresa dallo scandalo Palamara. La guerra delle correnti continua, infatti, a segnare le scelte più importanti del Consiglio superiore della magistratura, come dimostrano le anomalie verificatesi nell’ultima elezione del Procuratore nazionale antimafia, che ha visto la bocciatura di Nicola Gratteri.
TOGHE ROTTE di Giorgio Mottola Collaborazione Norma Ferrara Ricerca immagini Alessia Pelagaggi Immagini Cristiano Forti Montaggio e Grafica Giorgio Vallati
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A proposito di come funziona la macchina della democrazia quando non si è informati, stasera parleremo di riforma Cartabia, con una intervista anche all’ex premier Matteo Renzi che torna a parlare con Report dopo la vicenda dell’autogrill.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sabato scorso alla vigilia dei referendum sulla giustizia, Matteo Renzi era a Siena a presentare il suo libro. Alla folla accorsa per ascoltarlo ha offerto aneddoti autobiografici.
MATTEO RENZI – SIENA 11/06/2022 Quando andai alla ruota della fortuna io vinsi quattro gare, quattro puntate, alla quinta sbagliai, era l’ultima, sarei andato a casa comunque.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ha improvvisato imitazioni di Silvio Berlusconi.
MATTEO RENZI – SIENA 11/06/2022 La magistratura democratica è la corrente dei giudici di sinistra, avrebbe detto un importante predecessore.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E ha regalato una calda accoglienza a noi di Report.
MATTEO RENZI – SIENA 11/06/2022 Sono tornati a trovarmi gli amici di Report, avrei potuto fissare con loro in autogrill, dove notoriamente a un certo punto nel dicembre del 2020 si narra che all’autogrill ripartano insieme una sorta di Leclerc e Verstappen e racconta la testimone la macchina di Renzi va a destra e la macchina di Mancini va a sinistra.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma le parole più dure le ha riservate ai magistrati che lo hanno indagato.
MATTEO RENZI – SIENA 11/06/2022 Le tre persone che hanno firmato l’avviso di garanzia, io vi racconto chi sono. Ah, ma te la butti sul personale. Uno ha detto: attacco mediatico di Renzi ai magistrati.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel suo libro Matteo Renzi attacca frontalmente i tre pm che aperto le inchieste su di lui, sui suoi famigliari e sui dirigenti della fondazione Open.
MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Io non sto evocando complotti, io denuncio le cose che non funzionano. Io scrivo ricorsi, io faccio nomi e cognomi, io porto documenti.
GIORGIO MOTTOLA Certo, però lei non si limita a fare dei ricorsi, ma scrive un libro. Quindi mette in piedi una campagna mediatica sui magistrati che indagano su di lei. Mentre leggevo il libro spesso e guardavo la copertina per capire se l'autore fosse Matteo Renzi o Silvio Berlusconi.
MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Il fatto che lei avesse bisogno di girare la copertina dice molto del pregiudizio ideologico con il quale lei lo ha letto. Io racconto la storia della mia vita e quindi parlo delle persone che indagano su di me e casualmente quelle che indagano su di me hanno delle vicende su cui un cittadino normale si dovrebbe strappare i capelli.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra i magistrati che invece Renzi dichiara di stimare ci sono senza dubbio Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Figure che nel 2013 ispirarono un applauditissimo intervento di Pif alla Leopolda.
PIF – REGISTRA E SCRITTORE LEOPOLDA 13 – 28/10/2013 Il partito democratico indirettamente era il partito di Pio La Torre, Pio La Torre. Epifani leggiti la biografia di Pio La Torre.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Pio La Torre è il deputato comunista ucciso da Cosa nostra che negli anni ’80 scrisse la legge ancora in vigore sui beni confiscati alla mafia. Quest’anno, tuttavia, sul palco dell’ultima Leopolda non c’era più Pif ma un giornalista che tra gli applausi della platea ha messo in discussione i cardini dell’attuale legislazione antimafia: la confisca dei beni e il 41bis.
ALESSANDRO BARBANO - GIORNALISTA RADIO LEOPOLDA – 20/11/2021 Stiamo attenti anche a pensare che sotto l’ombrello della legalità, dell’antimafia, ci sia tutto il bene del mondo. Un diritto penale liberale non confisca proprietà, aziende, a cittadini ancora innocenti o addirittura assolti. Un diritto penale liberale, non può contenere nel suo ordinamento, una norma che si chiama ergastolo ostativo.
MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Se in alcune vicende, comprensibilmente lo strumento della confisca serve, in altre circostanze invece si è abusato di questo strumento.
GIORGIO MOTTOLA Però è d’accordo che siamo riusciti a fare passi in avanti nella lotta alla mafia anche grazie alla confisca dei beni e soprattutto grazie al 41 bis?
MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Io ho visitato i beni confiscati alla mafia in tante circostanze, sia da sindaco che da presidente del Consiglio. Trovo tuttavia che alcuni di questi strumenti debbano essere ripensati, perché? Perché non hanno funzionato. Sostenere che chi chiede di riflettere di riflettere su questo, sull’ergastolo ostativo, sia un amico della mafia è un salto logico del tutto ingiusto e ingiustificato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alle ultime comunali a Palermo Italia Viva ufficialmente non ha presentato liste. Ma il coordinatore cittadino del partito di Renzi Toni Costumati e Dario Chinnici, ex capogruppo comunale di Italia Viva, insieme ad altri consiglieri renziani uscenti hanno deciso di sostenere in prima persona - in alcuni casi anche presentandosi in lista - Roberto Lagalla, il candidato a sindaco del centrodestra appoggiato dall’ex presidente della Regione Totò Cuffaro e da Marcello Dell’Utri.
GIORGIO MOTTOLA Ultimissima domanda: voi a Palermo appoggiate Lagalla, Italia Viva appoggia Lagalla?
MATTEO RENZI - - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 E stai dicendo l’ennesima cazzata perché ho detto in tutta la campagna elettorale che se vince Lagalla siamo all’opposizione. Sai benissimo che ti ho già detto in 17 lingue, testuale detto in tutti i giornali, se vince Lagalla noi siamo all’opposizione, che vuol dire…
GIORGIO MOTTOLA E Dario Chinnici?
MATTEO RENZI - - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Non sosteniamo Lagalla…chi sostiene Lagalla non è Italia Viva… ora c’ho soltanto una alternativa visto che è sabato alle 20, ti faccio un disegnino, però capitelo questo.
GIORGIO MOTTOLA Nel disegnino ci fa rientrare anche Dario Chinnici e Toni Costumati.
MATTEO RENZI - - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Chi è Costumati?
GIORGIO MOTTOLA Che sono rispettivamente il segretario di Italia Viva di Palermo…
MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Capogruppo di…
GIORGIO MOTTOLA Italia Viva, oggi, segretario di Italia Viva… il segretario di Italia Viva Toni Costumati non si è dimesso, lei non ha chiesto le dimissioni…non si è dimesso. Lei non ha chiesto le dimissioni ….
MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Ti ho detto chi sta con Lagalla non è Italia viva.
GIORGIO MOTTOLA Ma il suo segretario sta con Lagalla.
MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Io ho già detto che ha fatto una scelta ponendosi fuori.
GIORGIO MOTTOLA quindi andrà via perché finora non ha richiesto dimissioni?
MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Madonna ma come fai….= io capisco l’ideologia è stata quella.
GIORGIO MOTTOLA Non è l’ideologia è la logica, senatore… la logica, è il suo ex capogruppo e il suo attuale segretario
MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 La logica non ce l’hai te
GIORGIO MOTTOLA E’ il suo ex capogruppo e il suo attuale segretario…
MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Miei ex ex, quelli che sono, possono.
GIORGIO MOTTOLA ancora non ex, perché ufficialmente sono Italia Viva, è questa la cosa.
MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Dì a Italia Viva che lui ha studiato lo statuto di Italia Viva.
GIORGIO MOTTOLA Questo è il nostro.
MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Ah, me lo stavo fregando.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Chissà perché bisogna aspettare che scrivano un libro per sapere cosa è accaduto quando hanno governato. Ora noi diamo per scontato che quello che ha scritto nel libro sia tutto vero. Per quello che ci riguarda nelle due pagine che ha dedicato al sottoscritto e a Report, soprattutto per la vicenda dell’autogrill, quelle due pagine contengono molte inesattezze. Ora a prescindere da questo, perché ci interessa il pensiero di Matteo Renzi? Perché domani verrà votata in Senato una parte della riforma Cartabia che rischia di minare per sempre un principio fondamentale, quello della separazione dei poteri legislativo, esecutivo da quello giudiziario, che è un principio che da tre secoli è alla base dell’ordinamento giuridico e politico dell’Europa occidentale. Ora che cosa prevede la riforma? Che sia il parlamento a indicare ai procuratori capo quali siano i reati da perseguire, prevede anche un ruolo da parte del ministero della giustizia di coordinamento del lavoro del pm. Quale potrebbe essere l’impatto sulla giustizia di una riforma del genere? Ecco, bisogna andare all’inizio, da dove tutto è cominciato, la riforma Castelli 2005, governo Berlusconi. Quella riforma fu bocciata da Ciampi perché giudicata incostituzionale. Fu poi invece approvata dal parlamento successivo, governo Prodi ministro della giustizia Mastella, per questo è passata con il nome riforma CastelliMastella e prevedeva di conferire al procuratore capo la titolarità dell’azione penale: in sintesi, conferiva al procuratore capo potere di vita o di morte sulle indagini più delicate. Qual è stato il bilancio? Report è in grado di darvi in esclusiva i risultati di quella riforma. Non sappiamo se coincidevano con quelli ipotizzati dal legislatore. Quello che possiamo però dire è che chi voterà la riforma Cartabia, da questa sera, non potrà dire: io non sapevo. Il nostro Giorgio Mottola.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In principio fu Tangentopoli, ma anche dopo la scomparsa dei vecchi leader i rapporti fra magistratura e politica sono rimasti tesi per tutta la Seconda Repubblica. 28/06/2008
SILVIO BERLUSCONI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2008- 2011 In cui sono oggetto delle attenzioni dei pm e dei giudici ideologicizzati che sono una metastasi della nostra democrazia. 12/01/2002
FRANCESCO SAVERIO BORRELLI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI MILANO 1998 - 1999 Ultimo estremo baluardo della questione morale, è dovere della collettività resistere, resistere, resistere, come su una irrinunciabile linea del Piave.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’apice dello scontro fra politica e magistrati, nel 2005 il governo Berlusconi vara una riforma della giustizia, la riforma Castelli, che introduce una modifica destinata a rivoluzionare la magistratura inquirente. Ai procuratori capo viene dato il potere di intervenire nelle indagini dei propri pm.
ANTONINO DI MATTEO – CONSIGLIERE CSM Gli attribuisce un potere di visto e in certi casi di assenso necessario per determinati atti del pubblico ministero. Non solo, ma gli attribuisce dei poteri anche di revocare anche le assegnazioni già fatte.
GIORGIO MOTTOLA Di togliere un’indagine? ANTONINO DI MATTEO – CONSIGLIERE CSM Sostanzialmente sì.
GIORGIO MOTTOLA Considerato che per la Costituzione, ogni magistrato è indipendente e sottomesso solo alla legge, porre il pm in una posizione gerarchicamente subordinata ad un capo è un cambiamento epocale. Per questo l’allora presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Edmondo Bruti Liberati, fa le barricate e proclama il primo sciopero della Seconda Repubblica.
GIORGIO MOTTOLA Ma con l’attribuzione di tutti questi poteri al procuratore capo si rischia una influenza maggiore della politica?
EDMONDO BRUTI LIBERATI –PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI MILANO 2010-2015 Io non credo questo, perché la politica può influire se c’è qualcuno che si lascia influire. Io credo che i procuratori della Repubblica, così come i sostituti, siano vaccinati.
GIORGIO MOTTOLA Lei si è mai fatto influenzare da procuratore capo?
EDMONDO BRUTI LIBERATI –PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI MILANO 2010-2015 Il problema non si è proprio posto.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dieci anni dopo la riforma Castelli, nei rapporti tra magistratura e politica, si passa dalle invettive e gli attacchi di Berlusconi alla scena inedita del 2015: poche settimane dopo la fine di Expo, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ringrazia pubblicamente la procura di Milano, allora guidata proprio da Bruti Liberati, per un contributo, non meglio definito, dato al successo di Expo.
MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2014-2016 Vorrei ringraziare i magistrati di Milano che hanno avuto una grande sensibilità nel rispetto rigoroso, come è loro tradizione, delle leggi e una grande attenzione istituzionale.
GIORGIO MOTTOLA Renzi l’ha anche ringraziata nel 2015 per la sensibilità istituzionale, che vuol dire?
EDMONDO BRUTI LIBERATI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI MILANO 2010-2015 Ciascuno può interpretare come vuole. Se il presidente del Consiglio in carica ritiene di dare un apprezzamento perché nella collaborazione tra diversi istituti dello Stato, ciascuno secondo le sue competenze, si è fatto presto e bene. Questa non è una cosa assolutamente anomala.
GIORGIO MOTTOLA Che cosa aveva fatto la Procura per meritarsi un suo ringraziamento? Anzi due suoi ringraziamenti pubblici.
MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2014-2016 Due sono anche pochi. Se c’hai una situazione nella quale si rischia di bloccare tutto, un grande evento internazionale che salva l’immagine di Milano e dell’Italia nel mondo e c’hai delle persone che lavorano nel rispetto istituzionale, come fa la procura di Milano, come fa il Dagl, come fa l’Anac, io da presidente del Consiglio dico “grazie”. GIORGIO
MOTTOLA FUORI CAMPO Ma in procura a Milano, sono molti i magistrati che considerano quel ringraziamento la prova di comportamenti tutt’altro che consueti.
ALFREDO ROBLEDO – EX PROCURATORE AGGIUNTO MILANO Diciamo che hanno avuto conferma i miei sospetti che forse erano un po’ più che sospetti per la verità. Era la prova di un intervento forte della politica sul procuratore della Repubblica di Milano Bruti, per far sì che non vi fossero intralci giudiziari, quindi delle inchieste, su Expo in particolare.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alfredo Robledo era all’epoca procuratore aggiunto e responsabile dei reati contro la pubblica amministrazione della procura di Milano. Nel 2014 aveva iniziato un’indagine sull’appalto da 140 milioni di euro per la piastra di Expo, assegnata al colosso Mantovani Spa, con un ribasso record del 40 percento.
ALFREDO ROBLEDO – EX PROCURATORE AGGIUNTO MILANO Facendo delle intercettazioni emerse che una persona aveva avuto prima della decisione della commissione i risultati con i punteggi.
GIORGIO MOTTOLA Quindi voi scopriste che il primo importante appalto di Expo, la piastra, era truccato?
ALFREDO ROBLEDO – EX PROCURATORE AGGIUNTO MILANO Noi eravamo arrivati al punto di aver individuato un filone di denaro estremamente promettente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Grazie ai poteri conferiti dalla riforma Castelli ai procuratori capo, Bruti Liberati revoca a Robledo le indagini su Expo, spostandolo dal dipartimento per i reati contro la pubblica amministrazione, all’ufficio esecuzioni penali.
GIORGIO MOTTOLA Lei è stato spostato da quell’indagine?
ALFREDO ROBLEDO – EX PROCURATORE AGGIUNTO MILANO Sì, no io sono stato spostato da tutte le indagini perché poi sono stato messo alle esecuzioni, alle esecuzioni normalmente e notoriamente non si fanno le indagini. GIORGIO MOTTOLA L’inchiesta è andata sostanzialmente in fumo?
ALFREDO ROBLEDO – EX PROCURATORE AGGIUNTO MILANO Sì.
GIORGIO MOTTOLA Ed Expo è stata salvata?
ALFREDO ROBLEDO – EX PROCURATORE AGGIUNTO MILANO La paura, la preoccupazione qual era, evidentemente? Che potesse saltare Expo? Ma Expo non sarebbe saltata comunque. Le società si possono commissariare, si può continuare. E poi mi pare di capire che se c’è un’ipotesi corruttiva, se la scelta è vabbè vada avanti la corruzione purché si faccia Expo, non mi sembra una roba accettabile da un punto di vista istituzionale.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Su Expo rimangono in piedi filoni di indagine secondari che non porteranno a nessun provvedimento sul mega appalto della Mantovani Spa, azienda che all’epoca era già al centro dello scandalo Mose per le mazzette pagate a politici di tutti gli schieramenti. Sulla vicenda poche settimane fa Matteo Renzi ha fornito particolari inediti. Nel suo libro, “Il Mostro”, ha per la prima volta rivelato di aver incontrato prima di Expo il procuratore capo Bruti Liberati in una saletta privata dell’Aeroporto di Milano, poiché scrive “la situazione giudiziaria era fluida e complessa e molti appalti stavano saltando”.
GIORGIO MOTTOLA Perché incontra Bruti Liberati in una saletta privata di un aeroporto? Non è un luogo molto istituzionale.
MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2014-2016 Diciamo che rispetto alle vostre tradizioni di Report penso che possiate stare più tranquilli, rispetto a un autogrill.
GIORGIO MOTTOLA Meglio di un autogrill, sicuramente, è più riservato, quanto meno.
MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2014-2016 Beh, chi non ha niente da temere fa gli incontri dappertutto.
GIORGIO MOTTOLA Durante quell’incontro lei chiede a Bruti Liberati di rimandare, sospendere, bloccare alcune inchieste che erano in corso?
MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2014-2016 Questa è una follia. Mai detto una cosa del genere sarebbe un reato. Mi stupisce che non lo sappia.
GIORGIO MOTTOLA Quando incontra Bruti Liberati? Che periodo è?
MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2014-2016 Le direi a occhio, primavera-estate 2014.
GIORGIO MOTTOLA Poco dopo quell’incontro un magistrato viene rimosso dall’inchiesta più importante su Expo.
MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2014-2016 Questa è una vicenda che riguarda la procura di Milano della quale io non ho alcuna notizia.
EDMONDO BRUTI LIBERATI –PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI MILANO 2010-2015 Io non voglio intervenire su quelle dichiarazioni. Ci sono le chiacchiere e ci sono i fatti. È stato fatto tutto senza polveroni, ma intervenendo in tempo utile perché questo evento importante avesse i risultati che poi ha avuto.
GIORGIO MOTTOLA Dopo quell’incontro a un magistrato, Alfredo Robledo viene sostanzialmente revocato l’incarico su un’inchiesta?
EDMONDO BRUTI LIBERATI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI MILANO 2010-2015 Io non parlo delle singole vicende, ciascuno ha svolto il suo ruolo e io questo lo rivendico.
GIORGIO MOTTOLA Beh, però l’inchiesta che era stata affidata a Robledo, quella sulla Mantovani Spa sulla piastra praticamente si avvia su un binario morto con la sua rimozione?
EDMONDO BRUTI LIBERATI –PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI MILANO 2010-2015 Non è così, ciascuno ha svolto… c’erano dei rami di inchiesta che erano affidati ad altri magistrati, ciascuno ha svolto il suo ruolo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per avere un punto di vista terzo, estraneo alla contesa tra Robledo e Bruti Liberati, andiamo a chiedere lumi a un magistrato veterano di Milano, da poco in pensione, che all’inizio del 2022 ha ricoperto per qualche mese il ruolo di procuratore capo.
GIORGIO MOTTOLA Qui a Milano i problemi iniziano più o meno nel 2015 con l’Expo, in quel caso che cos’è accaduto? Si sono bloccate le inchieste su Expo? Si sono sospese?
RICCARDO TARGETTI – PROCURATORE FACENTE FUNZIONI MILANO 2021- 2022 Credo che certe decisioni siano state prese, parlando ad alte istituzioni.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E per alte sfere istituzionali il magistrato milanese ci fa capire che intende la sfera più in alto, vale a dire l’allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano.
GIORGIO MOTTOLA C’è stato veramente questo incontro Napolitano?
RICCARDO TARGETTI – PROCURATORE FACENTE FUNZIONI MILANO 2021- 2022 Per me sì. Per me c’è stato. Ma anche in altre cose ci sono stati dei contatti tra Napolitano e il procuratore Bruti.
GIORGIO MOTTOLA Oltre a Expo dov’è che secondo lei è intervenuta ecco in qualche modo… la pressione politica?
RICCARDO TARGETTI – PROCURATORE FACENTE FUNZIONI MILANO 2021- 2022 Monte Paschi di Siena, sono successe delle cose molto poco chiare. Però non ne posso parlare.
GIORGIO MOTTOLA Abbiamo sentito un altro magistrato della procura di Milano secondo cui ci sarebbe stato addirittura un intervento di Napolitano presso di lei, proprio su Expo. È così?
EDMONDO BRUTI LIBERATI –PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI MILANO 2010-2015 No… no…
GIORGIO MOTTOLA Qual è la sua risposta?
EDMONDO BRUTI LIBERATI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI MILANO 2010-2015 Nessuna risposta. Guardi chiudiamo la cosa perché allora io me ne vado.
GIORGIO MOTTOLA Ma perché fa così? Stiamo parlando però di indipendenza della magistratura. Perché ho parlato di Napolitano?
EDMONDO BRUTI LIBERATI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI MILANO 2010-2015 Basta, basta.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo la rimozione di Robledo dalle indagini su Expo, il Consiglio giudiziario di Milano si esprime sulla vicenda e stigmatizza la decisione di Bruti Liberati come illegittima. L’eventuale sanzione spetta però al Consiglio superiore della magistratura dove all’epoca sedeva Luca Palamara.
LUCA PALAMARA – CONSIGLIERE CSM 2014-2020 Il Csm si divide, si spacca. Perché da un lato bisogna difendere uno dei più noti, se non il più noto esponente di una delle correnti della sinistra giudiziaria, Bruti Liberati. Dall’altra c’era un procuratore Aggiunto che per quanto sostenuto da una parte della magistratura ovviamente venne in qualche modo sacrificato sull’altare.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi il Csm dà ragione a Bruti Liberati e stabilisce che il procuratore capo aveva il diritto di revocare le indagini al proprio pm. Mentre per Robledo cominciano i guai: dopo Expo, il Consiglio superiore della magistratura apre sul magistrato vari procedimenti disciplinari.
LUCA PALAMARA – CONSIGLIERE CSM 2014-2020 Robledo venne messo sotto procedimento disciplinare venne sanzionato. Io facevo parte di quella sezione disciplinare. Il sistema sacrificò Robledo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Eppure, come ha confermato lo stesso Bruti Liberati durante un’audizione in Csm, l’allora procuratore capo un avvertimento a Robledo lo aveva lanciato su come funzionavano le cose al Consiglio superiore, spiegandogli che la nomina a procuratore Aggiunto, Robledo la doveva a lui.
LUCA PALAMARA – CONSIGLIERE CSM 2014-2020 Bruti si rivolse a Robledo dicendo tu devi ringraziarmi perché se avessi voluto avrei fatto uscire uno dei miei per andare al bagno a fare pipì. Perché per essere eletti bisogna raggiungere la fatidica soglia di 13. Oppure, quando non si vuole votare qualcuno, si fa in modo che questo esca.
GIORGIO MOTTOLA Pronto?
EDMONDO BRUTI LIBERATI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI MILANO 2010-2015 Sì, dottore. È ancora qui lei?
GIORGIO MOTTOLA Sì.
EDMONDO BRUTI LIBERATI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI MILANO 2010-2015 Aspetti un secondo che rientro.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo aver abbandonato l’intervista, Bruti Liberati si dichiara disponibile a proseguire ma pone una condizione.
EDMONDO BRUTI LIBERATI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI MILANO 2010-2015 Se vuole, ci sediamo, proseguiamo insomma. Il nome Renzi, la vicenda Robledo Renzi eccetera non esistono.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E quindi riprendiamo l’intervista, assecondando la volontà dell’ex procuratore capo di Milano.
GIORGIO MOTTOLA Palamara la chiama in causa, raccontando un episodio di un confronto, di una conversazione, fra lei e un magistrato in cui lei dice al magistrato: se io avessi detto al collega del Csm di andare a fare la pipì lei non sarebbe stato nominato procuratore Aggiunto.
EDMONDO BRUTI LIBERATI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI MILANO 2010-2015 Non ci capiamo, non ci capiamo, non c’è niente da fare. Non ci capiamo, mi dispiace. Dottore però non le sto facendo domande su Expo, su Renzi. Guardi prendiamoci un caffè insieme e rimaniamo in buoni rapporti.
GIORGIO MOTTOLA Però dottore… non può fare così.
EDMONDO BRUTI LIBERATI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI MILANO 2010-2015 Non ci capiamo, quando non ci si capisce, i matrimoni non si possono fare.
GIORGIO MOTTOLA Come ci si fa a capire se il mio lavoro è fare domande?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma da quando il potere politico ha conferito al procuratore capo la facoltà di revocare i fascicoli ai pm, ciò che è accaduto a Milano, si è verificato anche in molte altre procure d’Italia
LUCA PALAMARA – CONSIGLIERE CSM 2014-2020 È un tema che spesso è stato ricorrente. Penso a quello che è accaduto a Catania nel 2012 quando l’allora procedimento nei confronti dell’allora presidente Lombardo della Regione venne sottratto a due pubblici ministeri. È quello che un po’ hanno riproposto le vicende della Loggia Ungheria. È quello che hanno riproposto le famose vicende di De Magistris. C’è sempre un po’ questa sorta di conflitto, di diatriba tra il procuratore e il sostituto che gestisce il fascicolo.
ANTONINO DI MATTEO – CONSIGLIERE CSM Quando la politica non riesce a controllare il potere diffuso dei singoli magistrati, dei 2000 pubblici ministeri italiani, può essere indotta a tentare di controllare i procuratori capo. Controllare magari quelle cinque, sei, otto procure nevralgiche attraverso un sistema per il quale se controlli quegli uffici, hai controllato la magistratura.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Abbiamo analizzato l’andamento delle sentenze definitive degli ultimi 16 anni riguardanti i reati più sensibili per il potere politico. E abbiamo così scoperto che nel 2005, l’anno in cui viene approvata la riforma Castelli, per il reato di concussione, che riguarda chi fa pressioni per ottenere una mazzetta, le condanne definitive erano state 110, nel corso di un ventennio sono scese a 9. Una diminuzione del 91 percento. Per la corruzione, le sentenze di condanna sono calate da 248 a 90. Meno 63 percento. Mentre invece per voto di scambio politico mafioso, in 16 anni ci sono stati solo 15 politici condannati in via definitiva.
ANTONINO DI MATTEO – CONSIGLIERE CSM Sono sempre meno i magistrati disposti ad andare veramente a fondo quando si tratta di indagare sui reati dei colletti bianchi. Quel dato statistico che lei ha ricordato e che effettivamente fa impressione disegna un poco una giustizia a due velocità. Efficiente e spietata con la criminalità dei poveracci, timorosa, quando non addirittura con le armi spuntate nei confronti dei colletti bianchi.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E ora con la riforma Cartabia a indicare al procuratore capo quali reati dovrà perseguire in modo più urgente sarà direttamente il Parlamento. In base alle direttive che verranno dalla politica, le Procure dovranno redigere un piano organizzativo specificando a quali indagini daranno priorità. E per la prima volta nella storia repubblicana, questo piano dovrà essere sottoposto al ministero della Giustizia.
ANTONINO DI MATTEO – CONSIGLIERE CSM È l’apertura di uno squarcio, di un vulnus, al principio sacro della separazione dei poteri. Questa riforma disegna un sistema che limita l’autonomia non solo dei singoli magistrati ma anche della magistratura, soprattutto delle Procure che costituiscono il cuore nevralgico dell’azione penale.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO “Resistere, resistere, resistere”, il grido d’allarme lanciato dall’ex procuratore Borrelli è stato raccolto più che dai magistrati, da chi voleva riformarli. Ora la riforma CastelliMastella ha prodotto intanto il crollo delle condanne per il 91 percento per i reati di concussione, del 63 per quelli di corruzione e addirittura 15 solo condannati per voto di scambio politico-mafioso. Ora delle due l’una, o siamo diventati il Paese più virtuoso al mondo che ha sconfitto corruzione e mafia oppure è diventato difficile perseguire quei reati. Secondo un membro del Csm, Nino Di Matteo, avrebbe contribuito a questo risultato anche la limitazione dell’indipendenza dell’azione dei pm. Ora con la riforma Cartabia però c’è il rischio di acuirle queste criticità, perché sarebbe il parlamento a dover indicare quali reati vanno perseguiti. È probabile che non sarà più necessario per un premier andare ad incontrare un procuratore capo in un salottino di un aeroporto. La moral suasion avverrà per legge. Renzi aveva scritto nel suo libro che aveva incontrato Bruti Liberati, il procuratore capo di Milano, in un salottino dell’aeroporto di Linate solo perché aveva preoccupazione, era preoccupato, da un eventuale accanimento giudiziario sugli appalti di Expo. Bruti Liberati ha detto: io non mi sono fatto condizionare. Non vuole parlare di quell’incontro. Mentre invece il procuratore Aggiunto di Milano, Robledo, sospetta che gli sia stata sottratta una inchiesta promettente sugli appalti di Expo, proprio in conseguenza delle pressioni politiche. Ora noi non sappiamo certamente quale sia la verità, né abbiamo gli strumenti, tuttavia abbiamo ritenuto opportuno riportare i due punti di vista perché vengono da due autorevoli magistrati e meritano entrambi considerazione. Ora però c’è un’altra preoccupazione per il futuro: che verrà inserito nella riforma Cartabia il criterio della valutazione dei magistrati e a valutarli saranno anche gli avvocati, cioè coloro che rappresentano gli imputati stessi dei magistrati. Il criterio di valutazione poi però comprende anche il numero delle sentenze che ogni magistrato emette, ispirato ovviamente dall’azione dei pm, che non verranno poi sconfessati nei successivi gradi di giudizio. Questo comporta un rischio: di togliere il coraggio a quei magistrati invece che hanno avuto l’iniziativa di sentenze anche rivoluzionarie, nella storia del nostro Paese, pensiamo a quelle che riguardano la famiglia o quelle che riguardano il lavoro, l’ultima sui riders. E poi c’è un elemento che viene introdotto, quello dell’improcedibilità, che rischia di ucciderli proprio i processi. Saremo fortunati se si arriverà a sentenza.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fin dalla prima versione presentata al parlamento, uno dei magistrati più critici sugli effetti della riforma Cartabia è stato il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.
GIORGIO MOTTOLA Qualche mese fa ha definito la riforma Cartabia la peggiore riforma della storia.
NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO Che ricordi io sì, certamente. Il prodotto finale per alcuni versi è terribile. La cosa che mi rattrista è che proprio da un po’ di anni stavamo riprendendo fiducia. C’è la fila per venire qui a denunciare. Io incontro ogni settimana 40, 50 persone vessate dalla ‘ndrangheta, usurati, estorti. Penso che questa riforma non serva per risolvere i problemi e i drammi della gente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La riforma Cartabia introduce il principio dell’improcedibilità. Il processo d’Appello potrà durare al massimo due anni e quello di Cassazione 12 mesi. Se si supera questo limite, il procedimento decade: vale a dire che il processo finisce senza che venga emessa alcuna sentenza.
GIUSEPPE SANTALUCIA – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI In Appello e in Cassazione, se non stai dentro i due anni o l’anno, il processo evapora. Quindi arriveremo al terzo grado di giudizio con il pericolo incombente che se passa un giorno oltre l’anno, tutto finisce.
GIORGIO MOTTOLA Qui alla corte d’Appello di Napoli, che cosa accadrà con la norma sull’improcedibilità?
GIUSEPPE DE CAROLIS – PRESIDENTE CORTE DI APPELLO DI NAPOLI Con le attuali risorse non siamo in condizione di fare i processi in così poco tempo. Perché la massa di processi è enorme e quindi non ce la si fa a farli tutti. Ho fatto una battuta anche con il ministro: sono anni che chiediamo un cucchiaio più grande per svuotare il mare, lo svuotiamo con un cucchiaino il mare perché arrivano migliaia di processi. E praticamente voi ci avete bucato pure il cucchiaino.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La corte di Appello di Napoli detiene il record italiano di processi pendenti. Se a Milano sono attualmente in corso 8mila processi, a Napoli sono aperti 57mila procedimenti penali.
GIORGIO MOTTOLA Ogni giudice ha in media quanti processi a carico?
GIUSEPPE DE CAROLIS – PRESIDENTE CORTE DI APPELLO DI NAPOLI Come pendenti ne avrà circa 1500.
GIORGIO MOTTOLA E come fa a scrivere un giudice che ogni giorno deve fare udienze?
GIUSEPPE DE CAROLIS – PRESIDENTE CORTE DI APPELLO DI NAPOLI E infatti non ce la fa. Quante sentenze può fare un giudice ogni anno? Secondo me già fare 300 sentenze all’anno è numero notevole. Bisogna studiarsi le carte, bisogna decidere e bisogna scrivere, non è che le puoi fare appunto come se fossero le pizze.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il problema dipende innanzitutto dalla distribuzione delle risorse: se alla corte di Appello di Milano, ci sono quasi 150 giudici per 8mila procedimenti, quindi ogni giudice ha una media di 53 processi, a Napoli invece ci sono 39 giudici per 57mila procedimenti.
GIORGIO MOTTOLA E di questi in percentuale più o meno quanti hanno superato i due anni?
GIUSEPPE DE CAROLIS – PRESIDENTE CORTE DI APPELLO DI NAPOLI Almeno il 50 percento, di più e non di meno.
GIORGIO MOTTOLA Quindi almeno il 50 percento dei processi attualmente in corso, se ci fosse stata già la norma sull’improcedibilità sarebbero morti.
GIUSEPPE DE CAROLIS – PRESIDENTE CORTE DI APPELLO DI NAPOLI Sarebbero saltati, certo.
GIORGIO MOTTOLA Ma ora che cosa accadrà, che nel momento in cui vi arriverà questa mole enorme di processi in Appello deciderete fin dall’inizio quali vivono e quali vanno a morire.
GIUSEPPE DE CAROLIS – PRESIDENTE CORTE DI APPELLO DI NAPOLI Purtroppo, sì, dovremo fare delle scelte. Ripeto, anche perché nel frattempo dovremo smaltire l’ondata di quelli vecchi per evitare che si prescrivano. Dovremo scegliere: facciamo prima i processi vecchi per non farli prescrivere o facciamo i prima i processi non nuovi per non farli diventare improcedibili?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo il dibattito parlamentare, la ministra Marta Cartabia ha concesso una proroga al limite dei due anni per alcuni reati considerati più gravi, come gli omicidi, i processi di mafia e le violenze sessuali aggravate. Ma ci sono decine di altre tipologie di reati, altrettanto importanti, che rischiano la tagliola dell’improcedibilità.
NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO Gli omicidi colposi, quindi tutti gli incidenti sul lavoro. Il 50 percento di questi processi in Appello non si celebrerà.
GIORGIO MOTTOLA Il 50 percento di processi che saltano.
NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO Lo hanno detto i procuratori generali presso le corti d’Appello. Tutti i processi in materia di inquinamento. Eppure, questo governo ha dedicato un ministero alla transizione ecologica. E i reati contro la pubblica amministrazione non vi scandalizzano? Corruzione, concussione, peculato: perché non sono gravi? E sono anche processi senza detenuti che non si celebreranno, non arriveranno, metà di questi non arriveranno in Appello.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi, in molti tribunali, i processi sui colletti bianchi rischiano di non arrivare mai a una sentenza. Ma rischiano anche i morti sul lavoro, i morti in incidenti stradali e i morti in tragedie come il ponte Morandi o il Mottarone. Per non parlare poi di quelli che sono considerati reati minori: le truffe, le lesioni, le aggressioni e la violenza sessuale semplice.
GIUSEPPE DE CAROLIS – PRESIDENTE CORTE DI APPELLO DI NAPOLI Le truffe già adesso quasi tutte si prescrivono. Quelli che consideriamo piccoli reati, reati bagatellari sono quelli che creano più allarme sociale. Per esempio, le truffe agli anziani sono un reato odioso. Quello che mi preoccupa è il segnale che arriva. Si rischia di avere l’impunità.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora la premessa è stata: la riforma della giustizia ce l’ha chiesta l’Europa. E ha subordinato il rilascio dei 191 miliardi di euro alla riduzione della durata dei processi. Noi abbiamo un 1milione e 600mila processi in sospeso. Per arrivare a una sentenza definitiva in Italia bisogna aspettare in media sette anni, tre in Francia, tre in Spagna, solo invece 377 giorni, pensate, in Svizzera. Però l’Europa a noi ci ha chiesto sostanzialmente la certezza del diritto, che significa la certezza anche del diritto di essere processati velocemente, insomma non di cancellarli proprio i processi. E poi si riferiva soprattutto l’Europa alla riforma della giustizia civile, qui invece hanno messo mano subito a quella penale. E hanno introdotto il meccanismo dell’improcedibilità, che scatta quando? Quando il processo supera i due anni in Appello, si blocca subito l’azione penale. Il conteggio parte dai 90 giorni dopo che viene depositata la sentenza. Per la Cassazione invece il processo non deve superare un anno. Ora in media nei tribunali di Roma, Reggio Calabria, Napoli, Bari, i processi in corte d’Appello da noi durano sopra i due anni. A Napoli pensate solo per portare il fascicolo della sentenza di primo grado sul tavolo del Presidente della corte d’Appello, impiegano sei mesi. Questo vuol dire che per non far decadere il processo bisogna farlo in un anno e mezzo. Ora, la Cartabia ha concesso delle proroghe a dei reati più gravi come mafia, omicidio, violenza sessuale aggravata. Però il 50 percento dei processi per truffa, aggressione, per violenza sessuale semplice, i morti sul lavoro, gli incidenti stradali, il 50 percento di questi processi rischia di rimanere senza colpevoli. Anche – pensate un po’ - tragedie come il ponte Morandi, Rigopiano o quella del Mottarone. Ora, cosa bisognerebbe fare se volessimo veramente velocizzare i processi, lo vedremo tra trenta secondi, dopo il golden minute.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora stavamo parlando dell’improcedibilità, cioè di quel meccanismo che fa decadere automaticamente i processi quando dal primo gennaio del 2025, supereranno i due anni di durata in corte d’Appello, un anno in Cassazione. Però noi pensiamo che se si volesse veramente agire sulla velocità dei processi, ridurre la durata, bisognerebbe agire su altre leve: per esempio, rendere più efficienti gli uffici giudiziari, rendere più accessibili i documenti attraverso la digitalizzazione, snellire i processi per le notifiche o anche quelli delle rogatorie internazionali che portano via mesi, se non anni di tempo. Poi c’è un problema di organico: i cancellieri mancano o sono distribuiti male. Sette per ogni giudice a Campobasso, uno per ogni giudice a Napoli, dove la durata dei processi è venti volte superiore alla media europea. Poi c’è anche un problema di organico dei magistrati. Pensate, in Germania su 100mila abitanti ci sono 24,5 giudici, 7,1 pm che sono affiancati 79,6 amministrativi, quei funzionari senza i quali si blocca l’ufficio giudiziario, poi ci sono 198,5 avvocati. In Italia? In Italia ci sono meno la metà dei giudici solo 11,6 giudici su 100mila persone e 3.7 pm, la metà ancora qui, 51,2 funzionari, mentre gli avvocati sono quasi il doppio di quelli tedeschi 388,3. Persino in Austria ne hanno di più di magistrati e funzionari, 27,3 giudici, 4,3 pm affiancati da 56,3 amministrativi; In Spagna anche hanno più pubblici ministeri, 5,2 affiancati da ben 106 amministrativi. In Inghilterra hanno meno giudici ma più pm, 4,2. Insomma, in Italia mancano dall’organico 1.300 magistrati. E mancano anche il 40 percento delle forze di polizia giudiziaria, cioè di quelli che materialmente fanno le indagini. Ora il governo vuole investire due miliardi di euro per colmare il vuoto di organico e rendere più efficienti gli uffici giudiziari ma tutti molto molto, con processi molto lenti. Poi fioccano i bocciati nei concorsi per magistrati, quando proprio invece bisognerebbe puntare sul merito, premiare i magistrati che sono più presenti, quelli che lavorano meglio. Dovrebbe però pensarci soprattutto un Csm scevro da logiche correntizie e soprattutto indipendente. Si pensava anche che la riforma toccasse il Csm dopo lo scandalo Palamara e invece l’ha solo sfiorato. E qualche magistrato comincia anche a sospettare che ci sia un accordo sotterraneo, fra l’Associazione nazionale magistrati e il parlamento, e la politica. Insomma, toccate la riforma della magistratura, non toccate il Csm.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per protestare contro la Riforma Cartabia, il mese scorso l’associazione nazionale magistrati si è riunita in un’assemblea straordinaria e ha deciso di proclamare lo sciopero.
ANGELO PIRAINO - SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE Noi non scioperiamo per protestare, non scioperiamo contro qualcosa. Noi scioperiamo per essere ascoltati, noi le riforme le vogliamo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’ultimo sciopero dell’Anm risale a 17 anni fa, quando oltre l’80 percento dei magistrati decise di incrociare le braccia contro la riforma Castelli, stavolta però come potete vedere, il giorno dello sciopero, all’assemblea indetta a Roma la sala è semivuota. E a livello nazionale le adesioni hanno superato di poco il 50 percento.
GIUSEPPE SANTALUCIA – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI Lo sciopero non è andato benissimo.
GIORGIO MOTTOLA Lei era contrario allo sciopero?
GIUSEPPE SANTALUCIA – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI Io sono molto cauto per ogni scelta importante.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma troppo cauta sarebbe stata l’Anm nell’opporsi alla riforma Cartabia secondo un nutrito gruppo di magistrati che ha preso pubblicamente posizione contro lo sciopero.
GIORGIO MOTTOLA Lei ha scioperato il 16 maggio?
PAOLO ITRI – SOSTITUTO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI NAPOLI Assolutamente no.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Paolo Itri è uno storico magistrato antimafia della Procura di Napoli. È l’ispiratore di un documento sottoscritto da oltre 40 magistrati di tutta Italia che si intitola né con la Cartabia né con l’Anm.
PAOLO ITRI – SOSTITUTO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI NAPOLI La riforma Cartabia non va a incidere su quello che è il problema principale: lo strapotere e la degenerazione correntizia. Perché non avendo modificato in maniera sostanziale quello che è il sistema elettorale del Csm, non ha in alcun modo diminuito il potere delle correnti di individuare i propri candidati.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’accusa che muovono i firmatari del documento è che nonostante i grandi rischi che comporta la Cartabia per l’autonomia dei Pm e sull’improcedibilità dei processi, l’Anm abbia messo in campo un’opposizione blanda ottenendo in cambio una legge elettorale del Consiglio superiore della magistratura che non solo non limita le correnti, ma addirittura rischia di rafforzarle.
GIORGIO MOTTOLA La Cartabia introduce una riforma elettorale del Csm?
NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO Che è peggio di quella attuale. Crea un sistema dove già si può prevedere quanti candidati prenderà una corrente, quanti un’altra, quanti un’altra. Io ho sempre detto: la mamma di tutte le riforme è quella del Csm. Bisogna arrivare al sorteggio.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In un recente sondaggio fatto dall’Anm, il 41 percento dei magistrati italiani sarebbe favorevole a eleggere i membri del Csm attraverso un sorteggio. Ma con la nuova legge elettorale varata dalla Cartabia, ogni collegio eleggerà due candidati, uno per ciascuna delle principali correnti e, quelle che rimangono escluse, vengono recuperate attraverso il sistema dei resti.
GIORGIO MOTTOLA Ci sono alcuni magistrati che hanno sottoscritto un documento in cui sostenevano che l’Anm avesse sottoscritto una tregua con la ministra in cambio, sostanzialmente, di una mancata vera riforma del Csm.
GIUSEPPE SANTALUCIA – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI Ovviamente è una falsità, noi non abbiamo nessun potere di sottoscrivere nulla.
PAOLO ITRI – SOSTITUTO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI NAPOLI A seguito della pubblicazione delle varie chat e delle intercettazioni di Palamara, nel corso delle quali si sentivano e si leggevano molti magistrati che…
GIORGIO MOTTOLA Si autopromuovevano…
PAOLO ITRI – SOSTITUTO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI NAPOLI Diciamo le cose come stanno: si auto-raccomandavano. È stata emanata una circolare della Procura generale con la quale si è stabilito che sostanzialmente l’attività di mera autopromozione non è un fatto, diciamo, disciplinarmente rilevante.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E in effetti dalle chat di Palamara emergeva che centinaia di magistrati chiamassero o scrivessero abitualmente all’ex consigliere del Csm per promuovere la propria carriera. Ma un anno dopo l’esplosione dello scandalo la Procura generale di Cassazione stila una direttiva in cui si dichiara che l’attività di autopromozione, anche se petulante, non viola i precetti disciplinari. A firmarla è Giovanni Salvi, attuale Procuratore generale della Corte di Cassazione, nonché membro di diritto del Csm.
GIORGIO MOTTOLA È sembrata un po’ un’autoassoluzione dell’intera categoria rispetto a quello che era successo con lo scandalo Palamara.
GIOVANNI SALVI - PROCURATORE GENERALE CORTE DI CASSAZIONE Io penso che se voi leggete perché sono pubblicate, vedete che non è assolutamente scritto questo. Quello che è stato scritto è che hanno un altro profilo di illegittimità.
GIORGIO MOTTOLA Non è un illecito ma è un comportamento esecrabile?
GIOVANNI SALVI - PROCURATORE GENERALE CORTE DI CASSAZIONE E beh, certo.
GIORGIO MOTTOLA Lei ha mai incontrato il dottor Palamara per autopromuoversi?
GIOVANNI SALVI - PROCURATORE GENERALE CORTE DI CASSAZIONE Non ho mai chiesto nulla al dottor Palamara. Mai. In nessuna circostanza e se voi foste dei buoni giornalisti sapreste anche che io ho rifiutato di fare il procuratore Aggiunto e ho revocato la domanda per procuratore Aggiunto proprio per non accettare nessun patto di nessun genere, come non ho mai accettato in tutta la mia vita. Chiaro?
LUCA PALAMARA – CONSIGLIERE CSM 2014-2020 Ci fu un pranzo che feci col procuratore Salvi su una terrazza romana dove venne affrontato nel 2017 il tema che riguardava l’imminente nomina a procuratore generale della Cassazione. Il pranzo aveva ad oggetto quello che secondo il procuratore Salvi non costituisce illecito che è l’autopromozione.
GIORGIO MOTTOLA Quindi le chiese sostanzialmente un appoggio elettorale?
LUCA PALAMARA – CONSIGLIERE CSM 2014-2020 Si autopromosse. Io ero presidente della Quinta commissione e come tale avrei avuto un ruolo importante se non decisivo in quella nomina.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, è necessaria intanto una premessa, aldilà delle correnti e le amicizie: la qualità delle istituzioni la fa la qualità dell’uomo che le rappresenta. Ora è possibile ipotizzare una magistratura senza correnti e indipendente dalla politica? Probabilmente è impossibile perché appartiene alle debolezze umane, quelle di cercare le alleanze e ambire al potere. Però, insomma, almeno visto che le correnti sono la cruna dell’ago attraverso la quale sono dovuti passare i magistrati per fare carriera, almeno che siano strumento non di chi è marcio ma per eliminare le mele marce. Ora, evitare anche che il Csm diventi – per mancanza di indipendenza politica - quella camera di compensazione per unire quei poteri che per loro natura e per costituzione sono separati. Il potere legislativo, esecutivo e quello giudiziario. Ecco su questo, probabilmente, la riforma avrebbe avuto un ruolo importante se avesse inserito il meccanismo del sorteggio ma insomma si è preferito lasciare lo status quo. E questo avrebbe probabilmente evitato il ripetersi di casi come quello di Palamara che mortificano poi l’istituto della giustizia e anche l’istituto della toga che viene visto dai cittadini onesti come una sorta di sacerdozio civile, un elemento sacro. Insomma, bisognerà evitare, come disse un giorno un magistrato, che: la politica si confonda con la giustizia penale. Perché così l'Italia da culla presunta del diritto, potrebbe diventarne la tomba. Quel magistrato era Giovanni Falcone che ambiva, prima dell’attentato, di diventare procuratore nazionale antimafia.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quanto le correnti siano ancora in salute lo si è visto lo scorso quattro maggio. Sono le ore 11.19 e il Consiglio superiore della magistratura si riunisce in seduta plenaria per decidere chi sarà il nuovo capo della Direzione nazionale antimafia, la superprocura ideata da Giovanni Falcone che sulla carta ha il compito di coordinare tutte le indagini contro la criminalità organizzata.
DAVIDE ERMINI – VICEPRESIDENTE CSM La proposta A in favore del dottor Nicola Gratteri, proposta B in favore del dottore Giovanni Russo, proposta C in favore del dottor Giovanni Pio Luciano Melillo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In lizza ci sono tre magistrati. Ma la vera partita è tra Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro e da anni simbolo della lotta alla mafia e Giovanni Melillo, procuratore capo di Napoli, con un lungo passato in Direzione nazionale antimafia. Tutti sono convinti che si arriverà almeno al ballottaggio.
DAVIDE ERMINI – VICEPRESIDENTE CSM Dichiaro chiusa la votazione. Proposta A, Gratteri: 7 voti. Proposta B, Russo: 5 voti. Proposta C, Melillo: 13 voti. Non c’è bisogno di ballottaggio, prevale la proposta C: dottor Melillo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo la votazione, il pm antimafia Nino Di Matteo, che ha sostenuto la candidatura di Gratteri, esce dal Csm livido in volto.
ANTONINO DI MATTEO – CONSIGLIERE CSM Temo che questa scelta potrà apparire come una bocciatura del dottor Gratteri e anche agli occhi del contesto criminale mafioso, questa scelta avrà il significato di una pericolosa delegittimazione. Il Csm non doveva ripetere delle scelte infelici che nel passato hanno contraddistinto vicende relative a Giovanni Falcone e ad altri magistrati particolarmente esposti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il riferimento è alle due bocciature che il Csm riservò trent’anni fa a Giovanni Falcone, la prima per un incarico a Palermo e la seconda, pochi mesi prima che venisse ucciso, quando si candidò alla guida della Procura nazionale antimafia che lui stesso aveva contribuito a creare.
GIORGIO MOTTOLA . Volevo farle qualche domanda sulla mancata elezione di Gratteri.
ELISABETTA CHINAGLIA – CONSIGLIERE CSM No, grazie, non ho niente da dire.
GIORGIO MOTTOLA Lei che cosa ha votato? Posso chiederglielo?
ELISABETTA CHINAGLIA – CONSIGLIERE CSM Il dottore Melillo.
GIORGIO MOTTOLA Come mai?
ELISABETTA CHINAGLIA – CONSIGLIERE CSM No, guardi, per le ragioni che sono esplicitate nella delibera.
GIORGIO MOTTOLA Vorrei farle qualche domanda sull’elezione del Procuratore nazionale antimafia.
LOREDANA MICCICHÉ – CONSIGLIERE CSM Non mi interessa, grazie.
DAVIDE ERMINI – VICEPRESIDENTE CSM Io non ho votato proprio perché non mi sono mai intromesso nelle scelte. GIORGIO MOTTOLA Un suo pensiero però sulla bocciatura di un magistrato così esposto nella lotta alla mafia come Gratteri.
DAVIDE ERMINI – VICEPRESIDENTE CSM Sono tre magistrati di altissimo livello. Il plenum è sovrano e io mi sono rimesso alla loro volontà. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Qualche giorno dopo il voto al Csm, incontriamo Gratteri a Lamezia Termine a margine di un convegno in una scuola. Facciamo con lui il viaggio in macchina fino a Catanzaro.
GIORGIO MOTTOLA Se l’aspettava questa bocciatura al Csm?
NICOLA GRATTERI – PROCURATORE CAPO CATANZARO Si.
GIORGIO MOTTOLA Se l’aspettava?
NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO Guardi, Mellillo è un bravo procuratore, è una persona intelligente, capace, è un bravo organizzatore. Detto questo se ho fatto domanda ritenevo di essere capace di fare una rivoluzione.
GIORGIO MOTTOLA Che tipo di rivoluzione avrebbe voluto fare, lei?
NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO Nella mia testa la Dna e le procure distrettuali sarebbero diventate una sola procura d’Italia. Avrei fatto un terremoto.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma torniamo al giorno della votazione. All’inizio della discussione, accade un fatto piuttosto insolito. Generalmente gli alti magistrati di Cassazione che siedono di diritto in Csm, si astengono in occasione di nomine particolarmente combattute come questa. Invece, stavolta, prendono la parola sia il presidente della prima sezione della Corte di Cassazione Pietro Curzio che il procuratore generale Giovanni Salvi per annunciare il loro voto in favore di Giovanni Melillo.
PIETRO CURZIO – PRIMO PRESIDENTE CORTE DI CASSAZIONE Dialogando con il procuratore generale, abbiamo deciso in questo caso di prendere posizione con il voto e nel dibattito. La persona che verrà designata a questo ufficio deve avere il numero di voti più largo possibile.
GIOVANNI SALVI – PROCURATORE GENERALE CORTE DI CASSAZIONE Il mio voto per Melillo è un voto veramente convinto.
GIORGIO MOTTOLA Come mai lei e il procuratore Curzio in modo inusuale avete deciso di partecipare alla votazione, di esprimere la vostra preferenza?
GIOVANNI SALVI – PROCURATORE GENERALE CORTE DI CASSAZIONE Non è inusuale, molto spesso votiamo quando si tratta di decisioni importanti, di carattere nazionale. Abbiamo ritenuto, insieme, che il profilo del dottor Melillo anche per la sua esperienza in materia di terrorismo, fosse quello che avesse il maggior, il più ampio… i più ampi titoli.
GIORGIO MOTTOLA Nel suo intervento il presidente Curzio dice che bisognava dare una maggioranza nitida alla persona che sarebbe stata scelta. Ma come facevate a sapere che sarebbe stato scelto proprio il dottor Melillo?
GIOVANNI SALVI – PROCURATORE GENERALE CORTE DI CASSAZIONE Beh, innanzitutto perché c’erano state tutte le dichiarazioni di voto di prima, quindi si sapeva abbastanza bene. Era chiaro, no?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In realtà il presidente Curzio, parla prima che gli altri consiglieri abbiano fatto le loro dichiarazioni di voto. Per cui sembra sapere in anticipo che la maggioranza voterà per Melillo. Una stranezza che, durante il dibattito, coglie di sorpresa anche alcuni consiglieri del Csm.
STEFANO CAVANNA – CONSIGLIERE CSM Mi sono convinto a intervenire sentendo le parole del primo presidente che mi ha, devo dire, un po’ turbato soprattutto sulla premessa. Sostenere, dire che bisogna supportare con il più ampio numero di voti un candidato, mi fa quasi pensare che si sappia già quale sarà questo risultato.
GIORGIO MOTTOLA Curzio nel suo intervento dice: stavolta votiamo. Ma come facevano a sapere che sarebbe stato eletto proprio Melillo che indicavano loro?
LUCA PALAMARA – CONSIGLIERE CSM 2014-2020 È un imprimatur che hanno voluto dare. Tra uomini della stessa corrente ci sta.
GIORGIO MOTTOLA Fanno parte della stessa corrente?
LUCA PALAMARA – CONSIGLIERE CSM 2014-2020 Sì
GIORGIO MOTTOLA I magistrati della Cassazione e Melillo?
LUCA PALAMARA – CONSIGLIERE CSM 2014-2020 Assolutamente. Fanno parte della stessa corrente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Oggi Luca Palamara è imputato per corruzione, ma per anni è stato il leader incontrastato di Unicost, la corrente giudiziaria di centro, e dell’associazione nazionale magistrati, fino all’approdo al Consiglio superiore. Un anno fa è stato radiato dalla magistratura con l’accusa di aver pilotato, attraverso rapporti opachi con la politica, decine nomine all’interno del Csm, favorendo lo strapotere e gli intrighi delle correnti togate.
LUCA PALAMARA – CONSIGLIERE CSM 2014-2020 La corrente di Area, che sosteneva Gianni Mellillo, penso volesse in qualche modo portare in porto l’operazione. La si porta con i componenti di diritto e con la corrente di Unicost. Un po’ i vecchi schemi diciamo, che hanno caratterizzato la vita interna del Csm.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi, secondo la ricostruzione di Palamara, prima di iniziare a votare già si sapeva chi avrebbe vinto, dal momento che Unicost e Area, la corrente di centro sinistra di cui Melillo ha fatto parte fino al 2017, avevano raggiunto un accordo che avrebbe incluso anche i due alti magistrati della Cassazione.
GIORGIO MOTTOLA Per la procura nazionale antimafia, si sceglie Melillo invece di Gratteri anche perché la sua appartenenza ad Area è stata molto importante.
EUGENIO ALBAMONTE – SEGRETARIO GENERALE AREA Non credo, non credo proprio onestamente. A me sembra che i due abbiano percorsi molto differenti, si è preferito uno piuttosto che l’altro.
GIORGIO MOTTOLA Non c’entra che Melillo fosse proprio uno degli esponenti di punta di Area?
EUGENIO ALBAMONTE – SEGRETARIO GENERALE AREA A parte che Melillo non è storicamente un esponente di punta di Area, per niente. Non so neanche se sia un iscritto.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il tema, tuttavia, non è la legittimità della nomina, ma piuttosto il metodo usato dal Csm. Nel merito, infatti, nessuno discute il valore di Giovanni Melillo, magistrato con una carriera senza ombre e senza macchie, stimato e rispettato da tutti. Al punto che nel 1999 venne chiamato al Quirinale per fare da consulente giuridico e, durante i governi Renzi e Gentiloni, è stato scelto, su nomina politica, a fare il capogabinetto del Ministero della giustizia fino al 2018. Un prestigioso incarico che avrebbe avuto il suo peso nel voto finale.
GIORGIO MOTTOLA In questo caso, l’aver fatto parte del ministero della Giustizia come capo gabinetto, quindi su nomina politica, è stato un valore aggiunto?
GIOVANNI SALVI – PROCURATORE GENERALE CORTE DI CASSAZIONE Per me sì, è stata un’importante esperienza, non per il rapporto con la politica ma per il rapporto… d’altra parte il rapporto con la politica… diciamo, entrambi i candidati avevano profili da questo punto di vista, no? Il dott. Gratteri sappiamo tutti che era stato proposto per un incarico giustamente importante com’era quello di ministro della Giustizia.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il 21 febbraio del 2014 Matteo Renzi, presidente del Consiglio in pectore, va dal capo dello Stato Giorgio Napolitano con in tasca la lista dei ministri. Il nome di Nicola Gratteri è segnato accanto alla casella del ministero della Giustizia.
NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO E però non è diventato ministro della giustizia, quindi bisognerebbe spiegare chi è andato da Napolitano a dirgli di non farmi ministro, ad esempio. Perché qua è da otto anni che si ripete questa storiella, no?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La mancata nomina di Gratteri è uno dei misteri della storia politica recente. Il 21 febbraio del 2014, la porta della sala del Quirinale in cui Renzi espone a Napolitano i nomi del suo esecutivo, rimane chiusa per più di due ore. Quando viene aperta, il nome di Gratteri non è più nell’elenco dei ministri.
GIORGIO MOTTOLA Lei l’ha capito chi è che veramente non l’ha voluta ministro?
NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO Sì, ma non lo posso dire perché non ho le prove.
LUCA PALAMARA – CONSIGLIERE CSM 2014-2020 Quel posto era un posto che avrebbe eletto Nicola Gratteri come il vero referente del mondo della politica nei rapporti con la magistratura. Questo non poteva essere accettato, bisogna essere chiari: non era accettato dai tanti procuratori della Repubblica che invece volevano soprattutto con il Quirinale all’epoca avere un’interlocuzione diretta. Ci fu come dire un malumore che venne poi trasmesso e fatto arrivare al Quirinale.
GIORGIO MOTTOLA Lei nel libro scrive testualmente: “magistrati come il procuratore della Repubblica di Roma, leader di vari correnti della magistratura, giudici eletti in Parlamento con alte responsabilità fecero arrivare al Quirinale la loro avversione totale all’ipotesi Gratteri”.
MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Il presidente Napolitano, con le sue motivazioni, decise di non nominare Nicola Gratteri ministro di Giustizia. Che siano intervenuti i magistrati, penso di poterlo chiarire. Se lei mi domanda di Pignatone specifico, le dico di sì, perché Pignatone è un nome che mi è stato riferito nel corso dei miei colloqui.
GIORGIO MOTTOLA Le è stato riferito al Quirinale, possiamo dire così genericamente.
MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Bene, la chiudiamo così.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Alla fine, la riforma non è riuscita a rendere più impermeabile il Csm dalla politica. Il mancato procuratore nazionale antimafia Gratteri, pur riconoscendo i meriti di quello nominato Melillo, dice: io avrei scatenato l’inferno, avrei riunito tutte le direzioni distrettuali antimafia un’unica procura nazionale. Vabbè sarà per la prossima volta. Mentre, per completare il quadro, nell’ambito della legge sulla presunzione di innocenza è stata introdotta una sanzione più forte, più pesante, per quei magistrati che parlano con i giornalisti. Insomma, i procuratori possono solamente parlare con comunicati o nell’ambito di conferenze stampa. Non possono neppure rilasciare dichiarazioni incaute sull’indagato, pena una richiesta di risarcimento danni. Poi la Cartabia ha anche introdotto il diritto all’oblio per tutte quelle persone che sono state archiviate o per cui il procedimento è un non luogo a procedere. Vanno cancellati i nomi e anche i fatti relativi all’archiviazione, al procedimento cessato, anche dai motori di ricerca sul web. Insomma, ha introdotto una sorta di oblio di Stato, in contrapposizione anche se vogliamo con quelle norme europee che tutelano il diritto di un cittadino, per un cittadino, di essere informato. L’unica nota positiva della riforma è che si cerca di dare più spazio alla giustizia riparativa, a quelle forme di pene alternative, come i lavori di pubblica utilità, ma soprattutto per quelle pene inferiori ai sei anni. Però ci si deve arrivare in sentenza. Perché la sintesi qual è? Che intanto il parlamento dice quali sono i reati che vanno perseguiti ai procuratori capo che sono nominati dal Csm, procuratori che hanno potere di vita o di morte sulle indagini più delicate. Con il meccanismo dell’improcedibilità il 50 percento dei processi rischiano di cadere nel nulla e i giornalisti non potranno nemmeno parlarne. Insomma, il primo gennaio del 2025 ci sveglieremo in un Paese migliore, più buono, e senza aver compiuto un solo atto per meritarlo. Il silenzio è l’arma migliore per rendere una persona più ignorante ma anche meno libera, perché la libertà deriva dalla consapevolezza, la consapevolezza deriva dalla conoscenza che deriva anche in parte dall'informazione.
Cara Report, criticare il 41bis non è reato. Ora anche la riforma Cartabia e il giornalista Alessandro Barbano finiscono nel mirino della trasmissione. Che è riuscita a trasformare anche la ministra in una radicale antitoghe. Davide Varì su Il Dubbio il 15 giugno 2022.
Dopo averci spiegato le ragioni dei carnefici di Mosca – con tanto di ringraziamento da parte dell’ambasciata russa in Italia -, e dopo aver fatto strame di diritti e garanzie, lunedì sera Report ha provato ad affossare la riforma della giustizia Cartabia perché, – udite, udite – “mina per sempre la separazione dei poteri”.
E per svelare il disegno occulto che si nasconderebbe dietro la riforma Cartabia, Report ha deciso di partire da una sua vecchia e mai sopita passione: Matteo Renzi (sic!). Anzi, dall’intervento che Alessandro Barbano – intellettuale, giornalista e straordinario commentatore del nostro giornale – fece alla Leopolda e nel quale osò criticare sia l’abuso del 41bis (critica condivisa con i giudici della Cedu) sia la gestione dei beni confiscati alla mafia. Ora, che la confisca dei beni della mafia sia un pozzo nero nel quale si celano arbitrio e opacità, è un fatto riconosciuto anche dalle prime file dell’antimafia da parata; così come è facilmente dimostrabile che le confische, gli scioglimenti dei comuni e le interdittive antimafia non solo abbiano avuto scarsi effetti sulla lotta al potere mafioso, ma nella gran parte dei casi hanno ridotto in poltiglia un’economia, quella meridionale, che di tutto aveva bisogno fuorché di un intervento di questo tipo.
Non è certo un mistero, infatti, che le interdittive antimafia stiano massacrando l’economia di Calabria, Campania, Sicilia e Puglia. Interdittive che non nascono da processi ma da semplici segnalazioni di presunte infiltrazioni mafiose per una parentela “sbagliata” o per un caffè consumato con persone “discutibili”. Insomma, voci, chiacchiericci e spifferi che vengono ingigantiti da informative mai passate al vaglio di un giudice, ma che pure finiscono sulla scrivania dei prefetti che con una semplice firma, e sulla base di un semplice sospetto, hanno il potere di azzerare un’azienda e con essa migliaia di posti di lavoro. Ma come nel più classico dei pamphlet populisti, dire queste cose, secondo Report, significa sostenere la mafia. E a puntellare il teorema, a metà puntata, è arrivata l’immancabile carrellata di Pm: da Nino di Matteo a Nicola Gratteri, i quali non hanno grandi successi investigativi alle spalle, ma di certo una “buona stampa”, quella sì.
Ma come dicevamo il vero obiettivo di Report era la riforma Cartabia perché, come ha spiegato sicuro Ranucci – mette in discussione, anzi mina, la separazione tra potere giudiziario ed esecutivo. Il motivo? Il fatto che il parlamento indichi quali siano i reati da perseguire, e un non meglio specificato ruolo di coordinamento che dovrebbe assumere il ministero della giustizia. Una cosa che non dovrebbe preoccupare poi molto, visto che le poltrone che contano di via Arenula sono occupate da magistrati fuori ruolo. Ma è nel gran finale di puntata che il tono di Ranucci si fa grave e serio: “Da questa sera chi voterà la riforma Cartabia – ha dichiarato – non potrà dire io non sapevo”: Applausi! Insomma, ci voleva Report per trasformare Cartabia in una radicale antitoghe.
Referendum, pochi voti e manco tanto garantisti: i sì poco sopra al 50%. Angela Stella su Il Riformista il 14 Giugno 2022.
Oramai i dati sono definitivi: il referendum sulla ‘giustizia giusta’ promosso dal Partito Radicale e dalla Lega ha fallito. L’affluenza è stata in media del 20,88%, il dato più basso mai raggiunto. E anche laddove si è votato per rinnovare il Consiglio Comunale come Padova, L’Aquila, Palermo il quorum si è fermato al 30%. Dunque obiettivo lontanissimo. Per raggiungerlo avrebbero dovuto votare quasi 26 milioni di italiani, invece hanno espresso il loro parere sui cinque quesiti circa 10 milioni di cittadini. Il dato consolatorio per il Comitato per il Sì è che i No hanno perso. Guardiamo i singoli quesiti. Abolizione del decreto Severino: Sì 53,61%, No 46,39%. Abuso della custodia cautelare: Sì 55,82%, No 44,18%. Separazione delle funzioni tra magistratura requirente e giudicante: Sì 73,73%, No 26,27%. Voto dei membri laici nei Consigli giudiziari: Sì 71,69% No 28,31%. Elezioni dei membri togati del Csm: Sì 72,17% No 27,83%.
Cosa ci dicono queste percentuali? Innanzitutto occorre ripensare l’istituto referendario perché l’80% degli italiani non è andato a votare. Il quorum serve ancora? E qualcuno davvero può cantare vittoria se uno strumento di democrazia è stato così ampiamente disertato? Ma perché è accaduto questo? Di certo esiste un 30% di astensione fisiologica a cui si sono aggiunti altri fattori, Sicuramente l’informazione non ha fatto il suo dovere: l’Agcom ha certificato che nel periodo 7 aprile-21 maggio i telegiornali Rai hanno dedicato al tema un’ora, 51 minuti, 22 secondi, pari allo 0,3 per cento dell’intera programmazione; gli extra-tg di testata hanno parlato dei quesiti per un’ora, 21 minuti e 31 secondi, pari allo 0,23 per cento del totale. Quasi inutile l’accelerazione informativa delle ultime due settimane e qualche correttivo per ripristinare la par condicio.
Poi vi è stato l’intervento della Corte Costituzionale che ha bocciato i quesiti sul fine vita, cannabis e responsabilità diretta dei magistrati, quelli cioè che avrebbero dato più entusiasmo agli elettori per andare alle urne. Come ha scritto il leader dell’Associazione Luca Coscioni Marco Cappato nella sua newsletter, «I partiti che avevano il maggiore interesse a far fallire i referendum -incluso sulla giustizia- erano quelli di centrosinistra. Votare su eutanasia e cannabis li avrebbe costretti a scegliere se stare dalla parte dei propri elettori o da quella del Vaticano. L’affluenza al voto avrebbe anche consentito di raggiungere il quorum sul pacchetto giustizia, osteggiato dalla corporazione dei magistrati. Un doppio disastro. Anche a destra non avrebbero visto di buon occhio l’idea di perdere sui diritti civili, seppure con parziale soddisfazione sulla giustizia. La decisione della Corte è stata provvidenziale. Non sto sostenendo che si siano riuniti una notte sotto qualche cavalcavia Letta, Conte e Meloni per consegnare gli auspici propri e della Conferenza Episcopale Italiana nelle sottili mani di Giuliano Amato. Su certe cose non serve parlare per capirsi».
Non possiamo dimenticare la Lega che ha iniziato davvero a fare la campagna solo nelle ultimissime settimane. Ricordiamo cosa disse Matteo Salvini a metà aprile al Corsera? «I primi 5 titoli dei tg sono sulla guerra, il sesto sul covid, il settimo sulle bollette. Parlare di separazione delle carriere dei magistrati è difficile: per questo preferisco parlare di casa, di risparmi e magari flat tax. Ma io spero di arrivare a maggio con il covid archiviato e la guerra ferma». Ed anche per questo è arrivata la sconfitta. Tuttavia la vittoria dei Sì spinge ad ulteriori riflessioni. La percentuale sopra il 70 per cento dei quesiti su separazione funzioni, voto dei laici nei mini Csm e elezioni dei magistrati al Csm ci dice che gli elettori auspicano la figura di un giudice terzo ed imparziale che non si faccia contagiare dall’atteggiamento accusatorio di un ex pm, che occorre più trasparenza nelle valutazioni dell’operato dei magistrati e che bisogna evitare uno secondo scandalo delle correnti per l’elezione dei togati a Palazzo dei Marescialli.
Invece la percentuale poco sopra il 50% degli altri due – Severino e abuso della custodia cautelare – ci porta a dire che probabilmente la presunzione di innocenza è ancora un concetto poco introiettato dalla popolazione. E che la Lega ha sicuramente sbagliato a sceglierli, considerato il proprio elettorato e quello dell’alleato di Fratelli d’Italia. Questi due sono stati i quesiti più attenzionati mediaticamente e sui quali è stata spesso fatta anche una certa disinformazione disegnando scenari apocalittici: i mafiosi si potrebbero candidare, le donne non avrebbero più tutela, i criminali più feroci rimarrebbero a piede libero. Insomma si è creato un allarmismo, spesso ingiustificato, che ha avuto come risultato quello che abbiamo visto. Angela Stella
Chi ha vinto con il flop dei referendum: l’Anm gongola, rissa tra Caiazza e radicali. Angela Stella su Il Riformista il 14 Giugno 2022.
Il day after i risultati definitivi sui referendum è tempo di bilanci ma anche di polemiche. C’è chi entra nel merito dei quesiti, chi non ammette la sconfitta, chi esulta, chi chiede di ripensare l’istituto referendario, chi addirittura, dopo anni di battaglie insieme, si tira i piatti. Volano gli stracci infatti tra Partito Radicale e Unione Camere Penali. Il presidente dei penalisti Gian Domenico Caiazza in una intervista di ieri al Corsera ha parlato di “improvvisazione” criticando duramente la decisione del Pr di appaltare esclusivamente alla Lega la scelta e la scrittura dei quesiti e ha stigmatizzato anche lo sciopero della fame di Roberto Calderoli: «Lasciamo stare queste caricature di altre storie politiche che non meritano questo», aveva detto.
Non si è fatta attendere la replica di Maurizio Turco e Irene Testa, segretario e tesoriera del Prntt. Nel ringraziare «i 10 milioni di cittadini che si sono recati alle urne nonostante tutto e tutti» e nell’annunciare che «adesso si aprirà una stagione straordinaria di proposte di legge di iniziativa popolare, una carta dei diritti e delle libertà, programma di governo per la prossima legislatura. Dalla responsabilità civile diretta dei magistrati, al rientro nei tribunali dei magistrati fuori ruolo; dalla riforma della RAI, all’abolizione dell’ordine dei giornalisti» i due dirigenti hanno anche espresso «solidarietà in particolare a Roberto Calderoli per l’attacco ricevuto dal Presidente dell’Unione delle Camere Penali» ma altresì «ai penalisti dell’Ucpi esposti dal loro Presidente a cancellare decenni di rapporti del Partito Radicale, nonché anche personali con i Presidenti Giuseppe Frigo, Ettore Randazzo, Valerio Spigarelli e, infine, Beniamino Migliucci, con il quale abbiamo promosso e raccolto insieme le firme sulla proposta di legge costituzionale per la separazione delle carriere».
Guardando altrove, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha parlato di «segnale chiarissimo da parte del corpo elettorale sul fatto che alcune scelte, quali la separazione delle funzioni, sono sbagliate». Ora, con la ripresa della discussione della riforma del Csm a Palazzo Madama, «vedremo cosa accadrà in Parlamento: mi aspetto – ha concluso – che vengano ascoltate le indicazioni del corpo elettorale, il legislatore ne prenda atto, non si può far finta di nulla». Giudizio netto anche quello della responsabile giustizia del Pd, la senatrice Anna Rossomando: «Chi ha provato a strumentalizzare la Giustizia, ha perso. Avevamo ragione a dire che le riforme Cartabia rappresentano la strada giusta. Ora è necessario approvare subito la riforma del Csm». Il leader di Iv Matteo Renzi ha scritto ieri nella sua E-News: «Leggo tanta ironia contro chi è andato a votare per il referendum sulla giustizia, pur sapendo che raggiungere il quorum era praticamente impossibile, dopo che i quesiti più sentiti erano stati respinti. Mi sembra ingeneroso. Ci sono sette milioni di italiani che hanno chiesto di dare priorità a una riforma della giustizia vera. Prenderli in giro solo per attaccare uno dei promotori è assurdo».
È tornato a parlare anche Matteo Salvini: «Avanti di questo passo nessun referendum raggiungerà mai il quorum, una riflessione sul quorum va fatta. Il referendum è stata una grande occasione, mi spiace che qualcuno a sinistra esulti, che qualcuno goda della non partecipazione al voto mi sembra miope perché avere una giustizia non miope conviene anche ai sindaci del Pd». Che si debba ripensare il quorum lo sostiene anche Riccardo Magi, presidente di +Europa, «se no i referendum continueranno a fallire, perché vincerà sempre il partito del non voto». Per il ministro per i rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, «tutte le forze politiche hanno l’obbligo di portare avanti una riflessione profonda sui motivi che determinano l’astensionismo di protesta e quello dovuto alla disaffezione così come è necessario fare una profonda analisi sull’utilizzo degli strumenti referendari. Ci sono ragioni culturali e politiche ineludibili che vanno affrontate ora, accanto all’impegno per rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono una piena partecipazione».
Mentre per il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto: «Il mancato voto non significa voto contrario. E bisogna avere sempre grande rispetto per la democrazia diretta, che è il contrappeso della democrazia parlamentare. Inevitabilmente ora dobbiamo portare a termine la riforma dell’ordinamento giudiziario, prendendo atto che, comunque, vi è stato uno stimolo chiaro al recupero e alla difesa dei valori costituzionali». Angela Stella
Matteo Salvini, chi ha detto sì al "metodo-Palamara" pur di colpire il leghista: una scomoda verità. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 15 giugno 2022.
Il fallimento romanzesco di un pugno di referendum sacrosanti e "sollecitatori" («indispensabili per sbloccare una crisi causata anche dai magistrati», osserva Sabino Cassese) sta tutto in uno strano paradosso. Per affossare Salvini si è perpetuato, e legittimato, il "metodo Palamara". Pur di non darla vinta alla Lega, la si è data vinta al Sistema. Contenti loro. Sicché il Csm non verrà sfiorato, nella sua composizione fatta di lobbysmo, da alcuna rivoluzione; il carcere preventivo causerà ancora 8mila ingiuste detenzioni l'anno (altro che meglio un colpevole libero che un innocente in galera); molti magistrati continueranno ad usare la Severino come una Vergine di ferro medievale e molti altri butteranno del tutto a mare la separazione delle carriere e il divieto di "porte girevoli" nonostante gli anatemi dell'Europa contro le nostre toghe.
ANCORA LE CORRENTI
In sintesi, la giustizia viene ancora una volta costretta a crocefiggersi su quella giostra di spinte correntizie, di veti incrociati, di decisioni calate dall'alto non tanto in virtù della meritocrazia ma dell'appartenenza. Il "sistema Palamara", appunto. Non si è nemmeno finto di cambiare tutto perché nulla cambiasse. Ma forse, a parte i Radicali, il non- voto è stato trasversale almeno quanto il voto. Secondo una stima Opinio per la Rai il 52,3% dei votanti è di centrodestra, e il 26,4% di centrosinistra. Nel dettaglio: il 21,5% dei votanti è del Pd più 4,9% dell'altra sinistra; il 23,9% di Fratelli d'Italia; l'8,8% di Forza Italia; il 2,1% di Italia Viva, e il 17,5% della Lega. La quale Lega, diciamolo, pur essendone promotrice con i Radicali, e nonostante i digiuni di Calderoli, non s' è mai ammazzata nel difendere i referendum. Non ha mai nemmeno depositato - per dire- le firme raccolte, perdendo così il diritto alle tribune referendarie.
Ora, si è detto di tutto su questo tonante fallimento: i quesiti erano incomprensibili; l'istituto del referendum è oramai logoro e abusato come una marsina mal lavata (negli ultimi quarant' anni ne sono stati evocati 666, proposti solo una settantina); c'è stata una cattivissima informazione, con la Rai che, dedicando solo lo 0,3% alla causa, ha fatto un pessimo servizio pubblico. Tutto vero. Ma, insomma, è inutile girarci attorno. L'astensionismo all'80% resta un macigno inamovibile; ed è stato aggravato dal fatto che, dove si votava perle elezioni amministrative, «era così delegittimato lo strumento referendario che addirittura i cittadini dentro i seggi hanno rifiutato direttamente le schede del referendum e preso solo quelle delle elezioni comunali», come ben sottolinea il presidente della Camera penale di Milano Vinicio Nardo. Il quale - non so come - vede, da avvocato, il bicchiere mezzo pieno. E nota delle differenze importanti che spiccano tra le percentuali «del sì tra il 50% e il 60% per quello sulla legge Severino e quello sulla custodia cautelare e invece le percentuali plebiscitarie sugli altri tre referendum arrivati con i sì sopra il 70%».
NIENTE "GOLPE"
Cioè: comunque chi è andato a votare ha votato decisamente per il "sì". Non è di grande consolazione. Ad un'analisi ottimistica, ciò può spingere il Senato ad un vaglio molto attento della prossima riforma Cartabia sulla Giustizia nella parte già peraltro approvata dalla Camera. Sempre che i magistrati, ebbri del fallito "golpe", non siano tentati di annacquarne ulteriormente il testo che è già un brodino insipido. Ma Giulia Bongiorno, anima giuridica della Lega, previene qualsiasi fuga in avanti delle toghe, portandosi avanti col lavoro: «La riforma Cartabia è in realtà una correzione di alcuni punti del sistema, una correzione positiva ma poco incisiva, blanda. Noi vogliamo renderla più incisiva e cercheremo di migliorarla. Ma non immaginiamoci una rivoluzione. Quella era possibile con i referendum e ora sarà ancora possibile, ma con un percorso più tortuoso». Così la sconfitta verrebbe ridimensionata. Ma "il Sistema", per ora, continua a punteggiare il corso accidentato della giustizia...
La grande sconfitta di Salvini, il garantista con la forca in mano. Non bastavano i guai con la Russia e i sondaggi poco lusinghieri, ora il leader leghista resta pure col cerino in mano dei referendum. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 13 giugno 2022.
Non bastavano i guai con la Russia e i sondaggi poco lusinghieri, ora Matteo Salvini resta pure col cerino in mano dei referendum.
Il fallimento dei quesiti, infatti, porta una sola firma e un solo volto: quello del leader della Lega, l’unico esponente politico di peso, gli va dato atto, ad aver lanciato il cuore oltre l’ostacolo nella battaglia per una “giustizia più giusta”.
Ma il cuore, in certe imprese, non basta, serve informazione e credibilità. Se la prima è mancata totalmente sui media italiani non certo per colpa di Salvini, la seconda invece è una lacuna tutta attribuibile al capo leghista. Non si può infatti sventolare in faccia ai cittadini la bandiera del garantismo con una mano e impugnare una forca nell’altra, pretendendo di apparire credibili. E il Carroccio resta una forza contradditoria, pronta nei giorni pari a chiedere di “buttare via la chiave” per qualsiasi ladro di polli e nei giorni dispari eccola in piazza a raccogliere le firme insieme ai Radicali per chiedere un limite alla custodia cautelare.
Va bene dunque il colpevole silenzio dei mezzi d’informazione, ma sul flop referendario ha pesato anche la scarsa credibilità dei proponenti. Perché quello di Salvini è sembrata solo l’ennesimo tentativo di distinguersi dal governo di cui fa parte puntando su una battaglia a caso pur di fare un po’ di casino. Il risultato è un disastro, l’ennesimo, che ricadrà sul futuro politico dell’aspirante leader del centrodestra.
I manettari festeggiano la (loro) sconfitta. Manettari a caccia di Salvini per nascondere i guai dei Pm. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 14 Giugno 2022.
Roberto Calderoli ci ha messo il corpo, un corpo già colpito dalla malattia, con un lungo digiuno. Matteo Salvini ha sfidato un pezzo di popolo leghista (e una parte del se stesso che fu) che, se pur ha da tempo rinnegato quel cappio a Montecitorio che è sempre stato solo iniziativa individuale, non ha ancora del tutto assorbito la cultura di chi la chiave della cella non vuole buttarla perché non esiste neanche la cella, o si vorrebbe non esistesse.
Pure questi referendum, bocciati domenica, non dai cittadini del no ma da un astensionismo significativo quanto lo è ormai da trent’anni non solo sulla consultazione diretta, ma anche sulle elezioni politiche e amministrative, fanno parte della cultura radicale. Matteo Salvini e la Lega, probabilmente sulla scia dell’avvocato Giulia Bongiorno e anche di qualche ferita non rimarginata nelle amministrazioni locali colpite dalla “legge Severino”, hanno svoltato sulla giustizia in modo improvviso, e clamoroso. Lo denuncia in modo molto critico (e un po’ ingeneroso sul digiuno di Calderoli, definito “caricatura”) il presidente dell’Unione Camere Penali Giandomenico Caiazza, che con qualche ragione lamenta l’improvvisazione e l’autoreferenzialità con cui i quesiti referendari erano stati presentati in conferenza stampa con un accordo a due, da Salvini e dal segretario del Partito Radicale Maurizio Turco, senza quell’ampia consultazione anche di “tecnici” che in passato avevano caratterizzato il partito di Marco Pannella.
Ma la svolta c’è stata, e che svolta. Non è un caso che il “dagli a Salvini” sia diventato sport nazionale nel mondo dei tagliagole. Come se il leader della Lega avesse tradito, come fosse diventato un Berlusconi qualunque, in lotta con le toghe. Ma il percorso ormai è avviato, pur con le sue contraddizioni. Come non notare l’abisso tra la corsa alle armi, in salsa un po’ americana, per l’autodifesa, spinta fino a proporre la non processabilità di chi ha tutelato anche con reazioni forti l’incolumità propria, della famiglia e della proprietà, e il quesito referendario che vuole limitare il ricorso alle misure cautelari? La contraddizione non è questione di lana caprina e non riguarda neppure il garantismo contro il giustizialismo. È invece la differenza che passa tra la sostanza e la forma. È farsi crociani, prima ancora che cultori dello Stato di diritto. Perché quel quesito era tutt’altro che banale. Semplicemente proponeva di spazzare via una logica da cultura del sospetto, quello che sarebbe, secondo alcuni antenati del mondo Cinquestelle, l’anticamera della verità. Il punto quindi non è di legare le mani al pm e al giudice, limitando a due invece che a tre le condizioni presupposto per le misure cautelari (spesso il carcere), ma di modificarne la qualità. Se ti sto indagando per un determinato reato, non potrò metterti in carcere per il sospetto che in futuro potresti compiere altri reati dello stesso tipo. Semplicemente perché non so ancora se hai già commesso un delitto o se sei estraneo al fatto che ti contesto.
Certo, l’impronta radicale è stata forte su questi referendum. L’hanno ignorata (volutamente) i partiti politici e quello dei Pubblici ministeri, cui è stato utile scatenare la consueta caccia al cinghialone, già sperimentata in sede referendaria contro l’altro Matteo, Renzi. L’astensionismo, in questo caso malattia infantile del giustizialismo, ha preso la mira direttamente contro Salvini, lasciando in ombra, del tutto inosservato, il NO ai quesiti. Ma il NO ha perso, occorre ricordarlo. Con percentuali importanti sulla “legge Severino” (53,97% i SI, 46,03% i NO) e la custodia cautelare (56,12% SI e 43,88% NO), ma addirittura clamorose sulla separazione delle funzioni, dove i voti favorevoli arrivano al 74%, lasciando indietro a un misero 25,99% i voti contrari.
Questa battaglia per dividere chi indaga e accusa da chi deve giudicare, è proprio passata nella testa della gente. Ed è veramente un peccato che l’abilità di Giuliano Amato, il vero “dottor sottile” della storia politica dell’Italia, abbia portato la Corte Costituzionale senza alcuna ragione logica, visto che lo stesso quesito era stato già votato dai cittadini italiani, a escludere dalla consultazione la responsabilità diretta dei magistrati che sbagliano. Perché l’abbinata tra la logica del “chi rompe, paga” e la necessità di non essere giudicato dall’amico di chi mi ha accusato, avrebbe rotto l’incantesimo del miraggio di una giornata al mare. Certo, la Consulta ce l’ha proprio messa tutta per stimolare lo spirito vacanziero, accantonando ogni possibile discussione sul fine vita e sulla marjuana. Ma non va sottovalutata l’eco dei libri di Sallusti e Palamara. Dei magistrati ormai la gran parte delle persone non si fida più. Ma forse neanche dei referendum, vista la capacità del Parlamento di calpestare il volere popolare, come accadde appunto dopo il voto clamoroso sulla responsabilità civile delle toghe.
Per questo fanno un po’ ridere le parole della senatrice Rossomando, responsabile giustizia del Pd, secondo la quale le riforme sulla giustizia si fanno in Parlamento. Si potrebbe sapere di quali leggi sta parlando? Le ultime che ricordiamo risalgono ai tempi dei governi Berlusconi, mentre il Pd (e i suoi antenati) non hanno fatto altro in tutti questi anni che appoggiare passivamente le posizioni conservatrici e reazionarie del partito dei pubblici ministeri. Oltre a tutto, con la visione politica “larga” del segretario Enrico Letta, il Pd si ritrova anche a portare sulle spalle la zavorra di Travaglio e i Cinquestelle. I quali hanno ieri esibito la consueta raffinata cultura giuridica, qualificando i quesiti referendari “proposti dalla Lega” (i radicali sono cancellati) come inutili e pericolosi, perché avrebbero riempito il Parlamento di criminali e mafiosi. Sanno come colpire, anche sotto la cintura, gli allievi di Beppe Grillo. E non è escluso che, con questi argomenti, possano far breccia in quella parte del mondo leghista che forse è ancora disorientata dal nuovo corso del partito sulla giustizia.
Ma sono ancora attuali i processi contro Salvini per i blocchi delle navi. E tutti hanno letto le parole di Luca Palamara che diceva al collega “Sì, il leader della Lega ha ragione, ma dobbiamo attaccarlo”. E dirigenti importanti come i due capigruppo alla camera e al Senato come Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari, oltre al ligure Edoardo Rixi, hanno toccato con mano la ferocia assurda dei processi cosiddetti delle “spese pazze” dei consiglieri regionali. E lo stesso ministro Garavaglia è stato torchiato non poco dalla magistratura milanese prima di essere assolto in primo e secondo grado, dopo il ricorso di prammatica del pm. Il che ci riporta alla memoria dell’importante riforma di Gaetano Pecorella che fu ghigliottinata dalla Consulta. Inutile far finta di niente. Lo stesso Matteo Renzi non era certo garantista quando decretò con il suo “game over” la cacciata di Berlusconi dal Senato con un’interpretazione retroattiva della “legge Severino”.
Quanto è cambiato dopo le inchieste su di lui e la sua famiglia! Ovvio che anche nel mondo del Carroccio certe sensibilità si siano affinate dopo qualche bruciante esperienza giudiziaria personale. Ma dobbiamo apprezzare i passi in avanti. Ora occorre prenderli un po’ per mano, i leghisti, così come è stato già fatto con Renzi. Ci pensa, in un’intervista sulla Repubblica di ieri, il deputato di +Europa Riccardo Magi, che propone anche una ricetta che eviti il fatto che il mancato raggiungimento del quorum venga contrabbandato per successo dei NO. Cosa che non è. L’incentivo per mandare le persone al voto, comunque la pensino, potrebbe essere quello di “legare la validità del referendum al 25% dei favorevoli”. E andrebbero anche “ridefiniti i poteri della Corte Costituzionale nel giudizio di ammissibilità, perché sono ormai andati oltre la lettera della Carta”. Intanto al Parlamento il compito di approvare la riforma Cartabia, soprattutto per l’urgenza del Csm in scadenza. Il solito pannicello caldo che ha il merito di non fare il solletico a nessuno. Infatti piace al Pd e ai Cinquestelle, soprattutto. Ma il sindacato dei magistrati, incontentabile, ha anche tentato uno sciopero fallimentare. Già dimenticato, perché la priorità è sempre e comunque la caccia al cinghialone, l’attività preferita delle toghe. Inquirenti o giudicanti che siano. Per loro è indifferente.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Lo stato di diritto è una chimera. Referendum sulla giustizia: Pm e procure in trionfo, sconfitti i garantisti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Giugno 2022.
I referendum li ha vinti il partito delle Procure. A me sembra sciocco negare questa evidente realtà. Va riconosciuta per due ragioni: la prima, quella semplice: per onestà. I giornali (anche se non è così) dovrebbero essere onesti. La seconda è perché bisogna prepararsi a quello che succederà. Già ieri il capo dell’Anm (che è il nucleo centrale del partito dei Pm) ha dichiarato che ora è aperta la battaglia addirittura per fermare la mini-riforma Cartabia. Nessuno può dubitare che da questo momento è iniziata la controffensiva delle Procure, che nell’ultimo anno e mezzo avevano ricevuto diverse botte e ne erano uscite un po’ ammaccate. Rialzano la testa e si preparano al grande attacco reazionario. Con un discreto sostegno popolare.
I dati parlano chiarissimo. L’ottanta per cento degli elettori, cioè quasi 40 milioni di persone, si sono dichiarati disinteressati o addirittura contrari a una serie di provvedimenti che avrebbero potuto ridurre il potere delle Procure e delle correnti in magistratura. Parlo delle astensioni. Poi a questi elettori si sono aggiunti altri milioni che hanno votato No. Il referendum più importante – perché carico di valore ideale – era quello che puntava a ridimensionare le possibilità per i Pm di usare la carcerazione preventiva come strumento di indagini o di punizione anticipata. In quel referendum il 45 per cento degli elettori che non si è astenuto ha votato No. Ha detto in modo esplicito: più carcere. Il numero dei Sì è stato davvero ridottissimo. Credo inferiore ai cinque milioni. È giusto partire da qui per cercare di interpretare senza tanti sofismi il risultato del referendum. Il rapporto di forza tra Italia garantista e Italia giustizialista è più o meno questo: uno a nove.
È inutile dire: no, ma ci sono le sfumature. Non c’è nessuna sfumatura: volete lasciare ai Pm il potere di mettere in prigione la gente senza che sia stata condannata, pur sapendo che ogni anno vengono arrestati 1000 innocenti? Questa era la domanda. Non esiste una risposta mediana. Esiste chi pensa che questa situazione sia un abominio e perpetui una condizione di sopraffazione e di potere fisico incontrollato da parte di circa 2000 persone (i Pm) sul resto della popolazione, e che quindi vada radicalmente cambiata; e chi pensa che invece non è poi detto che quei 1000 innocenti siano innocenti davvero, ma magari sono solo salvi perché hanno bravi avvocati, e che comunque anche se fossero innocenti sarebbe il giusto prezzo da pagare alla sicurezza o alla dittatura dell’etica. L’alternativa è secca, e il referendum l’ha fotografata. Ha vinto il partito delle prigioni. Ha perso il partito del diritto e della Costituzione.
Ed è anche inutile dire che il potere ha fatto di tutto per far fallire questo referendum. Verissimo: il potere ha fatto di tutto. Ma il potere fa sempre di tutto per portare l’acqua al mulino proprio, e il mulino dove oggi scorre l’acqua impetuosa è quello: quello delle Procure. Potevamo anche ottenere qualcosa di più dalla Rai, dai giornali, ma forse no. La Rai e i giornali, da 30 anni almeno, sono al servizio delle Procure. E comunque, anche se avessero dato un po’ più di spazio ai referendum, il quorum non sarebbe aumentato di molto. Chi voleva votare sì, perché era convinto, è andato a votare. E oggi è sconfitto. Il mio non è cupo pessimismo. Cerco di essere realista. La battaglia garantista resta viva, ma di sicuro oggi sappiamo quanto sia una battaglia di esigua minoranza. La stessa differenza tra i risultati dei tre referendum più tecnici e forse meno essenziali (quelli sul Csm, sulla separazione delle carriere e sulla valutazione dei magistrati) e quelli dei due referendum più politici (Severino e custodia cautelare) ci dimostra che anche nel cuore di un presunto fronte liberale il tampone del garantismo da esito negativo. Un terzo di coloro che hanno votato Si ai referendum tecnici, hanno poi votato no alla liberalizzazione delle carceri e all’abolizione della Severino. Vogliamo tenerne conto?
Cosa vuol dire questo dato? Che anche un certo venticello di sfiducia verso la magistratura, che negli ultimi due anni, dal caso Palamara in poi, aveva dato un po’ di freschezza alla discussione sulla giustizia, era un venticello e basta. Un modo, probabilmente anche un po’ qualunquista, di tirare sul quartier generale, non di mettere in discussione l’autoritarismo e di sollecitare una svolta garantista e favorevole al Diritto. Molta gente si è limitata ad assimilare la magistratura agli altri poteri, e dunque a giudicarla corrotta. Ma infischiandosene del valore della libertà. La maggioranza degli elettori resta convinta che il problema non sia quello di ridurre la repressione da parte dello Stato ma invece quello di reprimere di più i propri nemici e di meno i propri amici. Non so se è stato un errore promuovere un referendum con così poche possibilità di vincerlo. Io, per esempio, in questo referendum ci credevo. Sicuramente c’è stato un errore di valutazione. In politica succede. Non mi sembra che sia una discussione interessante, a questo punto. La discussione deve riguardare il futuro e deve riguardare i rapporti da stabilire tra garantisti e mondo politico.
Il mondo politico si è comportato in modo vigliacco di fronte al referendum. Ha mostrato al solito la sua paura, la sua subalternità al partito dei Pm. Tranne poche eccezioni: pochissime. Diciamo un pezzettino di Lega e un pezzo di Forza Italia. Oltre, naturalmente ai radicali. Gli altri, o assenti, o trincerati dietro alle lance del fronte giustizialista. Come ha fatto il Pd. Questo è un problema. Io non credo che possa avere successo nessuna battaglia garantista, senza l’appoggio della sinistra. Oggi invece la sinistra, guidata da Letta, è alla coda dei reazionari, dei 5 Stelle, di Fratelli d’Italia. Come è possibile? Credo che questa sia una questione cruciale. La sinistra, se non recupera la sua vocazione garantista, rischia di diventare un blocco conservatore senza respiro e senza anima. Travolta dai suoi riflessi democristiani o dai suoi riflessi stalinisti o da tutti e due. Se non c’è una svolta nella sinistra il garantismo non ha futuro. E la sinistra nemmeno.
Io ricordo il mio passato. Ricordo il Pci. E ricordo anche che tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta fu protagonista di due grandi riforme: l’abolizione dei manicomi, secondo un progetto di Franco Basaglia, e la liberalizzazione delle carceri, secondo un progetto di Mario Gozzini. Due riforme importantissime. Di gigantesco valore culturale. Sapete chi si oppose? Credo solo la destra di Almirante: il Msi. Il Pd deve scegliere: sta con Basaglia e Gozzini o sta con Almirante? Sono due scelte dignitose entrambe, intendiamoci: ma non intercambiabili.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Il risultato referendario. Repubblica, Fatto e Domani hanno boicottato il referendum: ma comunque 10 milioni di elettori sono andati al voto. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Giugno 2022.
Spira sull’Italia il vento del garantismo? Pare di sì, nonostante solo un cittadino su cinque sia andato a votare per i referendum sulla giustizia. Intanto perché stiamo sempre parlando di circa dieci milioni di persone, donne e uomini che hanno sfidato il silenzio elettorale del sistema informativo pubblico, la data unica nel giorno più caldo dell’anno, il boicottaggio esplicito di quotidiani come Repubblica, Il Fatto e Domani, la pusillanimità di quelli a maggiore diffusione, la disobbedienza civile di quello che il suo leader Enrico Letta definisce “il primo partito d’Italia”, il Pd. Ma soprattutto l’ostilità feroce e ricattatoria dei veri detentori del potere – quello di toglierti la libertà e quindi la vita – cioè gli uomini in toga. Dieci milioni di eroi, comunque abbiano votato, per il Sì o per il NO.
L’altro motivo per cui pensiamo che, nonostante le apparenze, il venticello del garantismo stia spirando e si stia facendo sentire, è stata la qualità del voto e del suo risultato. La percentuale “schiacciante”, come l’ha definita Carlo Nordio, dei voti positivi su ordinamento giudiziario, separazione delle funzioni e Csm, è lo specchio di una critica forte da parte di molti cittadini sulla fisionomia e il funzionamento della magistratura. È risibile che i rappresentanti del sindacato delle toghe gongolino perché non è stato raggiunto il quorum. Il fatto stesso che i voti siano stati differenziati, e che percentuali intorno al 75% abbiano bocciato l’attuale amministrazione della giustizia, dovrebbe far loro riflettere, perché si tratta dell’altra faccia della medaglia rispetto al fallimento della manifestazione del 16 maggio contro la riforma Cartabia.
Sono tanti i motivi per cui anche l’Italia, buona ultima dopo la Francia, dove un cittadino su due non va alle urne, più o meno come negli Stati Uniti, rivela sempre più una sostanziale pigrizia, che è ormai sfiducia, sia nei confronti degli istituti della democrazia rappresentativa che in quella diretta (cioè i referendum). Se solo la metà dei cittadini va a votare per un sindaco stimato come quello di Genova, per quale motivo lo stesso 50% dovrebbe correre alle urne per esprime la propria opinione su quesiti di cui si ritiene non riguardi direttamente la vita quotidiana dei cittadini? Cioè quello di cui si parla la sera a tavola o con gli amici. Immaginate le percentuali se si fosse trattato di decidere sul fine vita, o le frotte di giovani a votare sulla cannabis? Siamo pronti a scommettere anche sulla responsabilità diretta dei magistrati. E qui entriamo nel secondo motivo che tiene tanti cittadini lontani dalle urne. Ancora una volta è la sfiducia. Si dirà che il clima di oggi non è lo stesso di quello che nel 1987, in tempi in cui il quorum dei votanti era il 65%, ben otto cittadini su dieci si era espresso perché i magistrati pagassero personalmente per i propri errori.
Certo, c’era stato il “caso Tortora”. Ma quanti, reali o probabili, casi Tortora esistono oggi, dopo che Luca Palamara ha scoperchiato gli altarini dietro cui si nascondono certe decisioni di alcuni pm o giudici? Che cosa è successo dopo quel voto di allora? Non solo il fatto che la legge sancisce che sia lo Stato a mettere le toppe, pagando di tasca propria, per gli strafalcioni dei magistrati, ma anche che comunque tutti, ma proprio tutti (le famose maggioranze bulgare) restano impuniti. Sia sul portafoglio che sulla carriera. Inutile ripetere per la millesima volta le percentuali e i dati ufficiali. Il risultato del referendum è diventato carta straccia. Benché non ci sia stato consentito dalla Corte Costituzionale, e soprattutto dal suo nuovo Presidente Giuliano Amato, di votare su fine vita, cannabis e responsabilità civile, quelle percentuali così alte (stiamo sempre parlando di sette-otto milioni di voti, quasi l’intera Lombardia) di Sì su ordinamento giudiziario, separazione delle funzioni tra magistrati e Csm, mostrano come ormai il vento del garantismo miri a scompigliare le chiome delle toghe. E come, lo dice il professor Sabino Cassese, la questione giustizia sia diventata questione sociale. Per i tempi dei processi certo, ma anche perché i magistrati sono visti come troppo politicizzati e poco indipendenti, oltre che troppo inseriti negli altri corpi dello Stato, come il Parlamento e il Governo. Il Partito delle procure in particolare, è percepito come troppo vicino ad alcune forze politiche.
Si dirà che, nei risultati di domenica scorsa, se la stragrande maggioranza dei votanti ha bocciato l’ossatura medesima dell’ordinamento giudiziario, risultati diversi hanno riguardato i primi due referendum, quello sull’abrogazione della “legge Severino” e l’altro sull’attenuazione delle misure cautelari prima del processo. Si è premurato di farlo notare un articolo apparso ieri su Repubblica, in cui si constata che a Napoli, Torino e Modena sui primi due quesiti ha prevalso il NO. Beh, non è una così cattiva notizia, visto che si tratta solo di tre città, e che, da Trento a Trapani, passando per Venezia, Milano, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Ascoli Piceno, Perugia, Bari, Catanzaro, Palermo, Cagliari, è prevalso il Sì. E stiamo parlando comunque sempre del 54-55% di consensi, quindi in ogni caso di un’ampia maggioranza. E dei due quesiti su cui un partito, Fratelli d’Italia, decisamente in ascesa, ha dato una esplicita indicazione di votare NO. Parliamo di una forza politica conservatrice, che non ha mai dato segnali critici nei confronti di certi comportamenti della magistratura.
E parliamo anche di tematiche come la custodia in carcere e la sospensione di pubblici amministratori condannati che attengono molto ai problemi della sicurezza e della moralità pubblica. Sono due punti che probabilmente non sono passati inosservati neppure all’interno dell’elettorato della Lega. E su cui occorrerà ancora un po’ di tempo per spiegare anche a chi non è stato toccato da vicino, come siano questioni che ci riguardano tutti. Un po’ come i rischi di brutte malattie: si comincia a interessarsi sulla ricerca, sulla sua importanza fondamentale per la cura ma anche per la prevenzione, solo dopo che è successo qualcosa in famiglia. Ecco perché questo vento del garantismo che inizia a spirare non va trascurato. È una pianticella, ma siamo fiduciosi che diventerà un albero, molto presto.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il boicottaggio Rai, le barricate di sinistra e toghe: così hanno sabotato il referendum. Francesco Curridori il 13 Giugno 2022 su Il Giornale.
Il quorum sui referendum sulla giustizia non è stato raggiunto. Ora, la casta dei giudici può nuovamente tirare un sospiro di sollievo.
Ancora una volta ha vinto la casta, la conservazione. Quel quorum non raggiunto è un risultato che rappresenta l'ennesima occasione mancata per riformare la magistratura italiana. Meno del 23% degli italiani è andato a votare.
Il silenzio assordante che ha preceduto il referendum ha, di fatto, boicottato questa consultazione elettorale. La Rai ha praticamente censurato i quesiti tant'è vero che, solo dopo l'esposto dei radicali, si è tenuto su Raidue uno speciale di due ore sui cinque quesiti sulla giustizia. In più la comica Luciana Littizzetto, nel suo monologo a 'Che tempo che fa', ha platealmente fatto propaganda per l'astensione. Il Pd di Enrico Letta, fatta eccezione per uno sparuto gruppo di liberal garantisti che hanno votato per il Sì, ha contribuito a offuscare e nascondere l'esistenza stessa della votazione referendaria. Ecco, dunque, che complici il bel tempo, la chiusura delle scuole e, soprattutto, la scelta del governo di tenere le urne aperte per una sola giornata, la casta delle toghe è riuscita ancora una volta a restare indenne da qualsiasi operazione riformatrice. Ma non solo. A Palermo, la mancanza di presidenti di seggio e scrutatori ha impedito ai cittadini di votare per i referendum per svariate ore. Un problema che ha provocato un vespaio di polemiche.
Persa un'occasione per riformare la giustizia: referendum affossato. Al voto meno del 23%
Gli italiani dovranno, perciò, attendere forse a lungo prima che venga approvata la separazione delle funzioni tra giudici e pubblici ministeri. Il Parlamento, però, non potrà ignorare totalmente il segnale che arriva dalle urne, soprattutto per quanto riguarda la Legge Severino. Anche noti sindaci di centrosinistra come Giorgio Gori e Matteo Ricci si sono recati ai seggi per votare a favore della sua abolizione che penalizza molti amministratori locali condannati per il reato d'abuso d'ufficio. Esiste, però, il reale e concreto timore che il 'Sistema' descritto e rivelato da Luca Palamara non verrà scalfito come si auspicavano, invece, i promotori dei quesiti sull'elezione dei membri del Consiglio superiore della magistratura e sulla valutazione dei magistrati. Gli innocenti potranno restare in carcere preventivo in attesa del processo in cui verranno, poi, dopo 5, 6, 8 o 10 anni, assolti perché il fatto non sussiste, ma ormai la loro reputazione sarà già stata totalmente infangata. Poco importa se, nel frattempo, la loro vita professionale e/o privata è stata distrutta per sempre da un processo mediatico che non risparmia nessuno.
Nell'attuale situazione, è persino inutile denunciare gli errori della magistratura visto e considerato che il referendum sulla responsabilità civile non è stato neppure accolto dalla Corte Costituzionale. L'unica, altra arma a disposizione degli italiani era l'approvazione del quesito referendario sulla valutazione dell'operato dei magistrati da parte dei membri laici dei consigli giudiziari. Il mancato raggiungimento del quorum lascia irrisolti tutti e cinque i problemi posti dai quesiti referendari. Su alcuni temi interverrà (parzialmente) la riforma Cartabia, ma il nodo della malagiustizia continuerà a toccare, direttamente o indirettamente, tutti i cittadini italiani.
I quesiti di domenica 12 giugno. Referendum, cinque Sì per scalfire il potere che da 30 anni soffoca l’Italia. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Giugno 2022.
Mentre alcuni pubblici ministeri, o ex procuratori di prestigio come Giancarlo Caselli e Armando Spataro si affannano nella campagna per il no o per l’astensione sui cinque referendum di giustizia, altri famosi accusatori vedono a Brescia offuscata la loro “cultura della giurisdizione”, cioè la capacità di essere anche un po’ giudici. Sembra una nemesi anticipata della storia, quella che colpisce il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, responsabile del pool affari internazionali, e il pm Sergio Spadaro, oggi alla nuova Procura europea antifrodi. Perché oggi sono accusati dalla Procura di Brescia, che ne ha chiesto il rinvio a giudizio per “rifiuto d’atto d’ufficio”, proprio del comportamento opposto a quello rivendicato dalla casta dei togati per escludere la necessità di separare le carriere, o almeno le funzioni, tra chi nel processo fa l’accusatore e chi poi dovrà decidere, cioè il giudice.
Si parte dal processo Eni-Nigeria, quello su cui la Procura di Milano, quando il capo era Francesco Greco, aveva fatto un grande investimento anche sulla propria reputazione. Era stato costituito un apposito pool di affari internazionali, presieduto dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che si era impegnato, con il collega Sergio Spadaro, soprattutto nelle inchieste che riguardavano una serie di relazioni internazionali dell’Eni e il sospetto di gravi e lucrosi atti di corruzione. E in particolare quello con cui l’Ente petrolifero aveva cercato di ottenere le concessioni sul giacimento Opl-245, oggetto del processo terminato il 17 marzo 2021 con la clamorosa assoluzione di tutti gli imputati, a partire dall’ ad Claudio De Scalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni.
In attesa del processo d’appello –voluto da Fabio De Pasquale, ma che sarà sostituito in aula dalla pg Celestina Gravina, su decisione del vertice della procura generale- va constatato che è proprio sulla base del comportamento dei due pm nel dibattimento che la procura di Brescia ne ha chiesto il rinvio a giudizio. Perché i due magistrati avrebbero tenuto nascoste al tribunale le prove a discarico degli imputati. Avrebbero cioè violato la legge che impone all’accusa la capacità di farsi un po’ giudice, e se scopre qualche fatto che potrebbe giovare alla difesa, deve metterlo a disposizione del tribunale. È quella che i detrattori in toga del quesito referendario sulla separazione delle funzioni chiamano la “cultura della giurisdizione”, accusando i sostenitori del SI di volere un pm-sceriffo. Ma se tu pm hai a disposizione la registrazione video di un testimone dell’accusa, il quale, due giorni prima di presentarsi in procura ad accusare di corruzione i vertici Eni, preannunciava di avere intenzione di farli coprire da “una valanga di merda”, e la tieni nascosta, come deve essere qualificato il tuo comportamento? Lo stesso dicasi, sostiene la Procura di Brescia, per una serie di chat da cui emergerebbe l’intento calunnioso di quel testimone.
Nonostante questa vicenda sia sotto gli occhi di tutti, indipendentemente da come finirà l’aspetto strettamente giudiziario, una cosa è palese. Che se anche consenti, come capita oggi, al pm di fare passaggi di carriera e quindi di alternarsi con il giudice, un accusatore non sarà mai meno sceriffo. Dire il contrario è una colossale ipocrisia. Il codice di rito accusatorio, adottato (se pur timidamente) dall’Italia nel 1989, non prevede imbrogli né ambiguità. Le due parti, accusa e difesa, sono parti e il giudice, che sta sopra di loro, non deve avere nulla a che fare con nessuna delle due. Occorrerà arrivare all’abolizione del concetto stesso di magistratura, dunque, e a due carriere paritarie di accusa e difesa, ben distinte e distanti dal Giudice, termine che andrebbe sempre scritto con la maiuscola, per rispetto e deferenza.
Il motivo principale per cui il Partito dei pubblici ministeri, che esiste e sta resistendo con molta forza a qualche barlume di cambiamento, non vuole staccarsi dai giudici è il timore della perdita del potere di condizionamento. Troppe volte abbiamo dovuto assistere alla pedissequa ricopiatura, da parte di qualche gip, degli argomenti delle richieste del pm. Soprattutto quando si tratta di decidere sulla custodia cautelare in carcere. È inutile girarci intorno, la “colleganza” conta. Poi sarà anche vero, come ha detto di recente in un convegno l’ex procuratore di Milano Francesco Greco, che lui è andato al bar del Palazzo di giustizia più spesso con avvocati che con giudici. Magari alcuni legali gli erano più simpatici, ma diverso è far parte della stessa cucciolata, essersi nutriti alla stessa mammella e al mattino recarsi negli stessi uffici. Indossare una toga che, finché le carriere non saranno separate, sarà sempre diversa da quella dell’avvocato, che deve portarsela dallo studio, perché nel Palazzo non c’è un ufficio né un attaccapanni per lui.
Un referendum infilato nell’altro, dalla separazione delle funzioni alla custodia cautelare. Il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, calpestato in almeno mille casi all’anno da pubblici ministeri e giudici insieme. Perché uno chiede, ma l’altro è quello che concede, e se sbagliano, sbagliano in due, e se si accaniscono lo fanno in coppia. E se quel sospetto sul futuro, in cui una persona, ancora innocente secondo la Costituzione, potrebbe reiterare (cioè ripetere) un reato che forse, in un caso su due, non ha neanche commesso, può portare a un carcere ingiusto, aboliamo il principio. E votiamo per dire NO al carcere preventivo basato su quel sospetto. Ma la vera regina del sospetto è il Grande Algoritmo chiamato “legge Severino”, un meccanismo automatico di espulsione da luoghi elettivi o di governo su cui precedentemente avevano deciso i cittadini elettori.
Qui siamo addirittura persino all’esproprio dell’autonomia del giudice, svincolato dal diritto-dovere di decidere se il condannato debba essere anche colpito dall’interdizione dai pubblici uffici e, nel caso, per quanto tempo. Una norma che presenta anche gravi profili di incostituzionalità (nonostante la Consulta si sia pronunciata diversamente) nella parte in cui sospende l’amministratore locale dopo una condanna in primo o secondo grado, quindi non definitiva. Questo punto, messo in discussione anche da sindaci e assessori del Pd (che timidamente ha presentato un proprio blando disegno di legge in Parlamento) è particolarmente cruento e anti-democratico perché rovescia gli assetti di governo, entrando a gamba tesa nelle sorti politiche di una città, di una provincia, di una regione.
Dove spesso poi si candida addirittura un magistrato. Ma non si può dire, perché se c’è un soggetto che non si può mai criticare né giudicare è proprio quello che indossa la toga “giusta”. Però, se passasse (insieme a quello sulle firme per l’accesso al Csm) anche il quesito referendario per consentire anche agli avvocati e ai docenti universitari di dare il proprio giudizio sull’attività e sulla carriere dei magistrati, forse si potrebbe incrinare almeno un pochino questo blocco di potere che soffoca la democrazia italiana da un trentennio. Coraggio, andiamo ai seggi e votiamo cinque Sì.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Referendum, Repubblica: "Non andate a votare". Esplode l'ira di Salvini. Libero Quotidiano l'11 giugno 2022
Il referendum di domenica 12 giugno è finito in mezzo alle polemiche per i diversi appelli da parte della sinistra che hanno chiesto agli italiani di non andare al voto per far saltare il quorum e portare avanti le ragioni del "No". In questi giorni proprio per questo motivo è finita nella bufera anche la Rai che ha concesso un monologo a Luciana Littizzetto a Che tempo che fa in cui la comica ha detto chiaramente "di andare al mare" invece che al seggio. Parole di fuoco che hanno provocato anche la reazione dell'AgCom che ha messo nel mirino la Rai.
Ma non è finita qui. A 24 ore dal voto, è arrivato un altro appello per il non voto, questa volta direttamente dalle colonne di Repubblica, quotidiano palesemente schierato per il "No". Sul quotidiano romano è infatti apparso questo commento che sta facendo parecchio discutere. Si legge: "Alla vigilia del voto pensiamo sia giusto far conoscere la posizione del nostro giornale".
E fin qui tutto legittimo. "Riteniamo che su tutti e 5 i quesiti sia opportuno votare", e anche su questo punto nulla da dire. Ma è ora che arriva la botta: "...oppure non recarsi alle urne per non consentire il raggiungimento del quorum (scelte entrambe legittime)".
Sulla prima, quella di votare "No" nulla da dire, ma di fatto invitare palesemente al non voto non è certo un esempio di democrazia. E Matteo Salvini ha immediatamente messo nel mirino il commento di Repubblica: "Giornalisti, politici e magistrati di sinistra boicottano e censurano i #ReferendumGiustizia di domani. Una vergogna senza precedenti, ladri di Democrazia, la casta disperata che prova a difendersi. Motivi in più per votare 5 SÌ per il cambiamento. E chi non vota, ha già perso".
I referendum sono già falliti per il cinismo e i pasticci della Lega. GIULIA MERLO su Il Domani il 12 giugno 2022.
Oggi si aprono le urne per i cinque referendum sulla giustizia: si voterà in un solo giorno, i quesiti sono molto tecnici e il quorum del 50 per cento più uno è considerato un miraggio anche dagli stessi promotori
Secondo i sostenitori del sì, la causa del mancato quorum andrebbe ricercata in una sorta di congiura dei media e dei partiti contrari, che avrebbero imposto un “silenziamento” intorno al tema.
Ma in realtà il problema è nello strano connubio dei promotori, formato dal Partito radicale e da Matteo Salvini, che ha lanciato messaggi contraddittori e li ha utilizzati solo per marcare la propria differenza nel governo di Mario Draghi.
"Repubblica tifa contro? Forse tutelano le toghe che passano le veline". Francesco Boezi il 12 Giugno 2022 su Il Giornale.
Guido Crosetto, che voterà cinque Sì, è convinto che il problema Giustizia - "prima o poi" - non possa che trovare una qualche soluzione.
Guido Crosetto, che voterà cinque Sì, è convinto che il problema Giustizia - «prima o poi» - non possa che trovare una qualche soluzione.
Ha sollevato una polemica sulla copertura televisiva della Rai sul referendum.
«Ci sono alcune cose per cui, in questo Paese, cala una cappa. La vogliamo chiamare omertà? La vogliamo chiamare censura? Si tratta comunque di una dimostrazione di quanto sia potente l'unica vera casta che esiste in Italia: quella dei magistrati».
Lei sostiene tutti i quesiti, compreso quello sulla limitazione della custodia cautelare.
«La custodia cautelare nasce come misura straordinaria ma è diventato uno strumento ordinario per intimorire qualunque cittadino e per mettere in galera persone che poi si rivelano, com'era probabilmente chiaro anche a chi faceva le indagini, innocenti. Cito il caso Mannino: venticinque anni d'inferno e nove mesi in carcere, nonostante fosse malato. Questo è uno dei tanti esempi che, in qualunque altra nazione al mondo, avrebbe comportato una reazione popolare e politica. Da noi no, perché una parte minoritaria della magistratura tiene sotto scacco politica, economia, finanza e mass media».
Voterà anche per l'abrogazione della Severino?
«Sì, confermo i cinque Sì. I referendum possono anche essere soltanto utili a segnalare un problema. Io almeno li intendo così: come un elemento per fornire al Parlamento un segnale politico».
Ha letto la «Repubblica» sul referendum?
«Sì e uno dovrebbe chiedersi il perché. Da una parte si potrebbe rispondere guardando a chi magari passa le notizie o i verbali, pure quando non si potrebbe, chi fornisce la possibilità di fare articoli per sputtanare tuoi nemici politici. Dall'altra, c'è il tema per cui ogni giornale ha un proprietario, degli editori...».
Nel caso il referendum non passasse, la partita sarebbe finita?
«No, non è finita. Perché il problema della giustizia in Italia, con lo strapotere dei magistrati, è uno di quelli che esistono da questo Paese da molto tempo e che rileva anche in materia economica, perché produce mancanza d'investimenti. Basta leggere i libri di Renzi, Palamara o di Cirino Pomicino per capire quanto i magistrati abbiano influito su questo Paese».
La congiura contro il voto di domenica. Referendum, il regime compatto coi Pm: devono fallire! Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Giugno 2022.
Il regime è compatto. È ben schierato al fianco dei Pm che vogliono bloccare anche questa volta la riforma della Giustizia. Come hanno sempre fatto. Da trent’anni. Sanno che stavolta siamo a un bivio: se domenica passano i referendum, e vince il Sì, la riforma sarà inevitabile e radicale, torneranno a vivere elementi essenziali dello Stato di diritto e lo spirito della Costituzione.
Le Procure perderanno moltissimo potere. E questo non piace al partito dei Pm. Se invece vince il No o, più probabilmente, vincono le astensioni, non ci sarà nessuna riforma. Il potere, in Italia, resterà saldamente nelle mani del partito dei Pm, quello che una volta Nino Di Matteo – se non sbaglio – definì la Cupola (e probabilmente quella volta non si sbagliava).
E il partito dei Pm, e anche i singoli Pm, potranno continuare a godere dei loro privilegi, della licenza alla sopraffazione e alla violenza, potranno disporre della nostra libertà, dei nostri diritti, e continueranno a dividersi poltrone, incarichi, favori e soprattutto potere associandosi e sottomettendosi alle correnti. Come hanno fatto allegramente in questi anni e come è ben descritto nel libro di Luca Palamara (Pm capocorrente pentito e per questo linciato dalla categoria).
Nella campagna per liquidare i referendum il regime ha gettato tutte le sue forze: Letta, la sinistra un po’ tonta, naturalmente le svariate correnti dei Cinque Stelle, e poi i pezzi reazionari che si aggregano attorno a Fratelli d’Italia, e infine una formidabile campagna di bugie guidata dagli stessi Pm e dai loro giornali ufficiosi o ufficiali, che davvero fa paura, in un paese democratico. Sul fronte liberale ci sono truppe scarse e nemmeno particolarmente attive. E poi, sul fronte liberale c’è la ragione. Riuscirà la ragione a prevalere sulla reazione “rosso-bruna” e sulle bugie? Sarebbe un miracolo.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
I REFERENDUM SULLA GIUSTIZIA E LA CULTURA DELLA FORCA. Claudio Romiti su L'Opinione delle Libertà il 09 giugno 2022.
A pochi giorni dai referendum sulla Giustizia, registriamo l’agghiacciante intervento della grillina Giulia Sarti la quale, nel corso della puntata del 6 giugno di Quarta Repubblica, talk di approfondimento politico condotto da Nicola Porro su Rete 4, si è detta fortemente contraria a tutti e cinque i quesiti in ballo. Ferocemente contraria soprattutto in merito a quello per la separazione delle funzioni dei magistrati. Secondo l’esponente di un partito con una idea di giustizia di tipo medievale, sarebbe auspicabile l’intercambiabilità dei magistrati. In questo modo, il cittadino sarebbe più garantito da un sistema giudiziario in cui i magistrati, alternandosi a piacimento tra le funzioni giudicanti e quelle requirenti, a suo dire acquisirebbero maggiori competenze, mandando letteralmente al diavolo la tanto decantata terzietà del giudice super partes.
Altrettanto drastica la posizione del suo leader di partito, l’avvocato Giuseppe Conte: “I quesiti sono frammenti normativi che intervengono quasi come una vendetta della politica nei confronti della magistratura”. La magistratura – ha proseguito il presidente del Movimento Cinque Stelle – ha delle colpe, “tra cui la deriva correntizia. Di qui ad assumere, da parte della politica, un atteggiamento punitivo, ne corre. Ecco perché noi siamo assolutamente contrari al referendum. Continueremo a lavorare per progetti di riforma organici e sistematici”.
Ora, colpisce in maniera particolare il fatto che questa difesa d’ufficio dei magistrati provenga da un avvocato, la cui categoria ha sempre combattuto per una riforma del giudizio penale in cui venisse affermata, una volta per tutte, la terzietà del giudice. Terzietà che con la disfunzionale commistione tra togati che svolgono mansioni tra loro incompatibili, i quali spesso lavorano a stretto contatto di gomito, rappresenta in molti casi una pura utopia. A tal proposito, risultano piuttosto illuminanti le parole di Antonio Giangrande, avvocato di Avetrana, che ha pubblicato un libro su uno dei casi più controversi della nostra giustizia-spettacolo: il processo per l’uccisione della povera Sarah Scazzi. Ha scritto infatti Giangrande: “Come è possibile che a presiedere la Corte di Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto, Franco Sebastio, nonché collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero, cioè ex colleghi facenti parte del collegio che sostiene l’accusa nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto?”.
Un dubbio più che legittimo che l’attuale normativa non sembra assolutamente in grado di tacitare, dal momento che adesso il passaggio tra i due ruoli è limitato a un massimo di quattro volte con alcune regole, tra cui l’impossibilità di svolgere entrambe le funzioni all’interno dello stesso distretto giudiziario. Tuttavia, se la riforma presentata dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, dovesse essere approvata, il numero di passaggi possibili scenderebbe a uno.
Se poi a tutto questo ci aggiungiamo la deriva correntizia sottolineata dallo stesso Conte, con il meccanismo della valutazione quadriennale dei magistrati, che uno dei referendum vorrebbe estendere anche agli avvocati e ai professori universitari di materie giuridiche – i quali attualmente svolgono solo un ruolo consultivo nel Consiglio disciplinare – e l’obbligo di raccogliere almeno 25 firme di magistrati per candidarsi al Consiglio superiore della magistratura, obbligo che i promotori del referendum intenderebbero abolire, dal punto di vista di un garantista si ha l’impressione di doversi confrontare con una casta quasi intoccabile.
D’altro canto, occorre ricordare che per decenni, soprattutto dal versante politico e culturale della sinistra, nella terminologia comune non si è mai fatta molta distinzione tra giudici e pubblici ministeri. Rammento che durante il periodo oscuro di Mani pulite, in cui un avviso di garanzia equivaleva a una condanna passata in giudicato, i membri della Procura di Milano venivano spesso e volentieri definiti giudici. Una confusione che, ancora oggi, ogni tanto si ripresenta nelle sue sinistre sembianze. E che tende a rafforzare l’idea che, nei fatti, non siamo ancora usciti dal modello inquisitorio del processo penale, dove la figura del giudice e del magistrato inquirente risultano troppo sfumate nell’immaginario collettivo.
Ovviamente, nell’acqua stagnante di una giustizia che continua a partorire mostri – pensiamo, ad esempio, ai cinque gradi di giudizio, con addirittura due assoluzioni, che hanno portato alla condanna definitiva di Alberto Stasi per il delitto di Garlasco – i cinque referendum rappresenterebbero solo un piccolo ma significativo passo nella direzione del tanto decantato “giusto processo”. Per questo motivo è importante che il 12 giugno, andando a votare, venga sconfitta la cultura della forca, del sospetto e del giudizio sommario, che sembra avere ancora molto seguito in questo disgraziato Paese.
Fake news referendarie. Le verità parallele dei pm nel paese del divorzio tra la giustizia e il diritto. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 9 Giugno 2022.
Il procuratore di Trieste De Nicolo ha approfittato di un’operazione anti-droga per fare campagna contro i quesiti di domenica. Nonostante abbia detto cose sbagliate, non c’è stata alcuna confutazione né contestazione di merito o di opportunità.
Nel presentare in una conferenza stampa gli esiti di una imponente operazione antidroga, che ha portato al sequestro di 4,3 tonnellate di cocaina e all’arresto di 38 sospettati, il Procuratore di Trieste, Antonio De Nicolo ha detto che se passasse il referendum «questi arresti non si potrebbero più fare» e «gli arrestati dovrebbero essere messi in libertà con tante scuse del popolo italiano: questa è la norma che si intende abrogare».
Il riferimento è al referendum sui limiti alla carcerazione preventiva, che, attraverso un ritaglio parziale dell’articolo 274, comma 1, lettera c) del codice di procedura penale, continua a consentire che le misure cautelari siano disposte «quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata», ma esclude che possano essere disposte, come oggi avviene, misure cautelari per il rischio di reiterazione di «reati della stessa specie di quello per cui si procede», quando si tratti «di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni».
Non occorre essere un Procuratore della Repubblica per capire che per l’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74, DPR 309/90), anche se prevalessero i sì a questo referendum, continuerebbero a potersi disporre misure cautelari, trattandosi per l’appunto di un delitto di criminalità organizzata.
Occorre invece essere un Procuratore della Repubblica per potere sostenere il contrario, senza alcuna confutazione e censura, senza alcuna contestazione di merito o di opportunità, senza che chiami un Ministro o un sottosegretario o qualche umile cronista giudiziario, a chiedere conto dello spettacolo, con annesso sfondone, senza alcun dibattito, che sarebbe normale in un Paese normale, circa l’abnormità del caso di un magistrato importante, che in una conferenza stampa omnibus approfitta di una operazione di contrasto al narcotraffico per spacciare un po’ di droga anti-referendaria, travisando colposamente o falsificando dolosamente il contenuto di una proposta dal contenuto peraltro assai poco sibillino.
È del tutto inutile chiedersi se sia più o meno grave che un Procuratore della Repubblica incorra in un errore così marchiano per leggerezza o negligenza, leggendo sbrigativamente un quesito referendario, o scelga deliberatamente di trarre in inganno chi lo ascolta, per perseguire un fine superiore – quello della giustizia, della lotta alla criminalità, di difesa della dignità della magistratura… – che giustifica il mezzo, per definizione inferiore, dell’impostura.
È del tutto inutile perché, in un caso o nell’altro, ci si fermerebbe alla dimensione soggettiva e personale di una vicenda, che invece rileva nel suo effetto e nelle sue conseguenze pubbliche e in quello che è successo dopo la rumorosa uscita del procuratore De Nicolo. Cioè rileva in questo: che non è successo niente.
Alcuni giornali schierati per il No, come il Fatto Quotidiano e la Notizia, si sono dati da fare per diffondere la “verità parallela” rivelata dal Procuratore, senza minimamente metterla in discussione, né verificarne la fondatezza. Gli altri giornali, tranne due o tre casi di più o meno burocratica registrazione delle proteste degli esponenti del comitato referendario, hanno semplicemente fatto finta di niente. Soprattutto i giornali per così dire seri, i giornali cosiddetti indipendenti.
Ed è, questa, una straordinaria metafora della discussione sui temi della giustizia: il far finta di niente sull’essenziale e l’accapigliarsi furiosamente sul contingente, in un gioco di specchi della cattiva coscienza; l’accettare fatalisticamente la deriva incivile della giurisdizione e della legislazione penale e l’esorbitanza del potere togato e il cavillare sospettosamente sulle cattive intenzioni e relazioni di chiunque provi a mettere mano alla ri-costituzionalizzazione del sistema penale, di cui sono – non a caso – sacre e intoccabili innanzitutto le storture e gli orrori, a partire dall’uso ricattatorio delle misure cautelari e dall’idea della galera come presidio di igienizzazione sociale o come discarica dei nemici del popolo.
Anche questi referendum, dirottati sul binario morto dell’astensionismo indotto e pure raccomandato, alla Littizzetto, come marameo antipolitico, hanno confermato che in Italia non è possibile, nel senso che non è proprio ammissibile, parlare di giustizia in termini di diritto, proprio perché non è possibile farlo in termini di verità. Il divorzio tra la giustizia e il diritto, cioè tra il funzionamento del sistema penale e i principi dello stato di diritto, è reso possibile dal sacrificio della verità e dalla indistinzione, giornalisticamente assistita e coltivata, tra la realtà dello scandalo quotidiano che si consuma nelle aule di giustizia e nelle galere, e la rappresentazione di ogni contesa come una perenne battaglia tra i figli della luce e quelli delle tenebre.
Ci si mette niente, allora, a diventare complici dei corrotti, amici dei mafiosi e anche volontari o involontari fiancheggiatori dei narcotrafficanti, nella realtà rovesciata nel suo contrario e così ufficialmente decretata, senza alcuna smentita, dalle parole di un Procuratore.
La campagna contro il referendum giustizia. L’ossessione di Repubblica e il dottor Rossi per il carcere. Piero Sansonetti su Il Riformista il 9 Giugno 2022.
Anche Repubblica entra nella campagna contro il referendum che riguarda la carcerazione preventiva. Interviene con un corsivo nel quale viene citato il giurista Nello Rossi, che è considerato uno dei padri nobili della magistratura di sinistra. Scrive Repubblica : “Un ex Procuratore aggiunto come Nello Rossi… aveva definito l’ipotesi di questo referendum un boomerang. Aveva detto che se il referendum passasse non ci potrebbero essere più arresti cautelari per furti e per rapine, per spaccio, per casi di stalking, o di ripetuta violenza sessuale, né tantomeno per maltrattamenti in famiglia, ma pure per reati fiscali o finanziari. Tant’è che Rossi scriveva così: “ …i potenziali autori di gravi delitti contro la pubblica amministrazione, contro l’economia, contro il patrimonio, contro la libertà personale e sessuale (purché non commessi con violenza) …saranno intangibili….”.
Occorre qualche precisazione. La prima è di tipo logico-linguistico: è sicuro il dottor Rossi che sia possibile commettere il reato di violenza sessuale senza esercitare violenza? Magari ha ragione lui, che è un giurista fine, ma forse no… Seconda precisazione. Il carcere, a norma di Costituzione, dovrebbe essere scontato dopo una condanna. Qui invece stiamo parlando di persone presunte innocenti. Dunque il carcere, in questi casi, è ammesso solo in situazioni eccezionali. A rigor di Costituzione. Il carcere preventivo non è una pena anticipata, come la gran parte dei giornalisti e dei magistrati ed ex magistrati pensano, ma solo una misura di sicurezza. Allora, perché dovrebbe essere usata contro chi è sospettato di un piccolo furto o contro i ragazzini che fanno piccolo spaccio? Prima bisogna processarli.
Per il grande spaccio, commesso dalla criminalità organizzata, invece, il referendum non cancella la possibilità di arresto. Né per le rapine a mano armata, né per i maltrattamenti (violenti) in famiglia, né, ovviamente, per la violenza sessuale. Per i reati finanziari sì, a meno che non ci sia il rischio di fuga o di inquinamento delle prove. E altrimenti perché si dovrebbe ricorrere alla pena anticipata? L’unico punto ambiguo riguarda lo stalking. ma anche in quel caso se ci sono minacce l’arresto è possibile.
Dunque? L’articolo di Repubblica è del tutto infondato. I ragionamenti del dottor Rossi anche. E in questa campagna elettorale vengono usate spessissimo informazioni false per sviare gli elettori. Specie da parte di ampi settori della magistratura e dei giornalisti ad essa associati.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Il caso del Procuratore di Trieste. Le bufale delle procure inquinano la campagna per i referendum sulla giustizia. Piero Sansonetti su Il Riformista l'8 Giugno 2022.
L’esito dei referendum sulla giustizia sarà probabilmente condizionato da due elementi negativi. Il primo è il Grande Silenzio decretato dalla Rai e dai principali giornali indipendenti. Il secondo è lo spargimento di balle. Azione nella quale sono ben attivi gli stessi giornali indipendenti e le Procure. (Naturalmente ai giornali indipendenti, che Travaglio chiama sempre i giornaloni, si affiancano i giornali dichiaratamente fiancheggiatori delle procure, come proprio il giornale di Travaglio, che fa da avanguardia a tutti). Uso la parola Procure e non la parola magistratura perché sono cose diverse.
L’ultimo sciopero, fallito, proclamato dal Anm (cioè dal partito delle Procure) ha dimostrato che un po’ più di metà della magistratura è contro il partito delle Procure e probabilmente vedrebbe di buon occhio una riforma democratica che ristabilisca lo Stato di Diritto, freni lo strapotere e l’attitudine a sopraffare di molti Pm, e riporti la magistratura alla sua funzione e al suo prestigio. Probabilmente molti magistrati voteranno sì ai referendum. Nella campagna contraria al si, basata sullo spargimento di balle (che è la traduzione in italiano del termine inglese fake news) si distinguono alcuni Procuratori. Ieri si è lanciato alla testa della pattuglia battagliera filotravaglista, il Procuratore capo di Trieste.
Cioè un personaggio molto importante nella vita pubblica, e con il potere – se coltiva i buoni rapporti che il genere i Procuratori hanno coi loro colleghi Gip – di mettere in prigione chi vuole lui e di tenercelo per diversi mesi. Il Procuratore di Trieste teme che questo suo potere possa essere limitato da uno dei referendum, Precisamente dal numero 2, quello sulla carcerazione preventiva. Il Procuratore ieri ha dichiarato – esaltando una operazione giudiziaria con 38 arresti per traffico di droga – che se passerà il referendum sulla carcerazione preventiva questi 38 spacciatori presunti dovranno essere liberati. Non è vero. È, appunto, una balla.
È una balla che si ispira a simili balle dette e scritte molte volte in questi mesi da diversi esponenti del fronte manettaro (non uso questa parola come epiteto, mi serve solo a indicare quelli che vorrebbero aumentare e non diminuire il numero delle custodie cautelari, e che sono contrari a misure liberali). La cosa abbastanza grave è che questa balla venga messa in giro da un Procuratore. Possibile, mi chiedo, che questo procuratore ignori le norme sulla carcerazione preventiva? Sarebbe molto grave. E se invece le conosce, perché ha raccontato questa balla? Lo ha fatto consapevolmente? Se esistesse davvero un organismo di autogoverno della magistratura, sarebbe logico che intervenisse per capire come è potuta succedere una cosa così. E per prendere poi i provvedimenti del caso. Purtroppo questo organismo non esiste. Esiste un consesso, chiamato Csm, dominato dalle correnti delle Procure, che si occupa di dividersi il potere ma non di amministrare la giustizia.
La riforma Cartabia non cambierà quasi niente in questo stato di cose. E purtroppo, persino il referendum, tecnicamente, cambierà molto poco nel funzionamento del Csm. Del resto i margini che la Costituzione lascia ai referendum abrogativi sono molto stretti. Servirà comunque a dare un segnale. Veniamo alla carcerazione preventiva. Dice il procuratore di Trieste (copio dal Fatto Quotidiano online le sue dichiarazioni): “Gli arrestati dovrebbero essere messi in libertà con tante scuse del popolo italiano: questa è la norma che si intende abrogare. Le misure cautelari cadrebbero tutte per reati come il traffico di droga, a prescindere dalle quantità mostruose, se non vengono eseguiti in violenza alla persone, e quindi ricadrebbero nell’alveo abrogativo del referendum”. Se il 12 giugno vincessero i sì, infatti – spiega Il Fatto – diventerebbe impossibile disporre qualsiasi misura cautelare – non soltanto il carcere – motivandola con il rischio che l’indagato, o imputato, commetta di nuovo il reato di cui è accusato, o altri simili, “se questi non implicano l’uso di armi o di altri mezzi di violenza personale”.
Non è così. Vogliamo andare a vedere come sarà davvero legge dopo l’abrogazione di una parte del punto C dell’articolo n. 274 del decreto del Presidente della Repubblica n.447 del settembre 88? Dice testualmente il nuovo articolo 274: “Le misure cautelari sono disposte quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o da suoi precedenti penali, sussiste il concreto (e attuale) pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale, ovvero delitti di criminalità organizzata”. Capito? Il Procuratore si è dimenticato di scrivere nella sua dichiarazione quelle quattro paroline: “delitti di criminalità organizzata”. Se il Procuratore ha fatto arrestare 38 persone per traffico internazionale di droga, non c’è dubbio che si tratta di un’accusa di criminalità organizzata. Quindi la sua tesi, secondo la quale il referendum impedirebbe gli arresti, è una fake.
È grave la fake. Ed è anche molto grave il fatto che un Procuratore, nell’esercizio della sue funzioni, usi i risultati del suo lavoro investigativo per fare campagna elettorale. Credo sia un fatto senza precedenti. Il deputato di +Europa, Riccardo Magi, ieri ha chiesto l’intervento della ministra Cartabia, ed effettivamente questo è proprio un caso classico nel quale l’intervento del ministero – di fronte alla probabile immobilità del Csm – è inevitabile. Il procuratore di Trieste si chiama De Nicolo. È stato in passato anche Procuratore di Udine. Fece notizia il suo impegno contro quelli che lui chiamava “clandestini” (si riferiva ai richiedenti asilo). Tanto per farci capire che al vertice del giustizialismo nazionale non ci sono solo le toghe rosse.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Il dibattito sul referendum. Gratteri contro Feltri, scontro a distanza sulle carceri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Giugno 2022.
“Sono convinto che il primo provvedimento da attuare sia quello non solo di eliminare la carcerazione preventiva, ma anche quello di rendere le prigioni non posti di tortura bensì di soggiorno per gente privata della libertà, non della dignità che va garantita a qualunque essere umano” (Vittorio Feltri). “Investire nella costruzione di nuove carceri è il miglior modo per evitare richiami all’Italia”. (Nicola Gratteri). Metti una sera a cena, o in uno studio tv, un improbabile faccia a faccia tra due signori brillanti e famosi. Che si guardano, si studiano e faticano a capirsi. Infatti è consigliabile non farlo quell’invito, che comunque non verrebbe mai in mente nemmeno a quei conduttori che non disdegnano la presenza di ciascuno dei due, ma in ambito nettamente separato. In modo del tutto arbitrario abbiamo messo a tavola, o in un talk, l’uno di fronte all’altro, Nicola Gratteri e Vittorio Feltri. A parlare di carcere.
Sempre per scelta soggettiva abbiamo buttato alle ortiche i titoli della Stampa che privilegiava nell’intervista al procuratore di Catanzaro il problema della presunzione di innocenza e il “bavaglio” ai magistrati, e quello di Libero all’editoriale del direttore che a nostro avviso era fuorviante. Perché trasformava Feltri in una specie di Gratteri, e lo poneva al suo fianco, tutti e due con la cazzuola in mano a costruire nuove carceri. Quando l’uomo di buon senso dice (nel titolo) “Chiudere le prigioni? No, sistemiamole”, si capisce benissimo che manca ancora solo un passettino per un certo approdo e che mai comunque il direttore di Libero vorrebbe avere nelle mani quella cazzuola. Mentre il procuratore pare più preoccupato per la propria, di libertà. Magari per poter continuare a spiegarci con le conferenze stampa la necessità di tenere agli arresti senza sentenze di condanna tipi come l’avvocato Giancarlo Pittelli, piuttosto che pensare a migliorare la situazione delle carceri. O magari ridurre al minimo la custodia cautelare in prigione. Tanto che, dopo aver definito con sprezzo la situazione del carcere di Bollate come “uno spot”, oggi, in versione buonista, lo porta ad esempio di istituto che sforna detenuti meno recidivi di quelli usciti dalle altre carceri.
Ma si capisce che il problema sta più a cuore all’uomo di buon senso che non a quello di giustizia. Come se per lui fosse questione marginale, burocratica. Se lo “spot” di Bollate ha funzionato, va bene, costruiamone tante di carceri fatte così, con il lavoro che emancipa e alla fine produce meno recidiva. Ma intorno costruiamo alte e solide mura. Tutto scivola via, nel mondo delle toghe, come se non fossimo (o dovremmo essere, se la coltre del silenzio non stesse tentando di soverchiarci) nel pieno di un acceso dibattito sui cinque referendum-giustizia di domenica prossima. Come se l’uomo di giustizia e l’uomo del buon senso potessero sottrarsi, e parlare d’altro, della guerra o anche del caldo, non sentendo quello del carcere come un problema urgente. Come se tutti i pronunciamenti dei vari organi di giustizia europei non fossero sempre lì con il dito alzato a rimproverare l’Italia per le condizioni dei suoi istituti penitenziari, la lunghezza dei processi e di conseguenza della detenzione preventiva, la “tremendezza” delle sue pene. Come se non ci fosse questo referendum numero quattro a suggerire di arrestare di meno, soprattutto nei casi in cui si presume che l’indagato possa commettere in futuro lo stesso reato di cui non si sa neppure se lo abbia commesso oggi. Perché in assenza di condanne tutto è presunto: presunto reato e presunto colpevole. Ma reali manette.
Il procuratore Gratteri chiarisce che non è che lui voglia costruire nuove carceri per riempirle di più. Perché: “Come cittadino, oltre che come magistrato sarei contentissimo di vivere in un Paese dove nessuno più commette reati, chi non sarebbe contento? Ma se così non è, il sovraffollamento non deve diventare un alibi”. Elementare, Watson. Voi non commettete più reati e io depongo la cazzuola. Diamo così per scontati due principi: che l’unica forma di pena è la detenzione in carcere e che non esiste quella crudele forma di tortura che si chiama custodia cautelare, ma che vuol dire una cosa sola, manette senza processo e senza condanna. Seduto di fronte al prestigioso magistrato, il direttore Vittorio Feltri ha un moto di rabbia, lo possiamo vedere da lontano, mentre gli si accendono per un attimo le gote in un breve sbuffo. “Facciamo notare al lettore”, dice (scrive) – e questo lettore potrebbe essere benissimo il procuratore Gratteri- “che parecchi prigionieri sono in attesa di giudizio, cioè non hanno subito alcuna condanna, pertanto dovrebbero essere ritenuti innocenti fino a prova contraria. E invece sono tenuti nel gabbio finché la burocrazia giudiziaria non si deciderà se assolvere o bastonare l’imputato. Questa è una vergogna che però non scandalizza nessuno, nemmeno l’uomo qualunque che davanti a un segregato non prova altro che disprezzo, e non immagina neppure lontanamente che pure a lui potrebbe toccare in sorte di essere rinchiuso ingiustamente”.
Vengono alla memoria le parole dell’ultimo scritto di Gabriele Cagliari: per il magistrato, il detenuto è solo una pratica da sbrigare. Entriamo per un attimo nel faccia a faccia tra i nostri due illustri personaggi, la loro incomunicabilità, per ribadire, forse con un po’ di pedanteria, quanto sia fondamentale, sul piano dei principi, il quesito referendario numero quattro, quello che vuole abolire una delle condizioni necessarie al giudice per arrestare: il pericolo di reiterazione del reato. È importante proprio anche perché è l’appiglio preferito dai procuratori, quello più allarmante (rispetto al pericolo di fuga, che deve fondarsi su basi concrete o quello di inquinamento delle prove, che dopo un po’ di tempo evapora, diventa insensato), quello che si basa sul puro sospetto. Infatti è quello che lede maggiormente la dignità delle persona, quella dignità invocata nel suo editoriale da Vittorio Feltri.
È l’accanimento usato nei reati di droga, cioè nei confronti di quegli indagati che, anche qualora finissero condannati, andrebbero a rappresentare quella metà dei prigionieri nelle carceri italiane che deve scontare meno di tre anni. Quelli che dovrebbero poter fruire da subito di misure alternative, senza quell’automatismo della presunta “pericolosità sociale” che spesso ti accompagna dalla culla alla bara. Cioè a partire da quell’arresto basato non solo sul sospetto che tu possa aver commesso un reato, ma che potresti compiere in futuro lo stesso delitto se non ti tolgo subito dalla circolazione, se non ti metto in cattività. Ma un’alternativa è possibile. Votare Sì domenica prossima al quesito numero 4 insieme agli altri, e togliere di mano la cazzuola ai procuratori come Nicola Gratteri.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
I luoghi comuni per delegittimare i quesiti referendari sulla giustizia. Ecco gli argomenti utilizzati per spingere i cittadini a disertare l’appuntamento referendario del 12 giugno o per convincerli a votare No. Valentina Stella su Il Dubbio il 6 giugno 2022.
Sono molti gli argomenti utilizzati in questi giorni per spingere i cittadini a disertare l’appuntamento referendario del 12 giugno sulla “giustizia giusta”, promosso da Lega e Partito radicale, o per votare No ai cinque quesiti. Vediamone alcuni e cerchiamo di capire se sono validi.
Primo
Il Partito democratico continua a ripetere che «questi quesiti non hanno nulla a che fare con la riforma». E invece proprio tre di loro si intrecciano perfettamente con la riforma di mediazione Cartabia ora in discussione al Senato. E sono quelli su: diritto di voto di avvocati e professori nei Consigli giudiziari, separazione delle funzioni, elezioni del Csm.
Secondo
A parere di molti commentatori il Sì al quesito sull’abuso delle misure cautelari renderebbe difficile tutelare le vittime di violenza di genere, lasciando escluse dalla applicazione delle misure cautelari tutte quelle violenze di genere che vengono commesse in altro modo (dalla violenza fisica ndr) e che sono anche la maggior parte: le violenze psicologiche o economiche, i maltrattamenti in famiglia con minacce o gli atti persecutori come lo stalking. Come ha risposto su questo giornale qualche giorno fa l’avvocato Simona Viola, responsabile giustizia di +Europa, l’eventuale norma residuale non cancellerebbe la parte in cui la legge dice che le misure cautelari sarebbero previste se «sussiste il concreto e attuale pericolo che questi (indagato o imputato, ndr) commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale».
L’ordinamento e la giurisprudenza «impongono già – ha scritto Viola – di estendere la misura anche a chi si teme non già che faccia uso di violenza fisica in senso stretto nei confronti delle donne, ma che possa usare altri mezzi di coartazione. Se nei confronti di una donna è stata usata violenza – e anche la violenza psicologica e i maltrattamenti sono violenza – la custodia cautelare continua ad essere applicabile». «Non c’è bisogno di alzare le mani perché ci sia violenza», ha ribadito l’avvocato in un dibattito organizzato da Base Italia, proprio sui referendum.
Terzo
Sempre sul quesito delle misure cautelari Giorgia Meloni ha detto che la sua approvazione impedirebbe di arrestare spacciatori e delinquenti comuni che vivono dei proventi del loro crimine. Come ha risposto il professor Giovanni Guzzetta dalle pagine di Libero «simili restrizioni non sparirebbero. Perché rimarrebbe sempre la misura cautelare nei casi in cui vi è un collegamento con organizzazioni di tipo criminale. E nella stragrande maggioranza dei casi lo spacciatore fa parte di un’organizzazione criminale. Per i pochi casi in cui questo non succede (il ragazzo che cede la droga a un amico, ad esempio), già oggi la prassi ci dice che la carcerazione non è applicata. Dunque, rispetto alle preoccupazioni della Meloni, il referendum è assolutamente ininfluente».
Quarto
L’obiezione che viene mossa al quesito che abrogherebbe il decreto Severino è che, come detto da alcuni partiti e Procuratori, «verrebbe meno una serie di norme adottate anche durante le stragi mafiose. Come quella di far decadere personaggi condannati per 416 bis sia pure in primo grado». Come ci spiega il professor Bartolomeo Romano, Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo, e vice presidente dell’Associazione ‘Sì per la libertà, sì per la giustizia”, «non si trovano decisioni nelle quali un giudice, nel caso di una condanna per associazione per delinquere di stampo mafioso, non applichi la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Esiste una generalizzata applicazione della pena accessoria nei casi di 416-bis, ovviamente legata alla gravità del reato e alla prognosi che il condannato possa commettere in futuro ulteriori reati.
Il problema quindi non esiste alla radice. Teniamo anche presente che la Consulta recentemente, su molti argomenti, ha dichiarato l’incostituzionalità degli automatismi in malam partem. Non solo, consideriamo anche che l’articolo 27 della Costituzione impone una personalizzazione della responsabilità penale, il che significa che l’automatismo generalizzato certamente confligge con la commisurazione in concreto della pena e delle conseguenze accessorie. Se così non fosse, non avremmo circa il 95% di pene discrezionali – capaci cioè di rispondere al principio di personalità della responsabilità penale – e non fisse».
Quinto
Riguardo al quesito sulla separazione delle funzioni tra magistratura requirente e giudicante si sostiene che la separazione disancora i pubblici ministeri dalla cultura della giurisdizione, li rende sostanzialmente dei poliziotti e dunque di fatto li riconduce nella sfera di influenza del potere esecutivo che è quello che si occupa della politica criminale. Non è così perché come ha spiegato sempre su questo giornale il professor Guzzetta «la Costituzione italiana impone alla legge di garantire, comunque, l’indipendenza del pubblico ministero (art. 108), affida a questo (e non all’esecutivo) la disponibilità diretta della polizia giudiziaria (art. 109) e prescrive l’obbligatorietà dell’azione penale ( rt. 112)».
Sesto
Sul voto degli avvocati e dei professori nei Consigli giudiziari al momento della valutazione di professionalità dei magistrati, si partecipa l’idea che coinvolgere esterni alla magistratura potrebbe inficiare l’indipendenza di questa, lasciandola alla mercé di conflitti di interessi di legali e non togati. Come ci ha spiegato l’ex magistrato Paolo Borgna, favorevole al Sì, «sarebbe sufficiente rispondere che gli avvocati nei consigli giudiziari sono, comunque, una minoranza. E dunque, se uno di loro portasse in quel consesso un atteggiamento di inimicizia verso un singolo magistrato, sarebbe facilmente battuto». E poi, si è chiesto Borgna, «perché i magistrati hanno paura dell’influenza del “grande avvocato”, che si potrebbe far portatore di interessi della sua potente committenza, e non invece del leader di una corrente della magistratura, che in concreto ha molta più possibilità di influenzare il consiglio superiore o il consiglio giudiziario?».
Caro dottor Gratteri, se si suicidassero i tanti finiti in galera sarebbe una strage degli innocenti. Non c’è guerra allo Stato da parte della ’ndrangheta mentre non ci vuole la zingara per capire che, molto spesso, mafia e “antimafia” combattono una guerra finta. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 02 giugno 2022.
Venerdì scorso è stato sciolto il Consiglio comunale di Portigliola, un piccolo paese nel cuore della Locride. Dimenticate per un solo attimo il fatto che si tratta d’ un piccolo Comune e riflettete sugli effetti che la catena di scioglimenti che ha riguardato la Locride e la Calabria intera, potrebbe avere sulla crescita e legittimazione della ‘ndrangheta in un territorio difficile. Il sindaco e i consiglieri comunali di Portigliola sono incensurati ma ciò in Calabria, come in ogni Stato di polizia che si rispetti, vale meno che niente. Ovviamente in Italia nessuno si accorgerà delle vicende di Portigliola e nella stessa Calabria la notizia non avrà risonanza alcuna.
Gli amministratori del piccolo comune calabrese sono stati destituiti da un mandato ricevuto dal popolo, messi ai margini con “disonore” e senza dar loro alcuna possibilità di difendersi in un tribunale della Repubblica. Sanno che da questo momento in poi chiunque potrà dire di loro che sono “segnati” da una “misura di prevenzione” ledendo la loro dignità e il loro onore. Molti di loro si ritireranno della vita pubblica, altri non si riconosceranno più in questo Stato e coveranno rabbia e rancore verso i responsabili dello scioglimento del consiglio comunale nel quale erano stati democraticamente eletti. In qualche caso la rabbia diventerà ostilità verso lo Stato e quindi rivolta individuale che, in quanto tale, è destinata a formare l’humus necessario per fertilizzare il terreno in cui cresceranno le nuove leve della mafia.
La ’ndrangheta che cresce e si diffonde in Italia nasce in questa terra ed è figlia di tale meccanismo perverso che viene spacciato come lotta alla mafia. Sono certo che coloro che hanno promosso e decretato lo scioglimento non siano sciocchi perché sanno che il bersaglio è stato comunque colpito dal momento che la gente comune avrà la sensazione che la lotta alla “mafia” continua…. contro gli innocenti!
Anticipo la possibile eccezione: perché la rivolta individuale non diventa collettiva e perché nessuno, o quasi, denuncia una tale situazione? Perché la Calabria è avvolta in una cappa di paura che diventa omertà e quindi altro concime per la ’ndrangheta.
Se avessi avuto la forza avrei voluto discutere di questi temi in occasione del trentesimo anniversario della strage di Capaci e sarebbe stato interessante domandare agli “esperti” perché la mafia è stata sconfitta mentre la ’ ndrangheta è diventata più forte, più ricca, più “rispettata”, più temuta; ha fondato “colonie” in tutta Italia e in Europa, ha il monopolio del traffico di cocaina.
Riina e soci hanno commesso l’errore di passare da una scellerata “alleanza” con gli apparati statali alla sfida allo Stato mentre la ’ ndrangheta si è acquatta alla sua ombra. Anzi, da anni la ’ ndrangheta non uccide più o quasi, ha messo fine alle faide di paese, punisce severamente chiunque si dovesse dimostrare irriguardoso o violento verso gli uomini dello Stato.
Non c’è guerra allo Stato da parte della ’ ndrangheta mentre non ci vuole la zingara per capire che, molto spesso, mafia e “antimafia” combattono una guerra finta le cui vittime certe sono soprattutto gli ignari ( ma non tanto) cittadini calabresi. A questo punto so che qualcuno si porrà la domanda: è possibile che la situazione sia questa? Mi pongo anch’io la stessa domanda: è possibile?
Se ne avessi la possibilità chiederei un’inchiesta delle “gradi firme” del giornalismo italiano sulla situazione calabrese. Intanto cerco sinceramente di trovare delle risposte da parte di studiosi ed esperti. Il dottor Gratteri si è autodefinito uno dei massimi esperti al mondo in materia e io ho seguito con interesse il suo tour televisivo sperando che desse delle risposte ma, lo dico senza sarcasmo, quando va in televisione il procuratore di Catanzaro preferisce “ballare” da solo.
Così, ad esempio, può dire che la ’ ndrangheta sfrutterà la guerra in Ucraina per rifornirsi d’armi, magari cannoni, carri armati e obici come se i mafiosi dovessero combattere una battaglia campale. I mafiosi non dispongono di combattenti ma di sicari che uccidono a tradimento, tendono imboscate, opprimono i deboli, non toccano i “forti”. E per la loro “guerra” hanno armi a sufficienza. Inoltre il procuratore di Catanzaro, come di consueto, ha attaccato con grande accortezza la “politica” mettendo in campo un’abile strategia comunicativa destinata a un sicuro ritorno di popolarità.
Come sempre i “politici”, salvo qualche eccezione, non rispondono, un po’ per calcolo e un po’ per viltà così che Gratteri non ha bisogno di fare neanche un minimo di auto- critica. Per esempio, ha affermato che durante la stagione di “mani pulite” tanti politici si sono suicidati per un semplice avviso di garanzia mentre oggi hanno l’ardire di voler continuare a vivere e magari di dichiararsi innocenti perché sono innocenti. Non c’è più “religione”, signora mia!.
Ma sarebbe stato facile obiettare che se il segretario nazionale dell’Udc Lorenzo Cesa indiziato di concorso esterno, Mario Oliverio, già presidente della Regione (confinato) , o Mimmo Tallini, presidente del consiglio (arrestato) e soprattutto e innanzitutto le migliaia di persone “senza nome” che in Calabria sono finiti in galera senza colpa si fossero suicidati sarebbe stata una strage di innocenti da far invidia ad Erode. Ma chi farà mai queste domande pur poste con il dovuto rispetto e tutto il garbo del mondo?
Nicola Gratteri, il pm che parla direttamente al popolo (di destra) per “castigare” il Csm. Dopo la delusione per la mancata nomina alla Dna, il procuratore di Catanzaro ha deciso di usare la sua popolarità come un’arma. Rocco Vazzana su Il Dubbio l'1 giugno 2022.
«Posso fare tante cose. Ci sono tanti magistrati potenti che possono fare solo i magistrati. Io posso fare tante cose, anche il contadino: ho una buona manualità». Chissà se pronunciando queste parole a Otto e mezzo, pochi giorni fa, Nicola Gratteri aveva in mente la parabola professionale di Antonio Di Pietro, che da pm amatissimo dalla gente si è ritirato in campagna, dopo una lunga parentesi in politica. Su una sua possibile discesa in campo il procuratore di Catanzaro smentisce, quel che è certo però è che da qualche tempo il magistrato calabrese riempie i palinsesti delle Tv per offrire il suo punto di vista ai telespettatori. Che si parli di lotta alla ’ndrangheta (specialità in cui Gratteri ha ben pochi rivali su piazza), di critica politica a un governo a suo dire indifferente al contrasto alla criminalità organizzata o di accusa nei confronti di un sistema giudiziario corrotto dal correntismo poco importa: il procuratore di Catanzaro ha voglia di parlare e anche tanto. Al Maurizio Costanzo show come da Lilly Gruber, senza dimenticare di presenziare a Piazza Pulita.
Ovviamente Nicola Gratteri è uno di quegli ospiti dal profilo così prestigioso che qualsiasi programma televisivo o giornale vorrebbe intervistare, meno scontato però è sentirsi dire sempre sì dal diretto interessato. Perché la sovraesposizione mediatica è sempre un’arma a doppia taglio che un magistrato di quel livello preferisce schivare.
Ma Gratteri ha bisogno di comunicare direttamente con l’opinione pubblica, col popolo. Soprattutto dopo la mancata promozione alla guida della Direzione nazionale antimafia. Un posto che l’investigatore calabrese considerava probabilmente come la naturale chiusura di una carriera brillante. «Ho fatto domanda alla Procura antimafia perché pensavo di avere l’esperienza necessaria, facendo da sempre contrasto alla criminalità organizzata: non esiste nessun magistrato al mondo che abbia fatto più indagini di me sul traffico internazionale di stupefacenti e sulle mafie», ha spiegato davanti alle telecamere di Otto e mezzo.
Motivo della bocciatura? La troppa indipendenza, l’estraneità alle dinamiche dell’Anm, sembra suggerire lo stesso Gratteri quando argomenta: «Sicuramente nella nomina alla Procura nazionale antimafia chi è iscritto a una corrente è molto molto avvantaggiato. Io questo già lo sapevo ma ho fatto la scelta di non iscrivermi». Perché il procuratore capo di Catanzaro si propone davvero come il magistrato più anti sistema in circolazione, un vero e proprio alieno nel mondo togato che lo percepisce come una bomba da disinnescare prima che faccia saltare tutti gli schemi.
Ma è come se Gratteri si fosse stancato di venir penalizzato per questa sua inafferrabilità e avesse deciso di utilizzare contro l’ostracismo del Csm l’arma di cui solo pochi suoi colleghi ancora dispongono: la popolarità. Quella che fino a poco tempo fa poteva ancora maneggiare con disinvoltura Piercamillo Davigo e che adesso forse il solo Gratteri può dire di possedere a certi livelli. È un’arma tutta politica e serve a rimuovere gli ostacoli interni, pressando con uno strumento esterno: l’opinione pubblica. E in una congiuntura così propizia, con la credibilità della magistratura ai minimi storici, non è detto che non funzioni. Anzi. Gratteri lo sa e vuole mostrarsi ai cittadini per come realmente si percepisce: un incontrollabile rottamatore messo ai margini dalla casta ed esposto alla vendetta delle mafie. Certo, mettere alle strette il Csm a furor di popolo sarà impresa tutt’altro che semplice, ma il procuratore di Catanzaro non ha grandi alternative per evitare un’altra delusione come quella della Dna.
Il tempo stringe e gli obiettivi possibili rimasti sul piatto non sono troppi: un posto nel nuovo Csm, magari sponsorizzato da qualche corrente anti corrente, a fare da «guastacarte», come dice lo stesso Gratteri; la guida di una procura prestigiosa, come quella di Napoli non ancora messa a bando; o un futuro senza toga, in Parlamento, il prossimo anno. Scenario, quest’ultimo, che il magistrato calabrese tende a escludere categoricamente, anche se in Tv continua ad attaccare il governo con una veemenza che neanche la leader dell’opposizione si sognerebbe di utilizzare.
Draghi? «Non pervenuto per quanto riguarda la giustizia e la sicurezza, mi sembra solo un buon esperto di finanza. Sul resto non tocca palla o se lo fa, mi preoccupa ancora di più perché non capisce che facendo così sfascia tutto». Cartabia? Nella sua «riforma c’è molta rabbia, è una sorta di resa dei conti tra la politica, che nel corso degli anni ha accumulato molta rabbia, e la magistratura», dice Gratteri. Che poi si scaglia pure contro una piccola iniziativa di civiltà: le casette dell’amore, dove ai detenuti è consentito di esprimere la propria affettività.
Il governo ha speso più «più di 28 milioni di euro per costruire le case dell’amore, un luogo dove i detenuti possono incontrarsi per 24 ore con moglie, marito e amanti», è il giudizio severissimo, ma probabilmente popolarissimo, di Gratteri. «Avete idea dei messaggi che possono essere mandati all’esterno grazie a questa idea?». No. Ma il messaggio che arriva fuori dalle mura togate è che se mai ci sarà un futuro politico per Gratteri non sarà esattamente progressista.
Referendum sulla giustizia, il Pd dice no allo Stato di diritto. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 30 maggio 2022.
Nell'annunciare il proprio voto contrario ai referendum sulla giustizia il Pd non fa una scelta politica e di merito: fa una scelta identitaria e di potere. Qualsiasi affermazione dello Stato di diritto, infatti, è per la tradizione post-comunista irrilevante o pericolosa, perché il concetto di "Stato" proprio di quella tradizione non ha nulla a che fare con il diritto. Può essere Stato di polizia, di popolo, di rivoluzione, di giustizia sociale, di resistenza, di pace, di guerra, qualunque cosa: ma non di diritto. Per questo nessuna riforma della giustizia è mai stata promossa da quella tradizione, che anzi le ha avversate pressoché tutte: perché la riconduzione a legalità del potere giudiziario non ha mai rappresentato un'esigenza di chi si identifica nello Stato, sì, ma a condizione di poterlo occupare anziché per sorvegliarne la propensione al sopruso, primo tra tutti quello con cui il potere pubblico si sottrae alla propria legalità. Lo Stato di diritto altro non è che l'argine liberale alla prepotenza dello Stato, ed è esattamente ciò di cui alla teoria e alla pratica di potere confluite nel Pd non importa nulla. Il reazionario bouquet di "no" che i dem oppongono ai referendum è il simbolo di quell'indifferenza.
L'annuncio in tv. Letta getta la maschera, il segretario PD annuncia cinque ‘no’ al referendum sulla giustizia piegandosi a grillini e partito dei pm. Fabio Calcagni su Il Riformista l'1 Giugno 2022.
Durante la direzione del partito a metà maggio non lo aveva dichiarato espressamente, ma il sottotesto delle sue dichiarazioni in cui spiegava che una eventuale vittoria del sì ai referendum sulla giustizia del prossimo 12 giugno avrebbero aperto “più problemi di quanti ne risolverebbero” era chiaro.
Ma martedì sera, dal salotto televisivo di Porta a Porta, la ‘terza Camera’ guidata da Bruno Vespa, il segretario del Partito Democratico Enrico Letta lo ha detto chiaramente: “Andrò a votare ai referendum e voterò cinque no”.
Cedendo definitivamente al partito dei pm, rappresentato in Parlamento dal Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, Letta spiega che il referendum è “uno strumento sbagliato”, anche perché “su alcuni di quegli argomenti si sta facendo la riforma nel Parlamento”, è la tesi del segretario Dem.
Letta dunque getta definitivamente la maschera dopo le parole pronunciate nel corso della direzione PD del 17 maggio, in cui pur dando un “orientamento di fondo”, aveva sottolineato come il partito non fosse “una caserma” e dunque vi era “libertà dei singoli che resta in una materia come questa”.
Quella di ieri a Porta a Porta sembra anche la risposta del segretario all’appello delle 22 personalità vicine al PD (tra i firmatari vi sono Michele Salvati, Enrico Morando, Claudio Petruccioli, Giorgio Tonini, Claudia Mancina, Alessandro Maran, Magda Negri, Massimo Adinolfi, Marco Bentivogli e Mario Raffaelli) che nelle scorse settimane aveva lanciato un appello per votare sì almeno a tre quesiti referendari su cinque, ovvero la separazione delle funzioni, la riforma del sistema elettorale del Csm e la valutazione dei magistrati.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Vocazione Lucianina. La politichetta di chi punta al fallimento del quorum e fa finta che i referendum non ci siano. Mario Lavia su L'Inkiesta il 2 giugno 2022.
Chiedere ai cittadini di non andare a votare è un segnale trasparente e, tutto sommato, rispettoso delle regole democratiche. Ben altra cosa rispetto al silenzio infingardo di chi spera che non vengano a sapere nulla. Per questo il Pd dovrebbe avere il coraggio di fare una manifestazione, anche solo per votare No.
All’una di notte del 19 aprile 1999 Franco Marini, allora segretario del partito popolare, perse la voce per l’urlo di vittoria: il referendum per l’abolizione della quota proporzionale prevista dal Mattarellum non aveva superato il 50%, fermandosi incredibilmente a quota 49,6. Oggi pochi ricordano il clamoroso fallimento del referendum che secondo le prime proiezioni della sera il quorum lo aveva raggiunto: invece niente, fallì. Perché ricordiamo quel lontano avvenimento?
Perché all’epoca Marini, Fausto Bertinotti, Umberto Bossi (i proporzionalisti) condussero una campagna a viso aperto per non far raggiungere il quorum invitando gli italiani a non andare a votare come scelta politica consentita dalla legge: i referendari infatti devono battersi, per così dire, due volte, contro il No e contro la scelta dell’astensione. Fu una battaglia politica più chiara del polemico invito di Bettino Craxi nel 1991 ad “andare al mare” (tanto che poi la gente al mare non ci andò e approvò il primo referendum di Mario Segni, quello sulla preferenza unica) così come fu limpido l’invito a disertare le urne in occasione del referendum sulle trivelle nel 2016. Tutte battaglie alla luce del sole.
Al contrario, sugli imminenti referendum sulla giustizia del 12 giugno è in corso una odiosa campagna per far fallire la consultazione senza dirlo, e questo non è democratico, perché la democrazia implica chiarezza, altrimenti è politichetta. La maggior parte del popolo italiano probabilmente non sa ancora che tra due domeniche si voterà su cinque quesiti referendari sulla giustizia, cioè un tema che riguarda tutti i cittadini, la stragrande maggioranza dei quali ha in orrore lo strapotere giustizialista di parte della magistratura italiana che con i referendum si tenta di circoscrivere: e non v’è dubbio che se il quorum fosse raggiunto i Sì certamente vincerebbero.
E siccome i sostenitori dell’attuale stato di cose questo lo sanno, ecco che la strada per loro più agevole è quella di non informare i cittadini della scadenza del 12, ledendo il loro diritto costituzionale ad essere informati (lesione che dovrebbe preoccupare non solo i vertici della Rai, che sta facendo solo spot burocratici, ma anche le massime cariche istituzionali): è la linea “littizzettiana” fatta propria dal Partito democratico e dal Movimento 5 stelle, per la quale questa è roba troppo difficile per voi cittadini ignoranti.
Ovviamente sono scomparsi anche gli altri partiti, compresa la schizofrenica Lega che ha promosso i referendum ma si è dimenticata di sostenerli, distratta dalle mattane di Salvini e dei suoi strateghi filo-Putin.
Abbiano coraggio, Enrico Letta e Giuseppe Conte, facciano una bella manifestazione di piazza a sostegno del No, dicano che bisogna andare a votare. Poiché non lo faranno, c’è da concludere amaramente che quella dell’asse Pd-M5s non è una battaglia politica come la fecero a viso aperto Marini e Bertinotti, ma si chiama in un altro modo: boicottaggio.
Rai sanzionata per Littizzetto. E il pm fa un comizio anti Sì. Paolo Bracalini il 9 Giugno 2022 su Il Giornale.
L'Agcom richiama Viale Mazzini che cerca di cavarsela con uno speciale al Tg2. Le fake news del magistrato di Trieste.
Alla fine è arrivato il richiamo dell'Agcom alla Rai dopo il «comizio» su RaiTre in cui Luciana Littizzetto ridicolizzava il referendum sulla giustizia invitando i telespettatori a non andare a votare. Una violazione palese delle norme sulla par condicio. Nel richiamo l'Agcom invita la tv di Stato a garantire «un rigoroso rispetto dei principi del pluralismo, dell'imparzialità, dell'indipendenza, della completezza, dell'obiettività e della parità di trattamento fra i diversi soggetti politici in tutto il periodo di campagna referendaria». Cioè nei pochi giorni che mancano al voto, domenica prossima. In sostanza quindi l'Agcom chiede alla Rai di riequilibrare immediatamente la comunicazione sul referendum. Secondo quanto riporta l'Adnkronos durante la riunione del consiglio dell'Autorità è stata letta la lettera dell'amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes nella quale comunicava di aver messo in palinsesto per l'8 giugno (ieri sera) uno speciale di Tg2Post interamente dedicato al referendum della durata di 2 ore. Una comunicazione, arrivata dopo l'esposto dei radicali, che sarebbe stata interpretata come una volontà di rimediare ai contenuti del monologo della Littizzetto. In Rai ne fanno quindi una questione di minuti, e con due ore di speciale ritengono di compensare l'invito a non votare partito da una trasmissione (Che tempo che fa di Fazio) che raggiunge circa 2 milioni di persone. In più, sostengono da Viale Mazzini, ci sono le tribune politiche di Rai Paramento che in queste settimane hanno ospitato favorevoli e contrari al referendum, quindi ne hanno parlato parecchio. Sì, ma con ascolti da prefisso telefonico.
L'Agcom sembra comunque graziare la Rai quando fa sapere, in una nota, che questa programmazione ad hoc su RaiDue «consente di ripristinare le condizioni violate con il programma in questione», quello di Fazio e Littizzetto. Ne sono meno convinti i promotori del referendum, autori della segnalazione all'Agcom. «Bene il richiamo, peccato che ormai il danno sia stato fatto - scrivono i parlamentari della Lega in commissione Vigilanza Rai -. A pagare il danno saranno come al solito i cittadini, che mantengono l'azienda attraverso il canone. È fondamentale che gli italiani siano messi opportunamente a conoscenza che questa domenica 12 giugno si vota per i referendum giustizia, un'opportunità storica per cambiare il sistema». Anche i radicali sono solo parzialmente soddisfatti, «Noi avevamo chiesto che la Rai riparasse con uno spazio dedicato ai referendum con almeno gli stessi ascolti di quello del duetto Littizzetto/Fazio» lamentano i Radicali.
E si apre subito un altro fronte, quello contro il procuratore capo di Trieste, Antonio De Nicolo, secondo cui - dopo una maxi operazione antidroga - se passasse il referendum «questi arresti non si potrebbero più fare, sarebbero messi in libertà con tante scuse del popolo italiano». Una «fake news» di «gravità inaudita» secondo il leghista Roberto Calderoli che ha presentato un esposto alla Cassazione. «La norma in questione resta applicabile ai casi di criminalità organizzata, come quello su cui si è espresso il procuratore capo di Trieste». Un «messaggio fuorviante», parole «oltre che gravemente censurabili, anche destituite di qualsiasi fondamento contenutistico» per cui, secondo Calderoli, si configura come «un'indebita e ingiustificata interferenza nell'esercizio della funzione costituzionale tutelata dall'art. 75 della Costituzione».
Il voto censurato. Pm e giornali, l’asse di potere che silenzia i referendum. Astolfo Di Amato su Il Riformista l'8 Giugno 2022.
La data fissata per il voto sui quesiti referendari è, ormai, imminente. Eppure, il silenzio dei media sui referendum continua ad essere, come si usa dire in questi casi, “assordante”. Lo ha rotto, si fa per dire, Luciana Littizzetto per comunicare, dal palcoscenico della televisione pubblica, che lei andrà al mare. A questo punto diventa inevitabile chiedersi a cosa sia dovuta la congiura del silenzio, alla quale stiamo assistendo e che sembra coronare una strategia volta, sin dall’inizio, a far fallire l’appuntamento referendario.
Il primo contributo l’ha dato la Corte Costituzionale, bocciando, con motivazione molto criticabile, i referendum che più avrebbero sollecitato l’attenzione dell’opinione pubblica, quelli sul fine vita e sulla responsabilità civile dei magistrati. Poi il Governo, invece che le usuali due giornate, ha fissato un solo giorno per la votazione, associandola al voto per le amministrative. Infine, vi è stato e vi è il contributo dei media, che con il loro silenzio operano nella stessa direzione. Perché? Perché si tratta di quesiti troppo tecnici, come dice la Littizzetto, e di un tema che non interessa l’opinione pubblica? Certamente non può essere questa la spiegazione. Quando si è trattato di dare conto all’opinione pubblica delle ragioni che sarebbero state a sostegno dell’accusa di sequestro di persona, a danno di alcuni migranti, nei confronti di Salvini, la grande stampa non ha esitato a dilungarsi su questioni estremamente tecniche, quali quelle delle regole che disciplinano, sul piano nazionale e su quello internazionale, il soccorso in mare o la materia dei migranti.
Si trattava e si tratta di questioni molto più difficili da comprendere di quella, per fare un esempio, relativa alla opportunità che la stessa persona possa tranquillamente passare dalle funzioni di giudice a quelle di accusatore e viceversa. Quanto, poi, alla rilevanza di tutti i temi che riguardano la giustizia, anche oggi che c’è la guerra in Ucraina, basta considerare, per rendersene, conto lo spazio dato dai media alla richiesta di condanna che l’accusa ha formulato nell’ennesimo processo a carico di Berlusconi. A questo punto diventa inevitabile prendere atto che si tratta di una strategia ben consapevole e chiedersi il perché di questa strategia ed a chi faccia capo. Di fronte ad un comportamento così uniforme dei media si pone subito il dubbio se non si sia in presenza di una direzione impressa da un gruppo di intellettuali, titolari, in questa materia, di una egemonia culturale di gramsciana memoria.
Ma ogni dubbio si dissolve immediatamente ove si consideri che, anzi, in questo caso gli intellettuali di maggiore spessore e che fanno opinione in Italia si sono largamente espressi a favore dei quesiti referendari. Se è vero che le maggiori resistenze contro i referendum si annidano nella sinistra, è utile citare le posizioni chiaramente favorevoli ai referendum, espresse da personalità, per fare un esempio, del peso culturale di Sabino Cassese e di Paolo Mieli, che della loro appartenenza a sinistra non fanno mistero. Neppure si può dire che vi sia un timore reverenziale verso la magistratura, atteso il seguito di fiducia che la stessa ha nel paese. Questo era vero rispetto alla magistratura che affrontò gli anni di piombo. Oggi non è così: le ultime rivelazioni dicono che solo meno del 35% dei cittadini ha fiducia nella magistratura, mentre il 60% ritiene, addirittura, che la gestione della giustizia sia dannosa per il paese.
E, allora, quale può essere la spiegazione di questa vera e propria congiura del silenzio? Non si può dimenticare che la magistratura, per quanto oggi screditata, ha comunque un potere enorme che, se opportunamente strumentalizzato dalla stampa, ha mostrato di essere in condizioni di distruggere chiunque. L’esperienza di Mani Pulite ha detto con chiarezza che l’accoppiata potere giudiziario-quarto potere non ha avversari in grado di resistere. È una alleanza che, mettendo insieme da un lato il potere di svolgere indagini molto pervasive, e poco importa la effettiva esistenza di reati, e dall’altro il potere di orientare la pubblica opinione e, anche, di stimolarne gli istinti più primordiali, è in grado di annientare qualsiasi rivale. Ecco, allora, che per un giornale, e ancora di più per la proprietà di un giornale, che ha partecipato a tale accoppiata dare spazio a referendum, volti a riequilibrare i rapporti tra magistratura e politica, significherebbe combattere se stessi. Quanto alla televisione pubblica, poi, basta chiedersi se i partiti che oggi la controllano abbiano beneficiato dell’opera di quella accoppiata. Il silenzio sui referendum dice allora molto di quanto oggi, nella realtà, valga in Italia la volontà popolare. Astolfo Di Amato
Rosario&Ordine. La politica reazionaria dei sovranisti sui diritti umani dei detenuti. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 30 Maggio 2022.
La destra ha contestato il governo per aver finanziato la realizzazione di luoghi dove i detenuti possano stare insieme al loro partner per un giorno al mese. Una misura di civiltà che non piace a chi rivendica il carcere quale esclusiva ignominia afflittiva.
Nel competere in oscenità con la sinistra manettara e con l’armata forcaiola, quella che si compiace se un vecchio malato resta per sempre in carcere e ne esce soltanto «chiuso in una cassa» (così, testualmente, l’altra sera, l’ex magistrato e deputato progressista Giuseppe Ayala), la presunta controparte di destra si è recentemente esercitata nella contestazione dei propositi di stanziamento governativo per finanziare la realizzazione di luoghi in cui i detenuti, per un giorno al mese, possano stare in intimità con il partner.
Ripugna alla destra moderna e cristiana (Rosario&Ordine, per capirsi) anche la sola idea che ai detenuti sia consentito di “sfogare i propri istinti” a spese dei contribuenti, e quindi essa si aduna nella protesta contro il governo per cui (così, ancora testualmente, si bercia dai ranghi di Fratelli di Italia): «La priorità è garantire ai detenuti il massimo comfort e una brillante vita sessuale».
Non c’è neppure, a sorreggere questa requisitoria, la improbabile esigenza sicuritaria evocata da un altro bel campione della giustizia piombata, quel Nicola Gratteri specializzato in rastrellamenti e nella prefazione di libri negazionisti firmati da autori di propaganda neonazista: c’è proprio, e soltanto, la rivendicazione del carcere quale esclusiva ignominia afflittiva, e il solito vellicamento della reazione plebea al lassismo oltraggioso che si preoccupa del sollazzo dei condannati.
Se dovessimo fare ironia potremmo indugiare sulle abitudini di chi considera “brillante vita sessuale” il convegno di ventiquattro ore al mese (discutiamo di questo) in qualche ridotta di una prigione: chissà che tanta acrimonia, tanto risentimento, tanto ribollire di rabbia, non trovino causa in qualche insoddisfazione cui un po’ di esercizio offrirebbe salutare rimedio. Ma non c’è proprio nulla su cui scherzare, perché qui si tratta della disperante dimostrazione (Donna Giorgia perdonerà se usiamo il maschile) che il meglio fico del bigoncio di destra rimane sempre il frutto pessimo dell’eterno albero reazionario e illiberale. Quello che, per quanto la stampa coi fiocchi lo inzuccheri per adibirlo a punto di riferimento fortissimo delle affascinanti avventure alternative, va di traverso a chiunque chieda a qualsiasi leader del 2022 il minimo sindacale di un pizzico di civiltà.
Le proposte folli. Buttiamoli in cella a 12 anni, ecco giustizialisti e populisti dalla soluzione a portata di manette…Francesca Sabella su Il Riformista il 27 Maggio 2022.
Lo sentite anche voi il tintinnio delle manette luccicanti? Sì, sono tornati loro, i politici dalla soluzione facile a portata di mano… anzi di manette. I giustizialisti dalla cella sempre spalancata. Anche se si tratta di bambini. Al diavolo le motivazioni che ci sono dietro quegli sbagli. In gattabuia, subito. Questa volta i populisti con la forca in mano sono il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Carmela Rescigno e il coordinatore di Napoli di Fdi Sergio Rastrelli. “Fratelli d’Italia denuncia con grande preoccupazione l’immobilismo delle istituzioni, locali e nazionali, a fronte dell’aumento esponenziale in città di fenomeni di criminalità minorile”.
Ma a preoccupare davvero è la loro proposta. “Sul fronte legislativo, attraverso proposte di adeguamento dell’impianto normativo e del codice penale minorile, ormai del tutto inadeguati alla emergenza del momento; sul fronte amministrativo, attraverso un piano coordinato di intensificazione dei controlli; sul fronte educativo, provando a potenziare l’offerta scolastica. In tale ambito, il tema dell’adeguamento della età imputabile è un tema certo delicato, che va però assolutamente preso in considerazione, e senza vincoli ideologici, purché posto in stretta correlazione con l’esigenza di affrontare e risolvere le drammatiche condizioni delle carceri minorili, che sono diventate fucine di professionisti del crimine”.
Quindi, li arrestiamo subito, a dodici anni e li mandiamo in comunità o nei centri di prima accoglienza. Poi contestualmente vediamo di migliorare un po’ la situazione delle carceri minorili. Ma non è tutto. Secondo Rescigno e Rastrelli “giusto prevedere la sospensione della patria potestà, e l’allontanamento dei minori da un contesto familiare inadeguato, magari con l’affidamento dei minori a rischio in istituti in regime semiconvittuale, ovvero individuando altre misure anche di ordine coercitivo – quale ad esempio la libertà vigilata, tese sempre però – ci tengono a precisare – alla rieducazione dei minori, e al loro reinserimento in funzione rieducativa”. «L’argomento non è nuovo: se si abbassasse l’età imputabile si risolverebbero i problemi. Credo che non risponda assolutamente a verità. Anzi – commenta l’avvocato Mario Covelli, presidente delle Camere Penali Minorili – l’età imputabile fissata a 14 anni andava bene nel 1930 perché i ragazzi erano più tranquilli e perché l’ambiente era diverso. Ora i tempi sono cambiati – aggiunge – ma secondo alcuni l’età è troppo alta per la soglia di imputabilità? È vero il contrario! Nella società semplice, soprattutto che viveva sulla base dell’agricoltura e con rapporti familiari solidi, un ragazzo di 14 anni era molto più maturo rispetto a un quattordicenne di oggi che vive in una società digitale sempre più complessa che dà vita a ragazzi molto fragili».
Una possibile soluzione sarebbe quella di prevenire l’atto violento. «Servirebbe un provvedimento chiaro per dare alla polizia l’autorizzazione a controllare di più i minori in modo da evitare tragedie – suggerisce Covelli – Basterebbe intervenire sull’istituto dell’accompagnamento e permettere alla polizia di accompagnare in questura i minori che hanno un comportamento aggressivo, chiamare i genitori e con loro verificare la situazione anche alla presenza di un legale». Peccato che questa e altre proposte non possano essere fatte alla presenza degli addetti ai lavori. «Non riesco a capire perché la camera penale minorile non viene invitata ai congressi nei quali si parla di minori. Il 6 giugno ce ne sarà uno a Napoli e nessuno ha chiesto la nostra presenza – afferma Covelli – Sono sicuro che ci saranno tante persone illustri ma non mi pare che abbiano mai frequentato le aule giudiziarie minorili».
La verità è che non si riesce a cercare le motivazioni dietro questi atti. Si fatica a capire che alla base di ogni comportamento criminoso da parte di un adolescente vi sono bisogni educativi, emotivi e materiali, insoddisfatti e una gravissima assenza degli adulti. Si ignora che la commissione di un reato da parte di un ragazzino è l’espressione di un fallimento, non del ragazzino, quanto dei grandi che non gli hanno saputo garantire quel benessere cui ogni minore avrebbe diritto. Ma d’altronde perché indagare sulle motivazioni se li si può sbattere in cella subito? Magari anche senza cena…
Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
Il fine pena mai proposto dalla Meloni è una vendetta che rende la società più insicura. Salvatore Curreri su Il Riformista il 12 Novembre 2021.
Le due proposte di legge (l’una costituzionale, l’altra ordinaria) presentate da Fratelli d’Italia per scongiurare, a loro dire, lo “smantellamento” del carcere ostativo per i boss mafiosi dimostra una volta ancora, ed in modo tristemente inequivocabile, quanto ancora lunga sia la strada che separa una certa cultura politica che pur si candida alla guida del Paese dai principi della nostra Costituzione sulla pena e la sua funzione, nonostante ci separino quasi 75 anni dalla sua approvazione e più di 250 dal Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria.
Difatti, tra le tre possibili finalità della pena – intimidatoria, afflittiva ed emendativa – i costituenti (alcuni dei quali il carcere l’avevano vissuto di persona) decisero di privilegiare quest’ultima. Da qui, l’art. 27.3 Cost. secondo cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Non è dunque vero che le finalità della pena sono equivalenti (c.d. concezione polifunzionale), come reiteratamente si afferma nella relazione della proposta di legge costituzionale a prima firma Giorgia Meloni, perché, come recentemente affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 149/2018 (non a caso mai citata in tale relazione) la rieducazione del condannato è la finalità principale e ineludibile della pena e non può mai essere sacrificata «sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena».
Del resto, è proprio per smorzare e, in fin dei conti, contraddire la prevalente finalità rieducativa che Fratelli d’Italia propone d’aggiungere al citato art. 27.3 Cost. l’inciso per cui «la legge garantisce che l’esecuzione delle pene tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini», perché – Meloni dixit – «a me che tu hai avuto una buona condotta in carcere o che hai partecipato a programmi di rieducazione non frega niente se sei stato un mafioso che hai ammazzato». Una modifica che finirebbe per sfregiare il “volto costituzionale” della pena, che deve sempre essere proporzionale anziché eccessiva, individuale anziché fissa, flessibile in corso dell’esecuzione anziché immodificabile. Ciò nella convinzione, sottesa alla nostra Costituzione e sideralmente distante dalle parole della Presidente di Fratelli d’Italia, che «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento» che chiama in causa sia la sua responsabilità individuale «nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità», sia «la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino» (C. cost. 149/2018, 7).
Sono questi i principi che hanno portato dapprima la Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Viola del 13 giugno 2019 confermata dalla Grande Camera il successivo 8 ottobre) e la Corte costituzionale (sentenze nn. 253 e 263 del 2019 e 97 del 2021) a dichiarare illegittimo il divieto assoluto di accesso a benefici carcerari (permessi premio e liberazione condizionale, peraltro dopo almeno 26 anni di pena scontata) ai condannati per reati associativi di particolare allarme sociale (tra cui mafiosi e terroristi) perché non avevano collaborato con la giustizia. Difatti, come il “collaborare” non implica sempre “un vero pentimento” (come dimostrano i falsi pentiti), analogamente il “non collaborare” non significa sempre “assenza di pentimento”, specie quando ciò è dovuto ad altri fattori, come il timore di ritorsioni contro i propri familiari.
Il “fine pena mai” per mafiosi e terroristi dunque contrasta radicalmente con la finalità rieducativa della pena. Ed è solo frutto di una banalizzazione a fini propagandistici affermare che ad un boss mafioso basta aver tenuto una buona condotta in carcere e partecipato ad un programma di rieducazione per essere scarcerato. Spetta, infatti, sempre al giudice di sorveglianza, infatti, valutare attentamente caso per caso la sua effettiva pericolosità sociale, anche qui senza automatismi o presunzioni assolute, sulla base dell’effettiva interruzione dei suoi rapporti con la criminalità organizzata e della sua fattiva partecipazione al percorso rieducativo. Valutazione peraltro compiuta alla luce delle relazioni del carcere nonché dei pareri della Procura antimafia antiterrorismo e del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Del resto i numeri sono lì a dimostrare quanto le maglie siano rimaste strette, anche dopo le sentenze della Corte: sono stati infatti solo otto i permessi accordati agli ergastolani e nessuno di loro era sottoposto al carcere duro del 41-bis.
Consapevole comunque della delicatezza della materia, la Corte costituzionale, nell’ultima sentenza, ha affidato al legislatore il compito, entro il prossimo 22 maggio, di ridefinire la materia, bilanciando i diritti dell’ergastolano con le esigenze di contrasto del fenomeno mafioso. In questa prospettiva le proposte di legge presentate da Fratelli d’Italia e tutte quelle che tendono a reintrodurre il c.d. ergastolo ostativo per mafiosi e terroristi che non collaborano con la giustizia si pongono pervicacemente contro l’articolo 27 della Costituzione sulla finalità rieducativa della pena (che non a caso, come detto, si vorrebbe modificare), di fatto ignorando (o facendo finta d’ignorare) che tale preclusione assoluta è stata già dichiarata incostituzionale dalla Corte.
Molto più utili in tal senso sono, piuttosto, le proposte di legge che cercano di rispondere positivamente alle esigenze di bilanciamento sollecitate dalla Corte costituzionale. In questo senso merita particolare menzione quella avanzata dalla Fondazione Giovanni Falcone (tanto per capire chi ne interpreta correttamente il pensiero e chi no). Del resto, come opportunamente ricordato su queste colonne da Tiziana Maiolo, proprio Giovanni Falcone aveva subordinato l’accesso ai benefici penitenziari all’accertamento da parte del giudice di sorveglianza dell’inesistenza di collegamenti con la criminalità organizzata e non alla collaborazione con i pubblici ministeri, introdotta piuttosto con il successivo decreto Martelli dell’8 giugno 1992, dopo le stragi di quell’anno. La proposta della Fondazione subordina l’accesso alla libertà vigilata dei mafiosi e terroristi condannati all’ergastolo, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, non solo al loro “contributo per la realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali”, ma anche alle loro iniziative in favore delle vittime ed alla loro effettiva partecipazione alle forme di giustizia riparativa (tema giustamente molto caro all’attuale ministra della Giustizia).
Un’ultima considerazione. Agli alfieri del populismo penale che ritengono la finalità rieducativa della pena discorso da “anime belle” che ignorano come il carcere debba essere una “discarica sociale” popolata da condannati che vi devono marcire sino all’ultimo giorno di pena, forse (ma solo forse) vale la pena ricordare che rieducare ogni condannato non è solo un obbligo morale ed un vincolo costituzionale ma costituisce il miglior investimento economico per assicurare la sicurezza sociale. È infatti statisticamente dimostrato che i condannati anche per gravi delitti che abbiano potuto acquisire in carcere una professionalità lavorativa o fruito di permessi, premi e misure alternative alla detenzione non solo non tendono a fuggire ma, una volta scarcerati, in massima parte si reinseriscono più facilmente nella società e tornano meno a delinquere. Il che significa minore tasso di recidività, più sicurezza sociale e, quindi, meno costi per lo Stato. Di contro, il 70% di quanti hanno espiato fino all’ultimo giorno la pena in galera commettono nuovi reati. E purtroppo l’albero fa rumore quando cade, non quando cresce. Salvatore Curreri
No, Salvini non aveva ragione a citofonare solo perché ora la famiglia è indagata. Giampiero Casoni il 27/05/2022 su Notizie.it.
Quando Salvini chiese “Scusi, lei spaccia?” quello fu, è e resterà un fatto assolutamente irrituale per un leader politico e un uomo delle istituzioni.
La ragione ex post, cioè quella che ti arriva dopo che l’avevi impugnata senza aver ragione di farlo, è la cosa più maledetta del mondo e lo è per due motivi. Primo, perché quando te la prendi gratuitamente in anticipo fai delle grosse figure di roba calda e marrò.
Secondo: perché quando poi te la intesti di nuovo sulla scia degli eventi successivi dai l’impressione non di aver avuto ragione, ma di aver avuto culo.
Ora, a meno di non voler far cadere Matteo Salvini nella broda mistica della preveggenza stile Minority Report il dato è uno solo: se la famiglia di tunisini che lui prese di mira nel 2020 in campagna elettorale sarà condannata per droga, allora quello diventerà un fatto giudiziario, tuttavia quando il Salvini medesimo la andò a “stuzzicare” al citofono con il mantra “Scusi, lei spaccia?” quello fu, è e resterà un fatto assolutamente irrituale per un leader politico ed un uomo delle istituzioni e non c’è carpiato quantico che tenga.
Oggi il conducator del Carroccio pigola come un chiurlo in fregola da siepe e sui social scrive tronfio che “il tempo è galantuomo” e che “la sinistra aveva difeso la famigliola”, cioè cerca di alzare la gamba su un albero che lui stesso aveva considerato povero di frutti. Quando? Quando Salvini medesimo, non sapendo che di lì a qualche mese un blitz della polizia gli avrebbe scodellato di nuovo la faccenda davanti, ammise che quello di citofonare al giovane tunisino in sentor di spaccio era stato un errore.
In punto di Diritto lui non violò alcuna legge, è vero, tant’è che un Gip archiviò una presunzione di reato per diffamazione oggettivamente insostenibile in un dibattimento che non si tenesse in un Cim, ma il dato etico resta. Resta perché fare una cosa stupida non la rende meno stupida o riabilitabile solo perché in un’altra casella temporale la polpa di quella cosa stupida trova struttura, non funziona così e lo sappiamo tutti.
E lo sa anche Salvini, che però sa anche che queste capriole logiche non sono numero per il circo social da cui attinge consensi e “vai Capitano”. Lì la faccenda è più basica e primordiale: Matteo, il Buon Vecchio Matteo aveva ragione e lo sapeva prima di tutti che lì qualcosa puzzava e onore al suo Fiuto Ottimo Massimo ed alla conferma che la sua è la Via Maestra.
Di questi tempi e con Giorgia Meloni che per guardarlo deve farsi venire il torcicollo va bene anche questa fuffa vaticinante, perché alle ragioni insostenibili ci si attacca solo chi è allo stremo. Allo stremo come il Buon Vecchio Matteo che nel 2020, giusto prima della scoppola elettorale esattamente dove impugnò il citofono, aveva il 30% ed oggi se solo vede il 16% sui monitor stappa lo champagne.
L’opzione grillino-manettara. Il terrificante ritorno della vocazione giustizialista del Pd. Mario Lavia su L'Inkiesta il 28 maggio 2022.
La decisione di Enrico Letta di votare no ai 5 referendum e di candidarsi col M5S in Sicilia rischia di azzerare i progressi fatti finora per creare una area riformista e garantista. E, peggio ancora, rischia di rianimare un movimento in declino con un leader che le ha sbagliate tutte.
La doppia scelta di Enrico Letta di stringere un’alleanza super-strategica con il Movimento 5 stelle in Sicilia e indicare 5 No ai referendum sulla giustizia del 12 giugno riporta il Partito democratico su lidi che si pensavano abbandonati, quelli del giustizialismo e dell’alleanza preferenziale con il manettarismo. La coincidenza temporale delle due decisioni è casuale ma determina lo stesso un mix difficile da far ingoiare a quei militanti del partito che in questi lunghi anni erano giunti a posizioni più garantiste e libertarie e soprattutto a un’area liberale, libertaria e democratica che da anni guarda al Pd come al soggetto che più di ogni altro potrebbe finalmente mettere al centro della politica i diritti del cittadino tagliando le unghie a un certo superpotere della magistratura.
L’opzione grillino-manettara non potrà far altro che scavare altri solchi con formazioni riformiste e garantiste, dai radicali ai socialisti, da Azione a Italia viva a settori di Forza Italia, tutte forze, tra parentesi, che sostengono con forza il governo Draghi.
Ma andiamo con ordine. Sui referendum del 12 giugno, ritenendo che non si raggiungerà il quorum (il che, stando ai sondaggi, non è affatto scontato), il Pd ha scelto sostanzialmente di defilarsi non senza rinunciare ad ammiccare a quella parte della magistratura che non tollera che si cambi alcunché, né nella organizzazione/rappresentanza (i quesiti sulla separazione delle funzioni, la valutazione, la vexata questio della riforma del Consiglio superiore della magistratura) né sulla riguardano la modifica della legislazione (i due quesiti sulla Severino e sulla restrizione delle ragioni della custodia cautelare).
Il Nazareno ha scelto di chiudere la pratica senza nemmeno averla aperta, evitando una discussione di merito in una frettolosa riunione della Direzione, la quale avrebbe dovuto tenere conto dei tanti pronunciamenti per il Sì di esponenti anche di primo piano, da Matteo Orfini a Stefano Ceccanti a Enrico Morando (ieri questi ultimi hanno tenuto una conferenza stampa alla Camera organizzata insieme a Linkiesta), da Andrea Marcucci ad Alessia Morani a Fausto Raciti.
Invece Letta ha scelto una posizione di conservazione dell’esistente, valorizzando i piccoli passi in avanti fatti con la legge Cartabia ma rinunciando a spingere più in là i paletti di una battaglia garantista e democratica grazie a quella che potrebbe essere una forte spinta referendaria. È anche vero che l’indicazione nazionale non vincola nessun iscritto ma l’aspetto più criticabile è che il Pd come tutti gli altri partiti, siano essi per il No o per il Sì, ha mosso un dito per informare i cittadini che tra tre domeniche si terrà un referendum su un tema caldo come la giustizia: e naturalmente, all’interno di questa circostanza grave, c’è da rimarcare quella ancora più grave della totale assenza della Rai che si sta limitando a servizi burocratici senza un minimo di vero lavoro giornalistico. Non si sta pertanto ledendo il diritto dei cittadini a essere informati sulla vita politica e istituzionale del Paese? Che dice Letta di questa lesione?
E poi c’è questa notizia piombata come un fulmine a ciel sereno dell’intesa tra Il segretario del Pd e Giuseppe Conte, che ormai vanno a pranzo insieme quasi tutti i giorni, per tenere le primarie per la scelta del candidato governatore in Sicilia, dove si voterà l’anno prossimo. È una scelta che di fatto, senza che se ne sia discusso a livello centrale, inserisce il M5s in un’alleanza organica di centrosinistra – almeno in Sicilia – e rimette la scelta del candidato nelle mani del partito di Conte, un partito non solo sempre più distante dal Pd in politica estera e sulla guerra di Vladimir Putin ma da sempre connotato come il più giustizialista, manettaro e amico di precisi settori della magistratura.
Tra l’altro, in questo pre-accordo, Conte ha già bocciato il nome di Peppe Provenzano, vicesegretario del Pd, con la bizzarra motivazione che sarebbe troppo forte rispetto a qualsiasi candidato grillino (d’altronde è lo stesso ragionamento che l’avvocato fece l’anno scorso a Napoli quando disse no a Enzo Amendola), quindi meglio una mezza figura purché il Movimento non venga umiliato nei gazebo. Figuriamoci se questo schema dovesse essere applicati nei collegi uninominali alle politiche! «Per battere la destra serve l’alleanza con il M5s», dicono i big del Nazareno.
Sarà. Ma è anche possibile – come ci dice un autorevolissimo parlamentare dem – che tra un anno il Movimento sarà già esploso e Conte non sarà più nessuno: allora a che serve fargli la respirazione bocca a bocca? Ma tornando al punto, se unite il puntino referendum a quello Sicilia ecco che inaspettatamente si disegna sul muro della politica il vecchio spettro del giustizialismo, un’involuzione seria sul tema dei diritti e della giustizia. È la posta in palio il 12 giugno.
Galera non negoziabile. I referendum cancellati e la perversione del sistema penale. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 19 Maggio 2022.
Il silenzio di alcuni politici e di tanti magistrati sui quesiti referendari ha una spiegazione: a prescindere da come si voglia riformare la giustizia, per (quasi) tutti è meglio discutere e scioperare su temi periferici, a distanza di sicurezza dal cuore del sistema Italia.
Bisognerebbe evitare di trarre conclusioni troppo positive dal risultato modesto, se non fallimentare, dello sciopero proclamato dall’Associazione nazionale magistrati contro la legge di riforma dell’ordinamento giudiziario e del sistema di elezione del Consiglio superiore della magistratura, intestata alla ministra della Giustizia Marta Cartabia.
È stato uno sciopero contro una legge che sfata il tabù dell’intoccabilità di alcuni temi, ma che comunque li tocca in modo parziale e insufficiente. Adesso è forse più probabile l’approvazione definitiva della legge al Senato, ma non lo è altrettanto che, a partire da questa legge, si facciano rapidamente i necessari passi avanti, che invece un vasto fronte politico-giudiziario considera impraticabili o comunque prematuri.
Il risultato di questo sciopero e della mobilitazione resistenziale dell’Anm andrà letto, come si dice in burocratese, in combinato disposto con quello dei referendum che andranno al voto il prossimo 12 giugno e che uno schieramento trasversale, che unisce favorevoli e contrari alla (micro)riforma Cartabia, lavora per tenere lontanissimi dal quorum, che ne garantirebbe la validità.
In fondo, il vero compromesso politico che sembra reggere tra la maggioranza dei partiti e la maggioranza delle toghe è quello di limitare alla diatriba efficientistica il dibattito sulla giustizia, lasciando da parte le questioni, ben più cruciali, che attengono alla funzione e ai limiti costituzionali della legislazione e della giurisdizione penale: funzione pervertita e limiti travolti da una deriva panpenalistica e punitivistica, che non ha affatto opposto, ma piuttosto affratellato la maggioranza dei politici e dei magistrati, e ha aperto la strada a una proliferazione letteralmente metastatica di norme incriminatrici, alla neutralizzazione del principio della presunzione di innocenza, alla dilatazione del dominio della giustizia penale, fino a farne un’istanza di tutela generale e commissariale della vita pubblica e alla conseguente rivendicazione da parte dei magistrati inquirenti di una vera e propria rappresentanza dell’interesse popolare.
I referendum, se si aprisse una discussione pubblica, che ci si guarda bene dall’aprire, aiuterebbero a manifestare la portata dei problemi della giustizia penale in Italia e, problema nel problema, la sostanziale unità tra la maggioranza delle forze politiche e delle correnti togate attorno ai bastioni normativi e simbolici della giustizia a furor di popolo.
Facciamo un esempio concreto, quello dei due referendum che mettono al centro lo scandalo della presunzione di innocenza calpestata e negata in nome della assurda funzione segnaletica della giustizia penale: la galera o altre forme di limitazione della libertà e dei diritti individuali come messaggio sociale. Sulla custodia cautelare e sulla legge Severino la coalizione del NO è trasversale – da Letta a Meloni – unita e tetragona proprio perché la carcerazione o l’espulsione preventiva dalla vita civile dei cosiddetti inquisiti, marchio di infamia imperituro dalla stagione di Tangentopoli, è diventato il valore non negoziabile del nostro dibattito civile, la divisa d’ordinanza della Repubblica trasformistica dell’o-ne-stà.
La giustizia è stata corrotta proprio da questa idea provvidenzialistica e la politica è stata infettata proprio da questa idea igienistica del sistema penale. Quindi anche quanti – non c’è politico che astrattamente non lo faccia – riconoscono gli abusi della custodia cautelare e gli eccessi della legge Severino devono in grande maggioranza essere contro i referendum su questi temi, perché non possono riconoscere lo scandalo che scoperchiano.
Insomma, la strategia del silenzio sui referendum, certo favorita dall’emergenza politico-mediatica della guerra, ma perseguita con metodo scientifico, fa parte della più ampia strategia di continuare a discutere, litigare e magari scioperare su temi che stanno a distanza di sicurezza dal centro del problema della giustizia penale in Italia.
Il carcere, insomma, con i problemi che porta, è diventata una patata bollente che si vuole accollare tra le mani del primo che passa, visto che non è neanche un affare economico tanto che con il PNRR Italia pare che gli stanziamenti siano di 132,9 milioni di euro
Pd spaccato sul referendum. Referendum sulla giustizia, Letta cancella Moro e resta in scia di Conte. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Maggio 2022.
Oggi la Direzione del Pd deciderà cosa dire agli elettori in vista dei referendum del 12 giugno. Quelli sulla giustizia. Ci risulta che il Pd sia spaccato. Non tanto sulla possibilità di una scelta pienamente garantista, perché questa comunque è esclusa da tutti; ma sull’indicazione da dare su tre dei cinque referendum. La maggioranza del Pd è per cinque no. Per una ragione semplice: restare sulla scia dei Cinque Stelle e stringere con loro un patto sulla difesa del giustizialismo, visto che su altri temi – la guerra per esempio – la distanza politica tra i due partiti è piuttosto vasta.
Esiste però una minoranza, un pochino pochino più liberale, la quale vorrebbe che almeno sui primi tre referendum (quelli che riguardano la parzialissima divisione delle carriere dei magistrati, la valutazione delle toghe e il sistema di elezione del Csm) il Pd desse l’indicazione di votare sì. Per ragioni di principio, diciamo così. Con l’idea che talvolta i principi possano sopravanzare le ragioni delle alleanze. Quello sul quale sono tutti fermissimi è la necessità di compattarsi per evitare che siano abbattuti i due pilastri più robusti del giustizialismo: l’abuso della carcerazione preventiva (mille innocenti in galera ogni anno: tre al giorno) e la legge Severino (che considera colpevoli, e le punisce, persone condannate solo in primo grado e dunque innocenti di fronte al codice e alla Costituzione). Il Pd su questi due punti è granitico. Intaccare il diritto d’abuso da parte delle toghe, e difendere i diritti delle persone, viene considerato dal Pd un cedimento inaccettabile a una idea libertaria e anarchica della società.
Letta cosa farà? Farà prevalere lo spirito patibolista del suo partito (o farà prevalere le esigenze della alleanze con Conte e Bonafede), oppure si ricorderà da dove viene? Volete sapere da dove viene? Dalla corrente di sinistra, morotea, della Dc. Quella che faceva del garantismo l’architrave della sua costruzione politico-giudiziaria. Offro un modestissimo consiglio al capo del Pd: si rilegga il monumentale discorso pronunciato da Aldo Moro a difesa di un grande personaggio politico, Luigi Gui, accusato ingiustamente per lo scandalo Lockheed.
È uno dei più bei discorsi pronunciati in Parlamento nel dopoguerra. Un anno prima di essere trucidato dalle Br. A viso aperto. Contro tutto e tutti: i giornali, le Tv, il partito comunista, i radicali, i fascisti, persino contro Pasolini. E a difesa strenua e impavida dello Stato di diritto, che non è un pupazzetto da usare o dismettere a seconda delle convenienze politiche. Onorevole Letta, per favore, ripensi a Moro. Alla sua gioventù in quegli anni feroci. Lasci aperto uno spiraglio a chi crede nelle libertà e non crede alle manette.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Il discorso nella direzione PD. Letta si piega ai manettari 5 Stelle, ‘no’ del PD al referendum sulla giustizia: unica apertura sulla legge Severino. Carmine Di Niro su Il Riformista il 17 Maggio 2022.
La sorpresa, quel ‘colpo di reni’ in chiave garantista, non è arrivata. Enrico Letta aprendo la direzione del Partito Democratico ha ribadito di fatto il suo ‘no’ ai cinque quesiti referendari sulla giustizia. Il segretario Dem ha spiegato nel suo discorso di apertura che sui referendum “proporrò un orientamento di fondo”, appunto il ‘no’ ai cinque quesiti, ma “il Pd non è una caserma, c’è la libertà dei singoli che resta in una materia come questa”, dunque lascerà libertà ai parlamentari e agli iscritti.
Letta ha sottolineato nel corso del suo intervento che i cinque quesiti referendari “sono molto diversi tra di loro, non è coi referendum che si fa una riforma complessiva. Noi siamo per una riforma complessiva. Non vorrei avessimo una sudditanza psicologica nei confronti di proposte che vengono da sette consigli regionali del centrodestra”.
Entrando poi ‘nel merito’, Letta ha anche aggiunto che una vittoria del sì “aprirebbe più problemi di quanti ne risolverebbe. Gli interventi da fare sono da fare in Parlamento”.
Unica proposta arrivata da Letta è quella di rilanciare l’impegno “a cambiare la legge Severino perché va cambiata sulla parte che riguarda gli amministratori locali, ma l’iniziativa referendaria peggiorerebbe il quadro”.
Una scelta, quella del segretario Dem, che va letta nell’ennesimo tentativo di ricucire gli strappi con gli ‘alleati’ pentastellati di Giuseppe Conte: dopo le evidenti divergenze sul conflitto in Ucraina, sulla posizione da tenere sull’invio delle armi a Kiev, il ‘campo’ della giustizia per Letta è un terreno su cui ricostruire un rapporto più saldo.
Ma è atteso anche un ‘vivace’ confronto all’interno del partito: c’è attesa in particolare per per gli interventi di Matteo Orfini, Andrea Marcucci e Andrea Romano, mentre il sindaco di Bergamo Giorgio Gori ha già fatto sapere di votare sì a tutti i quesiti.
Proprio Marcucci al termine dei lavori della direzione ha sottolineato come “non abbia senso” dare una “rigida indicazione di partito” sui referendum, che “sollevano temi che per loro natura interrogano la libertà di coscienza”. L’ex capogruppo Dem al Senato ha rimarcato che “come garantista sottolineo che sulla carcerazione preventiva e sulla legge Severino è necessario intervenire, il mantenimento dello status quo è deleterio. Il 12 giugno è un’occasione per ribadire la centralità della giustizia, ma ricordiamoci che in ogni caso, il Parlamento dovrà sciogliere questi nodi”.
La posizione di Renzi
Parole ben diverse sono arrivate, quasi in contemporanea, da Matteo Renzi. Il leader di Italia Viva alla presentazione a Montecitorio del suo libro ” Il Mostro”, ha ovviamente ricordato il suo impegno per i referendum e il suo voto a favore dei cinque quesiti “ma non sono ottimista sul fatto che arriveremo al quorum, è una ipotesi complicata“.
“Quanto alla riforma, quella di Bonafede era dannoso, quella Cartabia è inutile. O diamo responsabilità vera a chi sbaglia e eliminiamo le appartenenze di corrente per fare carriera o la giustizia non migliorerà mai”, ha aggiunto Renzi.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Il giustizialismo di chi non si guarda allo specchio. Francesco D’Errico, presidente Extrema Ratio, su Il Dubbio il 15 maggio 2022.
È di gran lunga la forma peggiore di giustizialismo, quella di chi scambia il reato con il peccato, il diritto con la morale, di chi confonde la giustizia penale con la giustizia sociale, il giusto processo con la vendetta pubblica organizzata.
I fattori che portano i più a sposare una concezione punitivista della giustizia sono molteplici. Vari e di diversa natura, tutti contribuiscono alla formazione di una convinzione giustizialista.
Per citarne qualcuno, si potrebbe partire dalle paure, dai timori e dalle fobie covati irrazionalmente e rafforzati quotidianamente dall’allarmismo mediatico. In certi casi, invece, a incidere negativamente è la formazione politica che, a seconda dello schieramento, suggerisce l’utilizzo strumentale della spada penale nei confronti di questa o di quella categoria, consiglia la lotta a questo o quel nemico attraverso il braccio armato della legge. Oppure, più semplicemente, nella costante estemporaneità del quotidiano, l’assenza dei momenti o della volontà per approfondire, per interrogarsi su cosa sia una giustizia giusta, giocano un ruolo non secondario. Tra tutte queste ragioni, le quali appaiono talvolta addirittura comprensibili o comunque giustificabili, ce n’è una che, rendendo quasi impossibile il confronto, risulta particolarmente insopportabile.
È di gran lunga la forma peggiore di giustizialismo, quella gridata dai “puri” che puntano l’indice contro gli “impuri”; quella dei ricchi che ritengono che i poveri nascano criminali e quella dei poveri che si convincono che solo i ricchi possano delinquere; quella di chi scambia il reato con il peccato, il diritto con la morale, di chi confonde la giustizia penale con la giustizia sociale, il giusto processo con la vendetta pubblica organizzata. Si tratta della più arrogante e della più cieca delle convinzioni: riposa sulla supposta ed autoattribuita superiorità morale di chi considera e definisce ad alta voce il diritto penale “il diritto dei delinquenti”, a volersene distanziare, a sottolineare il divario che esisterebbe tra chi parla e chi ne viene travolto, di chi è convinto che servano leggi più dure, pene più aspre e maggiore severità, convinto che questa violenza lo proteggerà e che da essa non verrà mai colpito.
È questo il giustizialismo di chi non si guarda allo specchio, negando la sua umanità, o di chi ci si guarda troppo, dimenticandosi della sua fallibilità. È, in definitiva, l’opposto esatto del garantismo, che è certezza del dubbio, esercizio del limite e fiducia nell’uomo. Francesco D’Errico, presidente Extrema Ratio
Davigo giudice inflessibile: spietato pure coi clochard. Luca Fazzo il 13 Maggio 2022 su Il Giornale.
In Cassazione ha accolto pochissimi ricorsi: l'indole da pm non è mai svanita. Il caso limite di un senzatetto.
Bisognerebbe dirlo al signor Mohamed E.D., ciò che la Associazione nazionale magistrati va spiegando in ogni dove in queste settimane: e cioè che un sistema in cui lo stesso magistrato fa prima il giudice e poi il pubblico ministero, o viceversa; e poi magari cambia di nuovo casacca, in un alternarsi di ruoli; tutto questo è nell'interesse del cittadino, perché quel magistrato avrà visioni più ampie, una cultura del diritto e non dell'accusa fine a se stessa. Per questo l'Anm si batte contro il referendum che il 12 giugno dovrebbe separare rigidamente le due carriere: invitando a votare no, o ancora meglio ad andarsene al mare facendo fallire il quorum.
Il signor Mohamed però ha sperimentato sulla sua pelle cosa significa essere giudicato da un giudice che fino a poco prima faceva il pm, e cioè l'accusatore di professione. Dell'intera categoria, si è trovato di fronte l'esempio più famoso: Piercamillo Davigo, per una vita sostituto procuratore a Milano, promosso dal Csm nel 2005 a giudice di Cassazione e nel 2016 a presidente di sezione. In quella veste, prima alla settima sezione e poi alla seconda, Davigo si è trovato a valutare centinaia di ricorsi: la maggior parte di imputati condannati, una quota minore di procuratori che impugnavano sentenze di assoluzione, o di condanne troppo blande (a loro dire).
Come si è comportato Davigo? La banca dati della Cassazione contiene 390 sentenze in cui il presidente era l'ex «Dottor Sottile» del pool Mani Pulite. Spulciarle una per una è una lettura istruttiva, e ancora più istruttivo è fare due conti. Come presidente della Settima sezione, Davigo esamina 66 ricorsi e ne accoglie solo due, obbligato a farlo perché nel frattempo la vittima ha ritirato la querela. Ma sarebbe sbagliato dedurre solo da questo l'idea di un Davigo implacabile: la Settima è una specie di sezione discarica, cui vengono inviati i ricorsi più chiaramente inammissibili. Niente di strano se Davigo si adegua.
Il problema è che la situazione cambia di poco quando, alla fine del 2017, Davigo passa alla seconda sezione. È una sezione «normale», dove l'annullamento di un numero significativo di condanne sarebbe la prova fisiologica di un buon andamento della Cassazione. Alla seconda, Davigo firma come presidente 305 sentenze. E per 226 volte dichiara inammissibile il ricorso: è la formula più dura, quella che fa diventare definitiva la condanna anche se nel frattempo il reato si è prescritto. A volte con poche righe, a volte più diffusamente, Davigo e i suoi colleghi di sezione spiegano che quei ricorsi non potevano neppure essere presentati, e condannano l'incauto ricorrente anche al pagamento delle spese.
Si dirà: 226 su 305 non sono poi tantissime, significa - matita alla mano - che in altri 79 casi l'implacabile Davigo ha preso atto che l'imputato aveva ragione a protestarsi innocente. Ha rinunciato, cioè, al suo vecchio teorema per cui «non esistono innocenti ma colpevoli che l'hanno fatta franca». In realtà per ben ventisei volte Davigo ha accolto ricorsi presentati dalla Procura, dalla Procura generale o dalla parte civile, che non si erano accontentate della sentenza di primo grado e d'appello. Anche in questi casi, la bilancia di Davigo ha pesato dalla parte dell'accusa, il suo vecchio mestiere.
Restano 53 storie di condanne annullate da Davigo, che sono poche ma dai, insomma, non pochissime. In quei casi il grande inquisitore si è ricordato che nel dubbio bisogna assolvere? Mica tanto. Undici sono decisioni inevitabili, perché nel frattempo il reato si era senza ombra di dubbio prescritto. Quattro sono ancora più inevitabili, perché in attesa della Cassazione l'imputato era addirittura morto. Una perché un reato non è più previsto dalla legge come tale, tre perché la querela della vittima è stata ritirata o non c'era proprio stata. Una per un macroscopico errore di competenza. Davigo ha assolto perché non poteva fare altro.
Restano, all'attivo della Seconda sezione presieduta dall'Implacabile di Candia Lomellina, una trentina di ricorsi accolti a favore degli imputati: il 10 per cento, in un anno (il 2018) in cui la media della Cassazione si attestava sul 17,6 per cento. É questa la «cultura della giurisdizione» invocata dall'Anm? E poi, che accoglimenti: modesti ricalcoli della pena, prevalentemente. I casi in cui il «Dottor Sottile» accoglie davvero le proteste di innocenza degli imputati sono sette. Sette.
Ma più di questo, a raccontare l'approccio della Seconda sezione targata Davigo serve la storia del signor Mohamed. Che aveva fame, e si era messo a frugare nel bidone della raccolta differenziata alla ricerca di qualcosa di commestibile, lasciando sul marciapiede quel che non gli serviva. Lo avevano denunciato per «imbrattamento di cose altrui», e un giudice caritatevole lo aveva assolto. Ma il procuratore della Repubblica di Salerno fa ricorso in Cassazione, il fascicolo arriva alla sezione di Davigo, che accoglie l'impugnazione «in ragione del pregiudizio dell'estetica e della pulizia conseguente, risultando imbrattato il suolo pubblico in modo tale da renderlo sudicio, con senso di disgusto e di ripugnanza nei cittadini». Davigo ordina un nuovo processo a Mohamed. Anche questa, forse, è «cultura della giurisdizione».
Stragi, sia la Consulta sia la (contro)riforma non sono ostative alla verità. L’ex magistrato Roberto Scarpinato, in due articoli su “Il Fatto”, sostiene che con l’eliminazione della preclusione dei benefici per chi non collabora, c’è il rischio di favorire l’omertà e non si potrà mai far luce sui misteri. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 maggio 2022.
Sul Fatto Quotidiano sono stati pubblicati, nel giro di pochi giorni, due articoli a firma dell’ex magistrato Roberto Scarpinato. Uno dal titolo “Dall’ergastolo al libera tutti. Una riforma ostativa”; l’altro “Stragi: le risposte che non avremo”. Solo il primo titolo, ma come si sa sono scelte redazionali e non è opera sicuramente dell’autore, risulta fuorviante. No, non c’è nessuna tana libera tutti. Anzi, il testo approvato alla Camera, è esattamente una controriforma: non solo non recepisce i rilievi della Consulta, ma ha riscritto la legge in termini ancora più restrittivi. Per quanto riguarda il secondo articolo, merita un approfondimento di talune domande che potrebbero generare equivoci.
Il divieto assoluto dei benefici per chi non collabora è incostituzionale
Ricordiamo che la Corte costituzionale aveva rilevato incompatibile con la nostra carta – nata, per dirla come Piero Calamandrei, nelle carceri dove furono imprigionati i nostri partigiani -, quella parte dell’articolo 4 bis che pone un divieto assoluto dei benefici penitenziari a chi non collabora con la giustizia. La riforma che il Parlamento si appresta a varare eleva vertiginosamente gli attuali limiti di pena per accedere alla liberazione condizionale nel caso di condanne per delitti “ostativi”: due terzi della pena temporanea e 30 anni per gli ergastolani. Non solo.
La (contro)riforma, elimina le ipotesi di collaborazione “impossibile” e “inesigibile”. Quest’ultimo punto rende di fatto nuovamente incostituzionale la legge. In sostanza, finora c’è la possibilità per rarissimi casi di ergastolani ostativi, di poter accedere ai benefici perché, solo per fare un esempio, l’organizzazione di appartenenza non esiste più e qualsiasi collaborazione con la giustizia non servirebbe. Oppure, altro esempio, l’ergastolano ha avuto una posizione talmente marginale nell’associazione mafiosa, che pur volendo collaborare non può visto la non conoscenza completa dei fatti. Eliminando tutto questo, va contro le indicazioni della sentenza costituzionale stessa che sancisce la differenza tra la mancata collaborazione per scelta con quella per impossibilità.
A Filippo Graviano, dopo 27 anni di 41 bis è stato negato il permesso premio
In entrambi gli articoli de Il Fatto, l’ex magistrato Scarpinato mette nuovamente in risalto i boss “irriducibili”, coloro che non collaborano e che – a detta sua – conoscono i misteri sulle stragi di mafia, in particolare quella di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. In sostanza afferma che, con l’eliminazione della preclusione dei benefici per chi non collabora, c’è il rischio di favorire l’omertà e quindi non si potrà mai conoscere i misteri irrisolti sulle stragi. No, non è così. Innanzitutto non si mette sullo stesso piano chi collabora e chi no. Chi sceglie di collaborare con la giustizia, ha chiaramente dei benefici che un non collaborante se li scorderà. Abbiamo l’esempio di Giovanni Brusca che, come è giusto che sia, da quando ha scelto di pentirsi, ha avuto accesso fin da subito a numerosi benefici penitenziari. Uno che sceglie di non collaborare, dovrà attendere decenni e non è detto che avrà risposte positive alle richieste dei benefici.
C’è il recente esempio dello stragista Filippo Graviano. Dopo ben 27 anni di 41 bis, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, ha richiesto il permesso premio: rigettato. Quindi non è assolutamente vero che per gli “irriducibili” basti magari una semplice dissociazione per usufruire i benefici. I paletti, tuttora, sono ben rigidi e se passa la riforma, lo saranno ancor di più. Talmente marcati che a rimetterci saranno la stragrande maggioranza degli ergastolani ostativi che non hanno nulla a che vedere con lo stragismo. Non è propriamente corretto legare la necessità dell’ergastolo ostativo con l’accertamento delle verità sulle stragi.
Ricordiamo che c’è il trentennale del maxiprocesso. Falcone e Borsellino sono riusciti ad imbastirlo con ben altri strumenti, e l’articolo 4 bis ancora era nel mondo dei sogni. Grazie al pentimento di Tommaso Buscetta e la grande intelligenza di Falcone sono riusciti a decapitare la cupola mafiosa.
Sono passati trent’anni e nessun magistrato ha eguagliato quel risultato, nonostante l’ergastolo ostativo che, tra l’altro, fu istituito non rispettando il volere di Falcone stesso. Sì, il giudice trucidato a Capaci non ha assolutamente escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, ma ha semplicemente allungato i termini per ottenerla. Dopo la strage, il Parlamento ha deciso di inasprirlo.
Cosa c’entra il collaboratore Santo Di Matteo con l’ergastolo ostativo?
Per quanto riguarda le domande sulla strage di Via D’Amelio, salta all’occhio questa che pone Scarpinato: «Chi erano gli infiltrati della polizia in via D’Amelio che Francesca Castellese scongiurò il marito Santo Di Matteo di non nominare ai Pm con cui questi aveva iniziato a collaborare, dopo che era stato rapito il figlio undicenne Giuseppe, ricordandogli tra le lacrime che avevano un altro figlio da salvare?».
Punto primo. Non si comprende cosa c’entri l’ergastolo ostativo visto che Santo Di Matteo, l’unica persona deputata a rispondere, è appunto un importante collaboratore della giustizia, tanto che è costata la vita a suo figlio dodicenne, barbaramente sciolto nell’acido.
Punto secondo. Il Dubbio ha potuto rileggere quell’intercettazione – tra l’altro pieno di punti interrogativi, perché alcune parole risultavano incomprensibili – che risale al 14 dicembre del ’93, ed era un colloquio tra Di Matteo e sua moglie presso il locale della Dia. Lei non gli dice di non nominare ai Pm gli infiltrati della polizia. Dalle sue parole si evince che è preoccupata, ha paura visto che in quel momento avevano rapito il figlio e sono recapitate nuove minacce. Dice al marito di evitare di parlare anche di via D’Amelio e si chiede se ci siano poliziotti infiltrati. Prima lei dice: «Oh, senti a mia, qualcuno è infiltrato (?) per conto della mafia». Più avanti dice: «Tu questo stai facendo, pirchi’ tu ha pinsari alla strage di Borsellino, a Borsellino c’è stato qualcuno infiltrato che ha preso (?)». Dopo altri scambi tragici di battute, lei dice «(?) capire se c’è qualcuno della Polizia infiltrato pure nella mafia e ti (?)». Santo Di Matteo risponde: «Cosa?», e lei: «(?)Mi devi aiutare su tutti i punti di vista (?) pirchi’ io mi scantu, mi scantu».
In sostanza appare chiaro che lei pone domande e dimostra preoccupazione. D’altronde è storia nota che Santo Di Matteo ha partecipato alla strage di Capaci e grazie anche a lui si è potuto accertare la verità sull’esecuzione. Così come, su via D’Amelio, ha sempre detto di non aver mai partecipato all’azione, ma che era a conoscenza solo dei telecomandi che Nino Gioè avrebbe consegnato ai fratelli Graviano. Punto. Lo ha ripetuto lo stesso Di Matteo anche durante il Borsellino quater, sentito come testimone il 28 maggio 2014.
Sarebbe utile togliere gli omissis dalle intercettazioni di Riina
Nell’articolo Scarpinato pone anche altre domande. Tutte volte a presunti servizi segreti che sarebbero accorsi, in giacca e cravatta, sul luogo della strage per prelevare l’agenda rossa di Borsellino. Anche se non accertato, poniamo fosse vero: non si capisce perché lo dovrebbero sapere i boss “irriducibili” che sono al 41 bis. Nemmeno Totò Riina sapeva che fine ha fatto l’agenda rossa di Borsellino, e questo lo si evince dalle intercettazioni del 2013. Perché lo dovrebbero sapere i suoi sottoposti che tra l’altro non conoscono nemmeno tutta la preparazione della strage visto che tutto era scientemente compartimentato? Comunque la si pensi, tutto questo non ha nulla a che vedere con l’ergastolo ostativo. Sia la sentenza della Consulta che la (contro) riforma, non è un “tana libera tutti” e non è ostativa alla verità sulle stragi. Se vogliamo conoscere la verità, per cominciare sarebbe utile togliere gli omissis che ci sono nelle intercettazioni di Riina, soprattutto nella parte in cui parla di via D’Amelio.
Amato ai giustizialisti: «Noi dobbiamo tutelare anche i criminali». Il presidente della Corte Costituzionale: “I diritti sono nei guai soprattutto quando appartengono a chi è nei guai o ha creato guai agli altri. Ma resta comunque titolare di diritti”. E aggiunge: “Ma perché vietare, a chi è al 41bis, di cucinare?”. Errico Novi su Il Dubbio l'8 aprile 2022.
«Lo chiede al presidente della Corte o a me, al professore?…». Giuliano Amato introduce la sua conferenza stampa, il lungo dialogo in cui si intrattiene con i cronisti dopo aver presentato la Relazione annuale, con un rovesciamento di ruoli. È lui, il vertice della Consulta, che rilancia la domanda al giornalista. E che rivela così di essere sospeso fra due dimensioni: la veste di presidente della Corte costituzionale non rende giustizia alla sua pulsione per l’immediatezza. Amato sta per illustrare le cornici in cui la Carta definisce l’impegno militare dell’Italia, quando chiede appunto in quale veste deve rispondere, ma il suo tono spesso più da professore appassionato che da giudice delle leggi prevale nettamente per l’intera mattinata.
E la maratona di Amato parte con la Relazione sull’attività della Consulta nel 2021, esposta dinanzi al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e ad altre cariche dello Stato, tra le quali c’è naturalmente la guardasigilli Marta Cartabia. Nel report sull’anno trascorso, Amato si produce in un continuo distacco dalla formalità della versione scritta, fitta di statistiche ma troppo limitante, eccezion fatta per la lettura delle ultime due pagine, in cui il presidente della Corte si sofferma sulle «preoccupazioni per la tenuta degli ordinamenti costituzionali europei» di fronte alla guerra (aspetto sul quale trovate ampio resoconto in altra parte del giornale, ndr).
Ma Amato quasi si sforza di aprirsi uno spazio sui «diritti sociali», e in particolare su penale e carcere. Già nella Relazione cita una sentenza emessa dalla Corte nel 2021, la numero 137, relativa ai «condannati per delitti di grave allarme sociale, come mafia e terrorismo» che, «se ammessi a scontare la pena ai domiciliari anziché in carcere e bisognosi di sostegni economici, non possono essere esclusi da misure come l’assegno sociale o la pensione di invalidità».
Ricorda, il presidente Amato che, «non si può ritenere un soggetto meritevole di accedere ai domiciliari per poi privarlo dei mezzi per vivere fuori dal carcere». Altro esempio è il «genitore condannato in passato per reati contro la persona» che «è illegittimo escludere dal diritto alla casa», tanto più se gli è richiesto «l’onere di accudire i figli». Dedica un ampio passaggio alla sentenza 150, relativa al carcere per i giornalisti che per la Corte è ammissibile «solo nei casi di eccezionale gravità». E qui il vertice della Consulta si concede una più che legittima autocelebrazione: «Fortunata l’Italia che ha una Corte pronta a scrivere con successo queste cose».
Si soffermerà di nuovo sul carcere, Amato, non senza aver rilevato «i limiti che la Corte inevitabilmente incontra rispetto ad alcune lacune normative, come sulle Rems, dove sono accolti coloro dei quali si accerta, nel processo penale, una sofferenza per problemi mentali: i posti in tali strutture sono solo 600, a noi la questione è stata sottoposta da un giudice in relazione al mancato coinvolgimento del ministero della Giustizia. Ma ecco, lì abbiamo deciso di rivolgerci al legislatore perché riordinasse l’intera materia ben oltre tale difetto: non potevamo provvedere noi».
Finché, interpellato dal Dubbio sull’eterno conflitto fra garantisti e giustizialisti, Amato sembra sollevato dal poter dire cosa ne pensa: «La Corte può favore in vari modi un’attenzione alla necessità di assicurare tutela e garanzie a tutti. Ad avere bisogno di veder riconosciuti i propri diritti in genere non è chi ha si accomoda nei salotti e vive bene: capita più spesso che i diritti siano nei guai quando sono di persone che si trovano nei guai, o che hanno creato guai ad altri, ma che pure sono titolari di diritti».
Un modo meravigliosamente lieve per introdurre la questione della mafia e dell’ergastolo ostativo: «Possiamo citare Hannah Arendt e il suo pro memoria sul diritto ad avere diritti, che appartiene a qualunque essere umano. Naturalmente serve un bilanciamento con altri interessi tutelati dalla Costituzione, a cominciare dalla sicurezza».
Bilanciamento che però non basta a placare i dissensi. «Come si chiamano quelli che si oppongono ai garantisti», chiede Amato, «giustizialisti? Ecco, capita che le nostre decisioni possano risultare loro sgradite…». Cita di nuovo la sentenza su assegni di pensione e invalidità che spettano anche ai detenuti di mafia (il presidente tiene a ricordare di esserne stato il relatore e di aver notato «i titoli critici di alcuni giornali») e arriva appunto all’ordinanza 97 del 2021 sull’ergastolo: «La collaborazione con la giustizia non può essere, per chi è in regime ostativo e chiede i benefici penitenziari, l’unica prova del distacco dall’organizzazione criminale». Certo, «piuttosto che applicare in tali casi le regole ordinarie, noi diciamo al Parlamento: stabilisci tu le norme necessarie a garantire anche la sicurezza».
Poco dopo il presidente della Corte è sollecitato sul rischio di essere additati come collusi (o quasi) a cui sono esposti coloro che invocano l’umanità della pena anche per i mafiosi, come il nuovo capo del Dap Carlo Renoldi o l’attuale presidente Anm Giuseppe Santalucia, autore, da giudice di Cassazione, dell’atto di promovimento sull’ergastolo. «Come se ne esce? Innanzitutto con uno Stato che tenga conto anche delle sensibilità più attente al rigore. In Parlamento si è detto che la legge sull’ergastolo da noi richiesta avrebbe dovuto escludere dai benefici chi è al 41 bis: ma il 41 bis si applica proprio a coloro che ancora sono ritenuti in rapporto con la mafia, dunque è di per sé preclusivo rispetto alla liberazione. Dopodiché mi chiedo: che senso ha impedire a chi è al 41 bis di cucinare? Si rafforza la lotta alla mafia, se si toglie al mafioso detenuto al 41 bis una delle poche soddisfazioni che può ancora togliersi?». A chi è favorevole al fine pena mai, incalza Amato, «si dovrebbe chiedere se è consapevole che in tutti i Paesi la recidiva è assai superiore per coloro i quali non hanno usufruito di trattamenti rieducativi e di benefici penitenziari».
Amato di solito non passa per un cultore delle questioni penali, eppure offre una straordinaria lezione garantista. Nella sua giornata non manca il pro memoria su un 2021 in cui il covid ha innescato sia «il processo costituzionale telematico» che le «pronunce sulle misure relative alla pandemia». A cominciare dalla sentenza numero 37 in cui il quesito era, dice il presidente, «ma questi dpcm sono espressione dell’esercizio improprio di una delega legislativa?». E la risposta è stata no, com’è noto. Non mancano i dati, relativi innanzitutto al numero delle decisioni, 263 contro le 281 del 2020. Variano le statistiche sui tempi delle pronunce, ridotti per quelle assunte «in via principale», a esempio per i conflitti fra Stato e Regioni: 351 giorni contro i 372 dell’anno prima. Di sicuro, nella giornata clou della Corte, non manca la capacità di affacciarsi su un Paese in cui, come dice Amato, «le posizioni si radicalizzano», dalla giustizia alla guerra, ma che trova nella Consulta un punto fermo ancora più indispensabile.
La polvere sotto il tappeto. I pm demagoghi contro la presunzione d’innocenza, l’assurdo argomento che qualcuno vuole “tappargli la bocca”. Otello Lupacchini su Il Riformista il 3 Aprile 2022.
Aristotele, nei Topici [VIII 164b], raccomanda di non discutere con chiunque, perché, in realtà, quando si discute con certe persone, le argomentazioni divengono necessariamente scadenti: quando ci si trova di fronte a un interlocutore, che cerca con ogni mezzo di uscire indenne dalla discussione, lo sforzarsi di concludere la dimostrazione sarà certo giusto, ma non risulterà comunque elegante. Per questa ragione, dunque, eviterò di confrontarmi con faciloneria coi primi venuti, poiché non intendo giungere a discussioni velenose e voglio evitare confronti agonistici. In fondo, che senso avrebbe, per esempio, opporre a chi polemizza a proposito del d.l.gs 188/2021 sulla presunzione di innocenza, arrivando ad affermare, con buona pace della necessità incontrovertibile di tutelare gli imputati, che non possono definirsi colpevoli fino alla sentenza definitiva, che la nuova legge «A me non (…) chiude la bocca. Sono una persona che non ha timore di niente e di nessuno, dico sempre quello che penso e se non posso dire la verità è perché non posso dimostrarla. Continueremo a parlare e a spiegare all’opinione pubblica, che ne ha diritto.
Ancora in Italia non è stato negato il diritto di informazione della stampa», che uniche danneggiate dalla legge stessa sarebbero «certe Procure, che fino ad oggi hanno campato sul marketing giudiziario, che è quanto ci possa essere di più pericoloso, incivile, illiberale e arbitrario per far conoscere ed apprezzare un prodotto parziale, non verificato, non definitivo: l’accusa»? Nessuno, se non magari quello di radicalizzare le posizioni senza costrutto. Il primo ribadirebbe, infatti: «non ho alcun dubbio sugli effetti negativi della legge sulla presunzione di innocenza (…), che vieta a pm e polizia giudiziaria di “indicare come colpevole” l’indagato o l’imputato fino a sentenza definitiva, e impone ai procuratori di parlare con la stampa solo tramite comunicati ufficiali». Il vero problema, aggiungerebbe, è che la rilevanza sociale del diritto all’informazione e del diritto alla verità delle vittime di gravi reati rischia di essere offuscata da un sistema che impedisce di spiegare ai cittadini l’importanza dell’azione giudiziaria nei territori controllati dalle mafie, rendendo molto più difficile creare quel clima di fiducia che consente alle vittime di rompere il velo dell’omertà. Ed esternerebbe, finalmente, il timore che «non parlandone, la ’ndrangheta e Cosa Nostra non esistano»; la paura che «di questo “silenzio stampa” le mafie ne approfitteranno, perché le mafie da sempre proliferano nel silenzio»; non senza aggiungere: «Se la ’ndrangheta oggi è la mafia più potente è perché per anni non se ne è parlato. Molte notizie, anche su politici e funzionari pubblici, verranno così nascoste». A questo punto, occorrerebbe involgersi in faticose spiegazioni di teoria generale del processo, peraltro con poco profitto per l’interlocutore, che, ne sono convinto, s’annoierebbe moltissimo.
Il problema, piuttosto, è un altro. Non vi è giorno, infatti, in cui non sia dato di constatare l’organizzazione scientifica della ciarlataneria. Le ragioni che inducono a una così cupa constatazione sono le più svariate, non ultima, se non addirittura la prima fra tutte, che l’uomo non sa più tacere: se il silenzio è d’oro, parrebbe proprio che questo prezioso metallo sia scomparso dalla circolazione spirituale come da quella monetaria. Nel Vangelo si rinviene l’ammonimento che, «nel giorno del giudizio, gli uomini renderanno conto di ogni parola oziosa che avranno detta» (Mt., 12, 36). E anche Martin Heidegger, uno dei più forti pensatori dell’esistenzialismo tedesco, si richiama alla parola, allorché distingue fra la vita autentica, quella cioè di chi vive nella contemplazione della morte, e la vita non autentica, che è quella di chi volge gli occhi da un’altra parte, non osando pensare alla sua fine: nel descrivere questo secondo tipo di vita, non degna d’essere vissuta, il filosofo ricorre a una parola francese, di non facile traduzione nella nostra lingua, il «bavardage». In sostanza, «bavarder» vuol dire ciarlare, ma l’idea precisamente è quella che si legge nel Vangelo: parlare ozioso. Per pensare si deve essere in due e le parole servono a far pensare; oziose, dunque, sono le parole che non riescono a far pensare, a produrre delle idee, le quali, per essere tali, devono consentire di scoprire qualcosa di nuovo nel mondo. Quelle provocate dal bavardage sono, pertanto, pseudo-idee: esse non fanno procedere d’un passo la conoscenza; dopo un’ora di ciarle, infatti, le persone si lasciano più vuote di prima.
Le parole oziose, pur non facendo pensare, non impediscono di pensare. Occorre chiedersi, però, se ci siano parole che impediscono di pensare; se l’abuso della parola possa arrivare al punto di cavarne il risultato contrario a quello per cui è stata creata; se, insomma, la parola strumento di libertà possa stravolgersi in parola strumento di servitù. Che la parola sia strumento di libertà, muovendo dalla libertà di chi parla e sollecitando la libertà di chi ascolta, è espresso dal verbo latino «suadere», che in italiano si rafforza e diventa persuadere, parole che evocano la «suavitas». Non è, dunque, un caso che al fine d’ottenere l’effetto persuasivo occorra soavità: la scelta e il tono delle parole, là dove si voglia sollecitare e non sopprimere la libertà dell’altro, giovano più di quanto non si creda. Il mezzo del persuadere è suggerire; offrire cioè un’idea, che l’altro possa far propria se gli piace o respingere se non gli piace; ma quest’idea dev’essere offerta in modo così discreto che neppure s’adombri un’offesa alla libertà dell’altro, il quale la possa far sua come s’egli stesso l’avesse pensata. L’uomo non pensa che il pensiero proprio; se il proprio coincide con l’altrui, ciò non può avvenire se non in quanto l’altrui sia liberamente accettato. Se non pensare, l’uomo può agire in virtù del pensiero altrui.
Così avviene quando il costringere prende il posto del persuadere. Il problema è, allora, se si possa costringere con le parole. L’esperienza della nostra realtà contemporanea è lì a dimostrare che si può abusare delle parole; e questo è uno dei suoi aspetti più sconcertanti e pericolosi. Nulla è più lontano dal persuadere che il discorso di uno dei quei venditori sulle piazze, ai quali si dà il nome di ciarlatani. La differenza fra il discorso del ciarlatano e un discorso persuasivo è la stessa che corre fra il rumore e l’accordo. Arthur Schopenhauer, per sostenere che «la vista è un senso attivo e l’udito un senso passivo», ha scritto che «i suoni agiscono disturbando e agitando il nostro spirito (…) distraggono tutti i pensieri, sconvolgono momentaneamente la forza del nostro pensiero». L’osservazione, evidentemente sbagliata per il suono, è giusta comunque per il rumore, che quando raggiunge la misura del fracasso impedisce di pensare. La ciarlataneria, rispetto al passato, ha oggi assunto nuove forme: i Dulcamara non s’incontrano più neppure sui mercati di campagna e quella che un tempo si chiamava «réclame» si è via via meglio truccata sotto il nome di «propaganda», la cui tecnica è oggi fondata sulla ripetizione.
L’essenza del ciarlatano, infatti, non è più il rumore, ma il ronzio, che di quello è di gran lunga peggiore: qui non si tratta più di suggerimento, ma di suggestione. La propaganda, portando un attentato alla libertà dell’uomo è pur sempre un male. Piccolo, magari, se riguarda la scelta di una merce, ma intollerabile quando riguarda la scelta delle forme e delle norme della struttura sociale, essenziali alla nostra vita, perché, come diceva Heidegger, il nostro «Sein» è «Mit-sein», il nostro essere è essere insieme. E questo esige una regola, un regime o meglio sarebbe dire un reggimento, che risulti dall’accordo di tutti quanti costituiscono l’insieme. L’accordo di tutti presuppone la libertà di ciascuno. E questo vuol dire democrazia, la quale esigendo che ognuno pensi con la propria testa, favorisce sì l’eloquenza e la persuasione, ma rifiuta la propaganda, poiché essa offende la libertà. In linea d’abuso della parola, il bavardage, la ciarla, il pettegolezzo non costituiscono il danno più grave: il ciarliero è meno nocivo del ciarlatano, poiché il primo, che si limita a non pensare, rovina sé stesso, mentre il secondo rovina gli altri, ai quali impedisce di pensare. E fino a quando non si sentirà l’esigenza di liberarsi degli imbonitori da fiera, lasciando finalmente spazio soltanto a indicazioni sobrie e decorose, rispettose della dignità dei contendenti e della libertà dei cittadini, la democrazia non potrà essere che un’illusione.
Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione
Il voto a Montecitorio. La ‘riforma’ dell’ergastolo ostativo è una condanna a morte di un Parlamento di forcaioli e pusillanimi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Aprile 2022.
Pena di morte. Qualcuno avrebbe dovuto gridarlo, alto e forte, nell’aula di Montecitorio, dove è andata in scena la grande ipocrisia di una maggioranza fatta per metà di reazionari forcaioli e l’altra di tremebondi pusillanimi, che ha votato (con poche eccezioni) sull’ergastolo ostativo un testo che ha preso a sberle la Consulta, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e la stessa Costituzione.
L’Alta Corte aveva detto al Parlamento che il carcere non può avere il ruolo del becchino e seppellire i suoi morti. Aveva detto: fate una legge perché chiunque, proprio chiunque, dopo un certo, lunghissimo periodo di tempo, deve poter ritrovare la propria libertà. E l’unica condizione, insieme al trascorrere del tempo, deve essere una relazione che abbia accertato, da parte della squadra di giudici , psicologi, educatori e tutti coloro che si occupano del percorso di rieducazione del condannato, il cambiamento della persona. Aveva aggiunto, la Corte Costituzionale: cambiate quella legge che subordina al “pentimento”, alla collaborazione del detenuto con la magistratura, la possibilità di ottenere i benefici previsti dalla legge che nel 1975 riformò l’ordinamento penitenziario e la liberazione condizionale. principio. Cambiatela perché è incostituzionale.
Il Parlamento dunque era costretto a legiferare, entro il 10 maggio 2022. Suo malgrado, dobbiamo purtroppo dire, perché tutta la discussione di questi mesi, prima di tutto nella commissione giustizia della Camera e con le audizioni di selezionati magistrati, cioè quelli del partito dei pm, ha preso da subito una direzione precisa: boicottare. Far finta di riformare, dare un contentino, ma proprio il minimo, a questi rompiscatole dei giudici della Corte Costituzionale, ma introdurre nella nuova norma una serie di condizioni tali da rendere impossibile a chiunque sia condannato per reati “ostativi” poter godere dei benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario. Anzi, devono aver pensato alcuni deputati, cogliamo l’occasione per peggiorare la norma esistente, per esempio portando da 26 a 30 il numero di anni di carcere già scontati, dopo i quali si potrà chiedere la liberazione condizionata.
Diciamolo chiaro: chi vuole il carcere eterno, quello con porte e finestre chiuse per sempre, sotto sotto chiede la pena di morte. Non solo la morte sociale, ma proprio quella fisica e violenta che toglie la vita e l’ultimo respiro. Proprio quello del bellissimo film di Jean-Luc Godard del 1960 con Jean-Paul Belmondo. Difficile trovare qualcuno che si dica esplicitamente per la pena capitale, così come nessuno potrebbe mai affermare di essere favorevole alla tratta degli schiavi. Ma bisogna anche essere consapevoli del fatto che dire “ergastolo ostativo”, termini che ai più non significano niente, vuol dire solo pena di morte. E condizionare la possibilità di vedere un finale diverso, al “pentimento” (che è umiliazione e tradimento), come dice la legge esistente, è un prezzo molto alto, se non sei un mercenario dentro di te. Vediamo allora, su questo punto, che cosa dice il testo licenziato dalla Camera. Nei fatti, accoglie in pieno la mentalità liquidatoria dei vari Caselli, Di Matteo, Scarpinato, cioè i nomi più prestigiosi dell’antimafia militante, i quali ritengono che il mafioso lo sarà per sempre. Essendo magistrati, o ex, “democratici”, sarebbero indignati se qualcuno desse loro dei razzisti. Pure, loro ritengono che una certa tipologia di persona non possa mai cambiare, a meno che non si inginocchi e non avvii una Trattativa, un mercanteggiamento interessato con lo Stato. Altrettanto scandalizzati sarebbero se si imputasse loro una simpatia per la pena capitale. Provino a parlarne con qualche analista, se non riescono a scrutarsi dentro da soli.
La commissione giustizia della Camera, guidata dal grillino Mario Perantoni, ha dato molto ascolto alle sirene in toga. Del resto ieri la responsabile giustizia del partito di Grillo, Giulia Sarti, ha detto esplicitamente “è una legge che non avremmo voluto fare” e “non condividiamo le decisioni della Corte Costituzionale e della Cedu”. Ma siamo alle non-notizie. Loro sono così. Le notizie vengono dagli altri partiti di governo, come il Pd e Forza Italia, che hanno partecipato a un vero banchetto di lacci e lacciuoli che rendono impossibile per chicchesia sia in carcere da trent’anni riuscire ad accedere ai benefici penitenziari. Prima di tutto bisogna dimostrare di non avere più rapporti con la criminalità organizzata. Qualcuno può spiegarci come si fa? Si chiede una dichiarazione certificata a Matteo Messina Denaro? Poi -e questo sfiora la follia- occorre dare la certezza di non correre il rischio di intrattenere in futuro relazioni pericolose. Qui potrebbero essere chiamati a testimoniare streghe e maghi forniti di sfere di cristallo. Ma l’assurda tortura non finisce qui. Perché conviene avere anche disponibilità economiche e aver risarcito le vittime, stando poi ben attenti, se si dichiara di non averne la possibilità, perché ci saranno accertamenti patrimoniali sul detenuto e su tutti il suo nucleo familiare.
Ma non ci sono solo le regole-capestro a rendere impossibile la speranza per il detenuto “ostativo”. C’è anche un altro soggetto che, insieme alla Cedu e alla Corte Costituzionale esce mortificato dalla legge licenziata dalla Camera. E’ il giudice di sorveglianza, negli ultimi tempi sempre più sospettato, specie da parte del partito dei pm, di intelligenza con il nemico. La competenza per la concessione dei benefici è spostata dal giudice monocratico a quello collegiale, cioè al tribunale. È chiaro che questa decisione dimostra la sfiducia nei confronti di coloro che sono in grado più di altri di conoscere e giudicare il percorso riabilitativo di ogni singolo detenuto. E per fortuna che un sospetto di incostituzionalità, per palese violazione del principio del giudice naturale, ha impedito al Parlamento di aderire alle proposte di alcuni procuratori, che avrebbero voluto centralizzare a Roma un unico tribunale. Che avrebbe dovuto decidere sul detenuto di Caltanissetta come su quello di Aosta. Mai visti, ovviamente.
Ma tanto, che cosa importa, visto che il mafioso non cambia mai e che il verdetto negativo è scontato? E che con queste regole gli ergastolani ostativi sono condannati a morte? La subalternità dei parlamentari al partito dei pm trova la massima espressione in un altro punto della riforma. Qualcosa di simile aleggiava già nei giorni in cui il ministro Bonafede, in tempo di pandemia, aveva frettolosamente condizionato ogni provvedimento di sospensione della pena o di detenzione domiciliare al parere dei pm “antimafia”. La procedura di questa finta riforma prevede infatti che per la concessione dei benefici venga acquisito il parere di quel pm che trent’anni prima –magari nel frattempo pensionato o deceduto- aveva svolto le indagini sul detenuto.
E, in casi gravi, sarà consultato anche il procuratore nazionale antimafia. Siamo al ridicolo, sentiamo anche il papa, che sicuramente è più saggio di tutti questi signori. Ma dove erano, quelli che si dichiarano garantisti (e onore a Riccardo Magi, Enrico Costa, Lucia Annibali e tutto il gruppo di Italia Viva e a Enza Bruno Bossio e i pochi del Pd che hanno mostrato dignità), quelli di Forza Italia per esempio, mentre si scrivevano queste ridicolaggini? Cui è stato aggiunto l’ultimo sberleffo, con la votazione di un emendamento che taglia fuori comunque dal provvedimento tutti coloro che sono reclusi al 41 bis. Complimenti. Qui Montecitorio, il regno dei grillini.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il 10 maggio parola alla Consulta. Ergastolo ostativo, cosa prevede la controriforma porcata approvata dai forcaioli grillini. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Maggio 2022.
Il fatidico 10 maggio è ormai alle porte, e non sarà una data fortunata per chi aspetta giustizia dal Parlamento e dalla Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo. Una scadenza che forse è sepolta nel dimenticatoio delle forze politiche che devono ancora legiferare al Senato (dopo l’approvazione di una contro-riforma alla Camera), ma è ben presente nell’attenzione dell’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, che ha già lanciato il suo allarme sul Fatto quotidiano. Attenzione, ha gridato, perché se collaboratori e “irriducibili” avranno lo stesso trattamento penitenziario, nessuno farà più il “pentito” e non sapremo la verità sulle stragi. Quale nuova verità dopo i processi, le sentenze e le condanne che ritenevamo definitive? Ma quella sui “mandanti”, ovvio, sulle menti raffinatissime degli uomini in giacca e cravatta che decisero, sulla testa dei boss mafiosi come Totò Riina, la stagione delle stragi. Fantasie? Intanto la bomba politica viene sganciata sulla scadenza di martedì della prossima settimana.
È passato infatti un anno da quando la Consulta, con l’ordinanza numero 97 dell’11 maggio 2021, in luogo di sancire in modo perentorio e definitivo con una sentenza l’incostituzionalità del principio con cui l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario vincola al “pentitismo” la possibilità per i condannati a gravi reati di fruire dei benefici penitenziari, ributtò la palla al Parlamento. Fate voi una nuova legge, avevano detto i giudici della Corte Costituzionale. Una norma che non violi gli articoli 3 e 27 della “Legge delle leggi”. Un briciolo poi di ipocrisia nell’invitare deputati e senatori a interventi legislativi “che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. Se parliamo di ipocrisia, è perché la Corte Costituzionale retta da Giuliano Amato ha già dato prova di una certa astuzia sulla questione dei referendum, cassando con motivazioni pretestuose proprio quelli sulla cannabis, l’eutanasia e la responsabilità civile dei magistrati, che appassionano la gran parte degli elettori e avrebbero potuto aiutare a garantire il quorum il prossimo 12 giugno.
Anche sull’ergastolo ostativo c’erano tutte le premesse per una sentenza. Ma più che carenza di coraggio, è proprio mancata la volontà politica. O dobbiamo essere noi a ricordare le diverse decisioni della Cedu, fin dalla famosa “sentenza Viola” che tre anni fa aveva condannato l’Italia per il trattamento inumano riservato a un detenuto che non poteva collaborare con la giustizia essendosi sempre dichiarato innocente? E poi, successivamente, i diversi ricorsi dell’Italia sempre respinti in sede europea? E ancora, la stessa decisione della Corte Costituzionale sui permessi premio, che avrebbe potuto aprire le porte a una sentenza anche sulla liberazione condizionale? Scaricare sul Parlamento, su “questo” Parlamento, una decisione così delicata ma irrinunciabile per uno Stato di diritto, è stata una vera porcata. Si, caro Presidente Giuliano Amato, una porcata. E ci piacerebbe sapere se i giudici della Consulta erano tutti d’accordo su questa rinuncia a decidere direttamente. Perché sul fatto che le norme nate nel 1992 da un Parlamento sulla cui pelle ancora bruciavano gli assassinii di Falcone e Borsellino, siano incostituzionali non ci sono dubbi.
Ed è già scandaloso il fatto che ci siano voluti trent’anni per sancirlo. Ma lo è anche il fatto che a maneggiare questioni di principio che hanno a che fare con la presunzione di innocenza e l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, siano state destinate le mani di persone come i seguaci di Beppe Grillo che sognano solo di alzare più forche o dei pusillanimi del Pd che pur di continuare a stare al governo (pur non vincendo mai le elezioni) ingoierebbero qualunque cibo ripugnante o nocivo. Infatti il testo di legge approvato a grande maggioranza alla Camera un mese fa è esplicitamente una contro-riforma. E il peggio è che, se sarà confermata al Senato, finirà con l’avere anche il placet della Consulta. Perché comunque, sul piano formale, avrà superato il principio che legava alla sola collaborazione la possibilità per l’ergastolano “ostativo” di accedere ai benefici penitenziari previsti dalla legge. Peccato però che il detenuto non “pentito” avrà sulle spalle uno zaino pieno di tali e tante zavorre a ostacolare la sua possibilità di accedere alla liberazione condizionale, da renderla impossibile. Così coloro che il dottor Scarpinato continua a definire “irriducibili”, ma che sono in gran parte invece detenuti che hanno preferito un percorso diverso ma magari più sincero, e anche riconosciuto da chi nel carcere e nei tribunali di sorveglianza ha seguito il loro cammino, rispetto a quello dei “pentiti”, finiranno per restare sepolti nella “pena di morte da vivi”, come loro chiamano l’ergastolo ostativo.
Può star tranquillo il dottor Scarpinato, e insieme a lui Marco Travaglio e tutti i grillini di primo o secondo conio. Come quel capogruppo di “Alternativa” (filiazione del Movimento cinque stelle) che nell’aula di Montecitorio aveva accusato la Corte Costituzionale di aver fatto, con l’ordinanza di un anno fa, “un vero e proprio favore alle organizzazioni mafiose e terroristiche”. E aveva invitato il Parlamento a ripresentare la norma incostituzionale in segno di sfida. Questo tipo di personaggi siede sugli scranni di istituzioni che dovrebbero essere sacre. Ma succedono cose strane anche all’interno di altro tipo di istituzioni, come quella della magistratura. Così troviamo un ex magistrato come Roberto Scarpinato, che ha rivestito il ruolo prestigiosissimo di procuratore generale di Palermo, che ha rappresentato l’accusa nella disfatta del processo “Trattativa Stato-mafia”, a difendere il diritto alla liberazione condizionale di un assassino come Spatuzza.
Perché è successa una cosa molto particolare. Premettiamo che la collaborazione del boss, arrivata nel 2008 solo dopo che lo stesso era già stato condannato all’ergastolo, ha contribuito non solo a fare arrestare i suoi complici nelle stragi, ma anche a salvare quei sette innocenti arrestati ingiustamente per l’uccisione di Borsellino dopo le accuse del pentito-fantoccio Enzo Scarantino. Nessuno quindi mette in discussione l’importanza della collaborazione del “pentito” Spatuzza, il quale è da tempo ai domiciliari in un luogo segreto. Succede però che anche lui aneli a una vera libertà e ha chiesto la liberazione condizionale. Il tribunale di sorveglianza di Roma ha però stabilito che il percorso del detenuto verso un vero reinserimento nella società non è ancora completato. Non conosciamo le motivazioni del provvedimento, ma sarebbe interessante capire le ragioni che hanno indotto i giudici a respingere la richiesta del “pentito”. Che è comunque stato poi accontentato dalla cassazione, che ha bocciato la precedente decisione. Spatuzza sarà quindi presto libero, buon per lui.
Ma ci preoccupa il fatto che l’ex pg Scarpinato, che mostra di avere particolarmente a cuore i diritti del “pentito” di mafia, abbia così poca fiducia nei giudici di sorveglianza, visto che sono gli unici a conoscere da vicino il detenuto, a verificarne ogni giorno i comportamenti, a saggiare l’autenticità del loro ravvedimento. Del fatto che un ex boss che collabora da 14 anni sia considerato ancora immaturo per essere libero dovrebbe preoccuparsi il dottor Scarpinato, piuttosto che, come invece fa, del timore che “pentiti” e “irriducibili” siano equiparati nel futuro di uomini liberi. E anche il Parlamento e la Corte Costituzionale dovrebbero un po’ vergognarsi del fatto che, quando il prossimo 10 maggio ingiustizia sarà fatta, proprio sulle spalle dei giudici di sorveglianza cadrà di nuovo il fatto di denunciare nuove contraddizioni e nuove incostituzionalità della norma. Così si ricomincerà da capo. E intanto rimarranno ancora sepolti quelli condannati alla morte da vivi. Mentre una brutta pagina sarà stata scritta una volta di più.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La proroga della Consulta. Ergastolo ostativo, la decisione della Consulta: è fuorilegge ma teniamocelo un altro po’. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Maggio 2022.
La norma sull’ergastolo ostativo è incostituzionale, però la teniamo in vita artificialmente almeno per altri sei mesi, con una bella respirazione bocca a bocca da parte del Senato, del Governo e della Corte Costituzionale. Che importa se nel frattempo un certo numero di detenuti, spesso anziani e malati, che dopo oltre 26 anni di carcere avrebbero diritto alla liberazione condizionale, dovranno attendere ancora e ancora e ancora? E così Giuliano Amato, il Presidente della Corte Costituzionale che decadrà nel prossimo settembre, ha lasciato come testamento morale ai suoi colleghi e al successore allo scranno più alto, un provvedimento di rinvio dell’ergastolo ostativo fino all’otto novembre.
Data entro la quale il Senato dovrà concludere la stesura di una nuova legge che non sia in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione. Ma intanto, invece di decidere con una sentenza, ha di nuovo scansato il “fastidio”. Sancendo così che la mela marcia della norma illegittima possa continuare a vivere nel cestino delle mele sane. Certo, le sirene dell’imbattibile squadrone dei militanti ”antimafia”, dal partito dei pm fino a quello dei Cinque stelle guidato dal condottiero Travaglio, si erano fatte ben sentire, lanciando il solito allarme sui “mafiosi liberi”. Ultimo proprio ieri l’ex procuratore Giancarlo Caselli il quale, esibendo la propria personale conoscenza, dopo la sua permanenza a Palermo, non solo del fenomeno mafioso, ma anche della psicologia criminale dei boss e anche dei picciotti, inneggiava alla permanenza della disciplina del doppio binario. Proprio quello che, dividendo il mondo dei condannati in buoni (i “pentiti”) e cattivi (tutti gli altri), è stato dichiarato incostituzionale e contrario allo spirito degli articoli 3 e 27. Il doppio binario è stato mantenuto dal testo approvato alla Camera dei deputati, che pone una serie di vincoli-capestro a carico del condannato non “pentito”, tali da rendere pressoché impossibile la sua speranza di accedere, al pari dei collaboratori di giustizia, alla liberazione condizionale.
Eppure la Consulta, pur nella sua timidezza di un anno fa, quando aveva delegato al Parlamento la responsabilità di sancire con una nuova legge l’incostituzionalità di una norma che vincolava solo alla collaborazione la possibilità di sottrarsi alla morte sociale dell’ergastolo ostativo, era stata molto chiara. Non è detto che chi fa il “pentito”, visto che attua uno scambio di favori con lo Stato, sia sempre sincero e abbia davvero interrotto il rapporto con la criminalità organizzata, aveva scritto nell’ordinanza. Così come non è scontato, aveva aggiunto, che chi pure non collabora con la magistratura sia sempre socialmente pericoloso e ancora legato a una cosca. Ma altrettanto esplicito era stato il verdetto della Corte di Strasburgo con la famosa “sentenza Viola” che aveva condannato l’Italia per gli stessi motivi. Era il 2019, e il Parlamento avrebbe avuto il dovere già allora di cambiare la legge incostituzionale. Invece era stata addirittura approvata la “spazzacorrotti” voluta dal ministro Bonafede, che aggiungeva un carico da novanta alla normativa esistente, equiparando ai reati di mafia quelli contro la Pubblica Amministrazione.
Invano, nella discussione che si è svolta alla Camera nei mesi scorsi, il deputato radicale Riccardo Magi aveva tentato almeno questa correzione, anche culturale. Ma era stato impossibile sottrarre il Pd dalle grinfie tagliagole dei Cinque stelle. E forse in parte anche dalla propria storia, quella che negli anni di Mani Pulite aveva indotto i post-comunisti di allora ad agire in simbiosi con i pubblici ministeri anche contro i cugini socialisti di cui speravano poter ereditare le spoglie. Era il 17 settembre di quello stesso 2019 della sentenza Viola, quando un altro ergastolano, Salvatore Pizzini, assistito dall’avvocato Giovanna Araniti, si rivolgeva alla Corte di Cassazione con un ricorso contro l’ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza di L’Aquila aveva respinto la sua richiesta di libertà condizionale. Il detenuto aveva già scontato oltre ventisette anni di carcere, più dei ventisei richiesti dall’articolo 176 del codice penale per l’accesso al beneficio. La sua legale aveva posto la questione di incostituzionalità della norma che prevede il doppio binario, quello che piace all’ex procuratore Caselli e ai travaglini ovunque collocati anche in Parlamento.
L’ordinanza della prima sezione della cassazione, presieduta da Antonella Patrizia Mazzei, che accoglie il ricorso con il parere contrario del pg, ricostruisce anche il percorso carcerario e di vita di Salvatore Pizzini. Che non è un eroe e neanche un innocente. Ma non sarebbe il caso che tutti questi soldati, perennemente armati contro il pericolo di uscita dal carcere di boss pericolosissimi, leggessero le carte e si informassero su chi sono e come si comportano questi ergastolani che il dottor Caselli racchiude tutti in un sol mazzo definendoli come “irriducibili”? Ecco che cosa abbiamo letto nell’ordinanza della cassazione, quella da cui tutto è partito, fino alla decisione della Consulta di un anno fa, e poi al lavoro piuttosto inutile della Camera e alla decisione della Corte Costituzionale di ieri, che ha ributtato il pallone nel campo della politica. «Il ricorrente –si legge- come risulta agli atti, ha addotto di aver preso parte in modo proficuo all’opera di rieducazione, di cui si ha conferma dai provvedimenti di liberazione anticipata; di essersi avvalso con profitto della possibilità di lavoro e di studio offerte dai programmi di trattamento operativi nei vari Istituti di detenzione; di aver conseguito il titolo di agronomo e di esser stato inserito, con risultati positivi, in un progetto agricolo; di aver frequentato assiduamente corsi di studio e di aver partecipato a concorsi letterari con riconoscimento di premi».
A questo aggiungono i giudici che «…si dà atto della rivisitazione critica del suo vissuto e dell’avvenuto riconoscimento degli errori commessi, con parziale ammissione delle proprie responsabilità e con l’espressione della volontà di allontanamento dal contesto mafioso». Tutto questo, che a noi pare tanto, non sarà sufficiente a questo uomo di sessant’anni, un’età in cui si può ricominciare una vita diversa dalla precedente, e che ne ha trascorsi più di ventisette da rinchiuso, per superare gli ostacoli dell’inversione dell’onere della prova già previsti dal testo di legge approvato alla Camera. Considerando anche il fatto che il Senato non farà da passacarte, e peggioramenti del testo sono sempre possibili. È già in agguato una proposta del senatore Pietro Grasso, e non va certo nella direzione di abolire il doppio binario. Tengono il punto fino a ora solo il Pd e il Movimento cinque stelle, la cui sub-cultura manichea è sempre pronta a entusiasmarsi per la divisione del mondo tra buoni e cattivi.
Certo, i buoni sono tutti liberi, anche quelli che non hanno fatto nessun percorso che ne garantisca un inserimento “regolare” nella società. Non devono dimostrare niente, per loro non c’è inversione dell’onere della prova. I cattivi sono tutti rinchiusi nei raparti speciali delle diverse carceri italiane, quelle che anche in questi giorni stanno visitando i dirigenti dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino”, Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti, che hanno incontrato anche molti dei 1.200 ergastolani «che continuano a essere vittime dell’illegalità del regime ostativo». «I detenuti nutrivano fiducia nella Consulta –scrivono i tre dirigenti nel loro comunicato-, una fiducia che è stata tradita». E chissà quanti altri “tradimenti” dovranno subire da oggi all’8 novembre. E poi quel giorno si vedrà, quando la Corte Costituzionale si riunirà di nuovo per dare la pagella al Parlamento. Con un altro presidente, però. Come definiva Marco Pannella la Corte Costituzionale? «Cupola della mafiosità partitocratica». Ecco.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La riforma giustizia. “Mettiamoli in cella e buttiamo la chiave”, la Cartabia prova a liberarsi dalle ganasce dei giustizialisti. Roberto Cota su Il Riformista il 29 Marzo 2022.
La Ministra Cartabia è stretta dalle ganasce di una cultura antigarantista ed illiberale che ha caratterizzato questi anni. Da una parte, abbiamo la presunzione di colpevolezza che ha sostituito quella di innocenza, dall’ altra, la linea che tende a smantellare la funzione rieducativa della pena in nome di un ritorno alla primordiale funzione afflittiva. Lo slogan politico conseguente è “una volta in cella, buttiamo via la chiave”. Ovviamente, si spera che la Ministra riesca a liberare il nostro sistema da questa presa. Si tratta di un compito non facile. Rispetto alla presunzione di innocenza, un passo avanti si è realizzato attraverso il DLGS n. 188/21 con il quale il legislatore è intervenuto a fronte della direttiva europea numero 343/16.
L’intervento riguarda l’aspetto legato all’indebita presentazione in pubblico di una persona come colpevole allorché non vi sia ancora una sentenza definitiva di condanna. La strada però è ancora lunga in quanto nel nostro sistema, da anni, i diritti fondamentali dei cittadini sono stati sacrificati (si pensi alle intercettazioni telefoniche, agli abusi della custodia cautelare, alla difficoltà di collocare il giudice davvero in una posizione di terzietà, etc, etc). Su questo fronte, i referendum spingono e la speranza è che il ritorno al garantismo possa arrivare dal basso. Per quanto riguarda la funzione rieducativa della pena, forse qualcosa di più si muove a livello istituzionale: in Parlamento è in discussione la norma che prevede il superamento dell’ergastolo ostativo (una volta in cella per determinati reati se non si collabora con la giustizia le regole attuali tendono a negare il processo di reinserimento sociale del detenuto).
Per la verità, si tratta più che di un atteggiamento lungimirante, di una scelta obbligata a fronte dei moniti che arrivano dall’Europa e dalla nostra Corte Costituzionale, ma è un passo in avanti. Inoltre, la nomina a capo del DAP di Carlo Renoldi decisamente è un segnale positivo. La sua esperienza specifica e le sue posizioni lasciano ben sperare. Per la verità, hanno cercato di delegittimarlo semplicemente perché in diverse occasioni ha rimarcato che la pena deve avere una funzione rieducativa e che le carceri devono essere umane. Nei prossimi mesi vedremo gli sviluppi di questa partita, complicata in quanto il fronte antigarantista è variegato: a volte un mix di populismo, giochi di potere o anche semplicemente interessi legati a carriere costruite sul falso mito dell’eterna contrapposizione buoni contro cattivi. Roberto Cota
«La procura di Catanzaro vuol forse intimidire i deputati della Repubblica?». Il parlamentare di Italia viva. «Gratteri nel presentare ricorso nei confronti della concessione degli arresti domiciliari all’ex deputato Giancarlo Pittelli, ha alleato anche due interrogazioni parlamentari». Valentina Stella su Il Dubbio il 27 marzo 2022.
«Incomprensibile, grave e ingiustificata». Così al Dubbio l’onorevole di Italia Viva Roberto Giachetti descrive una iniziativa di Nicola Gratteri, resa nota due giorni fa in Aula dallo stesso parlamentare: «La procura della Repubblica di Catanzaro, Direzione distrettuale Antimafia, nel presentare ricorso nei confronti della concessione degli arresti domiciliari all’ex deputato Giancarlo Pittelli ha allegato tra gli atti anche due interrogazioni parlamentari». Una a prima firma Riccardo Magi (+ Europa) con la dem Bruno Bossio e lo stesso Giachetti e un’altra depositata al Senato da Emma Bonino e da Matteo Richetti di Azione. «I deputati – ha spiegato Giachetti – hanno il diritto, nella loro attività, attraverso le interrogazioni, di stigmatizzare delle cose che non vanno. Io ho presentato decine e decine di interrogazioni, anche grazie alle segnalazioni di Rita Bernardini, sul carcere, il 41 bis, e questioni anche più gravi. Nel caso specifico si tratta di cose che personalmente ho appreso dai giornali».
Caso Pittelli, la lettera alla ministra Carfagna
Ma cosa dice la famosa interpellanza del 14 febbraio? Ricorda l’arresto di Pittelli, la misura cautelare in isolamento, la negazione di un interrogatorio per mesi, lo sciopero della fame intrapreso per chiederne la scarcerazione, la continua fuga di notizie sul caso, la abnorme durata della carcerazione preventiva che a febbraio 2022 ha raggiunto i 26 mesi, la tutela di diritti dell’imputato e del detenuto, la diffusione degli atti istruttori, peraltro irrilevanti ai fini processuali e riguardanti la vita privata dell’imputato, la revoca dei domiciliari per aver inviato una lettera alla Ministra Carfagna, anomalie sulle trascrizioni delle intercettazioni contenuti dell’ordinanza di custodia cautelare, il fatto che «il dottor Otello Lupacchini, già procuratore generale presso la corte d’appello di Catanzaro, ha rivelato di aver ricevuto, nel gennaio 2020, una lettera da Pittelli che conteneva denunce circostanziate nei confronti di un magistrato di Catanzaro e di aver trasmesso tale documento alla procura della Repubblica di Salerno; all’esposto non ha fatto seguito né l’avvio di indagini nei confronti del magistrato accusato, né un eventuale procedimento per calunnia verso lo stesso Pittelli. Per tutto questo gli interroganti hanno chiesto alla Ministra Cartabia “se non ritenga che i fatti in premessa, qualora confermati, siano meritevoli di un accurato approfondimento tramite una ispezione presso gli uffici giudiziari di Catanzaro coinvolti”».
Al momento nessuna risposta all’atto di sindacato ispettivo ma intanto è finito tra gli allegati della Procura di Catanzaro. Quali potrebbero essere le ragioni di questa iniziativa? Ci dice Giachetti: «è una forma di intimidazione, un tentativo di gettare un’ombra su di noi e la nostra attività parlamentare, il sospetto di una regia organizzata inserendola in un contesto di criminalità organizzata?» Pittelli – ricordiamo – è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. «L’articolo 68 della Costituzione – prosegue Giachetti – difende la libertà dei parlamentari rispetto agli altri poteri. E allora perché viene messa agli atti una precipua, specifica e dovuta attività di un parlamentare, in un procedimento in cui quella roba non c’entra nulla?». Giachetti ci annuncia che presenterà un’interrogazione alla Cartabia ma inoltre «credo sia dovere del Presidente della Camera chiedere spiegazioni al CSM: e voglio proprio sapere se il Consiglio si assumerà la responsabilità di dire che una cosa del genere è accettabile».
Gli esposti contro Gratteri bocciati dal Csm
I precedenti non fanno ben sperare. Ricordiamo che per alcuni articoli critici nei confronti della Procura di Catanzaro sempre in merito a Pittelli, la corrente di Area ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela nei confronti di Gratteri e colleghi e che lo stesso Csm qualche settimana fa ha archiviato senza fornire una spiegazione l’esposto dell’Unione delle Camere Penali contro Gratteri per una sua intervista al Corriere della Sera dove alluse a pericolose collusioni dei giudici di Catanzaro visto che non avallavano le sue inchieste. Comunque conclude Giachetti: «Se qualcuno pensa che, allegando delle interrogazioni che sono figlie del mio dovere di parlamentare nei confronti di persone che sono sicuramente fragili, in custodia cautelare e che, spesso e volentieri, proprio a Catanzaro finiscono assolte, otterrà il mio silenzio, sbaglia: io ho il dovere di difendere la mia dignità, e penso che il Presidente della Camera abbia il dovere di tutelare la dignità e le prerogative dei parlamentari».
Caso Pittelli, parla Magi
Anche per l’onorevole Riccardo Magi si tratta di una iniziativa «gravissima, intimidatoria». Magi aggiunge che «come ha spiegato in Aula il presidente di turno Andrea Mandelli, dopo essersi consultato con gli uffici, non ci si ricorda di precedenti del genere. Noi in quella interrogazione abbiamo raccolto degli elementi di cronaca, pubblicati sui giornali, in particolare sul Riformista, dopo un accurato vaglio dei nostri uffici molto attenti all’indicazione delle fonti». Pertanto «è assolutamente necessario che il Presidente della Camera Fico chieda un chiarimento direttamente alla Procura per capire qual è la finalità, quale l’intento di questa iniziativa del Procuratore Gratteri. Sono in gioco le prerogative parlamentari, l’insindacabilità degli atti compiuti dai parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni. Quindi, poiché questa questione ha una rilevanza costituzionale, io invito tutti i colleghi a sottoscrivere quella interpellanza».
Il Csm che fa: finta di niente? Gratteri prende a calci la Costituzione: ma l’avvocato Pittelli è Matteo Messina Denaro? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Marzo 2022.
Ma è davvero così importante questo avvocato Pittelli, e le sue responsabilità sono così gravi, quasi fosse, per dire, un Matteo Messina Denaro, da indurre la procura di Catanzaro a violare, in un sol colpo, ben tre articoli della Costituzione? Stiamo parlando di tre principi che sono il punto focale delle libertà dei cittadini e dello Stato di diritto. Cioè gli articoli 21, 27 e 68 della Costituzione. Ci saranno, dopo che il deputato Roberto Giachetti lo ha denunciato in aula, un intervento del Presidente della Camera e della ministra perché intervenga il Csm? O l’organo di autogoverno dei magistrati prenderà in considerazione solo la richiesta delle toghe di sinistra di Area che hanno chiesto l’apertura di una pratica a tutela del procuratore Gratteri e degli uomini della Dda di Catanzaro?
Breve riassunto di quel che è accaduto. Nel maxiprocesso “Rinascita Scott” che si sta celebrando a Lamezia, tra le centinaia di imputati, ce ne è uno che è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa solo perché è un avvocato che esercita la professione in una regione, la Calabria, dove, se sei un penalista, ti capita ogni giorno di assistere persone imputate di reati di mafia. Dobbiamo dirlo chiaro: ad alcuni magistrati, in particolare ai pm “antimafia”, il fatto che questo tipo di imputati abbiano bravi avvocati che difendono i loro diritti, dà molto fastidio. Il loro ideale di processo è quello in cui non si fa neanche la fatica di indagare, basta la parola dei “pentiti” a costruire le accuse e in seguito i maxiblitz. Ma ogni arrestato deve essere solo e disperato per diventare un “pentito”. Se ha al suo fianco un difensore, magari si difende, a maggior ragione se è estraneo ai fatti di cui è accusato. Ai pm “antimafia” parrà strano, ma esistono persino gli innocenti, nei processi e nelle galere.
Quindi questo signor Giancarlo Pittelli è importante per la procura di Catanzaro e la direzione antimafia perché è un pericoloso complice dei boss di ‘ndrangheta, o solo perché fa il suo dovere di avvocato in una terra difficile come la Calabria dove poco si fa per debellare le ‘ndrine nonostante i blitz e le conferenze stampa? Noi propendiamo per la prima ipotesi, perché se invece fosse vera la seconda, saremmo in presenza di un accanimento giudiziario e di violazioni dei diritti (della difesa ma anche della professione) di proporzioni tali da giustificare quanto meno gli interventi immediati della ministra Cartabia e del procuratore generale Salvi con un’azione disciplinare nei confronti del dottor Nicola Gratteri e dei suoi collaboratori. Perché questo avvocato e signor Pittelli è stato usato, negli ultimi due anni e mezzo, come una pallina di ping pong, sballottato di carcere speciale in carcere speciale, con le accuse di gravi reati di mafia che entravano e uscivano dai provvedimenti dei giudici, e senza che mai lui potesse avere pace, neanche nella detenzione domiciliare. Un vero sorvegliato speciale, privato persino del diritto alla salute e al riposo.
Perché per esempio, se lui coabita solo con la moglie, e non può parlare con nessun altro, e se voi della procura e della polizia giudiziaria sapete anche delle sue condizioni psichiche che lo costringono a sonniferi e psicofarmaci, andate a controllarlo nelle prime ore del mattino, magari quando la moglie è andata a fare la spesa e lui dorme e non sente il campanello? E poi questa relazione, considerando anche il fatto che due ore dopo, al successivo controllo l’avvocato ha aperto la porta agli agenti, viene allegata ai documenti con cui “Gratteri più tre” chiedono di nuovo la galera per l’imputato? È un’aggravante , o un reato, non sentire il campanello? O addirittura il sospetto di pericolo di fuga previsto dall’articolo 274 del codice di procedura? La costante violazione dell’articolo 27 della Costituzione sulla presunzione di non colpevolezza, ma anche dell’articolo 111 sul giusto processo, nella vicenda giudiziaria dell’avvocato Pittelli è costante. Fin da quel 20 dicembre 2019 quando, dopo la retata dell’inchiesta “Rinascita Scott” del giorno prima, il legale fu presentato alla stampa come la cinghia di trasmissione tra la ‘ndrangheta, la società civile e la massoneria. Già colpevole, già condannato. Ma osiamo dire che la situazione, a partire da quel giorno, si è aggravata.
Quella conferenza stampa non è stata un colpo di testa, un’esagerazione del procuratore Gratteri. Lo dimostrano le settanta pagine che la Dda ha voluto allegare nei giorni scorsi all’udienza in cui i giudici dovranno decidere se accogliere la richiesta con cui la procura chiede di poter mettere per la terza volta le manette ai polsi dell’avvocato. Il raggio d’azione, con il deposito di quei documenti, si è decisamente allargato. E anche aggravato. Perché non si fa più solo riferimento ai diritti di un imputato o a quelli professionali di un avvocato. Con il gesto di allegare, quasi fossero corpi di reato, le due interrogazioni parlamentari –quella alla Camera dei deputati Giachetti, Bruno Bossio e Magi, e quella al Senato di Emma Bonino e Matteo Richetti– è entrato in discussione un attacco alla libertà di espressione dei parlamentari prevista dall’articolo 68 della Costituzione. E ancora non basta. L’Ordine e i sindacati dei giornalisti, che spesso si appellano all’articolo 21 della Costituzione, non hanno niente da dire sul fatto che gli articoli del Riformista vengano inseriti in atti giudiziari quasi fossero anch’essi, come le interrogazioni dei deputati e senatori, corpi di reato? “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, dice l’articolo 21. Ma che cosa significa, sul piano giuridico e giudiziario, il fatto che vengano additate come fatti sospetti le iniziative di sindacato ispettivo da parte di parlamentari e le inchieste giornalistiche di un quotidiano, oltre addirittura a commenti della pagina facebook o interviste tv di Vittorio Sgarbi? Siamo sicuri che questi messaggi siano diretti solo all’imputato Pittelli Giancarlo e non a quel mondo politico e giornalistico che nel passato chinò la testa, ma oggi potrebbe rialzarla a ribellarsi, dopo trent’anni, al governo dei pubblici ministeri?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Gratteri mette nel mirino pure i parlamentari che in Aula "tifano" per i domiciliari a Pittelli. Felice Manti il 27 Marzo 2022 su Il Giornale.
Dda contro le interrogazioni sull'ex deputato. Giachetti invoca Fico e Csm.
Quando si vive dentro un bunker è difficile distinguere le mille sfumature della politica da un attacco personale. È quello che sta succedendo al coraggioso procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, purtroppo non nuovo a certe entrate in tackle. Vedi l'attacco al Guardasigilli Marta Cartabia e alla sua riforma che, per dirla con delicatezza, «non scoraggia i criminali». Chi conosce il preparatissimo pm sa che ha un caratteraccio. Il suo collega Emilio Sirianni di Md in un'intercettazione legata all'inchiesta sull'ex sindaco di Riace Mimmo Lucano lo definisce «un fascista di mer... mediocre e ignorante» ma chi ci lavora da una vita sa che non è così, anzi.
Gratteri è convinto che il processo nato dalle indagini Rinascita-Scott sia cruciale per sconfiggere la 'ndrangheta. L'imputato chiave del processo è l'ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, già sfiorato dieci anni fa dalle indagini Why not di Luigi de Magistris, finito ai domiciliari nonostante la gravità delle accuse (essere il riferimento delle cosche calabresi e il garante dell'aggiustamento di alcuni processi). In ogni caso Gratteri sa che una sconfitta processuale, financo un ridimensionamento dell'impianto accusatorio, sarebbe una tegola. Sia per la sua carriera (è in corsa per guidare la Direzione nazionale antimafia) sia per la sua credibilità, attesa «l'ombra di evanescenze lunatiche» - per dirla con le parole dell'ex Pg di Catanzaro Otello Lupacchini, cacciato dalla Calabria in un amen dal Csm solo per aver leso la maestà di Gratteri - che si allungherebbe ulteriormente sulle sue indagini. Perché darebbe benzina a chi sostiene che gratta gratta certe sue indagini alla 'ndrangheta non fanno un baffo. Pittelli, si sa, è un gran chiacchierone. Una sua frase sul caso David Rossi («Se si sa chi l'ha ammazzato scoppia un casino») captata da Gratteri è al setaccio dei pm che indagano sulla morte del manager Mps. Qualche giorno fa è finito incautamente intervistato sul pianerottolo di casa da Alessio Fusco, che con Klaus Davi ha curato degli speciali di Studio Aperto. Ma un conto è volerlo legittimamente imbavagliare per evitare che possa mandare pizzini o messaggi in codice, un altro è accostare maliziosamente alle 'ndrine i parlamentari che ne difendono le garanzie costituzionali e che si sono battuti per fargli addolcire la pena preventiva. Come il renziano Roberto Giachetti, mite parlamentare con la tessera di Italia Viva a destra e il cuore radicale a sinistra, che in Parlamento ha affrontato la questione della sua detenzione dopo il caso della missiva che Pittelli ha mandato alla ex collega azzurra Mara Carfagna e che Gratteri ha preso a pretesto per giustificare ancor di più la morsa detentiva. «So che nel ricorso contro i domiciliari la Dda ha allegato interrogazioni anche mie. È una forma di intimidazione o un tentativo di gettare ombra sull'attività dei parlamentari?», si è chiesto Giachetti, che ha chiamato in causa il Csm e il presidente della Camera Roberto Fico per tutelare «la dignità e le prerogative che la Costituzione attribuisce ai parlamentari». Inimicarsi governo e Parlamento non è il modo migliore per fare la guerra alla 'ndrangheta, anzi. Quando i buoni litigano, i cattivi se la ridono.
Il discorso alla Camera. Giachetti contro Gratteri: “Intimidisce il Parlamento, Csm e Cartabia intervengano”. Redazione su Il Riformista il 25 Marzo 2022.
L’onorevole Roberto Giachetti, di Italia Viva, ieri è intervenuto alla Camera per rendere pubblica una iniziativa del Procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, che appare evidentemente come una intimidazione nei confronti di alcuni parlamentari. Giachetti ha chiesto l’intervento della ministra e del Csm. Ecco il testo del suo intervento: “Ho appreso che la procura della Repubblica di Catanzaro, Direzione distrettuale Antimafia, nel presentare ricorso nei confronti della concessione degli arresti domiciliari all’ex deputato Pittelli – vicenda della quale ci siamo occupati in molti anche in questo Parlamento, attraverso interpellanze e interrogazioni – ha depositato alcune interrogazioni parlamentari: una presentata dal sottoscritto, dall’onorevole Bruno Bossio e dall’onorevole Magi, un’altra presentata al Senato dai colleghi Bonino e Richetti.
Si tratta di interrogazioni, svolte nell’attività parlamentare, che sono figlie di quello che facciamo da una vita, in base a quanto stabilito dalla legge, che prevede che i parlamentari siano addirittura gli unici a poter fare le ispezioni in carcere per verificare le condizioni dei detenuti. I deputati hanno il diritto, nella loro attività, attraverso le interrogazioni, di stigmatizzare delle cose che non vanno. Nel caso specifico si tratta di cose che personalmente ho appreso dai giornali. Senza avere nessun rapporto diretto con l’onorevole Pittelli. L’articolo 68 della Costituzione difende la libertà dei parlamentari. Il principio dell’articolo 68 è difendere la libertà dei parlamentari rispetto agli altri poteri. La domanda è: perché viene messa agli atti una precipua, specifica e dovuta attività di un parlamentare, in un procedimento in cui quella roba non c’entra nulla?
Faccio presente che sono stati messi dentro, nel materiale depositato dalla Procura di Catanzaro, anche articoli di giornale, de Il Riformista (uno dei pochi giornali che, rispetto alla giustizia e alla magistratura ha una posizione di un certo tipo) e addirittura un video dell’onorevole Sgarbi su Facebook. Si può pensare, in quel caso – non nel nostro – che ci possano essere gli estremi per una querela. Ma che c’entra con il procedimento che riguarda gli arresti domiciliari dell’onorevole Pittelli? Nulla. E allora il dubbio viene: è una forma di intimidazione, ovvero è un tentativo di gettare un’ombra su un’attività parlamentare, inserendola in un contesto? Pittelli è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e compagnia bella.
Non è un caso personale, mio, dell’onorevole Bossio o dell’onorevole Magi, è un problema di questo Parlamento, è un problema di tutti. Allora io, per conto mio, presenterò un’interrogazione alla Ministra della Giustizia per sapere quali strumenti ha e per sapere se intenda fare qualcosa su questo tipo di attività della procura della Repubblica di Catanzaro. Ma io penso che sia, non solo interesse, ma dovere del Presidente della Camera di chiedere spiegazioni al CSM, in ragione di iniziative che palesemente, per quanto mi riguarda, più che un’ombra appaiono come un’intimidazione. Se qualcuno pensa che, allegando delle interrogazioni che sono figlie del mio dovere di parlamentare nei confronti di persone che sono sicuramente fragili, in custodia cautelare e che, spesso e volentieri, proprio a Catanzaro finiscono assolte, otterrà il mio silenzio, sbaglia: io ho il dovere di difendere la mia dignità, e penso che il Presidente della Camera abbia il dovere di tutelare la dignità e le prerogative dei parlamentari”.
Il Csm fermerà il Procuratore? Attacco eversivo di Gratteri alla Cartabia: “Gestione della giustizia devastante”. Redazione su Il Riformista il 22 Marzo 2022.
Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha lanciato accuse feroci contro il governo e la ministra Cartabia. Ha detto che governo e ministero non stanno facendo niente per contrastare la mafia, ha detto di sperare solo in nuove elezioni che promuovano un governo più vicino alla magistratura, e ha definito le misure pensate dalla ministra Cartabia “devastanti per i prossimi decenni”. Diciamo che ha superato anche Travaglio, il quale però fa il giornalista non è un rappresentate dello Stato.
La domanda ora è questa: il Csm interverrà per condannare queste dichiarazioni oggettivamente eversive del Procuratore e per controllare se le sue esternazioni sono compatibili con il ruolo che ricopre? Se invece il Csm non ha la forza o l’autonomia per bloccare il magistrato, si pone un altro problema: non sarà giunta l’ora di uniformarci agli altri paesi occidentali e mettere l’ufficio del Pm sotto il controllo del ministero?
Gratteri contro Cartabia: «Il governo non ci aiuta nella lotta alle mafie». «Si sono fatti e si stanno facendo provvedimenti pensati e diretti dalla ministra Cartabia che sono devastanti e saranno devastanti per i prossimi decenni». Il Dubbio il 21 marzo 2022.
«In Calabria c’è la ’ndrangheta, c’è la corruzione. Purtroppo il fenomeno riguarda tutto il mondo occidentale, negli ultimi 20 anni c’è stato un forte abbassamento della morale e dell’etica e la corruzione ha investito appieno il mondo occidentale, in particolare l’Italia e in particolare il Sud e i posti ad alta densità mafiosa. Ma noi purtroppo non abbiamo avuto dei governi che hanno voluto investire in sicurezza, che hanno voluto investire contro le mafie». Lo ha detto il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, intervenendo in collegamento con l’evento del «Calabria Day» in corso al Padiglione Italia dell’Expo 2020, a Dubai.
«Purtroppo – ha proseguito Gratteri – la storia ci insegna, già dalla fine dell’800, che il potere, la classe dirigente ha bisogno di mafie per contrastare altri centri di potere e altri poteri concorrenti. Purtroppo devo dire che questo governo non ci sta aiutando nel contrasto alle mafie, con scelte apparentemente che c’entrano poco con la mafia, ci sta aiutando pochissimo. Si sono fatti e si stanno facendo provvedimenti pensati e diretti dalla ministra Cartabia che sono devastanti e saranno devastanti per i prossimi decenni. Il problema – ha sostenuto il procuratore di Catanzaro – non è l’immediato, il problema è che nella testa della gente entra il tarlo che tutto si aggiusta, c’è una sistemazione. Non è sostanzialmente un deterrente».
«Io – ha rimarcato il procuratore della Repubblica di Catanzaro – ho bisogno di un sistema giudiziario nel rispetto della Costituzione, c’è bisogno di fare tali e tante modifiche in modo che diventi non conveniente delinquere. Quindi non un approccio morale ed etico, ma un rapporto di convenienza, dimostriamo sul piano sostanziale che non è conveniente delinquere. Temo che con questo governo, da questo punto di vista, sul piano della sicurezza e sul piano del centrato alle mafie non si andrà da nessuna parte, se non si arriverà alle prossime elezioni sperando in un governo che abbia una visione sulla sicurezza e soprattutto sulla trasformazione delle mafie, che non sparano, non uccidono ma che – ha concluso Gratteri – comprano tutto ciò che è in vendita e soprattutto comprano l’animo delle persone».
Fuoco sulla ministra. Presunzione d’innocenza, Pm e correnti sparano a zero contro la Cartabia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Marzo 2022.
Loro sparano parole come pallottole, lei porta a casa i risultati. Le riforme della ministra Marta Cartabia non piacciono a qualche procuratore né a una certa magistratura, quella associata e quella che siede nel Csm, ma stanno cominciando a produrre una giurisprudenza che profuma molto di Stato di diritto. Come quella sentenza di cassazione che riconosce il diritto al silenzio per la riparazione dopo l’ingiusta detenzione. Il percorso delle riforme della giustizia, quelle richieste dall’Europa anche per l’erogazione dei fondi previsti dal Pnrr, è come uno slalom tra paletti irti di spine o ardenti di fuoco cui è facile scottarsi. Se poi ci si mette quel procuratore Nicola di Calabria, il più antimafia di tutti, a recriminare contro “questo governo” che non si unisce sufficientemente a Lui nella lotta alle cosche (e lui spera nel prossimo, anche se manca più di un anno alle elezioni), la ministra guardasigilli pare proprio un san Sebastiano con mille frecce addosso.
Il procuratore Gratteri è uno di quelli sempre con l’arco teso a mirare la ministra. L’ultima: “Si stanno facendo provvedimenti pensati e diretti dalla ministra Cartabia, che saranno devastanti per i prossimi decenni”. Non è difficile capire che non di mafia, sta parlando, ma di quella bestia nera che è la presunzione di non colpevolezza, specie quando il principio previsto dalla Costituzione all’articolo 27 debba essere accompagnato dalla discrezione e dalla riservatezza dei pubblici ministeri. Rara avis, negli ultimi trent’anni. Dagli anni in cui si sviluppavano Tangentopoli al nord e Mafiopoli al sud. Ma il procuratore Gratteri non è l’unico a preoccuparsi per le proprie conferenze stampa, quelle in cui all’indomani dei suoi blitz indicava già come colpevoli gli arrestati: l’avvocato Pittelli, per esempio, tacciato da subito di essere l’anello di congiunzione tra la mafia, la massoneria e la società civile, fin dal primo incontro del procuratore con la stampa del 20 dicembre 2019. E’ in buona compagnia, il dottor Gratteri, mentre il Parlamento è un po’ impantanato sulla riforma del Csm (con le toghe divise sul sorteggio elettorale) e dell’ordinamento giudiziario, per la spinosa questione della valutazione di professionalità e delle porte girevoli dei magistrati in politica o in ruoli tecnici in organismi come i ministeri.
Di stare un po’ zitti, composti e riservati, i magistrati non vogliono proprio saperne. Soprattutto i pubblici ministeri. E temono tantissimo di dover rispondere di illecito disciplinare. Quindi, come sempre, chiamano in causa concetti altisonanti come l’indipendenza e addirittura la libertà. E’ accaduto due giorni fa al Csm, chiamato a dare pareri e proporre emendamenti sulla riforma Cartabia. Addirittura il plenum dell’organo di autogoverno (con solo 3 contrari e 6 astenuti) si è scagliato contro “il bavaglio” che la norma sulla presunzione di innocenza, con cui l’Italia con anni di ritardo si sta allineando all’Europa, vorrebbe imporre ai procuratori. E che sarebbe “palesemente irrazionale e in contrasto con la manifestazione del pensiero dei magistrati”. A proposito di irrazionalità: il pm deve quindi essere libero di violare i principi costituzionali? Indicando l’indagato o l’arrestato come colpevole? Se poi vogliamo andare nel grottesco, basta ricordare che l’emendamento votato e proposto dalla corrente di Area (chissà perché sono sempre quelli di sinistra i più corporativi), addirittura se la prende con i titolari dell’azione disciplinare, cioè il ministro guardasigilli, ma anche il procuratore generale presso la cassazione, cui sarebbe attribuito il “potere di controllo sul pm”. Ed ecco l’altra bestia nera della magistratura, il timore di dover rispondere, prima o poi, a qualcuno delle proprie azioni. Anche a costo di mancare di rispetto ai diritti dei cittadini, tra cui quelli fondamentali previsti dall’articolo 27 della Costituzione.
Si dice sempre che non tutti i magistrati italiani hanno le stesse sembianze di quelli più appariscenti, o perché hanno incarichi nel sindacato (Anm), o perché diventano famosi con i blitz, o spesso perché vengono citati negli articoli di cronisti compiacenti cui qualche manina ha passato le notizie secretate sottobanco. Si dice, ed è vero, che esistono anche le toghe “normali”. Quelle che non solo rispettano, ma anche applicano la legge e le riforme. Anche quelle decisamente innovative rispetto alla propria tradizionale giurisprudenza. E’ capitato nei giorni scorsi alla quarta sezione penale della cassazione. Che, proprio in riferimento alla nuova disciplina sulla presunzione di innocenza, ha sancito che il silenzio dell’imputato non impedisce il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. Quanti avvocati si sono visti respingere la richiesta di ristoro perché i loro assistiti, dopo aver scontato giorni e mesi di detenzione da innocenti, venivano accusati di mancata collaborazione con il rappresentante dell’accusa? E sempre l’istanza veniva respinta a tutti coloro che per esempio si erano avvalsi della facoltà di non rispondere. Giurisprudenza consolidata, anche della cassazione, sulla base non di una legge ma di un orientamento. Oggi la sentenza numero 1684 della quarta sezione penale della cassazione stabilisce che il silenzio dell’indagato non è più ostativo alla riparazione per ingiusta detenzione, proprio sulla base del decreto legislativo 188 del 14 dicembre scorso sulla presunzione di innocenza.
La causa riguarda un provvedimento della corte d’appello dell’Aquila che aveva rigettato la richiesta di riparazione di un indagato il quale “per ben due volte in sede di interrogatorio, a fronte degli elementi emersi dalle indagini, non aveva offerto oggettivi e riscontrabili elementi di contrasto alla ricostruzione dei fatti in chiave accusatoria”. In pratica, con il suo comportamento “ostativo”, l’indagato non aveva aiutato il pm e il giudice a valutare la realtà dei fatti. Anzi in un certo senso aveva messo il bastone tra le ruote per l’accertamento della verità e l’innocenza o colpevolezza delle persone arrestate. In particolare, nel caso in questione, l’indagato accusato di complicità in una rapina, con il suo silenzio non ha aiutato nella ricostruzione dell’evento, cosa che avrebbe potuto fare, avevano detto i giudici della corte d’appello, invece di rinchiudersi nel suo mutismo. Ma a quei giudici la cassazione dà anche un bel pizzicotto. E si chiede anche se il rifiuto a rispondere da parte dell’indagato sia stato il solo elemento alla base dell’ordinanza di custodia cautelare, o se invece non sussistessero altri comportamenti che ne avessero giustificato la detenzione. Cosa che la corte d’appello, prima di decidere se concedere o meno il risarcimento, si è ben guardata dall’indagare.
In ogni caso è anche vero, si ricorda però nella sentenza, che l’intera giurisprudenza precedente della cassazione dava ragione a quel rigetto della richiesta da parte della corte d’appello. Perché c’è oggi un fatto nuovo, in quanto il provvedimento proposto dalla ministra Cartabia sulla presunzione di innocenza ha fatto, sulla facoltà di non rispondere alle domande del magistrato, un preciso riferimento al codice di procedura penale, esplicitando che “l’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’articolo 64 comma 3 lettera b) non incide sul diritto alla riparazione…”. Una bella ventata di aria fresca, nel Paese dove dal 1992 ben 30.000 detenuti innocenti sono stati risarciti con 800 milioni di euro. Ma sappiamo che erano molti di più quelli che lo avrebbero meritato e che erano stati puniti per mancato collaborazionismo. Mentre i magistrati che sbagliano non pagano mai. E hanno il coraggio di lamentarsi perché non potranno più mettere alla gogna pubblicamente gli arrestati, compresi quelli innocenti.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
«Assolti ma comunque colpevoli per la stampa: è ora di dire basta». La denuncia dei difensori di Peppino Falvo, uno dei cinque imputati assolti a Milano nel processo “Krimisa” su un presunto voto di scambio. Simona Musco su Il Dubbio il 9 marzo 2022.
«Ci sono delle assoluzioni con formula piena, perché il fatto non sussiste, il massimo di quello che si può ottenere. Ma i giornali continuano a trattare gli assolti come colpevoli, sostenendo che l’hanno fatta franca per una manciata di giorni: la legge, a loro dire, non esisteva all’epoca. Ma oltre a non essere vero, questo giudizio arriva in assenza di una motivazione e per persone dichiarate innocenti». A parlare sono Ramona Gualtieri e Gabriele Maria Vitiello, difensori di Peppino Falvo, ex coordinatore regionale dei Cristiano Democratici, uno dei cinque imputati assolti a Milano nel processo “Krimisa” su un presunto voto di scambio.
Un’assoluzione che, però, non basta a lavare via l’onta dell’accusa, spiega Gualtieri, dal momento che secondo alcuni articoli di stampa a salvare gli imputati sarebbe stato la circostanza che i fatti, all’epoca in cui sarebbero stati “commessi”, non avrebbero rappresentato un reato. Ovvero nel 2014, prima delle modifiche introdotte nel 2014 all’articolo 416 ter, quello che punisce lo scambio politico-mafioso. «La verità non è affatto questa – spiegano -, in quanto già prima di allora lo scambio veniva punito, ma gli elementi costitutivi del reato erano diversi. Ciò che viene scritto è, perciò, del tutto infondato». E si basa solo su un fatto: nel dispositivo della sentenza di assoluzione, affermano i due difensori, nonostante sia specificato che il fatto non sussiste, «il giudice ha indicato esplicitamente “così come commesso in data antecedente al 18 aprile 2014”». Quanto basta per far dire alla stampa che sì, il reato non sussiste, ma comunque è stato commesso.
«La formula utilizzata presuppone che il giudice non abbia ravvisato gli elementi a sostegno dell’accusa e non c’è possibilità di interpretazione alternativa – sottolineano -, sin dall’origine viene dunque negata l’ipotesi accusatoria. Ma nel contempo, senza attendere alcuna motivazione da parte del giudice, i giornali hanno dato una notizia errata, continuando ad additare le persone coinvolte nel procedimento come colpevoli». Su questa vicenda sarebbe già pronta un’interrogazione alla ministra. Ma nel frattempo a indignare la difesa è l’idea che si possa violare la presunzione di innocenza perfino quando l’innocenza è stata certificata da una sentenza. «Le motivazioni dovranno chiarire necessariamente questo aspetto – concludono -, ma ciò che è chiaro, allo stato attuale, è che viene completamente esclusa l’ipotesi che gli imputati abbiano commesso quel reato. Questa vicenda ha condizionato molto la vita del nostro assistito, finito anche in un servizio di Report che fu usato dall’ufficio di procura come prova. È ora di dire basta a queste anomalie».
Le statistiche. Chi c’è in carcere: aggressori e pusher, pochissimi i mafiosi. Viviana Lanza su Il Riformista il 3 Marzo 2022.
Ha un’età compresa tra i 40 e i 60 anni, ha figli. Nella maggior parte dei casi ha anche una moglie o una convivente, e ha un titolo di studio medio alto. E si trova in carcere per reati contro la persona o contro la pubblica amministrazione. Eccolo il ritratto del detenuto medio, il profilo di chi compone la maggioranza della popolazione detenute nelle carceri della Campania, e più in generale di tutto il Paese. È di queste persone che dovrà occuparsi il nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Altro che mafiosi, a stare in carcere sono soprattutto uomini violenti o truffatori, ladri e spacciatori. Eccolo l’identikit di chi vive dietro le sbarre.
Certo ci sono anche quelli condannati per reati di criminalità organizzata, ma sono una minoranza rispetto alla popolazione che vive nelle celle. Lo dicono le statistiche ministeriali con cui periodicamente il Ministero della Giustizia traccia un bilancio sullo stato del sistema penitenziario. Ebbene, se è vero che i numeri sono utili per descrivere certe realtà, è dai numeri indicati nelle statistiche ministeriali che viene fuori un ritratto del detenuto medio che non è solo e sempre il ritratto dello spietato e potente boss della criminalità organizzata rispetto al quale diventa difficile, come sostengono i meno garantisti, intavolare discorsi su misure alternative e provvedimenti svuotacarceri. Su una popolazione detenuta di oltre 54mila persone, sono 7.274 quelli reclusi per reati di associazione a delinquere di stampo mafioso.
La maggior parte dei detenuti è dietro le sbarre per reati contro il patrimonio, cioè furti e rapine. E per reati contro la persona, quindi aggressioni e lesioni. Nella prima sfera di reati rientrano 31.009 detenuti, nella seconda 23.611 detenuti. E allora come mai, quando si parla di carcere, ci si concentra sempre ed esclusivamente sui boss della camorra? Ragionare su misure alternative al carcere e sulla possibilità di ricorrere al carcere solo come extrema ratio può essere possibile per più della metà della popolazione detenuta. Cosa significherebbe? Innanzitutto la fine di carceri-inferno, e poi di celle strapiene, di diritti mortificati, di spazi inadeguati, di attività di rieducazione non a singhiozzo e non per pochi, di tutela della salute, di tutela dei diritti anche di chi lavora in carcere perché le risorse non saranno inadeguate a gestire il numero di detenuti che sarebbe realmente presente nelle celle.
In due parole, sicurezza e diritti. Di tutti. Di chi vive all’interno delle strutture penitenziarie e di chi vive nel mondo fuori. I numeri, dicevamo. Sono stati, nel 2021, più di 8mila i detenuti per reati contro la pubblica amministrazione e oltre 9mila quelli dentro per possesso di armi. I numeri descrivono anche un altro aspetto della questione carcere tanto dibattuto quanto nei fatti ignorato: i detenuti problematici, quelli per esempio tossicodipendenti. Sono molto numerosi. Nel 2021 si sono contati 18.942 detenuti per reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Rispetto al passato sono in numero più contenuto (erano più di 23mila nel 2005 e più di 21mila nel 2019), ma sono pur sempre ancora moltissimi, se si considera che più della metà oltre a trafficare in droga ne sono anche assuntori. Sono dunque troppi per le strutture di cui il sistema penitenziario dispone, inadeguate a gestire detenuti con dipendenze e patologie.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Cosa sanno i cultori del carcere duro di amministrazione penitenziaria? I detenuti per reati connessi a fatti di mafia sono, a tutto concedere, circa 700, su una popolazione carceraria di oltre 60mila persone. Gian Domenico Caiazza su Il Dubbio il 6 marzo 2022.
Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria è chiamato ad occuparsi della gestione amministrativa delle carceri. Dunque, deve occuparsi di personale, di Polizia Penitenziaria, di condizioni detentive degli internati, di edilizia carceraria. Deve amministrare un bilancio di imponenti dimensioni. Si tratta insomma di un incarico di alta amministrazione, in uno dei comparti pubblici più delicati e peculiari.
La prima domanda che dovremmo tutti farci seriamente, che invece pochi si fanno e alla quale pervicacemente nessuno risponde, è perché mai si ritenga immancabilmente di affidare questo delicato e complesso incarico a un magistrato. Il quale ultimo è entrato nei ranghi della Pubblica Amministrazione vincendo un concorso che valuta qualità, conoscenze ed idoneità del tutto estranee a quelle – chiaramente manageriali, e anche non poco sofisticate- richieste per amministrare il Dap. Perfino se fosse un magistrato con lunga esperienza al Tribunale di Sorveglianza – il che, paradossalmente, non accade praticamente mai- questi sarebbe comunque privo delle più rudimentali cognizioni di management pubblico che la funzione necessariamente presuppone.
Ma questo è il Paese che ha maturato una idea talmente ancillare verso il potere giudiziario, da essersi convinto a considerare di esclusiva competenza magistratuale qualunque funzione (non giurisdizionale ma) amministrativa in tema di Giustizia. A questa assurdità (assimilazione della competenza amministrativa a quella giurisdizionale) se ne è aggiunta una seconda, particolarmente rozza e primitiva e perciò cara alla diffusa cultura manettara di questo Paese, secondo la quale quella carica deve essere affidata, come dire, ad un “mastino”, che dia garanzie di una solida cultura poliziesca e, soprattutto, “antimafiosa”, qualunque cosa ciò possa concretamente significare. Dunque, non solo magistrati, ma preferibilmente Pubblici Ministeri con solido curriculum in processi contro le mafie, e con solida cultura carcerocentrica.
Ora, dovete sapere che i detenuti per titoli di reati connessi a fatti di mafia sono, a tutto concedere, circa 700, su una popolazione carceraria di oltre 60mila persone. Le ragioni per le quali costoro sono detenuti, debbano rimanerlo e con quale regime detentivo, sono di esclusiva spettanza dei magistrati che li indagano, li giudicano, ne curano il regime esecutivo della pena. Il regime detentivo speciale del cosiddetto 41 bis è fissato da norme di legge primarie e secondarie. Dunque, la seconda domanda che tutti dovremmo farci, che invece pochi si fanno e alla quale pervicacemente nessuno risponde è: cosa c’entra l’antimafia con il Dap? Ma qui è inutile tentare un ragionamento, siamo di fronte a quel crogiuolo esplosivo di isteria collettiva e retorica un tanto al chilo che annichilisce le sinapsi e preclude ogni sensata discussione. Con una popolazione di 60mila persone detenute da governare, di altre centinaia di migliaia tra personale amministrativo e di polizia penitenziaria da amministrare, di strutture carcerarie fatiscenti da adeguare, di enormi flussi di denaro da spendere in modo ottimizzato, le prèfiche nazionali dello schiavettone strepitano indignate, perché il nome avanzato dalla Ministra Cartabia non garantirebbe quegli sconclusionati parametri di idoneità all’incarico che ci siamo inventati non si sa quando, non si sa come, non si sa perché. Il dottor Renoldi non è un Pubblico Ministero dunque non può vantare maxi inchieste e maxi arresti di mafia; è “solo” ( sic!) un Giudice della Corte di Cassazione, dunque – parrebbe di capire che questo sia il pensiero degli energumeni indignati- una mammoletta senza spina dorsale; e soprattutto avrebbe espresso qui è là, in quel tal convegno o in quel tal altro scritto, idee sull’ergastolo ostativo semmai consonanti con le salottiere ed irritanti pruderie della Corte Costituzionale, ma certamente insostenibili a petto della rude e maschia cultura antimafia, chessò, di un Gratteri o di un Di Matteo.
Quindi, cari amici, a questo stiamo. Avremmo voluto chiedere alla Ministra Cartabia: perché ancora un magistrato? (e non un direttore di carcere di lungo corso, o un qualificato studioso di diritto penitenziario, o meglio ancora un manager pubblico)?; e invece dobbiamo cogliere nella decisione della Ministra, per di più con sincero compiacimento, almeno il segno comunque coraggioso e limpido della fedeltà alla sua idea di carcere e di pena che ha da subito reso esplicita, e che, naturalmente, le fa onore. Invece che un pm scegli un giudice, per di più non grondante idolatria della ostatività, e tanto basta a scatenare il linciaggio. Ahi poveri noi, poveri noi.
L'attacco del "Fatto". Travaglio contro Renoldi: “Fucilate il capo del Dap, per lui la prigione non è una tomba”. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Luglio 2022
Fucilate Carlo Renoldi, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e amico dei mafiosi! L’ordine parte dal giornale di Marco Travaglio e viene immediatamente raccolto dai fedeli scudieri parlamentari grillini, che scattano sull’attenti e vergano un’interrogazione alla ministra Cartabia. Colei che annovera tra i suoi peccati anche quello di aver nominato al vertice del Dap un magistrato che non porta sul petto le stellette dell’antimafia militante. Quella del “processo trattativa” che piace ai Di Matteo e agli Ardita, che infatti sulla nomina nel plenum Csm si sono astenuti.
L’occasione è data da una notizia che proviene dal mondo carcerario (o forse proprio da quello dell’antimafia militante) ed è anche vecchia di due mesi. Da quando cioè una delegazione dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, in visita autorizzata nelle carceri della Sardegna, nelle giornate del 7 e 10 maggio, ha potuto incontrare anche i detenuti ristretti al regime del 41-bis. Scandalo! Il Fatto si riferisce alla presidente dell’associazione, Rita Bernardini, e ai due dirigenti Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti (definiti anche con sprezzo “coniugi”, come se fosse un reato) trattandoli come se fossero stati sorpresi mentre fornivano lenzuola annodate e per far evadere Zagaria e Bagarella. Ma lo scandalo consiste solo nel fatto che nell’autorizzazione rilasciata dal direttore Carlo Renoldi per l’accesso della delegazione agli istituti di Sassari e Nuoro mancasse la dicitura “a esclusione della sezione 41-bis”. Una scelta positiva. Tenendo presente anche il fatto che il carcere “impermeabile” non riguarda solo i condannati, ma anche persone in custodia cautelare.
Ma è chiaro il retro-pensiero di chi non ha neppure la più pallida idea di che cosa sia un carcere né dei diritti civili e umani. I “pizzini”, questo è il primo sospetto. Come se chiunque si occupi dei diritti dei detenuti, e lo stesso direttore del Dap, fossero complici dei boss e pronti a farsi da tramite per aiutarli in nuovi delitti. Così non sfiora la mente il fatto che un’associazione come “Nessuno tocchi Caino” possa invece essere molto utile per aiutare anche coloro che un tempo uccisero e fecero stragi, al superamento di quel che furono e a un percorso di cambiamento. Meglio invece, per la subcultura travagliesca e grillina, tenere questi uomini come belve feroci isolate e chiuse nei loro recinti. Certo, la nomina nel marzo scorso da parte della ministra Cartabia di un magistrato come Carlo Renoldi al vertice del Dap, e tre mesi dopo di un funzionario esperto come il provveditore regionale di Lazio Abruzzo e Molise (ma anche ex direttore delle carceri di Brescia, Padova e Rebibbia nuovo complesso) come Carmelo Cantone, ha segnato una svolta. E al Fatto quotidiano schiumano di rabbia.
La militanza antimafia comporta che tutto rimanga sempre come era, con i delinquenti fermi all’immagine di quel che erano stati al momento dell’arresto, a meno che non facciano i “pentiti”, magari mandando in galera un po’ di innocenti come fece, ispirato dai tanti suggeritori e dopo esser stato torturato nel carcere speciale di Pianosa, Vincenzo Scarantino. “Visite anti-ergastolo ai boss”, le chiamano al Fatto. Con disprezzo nei confronti della Corte Costituzionale e delle sue sentenze che hanno aperto la strada prima ai permessi premio e in seguito agli altri benefici penitenziari previsti dal regolamento anche per i condannati “ostativi”, vittime da trent’anni di una normativa incostituzionale. «Ci risulta che si sia parlato dell’ergastolo ostativo», si scrive con lo stesso tono scandalizzato che si userebbe se fosse stata programmata un’evasione di massa dei boss mafiosi. Meglio spettegolare, con lo stile di chi intervista i citofoni, sul fatto che il direttore del Dap, cioè il numero uno dell’amministrazione penitenziaria, nel firmare il permesso all’associazione di incontro con tutti i detenuti, avrebbe “approfittato” dell’assenza di colui che era ancora il suo vice, l’ex pm “antimafia” Roberto Tartaglia, orgogliosamente ricordato come uno dei promotori del fallimentare “processo trattativa”, per compiere la scappatella.
Come se la storia stessa di Carlo Renoldi, quel che ha sempre detto e fatto, non parlasse per lui. Se ne erano ben ricordati i due membri del Csm che non lo hanno votato, Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, che avevano prontamente raccolto il “la” inviato loro, dalle colonne del Fatto quotidiano ovviamente, da Giancarlo Caselli, quasi un ordine: l’ergastolo ostativo non si tocca. E pensare che ogni giorno l’ex segretario di Magistratura democratica Nello Rossi ci ricorda dei fasti garantistici che furono della corrente di sinistra, dimenticando che anche l’ex procuratore Caselli viene di lì, da quella storia. Da un mondo che bocciò sempre la carriera e le aspirazioni, ma anche il pensiero, di un gigante come Giovanni Falcone. Un mondo che oggi senza vergogna si ritrova contiguo a Marco Travaglio. Ci provano anche con Carlo Renoldi, perché è un riformatore, e lo sta dimostrando. Per questo ogni occasione è buona per proporre la sua fucilazione, cioè tentare di portarlo alle dimissioni. Ma sarà dura, con la ministra Cartabia.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Ma quale scandalo: i Radicali hanno già visitato i 41bis e iscritto boss dagli anni 80. Il Fatto e i 5S attaccano il capo del Dap, Carlo Renoldi, per aver permesso a persone non parlamentari di recarsi in sezioni del carcere duro, ma le autorizzazioni sono state concesse anche dalle amministrazioni precedenti. Damiano Aliprandi Il Dubbio il 7 luglio 2022.
«L’era Renoldi alla direzione dell’amministrazione penitenziaria è cominciata con un permesso senza precedenti dal tempo delle stragi mafiose!», è l’incipit dell’articolo de Il Fatto quotidiano che contesta al neocapo del Dap di aver “bucato” il 41 bis concedendo alla delegazione radicale di “Nessuno Tocchi Caino” una visita presso le sezioni del carcere duro. Peccato però che siamo all’ennesima fake news visto che già nel 2019, gli esponenti del Partito Radicale, Rita Bernardini in primis, hanno già potuto visitare i detenuti in regime del 41 bis. Non solo. Basti pensare che nel 2017, una delegazione delle Camere penali ha potuto visitare la sezione del 41 bis a Rebibbia. Quindi altro che visita “senza precedenti”. Così come, altro tema posto dall’articolo, non è un caso inusuale che alcuni ergastolani si tesserano con i radicali. Lo fanno pubblicamente fin dagli anni 80. Ma ora, dopo l’articolo de Il Fatto, il gruppo parlamentare del M5s chiede spiegazioni anche su questo fatto quando non solo, com’è detto, è roba stranota da quarant’anni, ma rientra nello statuto del Partito Radicale e dell’associazione Nessuno Tocchi Caino: l’iscrizione è aperta a tutti, nessuno escluso. Soprattutto per i Caini.
È Partita una campagna stampa contro il nuovo capo del Dap?
Quindi nessun precedente per quanto riguarda la visita alle sezioni del 41 bis, ma molto probabilmente è un proseguo di una campagna stampa contro il nuovo capo del Dap, Carlo Renoldi, “reo” di aver criticato nel passato alcune misure afflittive del 41 bis. Attenzione. Non ha mai messo in discussione il regime differenziato e mai ha parlato di “ammorbidimento”. Da consigliere della Cassazione ha contribuito a emanare provvedimenti che vietano tutte quelle misure afflittive del 41 bis che sono un surplus rispetto al suo scopo originario. Non sono azioni, appunto, che ammorbidiscono il cosiddetto carcere duro, come continuano ad affermare i prevedibili detrattori specialisti nell’informazione distorta. In realtà si tratta del pieno rispetto della ratio di questa misura differenziata che sulla carta dovrebbe avere un solo unico scopo: vietare ai boss mafiosi di veicolare all’esterno ordini al proprio gruppo di appartenenza criminale. Nient’altro.
Bernardini: «Il Fatto poteva ascoltare le nostre videoregistrazioni»
Ma ritorniamo allo “scandalo” radicale. A rispondere è una delle dirette interessate, ovvero Rita Bernardini che ha effettuato le visite nelle carceri sarde – dove ci sono anche le sezioni del 41 bis – autorizzate dal Dap. Innanzitutto, l’articolo non rivela nulla di inedito. «Il Fatto Quotidiano – spiega Bernardini tramite un post pubblico su Facebook – spia dal buco della serratura quel che faccio e facciamo alla luce del sole. Bastava ascoltare le nostre videoregistrazioni pubbliche per sapere che eravamo stati autorizzati (due mesi fa!) a visitare 5 carceri sarde anche nelle sezioni del 41 bis». L’esponente del Partito Radicale sottolinea: «Fra l’altro, non è vero che è la prima volta che ciò accade per i non parlamentari; visitammo infatti il 41 bis di Viterbo il 22 aprile 2019».
Sulle ultime visite inviato un report al capo del Dap Renoldi
Sulle visite in Sardegna dal 6 al 12 maggio di quest’anno, Rita Bernardini ha inviato un report di 11 pagine al Capo del Dap Carlo Renoldi: «Immagino che le talpe al Dap per conto del giornale di Travaglio l’abbiano avuta per mano ma – vedi un po’ – non si sono accorte che in quel resoconto denunciavamo che in Sardegna c’è una carenza molto allarmante di Direttori (solo tre per dieci istituti penitenziari), di comandanti della polizia penitenziaria (a scavalco in diversi istituti), di educatori». Rita Bernardini sottolinea che in quella relazione sono dettagliate le condizioni di vita di tutti i detenuti, una vita in carcere dove le attività (lavoro, scuola, sport, cultura) sono ridotte al lumicino e le giornate trascorrono in un disperato ozio. «Per non parlare del diritto alla salute negato in molti casi, compresi quelli psichiatrici che sono centinaia», aggiunge. Non solo.
Rita Bernardini rivela che, come “Nessuno Tocchi Caino”, quando hanno successivamente incontrato il capo del Dap Renoldi, egli ha fatto presente che non avrebbero dovuto “parlare” con i detenuti al 41bis, ma solo visitare le celle. «Personalmente – spiega l’esponente radicale – gli ho fatto presente che “verificare le condizioni di detenzione” (questo è infatti lo scopo delle delegazioni autorizzate ai sensi dell’art. 117 del regolamento di attuazione dell’OP) è impossibile senza ascoltare chi è detenuto». In effetti, ricorda che proprio nella visita di pasquetta del 2019 a Viterbo, un detenuto in carrozzella passava quel tempo di isolamento totale disegnando e le disse (poteva parlare) che non lo autorizzavano ad avere più di 10 colori. «Chiesi poi all’agente di sezione quale fosse il motivo di “sicurezza” legato a questa limitazione. La risposta fu che non c’era e che il detenuto avrebbe potuto avere i colori», chiosa Rita Bernardini.
Che abbiano parlato anche con Leoluca Bagarella (cognato di Totò Riina e stragista corleonese), è un dato di fatto. Ma era per verificare le condizioni di detenzione, ovviamente riportate dettagliatamente e in maniera riservata al Dap. “Nessuno Tocchi Caino”, d’altronde, lo fa da sempre. In perenne contatto con gli ergastolani e verificare le condizioni disumane e degradanti. Lo scandalo, casomai, è quello di chi strumentalizza sulla mafia corleonese completamente annientata 30 anni fa, per evitare qualsiasi miglioramento delle misure afflittive nate con l’emergenza e rese ordinarie nonostante la fine decennale di quell’epoca, appunto, emergenziale. Una mafia, che con la cattura di Riina, è poi “cambiata” scegliendo il metodo della “sommersione”. Ovvero proseguire con gli affari illeciti, senza far rumore.
La “scoperta” dei 5Stelle: anche i boss si iscrivono a “Nessuno Tocchi Caino”…
Il Movimento 5Stelle, pensando che sia un fatto inedito quello “rivelato” da Il Fatto, dice che chiederà al capo del Dap se risponde al vero che “Nessuno Tocchi Caino” abbia chiesto ai mafiosi di iscriversi. Non si comprende cosa ci sia di oscuro o inedito. I grillini possono leggere lo statuto dell’associazione che ha gli stessi principi di quello del Partito Radicale. Rita Bernardini spiega a Il Dubbio che il partito fondato da Pannella ha proprio questo come obiettivo: ricondurre soprattutto i criminali organizzati alla non violenza. Non è un mistero che ci sono iscritti che appartenevano a gruppi terroristi di destra e di sinistra. Così come non è un mistero che si iscrivono anche alcuni boss.
Marco Pannella fece già “scandalo” quando si recò al carcere di Palermo per dare la tessera del Partito Radicale a Michele Greco, il “ papa della mafia”. Bernardini ricorda a Il Dubbio il caso Giuseppe Piromalli che fece scandalo nel 1987. Parliamo dello spietato boss della ‘ndrangheta che da ergastolano si tesserò con i Radicali, ed era il periodo della campagna per il tesseramento finalizzato alla salvezza del Partito Radicale. Ecco cosa disse Marco Pannella in tal occasione: «Penso piuttosto che proprio Piromalli, non quello “trionfante” libero e potente, ma quello sconfitto e ormai inerme abbia voluto essere “anche” radicale, “anche” nonviolento, lasciare magari ai suoi nipoti, a chi comunque crede, ha creduto in lui, questo segnale. Sta di fatto che egli ha voluto concorrere a “salvare” il Partito Radicale. Se avesse avuto ancora da conquistare, contrattare, salvare “potere”, allora avrebbe avuto contatti con tutti, tranne che con noi. E dico proprio “tutti”».
L'audizione del campo dell'amministrazione penitenziaria. Il capo del Dap Renoldi contro la furia dei grillini: difende i diritti e la Bernardini. Angela Stella su Il Riformista il 15 Luglio 2022
“Nessuno Tocchi Caino non è una associazione sospetta, anzi rende più umana la condizione carceraria. La presenza, in particolare di Rita Bernardini, migliora e non peggiora la vivibilità carceraria”: potremmo prendere in prestito questa frase dell’onorevole dem Walter Verini detta ieri in Commissione giustizia per domandarci come sia possibile che tre forze politiche – M5S, Lega, Fdi– da giorni stiano mettendo in dubbio l’integrità dell’associazione radicale per screditare contemporaneamente il capo del Dap Carlo Renoldi che ha autorizzato “personalmente”, come riferito ieri in audizione, le visite nei reparti di 41bis di due carceri sarde.
Sta di fatto che ieri Renoldi, ascoltato sia nella commissione Giustizia del Senato che in quella della Camera, ha fornito tutte le spiegazioni, rispedendo ai mittenti sospettosi e talvolta aggressivi o indisponenti nell’eloquio, come Sarti e Ferraresi del M5S, tutti i dubbi sul suo operato e su quello dei radicali. Lo ha fatto “sul piano fattuale e normativo”. Intanto ha chiarito che le visite, anche da parte di soggetti non istituzionali, “già dal 2013, secondo la circolare del Presidente Tamburino, pacificamente possono essere effettuate nei reparti del 41bis e altrettanto pacificamente possono non constare unicamente in una sorta di ispezione dei luoghi ma anche in brevi interlocuzioni con i ristretti sulle loro condizioni detentive. Questo genere di attività sono state autorizzate negli anni: le occasioni in cui associazioni esterne o soggetti non istituzionali sono entrati al 41bis e hanno avuto modo di interloquire con i detenuti sono circa una decina.
Il Partito radicale è entrato nel reparto di 41bis di Tolmezzo nel 2014 e nel 2017, a Parma nel 2015, a Cuneo nel 2015, a L’Aquila nel 2016, a Novara nel 2016, a Viterbo nel 2019, a Rebibbia Nuovo Complesso è entrata una rappresentanza delle Camere Penali, precisamente la Commissione carcere”. Quindi, ha sottolineato Renoldi “anche l’affermazione ricorrente in queste settimane secondo cui non era mai successo che associazioni e organizzazioni non istituzionali fossero entrate è smentita dai fatti”. In merito alle visite che hanno scatenato la bufera politica e mediatica: “Si è considerato che si tratta di associazioni che da sempre sono impegnate sul versante della tutela dei diritti dei detenuti e della verifica delle condizioni detentive. La presidente Rita Bernardini è stata elogiata nel 2015 dal Presidente Napolitano con una lettera quale esempio di persona che si impegna su quel versante”. Renoldi ha poi sottolineato, ma non poteva essere diversamente, che “ da parte della sua amministrazione non c’è nessun allentamento né arretramento del regime del 41bis che resta un presidio essenziale nel contrasto alla criminalità organizzata.
La Ministra Cartabia ha firmato ben 520 decreti tra proroghe e applicazioni del 41bis nell’arco di poco più di un anno”. Sia al Senato che alla Camera è stato chiesto a Renoldi di riferire i contenuti delle interlocuzioni e se è vero che c’erano anche due avvocati del posto durante le visite. Ipotesi fortemente stigmatizzata dalla Sarti perché sarebbero gli stessi avvocati che hanno gli assistiti al 41bis. Renoldi ha spiegato che “le visite, come riferito dal reparto d’élite del Gom, sono state effettuate in assenza di qualsivoglia anomalia. Da quanto emerge dalla loro relazione al 41bis non è stato trattato il tema dell’ergastolo ostativo né sono state chieste le iscrizioni a Nessuno Tocchi Caino. So che dell’ergastolo ostativo si è parlato in occasione di un successivo momento relativo all’incontro che la delegazione ha avuto con i detenuti dell’alta sicurezza, quindi non con i 41bis. E sempre in quella occasione, da quanto ho letto nei rapporti, c’è stato l’invito ad iscriversi a Nessuno Tocchi Caino, ma non a quelli del 41bis”. I temi affrontati con i reclusi al regime di carcere duro sono stati “le condizioni di salute dei detenuti e le condizioni relative al vitto somministrato”.
Ha confermato la presenza degli avvocati, ricordando però a chi lo avesse dimenticato che l’avvocato può tenere colloqui segreti quando vuole, non ha bisogno di questo tipo di visite per parlare con i propri clienti. Tanto è vero che sempre dalla relazione del Gom è emerso che hanno fatto domande solo sulle condizioni di vita nel carcere, chiedendo ad esempio se vedessero gli educatori. Tutto questo non è bastato perché le solite tre forze politiche hanno chiesto di poter visionare la relazione del Gom nel prosieguo dell’audizione che si terrà nelle prossime settimane. A questo punto ci si deve chiedere: chi sono quelle talpe che hanno passato false informazioni ai giornali? Qual era lo scopo di creare questo caos? O si tratta di persone impreparate sul piano normativo o di persone che pur conoscendo le regole hanno strumentalizzato i radicali per colpire Renoldi e indirettamente la Cartabia. Ma da quanto ascoltato ieri hanno fallito, perché Renoldi ha chiarito tutto senza alcuna difficoltà. Angela Stella
Renoldi smonta le accuse sul 41 bis: «Visite dei radicali legittime, chi più di loro?» La replica del capo del Dap nelle audizioni alle Camere: «Il Regolamento autorizza anche soggetti non istituzionali». Dieci precedenti, uno con Tartaglia. Valentina Stella su Il Dubbio il 15 luglio 2022.
Il capo del Dap Carlo Renoldi ha superato a pienissimi voti il suo primo esame, non facile, dinanzi alle commissioni Giustizia di Senato e Camera. Chiamato ad illustrare le iniziative intraprese e da intraprendere dalla sua amministrazione per migliorare le condizioni di lavoro e vivibilità all’interno del carcere, il vero banco di prova è stato però quello relativo alle visite concesse da lui “personalmente” all’associazione Nessuno tocchi Caino nei reparti 41 bis di due istituti di pena sardi.
Per giorni è stato sotto il fuoco incrociato di Lega, Movimento 5 Stelle, Fratelli d’Italia, e prima ancora del “Fatto quotidiano”, ma ieri Renoldi ha chiarito tutto, con garbo ovviamente ma anche con fermezza. Dinanzi all’insistenza di alcune domande, soprattutto di Varchi (FdI) e Grillo (M5S) a cui non sono evidentemente bastate le sue spiegazioni nella relazione iniziale, che hanno tentato anche di smentire i contenuti della risposta, il capo del Dap ha replicato: «Vi sto fornendo una base fattuale e una normativa rispetto a quanto accaduto. Non sprecherei altre energie su questo».
Le regole rispettate
Ma quali sono queste basi a cui fa riferimento Renoldi? In merito alle visite, «sono mirate secondo l’articolo 117 del regolamento di esecuzione a una sorta di attività para-ispettiva volta a verificare quelle che sono le condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari. Queste verifiche possono essere effettuate sia da figure istituzionali sia da parte di soggetti che non rivestono posizioni istituzionali. Verifiche che già dal 2013, secondo la circolare del presidente Tamburino, pacificamente possono essere effettuate nei reparti del 41 bis, e altrettanto pacificamente possono non constare unicamente in una sorta di ispezione dei luoghi ma anche in brevi interlocuzioni con i ristretti sulle loro condizioni detentive».
Ha così spiegato che i radicali potevano entrare nei reparti di 41 bis e anche parlare con i detenuti. Ha proseguito poi: «Che questa interlocuzione possa esservi emerge chiaramente dal testo della norma. E questo genere di attività sono state autorizzate negli anni: le occasioni in cui associazioni esterne o soggetti non istituzionali sono entrati al 41 bis e hanno avuto modo di interloquire con i detenuti sono molto più numerose di quelle che pure sono state riferite nel question time dal sottosegretario Sisto. Il Partito radicale è entrato nel reparto 41 bis di Tolmezzo nel 2014 e nel 2017, a Parma nel 2015, a Cuneo nel 2015, a L’Aquila nel 2016, a Novara nel 2016, a Viterbo nel 2019. A Rebibbia-Nuovo complesso è entrata una rappresentanza delle Camere penali, precisamente la Commissione carcere». Quindi, ha sottolineato Renoldi, «anche l’affermazione ricorrente in queste settimane secondo cui non era mai successo che associazioni e organizzazioni non istituzionali fossero state autorizzate è smentita dai fatti».
Un tono fermo, chiaro, puntuale, che non lascia spazio a controdeduzioni: «Io qui conto circa dieci ingressi che vi sono stati dal 2014 al 2019, ne abbiamo avuti anche di rappresentanze straniere, che formalmente non rientrano nell’articolo 67 dell’Ordinamento penitenziario: si tratta di due rappresentanze olandesi, i provvedimenti sono a firma di Petralia e Tartaglia, autorizzate all’ingresso e alla interlocuzione nei reparti di 41 bis di Roma Rebibbia. Pertanto le associazioni entrano, ovviamente non in maniera indiscriminata ma con la nostra massima attenzione». Osservazioni tutt’altro che irrilevanti che smontano del tutto gli attacchi dei giorni scorsi.
«Chi più dei Radicali?»
Venendo alle circostanze che hanno infiammato le polemiche, Renoldi ha poi raccontato: «In occasione degli ingressi nel maggio scorso di Nessuno tocchi Caino e Partito radicale vi è stato un apprezzamento di merito: si è considerato che si tratta di associazioni da sempre impegnate sul versante della tutela dei diritti dei detenuti e della verifica delle condizioni detentive. La presidente Rita Bernardini è stata elogiata nel 2015 dal presidente Napolitano con una lettera quale esempio di persona che si impegna su quel versante. Abbiamo fatto una valutazione specificamente mirata a quel particolare contesto detentivo: la casa circondariale di Sassari dove venivano segnalate gravi criticità sul piano sanitario che, peraltro, l’interlocuzione con gli operatori e con i detenuti ha confermato. La presidente Bernardini mi ha immediatamente fatto pervenire un report con ciò che aveva riscontrato in occasione della visita a riprova poi che la visita stessa si è mossa in un circuito istituzionale».
«Altre volte abbiamo detto no»
Che da parte della nostra amministrazione ci sia una attenzione ferma e non ci sia alcun arretramento sul 41 bis», ha spiegato ancora il capo del Dap, «è dimostrato dal fatto che, un paio di settimane dopo, l’associazione Radicali italiani ha chiesto di entrare a Roma Rebibbia nel circuito del 41 bis accompagnata da una delegazione libanese. In quella occasione abbiamo detto no perché vi era, al 41 bis, un detenuto libanese, e abbiamo ritenuto che esigenze di sicurezza imponessero un atteggiamento di cautela».Renoldi ha dovuto poi ovviamente tranquillizzare gli interlocutori: «In conclusione, nessun allentamento né arretramento del 41bis, che resta un presidio essenziale nel contrasto alla criminalità organizzata. La ministra Cartabia ha firmato ben 520 decreti tra proroghe e applicazioni del 41 bis nell’arco di poco più di un anno».Sia al Senato (da Ostellari) che alla Camera (da Grillo e Varchi) è stato chiesto a Renoldi di riferire i contenuti dei colloqui, e se è vero che c’erano anche due avvocati del posto durante le visite. Risposta: «Le visite, come riferito dal reparto d’elite del Gom, sono state effettuate in assenza di qualsivoglia anomalia, non è stato trattato il tema dell’ergastolo ostativo né sono state chieste iscrizioni a Nessuno tocchi Caino. So che dell’ostativo si è parlato in un successivo momento relativo all’incontro che la delegazione ha avuto coi detenuti dell’alta sicurezza, ma non con i 41 bis. E sempre in quella occasione, da quanto ho letto nei rapporti, c’è stato l’invito a iscriversi a Nessuno tocchi Caino, ma non al 41bis». Dove invece i temi affrontati sono stati due: «Le condizioni di salute dei detenuti e il vitto». Il minimo dei diritti da garantire a qualunque essere umano detenuto.
I Radicali: «Punto di tenuta delle istituzioni»
Oltre alle repliche dei parlamentari, non si è fatto attendere il commento di Nessuno tocchi Caino, e in particolare dei dirigenti coinvolti nelle visite: la presidente Rita Bernardini, il segretario Sergio D’Elia e la tesoriera Elisabetta Zamparutti: «L’audizione del capo del Dap Carlo Renoldi rappresenta un punto di tenuta delle istituzioni democratiche in un momento particolarmente difficile del nostro Paese», hanno dichiarato. «È stata ribadita la correttezza dell’operato di Nessuno tocchi Caino e sono state respinte le illazioni del Fatto quotidiano e dei parlamentari che gli hanno fatto eco. Se un ruolo Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem può rivendicare di svolgere nelle carceri, è quello di aver gettato un fascio di luce sulla misconosciuta realtà penitenziaria, vigilando sul rispetto dei diritti umani fondamentali come sanciti dalla nostra Costituzione e dalla Convenzione europea. Alle istituzioni abbiamo offerto e continuiamo a offrire la collaborazione volta alla riduzione del danno che una carcerazione, in violazione dei diritti umani, arreca tanto ai detenuti quanto agli operatori penitenziari. Con i detenuti abbiamo praticato e diffuso il metodo della nonviolenza e dato corpo alla speranza».
È l’inviolabile diritto alla salute che protegge Renoldi dagli attacchi per le visite al 41 bis. Sulle visite accordate a Nessuno tocchi Caino è decisivo un aspetto, come ricordato, in audizione, sia dal capo del Dap che dal sottosegretario Sisto: l’obiettivo era verificare le condizioni sanitarie dei ristretti al “carcere duro”. Una priorità rispetto a qualsiasi altra preoccupazione. Alessandro Parrotta, Avvocato, direttore Ispeg – Istituto per gli studi politici, economici e giuridici, su Il Dubbio il 22 luglio 2022.
Ha destato scalpore e dure critiche dal mondo politico il provvedimento con il quale il capo del Dap, Carlo Renoldi, magistrato giudicante della prima sezione penale della Cassazione, ha autorizzato nelle giornate del 7 e 10 maggio scorsi l’associazione per la tutela dei diritti e delle condizioni di vita dei detenuti “Nessuno tocchi Caino” a visitare due istituti di pena sardi, il carcere di Sassari e quello di Nuoro, ivi incluse le sezioni dedicate ai condannati in regime di 41 bis. Vicenda che ha profondamente scosso e indignato alcuni esponenti di spicco della politica del Paese, i familiari delle vittime di attacchi ad opera di organizzazioni mafiose nonché alcune voci della magistratura antimafia che sempre si sono dichiarate contrarie ad un alleggerimento del cosiddetto carcere duro.
A onor del vero la vicenda, sulla quale nelle ultime ore è tornata l’Unione Camere penali con un’affilata nota stampa, costituisce solo il pretesto utilizzato da alcuni esponenti della politica e della magistratura per minare la credibilità della figura di Renoldi, nominato solo nel marzo scorso al vertice del Dap, e – suo tramite – di quella della ministra Marta Cartabia.
Il capo dell’amministrazione penitenziaria infatti, attaccano i suoi detrattori, avrebbe espresso più volte, mediante esternazioni pubbliche, un approccio (riformatore) e una sensibilità (evidentemente non condivisa) in materia di 41 bis ed ergastolo ostativo del tutto inconciliabili con lo spirito originario che ha portato all’introduzione del “carcere duro”, calpestando così l’eredità lasciataci da Falcone e Borsellino. Queste, tra le altre, le ragioni che hanno portato alcuni dei più importanti e stimati magistrati del Csm ad astenersi o a votare contro la sua collocazione fuori ruolo in vista della nomina.
Da qui le polemiche sulla decisione di concedere l’autorizzazione all’associazione “Nessuno tocchi Caino” di accedere negli spazi del carcere duro degli istituti penitenziari sardi nei quali sono attualmente ristretti alcuni dei più rilevanti esponenti delle organizzazioni criminali di stampo mafioso del Paese. Decisione che è stata percepita come l’ennesima dimostrazione del tentativo, da parte del neo capo del Dap, di “smantellare” il regime del 41 bis.
Nello specifico, si sarebbe trattato – come è stato detto – di un permesso “libero”, dal momento che, oltre a non prevedere più l’esclusione delle visite alle sezioni del 41 bis, nulla statuiva in merito alle modalità delle visite, consentendo, ad esempio, di avere colloqui con i detenuti sottoposti a tale regime. In realtà, forse eccessivamente mediatizzata e amplificata la notizia, come spesso accade quando ad essere in discussione sono tematiche che per il nostro Paese costituiscono una ferita ancora aperta, Renoldi, in assenza in quel momento del suo vice, non ha fatto altro se non esercitare le funzioni che la legge gli prescriveva e autorizzava a compiere.
Immediatamente, richiesta e acclamata un’audizione in Parlamento della ministra Cartabia e del capo del Dap affinché “riferissero sul caso”. Nel frattempo, il 12 luglio scorso, prima ancora che lo facesse Renoldi, è intervenuto come rappresentante del governo, in un question time davanti alla commissione Giustizia della Camera, il sottosegretario Francesco Paolo Sisto, e ha risposto ad alcuni interrogativi avanzati da più rappresentanti di diverse forze politiche.
E il sottosegretario ha lucidamente osservato che:
1) l’atto ispettivo cui era autorizzata l’associazione ha assunto le forme della visita (e non del colloquio), finalizzata come tale alla ricognizione delle condizioni di vita dei soggetti detenuti;
2) le visite, in ossequio alle norme di esecuzione sull’ordinamento penitenziario, possono essere concesse anche a figure diverse dai parlamentari o da altri soggetti istituzionali, purché autorizzate dal Dap, senza peraltro preclusioni in ordine ai reparti visitabili, nemmeno per quelli destinati ai detenuti in isolamento giudiziario (i quali si trovano in una condizione ancor più limitativa di quella discendente dal regime di cui all’articolo 41 bis);
3) le visite consegnavano esiti non certo “edificanti” con riferimento al (cattivo) funzionamento dell’Area sanitaria degli istituti di pena.
Sterili e infondate le “accuse” mosse al nuovo capo dell’Amministrazione penitenziaria di voler smantellare, passo dopo passo, il regime di carcere duro. Come precisato dallo stesso sottosegretario Sisto, “in alcun modo le autorizzazioni concesse in passato e da ultimo possono interpretarsi come un cambio di regolamentazione nel ricorso al cosiddetto carcere duro”.
È l’appartenenza ad uno Stato di diritto, e non a uno di polizia, che impone culturalmente, prima che giuridicamente, di rinunciare a facili derive giustizialiste in favore di una costante osservanza e opera di affermazione dei principi costituzionali fondamentali dell’ordinamento (a cominciare dal diritto alla salute) stabiliti, senza distinzione alcuna di status detentionis, in favore di ciascun individuo.
Un garantista al Dap. Il capo del Dap non è un Pm: grillini e leghisti ingoiano il rospo, panico al Fatto Quotidiano. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Marzo 2022.
Sarà perché ci sono ben altre urgenze -le stragi in Ucraina, l’energia e il caro-bollette, l’uscita dall’emergenza pandemia- fatto sta che anche i partiti di governo più recalcitranti, Lega e Movimento cinque stelle, hanno dovuto deglutire la nomina da parte del Consiglio dei ministri unanime del giudice Carlo Renoldi a capo del Dap. Non se ne pentiranno, crediamo, quando anche i più zucconi capiranno che cosa è il mondo del carcere, un’istituzione totale di oltre cinquantamila persone, di cui la metà non ancora processate, private della libertà per le ragioni più disparate, con un eccesso di ricorso alla norma penale che riempie le prigioni invece di svuotarle e di affrontare i problemi di devianza sociale per quel che sono, cioè spesso dei non-reati.
Abbiamo sempre ritenuto inopportuno il fatto che il ruolo di capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria fosse un pubblico ministero, e in particolare uno dei cosiddetti pm “antimafia”, proprio per questo motivo. Perché hanno la tendenza prima di tutto a privilegiare l’esigenza della sicurezza rispetto a quella della funzione di reinserimento del detenuto nella società. E poi, specie per quei magistrati che provengono dall’aver ricoperto il ruolo di pubblici accusatori nei maxiprocessi di mafia, per la tentazione di vedere i detenuti solo come assassini pericolosi. Può sembrare un paradosso, ma il sapere che cosa pensi il dottor Renoldi dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario o dell’ergastolo ostativo è del tutto secondario, interessa solo agli ossessionati del Fatto quotidiano e a quelli dell’antimafia militante. Il mondo della giustizia, e anche del carcere, ha ben altri e gravi problemi. O vogliamo tornare ai tempi in cui ogni domenica sera da Giletti si sparava contro il capo del Dap Francesco Basentini, che veniva messo in croce per una circolare in cui, in piena pandemia, si chiedeva alle direzioni carcerarie di segnalare i nominativi di anziani e malati in modo da snellire il sovraffollamento ed evitare maggiori contagi? E quando lo stesso ministro Bonafede veniva preso d’assalto perché al posto di Basentini non aveva nominato un pm “antimafia” doc come Nino Di Matteo.
Carlo Renoldi non fa parte di quei giri lì. Durante un convegno li aveva anche criticati come coloro che stanno ancorati alle immaginette di Falcone e Borsellino in modo ideologico. Naturalmente, poiché chiunque può essere impiccato per una frase isolata dal contesto o volutamente fraintesa, la stupidità militante era partita lancia in resta contro il giudice e la sua nomina, voluta dalla ministra Cartabia. Ma pochi avevano fatto, nei giorni in cui era trapelata la notizia della sua probabile nomina al Dap, lo sforzo di informarsi bene, di capire chi è, che cosa ha fatto (e non solo quel che ha detto in qualche convegno) nella sua vita di magistrato, Carlo Renoldi. Forse i suoi dieci anni trascorsi nel ruolo di giudice di sorveglianza a Cagliari, invece di essere un titolo di merito per la competenza, spaventano. Così come il fatto che abbia sollevato alcune questioni di costituzionalità su norme penitenziarie che la Corte ha accolto o abbia fatto parte di una commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario, forse induce qualche sospetto. Soprattutto da parte di quel mondo, per fortuna non più così numeroso, per cui il vero magistrato, quello che conta, è solo colui che ha quanto meno fatto il pm nel fallimentare “processo trattativa”.
Gli cede il posto Dino Petralia, che si è dimesso dalla magistratura, prima che da capo del Dap, con qualche mese di anticipo dalla scadenza dei 70 anni, età della pensione per i magistrati. Se ne va dopo un commiato negli uffici della ministra Cartabia cui hanno partecipato, come lui stesso racconta, i vertici della magistratura e del Csm. Costretto a precisare di non esser stato cacciato per far posto al giudice Renoldi. Come se non fosse stata la stessa Guardasigilli, al momento del suo ingresso nel governo, a confermare sia Dino Petralia che Roberto Tartaglia come suo vice al vertice del Dap. Ma i tartufoni del Fatto quotidiano preferiscono l’immagine di una ministra amica dei mafiosi che caccia un ex pm “antimafia” per far posto a uno che, proprio come lei, preferirebbe secondo loro usare la mano morbida con i boss. Come se non esistesse la Costituzione a imporre un certo trattamento nei confronti dei detenuti. Come se non esistesse la presunzione d’innocenza, ribadita dal Parlamento con voto unanime. Agli auguri di buon lavoro al nuovo capo del Dap con parole incoraggianti da parte del Garante dei detenuti e dell’associazione Antigone e a quelli del deputato del Pd Walter Verini (che sente la necessità di ricordare l’esigenza di sicurezza nelle carceri, quasi timoroso di esser additato per intelligenza con il nemico), non possiamo che aggiungere i nostri. Per l’uguaglianza dei diritti. Di tutti.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Renoldi è il nuovo capo del Dap: anche i ministri 5S si piegano a Cartabia. VIA LIBERA UNANIME DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI ALLA NOMINA DEL GIUDICE PROPOSTO DALLA GUARDASIGILLI PER LE CARCERI. Hanno detto sì, dunque, anche le delegazioni governative di pentastellati e Lega. Nonostante il muro alzato nei giorni scorsi contro il magistrato “colpevole” di avere a cuore la dignità dei detenuti. Errico Novi su Il Dubbio il 18 marzo 2022.
Secondo Giulia Sarti, irriducibile dell’intransigenza 5 Stelle, Carlo Renoldi sarà pure «un magistrato di grande capacità e professionalità», ma la sua nomina resta «non perfettamente in linea con le peculiari esigenze del Dap». Eppure stasera il no pentastellato, ma anche leghista e meloniano, ha dovuto piegarsi alla volontà di Marta Cartabia: intorno alle 18.30, infatti, durante un Consiglio dei ministri in cui si è discusso anche di molto altro, il governo ha deliberato all’unanimità la nomina del giudice individuato dalla ministra della Giustizia quale nuovo capo dell’amministrazione penitenziaria.
All’unanimità. Dunque anche con l’assenso dei ministri in quota Movimento 5 Stelle e in quota Lega. I fan della “antimafia dura e pura” si sono dovuti arrendere alla determinazione della guaerdasigilli, che sulla materia forse a lei più cara, la dignità nelle carceri, non ha accettato veti.
Dopo le polemiche sollevate non solo da alcuni partiti di maggioranza e da Fratelli d’Italia, ma anche da alcuni magistrati, a cominciare dal consigliere Csm Nino Di Matteo, si compie un passaggio destinato a segnare l’intera esperienza di Cartabia a via Arenula.
Su Renoldi, Cartabia aveva avvertito: non darò retta a Travaglio
Solo tre giorni fa, nel corso di un’audizione al Senato, la ministra aveva fatto intendere che stavolta la sua diplomazia avrebbe lasciato posto alla fermezza: «Non mi affido alle opinioni espresse da un giornale, vediamolo lavorare, poi ne riparleremo», aveva detto a proposito delle bordate esplose contro Renoldi sul Fatto quotidiano. Il giornale diretto da Marco Travaglio era stato il primo a far emergere le posizioni critiche del consigliere di Cassazione, ed ex giudice di Sorveglianza a Cagliari, sul regime del 41 bis.
Ma Cartabia era stata di una durezza inconsueta, martedì scorso: «Vediamo se Renoldi è una persona che corrisponde all’immagine dipinta in alcune visioni mediatiche o se ha le qualità per cui io mi sono sentita di proporlo». Praticamente l’annuncio di quanto è avvenuto poco fa in Consiglio dei ministri: via libera unanime su richiesta della guardasigilli.
Anche se Sarti, ex presidente e tuttora deputata della commissione Giustizia, insiste nel dire: «Restiamo perplessi e preoccupati di fronte alla nomina». Continueranno a cannoneggiare. Ma stavolta, sul carcere, ci si batte in campo aperto. Non più soltanto con il vigliacco sadismo consumato a tavolino sulla pelle dei detenuti.
Dap, inizia l’era Renoldi: finalmente un garantista. Redazione su Il Riformista il 18 Marzo 2022.
Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera alla nomina di Carlo Renoldi a capo del Dap. Lo hanno riferito fonti del ministero della Giustizia. Giornata nera per Travaglio e il M5s, che avevano osteggiato la nomina del magistrato, ritenuto troppo fedele al dettato alla Costituzione, ovvero troppo poco forcaiolo. «Restiamo perplessi, potrebbe risultare non perfettamente in linea con le peculiari esigenze del Dap», è non a caso il benvenuto che riserva a Renoldi Giulia Sarti, deputata grillina e membro della commissione Giustizia.
Di ben altro avviso Stefano Anastasia, Portavoce dei Garanti territoriali, nonché Garante dei detenuti della Regione Lazio. «Carlo Renoldi è un magistrato di grande valore e competenza professionale. Ben prima della duplice condanna europea per il sovraffollamento in carcere nelle sue funzioni di giudice di sorveglianza – chiosa Anastasia – aveva prestato attenzione alla dignità e ai diritti dei detenuti. Eguale e critica attenzione ha prestato alla legislazione sulle droghe che riempie le nostre carceri di quella che Sandro Margara chiamava la “detenzione sociale”, quella cioè che non dovrebbe stare in carcere, se non avessimo una legge criminogena e se funzionasse adeguatamente il sistema dei servizi socio-sanitari. Tutto ciò ci rende fiduciosi nell’incarico che la ministra Cartabia e il Cdm hanno voluto affidargli».
(ANSA il 9 marzo 2022) - Un voto contrario e tre astensioni. Il Csm ha dato così il via libera a maggioranza al collocamento fuori ruolo di Carlo Renoldi, chiesto dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, per consentirgli di assumere l'incarico di capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria.
Contro ha votato il laico della Lega Stefano Cavanna, ritenendo Renoldi una figura "divisiva", mentre si sono astenuti il laico del M5S Fulvio Gigliotti e i togati Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita.
La nomina di Renoldi deve passare dal Consiglio dei ministri, ma ha già suscitato polemiche all'interno della maggioranza per le posizioni assunte dal magistrato sul carcere duro per i mafiosi e sull'ergastolo ostativo. Al punto da spingerlo a inviare nei giorni scorsi una lettera di chiarimento alla ministra Cartabia.
(AGI il 9 marzo 2022) - "Sono perfettamente consapevole che, in applicazione della normativa primaria e secondaria attualmente vigente, non sussistono formali motivi ostativi all'autorizzazione in questione. Oggi sicuramente questo plenum autorizzerà il collocamento fuori ruolo del dottor RENOLDI per assumere l'incarico di Capo del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, ma ciò non si realizzerà anche con il mio voto".
Lo ha detto in plenum il togato indipendente Nino Di Matteo, spiegando le ragioni della sua astensione. "Le forti perplessità che impediscono alla mia coscienza di votare a favore del collocamento fuori ruolo del dottor RENOLDI per assumere un incarico così importante e delicato derivano da talune sue esternazioni pubbliche", afferma Di Matteo, ricordando in particolare, che RENOLDI "ha utilizzato toni e parole sprezzanti nei confronti di coloro i quali, altrettanto legittimamente, avevano assunto posizioni diverse dalle sue, arrivando a delegittimare gravemente perfino il Dipartimento che ora è chiamato a dirigere e quindi i suoi appartenenti".
Il togato ricorda poi le parole di RENOLDI in occasione della commemorazione, nel 2020, di Margara, in passato capo del Dap e rileva che "nel precisare ulteriormente che con l'espressione antimafia militante aveva inteso riferirsi ad associazioni, movimenti, testate editoriali ed anche ad ambienti e soggetti istituzionali" RENOLDI "ha definito - osserva Di Matteo - almeno alcune parti di tale 'Antimafia' come esempio di 'ottuso giustizialismo' bollando ancora la costante invocazione da più parti del rispetto del principio di certezza della pena come esplicativa di un 'vecchio retribuzionismo da talk show'".
Per questo, ha concluso il togato indipendente, "non posso in coscienza esprimere voto favorevole all'autorizzazione al collocamento al vertice del Dap di un collega che in occasioni pubbliche ha dimostrato pervicace e manifesta ostilità nei confronti di ambienti e soggetti, anche istituzionali, che avrebbero quantomeno meritato un diverso rispetto
I duri e puri si indignano. Carlo Renoldi nuovo capo del Dap, il Csm dà il via libera ma Di Matteo e Ardita si sfilano. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Marzo 2022.
Parte già con una bella corona di spine sul capo, il magistrato Carlo Renoldi, cui il plenum del Csm a larga maggioranza ha autorizzato ieri la messa fuori ruolo e la nomina a direttore del Dap. Solo un piede nell’uscio per ora, in realtà, perché l’ultimo passaggio, quello dell’approvazione del Consiglio dei ministri, potrebbe non essere solo un fatto formale. Infatti, delle tre astensioni che non hanno consentito un voto unanime, oltre a quelle previste dei togati Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, l’altra è quella dell’esponente laico in quota Cinque stelle Fulvio Gigliotti. E soprattutto l’unico voto contrario, quello di Stefano Cavanna, indossa la felpa della Lega, e forse ha dato un voto contrario più al governo che alla persona di Renoldi, che si limita a definire “figura divisiva”, la cui nomina addirittura potrebbe secondo lui danneggiare la reputazione della magistratura “oggi ai minimi storici”.
Ma anche in un ex partito leninista come la Lega non mancano le contraddizioni. Infatti ha votato a favore l’altro consigliere nominato nella stessa quota politica , Emanuele Basile, un avvocato di Lodi, ex parlamentare, che ha sempre manifestato posizioni opposte a quelle del chiudere la cella e buttare la chiave. I consiglieri Di Matteo e Ardita, il cui voto non favorevole a Carlo Renoldi era ampiamente previsto, non hanno nascosto un pensiero dominato da una storia che ha molto a che fare con la costruzione del “Processo Trattativa” e dell’antimafia militante. Percorsi che confliggono apertamente con i comportamenti, le parole e la giurisprudenza di molti giudici di sorveglianza. I quali, proprio come Carlo Renoldi, conoscono bene le carceri e hanno studiato le leggi che hanno riformato gli istituti di detenzione e introdotto il trattamento individuale di ogni prigioniero come base per quel percorso di cambiamento tanto caro alla ministra Cartabia. Questi magistrati in gran parte condividono la giurisprudenza della Corte Costituzionale degli ultimi anni e soprattutto quella della Cedu, a partire da quella “sentenza Viola” che per prima svincolò il superamento dell’ergastolo ostativo dalla necessità per il detenuto di diventare un “pentito” e confessare, più che i propri, i (presunti) reati altrui.
Il “la” a Di Matteo e Ardita pare averlo dato un antico leader di Magistratura Democratica, Giancarlo Caselli, il quale, prendendo vistosamente le distanze da un magistrato di quella che fu la sua corrente quando ancora indossava la toga, ha lanciato dal Fatto quotidiano una sorta di ordine: l’ergastolo ostativo non si tocca. Due i destinatari, il Parlamento che sembra aver già recepito l’indicazione e marcia fiducioso nella direzione opposta a quella tracciata dalla Corte Costituzionale che aveva dato un anno di tempo per la riforma, e il Csm che si è riunito ieri. Per ora, possiamo dire che si sono comportati meglio i magistrati, che hanno già battuto i politici uno a zero. Anche se quelle tre astensioni e quel voto contrario pesano, eccome. Tagliente l’accetta con cui il dottor Ardita ha colpito, qualora ci fossero ancora dubbi, la possibilità di qualunque forma di attenuazione all’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario e l’ergastolo ostativo. Impressionante però la sua visione delle carceri. Che evidentemente non conosce, e che descrive come “un edificio in fiamme”, così composto: al vertice il 41-bis, ma alla base “ingovernabilità, inciviltà e mancanza di regole”. Forse è per questo che un sincero riformatore come Carlo Renoldi non sarebbe adatto per migliorare la situazione? O si deve dedurre che a parere del consigliere Ardita, ci vorrebbe una mano forte? Non un pompiere a spegnere l’incendio e salvare vite umane, ma qualcuno che quelle celle le tenga sempre ben serrate?
La totale ignoranza di che cosa sia una prigione da parte dei magistrati (quasi tutti) è impressionante, e grave, soprattutto perché i pubblici ministeri e i giudici del settore penale sono quelli che vi mandano i cittadini, anche prima delle sentenze. Chi potrebbe mai sbattere dentro una cella anche il peggior nemico sapendo di mandarlo in luoghi ingovernabili e incivili, addirittura palazzi in fiamme? Lo stesso ex magistrato Caselli, in quell’articolo sull’ergastolo ostativo, ricordava i suoi due anni di permanenza al Dap come il periodo più difficile della sua vita in toga. Eppure era stato un prestigioso procuratore. Evidentemente non si era mai posto il problema. Come del resto il consigliere Nino Di Matteo, che ancora una volta si è dimostrato il più politico, nella seduta di ieri. Già il mancato voto contrario è un segnale di capacità di incuriosire, di farsi ascoltare. Si è posto come leader e ha fatto un discorso da leader. Con una certa astuzia ha sostenuto prima di tutto di essere consapevole del fatto che il suo collega aveva tutte le carte in regola per avere la nomina alla direzione del Dap. “Ma ciò non si realizzerà anche con il mio voto”, ha poi buttato lì. Fare pure, ma non nel mio nome. Più politico di così.
Poi è riuscito in un abile gioco di prestigio. Un po’ come quelli che usano la perifrasi negativa per lanciare contumelie: non dirò mai che il tale è un delinquente… e intanto l’hanno detto. Così Di Matteo sostiene che la sua contrarietà alla nomina di Renoldi è più un fatto formale che sostanziale. Cioè della persona non gli danno fastidio tanto i suoi pensieri, la sua visione della giustizia e del carcere, ma il modo in cui li manifesta. Così, nel frattempo, è riuscito a elencare per esempio, nel modo più demagogico possibile, la critica all’ “antimafia militante arroccata nel culto dei martiri”, sapendo che l’argomento ha molta presa, soprattutto se ricordato sui quotidiani del giorno successivo. Ma astutamente eludendo il concetto della frase completa, quella in cui Renoldi diceva che delle vittime di mafia come Falcone e Borsellino non si ricordava mai niente di quel che erano stati e avevano fatto, ma li si usava solo come immaginette. Strumentalmente. Perché “vengono ricordati esclusivamente per il sangue versato e per la necessaria esemplarità della reazione contro un nemico irriducibile”. Queste frasi, uno come Di Matteo le ha capite molto bene, e sa che sono una critica non all’antimafia in generale, ma alle modalità con cui sono stati condotti in tutti questi anni i processi in Sicilia, peraltro con esiti disastrosi proprio per quelli come lui.
Sono frasi che gli bruciano per il loro contenuto profondo, e anche per la consapevolezza di aver perso tante battaglie. Renoldi è un magistrato di sinistra un po’ vecchio stampo, come il suo maestro Margara, che era tutt’altro che arrogante. Pure è questo il concetto con cui il consigliere Di Matteo ha tentato di demolire la figura del futuro presidente del Dap, descritto come arrogante, come uno “che usa toni e parole sprezzanti nei confronti di chi non la pensa come lui”. La corona di spine è pronta. Vedremo ora se la ministra Cartabia riuscirà a togliergliela senza pungersi a sua volta.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La nomina del capo del Dap è sempre più divisiva all’interno del Csm. GIULIA MERLO su Il Domani il 09 marzo 2022
La proposta di nominare il magistrato progressista Carlo Renoldi a capo del Dap ha suscitato scontro politico e divisione anche all’interno del Csm, dove la sua collocazione fuori ruolo è passata a maggioranza ma dopo un dibattito acceso. Il ruolo a capo del Dap negli ultimi anni è diventato sempre più delicato: al centro, il problema della gestione dei detenuti, soprattutto di mafia
Il vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è una poltrona sempre più scomoda: da nomina delicata e molto ben retribuita ma interna al ministero della Giustizia, negli ultimi anni ha assunto connotati sempre più politici.
Proprio la scelta del nuovo capo del Dap, dopo il pensionamento di Dino Petralia, è diventato argomento di scontro sia dentro la magistratura che tra i partiti di maggioranza.
A suscitare polemica è stata la scelta della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, del consigliere di Cassazione ed ex magistrato di sorveglianza vicino a Magistratura democratica, Carlo Renoldi. Sotto accusa sono finite le sue posizioni a favore della modifica dell’ergastolo ostativo e la sua visione critica rispetto ad alcune posizioni dell’antimafia e non sono bastati i suoi chiarimenti scritti inviati alla ministra per calmare lo scontro.
LA DIVISIONE AL CSM
La nomina al Dap è di tipo fiduciario perchè si tratta di un incarico dirigenziale interno al ministero e la scelta del candidato spetta alla ministra della Giustizia. Tuttavia, l’indicazione deve essere ratificata dal consiglio dei ministri e, se il nuovo capo è un magistrato, il Csm deve approvare la sua collocazione fuori ruolo.
Questo passaggio normalmente è quasi un pro forma sulla base del principio di collaborazione tra amministrazioni, visto che si tratta di un incarico ministeriale. Invece, il Consiglio superiore della magistratura si è diviso su Renoldi, il cui collocamento fuori ruolo è avvenuto a maggioranza e dopo un dibattito acceso.
Al momento del voto, gli astenuti sono stati i due togati di Autonomia e Indipendenza, Nino di Matteo e Sebastiano Ardita, e il consigliere laico in quota Movimento 5 Stelle, Fulvio Gigliotti, mentre ha votato contro il laico della Lega, Stefano Cavanna.
Tecnicamente i consiglieri erano chiamati ad esprimersi sulla collocazione di Renoldi fuori ruolo e non sull’opportunità del nuovo ruolo che andrà ad assumere, invece il dibattito ha riguardato questo secondo aspetto.
A motivare il suo voto contrario è intervenuto duramente Cavanna, che ha definito legittima la richiesta di «una fuoriuscita dalla giurisdizione per un magistrato richiesto dal Governo per svolgere funzioni fuori ruolo», ma in questo caso «mi sembra doveroso fare anche una valutazione di opportunità, perchè una figura di questo tipo non può che essere divisiva». Quindi Cavanna ha spiegato il suo voto contrario dicendo di aver valutato «l’utilità per la magistratura ed i riflessi sulla sua immagine dello specifico fuori ruolo».
Non diverso è stato il ragionamento di Di Matteo, che ha spiegato la sua astensione dicendo che Renoldi «Per illustrare le sue legittime opinioni in materia di concedilità di benefici penitenziari anche ai condannati all'ergastolo cosiddetto ostativo, ha utilizzato toni e parole sprezzanti nei confronti di coloro i quali, altrettanto legittimamente, avevano assunto posizioni diverse». Un comportamento, questo, che secondo Di Matteo «delegittima gravemente perfino il Dipartimento che ora è chiamato a dirigere e quindi i suoi appartenenti».
Meno duro ma comunque astenuto è anche Ardita: «Premetto che sono contrario all'attenuazione del 41 bis e dell'ergastolo ostativo e non condivido le critiche espresse dal dottor Renoldi all'antimafia militante. Ma la realtà carceraria è come un edificio in fiamme. Dentro le carceri ci sono pezzi in cui non comanda lo stato».
LO SPECCHIO DELLA MAGGIORANZA
Proprio queste divisioni espresse dentro il Csm non fanno altro che alimentare lo scontro politico che già era sorto, al momento della proposta di Renoldi. Di più: la divisione dei laici del Csm ricalca esattamente quella politica interna alla maggioranza.
In Consiglio il voto negativo (di astensione o contrario) al fuori ruolo è arrivato da Gigliotti del Movimento 5 Stelle e da Cavanna della Lega e proprio grillini e leghisti – insieme all’opposizione di Fratelli d’Italia - sono stati i più duri nell’attaccare la nomina di Cartabia.
Da fonti ministeriali è emersa la ferma volontà della ministra di proseguire con la nomina, che è appunto considerata fiduciaria e dunque di stretta responsabilità della guardasigilli.
Tuttavia, è sempre più probabile che la contrarietà politica di M5S e Lega verrà manifestata anche in sede di consiglio dei ministri, che deve ratificare la nomina. Incerto, invece, è se questo produrrà conseguenze sulla già traballante stabilità della maggioranza di governo.
LE RAGIONI DELLO SCONTRO
Ad alimentare lo scontro tra le parti è uno scontro che affonda in un dibattito mai risolto interno all’amministrazione della giustizia: il modo di intendere la lotta contro la mafia e, di conseguenza, la gestione del carcere e dell’espiazione delle pene.
Renoldi ha una visione del carcere molto simile a quella di Cartabia, che ha sempre posto l’accento sulla sua funzione rieducativa come indicata dalla Costituzione. A partire da questo, l’ormai ex consigliere di Cassazione si era espresso in favore della decisione della Consulta di dichiarare incostituzionale l’ergastolo ostativo nella parte in cui crea un automatismo tra benefici penitenziari e collaborazione con la giustizia.
Proprio su questo tema e dopo la sentenza, è incardinata alla Camera una proposta di legge di modifica dell’ergastolo ostativo nel senso di eliminare l’automatismo e attribuire la scelta di attribuire i benefici alla valutazione dei magistrati, pur sulla base di parametri rigidi.
Inoltre, sotto accusa sono finite le parole di Renoldi che durante un convegno del 2020 aveva parlato di «antimafia militante arroccata nel culto dei martiri», che ricorda solo la risposta repressiva e dimentica che «l’affermazione della legalità non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti».
Su questo, Renoldi ha tentato inutilmente di smorzare le polemiche con una lettera alla ministra in cui scrive: «Nessuno, men che meno io, può avere intenzione minimamente di sottovalutare la gravità del dramma della mafia», costato la vita a tanti «servitori dello Stato e non ho mai messo in dubbio la necessità dell'istituto del 41bis». Però, ricorda Renoldi, la piaga della mafia non può «far dimenticare che in carcere sono sì presenti persone sottoposte al 41bis, ma la stragrande maggioranza è composta da altri detenuti. A cui vanno garantite carceri dignitose, come ci ha ricordato il capo dello Stato».
Per Lega e Movimento 5 Stelle la nomina di Renoldi rimane «inopportuna» e Fratelli d’Italia ne ha chiesto il ritiro perché «manca solo la nomina a capo del Dap di un magistrato che ha sempre contrastato il carcere duro per i mafiosi per dare l'idea della resa della Stato».
Anche i sindacati di polizia si sono dichiarati scettici se non apertamente contrari alla scelta di Renoldi, visto che il capo del Dap è anche il vertice della polizia penitenziaria.
PERCHÈ UN INCARICO DELICATO
Il Dap è il dipartimento in assoluto più delicato dei quattro che compongono il ministero della Giustizia. È stato istituito nel 1990, in sostituzione della precedente Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena, e il suo vertice gode dell’indennità più alta all’interno del ministero.
I compiti del Dap sono di garantire l’ordine e la sicurezza dentro ai penitenziari, sovrintendendo l’esecuzione della pena e delle misure di sicurezza detentive, oltre che delle misure alternative alla detenzione. Di fatto, dunque, gestisce la vita carceraria dei circa 60 mila detenuti e a quella professionale dei circa 40 mila agenti della polizia penitenziaria.
Inoltre – e questo è il ruolo più delicato – dirige la polizia penitenziaria ed è il crocevia di tutte le informazioni anche legate alla pubblica sicurezza che arrivano da dentro le carceri.
Esiste una sorta di prassi per la quale il vertice del Dap sia sempre un magistrato: è così dal 1983, quando è stato isitutito il dipartimento. Tendenzialmente la qualifica preferenziale per ricoprire il ruolo è di aver svolto attività nell’Antimafia, ma in realtà non esiste alcuna norma che vieti di indicare avvocati, professori o garanti dei detenuti per il ruolo.
Negli ultimi anni il ruolo è diventato sempre più delicato ed è stato al centro delle polemiche. Il caso più eclatante è avvenuto nel 2020, in piena pandemia e durante il mandato di Francesco Basentini, nominato nel 2018 dall’allora ministro Alfonso Bonafede.
Basentini ha dovuto dimettersi in seguito alla gestione delle rivolte carcerarie di Modena e alle cosiddette “scarcerazioni facili” a causa del Covid e il suo posto è stato preso da Petralia.
IL CASO DI MATTEO
Lo scontro politico più forte, tuttavia, ha riguardato Bonafede e Nino Di Matteo, oggi consigliere del Csm astenuto sulla nomina di Renoldi. Proprio dopo le polemiche sugli errori gestionali di Basentini, Di Matteo ha dichiarato che Bonafede aveva offerto a lui il posto al capo del Dap, ma che – dopo il suo sì – il ministro gliela aveva negata.
Nel frattempo, dal gruppo operativo mobile arrivano informazioni alla procura nazionale antimafia di cui Di Matteo fa parte, che descrivono «la reazione di importantissimi capimafia, legati anche a Giuseppe Graviano e altri stragisti, all’indiscrezione che potessi essere nominato capo del Dap. Quei capimafia dicevano: “se nominano Di Matteo è la fine”», dice Di Matteo.
L’allusione è che Bonafede abbia fatto il passo indietro sulla nomina perché era anche lui al corrente di queste informazioni, che erano state trasmesse anche al ministero, e che quindi temesse reazioni mafiose.
Il ministro ha sempre negato questa ricostruzione e di non aver ricevuto alcuna pressione esterna contro la nomina di Di Matteo. Tuttavia, non è mai stato chiarito né perché Di Matteo abbia aspettato due anni – dal 2018 al 2020 – per raccontare questi fatti e la ragione della ritrattazione di Bonafede.
Tuttavia, il caso Di Matteo dà la dimensione della delicatezza del ruolo al Dap, del perché sia così nevralgico e ambito ma anche perché politicamente è sempre più incandescente.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Scontro sul Dap e quell’idea di antimafia ancora ferma agli anni Novanta. Recuperare la terzietà e la neutralità dell’espiazione della pena è la prima grande sfida, e ha bisogno di un capo del Dap adeguato. Alberto Cisterna su Il Dubbio il 6 marzo 2022.
La battaglia in corso sulla nomina del prossimo capo del Dap è, per la prima volta dopo tanti anni, al centro di un dibattito pubblico vero.
Dai toni aspri, ma vero. Non è chiaro se la notizia dell’intenzione della ministra Cartabia di nominare Carlo Renoldi, consigliere della Cassazione, sia stata fatta trapelare da ambienti ministeriali ostili, ma certo ben informati, oppure se la guardasigilli abbia democraticamente avviato un giro di consultazioni tra le forze di maggioranza per coglierne le indicazioni e qualcuno abbia lanciato il sasso nello stagno mediatico. Certo è che la designazione ha dato luogo a durissime prese di posizione contro il magistrato cui si contesta una posizione, come dire, “morbida” in materia di carceri e, soprattutto, di gestione del regime speciale, il cosiddetto 41 bis. Inoltre, il consigliere Renoldi sembra pagare qualche parola di troppo nei confronti del circuito dell’antimafia e dei suoi rituali. Le due cose, ovviamente, si tengono tra loro. In un paese in cui mafia e terrorismo hanno mietuto centinaia di vittime innocenti, è inevitabile che ci sia un gruppo di irriducibili che ritengono le politiche penitenziarie mai dure abbastanza nel far scontare ai colpevoli il prezzo delle loro scelleratezze. È comprensibile e si tratta di posizioni che meritano il massimo rispetto. Ma che non possono condizionare per decenni il dibattito sul sistema carcerario, sull’ergastolo ostativo, sul regime speciale di detenzione. La scelta del governo Berlusconi, nel 2002, di stabilizzare e conferire un assetto definitivo alla reclusione di 41 bis – dopo venti anni – merita di essere presa nuovamente in considerazione e non per indugiare a un ingiusto perdonismo, ma per fare un bilancio realistico, obiettivo, verificabile della necessità di mantenere in regime di isolamento centinaia di detenuti, anche dopo decenni di carcere. È un punto decisivo che viene costantemente tenuto lontano dal dibattito pubblico, sommerso da un profluvio di commemorazioni, anniversari, convegni e quant’altro che rendono difficile uno sguardo distaccato e sereno. In una nazione seria si dovrebbe pur stabilire se le mafie siano state o meno strategicamente sconfitte dallo Stato e siano state costrette a ripiegare su “semplici” arricchimenti e violenze minute senza alcuna possibilità di occupare più un ruolo egemone sulla società. Ovvero se, come qualcuno ipotizza, si siano acquattate da qualche parte e attendano tempi migliori. Sia chiaro: che le organizzazioni mafiose esistano e siano pericolose non lo nega nessuno, il punto è se lo Stato abbia conseguito successi tali da sbaragliare la bramosia di potere dei clan confinandoli (come in molte altre parti del mondo) al ruolo di gruppi criminali e di bande di malviventi. Ecco che la discussione sul prossimo capo del Dap deve essere ben accetta e costituisce un’occasione di confronto preziosa.
Soprattutto dopo il terribile pasticcio combinato dal precedente ministro della Giustizia nel caso Di Matteo, direttore in pectore misteriosamente messo da parte ai piani alti di via Arenula. Il punto centrale è se il carcere, in ossequio alla Costituzione, debba o meno avere al proprio centro la funzione rieducativa della pena e la riabilitazione del condannato o se debba restare pienamente assorbito dalla belligeranza dichiarata alle cosche oltre i suoi cancelli.
Perché ciò accada la dimensione detentiva deve acquisire una neutralità persa decenni or sono, quando le celle erano divenute covi di malaffare (la potente narrazione dello champagne all’Ucciardone); celle che lo Stato ha poi trasformato in un’ulteriore proiezione del campo di battaglia alle mafie estendendo entro le mura intercettazioni, sequestri, captazioni, regimi speciali. Recuperare la terzietà e la neutralità dell’espiazione della pena è la prima grande sfida, e ha bisogno di un capo del Dap adeguato che la politica deve scegliere senza timore di polemiche e senza porsi alla continua ricerca del placet del Politburo dell’antimafia.
Musolino: «Io, pm, dico: il mito del 41 bis fa comodo a chi vuol negare le vere radici della mafia». Stefano Musolino, sostituto procuratore a Reggio Calabria, interviene sulla polemica per la designazione di Carlo Renoldi al vertice del Dap. Valentina Stella su Il Dubbio il 6 marzo 2022.
La polemica sulla designazione da parte della ministra Cartabia di Carlo Renoldi come nuovo vertice del Dap non si placa. Cosa ne pensa di tutto questo un gruppo associativo sensibile al tema del carcere come Magistratura democratica? Lo chiediamo al segretario della corrente progressista, Stefano Musolino, sostituto procuratore a Reggio Calabria, con alle spalle dieci anni, appena “compiuti”, alla Dda reggina, che gli consentono di discutere sul tema anche in base a quella esperienza.
Renoldi è finito sotto attacco per essere stato individuato dalla ministra Cartabia quale possibile nuovo capo del Dap. Qual è la vostra posizione in merito?
Non abbiamo una posizione specifica, su una scelta che è di esclusiva pertinenza della ministra. Le polemiche a cui lei fa riferimento sono, essenzialmente, ispirate da una logica mafio- centrica che trascura le più complesse qualità e sensibilità richieste a chi è chiamato a dirigere il Dap. Le condizioni di degrado strutturale in cui versano oggi le carceri, le drammatiche insufficienze di uomini e mezzi, il tema della marginalità sociale ristretta negli istituti penitenziari che ne determina il sovraffollamento, la necessità di far uscire il carcere dalla periferia sociale per porlo al centro delle dinamiche culturali e delle politiche degli enti locali. Dovrebbero essere questi i temi su cui valutare l’adeguatezza di Carlo Renoldi.
E invece le stilettate contro di lui sono arrivate soprattutto per le sue posizioni sul 41 bis.
A me pare che le posizioni espresse da Renoldi diano conto della complessità del tema, insofferente a un approccio ideologico da guerra di religione, fondata su inestirpabili pregiudizi. Io credo che un approccio laico ai temi del regime speciale regolato dall’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario dovrebbe suggerire maggiore attenzione per la capacità dell’istituto di reggere alle valutazioni della giurisprudenza costituzionale e di quella della Corte europea dei Diritti dell’uomo. Un sistema normativo figlio di una logica di emergenza che il tempo sta usurando.
Quindi il 41 bis non è destinato a durare per sempre?
L’istituto è necessario per contenere la capacità dei dirigenti mafiosi di continuare a gestire dal carcere le dinamiche criminali, ma la restrizione dei diritti individuali in funzione delle esigenze di sicurezza generale deve trovare un punto di compensazione più elevato di quello attuale. Invece, secondo alcuni, la capacità dello Stato di contrastare adeguatamente il fenomeno mafioso si misura tutta sul mantenimento integrale del regime del 41 bis. Ma così facendo, se ne fa un mito intoccabile, tacendone le inefficienze e, soprattutto, trascurando i temi dell’antimafia sociale, quella che ambisce ad incidere sui fattori genetici del fenomeno che risiedono nella oggettiva povertà economica e culturale di alcune zone del Paese. Sostenere il totem del 41 bis fa comodo a tanti perché così non si affrontano le vere criticità sottese al fenomeno mafioso.
A cosa allude quando si riferisce alle inefficienze del 41 bis?
Alcune delle previsioni che regolano l’articolo 41 bis hanno natura puramente afflittiva e sono, perciò, esorbitanti rispetto alla logica che ispira la necessità di un trattamento differenziato dei dirigenti mafiosi. Lo ribadisco: l’istituto è necessario, perché l’esperienza, anche quella dei detenuti mafiosi in regime di alta sicurezza, dimostra come costoro abbiano un atteggiamento refrattario alle proposte rieducative e tendano a ripetere anche all’interno delle strutture detentive quelle che sono le modalità relazionali e i metodi che caratterizzano l’organizzazione. Ma se questo è vero, dobbiamo anche consentire valutazioni individualizzate dei singoli percorsi detentivi che non siano viziate da pregiudizi irresistibili, ma siano capaci di garantire anche al detenuto mafioso la possibilità di emendarsi e usare il tempo trascorso in carcere quale momento di rieducazione ed emancipazione dall’organizzazione e dai suoi metodi.
Quindi come si esce dall’equivoco per cui chi desidera un carcere più umano e rispettoso dei diritti sarebbe in realtà intenzionato a depotenziare la lotta alla mafia?
Io credo che la necessità di una detenzione ispirata al massimo rispetto delle dignità umana sia ineludibile e sia imposta dalla Costituzione e dalla normativa internazionale. Sulla base di questa ispirazione di fondo, credo sia giunto il tempo di rivalutare con attenzione un istituto indispensabile nel contrasto alle mafie, riformandone i profili puramente afflittivi ed accentuando la rilevanza di una valutazione individualizzata di ciascun detenuto. Come le ho detto anche in altre occasioni, continuare a ragionare in termini emergenziali di lotta alla mafia è ormai antistorico: è un fenomeno ormai cronicizzato che deve essere affrontato con una legislazione in grado di tenere insieme le ragioni della sicurezza sociale con quelle dei diritti dei soggetti coinvolti nei processi.
È rispuntata la questione della “trattativa” Stato- mafia: Salvatore Borsellino, sempre sul caso Renoldi, ha parlato di “ultima cambiale della trattativa”. Scrive il collega Aliprandi che questo tema riappare sempre per “intossicare il dibattito ogni qual volta si parla di riforma del 41 bis o di ergastolo ostativo”. Lei che pensa?
Trattandosi di un tema complesso, è necessario osservarlo da plurime prospettive, ognuna delle quali ha aspetti di ragionevolezza. Se non se ne fa un tema da guerra di religione, ogni contributo è utile a migliorare la comprensione delle poliedriche sfaccettature che ne disegnano l’insieme, migliorando la qualità del compromesso finale tra diritti individuali e ragioni di sicurezza sociale. Mentre rifiutare il confronto e descrivere come un traditore dell’antimafia chi muove da altre valutazioni credo sia profondamente sbagliato. Costruire su questa materia totem pregiudiziali non aiuta l’antimafia, aiuta piuttosto quelli che sull’antimafia fanno carriera e gran parte della politica.
A cosa si riferisce quando chiama in causa la politica?
La politica sembra non volersi assumere le responsabilità che deriverebbero da una antimafia sociale, sicché preferisce delegare tutto al mito della repressione e a quello della mafia, che si coltivano vicendevolmente. Se pensiamo che da trent’anni il modo di approcciare alla mafia è solo quello della repressione, chi pensa che questo sia ancora il solo metodo per fronteggiarla dovrebbe chiedersi perché questa ricetta non ha funzionato. Questo non vuol dire sottovalutare la natura del fenomeno mafioso, ma sottolineare che una normativa repressiva di corto respiro non rappresenta più, a mio parere, una strategia adeguata. A tal proposito mi permetta però di aggiungere due parole su quanto letto ieri sul vostro giornale ( il riferimento è all’articolo di Damiano Aliprandi intitolato “Il caso Renoldi e quel silenzio assordante di Md sul teorema Trattativa”, ndr).
Prego.
Descrivere Md e il dibattito al suo interno come qualcosa di ideologizzato o indifferente ai temi di cui stiamo parlando non fa un servizio alla verità. Le faccio solo un esempio: quando venne resa nota l’indagine a carico dell’ex ministro Conso nell’ambito del processo cosiddetto sulla trattativa, Nello Rossi (allora procuratore aggiunto a Roma ed esponente di spicco della corrente di sinistra della magistratura, ora direttore della rivista di Md “Questione Giustizia”, ndr) difese Conso pubblicamente, attirandosi le critiche anche di altri magistrati. Md è sempre stata e ambisce ad essere un luogo aperto al confronto e ispirato dalla curiosità del dialogo, soprattutto su questi temi in cui la tentazione di sfuggire alla complessità con soluzioni semplicistiche o elevare bandiere ideologiche possono costituire freni alla tutela più piena dei diritti coinvolti: quelli individuali e quelli collettivi.
La nomina al Dap. Quella cultura manettara che vuole l’antimafia al governo del Dap. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 5 Marzo 2022.
Il Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria è chiamato ad occuparsi della gestione amministrativa delle carceri. Dunque, deve occuparsi di personale, di Polizia Penitenziaria, di condizioni detentive degli internati, di edilizia carceraria. Deve amministrare un bilancio di imponenti dimensioni. Si tratta insomma di un incarico di alta amministrazione, in uno dei comparti pubblici più delicati e peculiari.
La prima domanda che dovremmo tutti farci seriamente, che invece pochi si fanno ed alla quale pervicacemente nessuno risponde, è perché mai si ritenga immancabilmente di affidare questo delicato e complesso incarico ad un magistrato. Il quale ultimo è entrato nei ranghi della Pubblica Amministrazione vincendo un concorso che valuta qualità, conoscenze ed idoneità del tutto estranee a quelle -chiaramente manageriali, ed anche non poco sofisticate- richieste per amministrare il DAP. Perfino se fosse un magistrato con lunga esperienza al Tribunale di Sorveglianza -il che, paradossalmente, non accade praticamente mai- questi sarebbe comunque privo delle più rudimentali cognizioni di management pubblico che la funzione necessariamente presuppone.
Ma questo è il Paese che ha maturato una idea talmente ancillare verso il potere giudiziario, da essersi convinto a considerare di esclusiva competenza magistratuale qualunque funzione (non giurisdizionale ma) amministrativa in tema di Giustizia. A questa assurdità (assimilazione della competenza amministrativa a quella giurisdizionale) se ne è aggiunta una seconda, particolarmente rozza e primitiva e perciò cara alla diffusa cultura manettara di questo Paese, secondo la quale quella carica deve essere affidata, come dire, ad un “mastino”, che dia garanzie di una solida cultura poliziesca e, soprattutto, “antimafiosa”, qualunque cosa ciò possa concretamente significare. Dunque, non solo magistrati, ma preferibilmente Pubblici Ministeri con solido curriculum in processi contro le mafie, e con solida cultura carcerocentrica. Ora, dovete sapere che i detenuti per titoli di reati connessi a fatti di mafia sono, a tutto concedere, circa 700, su una popolazione carceraria di oltre 60mila persone. Le ragioni per le quali costoro sono detenuti, debbano rimanerlo e con quale regime detentivo, sono di esclusiva spettanza dei magistrati che li indagano, li giudicano, ne curano il regime esecutivo della pena. Il regime detentivo speciale del c.d. 41 bis è fissato da norme di legge primarie e secondarie.
Dunque, la seconda domanda che tutti dovremmo farci, che invece pochi si fanno ed alla quale pervicacemente nessuno risponde è: cosa c’entra l’antimafia con il D.A.P.? Ma qui è inutile tentare un ragionamento, siamo di fronte a quel crogiuolo esplosivo di isteria collettiva e retorica un tanto al chilo che annichilisce le sinapsi e preclude ogni sensata discussione. Con una popolazione di 60mila persone detenute da governare, di altre centinaia di migliaia tra personale amministrativo e di polizia penitenziaria da amministrare, di strutture carcerarie fatiscenti da adeguare, di enormi flussi di denaro da spendere in modo ottimizzato, le prèfiche nazionali dello schiavettone strepitano indignate, perché il nome avanzato dalla Ministra Cartabia non garantirebbe quegli sconclusionati parametri di idoneità all’incarico che ci siamo inventati non si sa quando, non si sa come, non si sa perché.
Il dott. Renoldi non è un Pubblico Ministero dunque non può vantare maxi inchieste e maxi arresti di mafia; è “solo” (sic!) un Giudice della Corte di Cassazione, dunque -parrebbe di capire che questo sia il pensiero degli energumeni indignati- una mammoletta senza spina dorsale; e soprattutto avrebbe espresso qui è là, in quel tal convegno o in quel tal altro scritto, idee sull’ergastolo ostativo semmai consonanti con le salottiere ed irritanti pruderie della Corte Costituzionale, ma certamente insostenibili a petto della rude e maschia cultura antimafia, chessò, di un Gratteri o di un Di Matteo. Quindi, cari amici, a questo stiamo. Avremmo voluto chiedere alla Ministra Cartabia: perché ancora un magistrato? (e non un direttore di carcere di lungo corso, o un qualificato studioso di diritto penitenziario, o meglio ancora un manager pubblico)?; e invece dobbiamo cogliere nella decisione della Ministra, per di più con sincero compiacimento, almeno il segno comunque coraggioso e limpido della fedeltà alla sua idea di carcere e di pena che ha da subito reso esplicita, e che, naturalmente, le fa onore. Invece che un P.M. scegli un giudice, per di più non grondante idolatria della ostatività, e tanto basta a scatenare il linciaggio. Ahi poveri noi, poveri noi.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Giustizialisti all'assalto. Ergastolo ostativo, il Parlamento la butta in ammuina e lascia spazio all’assalto giustizialista. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Marzo 2022.
Tira brutta aria alla Camera dei deputati, dove lunedì scorso è iniziata la discussione sull’ergastolo ostativo. E non spira migliore brezza dalle parti del Ministero di giustizia, dove la guardasigilli Cartabia è già sotto attacco per aver indicato per la direzione del Dap, in luogo del consueto pm “professionista” dell’ antimafia, un ex giudice di sorveglianza che conosce il carcere e le sue regole. E che è stato già costretto, dopo aver subito attacchi vergognosi, a fare atto di fede all’articolo 41-bis del regolamento carcerario.
Al dottor Renoldi aveva già scritto ieri sul Fatto quotidiano una lettera aperta il dottor Caselli. Il quale, dopo aver ricordato come “l’esperienza più difficile della mia vita professionale” i due anni trascorsi al Dap, dà un’unica raccomandazione al collega: “l’ergastolo ostativo non va toccato” . Un’indicazione che sembra esser stata raccolta prima di tutto proprio dal Parlamento dove, di limatura in limatura, si sta andando nella direzione di disattendere le indicazioni dell’Alta Corte, che un anno fa sancì l’incostituzionalità della “morte sociale”, dando al Parlamento un anno di tempo (la scadenza al prossimo maggio) per l’approvazione di una legge che rispetti, oltre alla Costituzione, anche l’articolo 3 del regolamento della Corte europea dei diritti dell’uomo.
È sempre antipatico dover riconoscere di aver avuto ragione, ma quando nell’aprile dell’anno scorso avevamo scritto alla Corte Costituzionale “serviva più coraggio”, avevamo guardato con realismo la composizione dell’attuale Parlamento, fermo nei numeri e nella qualità dei suoi rappresentanti alle elezioni del 2018, con la prevalenza numerica dei Cinque stelle, con una Lega ondeggiante tra l’iniziativa referendaria e quel gusto antico del “buttare la chiave” dopo aver chiuso la cella, un Pd disposto a tutto pur di stare al governo con i grillini e la destra di Giorgia Meloni ancorata sempre più alle tradizioni del Msi. Resta ben poco sul piano numerico, senza nulla togliere alla qualità non solo dei componenti di Forza Italia e Italia viva, oltre a qualche singolo parlamentare, come Enza Bruno Bossio del Pd.
La giurisprudenza che mette in discussione il cuore stesso della norma che dal 1992 esclude dai benefici penitenziari una serie di condannati per reati gravi che non si siano “pentiti”, cioè di coloro che hanno ammesso i reati propri e denunciato quelli altrui, è chiarissima fin dal 2019. E non consente limature né i famosi “salvo che” in cui è specializzata la cultura di una certa sinistra, quella più sensibile alle sirene del Partito dei pm. Si parte dalla “sentenza Viola”, quella con cui la Cedu aveva condannato l’Italia perché non consentiva a Marcello Viola, condannato per gravi reati di mafia, di accedere ai benefici penitenziari previsti dalla legge del 1975. Il detenuto si era sempre dichiarato innocente ed estraneo ai reati che gli erano stati contestati. La sua era quindi una collaborazione impossibile. La sentenza metteva in discussione la costrizione al “pentimento”. E’ importante ricordare quel punto di partenza, perché è da lì che si arriva ai provvedimenti della Corte Costituzionale. Che, ancora di recente, con la sentenza numero 20 di quest’anno, ribadisce come punto fermo l’esistenza della collaborazione impossibile o inesigibile.
Ora la domanda è: nel testo in discussione alla Camera questo principio esiste ancora? Pare di no. Bisogna tener conto del fatto che non esistono solo coloro che si dichiarano non colpevoli, ma anche quei condannati che non hanno più nulla da aggiungere a quel che spesso un’intera schiera di “pentiti” ha già raccontato. E ancora, tanti sono i detenuti che hanno già fatto un intero percorso (di 26 anni) di cambiamento della propria vita, ormai lontani dal mondo mafioso, ma che per una questione di principio non vogliono scendere al livello dei delatori, oppure semplicemente temono per la vita dei propri familiari. Perché tutti costoro devano essere inchiodati a ciò che furono?
Il dottor Caselli ritiene, e non è il solo, che chi è stato delinquente una volta lo sia per sempre, perché negli ambienti della criminalità organizzata tutti sarebbero vincolati a una sorta di giuramento religioso o massonico insuperabile. Non è così. Potremmo fare i nomi e i cognomi dei tanti che sono veramente cambiati e si sono reinseriti nella società. Ma anche l’intervento di lunedì alla Camera del presidente della Commissione giustizia, Mario Peraboni, esponente dei Cinque Stelle, non promette niente di buono, e pare allineato al pensiero dei magistrati “antimafia” che sono stati ascoltati nel corso del lavoro in commissione.
Punto primo: per quale motivo per la concessione al detenuto di permessi premio o di liberazione anticipata occorre interpellare il pm presso il giudice che ha emesso la sentenza (e in alcuni casi addirittura il Procuratore nazionale antimafia)? Cioè colui che ha scattato la fotografia nel momento della commissione del reato? Secondo punto: il Parlamento non si fida dei giudici di sorveglianza, di quelli come il dottor Renoldi, insomma. Infatti il testo base in discussione sposta ogni decisione al tribunale, organo collegiale. E ancora: i 26 anni trascorsi i quali l’ergastolano può cominciare ad avanzare le sue richieste diventano 30. Ma non basta.
E’ inquietante quel “se sarà dimostrato” non solo il suo cambiamento, ma anche il concreto distacco dalle organizzazioni criminali. Pare che il testo preveda una sorta di corsa a ostacoli, lunga e complicata che il detenuto dovrà sostenere per arrivare all’agognata meta. E che dovrebbe fungere in realtà da disincentivo. Ma la Cedu e la Corte Costituzionale avevano detto altro.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Sull’ergastolo vince il ricatto violento dell’antimafia. Più che una difesa d’ufficio, il discorso pronunciato da Walter Verini due giorni fa, a Montecitorio, sulla legge che riforma l’ergastolo ostativo è l’ammissione di una difficoltà estrema. Errico Novi su Il Dubbio il 2 marzo 2022.
Nessuno poteva realisticamente aspettarsi, sull’ergastolo ostativo, uno slancio garantista incondizionato. Nessuno poteva illudersi che l’attuale Parlamento concepisse una legge davvero illuminata. E infatti il testo condiviso dalla commissione Giustizia, sul quale di qui a qualche ora arriverà il via libera dell’aula di Montecitorio, è una trincea piena di ostacoli per il condannato “non collaborante”. Lo ha ricordato ieri, in un’intervista al Dubbio, la deputata del Pd Enza Bruno Bossio, tra i pochi che, nell’esame in commissione, abbiano avuto il coraggio di difendere davvero i princìpi dettati dalla Consulta. Perché, va ricordato, la legge sull’ostativo è la conseguenza di una pronuncia, la numero 97 dello scorso anno, con cui la Corte costituzionale ha spiegato che non è legittimo considerare la collaborazione con la giustizia come la sola via a disposizione di un ergastolano condannato per reati ostativi che voglia accedere al più importante dei benefici, la liberazione condizionale.
Certo, il giudice delle leggi ha chiesto al Parlamento di eliminare il pregiudizio assoluto tuttora previsto, per chi non collabora, dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario senza però compromettere la sicurezza collettiva. Ma nel testo si legge la volontà di alzare vere e proprie barricate sul ritorno alla libertà del detenuto di mafia. È da lui, da chi è stato per trent’anni recluso quasi sempre in regime di 41 bis, che si pretendono prove in grado di escludere residui collegamenti con l’organizzazione o il rischio che vengano ripristinati.
È vero d’altronde che, per la maggioranza attuale, un risultato diverso era di fatto impossibile. Si può legiferare se si è consapevoli che l’ossequio allo Stato di diritto verrebbe travisato un minuto dopo, dai pm antimafia e dal Fatto quotidiano, come un regalo alle cosche? Si può, ma è davvero molto difficile. E su quanto fosse difficile, ha offerto una testimonianza in fondo schietta Walter Verini, dirigente dem che ha esposto, due giorni fa in Aula, la posizione prevalente nel suo partito. Ha esordito così: «Diciamo subito che il testo è il frutto di un lavoro importante e impegnativo e per niente semplice».
Non può passare inosservato che ad Enza Bruno Bossio si sia data la possibilità di proporre una “relazione di minoranza”, in parallelo con l’intervento di Verini. Segno della prova non facile che il partito oggi di maggioranza relativa nel Paese si è trovato ad affrontare. «Il lavoro svolto raggiunge una sintesi, con un testo perfettibile certamente, ma in grado di tenere insieme i due princìpi segnalati dalla Corte costituzionale», ha detto Verini. Che non ha taciuto delle sollecitazioni arrivate alla commissione affinché adottasse un impianto davvero garantista: «Le opinioni del professor Ruotolo, di Patrizio Gonnella di Antigone, del presidente Anm Santalucia, del professor Anastasia: alcune di queste personalità sono, secondo noi, punti di riferimento di grande spessore nel dibattito giuridico- costituzionale e in quello legato all’ordinamento penitenziario», ha chiarito il deputato dem. Che ha aggiunto: «Sono critiche e questioni che meritano ascolto, anche se alcune, forse, viziate da una certa unilateralità. Ma probabilmente è giusto, perché analoga unilateralità può essere stata espressa da altre personalità con opinioni diverse e magari opposte».
Verini insomma ha reso l’idea della tenaglia in cui si sono trovati i deputati: da una parte la tesi di chi ha ben presenti gli insulti alla Costituzione consumati nel sistema e nell’ordinamento penitenziario, dall’altra gli irriducibili che vedono nello Stato di diritto un vile cedimento. Si poteva e doveva arrivare in Aula con una legge migliore di questa. Ma quanto avvenuto spiega benissimo come l’insinuazione dell’accusa di collaborazionismo in qualsiasi lampo garantista delle leggi antimafia sia ancora oggi uno dei più formidabili e violenti ricatti a cui si è costretti ad assistere nella politica giudiziaria.
Il caso Renoldi e quel silenzio assordante di Md sul teorema Trattativa. Le ricostruzioni sulla trattativa Stato-Mafia sono una spada di Damocle anche sulla corrente, come dimostra il caso del magistrato indicato dalla guardasigilli al capo del Dap. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 3 marzo 2022.
Non entriamo nel merito dell’intervista del fratello di Paolo Borsellino pubblicata sul Fatto Quotidiano. Pieno di luoghi comuni, inesattezze, argomentazioni prive di base logica dettate sicuramente dalla mancanza di conoscenza. Potremmo contrapporre la lucidità e sensibilità, dettata anche dalle visite in carcere, di Fiammetta Borsellino che è esattamente agli antipodi. Ma non lo facciamo. Sarebbe sbagliato strumentalizzare le vittime di mafia che hanno tutto il diritto di pensare come vogliono. Invece è doveroso sollevare un problema.
Il silenzio di Magistratura democratica, corrente di cui fa parte Carlo Renoldi indicato dalla ministra Cartabia come capo del Dap, davanti alle imbarazzanti ricostruzioni del teorema trattativa Stato-mafia, utilizzate per intossicare il dibattito ogni qual volta si parla di riforma del 41 bis o ergastolo ostativo. Attenzione, non pretendiamo che i magistrati di Md interferiscano su una inchiesta o un processo. Quello sarebbe sbagliato. Ma vista la sensibilità della corrente contro l’idea reazionaria del sistema penitenziario, sarebbe stato giusto un intervento ogni qual volta un loro collega, o addirittura un loro iscritto, vada ad esempio innanzi alla Commissione giustizia e usi una intercettazione, inconsapevolmente stravolgendone il contenuto, per dire ad esempio che nel 2000 Bernardo Provenzano parlava dell’ergastolo ostativo, dando la percezione che ci fu una trattativa in corso per abolirlo. A pensare che l’ergastolo ostativo è un termine coniato dalla dottrina soltanto pochi anni fa.
Così come ad esempio, sarebbe stato bello che Magistratura democratica fosse intervenuta quando si parlava della famosa mancata proroga del 41 bis a circa 300 soggetti da parte dell’allora ministro Giovanni Conso. Una delle pseudo prove dell’avvenuta trattativa Stato mafia. Perché non sono intervenuti, rendendo così onore al magistrato Alessandro Margara, iscritto a Md, uomo di grande spessore e cultore del diritto penitenziario, che fu proprio uno dei magistrati di sorveglianza che sollevò la questione alla Corte costituzionale? Sì, perché le revoche dei 41 bis ai 300 soggetti (tra l’altro solo una piccolissima parte erano mafiosi, di basso rango) disposte dal ministro Conso nel ’93, furono conseguenza della sentenza della Corte costituzionale (numero 349 e depositata in cancelleria il 28 luglio del 1993) che impose valutazioni individuali per ciascun provvedimento di carcere duro a differenza di quanto era avvenuto in precedenza e in passato per i terroristi.
Il merito di quella sentenza, ricordiamo, è stato anche di Alessandro Margara che sollevò la questione quando era magistrato di sorveglianza a Firenze. Non di una trattativa, non della mafia, ma dello Stato di Diritto. Lo stesso Franco Corleone, attualmente garante dei detenuti del carcere di Udine, ricorda i colloqui avuti con Margara stesso e il suo sbalordimento per le accuse a Giovanni Conso, accusato di avere appunto tolto dal regime del 41 bis presunti mafiosi per favorire la “trattativa Stato mafia”. Sono argomenti privi di contatto con la realtà, che inevitabilmente intossicano il dibattito. Non permette di far progredire il nostro Stato di Diritto. Anzi, lo arretra. Molti parlamentari, a partire di chi ricopre ruoli istituzionali come l’attuale presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, sono imbevuti di questa propaganda. Ne hanno assorbito talmente tanta, che a sua volta la veicolano anche loro. I danni sono enormi, a partire da quelli culturali. Il rischio è che anche le istituzioni scolastiche ne rimangano travolte. I giovani studenti, saranno (o sono) le prime vittime. In realtà Magistratura democratica, in particolare Area, non solo è stata in silenzio, ma nel passato ha organizzato anche convegni sulle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove i partecipanti al dibattito, ancora una volta, hanno usato queste argomentazioni totalmente fallaci.
Eppure, all’interno di Magistratura democratica, ci sono tuttora persone di valore e che conoscono molto bene il meccanismo. Sanno benissimo che il teorema trattativa è diventata una spada di Damocle, non solo sopra la testa di un eventuale governo illuminato, ma anche sulla loro. Le critiche feroci, e completamente sballate nei confronti di un loro iscritto, il magistrato Carlo Renoldi, ne sono la dimostrazione. Speriamo solamente che la ministra della Giustizia Marta Cartabia mantenga il punto. Altrimenti vince la paranoia e la teoria del complotto sulla Politica. E ciò diventa pericoloso, perché tutto ciò è funzionale allo Stato di Polizia, anziché di Diritto.
LA NOMINA. Cartabia sceglie il nuovo capo del Dap, che divide sia i magistrati che la politica. GIULIA MERLO su Il Domani il 28 febbraio 2022
Si chiama Carlo Renoldi, appartiene alle toghe progressiste e parla di «carcere dei diritti», in passato ha attaccato quella che ha definito come «antimafia militante arroccata nel culto dei martiri». Le sue posizioni sul 41 bis sono in linea con quelle della ministra, ma la Lega ha espresso «preoccupazione per un candidato scelto in modo unilaterale»
Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha un nuovo capo: Carlo Renoldi, consigliere di Cassazione ed ex magistrato di sorveglianza, prende il posto di Bernardo Petralia, che ha chiesto di andare in pensione.
La nomina ha suscitato reazioni opposte, sia sul fronte politico che su quello interno all’amministrazione penitenziaria.
A far sollevare una parte della maggioranza – in particolare la Lega e il Movimento 5 Stelle –sono stati sia il metodo che il profilo scelto.
Sul fronte del metodo, la critica alla ministra della Giustizia Marta Cartabia è di aver scelto il candidato in modo unilaterale e anche molto rapido, senza aver consultato le forze di maggioranza. Quanto al profilo, è spiccato l’elemento di novità rispetto al passato: Renoldi, infatti, è noto per aver preso posizioni critiche rispetto a un certo modo di intendere la lotta alla mafia, che lui ha definito «arroccata nel culto dei martiri».
Proprio questo ha suscitato la dura reazione della responsabile Giustizia della Lega, Giulia Bongiorno: «La Lega manifesta preoccupazione per la scelta», in particolare «desta perplessità la scelta di affidare un incarico così delicato, anche per il messaggio che ne deriva, a chi ha assunto posizioni, anche pubblicamente, che hanno sollevato un vespaio di polemiche nel fronte dell'Antimafia».
A difenderlo, invece, è intervenuto il membro della commissione Giustizia del Pd, Walter Verini, che ha parlato di «magistrato di grande preparazione, in generale e in particolare sul tema della gestione e dell'umanizzazione dell'ordinamento penitenziario. Il rigore inflessibile nel contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata, dentro e fuori dal carcere, non può essere in contrasto con i principi fissati dalla Costituzione».
Dal ministero della Giustizia, tuttavia, è stato fatto notare che la nomina a capo di un dipartimento è di tipo fiduciario, pur passando dal consiglio dei ministri.
In ogni caso, il 9 marzo sarà la prima seduta utile per il Csm per pronunciarsi sul collocamento fuori ruolo di Renoldi: una valutazione che non è di merito ma oggettiva rispetto al parametro del tempo già trascorso fuori ruolo da Renoldi (non si possono superare i 10 anni) e della scopertura di organico dell’ufficio in cui attualmente presta servizio.
UN NOME IN LINEA CON LA MINISTRA
Renoldi, 53 anni e originario di Cagliari, è attualmente consigliere della prima sezione penale della Cassazione. In passato, invece, è stato magistrato penale e poi di sorveglianza nella sua città. Magistrato che non ha mai cercato la ribalta mediatica, è poco noto fuori dalla cerchia interna alla categoria.
Dal punto di vista dell’orientamento, è vicino a Magistratura democratica ma iscritto anche ad Area, il gruppo associativo che per anni è stato il contenitore delle toghe progressiste che ora invece si sono divise.
La sua nomina è in continuità sia con gli orientamenti della Corte costituzionale in materia di carcere, a partire dalla recente ordinanza che ha dichiarato incostituzionale il 4bis (il carcere duro senza benefici per i condannati ostativi che non hanno collaborato con la giustizia), ma anche con la linea della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, sulla funzione riabilitativa del carcere.
«Sono per un carcere costituzionalmente compatibile. Un carcere dei diritti, in cui però siano garantite le condizioni di sicurezza», ha scritto Renoldi.
Il suo profilo considerato progressista e riformatore in tema di gestione del carcere, però, non convince i sindacati di polizia penitenziaria, visto che Renoldi assumerà anche il ruolo di capo del corpo. «Renoldi non dimentichi che dovrà rappresentare coloro che pressoché quotidianamente hanno a che fare con detenuti che mettono a repentaglio l’ordine e la sicurezza della sezione detentiva», si legge in un comunicato del Sappe, «Per quello che ha detto nel passato, dunque, credo che Carlo Renoldi sarebbe più indicato per fare il garante dei detenuti che non il Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria».
LE POSIZIONI SULL’ANTIMAFIA
A rendere divisivo il profilo di Renoldi, però, sono le sue prese di posizione sul tema dell’antimafia e della gestione del carcere.
In un convegno a Firenze del 2020, Renoldi ha parlato della sua idea di Dap, spiegando che «che in questi anni è rimasto profondamente ostile a quegli istituti che tentano di varare una nuova stagione di diritti “giustiziabili” per le persone detenute. Un atteggiamento miope di alcune sigle sindacali che declinano ancora la loro nobile funzione in una chiave microcorporativa».
Nella stessa sede è stato molto critico anche su alcune posizioni interne all’antimafia in materia di carcere: «Pensiamo all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti».
L’ERGASTOLO OSTATIVO
Questa nomina è in linea con un tentativo di riforma dell’ordinamento carcerario che Cartabia sta portando avanti e procede in parallelo con la riforma dell’ergastolo ostativo ora alla Camera.
La Consulta, infatti, ha dichiarato l’incostituzionalità dell’automatismo per il quale i condannati al 4bis – il cosiddetto carcere duro – possano accedere ai benefici carcerari solo in caso di collaborazione con la giustizia. Secondo la Corte, questo automatismo è contrario alla finalità rieducativa della pena e il parlamento è chiamato a modificarlo.
La sentenza ha suscitato critiche in ambienti giudiziari e in particolare nella magistratura antimafia, che considera il carcere ostativo – previsto dalla legislazione di emergenza pensata da Giovanni Falcone – per i condannati al 41bis come ancora oggi lo strumento per contrastare il fenomeno mafioso.
La riforma, invece, prevede di eliminare l’automatismo e assegnare alla magistratura di sorveglianza una valutazione concreta caso per caso del profilo di ogni detenuto che non ha voluto collaborare, prendendo in considerazione il percorso carcerario e di dissociazione e l’opportunità di concedergli benefici carcerari.
Tuttavia, il rischio è che l’inattesa nomina del nuovo capo del Dap Renoldi crei nuovi ostacoli politici all’approvazione del ddl. Il testo e la nomina del relatore – il presidente del M5S della commissione Giustizia, Mario Perantoni – sono stati votati da tutti i partiti della maggioranza e anche da Fratelli d’Italia. Questa larga convergenza, però, potrebbe guastarsi proprio in seguito alla scelta di Renoldi.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
LA NOMINA DI RENOLDI. La nomina al Dap è il nuovo fronte dello scontro sulla giustizia. GIULIA MERLO su Il Domani l'01 marzo 2022
Lega, Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia considerano Renoldi troppo aperturista sulla riforma del carcere ostativo, lui scrive alla ministra per chiarire le sue posizioni: «vanno tenuti insieme strumenti come l’ergastolo con i principi del trattamento riaducativo»
La scelta del magistrato di Cassazione, Carlo Renoldi, al vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sta scatenando polemiche contro la ministra della Giustizia, Marta Cartabia.
Al centro dello scontro sono le posizioni del magistrato sull’ergastolo ostativo e l’antimafia, considerate inaccettabili da Movimento 5 Stelle, Lega e – dall’opposizione – da Fratelli d’Italia, che è arrivata a chiedere il ritiro della proposta di nomina.
Al centro della polemica ci sono alcune dichiarazioni di Renoldi, che nel corso di un dibattito sul carcere nel 2020 si è espresso in termini favorevoli alla modifica del 41 bis e ha criticato «l’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri», che ricorda solo la risposta repressiva e dimentica che «l’affermazione della legalità non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti».
Queste parole hanno suscitato la durissima reazione di un inedito asse tra Lega, Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia.,
I CONTRARI
I parlamentari M5S della commissione Antimafia hanno scritto che «La possibile nomina di Renoldi alla guida del Dap ci preoccupa e ci lascia interdetti» perchè «Al Dap crediamo che sia necessaria una figura che abbia come priorità la conservazione e la valorizzazione degli strumenti ideati dai nostri martiri, come Falcone, Borsellino, e molti altri, e che abbia massima attenzione per il difficile e massacrante lavoro della polizia penitenziaria. Basta con le picconate continue e inesorabili al 41bis».
Parole simili a quelle della responsabile Giustizia, Giulia Bongiorno, secondo cui «desta perplessità la scelta di affidare un incarico così delicato, anche per il messaggio che ne deriva, a chi ha assunto posizioni, anche pubblicamente, che hanno sollevato un vespaio di polemiche nel fronte dell'Antimafia».
Sulla stessa lunghezza anche Fratelli d’Italia, il cui responsabile Giustizia Andrea Delmastro ha chiesto che la ministra «ritiri la proposta di Renoldi a capo del Dap. Dopo le rivolte carcerarie che hanno devastato i nostri istituti, dopo le costituzioni di parte civile del Ministero contro gli agenti che hanno sedato le rivolte e mai contro i detenuti che hanno saccheggiato gli istituti penitenziari, manca solo la nomina a capo del Dap di un magistrato che ha sempre contrastato il carcere duro per i mafiosi per dare l'idea della resa della Stato».
IL MURO DEL MINISTERO
Fonti del ministero fanno sapere che la ministra non ha alcuna intenzione di tornare sui suoi passi su una nomina che, ricordano, è di tipo fiduciario. Il capo del Dap, infatti, è un dirigente di un dipartimento del ministero, la cui nomina passa attraverso il sì del consiglio dei ministri ma che è di appannaggio della Guardasigilli.
Tuttavia, Renoldi ha ritenuto di far pervenire una lettera a via Arenula, nella quale spiega meglio le sue posizioni e si rammarica delle polemiche in seguito alla pubblicazione delle frasi del convegno del 2020. «Nessuno, men che meno io, può avere intenzione minimamente di sottovalutare la gravità del dramma della mafia», costato la vita a tanti «servitori dello Stato e non ho mai messo in dubbio la necessità dell'istituto del 41bis». Però, ricorda Renoldi, la piaga della mafia non può «far dimenticare che in carcere sono sì presenti persone sottoposte al 41bis, ma la stragrande maggioranza è composta da altri detenuti. A cui vanno garantite carceri dignitose, come ci ha ricordato il capo dello Stato».
In materia di ergastolo ostativo ha ricordato poi che «le sentenze delle Alte Corti devono interrogarci su quali risposte dare e il Parlamento lo sta facendo, alla ricerca di una strada per tenere insieme uno strumento oggi ancora indispensabile, come l'ergastolo, e i principi dell'umanizzazione della pena e del trattamento rieducativo».
LE CONSEGUENZE
Lo scontro sulla nomina mette in luce un contrasto che continua a covare dentro la maggioranza.
La ministra Cartabia ha individuato in Renoldi, ex magistrato di sorveglianza e quindi conoscitore delle carceri e toga progressista di Magistratura democratica, un interprete della sua stessa visione del carcere.
Movimento 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia, invece, si sono saldati proprio nell’antagonismo forte alla riscrittura delle norme sul carcere ostativo, resa però indispensabile da una pronuncia della Corte costituzionale.
Il paradosso è che tutti i partiti si sono ritrovati nell’approvazione del mandato al relatore per portare in parlamento la riforma del carcere ostativo, mentre si sono divisi sulla nomina di un magistrato che proprio in questa riforma crede.
Quali siano le conseguenze concrete è difficile dirlo, ma potrebbero riguardare un rallentamento dell’approvazione della riforma in parlamento.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Facebook Movimento delle Agende Rosse.
1 marzo 2022 – In questo momento così tragico per la società civile internazionale e per l’umanità tutta, che si trova ad osservare impotente l’assenza della volontà, da parte di tutti i leader mondiali, di trovare un’alternativa alla violenza, ci troviamo costretti ad aprire una parentesi nazionale per denunciare una situazione la cui gravità può essere seconda solo ad una guerra.
La notizia, passata colpevolmente in sordina, che la Ministra della Giustizia (?) Marta Cartabia avrebbe scelto come nuovo direttore dell’amministrazione penitenziaria italiana il magistrato Carlo Renoldi ci lascia sconcertati.
Perché? Perché Carlo Renoldi è colui che ha esortato a “resistere” contro l'”armamentario schiettamente conservatore” che identifica nel principio della “centralità della vittima” (Assemblea “Il governo delle carceri”, Roma, 11 novembre 2014); è colui che critica l’antimafia “militante”, definendola “arroccata nel culto dei martiri” e accusandola di presentare il nemico (cioè il boss mafioso, ricordiamolo) “come irriducibile” (Convegno “Il carcere dopo Cristo nell’emergenza della pandemia”, 29 luglio 2020); è colui che è dichiaratamente ostile alla conservazione del 41-bis come strumento necessario per la salvaguardia della società tutta dal perpetrarsi del potere decisionale dei capimafia detenuti, i quali, prima dell’avvento del 41-bis, continuavano a comandare e a ordinare omicidi dal carcere. Prendiamo tristemente atto che, per Renoldi, lo studio nelle scuole del contributo di uomini come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone è portare avanti il “culto dei martiri”; prendiamo altresì atto che, per Renoldi, la pluridecennale giurisprudenza in materia di reati mafiosi, secondo cui l’affiliato rimane irriducibilmente mafioso fino alla sua morte o alla sua collaborazione con la giustizia, è sbagliata; ma, soprattutto, prendiamo tristemente e rabbiosamente atto che, per Renoldi, il legislatore non deve mettere al centro del suo operato la difesa della vittima. Evidentemente non è sufficiente che (giustamente, sia chiaro) Nessuno tocchi Caino, si deve anche mandare a morte Abele.
Che messaggio hanno deciso di mandare ai cittadini italiani la Ministra Cartabia e il Governo italiano? Vogliono forse comunicare che con la mafia si deve convivere? Hanno deciso di abiurare al loro giuramento di difendere i cittadini della nazione dal cancro mafioso? Se fosse così, pretendiamo che il Governo e la Ministra Cartabia si assumano la responsabilità di dichiararlo esplicitamente agli italiani e, soprattutto, alle vittime di mafia e ai loro familiari.
Salvatore Borsellino e il Movimento delle Agende Rosse
Carceri, la maggioranza si spacca sul giudice scelto da Cartabia per guidare il Dap. I 5 stelle: “Vuole allentare le regole per i boss detenuti”. Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano il 28 febbraio 2022.
Un pezzo della maggioranza contro la scelta della guardasigilli che vorrebbe Carlo Renoldi come nuovo capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Da giudice della Cassazione ha aperto ai colloqui su Skype per i mafiosi e ai colloqui dei garanti locali coi detenuti in regime di 41bis. I 5 stelle ricordano gli attacchi del magistrato "all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri". La Lega esprime "preoccupazione". Malumori anche tra alcuni dem e Forza Italia
Al Dap è favorito il giudice che vuole allentare il 41-bis
Carceri, il giudice scelto per guidare il Dap scrive a Cartabia: “Mie frasi equivocate”. Maria Falcone: “Attenuare 41bis? Segnale pericoloso”
I 5 stelle esprimono “perplessità” e parlano di un “fatto grave“. La Lega manifesta “preoccupazione” e persino il Pd lascia intravedere qualche malumore. L’ultima scelta di Marta Cartabia ha spaccato di nuovo la maggioranza del governo di Mario Draghi. Mentre l’attenzione è tutta focalizzata sulla guerra della Russia in Ucraina, la guardasigilli ha scelto il nuovo capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria: è Carlo Renoldi, consigliere della prima sezione penale della Cassazione, esponente di Magistratura democratica, cioè la corrente di sinistra delle toghe. Un magistrato che è stato relatore ed estensore di sentenze delicate, come quella che apriva ai colloqui via skype per i mafiosi detenuti al 41bis, il regime di carcere duro. Renoldi dovrebbe prendere il posto di Dino Petralia, che è andato in pensione anticipata, andando a guidare il Dap insieme a Roberto Tartaglia, attuale vicecapo dell’amministrazione penitenziaria.
“Certezza della pena? Mito reazionario” – I condizionali, però, sono obbligatori. Intanto perché non è detto che Tartaglia rimanga a fare il numero due del Dap ora che con il cambio del capo cambierà, molto probabilmente, tutta la politica della gestione delle carceri. Ma soprattutto perché il nome di Renoldi ha creato profonde tensioni nella maggioranza. Fibrillazioni destinate a durare: per far arrivare la nomina sul tavolo del Consiglio dei ministri, infatti, bisognerà aspettare il via libera del plenum del Csm, che non arriverà prima del 9 marzo. Dieci giorni in cui i partiti si faranno probabilmente sentire. A cominciare dai 5 stelle e dalla Lega. In queste ore, infatti, in molti hanno focalizzato la loro attenzione su alcuni video che riportano interventi di Renoldi contro il governo gialloverde. Il 9 febbraio del 2019, a un convengo a Firenze, aveva attaccato le riforme del primo governo guidato da Giuseppe Conte: “C’è un ritorno nel discorso pubblico del mito reazionario della certezza della pena, che è un punto fondamentale del programma del governo del cambiamento – aveva detto – Un mito che in questa narrazione diventa una sorta di evocazione identitaria che mira alla costruzione dell’identità del blocco politico e sociale”.
“Antimafia militante arroccata nel culto dei martiri” – Non sono le uniche dichiarazioni pubbliche che in queste ore sono tornate di attualità. Come ha raccontato al Fatto Quotidiano, già nel luglio 2020 il giudice aveva apprezzato i provvedimenti “epocali” della Consulta “che hanno riscritto importanti settori dell’ordinamento penitenziario”. Si riferiva alla sentenza che consentiva di concedere i permessi premio agli ergastolani ostativi, cioè i detenuti per reati di tipo mafioso o per terrorismo che non hanno collaborato con la magistratura. “Ha minato alle fondamenta i dispositivi di presunzione di pericolosità sociale che sono incentrati sull’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario”, diceva Renoldi. L’uomo che Cartabia vorrebbe al vertice del Dap è un convinto sostenitore dell’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, cioè la norma che vieta la liberazione condizionale dei boss irriducibili se non hanno collaborato con gli investigatori. “Ha acquisito alla dimensione del diritto convenzionale il principio della flessibilità della pena, del finalismo rieducativo con la conseguente incompatibilità con l’ergastolo ostativo”, diceva sempre due anni fa, ricordando che “a queste aperture sul piano normativo” sono seguite reazioni “abbastanza trasversali”. A chi riferiva? Proprio “al Dap e ad alcuni sindacati della polizia penitenziaria, ad alcuni ambienti dell’antimafia militante, ad alcuni settori dell’associazionismo giudiziario e anche ad alcuni ambiti della magistratura di Sorveglianza. Un Dap che in questi anni è rimasto profondamente ostile a quegli istituti che tentano di varare una nuova stagione di diritti ‘giustiziabili’ per le persone detenute”. Particolarmente contestati sono poi gli attacchi di Renoldi “all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti”.
Le sentenze: da Skype ai permessi per i mafiosi – È solo un pezzo del pensiero di Renoldi. Il resto si può trovare in alcune delle sentenze di cui è stato relatore ed estensore in Cassazione. Nel dicembre del 2018, per esempio, aveva aperto ai colloqui dei garanti locali – non solo quindi col garante nazionale ma pure quelli regionali e comunali – coi detenuti in regime di 41bis. Nell’agosto del 2020 Renoldi è relatore di una sentenza della Cassazione che apre ai colloqui via Skype anche per i detenuti pericolosi come Salvatore Madonia, killer di Cosa nostra. Nell’aprile del 2021 un’altra sentenza della sezione della Suprema corte di cui fa parte Renoldi condanna il divieto imposto dal Dap ai detenuti 41bis di acquistare gli stessi generi alimentari dei detenuti ordinari. Poi a ottobre un’altra decisione importante: aveva aperto ai permessi premio per i detenuti al 41bis, seguendo i recenti orientamenti della Consulta.
I 5 stelle: “Se nomina confermata è un fatto grave” – Insomma: a mettere insieme le sentenze firmate da Renoldi e le frasi pronunciate in pubblico si capisce perché i 5 stelle e la Lega siano contrari alla sua nomina al vertice del Dap. “Ci lasciano perplessi le indiscrezioni sul nuovo vertice del Dap alla vigilia dell’approdo in aula della riforma dell’ergastolo ostativo. Non per la persona ovviamente ma per le sue esternazioni che connoterebbero il capo del Dap per la sua disponibilità ad allentare le regole del carcere per i mafiosi e per quella sua critica all’antimafia ‘arroccata nel culto dei suoi martiri‘. Posizioni evidente troppo sbilanciate per una carica così delicata”, dice Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera e deputato del M5S. Secondo un altro 5 stelle come Vittorio Ferraresi, ex sottosegretario di via Arenula, la nomina di Renoldi “se fosse confermata sarebbe un fatto grave che mi lascerebbe senza parole. Renoldi, oltre ad aver improntato interventi in convegni contro il regime 41-bis e a favore di un suo gravissimo annacquamento, non ha risparmiato parole forti con attacchi frontali a forze politiche come il Movimento 5 Stelle e non solo, ha anche sminuito l’antimafia dei martiri”.
Le posizioni di Lega e Pd – Pure la Lega manifesta “preoccupazione” per la scelta del ministro Cartabia. “Ferme restando le indubbie capacità professionali del magistrato, desta perplessità la scelta di affidare un incarico così delicato anche per il messaggio che ne deriva, a chi ha assunto posizioni, anche pubblicamente, che hanno sollevato un vespaio di polemiche nel fronte dell’Antimafia”, dice Giulia Bongiorno, responsabile del dipartimento Giustizia del Carroccio. Persino il berlusconiano Maurizio Gasparri chiede a Renoldi di smentire “le dichiarazioni ostili ed offensive che ha rilasciato nel passato contro i sindacati del personale della polizia penitenziaria“. E se il Pd appoggia la decisione della guardasigilli, il deputato Walter Verini, ex responsabile giustizia del partito, sottoscrive una nota in cui definisce “un peccato” l’abbandono di Petralia: “Per quanto mi riguarda – aggiunge – mi auguro davvero che Roberto Tartaglia possa continuare a svolgere il suo prezioso ruolo anche con il nuovo responsabile Renoldi, in un clima di grande collaborazione con tutte le componenti dell’Ordinamento Penitenziario”. Un augurio che al momento non trova un riscontro. Tartaglia, infatti, non ha ancora fatto sapere se intende rimanere al Dap anche con la nuova gestione. Nel frattempo il presidente dell’Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, firma una nota in cui critica la scelta della guardasigilli e annuncia di stare “programmando iniziative di protesta affinché il governo adotti interventi di carattere straordinario per garantire l’incolumità del personale che lavora nelle carceri”. La nomina di Renoldi, insomma, rischia di creare fibrillazioni non solo all’interno della maggioranza ma pure all’interno dell’amministrazione penitenziaria.
Carceri, il giudice scelto per guidare il Dap scrive a Cartabia: “Mie frasi equivocate”. Maria Falcone: “Attenuare 41bis? Segnale pericoloso”. Il Fatto Quotidiano l'01 Marzo 2022.
Carlo Renoldi scrive alla guardasigilli per provare a spiegare le sue frasi pronunciate in un convegno del 2020 che hanno scatenato la polemica: "Nessuno, men che meno io, può avere intenzione minimamente di sottovalutare la gravità del dramma della mafia". La sorella del giudice ucciso nella strage di Capaci: "Qualunque tentennamento nell’applicazione delle norme sarebbe un segnale pericolosissimo che sarebbe interpretato dalle mafie come un pericoloso indice di debolezza". Salvatore Borsellino: "Che messaggio hanno deciso di mandare ai cittadini italiani la Ministra Cartabia e il Governo italiano? Vogliono forse comunicare che con la mafia si deve convivere?"
Carceri, la maggioranza si spacca sul giudice scelto da Cartabia per guidare il Dap. I 5 stelle: “Vuole allentare le regole per i boss detenuti”
Al Dap è favorito il giudice che vuole allentare il 41-bis
Il giudice scelto per fare il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria scrive alla ministra della giustizia. Una missiva in cui Carlo Renoldi si dispiace per le “polemiche che hanno accompagnato la pubblicazione di alcune frasi fraintese ed estrapolate da un incontro tenutosi nel 2020″. Il riferimento è a quanto pubblicato da Fatto Quotidiano e relativo a un convegno sul carcere organizzato a Firenze il 29 luglio 2020: il giudice sosteneva i provvedimenti “epocali” della Consulta “che hanno riscritto importanti settori dell’ordinamento penitenziario” e si congratulava per la sentenza che apriva ai permessi premio per mafiosi ergastolani che non collaborano, perché “ha minato alle fondamenta i dispositivi di presunzione di pericolosità sociale che sono incentrati sull’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario”. Poi aveva attaccato”l’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti”,
La lettera alla ministra: “Non era a conoscenza delle mie parole” – Parole che ovviamente hanno scatenato la polemica. Soprattutto dopo che Renoldi è stato designato al vertice del Dap, in sostituzione di Dino Petralia. Il magistrato tenta di gettare acqua sul fuoco scrivendo alla guardasigilli: “Illustrissima Signora Ministra, sento la necessità di scriverLe questa breve nota in relazione alle polemiche che hanno accompagnato la pubblicazione di alcune frasi fraintese ed estrapolate da un incontro tenutosi nel 2020, in occasione della commemorazione di Sandro Margara; polemiche di cui ovviamente mi dispiaccio, anche perché relative a considerazioni risalenti e di cui Lei, prima di oggi, non era certamente a conoscenza. Renoldi dunque sostiene che la guardasigilli non fosse a conoscenza di quel suo intervento. Possibile che il nome nel nuovo capo del Dap sia stato scelto senza prima verificare che posizioni avesse sul carcere duro? A leggere la lettera di Renoldi parrebbe di sì.
Il mea culpa del giudice – “In occasione di quel convegno, riflettevo sull’idea di carcere che, in particolare nel tempo della pandemia, vediamo affermarsi e, in generale, sull’idea di penalità che attraversa le società moderne. E in tale contesto, – cerca di spiegarsi Renoldi – ragionavo sulle pronunce della Corte costituzionale in materia di ergastolo ostativo”. Poi arrivano le frasi che spiegano il seguito del suo intervento, quello in cui attaccava “l’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri“. Il giudice allarga le braccia: “Nessuno, men che meno io, può avere intenzione minimamente di sottovalutare la gravità del dramma della mafia, costato la vita a tanti colleghi e servitori dello Stato. E non ho mai messo in dubbio neanche la necessità dell’istituto del 41bis, essenziale nel contrasto della criminalità organizzata, per recidere i legami tra il detenuto sottoposto al relativo regime e il contesto delinquenziale di appartenenza. Come emerge da sentenze a cui ho contribuito nella Prima sezione penale della Cassazione, in cui si sottolinea la necessità che le singole misure restrittive siano specificamente finalizzate a tale esigenza”.
“Mia frase si prestava a equivoci” – Quindi arriva il mea culpa: “E così, proprio nell’incontro in ricordo di Margara, rilevavo, con una frase che forse si prestava a equivoci – (e questo mi addolora: verso i nostri martiri ovviamente avvertiamo un sentimento di riconoscente reverenza) – come sia necessario avere una proiezione sul presente e sui gravissimi problemi che esso pone, in relazione al carcere”, spiega il giudice nella sua lettera alla Guardasigilli. “Sull’ergastolo ostativo, – prosegue – le sentenze delle Alte Corti devono interrogarci su quali risposte dare e il Parlamento lo sta facendo, alla ricerca di una strada per tenere insieme uno strumento oggi ancora indispensabile, come l’ergastolo, e i principi dell’umanizzazione della pena e del trattamento rieducativo. Papa Francesco dice: ‘qualsiasi condanna deve avere una speranza”. Infine il magistrato scelto per guidare il Dap prova a inviare un segnale di apertura ai sindacati di Polizia penitenziaria, dopo le roventi polemiche delle scorse ore. “Quanto, infine, alle parole sui sindacati della Polizia penitenziaria, il mio pensiero, espresso in più occasioni pubbliche, è che i diritti sindacali sono diritti fondamentali, ma che soprattutto quando riguardano soggetti istituzionali o che esercitano servizi essenziali, sia ancora più necessario superare ogni logica corporativa. Spero – conclude Renoldi – di avere fornito utili chiarimenti sulle mie posizioni e che, alla fine, le polemiche di cui sopra possano essere archiviate come frutto di un evidente fraintendimento”.
L’intervento di Maria Falcone e Salvatore Borsellino – In verità, però, la missiva di Renoldi sembra non bastare per sopire le polemiche: tutt’altro. Sul dibattito è intervenuta anche Maria Falcone, sorella del giudice ucciso nella strage di Capaci e presidente della Fondazione che del fratello porta il nome. “In merito alla discussione sulla nomina dei vertici del Dap mi auguro che nella lotta alla mafia, che vede nella tenuta del regime carcerario duro per i boss uno dei suoi cardini, non si arretri di un millimetro. Qualunque tentennamento nell’applicazione rigorosa di norme che sono costate la vita a uomini delle istituzioni come mio fratello sarebbe un segnale pericolosissimo che sarebbe interpretato dalle mafie come un pericoloso indice di debolezza”, dice la presidente della Fondazione. “Ringrazio quelle forze politiche che con forza ribadiscono la necessità di difendere un’applicazione rigorosa del 41 bis e le conquiste ottenute nella lotta contro Cosa nostra- continua la sorella di Giovanni Falcone – Il nostro Paese si accinge a celebrare il trentesimo anniversario delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, un anniversario di cui a parole tutti riconoscono l’importanza. Ci auguriamo che alle dichiarazioni seguano i fatti e che le istituzioni e la politica siano coerenti e dimostrino con azioni concrete il loro impegno contro le mafie”. Sulla questione è intervenuto anche Salvatore Borsellino, che dopo aver ricordato le frasi contestate di Renoldi, si chiede: “Che messaggio hanno deciso di mandare ai cittadini italiani la Ministra Cartabia e il Governo italiano? Vogliono forse comunicare che con la mafia si deve convivere? Hanno deciso di abiurare al loro giuramento di difendere i cittadini della nazione dal cancro mafioso? Se fosse così, pretendiamo che il Governo e la Ministra Cartabia si assumano la responsabilità di dichiararlo esplicitamente agli italiani e, soprattutto, alle vittime di mafia e ai loro familiari”, scrive il fratello del magistrato ucciso nella strage di via d’Amelio.
M5s: “Nome inadatto per il Dap” – Le polemiche non sembrano placarsi neanche sul fronte politico. Dopo le proteste dei giorni scorsi oggi i parlamentari dei 5 stelle in commissione Antimafia intervengono di nuovo sulla questione: “Crediamo che la massima attenzione debba essere rivolta alle vittime, a rafforzare il contrasto antimafia e non a dare benefici ulteriori a chi si è macchiato di reati che miravano a destabilizzare le istituzioni della Repubblica. Le garanzie per i detenuti esistono, così come esistono i benefici per coloro che decidono di collaborare e di abbandonare per sempre le compagini mafiose e i loro orrori”, scrivono in una nota. “Al Dap – aggiungono – crediamo che sia necessaria una figura che abbia come priorità la conservazione e la valorizzazione degli strumenti ideati dai nostri martiri, come Falcone, Borsellino, e molti altri, e che abbia massima attenzione per il difficile e massacrante lavoro della polizia penitenziaria. Basta con le picconate continue e inesorabili al 41bis”. Contrario alla nomina di Renoldi al Dap è anche Fratelli d’Italia, l’unico partito all’opposizione del governo. “Ci opporremo, anche nel culto dei martiri di mafia che tanto infastidiscono Renoldi, ad una nomina che rappresenterebbe un ulteriore cedimento alla cultura degli svuota carceri, dell’indulgenza senza sé e senza ma e che ancora una volta conferirebbe alla Polizia penitenziaria l’idea di essere abbandonata a sé stessa”, dice Andrea Delmastro, deputato e responsabile Giustizia del partito di Giorgia Meloni.
Renoldi, il segno che Cartabia vuol lasciare sul carcere. Con la nomina del magistrato definito “troppo garantista” da Lega e M5S, la guardasigilli compie una scelta chiara, destinata a pesare anche dopo la conclusione del suo mandato a via Arenula. Errico Novi su Il Dubbio l'1 marzo 2022.
Marta Cartabia ha compiuto una scelta. Non irrilevante, tutt’altro che causale. Ha individuato come futuro capo del Dap un giudice che proviene dalla magistratura di sorveglianza, Carlo Renoldi. L’attuale consigliere di Cassazione, in servizio alla prima sezione penale, vanta infatti nella propria vicenda professionale l’esperienza impegnativa e a volte dolorosa della giurisdizione sui diritti di chi è recluso.
Ha scatenato, la ministra, una tempesta di reazioni contrarie trasversali. Tutte hanno un punto in comune, nonostante siano espresse da settori così diversi e distanti del panorama politico: additano Renoldi come troppo garantista. Lo è al punto da aver espresso, dicono, posizioni tropo solidali con la condizione dei detenuti, e a volte critiche nei confronti dell’operato degli agenti.
Ma visto che un curriculum del genere non è immediatamente spacciabile come una colpa, alcuni, per esempio l’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, deputato della Lega, aggiungono: viene dalle file di Magistratura democratica, è un giudice di sinistra, ideologizzato. Si prova a dire che, insomma, Cartabia si sarebbe sbilanciata politicamente. Non una scelta sui diritti, ma sul colore delle bandierine.
Non sembra una critica solida. Innanzitutto perché mette insieme forze politiche e voci troppo distanti tra loro per non far pensare che invece la vera colpa di Renoldi sia proprio la vicinanza ai diritti dei reclusi. Il Movimento 5 Stelle, per esempio, che non esattamente un partito di destra, si trova su una linea simile a quella di Morrone, e ieri ha inondato le agenzie con comunicati addirittura di allarme per la scelta di un magistrato cosi favorevole alle garanzie.
Poi pero il capogruppo di FI in commissione Giustizia alla Camera Pierantonio Zanettin, che viceversa difficilmente può essere confuso con un nostalgico della Terza Internazionale, plaude alla scelta della guardasigilli, così come fa il Pd compatto. E allora: c’è qualcosa che non va? No semplicemente stavolta si è aperta una faglia trasversale nella politica giudiziaria. Una frattura che attraversa il campo da destra e sinistra e divide chi è più attento alle garanzie e ai diritti e chi invece pensa che, in fatto di carcere, vengano sempre e comunque prima il rigore, la restrizione, il controllo, poi il resto.
Cartabia ha fatto una scelta chiara. Si è schierata. Renoldi, ricordiamolo, non è ancora destinatario di una nomina, per lui è stata solo chiesta al Csm l’autorizzazione al collocamento fuori ruolo. Ma sin da ora si può dire che siamo davanti a una di quelle scelte destinate a lasciare un segno, a restare, anche dopo che il governo e la guardasigilli avranno concluso il loro mandato.
La ministra fa capire che su una cosa intende orientare il futuro della giustizia anche al di là della propria personale presenza a via Arenula: si tratta del carcere appunto, della possibilità che il nostro Paese lo organizzi e concepisca secondo principi di umanità, sull’esigenza di uscire da quella che i radicali definiscono illegalità conclamata. In altre parole, un sistema penitenziario rispettoso della Costituzione.
Una sfida difficile. Che, come le note delle ultime 48 ore lasciano intendere, dovrà fare i conti con molti avversari. Ma vale la pena scatenare qualche attrito. Il diritto alla speranza e alla dignità di molte migliaia di persone chiuse in una cella ha già ceduto troppe volte il passo alla politica degli slogan.
La biografia. Chi è Carlo Renoldi, il nuovo capo del Dap voluto dalla Cartabia. Redazione su Il Riformista il 5 Marzo 2022.
Carlo Renoldi ha 53 anni, è originario di Cagliari, è stato magistrato penale e poi di sorveglianza nella sua città. Ora è consigliere di Cassazione. Non ha mai cercato la ribalta mediatica, è poco noto fuori dalla cerchia interna alla categoria. Tra i suoi riferimenti e maestri c’è Alessandro Margara, che fu capo del Dap, ispirò la riforma Gozzini (la più liberale della storia italiana) ed è passato alla storia perché trattava i detenuti come uomini con diritti. Il suo era un “carcere dei diritti”. Sia dei detenuti, sia degli agenti.
«Sono per un carcere costituzionalmente compatibile. Un carcere dei diritti, in cui però siano garantite le condizioni di sicurezza», ha scritto recentemente lo stesso Renoldi. A rendere quantomeno divisivo il profilo di Renoldi, ci sono anche le sue prese di posizione, oltre che sul tema dell’ergastolo ostativo, sul tema dell’antimafia e della gestione del carcere. In un convegno nel capoluogo toscano nel 2020, ha parlato della sua idea di Dap, spiegando che «che in questi anni è rimasto profondamente ostile a quegli istituti che tentano di varare una nuova stagione di diritti “giustiziabili” per le persone detenute. Un atteggiamento miope di alcune sigle sindacali che declinano ancora la loro nobile funzione in una chiave microcorporativa».
Nella stessa sede è stato molto critico anche su alcune posizioni interne all’antimafia in materia di carcere: «Pensiamo all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti».
Il ritratto di Carlo Renoldi, il capo del Dap scelto da Cartabia. Carlo Renoldi è allievo di Alessandro Margara, l’ispiratore della riforma penitenziaria, il magistrato "che trattava i detenuti come uomini". Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'1 marzo 2022.
La ministra della giustizia Marta Cartabia, con l’indicazione di Carlo Renoldi come nuovo capo del Dap, continua la tradizione che vuole un magistrato al vertice dell’amministrazione penitenziaria, ma con questa scelta riprende quello che fu un cammino interrotto bruscamente nel ’ 99 dall’allora guardasigilli Oliviero Diliberto con l’amministrazione guidata da Alessandro Margara, l’ispiratore della riforma penitenziaria, il magistrato “che trattava i detenuti come uomini”.
Carlo Renoldi, nato a Cagliari il 1969, oggi giudice della prima sezione penale della Cassazione, è un magistrato che ha tra i suoi maestri proprio Margara. Iscritto alla corrente di Magistratura democratica, non a caso è stato componente dei tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dall’allora ministro Andrea Orlando. Attraverso le sue pubblicazioni, ha contribuito al dibattito sull’affettività in carcere, auspicato una rivisitazione della nostra legislazione penale sulle droghe. Da consigliere della Cassazione ha contribuito a emanare provvedimenti che vietano tutte quelle misure afflittive del 41 bis che sono un surplus rispetto al suo scopo originario. Non sono azioni che ammorbidiscono il cosiddetto carcere duro, come affermano i suoi prevedibili detrattori che approfittano dell’informazione distorta. In realtà si tratta del pieno rispetto della ratio di questa misura differenziata che sulla carta dovrebbe avere un solo unico scopo: vietare ai boss mafiosi di veicolare all’esterno ordini al proprio gruppo di appartenenza criminale. Nient’altro.
Il magistrato Renoldi ha anche una idea ben precisa di come debba funzionare l’esecuzione penale. Una idea che ovviamente rispecchia la visione della ministra Cartabia, ovvero quella dettata dalla nostra carta costituzionale.
Contesta, basti sentire i suoi interventi registrati su Radio Radicale, quello che definisce un “mito reazionario”, ovvero la retorica della certezza della pena, quella che da una certa parte politica, anche trasversale, la declina in «no a sconti della pena, no alla prescrizione che viene rappresentata come uno strumento – ha detto Renoldi durante un convegno in Toscana del 2019 – che consente ai delinquenti di sottrarsi alla giusta sanzione, e poi in materia di ordinamento penitenziario l’impegno a fare sì che chi sbaglia la debba pagare in carcere senza benefici».
Renoldi, in quell’interessante dibattito, ha ricordato che uno dei cavalli di battaglia intrapresi da Alessandro Margara era la “flessibilità della pena”, un principio che è stato costituzionalizzato con la sentenza della Consulta del 1974 sulla liberazione condizionale. Interessante quando il magistrato Renoldi non parla di disobbedienza, ma di «obbedienza costituzionale» che si può realizzare attraverso una rete composta da magistrati e avvocati.
Il richiamo è sempre quello: i valori della nostra costituzione.
Ed è questa l’affinità con la visione della ministra Marta Cartabia. Ma finisce qua. Non sarà certo il capo del Dap a riformare il sistema penitenziario. Ricordiamo che il compito dell’amministrazione penitenziaria è quello di provvedere a garantire l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari, lo svolgimento dei compiti inerenti all’esecuzione della misura cautelare della custodia in carcere, delle pene e delle misure di sicurezza detentive, delle misure alternative alla detenzione. Tutti aspetti difficili e complessi, per questo ci vuole competenza e non una visione riduttiva come hanno taluni magistrati sponsorizzati dai detrattori di Renoldi.
Sicuramente il compito non sarà facile. Ci sono numerose criticità che stanno diventando insostenibili sia per i detenuti che per gli agenti penitenziari.
Non a caso, Gennarino De Fazio, il segretario Generale della Uilpa, plaudendo la possibile nuova nomina, ha rivolto l’ennesimo appello alla guardasigilli affinché vari un decreto- legge necessario per i provvedimenti immediati e si approvi una legge delega per la reingegnerizzazione del sistema d’esecuzione penale, la rifondazione del Dap e la riorganizzazione del Corpo di polizia penitenziaria.
Il nuovo capo del Dap. Renoldi a capo del Dap, gli avvocati ci sperano: “Segnale importante”. Riccardo Polidoro su Il Riformista l'1 Marzo 2022.
Il Ministro della Giustizia Marta Cartabia, nell’indicare il nome da proporre come capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, resta nel solco già tracciato in passato: un magistrato. L’importante, e rilevante novità, è quella che il togato non è un pubblico ministero e soprattutto non ha un passato nella Direzione Antimafia. Carlo Renoldi, il prescelto, è attualmente giudice della I sezione penale della Cassazione ed è stato magistrato di Sorveglianza a Cagliari.
Più volte ha dichiarato di avere come guida nel suo lavoro il collega Alessandro Margara, autore della riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, che ha fatto prevalere l’aspetto rieducativo su quello punitivo della sanzione, secondo i principi scolpiti nella Costituzione del 1948. Un nome, dunque, in linea con le dichiarazioni pubbliche che il Ministro ha fatto sin dall’inizio del suo mandato: un carcere diverso, non in contrasto con la nostra Carta. Immediatamente i professionisti dell’Antimafia hanno fatto conoscere il dissenso sulla scelta. La loro “voce” quotidiana ha titolato sul sito: «Al DAP è favorito il giudice che vuole allentare il 41 bis» e ancora «Renoldi si scaglia contro l’Antimafia ed è contrario all’ergastolo ostativo». Nell’articolo poi anche la critica, imbarazzante quanto intollerante, ad alcuni interventi del designato che elogiavano i provvedimenti della Corte Costituzionale sull’esecuzione della pena.
Tutto lascia, dunque, intravedere un dibattito politico serrato sull’indicazione del Ministro della Giustizia, in quanto la nomina dovrà essere deliberata dal Consiglio dei Ministri e poi perfezionata con decreto del Presidente della Repubblica. In un Governo, che vede la presenza della Lega e del Movimento 5 Stelle, partiti che hanno fatto del carcere duro uno dei loro principali cavalli di battaglia, il passaggio non sarà affatto semplice. I così detti “giustizialisti” – termine abusato e affatto idoneo a descrivere coloro che di giustizia hanno un concetto del tutto personale e fuori da ogni canone giuridico – si batteranno per avere a capo del Dipartimento l’ennesimo magistrato inquirente proveniente dalle fila dell’Antimafia, gli unici, a loro avviso, a poter sovrintendere all’amministrazione penitenziaria, come se nelle nostre carceri ci fossero solo mafiosi. Eppure, proprio a questi ultimi – con l’eccezione dei pochissimi irriducibili capi, che si contano sulle dita di una mano – più di ogni altro, dovrebbe essere destinato il trattamento rieducativo previsto dall’articolo 27 della Costituzione.
Un percorso di responsabilizzazione personale che la vita probabilmente non gli ha offerto, per essere nati in contesti criminali che non hanno dato loro la possibilità di altre scelte. Lo Stato deve mostrare le proprie capacità ad offrire altre chances a tutti i detenuti, anche a quelli condannati per reati associativi. Le strade percorse in passato – peraltro spesso in violazione di legge – sono state perdenti ed è giunta l’ora di quel cambio di passo, di quella rivoluzione culturale che, da tempo, i giuristi – e tra questi in prima fila, tra gli altri, gli avvocati dell’Unione Camere Penali – attendono. L’augurio è che il presidente del Consiglio Mario Draghi sappia, anche in questo caso, mettere in riga gli oppositori all’indicazione del nome prescelto. La nostra speranza è che egli ricordi le parole pronunciate al carcere di Santa Maria Capua Vetere – dove accorse insieme al Ministro della Giustizia – dopo la mattanza subita dai detenuti da parte di alcuni componenti la Polizia Penitenziaria: «Siamo qui ad affrontare le conseguenze delle nostre sconfitte. Venire qui oggi significa guardare da vicino, di persona per iniziare a capire».
Ed è giunto speriamo il momento di capire che una nuova modalità di gestire l’esecuzione penale è possibile. La legge in parte la indica già e la riforma dell’ordinamento penitenziario, scritta ma ignorata, dopo gli Stati Generali, l’ha perfezionata. Un capo dell’amministrazione che abbia come bussola, nel suo navigare, la Costituzione è un elemento imprescindibile. Sappiamo che la scelta fatta dal Ministro va in questo senso e ci auguriamo che la nomina si realizzi. Se ciò avverrà, saremo solo all’inizio di un’ennesima non facile battaglia, come senz’altro sa bene il designato. Potrà contare sul sostegno di noi tutti, inguaribili difensori della giustizia, quella autentica. Riccardo Polidoro
E' già partito il fuoco di sbarramento. “Al Dap vogliamo un aguzzino”, assalto di Travaglio e della Lega alla Cartabia. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Marzo 2022.
La ministra Cartabia ha scelto il successore di Dino Petralia alla guida del Dap. Il Dap è il dipartimento del ministero che si occupa di carceri. Il capo del Dap è una figura molto importante, perché è lui che detta le linee della politica carceraria. E la politica carceraria, in un paese moderno, è il termometro della civiltà: tanto più è una politica democratica, costruita sulla difesa dei diritti – e non sul mito della punizione, della ferocia, della vendetta – tanto più il grado della civiltà è alto. E viceversa.
La ministra Cartabia ha scelto come successore di Petralia un magistrato molto esperto e del quale tutti riconoscono le capacità, la cultura e l’alto livello professionale. Si chiama Carlo Renoldi. È un consigliere di Cassazione ma è stato per molti anni giudice di sorveglianza. Cioè è un magistrato che le carceri le conosce bene. In passato il capo del Dap è stato spesso un Pm, cioè un professionista privo di esperienza nel campo della politica penitenziaria. La notizia della scelta di Renoldi ha suscitato allarme e protesta in alcuni settori della magistratura, i quali hanno subito chiesto e ottenuto l’intervento dei partiti reazionari presenti e maggioritari in Parlamento. I quali hanno risposto abbastanza in fretta all’appello. Il primo a far squillare le trombe è stato il capo vero dei 5 Stelle, Marco Travaglio – che ormai credo che tra i grillini sia riconosciuto come l’unica autorità pensante – il quale ha scagliato il suo giornale contro Renoldi. Il “Fatto” ha spiegato che Renoldi è contro l’ergastolo ostativo, contro il 41 bis, contro Falcone e Borsellino contro l’antimafia. Può un personaggio così border-line assumere un incarico tanto delicato?
Vediamo intanto se le accuse del “Fatto” sono accuse vere. Renoldi, come tutte le persone che studiano e amano il diritto, non ama l’ergastolo ostativo per una ragione essenziale: perché è una misura che viola in modo evidente la Costituzione. E Renoldi più volte e in modo un po’ sfacciato si è dichiarato, effettivamente, favorevole alla Costituzione. Renoldi non ama particolarmente neanche il 41 bis (cioè il carcere duro), anche se – a differenza dei garantisti totali, come per esempio i radicali ma anche, nel nostro piccolo, noi del Riformista – non chiede di abolirlo ma pensa solo che vada mitigato. Renoldi ha sempre detto che nelle carceri bisogna bilanciare le esigenze della sicurezza con le esigenze del diritto, e per bilanciarle non si può permettere che le esigenze della sicurezza schiaccino il diritto.
Non è vero neppure che Renoldi disprezzi Falcone e Borsellino. Tutt’altro. Le frasi che Travaglio e i suoi gli imputano sono quelle nelle quali Renoldi descrive l’ottusità dell’antimafia professionale (che non è lotta alla mafia, è semplicemente retorica antimafia). E spiega che usare la retorica dei “martiri dell’antimafia” (che pure, precisa, vanno giustamente celebrati) per scagliare il loro sangue contro i diritti, e chiedere pene esemplari, non è una cosa molto bella. Il richiamo di Travaglio, comunque, ha funzionato immediatamente. Domenica si sono pronunciati uno a uno moltissimi parlamentari Cinque Stelle. Poi è partita lancia in resta la Lega, che ha speso persino il nome della sua avvocata di riferimento, Giulia Bongiorno. Chiedendo di rinunciare alla nomina di Renoldi e di mettere a quel posto un tipo tosto, in linea col populismo reazionario (finalmente riunificato, dopo la ferita del Papete) di Lega e travaglini.
Il ragionamento è semplice: le carceri sono luogo di punizione e dunque devono essere il più possibile infernali. Il capo delle carceri deve essere un aguzzino, guai se quell’incarico finisce nelle mani di un liberale. La Costituzione può tranquillamente essere usata se serve a polemizzare con Berlusconi o con Renzi, ma certo non va accettata per i principi folli e modernisti e volterriani, che, se presi sul serio, finiscono con l’annientare lo Stato etico e col mettere nell’angolo la magistratura di trincea, impapocchiandola con la storia insopportabile dei diritti, della necessità delle prove, e persino con il ruolo degli avvocati. Cartabia ora avrà il coraggio di prendere a schiaffo Lega e travaglini? Non ci resta che sperare
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
"La Costituzione è una cosa complicatissima". Renoldi al Dap, il magistrato contro la tortura indigna Travaglio e Bongiorno: “In carcere aguzzino, detenuti vanno stangati”. Redazione su Il Riformista il 28 Febbraio 2022.
Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista, commenta le polemiche sulla nomina del nuovo capo del Dap e dello scandalo che questa ha suscitato nei partiti reazionari in parlamento.
Bisogna nominare il nuovo capo del Dap, cioè del dipartimento delle carceri. La persona che le deve amministrare in Italia, a occuparsi di come funzionano, a occuparsi che la legge sia rispettata, a occuparsi del sovraffollamento. Di tutto. È il capo. Il vecchio è andato in pensione e il ministro Cartabia ha in mente un nome: un giudice di sorveglianza che si chiama Carlo Renoldi. Dicono tutti che sia un giudice molto molto bravo che conosce molto bene le prigioni perché ha fatto il giudice di sorveglianza quindi è stato a contatto con le questioni carcerarie. Generalmente scelgono dei pubblici ministeri che non sanno nulla di carceri, ovviamente.
Loro mandano la gente in prigione, ma non è che amministrano le prigioni. Questa volta invece è stata fatta la scelta di un giudice di sorveglianza, poi l’ideale sarebbe che non sia un magistrato. Non sta scritto da nessuna parte che lo debba essere. La Cartabia ha scelto un magistrato ancora una volta, però dicono tutti molto bravo, molto serio, che conosce bene la Costituzione e la rispetta. È contro il carcere duro, contro alle esecuzioni di pena eccessivamente severe, sta molto attento sul 41bis, sugli isolamenti. Ha l’idea che la prigione debba essere un luogo di rieducazione e non di tortura, anche perché, appunto, ha letto la Costituzione il giudice Renoldi.
Voi sapete che nel parlamento italiano esistono parecchi partiti reazionari, questo li ha scandalizzati. In particolare il partito della Lega e il partito di Travaglio. Insomma, come si chiama, i cinquestelle diciamo. Travaglio ha suonato la tromba per primo, ha scritto sul Fatto Quotidiano: “Guardate che stanno per fare capo del Dap un magistrato che vorrebbe applicare la Costituzione. Siamo impazziti? Sono prigioni o no? – dice Travaglio – Le prigioni chi le deve dirigere? Da che mondo è mondo un aguzzino, non certo un liberale”.
La cosa ha generato molti consensi. Ieri a seguito dello squillo di tromba del loro capo tutti i parlamentari cinquestelle si sono precipitati a dichiarare: “No, no! Renoldi mai! Non possiamo pensare che un liberale vada a dirigere le prigioni, sarebbe a fine dell’ordine pubblico in Italia”, e ora è arrivata anche la Lega e addirittura una dichiarazione l’ha fatta un avvocato molto importante come Giulia Bongiorno che ha detto: “Noi siamo garantisti fino a un certo punto, poi quando si va in prigione si va in prigione. Vanno stangati!”.
L’Italia è cosi, purtroppo. La battaglia non solo garantista, la battaglia liberale, la battaglia per la difesa della Costituzione è una cosa complicatissima. Una parte consistente, forse maggioritaria delle forze politiche, intellettuali, della magistratura, in Italia sono forze fortissimamente reazionarie. Precedenti all’illuminismo. Perché ritengono che bisogna soprattutto punire, che le carceri siano un luogo da affidare agli aguzzini e che la Costituzione sia stato un clamoroso errore da correggere.
Verbali Amara, chiesta la condanna a sei mesi per il pm Storari. La procura di Brescia ha invocato una condanna a sei mesi di carcere per il pm di Milano Paolo Storari accusato di aver rivelato notizie coperte dal segreto istruttorio. Il Dubbio il 17 febbraio 2022.
Condannare a sei mesi il pm di Milano Paolo Storari, imputato per rivelazione del segreto d’ufficio per aver consegnato nell’aprile 2020 dei verbali segreti sulla presunta loggia Ungheria all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. E la richiesta pronunciata dai pm di Brescia Donato Greco e Francesco Milanesi nell’udienza con rito abbreviato che si celebra a porte chiuse.
Per i rappresentanti della pubblica accusa il sostituto procuratore milanese, che con la sua condotta potrebbe aver leso l’immagine della magistratura, non avrebbe rispettato il vincolo di riservatezza e «violando i doveri inerenti alle funzioni rivestite rivelava notizie di ufficio che dovevano rimanere segrete, rivelava il contenuto di atti coperti dal segreto istruttorio», consegnando a Davigo, copia in formato word dei verbali di cinque interrogatori (tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020) resi dall’avvocato Piero Amara, persona sottoposta a indagine, nel procedimento su una presunta loggia segreta di cui avrebbero fatto parte magistrati e varie personalità. Ora la parola passa alla difesa.
Prima la galera. L’inquietante sintonia di Letta e Meloni contro il referendum sulla carcerazione preventiva. Carmelo Palma su su L'Inkiesta il 23 febbraio 2022.
Sia il segretario dem che la leader di Fratelli di Italia vogliono mantenere la pena anticipata come deterrente per i reati che fanno paura ai rispettivi elettorati: corruzione, evasione fiscale a sinistra, spaccio e immigrazione a destra. Il partito unico delle manette è più forte che mai.
I referendum sulla giustizia sono stati privati del pezzo più pregiato, in termini simbolici e propagandistici, quello sulla responsabilità civile diretta dei magistrati. E la sentenza – possiamo dire in attesa delle motivazioni – pare contraddire in modo abbastanza evidente la precedente giurisprudenza della Corte.
Nel 1987, infatti, dal Palazzo della Consulta venne ammesso il cosiddetto Referendum Tortora, che richiedeva esattamente quanto proposto dal referendum dichiarato pochi giorni fa inammissibile dal Presidente Giuliano Amato, in una conferenza stampa tanto incazzosa, quanto irrituale.
Al di là del latinorum costituzionalistico, che in materia referendaria per molti ha da tempo superato il confine dell’arbitrarietà giuridica e della parzialità politica, rimane comunque il fatto che cinque referendum su sei sulla giustizia siano sopravvissuti all’oracolare responso della Corte.
È un risultato, in ogni caso, quantitativamente ragguardevole, anche se qualitativamente modesto, considerando che a essere stati bocciati sono stati proprio i referendum su cui, stando anche al sondaggio più recente, si sarebbe riversato il maggiore consenso popolare (eutanasia, droghe leggere, responsabilità dei magistrati), neutralizzando un più che possibile boicottaggio astensionistico.
Ammettiamo pure che il sospetto per la fortunosa coincidenza sia dovuto al pregiudizio di un profano, digiuno del sapere iniziatico che la Corte distilla in materia referendaria e che si allontana sempre abbastanza fortemente dalla mera applicazione dei criteri previsti dall’articolo 75 della Costituzione.
Ammettiamo però anche che, tutto sommato, i referendum superstiti saranno utili, se non per avviare la riforma di una giustizia sequestrata dalle minacciose gelosie corporative di una magistratura ben oltre l’orlo di una crisi di nervi e di identità, almeno per catalogare quale sia oggi in Italia il vero bipolarismo in materia di giustizia (e non solo) e quanto poco si attagli a quel simulacro di bipolarismo politico che dovrebbe opporre, in teoria, come una alternativa, centro-destra e centro-sinistra, e che in pratica giustappone e affianca, anche sui temi della giustizia, come mere varianti, gli uguali e contrari populisti e sovranisti, i davighiani rossi e quelli bruni, i fanatici della galera per i colletti bianchi e per i corruttori e gli esaltati della galera per gli invasori neri e per gli spacciatori.
Sul referendum in materia di giustizia più significativo e impopolare – quello sui limiti alla custodia cautelare – la posizione di Enrico Letta e quella di Giorgia Meloni non sono opposte, ma identiche. Entrambi concedono che su questo tema si siano consumati intollerabili abusi, ma ritengono inammissibile che il ricorso alla custodia cautelare, motivato dal rischio di reiterazione del reato, possa valere solo per i reati violenti, di sangue, di mafia o di criminalità organizzata.
Pensano al contrario che debba rimanere a costituire la deterrenza necessaria per i reati cui maggiormente si legano i disturbati immaginari simbolici dei rispettivi elettorati: corruzione, evasione fiscale e malversazioni assortite a sinistra; spaccio, immigrazione e microcriminalità a destra.
L’idea di non potere promettere una dose di galera anticipata ai nemici del popolo non lascia tranquilli i due più strenui alfieri del bipolarismo all’italiana. E non sorprende che anche il Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte sia della partita. Del resto, il matrimonio tra Letta e Conte non è di interesse, ma di amore, di corrispondenza di appassionati sensi per quel momento magico del circo mediatico-politico che è la comunicazione e il commento di un arresto eccellente.
Non è evidentemente un caso che le forze politiche più propense a mantenere pene anticipate – che colpiscono persone innocenti, cioè non ancora condannate in via definitiva e questo vale anche per il decreto Severino – siano proprio quelle che oggi potenzialmente si contenderebbero Palazzo Chigi. Il che conferma che populisti e sovranisti sulle libertà personali, sulle garanzie processuali, sul diritto di difesa e sulla presunzione di innocenza la pensano esattamente allo stesso modo, anche se prestano un volto diverso – per allure, status sociale e censuario, passaporto e magari pigmento – al colpevole designato a finire esemplarmente in ceppi prima della sentenza definitiva, per soddisfare l’ansia anticipatoria di giustizia della brava gente.
Le convergenze parallele di Letta e Meloni attestano insomma che, nella politica italiana che conta, la galera non è una delle forme di esecuzione della pena, ma rimane la vera sineddoche della giustizia e il partito unico delle manette e del populismo penale è ben più forte delle presunte differenze tra destra e sinistra.
Le derive giustizialiste del populismo. Marco Gervasoni il 21 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Sarebbe miope considerare patrimonio di un partito la campagna referendaria sulla giustizia. Sarebbe miope considerare patrimonio di un partito la campagna referendaria sulla giustizia. Non sono i referendum della Lega e neanche del centrodestra: sono un'occasione unica per rendere il nostro paese un po' meno anormale. Una giustizia equilibrata preme a tutti, anche ai cittadini di sinistra: si tratta insomma di una questione che supera le divisioni partitiche, o almeno dovrebbe. Ribadito questo, ha ragione Salvini quando afferma che i referendum sono anche una via per fornire una nuova identità al centrodestra. È una questione che riguarda il passato del paese da un lato e il futuro dei moderati che, ricordiamolo, sono pur sempre, e da sempre, la maggioranza degli italiani. Per quanto riguarda il passato, la vittoria referendaria consentirebbe di chiudere con un passato che non passa, con una sorta di dopoguerra: laddove il conflitto fu Mani pulite, cioè la distruzione di un sistema politico a cui sono seguiti, a parte brevi parentesi, anni di caos. La Seconda Repubblica, poiché nata sui patiboli di una «falsa rivoluzione», come la chiamava Bettino Craxi, come tutti i regimi nati da un atto violento, non poteva che essere instabile. Se Mani pulite intendeva ridurre il livello di corruzione politica, in realtà i decenni successivi ne hanno visto un aumento. Segno che la corruzione non poteva e non può essere eliminata solo sottomettendo la politica alla magistratura, come è avvenuto con l'eliminazione dell'immunità parlamentare e soprattutto con la legge Severino. Il problema della politica e dei partiti è che faticano a reclutare classe dirigente all'altezza: e su questo la cappa giustizialista non solo non ha posto rimedio, ma ha peggiorato la situazione. La battaglia referendaria riguarda però anche il futuro del centrodestra. Se esso continuerà a esistere, o sarà garantista o non sarà. Sarebbe una sorta di «ritorno al futuro», perché questo era il centrodestra quando Berlusconi ne era il leader. Poi è stato investito da un'ondata populista che ne ha ridotto il profilo liberale e garantista. Il populismo è infatti giustizialista per sua natura: del resto, uno dei padri del populismo era Peron e il movimento peronista si chiamava «giustizialismo» non per caso (anche se non riguardava solo la magistratura). Abbandonare il giustizialismo e recuperare un garantismo liberale totale vuol dire al tempo stesso liberarsi del populismo. Che è una sorta di sostanza stupefacente: droga i consensi, i sondaggi, i like, magari anche i voti reali, ma poi disintegra la cultura di governo: le vicende dei 5 stelle e in parte della Lega dovrebbero ammaestrare. Chi vuole un centrodestra in grado invece di governare un paese occidentale, non potrà quindi che sostenere i referendum: e sostenerli tutti. Marco Gervasoni
Sinistra contro la libertà di scelta, perché gli ex comunisti odiano il voto popolare. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 21 febbraio 2022.
La sinistra comunista, che in Italia è come dire la sinistra punto e basta, perché in pratica non ce n'è mai stata un'altra, si è sempre dimostrata fondamentalmente avversa al referendum. Anche quando infine ha aderito a qualche iniziativa referendaria, sempre l'ha fatto malvolentieri, e mai con convinzione ma solo per il timore che l'esperimento di voto potesse altrimenti favorire il concorrente di potere.
Quest'avversione del comunista al referendum dipende dal suo rapporto disturbato con la verità, dalla diffidenza che egli nutre nella sua propria capacità di convincere gli altri con mezzi diretti e leali, infine dalla sua esigenza di non concedere al popolo, innanzitutto il proprio popolo, possibilità di espressione che non sia quella di ripetere il libretto rosso mandato a memoria obbligatoriamente. Il comunista teme il referendum per ragioni di metodo prima che di merito, perché il referendum destituisce di simboli e di retorica l'urna del voto e perturba il vincolo di mediazione che per ogni partito politico è importante ma che per l'organizzazione comunista deve essere indefettibile.
Non a caso, condividendo una pratica diffusa ma esercitandovisi con scienza ineguagliata, l'apparato comunista è quello che più ha confidato sull'astensione, istigando i cittadini a non esprimersi e, appunto, colorando ideologicamente i quesiti ("reazionari", "antipopolari", "piccoloborghesi") così da non lasciarli denudati di quella retorica alla vista dei cittadini. Se poi il referendum è in argomento di giustizia, allora la ripulsa comunista è anche più forte perché - come in ordine a tutti i comparti del potere pubblico, ma tanto più nel caso di quello giudiziario - il comunista non rappresenta i cittadini nello Stato, ma lo Stato a fronte dei cittadini: e quando lo Stato accusa, quando giudica, il comunista deve stare dalla propria parte, che è la parte dello Stato a prescindere dal fatto che accusi fondatamente e giudichi giustamente.
La riforma giustizia. Toghe “girevoli”: la stretta è un colpo alla giustizia show. Alberto Cisterna su Il Riformista il 22 Febbraio 2022.
C’è un punto del pacchetto Cartabia che può contare su un percorso tutto sommato tranquillo in Parlamento e questo è quello che rende più stringente il divieto delle cosiddette porte girevoli. La regola è chiara: chi si candida o viene eletto non potrà più rientrare nella giurisdizione attiva. Praticamente appenderà al chiodo la toga e andrà, a occhio e croce, a sbrigare pratiche amministrative al ministero della Giustizia. Sia chiaro mica un dito in un occhio: ci sono toghe che implorano di finire in un qualunque ministero per occuparsi – a stipendio intatto se non aumentato – di pratiche amministrative.
Pur di sfuggire al tormento delle aule e alla fatica del lavoro giudiziario, ci sono file di aspiranti al cosiddetto “fuori ruolo” che farebbero di tutto per farsi distaccare nei più sperduti uffici dell’amministrazione pubblica. Quasi quasi conviene candidarsi, pur senza alcuna speranza, e così tirarsi fuori dall’impiccio delle sentenze o dei turni di procura della Repubblica. Naturalmente è una piccola provocazione, ma solo per capire che non è mica che la politica sta con il “gatto a nove code” in mano a frustare le toghe; male che vada per qualcuno finisce meglio.
Poi ci sono le questioni ideologiche, le ricadute ordinamentali, l’articolo 51 della Costituzione che prevede che chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto a conservare il proprio posto di lavoro, per carità tutta roba meritevole della massima considerazione, ma insomma la garanzia dello stipendio invariato saprà mitigare anche il più lancinante dei dolori per l’abbandono dello scranno togato.
Certamente ha ragione chi sostiene che il problema praticamente non esiste, o meglio non esiste più. Il numero delle toghe che scendono in politica sta nel palmo d’una mano e la volatilità di molte formazioni partitiche scoraggia quello che, un tempo, era la vera e propria adesione a una “chiesa” che preservava e tutelava nel tempo i propri adepti. Per capirsi , non è che i magistrati stiano proprio a sgomitare per una candidatura in tempi così burrascosi. La navigazione politica avviene di questi tempi in un mare periglioso, per cui molto meglio entrare ai piani alti della pubblica amministrazione dove potersi sempre riciclare nella fumosa categoria dei “tecnici in prestito” oggi in grande spolvero. E, quindi, una battaglia inutile, la solita norma manifesto? Non del tutto. Ha ragione chi dice che il divieto delle porte girevoli punta a tracciare una linea di demarcazione tra la politica e la magistratura e dar sostegno all’idea che non si può essere uomini e donne di parte per poi tornare a vestire il laticlavio della terzietà. Certo è anche vero che il 99,9% degli affari di giustizia non ha alcuna contaminazione politica o con la politica, ma meglio evitare, ci può stare.
Poi c’è un segnale meno evidente, ma non meno importante, mandato alle toghe. È inutile coltivare ancora l’idea di guadagnare consenso mediatico con indagini tanto pirotecniche quanto fallimentari per, poi, spendere il capitale di immagine lucrato nell’agone politico. È successo, eccome se è successo, e le scorie di questo immane danno alla magistratura italiana non sono state ancora del tutto smaltite. Anzi proprio il trentennale di Mani pulite avrebbe dovuto offrire l’occasione per ricostruire con coraggio e lucidità il corso di alcune carriere e individuare le contaminazioni che sono state consumate tra populismo giudiziario e politica. Contaminazioni in gran parte venute meno, ma che ancora mostrano rigurgiti in talk show e dibattiti all’insegna dei nostalgici del cappio. Se il Parlamento saprà dare anche regole certe alle carriere dei magistrati e all’assegnazione degli incarichi, allora una stagione di scorribande mediatiche sarà veramente all’epilogo e la giustizia potrebbe trovare la luce di una rinata credibilità. Alberto Cisterna
«Quella visione grottesca e semplicistica che vede in Magistratura democratica una falange del giustizialismo». Emilio Sirianni (presidente sezione lavoro Corte d’Appello di Catanzaro) su Il Dubbio il 23 Febbraio 2022.
Gentile direttore, poche settimane fa mi sono addormentato leprotto (copyright Charles M. Schulz) e mi sono svegliato “falco”, “duro e puro”, addirittura “leader” di Magistratura Democratica ( A. Sallusti – L. Palamara, “Lobby & Logge, Mondadori 2022, pg. 99 e segg.). Mentre i miei compagni di corrente ancora si sbellicano, provo a spiegare il deformante, fantastico mondo di Palamara e Sallusti, con un esempio. I due, nell’ultima loro fatica letteraria, descrivono la magistratura italiana, anzi l’Italia tout court, come percorsa dal sempiterno scontro di due lobby/ logge della magistratura, che tutto decidono (dalle leggi approvate in Parlamento, alle nomine dei giudici costituzionali fino ovviamente alle sentenze pronunciate nei tribunali): quella dei giudici conservatori e quella, largamente dominante, dei giudici che “fanno i rivoluzionari ma sono parte fondamentale del Sistema”.
Io, naturalmente, farei parte della seconda che avrebbe la sua incarnazione associativa in Md e costituirebbe l’invincibile falange del giustizialismo, dedito all’eliminazione, per via giudiziaria, dei nemici politici. Il grottesco di questa rappresentazione forse si può cogliere dalla lettura di questo stralcio del mio intervento al congresso nazionale di Md dello scorso mese di luglio, che ritengo attuale nei giorni in cui si “celebra l’anniversario di mani pulite”.
«Sciascia inizia uno dei suoi scritti più belli e divisivi, quello sull’affaire Moro, con un’immagine potente: la visione, in una passeggiata serale, di una lucciola nella crepa di un muro, quando ormai si era convinto che le lucciole fossero definitivamente estinte. Utilizza quell’immagine per evocare l’amato Pasolini e la sua inesausta opposizione al regime democristiano che aveva deturpato il volto del paese, dicendo che il poeta “voleva processare il Palazzo in nome delle lucciole”. Ha dapprima l’impressione che sia una fenditura, uno “schisto”, nel muro e solo dopo si accorge che è una lucciola e parte da quella lucciola per aprire, con le sue domande, crepe profonde nel muro compatto della verità ufficiale e mettere a nudo miserie, ipocrisie ed opacità delle Istituzioni, dei Partiti e dei media nei giorni del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro. Domande divisive, ma che ancora oggi interrogano la coscienza collettiva del paese. Forse erano questo allora le lucciole per il grande intellettuale siciliano: domande, domande scomode, ma necessarie. Md ha smesso di porsi domande scomode 30 anni fa, al tempo delle stragi di Capaci e Via d’Amelio e di Mani Pulite.
Prevalse doverosamente, l’esigenza di non dividersi davanti all’orrore e sotto la pressione crescente del potere politico ed economico, di fronte ai reiterati tentativi di sbarazzarsi dell’indipendenza della magistratura. Non erano tempi per schisti nel muro compatto della magistratura. E così, impercettibilmente, abbiamo iniziato ad allontanarci dai luoghi ideali in cui si perpetuava il conflitto fra il potere ed i senza potere ed a recidere i legami con i soggetti collettivi, spesso diversi da quelli di un tempo, che agivano quel conflitto.
Da quei luoghi in cui donne e uomini si battevano per difendere i diritti del lavoro, dell’ambiente e del territorio, il diritto a non patire discriminazioni per ragioni di religione e origine etnica, di genere e di identità di genere. Ci allontanammo dai mille luoghi in cui era negato il diritto di avere diritti, anche quando ubicati all’interno dei palazzi di giustizia. Occorre far sì che tornino le lucciole e sembra stia già accadendo. Ritornare a fare domande divisive, partendo proprio da quelle che non facemmo all’inizio di questo trentennio, oggi non più eludibili, sul lato oscuro dell’epopea di Mani Pulite (ché nessuna vicenda storica è fatta di sola luce). Quando tacemmo sul tragico sostanzialismo che voleva cessati i pericoli d’inquinamento probatorio e aperte le porte delle carceri solo dopo ampia confessione di indagati in vinculis.
Quando assistemmo, forse a disagio, ma rigorosamente muti, alla celeberrima conferenza stampa dei pm dai volti tirati e barbe incolte che sbarrò sì la strada ad un atto legislativo incostituzionale, ma la aprì a quella commistione di legittimazioni che adesso ci presenta un conto salato. Adesso che a reclamare legittimazione, non più in virtù di sapere tecnico, imparzialità e indipendenza, ma del consenso platealmente sollecitato, non è solo qualche protagonista di quelle lontane vicende ormai avviato lungo un triste viale del tramonto, ma anche una folta schiera di epigoni in tredicesima. Alfieri del populismo giudiziario che dilaga». Siamo alla vigilia di importanti referendum, mi auguro se ne possa parlare liberi da fantasiosi schieramenti, evocati per mere ragioni di personale interesse.
Palamara: «Magistratura asservente se fa da grancassa contro un nemico politico». L'ex membro del Csm: «Nel 1993 il Parlamento decide di eliminare l’autorizzazione a procedere. Da quel momento ogni indagine diventa oggetto di strumentalizzazione». Il Dubbio il 23 febbraio 2022.
«Nel 1993 il Parlamento decide di eliminare l’autorizzazione a procedere. Da quel momento ogni indagine diventa oggetto di strumentalizzazione». A dirlo l’ex magistrato Luca Palamara, ieri a Casa Minutella per la presentazione del suo nuovo libro, dal titolo “Logge & Lobby”. Secondo l’ex consigliere del Csm, «la separazione delle carriere è un segmento del problema» giustizia in Italia. «Non deve riguardare solo pm e giudice», rimarca Palamara, ma anche il rapporto tra magistratura e informazione: «Se un’indagine viene utilizzata come grancassa contro questo o quel nemico politico, il ruolo della magistratura diventa asservente». «Le correnti – prosegue poi Palamara – dominano il mondo della magistratura dagli anni ’ 60».
«Palamara mi stava antipatico. Ma non era l’unica pecora nera in un gregge di pecorelle bianche. Era il capo delle pecorelle nere in un gregge molto ricco di pecore nere che sono tuttora al loro posto senza che nulla accada», ha affermato poi Alessandro Sallusti, direttore di Libero e coautore del libro. Sallusti ha ricordato che all’inizio l’ex magistrato non aveva accettato l’idea di scrivere un libro verità sulla Giustizia italiana. Ma poi cambiò idea e propose un patto al giornalista. «Palamara mi disse: scrivi tutto ciò che io dico e non una parte».
Anche Sallusti fece le sua richiesta all’ex magistrato: «Ti chiedo una cosa altrettanto ovvia che tutto quello che tu dirai non devono essere delle tue idee o delle tue supposizioni. Devono essere fatti circostanziati». «Ho fatto questa richiesta non solo per uno scrupolo deontologico e per una tutela mia e del dottor Palamara». Nei libri sono stati fatti centinaia di nomi e centinaia di aneddoti e di cose, ha ricordato Sallusti. «C’è stata una richiesta di precisazione di rettifica del dottor Spataro, che è stata fatta nelle successive edizioni per un episodio che risale al 1998 e una querela del dottor Ielo che è stata ritirata due mesi dopo».
Per Sallusti, dunque, è il momento di dire basta a chi mette in dubbio la veridicità delle affermazioni di Palamara. «Se qualcuno ha qualcosa da dire su questo libro non ha altro da fare che portare elementi veri contrari alla tesi esposte nel saggio», ha spiegato il direttore di Libero. M5S, dall’altro ha deciso di votare a favore del conflitto di attribuzioni, «opzione più rappresentativa per il gruppo» ma opposta a quella dei grillini, sulle cui intenzioni, prima della discussione, aveva fatto chiarezza lo stesso Conte. Il voto «non è contro Renzi o per Renzi: è a favore dei principi del M5s», aveva anticipato, riproponendo il refrain «i politici devono difendersi nei processi non dai processi». Favorevoli alla proposta di Modena, invece, Fratelli d’Italia e Lega, convinti che la Costituzione sia stata violata. «Io che sono anche imputato – ha commentato a distanza Matteo Salvini -, vorrei essere giudicato da un giudice terzo e imparziale. Da Renzi mi separa se non tutto tantissimo, ma non lo combatterò mai a colpi di magistratura» .
Le argomentazioni che non reggono. Di Matteo leader dei no al referendum sulla giustizia: già partita la campagna per boicottare le urne. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Febbraio 2022.
La campagna per il boicottaggio nei confronti dei referendum è già partita. Con i dubbi sulla data, prima di tutto. E anche con l’incoronazione, attuata da Riccardo Iacona a Presa diretta, dell’ex pm Nino Di Matteo a portavoce del Comitato del NO. Sulla data: pare sempre difficile fare la cosa più semplice, cioè l’accorpamento dei referendum con le elezioni amministrative, il che comporterebbe un bel risparmio economico. Lo ha chiesto questa volta uno dei promotori, insieme ai radicali, cioè Matteo Salvini, come altri inutilmente nel passato. Ma in certi ambienti pare venga l’orticaria solo a sentir parlare di dare la parola ai cittadini.
Così ecco la piccola furbata, non nuova, cioè fissare la data con il secondo turno elettorale, cioè per esempio il 12 giugno, quando le scuole sono chiuse e i bambini, con relativi genitori o nonni sono a prendere l’aria pura del mare. Tranne quelli di Genova e Palermo, che potrebbero andare in montagna. Certo la ministra Lamorgese non farebbe una bella figura se inducesse il sospetto di voler solo fare un dispetto a Matteo Salvini. Quindi, suvvia, si faccia il bel gesto e si fissi la data del referendum in concomitanza al primo turno delle elezioni di Genova, Palermo, Padova, Parma e altre città e Comuni di diverse dimensioni. Ma non è solo il sistema burocratico e mettere il bastone tra le ruote alla libera espressione dei cittadini. Negli ambienti istituzionali si stanno già muovendo le toghe, uscite salve dal quesito sulla responsabilità civile diretta, cassato dalla Corte Costituzionale senza un vero perché che non sia una motivazione di ordine politico.
Ma c’è un altro Babau che mette i brividi in corpo al partito dei pm e che li ha già fatti insorgere come un sol uomo, ed è la separazione delle carriere tra il pubblico accusatore e il giudice. Il referendum in realtà parla di separazione delle funzioni, e propone che il magistrato, dopo aver vinto il concorso, scelga la propria definitiva collocazione: in mezzo ai due piatti della bilancia, come giudice terzo e imparziale, o da una parte, quella dell’accusa in contrapposizione a quella della difesa. Parti uguali, come prevede il codice di procedura penale del 1989. La riforma della ministra Cartabia sta già andando in quella direzione, però si limita a ridurre il numero di possibili passaggi da un ruolo all’altro nel corso della carriera di ogni magistrato. Ma non è questione di numeri, c’è un salto di qualità tra le due proposte, è facile da capire.
Ed è proprio per questa differenza qualitativa, che c’è tanta agitazione tra le toghe. Sono partiti subito i pm (e qualche ex di prestigio come Giancarlo Caselli) più accreditati, come Nino Di Matteo, oggi membro del Csm, ma a lungo pubblico ministero “antimafia” e, quasi da esordiente, rappresentante dell’accusa nell’inchiesta sull’uccisione del giudice Borsellino a la gestione sciagurata del falso pentito Enzo Scarantino. E poi grande sostenitore del fallimentare processo “Stato mafia”, conclusosi con l’assoluzione degli imputati politici e istituzionali. Da ventinove anni sotto scorta, così viene sempre presentato nelle trasmissioni tv, per ricordarne non solo l’indubbio sacrificio umano, ma anche la rilevanza del personaggio. Proprio per questo, quando abbiamo ascoltato la sua voce parlare di separazione delle carriere in una lunga intervista tv, siamo rimasti decisamente delusi. Se questi sono gli argomenti degli esponenti del NO più preparati, il SI’ dovrebbe avere giù vinto, abbiamo pensato. Ed eccole, le motivazioni del NO. Oltre a tutto banali, possiamo dirlo?
La prima considerazione è che – ci smentisca se gli riesce, dottor Di Matteo – gli argomenti, almeno i primi due, sono decisamente politici. Il primo lo butta lì subito: la separazione delle carriere faceva parte del “Piano di Rinascita democratica” di Licio Gelli. E quindi? Non risulta che il fondatore della loggia P2 sia stato condannato per aver scritto un programma politico, né che quel programma fosse eversivo. Ma il secondo argomento del consigliere Di Matteo è addirittura sorprendente se utilizzato da una toga: no alla separazione della carriere perché questo è anche nel programma di Forza Italia. Ripetiamo, a maggior ragione: e allora? Il partito fondato da Silvio Berlusconi è forse composto da criminali e il suo programma di conseguenza potrebbe mettere in discussione la composizione democratica dello Stato?
Il terzo argomento è addirittura da Stato etico. Poiché nessuno può negare il fatto che in gran parte dell’occidente e in particolare nei regimi di common law dei Paesi anglosassoni non esiste la magistratura, ma solo i giudici da una parte e gli avvocati dell’accusa e della difesa dall’altra, ecco che si devono indossare i panni del Grande Moralista e alzare il ditino: ma in quei Paesi non si processa mai il Potere. Il che è prima di tutto falso, ma soprattutto preoccupante. Ed è inutile ricordare che non è quello il compito dei pubblici ministeri. Ma siamo anche nel trentennale di Mani Pulite (altra definizione da Stato etico) ed è facile cascare nel tranello di chi preferisce combattere i fenomeni sociali piuttosto che limitarsi al suo compito di cercare i responsabili dei reati.
Se questi sono gli argomenti più politici e più banali, non sono più interessanti quelli che riguardano più da vicino la figura stessa del pubblico ministero, che in Italia è un soggetto potentissimo con la caratteristica quasi unica al mondo di non rispondere a nessuno del proprio operato. Né al Parlamento né agli elettori. Con mille contraddizioni, perché i pm più popolari, come fu Tonino Di Pietro negli anni novanta e come è oggi Nicola Gratteri, devono la loro fortuna alla grande popolarità, quasi fossero stati o fossero in campagna elettorale permanente. Ma questo non preoccupa quanto invece, ed è un altro argomento del dottor Di Matteo e degli altri pm per il NO, la “sottoposizione all’esecutivo”. Un mostro? No, visto che è così in Francia, dove pure esiste la carriera unica dei magistrati, come negli Stati Uniti, dove le cariche sono in gran parte elettive. A questo argomento (che puzza un po’ anche lui dell’ossessione di dover processare “il Potere”) occorre rispondere innanzi tutto che non è così scontato come conseguenza della separazione delle carriere.
Potrebbero infatti esserci due Csm, uno dei giudici e uno dei pm, a garanzia della totale indipendenza e autonomia. Ma soprattutto, vogliamo che in Italia il pubblico accusatore sia sempre del tutto irresponsabile, così da non pagare mai per i propri errori, che sono tanti e ormai sotto gli occhi di tutti? La verità è che è proprio così, il pubblico ministero non vuol essere equiparato a nessun altro soggetto della società, vuol continuare a essere un privilegiato, e se sbaglia vuole l’assoluzione preventiva e le spalle coperte dallo Stato. A questo proposito, una bella lezione arriva da Alexandro Maria Tirelli, presidente delle Camere penali del diritto europeo e internazionale. Il quale, pur ricordando l’importanza dell’autonomia e indipendenza della magistratura, ricorda anche: «…non possiamo fingere di non vedere gli errori commessi per imperizia, incuria, talvolta – purtroppo – incapacità degli operatori pubblici del diritto che si trasformano in indagini abnormi, in arresti ingiusti, vere e proprie cacce all’uomo, che di giudiziario hanno solo la veste formale».
Di conseguenza, conclude l’avvocato Tirelli «la responsabilità civile dei magistrati, malgrado la bocciatura del quesito referendario, rappresenta una battaglia politica di civiltà che non può essere abbandonata». Insieme agli altri cinque quesiti. Forse anche al Presidente delle Camere penali del diritto europeo e internazionale, il neo portavoce del NO del Partito dei pm risponderebbe così come ha già fatto a Presa diretta: la verità è che siamo in presenza di un tentativo di regolamento dei conti da parte della politica nei confronti di un pezzo di magistratura. Quale pezzo? Quello che lotta, ovviamente. È in questo ambito che dobbiamo collocare anche la ministra Lamorgese e la sua prossima decisione sulla data? Noi continuiamo a sperare di no.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Serra i ranghi il partito dei Legalitari. Travaglio, toghe e tv: fuoco contro i referendum sulla giustizia che fanno paura a tutti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 19 Febbraio 2022.
Si è aperta la caccia. La caccia al referendum sulla giustizia. Cercano il modo per abbatterli. I referendum fanno paura alla magistratura, soprattutto, probabilmente anche ai giornali e fanno paura all’establishment. Per tre ragioni.
Primo, perché se si raggiungerà il quorum, e se vinceranno i sì, verrà una spinta formidabile alla riforma della Giustizia. Dico la riforma vera, non le leggine che sta preparando il governo Draghi. La riforma nel senso della redistribuzione dei poteri democratici, e della costruzione di veri e propri muri contro le sopraffazioni e la strapotenza delle Procure. La riforma della giustizia è sempre stata temuta e osteggiata da forze potentissime. Dal blocco di potere legato alle Procure. Hanno sempre vinto loro in Parlamento, hanno piegato tutti i governi.
La seconda ragione forse è ancora più importante: la formidabile riduzione della carcerazione preventiva e il ritorno ai principi costituzionali che in questi anni sono stati stracciati con le manette. Se il Si vincerà i Pm e i Gip non potranno più usare a propria discrezione il potere mostruoso di prendere una persona sospetta e di chiuderla in una cella, distruggendo la sua vita, senza prove, senza indizi, senza il giudizio di un tribunale. E di dirle, magari: ti libero solo se confessi. Oltretutto si risolverà anche il problema del sovraffollamento delle prigioni, perché saranno liberate più di diecimila persone attualmente in carcere in violazione del diritto.
Il terzo motivo è più generale. La vittoria dei sì porterebbe una fortissima ventata di libertà. Il potere, ogni potere, non ha mai amato troppo la libertà. Spesso la giudica un eccesso. Perciò ieri, al seguito della piccola vedetta piemontese, e cioè Travaglio, sono scesi in campo Tv giornali e molti Pm. Di Matteo, Magistratura democratica ed altri. Persino l’avvocato Coppi si è schierato contro. Sarà una battaglia durissima, Vedrete. Ma ne varrà la pena. È la lotta tra due idee incompatibili: Libertà contro Punizione.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Piercamillo Davigo e la nemesi del Movimento 5 Stelle. I gemiti di dolore e la mistificazione della realtà di Marco Travaglio. Andrea Amata su Il Tempo il 19 febbraio 2022.
Nei giorni in cui si celebrano i fasti giudiziari del pool di Mani pulite, a 30 anni dal suo esordio investigativo, il gup di Brescia rinvia a giudizio Piercamillo Davigo contestandogli il reato di rivelazione di segreto di ufficio. L'ex consigliere del Consiglio superiore della magistratura e protagonista dell'inchiesta Tangentopoli, che decapitò all'inizio degli anni '90 un'intera classe politica, dovrà sottoporsi a processo per aver diffuso dei verbali coperti da segreto istruttorio in merito alle dichiarazioni dell'avvocato siciliano Piero Amara sulla presunta esistenza della «loggia Ungheria». A Piercamillo Davigo viene attribuita la paternità di un precetto aberrante - «non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti» - che se fosse applicata al suo autore potrebbe rivelarsi una nemesi giuridica, riparatrice di una colpa culturale per aver diffuso negli anni una veemente cultura giustizialista che ha stroncato carriere politiche, facendo coincidere l'avviso di garanzia con il verdetto di colpevolezza. Il populismo giudiziario è stato incarnato dal Movimento 5 Stelle che ha elevato l'ex pm Davigo a simbolo della scorciatoia giustizialista, invocando mezzi sbrigativi con la carcerazione preventiva e anticipando la condanna con sommari processi mediatici allo scopo di maramaldeggiare sull'indagato in spregio al principio costituzionale della presunzione di innocenza. Questa costituisce un valore di civiltà giuridica che non dovrebbe essere intaccato dal cosiddetto fattore M, cioè dal combinato disposto di magistratura e media che si fondono in un processo di reciproca connivenza, enfatizzando l'incriminazione verso i titolari di cariche pubbliche e minimizzando l'eventuale accertamento dell'estraneità ai reati contestati.
Tuttavia, nel mentre si pregiudicano irreversibilmente le carriere politiche sin dall'introduzione dell'iter di indagine. Dalle fasi embrionali del procedimento giudiziale agisce sull'indagato la pressione del patibolo mediatico che precorre la sentenza di condanna che diventa soverchiante anche se l'impianto accusatorio dovesse essere smantellato dall'avvenuta assoluzione. Ieri, in un editoriale dalla elevata tossicità giustizialista, Marco Travaglio vestiva i panni della prefica, emettendo gemiti di dolore per il rinvio a giudizio del suo paladino Davigo e non risparmiandosi nella perorazione del modello giacobino di cui è il massimo rappresentante. La solita mistificazione della realtà che è figlia di una lettura ideologica degli eventi. Il rinvio a giudizio di Davigo non è una congiura ordita da chi vuole disinnescare le guardie e blandire i ladri come evoca la narrazione travagliesca. Semmai è la sconfitta di una demagogia giustizialista andata avanti per 30 anni, che ha inquinato le istituzioni e il dibattito pubblico, creando l'humus sociale per la nascita di un partito dove l'ignoranza e l'incompetenza sono criteri di accesso nella rappresentanza.
L'eredità del giustizialismo è stata raccolta dal Movimento 5 stelle che ha prosperato su quel sentiment, riconducendo ogni interpretazione politica alla matrice moralistica attraverso processi sommari a mezzo stampa e web, dove i tre gradi di giudizio vengono compressi e riassunti nell'avviso di garanzia equiparato alla colpevolezza. In tale primitiva semplificazione si cerca il sensazionalismo incriminante e non la giustizia, e i cittadini non sono concepiti come potenziale coscienza critica ma come tricoteuse in attesa di vedere la prossima testa rotolare. Ora, si salo scettro moralistico è abbagliante, sì, ma allo stesso modo scotta. Tanto. E chi decide di impossessarsene prima o poi si brucia. La realtà è questa qui. Davigo non è un colpevole che sta cercando di farla franca, al contrario è un innocente fino al terzo grado di giudizio nonostante ciò che pensi lo stesso Davigo e i suoi cantori.
Il giudice che condannò il Cav attacca i giudici che processano Davigo. Il Dubbio il 20 febbraio 2022.
L'affondo di Esposito: «Morale della favola: Davigo va a giudizio e viene crocifisso; Ermini e Cascini, che non hanno subìto alcuna iniziativa, rimangono rispettivamente, il primo vicepresidente e il secondo componente della sezione disciplinare del Csm»
L’ex giudice della Cassazione Antonio Esposito, uno degli editorialisti del “Fatto Quotidiano” di Marco Travaglio, difende a spada tratta l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, rinviato a giudizio giovedì scorso dal gup di Brescia per il reato di rivelazione del segreto istruttorio nell’ambito dell’inchiesta sulla circolazione abusiva dei verbali dell’ex legale dell’Eni, Piero Amara, che aveva riferito alla procura di Milano, fatti riguardanti la presunta “Loggia Ungheria”.
Esposito, il giudice che condannò anni fa Silvio Berlusconi, se la prende con il tribunale di Brescia che non ha capito come sono andati i fatti. Secondo l’ex membro della Suprema Corte di Cassazione, Davigo andava prosciolto da ogni accusa. Che sia da ritenere innocente, il Dubbio lo ha scritto a chiare lettere, in un corsivo a firma di Rocco Vazzana. Vale per Davigo, vale per tutti. Ma Esposito è andato oltre, puntando il dito contro due esponenti del Consiglio Superiore della Magistratura: il vicepresidente David Ermini e il consigliere togato Giuseppe Cascini.
«Un magistrato galantuomo, a cui l’Italia degli onesti deve molto, Piercamillo Davigo, è stato rinviato a giudizio da un Gup di Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio in relazione ai verbali resi in istruttoria dal faccendiere Amara – che denunziava l’esistenza di una loggia segreta di cui facevano parte anche magistrati componenti del Csm – consegnati a Davigo dal pm milanese Paolo Storari. Contro di lui si è immediatamente scatenata la gogna mediatica da parte di diffamatori seriali, da anni strenuamente impegnati a difendere corrotti, corruttori, bancarottieri, evasori fiscali, ecc., e si è definito infamante il reato ascritto a Davigo» scrive Esposito sul “Fatto” di Travaglio.
«Ora, quale che sia la valutazione di opportunità o meno, non vi è alcun dubbio che Davigo si sia mosso nella convinzione di agire in “adempimento di un dovere” (art. 51 Codice penale) che gli incombeva dall’essere un componente del Csm che riceveva gravi dichiarazioni da un pm che gli segnalava ritardi, ostacoli o condizionamenti nelle indagini da parte del procuratore capo Greco (successivamente archiviato). La prova provata che Davigo ritenesse di agire in adempimento di un dovere, sta nella circostanza che egli immediatamente portò a conoscenza quanto affermato dallo Storari sia del vicepresidente del Csm, David Ermini, (nonché di altri componenti del Csm, tra cui Giuseppe Cascini, membro della disciplinare), sia del Pg della Cassazione Giovanni Salvi (titolare dell’azione disciplinare) il quale, proprio a seguito dell’iniziativa di Davigo, contattò il procuratore Francesco Greco, sì che furono effettuate le formalità per l’iscrizione nel registro degli indagati» spiega Esposito.
E conclude così: «Morale della favola: Davigo va a giudizio e viene crocifisso; Ermini e Cascini, che non hanno subìto alcuna iniziativa, rimangono rispettivamente, il primo vicepresidente e il secondo componente della sezione disciplinare del Csm. Quando decideranno di andarsene a casa?» riferendosi ad Ermini, che disse di non aver mai letto quei verbali e di aver informato subito il Capo dello Stato, e a Cascini, il quale spiegò ai pm di Brescia, che lo interrogarono, che «poiché Davigo mi aveva chiesto un’opinione sul da farsi, ricordo di avergli detto che, trattandosi di materiale informale, ricevuto per vie non ufficiali, noi non avremmo potuto farci nulla». «Dimentica, il Cascini che, quale componente del Csm, è pur sempre un pubblico ufficiale e le confidenze non trovano ingresso». (a. a.)
Innocente fino a prova contraria. Anche lui…Su questo giornale mai nessuno ha esultato per l'arresto o il semplice sputtanamento di qualcuno. Nemmeno se a finire nel tritacarne mediatico è chi, come l'ex pm di Mani Pulite, incarna un'idea “manettocentrica” della giustizia, distante anni luce dalla nostra. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 18 febbraio 2022.
Chi stamattina ha sfogliato il Dubbio solo per cercare una nota di compiacimento e soddisfazione per la notizia del rinvio a giudizio di Piercamillo Davigo sarà rimasto deluso. Su questo giornale mai nessuno ha esultato per l’arresto o il semplice sputtanamento di qualcuno. Nemmeno se a finire nel tritacarne mediatico è chi, come l’ex pm di Mani Pulite, incarna un’idea “manettocentrica” della giustizia, distante anni luce dalla nostra.
Per noi Davigo, rinviato a giudizio a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio in relazione ai verbali nei quali Piero Amara parlava della Loggia Ungheria, resta innocente fino a prova contraria. E ci auguriamo che sia in grado di chiarire la sua posizione a processo. Saranno altri giudici a stabilire – e solo dopo tre gradi di giudizio se le sue condotte furono legittime o no. Perché non importa sapere a quanti consiglieri del Csm e segretarie Davigo ha mostrato i verbali ricevuti dal pm Paolo Storari, né scoprire se è vero o meno che persino il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra, fu reso edotto del contenuto di quei documenti secretati in un sottoscala.
Un Tribunale deve solo stabilire se c’è reato o no. Giudicare l’opportunità “politica” di un comportamento non compete alla giustizia. La moralizzazione di un Paese non può passare dalle mani di un potere dello Stato, la pubblica accusa, autoproclamatosi ontologicamente superiore a tutti gli altri poteri concorrenti sulla base di una presunzione. Non basta gettare fango davanti al ventilatore per chiudere un processo. Servono le prove. Solo quelle è tenuto a cercare un pm. Persino quelle a discolpa dell’imputato.
«Non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca», diceva Davigo fino a poco tempo fa. Speriamo abbia cambiato idea nel frattempo. E speriamo abbia cambiato idea pure sull’ «orda inutile degli avvocati», ora che anche lui avrà bisogno di una difesa in un’aula di Tribunale, non per “ingolfare” la giustizia ma per esercitare un diritto costituzionale.
Deciso il giudice che processerà Davigo: nel 1996 prosciolse Di Pietro. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie. Il Dubbio il 20 febbraio 2022.
Sarà il giudice Roberto Spanò il presidente del collegio che dal prossimo 20 aprile giudicherà Piercamillo Davigo, rinviato a giudizio dal gup di Brescia per rivelazione di atti di ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta Loggia Ungheria e sui verbali dell’avvocato Amara consegnati all’ex componente del Csm dal pm di Milano Paolo Storari, che ha invece scelto il rito abbreviato, e che il sette marzo conoscerà il suo destino dopo che l’accusa ha chiesto per lui la condanna a sei mesi.
Roberto Spanò è lo stesso giudice che nel 1996 da gup prosciolse con una sentenza di non luogo a procedere Antonio Di Pietro, che era accusato a Brescia di abuso di ufficio e concussione. Spanò, motivando la sua decisione, parlò di «anemia probatoria» e «azzardato esercizio dell’azione penale» per smontare la ricostruzione dell’accusa. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie.
Deciso il giudice che processerà Davigo: nel 1996 prosciolse Di Pietro. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie. Il Dubbio il 20 febbraio 2022.
Sarà il giudice Roberto Spanò il presidente del collegio che dal prossimo 20 aprile giudicherà Piercamillo Davigo, rinviato a giudizio dal gup di Brescia per rivelazione di atti di ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta Loggia Ungheria e sui verbali dell’avvocato Amara consegnati all’ex componente del Csm dal pm di Milano Paolo Storari, che ha invece scelto il rito abbreviato, e che il sette marzo conoscerà il suo destino dopo che l’accusa ha chiesto per lui la condanna a sei mesi.
Roberto Spanò è lo stesso giudice che nel 1996 da gup prosciolse con una sentenza di non luogo a procedere Antonio Di Pietro, che era accusato a Brescia di abuso di ufficio e concussione. Spanò, motivando la sua decisione, parlò di «anemia probatoria» e «azzardato esercizio dell’azione penale» per smontare la ricostruzione dell’accusa. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie.
A 30 anni esatti da Tangentopoli. Hanno rinviato a giudizio Davigo, il più puro dei puri. Redazione su Il Riformista il 17 Febbraio 2022.
L’ex consigliere del Csm accusato di rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, su una presunta “Loggia Ungheria”, è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia Federica Brugnara. A 30 anni esatti dall’inizio dell’inchiesta di Mani pulite è ripresa a Brescia l’udienza preliminare nei confronti di Piercamillo Davigo.
Il direttore Piero Sansonetti ha commentato: “Hanno rinviato a giudizio Davigo. Piercamillo Davigo. Avete presente chi è? Torquemada, quello che doveva mandare a giudizio tutti, quello che diceva che quando si fa un’indagine gli indiziati possono o essere condannati o possono farla franca. Senza prendere neanche in considerazione l’ipotesi che potessero esistere innocenti”.
“Davigo ha frustato i politici, ha frustato gli imprenditori. Ha frustato tutti, anche i suoi colleghi. Si è sempre impancato per dire ‘Io sono la legge’, poi quando stava per andare in pensione voleva cambiare la legge perché voleva restare al Consiglio superiore della magistratura, è finito lui stesso non solo indagato ma rinviato a giudizio per aver rivelato un segreto di ufficio e per aver fatto conoscere e aver dato spazio non si sa bene a chi, in che modo e in che forma i verbali Amara che sono i verbali dell’interrogatorio di questo signore che dice cose pesantissime sulla magistratura“.
“Addirittura ipotizza che esiste una loggia che si chiama Loggia Ungheria, che sarebbe una specie di ‘Spectre’ che comanda la magistratura italiana. L’hanno rinviato a giudizio. Un pochino viene da ridere. E poi ripenso a Pietro Nenni, grande socialista, segretario del Psi per molti anni, partigiano combattente che diceva ‘Attenti puri, perché verrà uno più puro di voi e vi epurerà. Ecco qua, ci è caduto proprio Davigo”.
DiMartedì, Di Battista fuori controllo: "I politici? Deretani flaccidi che la magistratura ha perseguitato troppo poco". Libero Quotidiano il 16 febbraio 2022
Alessandro Di Battista a ruota libera. Ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, l'ex grillino commenta l'attualità e, in particolare, gli scandali legati alla magistratura. Nella puntata di martedì 15 febbraio, Dibba premette di essere dalla parte di Piercamillo Davigo: "In 5 anni da parlamentare non ho mai ascoltato dibattiti interessati a far funzionare la giustizia, erano interessati a salvare i colletti bianchi, che in Italia in carcere non ci vanno. Ha ragione Berlusconi, parte della magistratura è politicizzata: non perché perseguita i politici, ma perché in Italia li ha perseguitati troppo poco".
E ancora, questa volta in chiaro riferimento ai partiti: "Tutti governano per farsi vedere e mettere deretani, spesso, flaccidi su poltrone governative all'insegna del diamo agli italiani ma gli italiani dicono che i loro conti corrente sono prosciugati rispetto a un anno fa". Tornando all'attualità nel salotto di La7 si discute della lettera sequestrata nell'ottobre 2019 dalla Guardia di Finanza in un pc di Tiziano Renzi e finita agli atti del processo per bancarotta in corso a Firenze che vede tra gli imputati i genitori dell'ex premier.
Qui Renzi senior scriveva al figlio Matteo, in una sorta di sfogo personale finito alla gogna. Nonostante molti, da parti diverse, prendano le difese del leader di Italia Viva, Di Battista si dice con i magistrati. Questi, a suo dire, "non depositano quella lettera per farci sapere i rapporti con il figlio, ma per dimostrare una sua condotta illegale".
Un pm al “Fatto”: «Al nostro posto vogliono metterci gli avvocati, ci sarà una sostituzione etnica». Bum!. Incredibile dichiarazione (anonima) riportata sul quotidiano di Marco Travaglio: un «alto magistrato» commenta le nuove norme sulle porte girevoli come il segno di un piano per inserire la professione forense nei gangli della macchina pubblica oggi presidiati quasi esclusivamente dalle toghe. Ma sembra solo la rabbia preventiva per un paradiso che, forse, sarà perduto. Errico Novi su Il Dubbio il 16 febbraio 2022.
Si stenta a crederci. Eppure è una frase testuale, riportata da un giornale certamente molto letto come il Fatto quotidiano, in un articolo a firma di una giornalista sempre molto informata: a proposito dello stop alle porte girevoli previsto nella riforma dell Csm, un «alto magistrato» spiega, «dietro promessa di anonimato», che le norme sui capi di gabinetto nascondono una «volontà chiara», quella di «penalizzare le toghe al rientro da questi incarichi. E poi dove dovrebbero finire queste persone e a far cosa per tre anni? Rischiamo», sostiene l’anonimo pm, o giudice, interpellato dal Fatto, «nel migliore dei casi di creare una riserva indiana. Ma la verità è che si punta a una sostituzione etnica: fuori i magistrati dentro gli avvocati».
Sostituzione etnica. Addirittura. Ma innanzitutto: come si può usare un termine del genere? Come si fa a evocare uno scenario da genocidio? Siamo improvvisamente precipitati da un mondo che alcuni descrivono come una «repubblica delle Procure» a una specie di ex Jugoslavia, con gli avvocati a fare la faccia feroce tipo tigre Arkan?
Certo, c’è da ironizzare. Ma un po’ anche da riflettere. Secondo la certamente autorevole fonte interpellata dal Fatto, le misure sulle porte girevoli tenderebbero a dissuadere giudici, pm, toghe amministrative e via così dal distaccarsi presso i ministeri come capi di gabinetto o direttori di dipartimento. Si tratterebbe di questo. Al loro posto, schiere di avvocati. Un’iperbole. Incredibile. Persino offensiva, se si pensa all’attuale realtà dei fatti. Vogliamo fare un esempio? Andiamo sul classico, ministero della Giustizia: i magistrati addetti all’ufficio Legislativo sono abbastanza da poter organizzare tornei di calcetto interni. Senza considerare che il capo dell’ufficio è una magistrata. Il fatto che Marta Cartabia abbia voluto nominare, come vice di quest’ultima, un professore di Diritto penale che è anche un avvocato penalista, Filippo Danovi, è stato salutato l’anno scorso come un evento clamoroso.
Ora, da una scena simile, dal quadro attuale, le fonti del Fatto temono si arrivi alla sostituzione etnica o, per dirla con termini meno pulp, al ribaltone. A noi sembra il moto di rabbia che proviene dal profondo di una categoria, la magistratura, improvvisamente preoccupata di non poter più avere il monopolio della macchina pubblica. Di non essere più in maggioranza bulgara nel cuore dello Stato, dove spesso la politica è costretta all’opposizione, giacché il potere vero lo detengono loro, i giudici. I giudici che fanno da capo di gabinetto e i tanti che, soprattutto alla Giustizia, presidiano ogni più piccolo ganglo dell’amministrazione.
È la nostalgia preventiva per il paradiso perduto. Forse basterebbe scendere solo un attimo coi piedi sulla terra.
«L’ha detto Travaglio!». Se per i grillini la linea la detta sempre il “Fatto”. Non solo Di Battista, anche Raggi cita il direttore per dar forza alle proprie posizioni. Fausto Mosca su Il Dubbio il 16 febbraio 2022.
«L’ha detto Marco Travaglio». Il direttore del Fatto quotidiano è sempre stato un punto di riferimento per il mondo pentastellato. Ma da quando Gianroberto Casaleggio non c’è più e Beppe Grillo ha optato per il passo di lato, il giornalista è diventato l’unico punto fermo per i grillini più battaglieri. La linea del Movimento 5 Stelle passa per le colonne del Fatto. Che sia per bombardare il «governo dei migliori», per impallinare Luigi Di Maio il «traditore» di Giuseppe Conte o per mettere in discussione il Green Pass non importa, se lo dice Travaglio significa che è giusto. L’apostolo più fedele del direttore è ovviamente Alessandro Di Battista, più grillino di Grillo ed ex (ma non troppo) pentastellato. Un giorno sì e l’altro pure, il leader scapigliato sponsorizza sui suoi canali social gli editoriali del direttore, perché «io non avrei saputo dirlo meglio», ripete spesso.
Ma finché è Dibba, a lungo collaboratore del Fatto, a diffondere il verbo nulla di strano. Solo che negli ultimi tempi l’ala “travagliana” del Movimento sembra espandersi. Così, ecco Virginia Raggi, da tempo incastrata su posizioni similnovax, trincerarsi dietro all’editoriale del direttore per rafforzare il proprio punto di vista. «È una questione di buonsenso e Marco Travaglio l’ha esposta in un suo editoriale che condivido: oggi scatta l’obbligo del Green Pass sui luoghi di lavoro per gli over 50, una misura decisa il 7 gennaio (circa 40 giorni fa) prima del crollo, ad oggi evidente, dei contagi», premette l’ex sindaca di Roma su Facebook. «Altri paesi, Spagna e Portogallo ad esempio, stanno riaprendo senza aver mai adottato l’utilizzo delle carte verdi dimostrando dati alla mano che l’utilizzo di questa misura è pressoché inutile», aggiunge Raggi, che neanche in campagna elettorale ha voluto chiarire agli elettori la sua posizione in merito ai vaccini, attirando le critiche di detrattori e avversari politici. Perché esprimere dubbi, anche sul vaccino, non è lesa maestà, l’importante è esporli alla luce del sole per chi si propone al governo della cosa pubblica. E Raggi ha sempre preferito sorvolare, ma ieri ha approfittato dell’articolo di Travaglio sul Green Pass per esprimere qualche opinione. «Saranno almeno 1,5 milioni i lavoratori che potrebbero rimanere a casa senza reddito in un paese che non riesce a ripartire perché zavorrato da un provvedimento che sta alimentando divisioni sociali, vax contro no vax», argomenta l’ex sindaca. «Un provvedimento che, tra le altre cose, sta disincentivando il turismo. È il momento di guardare in faccia la realtà. Poniamoci una domanda: è necessario il Green Pass rafforzato obbligatorio per gli over 50? La risposta è no». Finalmente una risposta chiara. Tanto, l’ha detto Travaglio.
Senza appello. Il coraggio critico di Sciascia e i professionisti del giustizialismo. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 7 Febbraio 2022.
I media ormai ospitano solo requisitorie-tabloid dei procuratori generali o articoli di cronisti vicini alla procura. Qualsiasi critica all’operato dei pm non è ammesso. Neanche il grande scrittore siciliano riuscirebbe a pubblicare oggi un articolo fuori dal coro
Per capire come sta messo quel che si dice il dibattito pubblico sulle cose di giustizia in questo Paese, e se in questi decenni si sia aperto e consolidato nella riaffermazione, diciamo così, garantista, o invece richiuso come in una campana ridondante il verbo degli influencer togati, basta farsi questa domanda: il direttore del Corriere della Sera, o il direttore de La Stampa, o il direttore de l’Espresso, oggi, farebbero scrivere Leonardo Sciascia? No.
Non cito a caso quelle tre testate, ma pour cause, giacché, come si sa, furono quelle che consentirono a Sciascia di scrivere le cose di cui oggi, appunto, sarebbe puramente e semplicemente inibita la pubblicazione. Non serve neppure snocciolarle qui, tanto sono note.
Basta vedere a quali firme e argomenti abbiano fatto posto quei giornali, là dove prima trovavano spazio gli argomenti e la firma di Sciascia: i raffinati editoriali di Antonio Di Pietro, la prosa chiomata di Gian Carlo Caselli sul “garantismo farlocco”, le requisitorie-tabloid del procuratore generale della Cassazione.
A tacere, ovviamente, degli eserciti di cronisti embedded in procura che formulano il milieu su cui fiorisce quella pubblicistica esemplare, e che non costituiscono manifestazione episodica e controversa di un’impostazione di parte, ma i ripetitori di una convenzione che esclude anche la sola ipotesi della voce contraria. Che era, si noti, eresia anche allora, bestemmia anche allora, ma c’era, era possibile, magari anche solo perché proveniva dal grande scrittore. Oggi la sua fama, il suo accreditamento, la sua autorevolezza, non basterebbero a rendere pubblicabile ciò che scriveva.
E di questo si tratta, infine: fu possibile, allora, imputare a Sciascia di essersi messo ai margini della società civile, per le idee che aveva messo nero su nero in argomento di giustizia. E fu certamente vergognosa la mancata condanna di quell’indecente allegazione. Ma oggi Sciascia non avrebbe neppure corso quel rischio.
Giustizia, sono finiti gli anni "timidi": Mattarella vuole subito la riforma. Nel suo intervento il capo dello Stato fa la voce grossa per ottenere la revisione di un sistema che non solo è il più lento d’Europa, ma negli ultimi anni si è anche rivelato arbitrario e corrotto. VITTORIO FERLA Il Quotidiano del Sud il 5 Febbraio 2022.
Le abbiamo contate: sono 278 le parole che Sergio Mattarella ha dedicato alla riforma della Giustizia nel suo discorso. Un’inezia rispetto alla vastità e puntualità dei temi toccati. Eppure, la parte del messaggio del Presidente dedicata alla giustizia è pari a circa il 10% del totale. Perché, tra tutti gli argomenti citati, Mattarella ha insistito così a lungo sul ruolo della magistratura? Lo capiremo meglio nei prossimi mesi, quando potremo verificare se, all’appello del Presidente, corrisponderà un suo concreto impulso per le riforme.
DAGLI ANNI ‘90 LA DERIVA
Negli ultimi anni, il peso della magistratura sulla vita pubblica italiana è cresciuto in maniera spropositata. Il fenomeno affonda le sue radici nel crollo della Prima Repubblica e nel trauma di Tangentopoli. Fu allora che la magistratura sferrò il colpo di grazia al sistema dei partiti del dopoguerra, superato storicamente dalla fine del bipolarismo Est-Ovest (e dalla caduta del Muro di Berlino) e guastato dalla corruzione diffusa. Proprio in questo mese si celebrano i 30 anni dall’inizio di Tangentopoli: sarebbe l’occasione buona per una rilettura spassionata di quella stagione.
Nel corso di questo trentennio, la magistratura si è sempre più autoeletta tutore univoco della Costituzione, supplendo al progressivo declino dei partiti. I giudici sono spesso entrati pesantemente nella vita pubblica: decine e decine di politici e amministratori pubblici sono caduti sotto la pressione di indagini che hanno interrotto la loro vita politica e distrutto la loro reputazione personale. Spesso, i processi si sono risolti in un nulla di fatto, con un numero elevato di assoluzioni. Ma la fine del tormento è avvenuto sempre dopo un tempo lunghissimo, spesso ultradecennale, tale da impedire la riabilitazione tempestiva degli imputati.
Questi casi non sono isolati, bensì sono il frutto di un’ondata giustizialista che affonda le sue radici culturali negli anni di Tangentopoli, si consolida nella lotta politico-giudiziaria contro Silvio Berlusconi, si alimenta con la trasformazione dell’antipolitica delle origini in un movimento populista organizzato che, alla fine, è sbarcato nelle aule parlamentari.
L’argomento della certezza della pena si è fatto strada a scapito dell’argomento della certezza del diritto: il ministro grillino Alfonso Bonafede è stato il campione di questa linea che salda la pervasività del potere della magistratura all’aspettativa di una crescente severità delle pene. In questo clima, le antiche deficienze del sistema giudiziario resistono o, perfino, si aggravano.
L’EUROPA E LA SPINTA DEL COLLE
Secondo i dati del Consiglio d’Europa, la giustizia italiana è la più lenta nel confronto con gli altri Paesi europei. La durata media di un processo civile è pari a sette anni e tre mesi circa. In confronto, i processi durano circa la metà in Francia e in Spagna, mentre circa un terzo in Germania.
In generale, per i cittadini italiani avere a che fare con il sistema giudiziario è come fare una gita all’inferno. Le cronache degli ultimi anni – ivi comprese le confessioni di Luca Palamara, già presidente dell’Associazione nazionale magistrati – rivelano numerosi casi di abusi della magistratura, un sistema di autogoverno arbitrario e corrotto, la moltiplicazione delle faide tra le correnti dei giudici: il potere giudiziario appare irrimediabilmente autoreferenziale e sempre più intossicato. A quanti hanno denunciato le derive di questi anni, l’azione di Sergio Mattarella – che, in qualità di capo dello Stato, è anche presidente del Consiglio superiore della magistratura – è apparsa troppo timida, se non addirittura subalterna alla magistratura e al cosiddetto “partito dei Pm”.
Forse è per questo che, l’altroieri Mattarella ha scelto di fare la voce grossa. I principi di autonomia e di indipendenza – il cui presidio, avverte il presidente «risiede nella coscienza dei cittadini» – vanno rispettati, certo. Ma «l’ordinamento giudiziario e il sistema di governo autonomo della magistratura devono corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, come richiesto a buon titolo dai cittadini», aggiunge il capo dello Stato.
Mattarella chiede «che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento» e che siano superate «le logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono restare estranee all’ordine giudiziario».
Per Mattarella il potere giudiziario è vincolato al rispetto dei diritti dei cittadini. I quali «devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’ordine giudiziario» e non «devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone».
Al Parlamento, investito di questo appello, resta appena un anno di lavoro. Ma le resistenze dei magistrati, unite all’insufficienza della riforma Cartabia, allontanano ancora la soluzione del problema.
Il discorso di insediamento del Presidente. La forza del presidente Mattarella e le critiche di Travaglio e del Fatto. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 6 Febbraio 2022.
Il ruolo del Presidente della Repubblica nel nostro sistema costituzionale – ruolo di garanzia e di orientamento costituzionale dell’autonoma attività parlamentare e di governo – condanna tradizionalmente il Capo dello Stato a discorsi, come dire, di alto profilo istituzionale ma di prudente genericità contenutistica (fatto salvo il peculiare ed eccezionale strumento del messaggio alle Camere, naturalmente). Dunque sappiamo da sempre cosa sia lecito attendersi dai discorsi ufficiali del Presidente, anche dai più solenni quali quello di insediamento, o quelli consueti di fine anno: richiami ai principi costituzionali, sollecitazioni nella scala delle priorità valoriali, moniti sull’etica pubblica e sulla doverosa nobiltà della politica, solidarietà ed attenzione verso i più deboli.
Ferme queste premesse, è difficile non cogliere nelle parole che il Presidente Mattarella ha rivolto alle Camere riunite in occasione del suo secondo insediamento al Quirinale, un segnale di novità proprio sullo specifico tema della riforma della giustizia. Non fosse altro perché, al contrario, sul tema questo Presidente è stato sempre molto parco. Salvo errori, non ho ricordo di significativi interventi del Presidente Mattarella, in questi primi sette anni, che ponessero al centro della sua attenzione i principi costituzionali del giusto processo, della presunzione di non colpevolezza, della eccezionalità della privazione della libertà personale prima di una definitiva sentenza di condanna, della finalità rieducativa della pena. Sulla stessa riforma dell’ordinamento giudiziario egli, pur presiedendo il Consiglio Superiore della Magistratura nel periodo certamente di più grave crisi nella storia repubblicana, non è in realtà mai andato oltre generici richiami di principio ad un riscatto etico e morale del potere giudiziario.
Anche per contrasto con questo suo consolidato atteggiamento, le parole sulla riforma della giustizia spese in questa seconda cerimonia di insediamento, pur sempre costrette nella cornice istituzionale propria del ruolo, colpiscono per la loro inedita forza. Le sollecitazioni circa la necessità che la magistratura recuperi credibilità agli occhi dei cittadini (“sentimento fortemente indebolito”) non sono certo nuove. Lo è molto di più, invece, la riflessione successiva, per la quale i cittadini «neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie e imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone». Una riflessione secca, dura e chiara che considera finalmente la giustizia penale anche dal punto di vista di chi ne subisce l’esercizio. Se rimanete scettici rispetto a questa mia riflessione, vi invito a leggere il Fatto Quotidiano di oggi: “Mattarella bis: 55 applausi, soprattutto contro i giudici”. E di lato, il direttore Travaglio riserva nel suo editoriale commenti astiosi esattamente alle stesse parole che vi ho ora riportato.
Mattarella bacchetta politici (che lo applaudono) e magistrati: “Manca progettualità, la giustizia così perde credibilità”
Non solo: per la prima volta il Presidente sottolinea come «Magistratura ed Avvocatura sono chiamate ad assicurare che il processo riformatore si realizzi, facendo recuperare appieno prestigio e credibilità alla funzione giustizia». È un richiamo esplicito al ruolo cruciale dell’Avvocatura in ogni serio percorso di riforma della giustizia, che sarebbe sciocco non apprezzare e valorizzare. Soprattutto considerando che proprio sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, diversamente che in tema di riforma del processo penale, Governo e Parlamento hanno scelto di escluderci da ogni tavolo di discussione, percorrendo la strada, sterile e pericolosa, del confronto esclusivo con la magistratura associata, chiamata dunque, contro ogni logica, a riformare sé stessa.
Se infine consideriamo il richiamo al sovraffollamento carcerario come intollerabile offesa alla dignità umana, possiamo a buona ragione salutare con vivo apprezzamento nelle parole del Presidente della Repubblica il segno di una nuova attenzione ai temi della giustizia penale, declinata anche sul versante di chi ne subisce i morsi, e non più solo delle virtù di chi l’amministra. Il tempo ci dirà se si tratta di una rinnovata sensibilità del supremo garante della nostra Costituzione, come la solennità dell’occasione ci autorizza a credere, e comunque a sperare.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Giustizialisti in lutto. Mattarella lancia l’allarme sulle carceri e scatena la furia di Travaglio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Febbraio 2022.
Il fronte giustizialista, dopo la gaffe dell’altro ieri in Parlamento, è stato preso per le orecchie e richiamato all’ordine da Marco Travaglio. Il quale in questi giorni ha un bel da fare a tenere uniti i suoi che scappano da tutte le parti: cinquestellati indisciplinati, dimaisti diventati liberal, Conte che sbaglia le dichiarazioni, magistrati che ci capiscono poco e vanno appresso alla corrente esultando invece di fischiare. Un vero casino. Adesso, sembra, il fronte si è ricompattato (salvo i traditori” come Di Maio, che quello è più infido di Galeazzo Ciano…), ed è sceso in trincea contro il trio delle streghe: Mattarella-Draghi-Cartabia.
Travaglio è stato molto rude sul suo giornale: si è disperato per l’insipienza di un bel drappello di 5 Stelle, anzi di tutti, che si son spellati le mani senza accorgersi che Mattarella stava attaccando i magistrati. Il povero direttore, che ormai ha assunto stabilmente la direzione di quel che resta del grillismo, li ha bastonati. Deve aver pensato che se gli tocca andare avanti con questi qua non va molto lontano. Nel suo richiamo all’ordine, anche per farsi capire dalle teste dure del suo seguito, ha menato fendenti contro Mattarella, accusandolo anche di avere tradito la Costituzione. Come? Non accettando la nomina di Paolo Savona a ministro dell’economia e poi accettando le dimissioni di Conte e conferendo l’incarico a Draghi. Travaglio ritiene che la Costituzione su questo punto sia moto chiara: il premier deve essere Conte. Comunque il grande equivoco dell’altro giorno è stato assai divertente. Vedere mezzo fronte giustizialista (molto più di mezzo) battere le mani a Mattarella che picconava la magistratura, è stato abbastanza spassoso. E certo non si può dare torto a Travaglio e alla sua furia. Pensate che persino Gratteri ha omaggiato Mattarella, e che oltretutto il suo omaggio è stato valorizzato proprio dal Fatto, probabilmente all’insaputa del direttore.
Quindi oggi si festeggia? No, per una semplice ragione. Quel Parlamento che ha passato il pomeriggio ad applaudire Mattarella è lo stesso parlamento di conigli che negli anni scorsi si è sempre piegato ai diktat della magistratura. Voi conoscete molti parlamentari che si sono battuti contro lo strapotere dei Pm e per il ritorno allo stato di diritto (invocato da Mattarella)? Io al massimo una decina. Tutti gli altri sono sempre rimasti zitti, non hanno speso un centesimo del loro tempo per occuparsi dei problemi della giustizia. Molti hanno fatto silenzio persino difronte agli orrori di Bonafede, alle leggi borboniche, alle spazzacorrotti e spazza diritto, alla consacrazione dell’eternità dei processi con l’abolizione della prescrizione, all’affossamento della riforma carceraria, alla liberalizzazione dei trojan tedesco-orientali, alle autorizzazioni ai processi politici ai ministri; i più anziani di loro non si erano opposti all’arresto del senatore Caridi (dichiarato dopo alcuni di carcere del tutto innocente), né all’espulsione dal Senato di Augusto Minzolini (condannato da un giudice ex sottosegretario del partito avversario) né di Berlusconi, avevano votato la legge Severino, che è una mostruosità, e avevano in tutti i modi contribuito al disfacimento del nostro sistema giudiziario, trasformato in una casamatta del potere senza controllo di un gruppetto di magistrati.
Perché allora applaudivano quando Mattarella denunciava questi misfatti? Certo, i misfatti più gravi sono da attribuire alla magistratura, ma i parlamentari erano stati complici convinti. Perchè erano stati complici? Solo per paura, per codardia? Può darsi. E può darsi che ascoltando il “capo” che dava via libera a una riforma moderna del catafalco giustizia, abbiano pensato: ma allora si può!. Sarà anche così, ma proprio per questo: c’è da fidarsi? Io non mi fido. Non c’è bisogno di un Parlamento che faccia piccole riforme. Occorrono colpi d’ascia con l’obiettivo di riportare sotto controllo un potere assoluto che ha maturato una degenerazione correntizia e soprattutto sovversiva. Servono molte leggi che spezzino questa capacità di sopraffazione che inquina la modernità e la civiltà e la libertà.
Separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, fine del controllo del Csm da parte della corporazione e delle correnti, prescrizione, introduzione di elementi che stabiliscano la reale parità tra difesa e accusa, divieto di porte girevoli tra politica e magistratura, fine dell’ergastolo e dell’inumano 41 bis, e molto altro ancora. Ma soprattutto serve una riforma che tolga ai Pm e ai Gip (spessissimo loro sodali taciturni) il potere quasi fisico di esercitare una inaudita violenza sugli indiziati, sequestrandoli e sottoponendoli a ricatto, paura, demolizione psicologica, talvolta vera e propria tortura. E privandoli di ogni diritto umano e civile. Oggi nelle nostre carceri ci sono più di 15 mila detenuti in attesa di giudizio. Cioè mai condannati. Cioè innocenti. Più della metà di loro sarà assolta in primo grado, dicono le statistiche, un altro 20 o 30 per cento in appello o in Cassazione; resta una piccola minoranza che in gran parte sarà condannata a piccole pene.
Capite l’enormità di questa ingiustizia? E voi lo sapete perché sopravvive questa ingiustizia medievale? Perché senza questo potere i Pm e i Gip diventerebbero dei semplicissimi inquirenti, costretti a trovare gli indizi e le prove, i riscontri, a lavorare duro, a cercare i delitti e non a mettere nel mirino i sospetti (questa cosa la dice addirittura Antonio Di Pietro). Proibire la carcerazione preventiva se non nei casi estremi di violenza (poche centinaia all’anno) sarebbe davvero il primo passo. E sarebbe la prova che Mattarella parlava sul serio. Se non si fa neanche questo vuol dire che quel discorso era una messa in scena, erano una messa in scena gli applausi, ed è spiegabile la reazione cauta di molti magistrati: indispettiti, sì, ma sicuri che alla fine la spuntano loro, come sempre. Gli ha fatto un baffo il clamoroso scandalo Palamara, figuratevi un discorsetto del Presidente…
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
La polemica. La guerra dei Pm contro l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.
I vertici della magistratura italiana sono in larga parte fuori dalla Costituzione e dallo Stato di diritto, in guerra esplicita contro l’Alta Corte e le sue sentenze. Le recenti inaugurazioni dell’Anno giudiziario 2022 sono state veri campi di battaglia. Alla testa dello squadrone si è messo il procuratore generale della Corte di Cassazione, quel Giovanni Salvi ormai soprannominato “lo smemorato”, da quando non ricorda più dove ha messo il telefonino, o anche “il pentito”, dopo che ha capovolto la propria posizione sull’ergastolo ostativo per allinearsi a presenti e passati procuratori “antimafia”.
Quello dell’ergastolo ostativo, uno dei temi più ignorati dalla grande stampa, non è una faccenda tecnico-giuridica, pane e formaggio per barbosi giuristi o perditempo “garantisti pelosi”, come dicono i tagliagole, è semplicemente qualcosa che fa la differenza tra la vita e la morte. Tra la civiltà giuridica dei Paesi liberali e democratici e la barbarie degli Stati totalitari e vendicativi che mantengono la pena capitale. In quale contesto sta l’Italia, dal momento che le decisioni della Corte Costituzionale, oltre che quelle della Corte europea dei diritti dell’uomo, vengono combattute proprio da chi dovrebbe applicarle? E lo stesso Parlamento viene minacciato se non obbedirà ai diktat dei pm “antimafia”? Se qualcuno domandasse al procuratore generale Salvi se è favorevole alla pena di morte, stiamo certi che risponderebbe sdegnato di no, come, crediamo, se qualcuno lo avesse accusato di essere a favore della schiavitù o della tortura. Infatti, pochi mesi fa, in quel mese di marzo 2021 in cui si era in attesa della decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo, si era un po’ sbilanciato a dirsi contrario al “fine pena mai”.
Ma era in un ambiente rilassato, un dibattito culturale un po’ fuori contesto rispetto alla necessità di indossare elmetto e giubbotto antiproiettile per la “lotta” alla mafia, come se questa spettasse ai magistrati. L’inaugurazione dell’ anno giudiziario è altra cosa, e allora si deve mandare un messaggio brutale e dire che il “fine pena mai” e il “carcere duro” sono utili, perché servono a “impedire che i boss comandino dal carcere”. Lo squillo di tromba partito da un vertice così autorevole è indirizzato a due interlocutori altrettanto elevati: la magistratura e il Parlamento. Si deve decidere chi comanda. La Corte Costituzionale e il potere legislativo o quello illegittimo del Partito dei Pm? Bisogna spostarsi da Roma a Palermo per trovare la carta assorbente su cui depositare il messaggio. In terra di “trattativa” ritroviamo, tra gli orecchi musicali più sensibili allo squillo guerriero partito dal vertice della magistratura, un vecchio gruppo di toghe che pare uscito dalla fotografia ingiallita della “vicenda Scarantino”. La storia di quel falso pentito coltivato amorevolmente dagli inquirenti siciliani, dopo che era stato torturato nel carcere speciale di Pianosa, fino a che era riuscito a mandare in galera una quindicina di innocenti accusando falsamente anche se stesso per l’assassinio del giudice Paolo Borsellino. Un bell’esempio di “pentito”, cui non sappiamo si siano ispirati anche il giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario i tre ex pm che di Scarantino si erano occupati, e che poi hanno fatto belle carriere.
Parliamo di Nino Di Matteo, Dino Petralia e Anna Maria Palma. Il primo, oggi membro del Csm, ritiene che, se si mette in discussione il fatto che per accedere ai benefici penitenziari si debba per forza essere delatori, “si fa il gioco della mafia”, “si attua il programma di Totò Riina”. Ecco sistemata l’ Alta Corte, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, dando al Parlamento un anno di tempo, che scadrà il prossimo maggio, per attuare le riforme necessarie ad adeguare le norme emergenziali varate nel 1992 agli articoli 3 e 27 della Costituzione. Di Matteo, pur facendo parte di un organismo di alta giustizia come il Csm, si ribella ai principi cardine della Legge delle leggi come ribaditi dall’Alta Corte. Preferisce usare il palcoscenico di Palermo per invitare la magistratura a proseguire la ricerca “dei mandanti delle stragi del 1992”. Come se la sconfitta nel processo “trattativa” non dovesse ancora bruciargli sulla guancia. Allineatissima la procuratrice generale facente funzioni Anna Maria Palma, che chiede in modo esplicito “non si abolisca l’ergastolo ostativo”. Dino Petralia ha invece dismesso l’abito del pm “antimafia”(persona diversa dall’omonimo Carmelo, che condusse le indagini sul falso pentito Scarantino con i colleghi Di Matteo e Palma), indossando a tutto tondo quello di capo del Dap, cioè di amministratore delle carceri. Vedere qualche prigione gli è servito, e forse anche la contaminazione con “Nessuno tocchi Caino”, l’associazione di cui ha anche partecipato al congresso dello scorso dicembre. Vogliamo trattenere come vera perla la sua seguente affermazione: “La Costituzione parla di pena e non necessariamente di carcere”. Lasciamola lì, senza commentarla.
Torniamo invece all’aggressione violenta che alcuni vertici della magistratura hanno sferrato contro la Costituzione. Ci sono quelli del passato, la cui opinione è però sempre autorevole sui quotidiani (non solo sul Fatto), come Giancarlo Caselli, che fu ai vertici di Magistratura democratica, ma soprattutto procuratore capo di Palermo. Ed è questa seconda veste che gli è rimasta appiccicata addosso anche da pensionato. Un altro è Roberto Scarpinato, che ha lasciato la toga da poco, con una sorta di testamento il cui leitmotif risuona delle parole di Di Matteo sull’uso dei “pentiti”, il timore che con le riforme garantistiche e costituzionali diminuiscano i collaboratori di giustizia. Sempre con l’ossessione dei “mandanti occulti“ delle stragi, cioè di una sorta di trattativa continua tra la mafia e lo Stato. Neanche la sentenza della Corte d’appello di Palermo che ha bocciato questa tesi viene rispettata. La verità è che questo partito dei pm “antimafia” sta giocando una propria partita di potere anche all’interno della magistratura, con la sponda di alcuni partiti in Parlamento. Non è un caso che, non appena sentite le parole di Salvi e di Di Matteo alle inaugurazioni dell’Anno giudiziario, gli esponenti del Movimento cinque stelle si siano svegliati con un sussulto, proponendo che la riforma del Parlamento disattenda subito la richiesta della Corte Costituzionale. In molti modi.
Prima di tutto azzerando le competenze dei giudici e tribunali di sorveglianza territoriali, gli unici che conoscono il percorso rieducativo di ogni detenuto, per accentrare le valutazioni a Roma. E poi scaricando sul singolo prigioniero l’onere di dimostrare di aver rescisso ogni legame con gli ambienti criminali e affidando al procuratore nazionale antimafia e al pm che aveva condotto le prime indagini il compito della decisione finale. Il che significa una cosa sola: inchiodare ogni detenuto alla fotografia di venti-trent’anni prima, al momento della commissione del reato. Quindi negarne ogni possibilità di cambiamento (del resto Caselli l’ha detto chiaro: dalla mafia non si esce mai!) e condannarlo a morte. Si, morte, morte sociale, stillata goccia a goccia, ogni giorno e ogni notte. Ma i magistrati non dovrebbero essere obbligati alla fedeltà costituzionale? E i membri del Parlamento?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Principio di civiltà. L’ignobile allusione dei manettari e la questione morale della giustizia. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 30 Gennaio 2022.
Il Fatto quotidiano ha attaccato la decisione della Corte Costituzionale di tutelare il diritto di corrispondenza, insinuando che cosi i boss potranno ordinare stragi e omicidi per lettera.
Ci sono piccoli episodi, scaramucce insignificanti che hanno il grande pregio di far capire il clima del tempo e soprattutto la mediocrità del materiale umano.
Non sto parlando del Quirinale ma di un semplice “occhiello” del Fatto nel titolo di un articolo che parla di una importante, liberale sentenza della Corte costituzionale.
Il giornale diretto da Marco Travaglio, l’uomo che ama farsi odiare dai garantisti italiani con un titolo offensivo che a dire il vero non riprende il contenuto del pezzo a firma di Antonella Mascali denuncia il supposto favore che la Consulta avrebbe fatto alla criminalità organizzata dichiarando li costituzionalità della censura della corrispondenza tra detenuti e i loro difensori.
È una bella sentenza scritta da uno dei migliori giuristi penali italiani, Francesco Viganò: il ragionamento è lineare e limpido. Posti sulla bilancia due contrastanti diritti, quello alla difesa sociale e quello alla personale libertà di comunicazione, la Corte, nell’ambito del paradigma dell’art. 3 della costituzione individua il punto di equilibrio nella tutela del diritto di difesa di cui la comunicazione a ogni livello dell’imputato con l’avvocato è espressione.
Il bilanciamento è attentamente soppesato con le restrizioni tipiche del regime del 41 bis rispetto alle quali il visto di censura è un aggravio eccessivo che lede il diritto di difesa. Il giudice delle leggi, qui è il punto, ritiene che una società democratica debba correre il rischio che si lega al rispetto della segretezza delle comunicazioni perché altrimenti lo squilibrio sarebbe intollerabile per lo Stato di diritto.
L’occhiello nel titolo, di pretta matrice travagliana, («geniale: cosi i boss potranno ordinare stragi e omicidi per lettera») ha scatenato una generale indignazione presso gli avvocati, ma, sembra incredibile non contro l’incredibile offesa ai giudici della Corte quanto alla dignità e alla reputazione dell’avvocatura italiana.
Una reazione che anche a chi scrive, pur membro della categoria sembra spropositata e che si concretizza addirittura nella minaccia di querele e diffide.
La presidente della massima istituzione delle toghe il Consiglio Nazionale Forense ha addirittura diffidato Travaglio a prendere le distanze nientemeno che dall’occhiello dell’articolo pena il ricorso alle vie legali, come in uno sfratto.
Questa esplosione d’indignazione costituisce un clamoroso autogol: Travaglio rispondendo a una lettera di protesta di un avvocato ha diplomaticamente osservato che il titolo si riferisce ovviamente a una esigua minoranza di avvocati «disposti per collusione o paura a trasmettere all’esterno ordini delittuosi dei loro clienti» tra cui inserisce il caso di «una avvocatessa di Canicattì». Da qui egli definisce «criminogena» la sentenza della Corte in quanto «favorisce tali deviazioni».
Assai meno gentile la risposta di Marco Travaglio alla presidente del Cnf, cui rinfaccia di parlare troppo dei diritti degli avvocati dei mafiosi e tacere su quella grave ferita al diritto di difesa che è l’obbligo di Green Pass per gli avvocati.
Ho sempre pensato di Travaglio, penna tra le più brillanti, come al perfetto esempio di una vena anarcoide – eversiva, intimamente autoritaria e intollerante, da sempre presente in una certa cultura, anche politica, italiana che ha trovato la sua perfetta sintesi nel motto «me ne frego» (di chi non la pensa come me, della salute degli altri, dei criminali cui vanno negati i diritti elementari e il cui difensore può essere l’avvocato para-mafioso, sociopatico e No Vax, il prototipo appunto del legale secondo il direttore).
Il diritto di difesa svuotato e ridotto a simulacro è quello che piace a lui e Piercamillo Davigo e che piaceva anche al suo amico Beppe Grillo prima che scoprisse i piaceri del processo penale. Auguri.
Onestamente a me le frasi e le osservazioni del Fatto e del suo direttore sembrano diffamatorie per la Corte Costituzionale e per uno dei suoi più valorosi componenti ma non certo per la categoria degli avvocati.
La verità è che andava e va difesa la Consulta e il principio di civiltà che la sua sentenza ha ribadito, invece la levata di scudi e le polemiche ci sono state solo per l’allusione al ruolo colluso del difensore.
Che vi siano disonesti nelle fila degli avvocati come in tutte le categorie è naturale e innegabile, così come vi sono fulgidi esempi di eroico sacrificio come Fulvio Croce ucciso dai brigatisti rossi e Serafino Famà, assassinato dalla mafia per aver dissuaso una propria assistita dal piegarsi alle volontà di un boss.
Quello che è interessante è capire il perché di reazioni che lasciano intuire come il tema dei rapporti tra avvocato e cliente, così dibattuto rappresenta tuttavia un nervo scoperto per l’avvocatura.
Ma più in generale il problema è l’esistenza di una questione morale nel mondo della giustizia esplosa con la vicenda Palamara e poi proseguita con altri scandali che è il riflesso di uno dei grandi problemi della società italiana: la frantumazione sociale.
Fuor di metafora, è noto che nell’attuale critico e frastagliato momento storico, insieme alla crisi della magistratura si è registrata la circostanza che alcuni importanti esponenti dell’avvocatura italiana, che hanno rivestito e ancora ricoprono cariche politiche e associative di primo piano sono sottoposti a processo, in taluni casi con applicazioni di misure cautelari o addirittura richiesta di condanna.
Per tutti non ho alcun dubbio sulla loro estraneità ai reati contestati, ma questa è una posizione personale che non può avere rilievo: ciò che mi preme sottolineare è il rischio che può derivare da una sorta di riflesso condizionato, dalla sensazione di sentirsi sotto assedio, dalle rivendicazioni corporative di una sorta d’immunità.
Come per le vicende politiche anche in queste polemiche settoriali emerge il male oscuro della democrazia italiana: la frantumazione sociale, la perdita di una visione comune.
Non possiamo subire attacchi indiscriminati alle garanzie ma non possiamo neanche illuderci che i problemi etici che hanno investito altre categorie professionali non ci riguardino come avvocati, pena la generalizzazione di vizi e pregiudizi che intaccherebbero il prestigio professionale di tutti.
È importante non tanto la reazione stizzita agli attacchi, quanto la capacità ove ve ne fosse bisogno di affrontare una eventuale questione morale che riguardi l’avvocatura, con fierezza e senza giudizi affrettati, ma con il necessario coraggio. Ed è una questione che riguarda oggi tutta la società italiana.
Traffico di influenze. Svolta di Travaglio, il Fatto Quotidiano diventa garantista: niente gogna per Grillo indagato. Il Gaglioffo su Il Riformista il 20 Gennaio 2022.
La notizia che il povero Beppe Grillo è indagato per il reato inventato dalla ministra Severino e inasprito dal prode Bonafede – fustigatore di ogni malefatta dei politici – ieri ha fatto sorridere un po’ tutti i commentatori. In effetti è una notizia molto divertente. Qualche giorno fa Marco Travaglio, che di Grillo è il principale figlioccio, durante un dibattito televisivo con Renzi sorrideva e sventolava le mani strusciando tra loro i due pollici i due indici per far capire che i pregiudicati veri son quelli che prendono denaro, anche se magari non vengono condannati, e tutti gli altri reati contano poco.
Travaglio sosteneva che questo tipo di reato era tutto una specialità dei partiti non-cinque-stelle, e in particolare dei renziani e dei berlusconiani. E adesso si trova in un bel guaio. Qui c’è la magistratura che sostiene che Grillo ha preso i soldi per dire ai suoi (cioè ai deputati e ai senatori del partito del quale era garante) di favorire la Moby Traghetti. E, secondo i Pm, i suoi deputati e senatori obbedirono, come spesso a loro capita. E su questa base i magistrati hanno ipotizzato il reato di traffico di influenze. Ora è ben vero che nessuno sa in cosa possa consistere questo reato misterioso, inventato solo allo scopo di consegnare ai Pm uno strumento per colpire i politici e gli imprenditori anche in totale assenza di episodi di corruzione; però resta il fatto che a difendere strenuamente questo reato, e ad inasprirne le pene, c’era proprio il partito di Grillo, che lo fece anche in modo rumoroso, e quando (con l’aiuto della Lega) impose al parlamento quell’obbrobrio di legge forcaiola che battezzò “spazzacorrotti”, festeggiò e festeggiò e si gloriò e insultò sanguinosamente chiunque provasse a opporsi a quella follia da sbirri. E Grillo era lì. Felice. Convinto. Contento. Era lì in bonafede.
Poi tutto tornò in pianto. E dalla nuova terra un turbo nacque… Se lo guardate oggi, Grillo, fa simpatia. Si proclama innocente, ripete le frasi che cento volte hanno ripetuto, non credute, centinaia di vittime della malagiustizia – come lui- che però, da lui, furono insolentite e infangate. Ora è lui a imitare le sue vittime. Traffico di influenze non è una cosetta. La pena può arrivare a quattro anni e mezzo di prigione. Che vuol dire addirittura tre volte la pena che Grillo a suo tempo rimediò come responsabile di un triplice omicidio colposo. Si sa che nella filosofia dei 5 Stelle omicidio e reati contro il patrimonio o la pubblica amministrazione non sono comparabili. A una persona onesta può succedere di uccidere, e passi; ma se davvero è onestà onestà non gli capiterà mai di essere sospettata di avere preso o dato dei soldi illeciti.
E così, nell’ilarità generale, Grillo è finito anche lui alla gogna. Tanto che tutti i giornali italiani, salvo uno, ieri hanno dedicato a Grillo il titolo di apertura della prima pagina. Come fanno da molti anni ogni volta che un politico prende una stangata da un sostituto procuratore allegro e baldanzoso. Salvo uno, dicevamo. Indovinate quale? Eh già, proprio lui: Il Fatto del fido Travaglio. Il quale per la prima volta nella sua storia – dieci anni di storia – ha ridimensionato la notizia e ha deciso che era una notizietta da dare in prima in un trafiletto piccolo piccolo. E questo, naturalmente ha aumentato l’ilarità generale. Perché poi è così: è giusto, quando un povero epuratore finisce epurato (Nenni aveva previsto tutto) e un fustigatore fustigato, e un savonarola savonarolato, non fare i maramaldi e difenderlo, come vanno difesi tutti quelli che finiscono sotto le manganellate dei Pm. Però, ridere un po’ è lecito. Di Grillo? Sì, certo, di Grillo, ma più ancora del suo scudiero che dirige il Fatto. Il Gaglioffo
La malapianta grillina che ha devastato la giustizia. La corruzione è peggio che uccidere, la barbarie della legge simbolo dei grillini che ha devastato la giustizia. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Gennaio 2022.
Al dottor Piercamillo Davigo, che ama dilettare i suoi ammiratori con storielle paradossali, sostenendo che convenga, dal punto di vista della burocrazia giudiziaria, ammazzare la moglie piuttosto che divorziare, sottoponiamo un altro quesito. È più conveniente uccidere il coniuge (facciamo il marito questa volta, va) o essere imputato di un reato contro la Pubblica amministrazione? Sul Riformista di ieri il magistrato Alberto Cisterna ha ricordato in modo magistrale la scomparsa tragica di Angelo Burzi. Basterebbe mettere insieme due suoi concetti, “giustizia come malattia” e “gogna perpetua” e avremmo già detto tutto. Perché, se è vero che storicamente la giustizia non è stata uguale per tutti da un punto di vista sociale e di censo, ancor meno oggi lo è da un punto di vista politico. E soprattutto moralistico.
Da molti anni leggiamo nei provvedimenti giudiziari e nelle sentenze le analisi di schiere di magistrati che si fanno sociologi e psicologi al fianco di chi “ruba una mela”. Buone intenzioni, che dovrebbero stare fuori dalle aule dei tribunali e trasferirsi, più che in parrocchia, nelle amministrazioni locali. Così finisce che, quasi per una sorta di nemesi della storia, la “giustizia come malattia”, la sofferenza del processo e del carcere finiscono per scagliarsi sul mondo dei privilegi e del potere. O sull’immaginario di quell’universo, per come è percepito. “Tiè!” sembra diventata la parola d’ordine, quasi una risposta al grido “lavoratoriii!”, la pernacchia di Alberto Sordi nei Vitelloni di Fellini. Due leggi sono il simbolo dello sberleffo –e il dottor Cisterna le cita puntualmente- , quella del 2012 che ha preso il nome della ministra guardasigilli del governo Monti, Paola Severino, e l’altra dal nome ripugnante di “spazzacorrotti”, voluta dal ministro Bonafede ed entrata in vigore il 9 gennaio del 2019, quando il premier Giuseppe Conte e il Movimento cinque stelle governavano con la Lega di Salvini.
Se è vero che la prima ha regalato notti insonni a Silvio Berlusconi, che sulla base della retroattività della norma, ha perso il seggio al Senato dopo l’unica condanna definitiva, la sua applicazione ha prodotto soprattutto la strage degli amministratori locali. Lungi da noi il voler dare lezioni alla Corte Costituzionale, ma la sospensione dal ruolo di sindaci, assessori e consiglieri per mesi e mesi, dopo una sola condanna di primo grado, con l’accompagnamento consueto di strilli sui giornali e paternali politiche televisive sull’”opportunità” di allontanamento dalla vita pubblica di persone spesso in seguito assolte, fa proprio a pugni con la ratio dell’articolo 27. E speriamo che provveda il prossimo referendum almeno a eliminare l’automaticità del provvedimento. Non è un caso se abbiamo parlato di “strage”. Perché il sadismo, esplicito e voluto, di norme come la “spazzacorrotti” è stato pensato proprio come vendetta che ferisce e che uccide. E il fatto che sia stata applicata retroattivamente per un anno prima che intervenisse la Corte Costituzionale non è stato senza conseguenze. Proprio come accade per i reati di mafia, anche quelli di corruzione sono per esempio “ostativi” all’applicazione dei benefici previsti dai regolamenti penitenziari.
Così, per tornare un attimo alla storiella che vorremmo raccontare al dottor Davigo, prendiamo due condannati a cinque anni di carcere, un rapinatore e Roberto Formigoni. Il primo dopo un anno può avere l’affidamento ai servizi sociali e uscire dal carcere. Il secondo, no. Perché il suo diritto è stato “spazzato via” dagli amici di Bonafede. E infatti è proprio quello che è successo. È quel che capita un po’ tutti i giorni. Perché nei confronti del condannato “comune” la freddezza della sanzione spesso è accompagnata da un qualche senso di umanità, per cui, se il giudice non ne valuta una particolare pericolosità, anche uno che ha accoltellato il collega può andare ai domiciliari. O un ex rapinatore, quando mancano quattro anni al termine della pena, può essere affidato ai servizi sociali. A Roberto Formigoni non fu concesso, a causa dello spirito di vendetta degli amici di Bonafede.
E che dire di quel che capitò a Luca Guarischi, che tornò dall’Algeria per scontare un residuo di pena inferiore ai quattro anni il 10 gennaio 2019 e fu costretto a un anno di carcere perché dodici giorni dopo entrò in vigore la legge “spazzacorrotti” , prima che nel 2020 la Corte Costituzionale ne dichiarasse l’irretroattività? È ovvio che qui c’è prima di tutto un problema di cultura. Non punisco il reato che hai commesso, ma la tua persona. Sei un corrotto, il che equivale a essere un mafioso, un reietto della società. Devi essere isolato, per te non ci può essere futuro. Ecco la “giustizia come malattia”, ecco la “gogna perpetua”. Proprio quel che succede con i condannati per reati di mafia. Nei processi che riguardano la criminalità organizzata, una delle esigenze che stanno alla base di norme “speciali” e di una certa applicazione delle regole, è quella di tenere isolati i detenuti rispetto all’ambiente criminale esterno. Di qui per esempio l’articolo 41 bis del regolamento, che impone il carcere “impermeabile”, piuttosto che l’impossibilità di godere di quei benefici che si applicano ogni giorno anche a responsabili di gravi reati, omicidi, ferimenti, stupri, rapine. Parliamo di permessi premio, di lavoro esterno, di liberazione anticipata. Chi ha sulle spalle un reato “ostativo”, se non si è genuflesso con la cenere sul capo, sa che la sua condizione sarà eterna, che è condannato per sempre, che la sua è una vera pena capitale.
Non è molto diverso per gli “ostativi” della corruzione, come di quelli del “concorso esterno”. In fondo sono gli stessi, quelli che hanno sul corpo le stimmate del far parte del mondo del privilegio percepito. La percezione, proprio come quella del caldo d’estate, è elemento dominante. Anche se deviante. Non a caso, dal punto di vista giornalistico, si usa spesso il concetto di “odore”: odore di mafia, odore di corruzione. Così è più facile usare metodi investigativi, o di giudizio, ordinari nei confronti di colui che ha ucciso la moglie, ma straordinari contro un avvocato come Pittelli che ha “evaso” la detenzione domiciliare scrivendo una lettera senza aver chiesto l’autorizzazione. Oppure un consigliere regionale che forse ha consegnato gli scontrini sbagliati e ha chiesto un rimborso non dovuto, o sulla cui legittimità c’è incertezza.
Non dobbiamo dimenticarci di Angelo Burzi, e neanche permettere che l’avvocato Pittelli “marcisca in galera”, dopo che è stata “buttata la chiave”. Sono ugualmente vittime, e non stiamo parlando di innocenza o colpevolezza. Stiamo parlando di ferite sul corpo, di ferocia di leggi e di processi, e del valore della vita. Loro non l’hanno sottratta a nessuno, ma qualcuno, in un modo o nell’altro, l’ha sottratta a loro.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La legge trasformata in un sistema afflittivo e cieco. Severino e spazzacorrotti, la giustizia ridotta a gogna. Alberto Cisterna su Il Riformista il 7 Gennaio 2022.
Quello di Angelo Burzi non rimarrà, purtroppo, l’ultimo suicidio generato da un mondo complesso e controverso come quello della giustizia. Sia chiaro: persone si tolgono la vita ovunque a causa di una condanna o di una carcerazione ritenute insopportabili. In questi giorni si parla di quel Jeffrey Epstein che, in Usa, ha cancellato la propria esistenza schiacciato dallo scandalo sessuale che lo ha visto protagonista.
L’esperienza del processo e, soprattutto, quella del carcere è dura, molta dura a sopportarsi; se poi a distruggere la propria vita è l’imputato che si proclama innocente in un gesto di estrema disperazione, è inevitabile la spinta del sistema e dei suoi corifei a trovare giustificazioni, a farsi schermo con le condanne. Si finisce, così, per macchiare la vittima, il suicida, di una duplice colpa: quella di essere un pregiudicato matricolato e quella di non aver saputo reggere il peso della condanna. È una prova muscolare quella che ci si attende dal reo, meglio ancora se – a capo cosparso di cenere – si proclama anche sinceramente pentito e bisognoso di perdono. Guai a ribellarsi a questo cliché che rassicura il sistema, di cui anzi il sistema ha un bisogno estremo per saldare alla propria, inevitabile primazia giuridica, anche una sorta di supremazia morale, capace di muoversi a compassione verso l’empio che accetta supinamente il proprio destino.
In fin dei conti il dibattito sull’ergastolo ostativo si concentra tutto nel postulato sotteso a questa doppia supremazia: carcere duro, ma sconti e benefici per chi si sottomette allo Stato e collabora. Indipendentemente, anzi a dispetto di ogni percorso rieducativo e di ogni resipiscenza, si accettano solo genuflessi e riscattati. Con una certa approssimazione certo, ma alcune reazioni quasi infastidite al suicidio di Angelo Burzi potrebbero trovare una spiegazione in questa doppia soggezione che ciascun condannato, ciascun detenuto si pretende debba pagare allo Stato, quasi che la perdita della verginità giuridica ed etica degradi la dignità della persona umana e la renda mero oggetto di una potestà superiore, onnivora. Troppo facile è non credere all’autolesione mortale in nome della propria innocenza, quando una sentenza definitiva predica il contrario. Troppo semplice ricordare al reprobo che, concluso il processo, nessuna innocenza sopravvive e ciò che conta è la fredda prosa di un verdetto.
Però. Però a leggere le ultime parole dell’ex consigliere regionale, la sua laica e disperata professione di innocenza si coglie altro. Vi è una filigrana che tiene insieme quelle frasi, disvela un mondo ulteriore in cui – nostro malgrado – siamo stati trascinati e, quindi, confinati. La legge Severino, prima, e la legge Spazzacorrotti, dopo, hanno disegnato – forse anche a dispetto dei loro fautori – i perimetri di un’afflizione imponente, quasi smodata per imputati e condannati. Sospensioni, confische, carcere duro, misure di prevenzione, decadenze e altro ancora hanno messo in funzione un gigantesco triangolo che risucchia le vite, prima ancora che sanzionare le condotte dei colpevoli. È un sistema afflittivo perfetto, panottico, senza scampo che colpisce il reo a 360° non lasciandogli alcuna via di fuga. Il peculato nei fondi messi a disposizione dei consiglieri regionali ha, obiettivamente, avuto risposte ondivaghe in molte parti del paese. Vi sono indagini fallite che proseguono stancamente solo per non certificare l’innocenza degli imputati e assoluzioni già pronunciate, anche qualche condanna.
Angelo Burzi era stato assolto in primo grado e condannato in appello, sino alla conferma in Cassazione. Un percorso, obiettivamente, non rettilineo che – a prescindere totalmente dal merito – deve aver sfibrato l’imputato al punto tale da indurlo al gesto estremo del togliersi la vita. Ma la lettera non dice questo o almeno non dice solo questo. Non può farsene un’esegesi che sarebbe sconveniente e inappropriata, ma un paio di punti meritano di essere colti. Innanzitutto il prologo: «Natale 2021 Conoscere per decidere». Un’ovvietà per qualunque persona, a maggior ragione per i giudici che si sono occupati di lui. Ma conoscere cosa? Le carte forse? Ma quello è scontato che siano state conosciute. La sua vita? Ma quella resta praticamente fuori dalle aule di un processo, tutto concentrato su pochissimi frammenti di un’esistenza, spesso su un solo gesto, su un attimo d’impeto. Le aule non giudicano vite, esaminano fatti, comportamenti.
Cosa voleva, quindi, Angelo Burzi? Forse che ci accostasse alla sua condanna e alla sua morte conoscendo la sua verità, quella che le prove dell’accusa hanno schiantato e di cui non c’è traccia nel suo certificato penale. Certo la malattia da poco scoperta, certo le sofferenze probabili e imminenti: «si preannuncia quindi un prossimo futuro dl approfondimenti, di interventi chirurgici e di terapie per nulla gradevoli… panorama non certo entusiasmante, ma c’è di peggio. La giustizia è un esempio appunto del “peggio”, non trascurando che lo scrivente è certo di essere totalmente innocente nei riguardi delle accuse a lui rivolte». La giustizia come una malattia, come un male oscuro che lo ha fagocitato e, quindi, restituito alla vita da colpevole. Poi l’accerchiamento, lo schianto imposto da leggi imperturbabili nella loro supponente severità. La paura di perdere il vitalizio come conseguenza della condanna e, ancora, «probabilmente si sarà fatta nel frattempo nuovamente viva la Corte dei conti pretendendo le conseguenze del danno di immagine da me provocato, diciamo non poche decine di migliaia di euro».
Se non fosse che «tutto ciò è .. insostenibile, banalmente perché col vitalizio io ci vivo, non essendomi nel corso della mia attività politica in alcun modo arricchito, e sostanzialmente perché non sono più in grado di tollerare ulteriormente la sofferenza, l’ansia, l’angoscia che in questi anni ho generato, oltre che a me stesso, anche attorno a me nelle persone che mi sono più care». E, infine, il richiamo alla soggezione morale, al supplizio etico che quella condanna imponeva senza scampo; il rimprovero (giusto o ingiusto che sia) a chi secondo lui «ci ha messo molto del suo, probabilmente aggiungendo le sue valutazioni di ordine etico morale, del tutto soggettive e prive sia di sostanza che di sostenibilità giuridica, alle richieste dell’accusa».
I processi per chi saccheggia le risorse pubbliche o si corrompe sono giusti, anzi necessari. Tuttavia guai a trasformarli in una sorta di gogna perpetua, nella bulimica ricerca di ogni più minuto brandello della vita pubblica di una persona per sanzionarlo e reprimerlo. Se le pene, tutte le pene, si trasformano in una perenne vendetta per soddisfare il senso di rivalsa della plebe, allora anche il sacrificio della vita acquista la dignità di un testardo argomento contro la giustizia di una condanna. Alberto Cisterna
La nuova campagna del Fatto. Travaglio ossessionato dalle bufale dei Graviano, falsi scoop del Fatto contro Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Dicembre 2021. Leggiamo dal Fatto: «La sentenza di cassazione contro Dell’Utri colloca Berlusconi come una vittima e non come un imputato. Ciononostante non è una medaglia per un candidato al Quirinale». Anche se vittima, sei pur sempre colpevole, se sei “lui”. Povero Marcolino! Continua a credersi Davide contro Golia-Berlusconi e non gliene va bene una. Ha tentato con il titolone “No al garante della prostituzione”, ma i vari processi “Ruby”, iniziati con una piena assoluzione nel filone principale, si stanno sbriciolando uno a uno anche nei rivoli secondari. Mostrando una volta di più il leader di Forza Italia, più che come reo, come vittima. Si sta giocando quindi, settimana dopo settimana, la “carta Graviano”. Ma non funziona neppure questa, e lo dimostreranno le archiviazioni. Ma nel frattempo la disperazione sta allagando di lacrime la redazione del Fatto, tanto che sono ridotti a lamentarsi pubblicamente perché sull’argomento «i quotidiani non scrivono una riga». Lo schema è sempre lo stesso. Il venerdì, il piccolo settimanale L’Espresso fa il suo scoop, che in realtà è sempre la stessa notizia ripetuta più volte, sulle dichiarazioni di Graviano e le stragi del 1993 di cui Berlusconi sarebbe il mandante. In realtà non lo dice Graviano, ma Travaglio, ma fa lo stesso. Il sabato esce sul Fatto l’articolo, in genere di Marco Lillo, che più che giornalista è assemblatore di verbali, che riprende il finto scoop e aggiunge altri verbali per far vedere che lui ne ha di più di Marco Damilano. Un piccolo manicomio, insomma, che ormai non solo non guadagna più le prime né le ultime pagine dei quotidiani, ma non riesce neanche a far incazzare i difensori di Berlusconi, che evidentemente si sono stancati di ripetere quel che disse Niccolò Ghedini nel febbraio 2020: «Dichiarazioni totalmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà e palesemente diffamatorie». Che cosa era successo? Semplicemente che nel corso di un processo per ‘ndrangheta Giuseppe Graviano aveva cominciato a farneticare su Berlusconi. Ma nella sentenza le sue dichiarazioni erano state bocciate come inattendibili e prive di alcun riscontro. Come ormai si ripete da tempo. Ma Graviano insiste con le sue allusioni, perché spera di guadagnarci qualcosa, chissà, magari qualche permesso premio.
Stiamo parlando di un mafioso ergastolano ostativo che con le sue dichiarazioni astute e ricche di buchi quanto una rete da pesca, sta da un po’ prendendo in giro i magistrati di Firenze, a partire dal capo della procura Creazzo (quello definito come “Il Porco” da una collega siciliana), fino agli aggiunti Luca Tescaroli (antimafia doc) e Turco (il preferito di Matteo Renzi, viste le attenzioni che gli dedica). I quali cercano disperatamente di credere a questo zuzzurellone che, partendo dalla storia di suo nonno (che è un po’come dire dalle guerre puniche), che sarebbe stato imbrogliato da Berlusconi dopo aver versato, insieme ad altri, qualche milione di lire per imprecisati investimenti mai andati in porto, lascia intendere di aver qualcosa da dire sui “mandanti esterni” degli attentati del 1993 e 1994. Perché lui di quelle bombe a Roma, Milano e Firenze qualcosa deve sapere, visto che per quegli attentati è stato condannato.
La cosa più sorprendente è però non solo il fatto che a Firenze esista un filone di indagine su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, ma che gli uomini della Dia stiano perdendo tempo a ispezionare la zona di Basiglio-Milano 3, il quartiere residenziale costruito dalla Edilnord di Paolo Berlusconi, alla ricerca di un residence e anche di un appartamento dove Graviano avrebbe incontrato il presidente di Forza Italia, allora semplice imprenditore, insieme al cugino Salvatore, che aveva nelle mani una “carta” in cui Berlusconi ribadiva l’accordo stipulato con il nonno. Chiariamo subito che sia il nonno che Salvatore sono morti. E che la “carta” non c’è. Inoltre, che cosa c’entra tutto ciò con le stragi? Niente di niente.
Pure gli “scoop” continuano. E i viaggi dei pm fiorentini su e giù per l’Italia. E anche il traffico dei verbali. C’è l’interrogatorio di Graviano del 20 novembre 2020. Quello in cui i pm fiorentini gli chiedono: «Riferisca in ordine a eventuali rapporti economici con Berlusconi e Dell’Utri». E lui racconta la storia del nonno, «Quartararo Filippo, che lavorava nel settore ortofrutticolo». Poi fa confusione, perché dice di aver incontrato Berlusconi insieme al nonno, poi dice invece che il nonno non ha mai avuto rapporti diretti con l’imprenditore milanese. Poi lancia la sua bombetta, anche questa non nuova: mi hanno fatto arrestare per non dare corso a quell’accordo economico assunto con il nonno. Quindi sarebbe stato Berlusconi a farlo arrestare? Ma all’unica domanda importante per l’inchiesta: «Ci dica se Berlusconi è stato il mandante delle stragi», Graviano risponde: «Non lo so se è stato lui». E stranamente, nel successivo interrogatorio del primo aprile di quest’anno non si parla più di bombe, ma solo della “carta” dei defunti nonno Filippo e cugino Salvatore. E noi paghiamo, avrebbe detto Totò.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
I MISTERI DELLE STRAGI. Un milione di dollari per insabbiare lo scoop di Borsellino su Berlusconi, Dell’Utri e la mafia. Un emissario Fininvest offrì soldi per censurare l’intervista a Canal Plus del magistrato, che accusava apertamente il boss Vittorio Mangano e confermava i suoi rapporti con il braccio destro del Cavaliere: filmata poco prima della morte del giudice eroe, fu tenuta segreta per due anni, fino a dopo le elezioni del 1994. A riaprire il caso sono le rivelazioni in punto di morte del giornalista francese Fabrizio Calvi: «So chi è stato il traditore». Paolo Biondani e Leo Sisti su L'Espresso il 27 dicembre 2021. Un milione di dollari. In cambio dei nastri integrali di un video-documentario su Silvio Berlusconi e Cosa nostra: cinquanta ore di filmati, con un’intervista clamorosa a Paolo Borsellino. Uno dei tanti misteri legati all’assassinio del magistrato simbolo della lotta alla mafia riguarda uno scoop televisivo che fu tenuto segreto per due anni. Nell’intervista concessa a due giornalisti francesi nel 1992, poco prima di esser ucciso, Borsellino accusava apertamente Vittorio Mangano, il boss di Palermo che fu assunto da Berlusconi ad Arcore, e confermava i suoi rapporti con Marcello Dell’Utri, l’ex senatore e top manager del gruppo Fininvest poi condannato per mafia.
Il falso scoop. Espresso e Fatto provano a impallinare Berlusconi: rispunta l’intervista a Borsellino di Canal Plus e il tentativo di estorsione al Cav. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 31 Dicembre 2021. «Come magistrato ho una certa ritrosia a parlare di cose che non conosco», disse nell’intervista tv Paolo Borsellino, quando gli chiesero di Silvio Berlusconi. Lo si può riascoltare su youtube. Eppure… Eppure, la situazione è questa: Silvio Berlusconi ha organizzato le stragi del 1993 e ha tentato di far uccidere il suo amico Maurizio Costanzo, prima ancora però aveva anche fatto assassinare Paolo Borsellino. Proprio per quell’intervista al giudice palermitano che lo avrebbe spaventato perché sarebbe stata “pericolosa” per il leader di Forza Italia. Cui viene attribuito un bel curriculum criminale, indubbiamente.
Il grottesco è che esiste una partita di giro giornalistica tra il comico e il delinquenziale che non solo è convinta di questa favola, ma perde anche tempo a scriverne, e soprattutto a sollecitare i magistrati ad aprire inchieste. Come se non fossero bastati gli innumerevoli tentativi abortiti in terra di Sicilia. Come se non fosse ancora all’ordine del giorno la follia dell’inchiesta aperta a Firenze da un procuratore definito “Il Porco” da una collega che lo accusa di molestie, insieme a uno già svezzato dall’“antimafia” in Trinacria e un terzo innamorato delle gesta di Matteo Renzi. La partita di giro giornalistico-giudiziaria procede, naturalmente, in simbiosi con quella più politica, il battaglione dei virtuosi che spiegano ogni giorno a Berlusconi di lasciar perdere con la candidatura al Quirinale, chi evocando il conflitto d’interessi, chi qualificandolo come “divisivo”. Come se la gran parte dei predecessori non provenisse da qualche partito e non fosse di conseguenza “divisivo”. Ma c’è divisivo e divisivo, dipende solo dal colore politico.
La storia giudiziaria serve a rafforzare quella politica e a riempire molte pagine. Accantonata la questione della frode fiscale, perché per l’unica condanna Berlusconi è stato riabilitato e qualche sorpresa potrebbe arrivare dalla commissione europea e lasciare i suoi persecutori a bocca asciutta. Fallita l’operazione di Travaglio “No al garante della prostituzione” (forse perché molti uomini italiani vanno a prostitute e non amano che li si faccia sentire in colpa per questo), non restava che la mafia. Dare del mafioso a un politico è sempre un bel colpo. Quindi si spara con queste cartucce. C’è la carta Giuseppe Graviano – parliamo di un mafioso condannato all’ergastolo per le principali stragi di Cosa Nostra -, che almeno una volta la settimana porta a spasso qualche pubblico ministero. Prima parlando del proprio nonno che sarebbe stato truffato dopo un investimento in società con l’imprenditore di Arcore. Poi dilettandosi di toponomastica sul sud milanese, dove si sarebbe recato in anni passati in motel piuttosto che in un appartamentino per appuntamenti di cui non si capisce la finalità.
Fantasie che però hanno tenuti impegnati i magistrati e gli uomini della Dia in diversi viaggetti, e i giornalisti del Fatto con le loro affannose cronache a riempire pagine su pagine. Che Giuseppe Graviano si stia accreditando per avere qualche alleggerimento al proprio 41 bis è lampante. Non può fare il “pentito” perché sulle stragi ormai c’è un affollamento di collaboratori di giustizia da non lasciare spazio a nuove rivelazioni. Così ha cercato la gallina dalle uova d’oro, ormai introvabile a Palermo, ma ancora vivente a Firenze. Ma anche il filone Graviano è ormai asciutto. Un po’ perché lui vuol fare lo scambio con qualche vantaggio personale e la cosa non sta andando in porto, ma soprattutto perché in realtà su Berlusconi non ha proprio niente da dire. Ecco dunque che spunta fuori – ancora e ancora – la storia di un’intervista al giudice Paolo Borsellino, fatta poco prima della sua uccisione, da due giornalisti dell’emittente francese Canal Plus, Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo. La chiacchierata aveva come tema generale la mafia e andava inserita in un documentario. I due però, lo si capisce bene riguardando il filmato, insistevano molto con le domande su Vittorio Mangano, lo stalliere che per un periodo fu impiegato ad Arcore, la sicilianità di Marcello Dell’Utri (la sua vera colpa) e i rapporti con Silvio Berlusconi.
Borsellino si difendeva come poteva dall’insidia dell’incalzare delle domande, dicendo che non ne sapeva niente e che se Mangano parlava di cavalli era perché ne era appassionato. Ma anche che, quando parlava con un esponente della famiglia mafiosa degli Inzerillo, forse usava quel termine, così come quello delle “magliette”, per parlare di droga. Lui diceva Inzerillo, e quelli traducevano in Dell’Utri, però. Una vera “incomprensione”. Come quando gli dicono che tutti e due, il dirigente di Publitalia e lo stalliere erano di Palermo e il magistrato sorridendo: ma non vuol dire che si conoscessero, anche se erano della stessa città! I due tendevano continuamente il loro tranello al giudice, con un uso particolare e ingannevole della telecamera. Lo spiega in modo esplicito Michel Thoulouze, ex manager di Canal Plus e di Telepiù, intervistato ieri dal Fatto quotidiano. E dice anche qualcosa di più. Che i due giornalisti avevano in seguito tentato di vendere l’intervista e tutte quante le 50 ore di girato a un collaboratore di Silvio Berlusconi, il quale si era detto non interessato e aveva rifiutato.
Peccato però che il piccolo settimanale L’Espresso, allegato di Repubblica, abbia titolato nel suo ultimo numero “Soldi per insabbiare lo scoop. Un emissario di Berlusconi offrì un milione di dollari per l’intervista di Canal Plus a Borsellino”. Chi lo dice? L’avrebbe detto in confidenza Fabrizio Calvi a uno dei due colleghi dell’Espresso (Paolo Biondani e Leo Sisti) prima di morire. Eh si, perché l’autore della famosa intervista a Borsellino, che era malato di Sla, ha deciso di chiudere con la vita in una clinica svizzera lo scorso ottobre. E lui, scrivono con cinismo i suoi due “amici” del settimanale italiano, «non ha fatto in tempo a spiegarci tutto quello che aveva scoperto». Bel modo di trattare gli amici! Aspetti che uno non ci sia più per accreditargli uno scoop inesistente e poi ti lamenti perché lui non ha fatto in tempo a dirti tutto, come se fosse morto all’improvviso e non, come è stato, in modo programmato. Cinismo ributtante, veramente.
Naturalmente, e “opportunamente”, anche l’altro giornalista del finto scoop non c’è più, morto da dieci anni. Ma spiega bene in che cosa consistesse quell’inchiesta sulla mafia che non andò mai in onda, l’intervista dell’ex manager di Canal Plus, Michel Thoulouze, come riportata dal Fatto: «La verità è che non l’hanno trasmesso perché quel documentario era una m…». E sui due: «Ho detto a Moscardo: non fate il ricatto». Quindi tutta l’insistenza nelle domande a Borsellino su Berlusconi aveva lo scopo di estorcergli denaro? Il che ci riporta a un episodio del 2019 (come riportato da un articolo di quei giorni da Damiano Aliprandi sul Dubbio), quando Paolo Guzzanti aveva messo in discussione la veridicità di una trasmissione della Rai sulla famosa intervista a Borsellino e su una presunta inchiesta su Marcello Dell’Utri della procura di Caltanissetta. Sigfrido Ranucci, autore della trasmissione, l’aveva querelato, ma Guzzanti era stato assolto e i magistrati, confermando che la trasmissione era stata “manipolata”, avevano anche ironizzato sugli imputati fantasma, presenti solo nella fantasia di qualcuno.
Ma un altro episodio va segnalato. Ne parla l’Espresso, per notare che nel 2019 il giornalista francese Fabrizio Calvi era stato sentito dal procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, vicino a Losanna, e che il verbale di quell’interrogatorio era stato secretato. Il settimanale aggiunge che era presente anche “uno strano” avvocato. Ora, strano o no che fosse, quando a un interrogatorio è presente un legale significa una cosa sola, che la persona ascoltata non è un testimone ma un indagato. E, alla luce di quel che ha detto nell’intervista di ieri sul Fatto l’ex manager di Canal Plus Pierre Thoulouze sull’intenzione dei due giornalisti di estorcere denaro a Berlusconi con la patacca dell’intervista di Borsellino che neanche lo nominava, che cosa pensare dell’inchiesta di Caltanissetta? E se gli indagati non fossero stati Mangano, Dell’Utri e magari lo stesso imprenditore di Arcore ma proprio i due cronisti, sospettati di tentata estorsione?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Come superare il populismo. Chi è senza reato scagli la prima pietra. Massimo Donini su Il Riformista il 30 Dicembre 2021. Col processo di secolarizzazione del diritto e della morale le etiche di partito, di chiesa e di schieramento, laici e cattolici, liberali e socialisti, credenti e atei, onnivori e vegani, sono tutte quante divenute sempre più, se non categorie storiche, quanto meno visioni private del mondo: visioni che tuttavia è vietato assumere come quelle pubbliche della legge in chiave monopolistica e totalizzante. Sono concezioni del mondo accolte da gruppi che restano stranieri morali tra loro, come emerge a tutto campo nelle questioni paradigmatiche della bioetica.
In un contesto di pluralismo dei valori, infatti, solo il diritto può adottare punti di vista rispettosi delle differenze e non contrassegnati da una specifica identità ideologica che sarebbe ad esso vietata da principi superiori. È vero dunque, oggi, che solo il diritto può rappresentare ormai l’etica pubblica. Ma poiché le leggi non obbligano in coscienza, e dunque formalmente non sono un parametro di moralità, se un’etica pubblica va individuata, dovrà essere ritagliata dal perimetro di ciò che è giuridicamente consentito o regolato, ma possa venire avvertito anche come doveroso moralmente. L’etica pubblica è dunque ciò che, della forma-ius, ci obbliga in coscienza. Più singolare e distorcente è la declinazione penalistica del fenomeno, che muove dalla convinzione che il diritto penale è quel ramo del diritto che ha più capacità censoria, è il più intollerante dei diritti, pur restando (in ipotesi) laico e non confessionale, non di partito o di parte.
In una situazione di assenza di parametri pubblici di valutazione morale, per disapprovare una condotta la via più sicura è di qualificarla come reato, mancando altrimenti un sistema di valori davvero eloquente o condiviso: una censura in termini non penalistici o perfino non giuridici, ha un impatto assai modesto in un sistema privo di un codice di comportamento autonomo. È diffusa la percezione che “se non è penale, si può fare”, se un certo comportamento non configura un reato, la norma-precetto che lo vieta non si avverte come un obbligo veramente vincolante. Quando una condotta integra un illecito civile o amministrativo, la relativa sanzione può essere vista come una sorta di onere: la si può metter in conto, in cassa, quale tributo da pagare se vi vuole commettere il fatto. Se la sanzione è penale, invece, la regola ha un impatto censorio assai più forte, esprimendo un divieto assoluto, il cui castigo non è riducibile a tassa. Questo dato è poi accentuato da una peculiare debolezza della politica, incapace di esprimere una propria scala di valori, un proprio codice etico. Fenomeno che in Italia ha accentuazioni specifiche.
La popolarità della giustizia penale è dovuta molto anche all’illusione forse più grande della coscienza collettiva: l’idea che il reato riguardi gli altri, che si possa normalmente non commettere.
L’esperienza del penalista dimostra invece il contrario: è inevitabile che ognuno di noi commetta (e subisca) qualche reato. Si tratta di una dimensione umana, sociale, politica di carattere universale. Occorre infatti una nuova cultura per rappresentarla e promuoverne una acquisizione pubblica. I reati più comuni, di cui a seconda delle inclinazioni tutti siamo stati autori o vittime, sono gli oltraggi, le percosse, le diffamazioni, le violenze private, le appropriazioni o i piccoli furti, alcune forme di stalking, di disturbo alle persone, di minaccia, di ricatto, di frode e di falso, di comportamento pericoloso alla guida, o di guida in condizioni alcooliche vietate, di porto senza giustificato motivo di cose o strumenti atti ad offendere la persona, di consumo con cessione di droghe, di abuso di ufficio, di reticenza in giudizio, di omissione di soccorso, di abuso edilizio, o di discriminazione per motivi razziali, religiosi, sessuali, di violazione di corrispondenza, di ricevimento di cose provenienti da reati altrui, o di complicità in reati altrui etc. L’ingiuria, gli atti osceni e il danneggiamento doloso semplice sono stati da qualche tempo depenalizzati, altrimenti vi rientrerebbero.
Nella vita privata, dalla scuola materna alla casa di riposo, nella circolazione stradale, nei luoghi di lavoro, in famiglia, nella vita pubblica, nei pubblici uffici, nelle imprese, tutti abbiamo rischiato di fare male ad altre persone violando anche involontariamente regole di prudenza, o di correttezza, e solo perché fortunati non ci è accaduto di commettere lesioni od omicidio colposi, qualche abuso o violazione di obblighi occorsi invece ad altri meno fortunati di noi. L’informazione giuridica dovrebbe dare conto che i reati, nel nostro sistema, non sono inferiori a 6000 fattispecie (una ricerca finanziata dal Ministero della ricerca scientifica di una ventina di anni fa conteggiava 5431 norme-precetto solo fuori dai codici), e dunque nessuno li conosce tutti, mentre tutti possono commetterne qualcuno senza saperlo. È dunque importante che si riconosca che nessuno è immune, nessuno è immacolato, nessuno può pensare che il penale riguardi solo gli «altri». E non sarebbe neppure necessario ricordarlo se non fosse diffusa la dimenticanza che anche i dieci comandamenti riguardano tutti come capaci di colpa, e tra questi il più universale, il “non uccidere”, che anche inteso in senso stretto è toccato alla maggior parte di noi di non violarlo perché non c’è stata l’occasione per farlo, non perché ci manca la fossetta occipitale mediana di Lombroso.
La tendenza del diritto a rappresentare l’etica pubblica ha dunque sviluppato la patologia di identificare il diritto penale con tale etica, ma a sua volta questo eccesso si è accompagnato all’illusione collettiva di riservare l’infamia penalistica agli altri, ora per interesse a usare questo etichettamento contro avversari politici (ciò che esprime l’aspetto più inquietante del giustizialismo), ora invece per una mancata percezione dell’oggettività del dato che il rischio penale è un fenomeno di massa. Questa situazione paradossale rende oggi necessario il passaggio da una democrazia penale populista, come quella che si lascia alle spalle l’anno ora trascorso, a una democrazia penale informata. La democrazia penale qui intesa non è solo quella (in un’accezione un po’ negativa) della maggioranza disinformata e telecomandata a odiare a turno i pedofili, i corrotti, gli immigrati clandestini, i riciclatori di denaro, gli automobilisti ubriachi, gli stupratori soprattutto se stranieri, gli imprenditori che risparmiano sulla sicurezza, i violenti allo stadio, gli evasori dell’Iva europea, i bancarottieri, gli hackers, i negazionisti, i giovani bulli e violenti, e ovviamente tutti gli associati per delinquere (un’imputazione alla portata di tutti, i benpensanti non lo sanno e devono apprenderlo): quella maggioranza occhiuta che ha sostenuto a lungo populisticamente i programmi legislativi e la macchina da guerra giudiziaria contro il crimine e che l’attuale scontro sui “doveri informativi” delle Procure della Repubblica vuole rimettere in gioco.
La democrazia penale informata è quella che garantisce più conoscenze e più controllo critico, che si basa su dati controllabili di altro tipo. Non è il sapere di una parte del processo che informa unilateralmente i cittadini prima delle decisioni di un organo terzo, ma la democrazia dove la scienza condivide le conoscenze che il Parlamento utilizza nel costruire le leggi (non solo l’Air, l’analisi di impatto della regolamentazione, ma controlli di legittimità, predittività degli effetti, impiego di culture ed esperienze non giudiziarie, attenzione al conflitto sociale e alle cause che favoriscono il delitto) e le trasmette anche ai giudici e ai media, dove la divisione dei poteri si attua attraverso una condivisione dei saperi che la limita: affinché non accada come nell’antica Cina quando l’imperatore, dalle segrete stanze della Città Proibita, esercitava almeno simbolicamente un potere assoluto sul tempo e sul peso, di cui poteva stabilire l’unità di misura. La Città Proibita quale monumento dell’inaccessibilità del Potere e del suo Sapere. Questa misura potrebbe oggi riguardare il peso della colpa e la durata della pena, due dati scarsamente accessibili allo stesso sapere scientifico.
Se si conoscesse meglio il male intrinseco della macchina della giustizia, o si conoscessero le sue inevitabili sconfitte, anche se non si manifestano in violazioni terrificanti o disumane dell’integrità dei corpi, o nell’indifferenza alle anime, la popolarità di quella macchina da guerra sarebbe minore, e ciò le farebbe solo bene, rendendola più controllata e attenta, più umana, e anche la retorica della giustizia, e la celebrità di alcuni suoi attori, si dimostrerebbero spesso patetiche e ingannevoli. Un sano ridimensionamento di quelle illusorie aspettative potrebbe solo giovare a ridurre l’uso populistico dell’informazione, che costituisce uno dei mali della società contemporanea. Massimo Donini
L’ordine di Travaglio: colpire Sisto per fermare Cartabia. La campagna del Fatto Quotidiano contro l’ipotesi Cartabia al Colle è iniziata con una fake sparata contro il sottosegretario Sisto. Una sorta di pizzino recapitato in casa grillina...Davide Varì su Il Dubbio il 28 dicembre 2021. È ufficialmente iniziata la campagna del Fatto Quotidiano contro l’ipotesi Cartabia al Colle. È iniziata con una fake piuttosto spudorata sparata contro il sottosegretario Sisto, accusato nientemeno che di essere una sorta di “piccolo Viscinski” incaricato, sotto banco, delle valutazioni di professionalità dei magistrati. Niente di più falso, naturalmente. I magistrati vengono valutati (e sempre positivamente, sic!) dal Csm, da nessun altro. Ma tanto basta al Fatto per lanciare l’accusa contro Sisto, il quale non viene presentato come sottosegretario alla Giustizia (bravo e addirittura preparato, come non se ne vedeva da tempo), ma come avvocato di Berlusconi. Il che è sufficiente a giustificare la spericolata e ardita associazione: chi vota Cartabia, vota la donna che sta delegittimando la magistratura per conto del Cavaliere. Et voilà, il gioco è fatto.
Le Camere Penali solidali con il Sottosegretario Sisto per l’attacco giornalistico da parte del Fatto Quotidiano. Il Corriere del Giorno il 27 Dicembre 2021. La Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane ha espresso la propria solidarietà al Sottosegretario Sisto: l’aggressione de “Il Fatto Quotidiano” sfida il senso del ridicolo, ed esprime l’idea trogloditica che quel quotidiano coltiva sul ruolo sociale dell’avvocato difensore. Il documento della Giunta. La Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane esprime con una propria nota la propria solidarietà all’On. Avv. Francesco Paolo Sisto, oggetto di una aggressione giornalistica la cui ottusa faziosità sfida il senso del ridicolo e qualifica, per la ennesima volta, la qualità culturale e politica di chi se ne è reso responsabile. Secondo “Il Fatto Quotidiano”, che vi dedica addirittura il titolo di apertura, la Ministra Cartabia si sarebbe resa responsabile, nientedimeno, di avere affidato la “delega alle valutazioni professionali” dei magistrati all’On. Sisto. L’ on. avv. Sisto come è noto a tutti attualmente “altri non è che Sottosegretario alla Giustizia, in quanto tale naturale destinatario delle deleghe del Ministro. Senonché, secondo la trogloditica logica di quel quotidiano, essendo stato costui, in un certo procedimento penale, difensore di Silvio Berlusconi, porterebbe con sé, indelebile, quel marchio di infamia, che lo renderebbe indegno di adempiere con probità ed equilibrio a quella delega” continua la nota. “Vi è un diffuso analfabetismo costituzionale, secondo il quale l’avvocato difensore di Tizio debba ritenersi indistinguibile da Tizio, sodale dunque del proprio assistito, correo se possibile, e ciò -si aggiunga- vita natural durante. Si tratta di un sub-pensiero tipico di chi considera il concreto esercizio del diritto di difesa come un ostacolo alla giustizia, soprattutto se il processo riguardi i propri avversari. Dunque, nulla di nuovo per il giornale diretto da Marco Travaglio” aggiunge la Giunta nazionale dell’ Unione delle Camere penali. “Vi è poi un analfabetismo tout court, che impedisce di comprendere, a chi pretenderebbe di occuparsene in modo così eclatante, perfino il banale contenuto di quella delega; che è una mera delega di firma, visto che le valutazioni dei magistrati, come sanno tutti ad eccezione degli analfabeti, spettano in via esclusiva al Consiglio superiore della magistratura (che, come è noto, ne fa un pessimo uso, ma questo è un altro discorso). Naturalmente -aggiungiamo ad colorandum- da quando l’On. Sisto è Sottosegretario alla Giustizia, Egli non può più esercitare la professione di avvocato. È la stampa, bellezza!” conclude la nota
La norma sulla presunzione di innocenza. Travaglio si mette a capo di magistrati e giornalisti e suona la carica contro la Costituzione. Piero Sansonetti su Il Riformista il 23 Dicembre 2021. Il partito dei magistrati (e dei giornalisti giudiziari embedded) attraverso la sua rappresentanza parlamentare (il Movimento 5 Stelle) ha chiesto ufficialmente al governo di rinunciare alla legge sulla presunzione di innocenza, e dunque alla Costituzione. A nome del partito dei Pm è intervenuto in aula, l’altra sera, il deputato Vittorio Ferraresi, che viene considerato l’alter ego dell’ex ministro Bonafede. Ferraresi è stato anche sottosegretario nei diversi governi a 5 stelle, per la precisione sottosegretario alla Giustizia. È lui che ha chiesto che sia cancellata o modificata radicalmente una legge di applicazione della Costituzione che appena qualche giorno fa i 5 Stelle avevano approvato.
Certo, una persona normale può anche stupirsi che l’ex ministro Bonafede, che viene solitamente considerato la controfigura di Conte, disponga a sua volta di una controfigura. I lettori di questo giornale sanno bene che esiste oltretutto la concreta possibilità che, nella realtà, Conte non esista: immaginatevi se può esistere un suo alter ego, e per di più un alter ego dell’alter ego. Eppure è così. Ed è stato attorno alla sua figura che si è radunato il fronte dei Pm e dei giornalisti giudiziari. Comandati, per la verità, dalla loro guida vera, dal deus ex machina. Che sapete benissimo chi è: Marcolino Travaglio. È lui che qualche settimana fa ha suonato la carica e ha richiamato all’ordine sia i magistrati, sia soprattutto i giornalisti e i suoi deputati. Accusati di essere dei quaquaraquà che si fanno incantare dalla Cartabia e cascano in tutte le trappole. Travaglio pensa che una legge che stabilisce che non si possa violare il principio della presunta innocenza, che i Pm non si possano trasformare in attori protagonisti e showmen, e che per di più non sia più consentita la violazione dei segreti investigativi, finché vigono, sia in realtà una legge che annienta Il Fatto e costringe i giornalisti giudiziari a fare il loro mestiere: cercare le notizie, leggere le carte, seguire i processi (quest’ultima è una attività ormai del tutto sconosciuta alla stampa, la quale si chiede: ma se il processo è pubblico, che lo seguo a fare? E poi osserva che al processo parla persino la difesa, complice dell’imputato, che mischia le cose e confonde le acque rischiando di stordire il giornalista…).
L’attacco della magistratura alla nuova legge, con pochissime eccezioni (ad esempio quella del Procuratore nazionale antimafia, Cafiero de Raho) è stato di impressionante violenza. Anche perché, appunto, giunto in ritardo e solo dopo la frustata di Travaglio. I magistrati più in vista nel circo mediatico si sono indignati e ora chiedono uno stop. L’Ordine dei giornalisti è andato subito in soccorso, gridando al bavaglio. Dice l’Ordine: ma se un giornalista non può demolire un imputato, fosse anche un imputato innocente, solo perché vige quel maledettissimo articolo 27 della Costituzione, ma allora la libertà dov’è? Libertà, senza fango? Ma quella è una cosa per radical chic! E così nasce questa nuova e complessa situazione, che nel gergo politico si chiama “sovversivismo delle classi dirigenti”. Stavolta, più precisamente, il sovversivismo è della magistratura.
L’espressione politologica di sovversivismo delle classi dirigenti fu coniata tanti anni fa da Antonio Gramsci. Che è stato uno dei maggiori intellettuali italiani, e studiosi di politica, del secolo scorso. Fu anche segretario del piccolo partito comunista di quell’epoca, tra il 1924 e il 1926, poi fu costretto a lasciare perché il regime fascista lo fece arrestare e lo tenne in prigione fino alla morte. Fu in prigione che scrisse le cose più importanti ed elaborò questi due concetti, che sono ancora attualissimi: il concetto di egemonia e quello di sovversivismo delle classi dirigenti.
L’egemonia di classe, per Gramsci, era la capacità di una classe sociale di imporre il suo punto di vista e il suo sistema di pensiero alle classi subalterne. Rendendole in questo modo sottomesse e integrate, senza il ricorso alla costrizione e alla violenza. L’idea di egemonia era molto diversa, anzi opposta all’idea di dittatura. E in qualche modo anticipava quello che oggi viene chiamato “il pensiero unico”.
La sovversione delle classi dirigenti scattava esattamente nel momento nel quale la classe dominante non riusciva più ad esprimere egemonia. E allora passava alla violazione di tutte le regole, che essa stessa aveva delineato, e delle leggi, e delle sue stesse tradizioni, e ricorreva all’uso del potere sopraffattorio, del potere giudiziario, della costrizione e della violenza. Oggi è difficile riprendere schematicamente il ragionamento di Gramsci, perché l’identificazione tra classi e potere è impossibile. Più facile identificare i gruppi che sono riusciti ad accaparrarsi la parte maggiore del potere nella società e che l’hanno difeso, in qualche modo, proprio con il sistema dell’egemonia. Gramsci effettivamente aveva una pessima idea del potere giudiziario («Il punto di vista giudiziario – scriveva – è un atto di volontà unilaterale tendente ad integrare col terrorismo l’insufficienza governativa»), che comunque considerava vessatorio, e però ancora immaginava in qualche modo non autonomo ma subalterno al potere esecutivo. In realtà era così.
Il potere giudiziario fu docile – e feroce – complice del fascismo, ma comunque fu sottoposto al fascismo ed ebbe una funzione ancillare. Oggi i termini della questione si sono rovesciati, il potere giudiziario ha sottomesso il potere politico, ed è stato proprio a conclusione di questo rovesciamento che è iniziata la sovversione. Il potere giudiziario non è più in grado di esprimere quella egemonia che largamente esprimeva negli anni di Borrelli, di Mani pulite, e che comunque ha continuato ad esprimere fino – direi – a qualche mese fa. Quando ha capito di avere perso l’egemonia ha deciso di passare alla sovversione. Chiamando tutti a raccolta. Come è successo in questi giorni: dalla manovalanza dei giornalisti fino ai vertici della Cassazione. E tutti hanno risposto “presente”, proprio come si faceva nel ventennio. Ora il problema è questo: esistono nella società e nella politica forze in grado di opporsi? O sono rimasti solo Enrico Costa e Roberto Giachetti?
P.S. Ma un giornalista che volesse dissociarsi dalla sovversione anti costituzionale dell’Ordine, che possibilità ha di dissociarsi? Solo quella di dimettersi dall’Ordine, come ha fatto Vittorio Feltri? Ma fuori dall’Ordine non può, per legge, svolgere pienamente e liberamente il proprio mestiere. Dunque è costretto a restare nella gabbia dei nemici della Costituzione?
Non so, ma a me viene sempre più forte il dubbio che in Italia la libertà di stampa sia solo un modo di dire. Libertà, si, ma dentro il cerchio disegnato dal Minculpop.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Da Togliatti a Saragat Il garantismo appartiene al Dna della sinistra. Nordio sta tentando di spostare a destra una tradizione che, prima alla discesa in campo di Berlusconi, le era estranea. Aldo Varano su Il Dubbio il 10 dicembre 2022.
È un errore grave, sarebbe un errore grave, leggere le proposte sulla giustizia del ministro Nordio come lo schema di una strategia politica pronta a rilanciare e diffondere un messaggio di vicinanza alle culture della destra sovran- populista. Tradizioni e conoscenza della storia del nostro paese, casomai, fanno del “Pacchetto Nordio” un messaggio di senso opposto che non ha nulla a che vedere con quelle culture che, perfino nella loro componente liberal- liberista (mi riferisco alla concretezza della storia italiana), non hanno mai avuto cedimenti garantisti.
Per quanto possa suonare curioso e paradossale, delle proposte di Nordio si può dire che sembrano voler recuperare, anche per i cittadini che non sono potenti, una giustizia mite che aiuta e sostiene le ragioni di tutti senza discriminare i più deboli. Con una piccola forzatura si potrebbe sostenere che Nordio sulla giustizia sta tentando di spingere e spostare a destra una tradizione che è stata di parte del centro e della sinistra che ha conosciuto il nostro paese. Nella storia dell’Italia repubblicana il garantismo, per un periodo lungo che va dalla sua nascita agli anni novanta del Novecento, fu infatti la marca esibita soprattutto dalle culture delle aree del centro e delle sinistre.
La prima grande amnistia nell’Italia repubblicana, del resto, fu concepita e varata dall’onorevole Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia, ma prima di tutto, capo del Partito comunista. Non fu un gesto isolato. Con lui concordavano da Alcide De Gasperi (costretto negli anni precedenti a rifugiarsi in Vaticano per sottrarsi alle leggi fasciste che per quelli come De Gasperi prevedevano la galera) a Pietro Nenni, da Giuseppe Saragat a Vittorio Foa (che era finito in carcere perché studente torinese di sinistra e, pericolosa aggravante, ebreo). Per non dire del gruppo dei cattolici fiorentini, ma non solo, legati a Giorgio La Pira.
Il garantismo ha accompagnato sempre le sinistre anche quelle radicali (con l’eccezione della rottura drammatica e feroce del terrorismo, che fu fenomeno anche di destra). Giorgio Amendola e Riccardo Lombardi, Emanuele Macaluso e l’ex “galeotto” Giancarlo Pajetta, fino all’ultima generazione in blocco dei socialisti, da Craxi a Mancini a Martelli, ai socialdemocratici e ai repubblicani di La Malfa, furono fieramente garantisti. Nessuno di loro ebbe cedimenti su questo fronte. E questa fu la cultura del cuore della Democrazia cristiana e della quasi totalità delle sue componenti.
La svolta giustizialista nel nostro paese arrivò dopo. È la Lega a far pendolare il cappio in Parlamento senza che Forza Italia si opponga a quella barbarie a cui, anzi, ammicca. Del resto sarà proprio Forza Italia a unire in un unico schieramento sé stessa con la Lega che fa pendolare un cappio, e la destra fascista, fondata da Almirante e poi ereditata e rivisitata da Fini, dove crescerà e si formerà Giorgia Meloni, che ne dà conto diffusamente nel suo libro Io sono Giorgia.
Debole è, e resterà, la reazione dei comunisti ex, alla svolta leghista. Tra loro giocherà molto la sensazione, che diventerà via via convincimento e poi certezza, che ci sia qualcosa di illegale e di marcio, un vero e proprio trucco nel successo di Berlusconi. Giocherà un peso determinante l’incomprensione del potere di convincimento di una televisione che opera senza alcun vincolo e concorrenti. Nel frattempo Craxi è stato costretto a fuggire in Africa per sottrarsi all’umiliazione, che di certo non merita, del carcere.
I suoi amici e nemici non muoveranno un dito per difenderlo. Anche se è stato Craxi, incontrando nel suo camper D’Alema e Veltroni (siamo nel 1990) ad aprire la strada dell’Internazionale socialista agli eredi del Pci garantendo per il loro ingresso. Il nuovo eroe della politica italiana da lì a poco, per una parte ampia della sinistra, diventerà il magistrato Di Pietro che abbandona la toga per infilarsi in Parlamento con un partito tutto suo (fin dal nome).
Ed è proprio per il convincimento del marcio nel successo berlusconiano (mai dimostrato) che una parte della sinistra italiana si convincerà ad appoggiare la ventata giustizialista, che in realtà saccheggerà a piene mani la tradizione antica e permanente dell’estrema destra italiana.
Pd, il paradosso: a metà tra forca e garantismo. Fabrizio Cicchitto su Libero Quotidiano l’11 dicembre 2022
Caro direttore, ancora una volta nella vita politica italiana si crea una situazione paradossale. Nel lontano passato, ma anche in quello relativamente più recente fino a fine anni '80, il garantismo era un tratto caratteristico della sinistra e il giustizialismo della destra, con il centro democristiano che mediava. In modo paradossale e contraddittorio, questo garantismo fu espresso anche dal Pci. Un centro garantismo contraddittorio caratterizzò infatti Palmiro Togliatti, che da ministro della giustizia propose e fece realizzare un'amnistia che riguardò sia i partigiani che i combattenti della Repubblica di Salò. Certamente il garantismo di Togliatti era contraddittorio perché esso riguardava l'Italia, ma non si estendeva né all'Urss né agli altri Paesi comunisti dell'Est.
Questo tipo di divisione durò fino agli anni fatidici '92-'94. Da allora, fu proprio il Pds a diventare la quintessenza del giustizialismo. La ragione non è stata solo ideologica, ma pratica e concreta: allora il finanziamento irregolare dei partiti fu lo strumento attraverso il quale quello che fu chiamato il "circo mediatico-giudiziario" costituito dal pool del pm di Milano e dai direttori di 4 giornali (Corriere della Sera, Repubblica, la Stampa, l'Unità) rase al suolo la Dc, il Psi, i 3 partiti laici e salvò il gruppo dirigente del Pds con il pretesto che "poteva non sapere", malgrado che il finanziamento del Pci fosse il più irregolare fra tutti perché comprendeva tutte le voci possibili: quello proveniente dal Pcus, quello delle cooperative rosse, quello delle società di import-export, quello dei privati che lavoravano nelle regioni rosse. Da allora il giustizialismo ha costituito il tratto caratteristico del maggior partito della sinistra, dopo il Pds e la Margherita anche del Pd.
LA SORPRESA
Orbene una delle sorprese più rilevanti del governo Meloni è costituito dal fatto che a essere nominato ministro della Giustizia è l'ex magistrato Nordio, garantista da sempre, anche quando era magistrato, e proprio nei confronti del gruppo dirigente del Pci-Pds. Nordio è rimasto tale anche adesso e così mette in questione proprio i capisaldi del giustizialismo: l'uso sfrenato delle intercettazioni usate anche per "sputtanare" le persone, l'arresto per ottenere le confessioni e infine la denuncia del fatto che la carriera unica tra magistrati giudicanti e magistrati inquirenti è contraddittorio con una paritaria dialettica processaria fra difesa e accusa. Secondo Nordio lo sdoppiamento delle carriere metterebbe sullo stesso piano accusa e difesa. Questa presa di posizione sta provocando un'autentica crisi di nervi sia nell'Anm, sia in alcuni giornali come Il Fatto e Repubblica, sia nella sinistra.
Dopo il 25 settembre una parte della sinistra ha affermato che l'avvento della Meloni alla guida del governo si sarebbe tradotto in una sostanziale affermazione del fascismo. Adesso la sinistra si trova di fronte ad un ministro della Giustizia che invece colpisce i tratti più illiberali dell'ordinamento giudiziario e che, pur essendo un ex magistrato (forse per questo), mette in discussione proprio i capisaldi del potere non solo giudiziario, ma politico, che la magistratura associata (Anm e Csm) ha conquistato dagli anni '90 a oggi e che ha sempre favorito in vari modi il Pd. Di conseguenza la reazione è violentissima, sia da parte dell'Anm, sia degli organi di stampa del giustizialismo (Repubblica) e del grillismo (Il Fatto), mentre il Pd oscilla fra opposizione e imbarazzo. Quest'ultimo ha sostenuto di essere diventato il partito riformista per eccellenza. È molto arduo però combinare riformismo e giustizialismo, mentre è nell'ordine normale delle cose collegare il riformismo e il garantismo. Un problema in più per un Pd che sta attraversando la crisi più grave della sua storia. Per onestà va aggiunto che si tratterà di vedere anche come la maggioranza di centrodestra nelle sue varie componenti sosterrà o meno le posizioni di Nordio.
Il garantismo e la mutazione genetica del Dna della sinistra. Con Tangentopoli la sinistra si è consegnata alla magistratura, affidandole il compito di “liberare il paese” dalla vecchia classe dirigente democristiana e socialista. Ma le cose sono andate diversamente...Davide Varì su Il Dubbio il 10 dicembre 2022
Difficile dire, come ha suggerito il nostro Aldo Varano, se la sinistra italiana − o quel che ne è rimasto − abbia un Dna garantista. A dire il vero la nostra impressione è che dal ’92 la mutazione genetica sia da considerarsi definitiva e irreversibile.
Con Tangentopoli, la sinistra si è infatti consegnata alla magistratura, affidandole il compito di “liberare il paese” dalla vecchia classe dirigente democristiana e socialista, nell’illusione di diventare egemone e forza di governo. Ma per una non infrequente eterogenesi dei fini, le cose sono andate molto diversamente: la sinistra ha infatti assistito impotente alla nascita della seconda Repubblica e alla irresistibile ascesa di Silvio Berlusconi.
Ma la lezione evidentemente non è bastata: con Berlusconi a palazzo Chigi, la sinistra decise di confermare il vecchio schema di gioco, sperando ancora una volta di arrivare al potere per via giudiziaria. La storia è nota: anche in quel caso non andò benissimo e, pur non senza qualche “inciampo giudiziario”, Berlusconi è riuscito a governare per 16 anni. Ma i fallimenti politici di allora sembrano aver insegnato davvero poco. E così il Pd, e i partiti alla sua sinistra, anche oggi replicano in modo coattivo lo stesso identico modello politico-giudiziario. Un esempio? La gestione del caso Aboubakar Soumahoro.
Il sindacalista “colpevole” di avere una moglie indagata − e sottolineiamo indagata − ha subito un vero e proprio processo sommario da parte dei suoi e una gogna mediatica degna del mostro di Firenze da parte dei giornali di area. E, così, in spregio ai più elementari principi dello stato di diritto, Soumahoro è stato costretto ad autosospendersi dal partito.
Ma la prova che la tentazione giustizialista è sempre in agguato, sta anche nelle reazioni scomposte alle ultime proposte del ministro Nordio. Intendiamoci, ci rendiamo conto che dopo decenni di deriva giustizialista, quel che propone il guardasigilli possa apparire scandaloso, eretico, sconcertante. Eppure, in un paese normale, lì dove potere politico e politico giudiziario marciano separati, sarebbero considerate proposte di assoluto buon senso, quasi scontate. Dovrebbe dunque apparire scontata una riforma che argini l’uso selvaggio di intercettazioni, spesso del tutto inutili sul piano processuale ma utilissime a massacrare la vita delle persone e ad azzerare intere carriere politiche; come dovrebbe essere scontata l’istituzione di un’Alta Corte in un paese in cui il 99% dei disciplinari a carico dei magistrati finisce con una assoluzione. O vogliamo parlare dell’obbligatorietà dell’azione penale, vero strumento di arbitrio delle procure?
Insomma, parliamo di riforme liberali e di assoluto buon senso che solo qui da noi, in un paese in cui la giurisdizione è deragliata, possono essere lette come liberticide. Eppure, loro, i magistrati − o meglio l’avanguardia più politicizzata dei magistrati − si sono immediatamente ricompattati (altro che correntismo) e hanno accusato il ministro di voler assoggettare le toghe al potere politico. Ipotesi del tutto risibile e fantascientifica. E non a caso il Pd ha perso un’altra occasione per spezzare quell’abbraccio mortale, e si è accodato alle bordate dei magistrati. Ulteriore prova della mutazione del suo dna, le cui tracce di garantismo sono sempre meno rintracciabili…
L'evento dell'Unione Camere Penali. Garantisti d’Europa uniti contro il vento forcaiolo. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 20 Novembre 2022
A Bologna si sta celebrando un evento importante, di quelli che non attirano titoli di giornali e talk-show, ma che segnano la crescita silenziosa e forte di idee cruciali per i diritti e le libertà di tutti noi. Occorre tornare indietro, al maggio del 2019, quando in una storica aula della Università Statale di Milano, gremita all’inverosimile, l’Unione delle Camere Penali Italiane presentava il frutto di un anno di lavoro -da essa promosso ed organizzato- di autorevoli accademici di tutta Italia: il “Manifesto del Diritto Penale liberale e del Giusto Processo”. Il populismo penale, malattia antica della politica della giustizia in Italia, si era fatto addirittura governo del Paese. Era l’epoca del governo gialloverde (Lega e M5S), cioè del Governo che ha espresso la più esplicita ed aggressiva politica populista e giustizialista della storia repubblicana.
Chiavi delle carceri buttate via, riforme penitenziarie bruciate nella piazza mediatica, principi e garanzie costituzionali sacrificati sull’altare di un “diritto penale-spazza” (copyright by prof. Domenico Pulitanò), cioè di un diritto penale agitato come un randello e come un simbolo, nella ottusa (e vana) illusione di “spazzare via” ogni forma di criminalità. L’UCPI sentì il bisogno, non appena insediata la nuova Giunta nell’ottobre del 2018, di lanciare la iniziativa di un Manifesto, che sapesse esprimere con chiarezza i principi fondativi ed irrinunciabili di una idea liberale del diritto e del processo penale, da contrapporre a quella furia populista e giustizialista che, d’altronde, dava segni inequivocabili di sé anche fuori dai confini nazionali. La storia ci insegna che l’esigenza di redigere manifesti di idee e di principi è sempre nata quando quelle idee e quei principi sono stati messi drammaticamente in discussione ed in pericolo, ed occorre rilanciarli, farli conoscere, diffonderli, persuadere.
Il risultato fu un Manifesto di straordinaria sintesi e completezza, che raccolse e disegnò, con il suggello autorevole -prima e dopo la presentazione del maggio 2019– della intera comunità dei giuristi italiani, i tratti fondativi ed identitari dell’idea liberale del diritto e del processo penale. Trentacinque canoni che distillano, con una cura semantica ed un rigore dottrinario esemplari, idee la cui drammatica e vitale importanza per le sorti della nostra stessa democrazia politica apparivano -allora come oggi- nitidamente chiare. Un diritto penale come “extrema ratio”, strumento eccezionale di controllo sociale che costruisce e regola la legittima potestà punitiva dello Stato intorno alla incondizionata e non negoziabile tutela dei diritti di libertà della persona sottoposta ad indagine o a processo; che riafferma e difende umanità e dignità anche del colpevole; che rifugge da eccessi punitivi, invocando pene proporzionate al disvalore del fatto perseguito, orientate alla rieducazione del reo ed al suo recupero sociale. Un processo penale giusto, cioè celebrato ad armi pari tra accusa e difesa al cospetto di un giudice terzo ed imparziale; un processo nel quale la privazione della libertà e dei diritti patrimoniali della persona prima del giudizio definitivo siano l’eccezione, non la regola; un processo -soprattutto- costruito intorno al rispetto incondizionato della presunzione di innocenza dell’imputato, e dunque della clausola secolare dell’ “in dubio pro reo”.
Ebbene in questi due giorni a Bologna prende corpo la nostra un po’ visionaria ambizione: di vedere quel nostro Manifesto condiviso dalla cultura giuridica (ed auspicabilmente politica) di tutta Europa. Il Manifesto è stato tradotto in quattro lingue, ed è stato studiato e diffuso nei più autorevoli consessi accademici europei. Ed ora per la prima volta ne discuteremo – insieme ai giuristi italiani che con noi lo hanno promosso e condiviso- con autorevoli giuspenalisti delle Università di Barcellona, Madrid, Louvain, Innsbruck, e con avvocati dei Fori di Parigi ed Aux-en Provence, quest’ultimo componente della Commissione per la Riforma del Processo Penale in Francia e strettissimo collaboratore del Ministro della Giustizia francese.
Spira in tutta Europa il vento gelido di una idea del diritto penale esattamente agli antipodi di quella profilata nel nostro Manifesto: di una idea cioè simbolica, mediatica, “esemplare” della potestà punitiva dello Stato, brandita innanzitutto con finalità ricostruttive e propagandistiche della identità politica dello Stato populista, giustizialista, securitario. Questo primo segnale di attenzione della cultura europea al nostro grido di allarme ci riempie ad un tempo di orgoglio e di speranza, perché le idee vanno seminate anche ed anzi soprattutto quando esse sembrano ignorate e neglette. Nei prossimi giorni saremo ricevuti dal Ministro Carlo Nordio, e ci presenteremo con il nostro Manifesto, e con la notizia della sua prima diffusione in Europa che questa due giorni bolognese saprà definitivamente consacrare. Sarà utile comprendere se i principi in esso affermati -e che sappiamo essere integralmente condivisi dal dott. Nordio da tempi non sospetti- sapranno ispirare la politica della giustizia dei prossimi mesi ed anni. I primi segnali, a dire il vero, sono tutt’altro che incoraggianti, ma i percorsi politici si costruiscono dialogando, senza riserve e pregiudizi, ascoltando e chiedendo di essere ascoltati. Noi ci siamo, e siamo sempre meno soli.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Quando si manipola il diritto il garantismo diventa utopia. Francesco Petrelli il 5 Settembre 2022 su Il Giornale.
Nel suo ultimo libro Pecorella ripercorre le storture del sistema: su tutti la mancata terzietà dei giudici
Spazia in cinquant'anni di storia italiana, calando una sonda inesorabile nella politica giudiziaria di questo Paese, il volume che ci ha regalato Gaetano Pecorella. Una raccolta di scritti intitolata Utopie Scritti di politica penale, che costituisce la summa della sua lunga militanza di giurista nella politica e nell'avvocatura. Scritti che guardano alla ragione, non solo come strumento del diritto, ma come fine ultimo del processo penale. Un processo visto come modello ideale, nel quale l'uomo (l'accusato), così come nell'illuminismo critico di Kant, non è mai ridotto a mezzo per il raggiungimento di altri scopi. Per quanto nobili o ragionevoli essi appaiano. Ed è proprio la tensione fra i valori della libertà e dell'autorità ed il conflitto fra le pulsioni giustizialiste ed i principi costituzionali del giusto processo, che trova in questi scritti, che spaziano dagli anni '70 (vigente il nostro vecchio codice inquisitorio) alle riforme «futuribili» del nuovo codice accusatorio, una risposta coerente ed inequivoca.
Si tratta di una tensione tutta interna alla storia politica di questo Paese che si esprime nella difficoltà di comprendere il vero ruolo delle garanzie in una moderna democrazia, ed il valore universale della cultura garantista, così come emerge in maniera plastica dall'esemplare teorizzazione dell'onorevole Pecchioli - citata da Pecorella in un suo scritto del 1977 - secondo cui «occorre segnalare i limiti e anche i pericoli di un astratto ed esasperato garantismo che da alcune parti viene oggi riproposto» ammonendo che «il problema fondamentale è quello di un equilibrio fra diritti dei singoli e diritti della collettività in una società in trasformazione secondo valori sociali e morali ben diversi da quelli dei vecchi sistemi liberali». Dimenticando che quelle garanzie «liberali» poste a tutela dell'individuo, costituiscono il presupposto di ogni libertà democratica e di ogni futura giustizia sociale. E dimenticando, come sottolinea l'Autore, che quella pretesa «revisione» del garantismo si traduce inevitabilmente in uno «scadimento delle libertà costituzionali», fondamento di ogni collettività democratica presente e futura e condizione di ogni suo «valore sociale e morale».
C'è così il tema del «processo penale come terreno di confronto e di scontro politico» (1977) che ha attraversato la lunga e drammatica stagione degli Anni di piombo e dei processi di terrorismo. Un tema che riassume in sé anche il complesso e contraddittorio percorso compiuto dal codice Rocco verso il cosiddetto «inquisitorio garantito», segnato nel volgere degli anni 70 da vistose inversioni autoritarie, con espansione dei poteri di polizia e conseguente compressione del diritto di difesa. È il campo di confronto con le teorie del «controllo sociale» e dunque della formazione del «consenso» e del «dissenso» negli anni delle rivendicazioni sociali e sindacali, dello stragismo di stato e delle lotte di classe e dunque del «processo politico».
Argomenti trattati nell'alveo di una formazione esplicitamente e dichiaratamente marxista, quella del processo inteso come strumento della lotta di classe, ovvero «della lotta delle classi subordinate contro il ceto dominante», che si sviluppano e si evolvono nel tempo con coerenza, dimostrando non solo la compatibilità di questa visione del mondo con la tutela delle garanzie individuali, ma anche come sia questa la sua unica possibilità di affermazione. Ne discende infatti nitida l'idea dei diritti della persona, dei diritti civili e sociali come diritti che, in una democrazia moderna e matura, stanno o cadono tutti insieme. I temi così solo apparentemente si disgiungono e si separano negli anni, per poi riannodarsi e ricongiungersi nei diversi contesti, arricchendosi di nuovi argomenti ed allargandosi verso più larghi orizzonti politici, nei quali la storia stessa dell'Unione delle Camere Penali e delle sue battaglie funge da fucina e da cassa di risonanza al tempo stesso.
Al centro di molte riflessioni la figura del giudice, la cui collocazione ordinamentale campeggia problematicamente negli scritti dedicati alla separazione delle carriere, nella cui mancata realizzazione viene lucidamente colto il peccato originale del fallimento del codice accusatorio: «Il punto di partenza non è il pubblico ministero: è il giudice. La parte malata del processo penale, la vera riforma a cui deve porsi mano, non riguarda la posizione del pubblico ministero: riguarda la funzione del giudice e del giudicare» (Congresso Ucpi, Abano Terme, 1994).
La mancanza del giudice ordinamentalmente terzo, introdotta dalla riforma costituzionale del giusto processo (2001), costituisce la radice di molteplici fenomeni distorsivi: da quello della espansione del potere inquisitorio delle procure a quello conseguente della ricerca del consenso da parte dei pubblici ministeri ed a quello strettamente connesso della mediatizzazione del processo penale, con la inevitabile perdita della «verginità cognitiva» del giudice del dibattimento. Ma la mancanza di un giudice terzo è anche perdita di legittimazione del potere giurisdizionale davanti all'opinione pubblica.
A ben vedere, anche la «crisi della legalità» è frutto dello sbilanciamento del giudice sul fronte della lotta al fenomeno criminale: una volta piegato alla figura di «giudice di scopo» il giudicante sarà inevitabilmente indotto ad interpretare la legge e la norma processuale come altrettanti strumenti di repressione dell'illecito, stravolgendone la radice garantistica e liberale. Come ricorda Pecorella: «L'idea stessa della riserva di legge nasce in funzione della tutela della libertà dei consociati che attraverso il controllo politico scelgono coloro che potranno limitare i loro diritti in funzione del bene comune. Ciò non vale evidentemente per i giudici, che sono reclutati per concorso, e sono politicamente irresponsabili». Controverso e attualissimo il tema della irreversibilità della crisi del principio stesso di legalità, come crisi del potere legislativo, ma anche della moltiplicazione delle fonti, e del cosiddetto cambio di paradigma, dalla prevalenza del diritto alla egemonia del fatto e del precedente giurisprudenziale («una legislazione più chiara, meno ondivaga, sicuramente vincolerebbe di più i giudici, ma lo spazio di potere che hanno conquistato con la interpretazione creativa, soprattutto da parte della Corte costituzionale, è un territorio a cui molto difficilmente la magistratura potrebbe rinunciare»).
Ed altrettanto attuali e controversi i temi della del «tornare alla giuria» come unica via verso alla realizzazione dell'accusatorio, e quello del pm «organo dello Stato-amministrazione», come vera realizzazione della separazione delle carriere («Oltre la separazione delle carriere»), quello del «contraddittorio anticipato» nel procedimento cautelare e quello della inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pubblico ministero.
La raccolta apre con uno scritto recente, Lettera a un giovane avvocato, che si rannoda a quel «crepuscolo del rito accusatorio» che chiude la raccolta gettando uno sguardo severo sullo stato attuale del processo penale. Sulla questione irrisolta dei rapporti profondi che corrono inevitabilmente fra processo penale e costituzione, fra struttura ordinamentale ed esercizio concreto della giurisdizione, fra collocazione del giudice all'interno di quella struttura ed esercizio dei suoi poteri. Nasce da quelle basi materiali, da ciò che la magistratura intera, nella sua essenza monolitica, pensa di sé e del suo governo, una resistenza antimoderna alla ritualità dell'accusatorio. Non sono le ragioni indicate da Michele Taruffo ad avere impedito che l'accusatorio si affermasse, non una sopravvalutazione del «contraddittorio per la prova», ma una autentica, connaturata propensione verso i valori più profondi della cultura inquisitoria, al cui successo certamente ha contribuito la natura ordinamentalmente ancipite della magistratura: «La doppia casacca del magistrato, ora giudice, ora pubblico ministero, ha fatto sì, nel tempo - come ricorda Pecorella - che risultasse sempre meno comprensibile la inutilizzabilità degli elementi di prova formati nel corso delle indagini».
Collocata all'intersezione di tutti i ragionamenti sulla legalità sostanziale e processuale, c'è la figura del difensore, consapevole della difficile stagione che attraversa fra la difficoltà del difendersi provando con le indagini difensive e l'ineffettività della difesa di ufficio, fra compressione del diritto di astensione e nuova deontologia, fra l'espulsione dal contraddittorio, a causa dell'asimmetria delle parti «davanti al giudice (non) terzo», e l'inserimento dell'avvocato in Costituzione.
Accanto all'ipotizzato utopico mondo della ragione e al processo che gli si addice, si intravedono tuttavia i «distopici» mondi dell'irrazionale, del modello accusatorio irragionevolmente piegato (dagli innumerevoli «pacchetti sicurezza») alle ragioni della «lotta al crimine», atrofizzato e distorto dalle finalità tecnocratiche dell'efficientizzazione. I distopici mondi del populismo e del giustizialismo che mettono alla prova le fondamenta stesse del diritto penale liberale e del giusto processo. Il modello processuale così lungamente vagheggiato lotta per la sopravvivenza ma, come dimostrano questi scritti, conserva intatte quelle ragioni che ne avevano imposto l'avvento. Una straordinaria testimonianza di come, anche laddove lo sguardo acuto e lucido sullo stato reale del processo penale accusatorio svela tutti i segni del fallimento, resta altissima la tensione morale, l'invito a non arrendersi mai, nella consapevolezza della necessità di continuare a difendere quel modello come unica possibilità di sopravvivenza dello spirito democratico che governa la nostra incompiuta Costituzione, la cui vivida trama sembra essere sempre al centro del pensiero di Pecorella. Proprio perché, come scriveva Calamandrei: «C'è una parte della nostra Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l'ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità. Quindi polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente». Ed è solo così, forti di questa «polemica verso il presente», che si può navigare sicuri verso quell'isola dell'utopia di Tommaso Moro, ricordata dall'Autore, dove la ragione sembra oramai essersi nascosta per sempre.
Aspre polemiche da partigiani e Pci. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Giugno 2022.
È il 23 giugno 1946. «La Gazzetta del Mezzogiorno» annuncia l’entrata in vigore della cosiddetta «Amnistia Togliatti»: si tratta del decreto presidenziale di amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari avvenuti durante il periodo dell’occupazione nazifascista.
La legge - proposta e varata dal ministro di Grazia e Giustizia del primo governo De Gasperi, il comunista Palmiro Togliatti - comprende il condono della pena per i reati punibili fino a un massimo di 5 anni: si calcola, si legge sulla «Gazzetta», che solo a Roma cadranno nella sfera di applicazione del decreto 600 processi politici.
Si attende con ansia la relazione con cui il Guardasigilli fisserà precise norme interpretative, in particolare l’esclusione delle «persone rivestite di elevata responsabilità di comando civile o militare, ovvero che abbiano commesso atti di strage, sevizie particolarmente efferate, omicidi e saccheggi». Nelle intenzioni di Togliatti, dunque, i reati gravi e gravissimi non sarebbero da includere nel provvedimento. All’indomani della fine della guerra e della vittoria della Repubblica al referendum istituzionale, il suo scopo è quello di accelerare il processo di pacificazione nazionale, per evitare che l’epurazione nei confronti delle personalità compromesse col fascismo rallenti la ricostruzione materiale del Paese.
«Per raggiungere questo scopo, che appare ogni giorno più necessario e indispensabile, bisogna prima risolvere il formidabile problema dell’unità morale degli italiani», scrive Leonardo Azzarita sulla «Gazzetta». «Se non si risolve pienamente, urgentemente questo problema, è vano attendersi che la concordia civile e nazionale sia piena, operante e decisiva nei momenti solenni che l’attendono per metterla alla prova». Ad ogni modo, l’ex direttore del «Corriere delle Puglie» non condanna il provvedimento di amnistia: «Va lodato e con esso van lodati il Guardasigilli e il Governo», conclude Azzarita.
Tuttavia, nell’opinione pubblica si scatena un vivace dibattito. Aspre sono le polemiche che arrivano dall’associazionismo partigiano e dalla stessa base del Partito comunista : con l’amnistia verranno, infatti, scarcerati migliaia di fascisti che si sono resi responsabili anche di gravi crimini.
La mancata epurazione della magistratura, inoltre, produrrà un’estensione indiscriminata del provvedimento.
L’amnistia contribuirà, inevitabilmente, al processo, tutto italiano, di rimozione delle responsabilità e dei crimini dell’Italia fascista.
Ha seppellito il giustizialismo rosso: il merito di Violante. Apprezzo l’annuncio di Violante del suo voto favorevole al referendum del 12 giugno abrogativo della cosiddetta e famosa legge Severino. Francesco Damato su Il Dubbio il 5 giugno 2022.
Ogni volta che leggo o sento Luciano Violante alle prese con la giustizia, dei cui temi era responsabile nel Pci della deriva un po’ giustizialista, tanto da essere chiamato con approssimazione “il capo del partito dei pubblici ministeri”, e Francesco Cossiga lo bollava dal Quirinale come “un piccolo Visinskij”, il procuratore generale dell’Unione Sovietica degli anni delle “purghe” di Giuseppe Stalin; ogni volta, dicevo, che lo leggo o lo sento ricordando i tempi passati, non mi sento di rinfacciare all’ex presidente della Camera le vecchie posizioni, vere o presunte che fossero nella esasperazione delle polemiche politiche. Mi sento piuttosto di apprezzare la capacità avuta di aggiornare le sue valutazioni dopo essere stato, a mio avviso, troppo ottimista nel giudicare tanti magistrati che si sarebbero poi rivelati anche ai suoi occhi non proprio all’altezza dei loro compiti.
Gli uomini e le cose si scoprono sul campo. E le delusioni sono tanto più cocenti quanto più si sono rivelate grandi, e gravi i loro effetti. Memorabile per efficacia caustica delle sue parole rimane l’auspicio espresso da Violante, dopo i troppi e troppo evidenti eccessi della falsa epopea di “Mani pulite”, quando i giornali uscivano tutti allo stesso modo sulle indagini di Milano e altrove contro il finanziamento illegale dei partiti e la corruzione che spesso poteva accompagnarla, “almeno di una separazione delle carriere fra giornalisti e magistrati”, cacciatori e dispensatori delle notizie giudiziarie. Ben detto, onorevole Violante, perché anche noi giornalisti abbiamo commesso errori, e continuiamo a commetterne, prestandoci alle rappresentazioni quanto meno parziali, se non addirittura false, di fatti e inchieste nella prospettiva dei processi non in tribunale ma nelle piazze. Dove già Aldo Moro nel 1977, prima di essere ucciso, “processato” dai terroristi in una “prigione del popolo”, avvertì il rischio che finisse la politica. Non dimentico di Violante neppure il fastidio, direi lodevole, col quale reagì ai metodi di indagine, da lui stesso sperimentati, a Palermo sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi, quando anche l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dovette intervenire a gamba più o meno tesa contro inquirenti troppo invasivi, diciamo così. E, a proposito di Quirinale, trovai disdicevole che da alcune parti si cercasse già allora di attribuire le distanze che via via Violante aveva preso da certi inquirenti, ma anche da giudici, sospettandolo di coltivare ambizioni quirinalizie, appunto, puntando sull’appoggio di parti politiche opposte a quelle di sua provenienza.
Questa lunga premessa mi permette di apprezzare l’annuncio di Violante appena raccolto dal Dubbio del suo voto favorevole al referendum del 12 giugno abrogativo della cosiddetta e famosa legge Severino, più nota per l’abuso che se ne fece nel 2013, fra i dubbi con onestà espressi dallo stesso Violante, per espellere dal Senato Silvio Berlusconi, a scrutinio palese e con applicazione retroattiva: l’uno e l’altra voluta o condivisa personalmente dal presidente dell’assemblea che era stato un fior di magistrato come Pietro Grasso. Ma più ancora di quello scempio, altri ne ha permessi quella legge decapitando amministrazioni locali senza una condanna definitiva, alla faccia di elettori e quant’altri. Di quella legge nessuno ha poi sentito, e sente ancora il bisogno, di scusarsi, pur portando il nome peraltro di una giurista, oltre che di un avvocato e guardasigilli del governo addirittura tecnico, non politico, di Mario Monti. Giustamente Violante ha ricordato che “certe responsabilità spettano ai partiti” e “non possiamo affidare alla magistratura compiti che non le competono”. È un po’ quello che ai tempi di Mani pulite alcuni dicevano degli abusi della carcerazione preventiva, causati pure dalla leggerezza con la quale i politici avevano consentito il ricorso alle manette in corso d’indagini.
Non ho invece condiviso il timore espresso da Violante sulla natura un po’ punitiva verso i magistrati attribuibile agli altri referendum sulla giustizia ormai alle porte. Per i magistrati non è mai il tempo opportuno per intervenire su di loro senza diventare vittime della politica pur alla ricerca dello spazio perduto. Ma va detto con onestà e franchezza che non meno di questa impressione condivisa da Violante gioca contro i referendum la distrazione che si è presa – giocando con la politica estera e con la guerra in Ucraina- il leader leghista che li promosse con i radicali, in un accoppiamento politico che proprio per la sua novità clamorosa, ricordando il cappio leghista alla Camera nel 1993, avrebbe dovuto richiedere un maggiore impegno di Matteo Salvini. E ciò senza nulla togliere, per carità, alla generosità del digiuno di protesta di Roberto Calderoli, dimostratosi più convinto della causa.
Carlo Nordio: «Mi batto in prima linea: dai 5 Sì verrà la rivoluzione della giustizia». Intervista all’ex procuratore aggiunto di Venezia. «Mi son detto: basta prediche», racconta il presidente del Comitato per il Sì. «Voglio mettermi in gioco contro l’Anm conservatrice. Vi spiego la chiave per smontare gli Altolà ai referendum». Errico Novi su Il Dubbio il 6 giugno 2022.
Ci vuole un bel coraggio. E Carlo Nordio ne ha. Ne ha sempre avuto. Da magistrato, per le scelte controcorrente che, quando necessario, ha compiuto dall’ufficio di Procura. E come opinion leader della giustizia, capace ora di trasformarsi in leader tour court, della campagna referendaria per la precisione.
Perché l’ex procuratore aggiunto di Venezia ha accettato di dismettere gli affilatissimi ma meno scomodi strumenti degli editoriali, della critica su magistratura e regole del sistema, e si è messo in gioco come presidente del comitato “Sì per la libertà, Sì per la giustizia”, anima della battaglia per i 5 quesiti promossi da Partito radicale e Lega. Che poi, la battaglia è innanzitutto per il quorum, trasformato in una mission ai limiti dell’impossibile anche dalla data scelta dal governo per il voto, domenica prossima 12 giugno: un giorno solo, festivo, in un’estate sopraggiunta con anticipo e con ferocia.
«Era naturale», dice lui, smetterla con le «prediche inutili — ovvero i suoi seguitissimi interventi sul Messaggero — e che mi esponessi in prima persona». Nordio ha un’altra forza: il realismo misto alla tenacia di chi guarda lontano, oltre le difficoltà e oltre dunque «la scarsa pubblicità data a questo referendum» che «può rendere difficile il raggiungimento del quorum»: in ogni caso, dice il magistrato, «sarebbe un errore, e una scorrettezza, interpretare la diserzione alle urne come un No ai quesiti». Sarà dunque importante «la conta finale dei Sì e dei No». E sia che arrivi la vittoria piena, con l’abrogazione delle norme sottoposte agli elettori, sia che si ottenga comunque una larga partecipazione, Nordio ritiene che se ne dovrà ricavare «un monito ineludibile per il Parlamento, se non questo il prossimo, per una rivoluzione copernicana, anche costituzionale».
Lei da anni è tra le voci critiche più ascoltate nel mondo della giustizia. Ma c’è un bel salto, nel passare dal contrappunto anche spietato nei confronti, per esempio, della magistratura associata, a una sfida in prima linea. Perché sul referendum ha voluto mettersi personalmente in gioco?
Perché da 25 anni sostengo come l’introduzione del codice Vassalli, che voleva allinearci al sistema accusatorio garantista, anglosassone, liberale, sostituendo il codice Rocco, inquisitorio e fascista, avrebbe dovuto integrarsi con tutte le caratteristiche che lo fanno funzionare: discrezionalità dell’azione penale, separazione delle carriere, responsabilità dei pm, e via dicendo. Ma la nostra Anm è decisamente conservatrice, e non ha mai risposto a queste obiezioni di ordine tecnico. Quindi era naturale che concludessi queste prediche inutili esponendomi in prima persona, con l’avvertimento che non vi è alcun sottinteso politico. Io non sono iscritto a nessun partito e non mi candiderò mai a nessun tipo di elezioni.
Il principale pregio di questi 5 referendum è nel “trauma” che infliggono ad alcune certezze consolidate della nostra giustizia? La si può vedere come una batteria di colpi diversificata e chirurgica, che non si concentra su un unico snodo critico ma colpisce il sistema su aspetti diversi?
Sì, il significato del referendum va ben oltre il contenuto dei singoli quesiti. In realtà si tratta di un appello al popolo, se sia soddisfatto o meno di questa giustizia. Una sua vittoria, o anche solo una larga partecipazione, sarebbe un monito ineludibile per il Parlamento, se non questo il prossimo, per una rivoluzione copernicana, anche costituzionale.
L’altro grande merito dell’iniziativa referendaria è coinvolgere finalmente i cittadini nelle scelte sulla giustizia in una forma completamente diversa dall’assembramento dei tifosi dei pm all’epoca di tangentopoli.
Sì, anche se la disaffezione crescente dei cittadini alle urne in occasione delle elezioni politiche e amministrative, sommata alla scarsa pubblicità data a questo referendum, può rendere difficile il raggiungimento del quorum.Ma sarebbe un errore, e anche una scorrettezza, interpretare la diserzione alle urne come un No ai quesiti. Chi non vota in realtà si affida alla scelta dei votanti, e quindi sarà importante la conta finale dei Sì e dei No.
Come si risponde alla critica sul quesito relativo alla legge Severino, secondo cui l’abrogazione tout court consentirebbe a persone condannate per mafia, una volta scontata la pena, di candidarsi per cariche locali?
Si risponde che la legge Severino prevede che un sindaco possa esser sospeso dalla carica, cioè rimosso, dopo una sentenza di condanna di primo grado. Questo contrasta con la presunzione di innocenza sancita dalla Costituzione, ma soprattutto contrasta con il buon senso, perché gran parte di queste sentenze vengono poi annullate in Appello o in Cassazione, e quindi quella rimozione si è rivelata illegittima e iniqua. Ed è un danno irreparabile recato non solo all’amministratore revocato, ma ai cittadini che gli avevano dato fiducia.
E cosa si può invece obiettare a chi ritiene che una vittoria del Sì al quesito sulla custodia cautelare renderebbe impossibile adottare misure nei confronti delle persone indagate per reati come lo stalking?
Si risponde che il sistema della custodia cautelare va visto nella sua globalità, e di essa si abusa, e spesso se ne fa un uso strumentale per indurre l’imputato a confessare e collaborare. Ma il paradosso più lacerante è che da noi è tanto facile entrare in prigione prima del processo, da presunto innocente, quanto è facile uscirne dopo la condanna, da colpevole conclamato. Il referendum mira a limitare questi abusi, anche se, essendo abrogativo, non può introdurre soluzioni nuove, e la vittoria del Sì imporrebbe qualche correttivo: ad esempio nel caso dello stalking, evitando il carcere ma imponendo misure preventive. Ma in prospettiva la riforma più importante sarebbe quella di devolvere la competenza ad emettere l’ordinanza di custodia cautelare a un organo collegiale, distante anche topograficamente dal pm che ne ha fatto la richiesta. Penso a una sorta di chambre d’accusation presso la Corte d’Appello, sul tipo di quella francese.
Si dice che separare le funzioni in modo drastico non basterebbe a stroncare le commistioni fra magistratura giudicante e requirente. E che la permanenza sotto il controllo di un unico Csm farebbe persistere uno “scambio di convenienze” fra magistrati dell’accusa e giudici. È così? O invece lo stop ai passaggi trasferirebbe comunque una certa idea di divaricazione, nella prospettiva dei magistrati, in modo da ridurre almeno in parte quell’eccessiva contiguità?
La vittoria del Sì sarebbe vincolante per il legislatore verso la piena attuazione del sistema accusatorio anglosassone, dove le carriere sono separate. Basterebbe questo per chiudere la discussione, ma voglio aggiungere un particolare. Con il sistema attuale, i pm, cioè gli accusatori, che portano gli imputati a processo, poi si trovano a braccetto nelle correnti di appartenenza, dove si mercanteggiano le cariche, come si è visto nello scandalo Palamara. Non solo. I pm danno i voti ai giudici. Se gli imputati sapessero che i loro giudici sono poi valutati dai loro accusatori, non sarebbero tanto sereni. Per fortuna non lo sanno.
Nei giorni scorsi il presidente emerito della Consulta Flick ha sostenuto che in generale i referendum sono troppo tecnici, non abbastanza comprensibili per gli elettori. Cosa si può rispondere?
Che per la loro struttura abrogativa questi referendum sono in effetti incomprensibili alla lettura delle schede. Ma è sempre stato così. Quando si è votato pro o contro il divorzio o l’aborto i quesiti erano altrettanto oscuri. Ma se il cittadino si informa, poi capisce benissimo il senso della domanda. E nel nostro caso è assai semplice: se la giustizia penale attuale vi va bene così, andate pure al mare. Se non vi piace, votate sì.
Raggiungere il quorum non sarà facile. Sulla scarsa informazione, si obietta che siamo in una fase “ingombra” di ben altre emergenze, a cominciare dalla guerra e dai suoi effetti collaterali. È davvero così? È da “frivoli” pensare alla giustizia in un contesto del genere?
No, non è da frivoli. La tempesta perfetta di pandemia, crisi economica e guerra ha messo la giustizia in secondo piano. Ma il covid si sta esaurendo, e la guerra prima o poi finirà. Purtroppo i problemi della giustizia, sedimentatisi in decenni, si aggraveranno se non si interverrà con una riforma radicale.
Un’ultima domanda, per tornare al suo rapporto col resto della magistratura: lei è probabilmente considerato un “nemico” dall’Anm. Ma quanti magistrati “invisibili” si riconoscono in lei, nelle sue critiche?
Io mi sento magistrato al cento per cento, e ho rinunciato alla più lucrosa carriera di avvocato in un avviatissimo studio di famiglia per amministrare la Giustizia. Se tornassi indietro rifarei la stessa scelta. È proprio per questa altissima concezione che ho della Magistratura che già 25 anni fa mi son ribellato quando ho visto le distorsioni correntizie, gli abusi della custodia cautelare, il protagonismo e la discesa in politica di pm che sfruttavano la notorietà acquisita con le indagini, e tante altre anomalie. I probiviri dell’Anm nel 1997 hanno persino avuto l’ardire di chiamarmi a discolparmi per le mie idee. Naturalmente li ho mandati al diavolo, e si sono ritirati con la coda tra le gambe.
Perché gli avvocati dicono sì ai referendum sulla giustizia. SERGIO PAPARO E VINICIO NARDO su Il Domani il 27 maggio 2022
Per l’Organismo congressuale forense anche se il referendum punta ad abrogare del tutto o in parte singole norme, il suo obiettivo più ampio è affermare una visione della giustizia su un terreno in cui il Parlamento è restio a mettere mano.
È del tutto naturale che l'Organismo congressuale forense abbia mobilitato l'avvocatura per i referendum. Il primo obiettivo è rompere la cortina di silenzio che si è creata intorno a questo appuntamento elettorale. In quanto avvocati non possiamo rimanere inerti di fronte all'evidente tentativo di impedire il raggiungimento del quorum e così invalidare i quesiti.
Sarebbe un regalo alle forze della conservazione, quelle che – da destra e da sinistra – ostacolano ogni tentativo riformista in ambito di giustizia, nonostante le carenze e, da ultimo, gli scandali interni alla magistratura.
I referendum sono uno straordinario sistema di partecipazione diretta del cittadino all’attività legislativa, che è la funzione politica per eccellenza. Ciò non significa affermare che, rispondendo ai quesiti referendari, il cittadino “si fa” legislatore, ma piuttosto che il corpo elettorale opera delle “scelte” destinate a vincolare il Parlamento e le forze politiche.
L’OBIETTIVO È AFFERMARE UNA IDEA
Sebbene il referendum agisca chirurgicamente su singole norme, mirando ad abrogarle in tutto o in parte, il suo obiettivo ultimo è quello di affermare un’idea, una visione, con effetto massimo laddove il Parlamento appaia restio a mettere mano. Come sta accadendo sempre di più in questi anni, particolarmente in tema di giustizia.
Si potrebbe obiettare che, al contrario, la Ministra Cartabia ha sfoderato un piglio riformatore di nuovo conio e non ha bisogno di spinte, ed è vero.
Tuttavia, abbiamo assistito a mille inciampi nei percorsi parlamentari dei disegni di legge e conosciuto altrettanti modi di neutralizzare certi istinti innovatori. Il più abusato, nei casi di disegni di legge delega come le riforme in atto, è quello del tradimento della delega.
C’è sempre il rischio che il Governo la lasci cadere o traduca in norme precettive solo una parte della delega. Questo soprattutto nei casi di avvicendamento alla guida del Paese, ma lo si è visto anche in casi di relativa stabilità del quadro politico.
Ed allora non c’è ragione perché la riforma dell’ordinamento giudiziario, già approvata alla Camera ed ora all’esame del Senato, debba raffreddare la corsa dei referendum. Il raggiungimento del quorum e la vittoria dei SI ai tre quesiti ordinamentali (separazione funzioni dei magistrati, voto degli avvocati nei consigli giudiziari, e candidature extracorrentizie al Csm) mantengono tutta la loro importanza seppure non rappresentino, in questo caso, un moto di sfiducia, ma costituiscano di fatto un’azione di sostegno all’azione riformatrice del Legislatore.
SÌ A TUTTI I QUESITI
L’impegno dell’Ocf è per il SI a tutti i quesiti referendari. E non perché pensiamo siano i quesiti migliori e meglio formulati del mondo, né perché ci illudiamo di mutare il corso della storia. Semplicemente perché vanno nella direzione giusta.
Si pensi al quesito sulla custodia cautelare. Che ci sia stato un abuso della custodia cautelare non lo diciamo solo noi difensori, è stato detto finanche nel discorso del Presidente di inaugurazione dell’anno giudiziario in Corte di cassazione.
Che la Ministra Cartabia voglia invertire la deriva carcero-centrica del processo penale lo dice la sua iniziativa riformatrice per la sistemazione del sistema sanzionatorio penale (tendente a valorizzare le pene diverse da quella detentiva) e l’avvento della giustizia riparativa.
Allora come si fa a non votare si? E come potrebbe, comunque, un avvocato votare No?
L’avvocatura negli ultimi trent’anni ha sostenuto le riforme che hanno cercato di circoscrivere i casi di possibile adozione della custodia cautelare in carcere utilizzando avverbi ed aggettivi sempre più severi nel delimitare il potere del giudice. Purtroppo, ogni nuova formula lessicale non ha impedito l’abuso. Il referendum vuole porre un punto fermo: laddove non c’è pericolo di reiterazione di atti violenti basta la custodia cautelare al domicilio; non occorre la galera.
Pertanto, il Si al quesito sulla custodia cautelare si pone perfettamente nel solco della tradizione culturale degli avvocati: non richiede di attardarsi in spiegazioni.
Lo stesso vale per l’abrogazione della legge Severino, con i suoi automatismi che urtano con la presunzione di innocenza che informa la nostra Costituzione ed anche le direttive comunitarie.
Non è solo un problema di principio. Noi difensori sappiamo quanto facile sia per un amministratore pubblico finire nelle maglie di un procedimento penale, e quanto aleatori siano i giudizi di primo grado soprattutto se seguono a processi mediatici già celebrati e “risolti” con condanne a mezzo stampa. E’ un patrimonio di esperienza che non ci può lasciare indifferenti di fronte alle rigidità del regime introdotto dalla legge Severino.
Ma, soprattutto, in questo tema si tocca la formidabile funzione di stimolo che può avere il referendum sulla politica. Diverse forze si sono dette d’accordo nel merito ma contrarie sul metodo perché, affermano, “la legge Severino non va abrogata ma va riformata in Parlamento”. Ebbene, sono anni che lo dicono ma non lo fanno: grazie al referendum sarà la volta buona perché la riforma, quanto mai urgente, la facciano sul serio.
Quelle toghe che votano sì "Così colpiamo le correnti". Anna Maria Greco il 20 Maggio 2022 su Il Dubbio il 20 maggio 2022.
Alcuni magistrati escono allo scoperto: "La Cartabia è solo un pannicello caldo e che errore lo sciopero dei colleghi".
Sorpresa: ci sono magistrati che voteranno sì ai referendum sulla giustizia. Anzi, chiamano alla mobilitazione i colleghi per il 12 giugno.
Intervistati dal Foglio due di loro escono allo scoperto e fanno capire di non essere soli. «Io voterò e voterò sì. La riforma Cartabia è un pannicello caldo perché non tocca le correnti e sono loro a minacciare l'indipendenza dei magistrati, non la politica», dice il procuratore di Napoli Paolo Itri, membro dell'Anm in quota Magistratura indipendente fino al 2020. Con lui c'è il giudice sempre di Napoli Giuseppe Cioffi, che ha militato nell'associazione per Unicost: «Sposo le opinioni espresse da Carlo Nordio sulla necessità di sostenere i referendum. O si va a votare o bisogna smetterla di lamentarsi della malagiustizia».
Nordio, ex procuratore aggiunto a Venezia, è il presidente del Comitato referendario «Sì per la libertà Sì per la giustizia» e da settimane chiama a raccolta gli elettori in tutt'Italia perché si facciano sentire contro un sistema giustizia che dichiara «fallito».
Lui è in pensione ma per chi lavora in tribunali, corti e procure questa posizione è scomoda da sostenere, visto che riforma e referendum sono definiti dall'Anm forme di vendetta della politica contro le toghe. Ma se i due magistrati parlano è perché si fanno portavoce di altri insoddisfatti.
Accanto alle toghe in sciopero (meno della metà, si è visto) contro la riforma Cartabia, dunque, c'è chi crede nei 5 quesiti proposti da Lega e Radicali, che causerebbero scosse più forti al sistema giustizia. E c'è anche chi dice che non bastano né l'una né gli altri, che ci vuole molto di più. Uno è il sostituto pg di Milano Cuno Tarfusser, ex procuratore di Bolzano, già vicepresidente della Corte penale internazionale dell'Aia, che spiega al Giornale: «Riforma? Referendum? Io sarei più radicale, farei saltare il carro per sradicare la partitocrazia e cambiare dalle radici l'apparato giudiziario. Come la riforma, anche i referendum aggiungono una goccia nell'oceano ma il nocciolo del problema è ben più grosso e nessuno lo affronta. Sono critico su ambedue, ma per difetto».
Itri, invece, nei referendum ci crede. Gli sembra positivo lo sforzo per estendere la possibilità di candidarsi al Csm, anche se «non c'è da illudersi che possa ridurre lo straripante potere correntizio, servirebbe un approccio più coraggioso sul sistema elettorale: il sorteggio temperato». Dei 5 quesiti nutre qualche dubbio solo su quello per la custodia cautelare in carcere. «L'Italia non può permettersi alcuna forma di lassismo. La questione centrale è che il magistrato sia dotato di equilibrio e professionalità». Non è contrario, il pm, neppure ai test psicoattitudinali, che fecero scandalo quando ne parlò Silvio Berlusconi: «Dai magistrati dobbiamo pretendere professionalità». Favorevole alla separazione delle carriere, «anche se non è il primo dei nostri problemi». Itri dice di non temere il giudizio degli avvocati sulla professionalità delle toghe, anche se gli sembra «un rimedio poco efficace».
Cioffi andrà alle urne con convinzione il 12 giugno perché «è un'occasione per far sentire la propria voce» e si preoccupa della scarsa informazione. «Mi ritrovo inaspettatamente a condividere le posizioni di illustri magistrati come Bruti Liberati o Maddalena, in passato antagonisti associativi. Quando l'ex procuratore della Repubblica di Milano critica il processo mediatico o l'astensione dei magistrati contro la riforma Cartabia sono con lui». Sulla valutazione dei magistrati «i meccanismi di controllo esistono già, ma non possiamo pretendere di restare immutabili». Quanto al carcere preventivo ammette «esagerazioni ed esasperazioni, con significati e funzioni che non dovrebbe avere, anche per la durata eccessiva dei processi. E ciò è inammissibile, perché la libertà individuale è un bene supremo». Sull'incandidabilità dei condannati in primo grado, dice che «la norma è stata dettata dall'urgenza di assecondare un'istanza punitiva proveniente da una parte della società e della politica. Anche qui l'eccessiva durata dei processi incide negativamente, se un politico fosse giudicato in pochi mesi, non servirebbero automatismi normativi».
Enzo Tortora 34 anni dopo tra speranza di riforma e realtà referendaria. Angelo Lucarella , Giurista e saggista, su Il Riformista il 19 Maggio 2022.
Il caso Tortora lo conosciamo. Chi più, chi meno. Fu uno di quegli errori giudiziari che il nostro Paese ha vissuto tra linciaggio ed incredulità. Enzo Tortora, oggi più che mai, va onorato. E va onorato non solo sul piano soggettivo, ma oggettivo. Non solo sul piano del perdono, ma del cambiamento vero. Non solo per evitare che capiti ancora, ma soprattutto per tutelare e onorare la magistratura in quanto istituzione a presidio della legalità. La magistratura è cosa seria. Sacra. Per questo fare una riforma nell’ottica tortoriana significa rendersi consapevoli che prima di tutto va fatto un salto di qualità su almeno due fronti.
Il primo affinché non ci si ammali più per la (in)giustizia. Il secondo perché la giustizia non si ammali più in quanto tale (cioè di ingiustizia). Qualcuno, maliziosamente, potrebbe etichettare questi passaggi come una sorta di utopia, ma quand’anche lo fosse non possiamo arenare l’idea di dare alla giustizia gli strumenti giusti per essere virtuosa e portare al minimo (se non allo zero) il rischio di errore davanti alla questione dell’innocenza. È certamente un “processo” complesso che involge il piano culturale del Paese, un sano esame di coscienza giudiziario, un grande e doveroso senso di responsabilità della politica, ma anche la partecipazione dei cittadini.
Quest’ultima, espressamente, è la prima che dovrebbe muovere le acque perché non dobbiamo dimenticare quanto il nostro Paese si basi sulla volontà del popolo.
La Costituzione ce lo dice in due articoli chiave:
– art. 1 “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”;
– art. 75 “È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali… omissis”.
Ciò significa che il referendum fissato al 12 giugno 2022 è comunque una manifestazione della democrazia e va rispettata in quanto tale a prescindere dall’essere pro o contro. Ma il punto di snodo è che se la celebrazione di Enzo Tortora è sacrosanta per quel che testimonia tuttora, non dobbiamo correre il rischio di disonorare il suo sacrificio e le sofferenze di tutti coloro che (come l’ex popolare conduttore televisivo) hanno sulle spalle medesima esperienza di vita. È questo il momento della politica che, se ha il coraggio, deve operare nella realtà delle cose:
– la magistratura è cambiata rispetto agli anni ottanta, novanta e i primi del duemila nel senso che ha molte più risorse, competenze, strumenti per abbassare il rischio complessivo di “errore fatale”;
– la magistratura, nonostante quanto appena precisato, però non riesce a svincolarsi e proteggersi (la cronaca, d’altronde, ce lo rinfresca costantemente) dalla chiamata all’interferenza non funzionale con gli altri poteri.
Allora il vero rischio è che la debolezza della politica, unita alla cronicizzazione di una certa tendenza a politicizzarsi di una parte della magistratura, può portare ad avvelenare il sistema ed ad ibernarlo di paure e incapacità ad andare avanti per il bene del Paese. Ora, se pensiamo ai dati, ci ritroviamo una situazione spaventosa davanti: è il Ministero della Giustizia a riportare che nel 2021 lo Stato ha pagato circa 24 milioni di euro di risarcimenti per ingiusta carcerazione preventiva (nel 2020 il totale fu 37 milioni) e che 43 mila euro è, invece, la media-importo per caso; senonché dal 2019 al 2021 sono stati 50 i magistrati finiti sotto procedimento disciplinare. Senza considerare le più di 30 mila persone soggette a ingiusta detenzione negli ultimi 30 anni (dati dell’associazione Errorigiudiziari in collaborazione con l’Osservatorio Camere penali italiane). È evidente che c’è qualcosa che non va.
Ma diciamo con grande serenità che la colpa non è solo di una certa Magistratura (quella errante ovviamente), ipertesa e sottoposta a stress test continui (si ha a che fare con la vita delle persone), ma di un legislatore che ingolfa e crea norme su norme, a volte per gli stessi fatti, generando concorso di disposizioni che, in altri termini, porta a pene sproporzionate e disorientamento nonché incertezza su più fronti applicativi (vedasi le numerose decisioni della Cassazione). L’ingiusta detenzione, d’altronde, passa anche da questi gangli.
Nel segno di Enzo Tortora, allora, si onori il referendum e si speri, al contempo, nella riforma indirizzata ed ispirata tortorianamente prima che la giustizia stessa si ammali. In fondo anche i magistrati vogliono lavorare con più serenità e certezza. Il sorteggio alla Nordio (per il C.S.M.) potrebbe essere un’idea per evitare il cristallizzarsi di centri di potere anche nelle dinamiche e dimensioni periferiche (Corti d’appello, Tribunali, ecc.). Chissà se oltre al sistema penale, potrebbe utilizzarsi questa idea anche nell’ambito civile, tributario, amministrativo, ecc. così da ripensare, in chiave moderna, il giudice naturale enunciato in Costituzione (art. 25). Nel frattempo l’Italia paga il conto degli italiani. O vale il contrario?
In piazza per Tortora: l’evento dei garantisti per chiedere la svolta con i referendum. Alla manifestazione era presente anche la presidente del Consiglio Nazionale Forense Maria Masi, nonché Sansonetti e Taradash. Il Dubbio il 20 maggio 2022.
Forse è il luogo dove meglio si poteva respirare l’atmosfera di questi giorni, il rinnovamento che sembra diffondersi sulla giustizia anche per l’insuccesso dello sciopero Anm: la maratona oratoria organizzata ieri a piazza Montecitorio “In ricordo di Enzo”, nel 34esimo anniversario della morte di Tortora, è stata l’occasione per una staffetta fra garantisti, per un incontro anche fisico tra parlamentari, avvocati, giornalisti e militanti radicali.
A organizzarlo è stata Francesca Scopelliti, la compagna a cui Enzo indirizzava le proprie lettere da carcere, e che sono diventate poi un libro, “Lettere a Francesca”, appunto. Scopelliti guida la “Fondazione internazionale per la giustizia Enzo Tortora” e ha voluto offrire, con la maratona di ieri e con la vicenda del grande presentatore, un appello per il referendum del 12 giugno, «occasione di cambiamento da non sprecare».
Molti avocati al microfono: innanzitutto la presidente del Cnf Maria Masi, quindi il past president dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, il numero uno dei penalisti trevigiani Federico Vianelli, il responsabile comunicazione Ucpi Giorgio Varano, per citarne alcuni. L’evento stato ripreso dalla renziana Radio Leopolda, oltre che da Radio Radicale. Ad aprire la giornata, con Scopelliti, è stato proprio il deputato ( e militante pannelliano) che dirige l’emittente web di Italia viva, Roberto Giachetti. È intervenuto con una nota, per “rivendicare” il contributo all’iniziativa, anche il presidente di Iv Ettore Rosato: un evento come questo, ha detto, è necessario «per ricordare la battaglia di Tortora, quella per una giustizia più giusta, che dopo 30 anni è ancora lontana dall’essere vinta».
Colpisce anche che un sottosegretario di governo come Benedetto Della Vedova (delega agli Esteri, di + Europa) non si sia trattenuto dal dire che «i referendum sulla giustizia del 12 giugno sono stati abilmente inabissati in termini di discussione pubblica e di informazione. C’è stato un piccolo cenno di attenzione solo perché Letta ha detto che il Pd voterà no». Mentre «+ Europa ha detto sin dall’inizio che voterà sì: li appoggiamo perché sono i referendum Tortora- Pannella. E chiediamo di andare a votare nel nome di Enzo e della sua battaglia per una giustizia giusta». Tra i discorsi più appassionati, quelli di Piero Sansonetti, direttore del Riformista, e Marco Taradash, che ha ricordato le contraddizioni in cui è scivolata la magistratura, aspetto che dà, in un evento come quello di ieri, il senso di una svolta possibile.
L'anniversario della morte. Maratona in nome di Enzo Tortora, per una giustizia più giusta. Redazione su Il Riformista il 18 Maggio 2022.
Oggi in occasione del 34esimo anniversario della morte di Enzo Tortora, a partire dalle 10 andrà in onda da piazza Montecitorio una maratona oratoria per onorarne la memoria e rilanciare la battaglia per una giustizia giusta con il voto sui 5 referendum del 12 giugno. L’evento verrà trasmesso integralmente su Radio Leopolda.
Otto ore di diretta, fino alle 18, durante le quali hanno assicurato il loro intervento tra gli altri il magistrato Carlo Nordio, il direttore de Il Giornale Augusto Minzolini, il direttore del Sole24ore Fabio Tamburini, il direttore de Il Riformista Piero Sansonetti, Mariolina Sattanino, Jas Gawronski, Luigi Manconi, Giancarlo Loquenzi, il presidente della Fondazione Einaudi Giuseppe Benedetto, Beniamino Migliucci (già Presidente Unione Camere Penali Italiane), Maria Masi (Presidente del Consiglio nazionale forense), Raffaele Della Valle (già avvocato del collegio di Enzo Tortora), il presidente di Italia Viva Ettore Rosato, il sottosegretario al ministero degli Esteri, Benedetto Della Vedova (Più Europa), il sottosegretario al ministero dell’Interno, Ivan Scalfarotto (Italia Viva), gli onorevoli Riccardo Magi (Più Europa), Lucia Annibali (Italia Viva), Catello Vitiello (Italia Viva), Maurizio Lupi (Noi con l’Italia), Osvaldo Napoli (Azione), Giusy Bartolozzi (Gruppo misto), Pietro Pittalis (Forza Italia), sen. Salvatore Margiotta (PD), sen. Gianni Pittella (PD), l’attore Massimo Wertmuller, il regista Luca Barbareschi, Rita Bernardini (Partito Radicale) e Claudio Martelli. Un’occasione per avvicinarsi ai referendum del 12 giugno affrontando le principali problematiche, ancora irrisolte, della giustizia italiana. Alle 10 daranno il via alla maratona degli interventi da piazza Montecitorio il direttore di Radio Leopolda Roberto Giachetti e la presidente della “Fondazione Internazionale per la Giustizia Enzo Tortora”, Francesca Scopelliti.
In occasione dell’anniversario della scomparsa del celebre conduttore di Portobello, a partire dalle ore 11 il Partito Radicale manifesterà davanti alla sede Rai di Viale Mazzini per chiedere che vi siano dibattiti sui referendum giustizia in orari di massimo ascolto e il ritiro degli spot dissuasivi di comunicazione attualmente in onda affidandone la realizzazione a chi ha prodotto gli spot per Eurovision con identica programmazione. Il Partito Radicale invita tutti i comitati impegnati nella campagna referendaria ad essere presenti. Saranno presenti la Tesoriera Irene Testa, dirigenti e militanti del Partito Radicale ed esponenti dei Comitati per il sì. Inoltre è prevista la partecipazione di Tiziana Nisini, Sottosegretario Ministero per il Lavoro e le Politiche Sociali.
Enzo Tortora 34 anni dopo tra speranza di riforma e realtà referendaria. Angelo Lucarella, Giurista e saggista, su Il Riformista il 19 Maggio 2022.
Il caso Tortora lo conosciamo. Chi più, chi meno. Fu uno di quegli errori giudiziari che il nostro Paese ha vissuto tra linciaggio ed incredulità. Enzo Tortora, oggi più che mai, va onorato. E va onorato non solo sul piano soggettivo, ma oggettivo. Non solo sul piano del perdono, ma del cambiamento vero. Non solo per evitare che capiti ancora, ma soprattutto per tutelare e onorare la magistratura in quanto istituzione a presidio della legalità. La magistratura è cosa seria. Sacra. Per questo fare una riforma nell’ottica tortoriana significa rendersi consapevoli che prima di tutto va fatto un salto di qualità su almeno due fronti.
Il primo affinché non ci si ammali più per la (in)giustizia. Il secondo perché la giustizia non si ammali più in quanto tale (cioè di ingiustizia). Qualcuno, maliziosamente, potrebbe etichettare questi passaggi come una sorta di utopia, ma quand’anche lo fosse non possiamo arenare l’idea di dare alla giustizia gli strumenti giusti per essere virtuosa e portare al minimo (se non allo zero) il rischio di errore davanti alla questione dell’innocenza. È certamente un “processo” complesso che involge il piano culturale del Paese, un sano esame di coscienza giudiziario, un grande e doveroso senso di responsabilità della politica, ma anche la partecipazione dei cittadini.
Quest’ultima, espressamente, è la prima che dovrebbe muovere le acque perché non dobbiamo dimenticare quanto il nostro Paese si basi sulla volontà del popolo.
La Costituzione ce lo dice in due articoli chiave:
– art. 1 “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”;
– art. 75 “È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali… omissis”.
Ciò significa che il referendum fissato al 12 giugno 2022 è comunque una manifestazione della democrazia e va rispettata in quanto tale a prescindere dall’essere pro o contro. Ma il punto di snodo è che se la celebrazione di Enzo Tortora è sacrosanta per quel che testimonia tuttora, non dobbiamo correre il rischio di disonorare il suo sacrificio e le sofferenze di tutti coloro che (come l’ex popolare conduttore televisivo) hanno sulle spalle medesima esperienza di vita. È questo il momento della politica che, se ha il coraggio, deve operare nella realtà delle cose:
– la magistratura è cambiata rispetto agli anni ottanta, novanta e i primi del duemila nel senso che ha molte più risorse, competenze, strumenti per abbassare il rischio complessivo di “errore fatale”;
– la magistratura, nonostante quanto appena precisato, però non riesce a svincolarsi e proteggersi (la cronaca, d’altronde, ce lo rinfresca costantemente) dalla chiamata all’interferenza non funzionale con gli altri poteri.
Allora il vero rischio è che la debolezza della politica, unita alla cronicizzazione di una certa tendenza a politicizzarsi di una parte della magistratura, può portare ad avvelenare il sistema ed ad ibernarlo di paure e incapacità ad andare avanti per il bene del Paese. Ora, se pensiamo ai dati, ci ritroviamo una situazione spaventosa davanti: è il Ministero della Giustizia a riportare che nel 2021 lo Stato ha pagato circa 24 milioni di euro di risarcimenti per ingiusta carcerazione preventiva (nel 2020 il totale fu 37 milioni) e che 43 mila euro è, invece, la media-importo per caso; senonché dal 2019 al 2021 sono stati 50 i magistrati finiti sotto procedimento disciplinare. Senza considerare le più di 30 mila persone soggette a ingiusta detenzione negli ultimi 30 anni (dati dell’associazione Errorigiudiziari in collaborazione con l’Osservatorio Camere penali italiane). È evidente che c’è qualcosa che non va.
Ma diciamo con grande serenità che la colpa non è solo di una certa Magistratura (quella errante ovviamente), ipertesa e sottoposta a stress test continui (si ha a che fare con la vita delle persone), ma di un legislatore che ingolfa e crea norme su norme, a volte per gli stessi fatti, generando concorso di disposizioni che, in altri termini, porta a pene sproporzionate e disorientamento nonché incertezza su più fronti applicativi (vedasi le numerose decisioni della Cassazione). L’ingiusta detenzione, d’altronde, passa anche da questi gangli.
Nel segno di Enzo Tortora, allora, si onori il referendum e si speri, al contempo, nella riforma indirizzata ed ispirata tortorianamente prima che la giustizia stessa si ammali. In fondo anche i magistrati vogliono lavorare con più serenità e certezza. Il sorteggio alla Nordio (per il C.S.M.) potrebbe essere un’idea per evitare il cristallizzarsi di centri di potere anche nelle dinamiche e dimensioni periferiche (Corti d’appello, Tribunali, ecc.). Chissà se oltre al sistema penale, potrebbe utilizzarsi questa idea anche nell’ambito civile, tributario, amministrativo, ecc. così da ripensare, in chiave moderna, il giudice naturale enunciato in Costituzione (art. 25). Nel frattempo l’Italia paga il conto degli italiani. O vale il contrario?
Un palinsesto ricco di interviste, rubriche e storie. Riformista Tv, Paolo Liguori e Piero Sansonetti lanciano la prima web TV garantista. Redazione su Il Riformista il 20 Febbraio 2022.
Considerando il successo e l’interesse ottenuto nei due anni dal suo ritorno in edicola, Il Riformista aumenta la sua offerta di informazione. Il direttore Piero Sansonetti e il direttore editoriale Paolo Liguori, due voci libere del giornalismo italiano, fondano il Riformista TV.
Una web tv che avrà un palinsesto strutturato per offrire, in diversi momenti della giornata, contenuti realizzati ad hoc. Gran parte della programmazione sarà dedicata ai problemi della giustizia, e in particolare del carcere – con il racconto di storie, tragedie, ingiustizie e accanimenti.
La mattina comincerà con la rassegna stampa di Roberto Giachetti, poi breaking news e interviste a politici, imprenditori e altre personalità di spicco nel panorama italiano con il programma “SottoTorchio” di Aldo Torchiaro, fino agli immancabili editoriali dei due direttori dal titolo “Attenti a quei due”.
Durante l’arco della giornata intratterremo chi si collegherà a Riformista.TV, dando delle anticipazioni delle notizie che usciranno il giorno dopo con “Il giornale in edicola” della vicedirettrice Angela Azzaro.
Non solo, sono previste anche delle rubriche speciali come “Io c’ero” di Paolo Guzzanti, dove racconterà alcuni episodi della Storia d’Italia vissuti in prima persona e altre che però, per il momento, abbiamo deciso di non svelare.
“Il partito Liberale per soluzioni contro malagiustizia e burocrazie”, intervista a Francesco Patamia. Redazione su Il Riformista il 18 Febbraio 2022.
Francesco Patamia è tornato in Italia dopo qualche anno a Bruxelles con un progetto un po’ folle per la testa: dare vita a un “partito degli Europei e dei liberali“, dove l’accento di questa neonata formazione è sull’Europa, sulla collocazione internazionale dell’Italia.
Lo abbiamo intervistato per Riformista Tv perché, nella peculiarità della sua iniziativa, va controcorrente: “Siamo in controtendenza, se molti fuggono dalla politica vuol dire che l’offerta non è stimolante e dobbiamo agire in questo senso, proponendo soluzioni liberali e garantiste ad un mondo che non funziona più stretto nelle maglie della burocrazia e della malagiustizia“, ci dice. Secondo i promotori, il progetto sta ricevendo l’interesse di centinaia di giovani, soprattutto professionisti, ricercatori, imprenditori che vogliono un ancoraggio forte con l’Europa e con lo schieramento atlantista.
“Ho puntato per questa startup della politica sul recupero di un rapporto di prossimità con il territorio, da Milano alla Sicilia passando per quindici regioni dove siamo già presenti“, ha detto Patamia ad Aldo Torchiaro che lo intervistava.
Ripartire dal riformismo. Dopo 30 anni diciamo addio ai manettari: finalmente torna la politica. Enzo Maraio su Il Riformista il 18 Febbraio 2022.
Trent’anni da Mani pulite sono sufficienti per comprendere che sulle macerie della Prima Repubblica, crollata quando sono stati cancellati il garantismo, lo Stato di Diritto e il sistema dei partiti tradizionali, non è mai nata la Seconda Repubblica, che ha arrancato tra gli effetti della morsa mediatico-giudiziaria e l’idea diffusa che bastasse la retorica moralistica, spesso certificata dai magistrati, per ricostruire un paese civile e democratico.
Trent’anni sono sufficienti per capire che chi ha edificato il consenso su quelle macerie, generando spinte ed emozioni anti-politiche, ha fallito. Perché l’antipolitica, quando governa, diventa politica e la spinta antisistema, quando si trasforma in forza responsabile, diventa “casta”. Bulimia populista e demagogia spicciola vanno sostituite con il recupero della competenza e la forza tranquilla della responsabilità, specialmente ora che molti si accorgono quanto sia profonda la crisi dei partiti e quanto questa crisi sia stata dannosa per la democrazia, tra spinte populiste e dal dilettantismo elevato a potere.
Ma cosa è rimasto dalla pagina dolorosa di Tangentopoli, che spazzò via una intera classe dirigente al tintinnio delle manette? Da quella caccia alle streghe ordita nei confronti dei partiti tradizionali? Tutta la debolezza dei partiti. Ad un passo dalla fine di questa legislatura, caratterizzata dall’alternarsi di governi sostenuti da maggioranze litigiose, contrapposte, contraddittorie – anche l’ultima, di unità nazionale, è quotidianamente vilipesa – riteniamo sia di grande attualità, oltreché necessario, aprirci alla formazione per metterci alle spalle il dilettantismo e la politica degli slogan. Certo una scuola politica (noi l’abbiamo intitolata a Carlo Toglioli, socialista e riformista) può sembrare un retaggio del Novecento, ma è invece proprio lì che si costruiscono competenze, che i partiti possono riconquistare credibilità, che si elabora la proposta politica. Archiviare quindi la stagione del populismo e promuovere la formazione della classe dirigente.
Il Partito Socialista Italiano, forse anche perché è l’unico partito storico che siede in Parlamento – il 2022 sono 130 anni dalla nascita – è convinto che ci sia bisogno di ritornare alla centralità dei partiti, cioè organismi costruiti sulle fondamenta di valori inequivocabili; che non siano formazioni ad personam e che sappiano conquistarsi sul campo il consenso per governare il Paese. Per questo è necessario mettere da subito mano a una legge elettorale che consenta agli italiani di scegliersi i propri rappresentati in parlamento. Un sistema proporzionale con preferenza. Magari sul modello tedesco, seppur imperniato su un sistema istituzionale diverso dal nostro. Enzo Maraio
Il delitto di giudicare. La vera natura del garantismo è la difesa dell’individuo dallo Stato. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 27 Gennaio 2022.
Il rispetto dello stato di diritto serve a tutelare le persone non tanto dagli errori in tribunale o dai soprusi dei magistrati, ma dall’abuso stesso di essere sottoposti a processo, cioè dal peccato originale espresso da un’entità che si permette di sovrastare una persona.
Ma qual è, esattamente, il presupposto del cosiddetto garantismo? Meglio: quale dovrebbe essere? Quale è, quale dovrebbe essere il “bene” protetto dall’istanza garantista? Presupposto del garantismo dovrebbe essere la convinzione che la soggezione alla giustizia costituisce un’ingiustizia: necessaria, ma ingiustizia.
E il bene protetto dall’istanza garantista non dovrebbe essere la presunzione di innocenza, il diritto alla difesa, l’imparzialità del giudice, che sono tutti corollari accidentali e anzi persino profili fuorvianti: il bene protetto dall’istanza garantista è il diritto del singolo, pregiudicato per il sol fatto di essere giudicato, per il sol fatto di essere soggetto al potere accusatorio, inquisitorio e punitivo dello Stato. In questo quadro, esistono solo innocenti e un solo colpevole: questo è lo Stato, e quelli sono tutti coloro che ne subiscono la pretesa di giustizia.
Non conta più nulla la responsabilità dell’imputato né quanto essa sia grave e documentata, cosa che dal punto di vista genuinamente garantista è semplicemente irrilevante: conta il fatto che l’imputato è la vittima innocente di quel sopruso (innocente non nel senso che non ha commesso delitti, ma nel suo rapporto col potere pubblico), che resta sopruso per quanto sia dovuto.
Ed è tanto più innocente in faccia al funzionario di giustizia che lo accusa, lo inquisisce, lo giudica: il quale è responsabile di una colpa non per l’ipotesi che accusi infondatamente, non per il caso che inquisisca malamente, non per la possibilità che giudichi erroneamente, ma per l’intrinseca arroganza del suo potere, per la violenza sistematica (di sistema) con cui esso pretende di imporsi.
Nemmeno l’arresto più giustificato, nemmeno l’incolpazione più ineccepibile, nemmeno la sentenza meglio motivata e più aderente al diritto, insomma nemmeno la giustizia più incensurabile si sgrava di questo proprio vizio originario, nemmeno la giustizia più incolpevole si assolve da questa colpa connaturata.
L’idea che quel difetto ineluttabile ai assolva nella soddisfazione del diritto della società a veder fatta giustizia è a base della più comune obiezione: ma esprime a sua volta un fraintendimento micidiale. Perché la società stessa, che pure si sentisse offesa dal delitto e avesse ragione di dolersene, e reclamasse pertanto risarcimento, dovrebbe comprendere di difendersi in tal modo esercitando in ogni caso un’ingiustizia, e cioè lasciando che un proprio consorziato sia sottoposto alla grinfia del potere pubblico.
Garantismo dovrebbe sempre essere questo, “soltanto” questo: ciò che non è quasi mai, e mai soltanto.
Il carteggio. Leonardo Sciascia e Enzo Tortora, storia di un’amicizia contro il giustizialismo. Lucio D'Alessandro su Il Riformista il 30 Dicembre 2021. “Sciascia, un maestro oltre la letteratura”. Questo è il titolo con cui Roberto Andò ha scelto di ricordare nei giorni scorsi all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli l’amico Leonardo Sciascia in occasione delle celebrazioni per il centenario della sua nascita. L’intendimento è stato chiaro da subito: guardare allo scrittore puntando all’intellettuale nel senso che lo stesso Sciascia volle dare al termine già in un articolo uscito su La Stampa il 25 novembre 1977: «L’intellettuale è uno che esercita nella società civile […] la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze sociali».
Tra i molti fatti a cui lo scrittore diede spazio e interpretazione mi piace ricordare (anche per la rimbombante attualità del tema tutto italiano della calpestatissima presunzione costituzionale di innocenza in rapporto al comportamento dei media) quello che coinvolse Enzo Tortora. Quando il 17 giugno 1983 Tortora viene arrestato (sarà poi condannato in primo grado senza prove) come spacciatore e sodale di Cutolo con quello che fu definito da Giorgio Bocca «il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese», Sciascia pubblica a poche settimane di distanza (7 agosto 1983) un articolo sul Corriere della sera su quel caso eclatante di alterazione della verità. Lo scrittore prende subito posizione in termini difensivi, senza tentennamenti: «E se Tortora fosse innocente? Sono certo che lo è». Già chiuso in un «tunnel assurdo, demenziale, basato sul niente», Tortora commosso gli indirizzerà un telegramma, ringraziandolo per aver visto con «occhi profetici la tremenda realtà che lo imprigiona».
Da quel momento i rapporti tra i due si consolidano e Tortora affida allo scrittore i suoi tormenti di detenuto. Le sue riflessioni, registrate con precisione nelle lettere a lui indirizzate dove la descrizione puntuale dei fatti e dei movimenti a Regina Coeli prima, poi agli arresti domiciliari nell’appartamento di via Piatti 8 a Milano, fa da sfondo a una lucida, disincantata e amara constatazione dell’uso alterato della legge in un Paese che non solo ha perso il senso della Giustizia ma ha distrutto con la vita di un uomo la sua stessa civiltà. Per Sciascia sono quegli gli anni di composizione di Porte aperte (1987), in cui affronta proprio il tema della giustizia e della libertà sopraffatte da un giustizialismo che rende la pressione dell’opinione pubblica più efficace dell’azione di un giudice onesto. Protagonista ne è un giudice limpido servitore della giustizia, in questo caso, a mettere a repentaglio la sua carriera, pur di difendere, seppur invano, l’imputato dalla pena capitale. Il suo punto di vista è che opporsi alla pena di morte – invocata a gran voce, dalle autorità così come da una città che ha aperto le porte della follia «è un principio di tal forza che si può essere certi di essere nel giusto anche se si resta soli a sostenerlo». «L’ho visto come il punto d’onore della mia vita, dell’onore di vivere» dichiarerà con fermezza il “piccolo giudice”. Si tratta di difendere la propria visione dei fatti nella convinzione di perseguire la giustizia, anche quando si è soli contro l’opinione più diffusa.
Frattanto Tortora era stato assolto dalla Corte d’appello di Napoli nel 1986, proprio in quella città che era stata palcoscenico e punto di inizio dell’irrisolta scomparsa di Majorana a cui Sciascia dieci anni prima aveva voluto offrire una possibile, sebbene artificiosa, soluzione. La relazione intrecciata con solidità e rafforzata dalla comune militanza nel partito radicale non durerà che qualche anno stroncata dalla morte prematura di entrambi (Tortora nel 1988, l’anno seguente lo scrittore). Ne resta però traccia nelle disposizioni testamentarie di Tortora che volle che le sue ceneri fossero riposte accanto a una copia della Storia della colonna infame nell’edizione con prefazione per l’appunto di Leonardo Sciascia, pubblicata nel 1981 dalla casa editrice Sellerio.
Se la Storia manzoniana ha un senso nella nostra storia attuale, nelle parole di Sciascia, questo risiede proprio nel suo continuo ammonimento rivolto alle generazioni future. La responsabilità personale per i gesti di ciascuno non può mai essere obliterata dal comodo riparo delle circostanze, dall’oscuro rifugio dei contesti. Ciascuno di noi è chiamato in ogni momento a rispondere di fronte al più severo dei tribunali, quello della propria coscienza. E la coscienza va oltre la Storia. Certamente in questa battaglia di responsabilità Sciascia e Tortora s’incontrano, così come pure condividono un medesimo disincanto rispetto a una realtà che appare ostile al vero e al giusto. Un disincanto segnato dall’epitaffio scritto da Sciascia per l’amico che recita quasi a memento o forse ad augurio per le battaglie di giustizia «che non sia un’illusione». Lucio D'Alessandro